Opinione scritta da Chiara77
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Emmanuel, Lillian, Jimmy, Alberta
Il nuovo libro di E.J. Howard pubblicato in Italia da Fazi, “Cambio di rotta”, racconta una vicenda sentimentale e personale che interessa quattro personaggi inglesi, negli anni Cinquanta del Novecento.
Il romanzo si apre con la presentazione della coppia formata da Emmanuel e Lillian: lui è un commediografo inglese di 62 anni, ormai da qualche tempo in crisi creativa, che cerca di riempire il vuoto esistenziale attraverso continue infedeltà nei confronti della moglie, a cui è tuttavia legato da un sentimento di compassione e da un certo istinto di protezione. Lei invece è una elegantissima signora di mezza età, nevrotica quanto basta, cagionevole di salute e sempre molto triste a causa di un lutto mai superato. Il loro infelice matrimonio si trascina fra viaggi, feste e spettacoli teatrali. Ad aiutare Emmanuel nell'organizzazione del suo lavoro quotidiano c'è Jimmy, un uomo di circa trent'anni cresciuto in un orfanotrofio negli Stati Uniti.
A complicare questo bel quadretto, o forse a rimettere tutto al proprio posto, entra in scena il quarto personaggio del romanzo, Alberta, una ragazza di 19 anni estremamente ingenua e con pochissime esperienze alle spalle, che, proprio per questa distanza dal resto della piccola comitiva, risulterà fin da subito irresistibile.
«Ha una dignità tutta particolare: è la sua caratteristica più precipua insieme alla totale assenza di sovrastrutture, l'aria da scolaretta inglese (tranne quando portava quel vestito nero, che mi è venuto in mente all'improvviso), il suo modo buffo e compito di esprimersi, la sua dichiarata inesperienza in ogni campo che possa venirmi in mente. »
Alberta viene assunta come segretaria da Mr Joyce e il quartetto lascia la Gran Bretagna per trascorrere un lungo periodo a New York, da cui in seguito partirà per una vacanza in Grecia.
Devo ammettere che fra tutti i romanzi della Howard che ho letto questo è stato quello che mi è piaciuto di meno. Lo stile dell'autrice è lo stesso che troveremo nella saga dei Cazalet, caratterizzato dalla profonda analisi psicologica dei personaggi e dalle bellissime descrizioni. La narrazione alterna i punti di vista dei quattro personaggi principali, tutti in prima persona eccetto Emmanuel, raccontato invece in terza persona. I temi affrontati sono quelli cari all'autrice: l'amore, le incomprensioni familiari e soprattutto coniugali, le problematicità che si nascondono in ogni relazione. Tuttavia questa volta ho trovato la vicenda veramente troppo inconsistente: malgrado i viaggi intercontinentali molto ravvicinati non accade quasi niente. Ho trovato le riflessioni dei protagonisti troppo lunghe, visto che si sono protratte per oltre 400 pagine senza lasciare spazio quasi a nient'altro.
In conclusione, non posso che definirlo, purtroppo, un romanzo abbastanza noioso, a cui manca sia il respiro narrativo della saga dei Cazalet, sia l'originalità e la freschezza del romanzo “All'ombra di Julius”.
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Una storia d'amore
Finalmente anch'io ho letto “Le nostre anime di notte” di Kent Haruf, e scrivo “finalmente” perché in effetti è stata un'esperienza di lettura meravigliosa.
Addie Moore e Louis Waters sono due anziani che vivono nella immaginaria cittadina di Holt, in Colorado. Sono entrambi vedovi e molto soli, finché un giorno, in un modo del tutto inaspettato per Louis, Addie gli chiede di passare la notte insieme. Nasce così un'intensa e tenera storia d'amore, basata non sul sesso ma su una condivisione del reciproco vissuto, attraverso un dialogo molto aperto, che renderà la relazione profondamente confortante ed accogliente.
Pian piano Addie e Louis imparano a conoscersi e ad accettarsi per quello che sono veramente, il loro legame non è affatto un ripiego come potrebbe sembrare dalle prime pagine: non si esaurisce in un rimedio contro la solitudine ma cresce e si arricchisce ogni giorno di più. L'età dei due protagonisti sicuramente condiziona questo amore, non è un amore che si vive a vent'anni, fatto di passione, progettualità ma anche una certa dose di improvvisazione e, a volte, anche di molta incomprensione. Il loro amore vive nel presente, nel qui ed ora, non per questo è incapace di farli stare bene o portare in misura minore felicità.
Addie e Louis costruiscono un legame che si nutre di intimità fisica – ecco spiegato il dormire insieme, non per fare sesso ma proprio per condividere una delle azioni più intime fra persone: stare insieme nello stesso letto, al buio, e abbandonarsi insieme al sonno in un atto di estrema fiducia- e mentale, raccontandosi tutto della propria vita: le aspirazioni, i sogni, i desideri e ciò che è stato veramente.
«Sei troppo duro con te stesso, osservò Addie. Chi riesce ad avere quello che desidera? Non mi pare che capiti a tanti, forse proprio a nessuno. E' sempre un incontro alla cieca tra due persone che mettono in scena vecchie idee e sogni e impressioni sbagliate. Anche se, ripeto, questo non vale per noi due. Non in questo momento, non oggi.»
