Opinione scritta da kafka62
230 risultati - visualizzati 151 - 200 | 1 2 3 4 5 |
L'AMBIGUO CONFINE TRA IDEALISMO E DISIMPEGNO
“«Può tenermi fuori» dissi, «non c’entro niente. Proprio niente» ripetei. Era un mio articolo di fede. Dato che la condizione umana era quella che era, che si facessero pure la loro guerra, che si amassero, che si ammazzassero, io non volevo essere coinvolto. I miei colleghi giornalisti si facevano chiamare corrispondenti. Io preferivo la qualifica di reporter. Scrivevo quello che vedevo. Non prendevo parte all’azione, e anche un’opinione è una specie di azione.”
Se Greene non si fosse limitato a scrivere romanzi di ridotte dimensioni, con tutta probabilità egli avrebbe composto i “Fratelli Karamazov” o il “Delitto e castigo” del XX secolo. Infatti la scrittura di Greene assomiglia molto a quella di Dostojevskij: c’è in essa, perlomeno nelle sue opere serie, una fortissima tensione etica e, soprattutto, una costante volontà di mettere i suoi personaggi di fronte a situazioni e a scelte di straziante difficoltà, anche a costo di far vacillare quei principi religiosi in cui lo scrittore inglese, cattolico impegnato, credeva fermamente (basti pensare al suicidio del protagonista de “Il nocciolo della questione”). “L’americano tranquillo” non fa eccezione a questa regola (come pure ad altre, meno importanti ma non per questo meno caratteristiche, quali l’ambientazione in località lontane dall’Europa o dagli Stati Uniti, come l’Africa Occidentale de “Il nocciolo della questione” o il Centro America de “Il potere e la gloria”): la guerra in Indocina che fa da cornice storica al romanzo è infatti il laboratorio in cui Greene sperimenta e fa interagire tra loro le proprie ossessioni morali, quali il problema di Dio, il libero arbitrio, lo scontro tra ragione e sentimento, il dovere di prendere posizione nella scelta tra bene e male, la colpa e la redenzione, e così via. Non è difficile pertanto vedere nei due personaggi principali, il reporter inglese Fowler che narra in prima persona e l’americano Pyle che dà il titolo al libro, altrettante figure archetipiche, un po’ come Ivan e Alesa Karamazov (ma, se possibile, dotati di ancor maggiore ambiguità, se non altro perché qui non c’è, a differenza dei “Fratelli”, alcun eroe positivo). In essi si incarna infatti il dualismo tra disimpegno e idealismo: da una parte il cinismo, la neutralità désengagée di Fowler, il quale non sta con nessuno – né con i francesi né con i vietminh - ma che, come ogni uomo è chiamato a fare in ogni circostanza della sua vita, così nel suo intimo (la fede) come nel sociale (il rapporto con gli altri), alla fine è costretto a schierarsi; dall’altra l’innocenza strumentalizzabile di Pyle, l’ingenuità di chi si rifugia nelle teorie dei libri di scuola per non vedere da quanto sangue sono macchiati gli astratti principi che egli va propagandando (“Non ho mai conosciuto un uomo che avesse ragioni migliori per tutti i guai che combinava”). Sono due uomini che vanno tenacemente in direzioni opposte e inconciliabili, forse addirittura rappresentano due facce della stessa medaglia: fatto sta che in mezzo sta Phuong, la ragazza vietnamita, compagna prima di Fowler, poi di Pyle, infine, dopo la morte dell’americano, di nuovo di Fowler, la quale (proseguendo nel nostro azzardato esercizio metaforico) è un po’ il simbolo di un paese irriducibile agli sforzi di comprensione e di assimilazione dell’Occidente, un paese dignitoso, composto e pudico, nonostante venga continuamente conteso e violentato da un mondo straniero, guerrafondaio, imperialista, anche quando si presenta con il sorriso paternalista di colui che fa tutto quanto solamente per il suo bene.
“L’americano tranquillo” è un romanzo estremamente attuale. La guerra colonialista dei francesi narrata da Greene non può infatti non portare alla mente i tanti, troppi conflitti (dal Vietnam degli anni ‘60 fino all’Iraq del decennio scorso) con i quali l’Occidente ha preteso di ergersi a guardiano planetario della libertà, della democrazia e dei diritti umani, e ha invece tristemente lasciato dietro di sé solo dolore, rabbia e distruzione. Greene mette in guardia da chi (come Pyle) è ingenuamente convinto, magari in buona fede, che è possibile (e addirittura doveroso) esportare la democrazia con l’aiuto delle armi. E’ significativa la scena in cui Pyle, trascinato da Fowler nel luogo della strage provocata dalla Terza Forza che l’America sta segretamente sostenendo, inorridisce guardandosi le scarpe macchiate dal sangue delle incolpevoli vittime. Alla fine Fowler deciderà di tradire Pyle, consegnandolo alla resistenza vietnamita. A suo modo è costretto a prendere posizione, come già avevano preconizzato Vigot, il capo della polizia che ama citare Pascal («Anche lei è engagé, come tutti noi.»), il capitano Trouin («Non sono coinvolto.» «Lo sarete tutti un giorno… In un momento di emozione ci facciamo coinvolgere tutti, e poi non se ne esce più.») e il signor Heng («Prima o poi bisogna scegliere da che parte stare, se si vuole restare umani»). Ma la scelta di Fowler non è quella, facile, obbligata e un po’ manichea, di chi ha riconosciuto il proprio errore e si comporta di conseguenza per emendarlo (è la scelta, comune a moltissimi personaggi di film e romanzi, di chi sceglie alla fine di stare dalla parte giusta, cioè dalla parte dei buoni contro gli odiosi cattivi). Greene infatti, come si è già detto più sopra, è un maestro dell’ambiguità. Il suo stile a prima vista è il massimo della trasparenza, è secco, conciso, quasi giornalistico, non si sofferma né in descrizioni ambientali né in dettagli psicologici, ma, con le sue geniali, inaspettate e lapidarie epifanie (debitrici spesso dei meccanismi del romanzo giallo), lascia intravedere un universo pieno di dubbi, di rimorsi, di menzogne e di secondi fini non dichiarati. Fowler sa di avere condannato a morte Pyle, ciononostante cerca, contro ogni verosimiglianza logica, di convincersi che gli sgherri del signor Heng adotteranno con l’americano metodi non violenti; inoltre agli scopi ideali (impedire il ripetersi di orribili stragi come quella a cui è stato costretto ad assistere a Saigon) si intrecciano fini assai meno nobili (Pyle gli ha sottratto Phuong, la donna che era l’unica ragione della sua vita, e uccidendolo egli può sperare di riaverla con sé). Quello di Greene è un mondo dai contorni incerti, sfumati, in cui il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, si confondono facilmente tra loro e solo un atteggiamento di cristiana compassione (quello che alla fine permette a Fowler di comprendere e far suo il dolore dell’”odioso” Granger) permette al lettore di trovare una corretta chiave di interpretazione.
Il lieto fine (l’inatteso ricevimento del telegramma con cui la ex moglie di Fowler accetta di concedere quel divorzio che gli permetterà di sposare Phuong) può, alla luce di quanto si è detto, lasciare interdetti. Ma in fondo, per chi conosce solo un poco Greene non c’è alcuna sorpresa: l’happy end è solo una ironica strizzatina d’occhio al lettore, un giochetto innocuo e beffardo che non muta il carattere fortemente problematico dell’opera. Qualche riga prima della lettura del telegramma, il quale, come le agnizioni nel teatro di Goldoni o di Molière, risolve provvidenzialmente i problemi del protagonista, Phuong torna infatti dal cinema e, commentando la trama del film appena visto e terminato con il ghigliottinamento della protagonista, afferma: “Preferisco i film che finiscono bene… Io penso che questo sia un punto debole della storia. Dovevano lasciarla fuggire. Poi potevano fare tutti e due un sacco di soldi e se ne sarebbero andati all’estero, in America… o in Inghilterra”. Più chiaro di così…
Indicazioni utili
UNA LUCIDISSIMA FOLLIA
“”Fuoco pallido” è una scatola a sorpresa, un gioiello di Fabergé, un gioco meccanico, un problema di scacchi, una macchina infernale, una trappola per i critici, un gioco del gatto con il topo, un kit da bricolage. […] Questa opera-centauro di Nabokov, metà poesia, metà prosa, questo tritone degli abissi è una creazione di perfetta bellezza, simmetria, stranezza, originalità e verità morale” (Mary McCarthy, “A bolt from the blue”)
“La vita umana altro non è che una serie di note a piè di pagina apposte a un immane, oscuro capolavoro incompiuto.”
Vladimir Nabokov è uno scrittore straordinario, capace di trasformare in poesia persino una storia di pedofilia (“Lolita”) o di incesto (“Ada o ardore”). In “Fuoco pallido” la poesia diventa addirittura, letteralmente, il centro stesso dell’opera, nella forma di un poema scritto dal fantomatico poeta John Shade e commentato dopo la sua morte improvvisa dal vicino di casa, nonché collega e sedicente amico, il professor Kinbote. Più propriamente, “Fuoco pallido”, il libro che mi accingo a recensire, altro non è che l’esegesi critica, eseguita per mezzo di un meticoloso e dettagliato apparato di note esplicative, dell’omonimo poema. La sua natura di saggio erudito, ad esclusivo appannaggio di una ristretta cerchia di iniziati, sembra apparentemente confermata dalla prefazione, in cui si legge: “Fuoco pallido, poema in distici eroici di novecentonovantanove versi, suddivisi in quattro canti, fu composto da John Francis Shade (nato il 5 luglio 1898 e morto il 21 luglio 1959) durante gli ultimi venti giorni di vita, nella sua abitazione di New Wye, Appalachia, USA. Il manoscritto, quasi per intero una Bella Copia dalla quale è stato fedelmente tratto il presente testo a stampa, consiste di ottanta schede di formato medio; ecc. ecc.” L’esordio è sicuramente tale da scoraggiare e far desistere anche il lettore più benintenzionato al mondo. Eppure, per dissipare subito ogni equivoco, non esito a definire il libro di Nabokov un capolavoro avvincente e virtuosistico, uno straordinario esercizio di stile mai fine a se stesso ma teso a scandagliare tutte le potenzialità creative di un testo letterario, un meta-romanzo talmente ardito da lasciare a bocca aperta perfino il fan più accanito delle più spericolate opere di Italo Calvino. Il fatto è che il serioso e prolisso Kinbote, col suo gergo da intellettuale accademico, non è propriamente quello che sembra, e alcuni improvvisi, impercettibili deragliamenti (come quando, mentre sta affrontando il problema della datazione del manoscritto, afferma inopinatamente: “davanti al mio alloggio attuale c’è un parco divertimenti molto rumoroso”) ce ne offrono una avvisaglia. Quando poi, sempre nella prefazione, egli raccomanda al lettore di leggere per prime le note in appendice al poema e solo in seguito di studiare il poema con il loro sussidio, prima di tornare a rileggere le stesse una terza volta, affermando che “senza queste note il testo di Shade semplicemente non possiede alcuna umana realtà” (“è il commentatore ad avere l’ultima parola”, ipse dixit), capiamo di trovarci di fronte a un clamoroso caso di appropriazione indebita di un’opera d’arte da parte di un curatore il quale, pur attribuendosi le migliori e più oneste intenzioni, ha tutta l’aria di voler millantare la reale paternità dell’opera. Il poema di Shade viene quindi sorprendentemente messo in secondo piano, non solo perché il numero di pagine che esso occupa all’interno del volume è nettamente inferiore a quello delle pletoriche note di Kinbote, ma soprattutto perché queste ultime travisano completamente il senso dei versi del poeta. Laddove questi mette sulla pagina i sentimenti più strazianti di una vita dolorosa e sofferta, segnata dal suicidio di una figlia adolescente, Kinbote commenta con stolida superficialità parlando della propria terra natale (l’immaginaria Zembla, che nella sua irrealtà sembra anticipare l’Anti-Terra del successivo romanzo “Ada o ardore”) e del re che quivi regnava prima di essere detronizzato da una cruenta sollevazione popolare (che riecheggia fatalmente quella Rivoluzione russa che aveva spodestato lo zar quando Nabokov era ancora un ragazzo). Col passare delle pagine l’attendibilità del narratore, che all’inizio del romanzo sembrava indiscutibile, viene messa sempre più in discussione. Per Kinbote, ad esempio, l’amicizia tra lui e Shade era “tenera”, ma veniva “intenzionalmente nascosta sotto una rudezza generata da quella che si può definire dignità del cuore”; in realtà possiamo immaginare che Shade tollerasse a fatica, con malcelato fastidio a stento mascherato da educata urbanità, quel vicino e collega impudente e impiccione, capace di trasformarsi in uno stalker (si leggano a proposito le bellissime pagine sulle finestre della casa di Shade spiate ossessivamente dal protagonista) pur di conquistare l’accesso alla vita intima del famoso poeta. E l’avversione provata per lui dalla moglie di Shade e dai colleghi dell’università (che arrivano perfino ad appellarlo in pubblico “zecca elefantesca, tafano gigante, mostruoso parassita di un genio”) viene imputata da Kinbote, stoltamente convinto di essere nel giusto, a una banale forma di invidia, mentre è più propriamente la naturale reazione nei confronti di una personalità psicotica e monomaniacale, che ricorda un po’ il comportamento di quel pazzo in autostrada il quale, vedendosi venire incontro un gran numero di automobili, si domanda con candido stupore come mai tutti quanti quel giorno stiano guidando contromano. Quando Kinbote lascia capire di essere nientemeno che il re di Zembla in incognito, che un sicario inviato dagli usurpatori del suo regno vuole uccidere, la sua follia appare inoppugnabile. Ciò che può indurre forse alcuni lettori in errore è ciò che, in un libro per certi aspetti simile (“Giro di vite” di Henry James), faceva sì che l’istitutrice protagonista fosse considerata a torto una testimone attendibile degli sconcertanti avvenimenti narrati: il fatto cioè che la storia è raccontata in prima persona da colui che di questa follia è il protagonista e che, in quanto tale, non può vederla coi propri occhi, ma solo riflessa, attraverso sentimenti come fastidio, perplessità e disagio, negli occhi degli altri. In “Fuoco pallido” l’ambiguità che si viene a creare fa sì che non si ha mai l’assoluta certezza di ciò che è vero e ciò che non lo è. Kinbote è il re di Zembla in esilio o solo un volgare mitomane? James Gray (alias Gradus) è un sicario sprovveduto che ha ucciso la persona sbagliata oppure un pazzo scappato dal manicomio? Il poema di Shade è un’opera letteraria autonoma oppure un semplice pretesto narrativo di un unico autore per parlare di tutt’altro? Con funambolica abilità Nabokov confonde le carte in tavola e crea un raffinatissimo labirinto meta-letterario, in cui l’apparente staticità di partenza si trasforma in una prodigiosa sorgente capace di far sgorgare infinite possibilità narrative: “Fuoco pallido” è un saggio critico, ma anche un thriller, un romanzo spionistico, una fiaba nordica, un’opera romantica, con implicazioni ora sentimentali ed erotiche, ora psicanalitiche e persino filosofiche (l’antro dove Kinbote si rifugia per chiosare Shade, “ombra” in inglese, richiama platonici miti). Quando la tragedia della biografia in versi di Shade viene rovesciata dall’improvvido glossatore in farsa grottesca, la scrittura di Nabokov è fenomenale nel passare, nel volgere di poche righe, dallo stile poeticamente intenso di un Quartetto di Eliot allo stile retorico e ampolloso di un enciclopedico imitatore. Che dire poi dell’ingegnoso contrappunto per mezzo del quale la composizione del poema da parte di Shade viene alternata, in una sorta di montaggio parallelo, con la descrizione degli spostamenti di Gradus, il killer partito da Zembla con lo scopo di assassinare il sovrano fuggito all’estero? In un libro partito come una fredda disamina critica ad uso e consumo di studiosi e intellettuali questa spericolata svolta thrilling inserisce un elemento di suspense destinato a durare fino alle ultime pagine. “Fuoco pallido” è un testo tanto geniale quanto difficilmente classificabile: vi si ritrova il gusto del pastiche, l’invenzione più sfrenata (Nabokov arriva persino a creare una lingua “zemblana”), l’amore quasi enigmistico per i giochi di parole, la satira nei confronti dei critici letterari i quali, per commentare un libro, spesso lo violentano e ne tradiscono l’essenza, e soprattutto una costante, insopprimibile ironia, che pervade sottilmente ogni meandro lasciato libero dalla seriosità dell’assunto di partenza. A me “Fuoco pallido” ha ricordato la sfrenata libertà immaginifica di romanzi come “V.” o “L’arcobaleno della gravità”. Non mi sembra pertanto improprio parlare del capolavoro nabokoviano come di un esempio embrionale, sicuramente atipico e sui generis, di letteratura postmoderna. E’ forse solo una coincidenza che il giovane Thomas Pynchon, verso la fine degli anni ’50, sia stato allievo di Nabokov nel suo corso di scrittura creativa alla Cornell University?
Indicazioni utili
LA REINVENZIONE DEL LINGUAGGIO
E’ ogni volta un sublime, sofisticato piacere per gli occhi e per la mente leggere un libro di Carlo Emilio Gadda, scorrere le sue pagine stracolme fino all’inverosimile di incredibili invenzioni linguistiche, assistere al magistrale disvelamento di una umanità colta sempre, anche quando si tratta di personaggi ai margini della storia narrata, nei suoi aspetti più peculiari e inconfondibili, grazie a rapidi ed arguti schizzi in cui la sineddoche (un esempio per tutti, i “quadrupedanti zoccoli” del Poronga e degli altri peones) viene portata a livelli eccelsi. Gadda è un “unicum” nel panorama del romanzo del Novecento: pur non potendo definirsi un avanguardista, egli ha stravolto, non meno di Joyce o di Proust, ogni regola e consuetudine precedente, spingendosi talmente lontano nella sua originalissima ricerca letteraria da non riuscire mai ad esercitare una reale influenza sugli scrittori del suo tempo e dei decenni a venire, italiani e stranieri (viene d’altronde difficile immaginare come può essere realizzabile in concreto una traduzione in altre lingue delle sue opere). I suoi romanzi sono oggetti inafferrabili, che potrebbero in teoria espandersi all’infinito, e difatti non hanno mai conosciuto la parola fine, rimanendo tutti inevitabilmente incompiuti.
Lo stile di Gadda è estroso, pirotecnico, barocco (nel senso migliore del termine): esso opera una continua reinvenzione del linguaggio ed è la dimostrazione lampante di come il vocabolario non sia un qualcosa di statico e definito, ma, soprattutto attraverso l’uso di arditi neologismi e di fantasiosi termini dialettali, un’entità sorprendentemente fluida, viva e multiforme, mai del tutto catalogabile e definibile. Se solo ci si limita alle prime pagine de “La cognizione del dolore”, si può leggere ad esempio che uno scrittorucolo cincischia i suoi “ribòboli” sterili, il clima è “grandinifero”, il vapore è un “bioccolìo” bianco, lo sterco di mucca diventa “la fianta verdastra e pillaccherosa spappata dalle vaccine”, le ville sono “politecnicali prodotti”, il fulmine “sparnazza” dappertutto, la donna che accudisce i polli è “polluta”, la civetta dà uno “strido invido ed ominoso”, la famiglia è “cuginifera”, e poi ancora proliferano termini come “lucubrativo”, “crassume”, “glugolare” e “pasturellare”, che traggono il fascino dalla loro onomatopeica forza evocativa. Contemporaneamente, e in apparente contrasto, Gadda usa anche una terminologia arcaica, desueta e anacronistica, con latinismi, vocaboli colti (noumenico, anagènesi, austione) e modi di dire fuori moda (amistà per amicizia, affossatore per becchino, malinconioso per malinconico). Pur rimanendo ancorato in maniera ferrea ai dati della realtà, Gadda li trascende e li trasforma con un idioma che, sebbene lambiccato ed astruso, mantiene pur sempre la scorrevolezza e la musicalità della lingua colloquiale, misteriosamente intelligibile anche al lettore non iniziato (non è un caso che lo stesso procedimento di estraniazione-riconoscimento l’autore lo adotti anche per il luogo dell’azione, il fantomatico e inventato Maradagàl, nel quale è possibile riconoscere luoghi ben altrimenti familiari agli italiani dell’epoca). Quello di Gadda non è un “gramelot” che fa il verso al vernacolo popolare, nel senso che non è un linguaggio che aspira ad una sua artificiosa naïvètè, bensì un’entità che va in direzione dell’astrazione anziché del coinvolgimento emotivo, che pone il suo autore in una posizione “altra” rispetto alla realtà descritta e da cui deriva un’ironia sapiente ed affilata ed uno spirito di osservazione demiurgico che ne fa una sorta di Proust alla rovescia (per credere a questa affermazione si legga la delirante e spassosissima descrizione del ristorante alle pagine 155 e seguenti, la quale sembra proprio fare il verso, in chiave satirica e “burina” alle analoghe, aristocratiche, cerimonie agapiche proustiane).
Le suddette considerazioni stilistico-formali non devono fare passare in sottordine la sostanza drammatica dell’opera. Così come don Ciccio Ingravallo, l’indimenticabile commissario di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, anche don Gonzalo Pirobutirro e sua madre risultano personaggi di straordinaria umanità, espressioni di una sensibilità drammatica e dolorosa che il ghigno beffardo di Gadda cela appena, un po’ come accadeva con Gogol, dietro un sottile e labile velo. Mentre la prima parte del romanzo è divagante e centrifuga, e si trattiene volentieri dietro a personaggi secondari come il vigile-ciclista Palumbo, il colonnello Di Pascuale e il cavalier Bertoloni, privilegiando atmosfere e caratteri e introducendo il protagonista indirettamente, attraverso l’intervento di una sorta di coro (tutte le figure paesane hanno non a caso nomi simili, Peppa, Beppina, Giuseppe, ecc) e dell’immancabile ”si dice che” popolare, la seconda è introspettiva, monologante, e si nutre di sensazioni intime e individuali. Emerge a questo punto prepotentemente il personaggio di don Gonzalo. Pervaso da un acuto male di vivere, da una sofferenza intensa ed opprimente, don Gonzalo è una sorta di Oblomov in cui alla triste consapevolezza della propria condizione e della perdita degli antichi privilegi non si accompagna più alcun idealismo, sia pure velleitario, ma solo un tetro disgusto verso la sconcia vitalità degli uomini, un livore compresso e rabbioso verso la vita e uno scetticismo assoluto e metafisico che esclude qualsiasi prospettiva di riscatto e palingenesi. L’unica dimensione in cui don Gonzalo trova una propria identità è la negazione: negare (e allontanarsi così dai propri simili, sua madre compresa) è però un comportamento autodistruttivo, il quale annulla, nonostante l’innegabile percezione di una sofferenza trascendente, ogni possibilità di immedesimazione e di comprensione da parte del lettore. A fare da contrappunto a quello di don Gonzalo è il personaggio della Signora: la sua incanutita solitudine che si aggira per le stanze silenziose della vecchia villa, rimembrando una vita piena di dolore, di rinunce e di rassegnazione, e il suo amore materno frustrato dalla paura delle bizzose, colleriche e imprevedibili reazioni del figlio, trovano nelle pagine a lei dedicate toni accorati, elegiaci e dolenti. A lei Gadda riserva una morte violenta, che sembra preludere a una svolta “gialla” (l’assassino è il figlio partito per un breve viaggio, il fattore da poco licenziato o un ladro di passaggio?), ma l’inattesa interruzione anticipata decisa dall’autore non ci permette di intuire gli sviluppi potenziali e gli esiti possibili di quello che rimane comunque uno dei più bei romanzi della letteratura italiana.
Indicazioni utili
L'IO A PEZZI
“La storia insegna, ma non ha allievi.”
Due sono le parole chiave di “Malina”: incomunicabilità e schizofrenia. La prima deriva dal fatto che i personaggi del libro comunicano per frasi frante e spezzate, suggerendo, accanto all’afasia e all’inadeguatezza del linguaggio (quasi esso fosse un sistema di segni ogni volta da inventare o da ricostruire ex novo), una analoga condizione esistenziale e spirituale; non solo, ma questa situazione si riverbera – dal momento che il romanzo è raccontato in prima persona da un io femminile disturbato e sconnesso che non sa mettere ordine nella propria vita, figuriamoci nella narrazione (come dimostrano le innumerevoli lettere abortite e finite nel cestino della carta straccia) – anche nei confronti del lettore il quale, di fronte all’ostico e apparentemente incoerente monologare della protagonista, che si pacifica e diventa arioso e leggero solo nella dimensione del mito e della favola, si sente disorientato e spaesato non meno del signor Mühlbauer, l’autore di una sconfortante intervista in cui le domande (peraltro ignote nel dettaglio) e le risposte segnano, in maniera quasi paradossale, il massimo della divaricazione.
Per quanto riguarda la schizofrenia, appare subito chiaro, fin dalle prime pagine, che l’io narrante non è del tutto normale: essa non può infatti stare più di due giorni lontano dalla Ungargasse, la strada dove vive nel centro di Vienna; è perennemente in preda a fobie, crisi di panico e idiosincrasie; si sente inerme di fronte ai ricatti sentimentalistici che la spingono ad assecondare un incauto filantropismo terzomondista, e così via. A monte di tutto ciò si intuisce che c’è un tragico passato di malattia e di violenza, e difatti poco alla volta piccoli grumi di verità emergono, quasi sfuggendo alla ostinata reticenza della volontà (in una lettera indirizzata a Lily e poi cestinata la donna accenna ad esempio a qualcosa accaduto alla propria testa). E’ solo nel lunghissimo incubo-delirio della seconda parte, vero e proprio tour de force di letteratura onirico-surreale, che è possibile rintracciare una plausibile spiegazione dello stato psicologico della protagonista e dei traumi che l’hanno devastata. Qui emerge la figura violenta, prevaricatrice e distruttiva di un padre-padrone che ha abusato della figlia e che l’ha irrimediabilmente messa in una condizione di soggezione, di auto-annullamento, di perdita di fiducia in se stessa e negli uomini, di smarrimento di una sana e normale voglia di vivere. E in una serie di quadri sconnessi e mostruosi (degni di un Bergman, di un Kafka e di un Bosch messi insieme) prende forma un orrore agghiacciante e senza limiti, in cui il genitore, sotto le vesti ora di un sadico aguzzino ora di un famelico coccodrillo ora di un lubrico fornicatore, diventa il simbolo tanto di un’istituzione familiare che ha perso ogni valore e in cui vige la cruda legge della sopraffazione e dell’incesto, quanto di un mondo in cui non esistono esseri umani, ma solo vittime e carnefici.
Da questo terribile passato l’io narrante esce letteralmente a pezzi, con una paranoica incapacità di rapportarsi con il mondo che lo circonda e con una vita sentimentale divisa a metà tra due uomini molto diversi tra loro: Ivan e Malina. Il primo, un uomo dalle cui telefonate e dalle cui visite ella dipende quasi morbosamente e a cui affida il sogno impossibile di una felicità utopistica e perfetta, è una figura ingigantita a dismisura da un incontrollabile bisogno di amore, sicuramente sopravvalutata (Ivan ha infatti una propria vita, due bambini piccoli, e probabilmente non ha investito nel rapporto molto più di quel che farebbe un comune amante), e con il suo defilarsi al termine del romanzo è il principale (benché non del tutto colpevole) responsabile del definitivo incrinarsi dell’equilibrio psicologico della donna. Malina invece è l’elemento apollineo e razionale dell’ambiguo triangolo, rassicura la protagonista con la sua presenza costante e silenziosa, è un angelo custode fedele ed efficiente, anche se in lui mancano qualsiasi calore e passionalità. C’è un solo neo in lui: che non è una persona reale. Sul carattere immaginario di Malina la Bachmann non imbastisce un clamoroso colpo di scena, ma semina piccolissimi indizi, poco appariscenti e ad essere sinceri anche poco esaustivi (il fatto che, a differenza che con Ivan, la donna intrecci con Malina conversazioni lunghe e approfondite, quasi fosse sul lettino di uno psicanalista; che Malina compaia sempre e solo quando Ivan se ne è andato via; che non interferisca mai nella vita quotidiana e nelle azioni pratiche della protagonista), facendo intravedere al lettore nelle pagine conclusive l’inaspettato e agghiacciante scenario di uno sdoppiamento di personalità. Come in “Psyco” e in tanti film e romanzi sul “doppio”, il destino del personaggio che dice io è una definitiva scissione che conduce alla follia: mentre la metà femminile scompare dentro una crepa della parete (la quale rimanda a ben altre crepe psicologiche), quella maschile prende il sopravvento, rispondendo alla tardiva telefonata di Ivan che nessuna donna ha mai abitato nell’appartamento e mettendo così un suggello quasi sepolcrale a un’opera difficile, ostica e disturbante, forse più adatta a uno psichiatra che a un lettore normale.
LA SOSTENIBILE LEGGEREZZA DI UNA TELENOVELA
Nelle sue “Lezioni americane” Italo Calvino presentava la leggerezza come una delle virtù letterarie meritevoli di essere salvaguardate e trasmesse ai posteri. La cosa risulta del tutto pertinente a questa recensione, perché come si può definire se non con il termine “leggerezza” quella particolare atmosfera che si respira nella storia d’amore tra il protagonista e la zia Julia, una weltanschaung erotico-matrimoniale spregiudicata, spumeggiante, briosa e sprizzante buonumore e ottimismo da ogni pagina? Calvino non può essere annoverato tra i numi tutelari di Vargas Llosa per il semplice motivo che i due scrittori erano contemporanei e probabilmente non si conoscevano neppure; ma il riferimento a Calvino non è campato in aria, dal momento che “La zia Julia e lo scribacchino” fa venire in mente “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. Con quest’ultimo il romanzo di Vargas Llosa ha infatti in comune la struttura frammentaria e policentrica, in quanto vi si alternano, accanto (e quasi in contrapposizione) alla vicenda principale e con il pretesto dei drammi radiofonici di Pedro Camacho e della passione letteraria del protagonista, una moltitudine di spunti narrativi incompiuti, in cui lo scrittore peruviano da una parte lascia andare a briglia sciolta, senza troppe preoccupazioni di fare arte “alta”, la sua fantasia e il suo estro umoristico, dall’altra si diverte a prendere in giro i cliché di quelle che oggi sarebbero le soap opera e le telenovelas televisive e che nel libro sono invece i romanzi radiofonici a puntate. In questi polpettoni melodrammatici, seguiti da un pubblico numeroso, fedele e facilmente incline all’idolatria divistica, i personaggi sono infatti stereotipati e intercambiabili (al punto che tutti quanti, letteralmente e senza eccezione alcuna, hanno cinquant’anni, la fronte spaziosa, il naso aquilino, lo sguardo penetrante e rettitudine e bontà nello spirito), le situazioni inclinano allo scandaloso, al morboso e al patetico, e gli ambienti privilegiano le classi sociali estreme, ossia l’aristocrazia e il sottoproletariato, e trascurano invece i meno interessanti ceti medi.
Non c’è comunque ne “La zia Julia e lo scribacchino”, se non di sfuggita e in misura del tutto marginale, alcun intento di critica sociale e di costume, in quanto l’ambizione di Vargas Llosa è piuttosto quella di disegnare, utilizzando una struttura compositiva quasi sperimentale e una progressione narrativa serrata a dispetto della frammentarietà di cui si diceva prima, un originale ritratto di artista (che potrebbe essere paradossalmente considerato, se si volesse leggere il libro in chiave autobiografica, il mentore stesso dell’autore, allora giovane scrittore alle prime armi), fanatico, stakanovista, religiosamente votato al suo lavoro al punto da essere completamente indifferente tanto alla vita privata quanto al successo pubblico. Pertanto, se all’inizio al lettore sembra di assistere a una parodia dei mezzi di comunicazione di massa (e delle strategie, al tempo stesso subdole e pacchiane, con cui essi catturano l’attenzione del pubblico), più avanti egli si accorge, insieme all’io narrante, che Pedro Camacho è, letteralmente e camaleonticamente, i personaggi che crea ed interpreta, ossia vi si immedesima in maniera inquietante e assoluta (non solo dal punto di vista psicologico, ma anche fisicamente, per mezzo dei travestimenti con cui di volta in volta diventa un dottore, un poliziotto, una psicanalista, ecc.), al punto che la sessuofobia, il bigottismo, la maniacalità, il sadismo, le perversioni (e persino la xenofobia e l’odio parossistico per gli argentini) che pullulano nei suoi radiodrammi non sono il frutto dell’immaginazione artistica (di cui peraltro è privo, così come del senso dell’umorismo) ma l’espressione individualissima di una personalità distorta e malata. Col trascorrere delle pagine, il forsennato ritmo di lavoro dello “scriba” boliviano (che scrive, dirige e interpreta dieci opere contemporaneamente) inizia a mostrare delle crepe, all’inizio impercettibili, poi via via più evidenti e preoccupanti (ad esempio, i personaggi di un racconto passano senza motivazioni plausibili in un altro), segno di una mente che si sta lentamente disgregando. Così i dieci racconti (in realtà ne leggiamo solo nove), intervallati dalla storia pseudo-autobiografica del protagonista che assiste all’arrivo a Lima, al successo e al declino (psichico prima ancora che professionale) di Pedro Camacho, anacronistico asceta della penna, diventano ben presto la mirabile descrizione di una discesa nel gorgo della follia più cupa e autodistruttiva. Gli apocalittici e cataclismatici epiloghi dei romanzi radiofonici, in cui perdono la vita per incendi, terremoti o naufragi, tutti i personaggi inventati da Pedro Camacho, sono le disperate soluzioni estreme cui è costretto a ricorrere questo deus ex machina alla rovescia il quale, incapace di padroneggiare le figure nate dalla sua fantasia e vittima di un colossale e caotico garbuglio, è fatalmente destinato ad essere internato in manicomio.
Lo stile di Vargas Llosa è quanto mai virtuosistico, non tanto sotto il profilo spazio-temporale (come avveniva invece ne “La Casa Verde”), bensì sotto quello strettamente narrativo, dal momento che è costretto a sdoppiarsi (e addirittura a moltiplicarsi) in continuazione. Confesso che, man mano che si dipanavano i capitoli lasciando intravedere scenari sempre più inattesi, ho accarezzato l’idea di un colpo di scena a sorpresa (come, ad esempio, la scoperta che la storia tra il protagonista e la zia Julia non fosse altro che il soggetto, destinato anch’esso a un epilogo eclatante, di uno dei drammi – il decimo? - di Pedro Camacho). E’ per questo che ho accolto con un pizzico di delusione l’ultimo capitolo che, saltando a piè pari più di dieci anni, fa scomparire senza troppi riguardi la zia Julia e riesuma invece un invecchiato Pedro Camacho, ridotto a fare il galoppino di una rivista di infimo livello, il tutto in maniera convenzionale e posticcia come nel più classico finale di un film hollywoodiano, e venato per giunta da una sfumatura di patetismo e di malinconia che non si confà assolutamente con il resto del libro. A imprimersi indelebilmente nella memoria, apparentemente sullo sfondo ma in realtà uno dei temi più riusciti de “La zia Julia e lo scribacchino”, resta invece la città di Lima, le cui strade, piazze, angoli e quartieri sono incessantemente percorsi in lungo e in largo dai tanti peripatetici personaggi del libro, in un affettuoso omaggio “topografico” che ricorda quello che Saramago ha tributato a Lisbona ne “L’anno della morte di Ricardo Reis”.
Indicazioni utili
LA VITA E' SOGNO
“Ho la sensazione che basterebbe un istante, anche minuscolo, purché sia quello giusto. Come se una corda si spezzasse all’improvviso, e uno spesso sipario cadesse a terra rivelando un mondo interamente nuovo, un mondo pieno di luce e di calore”
“Gli inconsolabili” di Kazuo Ishiguro è probabilmente il romanzo più “kafkiano” che mi sia mai capitato di leggere. Quando il protagonista Ryder, un pianista di (presunta) fama internazionale, giunge nell’albergo dove gli è stata riservata una stanza, si percepisce subito infatti una forte impressione di irrealtà: la hall è stranamente deserta e, contrariamente alle previsioni, nessuno lo sta aspettando; quando finalmente viene condotto alla sua camera il viaggio in ascensore sembra non finire mai, tanto è vero che il facchino Gustav prima e la signorina Stratmann (sbucata alle sue spalle non si sa da dove) poi hanno modo di conversare lungamente con lui prima di giungere al termine della corsa; la stanza dell’hotel infine assomiglia stranamente a quella dove Ryder ha vissuto tanti anni prima, quando era bambino. Il tempo e lo spazio assumono fin dall’inizio connotati del tutto arbitrari. Quando, dopo essersi riposato dal viaggio, Ryder incontra in un bar del centro storico Sophie e decide di incamminarsi con lei ed il figlio Boris verso l’abitazione della donna, è grande la sorpresa nel ritrovarci ben presto e in maniera del tutto inopinata in mezzo alla campagna, ma ancora di più ci meravigliamo quando, scesa l’oscurità e persa di vista la sua guida femminile, Ryder riesce fortuitamente a trovare un passaggio per tornare in centro e il viaggio in auto, lungo strade misteriosamente deserte, dura un tempo molto più lungo di quello che aveva impiegato percorrendo a piedi le vie della città. E’ un po’ quello che ne “Il Castello” succede all’agrimensore K., il quale esce una mattina per raggiungere il Castello, ma dopo un paio d’ore trascorse in inutili tentativi si accorge con sommo stupore di essere già a notte inoltrata, mentre il protagonista del racconto “Un fatto d’ogni giorno”, dal canto suo, impiega dieci minuti per percorrere un determinato tratto di strada, ma il giorno dopo per fare lo stesso tragitto ci mette addirittura dieci ore. La cosa più strana di tutte è però un’altra. Ryder è arrivato nella città senza nome (ma – guarda caso – dai caratteri vagamente mitteleuropei) per tenere un importante concerto, da cui tutti si aspettano una svolta decisiva per le sorti della comunità in crisi. Stranamente però egli non ricorda assolutamente nulla del fitto programma di impegni che lo attendono e neppure delle persone che ruotano intorno all’imminente evento, ma ciò, anziché gettarlo nel panico, scalfisce a stento la sua imperturbabilità, lasciandolo al contrario distaccato ed impassibile, stolidamente convinto che le cose si sistemeranno da sole col passare delle ore. Ryder cerca, procedendo un po’ a tentoni, di farsi un’idea della situazione, ma nella sua ricerca di trovare il bandolo della matassa è continuamente distolto da una serie di personaggi che lo avvicinano per avanzargli una piccola richiesta (dare un’occhiata all’album di ritagli di giornale della moglie del direttore dell’albergo, ascoltare il figlio di quest’ultimo al piano per dargli dei suggerimenti tecnici, parlare con la figlia del facchino per aiutarla a risolvere i suoi problemi, e così via), a cui egli non sa mai dire di no. Il romanzo di Ishiguro si struttura ben presto come una sorta di “ronde”, in cui il protagonista è costantemente agito dagli eventi e manipolato dagli altri, i quali come in una immaginaria staffetta lo trascinano da un impegno all’altro senza che egli riesca mai non solo a portare a termine alcunché, ma addirittura a comprendere il senso di quello che gli sta succedendo. In questa girandola di inaspettate incombenze e di deviazioni dai propri proponimenti, che hanno il solo effetto di caricarlo di sempre nuove responsabilità e di dargli una permanente, fastidiosa sensazione di non riuscire mai a essere all’altezza del proprio ruolo, Ryder è costretto, per dare retta a tutti, a non accontentare mai nessuno, spesso deludendolo e addirittura abbandonandolo al suo destino (ad esempio, pianta in asso Sophie al cinema per seguire il consigliere Pedersen o lascia il piccolo Boris da solo al bar per concedere un’intervista fotografica a due giornalisti), correndo senza sosta da una parte all’altra per ritrovarsi poi magari inspiegabilmente al punto di partenza. Ad ogni istante nuove presenze si affacciano al cospetto di Ryder come figure appartenenti al suo oscuro passato, e l’amnesico narratore le ingloba come tessere di un laborioso puzzle attraverso la cui costruzione egli spera di riuscire a ricomporre il disegno della propria vita e trovare un senso agli accadimenti presenti. Così Sophie (la sua compagna?) e Boris (suo figlio?) rivendicano il ruolo di famiglia che il nomadismo carrieristico di Ryder rischia di mettere fatalmente a repentaglio, e i vari Geoffrey Saunders, Fiona Roberts e Jonathan Parkhurst accampano parimenti il diritto di avere un posto nel suo pantheon dei ricordi. Ad un certo punto della narrazione ricompare perfino la vecchia automobile di famiglia, all’interno della quale il piccolo Ryder amava giocare moltissimi anni prima.
L’ermetismo e la cripticità della storia rendono la lettura de “Gli inconsolabili” non propriamente agevole. Quello che è più difficile da accettare, ma che d’altra parte costituisce anche il suo più grande motivo di fascino, è la sua orizzontalità narrativa. In effetti nel romanzo di Ishiguro non c’è mai un vero e proprio climax, un’evoluzione coerente della storia, la quale – lo si può intuire ben presto – non va a parare da nessuna parte. Forse più ancora che a Kafka (con cui gli elementi di affinità sono evidenti: le cose più incongrue che assumono i connotati della normalità, la frammentazione della trama, l’evanescenza e bidimensionalità dei personaggi, il cui unico tratto distintivo è una logica assurda che viene adoperata in un’infaticabile attività di sillogizzazione) “Gli inconsolabili” mi ha fatto pensare a un film di Luis Buñuel, “Il fascino discreto della borghesia”. In questa pellicola un gruppo di altolocati personaggi è sempre in procinto di mettersi a tavola per pranzare o cenare, ma i loro rituali agapici sono costantemente interrotti per i motivi più bizzarri e stravaganti (un malinteso, una veglia funebre al ristorante, l’irruzione della polizia, ecc.) e non riescono mai a essere portati a compimento. Questa sorta di coazione a ripetere destinata a essere beffardamente vanificata (che si ritrova anche in altri film del regista spagnolo, come “L’angelo sterminatore”) è la stessa che fa muovere Ryder, continuamente distolto dai suoi improcrastinabili impegni da risibili contrattempi e da improbabili incontri. Il riferimento a Buñuel, regista onirico e surreale per definizione, mi permette di introdurre il tema fondamentale del sogno. Oltre al sovvertimento delle usuali coordinate spazio-temporali, di cui ho già parlato in precedenza, nel romanzo c’è un’altra caratteristica peculiare dei sogni, ossia la presenza costante di situazioni assurde e implausibili rivestite da una patina di normalità: così Ryder si presenta all’elegante ricevimento della Contessa addirittura in vestaglia e pantofole, e successivamente a un funerale con uno sgargiante completo sportivo; affacciandosi all’interno di un armadio riesce a vedere il teatro dall’alto, come se si trovasse in un palco; nel film “2001: Odissea nello spazio”, cui assiste al cinema con Sophie, ci sono Clint Eastwood e Yul Brinner nell’astronave in viaggio verso Giove; la sala migliore per esercitarsi al pianoforte si trova all’interno di un angusto capanno in cima alla collina; nelle ultime file del cinema gli spettatori giocano tranquillamente a carte, mentre in fondo all’autobus si può trovare un ricco e appetitoso buffet. A ciò si aggiunge che i personaggi appaiono e scompaiono senza preavviso, misteriosamente convocati dal lontano passato del protagonista e in esso di nuovo repentinamente risucchiati, e che Ryder riesce a vedere e descrivere perfino cose che sono al di fuori del suo punto di osservazione. L’ubiquità, la meccanicità e l’illogicità di persone e situazioni, oltre alla inspiegabile passività di Ryder, fanno sì che “Gli inconsolabili” – pur in assenza di una esplicita e inequivocabile presa di posizione dell’autore in tal senso – può essere letto come un lunghissimo sogno, dal quale gradualmente emergono, con il meccanismo inconscio tipico dei sogni, i sensi di colpa, i traumi rimossi e i fantasmi del passato del protagonista. Vista in quest’ottica l’apparente indecifrabilità del libro è in grado di acquistare una sua coerente intelligibilità. Secondo la mia interpretazione, il romanzo di Ishiguro altro non è in fondo se non l’incubo di un artista di successo alla vigilia di un evento decisivo per la sua carriera, nel quale si manifestano le sue paralizzanti paure (non ricordarsi il pezzo da suonare, arrivare in ritardo al Palazzo dei Concerti, non essere all’altezza delle aspettative riposte in lui, ecc.) o vengono rappresentati gli aspetti più difficili e faticosi della vita di un uomo di successo (le interviste da rilasciare, le cene e le conferenze a cui partecipare, i discorsi da fare, la famiglia distante a cui è possibile dedicare solo briciole di tempo, la difficoltà di avere rapporti umani autentici che vadano al di là dell’adulazione, della cortesia di facciata o dell’amicizia opportunistica). Ecco quindi che Brodsky e Christoff, ossia i musicisti in cui la comunità ripone o ha riposto in passato la speranza di una catartica palingenesi, altro non sono che degli alter-ego di Ryder simboleggianti la grande facilità con cui agli occhi dell’opinione pubblica è possibile passare dalla polvere agli altari e viceversa. Allo stesso modo Stephan rappresenta la proiezione giovanile di Ryder, la sua difficoltà di affermarsi nello spietato mondo dell’arte e i dubbi sul proprio talento; Fiona invece l’amicizia interessata, strumentalizzata ed esibita per fare colpo sugli altri; il consigliere Pedersen i personaggi pubblici che tirano gli artisti per la giacca al fine di sfruttare equivocamente la loro popolarità, e così via dicendo.
Alla luce di queste considerazioni, “Gli inconsolabili”, lungi dall’essere un libro noioso, ripetitivo e sconclusionato, come è stato frettolosamente etichettato da molti lettori e critici, è a mio giudizio un originale capolavoro, onirico e paradossale, che in certi passaggi sa essere anche comico (i buffi sforzi di Ryder di mantenersi calmo, responsabile e ponderato per padroneggiare la situazione che continuamente gli sfugge di mano, l’ipocrita manifestazione di cordoglio della città per la morte del cane di Brodsky) e inventivo (la virtuosistica danza del facchino) e perfino parlare di amore (quello di Brodsky per la signorina Collins o quello del direttore Hoffman per la moglie, amori romanticamente disperati e tormentosamente maledetti), un libro in cui si ha sempre la sensazione di trovarsi di fronte a una costruzione inconcreta e malsicura, destinata a crollare da un momento all’altro, e dove dietro le quinte del reale si annidano forze oscure e imperscrutabili, evocanti un mondo incomprensibile e alieno.
Indicazioni utili
LA CADUTA IN DISGRAZIA DI UN UOMO QUALUNQUE
“- Che umiliazione, - dice David alla fine. – Tante grandi speranze per poi ridursi così.
- Sì, concordo con te, è umiliante. Ma forse è il punto di partenza giusto per ricominciare da capo. Forse è una lezione da accettare. Bisogna saper ricominciare dal fondo. Senza niente. Senza una carta da giocare, senza un’arma, senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità.
- Come un cane.
- Sì, come un cane.”
“Vergogna” è un romanzo disturbante, che spiazza e disorienta in continuazione il lettore, il quale assiste sbigottito al violento sovvertimento dell’equilibrio iniziale per ritrovarsi alla fine in un territorio inatteso e sconosciuto, senza solidi punti di riferimento (fosse anche solo un retroterra letterario e culturale comune e riconoscibile) a cui appigliarsi. Nelle prime pagine facciamo infatti la conoscenza con David Lurie, un uomo di mezza età che, nonostante due divorzi alle spalle e una professione per la quale non sente alcuna vera vocazione, è apparentemente appagato della propria vita e della propria posizione sociale. “Gode di buona salute, la sua mente è lucida. – annota Coetzee – Vive nei limiti del suo reddito, nei limiti del suo carattere, nei limiti delle sue capacità sentimentali. E’ felice? Secondo i normali criteri di valutazione, sì, ne è convinto. Ma non ha dimenticato l’ultimo coro dell’Edipo: non dire di un uomo che è felice finché non è morto.” A immediata riprova di questo sinistro monito, David entra in una spirale di circostanze avverse che lo porta ad essere cacciato con ignominia dall’università in cui lavora, a rifugiarsi – ospite non del tutto gradito – nella sperduta fattoria della figlia Lucy, a subire violenze, soprusi e umiliazioni di ogni sorta, a perdere beni, soldi e dignità, per ritrovarsi alla fine alle soglie della vecchiaia, stanco, spento e disilluso. La condizione esistenziale in cui viene a trovarsi il protagonista è quella dell’estraneità: estraneità alla vita, verso cui prova sempre meno interesse e desiderio, ed estraneità all’ambiente, sia quello della capitale, che lo espelle come un elemento sgradevole e indesiderato, sia quello, primitivo, tribale e ferino, della campagna dove vive (e ha deciso inopinatamente di mettere radici) la figlia, nel quale David non riesce ad integrarsi e dove si sente e viene considerato un forestiero.
La vergogna del titolo, quindi, è anzitutto quella di chi non riesce a sentirsi a casa propria da nessuna parte, coscritto e reietto, né completamente colpevole prima, nel Sudafrica ricco della cittadella universitaria, né completamente innocente dopo, incapace com’è di proteggere la figlia e costretto ad affidarla all’ambigua protezione dello scaltro ed enigmatico Petrus. E’ una paradossale legge del contrappasso a punire David il quale, costretto ad abbandonare l’università per molestie sessuali nei confronti di una sua studentessa (“non è stupro, non proprio, ma un atto indesiderato, profondamente indesiderato”), si ritrova, dopo l’aggressione subita nella fattoria di Lucy, ad assistere impotente alle conseguenze psicologiche della violenza sessuale di cui la figlia è rimasta vittima.Il protagonista diventa perciò il colpevole indiretto, per interposta persona se così si può dire, di un crimine, di una soperchieria, nei confronti della quale gli è persino negata la possibilità di indignarsi, in quanto egli stesso inconsciamente, atavicamente, ne è impregnato.
Nonostante il precedente riferimento all’”Edipo”, il destino di David non è quello della tragedia. Non è un particolare secondario, tutt’altro, il fatto che la vicenda sia contrappuntata dall’opera musicale sul periodo trascorso da Byron in Italia che da molto tempo egli si accinge a scrivere e che incessantemente modifica nella sua testa e nei suoi appunti. Orbene, man mano che David scende la china della vita, cadendo inesorabilmente in disgrazia, egli si allontana sempre più dal poeta arrogante, libertino e lussurioso per avvicinarsi invece all’amante Teresa, non però alla ragazza piena di ardore e di passione degli anni della sua relazione con Byron, bensì a una matura, ingrigita donna di mezza età che, tra i maliziosi sorrisetti dei domestici, vive ormai di ricordi e di reliquie, mentre il tono dell’opera abbandona tanto l’erotismo scandaloso quanto l’elegia crepuscolare per approdare addirittura al comico. L’oscura Teresa diventa in tal modo l’alter ego del protagonista, rispecchiandone i patetici fallimenti e la grottesca disperazione. Tale è infatti (in assenza di qualsiasi alternativa religiosa e spirituale, in quanto anche Dio è appannaggio di esseri piccoli e meschini come il padre di Melanie) la sorte riservata dall’autore a David, paludato intellettuale che si riduce alla fine a fare l’”angelo della morte” dei cani randagi alla clinica veterinaria della piccola cittadina di provincia, per l’unico e semplice motivo che non c’è nessun altro che sia altrettanto stupido per farlo.
Lo stile di J. M. Coetzee è piano, scabro e asciutto; fa corrispondere un massimo di precisione, di oggettività, quasi documentaristica si sarebbe portati a dire, a un minimo di emozione; è interno al personaggio (di cui registra meticolosamente riflessioni, dubbi, desideri e paure) eppure al tempo stesso è esterno, freddo e impersonale. Alla resa dei conti risulta lo stile congeniale per descrivere questa weltanschaung alla rovescia, questo prosaico e assai poco romanzesco viaggio agli inferi senza biglietto di ritorno, che esplora la degradazione dell’animo umano fino ai suoi più estremi limiti e confini.
Indicazioni utili
LA COLPA DI NON AVERE COLPE
Di primo acchito tutta l’opera di Kafka sembra dare l’impressione di scarsa coesione e di frammentarietà, ma ciò, lungi dall’essere un fattore negativo, appare del tutto funzionale allo stile onirico dell’autore. Frammentario ed episodico è soprattutto “America”, il quale, permeato di sensazioni fanciullesche e puerili, si abbandona, come la novellistica infantile, a situazioni sempre nuove e diverse, senza curarsi troppo della coerenza narrativa. In quello che è considerato da molti il romanzo più positivo di Kafka, per l’incrollabile ottimismo e l’ingenuo idealismo con cui il protagonista Karl Rossmann affronta le dure prove che l’ingresso nel mondo adulto gli impone, il destino fa comunque sentire la sua implacabile e beffarda presenza. In un crescendo di inaudita crudeltà, il giovane Karl è impietosamente schiacciato dalle soverchianti forze di un mondo abietto, volgare e corrotto. Fin dalla prima pagina veniamo a sapere che Karl è stato cacciato dalla casa del padre per essere stato sedotto e violentato da una cameriera. Per questa colpa grottesca e stramba egli è condannato ad abbandonare la famiglia e la patria ed a peregrinare indifeso in un mondo estraneo ed ostile. “America” non manca di insperati colpi di scena, che sembrano volgere la vicenda a favore di Karl. In realtà, questi capovolgimenti sono del tutto precari e provvisori ed hanno il solo effetto di rendere ancora più dolorosa la sorte del giovane protagonista quando essi rivelano la loro inconsistenza. Così, nel porto di New York, Karl incontra un misterioso, ricchissimo zio, che lo accoglie teneramente e gli dimostra grande affetto, ma alla prima banale mancanza, alla prima inconscia ribellione, viene scaraventato nuovamente in mezzo alla strada. In questo frangente, ricompaiono come per incanto la valigia e l’ombrello che Karl aveva smarriti sulla nave il giorno del suo arrivo e che costituiscono il simbolo della lacerazione, dell’esilio e dello sradicamento. In maniera quasi del tutto analoga, Karl viene inaspettatamente assunto come ragazzo d’ascensore nel pletorico Albergo Occidentale, ma è licenziato, ancora una volta per ragioni al di fuori della sua volontà, dopo un crudelissimo interrogatorio in cui perde quasi del tutto la forza di reagire. Il destino non vuole solo la sconfitta di Karl, ma il suo totale annientamento morale. Se fino a questo momento il nostro eroe aveva potuto contrapporre alle avversità un comportamento fiero e dignitoso, ora non può neppure più chinare la testa, ma è obbligato a fuggire in continuazione, dal sadico portiere dell’albergo, dalla guardia, dal perfido Delamarche, in situazioni sempre più simili ad incubi notturni. La sensazione che la sua sorte non gli appartenga veramente ma venga sempre decisa altrove, fuori del luogo sicuro della sua ragione, si fa via via più opprimente e intollerabile. Con l’ingresso nel putrefacente e nauseante mondo di Brunelda, con quell’esperienza postribolare che rischia di intaccare indelebilmente la sua purezza, Karl Rossmann tocca il punto più estremo della sua parabola discendente.
Vi sono peraltro pagine in cui la filosofia di Kafka sembra giungere ad un approdo definitivamente sereno. Mi riferisco al capitolo finale, intitolato “Il Teatro naturale di Oklahoma”, che è un prodigioso esempio di arte onirica e surreale, nel quale Kafka, da gran maestro, spande a piene mani la giocosa levità delle favole e il gusto burlesco per la parodia. Esso recupera la vicenda di Karl Rossmann dopo una brusca ed improvvisa interruzione della narrazione, dietro la quale non è improbabile che si nascondessero nell’intenzione dell’autore esperienze ancora più degradanti di quelle che il nostro giovane eroe aveva dovuto sopportare in precedenza. Avevamo lasciato Karl nello squallido ed inquietante appartamento di Brunelda, lo ritroviamo ora mentre passeggia senza meta lungo le strade della città. All’angolo di una di esse, Karl legge un manifesto con questa scritta: “Oggi dalle sei di mattina a mezzanotte, all’ippodromo di Clayton, viene assunto personale per il Teatro di Oklahoma! Il grande Teatro di Oklahoma vi chiama! Vi chiama solamente oggi, per una volta sola! Chi perde questa occasione la perde per sempre! Tutti sono i benvenuti!… Noi siamo il Teatro che serve a ciascuno, ognuno al proprio posto!”. Con queste parole, che richiamano da vicino l’appello che si legge nell’evangelista Marco – “Il tempo è compiuto, e il Regno di Dio è vicino. Convertitevi e credete al Vangelo” – si prepara il grande prodigio, si realizza la perfetta utopia. Quel Teatro in grado di accogliere tutti gli uomini, giacché “il numero dei posti è illimitato”, è la proiezione scenografica dell’aspirazione umana a sfuggire alla precarietà dell’esistenza per inserirsi in un complesso ordinato e sereno, in cui l’individuo può finalmente annullarsi, scaricare le proprie angosce e responsabilità e partecipare della magica armonia del creato. Il Teatro è così grande che l’uomo ne ricava un senso di infinita sicurezza, come se un provvidenziale ordine superiore lo guidasse e vi infondesse una beatitudine senza limiti. Se nella babelica burocrazia de “Il processo” e de “Il Castello” l’uomo non riusciva a districarsi, nell’organizzazione del Teatro il presentarsi senza un documento di riconoscimento e sotto false generalità, come fa Karl, non è più un problema di eccessiva importanza. Questo parodistico anticipo del Regno dei Cieli è descritto da Kafka con accenti grotteschi e surreali. Davanti all’ippodromo di Clayton, si presenta agli occhi di Karl uno spettacolo fantasmagorico: in un podio lungo e basso, centinaia di donne vestite da angeli e collocate su zoccoli di altezza diversa suonano lunghe trombe d’oro. L’effetto è sicuramente bizzarro, e non è escluso che Kafka abbia voluto, da impareggiabile umorista quale nonostante tutto egli era, fare la caricatura della tradizionale iconografia religiosa, così ieratica e solenne: infatti le figure degli angeli, appollaiate su quegli enormi piedistalli, appaiono gigantesche, ma questa impressione è turbata dalle loro teste, così piccole al confronto. Inoltre il suono delle innumerevoli trombe suonate tutte insieme, anziché assomigliare a una melodia celeste, produce solo un grande frastuono. All’interno dell’ippodromo però tutto funziona a meraviglia e procede sorprendentemente sui binari del più assoluto e fiducioso ottimismo. Karl viene assunto, le sue paure e le sue inquietudini svaniscono come d’incanto e sembra quasi che un miracoloso colpo di bacchetta magica abbia fatto scendere la grazia sulla sua giovane persona.
Nonostante che nel capitolo finale di “America” siano completamente assenti i toni tragici e disperati degli altri due romanzi kafkiani e sebbene nel resto del libro le stupefacenti costruzioni burocratiche in esso presenti (si pensi al burattinesco automatismo degli uffici di New York o della portineria dell’Albergo Occidentale) siano apparentemente utilizzate per fare una satira chaplinesca della moderna civiltà dei consumi piuttosto che rappresentare il simbolo di qualcosa che trascende le possibilità di comprensione umana, non sono d’accordo con coloro che vedono in esso un sereno e fiducioso punto di arrivo dell’opera dell’autore boemo. Purtroppo l’incompiutezza di “America” mi impedisce di dare un sostegno pieno e irrefutabile alla mia tesi. Credo però che se il romanzo si fosse interrotto al momento dell’assunzione di Karl nel pletorico Albergo Occidentale di Ramses, le valutazioni non avrebbero potuto essere molto dissimili. Siccome la caratteristica di “America” è, come si è visto, quella di far seguire a favorevoli ed insperati colpi di scena delusioni cocenti e dolorose, non si vede perché ad Oklahoma Karl avrebbe dovuto essere risparmiato da una simile sorte. Se si leggono attentamente le ultime pagine di “America”, si scopre ad esempio che, dopo l’assunzione, il capo della compagnia dice a Karl: “Ad Oklahoma si esaminerà tutto ancora una volta”. E i compagni di scompartimento di Karl, così scontrosi e impertinenti, hanno tutta l’aria di essere i prossimi torturatori del nostro giovane eroe, non meno ambigui e demoniaci di Robinson e Delamarche. Esiste inoltre un significativo frammento dei diari kafkiani che sembra avallare questa tesi: “Rossmann e K., il senza colpa ed il colpevole, ambedue alla fine uccisi senza distinzione per punizione, quello senza colpa con mano più leggera, più messo da parte che trucidato”. Karl Rossmann doveva dunque essere ucciso, al pari di Josef K., e, quel che più importa, doveva essere ucciso per punizione. Ma se anche si volesse credere, come suggerisce Max Brod riportando una dichiarazione orale dello stesso Kafka, che il romanzo avrebbe dovuto avere un lieto fine (“in quel teatro quasi illimitato, il suo giovane eroe avrebbe ritrovato, come per un incanto paradisiaco, la professione, la libertà, l’appoggio, e persino la patria e i genitori”), ciò significherebbe solo che lo scrittore aveva voluto risparmiare alla giovane e innocente vita di Karl una sentenza definitiva e inappellabile di condanna, pur essendo lungi dal volergli concedere una qualche forma di ottimistica assoluzione.
Indicazioni utili
L'INAFFERRABILITA' DEL DIVINO
Il tema del sofferto adeguamento dell’essere umano alle incomprensibili leggi divine, che già era il fulcro tematico de “Il processo”, è trattato in maniera ancora più penetrante ne “Il Castello”. Questo romanzo è una compiuta evoluzione non solo del “Processo” ma anche del breve racconto kafkiano “Durante la costruzione della muraglia cinese”. Rispetto alla “Muraglia cinese”, “Il Castello” rappresenta lo sviluppo coerente della cosmogonia in essa accennata. Laddove al centro dell’universo descritto nel racconto c’è l’Imperatore, circondato da innumerevoli stanze e cortili e palazzi, ai quali fanno seguito la capitale “piena colma della sua feccia” e lo sterminato impero cinese, ai confini del quale la purissima luce imperiale non riesce a fare arrivare neppure un fioco bagliore, al centro della struttura del mondo del romanzo c’è, arroccato sulla collina, Il Castello del Conte West-West, attorniato dalle case del villaggio, verso le quali irradia i suoi riflessi divini, e da un immenso, desolato deserto di neve. La somiglianza, come si vede, è impressionante e non certo casuale. Della vicenda di Josef K. “Il Castello” è invece, per così dire, il logico e necessario completamento. Se nel “Processo” la grande avventura “religiosa” del procuratore veniva brutalmente interrotta dalla sua morte, nel “Castello” Kafka sembra voler riannodare le fila del discorso per spostare le proprie conclusioni un poco più avanti. Per farlo, egli sceglie di sviluppare la vicenda dell’agrimensore K. su un piano eminentemente metafisico, con lo scopo di trasformare più facilmente i valori immediati della esile trama in cifre e simboli del destino.
Nel “Castello” viene affrontato in primo luogo il problema dell’inadeguatezza del razionalismo umano ad affrontare quel fenomeno tipicamente irrazionale che è la fede. Anzi, “Il Castello” può essere senza mezzi termini definito, pur tenendo conto della sua sorprendente poliedricità, un romanzo sulla fede. La fede è sviscerata da Kafka in tutte le sue possibili sfumature, con l’ausilio dei numerosi personaggi che popolano la storia, ognuno dei quali rappresenta un diverso modo di rapportarsi a Dio. La fede è per Kafka un sentimento problematico e sofferto: essa non corrisponde mai a qualcosa di reale od oggettivo, non garantisce neppure un rapporto con il suo oggetto, ma è una adesione totale e senza riserve a qualcosa di incomprensibile. Viene subito in mente, a questo proposito, il capolavoro di Søren Kierkegaard, “Timore e tremore”, al quale Kafka si è senza dubbio ispirato per rappresentare l’enigmaticità del divino, che l’uomo deve accettare anche quando ciò comporta il sacrificio delle più elementari norme etiche. Come Abramo, che in nome di un mostruoso decreto celeste accetta di immolare il figlio Isacco, così gli abitanti del villaggio si piegano a tutte le arbitrarie decisioni del Castello, sforzandosi di sentirle come necessarie e provvidenziali. Questa fede, lo si capisce subito, non è apportatrice di felicità: l’atmosfera del villaggio è infatti tetra e malinconica, e la disperazione con cui i suoi abitanti attendono che un messaggio qualsiasi giunga dal Castello o la feroce caparbietà con la quale essi si tengono avvinghiati al loro credo riflettono ad ogni istante questa sensazione.
Quando K., giunto in paese come un viaggiatore solitario, riceve dal messaggero Barnabas la prima comunicazione del funzionario Klamm, egli si trova di fronte ad un’alternativa angosciosa: accettare passivamente e acriticamente la legge del Castello, senza avere la certezza immediata di esservi un giorno ammesso, o cercare di raggiungere il Castello con le proprie forze, cioè razionalmente. K. sceglie la seconda strada, ben sapendo che la sua decisione sarà giudicata sia dal Castello sia dai membri del villaggio come un atto di aperta ribellione nei confronti di un comandamento ritenuto inviolabile. Per poter sostenere questo sforzo, che è poi una inesausta e mortificante coazione a ripetere ciò che fino ad allora si è dimostrato vano, K. è costretto a rinunciare a tutte le allettanti profferte della vita, prima fra tutte l’amore di Frieda. Nel descrivere il rapporto tra K. e Frieda, Kafka mette in scena tutti i sentimenti e le ipocrisie, le speranze e le paure, gli slanci e gli egoismi della vita di coppia. K. è un uomo come tanti, un po’ eroe e un po’ vigliacco, ama la sua donna ma capisce, senza del resto riuscire a confessarlo apertamente, che questo amore lo intralcia nel suo tentativo di stabilire un contatto con il Castello, rappresentato dal misterioso Klamm (“Se egli perseguiva queste speranze, e non poteva essere altrimenti, doveva concentrare su di esse tutte le forze, non più curarsi d’altro, né del cibo né dell’alloggio, né delle autorità del paese e neppure di Frieda”). Non solo, Kafka avanza addirittura l’ipotesi che K., nel momento in cui ha deciso di sedurre Frieda, sia stato più o meno consciamente affascinato dal fatto che ella era l’amante ufficiale di Klamm e dall’idea che fosse possibile usarla come un ostaggio da riscattare solo ad altissimo prezzo. L’acuta sensibilità femminile di Frieda intuisce un simile calcolo e, in un momento di sconforto, lo dichiara a K.: “Tu calcoli tutte le probabilità: purché tu ottenga il prezzo che vuoi, sei pronto a fare qualunque cosa; se Klamm mi vuole mi cederai a lui, se vuole che tu mi scacci mi scaccerai; ma sei anche disposto a far la commedia, se ne vedrai vantaggio fingerai di amarmi”. L’unione tra Frieda e l’agrimensore, che per il secondo è stata soprattutto una sospirata pausa nell’assillo della sua esasperante ricerca, affoga quindi tra le reciproche incomprensioni dei due: Frieda non riesce a capire l’ostinata irreligiosità di K. e K., a sua volta, non è in grado di percepire la grandezza del gesto di Frieda, che ha abbandonato volontariamente Klamm, preferendo alla luce del divino la precarietà dell’amore terreno.
Oltre a perdere Frieda, K. è costretto anche ad inimicarsi la gente del villaggio, la quale considera empio e blasfemo il suo tentativo e irriverente la spavalderia con cui egli nomina il Conte: “«Lei conosce il Conte, naturalmente?». «No» disse il maestro, e fece l’atto di andarsene. Ma K. non si diede per vinto e ripeté la domanda: «Come? Lei non conosce il Conte?». «Come potrei conoscerlo?» disse il maestro piano, e aggiunse forte, in francese: «Abbia riguardo alla presenza di bambini innocenti»”. Dal maestro al calzolaio Brunswick, dal mastro conciatore Lasemann al carrettiere Gerstacker, l’atteggiamento nei confronti di K. è costantemente improntato ad ostilità e ad insofferenza. Ma è l’ostessa Gardena, con i suoi continui e franchi rimproveri, a stigmatizzare maggiormente la sfrontata sicumera di K. Gardena, che è stata vent’anni prima l’amante di Klamm e da questi è stata poi abbandonata senza un cenno di spiegazione, simboleggia, con la sua fedele devozione al Castello, la mistica della distanza e della separazione dal mondo celeste. Ella è una figura patetica e straziante, incapace com’è di dimenticare il doloroso passato, ma di fronte all’atteggiamento miscredente di K. diventa una spietata e violenta accusatrice. La sua calorosa schiettezza di donna di mondo inquadra la situazione dell’agrimensore meglio di qualsiasi pacata analisi razionale. “Come vuoi che lui capisca – dice a Frieda – quello che per noi è tanto naturale, vale a dire che il signor Klamm non gli parlerà mai, che dico «non gli parlerà»? non gli potrà mai parlare. Ascolti, signor agrimensore. Il signor Klamm è un signore del Castello, ciò indica di per sé, lasciando stare le sue attribuzioni, una posizione molto alta. E cos’è invece lei…? Lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla. Eppure anche lei è qualcosa, sventuratamente, è un forestiero, uno che è sempre di troppo e sempre fra i piedi, uno che vi procura un mucchio di grattacapi… Io le dico che lei è spaventosamente all’oscuro della situazione, vengono i sudori freddi a chi l’ascolta… Questa sua ignoranza non si può correggere in una volta sola, e forse non si può correggere affatto, ma molte cose andrebbero meglio se lei mi credesse almeno un poco, e tenesse sempre presente la sua insipienza".
