Opinione scritta da Laura V.

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    12 Luglio, 2019
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Istanbul, città femmina

Sarà poi vero che, quando il nostro cuore cessa di battere, l’attività cerebrale persista per svariati minuti? E, nel caso, quanti e quali pensieri in quel momento sopravvivono?
La mente di Leila, dopo la morte, ha continuato a essere attiva esattamente per dieci minuti e trentotto secondi, un lasso di tempo insignificante ma sufficiente per rievocare, partendo da sapori e profumi che riaffiorano come per incanto, tutta una vita iniziata non nel migliore dei modi e finita tragicamente. Prende così avvio la vicenda narrata nel nuovo romanzo di Elif Shafak, scrittrice turca tra i nomi più noti dell’odierno panorama letterario, non solo vicinorientale ma mondiale.
Leila, la protagonista, soprannominata “Tequila” per la sua resistenza a mandar giù le amarezze della vita un sorso dopo l’altro, era una prostituta della vecchia via dei bordelli di Istanbul, città di cicatrici più che di occasioni, dove era arrivata ancora molto giovane, sola e senza un soldo, facile preda di chi se n’era subito approfittato vendendola a uomini di tutte le età; il passo che l’aveva poi portata a esercitare in una casa di tolleranza autorizzata era stato brevissimo. Nata e cresciuta in una cittadina di provincia lontana anni luce dalla capitale, Leila fuggiva da un ambiente familiare pieno di veleni e menzogne. L’amore l’aveva dapprima sfiorata, poi trovata, infine tristemente abbandonata, mentre l’amicizia, quella più autentica e coltivata nel corso degli anni, avrebbe continuato a riempire e sostenere la sua esistenza messa a dura prova. E proprio i suoi amici, cinque in tutto, ognuno a suo modo appartenente a un mondo di reietti della società, trovano ampio spazio tra le pagine del romanzo con le rispettive storie che s’intrecciano a quella di Leila.
Trama originale e anche appassionante, quella costruita dall’autrice che ci racconta non soltanto una dolorosa vicenda umana, seppur di fantasia, ma pure parte della storia contemporanea di un Paese, la Turchia, da sempre in bilico tra Europa e Asia. Sullo sfondo, bella e dannata con le proprie aspirazioni occidentalizzate, compare in particolare Istanbul, “città femmina” secondo la definizione della stessa Shafak, dove convivono modernità e tradizione e nella quale si ritrovano i sogni e le disillusioni di tanti che vi si sono trasferiti per cercare fortuna. Il Cimitero degli Abbandonati di Kylos, esistente per davvero, diviene drammatico simbolo di come la vita possa concludersi nel peggiore dei modi per molte di queste persone che sono tagliate fuori dal perbenismo ipocrita della società, Leila e i suoi amici compresi.
A parte la traduzione in lingua italiana che reitera scorrettamente la parola musulmano con la doppia esse (persino in arabo, si scrive con una esse sola!) e diverse imprecisioni formali anch’esse ripetute più volte, il romanzo offre una prima parte, incentrata sulla storia personale di Leila dalla nascita fino alla morte violenta, che cattura il lettore con uno stile affascinante e coinvolgente; nella seconda e terza parte, a mio parere, l’intensità della narrazione viene invece decisamente a scemare, seppure vi siano svelati vari retroscena utili a ricostruire il quadro completo della storia, forse per via degli eventi finali troppo concitati o dei tanti dialoghi non esaltanti tra gli amici. Nel complesso, una buona lettura che, tuttavia, non mantiene pienamente le promesse iniziali.

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Classici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    05 Luglio, 2019
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Un d'Annunzio sempre apprezzabile

Pubblicato sul finire dell'Ottocento, "Giovanni Episcopo" è un breve romanzo che, nell'ambito della vasta produzione letteraria di Gabriele d'Annunzio, non dovrebbe essere trascurato, ben prestandosi oltretutto alla lettura da parte di chi si avvicina per la prima volta al tanto criticato Vate.
Sebbene il libro in questione non sia certo all'altezza delle opere che diedero fama all'autore, prima fra tutte "Il piacere", e il personaggio di Giovanni Episcopo non abbia lo stesso fascino dei protagonisti maschili di altri romanzi (penso soprattutto ad Andrea Sperelli e a Giorgio Aurispa, dei cosiddetti Romanzi della Rosa), ho ritrovato tra queste pagine la stessa scrittura ammaliante e i toni solenni che caratterizzano in modo inequivocabile lo stile dannunziano.
Come l'autore afferma, "questo piccolo libro", dedicato a Matilde Serao, non ha per lui "importanza di arte; ma è un semplice documento letterario publicato a indicare il primo sforzo istintivo di un artefice inquieto verso una finale rinnovazione."
Non mi è dispiaciuta nemmeno l'ambientazione della storia, che si svolge tra i vicoli bui e loschi di una Roma molto diversa da quella de "Il piacere", tra una umanità, donne e uomini di malaffare, altrettanto oscura ed equivoca in mezzo a cui i deboli finiscono sempre per soccombere nel peggiore dei modi.

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Romanzi autobiografici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Luglio, 2019
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“Piccolo mondo antico”

Intima, sofferta e carica di ricordi, la scrittura di Danila Oppio in questo suo romanzo dal titolo “Storia di Vera” ripercorre la vita, in particolare l'infanzia e l'adolescenza, della protagonista (alter ego della stessa autrice) attraverso una scrittura accattivante e coinvolgente che si distacca, a mio parere, da quella dei precedenti lavori da lei pubblicati negli scorsi anni.
Sullo sfondo del Veneto del dopoguerra e della Milano degli anni del boom economico, si svolge la vicenda di Vera, figlia della povera provincia veneta che, ancor piccola, è costretta a lasciare insieme alla famiglia alla ricerca di migliori condizioni economiche e di cui, però, conserverà sempre nella memoria un affettuoso ricordo indelebile. Un rievocare, quello di Vera, che si tinge inevitabilmente di malinconia e, spesso, anche di tristezza.
Ed ecco, al cospetto delle stelle di una tersa sera invernale, riaffiorare gli anni della scuola, quando lei aveva dovuto faticare per passare dal dialetto alla lingua italiana, quando subiva lo scherno e l'ostracismo da parte delle compagne di classe a causa delle modeste condizioni familiari, quando il suo cuore di bambina s'era scontrato con i modi solitamente rudi e spicci di una madre avara di amore e comprensione nei confronti del suo stesso sangue. E proprio questa figura materna, ritratta in maniera efficacemente cruda, diviene a poco a poco centrale nel corso della narrazione, suscitando in chi legge moti di ribellione e, forse, condanne senz'appello. Ma il cuore di una figlia perdona incondizionatamente e, con il tempo, arriva a comprendere l'inettitudine di un genitore che, in fin dei conti, si è ritrovato quasi per caso a rivestire quel ruolo senza grande consapevolezza.

“[...] La mamma doveva essere sempre al centro del mondo. Suo malgrado Vera si trovava costretta ad ammetterlo, sebbene non sia piacevole per nessuno accorgersi di avere una madre egoista, egocentrica, ingrata. Una madre che non aveva mai saputo dire la parola “grazie” a qualcuno, incapace di ammettere i propri errori. Sono pensieri che coltivava con animo sereno, rassegnato, senza astio. [...]”

Anche altri affetti ruotano attorno alla vita della protagonista, tra cui il padre, venuto a mancare troppo presto, la cui scomparsa, come s'intuisce, resterà una ferita aperta nel cuore di Vera.
Pubblicato lo scorso anno dalle Edizioni Ipazia Books, il libro offre una scorrevole lettura imperniata su frequenti flash-back e salti temporanei che, in particolare nei ricordi della campagna dell'infanzia, rimandano a un “piccolo mondo antico” che ormai non esiste più e sul quale la Oppio ha voluto porre l'accento, non senza una certa dose di nostalgia, come quando vengono rievocati i periodi di vacanza trascorsi a casa dei nonni e le conseguenti vecchie storie di famiglia, prima fra tutte quella del nonno emigrato in America e assunto come minatore nelle miniere dell'Illinois. Pagine a tratti molto intense che parlano di sentimenti, rimpianto e tanta solitudine, mettendo infine a fuoco una figura femminile che “non è cresciuta, è solo invecchiata” durante un'esistenza piena di amarezze e dolori.

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Poesia straniera
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    01 Luglio, 2019
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Tra paradiso e inferno

Primo incontro, per me, con la poesia di Adonis, al secolo 'Ali Ahmad Sa'id Isbir, poeta e saggista siriano considerato, a livello internazionale, tra i massimi autori del nostro tempo. Candidato più di una volta al Premio Nobel per la Letteratura, Adonis ha pubblicato nel 2012 questo suo “Concerto per Gerusalemme”, dando vita a un'opera di forte suggestione e dal profondo significato.

“Gerusalemme è un sogno-lingua. Lingua nella quale
la storia si mescola al prima e al dopo. Si mescola
all'uomo e alla realtà, al finito e all'infinito. È la terra
e l'acqua -
ci puoi impastare ciò che vuoi/”

È proprio la Città Santa la protagonista dei versi di questo piccolo grande poema: la Gerusalemme ricca di affascinanti echi ebraici, cristiani e islamici che s'intrecciano con naturalezza, la città dalle possenti mura “colme di tutti gli universi” e tese all'ascolto forse del respiro del mondo, la rocca sorta su una palma che, a sua volta, si erge su uno dei fiumi del paradiso. Come scrisse il teologo Ibn Abbas (VII sec.), “chi vuole guardare un luogo del paradiso, guardi la Città Santa”; al paradiso, non a caso, recita un hadith, dopo i profeti e i martiri sono destinati coloro che chiamano alla preghiera proprio a Gerusalemme, verso la quale si compiranno l'egira e il giudizio universale alla fine dei tempi.
Ma Gerusalemme, al tempo stesso, come ci racconta crudelmente la cronaca da ormai troppi decenni, è anche la città dannata dove continuano a consumarsi, troppo spesso nel silenzio distratto e indifferente del mondo, crimini indicibili che l'hanno consacrata come simbolo della sempre aperta questione israelo-palestinese. Adonis ne coglie tutta la drammaticità riversandola, ora con linguaggio allegorico e criptico, ora in forma più esplicita, nella propria articolata scrittura poetica.

“Gente che viene a Gerusalemme
dall'altro capo del mondo,
gente che si radica nel suo terreno e nella sua acqua.

Per tre che arrivano c'è un solo abitante.
L'abitante se ne va, chi viene rimane,
equilibrio demografico!
[…]
È la politica – un'altra architettura.
Non c'è oriente nell'oriente di Gerusalemme,
i villaggi attorno sono nebbia,
isolati, circondati da gendarmi di ogni tipo.”

“Ma dov'è il diritto internazionale?” - urla straziata la voce del poeta - “Non è ammesso, anzi è considerato un crimine.” E così la “deportazione silenziosa” (quella che lo storico israeliano Ilian Pappé definisce “pulizia etnica”), cui è stata condannata la martoriata terra di Palestina oltre settant'anni fa, non conosce mai fine.

“O Gerusalemme, Gerusalemme!
Nella tua età del bronzo, la mela era una donna.
Nella tua età petrol-elettronica la mela
è diventata bomba [...]”

“O carrarmati, o bombe, la forza vi dice: dilaniate prima
gli uomini, poi le altre creature, ma delicatamente
e chiamate il vostro attacco difesa o ricerca di pace.”

Resta, dunque, l'immagine di una città ritratta mirabilmente nella sua essenza più intima attraverso le sue pietre millenarie, le sue porte d'accesso, i suoi vicoli antichi, i suoi luoghi di culto che culminano nel Muro del Pianto e nella Cupola della Roccia, sullo sfondo di pesanti interrogativi che chi scrive non può non porsi:

“Perché ogni particella di cenere in Palestina
è una ferita aperta? […]
La storia della Palestina
è un autunno migrato oltre le stagioni?”

Una lettura, in verità, non semplice, forse un po' pesante al primo impatto (spesso, occorre ritornare sui versi più di una volta al fine d'interpretarli al meglio), ma infine molto appassionante, soprattutto per chi abbia visitato Gerusalemme almeno una volta nella vita e si senta legato alla città e alla causa palestinese.
Un grande e doveroso tributo da parte di una delle voci letterarie arabe contemporanee più significative!

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    17 Giugno, 2019
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Nel silenzio della Natura

Una scrittura poetica intrisa di colori, suoni e profumi del bosco, quella di Gian Franco Magenta, nella quale ho avuto il piacere di imbattermi inaspettatamente.
È poesia lieve e delicata che sa essere però particolarmente incisiva e potente nel suo dipingere l’esistenza e partecipare “alla vita di una natura misteriosa” che, ipnotica, tiene legato a sé il cuore del Poeta.

“Io amo il bosco,/ amo la sua vita,/ il suo palpitare,/ il suo linguaggio/ muto, discreto.”

Si alternano così le frondose immagini silvane e quelle che indugiano preferibilmente, in una malinconia antica d’ombre e sfumature di luce, sul mesto finire dell’estate.

“Incombe ormai,/ il freddo sul verde./ Il cielo cinereo/ volge all’equinozio. Freme l’autunno.”

E alla Natura, quella più autentica, intensa e vibrante, carica di quieto indifferente silenzio che parla a suo modo, il Poeta fa sempre ritorno come a un rifugio sicuro, portando con sé, ineludibili, i propri affanni, le inquietudini, gli interrogativi devastanti dell’umano vivere.

“La terra non risponde al mio grido./ […] Abbraccio i ruvidi tronchi/ nella verde luce dell’amata foresta,/ cerco il sollievo nel lieve respiro/ delle foglie, ora fitte ora rade;/ chiedo ad essi di lenire il mio affanno,/ chiedo ad essi, parte del tutto,/ cosa è il mondo,/ questo essere piccolo e smisurato,/ tangibile ed inafferrabile,/ che mi solleva ed opprime,/ che mi fa paura e coraggio,/ che io penso di stringere e mi sfugge,/ che mi rende triste e contento,/ in una continua illusione,/ nel dubbio, nel tormento.”

Come sono lontani, in quell’eterna intensità di attimi, i rumori assordanti di un mondo che tra le auto in corsa, in una quotidianità ormai di lamiera e gomme, avido divora ragione e sentimenti rendendoci semplici automi, pressoché ignari della nostra essenza più profonda.
I versi spaziano malinconici sopra campi “colmi di riso”, prati rugiadosi di primavere mature o ancora acerbe, acque di fiume che elargiscono vita e morte, cieli di myosotis che si tingono d’indaco e tristezza nell’opacità della sera che, come di consueto,“stende sul mondo/ la sua veste trapunta di stelle.”
Da leggere e rileggere ascoltando il lirico palpitar delle sue parole, una silloge meravigliosa che canta dunque l’amore: per la Vita, per la propria terra, per l’amore stesso, quello più intimo che si fa inscindibile intreccio di carnalità e spirito per riflettersi nello sguardo e sul volto di chi si ama, magari tra le ombre della sera, mentre il cuore, proprio come un ultimo instancabile viandante, percorre il cammino astruso della vita che viene meno e, inevitabilmente,“si fa più fatale”.

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Racconti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    15 Giugno, 2019
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Miti greci in chiave moderna

Davvero una gran bella lettura, questa raccolta di racconti! Un’ottima opera prima per l’autrice, Stefania Signorelli, la quale, attraverso una scrittura impeccabile e grande profondità d’animo, propone una rivisitazione in chiave moderna, per meglio dire contemporanea, di numerosi tra i più famosi miti della classicità.
Da Afrodite ad Achille, da Ercole ad Arianna, senza tralasciare Narciso, Persefone e altri non certo meno importanti, tra queste pagine si susseguono altrettanti personaggi che del mito antico offrono una versione estremamente umana: non più dei, semidei o umani in odore di divinità, bensì uomini e donne d’oggi con i loro pregi e difetti, angosce e tormenti; vite spesso fragili, schiacciate dal peso della solitudine, dal dolore e forse, in certi casi, anche da un senso di inadeguatezza verso il mondo, che inseguono una felicità sempre così difficile, se non impossibile, da raggiungere.
Ho trovato alcuni racconti, come per esempio quelli di Megera e Penelope, tremendamente coinvolgenti e, in generale, una introspezione psicologica dei protagonisti molto ben curata. Piccole storie, ma dal grande significato. Lettura consigliata!

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Consigliato a chi ha letto...
...in particolare, a chi ama leggere racconti.
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Politica e attualità
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    13 Giugno, 2019
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“...ma dov'è Damasco?" (Nizar Qabbani)

Molto interessante, questo toccante reportage sui rifugiati siriani tra Libano e Turchia scritto dalla nota giornalista di Rainews24 Laura Tangherlini, la quale, per questo suo libro, ha potuto contare sulle importanti parole introduttive dei colleghi Gian Antonio Stella e Corradino Mineo.
Pubblicato nel 2017 da Infinito edizioni, “Matrimonio siriano” è, come precisa l'autrice, “un racconto di viaggio, una raccolta di testimonianze e voci, ma anche la storia di un matrimonio che vuole celebrare un doppio amore”: il forte sentimento tra due sposi e, nel contempo, quello nei confronti del popolo siriano che lei aveva già imparato a conoscere e ad amare circa dieci anni fa, quando ebbe occasione di trascorrere un periodo di studio della lingua araba a Damasco. All'epoca in Siria, Paese importantissimo dell'area vicino-orientale, perdurava uno stato di normalità e calma apparenti prima di precipitare, a partire dal 2011, nel baratro agghiacciante di un conflitto del quale percepiamo ancora l'eco sanguinosa degli spari.
Come in una sorta di diario di viaggio, e con una “affabilità” di scrittura che la rende subito apprezzabile, la Tangherlini conduce il lettore nelle periferie polverose, nei campi profughi, negli orfanotrofi da Beirut al resto del territorio libanese, fino a Reyhanli, in Turchia a pochi chilometri dal confine siriano. Tantissime le persone con le quali la giornalista ha parlato, anzitutto responsabili di ong, che operano sul posto per dare assistenza a più livelli, e profughi; tra questi ultimi, naturalmente, non si contano i bambini, orfani e non solo, i più innocenti e indifesi in quest'assurda guerra che, se addirittura non li ha fatti nascere nel triste esilio dei campi, li ha strappati brutalmente alle loro case di Aleppo, Damasco, Homs, Idlib e altre località messe a ferro e fuoco da “ribelli”, uomini di Bashar al-Assad o tagliagole di Daesh. Sono proprio i piccoli siriani coloro che la Tangherlini e suo marito Marco desiderano aiutare, portando loro aiuti concreti e un po' dell'allegria della festa di nozze.
Come testimoniano i racconti raccolti visitando un campo e l'altro, tutti, dagli adulti ai bambini, desiderano fare ritorno in Siria, poiché la vita da profughi, seppure accolti in nome di una fratellanza araba ormai ridotta a mero slogan di facciata, si rivela ben amara, quotidianamente alle prese con problemi economici e la mancanza di lavoro certo. Oltretutto, in un Paese come il Libano, dove negli scorsi decenni era già stato ospitato un gran numero di rifugiati dalla Palestina, si è inevitabilmente venuta a creare, nel vero senso del termine, una guerra tra poveri, tra profughi vecchi (palestinesi) e nuovi (siriani), dal momento che gli ultimi arrivati competono con i primi come manodopera a basso, bassissimo costo; per non parlare del dramma di chi, tra i siriani stessi, è di origine palestinese e, pertanto, si ritrova a vivere una duplice condizione di profugo. Insomma, una tragedia senza fine, mentre in tutti questi anni la bella e affascinante terra di Siria è stata deturpata e violentata nel peggiore dei modi ai danni dei civili inermi.
Lettura scorrevole e, considerato l'argomento trattato, di certo dolorosamente coinvolgente per gli amanti, in particolare, del Vicino Oriente e del mondo arabo in generale; peccato, però, per le diverse sviste sparse qua e là nel testo che, a tratti, danno l'idea di una cura editoriale talvolta un po' frettolosa. Preziosa, infine, la scelta di far precedere ogni capitolo dai versi del celebre poeta siriano Nizar Qabbani, traendoli dalla sua raccolta “Le mie poesie più belle”, pubblicata in Italia pochi anni fa (Jouvence, 2016): versi, quelli scelti da Laura Tangherlini, che si possono rivelare di triste attualità, ma anche di tenace speranza per un Paese martoriato che ha un bisogno disperato di pace.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Giugno, 2019
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In balia delle correnti della vita

Per chiunque abbia avuto occasione di trascorrere un periodo della propria vita al Cairo, e non soltanto come semplice turista, questo bel romanzo fresco di stampa non può che rivelarsi sorprendentemente evocativo. Tra le sue pagine io ho ritrovato la stessa identica città conosciuta una decina d’anni fa, lo stesso caos devastante, gli identici struggenti tramonti, colori, odori, profumi di sempre…

“[…] il tappeto sonoro della città, un fruscio ininterrotto come quello dello schermo di un vecchio televisore senza canali, un tessuto che ci sovrasta, tenuto insieme dal contrappunto di migliaia di clacson, di un’infinità di auto, di camion, le sirene delle ambulanze, lo sferragliare delle betoniere, degli autobus, e poi le motociclette, i trattori, il fumo nero della nafta bruciata che soffia su dai tubi di scappamento arrugginiti e si va ad aggiungere alle tenebre sopra di noi, senza stelle, senza luna.”