In conclusione quindi, un libro prezioso nella sua estrema semplicità: una storia dolce, romantica e malinconica, delineata con parole tanto precise ed essenziali da diventare potenti. Una lettura coinvolgente, emozionante ed intensa da non lasciarsi sfuggire.
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Che cos'è la mafia
Di questo breve romanzo di Leonardo Sciascia, pubblicato per la prima volta nel 1961, avevo sentito dire che spiegava che cos'è la mafia. Dopo una lettura che ha richiesto un certo grado di attenzione e lucidità non posso che confermare in pieno questa definizione: il testo di Sciascia ci fa un esempio di cosa possa essere la mafia, quella mafia che “non sorge e si sviluppa nel «vuoto» dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma «dentro» lo Stato.” Quella mafia che “altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende, ma soltanto sfrutta.” Sono parole dell'autore stesso, scritte nel 1972 in occasione dell'uscita del romanzo nella collana «Letture per la scuola media» Einaudi.
Una definizione che ci fa comprendere quanto la mafia sia purtroppo una realtà ancora ben presente in Italia, ormai fenomeno non più soltanto siciliano ma che si è andato diffondendo in ogni parte della penisola.
Salvatore Colasberna è un piccolo imprenditore edile di un paesino siciliano che non viene nominato, se non nell'iniziale. Un mattino presto, mentre sta per salire sull'autobus che lo avrebbe portato a Palermo, viene ucciso. Il suo assassino gli spara indisturbato da un angolo della piazza e nessuno vede niente: né i passeggeri sull'autobus, né il bigliettaio, né l'autista, né il venditore di panelle. Mentre gli abitanti del paese, la maggior parte dei carabinieri della Stazione di S., loschi personaggi di origine siciliana che si trovano a Roma e persino i fratelli del Colasberna assassinato vorrebbero ricondurre tutto ad un errore, o, ancor meglio, ad un delitto passionale, il capitano Bellodi, originario di Parma e con un passato da partigiano durante la Resistenza, capisce subito di cosa si tratta: mafia. Nello stesso giorno del delitto scompare anche un certo Nicolosi, di mestiere potatore, ben presto si capirà che anche lui è stato ucciso e che c'è un collegamento fra gli omicidi. Bellodi risolve brillantemente il caso ma si tratta di una verità che in pochissimi sono disposti ad accettare. In quegli anni si tendeva infatti anche a negare l'esistenza della criminalità organizzata e leggendo queste parole possiamo confortarci pensando che comunque un po' di strada da allora è stata fatta. Non possiamo dimenticare le persone che hanno dato la loro vita per combattere la mafia e che sicuramente ci hanno fatto progredire parecchio dal 1961, anno in cui Sciascia pubblicò “Il giorno della civetta”.
Questo romanzo rimane però di una sconcertante attualità, ci fa capire il complesso fenomeno delle organizzazioni criminali attraverso una storia emblematica, scritta con uno stile essenziale ed allo stesso tempo altissimo. Si tratta di una lettura che richiede impegno e concentrazione, non semplice malgrado l'esiguo numero di pagine, ma che ritengo utilissima e molto coinvolgente: un vero e proprio capolavoro della letteratura italiana.
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La strana serenata
Arriva in libreria la nuova edizione di un racconto di Kazuo Ishiguro, “Crooner”, che era già stato pubblicato da Einaudi nel 2009 e faceva parte della raccolta “Notturni. Cinque storie di musica e crepuscolo.”
Si tratta di un oggetto degno di nota, una bella edizione dei Supercoralli impreziosita dalle originali illustrazioni della bravissima fumettista Bianca Bagnarelli: un libricino che sarà sicuramente un piacere avere nella propria libreria o regalare a chi lo saprà apprezzare.
Tornando al testo però, devo ammettere che avrei preferito poter leggere tutti i racconti della raccolta, che comunque sono legati dallo stesso tema e che, immagino, avranno un denominatore comune che non può essere compreso appieno dalla lettura di un solo racconto.
Detto questo, arriviamo a “Crooner”.
La voce narrante, Jan, un chitarrista originario di un Paese ex-comunista che lavora a Venezia, suonando nelle orchestre dei locali del centro, ricorda uno strano episodio che gli capitò di vivere all'inizio di una primavera come tante. Mentre suonava in piazza san Marco, al caffè Lavena, in una ventosa mattina di marzo, vide e riconobbe fra i turisti Tony Gardner, un cantante americano ormai di mezza età, di cui era un'accanita fan sua madre. Il personaggio famoso infatti era stato importante per la mamma di Jan, che ascoltando le sue canzoni aveva potuto continuare a sognare. E' per questo che il nostro chitarrista tiene tanto ad andare a conoscere personalmente Mr Gardner. Il vecchio cantante, il crooner, si mostra subito aperto e disponibile nei confronti del giovane, soprattutto quando comprende che è un musicista e gli fa una richiesta particolare: aiutarlo a fare una serenata a sua moglie Lindy, con la quale è sposato da ventisette anni.