L’accettazione del mistero, il rito religioso sono chiaramente insufficienti alla mente umana, eppure costituiscono l’unica possibile salvezza, l’unica via percorribile per accedere all’Assoluto. Si tratta chiaramente di una illusione, ma l’uomo ha assolutamente bisogno di questa illusione per vivere. Nel racconto “Una relazione per un’Accademia”, la scimmia Pietro il Rosso comprendeva, dopo essere stata catturata e rinchiusa in una gabbia, che l’unica via d’uscita non risiedeva nella fuga verso la vera libertà, che era diventata impossibile, ma nella creazione di un simulacro di libertà: “No, non volevo la libertà. Soltanto una via d’uscita: a destra, a sinistra, purché fosse; non avevo altre esigenze, anche se la via d’uscita fosse risultata un’illusione”. Così egli sceglieva di soffocare in sé la propria consapevolezza animale, decidendo di diventare un uomo, anche se questa evoluzione appariva nient’altro che una patetica rinuncia. Trattandosi di una fragile illusione, Pietro il Rosso non poteva sopportare alla luce del sole lo sguardo spiritato della scimpanzé con cui si intratteneva la notte, perché quello sguardo era la presa di coscienza della frattura tra la mitica libertà dell’inconscio e l’angusta prigionia del mondo. In maniera non dissimile, gli abitanti del villaggio rifiutano K. perché la sua smania di assoluto minaccia di far saltare il precario e illusorio equilibrio su cui si regge la loro misera vita.
Pur essendo costretto ad assistere impotente alla continua vanificazione dei suoi sforzi e all’accanito diffondersi del malanimo nei suoi confronti, K. non rinuncia a perseguire il suo obiettivo e si adopera in tutti i modi per trovare uno spiraglio, per aprirsi un piccolo varco. Egli è disposto, come si è visto più sopra, ad usare qualsiasi stratagemma gli capiti tra le mani. Avendo scoperto, ad esempio, che il piccolo Hans è figlio della “ragazza del Castello”, una malinconica figura di Madonna incontrata in una capanna di contadini nel corso del suo febbrile girovagare, K. si sforza di conquistare la sua infantile fiducia per riuscire ad avvicinare la madre. Anche questi astuti e maliziosi tentativi con cui K. cerca di penetrare tra le maglie del divino sono però pateticamente votati al fallimento: il Dio del “Castello”, come un vero e proprio deus otiosus, continua a rimanere chiuso nella sua glaciale indifferenza, assente e refrattario a qualsivoglia rivelazione. Eppure, verso la fine del romanzo, il miracolo inaspettatamente accade. Trovatosi solo nella Locanda dei Signori e sfinito dall’insonnia, K. entra per errore nella stanza di un bizzarro ed enigmatico individuo, il segretario Burgel, il quale, svegliatosi di soprassalto, lo invita a fermarsi un poco. Incorreggibile chiacchierone, Burgel inizia a parlare di cose curiose, come delle “occasioni che non concordano con la situazione generale, occasioni nelle quali una parola, uno sguardo, un cenno confidenziale possono ottenere di più che non certi sforzi estenuanti prolungati per tutta la vita”, oppure delle udienze notturne, così invise ai segretari ma altrettanto inevitabili per ragioni di regolamento. In questi dibattimenti notturni, i segretari rivelano una insospettata debolezza: essi perdono la loro facoltà di giudizio, diventano inclini a considerare le cose da un punto di vista più privato e, cadendo completamente in balia delle parti, sono portati ad arrogarsi compiti ben superiori ai loro uffici e ad esaudire le richieste più inaudite. La barriera tra gli uomini e gli dei, che sembrava così sconsolatamente insormontabile, di notte si incrina e vacilla. La Legge si indebolisce, le distanze e le separazioni cadono, Dio ci viene compassionevolmente incontro. Per questi motivi, i segretari cercano di evitare gli interrogatori notturni o di prendere contro di essi delle precauzioni. Ma esiste per gli imputati la possibilità, anche se “nota solamente per sentito dire e mai confermata dai fatti”, di sfruttare la debolezza notturna dei segretari, sorprendendoli nel sonno. Vinto da una irresistibile stanchezza, K. però si assopisce e non ascolta più il soliloquio di Burgel, il quale continua a spiegare che, quando quell’occasione unica si realizza, la parte in causa ritiene ingenuamente di essere entrata nella stanza sbagliata e si lascia sfuggire il momento magico in grado di fargli padroneggiare gli eventi: “Stanca, delusa, inconsiderata e insensibile per sfinitezza e disinganno ritiene di essere penetrata, per chi sa quali motivi indifferenti e casuali, in una stanza che non è quella dove voleva recarsi, sta lì ignara, e i suoi pensieri, se ne ha, s’aggirano intorno al suo errore o alla sua stanchezza. E non si potrebbe lasciarla così? Non lo si può. Con la loquacità di chi è felice, si è sforzati a spiegarle tutto, a descriverle con minuzia e senza nulla tralasciare tutto quel che è avvenuto e per quali ragioni, come l’occasione offerta sia straordinariamente grande e stupenda, come la parte si sia in essa imbattuta con quella spensieratezza che le è propria, ma come ormai, se vuole, essa possa dominare gli eventi, signor agrimensore, e perciò non abbia altro da fare che manifestare i suoi voti, di cui è già pronto, anzi le vola intorno, l’adempimento”. Immerso nel sonno, K. non capisce che Burgel gli sta annunciando la salvezza, che è proprio lui l’agile e sottile pesciolino sgusciato tra le fitte maglie della rete del Castello. Egli non solo non è in grado di sfruttare l’occasione tanto attesa, ma non ha neppure la possibilità di sapere di averla avuta tra le mani: il Cielo lo ha addormentato, facendolo cadere proprio quando potrebbe vincere. Pur ammettendo per la prima volta esplicitamente l’esistenza di una possibilità di realizzare una autentica unione mistica con Dio, Kafka raggiunge in queste pagine una delle sue conclusioni più pessimiste. La situazione dell’agrimensore è identica a quella di Josef K., incapace di decifrare il senso riposto della parabola narratagli dal cappellano, dietro alla quale si nasconde nientedimeno che la sospirata salvezza. Come Tantalo nella leggenda, l’uomo kafkiano si vede sfuggire il lenimento di tutte le sue pene proprio nel momento fatidico il cui è in procinto di possederlo definitivamente. Il senso dell’esistenza è destinato così a rimanere ignoto come un inviolabile segreto, e la morte coglie il procuratore K. e l’agrimensore K. (stando almeno a quanto racconta Max Brod circa il modo in cui Kafka aveva in mente di far terminare “Il Castello”) senza che essi siano riusciti ad acquisire una sia pur minima certezza.
Nella impari sfida che l’uomo lancia a Dio e che Dio accetta con irridente sufficienza, Egli non esita ad avvalersi dei mezzi più infidi e sleali. Spesso e volentieri, infatti, il Cielo si mostra subdolamente conciliante e arrendevole, per non dire addirittura benevolo: nell’episodio della telefonata al Castello, per esempio, a K. che insiste nel voler presentarsi come il vecchio aiutante dell’agrimensore, l’impiegato Oswald non nega soddisfazione e gli risponde, secondandolo con voce profonda e reverente: “Sei il vecchio aiutante”. Oltre a ciò, in un capitolo successivo, K. riceve una lettera dell’ineffabile Klamm, con la quale quest’ultimo si congratula dello zelo dimostrato nei lavori di agrimensura fino ad allora eseguiti: in realtà questi lavori non sono mai stati iniziati, neppure lontanamente. K. intuisce qual è il pericolo di questa situazione all’apparenza favorevole e soddisfacente: “poteva ben accadere, se non stava costantemente in guardia, che un bel giorno, nonostante la cortesia dell’autorità e il totale adempimento di tutti i suoi doveri esageratamente lievi, egli, illuso dal favore che all’apparenza gli si dimostrava, regolasse la sua vita privata con tanta imprudenza da fallire in pieno, così che l’autorità, con la solita dolcezza e cortesia, quasi a malincuore ma in nome di un ordine pubblico a lui ignoto, fosse costretta a toglierlo di mezzo”. L’agrimensore, pur sbagliando nel credere di poter riuscire a controllare gli eventi stando continuamente in guardia, ha capito perfettamente qual è il gioco del suo avversario: l’arrendevolezza iniziale del destino ha il solo fine di blandire l’uomo, illuderlo e poi, una volta indebolite le sue capacità di reazione, schiacciarlo sotto il peso di sofferenze insostenibili. Se anche l’uomo riesce a guadagnarsi una piccola vittoria nella partita contro il destino, si può essere certi che si tratta di una vittoria sterile, di una libertà inutile. Nel “Castello” si trova un episodio molto illuminante a questo riguardo. Una sera K. si reca all’Albergo dei Signori per incontrare Klamm e, venuto a sapere dalla ragazza della mescita che Klamm sarebbe dovuto uscire con la slitta di lì a poco, si intrufola nel cortile interno per coglierlo di sorpresa. Nella lunga attesa, mentre la penombra diventa fitta tenebra, K. trova il modo di penetrare nella slitta del Castello, violando così un rigoroso tabù. Klamm però non esce dalla locanda, la slitta viene fatta rientrare nella stalla e K. rimane completamente solo a contemplare quell’assurdo trionfo: “Certo adesso era più libero che mai, poteva aspettare là nel luogo proibito quanto gli pareva e gli piaceva; si era conquistato la libertà come nessun altro avrebbe saputo, e nessuno aveva il diritto di toccarlo o di scacciarlo e nemmeno di rivolgergli la parola, ma – e questa convinzione era almeno altrettanto forte – nulla era così assurdo, così disperato come quell’indipendenza, quell’attesa, quell’invulnerabilità”.
Il Dio kafkiano non solo è ingannevole e calcolatore, ma è anche beffardo e irridente. Ho già fatto notare come Egli raccolga il guanto di sfida gettatogli da K. con un atteggiamento di canzonatoria indifferenza. Quando poi il Castello invia all’agrimensore i due aiutanti, Artur e Jeremias, capiamo presto che il suo scopo è quello di deridere gli sforzi sovrumani di K. Gli aiutanti sono infatti due burattini da commedia dell’arte, due coboldi in perenne e frenetico movimento, puerilmente importuni e goffamente pedanti. K. se li trova sempre fra i piedi, rannicchiati negli angoli delle stanze nell’atto di sorridergli ironicamente o seduti sul banco della mescita mentre fa l’amore lì sotto. Grazie ad essi, Il Castello trasforma l’epica lotta di K. in una ridicola clownerie. Quando però il Castello inizia a fare sul serio, ecco che gli aiutanti si trasformano e, da buffi pagliacci dall’aria spensieratamente infantile quali erano, diventano implacabili nemici di K., giungendo perfino a rubargli la donna.
Dio è infine indefinibile e inafferrabile. Egli non si rivela mai all’uomo, e questo gli abitanti del villaggio, allenati ad una dura ginnastica di sottomissione e di obbedienza, lo sanno bene, al punto che il desiderio di K. di poter parlare con il Conte pare loro più compassionevole che blasfemo. Quando, nonostante tutto, questa rivelazione sorprendentemente avviene non dobbiamo essere tratti in inganno: Dio può scendere fino all’uomo solo per comunicargli che non può esserci alcuna comunione tra umano e divino, solo per sancire il suo ineluttabile e definitivo distacco. All’uomo è dolorosamente preclusa la via della grazia. Nella migliore delle ipotesi, il suo destino è quello di vivere in un mondo senza Dio, non certo per il motivo che Dio non esiste (raramente Kafka si è abbandonato a una simile suggestione), ma perché Egli è infinitamente lontano, apaticamente rinchiuso nel suo impenetrabile regno e completamente insensibile alle miserie dell’umanità. In uno dei primi capitoli del “Castello”, Frieda, approfittando di un buco nella parete, fa vedere a K. il signor Klamm assiso davanti alla sua scrivania. K. non può sapere ancora che quella a cui ha assistito è una ennesima, fuorviante illusione. In realtà nessuno conosce il vero volto di Klamm. Chi come K. lo ha visto dà di lui una descrizione ogni volta diverso: “quando egli viene in paese ha un aspetto, e un secondo ne ha quando va via, un altro prima di bere la sua birra, e un altro ancora dopo averla bevuta, nella veglia cambia, e cambia di nuovo nel sonno, e quando è solo e quando parla”. Come il Proteo della mitologia, Klamm è un personaggio ineffabile e inesprimibile, simbolo tangibile della inafferrabilità del divino.
In Kafka il mondo è sovvertito, rovesciato. Il trascendente si rivela nelle forme imperfettissime della realtà finita, il sacro dimora negli ambienti più infimi e degradati. Così come le cancellerie del Tribunale de “Il processo” erano ospitate nelle opprimenti e squallide soffitte di lerci casermoni di periferia, dove l’aria è pestilenziale e le piccole finestre lasciano a malapena filtrare un po’ di luce fosca, anche l’irraggiungibile Castello è alla vista una deludente “accozzaglia di casupole senza nessuna caratteristica”. L’insieme delle case raggruppate ha un che di fatiscente e di disordinatamente affastellato, e il goffo campanile rivestito di edera, le cui merlature diroccate sembrano disegnate da una mano infantile timorosa o negligente, appare come “un tetro abitatore… che avesse sfondato il tetto e si fosse levato su per mostrarsi al mondo”. Certo è che se un visitatore fosse venuto soltanto per vederlo – pensa tra sé K. – sarebbe stato un viaggio sprecato. Kafka capovolge la nozione del divino: il divino non possiede né leggerezza e libertà, né ordine e armonia. Forse esso non è così, ma si nasconde, occulta per chissà quali arcane ragioni il suo vero aspetto agli occhi degli uomini, e l’uomo può vederlo solo in quel modo orrendo e deformato: in ogni caso, non c’è dubbio che si tratta di una ingannevole illusione.
Un aspetto molto importante del “Castello” è rappresentato dalla burocrazia, che diventa il simbolo stesso di qualcosa che trascende di gran lunga le possibilità di comprensione umane. L’assurda coerenza e la paradossale infallibilità che caratterizzano ogni sua manifestazione rappresentano per gli eroi kafkiani un ostacolo praticamente insormontabile. Si prenda come esempio l’episodio della visita di K. al sindaco del villaggio, nel corso del quale quest’ultimo rivela l’equivoco che ha condotto alla nomina di un agrimensore del quale non c’è alcun bisogno. Anche se la presunzione assoluta di infallibilità attribuita all’organizzazione del Castello è solo la goffa copertura di un immenso guazzabuglio umano, il contraddittorio tra l’agrimensore e il sindaco, così come nel “Processo” era avvenuto in occasione del colloquio tra Josef K. e il cappellano, non ha alcuna possibilità di concludersi a favore del primo. Troppo ferrea e inoppugnabile è la logica dell’assurdo che regola l’Amministrazione per non irretire anche la buona volontà di K. I suoi sforzi di confutare il meccanismo che disciplina l’apparato del Castello e di scardinarne le motivazioni si rivelano solo dei patetici proponimenti. Il sindaco può così sostenere, con totale candore, che il caso di K., anche se ha comportato una enorme mole di lavoro e l’interessamento di svariate persone, è uno dei più insignificanti, che la lettera di Klamm e le telefonate al Castello non hanno alcuna importanza ufficiale ma al tempo stesso hanno una grandissima importanza ufficiosa, che nessuno trattiene K. al paese ma neppure qualcuno lo caccia via, e così di seguito, all’infinito. Similmente, l’ostessa Gardena è in grado di affermare senza contraddirsi che l’unica possibilità per K. di avere un qualche rapporto con Klamm è il verbale del segretario Momus e, contemporaneamente, che non esiste alcuna speranza di giungere fino a Klamm, neppure per caso. In fondo a tutte le sottilissime disquisizioni di funzionari, segretari e avvocati rimane l’amara evidenza che il meccanismo dell’ingranaggio non può mai essere svelato nella sua interezza all’uomo.
Nella burocrazia kafkiana non è ammessa la possibilità dell’errore, anche laddove esso appare palesemente evidente, come nel caso della nomina dell’agrimensore. All’obiezione di K. che un errore è stato indubbiamente commesso dal Castello, il sindaco risponde che “errori non se ne commettono e, anche se ciò per eccezione accade, come nel caso suo, chi può dire alla fin fine che sia davvero un errore”. La sconcertante aporia è così risolta alla radice: errori non ce ne sono perché non possono esserci. Anche la perfezione dell’Amministrazione insistentemente vantata contrasta con il caos regnante un po’ ovunque: i documenti del sindaco sono ammucchiati disordinatamente nel granaio oppure legati come fascine e stivati nell’armadio, le pareti dello studio del funzionario Sordini scompaiono dietro pile di incartamenti che crollano ad ogni momento, e così via dicendo. Ciononostante, attraverso l’infinita e grottesca serie di equivoci e di qui pro quo in cui si dibatte l’amministrazione del Castello, è possibile leggere come in filigrana un disegno immutabile e coerente, quello del destino dell’uomo al quale è per sempre preclusa una sia pur piccola possibilità di salvezza.
Indicazioni utili
LA COLPA E' SEMPRE FUORI DISCUSSIONE
“Il principio… è questo: la colpevolezza è sempre fuori discussione.” (Franz Kafka, “La colonia penale”)
Quante volte abbiamo usato o udito usare, più o meno a proposito, il termine “kafkiano”, ad indicare una situazione angosciosa ed inquietante alla quale l’uomo, a dispetto dei suoi disparati tentativi, non riesce a dare una spiegazione logica e razionale? Molte volte, senza dubbio. Il termine “kafkiano” è infatti entrato di diritto nel linguaggio comune, assumendo per l’uomo contemporaneo una potenza evocativa ed una connotazione emozionale altrimenti irriproducibili. A partire dalla sua morte, l’importanza di Franz Kafka nella cultura contemporanea è andata crescendo sempre di più, fino a raggiungere nel secondo dopoguerra una universale e definitiva consacrazione. La ragione principale di questo successo risiede a mio avviso nel fatto che i temi portanti delle opere dello scrittore boemo sono diventati paradigmi sorprendentemente attuali della profonda crisi spirituale dell’uomo moderno. In un mondo dilaniato da isterismi e da rigurgiti di barbarie, straziato dall’affannosa ricerca di nuovi valori in grado di sostituire quelli vecchi ormai giunti al tramonto, caratterizzato dall’irrazionalismo, dall’insofferenza verso le istituzioni e dall’incapacità di comunicare con il prossimo, l’emblematica ed anticipatrice sfiducia di Kafka nell’Illuminismo e nel principio della ragione umana come saldo potere di composizione e di superamento delle contraddizioni dell’essere ci appare sempre più come la tragica e consapevole visione di un geniale profeta.
Della produzione letteraria di Kafka, “Il processo” è sicuramente l’opera più famosa ed emblematica. Il suo famoso incipit (“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato”) getta subito il lettore in medias res, smorzando già sul nascere lo stupore e rendendo non più realizzabile il ritorno alla normalità. Né i capi di accusa (“Non le posso nemmeno dire che lei è accusato – afferma l’ispettore che conduce l’interrogatorio preliminare – o meglio, non so se lo sia. Lei è arrestato, questo è vero, ma non so altro”) né l’autorità che ha ordinato l’arresto vengono rivelati al protagonista, e l’intero romanzo in fondo altro non racconta se non i suoi strenui, inesausti ma pateticamente vani tentativi di venire a capo dell’imputazione mossagli dall’enigmatico tribunale. La Legge kafkiana non ha bisogno di ascrivere una colpa specifica ai suoi imputati, di accusarli di avere infranto questo o quel precetto: la colpa è completamente inconoscibile e immotivata. Nel tentativo, che noi intuiamo essere già fallito in partenza, di difendersi dall’imperscrutabile Tribunale, Josef K. è costretto a doversi difendere fino all’ultimo istante della propria vita. “Se sono condannato – si legge nei “Diari” – non sono condannato soltanto a morire, ma anche condannato a difendermi sino alla fine”. E’ questo, secondo me, il significato più profondo de “Il processo”, ed è illuminante analizzare in questa ottica la vicenda umana di Josef K. Egli inizialmente sottovaluta gli eventi, o meglio è convinto di poterli dominare agevolmente con la ragione: “Quando uno è al mondo da trent’anni e ha dovuto destreggiarsi da solo come è capitato a me – dice K. all’ispettore subito dopo l’arresto – è avvezzo alle sorprese e non le piglia troppo sul serio… D’altro canto però la cosa non può essere molto importante. Lo deduco dal fatto che sono accusato, ma non riesco a trovare la minima colpa della quale mi si possa accusare”. Ciononostante, il germe del processo, prima latente manifestazione di un dirompente complesso di colpa, si è irrimediabilmente insinuato nel suo animo. Egli ad esempio vorrebbe ristabilire l’ordine nell’appartamento della signora Grubach illudendosi che, con l’eliminazione di ogni traccia degli incidenti del mattino, l’esistenza possa riprendere il regolare andamento di prima; oppure pretende di esorcizzare l’idea dell’arresto e metterne in risalto l’inconcretezza semplicemente parlando della sua avventura con le persone della pensione. Josef K. in realtà non accetta la rivelazione dell’irrazionale di cui ha avuto improvvisa nozione ed è costituzionalmente incapace di stare al gioco paradossale del Tribunale. Di fronte alla grottesca sceneggiata del primo interrogatorio, K. volta le spalle e fugge via, ma la settimana successiva è di nuovo là, ad aggirarsi inquieto intorno alla sala delle udienze. Nel corso della visita alle cancellerie, K. dà un’ulteriore prova del suo rifiuto di sottomettersi alla logica del processo. Nella squallida sala d’aspetto, egli ha l’occasione di incontrare numerosi imputati seduti in paziente attesa di ricevere notizie della loro causa. Benché tutti appartengano chiaramente ad un ceto elevato, il loro aspetto è arrendevole e dimesso, evidentemente per le molte umiliazioni ricevute. Josef K. prova un fiero disprezzo per quegli uomini rassegnati ed acquiescenti e, non nascondendo la sua aria di sprezzante superiorità, giunge perfino a schernirli e maltrattarli. Ma quando, oppresso dall’aria soffocante e insopportabile delle cancellerie, K. è costretto a trascinarsi penosamente all’uscita sorretto da due persone, la situazione si capovolge: agli occhi degli stessi imputati si presenta ora un uomo profondamente cambiato, prostrato e mortificato, oggetto per giunta del sarcasmo dei suoi soccorritori. In queste pagine il simbolismo di Kafka assurge a livelli di straordinaria efficacia. I luoghi in cui regna la Legge appaiono come luoghi claustrofobici, mefitici e irrespirabili. La Legge vizia l’aria della vita, distrugge la libertà e la freschezza dell’universo, soffoca l’uomo e gli impedisce di respirare liberamente. Non appena K. raggiunge l’uscita, “ecco arrivargli, come se la parete davanti a lui si fosse squarciata, una corrente d’aria fresca”; il malessere scompare all’improvviso e, mentre le forze ritornano miracolosamente in lui, K. si allontana di corsa per le scale. Ma ormai il cerchio del processo si è stretto inesorabilmente intorno a lui e lo ha catturato. Josef K. non può più vivere che in funzione del processo e tutto, dal lavoro in banca agli svaghi, deve essere sacrificato alla sua difesa. “Il disprezzo che prima aveva provato per il processo non contava più… Egli non era quasi più in grado di scegliere se accettarlo o respingerlo, ormai c’era dentro e doveva difendersi. Se era stanco, peggio per lui”. La spavalda sicurezza iniziale di K. ha sortito il solo effetto di rendere più dolorosa ed umiliante la sua sconfitta. Perduta con il passare del tempo la fede nel naturale emergere della propria innocenza e diventato egli stesso un patetico personaggio al pari di quegli imputati verso i quali provava prima tanto disprezzo.
“Il processo” è, secondo la definizione di Carlo Sgorlon, una vera e propria “proiezione scenografica di un ancestrale complesso di colpa”. Nessun ragionamento è in grado di eliminare il senso originario della colpa: esso cresce, si diffonde, diventa sempre più grande e insopportabile fino ad annientare totalmente la coscienza. Pur essendo formalmente libero e desideroso di dimenticare l’esperienza del processo, Josef K. è come se fosse rinchiuso tra le sbarre di una prigione come l’ultimo dei carcerati. La cupa ombra del sospetto non lo abbandona neppure per un istante, mentre tutte le persone con cui si imbatte casualmente per strada, dal ragazzo incontrato nell’androne di casa ai tre scialbi impiegati di banca che hanno assistito in disparte alla scena iniziale dell’arresto, sono inconsciamente messe in relazione con il processo, quasi fossero anonime pedine dell’organizzazione incaricate di tenerlo sotto controllo. D’altra parte, il suo comprensibile desiderio di riserbo e di discrezione è vanificato dal fatto che tutti intorno a K. sono a conoscenza del processo, anzi sembrano per una ragione misteriosa saperne molto più di lui. Quando, nell’ufficio della banca, l’industriale lo interpella a bruciapelo sull’andamento del processo, confessandogli poi di ricevere spesso qualche notizia dal Tribunale, Josef K. commenta sconsolato tra sé: “Quanta gente ha rapporti col Tribunale!”. Il pittore Titorelli, ambiguamente immischiato nel mondo dei giudici e delle cancellerie, glielo conferma più tardi quando, fra lo scherzo e la spiegazione, gli confida: “Tutto fa parte del Tribunale”. Al senso di colpa non si può quindi sfuggire. Siccome esso proviene da un’autorità superiore e inappellabile non si può fare altro che accettarlo remissivamente. Ne “La colonia penale”, che ho citato all’inizio, Kafka aveva affermato che per l’Essere giudicante la colpa è sempre fuori discussione: ora ne “Il processo” questa consapevolezza si è propagata come un cancro nell’animo dell’uomo, annientandolo.
Insieme alla paura di aver violato la Legge, vi è talvolta nei personaggi kafkiani l’atroce sospetto di avere commesso un errore iniziale che possa vanificare tutti i loro sforzi, il dubbio di avere imboccato fin dal principio una strada sbagliata. La stessa decisione di K. di scrivere una comparsa difensiva in grado di rievocare tutti i fatti della propria vita non è altro che lo sforzo disperato di scoprire un qualsiasi indizio in grado di rimandare ad una colpa sconosciuta. La ricerca di questa colpa diventa per l’uomo una questione vitale, perché solo trovandola egli riuscirebbe a giustificare razionalmente la sua incapacità di raggiungere la rivelazione. Kafka avverte però nel racconto “I patrocinatori” che non c’è più il tempo di voltarsi indietro: “Il tempo che ti è assegnato è così breve che se perdi un secondo, hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il tempo che perdi. Se dunque hai imboccato una via, prosegui per quella in qualunque circostanza, non puoi che guadagnare, non corri alcun pericolo, alla fine forse precipiterai, ma se ti fossi voltato indietro fin dopo i primi passi e fossi sceso giù per la scala, saresti precipitato fin da principio, e non forse, ma certissimamente”. Novello Sisifo, l’uomo di Kafka è così costretto ad andare sempre più avanti, facendo rotolare il greve peso della sua colpa.
La filosofia di Kafka può essere anche sintetizzata, a mio avviso, come la tragedia della ragione che, pur sognando di sollevarsi dal relativo, non riesce, per quanti sforzi essa faccia, a raggiungere l’Assoluto. “Il processo” è infatti senza dubbio centrato sul problema della colpa e della punizione, ma può allo stesso tempo essere letto come una disperata ricerca di Dio da parte dell’individuo. In questa prometeica scalata all’Olimpo, Josef K. è completamente solo. Non voglio riferirmi qui alla solitudine intesa come impossibilità di intrattenere rapporti umani, bensì alla solitudine metafisica che prova colui che, dopo aver abbandonato il consesso degli uomini, si incammina senza conoscere la meta lungo l’impervio sentiero della conoscenza eterna, a quella cioè, narrata dal cappellano del duomo nella parabola “Davanti alla legge”, dell’uomo di campagna che si presenta davanti alla porta della Legge. E’ significativo che, nel finale della leggenda, il guardiano dica al contadino, proiezione simbolica dell’imputato del romanzo: “Questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”. Parimenti, in una sorta di simmetrica apertura di parentesi, quando K. si reca al primo interrogatorio, la donna che lo invita a entrare nella grottesca aula del tribunale gli sussurra: “Dopo di lei devo chiudere, nessun altro potrà più entrare”. In questo solitario tentativo di giungere fino al giudice supremo, Josef K. tocca con mano la terribile lontananza della sfera umana da quella divina, distanza che è materializzata nel romanzo dalla elefantiaca e labirintica burocrazia, nella cui enigmatica sfera i valori sono costantemente sovvertiti e l’assurdo diventa la normalità.
Pur dedicando tutta la sua vita al tentativo di venire a capo dell’imputazione mossagli dall’enigmatico tribunale, Josef K. morirà senza riuscire a conoscere la colpa commessa. Una mattina due uomini si presentano alla porta della sua camera e, senza che venga opposta da parte sua alcuna resistenza, lo conducono ad una cava di pietra, dove uno dei due lo uccide brutalmente colpendolo al cuore con un coltello da macellaio. L’ultimo disperato pensiero di Josef K. prima dell’esecuzione è l’impressione che la vergogna sia destinata a sopravvivergli. La morte “come un cane” di Josef K. è uno straziante grido di dolore levato al cielo, che oppone fino all’ultimo la sua glaciale incomprensibilità a chi gli chiede soccorso. La malvagità del fantomatico dio kafkiano raggiunge qui il suo culmine e fa riecheggiare le presaghe parole che Josef K. aveva pronunciato a Titorelli: “Un unico giustiziere potrebbe sostituire l’intero tribunale”. L’iniquità divina è per Kafka assoluta e indubitabile, e all’uomo non resta che sperimentare fino all’estremo istante sulla propria pelle l’estenuante assurdità del mondo.
Indicazioni utili
I CIECHI SIAMO NOI
“La paura acceca, disse la ragazza dagli occhiali scuri, Parole giuste, eravamo già ciechi nel momento in cui lo siamo diventati, la paura ci ha accecato, la paura ci manterrà ciechi"
Il referente letterario d’obbligo di “Cecità”, il romanzo al quale il lettore istintivamente lo associa e con cui lo confronta, è sicuramente “La peste” di Camus. Entrambe le opere infatti parlano di un terribile e inarrestabile contagio e, in secondo luogo, sono essenzialmente metaforiche, rimandano cioè a una situazione più ampia e onnicomprensiva di quella rappresentata in superficie; anche se - questa è la prima e forse più importante differenza - ne “La peste”, scritta a guerra mondiale appena conclusa, l’epidemia simboleggiava inequivocabilmente l’ascesa e l’avanzata del nazismo, mentre in “Cecità” Saramago non vuole essere ingabbiato in interpretazioni storico-politiche circoscritte, preferendo invece, cosa che gli si confà assai di più, l’astrazione dell’apologo fantastico. La chiave di lettura più attendibile ce la dà però, nell’ultima pagina del libro, la moglie del dottore quando dice: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, […], Ciechi che, pur vedendo, non vedono”. Con questa affermazione il messaggio dell’autore, da pseudo-fantascientifico quale poteva sembrare a prima vista, viene infatti spostato decisamente sull’oggi. I ciechi che si aggirano come fantasmi in un mondo esausto, sporco, barbaro e violento, siamo proprio noi, “ciechi che, pur vedendo, non vedono” dove sta andando il pianeta, vale a dire verso l’insopportabile divaricazione dei livelli di vita tra Nord e Sud del mondo (i paesi ricchi sempre più ricchi, quelli poveri sempre più poveri), verso l’esaurimento delle risorse naturali, verso lo sfruttamento selvaggio di quel poco che ancora rimane. Emblematico appare l’ordine sociale che si instaura, in assenza di qualsiasi legge civile e di un’autorità riconosciuta, nell’ex manicomio dove vengono rinchiusi i primi ciechi: in breve tempo, al di là di ogni immaginazione e contravvenendo al luogo comune che vorrebbe i malati esseri più sensibili della norma e solidali gli uni con gli altri, a prevalere è l’anarchia, la sopraffazione, la violenza più odiosa (gli stupri collettivi cui le donne sono sottoposte, con l’umiliante connivenza degli uomini che altrimenti non riuscirebbero ad ottenere il cibo necessario per sopravvivere). Chi non vede in questo la metafora dell’imperialismo, del capitalismo selvaggio e in generale degli squilibri economici, politici e demografici del pianeta (pochi ciechi possiedono armi, cibo e ricchezze a danno di tutti gli altri, che sono poveri, affamati, vessati e in soprannumero)?
La seconda chiave di lettura di “Cecità” è meno allegorica. Saramago, da impareggiabile umanista quale egli è, si propone di verificare dove può giungere l’uomo, o meglio quel quid misterioso che lo fa essere uomo, diverso dagli animali, in una parola la sua umanità (o anima o spirito che dir si voglia), se rimane privo dei più elementari strumenti di sopravvivenza, gli occhi per vedere, il cibo per nutrirsi, l’acqua per lavarsi. La conclusione sconsolata dello scrittore lusitano è che, privo di tutte quelle certezze che la civiltà gli garantisce e che vengono date in gran parte per scontate, egli regredisce ben presto a uno stadio subumano, bestiale, sia da un punto di vista fisico sia, ciò che più importa, sotto un aspetto squisitamente morale: tutto diventa lecito, l’indifferenza verso il prossimo è totale, ciò che conta è unicamente la propria sopravvivenza e il proprio personale tornaconto. Il pessimismo di Saramago è assoluto e apparentemente senza vie di uscita, soprattutto nella prima parte ambientata nell’ex manicomio, dove oltretutto il punto di vista è claustrofobico (“Il mondo è tutto qui dentro” dice la moglie dell’oculista), gli avvenimenti esterni sono completamente assenti (togliendo così ogni residua occasione di suspense narrativa) e il muro di cinta un ostacolo invalicabile anche per il lettore. Poi, quasi come se, toccato il punto più basso ed infimo, qualcosa di meglio (o di meno peggio) dovesse per forza toccare in sorte ai personaggi, lo scrittore portoghese apre un piccolo spiraglio alla speranza. E lo fa con un’altra di quelle strambe e anomale famiglie che spesso popolano i suoi romanzi (penso a “La zattera di pietra”, ricollegabile a “Cecità” anche per il tema dell’evento inspiegabile del quale i personaggi sono vittime, e a “La caverna”): guidati da quell’eccezionale personaggio-vate che è la moglie del medico (l’unica persona ad avere conservato la vista), due uomini, due donne, un vecchio, un bambino e (non poteva mancare) un cane, vanno faticosamente in giro per il mondo affermando giorno per giorno, con la solidarietà reciproca, con il rispetto per quel poco di umanità che ancora resta in loro stessi, con la dignità difesa dalla subdola tentazione di lasciarsi andare e, soprattutto, con il senso di responsabilità e di servizio verso il prossimo (la moglie dell’oculista che prima, pur non essendo malata, finge di esserlo per seguire il marito nella sua reclusione, e poi si consuma e si sfinisce nel voler essere gli occhi che mancano a chi è attorno a lei), che un futuro diverso è ancora possibile. Infine, nelle ultime pagine, dopo che in precedenza ci aveva fatto toccare l’orrore più puro e descritto la miseria dell’uomo ridotto alla sua dimensione più ripugnante e scatologica, Saramago fa tornare la vista a tutti, così, inspiegabilmente come all’inizio l’avevano persa, con un’inattesa e repentina facilità che sembra voler affermare, ad onta di ogni evidenza, che in questa nostra vita pericolosamente in preda alla cecità della ragione non tutto forse è ancora perduto.
Indicazioni utili
"La zattera di pietra" di José Saramago
"La caverna" di José Saramago
IL PREZZO DEL SOGNO
Una dozzina d’anni fa Gabriele Muccino girò in America un film intitolato “La ricerca della felicità”. Questa pellicola, al di là del suo effettivo valore artistico, aveva il pregio di mettere al centro della trama quello che ritengo sia il fulcro dell’american way of life, ossia il diritto-dovere di lottare per migliorare la propria condizione personale e di ottenere, grazie esclusivamente alle proprie forze, al proprio ingegno e al proprio lavoro, il successo e l’affermazione sociale, la felicità appunto. Se il cinema hollywoodiano, che fin dalle sue origini ama flirtare con l’happy ending, è sempre stato pieno, da Frank Capra fino ai giorni nostri, di storie che si concludono con l’esaltazione apologetica del sogno americano, la letteratura statunitense è stata al contrario maggiormente critica nei confronti di questo sogno, a cui ha spesso (basti pensare a Steinbeck, per fare un solo nome) attribuito le fattezze di una illusoria e crudele chimera. Grossomodo a metà strada si situa l’ultima voce della narrativa d’oltreoceano, Imbolo Mbue, camerunense d’origine e americana d’adozione, che con “Siamo noi i sognatori” (vincitore nel 2017 del PEN/Faulkner Fiction Award) ha voluto dare la sua personale versione dell’american dream. Il suo libro racconta l’odissea della famiglia Jonga, emigrata in America in cerca di fortuna e di migliori opportunità per i propri figli, ma la cui condizione “irregolare”, dovuta alle difficoltà di entrare in possesso della agognata green card e di ottenere in tal modo la cittadinanza americana, la espone a tutte le incertezze e le traversie che al giorno d’oggi accomunano i migranti di tutto il mondo e che i notiziari televisivi continuano quotidianamente a portare, nella loro crudezza, fin dentro le nostre case. Il capofamiglia, Jende, riesce all’inizio del romanzo a ottenere un ben remunerato impiego come autista al servizio di un facoltoso dirigente finanziario di Wall Street, e questo colpo di fortuna sembra indirizzare positivamente i destini della famiglia: le entrate permettono di mettere da parte dei risparmi per i tempi bui, di pagare gli studi della moglie Neni per diventare farmacista e di togliersi perfino dei piccoli sfizi. Al primogenito Liomi si aggiunge una seconda figlia, e l’America appare davvero il paese dove scorrono “latte, miele e libertà”. La crisi economica è però in agguato (siamo nel 2008, e il datore di lavoro di Jende lavora proprio per quella Lehman Brothers il cui fallimento è stato all’origine della più lunga e devastante recessione mondiale dopo quella del 1929) e l’Ufficio Immigrazione tenta in ogni modo di mettere i bastoni tra le ruote del sogno dei Jonga di diventare cittadini americani.
Se nel romanzo della Mbue gli agili e brevi capitoli seguono alternativamente le vicende di Jende e di Neni, raccontando gioie e dolori della loro vita newyorkese, altrettanto vivide si stagliano le figure deuteragonistiche dei coniugi Edwards, Clark e Cindy, le cui telefonate private, gli sfoghi emotivi e perfino le confessioni intime Jende ha modo di ascoltare mentre accompagna il marito alle riunioni di lavoro e la moglie ai pranzi con le amiche. Quando Neni viene a sua volta assunta come domestica e bambinaia per un’estate, ella diviene addirittura una preziosa confidente della ricca e avvenente padrona di casa, lenendo con premurosa sollecitudine la sue angosce. Ben presto si scopre infatti che dietro alla sfarzosa vita degli Edwards (con domestici e autisti che si prendono cura di loro ad ogni ora del giorno, un appartamento nell’Upper East Side e una seconda casa negli Hamptons) non tutto è perfetto come sembra: Clark passa la maggior parte del tempo lontano dalla famiglia e sfoga lo stress lavorativo per mezzo di incontri clandestini con escort di lusso; Cindy annega la sua depressione nell’alcool e nelle pillole; il figlio primogenito Vince manda provocatoriamente all’aria gli ambiziosi piani predisposti per lui dai genitori per andare in India in cerca di pace e di spiritualità. Insomma, se uno degli intenti delle soap opera era, lo ricordiamo, quello di dimostrare che “anche i ricchi piangono”, beh, allora il libro della Mbue può assomigliare un po’ anch’esso a una soap.
In realtà l’approccio scelto in “Siamo noi i sognatori” è molto più problematico di quanto appaia ad una frettolosa lettura. La scrittrice afro-americana riesce infatti nell’intento di analizzare con intelligenza (ed anche una insospettabile leggerezza) la struttura dei rapporti economici del mondo del XXI secolo, un mondo spietato e iniquo che invita chiunque a entrare per assaporare le delizie della società consumistica, ma che, nella sua apparente democraticità, non fa che perpetuare le disuguaglianze e le disparità sociali, a partire dal significato stesso che per ciascuno dei personaggi ha il lavoro. Per gli Edwards esso è il mezzo per mantenere i propri privilegi e i propri status symbol, per i Jonga è l’unica possibilità per non perdere il diritto a rimanere in America e, evitando l’espulsione, a garantire ai propri figli un futuro dignitoso. Anche la crisi economica non è uguale per tutti. Se per gli Ewards essa significa un abbassamento temporaneo del tenore di vita, per i Jonga è invece la rovina completa, il fallimento. Viene qui adombrata in chiave contemporanea la concezione marxista della storia, con la sua divisione della società per classi, il carattere eminentemente transazionale dei rapporti umani e l’alienazione sociale che si riflette persino nelle vite private (“Per la prima volta nella loro lunga storia d’amore ebbe paura che la picchiasse. Era quasi certa che l’avrebbe picchiata. E se l’avesse fatto, avrebbe saputo che non era il suo Jende che la picchiava, ma un essere grottesco creato dalle sofferenze di una vita da immigrato in America.”). C’è una differenza sostanziale, però, rispetto al marxismo: da parte delle classi sociali più povere, degli immigrati e del sottoproletariato urbano vi è una adesione incondizionata all’american way of life, e mai si intuisce alcuna autentica velleità trasformatrice della società. Il signor Edwards è il modello a cui la famiglia di Jende aspira (“un giorno diventerai un pezzo grosso di Wall Street come il signor Edwards”, confida Neni al figlio), e neppure l’improvviso e inopinato licenziamento è in grado di mettere in discussione questa granitica certezza. Anche quando Neni decide di venire sorprendentemente meno ai propri valori morali per salvare la propria famiglia a spese della signora Edwards, non c’è in questa scelta alcuna rivendicazione ideologica né tantomeno alcun rancore personale represso, ma semplicemente un disperato espediente alla Filumena Marturano.
Non posso negare che il romanzo della Mbue soffra di un certo didascalismo di fondo. Si prenda ad esempio il sogno premonitore di Jende, in cui gli imbroglioni che hanno truffato la madre dell’amico prefigurano gli speculatori di Wall Street che con i subprime e i derivati hanno rovinato decine di migliaia di risparmiatori. Viene poi accennato (anche se ironicamente smentito) un parallelismo tra l’America della crisi economica e l’Egitto delle bibliche piaghe, come se le due calamità siano state un comune castigo nei confronti di chi aveva “preferito la ricchezza alla rettitudine, la rapacità alla giustizia”. Anche al netto di certe ovvie semplificazioni, ritenute evidentemente necessarie per far comprendere al lettore medio gli effetti sul mondo reale di una crisi finanziaria epocale (ad esempio, il meccanismo perverso dei prestiti che le banche concedevano largamente prima del 2008 anche a chi non poteva concedere alcuna garanzia viene sintetizzato nel caso di un amico di Jende, il quale perde la casa non potendo più pagare le rate del mutuo), “Siamo noi i sognatori” è un’opera che vanta una discreta complessità psicologica. La perdita del posto di lavoro, l’improvviso abbassamento del tenore di vita e, soprattutto, la paura di dover abbandonare gli Stati Uniti per sempre, innescano nei coniugi Jonga una serie di reazioni non scontate, di dolorosi adattamenti alla realtà, di metamorfosi caratteriali (anche nei rapporti reciproci), che portano Jende e Neni alla fine del romanzo ad essere molto diversi dalle figure candide e ingenue che erano all’inizio (Neni arriva a pensare di divorziare dal marito e fare un matrimonio di convenienza con un americano pur di ottenere la cittadinanza, o addirittura di dare in adozione il figlio per permettergli di continuare a vivere negli Stati Uniti). La Mbue è sincera e parla di cose che evidentemente conosce molto bene, dal momento che molte peripezie passate dai protagonisti devono anche essere state le sue, da quando, diciassettenne, mise per la prima volta piede negli Stati Uniti. La sua prosa semplice e scorrevole, abbastanza elementare nella sintassi e nel lessico (con il ricorso frequente a termini africani), è comunque efficace (nonostante qualche buonismo di troppo) nel costruire personaggi di notevole spessore (soprattutto quelli femminili di Neni e Cindy, dolorosamente sfaccettati, a fronte di una maggiore prevedibilità di quelli maschili) e nel mettere a confronto (a volte anche con effetti che rasentano l’umorismo) due culture così diverse e per certi versi inconciliabili come quella occidentale e quella africana. Il finale conciliatorio, che sembra contraddire il cinismo di altre parti del romanzo, non deve trarre in inganno. Quella che risuona nella testa del lettore, una volta chiuso il libro, è soprattutto una domanda (che la situazione dell’America odierna, in cui a Obama è succeduto Trump, rende ancora più pressante): se il sogno americano è quello descritto dalla Mbue, valeva davvero la pena sognarlo?
ESSERE E NON ESSERE
“Io a volte non so, quando quest’uomo è solo – chiuso al buio in una stanza, steso su un letto, uomo al mondo lui solo – io quasi non so s’io non sono, invece del suo scrittore, lui stesso.
Ma, s’io scrivo di lui, non è per lui stesso; è per qualcosa che ho capito e debbo far conoscere: e io l’ho capita; io l’ho; e io, non lui, la dico."
“Uomini e no” è stato scritto nel 1945, molto vicino quindi agli avvenimenti raccontati. Eppure, rispetto ad altri libri sulla resistenza, esso presenta un taglio molto particolare. La lotta armata dei partigiani, i rastrellamenti dei fascisti, le rappresaglie dei tedeschi, sono infatti sì narrate realisticamente, nei minimi dettagli, ma anche con una sorta di straniamento, di distanziazione emotiva. Vittorini non intende scrivere una sorta de “Il partigiano Enne 2”, bensì privilegiare da una parte la riflessione politico-morale, dall’altra la dimensione introspettiva e intimista. Per quanto riguarda la prima, lo scrittore è manicheo fin dal titolo: scegliere la resistenza o il fascismo, i partigiani o gli “uomini con la testa di morto sul berretto” può forse essere casuale (come nel film “Cognome e nome: Lacombe Lucien” di Louis Malle), dipendere da pigrizia, opportunismo, ignavia e non da una decisione meditata, ma non è mai eticamente indifferente. Se anche i ragazzi della milizia sono potenzialmente delle brave persone che trovano inconcepibile ammazzare a sangue freddo uno di loro che sta dall’altra parte, la loro scelta di sbadigliare e di voltarsi dall’altra parte per non vedere le nefandezze del regime e gli orrori dell’occupazione li condanna senza possibilità di appello. Per Vittorini non vi possono essere compromessi e ambiguità: i partigiani sono uomini (semplici e pacifici anche quando uccidono, capaci di morire per la libertà altrui), i fascisti no. Bisogna avere l’onestà morale di tracciare una netta linea di demarcazione tra bene e male, tra giusto e ingiusto, perché ogni uomo (ad esempio, l’operaio che nell’ultimo capitolo si unisce alla resistenza) ha avuto la possibilità, anche se non sempre facile, di scegliere da che parte stare: o di qua o di là. In alcune bellissime pagine, Vittorini si interroga se tutto quello che opprime l’uomo e ne offende la dignità è in qualche modo nell’uomo, dentro all’uomo o fuori di lui, se può essere confinato nel “comodo” territorio della pazzia o della bestialità oppure no, e la sua risposta è che tutti noi siamo potenzialmente mostri od eroi, e solo la nostra capacità, magari innata, magari istintiva e pre-logica, di discernimento morale (Enne 2 sa che deve rimanere nella casa e “perdersi”, ma solo l’operaio gli fa capire in un secondo momento il perché) ci fa essere uomini giusti o uomini sbagliati, patrioti od oppressori.
La terza dimensione del romanzo, dopo quella per così dire realistica e quella politica, è anche la più sorprendente e innovativa. Enne 2 è un po’ come certi eroi dei film di Melville che fanno rapine, uccidono, vivono avventure fuori del comune, ma poi, una volta a casa propria, tornano a essere uomini che soffrono per la solitudine o per la mancanza di una donna. In questo senso, Enne 2 è, in un’epoca storica in cui si sopravvive a stento e si lotta quasi senza speranza, solo per resistere, un anacronistico epigono del romanticismo (o addirittura un esistenzialista ante litteram), che si tormenta perché non può avere vicino a sé la donna che ama e da cui è riamato, e che in questa impari sfida ingaggiata col destino, ossessionato dai compagni che si sono perduti e che lui non è stato in grado di salvare, alla ricerca di una semplicità che egli vede negli altri ma che fatica a trovare in se stesso, finisce per abbandonarsi alla seduzione dell’annullamento e del sacrificio supremo. In queste accensioni simboliche e psicanalitiche, in cui Milano viene descritta come un deserto, materializzazione inquietante dell’anima del protagonista, e persino il nemico per eccellenza, Cane Nero, sembra una figura mentale e teorica, lo scrittore si astrae dal suo ruolo e diventa egli stesso un personaggio (lo “spettro”), svelando la natura fittizia della sua creatura nel medesimo momento in cui si rivela come “io”. C’è peraltro una sorta di simbiosi, di identificazione tra autore e Enne 2, che si evidenzia soprattutto nei viaggi a ritroso nell’infanzia del protagonista, in cui si può intuire quasi un mesto “amarcord” autobiografico. Il massimo dell’astrazione si coniuga perciò con il massimo della realtà, sia pure deformata in chiave lirico-poetica, ed in questa ossimorica contrapposizione risiede lo strano fascino del romanzo.
Non si può comunque dire che Enne 2 sia l’unico protagonista di “Uomini e no”. Altri personaggi si ritagliano un loro spazio importante, da Gracco, che “sempre conversava con chi incontrava,…, come tra un uomo e un uomo si fa, o come un uomo fa da solo, di cose che sappiamo e a cui pur cerchiamo una risposta nuova, una risposta strana, una svolta di parole che cambi il corso, in un modo o in un altro, della nostra consapevolezza”; a Figlio-di-Dio, che instaura un muto e surreale dialogo col cane dell’aguzzino tedesco per convincerlo a recedere dal ruolo cui è stato incolpevolmente destinato, ma che alla fine è costretto a sopprimerlo; a El Paso il quale, spacciatosi per diplomatico spagnolo, partecipa alle orge dei nazisti, costringendoli beffardamente a brindare in onore dei partigiani uccisi; a Orazio e Metastasio, inseparabili compagni di lotta, di vita e di lavoro. Le loro parole (così come le loro azioni) sono tutte di una estrema semplicità, i loro dialoghi scorrono lineari e scabri. Così è anche lo stile del romanzo, privo di ridondanze e di preziosismi linguistici e pieno invece di conversazioni in cui le risposte replicano tautologicamente le domande, quasi l’autore volesse sfrondare i concetti di ogni possibile fraintendimento verbale, presentarli nella loro nuda, sobria essenzialità e mettere alfine in evidenza quello che è il suo messaggio più autentico: la necessità cioè di non far cadere nel vuoto l’esempio dei caduti per la libertà (non una libertà generica, ma la libertà di ogni essere umano) e il conseguente obbligo per i sopravvissuti di imparare, di capire, di acquisire una nuova e rigenerata consapevolezza per far sì che le pagine nere della storia non si ripetano mai più.
Indicazioni utili
ALLA RICERCA DELLE COLPE DEI PADRI
“Il signor Mani” è un romanzo sperimentale e simbolico. Esso è anzitutto strutturato in forma di dialogo, di un dialogo però alquanto sui generis, in quanto viene riportata solo la parte di uno dei due interlocutori, come se il lettore assistesse a una conversazione telefonica da un solo capo del filo. Attraverso questi dialoghi-monologhi viene tracciata in maniera indiretta, obliqua, trasversale (in quanto i protagonisti sono solo evocati da personaggi di contorno che hanno casualmente incrociato le loro traiettorie esistenziali) la storia di una famiglia ebrea nell’arco di un secolo e mezzo. Queste conversazioni che abbiamo visto non avere niente a che fare con la struttura teatrale tradizionale (del tipo domanda di A e risposta di B) e che escludono del tutto (a parte l’ultimo dialogo) i personaggi principali, partono dall’oggi e, anziché seguire un andamento cronologico progressivo, risalgono indietro nel tempo, svelando così il senso degli avvenimenti attuali solo gradualmente, a scoppio ritardato. A parte i dialoghi, c’è inoltre per ognuno di essi un prologo di presentazione dei personaggi e un epilogo di aggiornamento biografico, redatti in maniera fredda ed enciclopedica, un po’ come aveva fatto Böll in “Foto di gruppo con signora”. Alla luce di queste considerazioni, si può comprendere come la storia dei Mani venga alla luce in maniera forzatamente frammentaria e lacunosa (i vuoti narrativi sono di diversi decenni, le vicissitudini dei Mani vengono viste attraverso una prospettiva esterna, anche se la scelta di momenti storici cruciali come la Seconda Guerra Mondiale le rende in qualche modo emblematiche), evitando in tal modo all’autore la tentazione di scrivere una saga familiare classica e trasformando i Mani stessi in una grande metafora dell’ebraismo.
Se quello sperimentale è forse l’aspetto più lambiccato e macchinoso dell’opera, il coté simbolico è sicuramente il più affascinante. L’impulso suicida del primo Mani (l’ultimo cronologicamente parlando), apparentemente immotivato e inspiegabile, man mano che il libro va avanti assume i contorni di una maledizione ancestrale che viene trasmessa di generazione in generazione, fino a trovare con l’ultimo Mani (in realtà il primo della genealogia) la sua ragione in un vero e proprio peccato originale, l’incesto con cui l’anziano Abraham consente alla nuora di mettere alla luce un nuovo Mani, permettendo così alla stirpe di non estinguersi. Questa trasgressione originaria ritorna inconsciamente nelle generazioni successive, le quali cercano di espiare l’atavica colpa mettendo in atto ossessivi e irrefrenabili comportamenti autodistruttivi: Moshé Mani muore nel 1899 gettandosi sotto un treno, apparentemente per aver perso la testa per una giovane e avvenente ebrea tedesca; il figlio Josef fa di tutto per essere giustiziato durante la Grande Guerra per alto tradimento; e così via fino al giudice Gabriel che ai giorni nostri viene casualmente distolto dai suoi tentativi di suicidio a causa dell’arrivo improvviso nella sua casa della fidanzata del figlio. Benché non sia di immediata decifrazione, non è troppo difficile leggere in questi assurdi comportamenti una metafora dell’ebraismo: il peccato dei Mani non è altro infatti che la colpa primigenia del Popolo Eletto, vale a dire l’uccisione del Cristo, che si ripercuote nei secoli contro di loro, sia sotto forma di persecuzioni (le diaspore, l’Olocausto) e pregiudizi ostili, sia sotto forma di impulsi masochisti (l’orgoglioso isolamento religioso, geografico e politico). I vari Mani cercano strenuamente di opporsi a questa maledizione, sia in virtù di una sorta di preveggenza, come se leggessero in una sfera di cristallo la catastrofica situazione dell’Israele di oggi (il Josef del 1848 che è spinto dal “desiderio di unire le persone fra di loro e lottare contro tutto quanto gli pareva una chiusura, una forma di isolamento”, il Josef di mezzo secolo dopo che esorta arabi ed ebrei a darsi una identità politica e a creare le condizioni di una pacifica convivenza, fino ad allora garantita dal dominio straniero), sia per mezzo del loro pratico buon senso (Efraim che, in piena Seconda Guerra Mondiale, tenta di “autoannullarsi” per evitare la deportazione), ma tutto è inutile, e la loro tragica, ineluttabile eredità continua a essere trasmessa fino ai nostri giorni, simbolo di quel dilaniante conflitto che vediamo tragicamente riempire, con stragi di kamikaze, bombardamenti e sanguinose repressioni, le pagine di tutti i giornali.
La vocazione metaforica di Yehoshua si sostanzia in una scrittura criptica, ricca di corsi e ricorsi, leit motiv e doppi speculari. Non è solo l’ossessione suicida dei Mani a essere trasmessa di generazione in generazione come un esecrato testimone. Il giovane Josef nel 1848 penetra infatti nottetempo nelle case degli “ebrei che ancora non sanno di essere ebrei” per cercare prove della loro ebraicità, così come fa il tedesco Egon Brunner un secolo dopo per smascherare l’ebreo che sostiene di essersi “annullato” (con la segreta speranza che un giorno, giunto al redde rationem della storia, sia possibile anche per lui - nazista - annullare i propri crimini con un semplice atto di volontà). Anche gli oggetti riemergono nel corso dei decenni, come la pelliccia di volpe del patriarca Abraham che Moshé indossa prima di morire, o la clinica ginecologica trasformata al giorno d’oggi in condominio residenziale. C’è inoltre una vera profusione di doppi, dalla giovane e avvenente nuora di Josef, che ha una prodigiosa somiglianza con Flora, suo amore di gioventù e sposa dell’anziano rabbino suo maestro, ai tanti specchi della casa gerosolimitana che si riflettono tra loro, “e per un attimo non si sapeva più chi era chi e chi non era chi”. Tutto ne “Il signor Mani” è indistinto, opaco, doppio, ed ogni cosa è legata ad un’altra, in una catena senza soluzioni di continuità. Niente è ciò che appare a prima vista, ma rimanda a ragioni sotterranee, oscure, ancestrali, che conferiscono al romanzo un fascino borgesianamente labirintico, come labirintica è l’altra vera, grande protagonista, quella Gerusalemme in cui “ogni cosa è legata all’altra, e non c’è alcuna barriera invalicabile, e si può passare da una casa all’altra senza uscire per strada”, quella Gerusalemme crogiolo di razze e religioni, in cui convivono ebrei ashkenaziti e sefarditi, cristiani e musulmani, turchi e inglesi, europei e arabi, e di cui Yehoshua ci fa assaporare l’inebriante, stordente profumo di spezie e di deserto.
Indicazioni utili
SCACCO MATTO, MONSIEUR POPINGA
Kees Popinga è un assiduo, appassionato giocatore di scacchi. Il particolare non è secondario, perché come una vera e propria partita di scacchi, con le sue mosse e contromosse, le sue tattiche e strategie, egli affronta la sua originalissima avventura che, da un onesto e rispettabile impiego da procuratore, lo porta inopinatamente a diventare il ricercato numero uno della polizia criminale di Parigi. L’orgoglio di tenere in scacco le forze dell’ordine con la sua sola intelligenza, applicando nelle sue azioni quotidiane la stessa prudenza e la stessa sagacia di uno scacchista (ad esempio, non avere mai un metodo personale, facilmente identificabile, ma adattarsi sempre all’avversario che si ha di fronte), lo porta però fatalmente a trascurare le scarse risorse a disposizione (un alloggio da cambiare ogni notte, una giornata intera da riempire con una qualsivoglia occupazione, nessun abito di ricambio, pochi soldi in tasca), col risultato che, anziché diventare un novello Landru, finisce per cadere in un drammatico cul de sac. E come anni prima si era vendicato di una cocente sconfitta scacchistica in una partita ad handicap gettando un alfiere dell’avversario in un boccale di birra, così a Popinga non resta che reagire all’inevitabile arresto finale con una beffa estrema, rifugiandosi cioè come l’Enrico IV pirandelliano in una follia simulata.
Abile orchestratore di appassionanti meccanismi gialli, Simenon ne “L’uomo che guardava passare i treni” sceglie, a differenza di un normale romanzo poliziesco, di accentrare il mistero e la suspense non tanto nella trama (ridotta fin dai titoli a una banale serie di accadimenti, ben lontana dall’epica romantica dell’uomo solo contro tutti) bensì nel protagonista stesso. Chi è infatti Popinga? Un paranoico, un megalomane, un pazzo, un satiro, come sostiene a più riprese la stampa che si occupa del caso? Oppure un eroe anarchico e ribelle che lucidamente, a sangue freddo, decide di tagliare i ponti con la società per vivere senza più regole, freni inibitori e costrizioni sociali, come Popinga stesso pretenderebbe che gli fosse pubblicamente riconosciuto? A questo proposito, a me Popinga ha fatto spesso pensare a “Lo straniero” di Camus (in versione ovviamente più ironica e leggera), sia per il suo palese distacco dalla realtà (che a tratti potrebbe quasi essere scambiato per afasia) sia per la sproporzione tra i suoi atti e le sue reazioni emotive (come nel caso dell’omicidio di Pamela).
Il riferimento letterario più appropriato tra tutti è però senza dubbio “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello. Il fallimento clamoroso (ancorché venato di un canzonatorio senso di superiorità nei confronti delle persone “normali”) di Kees Popinga, costretto a scegliere tra l’alternativa se suicidarsi o recitare la parte del pazzo, è l’amara presa di coscienza che l’individuo è sempre costretto a soccombere di fronte a una società che, per espungere dal suo seno la scheggia impazzita rappresentata da quell’omino sostanzialmente innocuo, non esita a mettergli contemporaneamente contro (come in “M, il mostro di Dusseldorf” di Fritz Lang!) la polizia e la malavita, violando così il fair play “scacchistico” del protagonista. A ben vedere, il vero trionfo di Popinga, cui per converso avrebbe corrisposto lo “scacco matto” per l’avversario, l’astuto commissario Lucas, sarebbe stato il perfetto anonimato (e non già la celebrità, alla quale lui stesso sembra a tratti improvvidamente credere, scrivendo spavaldamente a giornali e polizia e amplificando in tal modo la risonanza mediatica del suo personaggio), ma, in un mondo che pretende di controllare tutto e tutti, ciò non è davvero possibile e gli aspiranti “signor nessuno”, si chiamino essi Mattia Pascal o Kees Popinga, sono alfine tristemente costretti allo smascheramento e all’eliminazione (sia essa in una prigione o in un manicomio).
Indicazioni utili
IL PREZZO DELLA COLPA
Il canto del cigno “perfetto” di Philip Roth avrebbe ben potuto essere, nel 2006, “Everyman”, un libro “capace – citando le parole di Corrado Augias – di toccare le profondità ultime della vita e della morte”. Rileggendole, le parole di Roth riferite al destino del suo protagonista (“Non esisteva più, era stato liberato dal peso di esistere, era entrato nel nulla senza nemmeno saperlo. Proprio come aveva temuto dal principio.”) sembrano quasi profetiche al pensiero della recente morte dello scrittore americano. Invece Roth ha voluto dare il definitivo addio alla scrittura con un altro romanzo, “Nemesi”, apparentemente meno personale e autobiografico (a parte la consueta ambientazione nella città natale di Newark). Confesso di avere sempre avuto un debole per gli autori capaci di dare l’addio alle scene in bellezza, prima che il declino anagrafico si trasformasse inesorabilmente in malinconico declino artistico. Per fare un solo esempio, da genovese quale sono ho provato un grande rispetto, se non addirittura una incondizionata ammirazione, per Ivano Fossati quando ha deciso di congedarsi definitivamente dalla musica con un disco bello e profondo come “Decadancing”. E per lo stesso motivo ho gioito quando ho potuto constatare che, per fortuna, “Nemesi” è un romanzo inferiore ai suoi capolavori della fine del secolo scorso solo, forse, per numero di pagine, ma non certo per intensità e qualità di scrittura.
Il pregio di Roth per me è sempre stato quello di coniugare una estrema semplicità narrativa con una altrettanto evidente complessità tematica, tale da far sì che i personaggi dei suoi libri, con le loro singolari e spesso paradossali vicissitudini, assurgessero sempre a emblemi di una condizione umana universale. Quando racconta di Bucky Cantor, il giovane protagonista che nella torrida estate del 1944 si trova ad affrontare le tremende conseguenze di una virulenta epidemia di poliomelite che sconvolge la città di Newark, Roth fa sì l’affresco di un mondo e di un’epoca a lui familiari (dal momento che ritornano ossessivamente in molte sue opere), ma allo stesso tempo apre il romanzo a prospettive assai più ampie. Lo scrittore del New Jersey, anche se accusato da alcuni critici di scrivere sempre le stesse storie (è emblematica la posizione espressa da Carmen Callil la quale, dopo che a Roth era stato assegnato nel 2011 il prestigioso Man Booker Prize, aveva polemicamente affermato: “Continua a parlare dello stesso argomento in quasi tutti i suoi libri, è come se fosse seduto sul tuo viso non lasciandoti respirare.”), non era uno che amava guardarsi l’ombelico, anzi nel corso della sua carriera non ha esitato ad affrontare la distopia (“Il complotto contro l’America”) o l’allegoria politica (la “Trilogia americana”). Dei suoi libri “Il complotto contro l’America” è forse quello che più si avvicina a “Nemesi”, sia per il periodo storico (gli anni dell’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale) sia per l’ambientazione (il quartiere ebraico di Weequahic). Non so dire se, come nel romanzo precedente, lo spunto narrativo sia inventato, quello che conta è però che esso è del tutto verosimile. Anche se per la mia generazione la poliomelite è stata niente di più che una malattia di cui conosceva solo vagamente il significato, in quanto i moderni vaccini l’avevano per fortuna relegata (come il tifo, la difterite o il vaiolo) a un passato ormai lontano e superato, per coloro che erano nati negli anni ’20 e ’30 essa ha avuto infatti un ruolo per nulla secondario, anche se magari solo a livello psicologico, nelle loro biografie. Ricordo ad esempio che quando ero bambino veniva raccontata spesso a scuola la storia di Wilma Rudolph, la “gazzella nera” che nel 1960 aveva vinto tre medaglie d’oro alle Olimpiadi di Roma dopo che nella sua infanzia era stata vittima, come tanti altri suoi coetanei, della polio.
Nel romanzo di Roth l’epidemia che sconvolge Newark è contemporanea all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Viene perciò naturale la tentazione di leggere “Nemesi” come una allegoria, con il virus della malattia a simboleggiare un nemico assai meno invisibile. In effetti “Nemesi” ricorda per molti versi “La peste” di Camus: con la sua calma, la sua ponderazione e la sua ragionevolezza Bucky all’inizio sembra addirittura una nuova versione del dottor Rieux. L’analogia non va però molto più in là di una certa somiglianza di atmosfera. Certo, in alcune pagine fa capolino persino l’antisemitismo, quando un gruppo di teppisti italiani fa irruzione nel campo giochi sorvegliato da Bucky con l’intento provocatorio di portare la polio tra gli ebrei, oppure quando si paventa di mettere in quarantena l’intero quartiere ebraico di Weequahic, trasformandolo di fatto in un ghetto chiuso, e questi semplici accenni a un’intolleranza mai del tutto sopita anche nei democraticissimi Stati Uniti fa scorrere qualche brivido lungo la schiena. Ma quello che preme di più a Roth è raccontare il grande dilemma morale in cui si trova invischiato il protagonista, il quale all’inizio del libro ci viene presentato come l’eroe positivo per eccellenza. Istruttore di educazione fisica ed educatore di un campo giochi estivo, venerato dai ragazzi e rispettato dagli adulti per la sua integrità, la sua dedizione al lavoro, il suo senso del dovere e il suo patriottismo, Bucky Cantor rappresenta l’ideale dell’uomo medio americano, che non si crogiola mai nelle sue sfortune (è stato allevato dai nonni, in quanto la madre è morta al momento del parto e il padre è sparito dopo essere finito in prigione per furto), ma si adopera indefessamente per farsi largo nella vita ed uscire con onore da ogni situazione. Quando scoppia l’epidemia, Bucky si impegna a lottare contro la polio come un soldato, lui che dall’esercito è stato esonerato a causa dei suoi problemi di vista. La malattia che colpisce alcuni suoi ragazzi lo prostra come se si trattasse della morte di un commilitone in battaglia, ma la sua missione, nonostante egli possa fare ben poco per contrastare il dilagare del virus, è sempre quella di prestare conforto, dare sicurezza, lanciare inviti a non farsi prendere dal panico ed essere vicino a chi soffre. Quando la fidanzata Marcia lo convince a partire alla volta di Indian Hill, un campeggio estivo nelle salubri Pocono Mountains dove è chiamato a sostituire un educatore chiamato sotto le armi, Bucky vive il suo trasferimento come una forma di diserzione, una vergogna che neppure il profondo amore per la ragazza riesce del tutto a mitigare. Gli sviluppi della storia metteranno non solo in discussione i tetragoni valori del protagonista, ma addirittura lo condurranno a un esito imprevedibilmente tragico.
Viene da chiedersi a questo punto a cosa si riferisca la nemesi del titolo, una parola che richiama tragedie greche come “Le baccanti” di Euripide o “I Persiani” di Eschilo, oppure ancora antichi miti come quelli di Sisifo e di Prometeo. La nemesi non è qui, come potrebbe apparire a prima vista, la vendetta di Dio che punisce Bucky Cantor per essere improvvidamente assurto a eroe agli occhi della gente o per avere goduto immeritatamente di salute, amore e successo; essa è piuttosto la punizione che il protagonista infligge a se stesso per una colpa che non esiste e che lui certamente non ha commesso, ma che la sua esacerbata coscienza gli fa sentire come un’onta imperdonabile (quella di non aver saputo proteggere i “suoi” ragazzi prima, e averli addirittura involontariamente contagiati poi), fino al sacrificio supremo di condannarsi a una vita di solitudine e di rimorsi. Il suo ipertrofico senso di responsabilità, il suo voler essere un granitico uomo tutto d’un pezzo, fanno sì che Bucky si sostituisca a Marcia nel decidere in sua vece che rinunciare a lui, ridotto alla condizione di invalido, sia la cosa migliore per la felicità futura della ragazza, con ciò comminando a se stesso, come un novello Prometeo che si incatena da solo alla rupe del suo sconforto per farsi dilaniare il fegato dai suoi crudeli sensi di colpa, il più tremendo dei castighi, ossia la rinuncia all’amore (e più in generale al rispetto per se stesso, lui che prima era così virilmente fiero ed ora si sente un mezzo uomo, uno storpio il cui unico sentimento è rimasto l’odio per l’altrui commiserazione). Come acutamente osserva il narratore, Bucky Cantor si sostituisce addirittura a Dio nel prendersi la colpa di ciò che è accaduto, anzi si trasforma egli stesso nel tanto vituperato Dio che fa soffrire senza motivo i bambini innocenti. E’ questo il suo vero peccato, la sua hybris, non quello di essere stato un inconsapevole untore; ed è questo che rende Bucky Cantor un personaggio al tempo stesso detestabile e commovente, autenticamente tragico nella sua assoluta, maniacale disperazione (Roth dice di lui che “pareva che avesse vissuto su questa terra settemila anni di vergogna”). In Bucky si esprime tutto il profondo pessimismo dell’autore, quel pessimismo onnipresente che spesso in passato veniva celato dietro la maschera dell’ironia e della provocazione grottesca. La felicità per Roth non è evidentemente la condizione normale per gli esseri umani, e davanti ai nostri occhi Bucky Cantor appare come l’ultimo di una lunga galleria di anti-eroi americani segnati dal marchio della sconfitta (lo Svedese di “Pastorale americana”, l’Ira Ringold di “Ho sposato un comunista”, il Coleman Silk de “La macchia umana”). Anche se Roth nelle sue opere si è spesso “nascosto” dietro a dei narratori esterni (come nel caso della “Trilogia americana” con Zuckerman, anche in “Nemesi” la vicenda viene infatti raccontata da un testimone dei fatti che ha raccolto anni dopo le confidenze del protagonista), con ciò generando volutamente una sorta di raffreddamento emotivo delle sue storie, i personaggi rothiani hanno sempre saputo ritagliarsi un rapporto di empatia con il lettore, dimostrando di essere, pur nell’essenzialità dello stile o, nei suoi ultimi romanzi, nella concisione del racconto, ricchi di molteplici sfaccettature e sottigliezze psicologiche. La fine (prima quella artistica e poi, ineluttabilmente, quella fisica) di Philip Roth ci ha resi tutti tristemente consapevoli di come questi personaggi ci siano entrati profondamente nella carne e di quanto ci mancheranno negli anni a venire.