La città del Cairo è così: la si odia o la si ama. O entrambe le cose, in un alternarsi, spesso contrastante, di sentimenti e stati d’animo suscitati da questa frenetica metropoli moderna dal cuore antico.
Alex, il protagonista di origine italiana di “Al Tayar”, sceglie di amarla in verità fin da subito, catturato da un fascino ambiguo a cui si è voluto aggrappare in cerca di una possibile salvezza e redenzione. Approda casualmente nella capitale egiziana per ripagare un debito contratto con un giro di gente poco raccomandabile; il suo lavoro interrotto da fotografo è rimasto forse a Londra o nell’Estremo Oriente, tra le insoddisfazioni e le delusioni di una vita sì giovane ma già pesantemente vissuta. Ad attenderlo al Cairo, in mezzo al sudicio frastuono delle sue strade, persone non certo migliori di coloro per cui deve fare una consegna illegale di farmaci, ma tra le quali lui sembra trovare all’improvviso una sua giusta dimensione, al punto da chiedere di restare sul posto a lavorare per loro. Eppure dietro la facciata pulita e l’odore pungente di disinfettante della clinica di al Maadi, Mohamed, Ahmed, Khaled e altri celano affari tra i più sporchi e turpi che possano esistere e che non tarderanno a bussare alla coscienza di Alex, il quale capirà presto che il suo nuovo lavoro non consiste soltanto nei recarsi all’aeroporto ad accogliere ricchi pazienti inglesi che hanno pagato cifre strabilianti per un trapianto che possa salvare loro la vita. Da dove, e soprattutto da chi, provengono gli organi trapiantati? È proprio tutto così semplice e filantropico come qualcuno cerca di dipingere sbrigativamente l’intera questione?
In un crescendo di suspense e colpi di scena ben dosati, la penna di Mario Vattani, diplomatico non nuovo alla narrativa, con grande maestria dà vita a un noir che intreccia lunghe giornate assolate e notti insonni ancor più interminabili, dove i concetti di bene e male si rincorrono spesso lungo confini poi non così marcati.
Una scrittura, a livello formale, perfetta, solida, per nulla incline a comode semplificazioni linguistiche oggi purtroppo in voga; a livello sostanziale, piacevolmente coinvolgente (tant’è che non si avverte nemmeno la mole delle pagine) e d’una scorrevolezza che è pari a quella del Nilo, la cui corrente, come già anticipa il titolo del libro, affascina e quasi ipnotizza il nostro protagonista.

“Per la prima volta mi trovo all’altezza del fiume, e resto incantato dalla sua massa immensa. I miei passi risuonano sulle tavole, e sento nelle narici l’odore di quella superficie buia e fluttuante, punteggiata da mille riflessi di luce. A meravigliarmi non è solo il profumo di umidità, di fango, di natura, ma soprattutto l’idea che quello stesso profumo, come un vapore invisibile che si è andato costituendo particella per particella, ha attraversato il continente africano per migliaia di chilometri.”

E proprio da questa corrente, grande metafora della vita, si lasciano trascinar via ineluttabilmente tutti i personaggi, ciascuno ben delineato, tra cui spiccano, in particolare, le figure femminili principali (Amal, Noura, Nawal) che rispecchiano alla perfezione la tipologia delle donne in un Paese arabo: da quelle che sono velate e (mica tanto) pudiche a quelle che, con buona pace di tutti i nostri cliché preconfezionati sull’argomento, vivono pressoché all’occidentale con i capelli rigorosamente al vento; a tal proposito, un meritato plauso deve essere tributato a chi ha scelto l’immagine di copertina, finalmente lontana da scontati e prevedibili volti femminili muniti d'islamico hijab, se non addirittura del più intrigante niqab che, come dimostrato nel tempo, aiuta a vendere un maggior numero di copie specie quando si tratta di presunti casi editoriali di poca sostanza.
Scritto con grande passione e dovizia di particolari, “Al Tayar” è un bellissimo romanzo che un autore digiuno del Cairo non avrebbe mai potuto mettere nero su bianco; si sente che Vattani ha vissuto la città nel profondo, l’ha fatta propria (persino linguisticamente!), forse l’ha amata come il suo Alex e, chissà, anche odiata nei giorni più grevi e insopportabili. In fondo, è lei l'altra grande protagonista, questa immenso, tentacolare agglomerato urbano dal colore del deserto e che il deserto intorno sembra voler ormai divorare, con i suoi labirinti di sopraelevate, il suo traffico disordinato e incessante, la selva di antenne satellitari sulle terrazze, ma anche i suoi angoli che paiono oasi fuggite dal caos cittadino, come la collina del Muqattam, dove sorge la Cittadella con la Moschea di Muhammad ‘Ali (uno dei luoghi più belli che io stessa abbia mai visto), o il complesso di al Azhar. Una città che incanta e rapisce l’anima quando scende la sera sul Nilo e dai minareti s’alzano all’unisono le voci dei muezzìn, ma che può anche precipitare negli inferni più oscuri come accade nel drammatico epilogo della vicenda narrata. Cinque stelle e lode!

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Poesia straniera
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    06 Giugno, 2019
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L’istinto di Caino

“Concedete tempo alla terra ed essa dirà la verità, tutta la verità/ su di voi,/ su di noi,/ su di noi,/ e su di voi!” (da “Penultimo discorso del «pellerossa» all’uomo bianco”)

La memoria, l’esilio, la poesia che si fa nuova patria e casa comune per tutti coloro che hanno perduto la propria terra sono i cardini attorno a cui ruotano i versi del poeta arabo Mahmud Darwish (1941-2008) che, anche in queste preziose e toccanti pagine, riconferma il suo ruolo di grande, grandissimo, straordinario cantore della diaspora palestinese.
Pubblicata nel 1992, la silloge “Undici pianeti” (Editoriale Jouvence, 2018, isbn 9788878016040, pagg. 85, € 8,00) include, in verità, diverse singole raccolte poetiche, una più bella dell’altra, tutte di rara intensità, dove la voce del poeta attraversa i confini dello spazio e del tempo, in un intreccio continuo, portando il peso delle cicatrici della Storia. Se il titolo dell’opera fa riferimento a un episodio della vicenda del “sumero nostro fratello” Giuseppe, figlio di Giacobbe, al quale è dedicata una sura del Corano, ritornando così indietro in modo particolarmente suggestivo a una dimensione temporale che potremmo definire “biblica”, tuttavia l’epoca in cui Darwish trasporta il lettore è anzitutto quella del 1492, anno cruciale diventato simbolo non soltanto della scoperta dell’America, ma persino della caduta di Granada in Andalusia e del conseguente completamento della Reconquista cristiana dopo oltre settecento anni di presenza islamica nella penisola iberica.

“[…] Castiglia innalzerà la sua corona/ sui minareti di Dio. Ascolto il tintinnare delle chiavi/ nella porta dorata della nostra Storia, e saluto il nostro passato./ Sarò io a chiudere l’ultima porta del cielo? Io sono l’ultimo sospiro dell’Arabo.”

“Undici pianeti sull’ultima scena andalusa”, meraviglioso e tragico incipit di questa raccolta, riporta in scena con coinvolgenti versi di profondo dolore la cacciata degli arabi dall’Eden perduto di al-Andalus, dove si lasciò il cuore e un luminoso passato per avviarsi invece lungo i sentieri di un oscuro presente di erranza al suono dei violini che piangono suggellando l’irrevocabile addio. Sembra di vederle, di sentirle, quelle masse di esuli in marcia tra cui, nel 1492, vi erano anche gli ebrei, gli stessi che, a distanza di secoli, nonostante la condivisione di un destino tanto greve, in Palestina si arrogheranno il diritto di confinare gli arabi nello status disumanizzante di stranieri destinati a un nuovo esilio. La Storia, è noto, si ripete e chi un tempo era vittima si reinventa carnefice ai danni dei propri fratelli. Come il poeta ammette amaramente nel canto di chiusura “Un cavallo per lo straniero”, l’umanità è unita soltanto “dall’istinto di Caino”: lo hanno imparato anche gli indiani d’America, sulla propria pelle, allorché l’uomo bianco, portatore di una civilizzazione rapace, li privò della terrà, imponendo loro l’umiliazione delle riserve.
“Signore dei bianchi, dove stai portando il mio popolo… e il tuo?/ […] Verso quale immenso inferno state ascendendo?”, risuona struggente nel “Penultimo discorso del «pellerossa» all’uomo bianco”; anche in questo caso non sfugge il parallelismo con quanto è avvenuto, e avviene, in Palestina a opera di Israele, popolo al quale Darwish chiede di non seppellire Dio “nei libri che vi promettono una terra sulla nostra terra” né di uccidere il passato arabo poiché “Non troverete quiete con i nostri fantasmi nelle spoglie notti d’inverno”.
Tutto ciò non viene meno neanche nei canti intitolati “Una pietra cananea nel Mar Morto”, “Sceglieremo Sofocle” e “L’inverno di Rita”, sebbene quest’ultimo prenda le mosse da un fatto privato dell’autore.
Un grande poema del nostro tempo, questo di Mahmud Darwish, un canto corale intriso di lacrime e sangue che spazia dall’Andalusia, passando per le terre violate dei nativi americani, fino all’Iraq della prima guerra del Golfo. Pagine intense che lottano brandendo la sola arma offerta dalle parole a favore degli sconfitti, delle vittime, degli esuli, contro i crimini di ogni tempo e luogo, perché se è vero che “sulla terra non è rimasta alcuna possibilità per la poesia”, tra i versi di quest’ultima è però ancora possibile resistere e combattere, nonché ritrovare le tante patrie perdute. Un’opera imprescindibile sia nell’ambito della produzione letteraria del poeta di al-Birwa sia, più in generale, in quello della poesia araba contemporanea.
Un rinnovato plauso, dunque, alla Casa Editrice milanese Jouvence per la sua particolare attenzione alle pubblicazioni di autori arabi, così come un sentito ringraziamento a Silvia Moresi, già cotraduttrice de “Le mie poesie più belle” di Nizar Qabbani (Jouvence, 2016) per il suo prezioso e accuratissimo lavoro di traduzione che stavolta rende accessibile ai lettori italiani la splendida poesia del mai dimenticato Mahmud Darwish.

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...a chi ama la poesia e s'interessa al mondo arabo, con particolare riferimento alla questione palestinese.
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Racconti di viaggio
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Giugno, 2019
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L'Oriente perduto

È un mondo che davvero non esiste più quello che ritroviamo tra le pagine di questo splendido volume pubblicato postumo che Tiziano Terzani aveva ideato quando era ancora in vita, ma che purtroppo non ebbe il tempo di realizzare. Sue le fotografie, suoi gli stralci, tratti da testi editi e inediti, che accompagnano quelle stesse immagini; in chiusura, una nota di Folco Terzani ci racconta dell'enorme quantità di materiale, anzitutto fotografico, che nel corso degli anni il padre aveva accumulato in grandi casse dove, infine, è toccato al figlio rimettere mano.
Un tesoro d'inestimabile valore dal quale provengono gli scatti, ora racchiusi in questo libro, che testimoniano non soltanto il lavoro di Terzani in qualità di inviato di “Der Spiegel”, ma ancor prima la sua infinita, viscerale passione per un continente, l'Asia, così ricco di spiritualità e innocenza rispetto, all'epoca, al materialista e ben più disincantato Occidente.
Cina, Giappone, India, Vietnam e altri Paesi del Sud-Est asiatico iniziano così a rianimarsi in queste pagine, con i loro antichi templi, le loro strade polverose e, soprattutto, la propria variegata e, forse ai nostri occhi, bizzarra umanità che non negava un sorriso all'obiettivo dell'appassionato cronista, mentre, per chi ha letto e amato i libri di Terzani, riaffiorano all'improvviso le sue parole a testimonianza di un mondo perduto per sempre poiché anche l'Oriente, ormai, ha cambiato irrimediabilmente volto, e non sempre in meglio.

“[...] Quella di cogliere il nocciolo di una storia con un clic è un'arte che mi ha sempre attirato. Per questo forse, da allora, sono sempre andato in giro con una vecchia Leica al collo quasi a rassicurarmi che, se mi fossero mancate le parole, una traccia di ricordi mi sarebbe rimasta nella pellicola.”

Un libro di grande fascino per viaggiare con la mente e con il cuore, guardando quei luoghi attraverso gli occhi del mai dimenticato scrittore e giornalista toscano.

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...i libri di Tiziano Terzani.
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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    02 Giugno, 2019
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Per non dimenticare

Ci sono libri che sembra siano loro a sceglierci. Mi è capitato con questo romanzo che, mentre mi aggiravo tra gli scaffali della biblioteca alla ricerca di nuove letture, mi guardava attraverso gli occhi di una ragazza il cui volto è stato enigmaticamente diviso tra la prima e la quarta di copertina. Incuriosita, come rispondendo a quello sguardo, ho allora afferrato il volume dal ripiano sotto l’etichetta “letteratura americana”: titolo accattivante, nome dell’autore sconosciuto. Leggendo poi la sinossi sul risvolto, mi sono state sufficienti poche parole – prima guerra mondiale, gendarme turco, colonne di deportati… – per comprendere quale fosse l’argomento, subito confermato dalla nota biografica dello scrittore che sottolinea le sue origini armene.
Al genocidio del popolo armeno mi interessai in modo particolare all’epoca in cui mi ero imbattuta ne “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan, libro che ricordo ancora con un senso di grande dolore. Penso che ogni singola opera, sia pure di narrativa, che tocchi tale questione sia molto importante poiché contribuisce ad alimentare la memoria, a far sì che questa schifosa pagina della storia, non certo meno grave di quella della successiva Shoah, non cada irrimediabilmente nell’oblio, come preferirebbe la Turchia; per esperienza diretta, so bene che parlare con un turco del genocidio armeno è pressoché impossibile!
Ecco, l’originalità di questo romanzo consiste nel fatto di affrontare l’argomento facendo addossare un penoso mea culpa alla figura di una delle guardie che scortavano i deportati armeni fuori dal paese tra abusi e sofferenze di ogni tipo. Emmett Conn, cittadino americano, ha più di novant’anni, ma la sua vita è iniziata intorno ai venti; fino ad allora si chiamava Ahmet Kahn ed era un gendarme dell’esercito ottomano. Ferito in battaglia durante la guerra, si era risvegliato privo di memoria in un ospedale inglese sotto le cure di una infermiera americana, la quale, sposandolo, lo portò con sé negli Stati Uniti dove lui poté cominciare una nuova vita, sebbene non avesse più ricordi di quella precedente. Ma il passato è destinato a riemergere proprio quando l’uomo è ormai molto vecchio e malato, riportando a galla il pentimento per ciò che aveva commesso e l’amore nei confronti di una giovane armena, Araxie, a cui, nonostante tutto, aveva cercato di salvare la vita.
Una storia avvincente per tre quarti del libro (mi sono piaciuti, in particolare, i capitoli che rievocano il periodo trascorso ad Aleppo); ho trovato invece l’ultima parte un po’ troppo frettolosa e con un finale che non mi ha convinta del tutto, ecco perché non attribuisco all’opera quattro stelle piene. Comunque, nel complesso, la valutazione è positiva, anche perché il libro, come racconta lo stesso autore nella sua nota conclusiva, è stato scritto a seguito di uno scrupoloso lavoro di documentazione, compreso un viaggio fra Turchia e Siria lungo i tristi percorsi di morte di oltre un secolo fa. Alla fine, immancabilmente, mi sovvengono sempre queste parole:
« Voi che vivete sicuri/ nelle vostre tiepide case,/ voi che trovate tornando a sera/ il cibo caldo e visi amici:/ considerate se questo è un uomo […] Meditate che questo è stato:/ Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore […] Ripetetele ai vostri figli» (Primo Levi)

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    23 Mag, 2019
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Guardie, ladri e vizietti inconfessabili

Forse non il Vitali più in forma incontrato in altri suoi romanzi (primo fra tutti, tra quelli da me letti finora, “Una finestra vistalago”), ma, nell'insieme, un'altra buona prova dello scrittore di Bellano che ne “La modista” offre al lettore l'ennesimo ritratto della provincia italiana pronta a barcamenarsi tra gioie e dolori, virtù, vizi e vizietti della variegata umanità rintracciabile in verità un po' ovunque.
Sullo sfondo del secondo dopoguerra si svolge un'intricata vicenda dai molti protagonisti, a partire proprio dalla bella e ambiziosa modista a cui fa riferimento il titolo e che, con la propria provocante avvenenza alla Silvana Mangano, turba i sogni di più di un uomo del paese, persino di qualcuno tra quelli nei secoli fedeli; oltre al suo, tra i personaggi migliori del romanzo, nel bene e nel male, quello dell'appuntato Marinara, del cronista Eugenio Pochezza e della guardia notturna Firmato Bicicli, con le cui gesta ha inizio questa lunga narrazione.
Nel solco dell'ormai consolidata tradizione vitaliana, una lettura scorrevole che tende a rallentare un poco in alcuni punti della prima parte e che qua e là non lesina qualche sonora risata, pur gettando, nel finale, una triste e squallida ombra sulle acque limpide del lago in relazione a un inconsueto fattaccio (inconsueto, soprattutto, per via di un paio di insospettabili che lo reiterano) che dà da riflettere seriamente. A parte questo, la morale della favola è chiara: se ognuno è libero di impiccarsi all'albero che preferisce, sembra sancire il capitolo conclusivo, l'importante è avere sempre la possibilità di ripensarci!

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Arte e Spettacolo
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    22 Mag, 2019
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Signori della Corte!

Bella, appassionante e, sotto diversi aspetti, davvero illuminante lettura, quella che offrono le pagine di “Processo al Mito” di Andreana Esposito, docente di diritto penale e autrice di saggi e articoli giuridici, la quale, attraverso un linguaggio coinvolgente e accessibile a tutti, fa comparire sul banco degli imputati tre personaggi che vengono fuori all'improvviso direttamente dalle grandi tragedie greche dell'Atene del V secolo a. C.
Immaginiamo Antigone, sventurata figlia di Edipo, Clitennestra, vendicativa sposa di Agamennone nonché madre di Oreste, e Prometeo, ardito titano che sfidò l'ira di Zeus, tutti e tre in attesa di giudizio dinnanzi a una corte e a un popolo dei nostri giorni. Ripercorriamo le loro travagliate vicende, ascoltiamo con attenzione le parole di chi ne domanda la condanna o l'assoluzione. E, valutati i fatti passati al setaccio, mettiamoci al posto di un giudice: cosa decideremmo? Avrebbe in noi la meglio l'emozione o la ragione? Questa originale pubblicazione, a mio parere, ha il merito, come minimo, di scalfire certezze e poi scavare in verità ben più profonde che non è detto siano state colte nemmeno da tutti gli appassionati del teatro tragico greco.

Prendendo le mosse dalle manifestazioni che negli anni scorsi hanno portato in scena particolari formule processuali con al centro noti casi e protagonisti del mai tramontato mito ellenico, organizzate in varie suggestive località cilentane dall'Associazione Culturale “Identità Mediterranee”, l'autrice ha qui raccolto l'arringa difensiva a favore di Antigone e le distinte requisitorie di accusa nei confronti di Clitennestra e Prometeo da lei scritte e pronunciate proprio in occasione dei suddetti eventi. Ne scaturisce un assai interessante connubio tra materia giuridica e classicità letteraria, rivolto a un pubblico, almeno per la maggior parte, di non specialisti, che mostra queste vicende mitologiche sotto una luce nuova, sollevando interrogativi, dubbi, riflessioni e, nel contempo, sottolineando per gli stessi giudici la necessità di avere una formazione non soltanto prettamente giuridica, ma anche spirituale e storico-letteraria. Ed ecco, dunque, sfilare davanti agli occhi del lettore uno dopo l'altro i tre celeberrimi personaggi ormai impressi per sempre nell'immaginario collettivo, sui quali nel corso dei secoli molto è stato detto e, anzitutto, scritto.