“-Continuo a non capire, Mr Gardner. Il mondo suo e di Mrs Gardner non può essere tanto diverso da quello di tutti gli altri. È per questo, Mr Gardner, precisamente per questo motivo che le sue canzoni da anni e anni significano tanto per gente che vive ovunque. Perfino dove stavo io. E che cosa dicono quelle canzoni? Che se due smettono di amarsi e devono separarsi, è un peccato. Ma se si amano ancora, hanno il dovere di restare insieme per sempre. È questo che dicono quelle canzoni.”
L'ingenuo Jan rimarrà molto sorpreso dopo aver suonato con Tony Gardner quella sera, su una gondola, a Venezia: ci sono mille diverse motivazioni che inducono una coppia a rimanere insieme, ed altrettante che la inducono a separarsi.
Una strana malinconia attraversa questo racconto, sicuramente accompagnata da una sottile ironia che prende in giro l'improbabile rilancio di chi in passato aveva incarnato, con le sue canzoni, la speranza e il sogno di libertà, ed ora invece si mostra nel suo ridicolo egocentrismo e nella sua esasperata superficialità.
In conclusione, una buona lettura che ci parla di “musica e crepuscolo”.
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Non lasciarmi... Oh, tesoro... Non lasciarmi...
Cosa permette di definirci degli esseri “umani”? Cosa può provare che abbiamo veramente un'anima? Forse il fatto che possiamo scrivere delle poesie o che riusciamo a realizzare un'opera d'arte? O più semplicemente perché ci innamoriamo?
Terminata la lettura di “Non lasciarmi” di Kazuo Ishiguro, questi interrogativi si affollano nella mia mente insieme ad un forte senso di malinconia e tristezza ma anche profondo coinvolgimento emotivo: questo sarà un libro che porterò ancora per un po' con me, non sarà facile dimenticarlo.
La voce narrante, Kath H. ci racconta la sua storia, con tono intimistico e confidenziale, e siamo subito rapiti e catapultati dentro a questo mondo, allo stesso tempo così familiare e così diverso dal nostro. Il suo racconto inizia quando la ragazza ha trentuno anni e da più di undici è un'assistente di misteriosi “donatori”: ben presto inizia la rievocazione di episodi della sua infanzia ed adolescenza in un prestigioso collegio inglese, Hailsham. Kath ci narra del particolare legame con un'amica, Ruth, e con un ragazzo, Tommy, che ha segnato tutta la sua breve esistenza e che è appunto nato fra le aule e le camerate di Hailsham.
Cpiremo ben presto però che c'è qualcosa di strano ed enigmatico negli eventi ricordati: chi sono veramente Kath, Ruth e Tommy? Perché non hanno i genitori, una famiglia? Perché si trovano lì e a che cosa sono destinati?
Stiamo leggendo infatti un romanzo in qualche modo distopico, ucronico per l'esattezza, in cui l'autore si è immaginato che il corso della storia sia stato modificato rispetto alla realtà e sta raccontando come sarebbe potuta essere la situazione odierna se si fossero verificati determinati fatti. Ci troviamo in Inghilterra nei tardi anni Novanta del Novecento, ma non nel mondo reale: in un luogo dove dopo la seconda guerra mondiale sono stati fatti enormi progressi nella scienza medica, che hanno portato a trovare la cura per tutte le peggiori malattie che funestano l'umanità: ma come e a che prezzo vi lascio la soddisfazione di poterlo leggere da soli.
Il romanzo affronta un tema complesso e non certo nuovo per la letteratura: quanto può essere lecito e moralmente accettabile che l'uomo possa “manipolare” la vita a suo vantaggio? Gli esseri così creati sono umani oppure no? Hanno un'anima? Possono sopportare una vita di solitudine e senza alcuna progettualità?
La grandezza di Ishiguro come autore di questo splendido libro penso che risieda nell'aver dato voce ad un io narrante credibilissimo, nel quale possiamo riconoscerci: una ragazza che ricorda la sua adolescenza e qualche episodio dell'infanzia, vissute in un luogo particolare ma attraversate da sentimenti universali come l'amicizia, il bisogno d'affetto, la ricerca della propria identità. Ciò che rende struggente e profondamente coinvolgente questo romanzo è proprio la vicinanza ed empatia che proviamo nei confronti di Kath, il modo in cui racconta e rivive il passato, la rievocazione di piccoli ma significativi episodi che hanno scandito la costruzione o demolizione di relazioni importanti per qualsiasi adolescente, come una profonda amicizia o un primo amore. Kath non racconta assurdità o fatti rocamboleschi: ci parla della sua amicizia con Ruth, non è un legame idealizzato, è reale, fatto di piccole incomprensioni, di profondo affetto ma anche di invidia e gelosia; ci parla del legame con Tommy, che inizia come sintonia ed intimità intellettuale e si trasforma in qualcos'altro solo troppo tardi. E' per questo che crediamo a Kath e le situazioni che descrive ci sembrano reali, è per questo che possiamo inorridire per il destino degli studenti di Hailsham.
Una lettura stupenda, che mi ha fatto finalmente comprendere il valore di questo autore, premio Nobel per la letteratura nel 2017: da intraprendere per emozionarsi e per riflettere.