Indicazioni utili
"Pastorale americana" di Philip Roth
"La peste" di Albert Camus
PECORIN O DELL'IMPOSSIBILITA' DI ESSERE NORMALE
“E odiamo casualmente e casualmente amiamo / nulla sacrificando né all’odio né all’amore / e ci regna nell’animo un tal segreto gelo / seppur fuoco bolla nelle vene.” (Michail Jurevich Lermontov: “Meditazione”)
Scritto tra il 1838 e il 1840, in un’epoca in cui il romanzo moderno inteso come genere letterario autonomo non più debitore dei procedimenti stilistici della lirica, del poema epico e della tragedia, era ancora alla ricerca di una sua forma stabile e codificata, “Un eroe del nostro tempo” rappresenta una profonda e geniale innovazione nel campo della narrativa russa ed europea in genere. Anzitutto, la struttura dell’opera colpisce per la sua complessità e la sua capacità di far interagire diversi livelli di narrazione. A un primo io narrante, un viaggiatore di cui non veniamo a conoscere neppure il nome, si affianca infatti Maksim Maksimyc, un vecchio militare in guarnigioni di confine, uomo semplice e schietto, che, trovatosi casualmente ad essere compagno di viaggio del primo, rievoca un episodio di cinque anni prima, incentrato sulla figura del compagno d’armi Grigorij Aleksandrovic Pecorin; infine, tramite il suo diario che giunge nelle mani del primo io narrante, è Pecorin stesso a condurre fino al termine la storia.
Accanto a questa moltiplicazione di piani di racconto, si assiste a una sorprendente frammentazione temporale: perché se è vero che, in linea di principio, la consequenzialità cronologica della vicenda è rispettata (il primo io narrante e Maksim Maksimyc si incontrano durante il viaggio; dopo un paio di giorni si ritrovano a una stazione di posta, dove casualmente si trova a passare lo stesso Pecorin; qui, il primo io narrante riceve da Maksim Maksimyc il diario di Pecorin, che verrà pubblicato in seguito alla notizia della morte di quest’ultimo), in realtà la storia di Pecorin, che è il motivo centrale del romanzo, è discontinuo e procede con notevoli salti temporali. Al primo racconto che, come già detto, risale a cinque anni prima, fa seguito un’improvvisa quanto breve irruzione nel presente del protagonista, mentre con la lettura del diario si torna a un periodo ancora antecedente a quello narrato da Maksim Maksimyc (un anno? due anni?). Il personaggio di Pecorin è quindi una sorta di complicato puzzle, che è possibile interpretare solo attraverso il riordinamento delle varie stratificazioni temporali. Ciò del resto si rivela quanto mai congeniale a quella che può essere definita come la caratteristica principale del romanzo: l’attenzione riservata ai processi psicologici dei personaggi. Anche se non mancano in “Un eroe del nostro tempo” fastidiosi residui di romanticismo byroniano (penso alle reiterate descrizioni di caratteristici sfondi paesaggistici o di certi tipi di “primitivi”, e dai rapidi passaggi da una scena all’altra), la grande novità dell’opera lermontoviana è costituita proprio dall’accurata analisi della fisionomia interiore di Pecorin. Questi si delinea lentamente, con studiata gradualità, fino a stagliarsi con sempre maggior chiarezza e diventare alla fine una figura emblematica a tutto tondo.
Pecorin, dunque, è l’”eroe” del titolo. In quale senso debba essere inteso questo termine è difficile dire. Sicuramente non nell’accezione generalmente accolta (e abusata da troppa facile letteratura) dell’eroe nobile, generoso e disinteressato. Pecorin è infatti un personaggio inquieto, tormentato e disilluso e, se indubbiamente è vero che nella Russia di Nicola I, dopo il fallimento della rivolta decabrista, il rifiuto di accettare la realtà, la protesta individuale e lo sprezzante distacco dalla società acquistavano connotati “eroici”, non è a mio avviso in termini di critica politica indiretta che può essere spiegato il suo multiforme carattere. Non credo molto neppure alla tesi in base alla quale la locuzione “eroe del nostro tempo” starebbe a indicare un ironico rovesciamento di ruoli, per cui, ragionando a contrario, Pecorin altro non sarebbe se non un personaggio malvagio e immorale. La stessa precisazione dell’autore, secondo cui Pecorin “è un ritratto costituito dai vizi di tutta la nostra generazione, nel loro pieno sviluppo”, suona piuttosto come una giustificazione preventiva a possibili accuse di disfattismo che come una interpretazione autentica. Il personaggio di Pecorin è in realtà ben più profondo di quanto possa apparire a prima vista, e la grandezza di Lermontov consiste proprio nell’averlo reso un rappresentante esemplare di quella sottile ed ambigua malattia spirituale che potremmo definire mal du siécle.
Non si può mettere in dubbio che la natura di Pecorin sia fondamentalmente buona e le sue aspirazioni encomiabili, eppure egli non riesce a tradurre tutto ciò in qualcosa di positivo, al contrario diventa fonte di infelicità per sé e per le persone che gli stanno accanto. Nikolaj Aleksandrovic Dobroljubov ha scritto che “si potrebbero paragonare queste nature a un terreno fertile. Seminate mais, segala e ortica nei dintorni di Pietroburgo, in un buon terreno (se riuscite a trovarne). Il mais, beninteso, non crescerà a causa dell’affascinante clima di Pietroburgo, e la segala sarà soffocata dall’ortica. Questo campo non è dunque buono a niente. Come potrà essere paragonato, per rendimento, a un campo arido che pur produce la segala, anche se di pessima qualità? E tuttavia non si può affermare che il suolo del primo campo non sia migliore! Abbandonato e incolto, privato del sole da uno steccato o da un edificio, ricoperto di ogni immondizia, esso sarà invaso dalle ortiche. Ma se capiterà in mano a un buon padrone, che spazzerà via le immondizie e le ortiche, darà un buon raccolto; e il padrone vi costruirà una serra e vi coltiverà le piante più delicate, al riparo dalle influenze nocive d’ogni sorta, proprie di Pietroburgo”. Il grande critico russo attribuisce, forse un po’ troppo sbrigativamente, la sorte di uomini come Pecorin a un negativo influsso ambientale, ricorrendo a una specie di determinismo sociale ante litteram. Anche se non concordo pienamente con questa tesi, che neppure le confessioni più visceralmente sincere dello stesso Pecorin autorizzano ad accettare, riconosco che proprio nella mancanza di solidi e radicati principi sta una delle cause principali della condizione del nostro personaggio. Spinto dall'ardore febbrile dei propri istinti naturali, Pecorin ha tutto sperimentato nella sua gioventù, ma tanto i piaceri del bel mondo e l'amore delle donne quanto le scienze e la vita militare gli sono ben presto venuti a noia. Egli ha rincorso follemente la vita cercandola dappertutto, ma non è riuscito a trovare uno scopo degno della propria immensa forza spirituale. Senza né fedi né ideali, Pecorin non è mai riuscito a comprendere verso quali obiettivi dirigere i propri impulsi e, non riuscendo ad andare al di là di una sterile e infruttuosa aspirazione ad agire, ha finito per farsi vincere dall’apatia, dal vaniloquio e persino dalla scelleratezza.
In un certo senso il destino di Pecorin è simile a quello del dostojevskijano Stavroghin: come lui disperde le proprie enormi potenzialità, inaridisce e diventa involontario strumento di infelicità. Manca però in “Un eroe del nostro tempo” una autentica problematica etico-religiosa (la quale è invece centrale ne “I demoni”), mentre il superomismo di stampo nietzschiano del “tutto è lecito” passa in seconda linea rispetto a quella particolare condizione spirituale che, tre lustri più tardi, prenderà il nome di “oblomovismo”. Non scandalizzi l’accostamento di due personaggi così apparentemente diversi come Pecorin e Oblomov. I tratti che li accomunano sono molteplici perché, se è vero che l’attivo e infaticabile Pecorin sembra l’esatto contrario del “vegetale” Oblomov, è altresì vero che l’azione del primo è solo spreco improduttivo di energia, che non porta a nulla di concreto se non all’immediato soddisfacimento di meschine passioni. Gli stessi viaggi, che conducono in continuazione Pecorin da una parte all’altra della Russia, non hanno una vera motivazione, sono delle fughe dalla realtà non meno dei sogni idilliaci di Oblomov. L’elemento di maggiore contiguità tra Pecorin e l’eroe goncaroviano, quello che in entrambi appare come il carattere naturale dominante, è però la paura di assumere fino in fondo la responsabilità delle proprie azioni.
Pecorin non è un vigliacco nel senso comune del termine: egli sprezza il pericolo, sfida la morte nelle battaglie e nei duelli, si getta in situazioni rischiose per puro spirito di scommessa. Eppure in un certo senso egli è inequivocabilmente un vigliacco, come dimostra il modo in cui, novello visconte di Valmont, seduce, per poi cinicamente abbandonare, la giovane e innocente principessina Mary, la quale dà il titolo al più lungo e importante dei cinque racconti da cui è composto il romanzo. A spingerlo ad attuare con caparbia determinazione la conquista della bella principessina non è né la passione amorosa né l’attrazione sessuale, bensì una complicata miscela di sentimenti gretti e meschini, tra i quali spiccano l’eccitazione per la difficoltà dell’impresa, l’invidia per l’amico invaghitosi della stessa ragazza e l’inconscio desiderio di punire l’aristocratica alterigia inizialmente mostrata da Mary nei suoi confronti. Non si può dire però che il comportamento di Pecorin sia ispirato a un vero e proprio proposito personale di vendetta: anche se egli prova un sottile piacere nel portare la principessina, una volta scardinate le sue fragili difese, fino all’esasperazione (magari trattandola scortesemente o evitando di parlarle per intere giornate), il sentimento dell’odio gli è del tutto estraneo. La sua incapacità di comprendere a fondo le donne fa invece sì che Pecorin si muova nel terreno dell’amore come in tutti gli altri campi della vita: con disinvolta amoralità. “Esiste un indicibile gaudio nel possedere un’anima giovane che si schiude appena alla vita! Essa è come un fiore il cui grato olezzo evapora al contatto dei primi raggi del sole; bisogna reciderlo in quel momento e, dopo averlo fiutato a sazietà, gettarlo nella strada”. Nel momento in cui, però, le cose diventano serie, e la donna, non più disposta a rivestire il ruolo di bambola inerte da corteggiare, si trasforma in soggetto in grado di pretendere il rispetto dei propri diritti, ecco che Pecorin volge in vergognosa fuga. A Mary ormai perdutamente innamorata di lui, Pecorin spiega che “non posso sposarvi; se ora lo voleste, il momento di pentirvene non si farebbe attendere”. Ma è solo una squallida scusa, che sembra presagire quella con la quale, questa volta sotto forma di una lettera ma praticamente con le stesse parole, Oblomov restituisce la libertà ad Olga. Ma altri cadaveri sono stati intanto seminati per strada: uno di questi è Vera, commovente figura di donna che per amore di Pecorin ha sacrificato la propria dignità e rinunciato alla propria reputazione di moglie onesta. Come è piccolo e meschino Pecorin in confronto a questa splendida incarnazione della dedizione femminile e dell’amore disinteressato, che Lermontov ritrae sovente affacciata alla finestra, in silenziosa attesa di veder passare nella strada, sia pure per un attimo soltanto, l’amante sospirato! Quando capisce di averla persa per sempre, Pecorin cerca freneticamente di rincorrerla, ma, al pari della sua disperazione (che lo fa scoppiare in lacrime come un bambino), così anche il suo enfatico tentativo di recuperare il passato è tardivo ed inutile. La morte stessa del cavallo stremato sembra messa lì dall’autore per confermare l’amara ma incontestabile verità: Pecorin non è ormai più capace di amare.
Di questa sua disperata incapacità di amare Pecorin è il primo ad essere consapevole: “Il mio amore non ha dato felicità a nessuno perché… ho amato per me stesso, per mio personale piacere”. Incapace di dare un senso alla propria vita, di indovinare lo scopo cui senza dubbio era assegnato, Pecorin si è chiuso in un feroce egoismo, identificando la felicità solo nell’orgoglio appagato: “Sento in me quell’avidità insaziabile che divora tutto ciò che incontra sulla sua strada; un interesse delle sofferenze e delle gioie degli altri solo in rapporto a me stesso, come di un cibo che alimenti le mie forze spirituali… Essere per qualcuno causa di sofferenza e di gioia, senza averne alcun vero diritto, non è forse il più dolce alimento al nostro orgoglio?”. Pecorin, questo serpente che non può fare a meno di insinuarsi subdolamente nelle esistenze altrui sottraendo loro vampirescamente la fede nella vita, è però un uomo infelice. La coscienza della propria vacuità, infatti, conduce ineluttabilmente al disprezzo per se stesso: “A volte mi disprezzo… e non è forse per questo che disprezzo anche gli altri? Sono diventato incapace di nobili slanci; temo di apparire ridicolo a me stesso”. In queste parole non c’è traccia però di un autentico afflato di redenzione, si intravede piuttosto una languida e fiacca rinuncia ad essere in qualche modo migliore, e difatti Pecorin si abbandona più volte a una sorta di rassegnato fatalismo. Espressioni come “il destino mi aveva portato”, “la strada apertami dal destino”, “quante volte ho rappresentato la parte della scure nelle mani del destino!” ricorrono spesso nel diario di Pecorin. Ma come egli gioca con l’amore ed i sentimenti, allo stesso modo si può dire che gioca con il destino, come dimostra il racconto “Un fatalista”, in cui Pecorin cattura da solo un cosacco ubriaco e omicida sfidando spavaldamente la morte. Pecorin in realtà non è un vero fatalista come il tenente Vulic, ma gli fa molto comodo esserlo, perché in tal modo può sempre attribuire la colpa della propria condizione a un’entità superiore e incontrollabile.
Predestinazione o no, affiora in Pecorin una profonda nostalgia per la capacità degli antichi di credere negli errori, nei pregiudizi, nelle superstizioni. “Quale forza di volontà ha infuso in loro la certezza che tutto il cielo con i suoi infiniti abitanti li guardasse con un interesse costante se pur muto? Noi, invece, loro miseri posteri, pellegrini sulla terra senza convinzioni e senza fierezza, senza speranze e senza paure, all’infuori di quell’istintiva angoscia che stringe il cuore al pensiero della fine inevitabile, noi non siamo più inclini ai grandi sacrifici né per il bene del genere umano né per la nostra personale felicità, giacché siamo certi che essa è impossibile; e passiamo con indifferenza da un dubbio a un dubbio, come i nostri antenati passavano da un’illusione a un’illusione, e non abbiamo, come essi avevano, né speranze né quel vago benché sincero piacere che l’animo incontra in ogni lotta con l’uomo o col destino”. In mancanza di un qualsivoglia principio guida (ancorché ingenuo o mendace) in grado di illuminargli la via da percorrere, il nichilismo di Pecorin approda inevitabilmente al dubbio e all’indifferenza. Egli non crede ormai più a niente e si aggira nella vita con la stessa invincibile stanchezza di chi, dopo una lotta notturna contro un fantasma, abbia esaurito il calore dell’anima e la forza della volontà: “Sono entrato in questa vita avendola già vissuta col pensiero e l’ho trovata noiosa e nauseante, come accade a chi legge la cattiva imitazione di un libro che gli è da un pezzo noto”. Lo stesso egoismo, la stessa brama inappagabile di tutto distruggere e tutto divorare, sono ormai diventati niente più che una curiosità intellettuale, capace di dare un piacere solamente astratto, teorico, cerebrale. “Dalle tempeste della vita ho tratto soltanto alcune idee e nessun sentimento. Da un pezzo vivo non col cuore ma col cervello. Io analizzo e osservo le mie passioni e i miei atti con severa curiosità, ma senza interesse”. Questo fatale disseccamento di ogni slancio vitale non può che preludere alla solitudine più agghiacciante e alla morte. Lermontov ci offre l’occasione di fare conoscenza, nel secondo racconto, con il Pecorin più annoiato e disilluso, quello che tratta con gelida indifferenza il devoto Maksim Maksimyc, forse l’unico vero amico della sua vita, per poi avviarsi solitario verso un paese lontano. Qualche pagina dopo veniamo a sapere che Pecorin, tornando dalla Persia, è morto. Nessun commento, nessun epitaffio accompagna questa morte così appartata: è la fine più logica di un uomo che, più di tutti gli altri eroi romantici del suo tempo, ha sofferto con tragica consapevolezza l’impossibilità di essere normale.
Indicazioni utili
"Evgenij Onegin" di Aleksandr Puskin
LO SCACCO DELLA COSCIENZA
“Io ammetto che due più due quattro è una cosa eccellente, ma se bisogna dare a ciascuno il suo, ebbene, anche due più due cinque qualche volta può essere una cosuccia graziosissima”
Pur non essendo mai stato un filosofo o un pensatore nel senso letterale del termine, Dostojevskij vanta un indiscutibile diritto di cittadinanza nell’area dell’esistenzialismo moderno. I motivi di questa parentela spirituale si possono trovare in tutte le opere maggiori del grande scrittore russo, i temi dominanti delle quali sono appunto la problematicità dell’essere umano, la percezione del carattere precario dell’esistenza, l’insofferenza per ogni costruzione astrattamente intellettualistica, l’irrazionalismo. Dostojevskij si è sempre battuto per rivendicare il valore imprescindibile e irrinunciabile della personalità umana contro ogni tentativo di ridurre il mondo a vuote formule speculative (fossero esse materialiste o misticheggianti), e di questa lotta le “Memorie del sottosuolo” sono, se non il punto più elevato della sua creazione artistica, sicuramente l’opera in cui la polemica anti-razionalistica dell’autore si è espressa in maniera più dura e diretta.
E’ curioso (ma non inspiegabile, come vedremo più avanti) che alfiere di questa ambiziosa contro-ideologia sia un personaggio totalmente, sconsolatamente negativo. “Io sono un uomo malato – si legge, non senza un certo imbarazzato stupore, in apertura di romanzo -, sono un uomo cattivo. Sono un uomo che non ha nulla di attraente”: è una presentazione-confessione masochisticamente sincera, ma ancor più una dichiarazione di principio, con cui Dostojevskij prende le distanze da tutta la letteratura idealizzante che trasforma instancabilmente l’animale uomo in un sublime eroe, e ne scoperchia invece il fondo più meschino e antieroico. Il sottosuolo in cui si muove, pensa e agisce il protagonista è, prima ancora che un ambiente reale e riconoscibile, quel luogo interiore, presente in ognuno di noi, in cui regna l’irrazionale, l’arbitrario, il libito. Come farà più tardi la psicanalisi, Dostojevskij penetra in questa regione inesplorata, scoprendovi il disordine, il caos e la contraddizione. L’uomo del sottosuolo, così, è colui che non si illude di poter soffocare, nascondendola a se stesso e agli altri, questa zona oscura di sé, ma le si abbandona con tragica e sofferta voluttà.
Il sottosuolo non è una scelta, sia pur dolorosa, ma lo stadio estremo di un itinerario psichico che, originato da una naturale aspirazione alla normalità, cioè dal tentativo di inserirsi costruttivamente nella realtà, di armonizzarsi con i propri simili e di espellere da sé antinomie e contrasti, giunge alla graduale consapevolezza che tutto ciò è impossibile e illusorio. A rendere vani questi sforzi e a sprofondare l’uomo nel sottosuolo è una morbosa condizione che Dostojevskij definisce “sviluppo ipertrofico della coscienza”: “Vi giuro, signori miei, che avere una coscienza troppo lucida è una malattia, una vera malattia nel pieno senso della parola. Per i bisogni dell’uomo sarebbe più che sufficiente una comune coscienza umana, e cioè la metà o un quarto di quella porzione di coscienza che tocca in sorte a una persona coltivata del nostro infelice diciannovesimo secolo… Sono fermamente convinto che non soltanto una coscienza troppo lucida, ma perfino ogni forma di coscienza è una malattia”. La coscienza rende estremamente problematico l’agire, il realizzarsi, il muoversi verso una qualsivoglia direzione, in quanto essa è il luogo in cui si sperimenta l’alternativa infinita dei possibili: “Infatti, per cominciare ad agire è necessario innanzi tutto essere perfettamente tranquilli ed essersi liberati da qualsiasi dubbio. Ma io, per esempio, come posso tranquillarmi?… Io sto continuamente in esercizio col pensiero, e perciò ogni causa prima ne trascina immediatamente dietro di sé un’altra, anche più profonda, e così via all’infinito”. L’eccessivo meditare e problematizzare, il ripiegarsi verso il mondo interiore, i paralizzanti tormenti dell’autoanalisi costituiscono, nel loro insieme, la malattia, mentre la salute, al contrario, consiste nell’agire immediato, nella spontaneità superficiale e acritica.
Si arriva così alla distinzione, fondamentale per Dostojevskij, tra l’uomo del sottosuolo e l’illuministico homme de la nature et de la vérité. Il primo, lo abbiamo visto, convinto di essere condannato a un’infelicità che non vale la pena di riscattare, si rinchiude nel suo guscio, pieno di disprezzo per il resto del mondo e di orgoglio per la propria vivida, ancorché sterile, intelligenza. Il secondo invece è colui che, proiettato senza problemi verso una totale armonia con la natura e con i suoi simili, prende come fondamento indiscusso della propria esistenza quegli ideali che (come l’utile, il piacere, il benessere) trova più a portata di mano. L’homme de la nature et de la vérité forse è felice, ma la sua felicità è meschina e conformistica, prodotto di uno spirito arido e pigro. Di fronte a questa squallida soluzione, l’uomo del sottosuolo si chiede sprezzante cosa sia meglio, se “una felicità da quattro soldi o delle sublimi sofferenze”. Dostojevskij, pur rendendosi perfettamente conto dell’improduttività del suo protagonista, sfrutta la goffa e anarcoide ribellione di costui per fare una appassionata perorazione della personalità, della libertà e della fantasia dell’individuo contro “le leggi della natura, le deduzioni delle scienze naturali, la matematica”, cioè contro tutto ciò che spinge a congelare l’inesauribile varietà della vita in formule, tabelle, regole e calendari. Di fronte al muro eretto dalla ragione, è “meglio lasciarsi voluttuosamente marcire nell’inerzia, tacendo e digrignando i denti nell’impotenza”, piuttosto che dichiararsi vinti in perfetta buona fede. In questo rifiuto irrazionale e arbitrario di ogni ordine logico, l’uomo del sottosuolo, pur abbruttito dalle sofferenze e reso meschino dalle umiliazioni, ritrova una nuova e insperata dignità: la dignità di chi vuole, a tutti i costi, affermare la propria autentica, scandalosa singolarità, anche al prezzo di non trovar posto in nessun sistema razionale.
La libertà, per Dostojevskij, è giocoforza paradossale e non sottoposta alle leggi positiviste del vantaggio e dell’interesse. “Voi siete convinti che… non appena la ragione e le scienze avranno completamente rieducato e indirizzato sulla retta via la natura umana... allora l'uomo cesserà spontaneamente di sbagliare e… non vorrà più creare un divario tra la sua volontà e i suoi normali interessi. Non solo: voi sostenete anche che allora la scienza stessa insegnerà all’uomo che in lui, in realtà, non esiste né la volontà né il capriccio,… e che lui stesso è solamente una specie di tasto di pianoforte o di pedale d’organo… cosicché, qualunque cosa egli faccia, questa si compie non in forza del suo volere, bensì secondo le leggi della natura. Restano dunque soltanto da scoprire queste leggi della natura, e poi l’uomo non dovrà più neppure rispondere delle proprie azioni, e vivere gli diventerà estremamente facile”. Ma la natura umana è più complessa di quanto sembri a prima vista e i tentativi di inalvearla entro i sicuri ed edificanti canali della logica e del progresso sono destinati prima o poi ad essere irrisi dai capricci ingovernabili della volontà. “Ecco, vedete: la ragione, signori miei, è una buona cosa, questo non si discute, ma la ragione è pur sempre soltanto ragione e soddisfa soltanto le facoltà razionali dell’uomo; la volontà invece è manifestazione della vita intera, cioè di tutta la vita umana, con la ragione e tutto il resto… Che cosa sa la ragione? La ragione sa soltanto ciò che ha avuto il tempo d’imparare, mentre la natura umana agisce invece nella sua integrità, con tutto ciò che è in lei, sia coscientemente sia incoscientemente, e anche se mentisce, essa però vive”. Non è detto quindi che l’uomo diventi migliore e più felice se vive secondo i dettami della ragione e della scienza, al contrario può essere indotto a preferire ad essi qualcosa di nocivo e svantaggioso, in taluni casi addirittura la distruzione e il caos. “E infatti questa assurdità, questo suo capriccio, può essere proprio la cosa più utile e vantaggiosa di questo mondo,… persino nel caso che ci apporti un danno evidente e contraddica alle più sensate conclusioni della nostra ragione relative al nostro vero vantaggio, e ciò perché in ogni caso esso ci garantisce quel che per noi è più essenziale e più caro, e cioè la nostra personalità e individualità”.
La libertà, quindi, è anche libertà di errare, di peccare e di cadere, perché l’errore, il peccato, la caduta sono elementi necessari e insopprimibili alla dialettica dell’esistenza. Il protagonista delle “Memorie” va così ad aggiungersi a quella folta schiera di personaggi dostojevskijani (un nome su tutti: Dmitrj Karamazov) che, proprio grazie alla bruciante esperienza della perdizione, scoprono in loro rinnovate possibilità di redenzione. Con questo non voglio dire che le “Memorie del sottosuolo”, con la loro critica radicale alla scienza e alla logica euclidea, preludano alla luminosa affermazione di quel sovramondo che, per fare un significativo esempio, costituisce l’impalcatura etica de “I fratelli Karamazov”. Se in Alesa e Zosima la negazione della convenzionalità degli schemi razionali avviene dall’alto, nell’uomo del sottosuolo infatti essa si esprime ancora a un livello inferiore e non compiutamente risolto. Eppure anche l'uomo del sottosuolo, sono parole dello stesso Dostojevskij, è necessario nella nostra società, in quanto, con le sue contraddizioni e la sua irrazionalità, mette in tragica evidenza la precarietà e l'inanità degli sforzi umani di dare un ordine saldo e duraturo all'universo.
Se il contenuto ideologico delle “Memorie del sottosuolo” ha la stessa violenta carica provocatoria dei grandi romanzi della maturità, non altrettanto si può dire, purtroppo, del loro valore letterario. La rappresentazione del lancinante e sconnesso delirio cerebrale del protagonista non raggiunge mai la potente, quasi shakespeariana, grandezza del vorticoso monologare dell’animale kafkiano de “La tana”, che alle “Memorie” si richiama per moltissime analogie, né la dolente umanità che la follia conferisce al gogoliano scrivano del “Diario di un pazzo”. C’è qualcosa di troppo cerebrale, di troppo astratto, quasi di artificioso, in queste lucide e amare riflessioni che, quando cercano di darsi un’espressione più sistematica, scadono a livello di un polemico pamphlet. Inoltre, la descrizione di alcuni avvenimenti della vita reale del protagonista (l’episodio dell’ufficiale, quello della prostituta), oltre ad essere stilisticamente diseguale e artisticamente superflua, rischia paradossalmente di togliere validità alle idee precedenti, in quanto il lettore è quasi trascinato a credere che solo con una norma razionale costantemente perseguita si evita lo sfaldamento della personalità, cui invece fatalmente conduce il culto dell’irrazionale (esattamente il contrario cioè di quanto Dostojevskij voleva si ricavasse dalla tragedia del suo personaggio). Voglio perciò concludere citando una breve frase che, assai meglio di tutte le sue idiosincrasie anti-razionalistiche, riflette secondo me l’immagine più autentica del protagonista: “Io sono solo, e loro sono tutti”. E’ la malinconica immagine di un uomo che si sente smarrito in un mondo ostile e che sceglie il sottosuolo perché incapace di competere con delle regole in cui il più forte trionfa sempre e in cui la gara degli interessi non è più mascherata dalle vecchie credenze e dagli antichi valori.
Indicazioni utili
LE VISIONI E LA GRAZIA
“A volte mi sento come un bambino che apra una sola volta gli occhi sul mondo vedendo cose stupefacenti di cui non saprà mai il nome, e poi sia costretto a richiuderli. Lo so, non sono che apparizioni in confronto a quello che ci attende, ma non per questo sono meno incantevoli. Possiedono una bellezza umana. E non riesco a credere che, quando saremo tutti trasformati e avremo abbracciato l’incorruttibilità, dimenticheremo la nostra splendida condizione mortale e transitoria, il grande fulgido sogno di procreare e perire che fu importantissimo per noi. Nell’eternità questo mondo sarà Troia, penso, e tutto quello che è successo qui sarà l’epica dell’universo, la ballata che canteranno per le strade.”
Di lettere di un padre a un figlio si trovano parecchi esempi nella storia della letteratura. Tutti – credo – avranno letto almeno una volta la poesia “Se” di Rudyard Kipling; molti avranno sentito parlare delle lettere di Antonio Gramsci scritte dal carcere o di quelle di John Steinbeck (sull’amore) e di Lord Chesterfield (sui comportamenti appropriati da adottare in società); più recentemente sono apparsi nelle librerie “Il razzismo spiegato a mio figlio” di Tahar Ben Jelloun, “Lettera a mio figlio sulla felicità” di Sergio Bambaren, e altri che al momento mi sfuggono di mente. “Gilead”, opera seconda di Marylinne Robinson, sposta questa tematica dalla sfera autobiografica a quella romanzesca, mettendo al centro della narrazione John Ames, il vecchio reverendo congregazionalista di una minuscola cittadina dell’Iowa (la Gilead del titolo), il quale, ormai prossimo alla morte, decide di lasciare al proprio figlio di sette anni, che non potrà vedere crescere, una lettera-testamento in forma di diario, nella speranza che un giorno questi possa conoscere in forma per così dire autentica, non mediata cioè dai propri ricordi o dalle testimonianze altrui, chi era il suo genitore, quali erano i suoi pensieri e le sue idee, quale la sua filosofia di vita. E’ l’occasione per l’anziano pastore di raccontare le proprie esperienze di vita più toccanti, come l’incontro con la giovane Lila, destinata a farlo diventare a quasi settant’anni, contro ogni speranza, marito e padre, di riesumare le memorie familiari, risalendo per mezzo delle passate generazioni la corrente della storia americana fino ad arrivare alla Guerra di Secessione, e soprattutto di tirare le somme della propria lunga esistenza giunta ormai sulla soglia dell’Eternità. Forte era il rischio di trovarsi di fronte a un lungo pistolotto predicatorio (vista anche la professione del narratore) con insopportabili intenzioni educative (come chi, dall’alto della saggezza concessa dalla veneranda età raggiunta, voglia mettere a disposizione delle giovani generazioni i consigli resi possibili dall’esperienza e da anni di frequentazione delle Sacre Scritture). Per fortuna nulla di tutto questo si respira nell’opera della Robinson. Attraverso lo spezzettato monologo del reverendo, emerge al contrario un appassionato e sconfinato amore per la vita e per tutte le sue espressioni più semplici e naturali (l’acqua, la luce, il viso delle persone), con un atteggiamento di stupefatto incantamento che pertiene più all’infanzia che all’età senile. Riflettendo sulla morte imminente, pur non facendosi mai sopraffare dalla paura dell’ignoto e del mistero divino, il vecchio si lascia cullare dalla nostalgia per le piccole e spesso sottovalutate sensazioni di questo mondo, preziosi spiragli che la vita, pur in mezzo a guerre, povertà, lutti e malattie, riesce sempre a concedere a chi le si abbandona. Di visioni parla spesso il protagonista. Visioni sono quelle sperimentate dai mitici antenati, come l’omonimo nonno, per i quali poteva apparire addirittura normale essere fisicamente toccati da Dio; ma visioni sono anche quei momenti capaci di stagliarsi nella memoria con impressionante vividezza, come quando molti anni prima la chiesa battista era andata a fuoco e la comunità si era radunata per dare una mano: niente di apparentemente indimenticabile, eppure la pioggia che scendeva tra i ruderi fumanti, gli uomini che seppellivano le bibbie rovinate ai piedi di un albero, le donne con i capelli sciolti che aiutavano muovendosi con estrema delicatezza e cantavano inni religiosi e il padre che aveva porto al piccolo protagonista una focaccia macchiata di fuliggine, come un’ostia durante l’Eucarestia, è rimasta impressa nella mente del vecchio pastore passando indenne attraverso decenni di esistenza. “Ci sono migliaia e migliaia di ragioni per vivere questa vita, e sono tutte sufficienti, dalla prima all’ultima”, scrive al figlio, aggiungendo altresì “quanto mi mancherà questo mondo!”. La grazia di cui il reverendo ha parlato spesso nelle sue omelie altro non è in fondo che la capacità di accogliere con gratitudine i piccoli doni misconosciuti della quotidianità.
Non c’è però solo pace e dolcezza nell’animo del protagonista. La parola “rabbia” ricorre infatti spesso in “Gilead”, e questo può sembrare paradossale in un romanzo delicato come una ragnatela. Il fatto è che sotto la superficie apparentemente imperturbabile del memoriale si celano inquietudini e turbamenti, sensi di colpa repressi e tensioni sociali e razziali. John Ames è l’ultimo di una famiglia di predicatori, ma nonostante in casa si sia per così dire sempre respirata l’aria della Bibbia egli rammenta l’aspra conflittualità esistente tra il nonno vetero-testamentario, che si presentava in chiesa con la pistola sotto la cintura ed incitava i parrocchiani ad arruolarsi, e il padre pacifista, e lo stesso suo mite genitore anni dopo era entrato in forte disaccordo con la sua scelta di rimanere fedele a quello sperduto paese del Midwest anziché viaggiare e allargare i suoi provincialissimi orizzonti. Nella seconda parte, poi, il ritorno a Gilead di Jack, suo figlioccio nonché figlio del vecchio amico Boughton, scuote fortemente la tranquillità del narratore. Immaginando ambigue e pericolose intenzioni in questo “figliol prodigo”, geloso per quelle che egli interpreta come subdole manovre per prendere il suo posto in seno alla famiglia non appena sarà morto, John Ames diventa preda di angosciosi dubbi e tormenti. Non saranno i sermoni da lui scritti nella sua lunga carriera di oratore e scrupolosamente conservati in soffitta, non sarà cioè la fredda teologia in cui la sua mente, quasi per riflesso condizionato, continua ad arrovellarsi (al punto che non è infrequente imbattersi nel libro in riflessioni sulla predestinazione, sulla remissione dei peccati o sul posto da assegnare al quinto comandamento all’interno del Decalogo), non sarà tutto ciò a restituirgli la serenità, bensì l’umanissima capacità di mettersi nei panni del proprio prossimo e condividere con lui la vergogna e la sofferenza, scoprendo quanto c’è di nobile e bello anche in anime apparentemente scellerate. Quelle della benedizione concessa a Jack prima della sua partenza da Gilead sono tra le pagine più belle del libro, e lo riscattano dalla fatica che la sua struttura frammentaria e divagante impone spesso al lettore.
Attraverso il monologo del protagonista non si delinea solo la storia della sua vita ma, indirettamente, anche di un’intera comunità, quella di Gilead, un paese sperduto e fuori dal mondo che Edward, il fratello, definisce una “palude”, ma che racchiude una umanità appartata e selvatica cui alla lunga non ci si può che affezionare. La figura che si staglia su tutte le altre è sicuramente quella, mitica, del nonno con un occhio solo, personaggio eccentrico, somigliante più a un profeta dell’Antico Testamento che a un predicatore dell’Ottocento, il quale viveva il Vangelo alla lettera donando tutto quello che poteva ai bisognosi, al punto che la figlia, per non vedersi depredare la casa, era costretta a tenere i soldi avvolti in un fazzoletto sotto il vestito e a far girare il nipote con il vestito della domenica per paura che regalasse anche quello. Molti sono gli aneddoti di cui è costellato “Gilead”, alcuni sorprendentemente comici (come il racconto dell’automobile, una delle prime mai apparse in quei paraggi, che il giovane Jack aveva rubato e che, dopo essere stata abbandonata per strada, nei due mesi seguenti praticamente metà della contea si era illegalmente passata di mano in mano, barattandola con fucili da caccia, giovenche o cose simili). Quella della Robinson è una narrazione fuori dal tempo, che non sembra appartenere ad alcuna epoca in particolare: è per questo motivo che quando il reverendo cita Eisenhower e le imminenti elezioni presidenziali, o il figlio disegna gli Spitfire della Seconda Guerra Mondiale, l’effetto è straniante e quasi anacronistico. E’, ancora di più, una scrittura capace di scendere con leggerezza nei recessi profondi dell’animo umano e probabilmente destinata, dopo aver vinto la sfida di una innegabile difficoltà di approccio, a crescere col tempo nel cuore del lettore.
Indicazioni utili
APPUNTAMENTO FALLITO CON IL DESTINO
“La vita – ha scritto Virginia Woolf – è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che avvolge completamente la nostra coscienza”. Della coscienza, appunto, di questo impalpabile e inafferrabile mistero quotidiano, la grande narratrice inglese ha descritto gli intimi riverberi e chiaroscuri, gli aneliti appassionati e i riflessivi ripiegamenti, dando alla sua lirica prosa le fragili sembianze della poesia. Straordinariamente recettiva, la penna della Woolf ha assorbito e registrato il fluire sconnesso e disordinato delle impressioni, dei pensieri e delle emozioni dei suoi personaggi e su questo inconsistente terreno ha edificato come per incanto una costruzione armoniosa ed equilibrata: “Gita al Faro”.
Fin dalle prime parole, fin dalla breve e lapidaria frase che, con l’annuncio dell’imminente escursione al Faro, apre in minore il romanzo (“«Sì, di certo, se domani farà bel tempo»”) veniamo introdotti nel cuore del mondo woolfiano. E’ un mondo in cui ogni impressione di gioia, di serenità e di sicurezza si rovescia in qualcosa di triste e di precario, pervaso da un’ombra di cupo fatalismo. L’iniziale affermazione (“Sì, di certo”), la quale procura al piccolo James una felicità immensa, è infatti significativamente corretta da una condizione (“se domani farà bel tempo”) che increspa, irrimediabilmente rovinandolo, il piacere dell’attesa; e un senso di occasione sciupata, di appuntamento fallito con il destino, si insinua nel romanzo, condizionandone tutto lo sviluppo futuro. L’andamento contrappuntistico è tipico di quest’opera. Termini come “oscurità e luminosità”, “ombra e splendore”, ad esempio, si alternano ritmicamente tra loro, con una intermittenza per molti versi simile a quella del fascio di luce del Faro, il quale non a caso rappresenta una delle fondamentali metafore del libro. Vi è poi il contrasto tra le singole, non amalgamabili, entità individuali: i numerosi personaggi riuniti nella villa dei Ramsay si muovono come particelle indipendenti e disaggregate, che solo raramente e per breve tempo riescono a trovare un momento di coesione, prima di disperdersi nuovamente nel vuoto. Gli stessi coniugi Ramsay, i quali esprimono la contrapposizione, abituale in Virginia Woolf, tra cervello e cuore, tra ragione e istinto, sono incapaci di comprendersi o aiutarsi, e sotto l’usurata superficie dei gesti quotidiani si comportano come due perfetti estranei. Esemplare, a questo proposito, è il dialogo che essi intrattengono nel giardino, quando si aggirano lungamente intorno agli argomenti che stanno loro a cuore, ma, senza risolversi mai (per mancanza di coraggio o eccesso di riguardo) ad affrontarli, si accontentano di conversare futilmente dei fiori e delle borse di studio dei figli; o il momento di intimità che segue la lunga cena, durante il quale la signora Ramsay capisce che il marito “desiderava qualcosa; desiderava ciò che a lei riusciva sempre tanto difficile concedergli; desiderava che lei gli dicesse che lo amava… Ma ella non poteva accontentarlo; non poteva dir certe cose”.
Molte altre significative antitesi sono disseminate nel romanzo (ad esempio, il contrasto tra aspirazioni e realizzazioni o quello tra illusione e realtà – ne parlerò più avanti -, e ancora la contrapposizione tra razionalità soggettiva e irrazionalità oggettiva), ma il fondamentale contrappunto, quello su cui si regge l’intera impalcatura di “Gita al Faro”, è quello temporale. La Woolf sembra catturare il tempo e restituircelo nelle sue implicazioni emotivamente più forti. I dieci anni che separano la prima parte dalla terza sono una tormentosa frattura che invano i protagonisti ancora in vita cercano di colmare con il ricordo. La vivida sovrapposizione, nella memoria, di passato e presente, il periodico riaffiorare di reminiscenze lontane (il sogno di Camilla, il rammarico di James provocato dalla mancata effettuazione della gita) si scontrano infatti con una realtà in cui è avvertibile (anche fisicamente: i gradini vuoti della casa) la mancanza delle persone amate, che un giorno avevano trasmesso agli altri il loro inconfondibile fluido vitale e che ora sono scomparse, per sempre. Non c’è strazio né disperazione in queste riflessioni sul passare del tempo, ma solo una contenuta commozione, un delicato struggimento. Nel passato ci si illude spesso di trovare conforto, di poter contemplare, fissandolo per sempre, il flusso inarrestabile della vita, come ama sognare la signora Ramsay (“…giudicò di poter ritornare nel mondo dei sogni, in quel luogo irreale e incantevole che era il salotto dei Mannings di vent’anni prima; e dove era possibile aggirarsi senza fretta o ansietà, perché non v’era da pensare al futuro. Ella sapeva quanto era accaduto allora a quegli amici e a lei. Era come rileggere un bel libro di cui si rammentava la fine; perché l’accaduto era di vent’anni prima e la vita, che sgorgava a fiotti perfino da quella mensa per fluire Dio sa dove, lassù era suggellata, placidamente conclusa, come un lago fra le sue rive”); ma appunto di sogni si tratta, perché in Virginia Woolf la memoria non ha la funzione consolatoria della Recherche proustiana, ma è, come scopre a sue spese Lily Briscoe, richiamando alla mente l’amata signora Ramsay, una lama che trafigge dolorosamente il cuore. “Il rimpianto vano, il desiderio struggente, come, quanto stringevano il cuore!… Sembrava così innocuo pensare a lei. Ella pareva uno spirito, un alito, qualcosa con cui giocare facilmente e senza pericolo in qualunque momento del giorno e della notte, ed ecco, all’improvviso allungava una mano per stringere a quel modo il cuore altrui. All’improvviso, i gradini vuoti all’ingresso del salotto, gl’intagli della sedia all’interno, il cucciolo scherzoso sul piazzale, tutta l’onda di bisbigli che aleggiava sul giardino divenivano curve e arabeschi volteggianti attorno a un centro d’assoluta vacuità”. Il passato, lungi dal consentire di raggiungere l’agognato equilibrio, la bramata pacificazione, svela impietosamente il disordine, il caos, la mancanza di senso della vita, ricordandoci “che ogni persona è sostanza effimera; che nulla permane, che tutto si trasmuta”. L’invocazione della persona amata che non c’è più, anziché dare sollievo, diventa così un vano tendere le braccia brancicando nel buio o un singhiozzo che ci soffoca e che non riusciamo a trattenere.
Questa complessa e affascinante elegia della memoria è tradotta in immagini elaborate e musicali, fitte di rispondenze e di suggestioni ritmiche, mediante le quali Virginia Woolf (in questo sicuramente debitrice del quasi contemporaneo Joyce) si sforza di descrivere l’ininterrotto flusso di coscienza dei suoi personaggi. La scrittrice, che pur non rinuncia a narrare in terza persona, indaga a fondo la realtà interiore di ciascuno, registrando, per mezzo di un fitto e ininterrotto monologare, l’intersecarsi di differenti piani temporali e l’alogico fluire di richiami e associazioni di idee (valga per tutti questo esempio: “…a un tratto egli s’avvide che si trattava di questo, sì di questo: ch’ell’era la più bella donna che avesse mai veduta. – Cogli occhi stellati e veli alle chiome, con ciclamini e viole – che sciocchezze gli venivano in mente? Ell’aveva almeno cinquant’anni; aveva otto figli. – Andando su prati fioriti e stringendo al seno bocciuoli recisi e agnelli smarriti, cogli occhi stellati e le chiome al vento… Le prese la borsetta”). Questa acuta e delicata esplorazione delle coscienze è modulata in tre tempi, ognuno dei quali è caratterizzato da un proprio inconfondibile ritmo: il primo è un lunghissimo piano sequenza, in cui dal rigoroso rispetto del tempo reale scaturisce, per mezzo di una raffinata tecnica di raccordi ed interconnessioni che lo moltiplica nelle coscienze dei personaggi, un effetto di dilatazione; il secondo, al contrario, condensa dieci anni di vita in poche decine di pagine ed è simile, musicalmente parlando, ad un elegiaco adagio; il terzo tempo, infine, riprende le fila del primo, però con una importante differenza: la vicenda (se di vicenda si può parlare, data la mancanza di un vero e proprio intreccio narrativo) abbandona l’unità di spazio e si sviluppa parallelamente tra il giardino della villa dove è rimasta a dipingere Lily Briscoe e il mare su cui veleggia, in direzione del Faro, l’imbarcazione del signor Ramsay.
Le tre parti del romanzo interagiscono perfettamente tra loro, e il fattore connettivo è rappresentato dalla riuscita simbiosi tra l’attività psichica dei personaggi e la realtà esterna. Più che svilupparsi su due piani distinti, il romanzo lascia che i due elementi si integrino, si sovrappongano, influenzandosi a vicenda. E’ sorprendente, ad esempio, come la Woolf segua il corso di pensieri dei personaggi senza per questo perdere mai di vista ciò che essi stanno facendo. Quando la signora Ramsay riflette sullo stato malandato della casa e nel contempo misura la lunghezza del calzerotto sulla gamba del figlio, l’effetto che si ricava non è di semplice parallelismo, ma di vera e propria contemporaneità. Ancora più significativo è il fatto che nel mondo woolfiano l’ambiente e la natura non hanno solo una funzione scenografica e decorativa, ma condizionano attivamente, spesso modificandoli, gli stati d’animo degli esseri umani. “Andavano lì regolarmente ogni sera, quasi per una necessità. Pareva che l’acqua portasse al largo, facesse navigare sull’onde pensieri stagnanti in terraferma, dando così ai loro corpi una specie di fisico sollievo… Sorridevano entrambi, sostando lì. Entrambi sentivano una comune ilarità, eccitata dalle mobili onde; eppoi dalla rapida netta corsa d’una nave, che, dopo aver stagliato una curva nella baia, sostava, fremeva, abbiosciava le vele; e allora… entrambi, al quietarsi di sì rapido moto, guardavan le dune lontane, e invece di gaiezza sentivano calar sull’animo una vaga malinconia: parte perché qualcosa aveva compimento, parte perché il remoto paesaggio sembrava dover sopravvivere per migliaia d’anni (così Lily pensava) allo spettatore, esser già in comunione con un cielo contemplante una terra in estremo riposo”.
I personaggi di “Gita al Faro” sono tutti straordinariamente permeabili all’evocativo potere delle cose, dei suoni e dei colori (al signor Ramsay, ad esempio, una determinata siepe è in grado di far scaturire una conclusione filosofica, un vaso di gerani definire i processi del suo pensiero), così che le loro emozioni nascono prevalentemente da una trasformazione dell’”oggettivo” in “soggettivo”. L’animo umano è una sensibilissima antenna puntata verso l’universo, e ogni minima irradiazione esterna (come il volo di un uccello o la vista di una nuvola) vi si rifrange in una miriade di vivide e indelebili impressioni. Esemplare è la scena in cui “il monotono sciabordio delle onde sulla spiaggia… di solito… accompagnava i pensieri della signora Ramsay con un tamburellio misurato e blando, simile a parole d’antica ninnananna mormorate dalla natura… ma altre volte, a un tratto, inopinatamente,… non aveva senso sì benigno, ma, quasi spettrale rullio di tamburi, batteva spietato il ritmo della vita,… ed ammoniva lei, i cui giorni erano dileguati in rapida successione di doveri da compiere, che tutto era effimero come l’iride”.
L’essere umano può essere definito, generalizzando ciò che la Woolf dice riferendosi alla signora Ramsay come “una spugna imbevuta di emozioni”. Il suo rapporto con le cose non è però, come potrebbe sembrare a prima vista, un fenomeno involontario o inconscio, ma è il risultato di una ben precisa, ancorché non del tutto decifrabile, tendenza, quella di “volgersi in solitudine verso le cose, le cose inanimate – alberi, torrenti, fiori -, come a forme d’espressione, col senso d’assimilarle, d’esserne inteso, di farne parte”. In questa brama di autoannullamento l’uomo esprime soprattutto il desiderio di stabilire un rapporto pacificato con la realtà e di ottenere una risposta ai quesiti esistenziali che lo assillano, come se egli intuisse che se solo fosse in grado di mettere insieme le cose come parole in una frase esse sarebbero capaci di svelare l’inafferrabile mistero della vita.
Anche la fede nelle cose, così come la fede nella memoria, è destinata però a venire presto disillusa. Virginia Woolf non lo dice chiaramente, neppure a mezze parole, ma lascia intendere che l’unico mistero che le cose custodiscono è la precarietà dell’uomo, la mancanza di senso della vita, la fuggevolezza del tempo. Il sogno che la felicità prevalga, che il bene trionfi, e la speranza di trovare nella natura una spiegazione sono qualcosa di ingannevole, sono solo i riflessi di uno specchio che ogni uomo porta dentro di sé e che deforma le sue percezioni reali. Il senso di inquietudine che si affaccia talvolta nei personaggi di “Gita al Faro” è la malinconica intuizione di questa verità negativa: “«Tutto è finito», pensò la signora Ramsay, mentre gli ospiti entravano… le sembrò che sulle cose fosse caduta un’ombra la quale, cancellandone il colore, gliele mostrasse nel loro aspetto più vero”. Quando poi lo specchio si infrange del tutto, la contemplazione delle cose, che prima sembrava promettere la salvezza, diventa intollerabile: all’uomo, tradito dalla vita, non resta forse che sperare nella morte.
I personaggi di “Gita al Faro” si sforzano in continuazione, con patetica fiducia, di aderire alla vita, ma fra loro e la realtà si frappone sempre uno scarto, una piccola, insanabile frattura: il signor Ramsay cerca la Verità ultima e indiscutibile, ma è consapevole di non essere in grado di arrivare fino in fondo (cioè alla lettera Z, lui che è giunto con immensi sforzi solo fino alla Q); la signora Ramsay si avvicina maggiormente a un armonico accordo con la realtà, ma la sua premonitrice paura di vedere distrutto da un momento all’altro il suo equilibrio (“ma non può durare” è il suo pensiero ricorrente) le impedisce di raggiungere una autentica felicità; Lily Briscoe, infine, tenta di trasferire sulla tela il mondo intorno a lei, di tradurre concretamente il sublime riflesso che le cose proiettano nel suo animo, ma lo sforzo artistico è palesemente inadeguato e solo qualche misero, imperfetto avanzo della sua visione può essere fissato per sempre nel dipinto. In un romanzo ricco di simbolismi (basti pensare al Faro, che, dopo essere stato per lungo tempo un luminoso e irraggiungibile punto di riferimento, alla fine del libro appare a James come “una torre nuda sopra una squallida roccia”), il quadro di Lily rappresenta certamente lo sforzo di estrinsecare il proprio io, il tentativo di aprirsi al mondo, in parole povere la vita umana, la quale riesce quasi sempre molto diversa da ciò che si vorrebbe essa fosse, vuoi a causa della distruttiva consapevolezza che “non si può esprimere ciò che si pensa” vuoi per il fatto che in questo sforzo di conoscenza l’uomo è necessariamente solo (Lily, ad esempio, difende strenuamente la sua intimità, pur sapendo che, in fin dei conti, da essa non riceverà in cambio che solitudine e infelicità). Se la grande rivelazione è irraggiungibile o non esiste affatto, al suo posto, nella ripetizione infinita della natura che l’uomo chiama tempo, egli trova solo brevi istanti di visione, “piccoli miracoli quotidiani, illuminazioni, fiammiferi accesi all’improvviso nel buio”. Quella della Woolf può essere definita, a mio parere, come una vera e propria poetica del momento. “Quel momento appariva estremamente fecondo. Ed ecco, la signora scavava una buchettina nella sabbia; eppoi la ricopriva, come per racchiudervi la perfezione di quel momento. Ed esso era pari a goccia argentea, che rendesse luminosa, irrorandola, l’oscurità del passato”.
Solo quegli istanti di accecante perfezione possono dare un senso alla vita, e su uno di essi (la visione che permette a Lily di terminare il quadro) si chiude il romanzo. Non bisogna però credere che la conclusione di Virginia Woolf sia del tutto serena e rassicurante. Ricordiamoci che alla fine della prima parte c’è un analogo momento di appagamento, quando la fusione tra i commensali che si sono riuniti intorno alla tavola di casa Ramsay è finalmente completa: “(La signora Ramsay) si librava, come un falco sospeso sull’ali, come bandiera sventolante, in un elemento di gioia che compenetrava ogni fibra del suo corpo soavemente, senza strepito, quasi solennemente: esso proveniva… dal marito, dai figli, dagli amici; e, levandosi in quella profonda pace…, sembrava fluttuare, senza special motivo, come un fumo, come un vapore esalante verso l’alto, e racchiudere la comitiva in un’atmosfera di sicurezza. Non occorreva dir nulla; non c’era da dir nulla. Una placida gioia era diffusa intorno, ricingeva tutti”. Eppure qualche pagina dopo c’è la triste, dolente elegia di “Passa il tempo”, in cui assistiamo all’implacabile distruzione di questa visione da parte del tempo. La vita – sembra dirci la Woolf – è una sommatoria di momenti, alcuni insignificanti, altri importanti, altri ancora addirittura decisivi, ed essi sono indubbiamente l’unico motivo per cui valga la pena di vivere; ma alla fine – e questo è forse l’unico grande, doloroso mistero dell’universo – il risultato per tutti dà sempre, sconsolatamente, zero.
Indicazioni utili
IL ROMANZO DOVE GLI ESTREMI SI TOCCANO
“Molto più conosce Iddio un santo idioto, che un savio peccatore” (Domenico Cavalca, “Specchio di croce”)
“Conosco solo uno psicologo che abbia vissuto nel mondo in cui il cristianesimo è possibile, in cui un Cristo potrebbe nascere in ogni momento. E questi è Dostojevskij. Egli ha indovinato Cristo” (Friedrich Wilhelm Nietzsche, “Frammenti postumi 1888-1889”)
Momento cruciale di raccolta e di assimilazione di una mole di materiale enormemente vario ed eterogeneo (vi si possono trovare, suggestivamente affiancati, Cristo e la cronaca giudiziaria russa del tempo, il “Don Chisciotte” di Cervantes e l’interpretazione dell’Apocalisse, e molti altri temi ancora), “L’idiota” è un romanzo fortemente anticipatore di quelle tendenze che, negli anni successivi, prenderanno corpo ne “I demoni” e ne “I fratelli Karamazov”, e rappresenta l’autentico centro nevralgico da cui si dipartono le coordinate filosofico-poetico-religiose di quella complessa e affascinante costruzione che è il pensiero dostojevskijano. Degli aspetti prettamente ideologici del romanzo parlerò diffusamente più avanti: qui mi preme invece sottolineare come “L’idiota” possegga tutti gli attributi necessari per essere considerato un’opera paradigmatica di quelli che sono i procedimenti narrativi tipici dell’autore, e come tale si presti ottimamente ad una analisi strutturale del testo.
Come tutte le storie di Dostojevskij, anche quella de “L’idiota” non segue uno sviluppo lineare ed armonico, ma è condotta in maniera estremamente eterogenea. Da una parte assistiamo a una accentuata arbitrarietà temporale, alla creazione di un tempo artistico parallelo a quello reale, straordinariamente elastico e modellabile a seconda delle esigenze stilistiche dell’autore. Dostojevskij è capace ad esempio di concentrare una grande quantità di avvenimenti in poche ore di una giornata, per poi saltare a piè pari interi periodi di settimane o addirittura mesi. A dimostrazione di questo personalissimo procedimento può essere presa la prima parte del romanzo: in essa il principe Myskin, appena giunto a Pietroburgo dall'estero, senza denaro e senza conoscenze, si trova a dover affrontare nell’arco di una sola giornata un numero talmente grande di avventure (dall’incontro con il generale Epancin e la sua famiglia alla movimentata festa di compleanno di Nastasja Filippovna, in cui Myskin rivela di essere entrato in possesso di una ingente eredità e dichiara solennemente di voler sposare la padrona di casa) da essere in grado di riempire con esse un intero feuilleton; per contro, la seconda parte si apre inopinatamente con un buco nero di alcuni mesi, riempito solo da tanti “sembra” e “si dice” che ci fanno sì ritrovare gli stessi personaggi di prima, ma senza la possibilità di conoscere con sicurezza ciò che essi hanno fatto e pensato in tutto quel tempo. Questo alternare momenti di estrema condensazione narrativa a improvvisi salti temporali crea un anticlimax di grandissima efficacia, che permette a Dostojevskij di “ricaricare” la tensione narrativa (attraverso la creazione di zone d’ombra piene di mistero o l’introduzione di nuovi personaggi) e mantenere sempre desto l’interesse del lettore.
Dall’altra parte, Dostojevskij sorprende e disorienta per i continui cambiamenti di direzione dell’intreccio: leggendo “L’idiota” si ha spesso l’impressione che la vicenda non sia più governata dallo scrittore e possa in qualsiasi momento prendere una piega imprevista. Si tratta però di una impressione inesatta, perché i mille rivoli che sgorgano dal denso substrato drammatico della storia e che fanno a tutta prima assomigliare “L’idiota” a un romanzo d’appendice, si ricompongono alla fine in una struttura miracolosamente equilibrata, in cui lo spunto moralistico di partenza si realizza in maniera del tutto naturale e coerente.
Lungi dall’essere espedienti puramente meccanici e artificiosi di un abile mestierante, i copiosi colpi di scena che contraddistinguono la partitura dostojevskijana appaiono come il risultato necessario della estrema complessità psicologica dei tanti personaggi che si trovano ad interagire, in maniera più o meno conflittuale, tra loro. I complessi rapporti tra i personaggi del romanzo sono forse l’ambito in cui maggiormente si impone l’unicità di Dostojevskij scrittore. Il modo in cui le figure de “L’idiota” entrano in relazione tra loro non ha infatti nulla dell’abituale dialettica che troviamo nella letteratura tradizionale. I personaggi dostojevskijani sembrano al contrario delle particelle impazzite, che cercano instancabilmente negli altri la verifica del proprio essere: essi si attirano come delle calamite, si scontrano, si respingono, si incalzano di nuovo, spinti da un disperato bisogno di aprire il loro animo. E’ sufficiente l’apparizione di un essere che polarizzi queste esigenze, come il principe, per creare dal nulla una elaborata ragnatela di reciproci rapporti, che si concretizzano dal punto di vista narrativo in affascinanti dialoghi a due, in mutue confessioni nelle quali le persone (diversamente da ciò che normalmente capita di vedere nella realtà) si affrancano completamente dalla paura di esporsi alla presunzione o alla ipocrisia di un giudizio morale.
Ma Dostojevskij non si limita a questo: egli è un alchimista che sperimenta tutte le combinazioni possibili tra gli elementi (leggi: personaggi) a sua disposizione, al fine di ricavarne le reazioni psicologiche più esasperate, e perciò più sincere. E’ per questo motivo che Dostojevskij ama spesso radunare in un solo luogo, per una circostanza qualsiasi (una festa di compleanno, un ricevimento, una riunione casuale), un gran numero di personaggi fortemente antitetici e contrastati. In queste sequenze, di cui “L’idiota” offre eccezionali esempi (la scena in casa Ivolgin, con l’arrivo di inattesi personaggi a fare da detonatore a rapporti familiari e sentimentali fino ad allora in fase per così dire magmatica, oppure il ricevimento di Nastasja Filippovna, in cui tutti si attendono da lei una decisione definitiva, o ancora l’affollato raduno nella casa di Lebedev a Pavlovsk, nella quale si trova il principe convalescente), le passioni degli uomini sono continuamente sollecitate e portate alle estreme conseguenze. E’ significativo come la maggior parte di esse si concludano con l’insorgere di stati febbrili (Ganja, Lizaveta Prokofevna, Aglaja), di accessi di epilessia (Myskin) o addirittura di follia (Nastasja Filippovna), a testimonianza di come in queste circostanze la tensione raggiunga sovente livelli insopportabili e difficilmente concepibili nella realtà normale (si pensi alla crudelissima scena in cui Nastasja Filippovna, davanti a un uditorio costernato, getta centomila rubli nelle fiamme del camino, sfidando Ganja a tirarli fuori con le mani nude).
Dostojevskij non si cura tuttavia di apparire realistico. L’episodio sopra descritto è sicuramente eccessivo e anti-realistico, ma ha una sua finalità, quella di contribuire ad assegnare al denaro (che, nei romanzi dostojevskijani, ricordiamolo, non è mai guadagnato con gli usuali strumenti della vita di tutti i giorni, tanto è vero che non risulta che qualche personaggio eserciti un lavoro concreto) una funzione mistico-simbolica, come potenza che apre spazi sconfinati di libertà e di oppressione, di affermazione e di disgregazione. Anche le atmosfere del libro sono agli antipodi della quotidianità spicciola: Dostojevskij le rovescia come guanti, le trasfigura, impregnandole di morbosa inquietudine, disseminandole di segni premonitori e angosciosi contrappunti (come nella bellissima scena che culmina nell’agguato di Rogozin, durante la quale la maturazione dell’accesso epilettico di Myskin si accompagna all’arrivo dell’uragano) e dando loro i toni cupi e irreali di un incubo notturno.
Ho accennato poc’anzi alle parossistiche scene di gruppo, così tipiche dello stile di Dostojevskij: talora esse sono delle splendide occasioni per far risaltare le virtù degli eroi dostojevskijani, ma, ad essere sinceri, il più delle volte si rivelano delle vere e proprie trappole in cui i vari Myskin, Alesa, Zosima rischiano di naufragare miseramente. Dostojevskij, infatti, non spiana mai loro la strada, così da farne risaltare facilmente la grandezza d’animo, ma, al contrario, la cosparge di situazioni imbarazzanti e penose, che rischiano di comprometterne ad ogni istante la nobiltà. L’episodio del presunto figlio di Pavliscev, prima che la truffa di Doctorenko e compagni venga smascherata, è tale da scuotere pericolosamente l’ideale di evangelica bontà incarnato dal principe (così come i dubbi religiosi di Alesa Karamazov rischiano di portare quest’ultimo sulla strada dell’ateismo). Il fatto è che Dostojevskij in ogni romanzo vuole affermare una precisa tesi morale, ma, nel far questo, paradossalmente, si preoccupa sempre, con un accanimento direi quasi masochistico, di metter sul piatto della bilancia tutti gli elementi che minacciano di contraddire questa tesi, anche a costo di rendere questi ultimi più convincenti della stessa. E’ un atteggiamento coraggioso e degno di ispirare la stima ed il rispetto più profondi a qualsiasi uomo, fosse anche l’avversario più accanito della sua ideologia, poiché Dostojevskij, con la rinuncia ai facili e ricattatori stratagemmi narrativi, rischia sempre sulla propria pelle (come si vedrà in special modo a proposito della “Spiegazione necessaria” di Ippolit), gettando nel crogiolo della verifica romanzesca i suoi valori al pari di quelli che respinge.
Siamo giunti finalmente a parlare delle idee cardine di Dostojevskij: “L’idiota”, al pari di tutti i grandi romanzi dostojevskijani, è fatto di idee, in misura largamente superiore a quanto è dato verificare in qualsiasi altra opera della letteratura moderna. Eppure qui nulla è astratto, teorico, speculativo, ma le idee si compenetrano sempre in situazioni reali (anche se, richiamando quanto detto più sopra, non necessariamente realistiche) e personaggi in carne ed ossa. Il problema di Dio, che percorre sotterraneamente, come un fiume carsico che appaia solo raramente in superficie, tutte le pagine de “L’idiota”, non ha nulla di teologico o dottrinale, ma è un problema rovente e incalzante, che condiziona gli uomini in ogni minimo frangente della loro vita, anche quando essi si sforzano di ignorarlo o di nasconderlo. Innanzi tutto, Dio, o meglio quella sua ipostasi che è il Cristo dei Vangeli, informa totalmente di sé il modo di essere del principe Myskin.
Myskin è un personaggio profondamente cristiano: in lui i precetti etici del cristianesimo non sono vuote formule teologiche, ma inderogabili norme di condotta. Se esaminiamo con attenzione la sua personalità, ci accorgiamo che la sua esistenza è una continua provocazione al mondo circostante. Egli è un semplice, indifferente alla propria condizione fino al totale oblio di sé, mentre intorno a lui tutti sono accecati dall’amor proprio e si accaniscono ferocemente nel tentativo di far trionfare la loro egoistica individualità; egli ha una fiducia cieca negli altri, anche quando appare evidente che essi ordiscono trame e complotti a sua insaputa, spesso a suo danno; è sincero fino al masochismo e al sacrificio, incapace com’è di mentire per il proprio tornaconto; la sua intelligenza non è legata alle leggi fondamentali di causalità e non contraddizione e alle regole della morale, ma è l’intelligenza del sentimento, quella che Aglaja definisce l’intelligenza primaria in contrapposizione a un’intelligenza secondaria comune alla maggior parte degli uomini. Myskin dà scandalo, ma non perché sia uno sciocco o uno sprovveduto (anche se gli altri in molte circostanze lo credono), bensì perché egli non vive secondo le norme e le convenzioni sociali, perché dalla sua esistenza sono esclusi i principi generalmente accettati dal mondo: tratta alla pari le persone a lui inferiori per età o per rango (i bambini, il domestico di casa Epancin), non capisce la necessità di affrontarsi in duello per dirimere le controversie, e tutto ciò lo fa senza sforzarsi, senza costringersi ad obbedire a tutti i costi a un comandamento o a un obbligo morale, ma in maniera del tutto naturale e spontanea. Myskin ha nel romanzo una funzione straniante, in quanto con la sua totale diversità (non a caso, egli si considera ed è considerato uno straniero) "defamiliarizza” la realtà costituita, squarciando il velo della sua falsa apparenza.
Alla luce di ciò che si è or ora detto, non stupisce che le persone più vicine al principe Myskin siano i fanciulli, poiché essi sono privi di malizia e di falso orgoglio e il loro animo non è ancora corrotto dall’esperienza né rattrappito in una ortodossia di giudizi e di impressioni. In occasione del suo soggiorno in un piccolo villaggio svizzero, l’influsso che Myskin esercita su di loro viene ipocritamente osteggiato e bollato come malsano dai gretti simboli dell’autoritarismo sociale (i genitori, il pastore, il maestro), ma sono proprio i bambini gli unici a mostrare un barlume di autentica umanità nei confronti di Marie, la povera pastorella tisica, ripudiata ed emarginata dal bigotto moralismo della piccola comunità. Myskin non si vergogna di apparire a sua volta un fanciullo e al giovane amico Kolja confida, con candido stupore: «Come siamo ancora bambini, Kolja! e.. e.. che bella cosa esser bambini!».
Myskin dovrebbe essere, nelle intenzioni dell’autore, un essere asintotico alla condizione spirituale perfetta, quella che si sostanzia nel comandamento di Cristo di amare gli uomini come se stessi. In alcuni passi del quaderno di appunti di Dostojevskij, troviamo scritto che “il supremo e ultimo sviluppo della persona deve appunto giungere a far sì che l’uomo trovi, capisca e con tutta la forza della sua natura si convinca che il supremo uso che può fare del proprio io è, in un certo senso, distruggere questo io, darlo interamente a tutti e a ciascuno anima e corpo e senza riserve… Tutta la storia sia dell’umanità, sia anche di ognuno singolarmente preso, è soltanto sviluppo, lotta, aspirazione e raggiungimento di questo fine”. Questa è la grande utopia de “L’idiota”, una utopia etica che il principe Myskin persegue con abnegazione e che vuol prendere le distanze dall’utopia politica del socialismo.