Se, da un lato, non stupiscono più di tanto né la richiesta di assoluzione per Antigone, ineguagliabile eroina di sofoclea memoria mossa soltanto da pietosa “philia” (amore per i suoi familiari) e pronta a immolare se stessa per ciò in cui crede, né quella di condanna per la regina Clitennestra (in quest'ultimo caso, però, colpisce non poco la sottigliezza di certi ragionamenti a sfavore di questa sorta di “dark lady” ante litteram, la quale di colpo si sveste dei panni della madre – secondo la drammatica e terribile immagine che ci consegna Eschilo nella trilogia dell'Orestea – che si scopre i seni per muovere il figlio in procinto di ucciderla a compassione), dall'altro giunge del tutto inaspettata invece la domanda di condanna, “severa e rigorosa”, per Prometeo, reo, come evidenzia per bene il lucido ragionamento della professoressa Esposito, di aver illuso in modo irresponsabile il genere umano con il dono del fuoco, e del sapere tecnico che da esso deriva, senza che questo fosse bilanciato dalla giusta dose di etica necessaria al fine di scongiurare il pericolo dell'autodistruzione; e tutto ciò in nome di una mera lotta “contro il potere per il potere”, che egli brama e contende a Zeus.

“Assolvere Prometeo, oggi, significherebbe rinunciare all'idea di riposizionare al centro l'umano, rinunciare all'idea che l'uomo deve dominare la tecnica attraverso un agire fondamentalmente etico;
[…] Assolvere Prometeo, oggi, significherebbe proclamare a tutti i potenti del mondo che dalla loro potenza non deriva loro alcuna responsabilità [...]”.

A chi, come la sottoscritta, ha amato visceralmente il “Prometeo incatenato” di Eschilo, opera d'indiscusso fascino, viene molto difficile rassegnarsi a una visione di tal genere del mito in questione e alle accuse che sono mosse al titano ribelle; se però proviamo a considerare come innumerevoli scoperte si siano rivelate armi a doppio taglio per l'umanità (pensiamo solo all'atomica!), allora non ci resta che chinare la testa al cospetto di codesti logici ragionamenti, seppur a malincuore.
Una lettura consigliatissima, un libro che gli appassionati del mito sapranno senza dubbio apprezzare!

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... anzitutto le tragedie del teatro greco antico.
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Classici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Mag, 2019
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Genes and fairies

Titolo suggestivo per questa breve raccolta, con testo inglese a fronte, di scritti giovanili di una delle celebri sorelle Brontë, pubblicata tre anni fa in occasione del bicentenario della nascita dell'autrice.
Si tratta di tre racconti che Charlotte (1816 - 1855) scrisse quand'era ancora adolescente, fra i tredici e i quattordici anni: “Un avventura”, “La ricerca della felicità” (il migliore, a mio avviso) e “Le avventure di Ernest Alembert”; a parte i primi due titoli, già comparsi negli anni scorsi in una edizione scolastica, il terzo viene invece pubblicato in traduzione italiana per la prima volta. Tutti e tre i testi sono accomunati dal tema magico che sembra affascinare la penna della giovanissima Charlotte in modo particolare, materializzandosi nella comparsa di geni e fate, esseri soprannaturali che popolano mondi fantastici e lontani caratterizzati da una natura selvaggia, ma al tempo stesso meravigliosa.
Se da un lato le trame risultano poco articolate, dall'altro colpisce non poco la straordinaria fantasia della scrittrice, così come non passano inosservate le lunghe descrizioni paesaggistiche immortalate da una prosa che sconfina molto spesso in una curatissima dimensione lirica. Chiude la raccolta un breve saggio dal titolo “I Brontë, una famiglia di scrittori”, firmato da Maddalena de Leo che ha curato e tradotto interamente questo libro; profonda e appassionata conoscitrice della biografia e della letteratura bronteana (nel senso più ampio relativo a tutta la famiglia), la professoressa si è occupata anche del volume “Emily Brontë – La prima biografia completa" di Agnes Mary Robinson, pubblicato lo scorso anno dalla stessa casa editrice.
Nel complesso, un buon testo che chi ha amato i romanzi di Charlotte Brontë, la più longeva, seppure scomparsa nemmeno quarantenne, e la sola delle tre sorelle ad aver conosciuto una certa fama quando era ancora in vita, non dovrebbe lasciarsi sfuggire!

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    13 Mag, 2019
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“Nessun bambino è al sicuro senza una patria...”

Secondo più che positivo incontro, per me, con la narrativa dello scrittore algerino Yasmina Khadra, che lo scorso anno mi aveva molto colpito con “Khalil”, romanzo che esplora la scottante tematica del terrorismo covato nelle periferie d'Europa tra le nuove generazioni di musulmani.
“L'attentatrice”, opera di quasi quindici anni fa, ci conduce invece nel vivo della questione palestinese, nel cuore di una terra santa e dannata al tempo stesso. Il protagonista, il dottor Amin Jaafari, è un arabo-israeliano che, agli occhi della società ebraica, incarna il modello più riuscito d'integrazione all'interno dello Stato d'Israele. Cittadino israeliano dunque a pieno titolo ed eminente chirurgo presso un ospedale di Tel Aviv, Jaafari non ha dimenticato le proprie origini che affondano nella polvere delle antiche piste seguite un tempo dalla sua tribù beduina, ma è come se, dinanzi al dramma senza fine del popolo palestinese cui anzitutto lui appartiene, il suo cuore si fosse in parte anestetizzato; come se i suoi occhi si volgessero altrove, distratti dagli agi e dai privilegi che la propria posizione sociale generosamente gli accorda, come se le sue orecchie siano divenute sorde ai venti di guerra perenne che sferzano i Territori occupati. Fino al giorno in cui quella stessa guerra non si presenterà con raccapricciante violenza direttamente alle porte del suo rifugio ovattato, mostrando per di più il volto della persona a lui più cara: sua moglie Sihem.
Attraverso una scrittura fluida e magnetica che coinvolge fin dall'inizio il lettore, Yasmina Khadra racconta la discesa all'inferno, senza possibilità di redenzione, di un uomo al quale, all'improvviso, viene strappata ogni cosa, dalla donna amata alla fiducia nella vita, dall'illusione della felicità ai sogni...
Sullo sfondo, una Palestina disillusa e il suo popolo, piccolo Davide a cui sembra non restare altra arma, per combattere il grande Golia del sionismo, se non la propria carne da immolare sull'altare dell'odio che ormai, sia da una parte sia dall'altra, travolge tutto e tutti. In mezzo ai massacri e alla follia generale, queste pagine cercano di comprendere le ragioni degli uni e degli altri, lasciando intendere che tra i due pericolosi estremi (ed estremismi) esiste forse una via di mezzo in virtù della quale nessuno dovrebbe essere più privato della dignità. Perché è proprio nel momento in cui questa viene calpestata che esplode la rabbia più cieca e distruttiva.

“Ho voluto che capissi perché abbiamo preso le armi, dottor Jaafari, perché dei bambini si gettano sui carri armati quasi fossero bomboniere, perché i nostri cimiteri traboccano, perché voglio morire con le armi in pugno... perché tua moglie è andata a farsi esplodere dentro un ristorante. Non c'è cataclisma peggiore dell'umiliazione. […] Il problema è che impediscono loro di sognare, dottore. Cercano di rinchiuderli in ghetti finché vi si annullano. Per questo preferiscono morire. Quando i sogni sono conculcati, la morte diventa l'unica salvezza... ”

Perfettamente caratterizzato il personaggio di Amin, la cui angoscia non avrebbe potuto trovare descrizione migliore; non da meno quello di Sihem, il cui fantasma aleggia inquietante nel corso di tutta la narrazione insieme a innumerevoli interrogativi destinati a restare in parte senza risposta.
Un romanzo coraggioso di un'intensità sconcertante, alla cui lettura si rimane avvinghiati dalla prima all'ultima pagina dove infine riecheggeranno, nonostante tutto, parole di speranza sulla possibilità di “reinventare il mondo che ti hanno negato.” Cinque stelle e lode!

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Mag, 2019
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Fili smarriti e persino aggrovigliati

Di Chiara Gamberale, negli anni scorsi, avevo già letto altri due romanzi, “L'amore quando c'era” e “Le luci nelle case degli altri”, apprezzando in particolar modo quest'ultimo titolo.
Ora questo suo nuovo lavoro, in verità, mi lascia abbastanza perplessa. Non ho ritrovato ciò che mi era piaciuto in passato del suo modo di raccontare. Eppure l'idea di fondo, l'abbandono da parte di chi si ama, era buona con quel richiamo all'antico mito di Arianna che viene lasciata da Teseo sull'isola di Nasso dopo la partenza da Creta, dove lei lo aveva aiutato a fuggire dal famoso labirinto del Minotauro partendo infine insieme a lui senza pensarci due volte.
E di essere piantata in asso dal proprio compagno capita, nello stesso identico modo brutale e vigliacco, anche alla novella Arianna al centro di queste pagine, una donna insicura e inquieta, vittima con tutta evidenza di una storia d'amore malata. Non a caso, l'abbandono non può che ripetersi a Nasso, bella e luminosa isola sotto il sole dell'estate, dove tutto può accadere, persino gli incontri più impensabili. E se l'irritante Teseo fugge, ecco sopraggiungere all'improvviso il Dioniso mandato dalla provvidenza e con il quale la svolta nella vita avrebbe potuto esserci senz'altro. Ma, a questo punto, il buon vecchio mito, che vedeva la povera fanciulla abbandonata convolare a giuste nozze addirittura con un dio e ritrovare la perduta felicità, s'inceppa ed è lì che i fili vengono smarriti e, forse, s'aggrovigliano tumultuosamente. Così come le parole, i pensieri, le elucubrazioni della protagonista che spesso sono un fiume in piena.
La prosa, soprattutto nella prima parte, risulta molto caotica, ingarbugliata, tremendamente pesante, cosa che fa arrancare nella lettura; sebbene altre parti scivolino meglio, addirittura suscitando curiosità, nel complesso il giudizio su questo libro non è positivo. Non posso che concordare con chi mi ha preceduto a leggerlo e recensirlo e arrendermi a una valutazione purtroppo striminzita, restando in fiduciosa attesa del prossimo romanzo della Gamberale...

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    29 Aprile, 2019
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Anni di piombo

Ha ragione lo scrittore statunitense Joe R. Lansdale quando scrive che Giorgio Scianna “è un maestro nel raccontare storie”. Anche a me, che ancora non conoscevo questo autore di Pavia, sono state sufficienti poche pagine per lasciarmi catturare dalla sua prosa e comprendere di trovarmi di fronte a un grande talento letterario dei nostri giorni.
Prosa decisamente scorrevole e molto accattivante, quella attraverso la quale Scianna dà vita a una trama che ha il merito di catturare il lettore già subito dopo l’incipit. Una scrittura che coinvolge facendo entrare a poco a poco in scena personaggi ottimamente caratterizzati e a cui, come ci si rende conto alla fine del libro, si finisce in un certo qual modo per affezionarsi. A partire da Marghe, la giovane protagonista di queste pagine, sulla cui testa sono cadute all’improvviso cose più grandi di lei, così come, di conseguenza, su tutta la sua famiglia.
Sullo sfondo della Milano dei primi anni Ottanta, città con tante ferite ancora aperte, si svolge la vicenda di Margherita Carpani, “una ragazzina che faceva cose da grandi”, che a diciotto anni ha già precisi ideali e uno sguardo ben attento alla realtà sociale attorno a sé e riflette sul fatto che il numero dei senza tetto per strada sia forse pari a quello delle case sfitte in città; padre medico e madre avvocato, un fratello adolescente, una sorella più grande e una vita come tante nel quartiere San Siro.

“Voleva solo comprendere come si potesse vivere in uno Stato dove lo Stato stesso metteva le bombe, come aveva fatto a Piazza Fontana, e che faceva le cariche contro gli operai delle fabbriche. Se c’era una lotta in corso non prenderne parte era sbagliato, vigliacco e sbagliato.”

Sono ancora i sanguinosi e laceranti anni di piombo, quando la guerra delle Brigate Rosse contro lo Stato viene intaccata dalla legge sui pentiti approvata dal Parlamento e dagli sconti di pena concessi pertanto ai brigatisti collaboratori che, agli occhi degli ex compagni di lotta, diventano senz’appello traditori infami. E tale etichetta, quella di “infame”, appunto, non sarà risparmiata nemmeno alla stessa Marghe dopo la scarcerazione da San Vittore e la riduzione della condanna agli arresti domiciliari ottenuta dissociandosi dal gruppo di appartenenza e fornendo relative informazioni. Era stata arrestata qualche mese prima davanti all’università con l’accusa di favoreggiamento ad attività terroristiche; la partecipazione a una decina di riunioni clandestine nei garage, la stampa di qualche volantino col ciclostile, l’essere sempre stata tenuta all’oscuro delle decisioni dei vertici e nessuna azione violenta compiuta in prima persona danno al suo “curriculum” da brigatista il valore del due di picche, sebbene pure per i fiancheggiatori siano previste pene detentive non certo di lieve entità. Il sofferto percorso interiore della ragazza, prima in carcere e poi tra le quattro mura del piccolo appartamento che il padre ha preso in affitto e predisposto per i suoi arresti domiciliari, è qualcosa di molto complesso e profondo che l’autore è riuscito a far emergere con grande maestria, rendendo nel contempo il personaggio di Marghe, a mio parere, davvero straordinario e indimenticabile. Perché sarà proprio questo suo percorso a indurla a maturare ulteriormente e a farsi carico di responsabilità che, soprattutto alla luce di un fatto improvviso e pericoloso, non potrà eludere.
Straordinaria anche la figura paterna, a tratti quasi commovente, che si prodiga per questa figlia che non si rassegna a perdere in nessun modo e che spesso si mostra fragile ed emotiva, a differenza di quella della moglie che riesce invece a mantenere un atteggiamento più razionale sconfinante in una apparente indifferenza; ma anche quest’ultima, infine, saprà rivelarsi profondamente umana nei propri sentimenti di madre. Particolarmente ben riuscito pure il personaggio di Martino, il fratello minore molto legato a Marghe, che, suo malgrado, da un certo momento in poi si ritroverà al centro di qualcosa capace di tenere il lettore per davvero col fiato sospeso.
Un bellissimo romanzo, un libro che, con delicatezza e coraggio, affronta sia il tema di quella fase di passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta sia quello del terrorismo, mostrando come la violenza non sia mai la strada giusta da percorrere per combattere ingiustizie e realizzare grandi ideali, nemmeno negli anni più rivoluzionari della vita.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    24 Aprile, 2019
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Intrigo internazionale

Nico Orengo, autore torinese scomparso appena una decina d'anni fa, è stato per me una bella scoperta di questi ultimi mesi. Dopo aver letto, e molto apprezzato, la splendida silloge poetica dal titolo “Cartoline di mare” (Einaudi, 1984), ho voluto subito reperire anche un testo in prosa di questo prolifico e versatile scrittore.
“Islabonita” (Einaudi, 2009) è un romanzo sospeso tra noir e favola dal fascino orientale.
Non a caso, dal Vicino Oriente viene la giovane Fatima, pettinatrice di professione, la quale compare all'improvviso in un paesino dell'entroterra ligure, Isolabona, ribattezzato “Islabonita” da Michel, presunto marinaio marsigliese, sulle note struggenti di una canzone sudamericana che un grammofono ripete puntualmente. Ma chi è in realtà Fatima, al di là della bella e seducente donna che ama farsi il bagno in una tinozza di mirto, scrutare la sua sfera di vetro e stare alla finestra a pettinarsi i lunghi capelli neri? Sullo sfondo della Riviera ligure degli anni Venti del Novecento, prende vita una vicenda ricca di personaggi e intrecci vari, tra sultani in esilio, regine sabaude, anguille che cercano di risalire disperatamente la corrente, fascisti, massoni, servizi segreti, spregiudicate spie provenienti da chissà dove e chi più ne ha, più ne metta.
Ecco, forse sono tanti, troppi gli intrecci e i personaggi che tendono a confondere e a disorientare il lettore, rendendo infine queste pagine, per lunghi tratti, poco invitanti. Peccato, la storia narrata non coinvolge, nonostante un incipit molto promettente e una trama in definitiva piuttosto originale, per non parlare dell'ottima qualità di scrittura di Orengo, abilissimo nel descrivere al meglio quell'angolo d'Italia a cui, come emerge anche dalle sue poesie, era particolarmente legato; gli stessi personaggi di Fatima e Michel risultano ben caratterizzati e notevolmente intriganti, ma tutta quella fitta rete di spionaggio internazionale finisce per essere poco coinvolgente, se non per annoiare.
Nel complesso, dunque, una lettura che non consiglierei a tutti: a mio parere, non l'ideale per iniziare a conoscere questo autore che, per il momento, continuo a preferire in versione poetica.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    17 Aprile, 2019
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Brividi!

Non sono una grande lettrice di gialli, thriller e affini, ma quando ho l'occasione d'imbattermi in un bel romanzo del genere in questione ne rimango sempre davvero entusiasta. Credo che negli ultimi tempi soltanto due libri mi abbiano catturata in modo tale da lasciarmi letteralmente senza fiato: “L'uomo del labirinto” di Donato Carrisi e “La stanza 123” di Isabella Liberto; quest'ultimo, in particolare, si è rivelato, per me che ancora non conoscevo l'autrice, una bellissima quanto inattesa sorpresa.
La trama, in apparenza semplice, racconta di un giovane docente universitario, Mark Candice, dalla vita, sia affettiva che professionale, ordinata e perfetta; tutto, però, viene a poco a poco stravolto dall'incontro con una studentessa che frequenta le sue lezioni, la quale finisce con l'invaghirsi di lui e molestarlo in maniera sempre più pressante e pericolosa. Una storia unicamente di stalking al femminile? Non solo, perché Lisa – questo il nome della ragazza – non è un'allieva come le altre e nasconde l'angoscioso segreto di una doppiezza malata e violenta. In un crescendo di colpi di scena e suspense allo stato puro, si scivolerà verso un epilogo che farà trattenere il respiro fino all'ultima pagina.
Attraverso una scrittura matura e decisamente coinvolgente, l'autrice ha dato vita a una vicenda molto ben orchestrata raccontata da più voci che, fin dall'inizio, cattura la curiosità del lettore, invogliato pertanto dalla scorrevole ed emozionante prosa a “divorare” il libro. Ottima la caratterizzazione di tutti i personaggi del romanzo, a partire da quello della stessa Lisa, la cui introspezione psicologica risulta, infine, qualcosa di tremendamente complesso; sono diversi, nel corso della narrazione, i momenti in cui il comportamento della ragazza, nonostante l'apparenza inoffensiva, incute vero e proprio timore, se non angoscia, e la bravura della Liberto si coglie anche dall'aver saputo creare, e gestire al meglio, un personaggio di questo tipo.
Una storia intensa e drammatica, raccontata con grande talento, che ci mostra coma la vita, talvolta, possa trasformarsi repentinamente in un incubo a causa di un incontro sbagliato.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Aprile, 2019
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Quel ramo del lago di Lugano

Che cosa dire, o scrivere, a proposito di un grande classico che non sia già stato detto e scritto in precedenza? In verità, niente di nuovo, niente di fondamentale. E un grande classico “Piccolo mondo antico” lo è per davvero, al pari di tanti altri titoli forse più famosi e apprezzati. C'è voluto qualche decennio prima che mi decidessi a leggerlo e, considerato ciò che vi ho trovato, mi pento di averci messo così tanto tempo.
Pubblicato sul finire del XIX secolo, questo di Antonio Fogazzaro è un romanzo ricco di Storia e storie: la prima si concretizza nello sfondo delle guerre risorgimentali di metà Ottocento contro l'Austria, mentre le seconde sono incarnate dai tanti personaggi che ruotano intorno alla triste vicenda dei due protagonisti, Luisa e Franco, tutti funzionali, ognuno a suo modo, alla storia narrata, in molti casi presi a prestito da persone reali e ben conosciute dall'autore stesso, rintracciabili, sulla base del suo epistolario, nella cerchia familiare e in quella delle amicizie più prossime. Anche i luoghi descritti in queste pagine – le sponde lombarde del lago di Lugano, con la Valsolda e Porlezza – erano particolarmente familiari al Fogazzaro, che fin dall'infanzia soggiornava spesso nella villa della famiglia materna nel borgo di Oria.
E poi, forse principale protagonista in assoluto, c'è il Lago, con il suo ineguagliabile fascino, la “breva” fredda, le atmosfere cariche di nebbia e malinconia; un lago che non è soltanto quello lungo il confine svizzero, le cui acque vedranno compiersi il dramma dei coniugi Maironi, ma anche quello Maggiore, in territorio piemontese, che farà da magnifico scenario all'epilogo carico di morte e di vita.
Questo e molto altro ancora si rivela “Piccolo Mondo antico”, romanzo di grande intensità al quale non assegno per poco le cinque stelle piene; malgrado la lentezza dei primi capitoli che all'inizio fanno un po' arrancare nella lettura, da un certo punto in poi (per l'esattezza, dalla celebrazione furtiva del matrimonio tra i due giovani innamorati osteggiati dall'austricante marchesa) la trama diventa coinvolgente e appassionante, soprattutto negli accesi confronti tra Franco e Luisa; il personaggio di quest'ultima, a mio parere, è ottimamente caratterizzato, il più bello in assoluto, e la sua personale visione della religione, scevra di bigottismo, stupisce non poco alla luce del periodo storico in questione, nonché anzitutto del suo essere donna. Ci sarebbe da soffermarsi pure sul personaggio dello zio Piero e su alcuni minori, tra cui la signora Pasotti, la povera Barborin, che si finisce per amare, così come da discorrere di questioni relative al dialetto, neh, che ben si fa spazio nella scrittura fogazzariana, o al patriottismo ottocentesco che sognava un'Italia finalmente libera dal giogo straniero, ma sarebbe impresa ardua e inutile. Occorre dunque leggere il libro, lasciarsi catturare dalla vicenda, dall'amore, dal dolore, dalle acque ammalianti del Lago, assaporando ogni istante di quel piccolo mondo antico che non tornerà più.