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Esercizi d'inesistenza
Esercizi d'inesistenza. É questo ciò che ogni giorno prova a fare Leone, un bambino di soli sei anni, che ha da pochi mesi iniziato a frequentare la prima elementare. I suoi genitori sono separati e Leone vede il padre un venerdì ogni quindici giorni, per andare a cena in un anonimo Fast food e non dirsi niente, non avere un minimo scambio di sentimenti e neppure di comunicazione quotidiana. Con la madre Katia invece, Leone convive e quindi con lei esiste una relazione basata su momenti di vita vissuta insieme: anche se sono pochi e caratterizzati dalla fretta. La mamma di Leone è una donna sola, lasciata dal marito dopo solo un anno di matrimonio, non può contare sulla presenza di una famiglia d'origine perché aveva solo la madre, che è morta sei mesi prima. L'assenza della nonna pesa come un macigno sull'esistenza di Leone e su quella di Katia, il dolore causato dalla perdita e dal lutto viene negato, soffocato e quasi nascosto, come se i due in qualche modo se ne dovessero vergognare: non ne parlano apertamente l'uno con l'altra. Katia è profondamente triste, vive immersa nella sua solitudine, sopraffatta dagli innumerevoli impegni quotidiani; non sa e non riesce a comunicare con il proprio figlio.
Ciò che emerge dalla lettura dell'ultimo romanzo di Paola Mastrocola è il ritratto di una società, la nostra, che appare come un luogo malsano e malinconico: una somma di individui che rimangono tutti ben separati e distanti; ciascuno irrimediabilmente solo e triste, chiuso nella propria stanchezza e superficialità. Il quadro che esce tratteggiato dalla penna esperta dell'autrice è abbastanza desolato: un insieme di persone che non crede più in niente, che non è in grado di trovare uno scopo e di dare un valore profondo alla propria esistenza. Ci si accontenta di vivere seguendo lo stimolo di un'emozione o di una sensazione, come una nave che si disperde per il mare senza una meta da raggiungere.
Il piccolo Leone viene ad un certo punto bullizzato e deriso dai suoi compagni. I suoi genitori, la madre in particolare, si vergognano di ciò che sta facendo, lo rimproverano, iniziano seriamente a preoccuparsi. Volete sapere perché? Qual è l'atroce problema? Leone prega. Ha avuto un'educazione cristiana, sebbene la madre non ne abbia mai saputo nulla, dalla nonna, che è morta da pochi mesi. (E anche questo fa riflettere su quanto la nonna e la madre di Leone comunicassero tra loro). Insomma, il bambino crede a Gesù, lo prega e questo scatena una serie di problemi.
Mi sembra evidente quindi come il romanzo voglia denunciare una forte crisi di valori che senza dubbio caratterizza la nostra società. Non si può rimanere indifferenti di fronte a questo: una società che isola e ridicolizza un bambino perché prega? Ma che tipo di persone possono essere delle persone che fanno una cosa del genere? Degli esseri umani che non credono più in niente, che hanno rinunciato alla speranza, vuoti, e che vivono una vita senza senso: non ci si stupisce più di constatare quanto dolore, tristezza e solitudine animino le loro esistenze.
Il romanzo è caratterizzato da una narrazione che inizia come realistica ma a poco a poco e in modo sempre più marcato, diventa allegorica. Gli ultimi tre capitoli in particolare mi hanno lasciata spiazzata, intrisi di un realismo magico che trasforma la trama in una metafora. Non sono sicura di essere riuscita ad apprezzare pienamente questo finale.
In conclusione quindi, leggendo “Leone” abbiamo la possibilità di riflettere su quanto la vita di molte persone di oggi sia permeata da una dolorosa solitudine e di interrogarci sul perché avvenga questo. É una storia apparentemente semplice ma in realtà fortemente allegorica: una lettura che può soddisfare anche il lettore più esigente. Mi rimane solo un dubbio sulla scelta stilistica dell'autrice nel finale, ma naturalmente, si tratta solo della mia opinione personale.
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Peggy e James
“La casa del gigante” è il primo libro scritto da Elizabeth McCraken, fu pubblicato negli Stati Uniti nel 1996 e fu finalista al National Book Award in quello stesso anno. L'autrice è oggi un'affermata scrittrice statunitense, sposata con un altrettanto noto romanziere, Edward Carey. In Italia la casa editrice Bompiani ha fatto uscire il romanzo nella traduzione di Alberto Pezzotta nell'estate del 2018.
L'opera racconta una storia d'amore molto particolare, quella fra Peggy Cort, bibliotecaria di un paesino del Massachusetts, Cape Cod, e James Carlson Sweatt, il ragazzo che diventerà l'uomo più alto del mondo. In particolare, più che raccontare “la storia d'amore tra”, si narra dell'immenso amore provato da Peggy nei confronti del gigante James. La voce narrante infatti, è quella della stessa Peggy, che rievoca gli avvenimenti che ebbero James come protagonista della sua vita, molti anni dopo l'effettivo svolgimento della vicenda.
Si tratta di un romanzo abbastanza originale e difficile da catalogare. Il punto di vista della narratrice è di per sé poco obiettivo e l'autrice si diverte a giocare con noi lettori attraverso di lei. Nonostante ciò la lettura risulta molto piacevole e direi avvincente, anche se l'intreccio non è certo complicato.