Anche ne “L’idiota” Dostojevskij non manca di attaccare duramente i nichilisti, sebbene questa polemica non costituisca, come ne “I demoni”, il motivo centrale del romanzo. La rievocazione dell’eccidio della famiglia Zemarin da una parte, e l’episodio di Burdovskij, che Doctorenko e i suoi compagni strumentalizzano in maniera ignobile, dall’altra, svelano quelli che per l’autore sono gli imperdonabili errori delle dottrine socialiste del tempo: l’intransigenza ideologica e l’esclusione del diritto di scelta (una posizione che all’incirca si riassume così: “solo noi siamo nel giusto e tutti coloro che non la pensano allo stesso modo sono nemici da combattere"), l’arbitraria manipolazione delle argomentazioni a sostegno delle proprie tesi (Doctorenko e i suoi amici ricusano sdegnosamente ogni manifestazione di gratitudine, ma poi, come intuisce Lizaveta Prokofevna, fanno leva proprio su questa per indurre Myskin a soddisfare le pretese di Burdovskij) e infine il sacrificio dell’interesse individuale a vantaggio di quello collettivo. Ma la conseguenza più aberrante cui le teorie liberali, non supportate da solide fondamenta etiche, conducono è il trionfo del diritto della forza, cioè, come si esprime Evgenij Pavlovic, del “diritto del pugno individuale e dell’arbitrio personale”, partendo dai quali è quasi inevitabile giungere al “diritto delle tigri e dei coccodrilli”. Persino un essere meschino come Lebedev se ne rende conto, quando afferma di non credere agli strumenti del progresso che dovranno assicurare la felicità del mondo, “giacché codesti carri che portano il pane all’umanità, ove all’agire manchi una base morale, possono con perfetto sangue freddo escludere dal godimento di ciò che portano una parte cospicua del genere umano”. E lo stesso principe Myskin non può non riconoscere che il diffuso pervertimento delle idee spinge molti giovani a commettere orrendi delitti nella presunzione, che potremmo definire raskolnikoviana, di avere tutto il diritto di comportarsi così, quasi che a legittimarli, rendendo il delitto “naturale” e “necessario”, fosse sufficiente una situazione di diffusa ingiustizia sociale.
La problematica religiosa de “L’idiota” non si esaurisce nella contrapposizione con le teorie socialiste e liberali, la cui fallacia, come si è appena visto, è dimostrata in maniera annichilente. In antitesi a Myskin e al suo amore cristiano, Dostojevskij ha infatti messo anche Ippolit e la sua ribellione. Con Ippolit fa scopertamente il suo ingresso la morte, la cui presenza, sotto forma di funesti presagi (come l’inquietante leit motiv del coltello) e di dolorosi ricordi, percorre il romanzo fin dalle prime pagine. Ippolit infatti è tisico e sa di dover morire in breve tempo (glielo ha rivelato uno studente universitario “materialista, ateista e nichilista”). Una penosa situazione di impotenza, di solitudine, di invidia e di orgoglio represso, lo induce a scrivere, e poi a leggere di fronte a un uditorio numeroso ed eterogeneo accorso in casa del principe per festeggiare il suo compleanno, la sua “Spiegazione necessaria”. In questo freddo eppur straziante addio alla vita, in questa confessione insieme esaltata e lucidissima, Ippolit sviluppa e porta alle estreme conseguenze una singolare filosofia materialistica dell’uomo, della natura e della religione, che lo apparenta per molti aspetti ad altri importanti personaggi dostojevskijani, come Kirillov e Ivan Karamazov.
Questa filosofia è compendiata dal terrificante sogno dello scorpione: Ippolit sente la natura come una “bestia enorme, implacabile e muta”, o meglio come una “mastodontica macchina di nuovissima costruzione” che tutto afferra, stritola e inghiotte insensatamente. Una simile concezione della natura, solo apparentemente delirante, in realtà piena di complessi risvolti psicanalitici, non porta Ippolit ad escludere automaticamente l’esistenza di Dio, sebbene egli poi proclami di non sottomettersi ad alcuna forza soprannaturale (“Non riconosco alcun giudice sopra di me”). Ippolit si sforza di negare il mistero, quel mistero che, sia pure in forma provocatoria ed angosciante, emerge anche dalla tela del “Cristo morto nel sepolcro” di Holbein il Giovane, ma la negazione, si sa, è già in qualche modo una affermazione. Difatti alla fine Dio svela a Ippolit il suo volto, che non è quello misericordioso dei Vangeli e neppure quello terribile ma giusto dell’Antico Testamento, bensì quello, spietato e crudele, di padre che provoca dolore ai suoi figli. “La vita eterna io l’ammetto e, forse, l’ho sempre ammessa. Che la coscienza si sia accesa in noi per la volontà di una forza superiore, abbia gettato uno sguardo al mondo circostante ed abbia detto: “io sono”, e che poi tutt’a un tratto quella stessa forza suprema le ordini di annientarsi, perché così è necessario lassù per qualche scopo - e anche senza spiegare per quale -, tutto questo io l’ammetto, ma ecco di nuovo l’eterna domanda: che bisogno c’è, per giunta, della mia rassegnazione? Non mi si può divorare semplicemente, senza pretendere da me delle lodi a ciò che mi divora? Possibile che lassù qualcuno si senta veramente offeso perché io non voglio pazientare quindici giorni?… Chi dunque, dopo tutto questo, mi giudicherà, e per quale colpa? Sia come volete, ma tutto ciò è assurdo e ingiusto… Ma se tutto ciò è così difficile, anzi assolutamente impossibile a capirsi, sarò forse responsabile di non essere in grado d’intendere quello che è incomprensibile?… Se fosse stato in mio potere di non nascere, certo non avrei accettato l’esistenza a condizioni tanto derisorie…”.
C’è un involontario parallelismo tra la malattia di Ippolit e la esecuzione capitale raccontata in inizio di romanzo da Myskin. Questi riconosce, con uno sdegno che è umanista prima ancora di essere cristiano, che la pena di morte è una punizione di gran lunga peggiore del delitto commesso, ma, utilizzando lo stesso metro di giudizio, si potrebbe facilmente, e in maniera quasi inoppugnabile, arrivare a sostenere la spietatezza di un Dio che condanna a morte un giovane nel fiore degli anni. E’ una crudeltà che nessuna armonia futura può legittimare. L’uomo, che è essere corporeo e limitato, non può infatti accettare una immensa ingiustizia terrena in nome di una incerta ricompensa futura. E’ assurdo d’altronde attribuire a Dio il diritto di una suscettibilità tipicamente umana e addossare contemporaneamente all’uomo l’obbligo di sottomettersi a una fede irrazionale che è al di là delle sue facoltà di comprensione. L’unica risposta che Ippolit è in grado di dare è il suicidio come estremo atto di volontà: “Non muoio già perché mi manchi la forza di sopportare questi venti giorni… La natura ha talmente limitato la mia attività col suo termine di venti giorni, che il suicidio è forse l’unico atto che io possa ancora cominciare e finire di mia volontà. E se io volessi approfittare della mia ultima possibilità di agire? La protesta, a volte, non è poca cosa…”.
Anche se il tentativo di suicidio di Ippolit finisce in farsa e sotto sotto egli stesso cerchi null’altro che il bel gesto, l’ammirazione degli altri e la consacrazione della sua speranza di essere un grand’uomo (“sognai che tutti di colpo mi avrebbero aperto le braccia per stringermi in un amplesso e mi avrebbero chiesto perdono”), la forza della sua confessione rimane intatta, contrapponendosi specularmente alla disponibilità di Myskin verso la fede. Ancora una volta a risaltare è il carattere problematico della fede, la dissociazione profonda tra sentimento religioso e razionalità. Diversamente da Kierkegaard, che nell’episodio di Abramo e Isacco vede pur sempre una fede consapevole ed elevata, coerente fino al sacrificio supremo, Dostojevskij intende la fede come qualcosa di assolutamente estraneo alla logica e alla morale, spesso addirittura coesistente con il rifiuto, rozzo e bestiale, di ogni legge umana. Il significato della fede dostojevskijana è espresso molto bene nei quattro episodi che Myskin racconta a Rogozin, dall’ateo colto ed educato che, parlando di Dio, ha l’aria “di parlare di tutt’altro”, al contadino che uccide il compagno “recitando tra sé una triste preghiera”, al soldato ubriaco che vende la sua croce per andarsela a bere in osteria (“Non voglio affrettarmi a condannare questo venditore di Cristo. – dice Myskin – Iddio sa quel che si nasconde in questi deboli cuori di ubriaconi”), fino ad arrivare all’umile donnetta col lattante, in cui si può cogliere addirittura l’essenza del cristianesimo, cioè “la nozione di Dio come nostro vero padre e della gioia di Dio davanti all’uomo come gioia del padre davanti al figliol suo: il pensiero fondamentale di Cristo”. Si può affermare, citando ancora le parole di Myskin, che “l’essenza del sentimento religioso è indipendente da qualsiasi ragionamento, da qualsiasi colpa o delitto, da qualsiasi ateismo; c’è in esso qualche cosa di indefinibile, e ci sarà sempre; qualche cosa che sempre gli atei sfioreranno appena, discorrendo sempre di tutt’altro”.
Il problematicismo che si riscontra nella fede è fors’anche la caratteristica principale di tutto il romanzo. Dostojevskij è un vero e proprio psicanalista ante litteram e analizza gli atti e i pensieri dell’uomo nella sua inesauribile molteplicità dei loro significati. Gli stessi valori di bene e male, di onestà e delitto, di virtù e vizio, di amore e odio divengono nozioni fluide e problematiche, perdendo la loro fissità dogmatica. Ciò che appare bene, a uno sguardo più attento si rivela spesso nient’altro che filisteismo morale, mentre per converso il male è a volte più umano di quel che si pensa.
Questo problematicismo lo si riconosce nella stessa personalità del protagonista, specialmente in quel suo continuo rimproverarsi di essere posseduto da “doppi pensieri” (ad esempio, avere una smodata fiducia nel prossimo e contemporaneamente una ineliminabile diffidenza), oppure nella sua convinzione di non essere in grado di esprimere i pensieri e i sentimenti che possiede nell’animo in parole che possano guidare e aiutare le persone intorno a lui. Myskin rivela, con il trascorrere del tempo, degli aspetti imprevedibili, avvalorando addirittura la tesi di una clamorosa, ma non impossibile, identità con l’antagonista Rogozin. Myskin e Rogozin sembrano l’uno il contrario dell’altro: per il primo l’amore è prevalentemente compassione, per il secondo è passionalità sfrenata; il primo ha una fede semplice e spontanea, il secondo l’ha persa da tempo e lotta furiosamente con sé stesso per riconquistarla; il primo dirige indifferentemente i propri pensieri e sentimenti verso una schiera potenzialmente infinita di soggetti, il secondo ha un’unica, maniacale, idea fissa per cui vivere: Nastasja Filippovna; il primo è spiritualità, il secondo è carnalità; e si potrebbe proseguire oltre. Apparentemente antitetici, Myskin e Rogozin sono in realtà complementari, due facce della stessa medaglia. Come afferma Ippolit in un passo del romanzo, “le estremità si toccano”, e Dostojevskij lo sottolinea a più riprese sovrapponendo i due personaggi nei principali snodi narrativi (l’arrivo in treno a Pietroburgo, l’amore per Nastasja Filippovna, la quale oscilla freneticamente tra i due, lo scambio delle croci, l’assassinio), fino a dar loro un destino comune. Psicanaliticamente, Rogozin è il doppio di Myskin: gli occhi nella folla da cui il principe si sente continuamente osservato fanno vagamente pensare al poeiano “William Wilson”, mentre il morboso e patetico abbraccio nel cuore della notte fatale sembra sancire il definitivo annullamento dell’uno nell’altro. Non è un caso che Rogozin sia all’origine dei “doppi pensieri” del principe: avendo quest’ultimo, nel corso della prima visita, sospettato Rogozin capace di ucciderlo, egli sente di dover scaricare dalle spalle del compagno (e addossare invece sulle proprie) ogni colpa e responsabilità.
L’esistenza di personaggi come Myskin e Rogozin non è che un’ulteriore, irrefutabile prova di come la personalità dell’uomo sia problematicamente complessa e al tempo stesso insufficientemente sviluppata. Se solo Myskin possedesse qualcuna delle indubbie qualità di Rogozin, probabilmente il romanzo non finirebbe in tragedia. La luttuosa conclusione de “L’idiota” non è infatti altro che la conferma del fallimento esistenziale del suo protagonista, troppo angelico per essere uomo fino in fondo. Molteplici sono invero i limiti e i difetti del principe Myskin ad una analisi non superficiale del personaggio. Egli è abulico e passivo (ma è quasi una legge di natura che quanto più è elevato il grado di un valore tanto più debole è la sua affermazione nel mondo della realtà immediata), compiange tutti senza consolare nessuno (lo ricordiamo come presenza muta e impotente di fronte ai drammi di Ippolit prima e di Rogozin poi), è incapace di dare giudizi discriminanti, distinguendo nettamente tra bene e male. Nella scena del drammatico incontro tra i due grandi, titanici, personaggi femminili del romanzo, Nastasja Filippovna e Aglaja Ivanovna, Myskin sta in mezzo a loro come una marionetta succube e priva di volontà: se finisce col respingere Aglaja e scegliere Nastasja è solo perché quest’ultima gli sviene tra le braccia, ma ovviamente non riesce poi a fare felice neppure lei. Il suo amore è grande, ma incorporeo ed esangue, è compassione più che amore carnale, è in fin dei conti non-amore, proprio perché è universale e si indirizza indistintamente a più persone senza fermarsi su una sola di esse. Al pratico e positivo Evgenij Pavlovic che gli obietta perplesso di non poter amare veramente Nastasja Filippovna, Myskin risponde: “«Oh no! io l’amo con tutta l’anima!..». «E nello stesso tempo assicuravate Aglaja Ivanovna del vostro amore?». «Oh sì, sì!». «Ma come? Vorreste dunque amarle tutt’e due?». «Oh sì, sì!»”.
La smaniosa brama di redimere e fare del bene che caratterizza il principe Myskin non è la vera via d’uscita dalla tragedia dell’uomo: in un certo senso, i veri eroi positivi del romanzo sono personaggi umili e secondari, come Evgenij Pavlovic e Vera Lebedeva, i quali sanno stare al loro posto senza aver l’ambizione di cambiare il mondo. “Non è facile trovare il paradiso in terra, - dice saggiamente il principe Sc. a Myskin – e voi ci fate proprio un po’ di assegnamento: il paradiso è una cosa difficile, principe, molto più difficile che non paia al vostro ottimo cuore”. Di questa difficoltà, Dostojevskij è pienamente consapevole, ma è lungi da lui il pensiero di trarre da questa constatazione la drastica deduzione che il cristianesimo ha fallito il suo scopo. I vari principi Myskin che si sono succeduti nel corso dei secoli non sono riusciti – è vero – ad attuare l’ideale di fratellanza universale che era l’insegnamento di Cristo, ma è altrettanto vero che questo ideale non è di questa terra e potrà affermarsi – e la sublime utopia dostojevskijana realizzarsi con pienezza – solo nel regno eterno dell’aldilà.
Indicazioni utili
NEL LABIRINTO DELLA FOLLIA
“A questo punto il giaguaro di destra estrae una selce acuminata e la pianta nel cuore della vittima. Uno spigolo apre nel petto uno squarcio profondo. Kien chiude gli occhi inorridito. Pensa che il sangue sprizzi al cielo e biasima una simile barbarie medioevale. Aspetta fino a quando pensa che il sangue abbia cessato di scorrere e poi apre gli occhi. Orrore: dal petto squarciato salta fuori un libro, poi un secondo, un terzo, una moltitudine. Non accennano a finire, cadono per terra dove vengono avvolti da fiamme striscianti. Il sangue ha appiccato il fuoco al rogo, i libri bruciano. «Il petto!» grida Kien al prigioniero «chiuditi il petto!». Gesticola con le mani, così deve fare, ma presto, presto! Il prigioniero capisce; con un violento strattone si libera dei legami e si porta le mani al cuore; Kien respira sollevato.
Ma ecco, la vittima si allarga lo squarcio nel petto, libri su libri rotolano fuori. A dozzine, a centinaia, impossibile contarli; il fuoco lambisce la carta; ogni libro implora aiuto, grida stridule si levano da ogni parte. Kien protende le braccia verso i libri che bruciano… Kien lancia un urlo e si sveglia”
“Auto da fé” provoca fin dalle prime pagine un curioso effetto di identificazione. Il lettore di Canetti non può infatti fare a meno di rispecchiarsi istintivamente nel protagonista, il professor Kein, e nelle sue ossessioni: l’amore morboso per i libri, l’esaltazione solipsistica che dà l’erudizione, il disprezzo per la volgarità e le meschine occupazioni della gente, l’isolamento esclusivo nella torre d’avorio della cultura, la biblioteca come microcosmo perfetto e rifugio contro le irruzioni del mondo esterno. Tutto questo è presente in Kein in forma patologica e maniacale, ma è innegabile che, magari in piccolissima parte, in modo più o meno consapevole, appartenga anche al lettore più smaliziato. Chi ama la letteratura (o la musica, la filosofia, il cinema,…) è snobisticamente indotto ad anteporre l’arte alla vita, sebbene probabilmente solo per il breve lasso di tempo riservato alla lettura di un libro, all’ascolto di una sinfonia, alla visione di un film: in quei momenti, che faccia piacere o no, egli è Kein e tutto il resto, vale a dire quella porzione di realtà esterna da cui non è possibile evitare di farsi lambire e in maggior o minor grado coinvolgere, è incarnato dalla governante Therese. Il rapporto tra Kein e Therese diventa pertanto la metafora di un rapporto più complesso: quello dell’io del lettore (o più in generale del fruitore dell’opera d’arte) con la vita banale e prosaica di tutti i giorni che, con il ricorso sublime all’arte (di cui i libri di Kein sono un simbolo esemplare), ci si sforza di eludere.
Il fenomeno di identificazione del lettore in Kien, certo, non va oltre i primi capitoli, quelli in cui l’autore analizza in termini ancora prevalentemente realistici, sia pure connotati da un gusto sottilmente perverso e beffardamente sado-masochistico, la lotta senza esclusione di colpi tra i due sessi cui il ménage matrimoniale conduce, con il progressivo sacrificio dello spazio della biblioteca che la razionalità intellettuale deve subire di fronte alla rozza e prepotente avanzata dell’istinto ferino. Ma quando, in maniera inattesa, Kien viene cacciato di casa ed è costretto a rinunciare alla propria biblioteca, Canetti dimostra, oltre di non voler rinchiudere la propria narrazione entro il claustrofobico perimetro di un appartamento, anche di puntare a qualcosa di più di una satirica requisitoria contro il matrimonio o contro l’intellettualismo fine a se stesso, ampliando il suo discorso in una chiave eminentemente metaforica. “La cultura è un salvagente dell’individuo contro la massa che è in lui”, afferma lo scrittore austriaco. Ed è così che, gettato fuori dal suo mondo ovattato e rassicurante, Kien diventa il protagonista di una vera e propria discesa negli inferi della condizione umana, finendo in balia di una moltitudine di bizzarri e strampalati personaggi (veri e propri freaks di una Vienna rappresentata in maniera espressionisticamente inedita, quasi surreale), i quali sono la proiezione a un livello generale di quella parte selvaggia e belluina dell’io (la “bestia nell’uomo”) rappresentata, come si è visto, da Therese o dal portiere Pfaff. Essi danno vita a una sarabanda folle, frenetica, vertiginosa, in cui la logica deraglia miseramente e la caricatura, la burla, il riso iniziali sfuggono progressivamente ad ogni controllo e finiscono per strozzarsi in un muto grido di orrore. L’umanità di Canetti è popolata di piccoli imbroglioncelli, furfanti di mezza tacca, invalidi fasulli che vivono di accattonaggio, laidi vagabondi e impiegatucci senza un soldo in tasca, ruffiani e prostitute, tutti quanti affannati a garantirsi, l’uno in lotta contro l’altro, un illusorio spicchio di benessere nell’improba lotta per la sopravvivenza che è la loro vita. Questa è la fauna, stracciona, anarchica, opportunista e pusillanime, che popola la stramba “comédie humaine” canettiana e in cui si imbatte Kien quando finalmente esce nel mondo e, novello Don Chisciotte, intraprende, fidandosi ingenuamente della lealtà del suo Sancho Panza, ossia il nano Fischerle, la sua folle crociata per salvare i libri contro l’incuria e l’ignoranza con cui vengono usualmente trattati (e il Theresianum, il Monte dei Pegni, assume un po’ il ruolo – proseguendo nell’analogia cervantesca - dei mulini a vento dell’eroe spagnolo). Questa umanità viene ritratta con uno spassoso e colorito gusto caricaturale, ma dietro la superficie farsesca si cela un giudizio impietoso, ancorché alieno da ogni moralismo, per quelli che, a livello individuale, sono patetiche marionette sballottate dal destino, ma che, convertiti in folla, diventano una marea incontrollabile e impetuosa di pulsioni primitive e irrazionali, pronta a degenerare in men che non si dica nella violenza e nel caos (come infatti avviene nel capitolo “Il ladro”). “Auto da fé”, nonostante le apparenze di apologo fuori dal tempo e dalla storia, diventa perciò, visto in questa ottica, un clamoroso atto di accusa verso quella situazione sociale gravida di rivendicazioni deluse e di fanatismo, di populistica grettezza e di razzismo, che sfocerà di lì a poco nell’avvento del nazismo.
Uno dei tratti più caratteristici del romanzo di Canetti è il frequente, ancorché indiretto, ricorso che egli fa alla psicanalisi e alla psichiatria. Non è un caso, forse, che il fratello di Kien, Georg, sia un famoso alienista che dirige una clinica di malattie mentali. E a un manicomio fa spesso venire in mente questa pantomima tragicomica, in cui tutti i personaggi sono in preda alle ossessioni e alle manie più diverse: non solo i libri per Kein, il quale vive chiuso nel suo angusto universo mentale e che, quando esce per la strada, confronta tutto ciò che vede con quello che ha in precedenza letto e che ritiene sia il solo garante di verità ed autenticità (finendo inevitabilmente per essere depredato, truffato, malmenato e ridotto in schiavitù, pur conservando intatta la sua spocchiosa alterigia, incapace com’è di far tesoro delle esperienze che non derivino dalle asettiche pagine di un testo antico); ma anche i soldi per Therese, che tormenta il marito con il testamento, il costo della vita (“i prezzi aumentano di giorno in giorno, le patate costano già il doppio” è il suo tormentone preferito), le meschine aspirazioni a un benessere piccolo-borghese (a cui si affida autoconvincendosi di essere una donna giovane e piacente, grazie soprattutto alla ridicola gonna inamidata che esibisce davanti a tutti come un simbolo di magnificenza); i pugni per il portinaio, che si vanta di aver picchiato per anni la moglie e la figlia e si cruccia di non poter più menare le mani con nessuno; gli scacchi per il nano Fischerle, che sogna di riscattarsi e diventare famoso battendo il campione del mondo in una utopica America, destinata a svanire beffardamente proprio quando sembrava essere a portata di mano; e ancora le donne grasse per il mendicante cieco, le cravatte per l’ispettore di polizia dal naso piccolo, ecc. ecc. Le ossessioni reali dei protagonisti finiscono addirittura per sovrapporsi a quelle che, freudianamente, fuoriescono dal subconscio durante il sonno, generando per essi una curiosa confusione tra immaginazione e realtà: così Kien si convince che la moglie è morta di inedia nell’appartamento da lui lasciato, e confessa successivamente alla polizia tutti i dettagli (compresi quelli del funerale) che lui stesso ha costruito con la sua fantasia, credendoci poi come fatti incontestabili; e Fischerle, analogamente, crede di essere già il campione del mondo di scacchi, e non solo immagina la sua futura vita fatta di fama, onori e ricchezze, ma anche i suoi progetti e i suoi comportamenti pratici vengono influenzati da questa chimera, spacciata come cosa vera e incontrovertibile. Il risultato di questa commistione tra sonno e veglia è che l’intero romanzo assume la forma propria di un incubo. I personaggi si muovono infatti come sonnambuli, le leggi della realtà funzionano solo saltuariamente, e in scene come quella dell’interrogatorio, che sembra uscita da un racconto di Kafka, ognuno può agevolmente accusare tutti, sfidando qualsiasi verosimiglianza logica, e contemporaneamente sentirsi in colpa per qualcosa che non ha commesso.
E’ evidente che l’unico sbocco possibile per il romanzo è la follia. Il precario equilibrio iniziale di Kien, tenuto a stento insieme per mezzo delle severe regole di vita che questo vero e proprio anacoreta della cultura si è dato, vacilla con il matrimonio, e la sua progressione verso la pazzia è inarrestabile: egli arringa la sua biblioteca incitandola alla resistenza contro l’invasore, si costringe alla cecità per non vedere i mobili nel suo studio, impara a diventare una statua di pietra per opporsi a Therese, quando è cacciato da casa si trascina parte dei suoi libri dentro la testa e, la sera, giunto nella stanza d’albergo, li ripone con cura a pile sul pavimento. Quando, al Theresianum, vede riapparire la consorte da lui considerata defunta, è convinto che si tratti di un inganno dei sensi e non esita a tagliarsi un dito per dimostrare a se stesso di essersi sbagliato. L’inatteso arrivo a Vienna del fratello Georg sembra essere il coup de théâtre che ristabilisce come per magia l’ordine e l’equilibrio che sembravano turbati per sempre. Ma l’intervento del deus ex machina parigino è solo l’ultima beffa che Canetti riserva al suo lettore. Infatti l’esito del libro è inevitabile, e tutti i segnali disseminati numerosi dall’autore fin dalle prime pagine – ad esempio, il sogno del giaguaro o quello del gallo rosso – avrebbero dovuto renderlo palese: l’ultimo, fatidico atto della follia di Kien è l’incendio della sua biblioteca, il sacrificio supremo, la catarsi definitiva, che suggella in maniera spettacolare, con le fiamme che crepitano come in un rogo medioevale, il gesto estremo, eppure perfettamente conseguente con ciò che è stata l’intera sua vita, di una mente smarritasi nel labirinto della follia.
Indicazioni utili
ARTE VS. VITA
Tra le molteplici suggestioni che “La morte a Venezia” offre, quella che fin dall’inizio appare predominante, informando lo spirito stesso dell’opera, è il conflitto tra l’arte e la vita. Da sempre sensibile al problema del ruolo dell’artista nella società dell’epoca, Mann ha portato ad estreme, parossistiche conseguenze, con il personaggio di Gustav Aschenbach, la rappresentazione di quella particolarissima condizione spirituale, facendola giungere ad un livello di sublimazione estetica così elevato da provocare un profondo distacco dalla realtà. Aschenbach è uno scrittore famoso e universalmente acclamato, il quale, dopo una vita condotta nel segno dell’autodisciplina, del rigore morale e della dignità, giunge, al culmine della sua maturità, ad assolutizzare il binomio forma-contegno al punto da costruire una filosofia etico-artistica fondata sull’”abbandono di ogni ambiguità morale, di ogni simpatia per l’abisso”, sul rifiuto ad un tempo della scienza e del relativismo psicologico. Questo tentativo di realizzare il “miracolo della rinata sincerità” per mezzo di un novello classicismo, impone però all’artista di obbedire ad una pratica spirituale severa ed ascetica, che è in palese opposizione alla vita, anzi è non-vita. E’ sufficiente l’inconsueto incontro con un forestiero dall’aspetto misterioso e inquietante per far sorgere improvvisamente in lui il desiderio, anzi il bisogno, di viaggiare, di interrompere la rigida routine lavorativa. Nelle pagine successive diviene chiaro il duplice significato di questa apparizione: essa è il segnale che una piccola falla si è aperta nell’edificio così faticosamente costruito, in tanti anni di autodominio, dal protagonista, l’avvertimento che il disordine delle passioni e degli istinti sta per irrompere fatalmente nella sua esistenza; e nello stesso tempo rappresenta, incarnata in quell’estraneo dall’aria feroce, dalle rughe profonde, dalle labbra troppo corte e dai denti bianchi scoperti fino alle gengive, la prima manifestazione della morte.
Nella novella si assiste a un fitto gioco di corrispondenze, di rimandi simbolici, di segni premonitori, che generano in Aschenbach l’impressione “che le cose non prendessero la piega consueta, come se una trasognata alienazione, una strana deformazione del mondo stesse per prendere il via”. Il personaggio del forestiero, ad esempio, ritorna ossessivamente, con tratti fisici addirittura uguali, nelle figure del gondoliere e del cantante, quasi che la morte intendesse inviare all’eroe indeciso funerei messaggeri dall’identico viso. E come non accorgersi di tutti quegli altri presagi che la morte, autentica protagonista del racconto, dissemina qua e là, dal nero delle gondole, che richiamano alla mente “feretri e tenebrose esequie”, al nero del panno della macchina fotografica abbandonata sulla spiaggia. Questi arcani e sibillini messaggi non tardano a far breccia nel cuore di Aschenbach. Quando egli giunge a Venezia, il suo equilibrio è già irrimediabilmente compromesso, al punto che, abbandonato mollemente sui cuscini della gondola che lo sta trasportando attraverso la laguna, si sorprende a pensare: “La traversata sarà breve. Potesse durare per sempre!”. Questo sentimento, che indica il rilassarsi della volontà morale, viene vanamente contrastato da Aschenbach. In realtà, più che ingaggiare una lotta per difendere dal disordine e dal caos la propria dignità e le proprie convinzioni etiche, Aschenbach si circonda di pretestuosi alibi per non riconoscere la resa. Quando, infatti, il bellissimo Tadzio calamita su di sé l’attenzione del protagonista, costui rifiuta inconsciamente di riconoscere la natura erotica dell’ammirazione che prova per l'adolescente, dando ad essa un carattere esclusivamente estetico e contemplativo, convincendosi anzi che quella passione ha la stessa sacra natura della creazione artistica: “Quale disciplina, quale precisione dell’idea si esprimeva in quell’organismo agile e giovanilmente perfetto! La rigida e pura volontà, tuttavia, che, oscuramente agendo, aveva potuto portare alla luce questa divina opera d’arte, non era forse nota e familiare a lui, l’artista? Non agiva forse anche in lui, quand’egli, pieno di serena passione, sprigionava dal blocco marmoreo della lingua la snella forma che aveva contemplato in spirito e che presentava agli uomini quale monumento e specchio della bellezza psichica? […] Con estatica esaltazione egli credeva di cogliere la Bellezza in sé, la Forma come pensiero divino, l’unica e pura perfezione che vive nello spirito e di cui era qui offerta all’adorazione un’immagine umana, un’allegoria lieve e leggiadra”. In Aschenbach si intravede un desiderio inconsapevole e voluttuoso di autodistruzione: così, quando, oppresso dal clima soffocante di Venezia, egli prende controvoglia la decisione di lasciare la città, non può non accogliere con soddisfazione a stento dissimulata la fatalità che, sotto forma di un errore nella spedizione del bagaglio, lo costringe a rimandare la partenza e a rimanere ancora vicino al conturbante oggetto del desiderio. Messo di fronte alla realtà della sua situazione, le fragili e inconsistenti difese innalzate da Aschenbach saltano del tutto: l’anziano letterato, perdutamente innamorato dell’efebico ragazzo, è indotto a spogliarsi di quella forma e di quel contegno che erano stati i suoi irrinunciabili parametri di riferimento per tutta la vita, assiste impotente (lui, il cultore della apollinea compostezza, della intransigenza morale) al prevalere degli istinti dionisiaci e, dissoltosi in lui qualsiasi scrupolo etico, finisce per imitare proprio quel damerino che, all’inizio del racconto, aveva suscitato in lui una grande ripugnanza. Se il suo magistero era stato, come si è visto, una rinuncia alla vita, ora che la vita erompe con prepotenza, sconvolgendo le strutture apparentemente consolidate, l'artista si scopre costituzionalmente incapace di trovare un giusto equilibrio tra il regno dello spirito e della razionalità da una parte e quello della fantasia e dei sensi dall’altra: la conclusione inevitabile del racconto è la morte del protagonista. Essa è una morte naturalisticamente rappresentata, giacché Aschenbach muore di colera, probabilmente per aver mangiato delle fragole troppo mature, ma è anche e soprattutto una morte simbolica, perché Tadzio si allontana definitivamente dalla sua esistenza.
Cercare ne “La morte a Venezia” un’unica chiave di lettura è impresa inutile, oltre che riduttiva, poiché il suo fascino si nutre essenzialmente delle molteplici e complesse interrelazioni esistenti tra i diversi leitmotiv del racconto: l’amore, la bellezza, la malattia, la morte. Estremamente seducenti, in un contesto dichiaratamente simbolico, sono i parallelismi che si creano tra la passione di Aschenbach per Tadzio e l’epidemia che scoppia a Venezia. Innanzitutto, va detto che la città lagunare viene completamente reinventata da Mann, il quale la fa essere non più (o non solo) un luogo reale ma il frutto delle proiezioni di un’intellettualità morbosa, allucinata e sull’orlo della degradazione morale. L’atmosfera che la circonda contribuisce a connotare bene le diverse fasi della vicenda e lo stato d’animo del protagonista: le acque stagnanti e putrescenti della laguna, lo scirocco soffocante e afoso, l’aria fetida e malsana che si respira lungo le calli sempre più abbandonate, sembrano la materializzazione di una indefinibile situazione spirituale, languida e neghittosa insieme. L’incubazione della malattia nella città esotica e decadente si accompagna perciò alla febbrile presa di coscienza di Aschenbach della sua passione omosessuale, così come il segreto dei veneziani che cercano di tenere i forestieri all’oscuro della pestilenza si confonde con il segreto della sua corruzione morale, che culmina nell’egoistica volontà di non mettere a parte l’ignara famiglia polacca di Tadzio dei rischi del contagio. L’allentamento dei costumi che l’epidemia provoca nella popolazione è poi l’oggettivazione della ormai inarrestabile discesa di Aschenbach verso quell’abisso che egli aveva violentemente stigmatizzato nelle sue opere e che nelle ultime pagine del racconto si estrinseca in un mostruoso sogno culminante in un’orgia dionisiaca. La malattia fisica del protagonista, come già detto, è il riflesso della sua malattia morale e decreta la definitiva sentenza che noi già conosciamo, che egli cioè è diventato preda delle selvagge forze dell’Eros. Ma la malattia e la morte non sono solo il capitolo conclusivo di un singolare itinerario spirituale, esse formano anche – e conoscendo Mann non poteva essere che così – un connubio ineluttabile con la bellezza. Osservando da vicino Tadzio, Aschenbach pensa tra sé: “«E’ molto debole, è malaticcio. Probabilmente non arriverà alla vecchiaia». E rinunciò a darsi ragione del sentimento di soddisfazione o di sollievo che s’accompagnava a quel pensiero”. Per l’artista, bellezza significa morte; egli, mediatore tra spirito e sensi, tra mondo eterno e mondo terreno, è portato a confondere con la morte l’oggetto della sua ammirazione, di augurarsi la corruzione fisica di ciò che ama, perché in questo è la condizione della sua sublimazione e della sua durata.
“La morte a Venezia” è un racconto di poche decine di pagine, ma racchiude tutta l’essenza dell’arte manniana. Stupiscono in essa la perfezione compositivo-architettonica e la sapienza stilistica, che forse solo in Proust hanno saputo trovare un pari sfoggio. Le sfumature delle variazioni tematiche e la ricchezza di contrappunti danno poi all’opera di Mann un fascino che si potrebbe definire musicale. Il linguaggio è solenne, paludato di classico, ricco di figure retoriche e di aggettivi e participi sostantivati: preso alla lettera potrebbe essere considerato pedante e fastidioso, ma bisogna tenere presente che Mann ha voluto di proposito scrivere il racconto nello stile imponente e sostenuto che avrebbe utilizzato Aschenbach, al fine di ottenere un effetto quasi caricaturale (si pensi alla prosopopea del secondo capitolo o ai frequenti intermezzi grecizzanti). La cosa di gran lunga migliore, a mio avviso, è rappresentata dalla densa e suggestiva trama di riferimenti simbolici che percorre da un capo all’altro la novella e che consente di superare la rigida e astratta polarità tra la ragione repressiva e la rivolta distruttrice degli istinti. Inscritta in rigorose coordinate tematiche che lasciano intuire un lungo e paziente lavoro preparatorio a tavolino piuttosto che l’immediatezza di una folgorante ispirazione, “La morte a Venezia” può sembrare a tratti un’opera fredda, raggelata dall’abbondante ricorso a virtuosismi stilistici non privi di un autocompiacimento estetizzante: ma questo è Thomas Mann, geniale e solitario epigono della decadenza, il quale ha portato nell’analisi di questo fenomeno, grazie alla fusione di calmo distacco e di passione, di freddezza critica e di liricità, un fervore davvero minuzioso.
Indicazioni utili
L'ESTREMO PASSO
Lev Tolstoj, nelle sue opere, ha sempre osservato la morte con una sorta di sgomenta venerazione, quasi che, divorato da una religiosa e al tempo stesso terrena curiosità, avesse voluto con le esperienze dei suoi personaggi cercare di squarciare quel terribile velo di mistero che la circonda dall’inizio dei tempi. In “Guerra e pace”, ad esempio, la morte del vecchio conte Bezuchov, ridotta dalla fatuità, dall’ipocrisia e dall’irriverenza dei parenti a un insensato e grottesco rituale, eppure ancora in grado di rivelare un alone di tragica grandezza con il suo ambiguo alludere a qualcos’altro (“All’avvicinarsi di Pierre, il conte fissò su di lui uno di quegli sguardi che nessuno può più capire: o quello sguardo non voleva dire assolutamente niente, perché fin quando si hanno gli occhi aperti bisogna pur posarlo in qualche posto, oppure, al contrario, diceva troppe cose”), e quella di Andrej Bolchonskij, assimilata a un lento e tranquillo risveglio, a un placido viaggio verso l’ignoto, sono tra le cose più significative che Tolstoj abbia scritto. E’, tuttavia, solo con un breve racconto della tarda maturità, “La morte di Ivan Ilic”, che si ha un coraggioso e decisivo approfondimento del tema. La struttura stessa del racconto depone a favore di questa considerazione. Fin dall’inizio, infatti, sappiamo che Ivan Ilic è morto: la morte perde la sua tradizionale caratteristica di sbocco narrativo, la trama (come nelle migliori opere di Kafka) non ha più nulla da svelare, e Tolstoj può perciò concentrarsi nell’analisi fenomenologica dell’argomento che gli sta tanto a cuore.
Come l’andamento circolare, a flashback, del racconto, così anche la scelta del protagonista non è casuale. Ivan Ilic è infatti una persona comunissima, un rappresentante tipico di quella classe media che fa dei principi di piacevolezza, rispetto dell’ordine e decoro i suoi comandamenti inderogabili. Rigidamente improntata a questi valori, la vita di Ivan Ilic si è sviluppata lungo i binari prevedibili e scontati della carriera professionale, del successo in società e del matrimonio, il tutto ovviamente condiviso e approvato dall’opinione pubblica. Il tono impeccabilmente “comme il faut” dell’esistenza di Ivan Ilic si riflette anche nella sua abitazione, esemplare e indistinguibile, nella quale “c’era tutto quello che escogitano le persone di un certo ceto per assomigliare a tutte le persone di quello stesso ceto”. Se a questo si aggiungono le periodiche partite a vint con i colleghi del tribunale e un orizzonte di interessi limitato esclusivamente al lavoro e agli avanzamenti di carriera, il quadro è completo.
In questa situazione di equilibrio all’apparenza immutabile fa improvvisamente la sua apparizione la morte, sotto forma di una grave malattia sopraggiunta in seguito al più banale degli incidenti. L’irruzione del caso, che qui non ha più nulla della provvidenza divina che guidava ineffabile le sorti dell’umanità in “Guerra e pace”, irride beffardamente il tentativo dell’uomo di dare al suo destino un corso ordinato e regolare. Di colpo la vita di Ivan Ilic cambia aspetto: se prima tutto era giovialità e leggerezza, ora un sentimento di grave pena si fa strada in lui. Il pensiero della malattia, che le persone intorno a lui minimizzano con egoistica indifferenza, da quel momento non lo abbandona più, insinuandosi subdolamente in tutte le attività quotidiane, anche in quelle che prima costituivano la sua ragione di vita, e se all’inizio gli stati d’animo di Ivan Ilic oscillano tra la cupa disperazione e il sollievo dei momenti in cui crede di avvertire dentro di sé un qualche miglioramento, col passare dei giorni sono i primi a prevalere, fino al momento, sconvolgente, della presa di coscienza della irreversibilità del proprio stato.
La sensazione di dover morire si presenta a Ivan Ilic con la stessa implacabile crudeltà di una sentenza inappellabile: “All’improvviso la questione gli apparve sotto una luce completamente diversa. «Macché intestino cieco! Macché rene!… è una questione di vita e… di morte. C’era la vita, e adesso se ne sta andando e io non riesco a trattenerla. E’ così. Perché ingannare se stessi? Non è forse chiaro a tutti, eccetto che a me, che sto morendo: è solo questione di settimane, di giorni… C’era la luce e adesso c’è il buio. Ero al di qua e adesso devo passare al di là! Ma al di là, dove?»”. La morte assume istintivamente la forma dell’oscurità, delle tenebre, e, freudianamente, Ivan Ilic, balzato a sedere sul letto, cerca di accendere la luce, ma con le mani tremanti fa cadere candelabro e candela sul pavimento. La reazione di Ivan Ilic è estremamente naturale, direi quasi ovvia: egli rifiuta l’idea della morte, e a maggior ragione l’idea che a morire debba essere proprio lui. Il sillogismo che aveva studiato da giovane, “Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, Caio è mortale”, gli era sembrato per tutta la vita profondamente giusto, ma solo perché era un sillogismo astratto, applicabile all’uomo-Caio, cioè all’uomo in generale, ma non a lui, essere particolarissimo, così diverso da tutti gli altri esseri. Da quel buon borghese che era, Ivan Ilic aveva costruito inconsciamente una fitta ragnatela di pensieri, abitudini e formalismi per nascondere a se stesso la realtà della morte, o almeno per ridurla al rango di un irrilevante incidente di percorso di fronte all’inesauribile totalità dell’esistenza, ma ora che la morte si è insinuata dentro di lui, mettendo all’opera il suo instancabile lavoro di roditore, questi schermi di protezione saltano, diventano trasparenti e l’invocazione “a me non può succedere” diventa una patetica ammissione di impotenza nei suoi confronti.
Diretta conseguenza di quel sistema di cui, prima, Ivan Ilic stesso era, come si è visto, uno scrupoloso e fedele osservante è che la morte viene tacitamente considerata dall’ambiente che lo circonda come uno scandalo da far passare il più possibile sotto silenzio, in quanto turba illegalmente l’ordine delle cose. Questa egoistica rimozione è del tutto in linea con quella concezione tolstojana della vita la quale, parlando a proposito di “Guerra e pace”, avevo detto essere il fondamento etico del romanzo: cioè che la brama vitale, l’interesse personale e la soddisfazione dei propri impulsi naturali sono preferibili alle elevate aspirazioni spirituali e al sacrificio di se stessi. Ne “La morte di Ivan Ilic”, però, questi sentimenti hanno perso quella carica positiva che l’amore disinteressato per la vita dava loro nella grande saga tolstojana e sono diventati lo squallido controcanto di individui meschini, che accolgono la morte altrui con inconfessata gioia perché tutto questo non è successo a loro, perché loro sono ancora vivi.
Ciò che più ripugna è la menzogna con cui tutti fanno finta di nascondere a se stessi e agli altri la malattia mortale di Ivan Ilic, costringendo il malato stesso a prender parte a questo gioco ipocrita. “L’orribile, tremendo atto della sua agonia era degradato da tutti quelli che lo circondavano alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole, persino di indecoroso”. Da ciò si spiega l’odio, rabbioso e profondo, che Ivan Ilic nutre nei confronti degli altri, i familiari in testa, colpevoli di lasciarlo disperatamente solo nel suo terribile sforzo di ribellarsi alla morte. Questa solitudine (“una solitudine che non avrebbe potuto essere più completa, in nessun altro luogo, né in fondo al mare, né sottoterra”) segna la impari sfida di Ivan Ilic con la morte. L’immagine del moribondo, sdraiato con la faccia verso la spalliera del divano, è l’espressione più perfetta ed agghiacciante di questa condizione senza vie d’uscita. Pur di salvarsi, Ivan Ilic si aggrappa a tutto ciò che, nella sua spaventosa impotenza, promette di dargli un’impossibile salvezza, dalla superstizione alla religione (persino nella confessione finale, ad esempio, egli ritrova una immotivata speranza di guarigione). Ma alla morte non c’è verso di sottrarsi: lei è sempre lì, ferma davanti a lui, occhi negli occhi, sfrontatamente spavalda e indicibilmente tormentosa.
Nella figura del protagonista Tolstoj opera uno splendido ribaltamento di ruoli. Ivan Ilic è un giudice, ma nella malattia è la morte a intentare un processo contro di lui. “«Cosa vuoi adesso? Vivere? Vivere come? Vivere come si vive in tribunale, quando l’usciere annuncia: Entra la corte!… Eccola qui la corte! Ma io non sono colpevole!» esclamò con rabbia. «E allora perché?»”. Come Josef K. nel “Processo” kafkiano, anche Ivan Ilic ripercorre a ritroso tutta la sua esistenza, tentando di trovare una risposta all’enigma della vita e della morte, magari sotto forma di un peccato che sia in grado di giustificare quel castigo. Ma nonostante che ora, agli occhi lucidi del ricordo, la vita passata gli appaia un impietoso inganno e solo nella lontana infanzia riesca a trovare qualcosa di veramente autentico e sereno, pure Ivan Ilic scaccia l’idea di non avere vissuto come doveva, in quanto egli è sicuro di aver sempre vissuto secondo le regole.
Il racconto si chiude con una potente allegoria, che richiama per intensità il famoso sogno di Andrej in “Guerra e pace”, dove il principe morente cerca con sforzi sovrumani di chiudere la porta, al di là della quale preme silenziosa la morte. Qui, invece, Ivan Ilic immagina di essere ficcato da un’invisibile potenza dentro un sacco nero, stretto e profondo; egli teme e nello stesso tempo desidera di raggiungere il fondo, ma non vi riesce, nonostante cerchi di spingere con tutte le sue forze. Questo lungo e doloroso travaglio, che richiama alla mente, con un’altra immagine freudiana, il tentativo di tornare nell’utero materno, rappresenta la lotta tra l’istinto di sopravvivenza e il potere liberatore della morte. Ad impedire questa liberazione è, più di ogni altra cosa, la menzogna, cioè l’ipocrita convinzione che la propria vita sia stata buona. Solo spogliandosi dall’inganno di una vita assurda e sbagliata (consapevolezza atroce, più dolorosa di tutte le sofferenze fisiche, perché porta con sé la coscienza che è troppo tardi per porvi rimedio), Ivan Ilic può appressarsi alla morte. Si palesa in queste pagine un fondamentale ammonimento etico: non distruggiamo ciò che ci è dato di buono alla nascita, - sembra dire Tolstoj – cerchiamo di non arrivare al punto in cui non è più possibile emendare i nostri errori; la vita è breve, non ne sprechiamo niente, ma agiamo per qualcosa che abbia un valore e un senso, per qualcosa che possa sopravviverci.
Nell’ultima ora della sua agonia, in fondo al buco nel quale Ivan Ilic si dibatte da tre giorni, si illumina all’improvviso qualcosa. All’ultimo momento, Ivan Ilic prova infatti un sentimento nuovo: il perdono. Finalmente, la paura della morte sparisce, la morte stessa sparisce. “«E’ finita!» disse qualcuno su di lui. Egli sentì quelle parole e le ripeté nel suo animo. «E’ finita la morte» disse a se stesso. «Non c’è più». Aspirò l’aria, a metà del respiro si fermò, si distese e morì”. Come si può conciliare questa consolante illuminazione finale, che libera il lettore non meno di Ivan Ilic da uno spasimo che sembrava non dovesse avere mai fine, con l’ammonimento etico espresso più sopra? Forse con la considerazione che il senso della vita sta proprio nella morte, non, si badi, nell’atto del morire, cioè nell’agonia (che Tolstoj descrive così crudamente, senza risparmiare i particolari più ripugnanti), e neppure nell’aldilà (in quanto Dio è qui completamente assente), ma in quello spazio che, come l’infanzia, è sottratto al dubbio, al rimorso e all’angoscia. L’ammonimento etico non perde per questo il suo valore, perché solo all’uomo giusto, che ha vissuto “pesantemente” la vita (come il servo Gerasimov, o il Platon Karataev di “Guerra e pace”), è concesso il diritto di morire “naturalmente”, senza quei tormenti, più morali che fisici, che assillano invece quegli uomini i quali, come il borghese Ivan Ilic, dissimulano per tutta la vita, ingannando se stessi e gli altri, il pensiero, inquietante ma necessario, della morte.
Indicazioni utili
IL GIOCO DEGLI SCACCHI, METAFORA DELLA VITA
Come in “Amok” (che, ricordo, narrava di una irrazionale e inesplicabile follia omicida, una sorta di “idrofobia umana”) anche in questa brevissima novella la protagonista assoluta è un’ossessione, una monomania, che rischia di portare chi ne viene posseduto alla pazzia. E come in “Amok” (il cui io narrante era spinto dal “fascino sconvolgente” per le situazioni psicologiche estreme e per le singolari persone che le incarnano) anche in “Novella degli scacchi” abbiamo un narratore il quale è attratto da “tutti i generi di persone monomaniache, chiuse in un’unica idea”. Persino la struttura narrativa è praticamente identica: un viaggio in nave nel corso del quale una lunga confessione e un colpo di scena finale suggellano il senso del libro. La differenza tra le due opere è che tra l’una e l’altra intercorrono venti anni, e fatalmente Zweig si trova a fare i conti non solo con gli strascichi della “finis Austriae”, ma anche con l’avvento del nazismo, con l’Anschluss e con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Ecco quindi che il dottor B., che è il vero protagonista del racconto (ben più del suo antagonista, il campione mondiale di scacchi Czentovic), è costretto a subire non solo il prepotente affacciarsi di una classe di “specialisti”, di uomini-robot che eccellono in un unico campo delle umane attività e per il resto fanno sfoggio di una disarmante ignoranza e mancanza di cultura, neo-barbari che non hanno alcuna remora morale a calpestare e mettere brutalmente da parte un’aristocrazia ricca di valori, di educazione e di buon gusto, ma inevitabilmente giunta al tramonto della storia; a subire non solo questo – dicevo – ma anche la subdola violenza di un’altra barbarie, politica questa volta, quella dei nazisti, pronti a usare tutti i mezzi per annientare gli avversari e diventare in breve tempo i padroni del mondo. Stefan Zweig dice tutto questo con il suo inconfondibile stile di estrema chiarezza, pulizia e precisione formale (oltre che di eccezionale economia narrativa: qui veramente si può dire che non c’è una sola parola superflua, tanto la sua prosa è asciutta ed essenziale, pur mantenendo una incontestabile eleganza di fondo), in una mirabile sintesi tematica che usa il gioco degli scacchi come folgorante metafora della vita. Gli scacchi per Zweig simboleggiano non soltanto la lotta tra il bene e il male, tra la vita e la morte, tra il conscio e l’inconscio, ma, con il precipitare del dottor B. nella schizofrenia, rappresentano anche la condizione psicologica dell’uomo del Novecento, condannato a vivere sulla sua pelle la tragedia della dissoluzione e della frammentazione dell’io.
Indicazioni utili
VIAGGIO IMMOBILE VERSO LA MORTE
“La responsabilità del cantore, quel suo dovere di conoscere che egli mai riesce interamente ad affrontare e ad assolvere – oh, perché non gli era stato concesso di spingersi oltre al presagio fino al vero sapere dal quale soltanto si dovrà attender salvezza?! Perché il destino lo aveva costretto a ritornare indietro fin qui?! Qui non c’era che morte e null’altro che morte!”
Non è una lettura facile o rilassante, “La morte di Virgilio”, tutt’altro. Dalle cinquecento pagine del capolavoro di Broch si esce infatti esausti, stremati, come al termine di un’esperienza impervia ed estenuante, ancorché ricca di un innegabile fascino, singolare ed ipnotico. Non si tratta del piacere che offre la maggior parte dei libri, piacere che scaturisce dal racconto e che nel racconto (fabula) trova i principali motivi di coinvolgimento emotivo ed estetico, bensì di una ammirata quanto impotente soggezione di fronte a un’abilità stilistica che ha del miracoloso e a una costruzione narrativa impeccabile e geometricamente perfetta (l’autore ha voluto dare a “La morte di Virgilio” la forma classica della sinfonia in quattro tempi: andante, adagio, scherzo e maestoso), ma che ciononostante finisce per lasciare freddi e perplessi. E’ innegabile la cerebralità dell’opera, il suo essere un romanzo e al tempo stesso un saggio, il quale vuole esprimere piuttosto che un’esperienza umana (o comunque non solo quella) una serie di idee e di riflessioni teoriche. Broch vuole parlarci di problemi come il ruolo dell’intellettuale nella società o il compito che deve prefiggersi l’opera d’arte, e l’aver sostanziato questo progetto in un personaggio (il poeta Virgilio) e in un’epoca storica (quella di Augusto) ben determinati ha come motivazione prevalente quella di poter parlare dell’attualità in una prospettiva maggiormente distaccata, senza farsi coinvolgere dagli sconvolgenti drammi del Novecento, ma privilegiando il simbolo e la metafora. Lo strumento principale per esprimere tutto ciò è lo stream of consciousness di joyciana memoria. Tutto il romanzo, pur essendo in terza persona, è infatti un’espressione del flusso di coscienza di Virgilio il quale, oscillando tra realtà, sogno, allucinazione febbrile, immaginazione e ricordo (i quali trapassano impercettibilmente l’uno nell’altro, come nelle pagine in cui gli schiavi puliscono Virgilio e questi, cullandosi nelle piacevoli sensazioni del massaggio e dell’afrodisiaco, sogna di parlare con Plozia nella stanza trasformatasi in foresta, e dal sogno si passa senza alcuna percettibile soluzione di continuità alla visita di Augusto), trascorre da solo, oppure con la compagnia emblematica dell’imperatore e degli amici Lucio Vario e Plozio Tucca, o ancora insieme a una serie di personaggi immaginari (il fanciullo di nome Lisania, Plozia Ieria, lo schiavo) le ultime ore della sua vita. Questo stream of consciousness si appoggia a uno stile severo, tortuoso, ricco di subordinate, difficile da leggere eppure innegabilmente lucido e coerente, maniacale quasi nel continuo, progressivo rafforzamento lessicale del concetto che Broch vuole esprimere, o nella proliferazione di aggettivi (spesso ossimorici) per qualificare una cosa, o infine negli impercettibili aggiustamenti di ciò che si è appena detto nella riga precedente.
La presenza della morte aleggia inequivocabile fin dalle prime pagine del romanzo: il poeta è presentato con “il segno della morte scritto sulla sua fronte”, la solitudine del mare è “così piena di sole e pur così piena di morte”, i giochi d’amore sono “un abbandono alla morte”, e così via. Con il progredire del libro, essa diviene però una presenza sempre più astratta e mentale, che l’esplorazione minuziosa della più segreta interiorità di Virgilio converte in un’esperienza di natura mistico-allegorica. Qui intendo entrare nel merito di quella che è un po’ la croce e insieme la delizia de “La morte di Virgilio” (personalmente ritengo che sia più la prima che la seconda), e cioè la seconda parte, quella notturna, in cui Virgilio rimane solo e riflette lungamente sulla morte. In questa interminabile, delirante, febbrile, insonne notte, che rimanda alla notte definitiva, al nulla, all’eternità, Virgilio raggiunge la consapevolezza che la sua vita in fondo altro non è stata che una continua attesa, una inesausta ricerca, un indefesso ascolto della morte. Aldous Huxley ha parlato a questo proposito di “lirismo filosofico”, e il termine mi sembra quanto mai appropriato, perché se da una parte sembra di assistere alle visioni di qualche mistico medioevale, in cui il razionale sconfina facilmente nell’irrazionale, dall’altra la logica puntigliosa, meticolosa, sempre tesa a restituire tutte le sfumature più recondite del pensiero del protagonista ha una impostazione affine a quella della filosofia trascendente. E come se si trovasse di fronte a un libro di filosofia che si interroga con terminologia da iniziati sui più sofisticati e complessi quesiti teleologici, il lettore si aggira con difficoltà e spesso si perde, respinto dalla quasi totale illeggibilità di questa lunga parte notturna, in cui Broch cerca di esprimere l’indicibile, di esperire l’ineffabile, di rivelare ciò che non può essere rivelato, in una continua e frustrante oscillazione di quasi-rivelazioni, di pseudo-apparizioni, di significati che si occultano dopo aver fatto sperare in un loro disvelamento. C’è inoltre, a scoraggiare il lettore, un’innegabile impressione di artificio linguistico, di narcisismo stilistico, di sterile virtuosismo in frasi del tipo “era l’io che trovava il proprio simbolo nell’universo, era l’universo che trovava il proprio simbolo nell’io, e i due simboli dell’essere terrestre si intrecciavano reciprocamente in un unico simbolo”, oppure “il vuoto penetrava il paesaggio e ne era a sua volta penetrato, il non-spazio permeava lo spazio, che a sua volta permeava il non-spazio, simbolicamente, nell’assenza di simboli, così come la ferinità penetra la falsa morte, che a sua volta penetra la ferinità”, frasi che all’apparenza sembrano spiegare tutto, ma che poi lasciano letteralmente interdetti e incapaci di capire cosa l’autore abbia realmente voluto dire.
Ma la seconda parte non è, a voler essere sinceri, tutta da buttare. La farraginosità di queste centocinquanta pagine è infatti in parte giustificata dal contesto notturno in cui si sviluppano queste difficili meditazioni. Esse infatti hanno il carattere di vere e proprie allucinazioni (vedi l’incubo delle pagine 205-208, che ricorda certi deliranti dipinti di Bosch) partorite dal buio della notte, contorte e cervellotiche, che l’arrivo del giorno dissolve come per incanto, facendo sparire il ricordo dei dettagli del sogno improvvisamente interrotto dal risveglio e lasciando solo al suo posto una sensazione di diffuso malessere alla cui origine e alle cui cause non si riesce più a risalire. Ciò che rimane alla fine impresso nella memoria è l’oscillazione di Virgilio tra lo sconforto per l’incapacità di adempiere la sua missione di artista, per la consapevolezza di avere sprecato la vita, di avere illuso se stesso e gli altri attraverso la vana creazione di finti simulacri di verità e di conoscenza, e l’opposto sollievo di avere fatto tutto ciò, per quanto inutile, per quanto sbagliato, per un’ineludibile necessità imposta dal destino: il lucido eppur delirante monologo interiore procede così in questo ondivago andamento di vergogna e di conforto, di abbattimento e di conferma, di dubbio lancinante e di certezza riconquistata. Questa dissociazione, questa aporia in cui si dibatte Virgilio, la quale si può sintetizzare nel conflitto tra due opposte concezioni dell’esistenza (la prima in balia del caso, la seconda diretta dal destino) ci porta a due riflessioni. La prima è curiosa, forse opinabile, ma perfettamente in linea con il carattere mistico di questa sezione del libro. Infatti la consapevolezza di essere liberi pur all’interno di un disegno predeterminato (è la consolante conclusione a cui perviene Virgilio quando egli diviene cosciente di avere adempiuto nel corso della sua vita al volere di un destino a cui non poteva opporsi, e che ciononostante lo ha lasciato libero di scegliere) prefigura la tematica cristiana del libero arbitrio. E non a caso uno degli aspetti più singolari e anacronistici (Virgilio è vissuto nel primo secolo a.C.) che Broch attribuisce al suo protagonista (attingendo a una diffusa tradizione medioevale) è quello di essere stato un precursore del cristianesimo. A pagina 260 si legge: “colui, il quale… è stato destinato a portare l’atto e, come questo, deve stare nella duplice origine, nascere come creatura terrestre da padre celeste, perché soltanto colui, che ha origine al di là del destino e tuttavia soffre fino all’estremo il male del destino, possiede anche la grazia di mutare la perdizione in redenzione e farsi redentore”. E a pagina 310, in maniera non meno clamorosa: “Quando nella catena delle generazioni divine appare colui che è nato dalla vergine; egli è il primo che non si ribelli: entra nel padre ed il padre entra in lui, ed uniti essi sono nello spirito, tre in uno in eterno”. Queste premonizioni divinatorie si spingono addirittura ad anticipare il ruolo di guida di Dante che Virgilio avrà, molti secoli dopo, nella Divina Commedia: “tu sei l’eterna guida cui non è dato di raggiunger la meta: immortale sarai, immortale come guida”.
La seconda riflessione cui si faceva riferimento più sopra riguarda l’opera lasciata incompiuta da Virgilio, l’Eneide, e più in generale la poesia tout-court. Virgilio ha perseguito per tutta la vita, in maniera quasi ascetica e sacerdotale, l’ideale della verità, ma si rende conto in extremis che la sua opera non è riuscita a scendere sotto la superficie della realtà. Essa è stata (per malaugurato fraintendimento, per debolezza umana, per amore della gloria) attratta dalla bellezza (che per Broch è un falso valore) e, risultando un mero adornamento dell’esistente, una fatua esaltazione del presente, ha smarrito la propria ragion d’essere principale, che è quella di aprire gli occhi agli uomini, di far loro da guida nella scoperta della Parola prima, che sta a monte di ogni linguaggio, quella che rimanda senza mediazioni all’Entità suprema origine di ogni cosa, che sta sopra perfino agli dèi romani. E’ per questo che Virgilio decide di bruciare l’Eneide, di sacrificare il suo lavoro più ambizioso per presentarsi all’ultimo, fatidico appuntamento con la coscienza libera dal peccato (anche se si tratta, come nelle opere di Kafka, di un peccato non comprensibile dall’uomo, in quanto il destino ha già addossato sulle sue spalle questa colpa fin dall’origine dei tempi, come una sorta di peccato originale).
Arriviamo così alla terza parte, occupata quasi interamente dal colloquio tra Virgilio e Augusto. In questo lunghissimo faccia a faccia si confrontano due idee dell’arte inconciliabili: quella dell’imperatore, secondo cui l’arte deve essere al servizio della collettività e dei fini politico-militari dello stato, e quella del poeta, secondo cui l’arte, espressione prettamente individuale, deve mirare esclusivamente al perseguimento di fini morali e trascendenti, e se non li raggiunge essa ha fallito il suo scopo; nel primo caso l’arte appartiene a tutti, e segnatamente al Potere, nel secondo è appannaggio esclusivamente dell’artista. E’ fin troppo evidente la vicinanza della posizione di Augusto con quella della Germania hitleriana da cui Broch era fuggito (ma anche, più latamente, di tutte quelle dittature, marxista compresa, che nel secolo scorso hanno fatto di tutto per asservire l’arte e trasformarla in una innocua grancassa autocelebrativa). Virgilio lotta con tutte le sue residue forze per impedire a se stesso una funesta ed esiziale compromissione con il Potere, il quale peraltro è dotato di un grande carisma paternalistico, di una irresistibile forza di suggestione e di una quasi invincibile capacità dialettica, ma alla fine è inevitabilmente costretto a cedere e a consegnare il suo poema ad Augusto. E’ apparentemente una resa senza condizioni all’arroganza del Potere, ma la lettura finale di questo gesto di sconfitta (solo in parte attenuata dalle condizioni poste da Virgilio all’imperatore e da quest’ultimo accettate, che cioè dopo la sua morte i suoi schiavi possano ottenere l’affrancamento) non può essere univoca. In realtà la consegna del manoscritto ad Augusto, apparentemente dettata dalla stanchezza o da motivazioni umanitarie, è l’esito inevitabile a cui non può non condurre lo stato di totale passività a cui Virgilio si abbandona inoltrandosi per il suo ultimo viaggio, quello che porta alla morte ormai non più procrastinabile. Con questo viaggio, che occupa l’ultimo capitolo de “La morte di Virgilio”, si chiude finalmente il cerchio e si attua il ritorno alle radici più profonde dell’io (vedi lo strabiliante, vorticoso cammino che Virgilio compie a ritroso nel tempo fino ai primi istanti della creazione), l’identificazione tra l’essere e il nulla, la riconciliazione degli opposti (luce-buio, movimento-immobilità, tempo-atemporalità). E’ utile osservare che l’ossimoro è una figura ricorrente ne “La morte di Virgilio”, e a partire dal “caos della solitudine” in cui Virgilio viene a trovarsi nel corso della sua veglia notturna, dal “non ancora, eppure di già” che ricorre più volte fino a diventare una sorta di leit-motiv, fino ad arrivare a quel “viaggio immobile” che è il suo estatico approdo alla morte, esso punteggia in maniera estremamente significativa l’intero romanzo. E un ossimoro è anche il fallimentare trionfo di Virgilio con cui si conclude il romanzo: Virgilio è riuscito, a dispetto di ogni evidenza, a compiere il sacrificio in grado di emendarlo dal peccato, e quel sacrificio non è ovviamente l’aver bruciato l’Eneide (che abbiamo visto essere stata consegnata ad Augusto), ma aver sacrificato il sacrificio, cioè avere accettato, con quella passività che è in primo luogo dignitosa accettazione del destino, di rinunciare a distruggere la propria opera.
Indicazioni utili
UNA VITA SURROGATA
“Sono davvero affascinato dalla capacità che una condotta normale ha di esistere accanto al suo contrario”
“Prima di tutto parlerò della rapina commessa dai nostri genitori. Poi degli omicidi, che avvennero più tardi”. Le prime parole di “Canada”, che mi liberano una volta tanto dallo scrupolo di non spoilerare la trama del libro che vado a recensire, costituiscono un curioso paradosso: non si sa infatti se prenderle come una sorta di captatio benevolentiae del lettore (del tipo: “ti prometto una storia ricca di avvenimenti, colpi di scena ed elementi thrilling, come rapine ed assassinii appunto”) o al contrario come una dichiarazione di intenti autoriale (in altre parole: “non mi importa quasi nulla della trama, quello che conta sta nascosto altrove e sta a te scoprirlo”). In realtà, la rivelazione di ciò che avverrà nelle pagine seguenti (tra l’altro raccontato quando dai fatti narrati sono trascorsi ben cinque decenni) è un modo per togliere ogni suspense al racconto e, privando chi legge di qualsiasi distrazione emotiva legata alle aspettative di come andrà a finire, concentrarsi su quello che è il vero e proprio tema portante del romanzo, ossia la storia di formazione del protagonista Dell, un quindicenne condannato da un giorno all’altro alla condizione di orfano prima e di esule poi, solo al mondo e costretto a fare affidamento soltanto sulle proprie forze e sulla sua scarsa esperienza della vita. “Canada”, che ricorda alla lontana l’universo di Charles Dickens (e ancor di più un’opera più recente di Donna Tartt, “Il cardellino”), è suddiviso in brevi capitoletti e in due parti nettamente distinte. Nella prima Ford ci proietta in una normalissima famiglia della provincia americana degli anni ’60 (padre, madre e due figli gemelli), raccontando con minuziosa dovizia di dettagli cronachistici e psicologici la sua dissoluzione dovuta alla sciagurata scelta dei due genitori di commettere una rapina in banca per riuscire a pagare un grosso debito contratto dal padre a causa di un affare andato a male. I novelli rapinatori, non essendo propriamente due Bonnie e Clyde, vengono ben presto individuati dalla polizia e arrestati, ma quello che più attira in queste pagine è la interessante descrizione degli ultimi giorni di “normalità” vissuta dalla famiglia, quando gli ignari figli percepiscono uno strano movimento dentro le mura di casa, quando il padre non assomiglia più a quello di prima pur non potendo dire precisamente il perché, quando le domande che si affacciano nella testa di Dell e di sua sorella rimangono inesorabilmente senza risposta e una minaccia inespressa sembra incombere su tutti come un temporale di fine estate. Allorquando i due genitori vengono arrestati e Dell, separatosi dalla sorella, viene caricato su un’auto e portato nel vicino Canada per sfuggire all’orfanotrofio inizia tutta un’altra storia. Catapultato in un mondo sconosciuto, tra estranei che si accorgono a malapena della sua presenza, il fragile ragazzino sperimenta la solitudine più spaventosa (“La solitudine – scrive Ford – è come fare una lunga coda in attesa di arrivare allo sportello dove hanno promesso che succederà qualcosa di buono. Solo che la coda non si muove mai, e gli altri ti passano davanti, e lo sportello, il posto dove vuoi arrivare, è sempre più lontano, finché perdi la speranza che abbia qualcosa da offrirti”). Solo il tempo gli permetterà di imparare che “non abbiamo sempre la possibilità di scegliere i nostri inizi”, una formidabile lezione di vita che oggi, nell’epoca del precariato, si potrebbe anche riassumere con la parola “flessibilità”. Privato repentinamente dalla sorte della esistenza comoda e rassicurante che immaginava dovesse durare per sempre (l’accogliente nido familiare, la tranquilla vita di provincia, il college), Dell è costretto a vivere una vita “surrogata”, la quale manda completamente a gambe all’aria quella esigenza di ordine e razionalità rappresentata dalle sue passioni per il gioco degli scacchi e per il mondo delle api. Egli impara a non pensare troppo al futuro (“Presta attenzione al presente. Non scartarne dei pezzi”, gli raccomanda l’amica della madre che lo accompagna al di là del confine), a non vivere nel rimpianto del passato perduto (“È sbagliato desiderare che le cose non siano accadute, persino le peggiori, come se uno avesse mai potuto trovare la sua strada fino al presente con altri mezzi”) e a capire che fra l’ammirazione per gli altri (siano essi i genitori o il misterioso e ambiguo Arthur Remlinger, il cui rapporto con Dell ricorda un po’ quello tra Jim e Long John Silver ne “L’isola del tesoro” di Stevenson) e la scoperta della loro scelleratezza il passo è più breve di quello che si può immaginare. “Canada” è un romanzo sull’accettazione del proprio destino (“Sai cosa significa avere un senso? – dice il padre a Dell – Significa che accetti le cose. Se capisci, poi le accetti. Se le accetti, capisci”), sulla capacità di non rassegnarsi anche quando si è costretti a ricominciare da zero: è cioè, in buona sostanza, un romanzo impregnato di quello che è un po’ il carattere saliente dell’american way of life, ossia la necessità di trovare la propria strada nella vita sfruttando unicamente (nel bene e nel male, come dimostra il lugubre colloquio finale con la sorella malata) le proprie doti e le occasioni incontrate lungo il cammino. Il romanzo di Ford è anche un lungo, inesorabile interrogarsi sul destino dell’uomo, su ciò che lo ha infine condotto ad essere ciò che è diventato e sulle condizioni che avrebbero potuto orientare la sua esistenza in un’altra, opposta direzione.