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Aprile, 2019
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Fra terra e mare

Un'autentica e splendida sorpresa, per me che fino a poco tempo fa non conoscevo nemmeno il nome dell'autore, questa silloge poetica che risale alla metà degli ormai lontani anni Ottanta!
Nato, vissuto e morto a Torino, Nico Orengo (1944 - 2009), prolifico scrittore che spaziava dalla prosa alla poesia, senza tralasciare le filastrocche per l'infanzia né l'attività giornalistica, firmò numerosi libri, molti dei quali pubblicati dalla casa editrice Einaudi per cui aveva anche lavorato.
Queste sue “Cartoline di mare” si rivelano una più bella dell'altra: una sessantina di brevi liriche (alcune, in verità, brevissime) in cui s'intrecciano rime e assonanze ben dosate all'interno di una scrittura poetica ricca di metafore e similitudini, frequentemente incline all'enjambement che spezza dando nuovo ritmo a costrutti che celebrano la Natura nel suo significato più sublime.
Sono i paesaggi di terra e mare (nello specifico, quelli della costa tra Mentone e la Liguria) che fanno da sfondo ai versi di Orengo; quadri mediterranei di grande fascino dove si spandono i profumi della lavanda e del rosmarino sospinti dai venti, insieme ai quali corrono anche le nuvole di Provenza “che si perdono sul mare/ e navigano in simpatie/ di correnti, cercando/ la risalita verso le cime/ degli olivi e dei pini [...]”. La compenetrazione fra terra e acqua, due dei quattro elementi vitali dell'universo, è continua, incessante, un pressoché reciproco sconfinare dell'una nell'altra senza interruzione alcuna poiché gli animali e i vegetali che le popolano vivono in una sorta di simbiotico incontro che, seppur in un'area di confine, reali barriere non conosce: “Scende il gelsomino/ ad accarezzare il mare [...]”; “[...] i richiami incrociati/ fra il tordo e il sarago,/ la volpe e il granchio,/ il sorbo e l'alga,/ il garofano e l'ofiura [...]”; il mare stesso, che “fiorisce di marzo”, è una pianura che si muove “e cerca le radici/ dell'ulivo” , i branzini sono spinti a riva incontro “ai colombi impauriti”, mentre la terra ha portali di conchiglie e sabbia,/ alti sulle vie con pigne [...]”. Non si contano i passi di tal genere che sottendono confini evanescenti di rocce e sabbia dove tutto si mescola e si confonde, sotto cieli di stagioni che sfumano lente e si avvicendano veloci.
Splendidi i colori che s'accendono (dal giallo allegro dei limoni al rosso vivo dei ricci) in infiniti giochi di luce riflessi in freschi cristalli di spuma, così come sembrano emanare da queste pagine persino i profumi intensi della macchia mediterranea, tanto la penna dell'autore è capace di dipingere immagini reali, e non soltanto idilliache dal momento che il mare, che corrode e scava gallerie in profondità, è anche teatro di lotta con “[...] bolle di sangue,/ quando feroci le battaglie/ fra polipi e murene/ gli scuotono il ventre [...]”. In tutto ciò, la presenza dell'uomo è impercettibile, quasi assente ma sempre inquietante, ridotta a una impronta o all'amo che attende il pesce o, ancora, nello sparo che blocca il tordo “in goccia di piume e sangue” e le tortore di primavera in pulviscoli di cenere.
Maria Corti, nella sua attenta introduzione alla raccolta di Nico Orengo, parla di “un canzoniere per la Natura” che non poteva mancare “proprio oggi che la natura si allontana, ci lascia, per nostra colpa sparisce”: a distanza di oltre trent'anni dalla pubblicazione di questo splendido libro, esso si presenta ancora ai giorni nostri, alla luce dell'ulteriore sofferenza che grava sull'ambiente, come sempre validissima lettura, offrendo ai nostri sogni un Eden perduto che il genere umano, ahinoi!, non potrà più recuperare.

"Ci sono onde mai
che arriveranno
a riva.
Si incrociano da levante
e da ponente e
si rompono al largo,
in isole di schiuma.
In breve evaporano
e sprofondano
senza ferita."

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Arte e Spettacolo
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    08 Aprile, 2019
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“Tiresia sono”

È un grande Camilleri che riconferma le sue straordinarie doti di narratore quello che ci parla attraverso queste pagine, peraltro messe in scena sul finire della primavera dello scorso anno al Teatro Greco di Siracusa e interpretate con successo dall'autore stesso.
“Conversazione su Tiresia” è un libriccino di scorrevole e illuminante lettura che riporta al centro dell'attenzione il celebre veggente di Tebe di mitologica memoria, il quale, in virtù delle sette esistenze che Zeus gli diede la possibilità di vivere, racconta, e si racconta, in prima persona, prefiggendosi di “mettere un punto fermo nella mia trasposizione da persona a personaggio”. Una voce narrante, quella di Tiresia, che ripercorre il fascino antico del mito greco popolato di dèi talvolta benevoli, talaltra spietati nei confronti dell'uomo, quando l'Ellade era un Eden letterario incontaminato dove gli aedi cantavano incomparabili e irripetibili gesta d'eroi cui attinsero per lungo tempo poeti e tragediografi, per passare poi attraverso la Storia, quando l'Olimpo all'improvviso si svuotò e la croce cristiana condizionò e rielaborò il mondo pagano.
Un breve ma intenso excursus letterario sulle orme della figura del vecchio Tiresia che visse la propria arte profetica come la più tremenda delle condanne e che fu uomo, donna e poi ancora uomo, avvicinato da Ulisse e da Edipo, diffamato e insultato da nomi altisonanti della letteratura, fino ad arrivare al Novecento, il secolo del riscatto.
Infine, una riflessione sulla cecità ormai comune sia a Tiresia che al nostro scrittore siciliano induce a notare un'affascinante analogia tra i due che, infatti, nelle battute conclusive di questa Conversazione finiscono per confondersi:

“Ho trascorso questa mia vita ad inventarmi storie e personaggi, sono stato regista teatrale, televisivo, radiofonico, ho scritto più di cento libri, tradotti in tante lingue e di discreto successo. L'invenzione più felice è stata quella di un commissario.
Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant'anni, ho sentito l'urgenza di riuscire a capire cosa sia l'eternità [...]”.

Un piccolo gioiello! Da leggere!

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    08 Aprile, 2019
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Sorprese preziose

Un piccolo inaspettato gioiello, questo testo di Victor Hugo di cui ho trovato una copia in una libreria storica di Pavia, uno di quei luoghi di grande fascino dove è ancora possibile reperire libri spesso sconosciuti e ormai fuori catalogo.
Forse non ancora troppo conosciuto in Italia, il racconto in questione, il cui vero titolo è “La leggenda del bel Pécopin e della bella Bauldour”, riprende un filone della favolistica medievale i cui scenari spaziano dall'Europa del Reno fino a Baghdad e ad altre lontane terre esotiche. Si narra la storia di due giovani fidanzati molto sfortunati, Pécopin e Bauldour, di cui, poco prima delle nozze, si farà beffe un demonio dallo strano linguaggio, un misto d'italiano, latino e spagnolo. Sullo sfondo di castelli e foreste incantate, al cospetto di re, cavalieri e califfi, il tempo si annulla, mostrando come la vita sia davvero un battito di ciglia e la giovinezza, in particolare, sfiorisca, ahinoi, troppo in fretta. Un Victor Hugo in gran forma, il quale si conferma geniale tanto nei capolavori di più ampio respiro che nei testi più brevi!
Impreziosiscono il volumetto alcune tavole, raffiguranti rocche e castelli dalle atmosfere gotiche e romantiche, realizzate dallo stesso autore che – forse non tutti ne sono a conoscenza – fu anche apprezzato disegnatore e acquarellista; una di queste riporta la didascalia “La Tourgue” che, se la memoria non m'inganna, era l'inquietante torre posta sotto assedio nel romanzo “Novantatré” che avevo letto alcuni mesi fa... Meraviglie della letteratura!

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Consigliato a chi ha letto...
... non necessariamente gli altri libri di Victor Hugo.
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Romanzi autobiografici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    13 Marzo, 2019
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Terra Santa

Ha grande forza poetica questo Diario che, a detta della stessa autrice, è “un'opera lirica in prosa”. Pagina dopo pagina, annotazione dopo annotazione, Alda Merini ricostruisce e ripercorre la propria esperienza personale all'interno dell'ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, dove venne fatta ricoverare dal marito a partire dalla metà degli anni Sessanta: un lungo dolorosissimo internamento che le avrebbe lasciato nell'anima ferite profonde e, seppur a distanza di tempo, cicatrici destinate a non scomparire mai più.

“Ricordo il primo giorno che entrai in manicomio. Fin lì non ne avevo mai sentito parlare. Avevo chiesto aiuto a dei neurologi per dei piccoli disturbi, ma non conoscevo questi ghetti. Perché, se avessi saputo una cosa simile, mi sarei certamente uccisa.”

Ed ecco sfilare uno dopo l'altro, nella memoria di chi li ha vissuti sulla sua pelle, tutti gli orrori di quello che era all'epoca il manicomio, uno spazio strano e inumano, pieno di odori penetranti, in cui il tempo veniva meno riducendosi a una successione di giorni incolori sempre uguali: dalle abluzioni forzate del mattino all'elettroshock, senza dimenticare l'abbondante e scriteriata somministrazione di farmaci che finiva per distruggere la salute mentale di “malati” che, in molti casi, dalla pazzia vera e propria non erano certo affetti al momento del ricovero (spesso, in verità, si trattava di ordinari casi di depressione o di crollo nervoso); folli, semmai, si diventava per davvero, quasi come autodifesa, tra le inquietanti mura del manicomio, a seguito di trattamenti disumani e degradanti che buona parte del personale, tra medici e infermieri, non risparmiava a chi, là dentro, era totalmente inerme e alla sua mercé. Pochi, ma preziosi, i gesti di umanità in quel luogo di supplizio; calpestati senza pietà sogni e bisogni; limitata e mai incoraggiata la socialità tra i ricoverati (anche se ciò non impedirà alla Merini d'innamorarsi e sentire ancora la propria femminilità). Come quella di biblica ed evangelica memoria, anche il manicomio diveniva una sorta di Terra Santa, dove si espiavano le colpe del mondo e ogni cosa si faceva sacra, soprattutto il dolore.

“Sì, la Terra Santa. E noi vi eravamo immersi, in quelle latrine puzzolenti, dalle albe (ma non vedevamo mai un'alba) al tramonto più cieco.”

Tale esperienza non si esauriva con la fine dell'internamento, ma si trascinava anche oltre i cancelli dell'ospedale psichiatrico, condizionando per sempre l'esistenza anche di chi veniva infine dimesso, costretto a portare addosso un marchio d'infamia indelebile fra i pregiudizi e la diffidenza delle persone cosiddette “normali”.

“Il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a disfartene mai”.

Pagine particolarmente drammatiche, sconfortanti e cariche di dolore intenso che, a tratti, sembra farsi palpabile nella successione talvolta disordinata e ripetitiva degli sprazzi di memoria che la grande poetessa milanese ha voluto qui condividere. Perché dopo il silenzio, anche poetico-creativo, al quale erano stata costretta in quegli anni miserevoli, sentiva forse il bisogno di raccontare, affinché niente di tutto ciò che aveva vissuto fosse più vittima anzitutto dell'indifferenza generale.

“La nostra legge era il silenzio. Il silenzio gravato da mille solitudini; un silenzio ingombrante, atono, come le foglie ferme ma noi eravamo teneri usignuoli feriti e la nostra infelicità dava sangue e le nostre ali erano tarpate e il nostro grembo deserto.”

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    26 Febbraio, 2019
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“Cosa resta di noi quando perdiamo noi stessi?”

Memoria, radici, sentimenti: sono questi i temi attorno al cui intreccio si muovono i personaggi del nuovo romanzo di Michela Marzano, edito nelle scorse settimane da Einaudi.
Un romanzo bellissimo, intenso, a tratti struggente, che racconta non una ma due storie parallele, seppur appartenenti a dimensioni temporali differenti: una è quella della voce narrante, Alessandra, una quarantenne italiana trasferitasi da molti anni in Francia per sfuggire al peso insostenibile dei ricordi legati a una drammatica vicenda familiare e lasciati nel suo assolato Salento; l’altra, invece, è quella di Annie, l’anziana madre del compagno della stessa protagonista, la quale viene colpita da un disturbo neurodegenerativo che erode senza pietà ricordi e affetti della sua esistenza passata. È a lei che si riferisce quell’ “idda” che riecheggia quasi misteriosamente nel titolo e il cui suono e significato (“lei”, in dialetto pugliese) riemergono all’improvviso dal pozzo del tempo e delle parole identitarie in verità mai dimenticate. Due donne diverse, figlie di epoche lontane, due vicende in apparenza slegate che però, proprio quando sembra che tutto sia finito per via della malattia di Annie, troveranno un punto d’incontro inatteso attraverso uno di quei piccoli grandi miracoli con cui la vita talvolta può sorprenderci.
Particolarmente coinvolgente e profonda, la scrittura dell’autrice ci consegna un’unica storia dai tanti volti che affronta con coraggio anzitutto il tema della malattia negli anni della vecchiaia - la si chiami Alzheimer, demenza senile o in altro modo - mettendo ben in evidenza sia l’estrema fragilità di chi la vive in prima persona sia lo spaesamento, e forse anche la non completa accettazione, da parte dei familiari. “Che cosa resta di noi quando perdiamo noi stessi?” ci si domanda con angoscia di fronte a un evento di tale portata che fa sì che non si riconoscano nemmeno le persone più care; e poi, raggiunta una certa età, chi dice che non si possa avere “diritto” al decadimento mentale? Difficile dare una risposta certa a interrogativi tanto inquietanti perché, come dimostra Alessandra, abbiamo tutti paura di perdere il controllo sulla nostra vita, di non riconoscere gli altri né, tanto meno, riconoscerci.

“Chi siamo davvero? E se la verità fosse altrove, diversa rispetto a quello che pensiamo? E se la parte autentica di ognuno di noi fosse nascosta proprio finché ci sforziamo di controllare tutto, perché ci sono tante cose da fare e non possiamo permetterci il lusso di essere, semplicemente essere, stanchi, depressi, svogliati, capricciosi, noiosi, persino sbagliati e dementi, ecco sì, questo: dementi?”

Tutto ciò, naturalmente, non può non ricollegarsi al tema del passato, quella preziosa identità individuale che, nel bene e nel male, fa parte di noi rendendoci quel che siamo e senza la quale non si può vivere appieno il presente né costruire il futuro. Non lo si può rinnegare, il passato: per quanto lontano si provi ad andare, per quanto si cerchi di ricominciare daccapo altrove rivestendo il cuore d’un manto d’oblio forzato, ce lo porteremo sempre dietro e presto o tardi dovremo affrontarlo perché “[…] il passato non passa mai, e la pace è sempre impastata di rimpianti e recriminazioni.”
Ottima la caratterizzazione dei personaggi, sia femminili che maschili; molto ben curata l’introspezione psicologica che scava nelle emozioni, nei sentimenti, nelle paure in particolare di Alessandra, in quel suo disperato rifiuto di diventare madre che potrà superare soltanto allorché si riconcilierà con la propria storia di figlia.
Un lungo e tormentato viaggio che ricostruisce esistenze ed essenze smarrite e, con tono spesso disarmante, racconta la forza dell’amore che, alla fine di tutto, è la sola cosa che ci appartenga veramente e rimanga per sempre.

“Ci sono cose che, sebbene l’amore che ci lega a una persona sia più profondo di un oceano, non possono essere né dette né spiegate. Nemmeno la persona che amiamo può ripagarci dei torti dell’esistenza. Lo sbaglio peggiore che si può commettere è attribuirle il potere di riparare la nostra vita.
Ma ci sono anche cose che dovrebbero sempre essere dette, pure quando mancano le parole e si è certi di non essere capiti. Altrimenti pian piano ci si allontana, si spalanca la voragine dell’incomprensione, e persino l’amore più grande viene consumato dall’indifferenza. ”

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Febbraio, 2019
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“Perche è bugiarda la vita?”

“Perché è bugiarda la vita?
La tua mente fragile e offesa
non lo capirà.”

È poesia da leggere e assaporare lentamente, questa di Katia Debora Melis, un lungo e articolato percorso emozionale alla ricerca del senso dell’umano esistere tra le pieghe sbiadite del nostro tempo; orfano di farfalle e ladro di sogni, quest’ultimo ha il respiro affannato di un vecchio quartiere, dove viviamo l’ergastolo dei giorni dal soffitto pulsante di stelle.
Ci si sente davvero al centro di questi versi che si succedono ora brevi e lapidari, ora più lunghi e indugianti sul mondo “che non conosce più equilibrio di stagioni”; e noi, che in esso abbiamo radici, siamo quei figli di terracotta la cui nascita viene mirabilmente fissata in “Genesi”, affascinante ed evocativo incipit della silloge:

“Quando il Sole
ha ingravidato la Terra
è diventato padre di tutti i padri
e la Terra, forte,
si è lasciata plasmare.
Nacquero figli di terracotta.
Siamo noi.”

Niente di più fragile, dunque, niente di più caduco – e, sotto certi aspetti, meno nobile – della natura umana, soggetta di per se stessa a smarrirsi e incrinarsi tra le burrasche della vita.
Attraverso una poetica matura e sapiente, ricca di immagini suggestive, l’autrice ci conduce tra squarci di contemporaneità e note di profondità intimistica. Desolante lo scenario della società attuale: “Regna/ il lamento/ ovunque. […] L’immagine leggera del sorriso/ vola via/ dissolta dalle ombre/ cariche di lacrime/ degli occhi del mondo.”
I colori dominanti non sono quelli luminosi della bella stagione, ma quelli cupi e opachi d’autunno e inverno perenni; si vaga così tra le parole cariche di disorientata sofferenza, sperando in uno spiraglio di primavera forse inesistente o cercando, per via artificiale, un “piccolo germoglio di sereno”. Manca il calore del sole a dipanare quelle ombre pesanti che sono i pensieri, mentre il dolore, come ci confida amaramente una delle liriche più belle, diviene un’immensità in cui non è semplice ritrovare il sorriso affinché si possa dare gioia autentica agli altri senza dover più fingere. Anche il tema della falsità e quello conseguente dell’accorato bisogno di sincerità risultano presenze tutt’altro che marginali nella scrittura della Melis: “Perché è bugiarda la vita?”
E se la vita ci racconta le proprie menzogne, la poesia, tuttavia, non tace le sue verità. Essa è spudorata, non meno scandalosa, e chi da sempre le dà voce, il poeta, è simile a un anonimo soldato, armato soltanto di vecchie e nuove parole e impegnato su innumerevoli fronti. Molte saranno ancora le battaglie e le guerre da combattere. Pertanto, oggi più che mai la poesia, che in fondo parla di quell’io senza tempo né luogo che siamo tutti noi, è chiamata a non rinunciare alla sua schietta spudoratezza, ai suoi voli surreali, alla speranza stessa ch’essa racchiude in sé.
Pubblicata nel 2016 dalla casa editrice calabrese Thoth, la silloge “Figli di terracotta” è veramente splendida: “una scrittura così squisita e profonda”, come scrive Lorenzo Spurio in chiusura della sua attenta e approfondita prefazione all’opera, alla quale accostarci per riflettere sul nostro tempo e la società che siamo, magari imparando a camminare con passi leggeri su questa nostra martoriata terra desiderosa di vivere una nuova stagione, “come se volassimo/ radenti/ sull’acqua.”

“Oggi che tutto si può fare
che niente più stupisce
scandalosa è la poesia.”