La narratrice, che si autodefinisce un'insulsa zitella, (di soli ventisei anni però), quando conosce James, un bambino affetto da gigantismo, pensa di aver già chiuso le porte all'amore e di non avere diritto ad avere il conforto di una famiglia. Nel corso del romanzo si rivelerà invece una donna profondamente anticonformista, se non nell'apparenza, sicuramente nella sua essenza, innamorandosi di un ragazzo più giovane e diverso da tutti gli altri esseri umani. Il sentimento che Peggy prova per James è un amore profondissimo, abbastanza lontano dall'idea del possesso e della fisicità che normalmente si collegano al concetto di relazione amorosa. L'autrice è stata in grado di coinvolgerci in questa storia e di raccontarla con una delicatezza e una profondità rare.
Come può vivere un uomo alto quasi tre metri? Abbiamo mai riflettuto su questo? Eppure esistono e sono esistite persone con una tale particolarità, affette da gigantismo a causa dall'iperattività della ghiandola pituitaria. Magari ci siamo limitati ad osservare degli scatti fotografici e abbiamo sorriso per il record che ci è sembrato simpatico e originale. Eppure queste persone non avranno avuto una vita facile, avranno dovuto combattere per compiere la più semplice attività quotidiana come guidare, prendere un ascensore, dormire in un letto comodo. Per non parlare dei problemi di salute spesso collegati al gigantismo. La lettura di questo romanzo ci mette di fronte a questa realtà e ci fa riflettere e pensare.
In conclusione quindi, un'opera particolare, originale, sentimentale, delicata e profondamente malinconica, da non lasciarsi sfuggire.
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Un ottimo giallo
E' uscito da poche settimane il terzo romanzo di Gigi Paoli, “La fragilità degli angeli”, della serie che ha per protagonista il giornalista della cronaca giudiziaria Carlo Alberto Marchi.
Un giorno come tanti, durante un'ordinaria serata al giornale, la redazione del Nuovo viene scossa dalla sconvolgente notizia della sparizione di un bambino di soli quattro anni. Mentre la procura e la squadra mobile indagano freneticamente, il nostro protagonista Carlo Alberto dovrà scrivere notizie veritiere e possibilmente esclusive sul drammatico caso che si sta trasformando in un nuovo incubo per Firenze dai tempi del “mostro”.
Anche stavolta ci troviamo di fronte ad un romanzo ben scritto e che può vantare un narratore simpatico che, mentre ci mette a conoscenza di un interessante e scabroso caso investigativo, ci rende un pochino partecipi della sua vita, con uno stile fresco e ironico.
Potrebbe apparentemente risultare molto simile a decine di altre proposte editoriali uscite negli ultimi anni dalla penna di autori italiani: un bel protagonista che indaga a vario titolo su un caso giallo ed uno stile brillante e piacevole. Ed in effetti, non si può negare che diversi elementi in comune a questi altri ce li abbia. Perché leggere anche Gigi Paoli allora? Non ne abbiamo già abbastanza di questo filone? Ecco, secondo me, i gialli di Gigi Paoli hanno qualcosa in più: una trama molto ben strutturata. Sono dei gialli classici avvincenti, coinvolgenti ma non assurdi, affermazione che purtroppo non si può sempre ripetere per gli altri autori italiani che si sono dilettati con vari commissari, vicequestori, ghost-writer, medici legali e così via, che magari vantano protagonisti altrettanto simpatici ed affascinanti ma di solito sono carenti nella costruzione di una buona storia investigativa.
In conclusione quindi, un ottimo giallo, che consiglio a tutti gli appassionati del genere.
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Dario il Grande
“ «Lo sai per me che cos'è il blu?» disse. «È il colore di una cosa che non puoi raggiungere. Guarda il cielo per esempio. Il cielo è blu, e tu lo puoi raggiungere il cielo? Anche il mare è blu, ma neanche quello in realtà lo puoi raggiungere, perché quando ci arrivi ti accorgi che il blu non è lì, è più avanti, è al largo, è oltre il punto in cui ti trovi». Fece un gesto con la mano. «Ecco cos'è il blu. È il colore di qualcosa che è sempre più lontano di dove riesci ad arrivare».”
“Il sole fra le dita” di Gabriele Clima, premio Andersen 2015 come miglior libro oltre i 15 anni, ci racconta una storia densa di emozione, ci parla di disabilità in modo semplice e diretto, annullando tutti i confini e le barricate innalzate da stupidità e pregiudizio.
Il protagonista è Dario, un ragazzo di sedici anni che fatica a trovare pace interiore ed equilibrio: nove anni prima il padre se n'è andato di casa, abbandonando lui e sua madre senza dare una spiegazione. Per Dario è facile sentirsi in colpa per l'accaduto e considerare responsabile anche e soprattutto sua madre. Il ragazzo soffre moltissimo e manifesta questo disagio comportandosi male a scuola, rifiutando un confronto e un dialogo costruttivo e annebbiando dolore e coscienza nel fumo.
Qualcosa cambia però nel momento in cui Dario viene obbligato a prendersi cura di Andrea, detto Andy, un ragazzo disabile che non si muove e non parla. Dario intuisce di cosa ha veramente bisogno Andrea: riesce a comunicare con lui manifestando così una straordinaria dote che si nutre di umanità ed empatia.
Dario e Andrea diventano importanti l'uno per l'altro e necessari l'uno all'altro per superare i rispettivi limiti che li tenevano prigionieri. Dovranno intraprendere un viaggio, sia simbolico che reale, che li porterà verso un'esistenza migliore.