Eppure, nonostante le indubbie qualità artistiche dell’autore, non si può affermare che “Canada” sia un’opera del tutto riuscita. Se la prosa di Ford vorrebbe indubbiamente aspirare allo stile di Philip Roth (quell’inimitabile connubio tra complessità tematica e semplicità di lettura che caratterizzava così bene il compianto scrittore di Newark), c’è da dire che la storia di Dell non riesce quasi mai ad assurgere a metafora di una nazione o di un’epoca, e di quando in quando affiora persino un certo didascalismo di fondo (come quando invita “a non cercare troppo accanitamente significati nascosti od opposti – anche nei libri – ma a guardare nel modo più diretto possibile le cose”, solo così “riuscirai sempre a trovarvi un senso e a imparare ad accettare il mondo”). Inoltre, se a tratti le descrizioni dell’ambiente canadese riescono nella non facile impresa di richiamare alla memoria il fascino di un maestro del ritratto paesaggistico come il Turgenev de “Le memorie di un cacciatore”, non va sottaciuto che in molte pagine a prevalere è soprattutto la noia. Se questo sentimento sia da attribuire più all’ostico paese scelto, oltre che come titolo, anche come sfondo geografico, e ancor più simbolico, della storia (“un luogo di assenza e di promesse abbandonate”), oppure al tono straniante e anti-emozionale adottato dal narratore, lascio ad altri lettori decidere. Fatto sta che “Canada”, pur lasciando intravedere un notevole potenziale (ad esempio come sceneggiatura per una possibile trasposizione cinematografica), non riesce del tutto a mantenere le sue promesse implicite. Aver preteso di abbandonare di punto in bianco al loro destino personaggi di grande spessore umano, che probabilmente avrebbero meritato un maggiore spazio e una maggiore empatia (i genitori e la sorella del protagonista, Arthur Remlinger), e aver voluto privilegiare un realismo eccessivamente scabro e disadorno, forse più adatto alla penna di uno scrittore come Cormac McCarthy, è stata una scelta artisticamente onesta e sotto certi aspetti perfino coraggiosa, ma, a mio modesto e perfettibile parere, non pienamente convincente ed azzeccata.
Indicazioni utili
"Il mare" di John Banville
CASO O DESTINO?
La dialettica tra caso e destino ha affascinato intere generazioni di scrittori, di pensatori e di teologi: essa è alla base tanto della tragedia classica quanto delle opere di ispirazione cristiana, e informa anche un curioso, seppur non eccelso, romanzo di Thornton Wilder, “Il ponte di San Luis Rey”. Dal fantomatico episodio del crollo di un ponte peruviano, che all’inizio del XVIII secolo ha provocato cinque vittime, parte una inchiesta sulla ricerca dei motivi ultimi che hanno fatto sì che proprio quelle cinque persone, tra le centinaia di viaggiatori che giornalmente lo attraversavano, si trovassero proprio lì al momento della tragedia. Frate Ginepro, il religioso protagonista della quest, che già era alla ricerca di “esperimenti che giustificassero le vie del Signore agli uomini” (come ad esempio “un registro completo delle rogazioni per ottenere la pioggia e dei risultati avuti”) vede nella caduta del ponte “un laboratorio perfetto” dove “finalmente era dato all’uomo sorprendere le Sue intenzioni allo stato puro”. Le vite dei cinque personaggi, compresi gli episodi più insignificanti, vengono così vivisezionate nel tentativo di trovare un filo conduttore che le accomuni in un disegno trascendente di lampante ed edificante evidenza. Ma lo sforzo di frate Ginepro è destinato all’insuccesso. Tutto infatti risulta casuale e non riconducibile a uno schema preciso; la morte ora appare beffarda (quella della marchesa di Montemayor che alla vigilia aveva proclamato con solennità: “Domani incomincio una nuova vita”), ora pietosa (quella di Esteban, che, disperato per la scomparsa del fratello, aveva invano tentato di suicidarsi), ora ancora sembra irridere i tentativi di pianificare il proprio futuro (la morte di Pepita, inutilmente allevata da Madre Maria del Pilar per diventare un giorno la continuatrice delle sue opere assistenziali), mentre nessuna predestinazione o segno della provvidenza divina è rintracciabile nei tragici avvenimenti. Wilder si fa evidentemente beffe di frate Ginepro, delle sue ridicole tabelle nelle quali vuole racchiudere (quantificando aspetti eminentemente qualitativi come bontà, devozione e utilità sociale) la pluralità delle esistenze umane, e soprattutto dello stolido tentativo di far scendere la metafisica al livello della scienza positiva (non a caso la vicenda è ambientata nel “secolo dei lumi”). Per lo scrittore americano, che non intende certo essere confuso con quella schiera sempre più numerosa di spiriti scettici e disillusi che vedono nella apparente casualità dei fenomeni la prova dell’inesistenza di Dio, la fede è qualcosa di problematico, arduo e tormentoso, disperatamente priva della consolazione di sapere se quello che si sta vivendo va nella direzione evangelicamente giusta. Per questo motivo il vero protagonista del romanzo non è l’idealista frate Ginepro, bensì la badessa Maria del Pilar, donna pratica e volitiva, ma travagliata da mille dubbi sulla effettiva utilità della sua missione. A lei è concessa la lungimiranza di esprimere la morale ultima della storia: l’unica cosa che conta nella vita è l’amore che si è dato, magari misconosciuto e incompreso (ella rimane sorpresa nello scoprire quanta bontà si nasconda negli animi umani, anche quelli più apparentemente gretti e meschini), magari incapace di sopravvivere al ricordo (“neppure la memoria è necessaria all’amore”), eppure in grado di fare miracoli in coloro che restano in vita. Forse, chissà, frate Ginepro avrebbe colto nel segno se, anziché studiare vanamente le esistenze delle vittime, avesse indagato quelle dei sopravvissuti.
Le poco più di cento pagine de “Il ponte di San Luis Rey” si sviluppano nella forma di un memoriale oggettivo e doviziosamente documentato, nello stile dei “libretti filosofici” del Settecento. La prosa semplice e chiara, il ruolo onnisciente del narratore, la tendenza all’aneddoto e un certo didascalismo di fondo richiamano costantemente la letteratura di quel secolo, costituendo forse il limite più grande del romanzo. Il confronto con la cultura contemporanea che l’anacronistica ambientazione suggerisce, anziché offrire lo spunto per una riflessione critica di ampia portata, non va infatti mai al di là di una bonaria e tutto sommato innocua ironia, che trapela qua e là nei singoli episodi ma non riesce a coagularsi in una struttura narrativa e in una costruzione filosofica veramente efficaci e memorabili.
IL CAMPIONE DELL'INERZIA E DELL'APATIA
“Oblomov” è il romanzo che ha dato a Ivan Goncarov fama mondiale e, allo stesso tempo, è uno dei più ragguardevoli classici della letteratura moderna. Non tutti gli elementi della creazione di Goncarov, ad essere sinceri, hanno superato indenni il vaglio del tempo (più di centosettanta anni sono trascorsi dalla sua pubblicazione). Certo non si può sottacere, ad esempio, che il romanzo si presenti scarsamente omogeneo dal punto di vista stilistico, diviso com’è in due tronconi nettamente distinti (la prima parte presenta inequivocabilmente i caratteri peculiari del saggio fisiologico, dello studio di caratteri, mentre nelle tre parti rimanenti prevale il momento drammatico e dinamico del tema). Non può ugualmente essere passata sotto silenzio la tendenza a indulgere di quando in quando nel didascalismo o a fare affidamento su personaggi che sono null’altro che l’incarnazione di un principio dell’autore. Non mi piace affatto, poi, l’ultima parte, che trovo noiosa e dispersiva, addirittura con alcune concessioni al romanzo d’appendice, e bene ha fatto Nikita Michalkov, nella sua ottima trasposizione cinematografica, a non soffermarvisi. Per contro vanno riconosciuti a “Oblomov” e al suo autore molti punti di merito. Il realismo di Goncarov, la cura da lui minuziosamente riposta nei particolari e nei dettagli fisici, riescono a creare pagine di autentico virtuosismo narrativo. Prendiamo il primo capitolo, laddove lo scrittore descrive la camera di Oblomov. Noi non abbiamo quasi veduto l’eroe, non abbiamo sentito ancora neppure una parola dalla sua bocca, eppure lo conosciamo già dai più piccoli dettagli della sua abitazione: le ragnatele che circondano i quadri, gli specchi impolverati, le macchie sui tappeti, l’asciugamano dimenticato sul divano, il piatto lasciato sulla tavola dalla sera precedente con un osso rosicchiato, le pagine ingiallite di un libro aperto da molto tempo e da molto tempo non più letto, un calamaio dal quale “se vi si fosse intinta la penna sarebbe scappata fuori, ronzando, solo una mosca spaventata”. Goncarov non attribuisce ai particolari oggettivi una funzione decorativa ma, per così dire, li psicologizza: essi sono cioè una emanazione, un riflesso del carattere dei personaggi e contribuiscono pertanto a delinearne la psicologia. Non conosceremmo appieno la natura di Oblomov, o quella di Zachar, e di altri personaggi ancora, se non fossimo informati dei loro tratti fisici, degli abiti che indossano, dei luoghi in cui vivono. L’accumulo continuo di dettagli minimi e poco appariscenti genera, è vero, un andamento abbastanza lento, ma non ritengo che questo possa essere giudicato un difetto (perché allora bisognerebbe criticare anche Proust!). Al contrario, l’atmosfera che ne risulta è la più adatta per fare da sfondo alla vicenda di Oblomov. L’opera di Goncarov ha molti altri indubbi pregi (tra i quali voglio almeno citare il gustoso umorismo racchiuso nei battibecchi tra Zachar e il suo padrone), ma credo che se essa è giunta fino ai nostri giorni, il merito è quasi esclusivamente della irripetibile figura del suo protagonista.
Nella prima parte del romanzo, per più di cento lunghe pagine, Goncarov si sofferma nella descrizione di una qualsiasi giornata di Ilja Ilic Oblomov. Questa dilatazione della costruzione narrativa, sorprendente se si considera che in questa giornata non succede praticamente nulla, a parte i molteplici ed infruttuosi tentativi del protagonista di alzarsi dal letto, non è l’effetto di una pedantesca logorrea dello scrittore, ma ha una sua precisa giustificazione logica. Se Goncarov ritiene di dover indugiare così a lungo tra le pieghe più minute dell’esistenza interiore di questo campione della pigrizia, dell’immobilità e del sonno, è perché la sua vita è questa, e la descrizione di una delle sue mattine è la descrizione di tutte quelle che l’hanno preceduta e di tutte quelle che la seguiranno, senza alcuna speranza di un reale mutamento. Ed ecco quindi Oblomov ritratto nel momento più caratteristico della sua apatica esistenza: “Lo star disteso non era per Ilja Ilic né una necessità, come per un malato o per uno che vuol dormire, né un caso, come per chi è stanco, né un godimento, come per un fiaccone: era per lui la posizione normale”. Nel suo letto, avvolto da una comoda vestaglia da camera di foggia orientale, Oblomov può dimenticarsi del mondo che lo circonda e passare il tempo a sognare, a fantasticare, a non pensare, nella tranquillità e nell’inerzia più assolute. L’unica forma di energia che egli in qualche modo è in grado di esplicare consiste nel tener lontana da lui ogni preoccupazione, ogni novità che possa preludere ad una attività, non solo materiale ma anche spirituale. Tutto quel che accade nel mondo gli è indifferente e la sua principale aspirazione è quella di conservare la pace, di non venire disturbato nella sua angusta ma confortevole sfera, di perpetuare insomma il più a lungo possibile questo fragile equilibrio. E’ sufficiente però una lettera dell’amministratore, che dalla campagna gli scrive per comunicargli che il raccolto è stato cattivo, per gettarlo nello sconforto più totale e fargli esclamare tra i sospiri: “Ah, la vita… Ti scuote, non ti dà pace. Mi sdraierei e mi addormenterei per sempre”.
Goncarov attribuisce la causa dell’apatia di Oblomov alla sua posizione sociale e alla sua educazione familiare, e dedica un lungo capitolo, “Il sogno di Oblomov”, alla spiegazione della propria tesi. Oblomov è un signore, “possiede – secondo l’espressione dello stesso autore – Zachar e altri cento Zachar”, e come tale rappresenta il risultato sociale dell’istituzione della servitù della gleba. Fin dall’infanzia, trascorsa nel possedimento patriarcale di Oblomovka, Ilja Ilic non ha mai avuto bisogno di fare alcunché, in quanto v’era in ogni circostanza una schiera di sollecite persone pronte a servirlo. Egli, come tutti i bambini, non vedeva la necessità di starsene in ozio, spinto dalla curiosità e dall’irrequietezza tipiche dell’infanzia avrebbe voluto correre, fare, toccare, muoversi, ma la tenera premura dei genitori iperprotettivi e lo zelo dei numerosi domestici a lui preposti hanno imbrigliato questi più che naturali impulsi. “Se si mette a correre giù per la scala, o nel cortile, a un tratto dieci voci disperate risuonano dietro di lui: - Ah! ah! tenetelo, fermatelo! Cadrà, si farà male… fermo, fermo! – Se d’inverno gli viene in mente di saltar fuori in anticamera o di aprire un finestrino, di nuovo grida: - Dove vai? Com’è possibile? Non correre, non andare, non aprire; ti ammazzi, prendi un raffreddore… E Iljusa restava tristemente a casa, custodito come un fiore esotico nella serra e, come questo sotto i vetri, così anche lui cresceva lentamente e fiaccamente. Le forze che cercavano di manifestarsi si ripiegavano in dentro e deperivano, appassendo”. In questo modo Ilja non riusciva a fare niente per sé, neppure lo sforzo più leggero, ma con l’andar del tempo egli si è reso conto che essere servito e accudito in tutti i suoi bisogni era effettivamente molto più comodo e soprattutto più onorevole che non affaticarsi di persona, e da quel momento ha giudicato naturale e legittima la sua condizione (“Io non mi sono mai infilate le calze da me da che vivo, grazie a Dio”, spiegherà più tardi con enfasi al servo Zachar). L’atmosfera che si respira ad Oblomovka sembra precorrere quella futura dell’appartamento di via Gorochovaja e della casa nel quartiere di Vyborg. In questo paradiso terrestre dei proprietari fondiari regna una calma assoluta ed una sonnacchiosa infingardaggine, non accede mai nulla di rilevante ed il tempo è segnato unicamente dall’avvicendarsi delle stagioni, delle feste religiose e delle ricorrenze. “Quella brava gente non concepiva la vita altrimenti che come un ideale di tranquillità e d’inerzia, disturbata di tempo in tempo da vari casi spiacevoli, come le malattie, le perdite, le contese, e tra l’altro il lavoro. Essi sopportavano il lavoro come una punizione, che era stata inflitta già ai nostri avi, ma non lo potevano amare e sempre, ad ogni occasione, cercavano di liberarsene. Mai si agitavano per nebulose questioni spirituali o morali…”. Il clima spirituale è tale che le novità vengono guardate con sospetto e le cose sgradevoli sono evitate semplicemente rimandandole all’indomani. Date queste premesse, non possiamo stupirci che Oblomov sia diventato quell’essere passivo e inerte che conosciamo. L’acutezza dell’amico Stolz inquadra perfettamente la situazione: “Tu hai perduta la tua capacità fin dall’infanzia, ad Oblomovka, tra le zie, le balie e i servi. Hai cominciato col non saperti infilar le calze e finisci col non saper vivere”. Oblomov non può muoversi perché ci sono gli altri che si muovono per lui. Per poter agire da solo egli dovrebbe far sì che gli altri non lo prevengano, non gli spianino troppo presto la via; per questo compito si richiedono forze ben superiori a quelle di cui ha bisogno un uomo in condizioni normali, ma l’energia che Oblomov ha a disposizione non è sufficiente neppure alla semplice azione. S’intende che, più tardi, dalla rinunzia forzata nascerà inevitabilmente la rinunzia volontaria. Oblomov è quindi il prodotto di una realtà, la servitù della gleba, che, negli anni in cui il romanzo fu scritto, rappresentava per la Russia una vera e propria piaga e ne impediva ogni sviluppo sociale e spirituale.
Se il romanzo di Goncarov è giunto fino a noi come un classico intramontabile e dal fascino perennemente attuale, è evidente che la figura di Oblomov non può essere semplicemente vista come un carattere simbolico o interpretata in chiave puramente sociale e neppure letta nel segno di un riduttivo determinismo ereditario. Ciò che intriga e incanta in questo personaggio è la sua capacità di sfuggire ad ogni tipizzazione, ad ogni tentativo di circoscriverlo in un ambito troppo rigido ed esclusivo. Al contrario, esso mostra di possedere una sorprendente complessità psicologica ed una insospettata poliedricità di sentimenti. Innanzitutto, deve essere chiaro che Oblomov non è una natura ottusa, priva di aspirazioni e incapace di volere. Ciò che a lui purtroppo manca (e le ragioni ci sono già in parte note) è lo slancio vitale, quella disponibilità a lasciarsi andare con naturalezza e fiducia al flusso inarrestabile della vita. Posto di fronte all’arruffato e affannoso agitarsi degli uomini sul palcoscenico del mondo, Ilja Ilic si sente come un elemento estraneo, capitato lì quasi per sbaglio, e non riuscendo a condividerne motivazioni e intenti, decide volontariamente di chiamarsi fuori dal gioco e di rinchiudersi come una testuggine nel suo guscio. Questo isolamento non è interrotto, anzi è accresciuto, dalle visite di cortesia che alcune figure di contorno fanno, nel corso delle prime pagine, avvicendandosi in rapida successione davanti al letto di Oblomov. Questi personaggi provenienti dal mondo esterno (Volkov, Sudbinskij, Penkin, Tarantev sono i loro nomi, ma ciò non ha importanza) contribuiscono a formare degli espliciti contrasti oggettivi nei confronti di Oblomov, simboleggiando a turno l’amore per la vita di società, il carrierismo, la pedanteria intellettuale, il bieco opportunismo. All’uscita di ognuno di loro, Ilja Ilic si lascia andare tra sé ad esclamazioni del tipo: “In dieci luoghi diversi in un giorno solo, disgraziato”, “lavora da mezzogiorno alle cinque in ufficio, dalle otto a mezzogiorno a casa… disgraziato!”, “scrivere sempre, scrivere sempre, come una ruota, come una macchina… e quando fermarsi e riposare? Disgraziato”. La mia impressione è che questi fuggevoli volti che appaiono e scompaiono come dei fantasmi (si pensi ad esempio alla scena in cui “Oblomov filosofava senza accorgersi che accanto al letto stava un signore magrolino e nero nero”) altro non sono che delle idee astratte, delle creazioni della mente di Oblomov, per mezzo delle quali il nostro eroe esprime il rifiuto della negatività del mondo che lo circonda. Questo rifiuto però non acquista mai il valore di una consapevole scelta etico-esistenziale. Oblomov tende infatti a confondere il disprezzo per gli aspetti negativi del mondo col disprezzo per il mondo stesso. Quando, per esempio, espone dinanzi a Stolz la propria opinione sulla vita (“La vita: bella vita! Cosa c’è da cercar lì? Guarda un po’ qual è il centro intorno al quale si muove tutto ciò: non c’è un centro, non c’è nulla di profondo, che possa toccarti sul vivo… Un vuoto continuo avvicendarsi di giorni!”), Oblomov prende come termine di riferimento quei frivoli cicisbei che frequentano l’alta società al solo scopo di mettersi stupidamente in evidenza. Questo nondimeno è solo un aspetto del mondo, e neppure il più importante: Oblomov stesso, come si dirà tra poco, è costretto a riconoscerlo. Il suo moralismo non è in realtà supportato da una forte coscienza etica, ma appare piuttosto come una pietosa mascheratura dietro la quale egli nasconde la vergogna della propria condizione di escluso. Oblomov disdegna sinceramente e stigmatizza con toni appassionati coloro che privilegiano l’apparire all’essere: dal canto suo però, se è innegabile la sua ostinazione a non voler apparire e mettersi in mostra, è altrettanto vero che non fa nulla per riuscire ad essere. In effetti, Oblomov non è una persona arida, è capace di accendersi di trepidi entusiasmi, ma i suoi aneliti, le sue brame, hanno questa caratteristica, di essere disperatamente sterili e inconcludenti. “Egli non rimaneva estraneo alle sofferenze umane universali. Piangeva qualche volta amaramente, nel fondo dell’anima, sulle miserie dell’umanità, provava sofferenze sconosciute, indicibili, e malinconia e aspirazione verso qualcosa di lontano… Avviene anche che egli si senta pieno di disprezzo per il genere umano, per la menzogna, la calunnia, il male diffuso nel mondo, e s’infiammi del desiderio di mostrare all’uomo le sue piaghe, e a un tratto si accendono in lui pensieri che gli vanno per il capo, su e giù come onde nel mare, poi diventano propositi, gli bruciano il sangue, gli mettono in moto i muscoli; e i nervi si tendono, i propositi diventano sforzi, ed egli, mosso da una forza morale, in un momento, rapidamente cambia due o tre volte posizione, con gli occhi luccicanti si alza a sedere in mezzo al letto, tende la mano e si guarda, pieno d’ispirazione, intorno… Ecco, ecco, lo sforzo si realizza, si trasforma in atto… e allora, Signore!, quali miracoli, quali benefiche conseguenze ci sarebbe da aspettarsi da un così alto sforzo!… Ma ecco che già è balenato e passato via il mattino, già il giorno declina verso la sera, e con esso inclinano al riposo le affaticate forze di Oblomov: tempeste e agitazioni si calmano nell’anima, la testa si schiarisce dopo tanti pensieri, il sangue scorre più lentamente nelle vene. Oblomov, tranquillamente, si gira pensieroso sulla schiena, volgendo lo sguardo malinconico alla finestra…”. Ilja Ilic è pronto ad agire solo finché l’attività è un miraggio e non è immediatamente realizzabile: così egli elabora un piano di riorganizzazione della sua proprietà e se ne occupa con zelo, ma non si decide mai ad affrontare i dettagli pratici della cosa, col risultato di rimandare all’infinito la sua effettiva attuazione. I suoi desideri si manifestano in un’unica forma: “come sarebbe bello, se si facesse ciò”, ma come possa farsi, egli lo ignora. Per questo preferisce sognare e teme terribilmente l’istante in cui i sogni prenderanno contatto con la realtà, giacché, come tutti i sognatori, Oblomov percepisce in maniera molto travagliata e sofferta lo scarto che esiste tra il mondo luccicante della sua fantasia e la deludente realtà. Il principio buono e luminoso che, nonostante tutto, brilla in Oblomov è destinato quindi a rimanere infecondo: “Io sono vizzo, vecchio e logoro come un mantello usato, ma non a causa del clima, del lavoro, bensì perché per dodici anni è stata chiusa per me una luce che cercava l’uscita, ma ha bruciato soltanto la sua prigione, senza liberarsi, e si è spenta”. A questo qualcosa che tutto vince, e l’entusiasmo e la fede e, come vedremo più avanti, anche l’amore, a questa malattia spirituale che Ilja Ilic ha nelle vene, Goncarov ha voluto dare un unico, lapidario nome: oblomovismo.
A pronunciare per primo questo emblematico nome nel romanzo è Andrej Ivanyc Stolz. Stolz è il carattere diametralmente opposto ad Oblomov: egli è un uomo attivo, energico, continuamente indaffarato, corre, si muove, ogni suo pensiero diventa immediatamente aspirazione e viene messo all’opera. Il suo fattivo ideale di vita è rappresentato dal lavoro. Quando Oblomov gli chiede: “A che scopo tormentarsi tutta la vita?”, Stolz risponde senza indugio: “Per amore dello stesso lavoro e niente più. Il lavoro è l’immagine, il contenuto, l’elemento e lo scopo della vita”. Stolz non riesce purtroppo mai a convincere pienamente come carattere umano, ma appare piuttosto una figura astratta, artificiosa, un non-Oblomov tecnico (questo non perché di Stolz non veniamo mai a sapere cosa faccia realmente nella vita, di cosa si occupi, come riesca a realizzare le sue aspirazioni, ma perché egli è un personaggio esageratamente simbolico e persino didascalico nella pretesa goncaroviana di farne un’anticipazione del nuovo eroe positivo di cui la Russia aveva così tanto bisogno). Nonostante queste riserve, Stolz svolge una funzione importantissima nella vicenda spirituale di Oblomov. Egli intuisce l’intelligenza e l’integrità morale dell’amico, il suo “cuore onesto e fedele” incapace di una qualsiasi nota stonata, e per questo motivo non risparmia alcuno sforzo per svegliarlo dal suo sonno profondo e farlo vivere secondo un nuovo, più attivo, regime di vita. Ciò che mi sembra però essenziale è il fatto che Stolz rappresenta, per così dire, lo specchio nel quale, lo voglia o no, Oblomov è costretto a guardarsi, scoprendo quel che egli avrebbe potuto essere e non è stato. Questo è a mio parere l’elemento caratteristico della personalità oblomoviana ed anche ciò che la rende estremamente moderna. La semplice inerzia, la pura apatia, l’abbandono a se stessi non rappresenterebbero nulla di particolare senza questa tragica consapevolezza. “So tutto, capisco tutto – confessa mestamente Oblomov a Stolz – ma non ho né forza né volontà. Dammi la tua volontà e la tua mente e portami dove vuoi”. Stolz in questi frangenti è niente di meno che la voce della coscienza di Ilja Ilic di fronte alla quale questi non può mentire. Ma proprio mentre Oblomov, sollecitato nelle sue corde più profonde, riesce a intravedere l’esistenza di una via di salvezza, ecco affacciarsi desolatamente la coscienza della sua impraticabilità: in questa terribile aporia risiede probabilmente il punto focale del dramma di Oblomov.
Sebbene mi renda conto che il testo di Goncarov non legittimi più di tanto una simile opinione, tuttavia mi piace pensare che Oblomov, sia pure inconsapevolmente, percepisce qualcosa di più profondo della sua inettitudine a vivere. Oblomov non è chiaramente un essere avvezzo a lasciarsi tentare dalle speculazioni metafisiche, pure egli sembra intuire la disperata mancanza di senso della vita. Le domande e i dubbi che a tratti affiorano nella sua mente (“Andrej non fa che ripetere: «Lavora, lavora, come un cavallo!». A che scopo?”) possono spiegare la passività di Ilja Ilic nei termini di un nichilismo paralizzante. Se ci si convince che ogni cosa deve aver termine, che non esiste alcun ideale supremo in grado di sopravvivere alla propria morte, allora perché affaticarsi, lottare, soffrire? Tanto vale dormire e aspettare la fine. La tragicità del nichilismo di Oblomov viene poi accresciuta a dismisura dalla consapevolezza delle sue origini preistoriche, poiché atavismo è quasi un sinonimo di fatalità, e fatalità di tragedia. L’ansia di evasione regressiva mediante un ritorno all’infanzia può anch’essa essere vista, in Oblomov, come un’aspirazione all’annullamento e alla morte, oltre che come ritorno nel ventre materno. Il grande sonno di Oblomovka, che abbiamo visto in apertura, potrebbe riprodurre la quiete primigenia da cui scaturiscono tutte le cose ma fors’anche il silenzio sepolcrale che segue alla fine di ogni cosa.
Quando Olga Sergeevna entra con giovanile irruenza nella vita di Oblomov, questi è già indubitabilmente perduto; eppure a questa straordinaria fanciulla per un soffio non riesce quello che l’amico del cuore Stolz aveva nettamente fallito negli anni precedenti: la rigenerazione morale di Oblomov. Il suo amore ha lo stesso effetto dell’apparizione del sole tropicale in una landa ricoperta di ghiaccio. La vita per Oblomov torna improvvisamente a brillare con le sue magiche prospettive, riacquistando quei colori che ancora poco prima non aveva. Con tenacia e affettuosa sollecitudine, la ragazza si sforza a lungo di scuotere e risvegliare la sua mente sonnacchiosa. Non volendo credere che egli sia incapace di compiere il bene, indovinando in lui quel principio buono e luminoso da troppo tempo soffocato, Olga compie ogni sacrificio per Oblomov: incurante di tutte le convenienze, va da sola a casa di Ilja Ilic, senza dir nulla a nessuno e senza temere, come lui, di perdere la propria reputazione. Pur scosso da queste manifestazioni d’affetto, Oblomov non riesce ad andare oltre una contemplazione estatica e immobile dei propri sentimenti: alle fiammate di passione non fa seguito cioè un autentico cambiamento. Il fatto è che Oblomov non è capace di calarsi nella dimensione della realtà e, più che dalle umili manifestazioni concrete dell’amore, è affascinato dal grande gesto romantico. Tutto ciò lo si vede molto bene in un capitolo della seconda parte, il decimo, che io amo particolarmente per la finezza psicologica che l’autore vi dispiega. Convintosi nel corso di una notte insonne che quello di Olga per lui non può essere vero amore, ma “futuro amore”, mera espressione di una incosciente necessità di amore, che qualche altro uomo più ardito e brillante verrà prima o poi, fatalmente, ad occupare il suo posto, Oblomov decide di sacrificare se stesso e, scritta una lettera alla ragazza, la implora di lasciarlo. Senonché, non resistendo alla tentazione di vedere l’effetto che la lettera avrebbe prodotto su Olga, Oblomov la segue nel parco e, vedendola in lacrime, le si fa inopportunamente incontro. In un affascinante confronto dialettico in cui, con straordinaria intuizione, ella nota subito ogni elemento falso della loro relazione, Olga smonta tutte le giustificazioni di Oblomov (il quale assicurava di aver agito dimentico di se stesso, per la esclusiva felicità di lei) e smaschera il suo meschino egoismo (“Perché dunque vi siete nascosto fra i cespugli per vedere se io avrei pianto e come avrei pianto? Ecco perché! Ieri voi avevate bisogno del mio «vi amo», oggi avete avuto bisogno delle mie lacrime, e domani forse vorrete vedere come io muoio… Voi avete paura di cadere «in fondo a un abisso»; vi spaventa lo smacco futuro, se io cesserò di amarvi! «Starò male», scrivete voi… E poi dite che «prevedete la mia felicità e siete pronto a sacrificare tutto per me, perfino la vita»?… E la felicità, per la quale diventate pazzo? E queste mattinate, queste serate, questo parco, e il mio «vi amo», tutto ciò non vale nulla, non vale un sacrificio, un dolore?… Voi vedete solo buio davanti a voi; la felicità per voi non ha valore… Questa è ingratitudine, questo non è amore”). Quanta lucidità e chiarezza di pensiero racchiudono queste parole: di fronte a una simile requisitoria, Oblomov è costretto ad ammettere dentro di sé che Olga ha ragione (“Quale verità, e come è semplice!”). Oblomov non è un ipocrita, né un calcolatore. Non vi è alcun dubbio che egli agisca in perfetta buona fede, ma la mancanza di un semplice e assennato indirizzo di vita lo porta ad offrire e pretendere sacrifici assurdi (in occasione di un loro incontro chiede perfino a Olga se lo ama al punto da seguirlo fino in fondo lungo la strada della perdizione!) e a non fare invece ciò che è necessario. Olga tuttavia non abbandona subito Ilja Ilic, la propria fede è tale che ella gli offre ancora una possibilità, giungendo perfino ad accettare la sua goffa proposta di matrimonio. Di fronte al matrimonio, al quale Oblomov aveva pensato sempre e solo in maniera astratta e fiabesca, il suo grande sentimento crolla miseramente come un fragile castello di carte: “…s’era spaventato quand’era penetrato nel lato pratico del problema del matrimonio e aveva visto che questo è, certo, un passo poetico, ma nello stesso tempo anche reale e ufficiale nella vera e grave realtà e nella serie degli obblighi severi”. In breve tempo, Oblomov torna ad essere quello di prima e, approfittando di puerili pretesti (la lettera dalla campagna che non arriva, il ponte sulla Neva interrotto, una malattia inesistente), rimanda il momento di agire per concedersi ancora qualche giorno di tranquillità. Ma in fondo neppure prima, nei momenti di reciproca illusione, Oblomov aveva saputo agire, o meglio aveva agito solo in quanto una circostanza esterna lo costringeva: egli comprava la musica e i libri per Olga e leggeva ciò che la ragazza lo induceva a leggere, allo stesso modo in cui si recava in società solo quando Stolz lo obbligava. Ad Olga Oblomov è in grado di offrire solo una smisurata tenerezza ed una incontaminata bontà, ma questo non basta per legare due destini per tutta la vita, o per lo meno non può bastare a una persona in cui si agita irrequieto il soffio di una nuova esistenza: “Io ho capito da poco soltanto che ho amato in te quello che volevo fosse in te… Io amavo il futuro Oblomov. Tu sei mite, onesto, Ilja; sei tenero… come un colombo; nascondi il capo sotto l’ala e altro non vuoi; tu sei pronto a tubare tutta la vita sotto i tetti… ma io non sono così; questo per me è poco; io ho bisogno di qualche altra cosa, che cosa, non so!… Ma la tenerezza… dove non c’è!”. Le parole con le quali Olga abbandona Ilja Ilic sono dolci e piene di indulgenza, ma il verdetto è crudele e inappellabile: la desuetudine alla vita, l’apatia, la pigrizia hanno reso per sempre Oblomov meschino, egoista e incapace di amare. Pur non essendo mia intenzione nascondere la desolante nullità dell’eroe di Goncarov, non posso tuttavia condividere l’opinione del famoso critico ottocentesco Nikolaj Aleksandrovic Dobroljubov, il quale nel suo saggio “Che cos’è l’oblomovismo” giudicava Oblomov un essere addirittura ripugnante. C’è in questa affermazione una visione sprezzantemente manichea della vita, una insofferenza totale per tutti coloro che non portano il loro contributo alla santa causa del progresso universale. Più che al freddo e pedante Stolz, i cui interminabili discorsi con Olga e la cui cieca e illimitata fiducia nel lavoro alla fin fine stancano, la mia simpatia e la mia comprensione vanno al povero Oblomov: egli non è un colpevole da dileggiare e condannare, bensì una di quelle tenere e patetiche vittime (e non sono poche!) che la vita ogni tanto, impietosamente, lascia cadere per strada, ai nostri giorni come ai tempi della servitù della gleba, alle nostre latitudini come nella Russia degli zar.
Indicazioni utili
UN ANTI-GIALLO DOMINATO DAL CASO
“Niente è più crudele di un genio che inciampa in qualcosa di idiota. [...] Matthäi non poteva accettarlo. Voleva che i suoi calcoli tornassero anche nella realtà. Perciò dovette rinnegare la realtà e sboccare nel vuoto."
Come suggerisce il sottotitolo al romanzo (“Un requiem per il romanzo giallo”), Dürrenmatt ha scritto con “La promessa” una sorta di anti-giallo, sovvertendo non tanto la struttura narrativa (che anzi, con la stratificazione dei piani di racconto – lo scrittore che “riceve” la storia da un narratore, il quale a sua volta riporta in forma più o meno indiretta i fatti vissuti da un terzo – richiama alla mente il romanzo ottocentesco, e penso ad esempio a Puskin, Lermontov, James, ecc.) e l’intreccio (il delitto, l’investigazione, la caccia all’assassino) tipici del genere, quanto le sue premesse teoriche e le sue conclusioni. Per Dürrenmatt la detective story non è più infatti un gioco puramente intellettuale e speculativo, una costruzione astratta, avulsa dalla realtà (o meglio, che con la realtà ha lo stesso rapporto che giochi di società come il “monopoli” o il “risiko” possono avere rispettivamente con il mondo degli affari e della guerra), bensì un microcosmo che rispecchia fedelmente le leggi della vita, e che come la vita è inesorabilmente dominata dal caso, dall’arbitrio, dall’irrazionale, da quell’elemento cioè che spesso i romanzieri polizieschi escludono accuratamente e come per partito preso dalle loro trame. Il commissario Matthäi fallisce così la sua ricerca del colpevole non perché ha commesso un errore di strategia o ha trascurato un indizio importante (al contrario, egli non ha sbagliato proprio nulla, è addirittura un genio, a detta del suo ex superiore), ma solo per una coincidenza “idiota”. Tra i tanti possibili (e classici) finali, che il capitano della polizia cantonale enumera con chiaro intento ironico allo scrittore, proprio questo, così banale e all’apparenza poco plausibile (appunto perché vero, come insegna Pirandello, il quale aveva capito da tanto tempo che la realtà supera per inverosimiglianza l’immaginazione), non avrebbe mai trovato diritto di cittadinanza in un poliziesco tradizionale. E già che ho tirato in ballo Pirandello, aggiungo che all’autore di “Enrico IV” e “Il fu Mattia Pascal” sarebbe molto piaciuta la follia di cui cade preda Matthäi, la cui straordinaria intelligenza è messa fuori uso e si cortocircuita a causa del sassolino maldestramente finito nel suo delicatissimo ingranaggio per colpa dell’insospettabile caso.
Visto in questa ottica, Matthäi non è solo un detective sconfitto nella sua sfida all’assassino, ma più in generale assurge a simbolo dell’uomo il quale cerca pervicacemente di governare la realtà con la sua razionalità, di addomesticare il mondo con il suo intelletto, di ridurre la vita a schemi e logiche prevedibili a priori, ma in questo suo sforzo è fatalmente sopraffatto dall’assurdo sempre in agguato (Kafka docet). In questo senso, “La promessa” è quasi un romanzo esistenzialista, e il suo protagonista, titanicamente perdente come il capitano Achab di “Moby Dick”, può essere assimilato all’eroe dell’assurdo per eccellenza, ovverossia il Sisifo di Camus, come questi costretto dalla propria epica grandezza a trascinare per l’eternità, con dolorosa e sofferta consapevolezza un peso incomprensibilmente immane, senz’altro senso che non sia l’orgogliosa e testarda fedeltà a quell’invincibile istinto che, dalla cacciata dall’Eden in poi, passando per l’Ulisse di Dante e il Josef K. de “Il Castello”, spinge da sempre l’uomo a tentare di spostare in avanti i propri limiti, anche a costo di sfidare l’interdetto divino e bruciarsi le ali in quel volo che, per la disparità delle forze a disposizione rispetto all’obiettivo prefisso, è quasi un romantico suicidio.
Indicazioni utili
UN INTRIGANTE ROMANZO POLIFONICO
“L’insostenibile leggerezza dell’essere”, uno dei maggiori casi letterari degli anni ottanta del secolo scorso, si propone come un ambizioso tentativo di superamento del cosiddetto romanzo psicologico. Fin dalle prime pagine, lo scrittore boemo non nasconde che i suoi personaggi “non nascono da un corpo materno, bensì da una situazione, da una frase, da una metafora contenente come in un guscio una possibilità umana fondamentale”, ed in questa considerazione, in apparenza secondaria, sono contenuti secondo me i principi fondamentali dell’arte kunderiana. La rivendicazione della natura fittizia dei personaggi significa soprattutto questo: che a Kundera non interessa scandagliare la loro vita interiore (in più di un’occasione, egli mostra addirittura di non essere a parte di tutti i meccanismi psicologici che li muovono), bensì servirsi di essi per rispondere ad altre domande che non quella classica su cui si impernia tutto il romanzo psicologico del Novecento, “dove comincia e dove finisce l’io?”. Ciò non vuol dire che Kundera intende privare i suoi personaggi di una vita interiore, ma solo che di fronte al problema dell’insondabile infinito dell’anima e a quello dell’incertezza dell’identità dell’io, egli sceglie di privilegiare il secondo. Si legga ad esempio il quarto capitolo, nel corso del quale Tereza si ferma davanti a uno specchio e inizia una lunga serie di riflessioni: se il suo naso le si allungasse di un millimetro al giorno, dopo quanti giorni il suo viso sarebbe diventato diverso? E se le varie parti del suo corpo avessero cominciato a ingrossare e a rimpicciolire in modo da togliere ogni somiglianza con la figura che ora ha di fronte, sarebbe stata ancora lei? E se, nonostante tutto, la sua anima, dentro, sarebbe sempre la stessa, allora che rapporto c’è tra lei e il suo corpo? Il suo corpo ha diritto al nome “Tereza”? E se non ne ha diritto, a che cosa si riferisce quel nome? Solo a qualcosa di incorporeo, di intangibile? Queste domande esprimono una problematica fondamentale per Tereza, vale a dire il dissidio tra l’anima e il corpo, il cui tema ritorna ossessivamente nelle pagine che la riguardano. Per Tomas, l’altro protagonista, il problema essenziale è invece quello della leggerezza dell’esistenza in un mondo in cui non c’è eterno ritorno. “La vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna – afferma Kundera all’inizio del romanzo – è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza e, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla… (C’è una) profonda perversione morale… in un mondo fondato essenzialmente sull’inesistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso”.
Dualità anima – corpo e leggerezza dell’esistenza sono due tra i tanti motivi che percorrono il romanzo e che costituiscono i concetti-chiave mediante i quali i suoi personaggi si relazionano al mondo. Con questo sistema, Kundera si sforza di definire per ogni personaggio il suo codice esistenziale: non attraverso l’esame della sua vita interiore, ma andando in fondo alla sua problematica esistenziale, questo è il modo non-psicologico di Kundera di cogliere l’io. Appare perciò in tutta evidenza la lontananza dell’”Insostenibile leggerezza dell’essere” sia dal romanzo ottocentesco sia da quello del secolo scorso. Le motivazioni psicologiche, l’aspetto fisico ed il passato dei personaggi, cioè gli elementi imprescindibili attorno ai quali ruotavano i romanzi tradizionali, sono qui presi in considerazione solo nei limiti in cui essi costituiscono i temi fondamentali delle loro vite: così, ad esempio, mentre nulla ci viene detto dell’aspetto di Tomas, l’autore si sofferma a descrivere con cura i seni di Tereza, perché la problematica del corpo, come ho fatto notare più sopra, rappresenta uno dei motivi di cui Tereza è formata; per fare un secondo esempio, il passato di Tomas e di Franz rimane oscuro, mentre di quello di Tereza e di Sabina viene detto parecchio, per il motivo che la situazione familiare da cui Tereza proviene è basilare per capire a fondo le sue parole-chiave, come la vertigine o la debolezza (“a volte ho l’impressione che la sua vita non sia stata che un prolungamento della vita della madre, un po’ come la corsa di una palla sul biliardo è il prolungamento del movimento del braccio del giocatore”), allo stesso modo in cui le esperienze giovanili di Sabina a diretto contatto con il brutale e violento conformismo del mondo comunista spiegano la sua originalità ed il suo bisogno disperato di intimità. Gli stessi avvenimenti storici che punteggiano il romanzo (il ’68 cecoslovacco, l’invasione del paese da parte dell’esercito russo, la forzata normalizzazione degli anni seguenti) interessano Kundera solo in quanto sono potenzialmente adatti a creare per i personaggi situazioni esistenziali rivelatrici. In questo senso, la situazione storica non è più uno sfondo sul quale si svolgono le situazioni umane, ma è essa stessa una situazione umana (come quando l’umiliazione di Dubcek che boccheggia e balbetta nel suo discorso alla nazione si trasforma nella debolezza di Tereza nei confronti dei tradimenti di Tomas).
Siamo in grado a questo punto di affrontare un aspetto fondamentale dell’arte kunderiana, la filosofia. A molti lettori Kundera pare eccessivamente didascalico e pedagogico, con quella sua smania di sillogizzare in continuazione su tutto ciò che narra. Anche se non sempre gli riesce di sfuggire ai rischi della pedanteria e della banalità, il Kundera-filosofo non è per nulla inferiore al Kundera-narratore, soprattutto alla luce di una importante considerazione: le riflessioni filosofiche o pseudo-filosofiche del romanzo (come quelle sull’eterno ritorno già citate in precedenza e quelle sul kitsch che costituiscono l’ossatura del bellissimo sesto capitolo) non sono affatto delle colte ma sostanzialmente inutili digressioni con le quali l’autore, interrompendo il naturale flusso della narrazione, si propone narcisisticamente di esibire la propria abilità dialettica, ma sono un’ideale cornice che permette di decifrare meglio il codice esistenziale dei personaggi.
Tanti altri motivi stilistici percorrono “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, dall’abbondanza di simbolismi e di riferimenti onirici (che talvolta, come nel sogno dell’esecuzione sulla collina di Petrin, richiamano le pagine di alcuni racconti kafkiani) all’andamento musicale del romanzo (ad esempio, all’atmosfera brutale e concitata del sesto capitolo, contraddistinto da un fortissimo e prestissimo, fa seguito l’atmosfera calma e malinconica del settimo capitolo, caratterizzato da un pianissimo e adagio). La caratteristica che salta in maniera più evidente agli occhi è però la sua polifonia: nel romanzo vi sono quattro personaggi principali e Kundera sceglie di seguirli separatamente, singolarmente, in modo che nel capitolo dedicato a uno di essi si possano conoscere solo i pensieri e le emozioni di questi e non degli altri. Questo modo di procedere, anche se dà un’impressione di apparente frammentarietà, consente in realtà allo scrittore di mantenere un notevole distacco critico e di evidenziare, sfuggendo a qualsiasi rigidità tematica, la profonda diversità dei protagonisti, che neppure il fragile minimo comun denominatore del sesso riesce a superare. Credo anzi che proprio nella reciproca diversità risiede la loro esemplarità, la loro capacità di stagliarsi con straordinaria concretezza e vividezza nella nostra mente. Vediamoli in rapidissima successione. Tomas è un chirurgo famoso e dongiovanni, il quale, continuamente oppresso da un senso di impotente incertezza di fronte alle angosciose alternative della vita, viene spinto ad agire (o a non agire) volta a volta dal fatalismo, dalla compassione e dai rimorsi piuttosto che dalle proprie convinzioni morali; Tereza, la sua compagna, è dal canto suo una ragazza che, fuggita dallo squallido e volgare mondo della sua infanzia, mobilita tutte le proprie forze per fare del suo amore per Tomas un qualcosa di sublime, in grado di smentire la degradante dualità di corpo e anima; Sabina è invece un personaggio originale e anticonformista il quale, dopo aver tradito la famiglia e il comunismo, non è più capace di fermarsi sull’inebriante ma infelice strada dei tradimenti; Franz, infine, è una figura di intellettuale nobile e coraggioso, ma ingenuo e idealista, che Kundera vede come il simbolo della beffarda vanità della Grande Marcia verso l’avvenire.
E’ vano tentare di riassumere la trama dei rapporti che legano tra loro i quattro personaggi: una molteplicità di invisibili fili volta a volta li avvicina o li allontana, li fa casualmente incontrare per poi altrettanto accidentalmente separarli. Quello che conta, all’interno di quel complicato quadrilatero di storie individuali in cui tutto incessantemente varia, è scoprire qual è il motivo conduttore, il tema portante. Questo motivo lo troviamo contenuto già nell’enigmatico e bellissimo titolo, che si imprime nella memoria come una frase musicale. Al contrario di Italo Calvino, che nelle sue recenti Lezioni americane propone la leggerezza come un valore da salvaguardare, Kundera sceglie senza mezzi termini la pesantezza: “Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa? […] Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato”. I personaggi del romanzo non sono però capaci di schierarsi coerentemente a favore di questa opzione e oscillano problematicamente, sia pure con diverse gradazioni, tra la leggerezza e la pesantezza. In realtà, la loro lotta per dare un senso “pesante” alla vita è in ogni istante contrastata da una fascinosa vertigine, da una stordente attrazione verso l’abisso, che è allo stesso tempo inconscio desiderio di autodistruzione (così è per Tomas, il quale, per non ritrattare le idee politiche espresse anni addietro in un articolo giornalistico, è indotto ad abbandonare la professione medica) ed “ebbrezza della debolezza” (così è invece per Tereza, la quale, per punirsi della sua incapacità di conservare la fedeltà di Tomas, umilia il proprio corpo in una avvilente avventura erotica). D’altra parte, vivere nel segno della pesantezza è continuamente minacciato da un subdolo ed insinuante nemico, il kitsch, che, inarrestabile, sta dilagando come un’epidemia nel mondo. Alla base del kitsch sta una fede fondamentale, che Kundera chiama “accordo categorico con l’essere” ma potrebbe essere parimenti definita come una fiducia aprioristica e incondizionata nella vita. Questo ideale, estetico prima ancora che etico, si regge sulla negazione e sulla eliminazione di tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile (Kundera prende spunto, guarda caso, da considerazioni provocatoriamente scatologiche, ma non tarda ad estenderle al comunismo, che si fonda su un forzato e imprescindibile accordo collettivo da cui sono obbligatoriamente banditi l’individualismo, il dubbio e l’ironia). Il kitsch rende pateticamente illusori sia l’ideale della Grande Marcia della sinistra europea (“questo inebriante cammino verso la fratellanza, l’uguaglianza, la giustizia, la felicità”) sia quello dell’american way of life inneggiante ai valori tradizionali e alla lotta contro il pericolo rosso.
Credo che Kundera abbia toccato in queste pagine uno dei tasti più dolenti della nostra era: il kitsch, questo ridicolo e ineliminabile retaggio sentimentale che al cinema ci fa commuovere quando assistiamo a scene in cui lui pensa che lei non lo ami più, lei pensa la stessa cosa di lui e alla fine cadono uno tra le braccia dell’altra in un tripudio di lacrime, che nelle patinate immagini degli spot televisivi assume l’immagine di un tranquillo, dolce e armonioso focolare domestico, dove regnano una madre amorevole e un padre saggio, che nei manifesti delle campagne elettorali inneggia alla solidarietà e al progresso civile, il kitsch dicevo, questo cancro incistatosi profondamente nella nostra società, è entrato in noi fino a divenire parte integrante della condizione umana. Esso ci accompagna fino alla morte, nella morte anzi trova la sua più grande consacrazione (“Prima di essere dimenticati, verremo trasformati in kitsch. Il kitsch è la stazione di passaggio tra l’essere e l’oblio”). Nell’”Insostenibile leggerezza dell’essere” c’è un personaggio che rifiuta sdegnosamente il kitsch e si proclama apertamente suo acerrimo nemico: è Sabina. Non è un caso, a mio avviso, che Sabina sia anche il personaggio più doloroso e sofferto di tutto il romanzo. La sua scelta di stare dall’altra parte, di tradire genitori, patria e amante, di non scendere a compromessi con nessuno, di sfuggire insomma al kitsch nel quale la gente vuole trasformare la sua vita, ha fatto intorno a lei il vuoto: la sua vita si è trasformata (anche fisicamente, con i progressivi trasferimenti in Svizzera, in Francia e in America) in una corsa in linea retta, affannosa, verso il vuoto, fino alla decisione finale di farsi cremare, cioè di morire nel segno della leggerezza.
Le conclusioni di Kundera sono agghiaccianti: vivere nella pesantezza significa sottostare all’ambigua e pericolosa seduzione del kitsch (in questo senso devono intendersi il candido e quasi infantile idealismo di Franz e la nostalgia dell’idillio di Tereza), ma opporsi al kitsch porta solamente all’insostenibile leggerezza dell’essere. Sembra non esserci alcuna soluzione a questa insolubile aporia. Il mondo di Kundera è un mondo in cui il disegno della Creazione non è quello di rendere gli uomini felici. Kundera percepisce tutto ciò con straordinaria chiarezza e, con l’arma del sarcasmo e dello sberleffo, stronca la stupida e vanagloriosa convinzione dell’uomo di essere il “signore e padrone della natura”, affermando che i poli dell’esistenza umana si sono avvicinati fin quasi a toccarsi, che non c’è più differenza tra il sublime e l’infimo, che il mondo è diventato infinitamente leggero e a nulla vale gettare sul piatto della bilancia l’irrisorio e futile peso dei propri ideali e dei propri imperativi morali.
Indicazioni utili
CINQUE GIOIELLI DI BEFFARDA UMANITÀ
Rispetto a “Le anime morte” ne “I racconti di Pietroburgo” si evidenzia un’intenzione sociologica più marcata. In queste pagine, l’osservazione “microscopica” dell’umanità si fa ancora più infinitesimale, e il tono della narrazione meno distaccato ed estraneo, nonostante che Gogol, con il suo solito stile ironico e beffardo, ostenti di non prendere sul serio i drammi, piccoli o grandi, dei protagonisti. I cinque racconti possono essere letti come altrettante tragedie del quotidiano, in cui l’aspetto realistico viene sempre più frequentemente sostituito, laddove la deludente realtà rivela il bisogno inconscio di un suo superamento fantastico, da quello romantico. Il romanticismo di Gogol (fatta eccezione forse per “La prospettiva Nevskij”) è comunque abbastanza atipico, dal momento che la realtà non viene trascesa per mezzo del nobile impulso della fantasia o del sogno, ma è subita come impossibilità di un innalzamento, sia pure a livello ideale, che permetta di guardarla dall’alto in basso. I personaggi dei “Racconti” sono irrimediabilmente immersi in situazioni degradanti, di cui la preoccupazione per la propria posizione sociale rappresenta forse l’elemento determinante.
Ne “Le anime morte” Gogol aveva messo in evidenza questo significativo aspetto, dimostrando come l’uomo russo tratti le altre persone esclusivamente in base alla loro importanza sociale e a costoro, con metamorfosi stupefacenti, adatti il suo aspetto, il suo modo di parlare e di muoversi, il suo comportamento. “Un francese o un tedesco… parlerà quasi con la stessa voce e con lo stesso linguaggio sia ad un milionario, sia ad un piccolo tabaccaio, mentre tuttavia dentro di sé, si capisce, s’inchinerà convenientemente davanti al primo. Da noi non è così; da noi vi sono dei sapienti i quali con un proprietario di duecento anime parleranno in tutt’altro modo che con uno di trecento, e con quello di trecento in modo ancora diverso che con uno di cinquecento, e con quello di cinquecento altrimenti che con colui che ne ha ottocento; insomma, dovesse arrivare anche al milione, troverebbe sempre qualche sfumatura”. Ne “I racconti di Pietroburgo”, questa curiosa peculiarità si rivela drammaticamente per quello che effettivamente è: un subdolo condizionamento che finisce per schiacciare sia coloro che sentono la propria collocazione nella scala sociale come un motivo di perenne insoddisfazione, sia coloro che sono invece pienamente compresi della propria funzione gerarchica. Si pensi all’”importante personaggio” de “Il cappotto” che “scorgeva talora il vivo desiderio di prendere parte a qualche conversazione interessante o di mescolarsi a un circolo di persone; ma c’era un’idea che lo tratteneva: non sarebbe stata troppa degnazione da parte sua, non sarebbe parso troppo confidenziale, non avrebbe con ciò abbassato la propria posizione?”. Con simili presupposti, non deve stupire che un semplice consigliere titolare, non appena viene nominato direttore di una piccola cancelleria distaccata, innalzi un tramezzo e si faccia una stanza personale, chiamandola pomposamente “stanza d’udienza”, sebbene sia difficile farvi entrare anche una scrivania di normali dimensioni
Questi esasperati comportamenti sociali, che Gogol attribuisce alla Russia ottocentesca, ma che in realtà si ritrovano anche nel nostro mondo contemporaneo, degenerano in situazioni paradossali e morbose nei racconti del “Diario di un pazzo”, de “Il naso” e de “Il cappotto”. Il protagonista del “Diario di un pazzo”, Popriscin, è un modesto lacchè, uno dei tanti umili impiegati che riempiono le pagine di Gogol. La sua dissociazione mentale nasce dalla giustapposizione di due distinti stati d’animo: da una parte egli accetta e fa propria la tendenza a giudicare gli altri in base alla posizione sociale (egli disprezza infatti il ceto del basso popolo e dei mercanti), dall’altra soffre per la propria infima e abietta condizione. L’aspirazione ad avere una rispettabile posizione nella società viene così vissuta come una continua, lacerante frustrazione: avendo egli accettato le regole del gioco, egli avverte l’impossibilità di migliorarsi socialmente come una irreparabile sconfitta. Il rifugio nella follia è quindi l’unica evasione possibile da una vita vuota e meschina, in cui lo scarto tra realtà e ideale si è fatto insostenibilmente grande.
Analogamente, ne “Il naso”, l’assessore di collegio Kovalev, così fiero del suo ruolo (“poteva ancora lasciar passare tutto ciò che si diceva di lui personalmente, ma non poteva assolutamente sopportare le allusioni che si riferivano al suo grado o al suo titolo”), è vittima dell’alienante paura di perdere la propria precaria identità, faticosamente raggiunta attraverso la scalata della scala gerarchica. Non è un caso che il tema del naso staccato dal resto del corpo si trovi già nel “Diario di un pazzo” (“Per giunta… la luna è una sfera così fragile, che gli uomini non ci possono abitare, e così adesso ci vivono soltanto i nasi. E questa è la ragione per cui non possiamo vedere il nostro naso: i nostri nasi infatti si trovano sulla luna”): il riferimento psicanalitico mi sembra irrefutabile.
Il contrasto tra realtà e ideale, che per Popriscin e Kovalev è rappresentato dal miraggio della rispettabilità sociale, per il protagonista de “Il cappotto” è simboleggiato invece da un soprabito nuovo, il possesso del quale, frutto di anni di piccole economie, diventa all’improvviso lo scopo della sua vita, emblema di un improbabile riscatto umano. L’illusione che si affaccia per un istante nell’esistenza di Akakij Akakievic e gli fa intravedere, dopo tanti anni anonimamente trascorsi nel fango, il cielo di una luminosa felicità, è fatale al pover’uomo: il furto del cappotto lo conduce alla “morte per disperazione”. Akakij, che rappresenta un livello di umanità miserrimo, asintotico allo zero assoluto, è il primo di una lunga serie di “umiliati e offesi” che tanta parte hanno avuto nella successiva letteratura russa. Il racconto può essere anche letto come un apologo morale, il cui senso è racchiuso nel ravvedimento finale dell’”importante personaggio”, anticipato, all’inizio della narrazione, dal giovane impiegato che, colpito dalla mortificazione continua subita dall’umile Akakij, “molte volte, nel corso della sua vita, si sentì correre un brivido per la schiena vedendo quanto c’è di inumano nell’uomo, quanta crudele rozzezza è nascosta sotto la mondanità più coltivata e più raffinata, e perfino, Dio mio! nelle persone che tutti considerano oneste e onorate…”. “Il cappotto” consente, più di ogni altra opera, di cogliere il significato più profondo della poetica gogoliana. Il suo finale, con il fantasma baffuto che appare alla vista del vigile spaurito, fa rientrare il racconto sui binari del buonumore e del sorriso, ma è un sorriso di breve durata, un buonumore che non consola. La grande lezione di Gogol, infatti, è stata quella di trasformare ciò che a prima vista poteva apparire comico in grottesco, e il grottesco, si sa, non fa ridere.
Indicazioni utili
SE LA TUA FACCIA È STORTA NON ACCUSARE LO SPECCHIO
“E a lungo ancora mi è predestinato da una potenza mirabile di andarmene a braccetto coi miei strani eroi, di contemplare tutta l’umana corrente della vita, di contemplarla attraverso il riso che il mondo vede e le lacrime ch’esso non scorge e non conosce”
“Se la tua faccia è storta, non accusare lo specchio”: questo vecchio adagio popolare si addice perfettamente all’arte di Nikolaj Vasilevic Gogol, al punto che egli stesso volle porlo come epigrafe alla commedia “L'ispettore generale”. Cos’ha fatto, del resto, Gogol nelle sue opere se non riprodurre, instancabilmente, le facce storte della realtà, realizzando alla fine una galleria di ritratti umani che non ha eguali nella letteratura moderna? Il gusto di effigiare gli esseri umani con una curiosità da entomologo e una carica grottescamente dissacratoria, che costituisce il tratto più caratteristico di questo importante scrittore russo, si ritrova soprattutto ne “Le anime morte”, il suo capolavoro indiscusso.
In questo “poema in prosa”, come amava definirlo lo stesso Gogol, c’è un protagonista, Pavel Ivanovic Cicikov, e c’è una trama, che ruota intorno al suo piano di comprare sottocosto “anime morte”, vale a dire contadini deceduti dopo l’ultimo censimento ma che fino al successivo verranno considerati legalmente e fiscalmente vivi, per poi ottenere crediti bancari, ipotecando questa apparente e fasulla ricchezza. Non mi risulta però azzardato ritenere che, in queste pagine, protagonista e trama sono, paradossalmente, secondari, o, se si vuole, strumentali rispetto allo scopo principale dell’opera, che è quello di percorrere città e campagne della Russia per rintracciare i più svariati esemplari di un’umanità bizzarra e inconsueta, percorsa da un soffio di risibile follia. Di Cicikov, ad esempio, ci è dato inizialmente di sapere solo che è “un signore non bello, ma nemmeno di brutto aspetto, né troppo grasso, né troppo magro; non si poteva dire che fosse vecchio, ma nemmeno che fosse troppo giovane. Il suo ingresso non fece nessunissima impressione in città”. Del resto, cioè della sua vita, delle sue esperienze e dei suoi propositi, Gogol non si preoccupa minimamente, se non alla fine della prima parte del romanzo (che è poi l’unica artisticamente compiuta), quando ormai il senso del libro è ormai palese.
“Le avventure di Cicikov” è quindi un sottotitolo ingannatore: egli è uno dei tanti personaggi che popolano il romanzo, è fatto della loro stessa sostanza, anche se la sua ironicamente sfumata presentazione è sufficiente a designarlo come “uomo senza qualità”, adattissimo quindi a rivestire il ruolo di involontario portavoce dell’autore. Questo piccolo borghese che ama la rispettabilità e l’acqua di colonia più di ogni altra cosa al mondo, che colpisce più per la sua assenza di personalità che per la sua immoralità, è quindi soprattutto un pretesto per poter studiare da vicino un campionario umano estremamente vario e mutevole, anche se riconducibile in ultima analisi a gradi diversi di nullità esistenziale. Si sviluppa così, minuziosamente ritratta, una lunga teoria di “persone rispettabili sotto ogni aspetto”, nella satirica e sottilmente corrosiva descrizione delle quali Gogol si rivela un autentico e geniale maestro.
Il primo personaggio che incontriamo è Manilov, appartenente a quel genere di “gente così così, né carne né pesce”. Quando entriamo a casa sua ci sembra di respirare la stessa aria dell’appartamento di via Gorochovaja di goncaroviana memoria (“Nel suo gabinetto giaceva sempre un libriccino, con un segno infilato a pagina 14, ch'egli leggeva continuamente già da due anni”) e di Oblomov ritroviamo anche il sognante velleitarismo (“Qualche volta, guardando dalla scaletta d’ingresso verso il cortile e lo stagno, diceva che sarebbe stato bene fare subito un sotterraneo che dalla casa conducesse laggiù, o costruire un ponte di pietra sopra lo stagno. […] Nel dir questo gli occhi gli si facevano dolci dolci, e il suo viso prendeva un’espressione soddisfatta. Del resto tutti questi progetti si compivano solo a parole”). Dietro al suo atteggiamento untuosamente cordiale e al suo sentimentalismo sdolcinato non è difficile scorgere un senso di vuotaggine e di mal dissimulata volgarità.
Dopo di lui facciamo conoscenza con l’ottusa e pedante Korobocka, meschina e spiritualmente limitata, superstiziosa al punto di credere che il diavolo si intromette nelle faccende umane, ed anche stupida, ma non tanto da non vedere che nella richiesta di Cicikov di cedergli le “anime morte” c’è un vero e proprio imbroglio.
Alla vecchia e antiquata proprietaria fanno seguito Nozdrev, vero e proprio esempio di parassita sociale, bugiardo e infingardo, privo di amor proprio, ma sempre alla ricerca di un’attività (sia essa quella del giocatore o dello scandalista) per riempire l’esistenza quotidiana; e ancora il grossolano e misantropo Sobakevic, furbo e imbroglione, che pretende di giudicare gli altri in base a principi morali che per lui non esistono; e infine Pljuskin, psicopaticamente avaro, al punto da vivere in un selvatico e degradante abbandono.
Al fianco di questi meschini rappresentanti dell’aristocrazia fondiaria vi è poi tutta una folla di funzionari cittadini, dal presidente del tribunale al governatore, dal capo della polizia al procuratore, nella descrizione della quale Gogol raggiunge forse le vette più alte della sua arte. L’autore deride la loro ossequiosa bonomia, la loro irresolutezza, l’ipocrisia e lo snobismo delle loro mogli, ma lo fa sempre in punta di penna, senza mai calcare la mano. Così, quando parla della corruzione negli uffici pubblici, Gogol non esprime astio, ma un eccezionale e divertito senso dell’umorismo. Si prenda ad esempio il seguente aneddoto: “Si formò una commissione per la costruzione di un edificio governativo molto importante. […] La commissione si mise immediatamente all’opera. Per sei anni s’affacendò intorno alla costruzione; ma sia che il clima fosse poco propizio, sia che il materiale fosse poco adatto, il fatto è che l’edificio governativo non arrivò mai più su delle fondamenta. Ma intanto agli estremi della città sorse per ciascuno dei commissari una bella casa di architettura borghese: evidentemente lì il terreno era migliore”. Altrettanto spassosa è la girandola di equivoci che il misterioso affare di Cicikov, con le sue molteplici allusioni, ingenera nei notabili della città, gettandoli nella più assoluta costernazione e facendo esplodere i loro terribili complessi di colpa, rimossi da tempo con troppa leggerezza. Alla fine, essi non riescono più a capire se Cicikov sia “un uomo che bisognava acciuffare e arrestare come uno di cattive intenzioni, o un uomo tale che poteva egli stesso acciuffare e arrestare tutti loro come gente malintenzionata”. Sebbene la satira gogoliana non implichi mai un’esplicita condanna, sotto il profilo morale, dell’oggetto rappresentato, pure essa è in grado di far emergere con marcata evidenza il vizio comune a tutti i personaggi de “Le anime morte”: la “volgarità soddisfatta di sé”.
E’ evidente che questi personaggi, pur essendo descritti in maniera grottesca e tipizzata, non sono delle semplici maschere, delle caricature fini a se stesse, ma sono profondamente legati all’ambiente e alla realtà. E’ in questo senso che si può parlare di un Gogol realista, di un Gogol finissimo cesellatore di una realtà sociale, e non solamente umana. Gli oggetti che circondano i personaggi e ricalcano i tratti grotteschi di costoro hanno ad esempio una importante funzione semiotica: quando Gogol descrive le cuffie ridicole delle dame provinciali, il calesse a forma di cocomero e l'orologio sibilante della Korobocka, le sedie a forma d'orso di Sobakevic, la tabacchiera di Petrovic (ne “Il cappotto”), col pezzetto di carta al posto della faccia di generale sfondata con un dito, egli non lo fa con intenti puramente comici. La sensazione che si ricava da queste pagine è infatti quella di non riuscire più a distinguere gli uomini dalle cose, come nel caso della stanza di Pljuskin, collezionista di oggetti inutili e di stracci. La “reificazione” dei personaggi gogoliani legittima a mio avviso la tesi secondo cui le vere anime morte sono proprio loro, patetiche espressioni di una Russia squallida e corrotta, ma pur sempre in grado di ispirare all’autore liriche digressioni, come quella famosa della trojka, che chiude la prima parte del romanzo.
Come ho già detto, ne “Le anime morte” non c’è un intento prioritariamente moralistico. L’indagine sottilmente satirica delle tipologie umane e dei comportamenti sociali non è infatti rivolta tanto a criticare la concussione o la servitù della gleba o le molteplici tare sociali, quanto a trasmettere una sensazione di vuoto e di malinconia: tutti quei personaggi, tenacemente avvinghiati al loro potere e al loro benessere personale, risultano alla fine essere null’altro che delle patetiche vittime della vita.
Indicazioni utili
SUL LETTINO DELLO PSICANALISTA
“Lamento di Portnoy [da Alexander Portnoy (1933- )], disturbo in cui potenti impulsi etici e altruistici sono in perenne contrasto con una violenta tensione sessuale, spesso di natura perversa. Osserva lo Spielvogel: «Atti di esibizionismo, voyeurismo, feticismo, autoerotismo e coito orale sono assai frequenti; come conseguenza della “moralità” del paziente, tuttavia, né le fantasie né le azioni si traducono in autentica gratificazione sessuale, ma piuttosto in un soverchiante senso di colpa unito a timore di espiazione, soprattutto nella fantasmatica della castrazione» (O. Spielvogel, Il pene perplesso, in «Internationale Zeitschrift für Psychoanalyse», vol. XXIV, p. 909). Lo Spielvogel ritiene che gran parte dei sintomi vadano ricercati nei legami formatisi nel rapporto madre-figlio.”