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    18 Febbraio, 2019
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Haiku

Semplice, delicata, stupenda: così si rivela la poesia di Valentina Meloni a chi, passo dopo passo, si addentra “Nei giardini di Suzhou”.
Giardini più ideali che reali, questi, scolpiti dal silenzio dell’anima e dal fluire imperturbabile del tempo; più metafora e simbolo di una dimensione dell’io e dell’esistenza, lontana dagli insulsi e opprimenti frastuoni del mondo, che luogo fisico rintracciabile da qualche parte, sebbene i Giardini di Suzhou abbiano in realtà una propria collocazione geografica nella provincia cinese del Jiangsu e rappresentino una importante oasi naturalistica diventata patrimonio dell’umanità dell’UNESCO ormai da quasi vent’anni.
Per quanto mi riguarda, è la prima volta che mi interesso e avvicino al genere haiku, poesia di tradizione orientale che, in tutta franchezza, è stata una piacevole e sorprendente scoperta: in soli tre versi, in cui sono racchiuse meno di venti sillabe, si concentrano immagini e sensazioni che lunghe poesie o addirittura poemi non è detto sappiano esprimere con altrettanta efficacia. La silloge di Valentina Meloni, ricca di ben duecento componimenti e di un interessante apparato di note ai testi, è un piccolo scrigno che custodisce gioielli in apparenza semplici e per niente vistosi, ma comunque di straordinaria bellezza. Dall’immensità dei cieli solcati da nuvole in corsa alla dolcezza dei prati in fiore, dalla malinconia della musica del vento all’incanto dei silenzi innevati, dalla stellata magia della notte agli assolati germogli del giorno: attraverso suoni, profumi, colori, l’autrice ci conduce in un viaggio tra le stagioni anzitutto dell’anima, dove contemplazione della natura e ascolto della propria interiorità s’intrecciano in un continuo gioco di compenetrazione infine inscindibile.
Tantissimi gli haiku che, come piccoli quadri o istantanee d’autore, fermano un momento catturandolo nella sua eternità e a chi legge – sublime potenza del verso! – sembra di vedere per davvero quelle scene, quei colori, quei movimenti, che siano voli d’uccelli, schiudersi di petali o agitarsi di fronde.

Vegliano piano
stelle stanche la notte
Non hanno sonno

Campo di grano
Un papavero rosso
sta solitario

Verde brillante
Un germano reale
scrolla le piume

Falce di luna
Dentro i campi del cielo
stelle mature

Cervi in amore
Le felci si muovono
dentro la sera

Abeti bianchi
in cima al santuario
giunti in preghiera

Lago increspato
Saette di rondini
tuffano il capo

Anatre in volo
Oltrepassano svelte
nuvole stanche

Versi da leggere e rileggere, lentamente. Poesia da ascoltare col cuore. Un’opera di profonda armonia, nonché di grande sensibilità, impreziosita inoltre dalle meravigliose opere pittoriche su carta di riso dell’artista siciliano Santo Previtera.
“È difficile esprimere qualcosa nella sua interezza”, recita la massima di un monaco zen che Giovanna Iorio cita nella sua bella prefazione al libro: sarà senz’altro così, dal momento che indubbiamente il linguaggio, a differenza del pensiero, ha limiti precisi, ma è pur vero che la poesia, in generale, può tanto e quella riecheggiante nei giardini dell’anima, come in questo caso, con poche ed essenziali parole riesce a raggiungere livelli superbi che se non possiamo chiamare perfezione, poco ci manca.

(I testi riportati sono di proprietà di ©Valentina Meloni)

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...a chi ama il genere haiku (o per curiosità voglia avvicinarsi a esso).
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    15 Febbraio, 2019
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Alla ricerca del Male

È il Male, declinato sotto molteplici aspetti, il grande protagonista di queste pagine dove, capitolo dopo capitolo, si susseguono nomi e titoli celebri o meno noti della letteratura straniera: da “Cuore di Tenebra” di Joseph Conrad a “Il signore delle mosche” di William Golding, da “Arancia meccanica” di Anthony Burgess a “La casa di Bernarda Alba” di Federico García Lorca, da “Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte” di Mark Haddon a “Le vergini suicide” di Jeffrey Eugenides...
Sono numerose le opere di ieri e di oggi prese in attento esame in questo saggio dal titolo accattivante che anticipa intrigantemente la tematica affrontata. Un libro di notevole interesse a firma di Lorenzo Spurio, giovane critico letterario, nonché poeta, che ha già all'attivo una bibliografia di tutto rispetto; pubblicato dalle Edizioni Helicon nel 2018, questo suo lavoro aveva ottenuto il primo posto per la saggistica inedita alla XLII edizione del Premio Letterario Casentino “Silvio Miano”, indetto dal Centro Culturale Fonte Aretusa di Poppi in provincia di Arezzo.
Violenza pura e semplice, autoritarismo, delirio di onnipotenza, barbarie autodistruttiva, perversione sessuale, genitorialità inetta e priva di amore, soprattutto quella materna, suicidio come risposta a inquietudini esistenziali e altro ancora: la gamma dei comportamenti umani condannabili è ampia e variegata, nonché costantemente sorprendente. Non è necessario aver già letto ogni singolo romanzo, o testo teatrale, a cui viene qui dato spazio poiché la trattazione da parte dell'autore, oltre che minuziosa e corroborata molto spesso da corposi stralci tratti dalle rispettive opere in lingua originale, risulta appassionante attraverso una scrittura senz'altro coinvolgente e capace di tenere ben desta l'attenzione di chi legge. Particolarmente avvincenti, a tal proposito, il capitolo dedicato alle cupe mura domestiche di Bernarda Alba, nel dramma che García Lorca ultimò poco tempo prima del suo assassinio nel 1936, e quelli incentrati sul tema dell'alienazione umana e della repentina e sconvolgente regressione allo stato di natura che sia William Golding sia James Graham Ballard dipinsero a tinte inquietanti nei rispettivi romanzi “Il signore delle mosche” (1954) e “L'isola di cemento” (1974), per tacere poi delle tante pagine che cercano di scandagliare gli abissi di chi abbraccia, purtroppo, la scelta estrema del suicidio, ponendo l'accento sulle cause e non sulle modalità che seducono la massa, non soltanto tramite la fiction che J. Eugenides intesse per le sorelle Lisbon de “Le vergini suicide”, ma anche attraverso il caso personale della grande scrittrice inglese Virginia Woolf che, come noto, mise termine alla propria vita lasciandosi annegare nel fiume Ouse sullo sfondo di un'Inghilterra ferita dalle bombe del secondo conflitto mondiale. Molto interessante, inoltre, l'analisi che Lorenzo Spurio compie, dimostrando di esserne un profondo conoscitore, dell'opera di Ian McEwan, autore britannico di fama mondiale nella cui narrativa dei primi tempi sembrano trovare posto privilegiato “tematiche scottanti” che non risparmiano niente al lettore, specie crudezze di carattere fisico e sessuale.
Un lungo viaggio, dunque, negli inferni del quotidiano vivere, talvolta insospettati o appena visibili dall'esterno, e in quel “cuore di tenebra” senza tempo che ancora batte nel corpo sempre più malato della società attuale. Un'opera, questa di Spurio, che suscita curiosità, fin dal titolo, solleva domande e dalla quale è possibile trarre, per chi fosse interessato ad approfondire, ottimi consigli di lettura o, eventualmente, rilettura alla luce delle dettagliate analisi proposte. Del resto, le vie del Male in letteratura, e non solo, si sono sempre rivelate d'inspiegabile fascino e i “cattivi dentro”, seppur personaggi di carta, non hanno mai annoiato.

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... "L’isola del dottor Moreau" di H.G. Wells, "Il signore delle mosche" di William Golding," L’isola di cemento" di J. G. Ballard, "Arancia meccanica" di Anthony Burgess, "L’Onda" di Todd Strasser, "Una settimana di vacanza" di Christine Angot, "Consigli a un giovane ribelle" di Christhoper Hitchens, "Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte" di Mark Haddon, "La casa di Bernarda Alba" di Federico García Lorca, "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad, "L’inventore di sogni" di Ian McEwan, "Panino al prosciutto" di Charles Bukowski, "La signora Dalloway" di Virginia Woolf, "Le vergini suicide" di Jeffrey Eugenides, "Il piccolo Eyolf" di Henrik Ibsen.
Non è necessario, tuttavia, aver letto tutte queste opere per leggere questo saggio da cui è possibile trarre numerosi "consigli" di lettura.
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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    15 Febbraio, 2019
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“Resto donna di scogliera”

È poesia di vento e di mare, d'attesa e solitudine antica quella che prende vita tra le pagine dell'ultima raccolta poetica di Stefania Onidi, “Quadro imperfetto”, bellissima silloge pubblicata sul finire dello scorso anno da Bertoni Editore di Perugia; impreziosiscono il libro numerose illustrazioni della stessa autrice, apprezzata artista anche in ambito pittorico.
Come innumerevoli fili di una tela, i versi s'intrecciano l'un l'altro componendo un legame d'amore che interroga l'onda e la “rabbia azzurra” che s'infrangono a riva, così come i profondi silenzi che scavano nell'anima.

“Dal centro del mio silenzio nasce il filo./ Seme sonoro di tessitura/ leggera. Io canto. Io accolgo.” (da “La domanda”)

Una scrittura intrisa di sorprendente sensualità e grande fascino, estremamente intimistica, questa della Onidi, che inizia ben presto a evocare terracquee atmosfere mediterranee, ribadite in chiusura dell'opera dalla suggestiva lirica intitolata “Identità”:

“Resto donna di scogliera/ fiore di cisto selvatico/ nel taglio del vento/ nel segno del sale./ Aperta agli azzurri senza nome/ alla ruota del sole/ alla gioia lenta della terra.”

Scorre fluente la penna dell'autrice, tra apnee necessarie e notti insonni che scendono come castighi, dando voce a sogni, speranze, illusioni di una donna che cerca di sopravvivere al dolore di un'assenza e che tesse, come una nuova Penelope, una tela destinata a restare incompiuta.

“Questa tela non vedrà la fine/ rimarrà incompiuta. Il telaio è morto./ […] Ho sempre ignorato le tue rotte/ non ho mai saputo di Circe o Calipso/ ho sempre guardato le mie mani, vuote di te,/ e di quel tuo nome sconosciuto ho ricamato/ il ricordo.” (da “La versione di Penelope”)

Echi di mito, in dosate e seducenti sfumature, si ritrovano tra i versi che inseguono il vento o che esplodono lenti nella solitudine del talamo, mentre la parola aiuta a tenere in vita l'inconsistenza di un nome che si fa polvere nel vuoto di un piatto e ad approdare, seguendo la corrente di un pensieroso mare, all'agognata carne dalle carezze non date. Una Penelope, tuttavia, a poco a poco non più in trepidante e speranzosa attesa che giungano notizie dall'azzurro orizzonte d'acqua, ma infine determinata, dopo aver assaporato l'amarezza della disillusione, a lasciar “migrare il tempo” e a liberarsi “dalle scorie” di colui che è assente, poiché se “il viaggio è la sua casa”, non ci sarà ormai più alcun ritorno da aspettare: sofferta e coraggiosa presa di coscienza suggellata dal fermo“Così è deciso” che sembra non ammettere repliche né ripensamenti.

“[...] E qui rimani nel gesto immaginato di un bacio/ nel raggio spettinato del giorno/ che svuota parole e riempie silenzi.” (da “Analisi”)

Pagine di profonda intensità che parlano al cuore di quell'io poetico senza tempo e luogo in cui ci specchiamo tutti, al quale l'incanto della poesia può persino raccontare che, in fondo, l'odissea del viaggio talvolta è quella di chi resta, non sempre quella di chi parte.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    14 Febbraio, 2019
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Silenzio!

Si rimane esterrefatti, quasi increduli, dinanzi alla storia nuda e cruda che, a poco a poco, emerge dalle pagine di questo testo teatrale in tre atti di Federico García Lorca.
Completata pochi mesi prima dell'assassinio dell'autore nel 1936, avvenuto nel contesto della guerra civile, “La casa di Bernarda Alba”, oltre a essere ormai un classico della letteratura spagnola, è una delle opere teatrali più famose al mondo; in Italia, la prima rappresentazione ebbe luogo già nel dopoguerra.
Sembra di sentirla, Bernarda Alba, protagonista indiscussa e prepotente, mentre grida “Silenzio!”, ordine perentorio che accompagna sia la sua entrata in scena che la calata del sipario al termine del terzo atto. Non è persona che si faccia mai mancare l'ultima parola, la vedova Bernarda, donna astiosa e incattivita dalla vita grama che i ricchi si riducono a condurre pur di preservare avidamente il più possibile il proprio patrimonio. Sottolineato dal minaccioso bastone che si porta dietro, il suo è un autoritarismo che esercita senza clemenza alcuna anzitutto ai danni delle cinque figlie, tutte rigorosamente nubili che abitano sotto il suo stesso tetto; la maggiore, Angustias, figlia di primo letto, ha trentanove anni, mentre la più giovane, Adele, appena venti. Soltanto la prima, in quanto titolare di un patrimonio tutto suo ereditato dal padre defunto da tempo, sembra aver diritto di sposarsi affrancandosi in tal modo, nei limiti del possibile, da una madre tanto dispotica e dal carattere devastante; per le altre sorelle, invece, sebbene anche loro abbiano appena sepolto il padre, nonché secondo marito di Bernarda (l'opera si apre, infatti, con i rintocchi delle campane in occasione del funerale), non pare esserci possibilità di fuga dalle cupe mura domestiche né dalle grinfie della genitrice priva d'amore che intende seppellire tutte quante, lei stessa inclusa, in un lutto destinato a durare anni. Le ragazze, pertanto, devono accontentarsi di sbirciare di nascosto il mondo attraverso le finestre della grande casa che rimane perennemente avvolta in un'atmosfera silenziosa e lugubre, essendo loro preclusa anche la possibilità d'avere minimi contatti con l'altro sesso. Ma sarà proprio un giovane uomo del paese, Pepe il Romano, fidanzato venticinquenne di Angustias, palesemente interessato alla dote di quest'ultima, a portare nella casa di Bernarda lo scandaloso scompiglio che condurrà al tragico epilogo del tutto imprevisto.
Un'opera magnifica, spietata, durissima, nella quale qualcuno ha anche visto una sorta di grande metafora che vorrebbe rappresentare il clima politico della Spagna dell'epoca di García Lorca ormai sull'orlo del regime franchista; la protagonista, secondo quest'ottica, agirebbe come un dittatore all'interno del proprio ambiente familiare, imponendo ferocemente le sue leggi, anzitutto morali, che non ammettono atti di ribellione, destinati, comunque, a essere espiati a ben caro prezzo, come dimostra l'ultima impietosa scena del dramma. Una lettura molto scorrevole e appassionante, carica di profondi significati e inquietanti interrogativi.

“E non voglio pianti. Bisogna guardare la morte in faccia. Silenzio! (A un'altra figlia) Zitta, ho detto! (A un'altra figlia) Riservati le lagrime per quando sarai sola. Ci annegheremo tutte in un mare di lutto. La figlia minore di Bernarda Alba è morta vergine. Avete sentito? Silenzio, silenzio, ho detto. Silenzio!”

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Fumetti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    13 Febbraio, 2019
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Cicatrici d'infanzia

Bello, molto bello, questo lavoro datato 2012 di Zerocalcare, al secolo Michele Rech, che ancora mi mancava all'appello! A parte una sola eccezione tra le opere finora lette, sono rimasta sempre particolarmente stupita dalla profondità dei temi affrontati che l'autore riveste con la patina, soltanto in apparenza leggera e disimpegnata, del fumetto.
Sotto i riflettori, tra le tavole di queste pagine, c'è l'infanzia, fase cruciale, e non sempre di spensieratezza, nella vita di ognuno, e tutto ciò che essa si porta inevitabilmente dietro: amicizie e inimicizie, miti e disillusioni, sensi di colpa, gioie e ferite che talvolta si rimarginano, talaltra no. In verità, “nessuno guarisce dalla propria infanzia”, tutti ne portiamo addosso le cicatrici per sempre, impietosamente.
Una storia molto ben costruita che, da un certo punto in poi, cattura tantissimo il lettore, il quale non può fare altro che “divorare” il libro per giungere al colpo di scena finale, anzi più di uno, mentre i tentacoli dell'originale polpo (chi non ne ha mai avuto uno addosso?!?) finiscono per allentarsi intorno alla gola di qualcuno, ma si stringono ancor più attorno a quella di qualcun altro. E intanto s'impara a conoscere il mondo di Zero, con i suoi personaggi principali, tra cui gli insostituibili Secco e Sarah, e i flussi di coscienza che assumono fattezze varie che vanno da David Gnomo ad altri personaggi che i ragazzini di oggi nemmeno conoscono più.
Lettura consigliatissima, tra le migliori, insieme a “Kobane Calling” (capolavoro assoluto!), “Dimentica il mio nome” e la prima e la seconda parte di “Macerie prime”!

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Racconti di viaggio
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    13 Febbraio, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

On the road alla cinese

È la prima volta in assoluto che leggo un autore dell'Asia Orientale, esperienza che non mi ha entusiasmata pienamente, ma che non mi lascia nemmeno del tutto insoddisfatta. Xu Xing, classe 1956, è uno scrittore cinese di Pechino che, dopo l'arresto dei genitori durante gli anni della Rivoluzione Culturale, condusse una vita errabonda.
Non a caso, l'io narrante protagonista del libro, probabile alter ego dell'autore, racconta i propri vagabondaggi attraverso la Cina, percorsa in lungo e in largo, Tibet compreso. Si è alla fine degli anni Ottanta e quella che emerge da queste pagine è l'immagine di un Paese già sulla tumultuosa via di profondi cambiamenti economici e sociali, in bilico tra passato e presente, con tutta evidenza ancora disorientato dal dopo Mao e dalle aperture di Deng Xiaoping alle capitalistiche leggi di mercato. Un Paese dove tutto, luoghi e cose di valore, sembra essere stato già accaparrato da qualcuno, senz'altro più sveglio e più furbo, arrivato alla meta prima degli altri a cui, pertanto, vengono lasciate solo le briciole, se non gli scarti:

“[...] a questo mondo tutti i posti belli sono già stati presi e le cose belle hanno già da tempo un padrone, solo quel che resta può essere tuo: il ciglio di una strada, un mucchio di immondizia, l'ospedale, la prigione, insomma, posti così; questi sì, ti appartengono, soltanto tra questi puoi fare la tua scelta e sei libero di andarci oppure no.”

Un concetto, questo, che viene ripetuto abbastanza spesso strada facendo (da cui, infatti, il curioso titolo dell'edizione italiana), al punto che nemmeno la giovane età di chi ci rimugina sopra pare possa dare consolazione o speranza:

“[...] allora che cavolo te ne fai di questa giovinezza in un mondo in cui tutte le cose belle e i bei posti sono stati occupati da qualcuno?”

Dunque, non si può che concludere amaramente: “C'è solo una cosa su cui ormai non ho più il minimo dubbio: che non resta più nulla, da nessuna parte!”

Rimane soltanto la possibilità di vagabondare allegramente, alla ricerca di un senso da attribuire alla vita che finisce per assumere “l'immagine astratta e poetica della strada”, metafora impregnata di forte disillusione che, malgrado tutto, non intacca il desiderio di viaggiare dell'autore né il modo spesso colorito e vivace con cui lui si esprime, raccontando situazioni e personaggi che incontra lungo il suo cammino. A mio parere, è una narrazione che stenta ad avviarsi e arranca parecchio all'inizio, regalando più di un potente sbadiglio, ma che, da un certo punto in poi, tutto sommato, non dispiace leggere proprio per lo stile ironico e beffardo che non risparmia niente e nessuno, né la vecchia né la nuova Cina, e dispensa perle di orientale saggezza su cui riflettere:

“[...] la vita è come un pozzo nero di profondità variabile, ai cui bordi tutti si accalcano, adattandosi come possono e cercando di fare buon viso a cattivo gioco; sebbene il fetore sia ovunque ugualmente denso e soffocante, guai a te se ci cadi dentro, vieni universalmente bollato come il più puzzolente e diventi la feccia che fa risaltare l'altrui pulizia.”

Talvolta, la penna di Xu Xing si fa addirittura dissacrante colpendo pericolosi “dogmi”, come quando, approdando in una Berlino ancora divisa dal Muro per rivedere Xi Yong, vecchio amico di vagabondaggi emigrato da tempo nell'Eldorado occidentale, così si esprime:

“Non lontano dal dipinto si ergevano le statue in bronzo di Marx e dell'amico che lo aveva mantenuto mentre lui scriveva i suoi libri; se non fosse stato per lui, il signor Marx sarebbe morto di fame e noi non avremmo mai beneficiato dei suoi radiosi insegnamenti. L'umanità avrebbe probabilmente brancolato nel buio ancora per millenni.”

Costretto a lasciare la Repubblica Popolare a seguito dei fatti di Tienanmen e poi tornato a Pechino nel 1994, Xu Xing è diventato in patria un autore di culto fra le giovani generazioni che all'inizio lo leggevano grazie alle edizioni pubblicate a Hong Kong. “E quel che resta è per te” è stato accostato, oltre che a “Sulla strada” di Kerouac, a “Il giovane Holden” di Salinger, ma in quest'ultimo caso il paragone mi sembra azzardato sia per i differenti contesti sociali sia per il modo di porsi dei due rispettivi protagonisti; quello cinese – e qui subentra la valutazione del tutto personale della sottoscritta che non ha per niente apprezzato l'acclamato romanzo americano – risulta ben più simpatico del pesante, pesantissimo Holden Caulfield da cui, secondo me, si tengono lontane persino le anitre di Central Park!