Si tratta di un romanzo di formazione originale e toccante, che sicuramente piacerà a dei lettori adolescenti sensibili ma può essere apprezzato anche da lettori adulti a cui piacciono narrazioni semplici e profonde.
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L'isola, il violino, l'amore
Nel nuovo romanzo di Valentina D'Urbano, “Isola di Neve”si intrecciano due storie parallele: una ambientata fra l'estate e l'autunno del 1952, l'altra fra l'autunno del 2004 e l'inverno del 2005. Entrambi gli intrecci si svolgono su un'immaginaria isoletta italiana, forse collocata nel Tirreno centrale (da lì si può raggiungere in qualche ora Roma), chiamata Novembre, e sulla sua “gemella”, un'altra piccola isola dove era collocato un carcere di massima sicurezza, Santa Brigida.
La vicenda del 2004 ha per protagonista Manuel, un giovane di 28 anni che ha lasciato Roma dopo aver compiuto un atto di cui si pente e si vergogna moltissimo. Manuel è un alcolista , sente di aver compromesso per sempre la sua vita e si rifugia sull'isoletta dove hanno abitato per tutta la vita i suoi nonni, Libero e Livia, e dov'è nata sua madre, per nascondersi dal mondo e trovare un po' di pace. La notte però non può dormire: qualcuno suona il violino in un modo travolgente ed appassionato, sicuramente un professionista. Così conosce Edith, violinista dal talento straordinario, che gli racconta di una vicenda avvenuta sull'isola una cinquantina di anni prima e che ha come protagonista un famoso musicista originario di Dresda, proprio come lei, Andreas von Berger, rinchiuso per qualche mese nel carcere di Santa Brigida. Manuel ed Edith vogliono riuscire a ricostruire quella storia dimenticata: c'è di mezzo un preziosissimo violino perduto, una partitura da ritrovare e soprattutto, una struggente storia d'amore da sottrarre all'oblio del tempo.
Quale sarà il filo che collega Manuel ed Edith al violinista Andreas von Berger ed alla sua amata, Neve?
Nel corso delle 500 pagine del romanzo il lettore troverà la risposta a tutti gli enigmi che l'autrice ha sapientemente disseminato nella prima parte del libro. Personalmente però non mi è piaciuto il finale del testo: mi è sembrato troppo forzato ed abbastanza inverosimile, come se lo scopo della narrazione fosse unicamente quello di stupire il lettore con effetti speciali. L'ho trovato macchinoso e più adatto ad altri generi letterari.
Si tratta comunque di un romanzo piacevole e che presenta una buona dose di romanticismo; leggendolo non correremo certo il rischio di annoiarci. Viene stimolata in continuazione la nostra curiosità, lo stile dell'autrice è fluido ed espressivo, il libro si legge tutto d'un fiato. Sicuramente Valentina D'Urbano sa raccontare emozioni e sentimenti.
Avrei preferito però un romanzo meno costruito ed artificiale nella trama e più genuino e profondo.
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Il volto familiare del male
“ «Piantala con questi mostri, Michele. I mostri non esistono. I fantasmi, i lupi mannari, le streghe sono fesserie inventate per mettere paura ai creduloni come te. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri», mi aveva detto papà un giorno che gli avevo chiesto se i mostri potevano respirare sott'acqua.”
Michele è un bambino di nove anni, vive in una minuscola frazione composta da quattro case, da qualche parte nel Sud Italia. Siamo nel 1978. In quella torrida estate, fra corse in bicicletta fra i campi di grano, giochi fra coetanei e penitenze da scontare, Michele si renderà conto, attraverso il suo personale vissuto, che i mostri, come se li era immaginati nella sua mente di bambino, non esistono, ma ci sono esseri peggiori purtroppo: gli uomini.
Il nostro protagonista è puro come solo i bambini possono essere e, alla luce di questo, riesce ad opporsi alla malvagità. Nonostante il male non sia lontano, confuso ed inafferrabile: il male è vicinissimo, concreto, ha il volto delle persone familiari, anche di quelle più importanti e più amate. Si può in questa condizione trovare il coraggio di schierarsi con il più debole, di scegliere il bene? Ammaniti riesce a metterci tutto questo davanti in modo realistico e naturale ma facendoci nello stesso tempo intuire con ogni parola la portata sconvolgente di una situazione del genere.
E' un meccanismo potenzialmente esplosivo ma funziona benissimo perché vissuto e narrato attraverso la voce, gli occhi e la coscienza di un bambino: l'unico che poteva incarnare il protagonista-eroe di quest'opera.
Un romanzo di formazione particolare, estremamente attuale, scritto con uno stile essenziale e allo stesso tempo coinvolgente, che, secondo me, può essere definito come un piccolo capolavoro letterario.
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Per allenare l'empatia
Leggere “Wonder” di R. J. Palacio è come bere un bicchiere d'acqua in una calda giornata d'estate: semplice, piacevolissimo, necessario.