Per chi conosce le pellicole di Woody Allen o le barzellette di Moni Ovadia non dovrebbe essere una sorpresa: l’ambiente ebraico è sempre stato caratterizzato da una tendenza ironicamente autodenigratoria tale da controbilanciare il rigido fondamentalismo della religione. Così, il romanzo di Roth, per quanto estremo, iperbolico e provocatorio, si inscrive perfettamente in questo filone, teso a mettere a nudo le ipocondrie e le idiosincrasie di un modus vivendi che, mentre inconsciamente ambisce alla “normalità” degli altri (i goys, le shikses, cioè i cristiani tanto vituperati dai genitori dell’autobiografico protagonista ma da quest’ultimo bramati come oggetti del desiderio per la loro vita disinibita e permissiva), si porta appresso come una palla al piede tutti i cavilli, i laccioli, le panie di una religione che da millenni costringe un intero popolo alla orgogliosa ricerca della perfezione etica, ma anche all’isolamento, all’esclusione, alla sofferenza. Si crea in tal modo un’antinomia tra l’aspirazione ad essere integrato nell’american way of life da una parte e il condizionamento della cultura d’origine dall’altra. Di qui la ribellione di Alex (“io sono ateo” proclama allo sbigottito genitore), ma anche l’inevitabile e annichilente senso di colpa. Il vero leitmotiv del libro consiste infatti nell’oscillare del protagonista tra le infrazioni alle regole e alla morale e il conseguente, paralizzante rimorso. A determinare questo atteggiamento contribuisce, c’era ovviamente da aspettarselo, l’ambiente familiare: la madre castratrice e il padre frustrato, che, in gustose scenette domestiche dall’irresistibile vis comica, fanno crescere il figlio in un’infanzia colma di terrore, in un’adolescenza piena di sensi di colpa e in una maturità avvelenata dall’insoddisfazione per non essere in grado di accondiscendere alle aspettative ossessivamente riposte in lui (perché, a quanto pare, nell’universo yiddish, un figlio non riesce mai ad affrancarsi completamente, a dispetto delle proclamazioni di autonomia e di indipendenza, dalle catene parentali). Alexander adulto si porta dietro tutte le frustrazioni, le paure e le manie appiccicateglisi addosso nel corso del suo lungo e tragicomico apprendistato alla vita, in cui le pulsioni e i desideri (soprattutto quelli erotici) sono fatalmente destinati a entrare in conflitto con la coscienza (come in quella buffa scena, creata dalla sua immaginazione in seguito alla paura di aver contratto la sifilide da una ragazza italo-americana, in cui il suo pene cade per terra di fronte ai logorroici e sentenziosi genitori), provocando un corto circuito dell’io che fatalmente non può che condurlo sul lettino di uno psicanalista.
Il romanzo è infatti un monologo-confessione che il protagonista fa al suo terapista e nel quale ripercorre tutta la sua vita, dai primi anni trascorsi in quella “scuola di polemologia” (come lui stesso la definisce) che è la sua famiglia fino alle pirotecniche avventure sessuali da single, nei quali dà sfogo, quasi per ribellione, a un istinto fondamentalmente egoistico, onanistico, incapace di dar vita ad autentiche e responsabili relazioni sentimentali (come accade nel rapporto con la Scimmia, che sembra una versione degradata e satirica della proustiana storia d’amore di Swann con Odette). In queste pagine, che per Alex vorrebbero essere liberatorie ma che in realtà mettono impietosamente in evidenza la sua immaturità e la sua infelicità, Roth non segue la cronologia degli avvenimenti bensì un andamento che privilegia le libere associazioni dei ricordi, saltando da un aneddoto all’altro, passando dalla prima infanzia al presente per poi tornare nuovamente indietro all’adolescenza, riannodando infine i fili spaiati della memoria, con una struttura narrativa che solo apparentemente è caotica, ma che in realtà risulta molto ben strutturata, e soprattutto ottimamente servita da un linguaggio il quale, per quanto a volte al limite della pornografia, lascia stupefatti per varietà di termini, fantasia e potente forza farsesca e caricaturale.
Indicazioni utili
RINASCERE ALLA VITA
Quando, dopo un’inaudita sofferenza, la libertà finalmente arriva (come Levi documenta all’inizio de “La tregua”, ideale prosecuzione di “Se questo è un uomo”) di fronte ad essa “ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte”. “L’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre. […] Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. […] Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia”.
L’iniziazione alla vita dopo l’inferno del lager è lenta e laboriosa: abbandonati a loro stessi e circondati da indifferenza o disprezzo, gli ex-prigionieri si muovono come particelle impazzite in cerca di un centro di gravità qualsiasi. Intorno a loro, il mondo, lungi dall’essersi ristabilito miracolosamente sulle sue naturali fondamenta, fatica a riprendersi dagli orrori della guerra. Inizia così un lungo e precario vagabondaggio, tanto più penoso in quanto è come “se un atleta che abbia corso per ore, spendendo tutte le proprie risorse, quelle di natura prima, e poi quelle che si spremono, che si creano dal nulla nei momenti di bisogno estremo, e che arrivi alla meta, nell’atto in cui si abbandona esausto al suolo, venga rimesso brutalmente in piedi, e costretto a ripartire di corsa, nel buio, verso un altro traguardo non si sa quanto lontano”. Non c’è tempo per rilassarsi, non c’è tempo per commiserarsi: la lotta continua perché “guerra è sempre”, come ama dire con cinico pragmatismo Mordo Nahum, il greco con cui Levi divide una settimana di straordinarie avventure. Attraverso le esperienze di Cracovia, Katowice e Staryje Doroghi, il romanzo si sviluppa con un andamento tipicamente picaresco. Mentre lentamente riaffiora la voglia di vivere, mescolata ad una intensa nostalgia dell’Italia e della propria casa, si fa luce e viene progressivamente a delinearsi una galleria di personaggi indimenticabili. Oltre al greco, uomo forte e freddo, solitario e capace di “organizzarsi” in ogni situazione, voglio ricordare almeno Cesare, uomo libero e spregiudicato, simpatico ed insofferente di qualsiasi costrizione.
In queste pagine, Levi mostra una padronanza di mezzi espressivi ancora maggiore di quella evidenziata nel romanzo di esordio: ciò è senz’altro dovuto a un naturale affinamento tecnico dello scrittore, dato che “La tregua” è stato scritto molti anni più tardi, ma anche, a mio parere, e nell’ottica di una totale immedesimazione con le vicende narrate, al graduale sciogliersi di quel grumo doloroso rappresentato dallo stretto contatto con la morte e con gli orrori del lager, cosa che rende possibile perfino l’inserimento di qualche intermezzo dichiaratamente comico (ad esempio, la farsesca selezione dei russi nel campo di Katowice o il delizioso episodio della “curizetta”). Dalla narrazione viene anche fuori lo spirito della gente russa, caratterizzato dall’insofferenza per i formalismi, dalla approssimativa disciplina, dalla diffidente e sospettosa chiusura verso l’esterno, ma anche da un primordiale e omerico amore per la vita e per la terra.
I nove mesi trascorsi in giro per l’Europa, anche se duri e vissuti ai margini della civiltà, costituiscono un periodo di tregua, “una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino”. Il ritorno a casa, pur agognato e bramato in innumerevoli occasioni, significa infatti affrontare prove terribili ed ignote, tornare a misurarsi con il passato e la memoria, convivere con l’ineliminabile veleno di Auschwitz che subdolamente mina la volontà di vivere (e il suicidio di Levi sembra il tragico avverarsi di una lontana e fatale profezia). Scrive Levi, al termine di questa drammatica odissea, che a distanza di anni un sogno continua a tormentarlo con insistenza: “Sono […] in un ambiente placido e disteso, apparentemente privo di tensione e di pena; eppure provo un’angoscia sottile e profonda, la sensazione definita di una minaccia che incombe. E infatti […] tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone. […] Sono solo al centro di un nulla grigio e torbido, ed ecco, io so che cosa questo significa, ed anche so di averlo sempre saputo: sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno. […] Odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba di Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, Wstawac”. La ferita di Auschwitz, con il suo strascico di orrore e di dolore, non cessa di dolere anche una volta rimarginata, impietosamente l’Olocausto, che invano si è tentato di esorcizzare, continua a mietere le sue vittime.
Indicazioni utili
PER NON DIMENTICARE
I dolorosi versi che aprono il romanzo di Levi non lasciano alcun margine di dubbio: “Se questo è un uomo” è un libro che nasce dall’impellente bisogno di raccontare, di testimoniare l’allucinante esperienza dei campi di sterminio nazisti, affinché la gente possa rammentare quel che è stato e servirsene come perenne monito contro la barbarie della guerra e l’insensata violenza dell’uomo sull’uomo. Eppure, a dispetto di ciò, “Se questo è un uomo” è un libro che non mi aspettavo. O meglio, gli orrori dei lager, che le immagini dei documentari girati dagli Alleati hanno portato fin nelle nostre case con effetti presumibilmente analoghi a quelli che avrebbero potuto avere filmati provenienti dagli spazi siderali più profondi, tanto lontane erano dal nostro sicuro ed ovattato mondo del dopoguerra, sembravano poter legittimare un romanzo dai toni biblici e apocalittici, con rabbiosi strali lanciati a piene mani contro gli odiati nazisti e panegirici inneggianti alla superiore dignità dell’ebreo perseguitato ad ogni capoverso. Invece niente di tutto questo, che pure avrei probabilmente perdonato all’autore in nome di una letteratura di impegno civile che nell’urgenza di portare il suo scottante messaggio è indotta talvolta a dimenticare il senso della misura, niente di tutto questo, dicevo, c’è nel romanzo di Primo Levi. Nonostante sia raccontato in prima persona e riporti esclusivamente fatti realmente accaduti, esso è una descrizione pacata e disincantata di avvenimenti che pure si svolgono spesso ai limiti dell’immaginabile.
L’abilità di Levi, che certo non lo farà passare alla storia come un grandissimo romanziere ma che nondimeno rende le sue opere altamente avvincenti, è quella di lasciar parlare i fatti. Una volta varcata la soglia del lager, lo scrittore non può più permettersi di essere un affabulatore, e solo in misura assai limitata rivestire il ruolo di commentatore della Storia: la scottante materia umana con cui Levi entra in contatto e che fedelmente riversa sulla pagina scritta lo rende forse simile a un documentarista, assai più efficace quando descrive che non quando sillogizza. Il suo stile è duro, scabro, privo di fronzoli, perfettamente aderente alla realtà narrata. Una sola, brusca frattura lo contraddistingue, nel momento in cui il protagonista fa il suo ingresso nell’inferno concentrazionario. Il linguaggio, che fino ad allora scorreva lineare e riflessivo, diventa all’improvviso nervoso, frammentario, spezzettato. Per qualche pagina, quasi che il ricordo di quegli avvenimenti riemergesse nella memoria di chi li ha vissuti con la violenta vividezza del passato, Levi sembra incurante delle forme e dei tempi grammaticali (si prenda come esempio la frase seguente: “…la porta si è aperta ed è entrata una SS, sta fumando. Ci guarda senza fretta… Tutti guardiamo l’interprete, e l’interprete interrogò il tedesco…”). Poi il ritmo ritorna placido e sommesso, malinconicamente consapevole del fatto che “la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo”.
Vengono così rievocate, in una successione non strettamente cronologica ma dettata piuttosto da esigenze emotive, le esili e minute vicende del campo, che punteggiano le massacranti giornate di lavoro in Buna e le notti agitate nei fetidi dormitori: anche quelle apparentemente più insignificanti, quelle che sembrano dare maggiormente sull’aneddoto, sono in realtà altrettanti fondamentali tasselli della più grande tragedia umana della nostra era. Il lager si rivela infatti come la materializzazione di una cosciente e programmatica volontà di distruggere l’uomo, nello spirito più ancora che nel corpo. “Si immagini un uomo – scrive Levi – a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana: nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità”. Il lager è quindi, come afferma nel libro un vecchio ebreo tedesco, “una grande macchina per ridurci a bestie”. In quella drammatica lotta per la sopravvivenza che è diventata l’esistenza quotidiana, dove tutto è freddo e fame e botte, diventa così essenziale preservare dall’annientamento almeno la propria dignità umana. “Che siamo schiavi, privi di ogni diritto, esposti a ogni offesa, votati a morte quasi certa, ma che una facoltà ci è rimasta, e dobbiamo difenderla con ogni vigore perché è l’ultima: la facoltà di negare il nostro consenso”. In un microcosmo dove tutti, e in primo luogo i propri compagni, “ci sono nemici o rivali” è però quasi impossibile conservare quest’ultimo barlume di umanità: assai più facile è lasciarsi vincere dall’indifferenza o dalla rassegnazione, o concentrarsi sul proibitivo compito di districarsi alla meno peggio tra le mille assurde regole che pilotano le vite degli individui verso un precario, informe domani.
La popolazione del lager tende spontaneamente a dividersi in due categorie nettamente distinte: i sommersi e i salvati. I primi sono gli haftlinge assuefatti al loro misero destino, uomini in cui è scomparsa ogni traccia di pensiero e di intelligenza, “gregge muto e innumerevole” caratterizzato dal “torpore opaco delle bestie domate con le percosse”; i secondi sono invece coloro che, riposto ogni senso etico, hanno saputo “organizzarsi” e, per mezzo di furti, corruzioni e delazioni, riescono ad evitare le selezioni, cinicamente ed egoisticamente consapevoli che mors tua vita mea. Levi, rivelandosi un profondo conoscitore della natura umana, respinge la comoda e consolatoria pietà verso le vittime e, con una sincerità davvero autolesionistica, mostra l’abbrutimento bestiale e il profondo degrado morale cui esse sono pervenute. Nel medesimo tempo, però, egli ci fa capire che questa condizione abietta altro non è se non l’ennesima, lancinante offesa perpetrata dalla barbarie nazista, di modo che la dignità dell’uomo calpestato e violentato fin nel profondo dell’animo viene alla fine ristabilita in maniera naturale, più nitida e consapevole, in quanto più crudamente autentica. La stessa vergogna che coglie gli individui quando sono messi di fronte alla loro vigliaccheria, soprattutto dopo le crudeli parentesi delle selezioni per le camere a gas o delle impiccagioni di quei pochi disgraziati che in qualche modo hanno saputo ribellarsi, la vergogna cioè di essere giunti al più infimo livello della condizione umana, diventa così la premessa di una testimonianza di altissimo valore morale, lascito insostituibile che Levi ha voluto tenacemente tramandare ai posteri affinché non dimenticassero mai l’immane tragedia dell’Olocausto.
Indicazioni utili
L'UCCELLO PUO' INNAMORARSI DEL PESCE?
“Nostro padre aveva ragione, il tempo non scorre, ma è. In un mondo così, tutte le cose che saremo o siamo stati, le siamo. Ma poi, in un mondo così, chi siamo deve essere tutte le cose.”
Negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso riscosse una grande notorietà negli Stati Uniti una bambina prodigio, Philippa Schuyler, che suonava il pianoforte come una concertista consumata e che era stata concepita come un singolare esperimento genetico dai suoi genitori, un padre di colore e una madre bianca, i quali erano convinti che i matrimoni interrazziali potessero produrre una discendenza migliore, oltre a risolvere molti dei problemi sociali della nazione. Nel romanzo “Il tempo di una canzone” si assiste a una unione simile, pur senza le motivazioni eugenetiche dei coniugi Schuyler, tra Delia Daley e David Strom, lei una ragazza nera lontana discendente di una famiglia di schiavi del Sud, lui un ebreo tedesco emigrato in America dopo l’avvento del nazismo, i quali si innamorano nel corso del famoso concerto tenuto nel 1939 dal soprano Marian Anderson al Lincoln Memorial di Washington, scoprendo nell’altro una identica passione per la musica. Siamo alla fine degli anni ’30, un’epoca in cui “l’amore tra un bianco e una nera è un crimine peggiore del furto, punibile con la stessa severità dell’omicidio colposo.” Chi ha visto “Loving”, il film di Jeff Nichols tratto dalla storia autentica di una coppia mista che nel 1958 in Virginia venne arrestata e condannata ad un anno di detenzione e all’esilio venticinquennale per aver violato le leggi dello Stato, ricorda che in moltissimi stati dell’Unione era tassativamente proibito per un uomo bianco sposare una donna nera e che, laddove ciò era invece permesso, l’intolleranza della società rendeva comunque questi accoppiamenti difficilmente praticabili. Si può così capire la portata rivoluzionaria della scelta di Delia e di David di condividere le proprie vite e dare alla loro prole l’opportunità di superare l’odiosa discriminazione razziale del loro tempo. “Chi siamo?” chiedono a più riprese i due JoJo, Joey e Jonah, ai loro genitori, e la risposta è sempre la stessa: “Voi siete quello che sceglierete di essere”. Il padre, fisico, espone addirittura la cosa in termini matematici: i ragazzi potranno essere A, B, sia A sia B, né A né B. “Pensavano tutti e due che la famiglia dovesse avere la meglio sulla realtà. […] Un nobile esperimento. Quattro scelte, ognuna delle quali prefissata.” Il romanzo, nella sua accezione immediata, è proprio la storia di questo esperimento, narrato dal secondogenito Joey alternando diversi piani temporali, il passato prossimo (la cronaca della travolgente ascesa del fratello cantante a stella di prima grandezza nel panorama musicale internazionale) ed il passato remoto (il resoconto dei primi anni di matrimonio dei coniugi Strom). Se all’inizio tutto sembra funzionare a meraviglia (la famiglia che ogni sera si riunisce allegramente intorno al pianoforte sfidandosi nel “gioco delle citazioni musicali”, i due fratelli che si impongono brillantemente negli studi e nella carriera musicale), retrospettivamente scopriamo che l’edificio messo in piedi da Delia e David è pieno di crepe, che l’esperimento, lungi dal realizzare “le magnifiche sorti e progressive” sognate dai due, è destinato al fallimento. La Guerra Mondiale, a cui l’America partecipa per garantire all’Europa e al mondo intero la libertà minacciata dalla dittatura nazista (e a cui David, in quanto fisico partecipante al Progetto Manhattan, dà il suo contributo lavorando alla realizzazione della bomba atomica), nasconde la vergognosa situazione di discriminazione, di privazione dei diritti e di emarginazione sociale a cui è soggetta in patria una larga percentuale della popolazione, quella afro-americana. Per Delia, adesso che è sposata, “anche i bisogni più semplici divengono irraggiungibili. Vorrebbe fare una passeggiata per la strada con suo marito senza dover fingere di essere la sua donna di servizio. Vorrebbe potergli dare il braccio in pubblico. Vorrebbe andare al cinema con lui o uscire a cena senza essere importunata. Vorrebbe tenere il proprio figlio sulle spalle, portarlo con sé a fare spese, senza mozzare il respiro all'intero negozio. Vorrebbe tornare a casa almeno una volta non completamente avvelenata. Non accadrà mai nel corso della sua vita. Ma deve accadere in quella di suo figlio.” L’utopia di un mondo senza divisioni di razze viene ostacolata non solo dal razzismo della società bianca, ossessionata dalla purezza della razza e dal pedigree, asserragliata a difesa del principio che anche una sola goccia di sangue nero è sufficiente a macchiare indelebilmente la discendenza, ma è anche contrastata – dicevo – dall’opposizione della comunità di origine, che vede in questo tentativo una rinuncia alla lotta senza quartiere intrapresa fin dai tempi della schiavitù, un asservimento alla supremazia culturale dei bianchi. La scomunica comminata dal padre di Delia (che fa sì che i suoi figli crescono senza poter conoscere i nonni, gli zii e i cugini) decreta simbolicamente la sconfitta della rivoluzionaria famiglia Strom. “L’uccello e il pesce possono innamorarsi (come recita un antico proverbio ebreo), ma per loro l’unico nido possibile è quello che non c’è”. Non esiste la possibilità di scegliere veramente chi essere: se Joey e Jonah non sentono sulla loro pelle questa impossibilità è solo perché durante la loro giovinezza vivono nel mondo protetto e ovattato dei conservatori e delle sale da concerto, al riparo dalla violenza e dalle brutture della realtà (“nelle sale da concerto, santuari protetti dal suono vero del mondo, noi ci nascondevamo”). La disgregazione familiare è totale: Jonah andrà a lavorare in Europa per inseguire egoisticamente il suo successo da predestinato (e non a caso apparendo nelle copertine dei suoi dischi sempre più bianco), mentre Ruth, la sorella minore, si unirà alla lotta delle Pantere Nere per l’affermazione dei diritti della gente di colore. Joey, l’umile, empatico e disponibile Joey, sta nel mezzo: fedele e insostituibile accompagnatore del fratello per lunghi anni, sceglierà alla fine di rinunciare alla remunerativa e prestigiosa carriera concertistica e discografica per rivestire l’oscuro e anonimo ruolo di insegnante di musica in una scuola elementare di un ghetto nero di Oakland, vicino a San Francisco.
E’ curioso come uno dei libri più “neri” della letteratura americana contemporanea sia stato scritto dal “bianco” Richard Powers. Non bisogna però cadere nell’errore di considerare “Il tempo di una canzone” come un romanzo incentrato esclusivamente sul razzismo e sulla condizione della popolazione di colore negli Stati Uniti degli ultimi decenni. Sarebbe troppo riduttivo e fuorviante, e soprattutto non renderebbe ragione alla strabiliante ricchezza tematica del romanzo. “Il tempo di una canzone” è sì un libro sulla discriminazione razziale (ci sono l’”I have a dream” di Martin Luther King e il Black Power, Rodney King e le rivolte nei ghetti, oltre ovviamente alle tragedie individuali, dolorose e terribili, che si accaniscono sui personaggi), ma è anche – e forse di più – un’opera sulla musica e sul tempo. Nei suoi romanzi Powers mescola abitualmente scienza e arte (la genetica, la musica e l’informatica in “The Gold Bug Variations”, la fotografia in “Tre contadini che vanno a ballare”): qui musica e fisica, scale e accordi musicali da una parte, e teoria della relatività e quanti dall’altra, creano un connubio sorprendente e originale, che l’autore porta avanti con una prosa impegnativa ma affascinante, al punto che anche chi, come me, è abbastanza digiuno di note e di partiture, di Bach e di Dowland, di Einstein e di Schrodinger, riesce ad amare quello che i personaggi suonano e cantano o a comprendere le asserzioni scientifiche di David, come se fosse lì con loro ad ascoltare un lied di Schubert o a fare domande sulla natura del tempo.
La musica e la fisica sono i grimaldelli che i protagonisti utilizzano per scardinare il determinismo della storia. Per Jonah, la musica è un luogo cristallizzato dove il tempo si può fermare, anche se solo per lo spazio di qualche battuta, e i miracoli realizzarsi nella perfezione di un canto che non appartiene a questo mondo. Come l’Orfeo del mito, Jonah sembra perfino in grado di riportare in vita per qualche istante, durante l’esecuzione di un brano, la madre morta (“Nel tempo senza tempo che gli ci vuole per raggiungere la cadenza, la canzone comincia ad agire. Lei sorge alle sue spalle e lo segue, come hanno promesso gli dei. Ma nell'eccitazione della vittoria del suo brano, Jonah scorda il divieto, e si volta. E nel suo viso sgretolato di gioia, mentre si volta, lo vedo che guarda mamma scomparire per sempre”). E quando più tardi decide di dedicarsi a un repertorio di sola musica rinascimentale, la sua scelta anacronistica è un inconscio tentativo di violare le leggi del tempo, di risalire il corso della storia fino “al momento prima della conquista, prima della tratta degli schiavi, prima del genocidio”, prima cioè che la razza si ergesse come il perno discriminatore della società americana. Ne “Il tempo di una canzone” il tempo procede in entrambe le direzioni. In un romanzo letto di recente, “4 3 2 1” di Paul Auster, il protagonista asseriva che il tempo andava sia avanti sia indietro perché ogni passo nel futuro si portava dietro un ricordo del passato. Qui si va ancora oltre, perché non c’è solo la memoria del passato, ma addirittura la memoria del futuro. C’è una bellissima scena in cui la giovane madre, ascoltando la sua piccola Ruth cantare una canzone, vede all’improvviso, con una sorta di sguardo profetico, la figlia cresciuta che canta la stessa canzone al suo funerale. “Il suo non è tanto un anticipare quanto accadrà, ma un ricordarlo. Perché se la profezia non è altro che il suono della memoria che si fissa, la memoria deve già contenere in sé tutte le profezie ancora da avverarsi”.
Powers sembra abolire la dimensione cronologica del tempo (“Non c’è divenire, c’è solo l’è”), e questo paradosso si materializza in un luogo iconico, il Lincoln Memorial di Washington, dove i personaggi si ritrovano in tre momenti diversi della loro storia: il concerto del 1939 di Marian Anderson, il comizio di Martin Luther King del 1963 e la Million Man March di Louis Farrakhan del 1995. Nella grande spianata del Mall si realizza un vero e proprio black-out temporale, al punto che se il raduno di King si confonde agli occhi di David con il concerto di ventiquattro anni prima in cui egli aveva conosciuto la futura moglie e il suo io si dissolve tra presente e passato, nell’adunata più recente si realizza compiutamente la circolarità del tempo e si ritorna al 1939: il ragazzino che si è perduto e che Delia e David aiutano a ritrovare la sua famiglia tra le migliaia di persone accalcate intorno alla statua di Lincoln altri non è che il figlio di Ruth, messaggero venuto a portare un messaggio dal futuro (“L’uccello può innamorarsi del pesce”) ai due novelli fidanzati. “Il tempo di una canzone” è pieno di queste cose, messaggi in una bottiglia lanciati nel mare del tempo per essere raccolti da altre generazioni (la criptica frase-testamento di David: “C’è una diversa lunghezza d’onda per ogni direzione in cui si punta il telescopio”). Il sogno racchiuso nel romanzo è quello di poter vivere le proprie vite per sempre. Sulle curve temporali che David studia forsennatamente nei giorni precedenti la sua morte “gli eventi possono muoversi continuamente verso il proprio futuro intanto che si riavvitano sul proprio passato”: è forse, come intuisce Joey che lo veglia al suo capezzale, l’estremo, commovente tentativo compiuto dall’uomo per tornare dalla moglie morta quindici anni prima, per mandarle un messaggio e correggere tutto ciò che è accaduto nel passato.
Richard Powers sa elevare una storia dalla forte connotazione politico-sociale alle vette della poesia più sublime. In un certo senso mi ricorda il Jonathan Lethem de “La fortezza della solitudine”, il quale sapeva sublimare attraverso la fantasia una storia abbastanza prosaica (ragazzo bianco costretto a crescere in un quartiere completamente nero). Quello di Powers è comunque uno stile estremamente personale. La sua scrittura non è indubbiamente facile: il retroterra musicale e scientifico dell’autore si fa sentire eccome, con lunghe e fluenti digressioni sulle esibizioni concertistiche dei due fratelli e sul lavoro accademico del padre; eppure si può parimenti affermare che in queste righe non c’è mai nulla di troppo tecnicistico, che il linguaggio non appare mai riservato ai soli iniziati. Al contrario, “Il tempo di una canzone” affascina per la prosa avvolgente, densa, lirica, ricca di similitudini e di analogie, di aggettivi che ingentiliscono la scrittura temperando i minuziosi tecnicismi e i sempre precisi riferimenti culturali. Quando Ruth canta accompagnata al piano dal fratello, “la sua melodia, tenuta, galleggiava sulle modulazioni che accennavo passo dopo passo come la luce della luna su una piccola imbarcazione alla deriva.”. E quando è Jonah a cantare, , “il suo calore ti penetrava nelle orecchie come una confidenza sussurrata, come un amico di cui ti eri dimenticato. […] Per lo spazio di un’ora, lungo un’estensione di tre ottave, mio fratello era un costruttore di grazia.” E ancora: “E’ così che la musica usciva da lui. Seta gettata sopra l’ossidiana. Il minuscolo cardine di un trittico in avorio delle dimensioni di una noce. Un cieco, perso all’angolo di una città invernale. Il disco di una luna irata tra i rami di una notte senza nubi.” Quella di Richard Powers è davvero una scrittura memorabile, di altissimo livello, un labirinto in cui è bello perdersi, anche al prezzo di smarrire di quando in quando il filo della trama, di dimenticare la cornice della storia.
Indicazioni utili
"La fortezza della solitudine" di Jonathan Lethem
LA TRAGEDIA DELL'ATEISMO
“Dio è morto! Dio resta morto! E noi l’abbiamo ucciso!” (Friedrich Wilhelm Nietzsche: “La gaia scienza”)
In “Delitto e castigo”, il giovane studente Raskolnikov, in nome di un equivoco ideale di superiore giustizia, si arrogava arbitrariamente il diritto di calpestare i più sacri e inviolabili diritti dell’uomo, fino ad arrivare a compiere un orribile assassinio. La stessa problematica etica la troviamo trasposta ne “I demoni”, ma qui ad attribuirsi questo assurdo diritto è addirittura un intero gruppo di individui. La dimensione sostanzialmente privata del primo romanzo, peraltro già pervaso dal fermento delle “nuove idee”, lascia perciò il posto a una dimensione più marcatamente sociale o, se si preferisce, sociologica. L’andamento del romanzo è fortemente tortuoso, ambiguo ed ellittico: una piccola cittadina di provincia non identificata ne è l’allucinato e spettrale scenario. Nonostante che fin dall’inizio si respiri un’aria fosca di tragedia in procinto di scoppiare (lo stratagemma di costruire la storia sotto forma di rievocazione postuma fatta da un personaggio secondario ed estraneo alla maggior parte degli avvenimenti serve piuttosto a “oggettivare” le intenzioni critiche dell’autore che a raffreddare la tensione narrativa), nonostante questo, dicevo, bisogna attendere a lungo prima di iniziare a sentir parlare di cospirazioni, sette segrete e atti terroristici. Per tutta la durata della prima parte, Dostojevskij si sofferma invece a descrivere le figure di Stefan Trofimovic, della sua protettrice Varvara Petrovna e degli altri esponenti, blandamente liberali, della borghesia provinciale.
Questo procedimento narrativo, questo lento indugiare prima di scendere nel vivo del racconto, non è operato a caso ma ha una sua precisa giustificazione ideologica. Dostojevskij mira infatti da una parte a criticare e mettere in ridicolo le vecchie e sclerotizzate istituzioni della Russia zarista (con ciò intendendo prendere le distanze da quelle posizioni reazionarie che più volte gli erano state rimproverate) e dall’altra a dimostrare che la tolleranza e il lassismo dell’intellighenzia russa nei confronti delle nuove idee è stata una delle cause principali della degenerazione morale dell’epoca e dell’affermazione di ideologie torbide e perverse. Personaggi come la moglie del governatore Julia Michajlovna e il letterato Karmazinov, meschinamente preoccupati, per civetteria o paura, di acquisire il favore degli uomini nuovi e di non apparire in ritardo con le idee alla moda, diventano i galoppini della più squallida marmaglia e aprono con il loro laicismo, con il loro libero pensiero e con il loro razionalismo a sfondo materialista la breccia attraverso la quale farà irruzione il socialismo e la rivoluzione. Dostojevskij è impietoso con la borghesia liberale e non esita a raffigurare la connivenza irresponsabile tra intellettuali e rivoluzionari nel rapporto, direi quasi simbolico, tra Stepan Trofimovic Verchovenskij e suo figlio Pjotr Stepanovic. Stepan Trofimovic rappresenta l’intellettuale velleitario e magniloquente, idealista e sentimentale, che si trastulla con le idee senza riuscire a scorgerne le conseguenze pratiche, salvo poi, puntualmente, ritrarsi spaventato di fronte ad ogni avvisaglia di cambiamenti sociali, pur a lungo evocati. Al superficiale idealismo progressista del padre fa da controcampo il cinismo pragmatico di Pjotr Stepanovic, il quale si serve delle nuove idee non come passatempi teorici ma come strumenti per raggiungere machiavellicamente i propri loschi fini. In lui si può riconoscere, è vero, un atteggiamento provocatoriamente iconoclasta nei confronti della retorica altezzosità della società borghese, ma nel suo personaggio spregevole e privo di scrupoli oltre ogni dire (perfino un assassino matricolato come Fedka il forzato si sente in diritto di dargli una lezione di moralità) è adombrata soprattutto una fondamentale convinzione dell’autore: che le nuove correnti di pensiero progressiste e socialiste, tese a negare qualsiasi forma di trascendenza nel nome di un ideale esclusivamente terreno di ordinamento sociale, sono inevitabilmente destinate ad apportare distruzione (dei valori della tradizione così come del concetto di personalità e di libertà verso cui Dostojevskij è particolarmente sensibile) senza essere in grado di lasciare nulla di positivo in cambio. La negatività delle dottrine socialiste e nichiliste è censurata pesantemente nel corso del romanzo, ma la puntualizzazione più caustica della falsità e dell’ipocrisia insite in esse la fa Satov (che pure è stato in passato nell’organizzazione dei cospiratori) quando dice che “loro per primi sarebbero terribilmente infelici se la Russia cambiasse a un tratto il suo ordine sociale, sia pure a modo loro, e divenisse infinitamente ricca e felice. Allora non avrebbero più nessuno da odiare, più nessuno da insultare, più nessuno da schernire! Non c’è altro che un odio mortale, infinito…”. L’idealismo rivoluzionario sarebbe quindi, per Dostojevskij, una maschera dietro la quale si nascondono solo una cieca rabbia distruttiva e un assoluto disprezzo per l’umanità.
La dimostrazione di questo assunto si trova paradossalmente esposta nelle parole stesse di Sigaliov, un membro dell’organizzazione sovversiva, che simboleggia la fede fanatica e a suo modo “pura” nell’idea e nella dottrina. Sigaliov “propone, come soluzione definitiva della questione sociale, la divisione dell’umanità in due parti disuguali. Una decima parte riceve la libertà della personalità e un diritto illimitato sugli altri nove decimi. Questi, invece, devono perdere la personalità e trasformarsi in una specie di gregge e, con un’ubbidienza illimitata, raggiungere, attraverso una serie di rigenerazioni, la loro innocenza primordiale”. E’ vero che “le mie conclusioni contraddicono direttamente le idee originarie, dalle quali prendo le mosse: partendo dalla libertà illimitata, concludo col dispotismo illimitato”; ma questo è l’unico paradiso, l’unico Eden immaginabile sulla terra. La sua è una vera e propria religione, analoga a quella del “pane terrestre” enunciata da Ivan Karamazov nella leggenda del Grande Inquisitore e parimenti fondata sulla mancanza di rispetto per l’essere umano. L’egualitarismo che sta alla base del socialismo non è perciò realizzazione delle più elevate aspirazioni umane, ma livellamento verso il basso, perdita della libertà individuale, schiavitù, tirannia. Tutto il resto non conta, sono solo utopie di favoleggiatori, vuote chiacchiere, ricette scritte sulla carta. E’ in questa lacerante contraddizione tra vacuo idealismo e cinico pragmatismo che le dottrine materialiste, magari oneste negli intenti ma incapaci per scelta ideologica di accettare la semplice esistenza di una terza via, si perdono e si danno in pasto ai Verchovenskij o agli Stavroghin di turno.
Ad onta di queste considerazioni, sarebbe un errore, a mio avviso, ridurre “I demoni” alle dimensioni di un romanzo esclusivamente, o prevalentemente, “politico”: in esso Dostojevskij sconfessa sì l’etica del socialismo rivoluzionario, ma dà anche una descrizione potentemente tragica della fenomenologia del demoniaco, che si riverbera nei vari personaggi secondo modalità riconducibili piuttosto alla negazione di Dio che al fatto di essere socialisti. Lo stesso Verchovenskij conferma indirettamente questa tesi quando ammette di essere “un mascalzone, non un socialista”. Il romanzo deve perciò essere correttamente ricondotto nell’alveo naturale della ideologia dostojevskijana, in cui i conflitti umani avvengono sempre in chiave filosofica e religiosa piuttosto che in chiave politica e sociale. In questa prospettiva, le teorie nichiliste sono negatrici della libertà e della personalità umane principalmente perché senza Dio è inevitabile per l’uomo far violenza a questi principi. Una volta di più, quindi, al centro dei problemi dell’umanità c’è Dio.
Il personaggio intorno al quale ruotano tutti gli altri, pur essendo il più distaccato e indifferente nei confronti della vicenda, è Stavroghin. Stavroghin è un uomo per molti versi affascinante, titanico e dotato di un carisma tale da imporre rispetto e venerazione a chiunque, ma, non credendo in nulla e tantomeno in Dio, è destinato a diventare un personaggio tragicamente negativo. Stavroghin è l’emblema della falsa infinità, delle formidabili forze del senso e dell’intelletto che, non riuscendo a darsi una direzione morale e un centro etico, rimangono malinconicamente inutilizzate, disperse nel vuoto metafisico della sua noia esistenziale e della sua apatia. Gli altri personaggi del romanzo vedono in lui il custode di ricchezze enormi e misteriose: da Satov a Kirillov, da Pjotr Stepanovic a Lebjadkin, tutti coloro che lo hanno conosciuto ne sono rimasti profondamente influenzati. Ma è un’influenza nefasta, mortale per lo spirito come lo può essere una malattia maligna per il corpo. La verità è che in Stavroghin c’è il vuoto assoluto, e la luce che egli emana è come un fuoco fatuo in un cimitero di emozioni ormai spente, del tutto incapace di riscaldare sé stesso ma ancora in grado di ingannare e sviare coloro che gli si accostano. E’ in questo modo, per una curiosità intellettuale, che Stavroghin converte Kirillov all’ateismo e Satov al fideismo populista, allontanandoli entrambi, irrimediabilmente, da Dio. Per gli stessi motivi, per il gusto cioè di togliersi un capriccio amorale, egli si unisce ai nichilisti, suggerendo a Verchovenskij di far giustiziare un membro del gruppo come spia, al fine di ridurre gli altri membri al rango di schiavi docili e obbedienti. In assenza di un principio etico idoneo a fargli da guida, Stavroghin si getta senza ritegno alla ricerca di sensazioni forti, di eccitazioni animalesche, di capricci anormali (come il matrimonio con Marja Timofejevna, una donna sciancata e demente), immergendosi sempre più freddamente e lucidamente nella voluttà dell’infamia e dell’abiezione. In Stavroghin, come in tutti gli uomini, c’è ovviamente la possibilità del bene, ma in lui è morta la capacità della scelta, della discriminazione. Se egli disperde le proprie potenzialità nella negazione è per essere ormai diventato indifferente al male e al bene, al punto di provare, come gli rinfaccia Satov, un identico piacere in un gesto bestiale e libidinoso così come in un atto eroico. Se la sensualità sfrenata e la presenza nel suo animo degli istinti più opposti e inconciliabili richiamano alla mente il personaggio di Dmitrij Karamazov, Stavroghin se ne distacca subito, in quanto a differenza del precedente in lui non c’è una tensione alla redenzione, una direzione del male verso il bene. La pretesa di fare a meno di Dio puntellando la propria esistenza su una libertà tanto grande quanto assurda e senza scopo e la volontà di vivere secondo il comandamento del “tutto è lecito” svuotano progressivamente il senso della vita di Stavroghin. Egli stesso ne è tragicamente consapevole e nella lettera dell’epilogo confessa: “Ho provato la mia forza dappertutto… Ma a che cosa applicare questa forza? Ecco quel che non ho visto e neppure ora vedo… posso desiderare di fare un’azione buona e ne provo piacere; insieme desidero anche il male e ne provo pure piacere. Ma l’uno e l’altro sentimento sono sempre troppo meschini: grandi non sono mai. I miei desideri sono troppo poco forti; non possono servire di guida… da me è sgorgata solo negazione, senza alcuna generosità e senza alcuna forza”. In queste parole si legge il tormento disperatamente lucido di una coscienza scissa (le apparizioni descritte nella seconda parte, ennesimo punto in comune con Ivan Karamazov, sono molto significative al riguardo), incapace di amare e vittima di una carica di autodistruzione che non può che portare al suicidio.
A Kirillov è riservata da Dostojevskij la stessa sorte di Stavroghin, ma i due personaggi differiscono enormemente tra loro: infatti, se quest’ultimo è soprattutto dispersione delle proprie potenzialità, Kirillov è assoluta, maniacale concentrazione su un unico pensiero fisso. Questo pensiero che si agita in continuazione nella sua testa non è altro che l’ineffabile mistero di Dio. Nonostante l’ateismo che egli professa, Kirillov aspira intensamente a Dio (Verchovenskij stesso lo capisce quando dice di lui che “crede in Dio peggio di un prete”). Razionalmente, però, Dio è percepito come un limite intollerabile alla propria volontà e, proprio nel momento in cui è più forte il bisogno di avvicinarsi a Lui, viene neutralizzato attraverso la sua radicale negazione. Dio non esiste, conclude Kirillov, o meglio Dio è un’illusione, un effetto psicologico dell’angoscia del nulla. Con una ardita e geniale analogia, Kirillov paragona l’essenza del concetto di Dio alla paura che un uomo proverebbe se avesse un pietrone grosso come una montagna sospeso sopra la testa; razionalmente, è ovvio che, se il pietrone cadesse, non si sentirebbe alcun dolore, eppure tutti, anche il più grande scienziato, avrebbero in quel frangente paura del dolore. Ora, secondo Kirillov, Dio non esiste, ma è solo “il dolore della paura della morte”, generato dall’angoscia dell’uomo e a sua volta generatore di angoscia. L’uomo deve liberarsi da questa trappola e, sconfiggendo il dolore e la paura, sostituirsi a Dio. “Allora si avrà una vita nuova, allora si avrà un uomo nuovo, tutto sarà nuovo… L’uomo diventerà un dio e si trasformerà fisicamente. E si trasformerà il mondo e si trasformeranno le vicende, e i pensieri e tutti i sentimenti”. Il fondamento su cui dovrà sorgere l’ideale società kirilloviana è il libero arbitrio, che segnerà il trionfo della finitezza pura e l’avvento della completa autonomia dell’uomo nei confronti degli agenti metafisici che lo hanno finora condizionato. Kirillov è il nuovo Messia chiamato a proclamare di fronte al mondo il regno dell’arbitrio, ma, per dimostrare agli uomini che possono diventare dei, egli deve uccidersi, perché "ci sarà piena libertà soltanto il giorno in cui sarà indifferente vivere o non vivere”. Kirillov è l’infelice vittima della sua implacabile logica raziocinante: lui che, come Prometeo, ha scoperto il segreto dell’immortalità e dell’armonia universale, è “obbligato” a sacrificare sé stesso e a farsi dolorosamente da parte. E’ una libertà che costa cara, non meno spietata e crudele della pseudo-libertà rivendicata da Sigaliov e, come quella, viziata da un errore di partenza, consistente nella confusione tra libertà e arbitrio, nella degenerazione della prima nel secondo e nella conseguente distruzione dei principali valori morali. Nel descrivere la costruzione filosofica di Kirillov, Dostojevskij mostra un atteggiamento decisamente anti-razionalista. Kirillov appare infatti un personaggio circuito dai suoi stessi sofismi cerebrali, che la coerenza logica ricercata ad ogni costo ha condotto nel vicolo cieco della disperazione. Il lungo dialogo tra Stavroghin e Kirillov della seconda parte ne è un esempio illuminante: qui Kirillov afferma che “l’uomo è infelice perché non sa che è felice; solo per questo… Non sono buoni, perché non sanno di essere buoni… Bisogna che scoprano di essere buoni, e subito tutti diventeranno buoni, tutti dal primo all’ultimo”. Il bene, quindi, anziché una realtà oggettiva, sembra la conseguenza inevitabile di una premessa logica: io so di esser buono quindi sono buono; io non so di esser buono quindi non sono buono. A queste parole, Stavroghin commenta beffardamente: “«Scommetto che la prossima volta che verrò qui avrete ritrovato la fede in Dio». «Perché?». «Se aveste scoperto che credete in Dio, allora credereste; ma poiché ancora non sapete di credere in Dio, allora non ci credete»”. Il fatto è che Kirillov, sebbene a differenza dei nichilisti rispetti l’uomo come individualità, pure è sostanzialmente estraneo alla sua realtà. Il suo concetto dell’armonia universale, che a tratti appare quasi il risultato delle crisi di un epilettico, manca soprattutto di vitalità. Kirillov ama la vita, ama i bambini, ma si domanda anche “a che pro i bambini, a che pro l’evoluzione, se la meta è raggiunta? Nel Vangelo è detto che nella risurrezione non procreeranno più, ma saranno come gli angeli di Dio. E’ un’indicazione”. L’ideale esistenziale di Kirillov è quindi qualcosa di contemplativo, di statico, destinato a naufragare a contatto con l’impetuosa corrente della vita. Che l’uomo non sia in grado di salire fino a Dio ma rischi anzi di regredire allo stato bestiale lo si desume poi dalla tragica e grottesca scena del suicidio: nell’ora suprema, davanti a Kirillov non c’è la nuova vita che egli immaginava, ma solo la nuda orrenda morte, e il protagonista, da freddo loico, si trasforma con una raccapricciante metamorfosi in un automa invasato che urla selvaggiamente e morde. Kirillov è, di tutti i personaggi de “I demoni”, quello che, sia pure in negativo, meglio incarna il pensiero religioso di Dostojevskij: egli vive come nessun altro la inquietante dialettica fede-ateismo (“Dio mi ha tormentato tutta la vita!”), arrivando a fare ciò che neppure Ivan Karamazov, evidentemente più preoccupato della disarmonia presente che non attirato dall’armonia futura, aveva fatto: negare totalmente Dio. Il messaggio di Dostojevskij è di un’evidenza direi quasi cristallina. L’ateismo, questo demone che mette in crisi la civiltà contemporanea, oltre a costituire l’attentato più pericoloso contro la libertà dell’uomo, carica le sue spalle di un peso che egli non è in grado di sopportare: il peso di ordinare lui stesso, da solo, la realtà.
Assai contrastata è anche la religiosità di Satov, il quale è forse l’unico eroe positivo del romanzo. Satov non crede in Dio, come è costretto ad ammettere in un serrato dialogo con Stavroghin, bensì nel popolo, che egli innalza al livello di Dio: “Chi non ha popolo, non ha nemmeno Dio! Sappiate bene che tutti coloro che cessano di capire il proprio popolo e perdono il contatto con esso, perdono subito, nella stessa misura, anche la fede dei loro padri, e diventano o atei o indifferenti…”. La fede di Satov è qualcosa più vicina al paganesimo che all’ortodossia religiosa ma, mentre in Kirillov il bisogno di Dio, come abbiamo visto, sfocia nel distacco “razionale” da Dio, Satov dimostra come la violenza della negazione a volte può portare verso Dio. Anche se Dostojevskij lo ha fatto morire anzitempo trucidato dai suoi ex compagni, è indubbio che Satov rappresenti il peccatore che, faticosamente, si avvia lungo la strada della salvezza. L’autore rivela una grande simpatia per questo introverso e scontroso personaggio, forse perché egli conserva l’animo puro di un fanciullo e, nell’episodio dell’improvviso ritorno a casa della moglie gravida, incarna l’etica cristiana della comprensione e del perdono.
Il personaggio più vicino a Satov è sicuramente Marja Timofejevna, la zoppina, che con lui condivide una fede sui generis. In Marja Timofejevna, che pur avendo la mente sconvolta e vivendo in condizioni disgraziate non conosce l’angoscia, c’è una intima comunione, di carattere quasi religiosa, con la natura. Nella sua coscienza, la Madre di Dio e la terra si fondono nella pagana Magna Mater e il sole parla un linguaggio malinconico ma soave. E’ curioso che Dostojevskij abbia messo in bocca a una demente alcune tra le verità più profonde del suo romanzo (tra l’altro essa è l’unica a provocare un reale turbamento nell’impassibile Stavroghin, trattandolo come una vile controfigura), così come appare provocatorio che l’autore abbia scelto il vacuo e ampolloso Stepan Trofimovic per pronunciare pubblicamente l’invettiva contro i nichilisti, nella quale paragona la situazione della Russia a quella evangelica dei demoni e dei porci. Questa complessità non deve sorprendere. La fede, sembra dirci Dostojevskij, è un traguardo che si conquista con fatica, in maniera quasi mai lineare e coerente: appare perciò ampiamente giustificato il fatto che il grande maestro descriva prima con tenerezza il culto pagano della zoppina per la grande madre terra e per il sole, e poi lanci strali contro il cattolicesimo romano, colpevole di aver ceduto alla terza tentazione del demonio.
E’ significativo inoltre il fatto che in nessun altro romanzo Dostojevskij abbia disperso tra tanti personaggi “negativi” le proprie convinzioni religiose più profonde: è nientemeno che l’amorale Stavroghin a dire che se gli avessero dimostrato matematicamente che la verità è fuori di Cristo, avrebbe acconsentito piuttosto a rimanere con Cristo che con la verità; è Stepan Trofimovic a proferire quelle parole (“…tutti quanti siamo colpevoli, gli uni verso gli altri”) che rappresentano il fulcro del messaggio cristiano dell’autore; è infine l’ateo Kirillov ad amare in maniera commovente Cristo, sia pure un Cristo privo degli attributi divini. In fondo, per dirla con Satov, “anche in questa gente c’è della generosità” e solo le false e ingannatrici ideologie provocano l’allontanamento dell’uomo dalla retta via. La mancanza, per contro, di eroi completamente positivi, oltre a essere una testimonianza della difficoltà del cammino che porta verso Dio, è anche un preciso segnale ideologico: la tragedia finale dei nichilisti è l’iter attraverso cui l’errore finisce col negare se stesso e travolgersi, condannando con tremenda forza anticipatrice tutte quelle avventure, dalla rivoluzione russa al terrorismo dei nostri giorni, che hanno fatto della distruzione dei valori della tradizione e dei principi etici la loro bandiera. Dostojevskij questa volta non lascia aperta una porta verso la redenzione, ma solo un piccolo spiraglio: non è possibile sapere se esso sarà sufficiente all’umanità per raggiungere quella verità alta e luminosa cui da sempre essa aspira.
Indicazioni utili
INNOCENZA PERDUTA
”Il Signore delle Mosche” ha la semplicità e l’immediatezza narrativa di un romanzo d’avventura alla Verne (“L’isola misteriosa”) o alla Defoe (“Robinson Crusoe”), ma anche la lucidità e la profondità analitica di un saggio antropologico o di un esperimento scientifico. Se all’inizio è il primo aspetto ad emergere di più, rischiando erroneamente di far scambiare il romanzo di Golding per uno dei tanti esempi di narrativa per ragazzi, è in realtà il secondo a rivelare sintomaticamente le provocatorie intenzioni dell’autore: verificare cioè le reazioni e le conseguenze che possono essere innescate dal verificarsi di una particolare situazione limite, quella di un gruppo di fanciulli inglesi che viene strappato improvvisamente alla vita disciplinata del college e della famiglia e catapultato in un’isola deserta senza la presenza degli adulti, in una libertà totale e priva di limiti. Ad essere messo in discussione è innanzitutto il mito del buon selvaggio, ossia la teoria, largamente condivisa, che, nel contrasto tra natura e cultura, è la prima a garantire il più favorevole dispiegamento delle potenzialità umane. Nella realtà i ragazzi, abbandonati a loro stessi e costretti a lottare per la sopravvivenza, fanno gradualmente venire allo scoperto l’autentica natura dell’uomo, e purtroppo questa natura è quanto di più amorale, ferino e selvaggio si possa immaginare.
La presunta innocenza dell’infanzia viene smentita fin dalle prime pagine e i ragazzi, privi di ogni controllo esterno e con l’inebriante possibilità di far prevalere i loro istinti, finiscono per costruire una società che è la brutta copia di quella da cui provengono. Non c’è tanto nel romanzo una funzione pedagogica (del tipo, i ragazzi hanno bisogno della guida e del sostegno dei grandi), quanto un più generale ammonimento intriso di pessimismo: senza l’uso della ragione (che non è per nulla naturale ed innato, ma il prodotto di un’educazione, e quindi di un condizionamento) si rischierebbe facilmente che le relazioni umane cadano nelle spire autodistruttive della violenza e della prevaricazione. I diritti, i princìpi e i valori che noi oggi diamo per scontati sono infatti il frutto di faticose conquiste, e devono essere continuamente difesi da tentazioni irrazionali che di tanto in tanto, puntualmente, riemergono (è significativa in questo senso la vicinanza temporale del romanzo alla Seconda Guerra Mondiale), rischiando di far precipitare la Storia in un nuovo Medioevo (cui indubbiamente l’isola abbandonata allude).
Nel romanzo i ragazzi, come in ogni raggruppamento sociale, si dividono naturalmente in gregari e leaders, e questi ultimi a loro volta incarnano le due facce, perennemente in conflitto, del potere. Mentre Ralph è il capo democratico, rispettoso delle regole e della volontà popolare (simboleggiate dalla conchiglia, la quale è sia il simbolo dell’autorità sia il viatico per esprimere l’opinione individuale di ciascuno), Jack è il dittatore autoritario, abile nello sfruttare con cinica spregiudicatezza l’innegabile carisma che possiede e pronto a ricorrere all’uso della forza ogni volta che si tratta di far valere le proprie ragioni. “Da una parte c’era il mondo brillante della caccia, della tattica, dei giochi feroci e pieni di destrezza; dall’altra il mondo del senso comune, con le sue aspirazioni e con le sue delusioni”. Mentre all’inizio a prevalere è Ralph, e gli sforzi di tutti riescono ad essere convogliati verso il bene comune (la costruzione dei rifugi, l’accensione del fuoco), con il trascorrere del tempo è Jack, sempre più insofferente del suo ruolo subordinato, a prendere il sopravvento e a proporsi come guida della comunità, spostando gradualmente il baricentro dell’agire collettivo verso attività maggiormente legate agli istinti primordiali, come la caccia, le danze rituali e i sacrifici alle potenze misteriose dell’isola. Più in generale, il gruppo di ragazzi, che in principio ha come scopo precipuo quello di farsi salvare, si fa pian piano sopraffare dalle forze oscure dell’inconscio (la paura della Bestia) e, per proteggersi da esse, istintivamente abbandona la ragione e si abbassa a compiere le azioni più turpi. E’ esemplare a questo proposito la sorte riservata a tre personaggi secondari del romanzo: Piggy, Simone e Ruggero. Mentre i primi due, che rappresentano le istanze dell’intelletto e della spiritualità, diventano con la loro morte le vittime sacrificali della maggioranza accecata, l’ascesa del terzo esprime l’inquietante deriva violenta del potere, il terrore che segue ad ogni rivoluzione.
Golding racconta il suo apologo senza pedanteria e senza didascalismi, fa un uso accorto dei simboli e, soprattutto, non trascura mai le esigenze del racconto, il quale si sviluppa con una progressione continua ed incalzante, fino al folle orgasmo della caccia all’uomo finale. Pur nel suo schematismo narrativo e nella sua semplicità lessicale, “Il Signore delle Mosche” contiene delle acute riflessioni sul fascino irresistibile che le pulsioni irrazionali e dionisiache esercitano anche sugli animi che coraggiosamente vi si oppongono. Perfino Ralph, l’unico che fino al termine si sforzi di rimanere ancorato ai valori del vecchio mondo, è costretto infatti a confessare con vergogna di essere stato la notte prima ipnoticamente attratto dall’orgiastica danza culminata con l’omicidio di Simone. “Il Signore delle Mosche” è così uno di quei romanzi destinati a rimanere impressi nell’immaginario collettivo, perché, al di là dei suoi indubbi meriti letterari, riesce a mostrarci, in quel vero e proprio specchio deformante che è la narrazione in forma di parabola, l’eterno e immutabile substrato di violenza che, sotto la facciata di civiltà, tradizioni, abitudini e convenzioni, si nasconde dentro all’animo di ciascuno di noi.
Indicazioni utili
SCENE DA UN MATRIMONIO NIPPONICO
Per riuscire a definire in maniera appropriata l’arte di Tanizaki, o per lo meno ciò che di essa è normalmente in grado di percepire un lettore occidentale non avvezzo alla cultura nipponica, mi sembra non ci sia niente di meglio che prendere in prestito le suggestive immagini del teatro Bunraku che l’autore utilizza a profusione nel suo romanzo “Gli insetti preferiscono le ortiche”. Il protagonista Kanamè, ad esempio, assistendo ad una rappresentazione di marionette (il Bunraku appunto), si sofferma a meditare sulla fissità dei personaggi che si muovono sulla scena e sulla schematizzazione degli intrecci narrativi. Ciò che in apparenza è immobilità, mancanza di espressione, stilizzazione, si rivela agli occhi del tipico uomo giapponese come l’interiorizzazione di una vasta gamma di sentimenti (la felicità, l’ira, la tristezza) che non trova quasi mai nella tradizione del Sol Levante una caratterizzazione più marcata; allo stesso modo la forma immutabile e ripetitiva dei testi classici, che si tramandano inalterati da innumerevoli generazioni, fa sì che il loro vero significato debba essere ricercato sotto la superficie letterale, dietro gli oscuri simbolismi contenuti in quelle che a prima vista potrebbero essere scambiate per vuote figure retoriche. Qui risiede la magia dell’arte giapponese, in questo dire le cose, anche le più profonde, senza quasi esprimerle, nel descrivere situazioni sottili e articolate in maniera sorprendentemente semplice. Il romanzo di Tanizaki, pur essendo stato scritto in un’epoca – l’inizio del XX secolo – in cui gli influssi occidentali iniziavano a penetrare anche in Estremo Oriente, non fa eccezione a questa regola: la storia di Kanamè e Misako, due coniugi che ormai da anni non si amano più e che sono in procinto di compiere il passo decisivo della separazione, è psicologicamente molto raffinata e complessa e vi si avverte una violenta tensione drammatica, purtuttavia è raccontata (e in questo sta a mio avviso la sua bellezza) in maniera sfumata e leggera, in punta di piedi se così si può dire, proprio come in uno spettacolo di Bunraku.
Kanamè, un misto di Zeno e di Oblomov in versione orientale, è un uomo lacerato da un’invincibile predisposizione caratteriale alla passività e alla irresolutezza. Posto per la prima volta in vita sua di fronte a uno stato di cose (il fallimento del suo matrimonio) che richiede il coraggio di troncare decisamente con il passato e di accollarsi sgradevoli responsabilità, egli è incapace di dare corpo ai suoi proponimenti, preferendo invece cullarsi nella patetica illusione che le cose andranno a posto da sole. I pretesti per rimandare il momento della separazione sono molti: la paura delle reazioni della gente, la pietà per la moglie, la necessità di preparare il piccolo figlio Hiroshi alla traumatica novità, l’opportunità di ponderare il più a fondo possibile tutte le conseguenze del divorzio, addirittura la convenienza di attendere la stagione meteorologicamente più propizia. Ma questi ostacoli sono, a ben vedere, solo dei falsi alibi di cui si ammanta la vigliaccheria di Kanamè. Quando infatti una terza persona interviene a rimuoverli, come nel caso del cugino Takanatsu che rivela a Hiroshi quali sono i reali rapporti tra i suoi genitori, la situazione non viene ad essere per questo meno ingarbugliata. In realtà, Kanamè preferisce, pur senza ammetterlo, una lunga e penosa infelicità ad una breve e straziante tristezza, giacché la prima, vale a dire la perpetuazione di un consunto simulacro di armonia coniugale, non richiede l’assunzione di alcuna responsabilità. Kanamè si vanta di essere un uomo aperto, moderno e tollerante, ma quando si risolve a consentire che Misako frequenti in segreto il suo amante, noi sappiamo che si tratta solo di una velleitaria reazione ad un complesso di colpa divenuto insostenibile, dal momento che egli non è mai stato capace di offrire un po’ di comprensione alla moglie che trascorre le notti a piangere silenziosamente nel suo letto. Inoltre, il suo coraggio non giunge fino ad ammettere esplicitamente che la separazione è per loro l’alternativa migliore. Kanamè lascia sempre oscillare nel vago la risoluzione definitiva. Il fatto di avere parlato apertamente con Misako dei loro rapporti coniugali gli fa ritenere di avere agito abbastanza: da quel momento in poi sarà il destino a decidere per lui, più che mai determinato a scivolare tra gli avvenimenti senza esserne coinvolto. Il risultato è quello di procrastinare sempre più la decisione conclusiva, e fin dalle prime pagine del libro è facile indovinare che essa non giungerà mai. Dal canto suo la moglie (che la chiusa società giapponese del tempo, non dimentichiamolo, costringe ancora ad un ruolo di assoluta subordinazione e dipendenza rispetto al marito) sembra soffrire di un’analoga incertezza. Se Kanamè vuole lasciare che sia la moglie a prendere l’iniziativa, dato che per il momento non vi è nessuna che egli desideri sposare mentre la moglie ha il giovane amante Aso ed è quindi probabile che si risolva per prima al grande passo, per Misako il fatto di essere lei sola ad avere un amante e quindi a poter contare di essere felice dopo il divorzio rende più difficile la decisione. Così, in questo stato di reciproca irresolutezza, “come se tenessero una bacinella d’acqua in bilico tra loro, aspettando di vedere da che parte si sarebbe spontaneamente rovesciata”, i due coniugi continuano all’infinito la loro dolorosa commedia familiare, ognuno compreso nel suo asfittico ruolo.
Non ci è dato sapere quale sorte sia stata loro riservata, poiché Tanizaki ha preferito dare al romanzo una sorta di finale aperto. Piuttosto, l’ultimo delicato capitolo aggiunge un altro importante tassello alla problematica personalità di Kanamè. Il suo fallimento matrimoniale, mi sembra di capire, è forse una conseguenza del mutare dei tempi. La società che fa da sfondo alla storia di Misako e Kanamè è una società per molti versi suggestionata dai modelli di vita occidentali: ai canti popolari viene preferito sempre più spesso il jazz, i cinematografi iniziano a sostituire gli antichi teatri di marionette e le donne imitano le attrici di Hollywood. Se la vecchia generazione, impersonata dal padre di Misako, resta orgogliosamente aggrappata alla tradizione, i giovani non possono fare a meno di sentire il fascino dei tempi nuovi. Anche i rapporti tra uomo e donna sono sconvolti da questa ondata di rinnovamento. Kanamè, infantilmente portato a idealizzare la donna, non è costituzionalmente adatto ad amare l’emancipata Misako: “Una donna che abbia idee proprie e sensibilità – pensa tra sé – col passare degli anni diventa noiosa e sgradevole; è quindi meglio innamorarsi di una che si possa amare semplicemente come una bambola”. Di qui l’ammirazione, mista ad invidia, per il vecchio suocero, circondato dalle dolci premure della donna-bambola O-hisa. Nell’immagine finale del suo diafano viso che fa capolino nella stanza densa di ombre si schiude forse a Kanamè la possibilità di cambiare il corso della propria vita, di prendere finalmente una decisione. O-hisa rappresenta la donna di una mitica epoca dimenticata, di un tempo in cui i rapporti tra i sessi erano semplici e le donne erano le quiete e sottomesse serve dell’uomo. “O-hisa era senza dubbio una visione lasciata indietro da quei tempi remoti”, così come le marionette del Bunraku, che vengono tramandate di generazione in generazione. E’ probabilmente in questo parallelismo che si giustifica l’ossessiva presenza nel romanzo di numerosi capitoli dedicati al teatro popolare: in essi si rispecchia la forza saggia e serena della tradizione, allo stesso modo in cui nei bellissimi capitoli VII ed VIII si avverte l’agitarsi di nuovi, inquietanti fermenti esistenziali. Questo è il Giappone, sembra dirci Tanizaki, una magica, affascinante ed eternamente irrisolta commistione tra vecchio e nuovo, tra passato e presente.
KATRINA, MADRE ASSASSINA
“Legherò i pezzi di vetro e mattone con lo spago e appenderò i frammenti sopra il letto, in modo che brillino nel buio e raccontino la storia di Katrina, la madre che è entrata nel golfo come una regina per portare la morte. Il suo carro era una tempesta terribile e nera, e i greci avrebbero detto che era trainato dai draghi. La madre assassina che ci ha feriti a morte e tuttavia ci ha lascaiti vivi, nudi, stupefatti e raggrinziti come bimbi appena nati, come cuccioli ciechi, come serpentelli appena usciti dal guscio, affamati di sole. Ci ha lasciato un mare buio e una terra bruciata dal sale. Ci ha lasciati qui perchè impariamo a camminare da soli. A salvare ciò che possiamo. Katrina è la madre che ricorderemo finché non arriverà un'altra madre dalle grandi mani spietate, sanguinaria.”
Nel 2012 un film del regista esordiente Benh Zeitlin, “Re della terra selvaggia”, aveva fatto conoscere al grande pubblico una delle zone più povere e degradate degli Stati Uniti, il delta del Mississippi, raccontando la storia di una bambina di sei anni, Hushpuppy, che vive con il padre nella “Grande vasca”, una zona acquitrinosa perennemente flagellata da alluvioni e da uragani. Quella pellicola, vincitrice della Camera d'or al Festival di Cannes e candidata al premio Oscar per il miglior film, era stata un vero e proprio shock, dal momento che i luoghi e i personaggi che rappresentava apparivano incredibilmente lontani dagli Stati Uniti che cinema e TV normalmente ci propinano, immersi com'erano in una sorta di neo-medioevo pre-tecnologico. Con “Salvare le ossa”, scritto negli stessi anni ma pubblicato solo adesso in Italia da NN Editore (probabilmente grazie al fatto che nel frattempo l'autrice ha vinto ben due National Book Awards), Jesmyn Ward ci riporta negli stessi posti del film, quel bayou endemicamente sconvolto dalla miseria e dalle catastrofi naturali. Nella Fossa, una vasta depressione argillosa circondata da boschi di pini e di querce, vive, tra automobili abbandonate, pollai fatiscenti ed elettrodomestici arrugginiti abbandonati alla rinfusa, in una casa “tutta sbilenca” con “il colore della ruggine”, la famiglia afroamericana dei Batiste, un padre alcolizzato e dispotico e quattro figli ancora minorenni (la madre è morta di parto dando alla luce l'ultimo di essi). L'unica femmina è la quindicenne Esch, voce narrante del romanzo. Esch è una sorta di sognatrice in un mondo sporco, squallido e brutale, che non lascia spazio ai sogni e che non pare concedere alcuna prospettiva ad una adolescente come lei, men che meno il lusso dell'autocommiserazione. Perfino il sesso, che lei ha sempre praticato compulsivamente con tutti i ragazzi della compagnia (poiché fin dall'inizio è stato “come nuotare nell'acqua” ed “era più facile dargli quello che volevano che negarglielo”) è un modo per sentirsi come le dee, le eroine e le ninfe del libro di mitologia che sta leggendo durante l'estate, Euridice, Psiche o Dafne. E' però Medea il personaggio in cui Esch si riconosce di più, dal momento che Manny, il ragazzo di cui è innamorata e da cui sta aspettando un bambino, non la guarda nemmeno negli occhi e le preferisce vigliaccamente un'altra fanciulla, come il Giasone del mito. La Ward circonfonde Esch di uno sguardo tenero e affettuoso, al punto che non facciamo fatica a parteggiare per la sorte di questa figura esile, timida e goffa, che custodisce il segreto che porta in grembo interrogandosi sul significato misterioso di essere madre (quando assiste al raptus della cagna di Skeetah contro uno dei suoi cuccioli, Esch si domanda: “E' questo che significa essere madre?”). Accanto a lei c'è anzitutto il fratello Skeetah, la cui esistenza è dedicata alle cure per China, la femmina di pitbull dal pelo bianco che lui fa combattere in sanguinosi incontri clandestini e che all'inizio del libro vediamo impegnata a sfornare la sua prima cucciolata. Tra il ragazzo e la sua cagna c'è un rapporto speciale, che potrebbe derfinirsi quasi un rapporto d'amore (“Skeetah guarda China come se volesse immergersi in lei e annegare”), a cui Esch guarda con una sorta di trattenuta invidia. C'è poi il primogenito Randall, colui che dopo la morte della madre ha preso in mano le redini della famiglia e a cui il piccolo Junior è morbosamente attaccato, come se vedesse in lui una specie di surrogato materno. Vedendo Randall portare Junior aggrappato alla sua schiena, Esch non può fare a meno di pensare al rapporto tra Achille e Patroclo. Tra tutti i fratelli c'è da sempre un legame di mutua protezione, fatto di un affetto riservato, silenzioso ma profondo, che sembra creare uno scudo contro le prepotenze del padre, il quale però è paradossalmente l'unico a percepire la pericolosità dell'uragano in arrivo e a prodigarsi per mettere in sicurezza la casa ed accumulare viveri e scorte di emergenza, inascoltato dai suoi familiari come la profetessa Cassandra dai concittadini troiani nell'Iliade.