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    30 Gennaio, 2019
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La voce del mare

Forse Sepúlveda non riuscirà a scrivere un'altra favola altrettanto bella dopo “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” che, a suo tempo, tanto avevo amato, ma questa, a mio parere, è una splendida prova che molto le si avvicina.
Si rimane incantati a seguire il racconto della grande balena del color della luna, protagonista del nuovo libro del famoso scrittore cileno, che trascina il lettore nelle sempre misteriose profondità marine. Un tuffo tra le onde dell'oceano e dei mari più freddi, in un mondo di solitudine e silenzio dove, tra le creature che lo popolano, il meno adatto a stare non è altri che l'uomo.

“Così sono passate le ere, il tempo circolare segnato dal freddo e dal caldo portati dai venti e dalle correnti. Gli uomini impegnati a seguire il loro incerto destino e le balene a solcare la loro dimora salmastra dall'inizio alla fine della vita.”

Proprio il rapporto uomo-grandi cetacei è al centro di questa narrazione in cui il genere umano, tanto per cambiare, non fa certo una gran bella figura con la sua insaziabile avidità che arriva a depredare e distruggere persino i luoghi più remoti e meno accessibili del pianeta.
Con una prosa coinvolgente e affascinante, Sepúlveda dà voce alla grande balena la cui storia finora era stata raccontata soltanto da coloro che le avevano dato la caccia creando lo spaventoso mito del mostro marino Mocha Dick (dal nome di una piccola isola nell'Oceano Pacifico) che nel lontano 1820, nelle acque australi del Cile, distrusse con una forza spaventosa la robusta baleniera Essex del cui equipaggio sopravvissero ben pochi uomini; fu grazie alla testimonianza di quei superstiti che Herman Melville poté scrivere il suo celebre romanzo “Moby Dick”. Al tempo stesso, un modo per dar voce anche al mare, questa nostra preziosissima risorsa che, oggi come ieri, meriterebbe più rispetto.

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Romanzi storici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    18 Gennaio, 2019
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Dell'editor non ti fidar

Un bel racconto, un piccolo thriller storico sullo sfondo della città di Urbino di fine Settecento.
In un impeto di bontà, a questo libretto ho dato quattro stelle perché è sostanzialmente ben scritto e mi ha tenuto buona e divertente compagnia per un paio di giornate; se mi ricapiterà a tiro, leggerò ancora volentieri questo autore. Però, però...

Caro Marcello - mi permetto di darti del tu poiché siamo pressoché coetanei - la prossima volta la bozza del testo rileggila per intero dall’inizio alla fine, per favore, senza fare cieco affidamento su chi dovrebbe curare l'editing del testo.
Per farla breve: tra le pagg. 41-42 un manovale viene pugnalato a morte per mano di un uomo misterioso che “brandiva un pugnale sporco di sangue”; a pag. 91 si fa riferimento a quello stesso omicidio, precisando però espressamente che l’arma del delitto è stata una pistola; a pag. 92 si rievoca il pugnale insanguinato con il quale è stato commesso l’omicidio del manovale! Insomma, pugnale o pistola?!? Una svista grossolana che una casa editrice ampiamente diffusa come la Newton Compton non dovrebbe permettersi. E noi, poveri lettori, siamo così costretti a correre da una parte all’altra per ritrovare i passi incriminati, credendo di aver capito aglio per cipolla… Risparmiateci cotanta perdita di tempo!
Meglio, dunque, essere il primo editor di se stessi: tanto nessun altro, seppur pagato, leggerà mai qualcosa di nostro con la stessa cura e attenzione che possiamo avere noi.

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Racconti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    09 Gennaio, 2019
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Poveri cristi

È un’America anonima e spenta, pullulante di grigie periferie e poveri cristi in balia di solitudine e tossicodipendenza, quella che trova spazio, e voce, nelle pagine di “Jesus’ son” dello scrittore statunitense Denis Johnson, scomparso nel 2017 e considerato negli USA tra i maggiori autori di racconti del nostro tempo.
Non a caso, questo libro, pubblicato da Einaudi sul finire dello scorso mese di novembre, si presenta come una raccolta di singoli racconti accomunati però da quello che ha tutta l’aria di essere il medesimo io narrante, protagonista di una vicenda i cui tasselli sono episodi talvolta tragici e amari, talaltra quasi surreali.

“Stavo all’Holiday Inn da tre giorni, sotto falso nome, in compagnia della mia ragazza, sinceramente la donna più bella che avessi mai conosciuto, a farmi di eroina. Facevamo l’amore a letto, mangiavamo bistecche al ristorante, ci bucavamo al cesso, vomitavamo, piangevamo, ci accusavamo, ci imploravamo, ci perdonavamo, promettevamo e ci portavamo in paradiso a vicenda.” (da “Lavoro”)

Si rimane colpiti sia dal contenuto dei testi sia dallo stile narrativo dell’autore, e non sempre positivamente; in un primo momento, forse, addirittura spiazzati e spaesati. Per quanto mi riguarda, pur essendo un’appassionata di racconti e convinta sostenitrice del loro grande valore letterario spesso oggi snobbato da numerosi lettori, questi di Johnson non rientrano propriamente nel genere che preferisco e si discostano, solo per fare un esempio, da quelli di Nickolas Butler, altro noto autore americano contemporaneo, di cui, nei mesi scorsi, avevo letto e molto apprezzato la raccolta “Sotto il falò” (Marsilio, 2018).
Tuttavia, ho trovato almeno due racconti (“Matrimonio sporco”, dove si parla d’aborto, e “Beverly Home”), nonché diversi passi sparsi tra gli altri titoli presenti in “Jesus’ son”, di una profondità sorprendentemente disarmante che, d’un colpo, mi ha fatto rivalutare l’intera opera. Il senso della solitudine che sfocia nell’emarginazione, il peso dell’esistenza che cerca leggerezza nello sballo artificiale e nel sesso, la sofferenza di mucchi di umanità allo sbando emergono attraverso una scrittura che a tratti, per una inaspettata liricità, incanta. E fa molto riflettere.

“Sono salito su una carrozza mentre si chiudevano le porte; come se il treno stesse aspettando proprio me. E se ci fosse solo neve? Neve dappertutto, fredda e bianca, a riempire ogni distanza? E io che attraverso questo inverno seguendo il mio senso delle cose, finché non raggiungo un boschetto di alberi bianchi. E lei mi fa entrare.
Uno stridio di ruote, e d’un tratto ho visto solo le scarpe grosse e brutte degli altri passeggeri. Il rumore è cessato. Abbiamo oltrepassato scene di una solitudine straziante.
Attraverso i quartieri e oltre i marciapiedi delle stazioni, ho sentito la vita cancellata che mi sognava alle spalle. Sì, un fantasma. Una traccia. Qualcosa che rimane.”

Una lettura che, con buona probabilità, potrebbe non andare incontro ai gusti di tutti i lettori, ma non da rigettare in toto. Di certo, un autore da approfondire.

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    14 Dicembre, 2018
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Lungo le strade perdute d'infanzia

È un viaggio durato anni quello che, da un piccolo villaggio afghano, ha condotto il bambino protagonista di questo libro fino alla città di Torino. Un libro che si legge come un romanzo, ma che in realtà romanzo non è, semmai una storia tremendamente vera.
Lo scrittore Fabio Geda, con straordinaria empatia e cuore immenso, ha dato voce a Enaiatollah Akbari, afghano di etnia hazara, il quale all'età di circa dieci anni partì alla volta del Pakistan in compagnia di sua madre per poi ritrovarsi all'improvviso da solo senza nessuno su cui poter contare. Sarà soltanto l'inizio di un'odissea durante la quale l'infanzia verrà sopraffatta dalle necessità della sopravvivenza quotidiana, sfamarsi, trovare un posto in cui dormire, lavorare.
Fa molto male leggere di un ragazzino che vive di espedienti, che fatica da mattina a sera per un tozzo di pane o per mettere in tasca qualche soldo, spesso in mano a trafficanti di uomini, costretto a nascondersi perché clandestino. Piange il cuore sapendo che in certe parti del mondo tutto ciò è la norma per un numero incalcolabile di bambini a cui il diritto all'infanzia viene negato dalla vita stessa. E inquieta anche solo pensare che questa massa di piccoli diseredati possa cadere vittima di traffici ignobili (in primis, sesso e organi) o di pericolosi estremismi che li rendono fanatici strumenti di morte. Pure Enaiatollah sarebbe potuto diventare uno di quei ragazzini indottrinati che sgozzano malcapitati prigionieri al grido di “Allah akbar”, ma a lui non è accaduto; a proteggerlo, chissà, sarà stata una di quella miriade stelle che i suoi occhi cercavano di contare la notte durante il viaggio verso il Pakistan o, forse, la buona fortuna che qualcuno gli ha augurato strada facendo. E così, mentre si preannunciava un'adolescenza anch'essa scandita dalla medesima esistenza precaria e randagia di sempre, il tragitto è proseguito attraverso l'Iran, la Turchia e la Grecia prima di concludersi, dopo infinite pene e peripezie, compresa una rischiosa traversata del Mediterraneo, in Italia. Prima di trovare un posto che il suo cuore potesse finalmente chiamare casa. Prima di ascoltare di nuovo, dopo tanto tempo, il sospiro intriso di lacrime di una madre che anni addietro aveva compiuto un tragico atto d'amore.
Una lettura bellissima e commovente fino alle lacrime, la quale ci insegna che i coccodrilli possono nascondersi nel mare, ma qualcuno anche sulla terra ferma! Un libro che dovrebbero leggere pure i nostri ragazzini, figli di una società ormai sempre più tecnologica, apatica, indifferente, molto spesso spietata, per comprendere il significato di essere bambino in mondi lontani dal nostro.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Dicembre, 2018
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Storia e storie

Come tutte le piccole storie umane, anche quella di Ida e Useppe Ramundo si perde nella grande Storia e a essa s'intreccia, al tempo stesso, correndo in parallelo.
Elsa Morante, con una maestria disarmante e forse unica, ci narra la loro povera vicenda in questo romanzo che definire monumentale è poca cosa. Una voce coinvolgente, la sua, capace di scandagliare sentimenti ed emozioni di protagonisti e personaggi vari, nonché di accompagnare il lettore fra le strade di una Roma misera e ferita, ben lontana dai fasti baldanzosi e arroganti del Ventennio. Ed ecco riemergere da queste pagine di una intensità sconvolgente le macerie ancora fumanti di San Lorenzo o la sfollata desolazione di Pietralata o, ancora, i vicoli ormai condannati del Ghetto; dal baratro affannoso del tempo si leva anche il vocio incessante dei vagoni bestiame con il proprio tragico carico umano, in attesa di partenza dalla stazione Tiburtina. E poi la miseria più nera, la fame, sprazzi di lotta partigiana, mentre la Storia prosegue indifferente il suo cammino e la carne da macello continua a essere immolata sull'altare blasfemo della guerra.
Una scrittura magnifica e potente che si fa strepito di fucili e stupore di bambino, canzoni d'anarchia e ninnenanne perdute tra parentesi evanescenti d'infanzia; una scrittura altresì commovente e profonda che si cala nei vernacoli o nel cuore parlante delle bestie di sincera umanità e, con discrezione, s'insinua nella stantìa promiscuità di periferia, così come nei ricordi e nelle speranze deluse, nei pensieri e nei deliri incoscienti, raccontando ritorni e non ritorni da una guerra che, in verità, non finisce mai del tutto perché, per riprendere le parole di Primo Levi, “guerra è sempre”.
Struggenti e destinati a persistere nella memoria i personaggi di Useppe e Ida, meri pulviscoli in quel cielo sterminato di fragili stelle che è il mondo. Travolgente quello di Nino, drammaticamente sfuggente e ombroso quello di Davide. Ogni presenza all'interno dell'intreccio narrativo è ben collocata, nessun incontro sembra essere lasciato al caso, nemmeno quelli di passaggio che spargono “4 parole in tutto d'italiano” e altrettante poche noncuranti gocce di vita. Non ci sono parole con cui riassumere la trama de “La storia”, se non quelle dell'autrice stessa. Un'opera, dunque, da leggere e custodire dolorosamente nel cuore.

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Racconti di viaggio
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Dicembre, 2018
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I tanti volti del Marocco

“Un paese è ciò che noi siamo nel momento in cui lo visitiamo”

Più leggo Tahar Ben Jelloun, più apprezzo la sua scrittura! In questo libro lo scrittore marocchino – per lo meno sulla base di ciò che di suo ho letto finora – ha superato se stesso; la lettera conclusiva idealmente indirizzata al celebre pittore francese Eugène Delacroix meriterebbe, da sola, le cinque stelle piene!
“Marocco, un romanzo” è un lungo e appassionante viaggio nell’occidente di quell’Oriente così idealizzato dagli europei, un viaggio durante il quale Ben Jelloun accompagna il lettore alla scoperta di un paese ricco di storia e cultura, ma anche di facili stereotipi e numerose assurde contraddizioni. L’autore ci racconta anzitutto il suo Marocco, cioè quello da lui vissuto in prima persona, così come quello che affiora attraverso le storie altrui. Da Tangeri a Casablanca, da Fes a Marrakech, senza tralasciare altri luoghi meno noti, il Marocco si dispiega tra un passato e un presente che lanciano pressanti interrogativi sul futuro. S’incontrano i nomi di personaggi famosi legati a quest’angolo d’Africa, come gli statunitensi Paul Bowles e Allen Ginsberg, e quelli di artisti locali ignoti al grande pubblico.
Di grande interesse la parte relativa al culto dei santi (eppure tale culto non è ammesso dall’Islam ufficiale!), in particolare quello dei sette santi di Marrakech, di cui, a suo tempo, avevo già sentito parlare. Così come risultano molto interessanti anche le pagine dedicate alle riforme e alla figura dell’attuale sovrano Mohammed VI, molto amato dalla popolazione (e non soltanto temuto come accadeva con il padre Hassan II), il quale, “giovane” e aperto al mondo, sta realizzando molte cose positive, a partire dalle infrastrutture di cui si sta dotando il paese; tanti i passi avanti compiuti a livello economico e sociale (e persino religioso, aggiungo io, alla luce della sentenza, dello scorso anno, del Consiglio superiore degli ulama’ marocchini in materia di apostasia), ma la strada da percorrere è ancora lunga, specie per combattere la corruzione drammaticamente diffusa nei gironi infernali della pubblica amministrazione. Un ottimo libro per approfondire la conoscenza del paese in questione, magari affiancandogli, avendone la possibilità, un bel viaggio in loco.

“Il Marocco non si concede, non si dà. Forse bisogna sorprenderlo nel sonno o quando è insonne, in una notte di luna piena. Il Marocco è un enigma da sedurre con garbo”.

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... altri libri (saggi e romanzi) di Tahar Ben Jelloun; o a chi voglia conoscere qualcosa di più del Paese nordafricano in questione.
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Storia e biografie
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    30 Novembre, 2018
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Un amore spezzato

Sullo sfondo delle affascinanti atmosfere del Lago Maggiore, nacque l'amore tra la principessa Vittoria Colonna e l'artista Umberto Boccioni, legame che rivive nelle pagine di questa interessante e preziosa pubblicazione di Marella Caracciolo Chia, edita da Adelphi nel 2008.
Non si tratta di un romanzo, bensì di un'attenta ricostruzione storica sulla base anzitutto del carteggio tra i due, rimasto nascosto dentro un baule per quasi un secolo e venuto alla luce per puro caso, e poi anche di altre lettere private utilissime per riordinare, nel limite del possibile, tutti i tasselli della vicenda; si cerca, inoltre, di approfondire la vita dei protagonisti e, in un certo qual modo, anche quella di altri personaggi che si muovevano intorno a loro. Vittoria Colonna (1880-1954), nobildonna appartenente a una storica dinastia romana, conobbe il Boccioni (1882-1916), nome di spicco, come noto, del Futurismo, nel corso dell'estate del 1916, ormai nel pieno del primo conflitto mondiale. Un amore, il loro, breve ma intenso, sbocciato all'improvviso come spesso nascono le forti passioni. E, proprio come accade alle grandi storie, esso sembrava essere destinato, naturalmente, a percorrere una strada tutta in salita: già da una quindicina d'anni, Vittoria era la moglie di Leone Caetani, duca di Sermoneta e principe di Teano, esponente anch'egli di un altro imponente casato romano, sebbene il loro matrimonio fosse di fatto fallito e i due non vivessero più sotto lo stesso tetto, se non per brevi periodi dell'anno; all'epoca, era cosa tutt'altro che infrequente, nell'ambito dei ceti più elevati, avere un amante, ma ciò che non veniva ammesso, né perdonato, era il fatto di finire sulla bocca del bel mondo per non aver agito con la dovuta discrezione al fine di salvaguardare l'ufficialità coniugale che non poteva venire meno in alcun modo. Al momento dell'incontro con l'artista, lei viveva in affitto sull'Isolino di San Giovanni, una delle Isole Borromee del Lago Maggiore, un piccolo paradiso da dove si ammirano le poco distanti luci di Stresa e da cui, in quel periodo, la guerra appariva così lontana. Ma la guerra richiamerà il Boccioni, strappandolo per sempre alla propria arte e all'amore appena nato con la principessa romana.
Dunque, nessuna possibilità di futuro venne loro concessa, soltanto una “parentesi luminosa” sulla quale un destino beffardo e impietoso fece presto calare un tetro sipario (l'artista morirà indossando la divisa nell'agosto di quello stesso anno, a seguito di una caduta da cavallo avvenuta però non durante operazioni militari). Il mistero della scomparsa delle ultime lettere inviate da Vittoria e mai ricevute da Umberto al fronte (probabilmente intercettate dalla famiglia Caetani), poi, conferisce alla triste vicenda un tocco di ulteriore amarezza.
Oltre a riportare alla luce l'amore segreto tra questi due protagonisti, ognuno a modo proprio, del primo Novecento, attraverso il suo libro, l'autrice finisce per aprire una finestra sulla cosiddetta Belle Époque, il cui incanto fu definitivamente spezzato dai colpi di pistola esplosi a Sarajevo nel giugno del '14. Di particolare interesse, inoltre, e senza dubbio meritevole di approfondimento, la figura di Leone Caetani (1869-1935), uomo di grande erudizione e orientalista di tutto rispetto, nonché studioso di lingua araba e dell'Islam; a lui, che negli anni Venti si trasferirà in una sorta di esilio volontario in Canada con la nuova compagna e la loro bambina, si deve una serie di opere sul primo periodo islamico che tuttora trova credito in ambienti accademici non solo italiani.
Infine, arricchisce l'opera della Caracciolo Chia una raccolta di fotografie d'epoca che ritraggono soprattutto Vittoria Colonna, ancor prima delle nozze fino a tarda età, comprese quelle scattate sull'Isolino durante i giorni trascorsi in compagnia di Umberto Boccioni. Scatti, questi ultimi, che alla luce di quanto oggi sappiamo si ammantano inevitabilmente, pur nel bianco e nero delle vecchie immagini, dei colori caldi e malinconici di quell'estate del 1916.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Novembre, 2018
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“E la morte? Dov'è la morte”

In fatto di letteratura russa, purtroppo, conosco ancora ben poco e di quel poco che ho letto finora (fatta eccezione per il geniale “Cuore di cane” di Bulgakov) sono rimasta abbastanza delusa. Stavolta, invece, “La morte di Ivan Il'i? ”, una vera sorpresa, mi spinge quasi a riconciliarmi con l'intera categoria.
Scritto sul finire ormai dell'Ottocento, questo lungo racconto di Lev Tolstoj si distingue fin dalle prime pagine per la scorrevolezza della sua prosa, sebbene l'argomento trattato non sia certo leggero né di poco conto; in esso, infatti, il grande scrittore russo affronta il tema della morte attraverso un personaggio, Ivan Il'i?, che dopo una vita alquanto insignificante, a causa di un male incurabile, finisce i suoi giorni in maniera altrettanto anonima e poco gloriosa; a ispirargli questa storia fu la vicenda di un suo conoscente che morì in quegli anni più o meno nelle medesime circostanze. Con una scrittura intensa e a tratti addirittura ironica, Tolstoj scava nell'esistenza di questo funzionario che, nel tormentato corso della malattia, si rende conto di aver vissuto come non si dovrebbe, inseguendo benessere economico e prestigio sociale per poi ritrovarsi in mano, anno dopo anno, soltanto infelicità e insoddisfazione anzitutto a livello familiare.

“E il suo lavoro, e il suo regime di vita, e la sua famiglia, e quegli interessi sociali e professionali, tutto questo poteva non essere come si deve. Tentò di difendere davanti a se stesso tutto ciò. E d'improvviso avvertì tutta la fragilità di quanto stava difendendo. E da difendere non c'era nulla.”