«Precetto di August Pullman
Ognuno dovrebbe ricevere una standing ovation almeno una volta nella vita, perché tutti “vinciamo il mondo.” (Auggie) »
August Pullman è un ragazzino di undici anni che sta per iniziare la prima media. Nonostante lui si senta normale è piuttosto particolare: nato con la sindrome di Trecher-Collins, ha la faccia deforme. Ha dovuto subire ventisette operazioni chirurgiche da quando è nato e, per ragioni di salute quindi, non è mai andato a scuola. Ma adesso sta diventando grande, per fortuna è più forte, l'ultima operazione risale ad otto mesi prima e la mamma propone che August vada finalmente a scuola.
Il romanzo racconta il primo anno scolastico di August, un bambino molto intelligente, ironico, simpatico e buono, ma con il volto deformato.
Auggie conoscerà delle persone straordinarie e delle persone cattive, si farà degli amici e dei nemici. Affronterà brutte esperienze e grandi soddisfazioni: cercando la sua vittoria, cioè poter essere se stesso, un bambino normale, non un essere mostruoso di cui avere paura.
L'autrice narra la vicenda da vari punti di vista, ad August si aggiungono Olivia, sua sorella, e vari amici di entrambi. Si tratta di un romanzo scritto anche per preadolescenti ed ha il pregio di riuscire a descrivere sentimenti ed emozioni in un modo sincero ed immediato che arriva dritto al cuore. L'autrice è brava ad assumere la prospettiva dei vari personaggi della storia: ci fa riflettere su quanto può cambiare una stessa situazione se vissuta da persone diverse, ciascuna con i propri problemi, le proprie preoccupazioni, il proprio vissuto. Ci aiuta ad allenare l'empatia, non importa se a leggere siano persone adulte o ragazzini: la lettura è il passaggio magico attraverso il quale ci avviciniamo agli altri, attraverso cui comprendiamo che, come diceva una vecchia canzone, “gli altri siamo noi”.
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Ai confini del mondo
Carlo Levi iniziò a scrivere “Cristo si è fermato a Eboli” il giorno di Natale del 1943, a Firenze. Erano passati già alcuni anni da quando l'autore aveva vissuto l'esperienza che si stava accingendo a mettere per iscritto. Non siamo di fronte ad un romanzo ma ad un memoriale, in cui Levi ricorda dei fatti reali accaduti a lui stesso e descrive, con uno stile notevole, ambienti, persone e società di un paesino della Lucania degli anni Trenta del Novecento.
Carlo Levi infatti, nato a Torino nel 1902, era un fervente oppositore del fascismo e fu condannato al confino in Basilicata, dove rimase negli anni 1935 e 1936. “Cristo si è fermato a Eboli” è il racconto di questo periodo trascorso in un luogo che all'autore sembrò lontanissimo dalla realtà sociale, culturale ed antropologica in cui era vissuto fino a quel momento. Iniziò la sua avventura rimanendo qualche settimana nel paese di Grassano, da cui fu poi allontanato e spedito nel più remoto e, se possibile, povero, Gagliano. (In realtà il nome esatto del paese è Aliano, ma nel testo di Levi si trova scritto, secondo la pronuncia locale, Gagliano). Carlo Levi era laureato in medicina ma non aveva mai esercitato la professione di medico, era invece un pittore e sicuramente era un intellettuale. Fu accolto in modo caloroso dai contadini di quelle terre che si resero subito conto che lui, pur avendo poca esperienza in campo medico, era comunque molto più informato, colto, attivo e in grado di curare rispetto ai “medicaciucci” inetti, incompetenti e parassiti che spadroneggiavano nel paese.
Il nostro autore, come un atipico ma ottimo studioso di antropologia culturale ci fa conoscere quel luogo lontanissimo dalla storia, dalla civiltà, dalla speranza, dal progresso e dalla libertà. La sua è un'analisi lucida delle cause che avevano provocato in quella parte d'Italia tanta povertà ed arretratezza e non mancano delle riflessioni su un possibile miglioramento di tali condizioni. L'opera non si limita però ad essere soltanto una razionale trattazione della “questione meridionale”, Carlo Levi sa descrivere in modo magistrale luoghi, persone, usanze, modi di fare, superstizioni e credenze, tanto che al lettore sembra quasi di essere ancora là, in quel mondo lontanissimo, quasi mitico, primitivo, duro e difficile ma in fondo anche affascinante perché in un certo senso magico.
Perché leggere o rileggere oggi “Cristo si è fermato a Eboli”? Alla fine non possiamo negare che la situazione descritta da Levi sia completamente cambiata, per fortuna. E' impressionante la descrizione fatta dalla sorella di Levi di Matera:
“ Io guardavo passando, e vedevo l'interno delle grotte, che non prendono altra luce e aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall'alto, attraverso botole e scalette. Dentro quei buchi neri, dalle pareti di terra, vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento stavano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha, in genere, una sola di quelle grotte per tutta abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini e bestie. Così vivono ventimila persone. Di bambini ce n'era un'infinità. In quel caldo, in mezzo alle mosche, nella polvere, spuntavano da tutte le parti, nudi del tutto o coperti di stracci. Io non ho mai visto una tale immagine di miseria: eppure sono abituata, è il mio mestiere, a vedere ogni giorno diecine di bambini poveri, malati e maltenuti. Ma uno spettacolo come quello di ieri non l'avevo mai neppure immaginato. [...]”
Chi potrebbe riconoscervi la splendida cittadina che sarà capitale europea della cultura nel 2019?