“Salvare le ossa” è apparentemente incentrato sull'uragano Katrina, che nel 2005 ha seminato terrore, morte e distruzione lungo le coste della Florida, della Louisiana e del Mississippi. In realtà a Katrina sono dedicati soltanto gli ultimi due capitoli del libro. Negli altri dieci capitoli l'attesa del ciclone rimane sullo sfondo, come un'eventualità incerta e improbabile a cui la famiglia Batiste (con l'esclusione, come detto, del padre) non ha il tempo di pensare, immersa com'è in preoccupazioni più urgenti e pressanti. Skeetah deve pensare a proteggere i cuccioli di China, e per procurar loro le medicine necessarie non esita a organizzare con i fratelli un furto presso l'abitazione di una famiglia bianca dei dintorni; Randall cerca di essere ammesso a un campus estivo di basket, nella speranza di intraprendere una carriera sportiva a livello universitario; e infine Esch si trova a fare i conti con la sconvolgente scoperta di essere incinta. Lungo giornate talmente calde che l'aria sembra “densa come acqua sul punto di bollire”, l'implacabile conto alla rovescia di quella che è una tragedia annunciata ci fa assistere a corse a perdifiato nei boschi, a cruenti combattimenti di cani, a risse tra clan rivali, a incidenti grandguignoleschi, a cui si alternano oziosi bighellonamenti, pigre bevute di birra sdraiati sui cofani di un'auto e rinfrescanti nuotate nelle limacciose acque dello stagno vicino a casa. La Ward sa organizzare con innegabile sapienza la sua scrittura: la comprime e poi la distende, la accelera e subito dopo la rallenta, condensandola in scene concitate e frenetiche (il combattimento tra China e Kilo) oppure al contrario concedendosi parentesi più rarefatte (la ricerca delle uova nascoste da parte di Esch). Nel suo stile c'è un grande senso del ritmo, come in una partitura jazz, che abbraccia il lettore con dolcezza e poi lo stringe e lo avvince implacabilmente, senza più lasciargli il tempo di respirare. Un esempio delle qualità compositive della Ward si può trovare nella sequenza a “montaggio alternato” in cui il sanguinoso infortunio alla mano del padre viene narrato contemporaneamente all'uccisione di uno dei cuccioli da parte di China: è talmente tesa ed emotivamente intensa da assurgere al livello di una tragedia classica, con in più gli stilemi di una narrazione estremamente moderna. Quello alla tragedia non è un riferimento azzardato: infatti tra i modelli della scrittrice statunitense ci sono proprio le tragedie greche, oltre che i miti delle antiche cosmogonie (come il Diluvio biblico). Già ho parlato in precedenza dell'attrazione di Esch per il personaggio di Medea, alla cui vicenda ella accosta costantemente le proprie personali disavventure. E' però con l'uragano Katrina, che i notiziari della TV annunciano ogni giorno sempre più vicino e potente, che l'ineludibile fato fa irruzione prepotentemente nella storia, dispensando con cieca inesorabilità sofferenze e distruzione e punendo come una nemesi celeste l'hybris degli uomini. L'apocalittico cataclisma, che coincide ovviamente con il climax del romanzo, è anche l'occasione per una catarsi purificatrice. “La tragedia per mezzo della pietà e del terrore – ha scritto Aristotele nella sua “Poetica” - finisce con l'effettuare la purificazione di così fatte passioni.” E' infatti in questa drammatica occasione, facendo fronte comune contro le avversità della sorte, che i Batiste si riscoprono una famiglia unita. Lo stesso capofamiglia, che fino ad allora era apparso prevaricatore e violento, si prodiga per tenere tutti i figli uniti, riscoprendo quell'istinto protettivo da troppo tempo dimenticato (c'è poi un piccolo grande gesto di umanità che mette in una luce diversa il padre, ed è subito prima della fuga nel solaio della casa invasa dall'acqua, quando egli si preoccupa di portare con sé, come unico, estremo ricordo della vita trascorsa, una busta contenente le foto della moglie morta). Nella lotta per la sopravvivenza si rinsaldano non solo i legami familiari, ma anche la solidarietà comunitaria, come ben sa chi ha avuto la sventura di essere vittima di un terremoto o di un'alluvione. Nello scenario da fine del mondo in cui si trovano catapultati Esch e i suoi fratelli il giorno dopo l'uragano, le porte delle case si aprono per accogliere coloro che sono rimasti senza un tetto, e le scorte previdentemente accumulate sono condivise per sfamare i vicini più sfortunati. Grazie a un finale aperto che non intende precludere la speranza, “Salvare le ossa” è un romanzo in qualche modo salvifico, cosa che lo accomuna ad altri grandi capolavori della letteratura americana del passato, come “Furore” di John Steinbeck.
“Sono i corpi a raccontare le storie”, scrive Jesmyn Ward. Fedele a questo assunto, “Salvare le ossa” ha una prosa materica, concreta, che riserva ai suoi personaggi la stessa cura, la stessa attenzione ai dettagli impiegata per la descrizione della natura. Così Manny ha “la pelle come il cuore di un tronco di pino appena tagliato” e il viso “come un fiore di magnolia che si agita nel vento”, Big Henry ha gli occhi con “il colore dell'asfalto scolorito” e Randall “sul campo da basket si muove come un coniglio”. La Ward è inoltre abilissima a contrappuntare il monologo di Esch con una serie di repentine e folgoranti metafore: la cagna che partorendo spalanca di scatto occhi e denti richiama alla mente i fedeli della chiesa metodista in preda allo Spirito Santo; il quarto cucciolo che esce dal ventre di China piange come gli indiani di New Orleans alla parata del Mardi Gras; le braccia di Skeetah che ricadono e si sollevano di lato sembrano i petardi del 4 luglio “che sprizzano scintille da tutti i lati, in un frizzare di luce acida”; la mano fasciata del papà sembra un nido di ifantria stretto intorno al ramo di un noce, e così via. Grazie all'uso insistito del procedimento metaforico, la scrittura della Ward, oltre ad essere profondamente originale, assurge a pregevolissimi preziosismi stilistici, conferendo una strabiliante qualità poetica alle proprie pagine. E' un piacere raro scoprire un tale lirismo nelle descrizioni più prosaiche, come quando si legge (e cito per brevità un solo esempio tra i tanti che si potrebbero proporre) che le galline che scappano nello spiazzo davanti alla casa “si sparpagliano qua e là come un turbinio di petali di mirto crespo sotto un acquazzone estivo”. Questo metodo rispecchia il carattere immaginifico di Esch, per la quale tutte le cose intorno a lei (alberi, animali, elementi naturali) si connettono le une con le altre in una sorta di primitivo panteismo, e prendono magicamente vita, assumendo connotazioni quasi umane (così la lingua d'acqua che invade la Fossa sembra un serpente che voglia giocare e l'uragano si mette improvvisamente a sghignazzare). Il bayou, grazie alla prosa ispirata della Ward, acquista così risonanze magiche, avvincendoci con il fascino paradossale di un mondo che ci ammalia proprio nel momento stesso in cui dovrebbe atterrirci (un po' come avveniva con il sertao di Guimaraes Rosa). Confesso di avere accolto con entusiasmo la notizia che “Salvare le ossa” è il primo libro di una trilogia di prossima pubblicazione, la quale spero faccia di Bois Sauvage una specie di Yoknapatawpha dei giorni nostri.
Indicazioni utili
"Tifone" di Joseph Conrad
"Suttree" di Cormac McCarthy
NELL'ABISSO DELLA FOLLIA
“Cuore di tenebra” è il libro di Kurtz: Kurtz ne è l’anima e la ragion d’essere, l’ombra e la luce, la grandezza e l’ambiguità. E’ curioso che una tale figura, circonfusa di una vivida aura epica, appaia direttamente in scena per non più di una decina di pagine, e per giunta nel crepuscolo della sua avventura umana. Curioso e, se vogliamo, paradossale, ma non illogico, se si pensa che Kurtz ha nel racconto una funzione essenzialmente simbolica. Solo così si può capire perché del Kurtz-uomo restano alla fine impressi nella mente una voce profonda e magnetica, un cranio pelato come una palla d’avorio, un fascio di incartamenti polverosi, e nulla più. La lenta, paziente e meticolosa preparazione all’incontro tra Marlow e Kurtz, che tiene lungamente avvinta l’attenzione del lettore in una tacita promessa di sconvolgenti rivelazioni, sfocia in un buco nero in cui l’agognato ritratto di Kurtz rimane quasi del tutto inespresso. Che ne è ad esempio della sua ammaliante eloquenza se Marlow ritiene di dover riferire una manciata di sue frasi soltanto? Se Conrad decide di procedere in maniera vaga e allusiva, in realtà, è perché Kurtz rappresenta un’idea, è lo sbocco conclusivo di una metafora che non può essere oggettivata fino in fondo senza perdere almeno in parte il suo indescrivibile fascino.
La risalita del fiume verso il cuore della foresta africana è interpretabile soprattutto in chiave psicanalitica: il viaggio di Marlow è infatti un viaggio conoscitivo che si svolge tanto nella realtà quanto all’interno dell’uomo. In questa accezione, Marlow, vera e propria coscienza critica del dramma, rappresenta l’essere tutto ragione e buon senso che si avventura, non importa se per caso o per libera scelta, alla scoperta del lato oscuro e irrazionale che si cela dentro di lui, del suo inconscio per dirla in termini freudiani. E’ il primitivo continente africano, con la sua natura tumultuosa e impenetrabile e le sue genti dall’arcaica vitalità (avvicinabile questa, è importante sottolinearlo, all’energia sessuale, che la cultura occidentale tende spesso a reprimere) a far scattare il dualismo tra razionalità e wilderness. Ciò che atterrisce e sgomenta Marlow non è tanto l’improvvisa presa di coscienza dell’esistenza di una scissione interiore (come avveniva ad esempio a Pietro il Rosso nella kafkiana “Relazione per una Accademia”) ma la scoperta di un’intima rispondenza, di una impalpabile affinità con la parte selvaggia e istintiva dell’io (“…laggiù ci si trovava in presenza di qualcosa di mostruoso e di libero… Quella gente urlava, saltava, piroettava, faceva certe smorfiacce orrende; ma quel che vi stringeva il cuore era… il senso di una remota parentela con quel selvaggio e appassionato tumulto. Una cosa orribile”). Non siamo più ormai nel territorio dei principi, ma in quello degli istinti primordiali, delle “mostruose passioni”, o ancora, anche se la parola può sembrare grossa, in quello della fede.
Kurtz è il punto di arrivo del viaggio, ma Marlow alla fine capisce che “in realtà io m’ero rivolto a quel mondo selvaggio più che non a Kurtz”. La natura rigogliosa e pulsante che accompagna la navigazione del narratore non ha quindi alcunché di decorativo, ma è essa stessa oggetto di conoscenza, simbolo di quell’”altro da se” che, nel momento stesso in cui è esecrato e respinto, esercita un fascino diabolico e tentatore. Kurtz è colui che ha avuto il coraggio di cedere a questa fascinazione, colui che è andato oltre (non si sa se per ansia di conoscenza o per impulso di autodistruzione) senza più tornare indietro. Dei suoi anni trascorsi nel cuore dell’Africa sappiamo solo che passava il tempo a farsi adorare dagli indigeni e a fare razzie nei villaggi vicini, ma non a questo è da attribuirsi la smisurata abiezione che persino Marlow gli riconosce, bensì alla sua resa totale e incondizionata alle forze tenebrose dell’irrazionale.
Se Kurtz si è tuffato nell’abisso, Marlow si è tirato indietro all’ultimo momento. E’ facile intuire che Kurtz altri non è in fondo che l’alter ego di Marlow, la sua metà dannata, quella che ha abbandonato i confortevoli e rassicuranti territori del macellaio e del poliziotto (simboli della civiltà e dell’ordine sociale) e, senza più un solido pavimento sotto i piedi, si è persa nel vuoto. Marlow invece, rifugiandosi nella sublimazione del lavoro e nel senso del dovere (pilotare il battello lungo il fiume) si è preservato dalla follia e dall’annientamento, pur conservando la capacità di comprendere la grandezza del gesto di Kurtz: quella di scoprire l’oscurità (la darkness del titolo) che è in lui, e ad essa sacrificarsi.
La follia di Kurtz (“La sua anima era folle – dice di lui Marlow. – Sola in quella solitudine selvaggia, aveva guardato dentro di se, e, per Iddio, vi dico ch’era impazzita”) è l’ultimo anello di una catena di insania che pervade il racconto e che va progredendo sempre più con il suo procedere: navi che bombardano la costa deserta, enormi buche scavate sul fianco della montagna senza alcun motivo plausibile, gli agenti della Compagnia che si aggirano con grottesche doghe in una atmosfera di tangibile irrealtà. La follia è una costante di “Cuore di tenebra”, e in un certo senso si può affermare, alla luce di quanto detto più sopra, che essa è il prezzo della conoscenza della Verità ultima. Ma, a differenza ad esempio di quanto avviene per i personaggi di Poe, la follia di Conrad non è veicolo di una conoscenza positiva. La natura che, come le sirene della leggenda, incanta e distrugge l’uomo, non è disposta infatti a rivelare i segreti che custodisce. L’incantamento con cui essa seduce Kurtz è infatti un’arma a doppio taglio: nel momento in cui si insinua nelle sue vene, consuma la sua carne, suggella la sua anima con la propria, essa lo costringe a guardare il vuoto che egli ha dentro: “Penso che gli debba aver sussurrato certe cose sul suo conto delle quali mai aveva avuto il sospetto, cose di cui non aveva idea alcuna prima di prender consiglio da quella immensa solitudine – e quel sussurro aveva esercitato su di lui un fascino irresistibile. Gli aveva svegliato dentro degli echi fragorosi, perché egli era vuoto nell’intimo…”. La natura primordiale, la sfera degli istinti, l’inconscio, sono quindi null’altro che uno specchio nel quale l’uomo vede riflessa la propria sconfitta esistenziale: è questa l’orrenda verità che, in punto di morte, si rivela a Kurtz come l’unica forma di autentica conoscenza. In questa dimensione di prometeica tragedia si consuma così il dramma di Kurtz e, per contrario, quello di tutti gli uomini, costretti a vivere una mediocre vita fatta di convenzioni, codici morali, ipocrisie, illusioni che essi si costruiscono per evitare di dover guardare nelle profondità dell’abisso. Inteso in questo senso, quindi, “Cuore di tenebra” non è solo un amaro apologo sulla colonizzazione europea in Africa (sebbene la critica conradiana dell’imperialismo abbia un’importanza straordinaria) ma è anche, e soprattutto, una testimonianza unica e premonitrice sulla crisi spirituale dell’uomo contemporaneo.
Indicazioni utili
IL METAROMANZO DI CALVINO
Ricordo che un giorno di tanti anni fa mi recai presso la biblioteca comunale della mia città per chiedere in prestito una copia del “Fu Mattia Pascal” di Luigi Pirandello. Quando, dopo le consuete formalità burocratiche e una paziente attesa la ricevetti e, giunto a casa, mi accinsi alla lettura, ebbi la sgradita sorpresa di scoprire che il volume era privo dell’intera prima parte. Ciononostante lo lessi, ma mi rimase per lungo tempo la curiosità di conoscere come la bizzarra vicenda di Mattia Pascal era incominciata. Mi occorse cioè l’esperienza esattamente opposta a quella del Lettore protagonista di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. O forse sarebbe meglio dire che, siccome l’anonimo Lettore simboleggia tutti i lettori, me compreso, di questo come di ogni altro libro esistente al mondo, mi sono trovato a rivivere una seconda volta, nelle sue peripezie e nel suo ogni volta rinnovantesi senso di frustrazione, quella mia esperienza originaria. Infatti “Se una notte d’inverno un viaggiatore” è un libro per così dire di secondo grado (il romanzo parla di un Lettore che cerca di leggere proprio questo romanzo di Calvino, e i dieci racconti che si dipanano, tutti quanti inopinatamente interrotti dopo poche pagine, sono al tempo stesso – se così si può dire – il soggetto e l’oggetto della narrazione, il motore attivo della trama e la sua rappresentazione, il contenuto e il contenente), il quale libro, mentre cerca (o meglio fa finta) di raccontare una o più vicende, riflette in realtà sulla letteratura nel suo farsi: innanzitutto evidenziando il bisogno che ogni lettore ha di una storia, di una trama, di un finale (infatti, proprio negandoglieli, sia pure attraverso il trucco del differimento, della procrastinazione, Calvino ne sancisce l’importanza e l’insostituibilità); in secondo luogo esibendo consapevolmente tutti i meccanismi del processo creativo e della finzione letteraria (mentre stiamo leggendo quelli che sono i pensieri e le azioni dei personaggi di invenzione siamo sempre coscienti della presenza invisibile e demiurgica di un Autore e di un Lettore). Calvino gioca con le regole che stanno a monte e a valle della narrazione: dapprima – come si è visto – immagina il Lettore che si reca in libreria ad acquistare proprio il libro che stiamo leggendo; successivamente, grazie all’entrata in scena di una Lettrice, si sofferma sul ruolo e la funzione dei libri all’interno dell’esistenza quotidiana, sul rispecchiamento tra letteratura e personalità, e via via, grazie alle visite all’università e alla casa editrice, su tutti i vari aspetti (critici, produttivi, linguistici, distributivi…) della scrittura, fino a configurare “Se una notte d’inverno un viaggiatore” come un meta-romanzo, straniante e perennemente in fieri, caratterizzato da un continuo e avvincente gioco di specchi. Ad esempio, è interessante esaminare le pagine sulla reciprocità tra scrittura e lettura, con l’immagine del romanziere che spia col cannocchiale una donna intenta a leggere, e si convince che ciò che sta leggendo è proprio il libro che in quel momento egli sta scrivendo, o addirittura il libro, l’unico vero libro, che egli non riuscirà mai a scrivere. “Se una notte d’inverno un viaggiatore” è zeppo di riflessioni di questo genere, che lo rendono un romanzo caleidoscopicamente geniale.
Con l’ingresso di personaggi come Lotaria ed Ermes Marana subentra nel romanzo un sottile, ma non per questo meno evidente, intento satirico. Calvino ne approfitta per ironizzare sulla spregiudicatezza di certi ambienti letterari e soprattutto sull’ottusità di certa critica, che pretenderebbe di analizzare il valore delle opere usando come metro di riferimento non già elementi poetici bensì criteri quantitativi, come ad esempio la minore o maggiore frequenza nel testo di alcuni vocaboli chiave, riducendo la letteratura ad una dimensione omogeneizzata e anodina, riproducibile magari da un qualsiasi elaboratore elettronico debitamente programmato. Qui emerge l’eclettismo e la inesauribile fantasia di Calvino, che approfitta di ogni occasione (ad esempio le lettere che Marana invia da ogni parte del mondo alla sua casa editrice) per moltiplicare all’infinito gli spunti e i pretesti narrativi, in una sorte di versione aggiornata de “Le mille e una notte”, anche se certi cedimenti caricaturali non sono certo tra le cose migliori del libro.
Resta da dire dei dieci racconti, o meglio dei dieci inizi di romanzo. Calvino, fin dai suoi esordi, è stato prima di ogni altra cosa uno scrittore di novelle, e anche con “Se una notte d’inverno un viaggiatore” è rimasto fedele alla sua vocazione originaria, scrivendo quello che tutt’al più può essere considerato un “finto” romanzo, nell’accezione che si è vista più sopra. In questi abbozzi di storie, comunque, Calvino dà sfoggio del meglio della sua arte, con il suo inconfondibile virtuosismo tecnico, fatto di periodi lunghi, complessi e psicologicamente elaborati, i quali conducono sempre a dei veri e propri corto circuiti del senso, a un disorientamento che, come nella migliore novellistica europea del Novecento, esprime benissimo la mutata percezione che l’individuo ha di sé stesso e della realtà che lo circonda. E tutto questo Calvino riesce a farlo in maniera mai uguale a sé stessa, ma saltando da un genere letterario all’altro, dal thriller al romanzo classico, dal romanzo psicologico a quello avventuroso-filosofico, dalla letteratura russa alla Pasternak a quella sudamericana alla Borges. E’ proprio Borges, prima di altri grandi short writers come Kafka e Buzzati, il vero nume tutelare di questo libro: nel settimo, nell’ottavo e nel nono episodio, il continuo riferimento agli specchi, alle combinazioni moltiplicatorie degli eventi, alla parcellizzazione microscopica delle percezioni, alla figura del doppio e al ripetersi ineluttabile del passato, ricordano diversi racconti del maestro argentino, come ad esempio “La morte e la bussola”, “Funes, o della memoria” o “Biografia di Tadeo Isidoro Cruz”.
Indicazioni utili
"La zia Julia e lo scribacchino" di Mario Vargas Llosa
"Finzioni" di Jorge Luis Borges
L'AMORE AL TEMPO DELLA RIVOLUZIONE
Se si volesse stabilire qual è l’ascendente letterario più diretto del “Dottor Zivago” di Pasternak ci si imbatterebbe in una impresa non semplice. In primis, è fin troppo scontato trovare analogie con i grandi romanzi tolstojani, soprattutto con “Guerra e pace”, vuoi per il comune carattere di romanzi storici (là l’invasione napoleonica, qua la rivoluzione russa), vuoi per il tipo di narrazione ad ampio respiro, che attraversa come un fiume maestoso interi lustri e generazioni, vuoi ancora per il modo di tratteggiare i personaggi, ricchi di sfumature psicologiche eppure inequivocabilmente destinati a diventare figure archetipiche. Ciononostante l’equivoco non reggerebbe a lungo. Pasternak, lungi dall’essere un epigono di Tolstoj, ha uno stile, un modo di rapportarsi ai suoi protagonisti e soprattutto una concezione della Storia molto diversi. Per quanto riguarda quest’ultima, ad esempio, Zivago stesso rileva come la Storia non è diretta solamente da forze e disegni che trascendono l’uomo e lo riducono (vedi Napoleone e Kutuzov) al ruolo di mera marionetta del destino, ma, similmente ai mutamenti della natura, essa è in perenne, inavvertibile trasformazione, alla quale partecipa con il suo insostituibile contributo l’umanità intera, anche la più infima, e anzi solo personaggi mediocri e perniciosi ne forzano improvvidamente il corso ineluttabile e regolare facendo deviare gli eventi verso repentine trasformazioni e rivolgimenti come le guerre o le rivoluzioni.
Per ciò che concerne lo stile, invece, Pasternak è molto meno regolare, classico, di Tolstoj. Non è tanto un problema di sintassi, quanto di equilibrio interno dell’opera: la stessa suddivisione del libro in capitoletti brevi consente una prosa più spezzettata, ellittica (vedi il modo in cui il lettore scopre, a cose ormai fatte, che Lara è diventata l’amante di Komarovskij), ricca di diversioni narrative (tutta la parte intitolata “La grande strada” lascia ad esempio in disparte i protagonisti per dedicarsi a figure minori, destinate a scomparire presto, eppure degne per lo scrittore di un interesse per così dire manzoniano), che non sarebbe improprio definire impressionista. Il ritmo del romanzo non è affatto monocorde: a volte si concentra per lunghe pagine su singoli episodi, altre volte scivola come se niente fosse attraverso interi anni, in alcuni casi prevale la terza persona del narratore, in altri (le pagine del diario di Zivago) prende direttamente la parola il protagonista, in altri casi ancora sono i dialoghi a dominare. Le numerose parti dialogate del “Dottor Zivago”, che spesso costituiscono dei veri e propri momenti di sospensione della trama introducendo dei temi apparentemente incongrui come l’arte, la filosofia o la politica, gli conferiscono un carattere inconfondibilmente ideologico, che ricordano le appassionate conversazioni presenti nei capolavori di un altro grande scrittore russo, Fedor Dostojevskij.
Né Tolstoj, come si è visto, né Dostojevskij sono comunque i modelli cui fare riferimento per interpretare in maniera corretta Pasternak. A distinguerlo dai due sommi maestri, e ad apparentarlo invece ad altri autori dell’800 come Cechov e soprattutto Puskin, è una caratteristica che non mi sembra sia stata finora messa sufficientemente in evidenza dai critici, fuorviati dall’aspetto peculiarmente politico del romanzo: intendo riferirmi alla descrizione appassionata della natura (e più ancora del suo effetto sugli esseri umani e sulle loro azioni) che contrappunta tutta la storia di Lara e Zivago. E’ possibile riscontrare questa caratteristica fin dalle prime pagine del romanzo: dalla tormenta di neve di pag. 8 (“dal cielo, sdipanandosi giro su giro da matasse senza fine, un bianco ordito cadeva sulla terra avvolgendola in un sudario. Non era rimasta che la tormenta al mondo, sola e incontrastata”), cui assiste il piccolo orfano Jurij, al disgelo di pag. 39 (“Il tempo migliorava faticosamente. ‘Tac, tac, tac’, insistevano le gocce sulla lamiera delle grondaie e dei cornicioni. Ogni tetto batteva messaggi al tetto accanto come in primavera”), che accompagna la disperazione di Lara al rientro a casa la notte in cui ha perso la verginità; dal gelo di pag. 64 (“Il freddo gelava. Un ghiaccio nero, erto come fondi di bottiglie di birra, ricopriva le strade. Faceva male respirare. L’aria densa di brina grigiastra pizzicava”), la sera in cui Lara tenta di uccidere Komarovskij con la rivoltella, alla notte di luna piena di pag. 114 (“La notte illuminata dalla luna era stupefacente come la misericordia o come il dono della chiaroveggenza”); dalla natura respirata in treno da Jurij a pag. 126 (“Per tutto il tragitto fu sempre la stessa cosa. Dappertutto folla che rumoreggiava, dappertutto tigli che fiorivano. L’incessante alitare di quel profumo sembrava precedere il treno in corsa verso il nord, come una voce di popolo che volava sui caselli, sulle stazioni spopolate”) alle innumerevoli altre pagine (come l’arrivo della primavera durante il viaggio di Jurij e della sua famiglia alla volta degli Urali) in cui non si sa se è più la natura a influenzare l’animo dei protagonisti o è invece l’acuta sensibilità di questi ultimi a sentire la natura in quel modo. “C’era come una segreta corrispondenza fra il mondo morale e il mondo fisico”, afferma Pasternak, e perfino, aggiungo io, tra i colori della natura e i colori del mondo. E alla fine, più che la storia d’amore tra Lara e Jurij, a rimanere impresso nel lettore è soprattutto il monotono eppur lirico avvicendarsi delle stagioni, in quello sterminato, generoso e sovrabbondante paesaggio russo che si riverbera magicamente in mille sfumature sempre diverse, implacabile, spesso ostile, ma capace di ammaliare chiunque.
Resta da dire di ciò che ha determinato la fortuna del romanzo e che ha aperto a Pasternak la strada del premio Nobel. La storia di Zivago, uomo idealista e sognatore, si sviluppa parallelamente a quella della rivoluzione russa, dai moti del 1905 fino allo stalinismo, e non è difficile scorgere nelle sventure e nelle omeriche peregrinazioni del protagonista, il quale all’inizio, come molti, aderisce istintivamente alle istanze rivoluzionarie come un’occasione di giustizia umanitaria ma in seguito rimane deluso dagli esiti nefandi del bolscevismo fino ad essere visto con sospetto dalle autorità al potere, un riflesso individuale di quella che è stata una delle più immani tragedie collettive del secolo scorso. L’abnegazione totale e incondizionata con cui egli dedica le sue energie migliori all’arte e all’amore diventa così, di fronte alla resa opportunistica e vigliacca di gran parte della società del tempo, l’unico grido di protesta possibile nei confronti di un sistema prevaricatore e illiberale, che come un famelico Moloch esige sull’altare del materialismo più ottuso la rinuncia ad ogni autonoma volontà del singolo e il sacrificio delle istanze spirituali dell’uomo.
La scelta di mettere in primo piano la semplice e romantica storia d’amore tra Lara e Zivago per raccontare in forma di epopea la tragedia di una generazione non è però scevra di rischi. A lungo, soprattutto nella prima parte del romanzo (quella, tanto per essere più precisi, che culmina nel soggiorno di Meljuzeev), aleggia uno spirito non troppo dissimile a quello di un “drammone” tipo “Via col vento”, e non è un caso che il film di David Lean che contribuì negli anni ‘60 a fare la fortuna del romanzo ne abbia privilegiato le componenti più melense e melodrammatiche. C’è poi una certa meccanicità da racconto d’appendice nel modo in cui avvengono incontri, agnizioni e snodi narrativi, così come un che di forzato si ritrova nei personaggi secondari, i quali ci vengono tutti presentati con dovizia di particolari all’inizio del romanzo e che ritroviamo poi invariabilmente in ruoli chiave, non solo della vicenda ma persino della Storia (per giunta, come l’Antipov-Strelnikov marito di Lara, con un ardito coup de theatre degno di un Dumas), enfatizzando così oltre ogni ragionevole misura il loro ruolo simbolico (si veda a questo proposito il misterioso fratellastro di Zivago Evgraf il quale, apparendo nei momenti più critici della storia a tirare fuori dai guai il protagonista, diventa un chiaro emblema della provvidenza divina). Al di là di questi ovvi limiti, “Il dottor Zivago” è capace di raccontare un periodo cruciale della storia del XX secolo senza pregiudizi politici e semplificazioni ideologiche e, soprattutto, con una immediatezza emotiva che ci era finora sconosciuta, scoprendo il velo a un orrore così profondo e diffuso da assumere un’intensità a tratti quasi irrapresentabile.
Indicazioni utili
TRE FRATELLI ALLA RICERCA DI DIO
La vicenda de “I fratelli Karamazov” è quella di Fedor Karamazov, ricco libertino di provincia, e dei suoi tre figli, il violento ma generoso Dmitrij, l’intellettuale Ivan, il mistico Alesa, nonché di un quarto figlio illegittimo, il cinico e perverso Smerdjakov. Non vi è persona, credo, che non conosca almeno a grandi linee l’intreccio del romanzo, imperniato sull’assassinio del padre a opera di Smerdjakov, a sua volta ambiguamente spinto ad agire da Ivan, e sul relativo processo, nel corso del quale Dmitrij, su cui si sono accentrati tutti i sospetti, viene condannato ai lavori forzati. In effetti, questo libro si presenta esteriormente come un avvincente e scorrevolissimo romanzo d’appendice, folto di personaggi secondari e con una trama da feuilleton. Ma se si guarda appena appena sotto la sua superficie, non si tarda a capire che la parossistica storia della famiglia Karamazov è nientemeno che la potente e sconvolgente rappresentazione della grande famiglia umana, nella quale sono magistralmente condensate sia le grandi problematiche esistenziali (vuoi teologiche, vuoi etiche e filosofiche) che l’assillano, sia le forze fondamentali che da sempre guidano la vita dell'uomo, vale a dire la sensualità, l'intelletto e la spiritualità. “I fratelli Karamazov” è quindi, principalmente, un libro di idee, il che spiega anche il particolarissimo realismo di Dostojevskij. I pochi ambienti che egli descrive con minuziosa precisione (la casa di famiglia e la trattoria, per fare due soli esempi) si rivelano ben presto per quello che veramente sono, e cioè un fondale, una scena aperta, dietro cui è possibile individuare altre importanti dimensioni della vita. L’opera di Dostojevskij si sviluppa infatti su un triplice piano: la realtà (nella quale i personaggi sono immersi profondamente, direi anzi carnalmente), la metafisica (verso la quale essi tendono o comunque con la quale, prima o poi, si trovano a fare i conti) ed il subconscio (che provoca in loro tremende tempeste morali, rendendoli senza eccezione figure dolorosamente scisse e sdoppiate). Tensioni e contraddizioni del mondo trovano perciò la loro espressione in problemi filosofici e religiosi, e questi a loro volta sono vissuti e sofferti nella vita interiore dei personaggi. Costoro, in Dostojevskij, cercano in continuazione, disperatamente, una verità, una base morale, per la loro vita. Anche quelli che, come Fedor, vivono solo nella sfera della sensualità, non possono esimersi dal porsi l’angosciosa domanda se esiste Dio e se c’è l’immortalità. E che dire di Ivan, apparentemente inattaccabile nel suo sprezzante cinismo, ma che in realtà soffre terribilmente della sua condizione di miscredente?
Questa riflessione mi porta a fare due distinte considerazioni. In primo luogo, è evidente la dicotomia degli eroi dostojevskijani, nei quali lottano senza tregua due io contrapposti e inconciliabili. Nessun personaggio sfugge a questi conflitti interiori. In Dmitrij, al tormento per la sua condizione di peccatore si accompagna la dolorosa consapevolezza dell’ineluttabilità della sua duplice natura (“Che vi può essere di più terribile che accogliere nell’anima l’ideale di Sodoma senza tuttavia negare quello della Madonna?… Ah, no: l’uomo è troppo complesso, io l’avrei fatto un pochino più semplice”); in Ivan, questo dualismo si materializza addirittura nella figura del diavolo, sorta di allucinata proiezione dell’io inferiore dell’uomo, cioè della sua parte più bassa e vile, che tuttavia condiziona il suo agire non meno dell’altra più elevata; anche Alesa, il quale rappresenta senza dubbio l’eroe positivo del romanzo, non è immune da questo travaglio, giacché la sua natura angelica presuppone necessariamente la possibilità di una caduta (e difatti per lui la tentazione viene davvero, dopo la morte dello starec Zosima).
La seconda considerazione riguarda la stupefacente complessità e poliedricità tematica di Dostojevskij scrittore. Non v’è dubbio che ne “I fratelli Karamazov” egli pervenga, come si vedrà più avanti, ad una conclusione cristiana fondata sulla fede in Dio e sull’amore per il prossimo. Tuttavia il suo non è un comodo e consolatorio sermone di stampo catechistico, ma un messaggio che passa continuamente attraverso il filtro dell'incredulità. Nel mondo religioso di Dostojevskij, l'affermazione e la negazione si alternano ad un ritmo incessante. In questo risiede, a mio avviso, la straordinaria grandezza de “I fratelli Karamazov”, nella capacità cioè di proporre alla meditazione del lettore un ventaglio talmente ampio di interpretazioni da rendere difficile capire quali di esse Dostojevskij accolga e quali respinga. Accingendosi all’esegesi del romanzo, il lettore è portato così a seguire un percorso autonomo e originale, ed addivenire magari a conclusioni opposte a quelle dell’autore, senza per questo poter essere tacciato di arbitraria faziosità. La grande generosità di Dostojevskij lo ha condotto qui a non cercare di nascondere quegli insolubili problemi che avrebbero potuto essere di ostacolo alla sua tesi, ma al contrario a mostrarli in tutta la loro enigmaticità, quasi a significare che la strada della fede è dura e impervia e deve in ogni momento fare i conti con essi. Dostojevskij era sicuramente un conservatore, eppure nessun radicale ha versato più veleno di lui sul mondo della borghesia; egli era un fautore dello status quo, eppure i suoi romanzi svelano impietosamente il disordine e la corruzione della società; egli predicava la bontà e la fratellanza e intanto descriveva come nessun altro aveva mai fatto la capacità umana di crudeltà e di depravazione. E a chi gli rimproverava il suo essere reazionario e la sua retrograda fede in Dio, così rispondeva: “Questi stupidi non hanno mai concepito, neppure in sogno, una negazione di Dio altrettanto potente di quella che c’è nel “Grande Inquisitore” e nel precedente capitolo… Io non credo in Dio come un fanatico. Ed essi volevano ammaestrarmi e ridevano perché ero retrogrado! Ma le loro stupide nature non hanno mai immaginato una negazione così potente come quella che ho vissuto io”.
I due personaggi chiave intorno ai quali ruota tutto il romanzo sono Alesa e Ivan. Benché non immuni dalla bramosa e famelica voglia di vivere karamazoviana, da quella sensualità quasi animalesca che contraddistingue il padre Fedor e il fratello Dmitrij e che è fonte di tante disgrazie, essi tuttavia si collocano ai due poli opposti della scala umana dei sentimenti, Alesa simboleggiando la vita spirituale e Ivan quella intellettuale. Ho già accennato al fatto che in Dostojevskij questi due poli sono così vicini da sfiorarsi in continuazione: quindi, è vero che Alesa è il modello di virtù e Ivan l’eroe negativo, ma nel corso del romanzo i ruoli sembrano sul punto di rovesciarsi più e più volte. In particolare, alla radice di entrambi, ciò che li fa essere così unici e diversi, c’è il problema di Dio. Già nelle pagine introduttive, ad esempio, Dostojevskij conclude che “se Alesa avesse deciso che l’immortalità e Dio non esistono, sarebbe diventato subito un ateo o un socialista”. E più oltre si vedrà come anche le convinzioni etiche di Ivan siano determinate principalmente dal suo particolare approccio alla religione.
Alesa è un adolescente spiritualmente libero e animato da un tranquillo e fermo amore per l’umanità. Ha un cuore caldo e nostalgico e perennemente si irradia da lui una luce di gioia e di chiarezza. In Alesa vi sono molti tratti profondamente cristiani: egli è incapace di serbare memoria delle offese ricevute, poiché il suo spirito ignora risentimenti e rancori, non giudica mai ma si limita ad ascoltare e a distinguere il giusto dall’ingiusto, senza approvare quando approvare non è possibile ma anche senza mai condannare, e infine non si dà mai pensiero del domani, come dimostra il fatto che “mai si preoccupava di sapere a spese di chi vivesse". La caratteristica che di Alesa più mi ha impressionato è pero la sua sincerità. Egli è talmente sincero da confessare persino le cose più imbarazzanti. Di fronte al perfido Rakitin, che lo incita ad ammettere di avere già pensato tra sé all’eventualità che avvenga un delitto nel seno della sua famiglia, Alesa confessa con candore: “Io… io… non credo d’averci pensato, ma quando m’hai cominciato a parlare così sibillino, m’ha quasi preso l’idea di averci pensato anch’io”. C’è in Alesa una forza di verità che non solo non mente ma afferma apertamente quello che è, a dispetto di tutte le convenzioni. In una scena di particolare intensità, che lo vede insieme a Ivan e a Katerina Ivanovna, una ragazza orgogliosa che dentro di sé forse ama Ivan ma si costringe ad amare Dmitrj come paradossale reazione ad una cocente umiliazione da questi ricevuta, Alesa confida all’interdetto uditorio: “Forse a dirlo non faccio bene, ma debbo tuttavia spiegar quello che sento… ho compreso, come per illuminazione improvvisa, che voi non amate mio fratello Dmitrij, fin da principio non l’avete amato… E davvero non so come m’azzardi a dir tutto ciò, ma qualcosa bisogna pur dire nel modo più schietto… perché qui non c’è nessuno che dica le cose come stanno…”. Talvolta la sua sincerità trasforma il semplice fatto di dire il vero in un atto quasi religioso, come quando, quasi fuori di sé, dice a Ivan: “Tu hai accusato te stesso, a te stesso hai confessato che l’assassino non potevi essere altro che tu. Ma non sei stato tu a uccidere, tu sbagli, non sei tu l’assassino, mi capisci? Non sei tu. Dio mi ha mandato a te perché te lo dicessi”.
Dal suo canto, Ivan è un giovane intellettuale, fortemente innamorato della vita, a dispetto della logica (“Che io non creda nell’ordine delle cose, però mi son care le umide e vischiose foglioline che si schiudono a primavera, mi è caro il cielo azzurro, mi son care certe persone che, talvolta, credimi, nemmeno sai perché le ami”), ma privo di quell’unità interiore, di quell’energia creatrice che solo il cuore può dare. Ivan è prigioniero di un orgoglio immenso, retaggio di uno spirito solitario e distante. Dostojevskij ce lo presenta, all’inizio del romanzo, mentre sostiene l’aberrante teoria che, con il venir meno della fede nell’immortalità, tutto diventa lecito all’uomo, persino il delitto. In realtà, Ivan e Alesa sono due facce della stessa medaglia: Ivan nega ciò che Alesa afferma, ma l’affermazione di Alesa ha valore solo come risposta alla negazione di Ivan.
In tre stupendi capitoli del libro quinto, Ivan svela ad Alesa la propria visione del mondo. Nonostante che di fronte allo stesso Alesa e al padre avesse affermato recisamente che Dio non esiste, Ivan è in realtà disposto a credere nella sua esistenza e nella necessità del concetto di Dio. “Accetto Dio, e non soltanto volentieri, ma oltre a ciò accetto anche la Sua sapienza, credo nell’ordine, e che l’esistenza abbia uno scopo; credo nell’armonia, e che in essa dovremo tutti, quando che sia, riunirci”. Tuttavia, Ivan, pur accettando teoricamente Dio, rifiuta il mondo da lui creato, e lo fa in una maniera così convincente e inoppugnabile da lasciare completamente interdetto Alesa. Per argomentare la sua rivolta, Ivan narra al fratello diversi episodi di inaudita violenza e crudeltà aventi per infelici protagonisti dei fanciulli. “Immaginati un po’: un bambino che poppa fra le braccia della madre tremante, e intorno i Turchi. Essi hanno ordito una piacevole burla: accarezzano il bambino, ridono per farlo ridere, e la cosa riesce: il bambino ride. In quel momento un turco punta una pistola a quattro palmi dal suo visino. Il fanciullo ride tutto contento, allunga le manine per afferrare la pistola, e ad un tratto l’artista tira il grilletto e gli manda in pezzi la testina… Una cosa d’arte, non è vero?”. E poi c’è la bimba selvaggiamente picchiata con la frusta dai due rispettabili genitori; c’è la bambina rinchiusa per tutta la notte in un cesso che “si dibatte al buio, al freddo, e col piccolo pugno colpisce il suo petto straziato e piange, innocente, lacrime di sangue, miti lacrime, invocando il «piccolo Dio» che accorra in suo aiuto”; ed infine c’è il fanciullo fatto sbranare dai cani davanti alla madre per avere inavvertitamente ferito con un sasso ad una zampa il levriero prediletto del ricco e potente generale (“Sembra che il generale sia stato leggermente punito”, aggiunge Ivan con macabro humour). Di fronte a tutto questo orrore, la mente umana vacilla e si perde, incapace di trovare una qualsiasi giustificazione. “Capisci tu perché sia stato necessario permettere una cosa tanto assurda? Ma senza tanto assurdo, dicono, l’uomo non potrebbe vivere sulla terra, perché non conoscerebbe che cosa è bene e che cosa è male. Ma perché stabilire questa distinzione tra bene e male, questa diabolica distinzione, una volta che costa tanto cara?”. La requisitoria di Ivan è sottile e implacabile, e invade il terreno della fede, cioè punta diritto al cuore di Alesa. “Io voglio esistere quando, tutto ad un tratto, tutti sapranno la causa di tutto… Ma ecco, i bambini, che ne farò allora di essi? Ecco la questione cui non posso rispondere… Perché anche loro caddero come materia e concime per una qualche futura armonia?… Comprendo il gaudio dell’universo quando nel cielo e sotto terra sarà tutto un inno di lode, e tutto ciò che vive ed è vissuto griderà: «Tu hai ragione, Signore, poiché le tue vie si sono rivelate!». Quando la madre abbraccerà colui che le straziò il figlio e tutti e tre grideranno piangendo: «Tu hai ragione, Signore!» allora la conoscenza verrà glorificata e tutto sarà spiegato. Ma ecco, qui sta la questione, io non posso accettare tutto ciò… Finché c’è ancora tempo mi affretto a preservarmi da questo, e non ammetto quindi assolutamente la più alta armonia. Essa non vale le lacrime della bambina straziata che si batte il petto col piccolo pugno e prega il «piccolo Dio» con le sue lacrime non riscattate… Troppo hanno avuto a cuore l’armonia; ma il suo prezzo non è per le nostre tasche. E perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso… Non è che io non accetti Dio, Alesa, soltanto gli restituisco nel modo più rispettoso il biglietto”. Appunto in questo “rifiuto di complicità” consiste la rivolta di Ivan: egli tira le somme e conclude che, finché la malvagità del mondo rimarrà a smentirlo, non è possibile credere in Dio, non è possibile credere nella Provvidenza e consolarsi nel mito di un sopramondo che giustifichi ciò che di assurdo e di bestiale vi è nella vita. Dostojevskij mostra di avere un grandissimo rispetto per le tesi di Ivan, perché qui siamo veramente di fronte al problema dei problemi, quello del male e della sua tollerabilità. Quante volte noi stessi, magari in modo inconsapevole, ci siamo posti le stesse domande, in presenza di episodi di ingiustizia e di sofferenza? Quante volte abbiamo dovuto reprimere in noi stessi i fremiti di ribellione di Ivan, perché ci sentivamo di fronte a qualcosa di troppo più grande di noi? Dostojevskij decide coraggiosamente di non eludere il problema: egli non avrebbe mai permesso ad alcuna teoria di trascinarlo a negare un aspetto dell’esperienza che gli si presentasse come autentico. Qual è allora la sua risposta? L’autore ce la fornisce indirettamente nell’arco di tutto il romanzo con le parole e gli atti di Alesa, di Zosima, dello stesso Dmitrij. Dostojevskij sa infatti perfettamente che a Ivan non si può rispondere nei suoi termini. Quando Ivan domanda ad Alesa: “Immaginati d’esser tu a costruire l’edificio della sorte degli uomini, e di dar loro, in ultimo, pace e quiete, ma che per ottener ciò sia necessario e inevitabile tormentare soltanto una minuscola creatura, ecco: quella stessa bambina che si colpiva col piccolo pugno il petto, e sulle sue lacrime invendicate costruire questo edificio; accetteresti d’essere un tale architetto a queste condizioni?”, questi è costretto ad ammettere: “No, non accetterei”, e non potrebbe rispondere altrimenti. Ma la questione deve essere affrontata in un modo diverso. Abbiamo or ora visto che la conclusione di ordine razionale che Ivan ricava dall’esame della realtà è che l’ingiustizia è inerente alla struttura del mondo e non può essere eliminata. A questo punto l’alternativa è: o rifiutare ogni compromesso con questo stato di cose che ci sovrasta e spaccarsi la testa contro di esso, oppure accettare tale situazione, convivere con essa e, al suo interno, adoperarsi per cercare una via personale alla felicità. La seconda è la strada fiduciosamente imboccata da Alesa; la prima è invece la sterile alternativa di Ivan, che Dostojevskij utilizza come monito per dimostrare l’errore di fondo su cui si reggono tutte le dottrine razionaliste e materialiste, socialismo compreso.
Il pensiero di Ivan viene inteso compiutamente solo se si leggono le suggestive pagine del “Grande Inquisitore”, nelle quali viene espresso, da un lato, il rapporto implicito nel conflitto tra Dio e la libertà e, dall’altro, lo sforzo dell’ateismo di portare il cielo sulla terra facendo a meno di Dio. Il senso della leggenda è, a grosse linee, il seguente. Cristo è venuto sulla terra per dare agli uomini la piena libertà spirituale e la responsabilità assoluta delle loro azioni. Così facendo, egli ha però gettato sulle spalle degli uomini un peso insopportabile. Gli uomini sono stati sì resi liberi, ma hanno avuto paura di questa libertà (“Nulla è più attraente per l’uomo della libertà di coscienza, e nulla tuttavia gli è di più tormentoso”). Essi si sono rivolti allora alla Chiesa, cercando un conforto, una guida: sulla soglia della Chiesa hanno deposto la loro libertà, chiedendo che ci fosse qualcuno che decidesse per loro. Cristo ha parlato inoltre soltanto di un pane celeste, ma gli uomini hanno bisogno soprattutto di un pane terreno. Nell'ottica di Ivan, ciò vuol dire soprattutto che Cristo ha permesso il male nel mondo in nome di una ricompensa futura. La Chiesa ha cercato di attenuare il male che Cristo ha fatto: al posto della libertà ha perciò messo l’”autorità”, al posto dello spirito il “miracolo”, al posto della verità il “mistero” (non il mistero implicito nella fede, ma la magia, la superstizione). Ora il popolo vive come un gregge sereno e pasciuto: ha i piaceri, la sicurezza e si sente felice. Per assicurargli la sua parte di felicità, la Chiesa si è levata contro Dio e si è consacrata a Satana. Ma per Ivan, gli uomini che hanno corretto l’opera di Cristo non sono esseri diabolici: sono uomini che dapprima hanno cercato di percorrere la via dell’elezione ma che poi un giorno si sono ricreduti e non hanno più potuto sopportare un mondo siffatto, un’esistenza cristiana troppo esigente per i più, che finivano col disperare, dove i pochi, nonostante i loro sforzi, forse avrebbero fallito ugualmente, e dove la sofferenza non aveva più fine. Il significato della leggenda, a questo punto, appare evidente: più che essere un attacco alla Chiesa cattolica, come molta parte della critica ha affermato, essa è il punto d’arrivo della logica euclidea di Ivan. Il Grande Inquisitore che rivolge il lungo discorso di rimprovero al Cristo ridisceso tra gli uomini altri non è infatti che Ivan stesso. In questo amaro apologo Ivan esprime coscientemente il rifiuto di riconoscere questo mondo e il desiderio di strapparlo dalle mani di Dio per dargli un ordine diverso e migliore. La sua filosofia, volta a distruggere nell’uomo l’idea di Dio, potrebbe preludere a una sorta di socialismo idealista e riformatore (“Una volta che l’umanità abbia voltato le spalle a Dio, nel modo più spontaneo, senza antropofagia, l’antica concezione del mondo dovrà cadere, e quel che più conta tutta la vecchia morale, e cominciarne una nuova. Gli uomini faranno allora lega per prendere dalla vita tutto quanto può offrire, ma soltanto per essere contenti e felici, in questo mondo”). In realtà, c’è un insormontabile ostacolo che impedisce a Ivan la realizzazione di questi nobili impulsi: la mancanza di fede nell’uomo. Alla base della leggenda del “Grande Inquisitore” c’è infatti la convinzione che gli uomini vadano trattati come massa e non possano aspirare se non a una felicità mediocre. Mi sembra importante ricordare che, in precedenza, Ivan aveva confessato ad Alesa: “Non ho mai potuto capire come sia possibile amare la gente che ci sta vicino. E’ precisamente tal gente che non è possibile amare, forse chi ci sta lontano sì… Secondo me, l’amore del Cristo su questa terra è un miracolo impossibile. Certo, egli era Dio. Ma noi non siamo dei”. A Ivan manca completamente la virtù trasformatrice dell’amore che Alesa invece possiede in sommo grado. Egli è un intellettuale scettico e solitario, arroccatosi in una torre d’avorio e convinto di essere l’unico ad avere una chiara nozione del vero.
All’inizio di questa recensione avevo detto che è il problema di Dio a determinare il carattere dei protagonisti del romanzo. Ora ribadisco che alla radice dell’atteggiamento di Ivan c’è proprio l’incredulità. Così come Ivan crede in Dio ma, per mancanza di fede, cioè per incapacità di accettare le disarmonie del mondo, gli si ribella, allo stesso modo, prendendo a prestito le parole di Alesa, “egli non disprezza nessuno, ma anche non crede a nessuno; e se non crede, allora vuol dire anche che disprezza”. Il suo ateismo (con una felice intuizione, Ivan è stato definito un credente ateo) lo spinge ad arrogarsi il diritto di sorvolare sulla distinzione, valida per la maggior parte degli uomini, tra bene e male. E’ la teoria, già accennata in precedenza, del “tutto è permesso”. In base ad essa, Ivan finisce per sostituire il suo intelletto alla legislazione divina ed autoeleggersi uomo-dio. Dei perversi effetti di questo superomismo, che legittima anche il delitto più efferato dal momento che l’immortalità non esiste, Ivan non sembra rendersi conto appieno. Egli si serve della sua teoria per divenire irresponsabile di fronte al mondo, dichiarandolo irrazionale, si limita a desiderare l’assassinio del padre sapendo che non arriverà mai a commetterlo. Invece Smerdjakov prende i suoi discorsi ed il suo ambiguo comportamento come un’autorizzazione a procedere e compie senza scrupoli l’omicidio. La responsabilità, sotto forma di istigazione e di complicità morale, viene quindi a ricadere pesantemente su Ivan. In questa circostanza, la teoria dell’uomo-dio di Ivan si rivela una costruzione fatiscente, incapace di reggere l’impatto con la realtà. Egli non appare cosciente della propria influenza nefasta, o meglio è convinta di poterla dirigere in un ambito esclusivamente teorico, a profitto e verifica delle proprie dottrine. Ma queste dottrine iniziano, da un certo punto in poi, a sfuggire di mano al loro creatore, a vivere di vita autonoma, e Ivan si accorge di colpo di essere attanagliato da un atroce complesso di inferiorità che gli impedisce di seguirle fino ai loro estremi sviluppi. Il cinico e orgoglioso Ivan, che sembrava inattaccabile nella sua sicumera, diventa una patetica figura senza più certezze, il novello Prometeo pronto a innalzarsi al livello di Dio non è più nemmeno in grado di sopportare il confronto con il vile e spregevole Smerdjakov. Alesa, nella sua chiaroveggenza, comprende tutto ciò e quando dice a Ivan, nella scena già citata in precedenza, “non sei tu che hai ucciso il babbo”, vuole significare: “L’origine del delitto non è in te; non è un atto della tua volontà sovrana. Tu non sei il Grande Inquisitore, il bestemmiatore di Dio, che si è arrogato il diritto di decidere del bene e del male ed ha permesso agli altri il delitto. L’idea dell’assassinio non l’hai concepita tu, quell’atto non l’hai voluto tu. Non sei, come credi, un essere superiore, ma soltanto un pover’uomo sedotto da Satana, e per questo non sei ancora perduto ed hai aperta la via della salvezza, perché puoi pentirti”. Ivan non si salverà ma, non essendo capace di rinunciare al suo orgoglio e di sottomettersi al volere divino, cadrà preda della follia. Proprio nell’episodio che anticipa la malattia di Ivan, quello cioè dell’apparizione del diavolo, si registra un profondo anelito alla redenzione (“Ed ecco, io te lo giuro su quanto c’è di più sacro, anch’io avrei voluto unir la mia voce al coro di tutti e gridare: «osanna»”), il quale però non riesce a tradursi in realtà e volontà sincera (“Ma il buon senso, oh, la più disgraziata delle mie facoltà!, poté trattenermi nei limiti dovuti, e io lasciai passare quell’attimo! Infatti, dopo il mio osanna, che cosa potrebbe succedere?… Addio termine negativo tanto necessario”).
Nel descrivere il personaggio di Ivan, Dostojevskij esprime la sua profonda sfiducia nel razionalismo. Lo smodato orgoglio di Ivan, che è la causa prima del suo delirio di onnipotenza, è dovuto infatti alla convinzione che la scienza e l’intelligenza siano sufficienti allo sviluppo della vita umana. L’uomo razionale, cioè, si autoconvince di non aver bisogno né degli altri uomini né di un aiuto metafisico, incurante del fatto che questa strada lo porta verso l'isolamento e il suicidio spirituale. C'è un personaggio de “I fratelli Karamazov” che mi sembra più eloquente di tutte le parole che su questo argomento si possono dire: è Kolja, un quattordicenne sensibile e intelligente, ma già sulla via della corruzione a motivo del suo gigantesco amor proprio. Kolja è un Ivan ragazzo, e per suo tramite Dostojevskij credo voglia stigmatizzare il comportamento di coloro che, per andar dietro alla scienza e all’orgoglio intellettuale, perdono quella fanciullesca semplicità, quell’ingenua e fiduciosa disponibilità ad amare che deve essere propria dell’uomo di fede. All’antirazionalismo dostojevskijano si può affiancare l’avversione per le dottrine materialiste e socialiste. Il socialismo, come è noto, vorrebbe che l’uomo determinasse il suo destino in termini esclusivamente storici, negando la validità o per lo meno la necessità di agenti metafisici. Secondo Dostojevskij, il rifiuto di Dio, che il socialismo presuppone, implica come ovvia alternativa la felicità senza la libertà, la mancanza di valori, la menzogna. Nel corso del romanzo, incontriamo diverse figure di umanisti, di liberali e di socialisti, dal velenoso Rakitin al vacuo Miusov, e Dostojevskij non si lascia mai sfuggire l’occasione di denunciare il velleitarismo, l’ambiguità e l’ipocrisia dei loro tentativi miranti a sostituire alla religione una sorta di meliorismo laico. Ma Dostojevskij non è, lo sappiamo bene, un propagandista e tanto meno un dogmatico, e difatti fa dire all’inizio del romanzo allo starec Zosima: “Non odiate gli atei, gli eretici, i materialisti, e badate che fra loro molti sono buoni, specialmente ai nostri tempi”, convinto che in molte epoche storiche l’uomo è stato migliore senza Dio che con Dio.
Accanto alla lussuria intellettuale di Ivan, nel romanzo troviamo la lussuria dei sensi di Dmitrij. Dmitrij è un uomo violento, intemperante e sventato, ma romantico e capace di slanci appassionati. Nonostante il lezzo ed il fango in cui si trova immerso fino al collo, nonostante i suoi vizi e i suoi difetti, egli è un cuore puro e generoso, che soffre come nessun altro l’offesa al proprio senso di onore delle bassezze commesse. In lui, più che in altri, Dostojevskij rivela la duplice, ambigua natura dell’uomo, la sua capacità cioè “di guardare ad un tempo in tutti e due gli abissi: quello che sta sopra di noi, abisso di alti ideali, e quello che sta sotto di noi, abisso della più bassa corruzione”. “Non mi importa di essere maledetto, basso e vile – dice ad Alesa – purchè possa anch’io deporre un bacio su uno dei lembi della veste che ricopre Iddio. Anche se per il momento do retta al diavolo, sono sempre uno dei tuoi figli, mio Dio! Ti amo, e sento e comprendo quella gioia senza la quale il mondo non potrebbe essere né durare”. Dmitrij incarna in fondo l’intero popolo russo, con la sua fede elementare e primitiva, ma incrollabile. Più ancora, egli simboleggia un principio caro all’autore, cioè che spesso solo cadendo nell’abisso è possibile redimersi. L’umanità derelitta e cenciosa, macchiata dal peccato, avvilita nell’abiezione e nella colpa, incontra Dio proprio nell’ora più buia e più triste, e davanti a lei, attraverso una profonda rigenerazione morale, si dischiude un senso nuovo della vita. Il destino di Dmitrij è emblematico: egli viene punito per un delitto che non ha commesso, ma accetta con cristiana rassegnazione l’ingiusto verdetto, disposto ad immolarsi in nome di Dio. Quando lo starec Zosima afferma che “ognuno di noi è responsabile di tutti e per tutto su questa terra” non possiamo non pensare al terribile sacrificio di Dmitrij, scottante materializzazione di questa fondamentale verità cristiana. Durante i preliminari di istruttoria, Dmitrij ha l’occasione di fare uno strano sogno e nella sua immaginazione passano immagini di case bruciate, di donne magre e dall’aspetto patito, di bambini che piangono. Il problema del male, sia pure inconsciamente, si affaccia quindi anche alla mente di Dmitrij. Ma mentre Ivan si rifugia, come si è visto, in un’implacabile quanto sterile immaginazione, il fratello, alle angosciose domande “perché quella gente è povera, perché la creaturina è ammalata, perché la steppa è nuda?”, reagisce con un’ansia febbrile di fare qualcosa contro l’ingiustizia, di aiutare il prossimo più sfortunato affinché non abbia più a soffrire. Quella di Dmitrij è la prima risposta positiva al nichilismo di Ivan. La seconda risposta, quella definitiva, ce la offre Alesa, il terzo fratello, l’angelo.
Ad Alesa ho avuto già modo di accennare all’inizio di questa trattazione. Quanto detto allora è sufficiente per capire che Alesa ha una grandezza di cuore innata, eppure in lui, accanto a slanci di santità, vi sono potenziali tendenze alla perdizione. Egli è il discepolo prediletto dello starec Zosima, di cui assorbe con filiale devozione gli illuminati insegnamenti religiosi, ma è influenzato anche da Ivan. E’ sbagliato perciò considerarlo un personaggio senza sfaccettature. Nell’episodio della morte dello starec, ad esempio, Alesa rimane profondamente deluso dalla “giustizia del cielo”, che ha consentito che il corpo dell’amato maestro in odore di santità fosse soggetto ad una accelerata putrefazione, e ciò lo porta a rifiutare momentaneamente il mondo di Dio, proprio come Ivan (Alesa è soprattutto disgustato dalla malignità degli uomini, cui piace sadicamente “la caduta del giusto e la sua ignominia). Ma Alesa riesce a superare la crisi, perché ha solide basi morali in cui credere. Egli ha soprattutto una fiducia innata e irresistibile nella vita. “«Io penso che prima di ogni altra cosa tutti dovrebbero nel mondo amare la vita». «Amare la vita più del suo significato?» (gli chiede Ivan). «Precisamente così, amarla più della logica, e soltanto allora ne comprenderemmo il significato»”. La vita si comprende solo vivendo e se ne intuisce il senso solo se non lo si cerca. Per Dostojevskij, esso è talmente semplice che la scienza non può aiutare a cercarlo. E nemmeno la logica: perché la vita è al di là della logica.
Per Ivan la vita è l’inferno, è il generale con i suoi cani, è il padre che prende a vergate la figlia indifesa. L’errore di Ivan è quello di riversare la malvagità degli uomini su Dio e di credere che solo senza Dio l’umanità potrà migliorare e salvarsi. Persino l’ingenua fede di Dmitrij capisce però che così non può essere: “Se lui non c’è, vuol dire che l’uomo della terra è il signore. Magnifico! Soltanto, come farà l’uomo ad essere virtuoso senza Dio? Ecco il problema… Chi potrà amare allora, l’uomo? Chi ringraziare, a chi cantare un inno?”. Ecco invece che Alesa e Zosima capovolgono la prospettiva di Ivan. “La vita è un paradiso – dice Zosima, ricordando le parole del fratello Markel – e noi non vogliamo saperlo, ma se lo volessimo sapere, anche domani sarebbe nel mondo tutto un paradiso”. “Paradiso”, secondo lo starec, significa però uno stato in cui il mondo e Dio non sono due realtà separate, ma il mondo è in quanto esiste Dio e il desiderio divino d’amore si compie in quanto Dio può aprirsi nella creatura che si è data a Lui. Per realizzare il paradiso in terra bisogna non solo riuscire ad amare il prossimo (“Io credo – dice Zosima – che l’inferno sia il dolore di non poter amare”), ma amarlo di un amore operoso e attivo: “L’amore attivo, credetemi, non ha nulla a vedere coi sogni; è una cosa crudele e terribile. Poiché l’amore contemplativo brama sollecite gesta, vuole essere subito soddisfatto, ammirato. Con questa specie d’amore si arriva, sì, fino al punto di sacrificare la vita, purché la prova non abbia troppo a durare, ma si compia al più presto, quasi come sulla scena, in modo che tutti ammirino e lodino. Ma l’amore attivo è fatica, è costanza…”. Quello proposto da Zosima è un duro stile di vita, ma non vale l’obiezione di Ivan sopra riportata che gli uomini non sono dei. Dio infatti non pretende dagli uomini la perfezione. Quello che importa è, prendendo a prestito la poetica immagine di Grusenka (un personaggio che nello spirito si avvicina molto a quello di Dmitrij), “dare una cipolla”, fare cioè quel che si può, ma farlo, senza prendere come scusa la propria debolezza per non fare niente. E non fa nulla se si sbaglia, perché c’è sempre in serbo il perdono e la possibilità del riscatto. Per questo motivo, Dmitrij, nonostante la sua debolezza, è di gran lunga migliore di Ivan, il cui ipertrofico sviluppo intellettuale porta solo all’inerzia. La vita dello stesso starec Zosima ha percorso un travagliato cammino, che lo ha portato dalla sregolata e viziosa vita mondana fino alla sofferta redenzione e alla santa missione monacale. La conversione di Zosima è operata proprio nel punto di maggior resistenza: i rapporti sociali tra persona e persona, e in particolare fra padrone e servitore. “Qual è il mio merito che un altro uomo, tale e quale come me, fatto a immagine e somiglianza di Dio, debba servirmi?… Anch’io vorrei essere servitore dei miei servitori, al modo stesso che loro mi servono”. Da questo fondamentale concetto di fratellanza universale, discende l’altro principio essenziale della religiosità dostojevskijana: “ognuno è colpevole in tutto verso gli altri”. Non si tratta della colpa derivante dal peccato originale, ma della colpa che presuppone la solidarietà umana nel peccato e la fine del terribile isolamento in cui vivono gli uomini.
Confesso di non trovare completamente convincenti le dottrine di Zosima. A prescindere dal fatto che il personaggio di Zosima, e di riflesso quello di Alesa, appaiono scoloriti e quasi insipidi rispetto ai tormentati personaggi di Ivan e Dmitrij, il compendio elevatissimo di sublimi virtù che Dostojevskij propone come risposta all’ateismo di Ivan non riesce quasi mai ad elevarsi al di sopra di una edificante predicazione e di un alto catechismo. Proprio là dove viene esaltata la grandezza del mistero religioso si aprono imbarazzanti falle logiche. Ad esempio, l’episodio biblico di Giobbe (che in sé è in grado di riassumere l’intero senso della requisitoria di Ivan sul male del mondo) è giustificato dallo starec con queste parole: “Il vecchio dolore, per un grande mistero della vita umana, adagio adagio si trasforma in una tenera letizia”. Un po’ poco, mi sembra, per confutare lo sdegno di Ivan per l’irrazionalità dell’esistenza. Il fatto è che alcuni presupposti dell’impalcatura dostojevskijana mi sembrano assai deboli. In primo luogo, la supremazia della morale cristiana di Alesa e di Zosima si fonda in gran parte sulla negatività della logica distorta di Ivan. Ma, qui sta l’errore, la logica del personaggio Ivan non può essere fatta coincidere, come invece fa Dostojevskij, con la logica umana tout court. C’è una bella differenza tra il condannare il razionalismo superomistico di Ivan, sicuramente sbagliato, e il condannare, insieme ad esso, tutte le teorie fondate sulla scienza e sul razionalismo, in quanto ritenute intrinsecamente ingannevoli e fallaci. Facendo ciò ci si colloca irrimediabilmente su posizioni utopistiche e antistoriche. Ma c’è di più. Zosima e Alesa brandiscono troppo disinvoltamente il principio che senza Dio non ci possa essere amore. In realtà, tra le righe de “I fratelli Karamazov”, si legge soprattutto una meravigliosa fede nell'uomo, anche se poi Dostojevskij si ostina a subordinarla alla fede in Dio. Il valore basilare che emerge dal romanzo è quello umano, imperniato sulla integrità ed inviolabilità dell’io individuale e sull’anelito ad una fratellanza universale. Spero di non essere considerato blasfemo se affermo che ne “I fratelli Karamazov” Dio è soprattutto tormento, eterno problema che affatica la mente e lacera l’esistenza degli uomini. A risplendere sul mondo enigmatico e colpevole dell’uomo è invece l’immagine luminosa di Cristo. E’ lui il vero, insostituibile punto di riferimento, ed è lui a ristabilire quella prospettiva terrena che mi preme venga riconosciuta al romanzo. Solo così è possibile far convivere l’umile e gioioso amore di Alesa con lo sconsolato atteggiamento di Ivan, il paradiso e l’inferno, ed apprezzare in giusta misura un romanzo che si rivela, nella sua capacità di “scrollare ogni briglia ideologica”, un inarrivabile capolavoro.
Indicazioni utili
IL POEMA DEL RIMPIANTO
“Sono come un uomo che sbadiglia a un ballo, ma non torna a casa a dormire solo perché non è ancora arrivata la sua carrozza. Ma appena la carrozza sarà pronta? Addio, allora.” (Michail Jurevic Lermontov)
“Evgenij Onegin” è un poema-romanzo dalla struttura estremamente complessa, nel quale si fondono, unificate dall’inimitabile stile puskiniano, molteplici intonazioni diverse: vi si trovano il tono sentimentale e quello satirico, l’elemento realistico e quello fantastico-onirico, la componente lirica e quella filosofica. Alla stessa stregua, la storia dell’”Onegin” può essere letta come quella di un amore affatto privato oppure, addentrandosi fra le righe, come il ritratto, più o meno realistico, più o meno oggettivo, di una generazione o addirittura di un’intera nazione. Non importa il punto di vista che si sceglie, perché i punti di vista sono tanti, e tutti indifferentemente legittimi. A me per esempio è piaciuto privilegiarne uno molto ristretto, forse parziale, ma a mio avviso affascinante. Ho deciso infatti di lasciare un po’ in disparte la figura di Evgenij, intesa sia come centro di rapporti con gli altri personaggi sia come precursore dei numerosi anti-eroi della letteratura russa successiva (da Pecorin a Oblomov), per concentrarmi su un particolare aspetto dell’opera puskiniana: la poetica del rimpianto.
“Evgenij Onegin” è, tra le altre cose, il poema degli addii: addio all’amore, addio alla giovinezza, addio ai romantici luoghi delle estati agresti. Emerge in continuazione, spesso slegata dalle esigenze dell’intreccio romanzesco, una vena malinconica e mesta che impregna di echi lirici e musicali le rime apparentemente distaccate dell’autore. Trasfigurato dall’ispirazione di Puskin, il tempo della narrazione non è più assimilabile al convenzionale presente della finzione letteraria, ma diventa quello di un passato ineluttabilmente lasciato alle spalle. Già i primi capitoli sono disseminati, sia pure in maniera molto sfumata, quasi a voler sembrare casuale, di fugaci accenni alla perdita della giovinezza: la nostalgia delle attrici e delle ballerine di una volta, inesorabilmente rimpiazzate da nuove e non più familiari fanciulle (“Col mesto sguardo non scorgerò / più i volti noti su una scena di noia”), la rievocazione dei “bei piedini” delle ragazze amate in gioventù (“Svanì la gioia giovanile / come la vostra orma gentile”), sono tutti pretesti per mostrare l’implacabile trascorrere del tempo. La distanza dagli anni giovanili è misurata tutta in termini sentimentali: il costante affiorare di un antico desiderio, mai sopito perché mai soddisfatto, sancisce con la sua sproporzione nei confronti dei sempre più flebili moti del cuore, l’impossibilità di tornare ad amare come una volta. “D’ogni età è amore; ma i suoi assalti / al giovin cuore salutari / sono come per i campi / a primavera i temporali: […] ma nell’età del declinare, / negli anni sterili, è tristezza / l’orma di una mortale ebbrezza: / fredda tempesta autunnale, / trasforma in palude il prato / e il bosco intorno ne è spogliato”.
Da questa inadeguatezza nasce il rimpianto, doloroso e pungente, mascherato appena da una intonazione a tratti sarcastica, a tratti cinica e disillusa. Lo stesso solipsistico elogio dell’egoismo e dell’individualismo (“Tu, di fantasmi inseguitore, / non sprecare più sforzi adesso, / ma unicamente ama te stesso”) non riesce a nascondere la delusione per la caduta delle illusioni e delle speranze giovanili. L’autore ironizza sì sul candore e sull’ingenuità di Lienskij, che dell’amore e del matrimonio vede solo i lati piacevoli, senza immaginare “di Imene i guai e gli scompigli / e il freddo turno degli sbadigli”; ma poi, in un accesso di sincerità, confessa: “Cento volte beato chi / fa tacere il ragionamento, / si affida al tenero suo cuore / come l’ebbro viaggiatore / all’albergo […] / Ma infelice chi sa già tutto / chi raggelato dall’esperienza / proibisce al cuore ogni demenza!”
Eppure, nonostante il disincanto di chi ha capito da tempo l’ineluttabilità della propria condizione, trapela a volte un attonito stupore, quasi che il poeta non riesca ancora del tutto a capacitarsi di avere definitivamente archiviato un’età della propria vita che prometteva di essere infinita. “Dov’è, miei sogni, la dolcezza, / rima eterna di giovinezza? / Davvero è appassita, è appassita / la ghirlanda della mia vita? […] / Davvero non tornano gli anni? / Davvero presto avrò trent’anni?”