La consapevolezza di un trapasso oramai imminente e inevitabile, che inizia a ossessionarlo giorno e notte, non fa che mettere ancor più in risalto la menzogna, l'ipocrisia, le frivolezze di chi gli sta intorno, mentre l'insulso vuoto della propria vita si trasforma di colpo in una voragine spaventosa nella quale non può evitare di precipitare.
A mio parere, una lettura sempre attuale, ricca di innumerevoli spunti di riflessione, sullo sfondo dell'estrema fragilità della nostra condizione umana e dello scorrere impietoso del tempo che ci viene concesso, prezioso bene che per lo più dilapidiamo al momento dell'abbondanza per poi rimpiangerlo e rivalutarlo quando la clessidra a nostra disposizione si avvicina al capolinea.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    16 Novembre, 2018
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Canto d'amore senza tempo

Partire dall'epilogo per risalire al principio della storia: questo l'impianto narrativo di “A tie solu bramo”, il nuovo romanzo dello scrittore cagliaritano Giulio Neri, pubblicato dalla casa editrice nuorese Il Maestrale. Un raccontare a ritroso nel tempo, lento, meticoloso, accattivante, che risucchia a sé il lettore, tassello dopo tassello, conducendolo in un viaggio che, attraverso sorprendenti peripezie letterarie, lo farà approdare fino a quel Vicino Oriente oggi martoriato dalla guerra.
La vicenda prende avvio, anzi, per meglio dire, si conclude in un paese come tanti della provincia di Cagliari, dove la gente è dedita a chiacchiere e malumori; il suo inizio, tuttavia, è da rintracciare tra le sempre suggestive atmosfere torinesi, mentre ideali e sogni rivoluzionari si assopiscono e la vita sentenzia senz'appello delusioni e fallimenti. Protagonista di queste pagine, contraddistinte da una scrittura superba e a tratti magnetica, una storia d'amore più che ventennale, una di quelle che si nutrono della malinconia degli aeroporti fra partenze e ritorni, rotture e nuovi inizi. Un legame che arretra, fin dal suo nascere, di fronte a mancanza di coraggio per poter viverlo appieno, responsabilità e doveri pregressi, facendosi al tempo stesso forse rimpianto.
Inconcludenti ognuno a suo modo, i personaggi di Clelia Boero e Orlando Mahfuz, i due amanti uniti da tale legame, risultano ottimamente caratterizzati; in particolare, colpisce quello dell'uomo, anatomopatologo e imbalsamatore dalle inconsuete origini sardo-egiziane. Parimenti, la penna dell'autore ha compiuto un ottimo lavoro anche con le altre figure che via via entrano in scena, le cui singole vicende ruotano attorno a quella principale. Tante storie, insomma, per raccontarne una sola. Molto apprezzabile, inoltre, l'inserimento dell'elemento arabo, ben amalgamato con tutto il resto, attraverso lo stesso Orlando Mahfuz (cognome che evoca echi letterari di tutto rispetto), sua moglie Rajae, reporter di guerra che si porta dietro un'esperienza a dir poco drammatica, e una finestra che si apre sul conflitto civile siriano: ciò conferisce senz'altro alla narrazione un più ampio respiro geopolitico, sullo sfondo delle cronache internazionali del nostro amaro tempo.
Una lettura appassionante, prosasticamente incantevole, nonché ricca di innumerevoli spunti di riflessione. Un romanzo bellissimo, di forte intensità e grande sensibilità, che, richiamandosi fin dal titolo a uno struggente canto d'amore della tradizione sarda, non poteva non parlarci di sentimenti, anzitutto di quell'amore che, nonostante tutto, non muore né si rassegna, così come dell'estrema fragilità dell'esistenza il cui significato più profondo, chissà perché, è sempre così difficile da comprendere.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    22 Ottobre, 2018
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Il valore della libertà

Ci sono voluti quasi cinquant’anni prima che Tahar Ben Jelloun trovasse le parole giuste per raccontare la sua storia. Proprio lui, che, di storie, ne ha scritte una infinità, paradossalmente, non riusciva a scrivere la propria. Perché quella narrata ne “La punizione”, il nuovo romanzo dello scrittore marocchino nativo di Fes e residente da lungo tempo in Francia, è una vicenda che sa di memoria e profonda amarezza. Un viaggio a ritroso seguendo le pesanti orme del tempo, una rielaborazione dolorosa ma necessaria di quanto accaduto tanti anni fa per poter chiudere i conti con un passato che non è possibile cancellare né ignorare del tutto.
Era il marzo del 1965 quando gruppi di studenti universitari manifestarono pacificamente per le strade di Rabat e Casablanca; in quell’occasione, la repressione, piuttosto brutale, non si fece attendere. Tra quei ragazzi, c’era anche Tahar Ben Jelloun, all’epoca studente di filosofia. L’anno seguente, per lui e una novantina di altri giovani che erano stati segnalati, la “punizione” bussò alla porta di casa sotto forma di perentoria convocazione a presentarsi presso uno sperduto campo militare nelle vicinanze della città di Meknès, nel nord del Paese. Era l’epoca in cui molta gente spariva all’improvviso, inghiottita dalla cieca violenza del regime dell’allora sovrano Hassan II, e si viveva in un continuo clima di paura; esercito e polizia, avendo carta bianca, facevano ricorso a qualunque mezzo pur di reprimere ogni possibile dissenso. La monarchia ’alawide offriva il volto forse peggiore di tutta la sua storia.

“Cosa abbiamo fatto di così grave? Organizzarci legalmente, manifestare pacificamente, reclamare libertà e rispetto.”

Per tutta risposta, vennero spediti anzitutto al campo militare di El Hajeb, dove ebbe così inizio un vero e proprio internamento, il cui scopo ufficiale era quello di rieducarli e insegnar loro a diventare bravi cittadini, all’insegna del vecchio e abusato slogan “Allah, al-watan, al-malik” (“Dio, la patria, il re”) che ancora oggi si vede scritto a grandi caratteri e disseminato qua e là per il Marocco. A scandire le lunghe giornate in quel luogo poco ameno si susseguivano maltrattamenti, umiliazioni, privazioni di ogni genere alla completa mercé di comandanti militari semianalfabeti, psicopatici e privi di scrupoli, spesso in preda a delirio di onnipotenza.
Picchiati, denutriti, sporchi e infreddoliti, con i capelli costantemente rasati a zero, i “puniti” venivano tenuti nel più totale isolamento, senza che le rispettive famiglie sapessero ciò che in realtà accadeva; per di più, perdere la vita per il minimo accenno di ribellione o a causa di pericolose simulazioni di operazioni di guerra (non mancavano, infatti, le tensioni con la vicina Algeria) rischiava di essere tutt’altro che improbabile. Il giovane Tahar trascorse oltre un anno e mezzo in quello stato di detenzione, mentre a sostenerlo accorrevano, per fortuna, la tenacia della sua poesia, il profondo amore per la letteratura e, da grande appassionato di cinema quale era, la magia delle immagini dei film che amava, come quelle di Charlie Chaplin nei panni di Charlot.

“[…] di fronte alla sensibilità, alla intelligenza, il potere oppone la brutalità e la stupidità. La prima arma è l’umiliazione, questa violenza che consiste nel declassarci, nel metterci sull’orlo del baratro minacciandoci di darci un calcio nella pancia. Mi aggrappo ai ricordi delle mie letture; non so se recito fedelmente ciò che ho letto o invento delle frasi. Ho in mente Dostoevskij, ?echov, Kafka, Victor Hugo… […] Nella mia testa sfilano scene dai film di Charlie Chaplin. Perché il bravo Charlot viene a trovarmi in questa terra ingrata e macchiata da militari abietti? Ne rido di nascosto […] Quell’omino che riesce a ridicolizzare i violenti che lo perseguitano mi ossessiona. Quel genio ha vendicato milioni di umiliati nel mondo. Ecco, questa era la sua missione, il suo disegno. Grazie, Charlot.”

Poi, inattesa e quasi irreale, la fine della prigionia, anche se le sue catene sembravano trascinarsi pure nella vita civile (“Sono stato liberato ma non sono libero.”). La vera liberazione, non a caso, arriverà soltanto diverso tempo dopo e a seguito di un evento davvero sorprendente e imprevedibile…
Una prosa che cattura fin dalle prime battute, appassionante ed estremamente fluida per un romanzo che si fa testimonianza diretta, viva, palpitante e che riconferma, se mai ce ne fosse ancora bisogno, le straordinarie doti di narratore di Tahar Ben Jelloun, nome tra i più noti e apprezzati sulla scena letteraria internazionale. Il suo linguaggio semplice e chiaro che si propone con garbo, le sue denunce, i suoi messaggi di pace e tolleranza religiosa (a tal proposito, invito a leggere le bellissime e istruttive pagine del breve saggio “L’Islam spiegato ai nostri figli”, Bompiani, 2001), il suo chiamare tutto col proprio nome e raccontare le cose così come stanno senza edulcorazioni di sorta fanno di lui un autore particolarmente interessante da seguire. Quest’ultimo suo lavoro, nello specifico, come spesso accade in molte opere della vastissima produzione di Ben Jelloun, punta l’attenzione su un Paese, il Marocco, dietro la cui immagine patinata di meta turistica più o meno a buon mercato persistono problemi assai gravi, quali tortura per dissenso politico, sempre mal tollerato dalle autorità, e corruzione abnorme che rallenta l’apparato burocratico e calpesta i diritti dei cittadini, sebbene sotto l’attuale sovrano Mohammed VI, non certo temuto come il terribile padre Hassan II, siano stati realizzati importanti ma non ancora sufficienti cambiamenti.
Infine, un romanzo che, attraverso la vicenda personale del suo autore, ci parla del valore della libertà, di quanto essa sia preziosa per la nostra dignità di esseri umani e di come, talvolta, basti davvero poco per perderla.

“Sarei potuto uscire dal campo cambiato, indurito, adepto della forza e anche della violenza, ma sono uscito com’ero entrato, pieno di illusioni e tenerezza per l’umanità. So che mi sbaglio. Ma senza quella prova e quelle ingiustizie non avrei mai potuto scrivere.”

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...altri libri di Tahar Ben Jelloun, tra cui segnalo, in particolare, "Marocco, romanzo" e "Partire".
Ma non necessariamente, nel senso che ci si potrebbe accostare a questo autore anche iniziando da questo romanzo.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    17 Ottobre, 2018
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La donna che sussurrava ai delfini

Si respira una particolare e inaspettata magia tra le pagine di “Maria Beatriz do Mar” di Carlo Marchi, medico pediatra modenese scomparso un paio d'anni fa che ci ha lasciato questo bellissimo romanzo. Una magia che, anzitutto, permea la trama della vicenda narrata, così come la prosa che l'accompagna conferendole un prezioso tocco quasi di favola antica.
Ma quella di Maria Beatriz, detta bonariamente “a loca”, la pazza, è una storia pressoché del nostro tempo, dove reale e fantastico s'intrecciano con spontaneità e senza forzature di sorta, sullo sfondo di un piccolo angolo di paradiso tra le dune di una sconosciuta spiaggia brasiliana del nord est su cui gravitano uno sparuto gruppetto di casette bianche, un altrettanto esiguo numero di abitanti e assai rari turisti di passaggio. Attorno alla protagonista, giovane donna dalla straordinaria bellezza e dal misterioso dono di saper comunicare con i delfini che, per raggiungerla, rischiano di spiaggiarsi, ruotano diversi curiosi personaggi, ognuno con la propria piccola storia, tra i quali Jurema, la grassa e loquace cartomante, Janilson, il vecchio pescatore taciturno, Jacinto, il parrucchiere senza fissa dimora che morirà tragicamente.
E poi c'è la voce narrante del “gringo”, come lo chiamerà infine Maria Beatriz, dietro cui, forse, si cela l'autore stesso che, attraverso una scrittura molto accattivante e seducente, ricca di colori e paesaggi intensi, sembra invitare a vivere una vita semplice, come quella degli abitanti della "praia" di Genipabu che si accontentano di una quotidianità fatta di pochissimo in termini materiali, e a scansare l'insensatezza del pregiudizio. Una lettura scorrevolissima che cattura il cuore del lettore fin dalle prime pagine. Un piccolo gioiello, da leggere!

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    08 Ottobre, 2018
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La Terreur

Un romanzo di grande spessore, in ogni senso, questo che Victor Hugo pubblicò nel 1874, ultimo tra i suoi capolavori! Uno spettacolare affresco di un periodo molto particolare nell'ambito di quell'avvenimento epocale che fu la Rivoluzione Francese: il 1793, l'anno del Terrore.
La vicenda si svolge principalmente nella Vandea, terra “aspra e forte che nel pensier rinnova la paura” e che, dopo la caduta della monarchia e la decapitazione del re Luigi XVI, insorge contro il nuovo regime repubblicano, dando così avvio a una feroce guerra civile combattuta fra le truppe regolari francesi e le bande di contadini vandeani pericolosamente nascoste tra i fitti boschi della regione. A capo di queste ultime, il marchese di Lantenac, vecchio aristocratico fedele ai valori dell'Ancien Régime che, con le forze raccolte attorno a sé, diventa ben presto una spina nel fianco che il governo repubblicano intende sradicare una volta per tutte.
Sullo sfondo della grande Storia, che catapulta il lettore addirittura al cospetto della triade rivoluzionaria Robespierre-Danton-Marat e persino nel bel mezzo di una seduta dell'assemblea della Convenzione, si muovono dunque diversi personaggi con le proprie piccole storie, dal nobile Lantenac alla miserabile vedova Michelle Fléchard, mater dolorosa che vaga alla ricerca ostinata dei suoi tre bambini dopo che le vengono portati via durante gli scontri.

“Une veuve, trois orphelins, la fuite, l'abandon, la solitude, la guerre grondant tout autour de l'horizon, la faim, la soif, pas d'autre nourriture que l'herbe, pas d'autre toit que le ciel.”

E proprio le vicissitudini di questa umile famigliola, trovatasi suo malgrado tra le violenze della guerra civile, offrono pagine di grande intensità, rivelandosi altresì determinanti per la sorte del marchese di Lantenac.
Nonostante un inizio che sembra stentare a entrare nel vivo della storia e la pesantezza di alcuni passaggi qua e là nel corso della narrazione, da un certo punto in poi il romanzo si fa via via decisamente più appassionante e non avaro di colpi di scena capaci di tenere ben desta l'attenzione di chi legge, complice una scrittura magnifica, potente, a tratti disarmante (godibilissima anche in lingua originale!) che spesso s'interroga, e ci interroga, su temi etici. Attraverso i suoi personaggi, infatti, Hugo ci mostra come bene e male non sempre abbiano un confine poi così netto e che pure il colpevole di crimini indicibili si possa riscattare salvando la vita a tre poveri bimbi.
Vecchio e nuovo, inoltre, si contrappongono su più livelli: da un lato, Lantenac e suo nipote, il giovane capitano Gauvain, fiero e irriducibile monarchico il primo, convinto repubblicano il secondo; dall'altro, lo stesso Gauvain e il suo vecchio precettore Cimourdain, i quali, benché entrambi sostenitori dell'ideale repubblicano, ne incarnano due visioni differenti, nonché due concezioni inconciliabili della giustizia in nome della quale si deve agire: dura e inflessibile, pressoché spietata, per Cimourdain che con quel suo “Force à la loi!” nel momento estremo ribadisce con durezza il proprio ruolo di delegato del Comitato di salute a pubblica a dispetto del suo essere in origine un prete, al contrario del suo allievo di un tempo, secondo cui la giustizia dev'essere anche capace di atti di clemenza, controbilanciando le colpe con i meriti dell'individuo, in nome di un senso di umanità che non dovrebbe mai venire meno.
Un romanzo che si fa esplicita condanna della guerra in generale e dell'insensatezza della violenza (anche di quella da parte dello Stato che mette a morte i propri cittadini, nel solco, del resto, di quanto già espresso oltre quarant'anni prima con “L'ultimo giorno di un condannato a morte”), un finale inatteso e sorprendente, in cui si soffre e si spera fino all'ultimo straziante rullo di tamburi, mentre sfilano suoni e immagini che soltanto una grande penna poteva imprimere su carta.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    01 Ottobre, 2018
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Rivoluzioni tradite

Disillusione, dolore, rabbia accompagnano la lettura del nuovo bellissimo romanzo che riporta all’attenzione dei lettori italiani lo scrittore egiziano ‘Ala al-Aswani, tra i più noti, nonché discussi, autori contemporanei del mondo arabo. Fin dai tempi di “Palazzo Yacoubian”, esploso come caso editoriale nel 2002 (pubblicato in Italia quattro anni dopo), al-Aswani squarcia impietosamente il velo dietro cui si celano le profonde contraddizioni, l’ipocrita strumentalizzazione della religione e l’immensa voragine della corruzione della società egiziana.
Stavolta, però, tutto ciò fa da cornice e miccia esplosiva alla rivoluzione che infiammò il Paese nordafricano nel 2011, nell’ambito della cosiddetta Primavera araba sfiorita anzitempo. Passo dopo passo, si viene condotti proprio nel cuore di quella rivoluzione che vide in particolare la città del Cairo farsi tragico teatro di imponenti manifestazioni popolari che chiedevano a gran voce la caduta dell’allora presidente Hosni Mubarak e dell’ancien régime locale; ad animarle, migliaia di studenti universitari e cittadini comuni, proprio come Khaled, Asma’ e Ashraf, tra i protagonisti di questo libro che, con sguardo attento e partecipe, cerca di ripercorrere le tappe e andare a fondo di un avvenimento storico di tale portata. Del resto, l’autore, medico diviso tra letteratura e impegno politico, partecipò attivamente alle giornate di protesta, tant’è che le intense pagine che le raccontano, sia attraverso le vicende dei personaggi creati dalla sua penna sia attraverso l’efficace inserimento di alcune voci fuori campo che sanno tutt’altro che di fiction, finiscono per diventare una drammatica testimonianza di tutto quel tumultuoso periodo.

“Sono corso verso il Nilo. I gas lacrimogeni ammorbavano l’aria e io piangevo. Non so se per il gas, per il ragazzo morto, per me stesso, o per tutte queste cose insieme. Mentre mi allontanavo, ho visto con i miei occhi dei corpi maciullati dal passaggio dell’autoblindo. Budella, cervella, gambe, persone tagliate a metà. Ecco cosa ho visto. Ma il peggio è stato vedere la gente che correva in preda al panico e calpestava tutti quei brandelli. Nessuno ci pensava, a tutti interessava solo mettersi in salvo. Avete idea di cosa vuol dire avere davanti il corpo di un martire, vedere che tutti gli passano sopra, che lo calpestano, che lo spostano senza neanche guardare giù?”

Dunque, una scrittura, quella di al-Aswani che si fa impegno civile, gridando, pur nel silenzio dell’inchiostro, e puntando il dito anzitutto contro le ingiustizie e i corrotti a vario titolo, dai gradini più bassi fino ai vertici delle medesime istituzioni politico-giudiziarie e militari, ma anche contro la troppo spesso indifferente passività da parte della popolazione egiziana nel suo insieme alla quale, a conti fatti, non sembra stare a cuore altro se non portare a casa uno stipendio e sopravvivere, anche a scapito della propria dignità di esseri umani. Pazienza se i ricchi e i potenti continueranno a schiacciare i poveri e gli ultimi fra gli ultimi che popolano le periferie più estreme sommerse da cumuli di rifiuti, l’importante è campare… Per chi e per che cosa hanno allora sputato lacrime e sangue, si domandano con profonda amarezza, gli sconfitti di Piazza Tahrir, i ragazzi feriti e incarcerati, le ragazze umiliate e stuprate nelle caserme. A che cosa è valso, infine, il sacrificio di tante giovani vite spezzate, dal momento che in Egitto niente è cambiato?
Già, perché, anche se Mubarak è caduto, purtroppo il regime corrotto è rimasto in piedi e ben saldo al potere, con l’esercito e i servizi segreti di sicurezza che spadroneggiano indisturbati; mentre si legge l’atrocità delle loro torture, il pensiero non può non correre al nostro Giulio Regeni la cui memoria attende ancora giustizia, al pari di quella delle vittime egiziane che hanno visto tradita la loro rivoluzione proprio da quello stesso popolo per il quale essa era stata avviata. Ma sono davvero così inconciliabili la democrazia e il rispetto dei diritti umani con la fede islamica? Seppure tale quesito sembri aleggiare sconfortante senza risposta tra le pagine conclusive del romanzo, già nel corso della narrazione le parole di chi è animato da autentica onestà e vorrebbe mutare in meglio il volto del Paese non lasciano dubbi: il problema non è l’Islam, come qualcuno avrebbe interesse a far credere, ma la corruzione, la brama di potere e di denaro e l’Egitto, lascia intendere l’autore, si merita ben altro rispetto ai generali e ai ciarlatani travestiti da santoni che sviliscono patria e religione riempiendosi indegnamente la bocca con il nome di Allah, a cui si addebita uno status quo putrescente che sarebbe pure tempo di cambiare.
Un libro da leggere, tutt’altro che pesante malgrado i temi trattati. Consigliabile a chi già conosca altri romanzi di al-Aswani (la cui scrittura, oltretutto, è godibilissima, a tratti particolarmente abile a fare sottile ironia sulle alte divise e sul velo indossato da certe pie donne “musulmane”) e, soprattutto, a chi abbia interesse ad approfondire la rivoluzione del 2011 e a conoscere la fasulla democrazia egiziana, in parte economicamente sostenuta – facciamo mea culpa – dall’ipocrisia delle diplomazie occidentali. Nella speranza che, un domani non troppo lontano, Piazza Tahrir possa davvero essere degna del nome che porta: Piazza della Liberazione.


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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Settembre, 2018
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Vivere e lasciar vivere

Che cosa spinge un giovane musulmano, nato e cresciuto in Europa, a imbottirsi d’esplosivo per farsi saltare in aria in mezzo alla folla di una metropoli occidentale? Perché in tanti, troppi, si lasciano abbagliare dalle parole di falsi profeti che istigano alla violenza quale unica strada da seguire? Cosa alimenta la rabbia delle periferie, smisurata a tal punto da sfociare in attentati e massacri indiscriminati perpetrati in nome di Dio?
Avvincente ed emozionante, l’atteso nuovo romanzo di Yasmina Khadra cerca di trovare risposte a tali quesiti, presentandosi come una lettura particolarmente invitante per chi sia interessato ad approfondire temi di forte attualità come quelli dell’integrazione e del terrorismo legato all’estremismo islamico. Fin dall’incipit, l’argomento viene affrontato di petto, senza mezzi termini: “Eravamo quattro kamikaze. La nostra missione consisteva nel trasformare la festa allo Stade de France in un lutto planetario.”
Lo scenario iniziale prescelto è quello della Parigi degli attentati del 13 novembre 2015, ancora ben vivi nella memoria dell’opinione pubblica internazionale. Khalil, il protagonista, un ragazzo di origini marocchine che vive in Belgio, è uno dei kamikaze incaricati d’innescare la miccia di quel grande macello che avrebbe avuto risonanza a livello appunto planetario. Qualcosa, però, va storto e per lui, destinato al paradiso dei cosiddetti martiri, si apre sulla terra stessa un inferno forse peggiore di quello dell’oltretomba. Ventitré anni vissuti tra problemi familiari, insuccessi scolastici e disoccupazione, il giovane appartiene alla seconda generazione d’immigrati per la quale, in molti casi, la piena integrazione nel Paese di accoglienza non si è realizzata e il cui disagio e aspirazioni frustrate vengono intercettate da organizzazioni terroristiche subdolamente mascherate da moschee e centri culturali; da qui a ritrovarsi reclutati in operazioni suicide il passo è più breve di quel che si possa immaginare.

“Poi una sera un vicino, un amico o qualcuno che conosci appena comincia a elogiare le prediche dell’imam dell’angolo. […] Alla fine ti convince a seguirlo nel buco dove officia l’imam. […]E così eccoti lì a orecchiare distrattamente, annoiandoti in mezzo al gregge. […] Quanto all’imam, ha una risposta a tutte le domande su cui un tempo ti arrovellavi senza trovare un indizio che ti illuminasse. L’imam ti rimanda alle tue sconfitte, alle vessazioni che credevi di aver superato, alle ferite mai cicatrizzate – il poveraccio diventa tuo sosia, il ribelle tuo fratello siamese, le prediche la tua valvola di sfogo, la violenza la tua legittimazione. Al diavolo i razzisti, a morte gli islamofobi: non porgerai più l’altra guancia.”

Non esser riuscito a portare a termine la missione parigina, oltretutto non per responsabilità propria, non gli preclude la possibilità di prendere parte a un’altra operazione, pianificata con estrema cura, ma nel frattempo, prima che il destino di Khalil si possa compiere in una famosa e affollata piazza di Marrakech, l’imprevedibile lo colpirà negli affetti più cari, all’improvviso e senza pietà, facendo vacillare la fortezza delle sue convinzioni incrollabili e la fede cieca riposta in un Islam manipolato ad arte da chi, caso strano, quando è il momento di agire, non indossa mai cinture esplosive né si sporca le mani di sangue in prima persona.
Con un ottimo stile narrativo che fa perno su un io narrante straordinariamente coinvolgente e convincente, la penna dello scrittore algerino ci sorprende con una storia drammatica che non può non indurre a riflettere; una storia che, attraverso tutti i suoi personaggi, da quelli principali a quelli secondari, tenta di scavare a fondo nella questione, e forse ci riesce pure, evitando banalità e spiegazioni superficiali e andando oltre il concetto di jihad così come ci viene somministrato in modo semplicistico dall’informazione dei media. Parola dopo parola, Yasmina Khadra analizza una pericolosa situazione in seno all’Occidente che si deve sì combattere, ma soprattutto prevenire; ci sono intere pagine davvero significative che danno vita al tormentato monologo interiore del giovane Khalil, pagine in cui, se le si legge e rilegge con attenzione, sta la chiave di tutto.
Il libro punta il dito contro il terrorismo e il fatto che l’autore sia musulmano dà ancor più rilevanza a tale condanna senz’appello; oltretutto, la sua non è una voce isolata all’interno del mondo islamico poiché nessun vero credente può accettare che si commettano simili atrocità in nome di Allah e del suo Profeta. Spesso si addita il Corano in quanto testo che incita alla violenza, ma in realtà i versetti incriminati andrebbero anzitutto contestualizzati, cioè valutati tenendo ben conto dell’epoca storica e del contesto socio-politico in cui essi furono rivelati; del resto, a ben vedere, anche la nostra Bibbia si presenta molto dura sotto certi aspetti, nessuno però si sogna di applicare alla lettera quanto lì scritto altrimenti dovremmo ridurci a sottostare alla legge del taglione. E poi il libro sacro dell’Islam, estremamente complesso anche per i musulmani stessi, afferma tanto altro in fatto di giustizia, pace e conoscenza tra i popoli e i ragazzi indottrinati nelle pseudomoschee delle città europee, proprio come emerge dai fatti di cronaca e anche dal romanzo di Khadra, per lo più non leggono il Corano, accontentandosi delle dubbie interpretazioni di ciarlatani e sedicenti califfi che mistificano la parola di Dio.
Dalle pagine di questo libro, dunque, arriva inequivocabile la condanna del terrorismo, ma anche un monito all’Europa e all’Occidente in generale: agire affinché si combattano, in primis attraverso l’istruzione, razzismo e islamofobia che non hanno ragion d’essere e che, purtroppo, dilagano ormai nelle nostre società tronfie di una superiorità più presunta che reale; e poi impegnarsi per sradicare povertà, ineguaglianza e ignoranza, prima a casa nostra e magari anche in giro per il mondo. Perché senza seminare giustizia ci autodistruggeremo e fra cento anni staremo ancora a parlare di guerre sante facendo il gioco di coloro che con esse ci guadagnano. Soltanto così si potranno arginare l’odio e la rabbia delle periferie, sia quelle delle nostre città dove si concentrano gli immigrati sia di quelle tra le più povere del mondo. Soltanto così si potrà di nuovo nutrire speranza nel futuro. Perché, per dirla con le parole del vecchio Moka, uno dei tanti sconfitti dei quartieri ghetto come quello di Molenbeek, che riecheggeranno alla fine del romanzo, il segreto è “vivere e lasciare vivere. Niente è più prezioso della vita e nessuno ha il diritto di toglierla.”

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    12 Settembre, 2018
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L'imperfezione dei sentimenti

Potrebbe essere quello della martoriata Siria oppure quello del sempre fragile Libano lo scenario bellico che fa da sfondo alla vicenda narrata ne “La perfezione del tiro”, romanzo con cui Mathias Énard ritorna ora nelle librerie italiane dopo il successo di “Bussola” di un paio d’anni fa.
Anche se non all’altezza di quest’ultimo, vincitore a suo tempo del prestigioso Premio Goncourt, il libro conferma anzitutto la profondità e la piacevolezza della prosa di questo scrittore francese; in esso, oltretutto, si ritrova presumibilmente un frammento di quel Vicino Oriente a lui così caro, seppure spoglio dei suoi caratteri ormai distintivi (dalle moschee al velo islamico) che sembra addirittura strano non incontrare. È infatti fra gli orrori di un’ordinaria guerra civile di quell’area (ma non sarebbe poi tanto improbabile, in verità, nemmeno se si trattasse dell’odierna Libia allo sbando) che si muove il protagonista di queste pagine, un giovane uomo cresciuto troppo in fretta proprio a causa dello scoppio del conflitto. Un anonimo io narrante che fin dall’incipit trascina il lettore nell’oscuro vortice della sua storia: “La cosa più importante è il respiro. Il suo ritmo lento e regolare, la pazienza del respiro; per prima cosa devi ascoltare il tuo corpo, ascoltare i battiti del cuore, la calma del braccio, della mano. Il fucile deve diventare una parte di te, un tuo prolungamento. La cosa più importante non è il bersaglio, sei tu.”
Un combattente rispettato, si definisce lui stesso più di una volta; un assassino, a detta di altri che, pur rispettandolo, lo temono e, a seconda dei casi, lo disprezzano. Un cecchino freddo, razionale, paziente che spara poco, ma a colpo sicuro, e al quale non importa, quando lo fa, se nel mirino del suo fucile compaiano uomini o donne, vecchi o bambini. Un ragazzo, tuttavia, che non trova il coraggio di uccidere la madre ormai in preda alla follia più tremenda e che si turba ed emoziona pensando a Myrna, l’orfana che lui prende in casa per occuparsi proprio della madre. Sarà la passione per questa quindicenne dal “corpo quasi da donna e un sorriso da ragazzina”, trasformatasi infine in ossessione, a mettere in luce la profonda contraddizione tra le sue due anime: quella del combattente spietato e quella del giovane di diciotto anni che non può non sentire disgusto per ciò che vede intorno a sé, e che compie in prima persona, né trattenere le lacrime.
“Forse la stanchezza e la tensione si accumulano come una polvere invisibile che un bel giorno bisogna spazzar via con le lacrime.”
Il libro, mentre mostra il volto nudo e crudo di una guerra senza nome, offre nel complesso una lettura molto scorrevole e ricca di spunti di riflessione non di poco conto; ben riuscita, inoltre, la scelta di non appesantire lo scenario del conflitto descritto con alcun riferimento geografico né di tipo politico-culturale, prediligendo in tal senso una sorta di vaghezza di tempi e luoghi a tutto vantaggio dell’approfondimento della complessa psiche del protagonista e di quella imperfezione di sentimenti cui sembra essere condannata l’umanità in generale. Drammaticamente realistica e priva di speranza di conclusione, la guerra stessa sgorga dalla penna dell’autore quasi come una entità a sé stante, protagonista a pieno titolo al pari di chi la vive e la racconta: “[…] andava e veniva senza una logica, come da sé; si concentrava in un punto per una settimana e poi si allargava, si estendeva per qualche tempo a tutto il paese prima di ripiegarsi per poi allargarsi di nuovo, come un cane che dorme.” Le sue nefandezze la rendono una spettrale terra di nessuno, dove il confine tra bene e male è sempre più labile e si confonde pericolosamente, scandito dall’eco degli spari improvvisi che arrivano dall’alto degli edifici sventrati.
Alcune parti della narrazione, però, non risultano del tutto convincenti, come quella in cui, verso la fine, si organizza e si esegue la spedizione militare in montagna, pagine che, a mio avviso, catturano molto meno l’attenzione di chi legge facendo svanire la sottile magia delle parole di cui il romanzo, in particolare all’inizio, è intriso. Del resto, la guerra, quando la si vede da vicino, imbruttisce tutto e tutti; cos’altro dovremmo aspettarci? Speranza? Giustizia? Umanità? Di certo, non un epilogo felice.

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Politica e attualità
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Settembre, 2018
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La forza del noi

Coraggioso è l'aggettivo più immediato, e forse anche più scontato, che si possa esprimere già durante la lettura di “A mano disarmata” della giornalista Federica Angeli, libro che non lascia dubbi, fin dal titolo, sul coraggio dell'autrice.
Ma queste pagine sono segnate pure da un'autentica passione per il proprio lavoro di cronista e un fortissimo senso della legalità che, purtroppo, come i fatti qui raccontati dimostrano, non sempre si ritrova in tutti i cittadini, e nemmeno in tutti i rappresentanti delle istituzioni e delle forze dell'ordine.
E proprio a questo mondo alla rovescia, dove imperano la legge dei violenti e il silenzio omertoso che la protegge, la Angeli, seppur minacciata dalla mafia di Ostia, ha scelto di non assuefarsi, di non chinare la testa perché il fatto che le cose vadano in un certo modo – insegna Giovanni Falcone – non significa che debbano andare così per sempre; e poi perché la mafia non è altro che “una montagna di merda!”, come urlava la penna di Peppino Impastato.
Con una scrittura schietta e appassionante, la giornalista catapulta il lettore nella minuziosa cronaca dei suoi millesettecento giorni passati sotto scorta, tra il 2013 e l'anno in corso, durante i quali la figura della professionista forte e determinata, che non esita a denunciare e condurre inchieste scomode ai danni dei boss del quartiere, si alterna a quella della madre con le sue paure e fragilità, che gioca con i propri figli e lotta nella speranza di consegnare loro un mondo migliore. Ne emerge il ritratto di “una donna normale”, armata unicamente di parole con cui scuotere l'inerzia dello Stato, spesso assente in determinati contesti, e la coscienza altrui. Perché soltanto quando si compie questa rivoluzione, quando a una singola voce se ne aggiungono altre e poi altre ancora, allora sì che è possibile scrivere una storia diversa. Questo libro, prendendo le mosse da due spari nella notte per concludersi in un'aula di tribunale, ce lo insegna perfettamente!

"Chi sta dalla parte giusta non perde mai. Chi ha scelto di sfidare a viso aperto la mafia la testa non la chinerà mai. Perché sulla bilancia alla sera ci si sale da soli, con la propria coscienza, ed è a lei che si risponde."

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Agosto, 2018
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"Catrame"

Duro e rabbioso, disilluso e amaramente ironico, “Il maestro di Vigevano” è un romanzo che non può passare inosservato. La penna di Lucio Mastronardi ci racconta una vicenda sullo sfondo della Lomellina, in provincia di Pavia, negli anni del boom economico, quando il tanto agognato benessere era sì diffuso ma, a conti fatti, non a portata di tutti.
Antonio Mombelli, maestro elementare con moglie e figlio a carico, è uno di coloro che, per mancanza di opportunità o di coraggio, sono rimasti esclusi da quell'agiatezza che trasforma in padrone ricco e rispettato persino l'uomo più rozzo e ignorante, mentre la città di Vigevano si affolla di grandi, piccole e piccolissime aziende artigiane operanti soprattutto nel settore delle calzature. La cultura invece non paga e lo stesso protagonista mantiene la famiglia con uno stipendio da fame, a cui si sommano gli esigui guadagni derivanti dalle lezioni private, nell'attesa degli assillanti scatti di coefficiente che portino alla pensione. Intanto, sua moglie Ada, sempre più insofferente a tutte le privazioni che la costringono, tra le varie cose, ad andare in giro con la biancheria intima rattoppata alla bell'e meglio, desidera una vita diversa e s'intestardisce a voler lavorare in fabbrica; Mombelli, però, ferito nell'orgoglio, non sopporta l'idea di vedere lei operaia né il figlio Rino garzone, per il quale sogna una futura carriera da impiegato di gruppo A.
Quello che lui chiama “catrame”, cioè una sorta di decoro piccolo borghese che impregna la gente e impone che la moglie di un maestro di scuola, così come quella del più pidocchioso dei borghesi, non debba lavorare fuori casa perché “chissà cosa dirà la gente!”, gli fa vivere il tutto con estremo disagio, anche per il fatto che lei possa guadagnare di più. È proprio questo subdolo “catrame” che ricorre spesso nella narrazione, tracciando un impietoso ritratto della società dell'epoca, piena di ipocrisia, bigottismo, perbenismo di pura facciata.
Con una scrittura vivace, introspettiva e capace di abbandonarsi a riflessioni d'una profondità a tratti sconcertante, l'autore dà vita a una storia drammatica che non risparmia niente e nessuno, nemmeno il mondo della scuola, tra queste pagine messo alla berlina per le sue logiche ottuse e talvolta spietate. Maestro elementare egli stesso, Mastronardi morì suicida nel 1979, come uno dei personaggi minori di questo suo romanzo. “Il maestro di Vigevano”, notato a suo tempo da Italo Calvino, era stato pubblicato da Einaudi nel '62; l'anno successivo ne era stato tratto un bel film interpretato da un sempre grande Alberto Sordi per la regia di Elio Petri. Consiglio, eventualmente, di guardare la trasposizione cinematografica dopo aver letto il libro. Davvero una bella scoperta, Lucio Mastronardi, autore forse rimasto un po' nell'ombra con il passare degli anni e meritevole di maggior attenzione.

“Cammino mentre dolce scende la sera; e la luna sale; ecco qui davanti a me il lungo corso Milano, pieno di biciclette e macchine e gente che si muove corre fila; quel muoversi filare e correre è il senso della loro vita; il significato di vita, penso. E il mio camminare ha pure un significato, penso. Ma non so quale significato attribuirgli a questo camminare. Forse perchè quel correre di quella gente fa capo a qualche cosa, a qualche azione e io invece cammino senza una meta... Penso ai soldi.”

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Fumetti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    14 Agosto, 2018
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Oltre le frontiere del pregiudizio

Scritto da Laura Silvia Battaglia e disegnato da Paola Cannatella, “La sposa yemenita” è un libro a fumetti decisamente insolito e originale, considerato l'argomento trattato: lo Yemen. Da sempre terra molto povera ma ricca di fascino e profonde contraddizioni, essa continua a essere vittima di una guerra dimenticata che sembra svolgersi nel più totale disinteresse da parte dei media e dell'Occidente in generale.
Laura Silvia Battaglia è una reporter che conosce bene il Paese in questione; il suo racconto, dunque, prende le mosse da un vivere quotidiano sul posto che, come spesso accade, porta a una conoscenza senza filtri di persone e realtà socio-economiche che altrimenti difficilmente si potrebbe avere. E vedere qualcosa con i propri occhi – è risaputo – aiuta a comprendere meglio, a mutar prospettiva e a spazzar via quei pregiudizi sulla cui base, purtroppo, si finisce per ragionare.
Sono tanti gli episodi che l'autrice documenta attraverso le incisive tavole della Cannatella: da una sorprendente festa di nozze (della durata di ben tre giorni, durante i quali donne e uomini festeggiano rigorosamente separati) alle pacate e preziose conversazioni su questioni teologiche con lo sheikh di una importante moschea locale, dalla vexata quaestio del ruolo della donna nella società islamica al problema dei bambini yemeniti trafficati e trafficanti al confine con l'Arabia Saudita, dal dramma dei bombardamenti dei droni, che oltre ai bersagli ricercati dalla Cia colpiscono di frequente anche gli innocenti, a quello degli attentati terroristici che mietono numerose vittime persino negli stessi paesi musulmani; non a caso, colpisce in modo particolare lo scenario di morte ritratto nelle pagine dedicate proprio agli attacchi suicidi, dove, tra sangue nero impresso sull'asfalto e odore di carne bruciata, decine di scarpe spaiate testimoniano la voragine della follia umana inducendo a riflettere che “la vita è un cammino in cui, a un certo punto, qualcuno può vietarti di calzare le scarpe”.
Sullo sfondo, affascinante e misteriosa, la capitale Sana'a, quella “Venezia selvaggia sulla polvere” che tanto sedusse il nostro Pier Paolo Pasolini, con la magia senza tempo della sua architettura straordinaria, delle vie della sua città vecchia annoverata tra i monumenti patrimonio mondiale dell'Unesco, delle voci dei muezzìn intrecciate nell'adhan, il richiamo alla preghiera che, dall'alto dei minareti delle moschee, si ripete cinque volte al giorno. Non sono mai stata nello Yemen, ma mi sono comunque ritrovata nelle percezioni e descrizioni della Battaglia ripensando ai miei giorni trascorsi qua e là nel Vicino Oriente poiché certe atmosfere, come quelle create da quella sorta di canto che si spande dalle moschee, sono destinate, come un'esperienza mistica, a restare impresse nel cuore.
Davvero un bellissimo libro, un reportage a fumetti denso di umanità ed emozioni. Un invito a superare, e possibilmente ad abbattere, le tristi barriere imposte da stereotipi, pregiudizi e paure che complicano inutilmente l'esistenza compromettendo, ahinoi!, la pace e la reciproca conoscenza tra i popoli.

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Poveri cristi
Se parli muori
Il successore
Le verità spezzate
Noi due ci apparteniamo
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Delitto in cielo
Long Island
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