La perdita della giovinezza, l’ingresso nel pomeriggio della vita, trova una felice corrispondenza nel ciclico susseguirsi delle stagioni. E’ soprattutto l’arrivo della primavera (il “mattino dell’anno”) ad ispirare, con il doloroso contrasto tra la vitalità della natura rifiorita e l’aridità del cuore appassito, una indicibile malinconia: “Com’è triste per me il tuo apparire, / primavera! Tempo d’amore! / Quanto agitato languire / nel mio sangue, nel mio cuore! […] / O forse estranea m’è ogni gioia / e tutto che rallegra e vive, / tutto ciò che brilla e ride, / porta solo tormento e noia / alla mia anima ormai spenta / che tutto tenebra gli sembra?”
Ma la primavera porta con sé anche il ricordo di antiche passioni e di notti arcane, di amori puri e appassionati ma – ahimè – sprecati con incosciente leggerezza. Davanti agli occhi del narratore scorrono, in un lugubre flashback, le immagini del proprio passato, quelle di Tatjana (“la mia cara Tatjana”) e del suo amore egoisticamente rifiutato dal protagonista, e ancora quelle dell’amico Lienskij, ucciso in duello e sepolto in un boschetto sotto “un pino antico”. In questa lunga carrellata di errori e, ancor peggio, di occasioni sciupate, la commozione è talmente sincera e autentica (anche se virilmente dignitosa e artisticamente controllata) che viene quasi naturale sovrapporre la figura dell’io narrante a quella di Onegin e di identificare l’uno con l’altro. Non si tratta, una volta tanto, di cedere alla tentazione di interpretare il romanzo in termini autobiografici. L’opera puskiniana è così stratificata, così ricca di piani di narrazione e di punti di vista, che anche ad una lettura poco approfondita di essa appare evidente che in più di un’occasione l’autore Puskin risulta terzo rispetto all’io narrante e questi a sua volta differisce dal protagonista. Eppure, se è innegabile che Puskin abbia messo, come è stato dimostrato da più di un autorevole critico, moltissimo di sé nell’”Onegin”, è altrettanto vero che il poeta che racconta la vicenda ha innumerevoli punti in comune con l’eroe, al punto che gli elementi di diversità (Onegin, ad esempio, non sa scrivere versi) o di incongruenza (la rivelazione dei meccanismi creativi del romanzo mette in risalto la natura fittizia, inventata dei personaggi) sembrano quasi essere stati accentuati ad arte per impedire una sgradita e imbarazzante identificazione. Non mi sembra davvero il caso di investigare a fondo sugli argomenti a favore di questa teoria (come la lettera di Tatjana, che nel terzo capitolo è davanti al poeta mentre nell’ottavo si dice essere nelle mani di Evgenij), a maggior ragione se si pensa che essa per me non è nulla più di un abbandono (illogico e irrazionale, perché no?) alla suggestione di immaginare un Onegin invecchiato che rievoca, in un raptus sublime di alienazione artistica, la propria privata vicenda come se fosse quella di una terza persona. C’è forse in lui il desiderio-necessità di trasfigurare il passato, di idealizzare gli anni giovanili “di ozio e di eccitamento” pieni, e a questo scopo il poeta si affida all’arte come all’estrema opportunità di salvezza. “Ma tu, giovane ispirazione, / muovi la mia immaginazione, / rianima il cuore sonnolento, / vola al poeta più sovente, / che tu non lasci raggelare / l’anima mia, né inacerbarsi, / né infine pietrificarsi / in questa ebbrezza mortale / del gorgo, dove sono immerso / con voi, cari amici, e perso!”
Ma neppure l’arte è in grado di modificare la percezione della propria vita, e un senso di tradimento (non solo perpetrato ma anche subito) e di rimorso per ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato è tutto quello che rimane in fondo all’animo. “Ma triste è pensare che invano / la giovinezza ci fu data, / che sempre tradita l’abbiamo / e che essa ci ha ingannato; / che le migliori aspirazioni, / le nostre più fresche visioni, / come foglie sono marcite / in un autunno infracidite.”
Il tempo, anziché suturare le ferite, le riapre impietosamente sotto forma di un invincibile rimpianto, condannando il poeta al tremendo supplizio di non poter più liberarsi dai fantasmi della vita e di doverli trascinare con sé fino al sepolcro, sperando forse nella comprensione dei posteri. E’ difficile però pensare a un Onegin che invecchia banalmente come una persona qualunque: come tutti gli eroi dell’epoca romantica, anche lui si trova di fronte al “quinto atto”, al momento del trionfo o della morte. Leggiamo attentamente gli ultimi versi dell’ottavo capitolo, quelli che chiudono il romanzo: “Molto il destino ci rubò! / Beato chi lasciò il festino / della vita senza bere / tutto il vino del bicchiere, / non lesse il suo romanzo fino / in fondo e seppe dirle addio / d’un tratto, come a Onegin io.”
Se accettiamo l’idea dell’identità tra narratore e Onegin, si prefigura addirittura in queste strofe, clamorosamente, il suicidio di questi: lungi dall’immaginare per se stesso un futuro di rivoluzionario decabrista, il poeta-eroe, straziato dal rimorso, capisce mestamente di dover lasciare la scena. La carrozza finalmente è pronta e la fine del festino non ci appare più come la conclusione della fatica poetica di Puskin, ma diventa il commiato, l’addio alla vita di un’anima esasperata e crudelmente punita dal destino, ma che al destino, in un ultimo impeto di dignità e di orgoglio, si ribella.
Indicazioni utili
AMORE E CANZONI
”Single è bello”, leggo, passando davanti a un’edicola, sulla locandina di una delle tante riviste trendy. Beh, a giudicare dalle vicende esistenziali di Rob Fleming, narrate in prima persona in “Alta fedeltà”, non si direbbe proprio. Autore di questo brillante, impudico e autoironico diario-manuale di istruzioni per scapoli impenitenti è Nick Hornby, il quale, se non altro per ragioni anagrafiche, può essere considerato l’alter ego del protagonista. Cinico e impietoso verso il proprio sesso, egli adotta in questo agile libretto il metodo dell’autoanalisi, per mezzo della quale, facendo muovere il suo novello Zeno attraverso esperienze al limite del grottesco o del ridicolo, riesce a comporre un abile ritratto generazionale. Hornby strizza spesso l’occhio ai suoi lettori, dandogli spesso del voi (“Ma prima di esprimere un giudizio, benché sia probabile che ne abbiate già formulato uno, provate a scrivere le quattro cose peggiori che avete fatto voi al vostro partner, anche se – specie se – il vostro partner non ne sa niente. Non indorate la pillola, non cercate di spiegarle; scrivetele punto e basta, stendete la classifica, con le parole più semplici possibile. Fatto? Ok, allora adesso lo stronzo chi è?”), sta sempre attento a rimanere in sintonia con il pubblico presumibilmente composto da trenta-quarantenni, eppure nonostante lo stile sia leggero e disinvolto, non per questo risulta meno profondo, anzi qua e là sparge con noncuranza autentiche perle psicologiche (“la débâcle con Charlie mi insegnò una cosa: devi incrociare i guantoni solo con gente del tuo stesso peso”; “Ero poco realista, chiaro. Sempre si corre il rischio di perdere qualunque persona meriti il nostro tempo, a meno di non essere così paranoici da scegliere qualcuno che non potremo mai perdere, qualcuno che non attirerà mai nessun altro”). Soprattutto, pur concedendo al protagonista una benevola indulgenza, Hornby è molto critico nei confronti della generazione dei suoi coetanei, quegli adulti mai veramente cresciuti (alla morte del padre, Laura confessa: “è la cosa più da adulti che mi sia capitata finora”) e bloccati da un paralizzante complesso di Peter Pan, nonostante le smanie di indipendenza e di autorealizzazione.
Lasciarsi aperte tutte le possibilità e non assumersi responsabilità di alcun genere è la vera filosofia di Rob, il quale arriva persino a pensare che è molto meglio rimanere da soli che correre il rischio di dovere un giorno veder morire la propria compagna. Rob è la quintessenza dell’edonismo e dell’egocentrismo contemporanei, in cui ciascuno crea un proprio mondo artificiale e asettico (simboleggiato dalla passione smisurata per la musica pop), al riparo (ma solo illusoriamente!) dai dolori della vita. Egli soffre sì per essere stato lasciato da Laura (o forse solo perché lei si è messa con un altro), ma non esita ad andare a letto con la prima ragazza che incontra, e, tra continue vigliaccherie, inibizioni e ipocrisie (solo temperate, ma non giustificate, dalla sincerità della confessione), l’unico atto morale che compie nel corso del romanzo è il rifiutarsi di comprare sottocosto una preziosa collezione di dischi che una donna vuole vendere per vendicarsi del marito che l'ha piantata. Il finale del libro, punteggiato da un'ossessiva compilazione di classifiche di tutti i generi (dai cinque migliori dischi sulla morte alle cinque più grandi delusioni amorose), è all’insegna dell’ottimismo, ma l’happy end (che assomiglia tanto a un regressivo ritorno all’adolescenza, con la festa organizzata al “Groucho Club” in cui Rob torna dopo tanti anni a fare il disk jockey con gli amici di oggi e di allora) non può ingannare: se il protagonista torna a vivere con la sua vecchia compagna non è per maturità o consapevolezza o perché ha imparato sulla sua pelle una dura lezione di vita, ma probabilmente solo per stanchezza e per pigrizia.
UN CLASSICO INDIMENTICABILE
“… di tutti gli scrittori che scoprì durante la sua reclusione, quello che le parlò di più fu Tolstoj, quel mago di Tolstoj, che aveva capito tutto della vita, secondo lei, tutto quello che c’era da sapere del cuore e della mente umana, maschile e femminile che fosse, com’era possibile, si chiedeva, che un uomo sapesse quello che Tolstoj sapeva delle donne, non aveva senso che un solo uomo potesse essere ogni uomo e ogni donna.” (da “4 3 2 1” di Paul Auster)
Nelle sue postille a “Il nome della rosa”, Umberto Eco si sofferma ad analizzare il significato da attribuire al romanzo storico e conclude che tre sono i possibili modi di raccontare intorno al passato. Il primo è quello, puramente immaginario e favolistico, del romance, dal ciclo bretone alla gothic novel passando attraverso le storie di Tolkien; il secondo è quello del romanzo di cappa e spada alla Dumas, in cui i personaggi storici sono utilizzati come mero pretesto per rendere più riconoscibile l’epoca narrata, mentre i personaggi di fantasia manifestano sentimenti che potrebbero essere indifferentemente attribuiti anche a personaggi di altre epoche; infine c’è il romanzo storico vero e proprio, in cui sia i personaggi dell’enciclopedia sia i personaggi inventati vivono, pensano e agiscono in un mondo che rimanda inequivocabilmente al passato, e ciò che essi fanno serve a far capire meglio ciò che è avvenuto, cioè la storia. “Guerra e pace” potrebbe a buon diritto essere fatto rientrare in quest’ultima categoria, insieme a capolavori come “I promessi sposi” o “La Certosa di Parma”, ma è davvero difficile resistere alla tentazione di considerarlo come un romanzo a se stante, incomparabile e inclassificabile, vuoi per la capacità di conferire un assoluto rilievo alla dimensione umana dei grandi protagonisti della storia (da Napoleone allo zar Alessandro e al generale Kutuzov) facendoli per la prima volta assurgere al ruolo di personaggi letterari veri e propri, vuoi per l’ambizioso tentativo di proporre una ampia e originale riflessione sul senso della storia.
Confesso di non amare particolarmente le pagine “storiche” di “Guerra e pace” e di non giudicarle, forse perché troppo tendenziose e filosofeggianti, tra le migliori in assoluto del romanzo, ma la lucidità e l’onestà di intenti che caratterizza l’analisi tolstojana, e l’importanza che le conclusioni raggiunte in questa sede dall’autore assumono, una volta applicate su scala più piccola, per la comprensione dei molteplici destini individuali, mi inducono a non parlarne in maniera frettolosa e superficiale. L’obiettivo di Tolstoj è dichiaratamente quello di smitizzare la storia e i personaggi che della storia sono i fautori. La scienza storica, da quando è sorta, tende infatti a spiegare gli avvenimenti attribuendoli sempre e comunque alla volontà di un solo individuo o di un numero ristretto di individui, siano essi condottieri, politici o pensatori. Il presupposto logico di una simile affermazione è che ogni volta che ci sono state le conquiste ci sono stati anche i conquistatori, ogni volta che si sono prodotti rivolgimenti negli stati si sono avuti grandi uomini, e ciò è dovuto, secondo gli storici, ad un preciso e innegabile rapporto di causa ed effetto. Con sottile e bonaria ironia, Tolstoj fa però osservare che se, “guardando il mio orologio, vedo che la lancetta si avvicina al numero dieci e sento che nella chiesa accanto le campane cominciano a suonare, dalla concomitanza di questi due fatti non ho il diritto di concludere che la posizione della lancetta del mio orologio è la causa del movimento delle campane”. In realtà, secondo Tolstoj, la storia non è affatto determinata dai grandi uomini, sebbene costoro si aggrappino vanamente all’illusione di dirigere il corso degli eventi. Durante la battaglia di Schoengraben, il principe Andrej, ascoltando le conversazioni di Bagration con i suoi ufficiali, nota con grande stupore che egli in realtà “non dava ordine alcuno, ma si sforzava soltanto di far credere che tutto ciò che capitava per forza del caso e per la volontà dei capi dei vari corpi si faceva solo per suo ordine o almeno conformemente alle sue intenzioni”. Questa singolare constatazione di Andrej si sposa bene con il paradosso tolstojano secondo cui più in alto si è nella piramide dell’autorità, più lontano ci si trova dalla sua base, e di conseguenza minore è l’effetto che si produce sulla storia. E’ sicuramente più esatto concepire la storia come la sommatoria di milioni di volontà individuali piuttosto che il prodotto della volontà di pochi uomini.
Come potrebbero, d’altronde, le volontà degli eroi determinare gli avvenimenti storici? La risposta sembrerebbe a prima vista estremamente semplice: per mezzo del potere. Ma a questo punto occorre spiegare in cosa consiste il potere, e se anche si concordasse sul fatto che il potere è la somma delle volontà trasferita in una sola persona non si risolverebbe il problema, anzi si entrerebbe in un circolo vizioso. A quale condizione infatti si trasferiscono le volontà delle masse in una sola persona? Probabilmente alla condizione che il personaggio eletto esprima la volontà di tutti. Così dicendo però si dimostra solo che il potere è il potere, vale a dire che il suo significato intrinseco ci sfugge. Ma se anche decidessimo di trascurare simili questioni, tacciandole di oziosità, e ci limitassimo ad osservare l’esperienza, la quale ci dice che la causa degli avvenimenti è la volontà di un uomo munito di potere e che tale volontà è espressa mediante gli ordini, non saremmo soddisfatti. Infatti, per ogni ordine eseguito, se ne hanno sempre moltissimi non eseguiti. Questi ultimi non sono attuabili perché non hanno alcun legame con gli avvenimenti; gli ordini eseguibili sono tali invece perché compatibili con la concatenazione degli eventi. In altre parole non sono gli ordini che precedono gli avvenimenti, ma viceversa; quindi un ordine non può essere la causa di un avvenimento, ma tra i due vi è tutt’al più un legame di interdipendenza. Osserva Tolstoj che “sull’esito di qualsiasi avvenimento sono tante e tali le previsioni che in qualsiasi modo questo evento poi si attui, si trova sempre della gente che dice: «Avevo detto fin da allora che sarebbe accaduto così», dimenticando che, fra le innumerevoli supposizioni, c’erano anche quelle del tutto opposte”. Nonostante la presunzione insita in questo modo di ragionare, gli storici hanno sempre buon gioco, a posteriori, nell’estrapolare dalla miriade di ordini che furono emanati un numero limitato di essi che concorda esattamente con gli avvenimenti prodottisi e nel supporre che tali avvenimenti siano derivati da questi ordini.
Per dimostrare, non solo dal punto di vista concettuale, la falsità di queste affermazioni, Tolstoj non esita a far uso di una satira mordace e beffarda. Riferendosi agli avvenimenti del 1812, vale a dire all’invasione della Russia ad opera dell’esercito francese, lo scrittore ribalta la tesi degli storici secondo le quali i Russi attirarono intenzionalmente i Francesi all’interno del loro paese, per fare terra bruciata intorno a loro e distruggerli all’arrivo della stagione fredda. Secondo Tolstoj, l’analisi dei fatti dimostra che né Alessandro né i capi militari russi avevano lo scopo preciso di attirare Napoleone indietreggiando, ma tendevano semmai al contrario. Se le cose andarono diversamente dalle intenzioni, che, lo ripeto, erano quelle di dar battaglia e di fermare a tutti i costi l'invasione del nemico, il motivo vero consiste esclusivamente nell’odio nutrito da Bagration nei confronti del comandante in capo dell’esercito, il tedesco Barclay de Tolly, e nel desiderio di riunire il più tardi possibile la propria divisione a quella dell’inviso superiore. “Tutto accade soltanto per caso”, come frutto di una serie incalcolabile di combinazioni e di coincidenze. Dietro a queste coincidenze (al cospetto delle quali diventano insignificanti e prive di importanza le cause a tutta prima più evidenti), Tolstoj vi scorge una legge necessaria e ineluttabile, ancorché non intelligibile. Riferire i fatti accaduti al caso non è infatti una spiegazione soddisfacente, ma semplicemente il risultato di una comprensione difettosa dei fenomeni. “Solo rinunciando a voler conoscere lo scopo prossimo e comprensibile, e ammettendo che lo scopo finale sia per noi irraggiungibile, noi vediamo una conseguenza logica nella vita; allora… non avremo più bisogno della parola caso… ma vedremo che questi avvenimenti erano inevitabili”. Tolstoj costruisce così una vera e propria filosofia dell’inevitabilità, sorretta dalla convinzione che gli uomini, e più degli altri i grandi uomini, non sono in grado di costruire la storia (della quale sono anzi altrettanti involontari strumenti) e che alla storia e alle azioni degli uomini presiede una misteriosa e inesplicabile Provvidenza.
Una volta raggiunta una simile consapevolezza, il passo successivo non può che essere la distruzione del concetto di libero arbitrio. E difatti Tolstoj, pur ammettendo che per la coscienza umana è difficile rinunciare all’idea che l’uomo è sempre libero di agire come meglio crede, afferma che, alla luce dell’esperienza e della ragione, le azioni dell’uomo soggiacciono inevitabilmente a leggi generali immutabili. Se è vero quindi che in ogni atto dell’uomo vi scorgiamo l’effetto in parte della libertà e in parte della necessità, ciò è dovuto esclusivamente alla nostra ignoranza di tutte le condizioni nelle quali si trova l’uomo il cui atto viene giudicato e di tutte le cause dell’atto stesso. Ogni ulteriore conoscenza in questa direzione altro non è se non un atto di sottomissione dell’essenza della vita alle leggi della ragione e della necessità. Dal punto di vista della storia, riconoscere la libertà degli uomini come forza sufficientemente grande perché possa influire sugli avvenimenti storici, è come per l’astronomia rinunciare alle leggi di Keplero e di Newton. Quindi, per poter formulare delle leggi storiche adeguate, è necessario abbandonare un’idea di libero arbitrio che è puramente illusoria e accettare invece una dipendenza che oggi ancora non conosciamo, ma che indubbiamente esiste.
Il simbolo più vistoso dell’impotenza storica dell’individuo è, in “Guerra e pace”, Napoleone Bonaparte. Napoleone, che appare finalmente non come una figura astratta ma come un personaggio in carne e ossa, rappresenta l’uomo scioccamente perduto nell’illusione di poter reggere da solo, con la propria intelligenza e la propria abilità di statista e di condottiero, le sorti del mondo. Di lui Tolstoj dice: “Napoleone… è come la figura scolpita sulla prua di un vascello, che i selvaggi prendono per la forza che lo guida durante la navigazione; in tutto questo tempo egli si comportò come un bambino che, tenendosi alle corregge fissate all’interno di una carrozza, si illude di guidarla”. Alla luce delle considerazioni fatte più sopra, la presunzione, l’orgoglio e la sicumera con cui egli si muove sul palcoscenico della storia, fanno necessariamente di lui un anti-eroe, un personaggio totalmente negativo. Sennonché, Tolstoj non si limita ad additare Napoleone come l’esempio di una grandezza umana destinata a ridimensionarsi drammaticamente nell’impatto con le leggi della storia: lo scrittore russo, di solito così misurato ed elegantemente distaccato, si accanisce in queste pagine a ridicolizzare impietosamente l’imperatore francese. Non c’è in lui un solo lineamento tragico, che susciti orrore o pietà: il Napoleone di Tolstoj è piatto, volgare, persino comico nella sua artificiosa ampollosità e nel suo falso sentimentalismo (basti pensare all’episodio dell’incontro con il cosacco Lavruska). Tolstoj, in fondo, non analizza per nulla la personalità di Napoleone, ma la distrugge soltanto, lasciando trapelare un astioso livore che mal si concilia con la pretesa di studiare in maniera obiettiva e spassionata le vicende storiche di quegli anni.
Al polo opposto nella variopinta scala dell’umanità tolstojana troviamo Platon Karataev, il soldato-contadino che Pierre incontra nel corso della sua drammatica prigionia e che, con la sua fede semplice e primitiva, gli permette di superare una intensa crisi interiore. Karataev è l’incarnazione della dolce, sorridente, contadina madre Russia: la sua voce è melodiosa e quasi effeminata, i suoi modi sono sempre affabili e gentili, i suoi discorsi vengono continuamente inframmezzati da motti e proverbi che rivelano una profonda saggezza popolare. Quando vuole riferirsi ai movimenti, al corpo e perfino al sorriso di Karataev, Tolstoj dice solamente che essi sono rotondi, e in questa “rotondità”, più che in ogni altra caratteristica, si rivela la sua piena appartenenza allo spirito della semplicità e della verità. Karataev sente e capisce che la vita è più forte di lui, che ciascun uomo è soltanto un fuscello nel burrascoso torrente dell’esistenza: è per questo che egli, senza far resistenza, rinunciando a qualsiasi volontà personale, accetta questo burrascoso torrente. Tale accettazione, lungi dall’essere una rassegnata rinuncia, è al contrario la massima espressione di amore per la vita, un amore intessuto di fede nella Provvidenza e di certezza che Dio è sparso in ogni cosa attorno a noi. “La sua vita, come egli la vedeva, non aveva significato considerata in se stessa. Acquistava significato solo come frammento d’un tutto, di cui egli sentiva costantemente la presenza”. La filosofia di Karataev si condensa in una parabola che egli ama raccontare sovente e ogni volta con un particolare senso di gioia. La storia narra di un vecchio mercante che viene ingiustamente accusato di un omicidio e condannato ai lavori forzati. Il vecchio, nonostante la sua innocenza, si sottomette di buon grado ai lavori forzati, accontentandosi di pregare Iddio di farlo morire presto. Quando dopo diversi anni il vero assassino, venuto casualmente a conoscere la triste vicenda e mossosi a pietà, scagiona finalmente il vecchio innocente, è troppo tardi: Dio lo ha già chiamato a sé. In questo racconto, che fa brillare gli occhi di Karataev di serena esaltazione e colma di confusa dolcezza l’animo degli ascoltatori, si può trovare la morale più profonda di “Guerra e pace”, vale a dire la remissiva e silenziosa accettazione della sofferenza in ossequio alla misteriosa e inesplicabile volontà del cielo.
Il personaggio storico più vicino a Platon Karataev è, in aperta contrapposizione a Napoleone, il generale Kutuzov. Il vecchio che si addormenta ai consigli di guerra, colui che fa di tutto per evitare uno scontro con l’esercito francese in ritirata, è per Tolstoj uno di quegli “uomini rari sempre isolati che, comprendendo la volontà della Provvidenza, sottomettono ad essa la propria volontà”. La sua lunga esperienza della vita, che si esprime, fra l’altro, in proverbi quali “tutto viene a tempo per chi sa aspettare”, “nel dubbio, astieniti”, “non c’è guerriero più forte di questi due: pazienza e tempo”, conduce Kutuzov alla convinzione che né i pensieri né le parole che servono ad esprimerli sono ciò che muove gli uomini. Egli perciò non dà mai ordini, ma si limita a contemplare con calma il corso degli eventi, agevolando ciò che gli sembra in armonia con esso, ostacolando ciò che non lo è. “Egli capisce che c’è qualcosa di più forte e importante della sua volontà: l’inevitabile corso degli avvenimenti, ed egli li sa vedere, ne sa comprendere il significato e, in considerazione di questo significato, sa rinunciare a prender parte in essi ed alla propria volontà personale”.
Tutti gli altri personaggi del romanzo si collocano idealmente tra questi due poli, Napoleone da una parte, Karataev e Kutuzov dall’altra, e quanto più sono vicini al secondo tanto più sono degli eroi agli occhi di Tolstoj. Mi sembra esemplare a questo proposito il complesso itinerario spirituale di Pierre Bezuchov. Pierre cerca con febbrile insistenza un saldo principio etico cui ancorarsi, interrogandosi continuamente sul senso della vita (“Che cosa è male? Che cosa è bene? Chi bisogna amare e chi bisogna odiare? Perché bisogna vivere? Che cos’è la morte? Che cos’è la vita? Chi sono io? E chi è la forza che dirige tutto?”). Posto dalla sua stessa ansia intellettualistica di fronte a questi angosciosi rovelli, Pierre reagisce in due modi: dapprima rifugiandosi nel vino, nelle donne, nelle distrazioni mondane per tentare di sfuggire all’insopportabile giogo della vita, di cui egli non vede che male e menzogna (“l’unica cosa che conta è salvarsi dalla vita come meglio si può! Occorre soltanto non vederla, questa spaventosa vita”); quindi inseguendo illusioni e falsi ideali nella politica, nella filantropia, nella massoneria o nella filosofia. I suoi sforzi sono tanto generosi quanto velleitari, se non addirittura patetici, come quando, convinto da cabalistici presagi, si propone di uccidere nientemeno che Napoleone Bonaparte. In realtà, Pierre è un uomo debole e inconcludente, un’anima smarrita che procede a tentoni, annaspando goffamente nel buio fitto del suo deserto spirituale. Ma è sufficiente il casuale incontro con Platon Karataev perché tutto improvvisamente si faccia chiaro in lui. Pierre capisce che non serve cercare lo scopo della vita, perché lo scopo della vita semplicemente non esiste, cancellato dalla fede, che è allo stesso tempo amore della vita e umile accettazione della propria condizione terrena. Il Dio che Karataev fa intravedere a Pierre è di gran lunga più grande, più infinito e più inaccessibile che non quell’entità astratta che prima, vanamente cercandola nei simboli esoterici dei libri massonici, chiamava Grande Architetto dell’Universo. Dio non è contenuto in formule vuote e fumose, ma è vicino a noi, in ogni luogo e in ogni cosa, e Pierre sperimenta questo non con le parole o con i ragionamenti, bensì con l’immediatezza dei sensi. “Prima non aveva saputo vedere in nessun posto quella grandezza inaccessibile, infinita… In tutto ciò che era familiare e comprensibile, egli vedeva solo qualcosa di limitato, di meschino, di comune, di assurdo. Si muniva d’una specie di cannocchiale morale e guardava lontano, là dove queste cose irrisorie e vane, dissimulate dalla lontananza brumosa, gli sembravano grandi e infinite solo perché non erano chiaramente visibili… Ora invece egli aveva imparato a vedere la grandezza, l’eterno, l’infinito in tutto; e per contemplare questo tutto, …, egli abbandonava il cannocchiale con cui fino ad allora aveva guardato sopra la testa degli uomini, e gioiosamente ammirava intorno a sé lo spettacolo della vita eternamente cangiante, eternamente grande, inaccessibile e infinito. E quanto più guardava da vicino, tanto più era tranquillo e felice… Ora alla domanda perché? Nella sua anima era sempre pronta una semplice risposta: perché c’è Dio, quel Dio senza la volontà del quale non cade un capello dalla testa dell’uomo”.
Un giorno Pierre fa un sogno molto significativo: egli vede la vita come una viva, tremolante sfera, la cui superficie è formata da milioni di gocce d’acqua, strettamente serrate fra loro. Al centro c’è una goccia più grande, quella di Dio: Dio è dunque dentro la sfera, nel cuore della vita, è la vita stessa; non sta in alto, lontano da noi. Tutte le gocce riflettono Dio: tendono a dilatarsi, a occupare il massimo spazio, in modo da poterlo riflettere in misura sempre maggiore. Le gocce inoltre si muovono e cambiano di posto in continuazione: molte si fondono in una, oppure una si suddivide in molte; ciascuna goccia cerca di espandersi, ma le altre spingono da ogni parte e a volte l’annientano, a volte si fondono insieme; e tutto questo movimento non è che il piacere dell’autoconoscenza di Dio. Questo sogno, che ad essere sinceri non possiede intrinsecamente un grande valore artistico, versa tuttavia una luce inattesa sulla concezione religiosa di Tolstoj: in esso infatti l’egoismo e la brama vitale, simboleggiati dalle gocce che tendono ad allargarsi, sono giustificati e consacrati non meno del comportamento opposto di annullamento di se stessi in Dio. Così Pierre, che cerca a tutti i costi di salvare la propria pelle, senza propositi eroici ma badando esclusivamente al proprio interesse personale, è altrettanto santo di Karataev il quale, dopo essersi perfettamente arrotondato, muore con la stessa indolore facilità del sonno. Il senso della trasformazione di Pierre è che la passività anziché l’aspirazione ad alti ideali, la remissività al destino piuttosto che il prometeico tentativo di scoprire le leggi dell’universo, l’amore concreto di sé e della vita anziché l’amore astratto per un’idea od un pensiero, sono le uniche strade possibili per raggiungere la felicità.
L’altro “cercatore di infinito” del romanzo, il principe Andrej Bolkonskij, pur seguendo un cammino spirituale per molti versi simile a quello di Pierre, subisce una sorte assai diversa da quella dell’amico. Quando conosciamo per la prima volta Andrej, egli ci appare freddo e altero, insofferente della vita dell’alta società pietroburghese e disamorato della giovane moglie Lise che in quella vita invece si trova pienamente a suo agio. Ciò che lo caratterizza, insieme alla noia snobistica e all’ironica indifferenza, è il razionalismo spietato che gli fa rifiutare la realtà che non obbedisce a nessuna forma e a nessun ordine razionale. Andrej è molto vicino a quel polo esistenziale negativo che prima ho identificato in Napoleone Bonaparte, e difatti anch’egli sogna con impazienza il giorno della sua Tolone, il giorno in cui, combattendo contro il suo idolo, potrà conquistare la gloria e la fama tra gli uomini. Ma nel corso della battaglia di Austerlitz, Andrej viene ferito gravemente e all’improvviso, mentre ancora giace disteso sul terreno del combattimento, percepisce la ridicola vanità delle ambizioni umane: “Sopra di lui non c’era nulla: soltanto il cielo, un cielo velato, altissimo, immensamente alto… «Che calma, che pace, che solennità, - pensava - che differenza con la nostra folle corsa, con le grida e la battaglia!… Come mai non ho notato prima quel cielo? Come sono felice di averlo scoperto, finalmente! Sì, tutto è vanità e tutto è menzogna, fuorché questo cielo sconfinato. Non c’è nulla, nulla: c’è solo questo cielo. Ma forse anche questo cielo non esiste: e c’è solo il silenzio e il riposo»”. Questa inattesa rivelazione non è ancora sufficiente a condurre Andrej alla percezione di Dio: quella forza indefinita e misteriosa che si è manifestata sotto forma di un cielo maestoso e lontano sfugge ad ogni umana comprensione, può essere il gran tutto oppure semplicemente il nulla. L’esistenza di Andrej è però inesorabilmente segnata da quell’istante: fatta eccezione per una breve infatuazione per le idee riformatrici del ministro Speranskij, Andrej è incapace di tornare alle passioni e agli interessi della vita terrena, chiudendosi sempre più in se stesso e immergendosi profondamente nella religione della morte. Solo l’impetuoso amore per l’incantevole Natasa riesce a risuscitarlo da quella torpida apatia, restituendogli la gioia di vivere e la fede nell’uomo. Anche questa vitalistica fiammata è però di breve durata: abbandonato da Natasa, la realtà gli si rivela irreparabilmente disgregata in innumerevoli e insignificanti frammenti: “Tutta la vita gli appariva come se egli a lungo l’avesse osservata attraverso il vetro di una lanterna magica, alla luce di un’illuminazione artificiale. Improvvisamente la vedeva non più attraverso il vetro dell’illusione, ma alla chiara luce del giorno, e ciò che vedeva erano quadri sbiaditi. «La gloria, il bene sociale, l’amore di una donna, la stessa patria! Come mi sembravano maestosi e magnifici questi quadri! Di quale profondo senso mi parevano impregnati! E tutto questo è ora così semplice, così pallido e rozzo, alla bianca e fredda luce di questo mattino…»”. Questa riflessione è quasi un presagio della sua fine imminente. A Borodino, Andrej viene ferito mortalmente e, in extremis, capisce che “qualche cosa c’è nella vita”: essa è l’amore per l’umanità, il sacrificio di se stesso (“Amare il prossimo, amare i propri nemici, amare tutto è amare Dio in tutte le sue manifestazioni. Amare una persona cara è amare di un amore umano, ma soltanto un nemico si può amare di un amore divino”). La morte di Andrej, anticipata da un bellissimo sogno in cui essa è paragonata a un risveglio, è tragica e naturale nello stesso tempo: “egli si allontanava sempre più profondamente, con tranquilla lentezza, verso l’ignoto”.
Credo sia sbagliato leggere l’episodio della morte di Andrej solo in termini positivi, come un sereno approdo alla placida e solenne quiete dell’eternità. Così come in vita Andrej era lontano dal mondo e privo di slancio vitale (è significativo che, guardando i suoi soldati lavarsi in uno stagno, egli provi ribrezzo per i loro corpi nudi, che gli appaiono solo come carne da cannone), allo stesso modo l’amore totale che sperimenta in punto di morte, seppur più elevato dell’amore prosaico e mediocre di Pierre, è un amore incorporeo, disincarnato, che rinnega in fondo la vita terrena. “Nelle ore di sofferente solitudine e di delirio che egli trascorse dopo la ferita, quanto più si addentrava col pensiero nel nuovo principio di amore eterno che gli si rivelava, tanto più, senza neppur rendersene conto, si estraniava dalla vita terrena. Amare tutto, tutti… significava non amare nessuno, significava non vivere di questa vita terrena”. La morte di Andrej è in realtà una cocente sconfitta.
Il fine dell’uomo si realizza anche e soprattutto attraverso la rinuncia ai grandi sogni e alle grandi aspirazioni della vita. Si consideri, ad esempio, il meraviglioso personaggio di Natasa: essa è una figura straripante di grazia e di sensualità, di giovanile voglia di vivere e di incosciente felicità. Così robustamente realistica, Natasa rappresenta l’incarnazione dell’eterno femminino, e più ancora il simbolo della natura, della vera natura russa. Ma facciamo un salto in avanti di qualche anno e, nell’epilogo di “Guerra e pace”, cosa vediamo? Dopo sette anni di matrimonio, “Natasa era alquanto ingrassata, si era fatta più florida, così che era difficile riconoscere in questa robusta madre di famiglia la sottile e vivace Natasa d’un tempo… Ella si trascurava a tal punto che i suoi abiti, il suo modo di pettinarsi, le sue parole fuori posto, la sua gelosia… erano oggetto di scherzo fra i suoi familiari”. Qual è il senso di questa trasformazione? Che rapporto c’è tra la Natasa che dieci anni prima faceva innamorare di sé tutti gli uomini e la Natasa che ora, col volto raggiante, accorre dalla stanza dei bambini per mostrare una fascia macchiata di giallo invece che di verde? La risposta, secondo Tolstoj, è che non vi è contraddizione alcuna, bensì un legame di organica successione e di sviluppo. La prima immagine di Natasa non si è rimpicciolita né offuscata o deformata, ma si è solo mutata, approfondita nella seconda. Solo la vecchia contessa, con il suo senso materno, capisce che tutte le irrequietezze e gli impeti giovanili di Natasa nascevano dal desiderio di sposarsi e di avere una famiglia. Ora che Natasa può concedersi completamente a suo marito, in un legame indefinito ma “saldo e solido come il legame della propria anima al suo corpo”, ella non ha più bisogno del fascino e della poesia che prima la rendevano così amabile, perché finalmente ha raggiunto la completezza della propria natura, che consiste nell’essere una madre forte, bella e feconda, di cui “si scorgevano il volto e il corpo, ma non l’anima”. Si capisce così che sposo di Natasa non poteva essere altri che Pierre Bezuchov, non il Pierre misticheggiante e pieno di nobili ideali ma il Pierre preoccupato anzitutto della soddisfazione dei propri impulsi naturali. C’è nel romanzo una frase molto illuminante a questo proposito: è quella con cui Pierre, innamorato segretamente di Natasa, si rivolge alla ragazza, ancora in lutto per la morte del principe Andrej, rivendicando il suo diritto alla felicità: “Io non sono colpevole di essere vivo e di voler vivere; e neppure voi”.
Pierre e Natasa esemplificano bene la filosofia di “Guerra e pace”, che si sostanzia in pochi, semplici principi: privilegiare la vita privata, accontentarsi di stare al proprio posto, agire per il proprio tornaconto. Per gli eroi tolstojani non esiste altra via d’uscita: o muoiono o giungono a questo punto. Nikolaj Rostov, il fratello di Natasa, è anch’egli un personaggio mediocre e limitato. Come la sorella, non possiede il senso dell’infinito, non sospetta cioè che esistano valori non immediatamente riconducibili al “qui”; non ha dubbi o incertezze di sorta, ma tutto per lui è reale, evidente e definito, come le parti fissate nel gioco della caccia. Ciononostante Nikolaj è un personaggio totalmente positivo, e questo, ora che abbiamo imparato a capire la morale tolstojana, non ci deve sorprendere. La forza di questa colonna della patria, della famiglia e del matrimonio consiste proprio nella sua limitatezza: se, ad esempio, egli tratta umanamente i contadini della sua proprietà, non lo fa per ragioni etiche o liberali (egli è al contrario un rigido conservatore) ma solo perché identifica i contadini con il proprio tornaconto, e non esita a maltrattarli violentemente se essi vanno contro ai propri interessi. Coerentemente con queste idee, Tolstoj giunge a sostenere che, nel corso dell’invasione napoleonica, gli elementi più utili alla salvezza della patria furono proprio quegli uomini che non si curarono affatto dell’andamento generale delle cose, ma si lasciavano guidare solo dagli interessi personali e contingenti, senza abnegazione ed eroismo. Personaggi come Andrej o Sonja, nettamente migliori sotto molteplici punti di vista ed animati da autentico spirito di sacrificio, sono invece condannati ad essere messi impietosamente da parte dalla cieca forza della vita. Con il suo solito acutissimo intuito, Natasa dice giustamente di Sonja: “Sai?… c’è un versetto che si applica esattamente a Sonja. «A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto». Ricordi? Ella è colei che non ha: perché? Non lo so: in lei forse non c’è egoismo; non so, ma tutto le sarà tolto, tutto le è stato tolto… E’ un fiore sterile, sai? come ce ne sono sulle piante di fragole. A volte mi fa molta compassione, ma altre volte penso che non senta come lo sentiremmo noi”. Natasa ha visto giusto: Sonja non è egoista; ella ha sacrificato la sua vita all’amore (non corrisposto) per Nikolaj e la vita, crudele, l’ha punita. Il destino di Sonja è la legittimazione di una sorta di principio di selezione naturale, in base al quale sopravvivono e sono destinati alla felicità non i più virtuosi e i più meritevoli, ma coloro che possiedono il dono della vita, quella grazia naturale che proprio sull’egoismo si fonda.
L’uomo è fatto per la felicità, viene detto più volte nel corso del romanzo; questa felicità, però, deve essere strenuamente difesa dalla realtà. Pierre, ad esempio, si sente sempre più distante da Karataev a mano a mano che le forze fisiche di quest’ultimo vanno decadendo, e, quando i francesi lo fucilano perché non riesce più a camminare con gli altri prigionieri, Pierre finge con se stesso di non essersene accorto, per non compromettere con lo spettacolo straziante di una realtà che egli non sa impedire il nuovo equilibrio morale da lui conquistato in prigionia, e per tanta parte legato all’esempio stesso di Karataev. Il diritto legittimo dell’uomo alla felicità implica perciò come condizione necessaria il bisogno di chiudere vigliaccamente gli occhi di fronte al problema del male. Queste conclusioni sanciscono a mio parere la convinzione che il cristianesimo di Tolstoj sia più razionale che mistico, più terrestre che soprannaturale. Nel cuore dell’uomo che si sottomette a Dio non ci sono infatti amore e fiducia, ma paura e tormento. Si annida in fondo al suo animo un terribile pensiero: io so che Tu sei un Signore crudele; anche se io non Ti darò il mio cuore, Tu lo prenderai ugualmente, lo prenderai con la forza; se io mi rassegno, perciò, è solo per fare buon viso a cattiva sorte. Ebbene, non è forse vero che un semplice capello divide qui la più grande umiltà dalla più grande rivolta? La dottrina dell’accettazione e della passività nella quale il cristianesimo tolstojano si concreta, inoltre, va sì nella direzione di una sostanziale negazione dell’individuo, ma è anche supportata, non va dimenticato, dalla considerazione che, di fronte all’insondabile mistero della vita, è più conveniente vivere nell’illusione di un Dio “senza la volontà del quale non cade un capello dalla testa dell’uomo” piuttosto che sbattere la testa contro l’insormontabile muro del significato dell’esistenza. Lo stesso Pierre, che all’inizio del romanzo si proclama ateo, rivela nel colloquio col massone il suo inesauribile, “razionale” bisogno di credere (e difatti “Pierre aveva timore dell’oscurità e della debolezza degli argomenti del suo interlocutore, temeva di non potergli credere”).
Nelle pagine in cui più scoperto è il messaggio religioso di “Guerra e pace”, Tolstoj si trova tra due limiti. Il primo è quello espresso dal principe Andrej morente: “Gli uccelli che volano nell’aria non seminano e non mietono, ma li nutre il Padre Vostro che sta nei cieli”. Il secondo, cui aderiscono istintivamente Natasa, Nikolaj e, alla fine, Pierre, è rappresentato dalla lotta per l’esistenza come dovere dell’uomo. Tolstoj non mi sembra che in questo frangente si trovi del tutto a suo agio: per congiungere i due limiti, egli mescola i suoi ingredienti, prendendo un po’ di timida “inerzia” buddistica invece della troppo audace spensieratezza evangelica, un po’ di darwiniana “lotta per l’esistenza”, invece delle troppo minacciose parole dell’Antico Testamento: “mangerai il pane col sudore del tuo volto”. Ritrova comunque armonia e coerenza in quello che è il pilastro centrale della sua impalcatura filosofica: la constatazione che gli individui, pur credendo di essere liberi e di muoversi autonomamente sulla strada della vita, non sono per nulla padroni del loro destino. Come il corso della storia è determinato (lo abbiamo visto all’inizio di questa trattazione) da una istanza superiore, così la vita umana è tutta intessuta di necessità. Quando Pierre viene presentato alla bella Helene, egli capisce subito di non amarla, eppure non è minimamente in grado di opporsi al matrimonio che intorno a lui si sta organizzando. La frase che un’anziana ospite dei Kuragin dice nella circostanza (“Les mariages se font dans les cieux”) suona qui come una battuta beffarda, ma assume nel contesto del romanzo una sua incontestabile verità. Allo stesso modo, Natasa, pur legata al principe Andrej che ama, non può fare a meno di cedere alla violenta passione che l’affascinante Anatol scatena in lei. Quando, nell’epilogo, si chiude il sipario sui protagonisti, noi abbiamo la precisa sensazione che la loro sorte non poteva essere diversa, e se per caso ci accadesse di riprendere in mano il romanzo, difficilmente potremmo sottrarci alla tentazione di leggere ogni accadimento della vita dei personaggi come rivolto necessariamente a realizzare ciò che Tolstoj fa abilmente discendere, attraverso una fitta trama di combinazioni solo in apparenza fortuite, dalla sua teoria dell’inevitabilità.
Mentre ne “I fratelli Karamazov” il ruolo del peccato nella vita dell’uomo è tragicamente mostrato nella sua duplice valenza, come diabolica attrazione verso l’abisso ma anche come vivo anelito di redenzione, in “Guerra e pace”, proprio a motivo del fatalismo di cui il romanzo è impregnato, il peccato è semplicemente assente, oppure è visto come un’insana ribellione all’ineluttabile. Tolstoj disprezza profondamente Napoleone, e non perde mai occasione per schernire la sua stupida vanagloria, ma poi, in ossequio alle convinzioni finora esposte, è costretto ad ammettere che l’imperatore francese era solo uno strumento della storia, “destinato dalla provvidenza alla triste e servile parte di carnefice dei popoli”. Napoleone è quindi colpevole della sua prosopopea e del suo smisurato orgoglio, ma non dei milioni di morti lasciati sui campi di battaglia nel corso delle sue campagne. Se la storia doveva necessariamente andare in quella direzione, è indifferente che alla testa dell’esercito francese ci fosse Napoleone o un qualsiasi altro generale dell’epoca: costui, in fin dei conti, sarebbe stato soltanto una vittima, un capro espiatorio. Se si vuole però evitare che il problema del male venga scandalosamente e opportunisticamente accantonato, bisogna avere il coraggio di sostenere che, se è vero che quell’”opera orrenda” che è la guerra “si compie non per volontà degli uomini, ma per volontà di Colui che regge uomini e mondi”, allora è altrettanto inevitabile chiamare in causa Dio come imputato principale. In “Guerra e pace”, Dio si mostra ai nostri occhi in diversi modi: il Dio cristiano di Maria è una pura istanza amorosa, il Dio del principe Andrej è un principio vuoto e infinitamente lontano, il Dio di Pierre è armonicamente panteista. Ma nelle pagine storiche, non c’è alcun dubbio, Dio si rivela atroce e tirannico, inesorabile nel chiudere le porte ad ogni speranza di redenzione. Laddove la vita elegge i propri beniamini, Pierre anziché Andrej, Natasa anziché Sonja, Dio si rivela inoltre terribilmente parziale e crudele: a chi ha la sola colpa di non aver ricevuto il dono prezioso della gioia, Egli riserva infatti un futuro di solitudine e di desolazione, di lacrime e di morte.
“Guerra e pace” è un libro intessuto di molteplici contrapposizioni: c’è quella, fondamentale nell’economia del romanzo, tra Napoleone e Kutuzov, quella tra Mosca e Pietroburgo (“Tutti gli innumerevoli modi di vivere si possono suddividere in due gruppi: quello in cui prevale il contenuto, la sostanza, e quello in cui prevale la forma. Al primo gruppo appartiene il modo di vivere di Mosca, al secondo quello di Pietroburgo”), quella tra la civiltà russa e la civiltà francese, e molte altre ancora. Uno dei contrasti più appariscenti ed importanti è quello tra il mondo genuino e autentico degli “eroi” tolstojani (i Rostov ed i Bolkonskij) e il mondo artefatto e finto dei salotti e dei ricevimenti. Accanto a quello storico e a quello individuale, l’ambiente dell’alta società russa del XIX secolo rappresenta il terzo côté del romanzo. I salotti di Anna Pavlovna Serer e di Helene Bezuchova, dove si svolgono fastose riunioni mondane cui partecipano i personaggi più in vista del tempo, sono inequivocabilmente il regno del falso: tutti coloro che vi sono introdotti, anziché essere semplicemente se stessi, si adattano a recitare una commedia preconfezionata e, ciò che più conta, tutti sono perfettamente coscienti di questa finzione. I vari principi Vasilij, Anna Pavlovna e Anna Michajlovna rivestono con ben dissimulata affettazione un unico, immutabile ruolo, quello cioè che gli altri si aspettano da loro, e, lungi dal cercare di esprimere una propria autenticità, ripropongono all’infinito stereotipati modelli di comportamento, che non è lecito disattendere. A noi lettori sembra quasi di assistere ad una rappresentazione teatrale, in cui ognuno, senza eccezione di sorta, indossa fino all’ultima scena la sua brava maschera. E’ per questo che, quando entra per la prima volta in società, Pierre vi getta lo scompiglio, perché la sua ingenua schiettezza e la sua semplicioneria mal si adattano a quegli schemi paludati e uniformi. Tutti in questo ambiente si accalorano e si entusiasmano parlando della guerra, eppure nulla qui è in realtà più lontano della guerra, gli echi della quale non hanno nulla della spaventosa drammaticità dei campi di combattimento, ma sono solo meri pretesti per dar sfoggio della propria abilità nell’arte della conversazione. Tolstoj è indubbiamente critico nei confronti di questa società, fatta di artifici, ipocrisie e dissimulazioni, eppure non si può negare che egli la osservi, non solo con grande competenza, ma anche con un pizzico di malcelata simpatia, facendole sì qualche sberleffo con garbata ironia, ma mai deridendola apertamente.
La capacità di armonizzare e di fondere indissolubilmente tra loro una mole così ampia e così varia di situazioni artistiche, storiche e filosofiche è forse il pregio maggiore di “Guerra e pace”: è con pieno merito che questa potente epopea ottocentesca è stata tramandata ai posteri come una delle più grandi opere della letteratura di tutti i tempi. Tolstoj vi dispiega uno stile inconfondibile, olimpicamente tranquillo e sereno anche quando è accorato e triste. E’ con notevole sobrietà, senza mai adoperare una parola di più del necessario che Tolstoj è in grado di ottenere effetti sublimemente tragici. Per fare un esempio significativo, è sufficiente al grande scrittore russo un’unica, breve frase per descrivere la fine del principe Nikolaj Bolkonskij: “Una gran folla di servitori e di militi le veniva incontro, e in mezzo a quella folla alcuni uomini reggevano da sotto le ascelle il piccolo vegliardo nell’alta uniforme coperta di decorazioni”. In quel corpo inerme, ancora rivestito dei simboli dell’illusoria potenza terrena, è racchiuso perfettamente, senza un solo effetto superfluo, l’intero senso della nullità del vecchio principe, prima aristocraticamente sprezzante e altero, di fronte alla morte. Tolstoj è anche un maestro nel descrivere la complessa psicologia dei suoi personaggi. Il suo procedimento artistico preferito è quello che va dal visibile all’invisibile, dal corporeo allo spirituale: così la pigra pinguedine senile di Kutuzov, le mani piccole e bianche di Napoleone, la rotondità di Karataev, le spalle marmoree di Helene, il piccolo labbro superiore di Lise coperto da un’ombra di peluria, dicono di più sull’animo di questi personaggi che non lunghe frasi zeppe di minuziose notazioni psicologiche. E’ principalmente in questo modo che Tolstoj rivela la sua strabiliante e ineguagliabile capacità di narratore: personaggi come Natasa, Nikolaj e Andrej sono figure indimenticabili che, fin dal loro primo apparire, si imprimono in maniera indelebile nella nostra mente. E’ per questo motivo che, dovendo scegliere tra il Tolstoj pensatore e filosofo e il Tolstoj disegnatore di memorabili caratteri umani, non ho alcun dubbio: il secondo è di gran lunga il migliore.
Indicazioni utili
"Vita e destino" di Vasilij Grossman
IL ROMANZO DEI DESTINI CHE SI BIFORCANO
“Il tempo si biforca perpetuamente verso innumerevoli futuri” (Jorge Luis Borges, “Il giardino dei sentieri che si biforcano”)
In uno dei suoi racconti più famosi, contenuto nella raccolta “Finzioni”, Borges immagina un libro-labirinto in cui ogni evento può condurre a una molteplicità di conseguenze, e queste a loro volta ramificarsi in altrettanti scenari diversi, e così via fino a ipotizzare un’infinità di futuri alternativi. “In tutte le opere narrative, ogni volta che s’è di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre” mentre in questa fantomatica opera “ci si decide – simultaneamente – per tutte. Si creano, così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano. […] Questa trama di tempi che s’accostano, si biforcano, si tagliano o si ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità.” Partendo da una simile, vertiginosa premessa, Paul Auster sceglie di costruire quattro versioni differenti del suo protagonista, raccontandole in parallelo, saltando dall’una all’altra per poi tornare alla prima e così via fino alla fine delle quasi mille pagine del libro, e, muovendosi da un punto di partenza comune a tutte, si diverte a osservare come gli innumerevoli e imprevedibili casi della vita le conducano progressivamente verso destini non solo non coincidenti tra loro, ma anzi profondamente differenti. All’inizio del romanzo, dopo un prologo che serve a presentare i genitori del protagonista, Stanley e Rose, lui proprietario di un avviato negozio di elettrodomestici, lei titolare di un piccolo studio fotografico, ci troviamo nel 1947, anno di nascita del loro unico figlio, Archie Ferguson. Da qui in avanti la storia si dipana seguendo le vicissitudini alternative dei quattro Ferguson, tra fortune impreviste e disgrazie improvvise, amicizie ed amori, film e romanzi, baseball ed università, Parigi e New York. Ovviamente ci sono delle “sliding doors” che costituiscono dei veri e propri punti di svolta della vicenda, come la sorte del negozio che, nella versione più ottimistica, ottiene un notevole successo commerciale, assicurando in tal modo la prosperità economica della famiglia, mentre nella versione più pessimistica, finisce divorato dalle fiamme insieme al capofamiglia, trasformando Ferguson in un orfano. E’ il caso a dominare l’universo di Auster, se si pensa che anche un semplice incontro di baseball può condurre a conseguenze imprevedibili, trascendendo completamente qualsiasi velleità di controllo e di autodeterminazione della propria esistenza. In questo senso “4 3 2 1” mi ricorda un vecchio film polacco di Krzysztof Kieslowski, “Destino cieco”, in cui un banale scontro con un mendicante alla stazione ferroviaria mentre sta cercando di prendere il treno per la capitale conduce il protagonista Wytek, a seconda che riesca o meno a salire sul treno, a tre antitetici futuri alternativi: nel primo Wytek diventa un membro del partito comunista, nel secondo partecipa alla lotta clandestina contro il regime, nel terzo finisce per scegliere un atteggiamento apolitico concentrandosi sulla carriera e sulla famiglia. Si capisce bene che credere o meno all’univocità del proprio destino porta a conseguenze filosofiche, morali e religiose molto differenti. Si pensi alla scelta tra bene e male, tra giusto e sbagliato, su cui spesso si trova a riflettere Ferguson. C’è una illuminante pagina in cui Ferguson immagina di dover recarsi in automobile a un importante appuntamento e di avere a disposizione due strade alternative. Se non ci sono contrattempi di sorta scegliere una strada o l’altra è assolutamente indifferente. “Ma è qui che diventa interessante. Prendi la strada principale, c’è un tamponamento a tre, il traffico è fermo per più di un’ora, e mentre sei nella tua auto pensi solo alla strada secondaria e ti chiedi perché non l’hai presa. Ti maledici per aver fatto la scelta sbagliata, eppure come lo sai se hai sbagliato davvero? Vedi mica la strada secondaria? Sai cosa sta succedendo sulla strada secondaria? Qualcuno ti ha detto che una sequoia enorme è caduta sulla strada secondaria e ha schiacciato un’auto in transito, uccidendo il conducente e paralizzando il traffico per tre ore e mezza? Qualcuno ha guardato l’orologio e ti ha detto che se avessi preso la strada secondaria l’auto rimasta schiacciata sarebbe stata la tua e tu saresti morto? O ancora: non è caduto nessun albero e hai sbagliato a prendere la strada principale. O ancora: hai preso la strada secondaria e l’albero è caduto sul conducente davanti a te, e mentre sei nella tua auto a rimpiangere di non aver preso la strada principale, non sai niente del tamponamento a tre che ti avrebbe comunque fatto perdere l’appuntamento. O ancora: non c’è stato nessun tamponamento a tre e hai sbagliato a prendere la strada secondaria.” La morale della storia, conclude Ferguson, è che non è mai possibile sapere se si è fatta la scelta sbagliata, a meno di non essere in due posti nello stesso momento, cioè a meno di non essere Dio. C.S. Lewis, in un libretto intitolato “Il Cristianesimo così com’è”, paragonava l’essere al di fuori del tempo da parte di Dio (per cui, ad esempio, “se alle dieci e mezzo ci sono un milione di persone che Lo pregano, non occorre che Dio le ascolti tutte in quel granello di tempo che chiamiamo le dieci e mezzo” in quanto “Egli ha a disposizione tutta l’eternità”) all’attività di uno scrittore, il quale non è condizionato dal tempo immaginario del suo romanzo, potendo soffermarsi per ore su una singola frase del racconto oppure contemplare l’inizio e la fine della storia nello stesso momento, così come Dio nella sua eternità può vedere il presente, il passato e il futuro. Questo paragone tra Dio e lo scrittore non mi sembra ozioso, in quanto in “4 3 2 1” (sebbene di Dio non vi sia quasi traccia) Paul Auster, che è un artista che nei suoi romanzi (si pensi solo a “Trilogia di New York”) si addentra sovente in territori meta-letterari, equipara il ruolo dello scrittore a quello del demiurgo. Non è un caso che tra la creazione letteraria e la vita, intesa nel senso borgesiano visto finora, vi sia una sorprendente affinità (“Ogni frase era una lotta, ogni parola di ogni frase avrebbe potuto essere una parola diversa”), nel senso che anche di un libro potrebbero esistere infinite versioni, a seconda del particolare stato d’animo o dell’ora della giornata in cui lo scrittore si mette di fronte alla pagina bianca. E non è un caso anche che tutti i Ferguson abbiano in qualche modo a che fare con la scrittura (dal giornalismo alla poesia, dalla narrativa alla autobiografia), assurgendo in un certo senso ad alter ego di Auster. Anzi, con un sorprendente colpo di scena finale, lo scrittore spariglia le carte e, mescolando la finzione con la realtà, la fantasia con la storia, l’invenzione con la biografia, confonde il creatore con le sue creature e si mette arditamente faccia a faccia con il lettore, senza più alcuna distanza, alcun filtro protettivo.
“4 3 2 1” è un libro che si interroga sul concetto di identità e sul ruolo del caso (o del destino che dir si voglia). Se è vero che ognuno di noi può essere differente a seconda di ciò a cui gli avvenimenti, spesso le coincidenze fortuite, ci mettono di fronte, cosa possiamo dire di noi? Chi realmente siamo? C’è una versione di noi stessi che si possa definire più autentica? Siamo artefici del nostro destino o siamo delle semplici marionette governate dalle circostanze? Se per Pirandello l’uomo è “uno, nessuno, centomila” a seconda di come gli altri lo vedono, per Auster questa frammentazione diventa interna all’individuo, in quanto tutte le vite, quella reale e quelle non vissute, formano un labirinto in cui la ragione inesorabilmente si perde, passando dalla molteplicità del possibile alla unicità della realtà. Il compito dell’autore, di Paul Auster come del Ferguson-scrittore, diventa quindi quello di ricondurre a unità il molteplice, di elaborare il lutto di tutte le vite che non abbiamo vissuto, facendoci accettare l’unica che abbiamo intrapreso e assolvendoci dai sensi di colpa per quello che avremmo potuto essere e non siamo diventati.
Visto in questa ottica “4 3 2 1” è un romanzo caratterizzato da una densità filosofica impressionante. Eppure, anche se finora l’ho voluto presentare soprattutto come un romanzo capace di sviscerare una miriade di possibilità narrative, esso è anche un libro insolitamente essenziale, dotato di una facilità di racconto che potrebbe definirsi addirittura dickensiana, un libro avvincente che, nonostante la sua mole, si legge con incredibile velocità. La scrittura di Paul Auster è estremamente elaborata, ma come spesso capita con i grandi maestri (penso ad esempio a Philip Roth), questa complessità di stile non va mai a discapito della semplicità e della “leggibilità”. Auster sa dare vita a personaggi memorabili, destinati a rimanere a lungo nei ricordi del lettore (personaggi che a volte compaiono in momenti differenti delle vite di Ferguson, in alcuni casi stagliati più vividamente in primo piano, in altri più sfumati sullo sfondo, a riprova del fatto che, nonostante la divaricazione dei futuri del protagonista, vi sono alcune costanti ineliminabili). Si pensi ad Amy, l’amica vivace, passionale, volubile e sensibile ai problemi sociali, “la straordinaria Amy Schneiderman, la ragazza che Ferguson aveva desiderato con tanta disperazione da soffrire ancora al pensiero di quello che avrebbe potuto essere e non era stato”. O alle altre figure femminili che attraversano la vita di Ferguson, lasciando una inconfondibile scia che permette a “4 3 2 1” di essere anche un mirabile saggio sul desiderio amoroso, in un’età (l’adolescenza e la prima giovinezza) in cui certe emozioni (il primo bacio, la prima volta, l’erotismo, la sensualità, la passione, il dolore di un addio, la nostalgia di una lontananza) si scolpiscono indelebilmente nell’animo umano. Come tutti i grandi romanzi americani, “4 3 2 1” è anche uno straordinario affresco storico: le traiettorie dei quattro Ferguson attraversano anni cruciali della storia degli Stati Uniti, dall’assassinio di Kennedy a quello di Martin Luther King, dalla guerra in Corea a quella del Vietnam, dalle lotte per i diritti civili alle contestazioni studentesche, dalle insurrezioni razziali agli scandali politici, fondendo in maniera apprezzabile il privato con il sociale, il singolare con il collettivo, ricordandoci che l’uomo non può mai essere definito al di fuori del contesto storico in cui vive e agisce. “4 3 2 1” è infine un romanzo straordinario, un libro che, come tutti i veri capolavori, apre spiragli di inusitata suggestione, lasciando intuire molto più di quello che appare sulla pagina scritta, un libro che dà le vertigini e si vorrebbe non finisse mai (che bello se ci fossero altri cinque, dieci, cento Ferguson), ma che nel momento in cui finisce sa lasciare di stucco per la sua capacità di esaurire l’inesauribile, di contenere l’incommensurabile.
Indicazioni utili
ALLA DERIVA NELL'OCEANO DELLA STORIA
“Fu allora che la Penisola Iberica si mosse un altro po’, un metro, due metri, per provare le forze… Dopo ci fu una pausa, si sentì passare nell’aria un grande soffio, come il primo respiro profondo di chi si sveglia, e la massa di pietra e terra, coperta di città, villaggi, fiumi, boschi, fabbriche, macchie incolte, campi coltivati, con la sua gente e i suoi animali, cominciò a muoversi, come una barca che si allontana dal porto e punta al mare di nuovo ignoto.”
“Nelle varie arti, e in quella dello scrivere per eccellenza, la via migliore fra due punti, anche se vicini, non è stata, e non sarà, e non è la linea che si chiama retta, mai e poi mai”. Fedele a questa massima, nelle oltre trecento pagine de “La zattera di pietra” Josè Saramago, se si può usare un termine che ben si adatta anche ai suoi nomadi personaggi, peregrina in una narrazione svagata, decontratta, quasi priva di una vera progressione drammatica (dal momento che procede orizzontalmente, per semplice accumulazione di fatti, come se non dovesse avere mai termine: sarà forse per questo motivo che le parti più deboli dei libri saramaghiani sono proprio i finali?), concedendosi più del solito divagazioni, incisi e parentesi. A Saramago piace, va detto in maniera chiara e decisa, la digressione, anche quella apparentemente più inutile, quella che fa per così dire perdere il filo del racconto. Frasi come “trascorsi quindici minuti, che, come si dice, parvero quindici secoli, benché questi ultimi nessuno li avesse ancora vissuti per poterli paragonare a quelli,…” abbondano nel romanzo, a volte affascinano, a volte infastidiscono, ma costituiscono l’essenza stessa dello stile di Saramago. Egli non è per nulla convinto, andando contro alle elementari leggi della narrazione, che la prolissità sia un difetto: “…la concisione non è una virtù definitiva, talora si perde perché si parla molto, d’accordo, ma quanto si è guadagnato per aver detto più del necessario". L’umanesimo di Saramago è talmente affascinato dai suoi uomini e dalle sue donne da preferirli addirittura, e di gran lunga, alle sue storie, fino al punto di usare una sorta di lente di ingrandimento deformante che enfatizza i dettagli che li riguardano (o che riguardano comunque cose su cui nessuno scrittore si soffermerebbe, considerandola una perdita di tempo) assai più dei fenomeni macroscopici (come l’apocalittica separazione della penisola iberica dall’Europa, con i suoi surreali sviluppi, per le quali Saramago usa un tono esauriente per dovizia di informazioni, ma freddo, cronachistico e distaccato). Con arguta ironia, il nostro autore attribuisce la sintesi e l’ellissi che la maggior parte dei romanzieri usa quando, ad esempio, sorvola su un episodio lungo e ripetitivo come un viaggio in auto a nient’altro che mancanza di fantasia e di immaginazione. Così, quando José Anaiço, Joaquim Sassa e Pedro Orce si incontrano per la prima volta sotto un olivo, Saramago ha lo scrupolo di precisare che si tratta di un olivo cordovil: “Ma dire che l’olivo è cordovil servirà almeno a osservare fino a che punto furono negligenti, per esempio, gli evangelisti quando si limitarono a scrivere che Gesù maledisse il fico, sembra che l’informazione dovrebbe bastarci, ma non basta, nossignore, in fondo sono passati venti secoli e ancora non sappiamo se il disgraziato albero desse fichi bianchi o neri, fichi fioroni o fichi maturi, brogiotti o dottati, non che di questa mancanza stia soffrendo la scienza cristiana, ma la verità storica sicuramente ne soffre”. Se da una parte Saramago invita il lettore ad andare oltre il senso apparente delle cose, a cercare, per mezzo del suo senso critico, la loro ragione ultima, dall’altra però fa un frequentissimo ricorso, attraverso detti, proverbi e filastrocche, all’abusato buon senso popolare, sia pure corretto da una sana dose di bonaria ironia (un esempio per tutti: “Si accampano sotto gli alberi per proteggersi da altri possibili acquazzoni, anche se Pedro Orce cita il ritornello iberico, Chi si mette sotto la frasca, prende due volte la burrasca, che è la versione nazionale modificata… Mangiarono alla bell’e meglio, quanto bastava perché durante la notte lo stomaco non cominciasse a reclamare per la fame, visto che, come insegna quell’altro detto, Chi va a letto senza cena, tutta notte si dimena, versione autentica”). Con questo procedimento egli intende connotare come popolari, umili, plebei sia la sua storia che i suoi personaggi, mantenendo però nel contempo un intenzionale distacco e straniamento, che non vuole farlo apparire superbo o altero, ma al contrario denotarlo come autentico deus ex machina e permettergli così di elargire alle sue creature, magari in modo paternalistico, quella compassione e quell’attaccamento che esse non trovano nell’altro Creatore, quello “inventato” dalle religioni. Il suo stile in tal modo diventa un ossimoro, un misto di alto e di basso, di colto e di popolare, quasi a voler rimarcare la superfluità di un unico e immodificabile metro narrativo, la noncuranza nella ricerca di una intima coerenza logica del racconto.
“La zattera di pietra” è un romanzo minore nella bibliografia di Saramago, ma forse mai come qui l’autore sembra divertirsi e voler sperimentare la sua propensione alla leggerezza favolistica. Ovviamente, Saramago non rinuncia alla riflessione, anzi è evidente la sua intenzione di fare della storia del distacco della penisola iberica dal continente e della sua deriva nell’Oceano Atlantico (è lei la “zattera di pietra” del titolo) una ambiziosa metafora sull’isolamento dei suoi connazionali nell’Europa e sulla loro vocazione atlantica. E’ fantapolitica, certo, ma nelle surreali vicissitudini di Portogallo e Spagna si possono leggere, se lo si vuole, considerazioni attualissime e molto precise da un punto di vista socio-politico (il tatticismo esasperato e opportunista dei vari governi, la caotica e disorganizzata reazione delle masse, le manifestazioni dei contestatori forestieri al grido di “anche noi siamo iberici”), a testimonianza di quanta scarsa coesione ci sia in quella che potrebbe in un futuro prossimo diventare una vera e propria confederazione di stati.
Se il popolo è in balia di forze (naturali e politiche) che non è in grado di comprendere e dominare, resta comunque nei singoli individui più di una risorsa. Ne “La zattera di pietra” Saramago è infatti più ottimista di quanto non lo sia mai stato: nonostante l’apocalittica trama (che suggerisce immagini da fine del mondo) e a dispetto della morte di Pedro Orce nel finale, lo scrittore portoghese esprime una totale, illimitata fiducia nell’umanità. Nel piccolo gruppo di personaggi “straordinari” (nel senso che sono dotati di misteriosi, inesplicabili poteri in qualche modo connessi alla rottura della penisola), che nel corso del loro viaggio si allarga sempre più fino a costituire una sorta di utopica comune fondata sull’amore, sulla fratellanza e sulla disponibilità incondizionata alla vita, Saramago immagina letteralmente degli uomini nuovi in grado di rifondare, al di là dei limiti dell’istituzione familiare tradizionale e nonostante le difficoltà poste dal retaggio di sentimenti come l’invidia, la gelosia e il desiderio esclusivo del possesso, l’intero genere umano. Non è un caso che dapprima le due donne della messianica congrega, e poi l’intera popolazione femminile in età fertile, rimangano, come per miracolo, simultaneamente incinte, in un catartico e prodigioso epilogo (c’è anche una bacchetta di legno che inopinatamente fiorisce) che fa venire in mente il realismo magico di Garcia Marquez. La penisola iberica (ormai ridotta definitivamente a isola) in navigazione sull’oceano (senza sapere fino alla fine dove approderà) diventa perciò una specie di novella Arca di Noè in fuga da un mondo in declino e ottusamente rinchiuso a difesa del proprio egoistico benessere, alla quale lo scrittore affida un fervente e appassionato messaggio di pace e di speranza da lasciare alle generazioni future.
Indicazioni utili
230 risultati - visualizzati 151 - 200 | 1 2 3 4 5 |