Eppure questo testo può ancora dirci molto, sullo sfruttamento, che purtroppo non è certo scomparso, sul desiderio di libertà, sulla necessità di essere una buona comunità in cui tutti gli uomini siano veramente considerati esseri umani.
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Odi et amo
Questo è uno di quei romanzi che ha il dono di rapirti fin dalle prime righe e portarti nel suo mondo e tu, debole lettore, non avrai altra scelta che seguirlo, parola dopo parola, pagina dopo pagina, finché non arriverai alla conclusione. O almeno, questo è ciò che è successo a me: ho iniziato la lettura in un pigro pomeriggio d'estate e ho continuato a leggere fino a notte fonda, finché non sono arrivata alla fine della storia. Eppure non si tratta certo di un thriller, e nemmeno di un romanzo d'avventura o di una vicenda di cui vuoi sapere come andrà a finire: la conclusione infatti viene esposta in bella mostra all'inizio del libro: Alfredo è morto, Beatrice si trova al suo funerale. E' sconvolta, sono entrambi ragazzi di circa vent'anni legati da un affetto profondissimo: venivano chiamati “i gemelli”.
La narrazione ha la voce di Beatrice, che in prima persona rievoca, a partire dall'infanzia, il suo legame con Alfredo: un sentimento immenso, dai confini non ben definiti tra amore, amicizia, fratellanza, odio. Sì, anche odio. Come succede spesso nelle passioni più forti, dove l'amore e l'odio si toccano e si confondono l'uno nell'altro.
Beatrice ed Alfredo sono nati e cresciuti alla fine degli anni Sessanta in una periferia profondamente degradata di una città non ben specificata: il loro habitat è chiamato “La Fortezza”, un quartiere di case occupate abusivamente da poveri esseri umani di varie tipologie. Coloro che si potrebbero definire “gli ultimi” della società, che faticano a trovare un lavoro, che non hanno speranze e prospettive per il futuro. In questo ambiente così difficile però Beatrice ha una vera ricchezza: una famiglia unita, dei genitori, sicuramente poveri e in difficoltà, ma onesti e buoni, in grado di prendersi cura dei propri figli. Alfredo invece è orfano di madre e il padre, alcolizzato, lo picchia e lo maltratta in modo molto pesante, insieme ai suoi due fratelli, Massimiliano e Andrea.
E' in questo clima così particolare che sboccia e fiorisce l'amore indissolubile e profondissimo ma anche violento, anticonvenzionale, inquieto, tra Beatrice ed Alfredo.
Si tratta del romanzo d'esordio di Valentina D'Urbano, edito nel 2012, che colpisce per l'intensità espressiva e la forza travolgente che traspare da ogni pagina. Uno stile scarno e duro che è però capace di raccontare e farci quasi sentire i sentimenti e le emozioni dei protagonisti, di andare a fondo, sotto la superficie, e colpire la nostra sensibilità.
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L'ultimo Gattopardo
“Il Gattopardo” fu scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa fra il 1954 e il 1956. Il manoscritto venne però respinto dall'editore Mondadori e da Elio Vittorini per conto dell'editore Einaudi fra il 1956 e il 1957, anno in cui l'autore morì. Nel 1958 l'editore Feltrinelli pubblicò l'opera e il successo fu grandissimo, anche se, purtroppo, post mortem. Il romanzo vinse il Premio Strega nel 1959 e nel 1963, Luchino Visconti ne trasse un celebre film, interpretato da Burt Lancaster, Claudia Cardinale e Alain Delon.
La vicenda si apre nel maggio 1860, pochi giorni prima dello sbarco dei Mille ed è ambientata in Sicilia. Viene raccontato il momento del passaggio dal governo dei Borbone all'unificazione italiana dal punto di vista di una famiglia della grande nobiltà palermitana, i Salina, il cui stemma nobiliare, è, appunto, un gattopardo. Il protagonista è don Fabrizio, un uomo ormai di mezza età all'inizio della narrazione, colto e aristocratico. Ha avuto sette figli ma il giovane a cui è più legato è il nipote, figlio di sua sorella, Tancredi, rimasto orfano di entrambi i genitori e del quale il re Borbone lo aveva nominato tutore. Tancredi è un ragazzo brillante e molto scaltro, ironico ed irresistibile. Sarà proprio lui a pronunciare la celebre frase “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, mentre sta preparandosi ad unirsi ai Mille, non certo perché seguace delle idee democratiche e repubblicane ma perché, essendo molto furbo, aveva già capito quali sarebbero stati i vincitori e si apprestava a saltare sul loro carro per salvaguardare i propri privilegi. In seguito Tancredi trova la sposa ideale nella bellissima Angelica, una borghese molto ricca che faceva proprio al caso suo, visto che lui, pur essendo un Principe, non aveva un soldo.
Non sorprende che il romanzo sia stato inizialmente rifiutato dai principali editori italiani degli anni Cinquanta del Novecento. Nel clima letterario di allora “Il Gattopardo” si collocava come un'opera fuori contesto, con uno stile e dei contenuti del tutto originali e diversi rispetto alla situazione storico-culturale di quegli anni. Questo ce lo fa apprezzare anche di più, se possibile.
Indimenticabile la figura del principe Fabrizio, intellettuale pessimista e profondamente disilluso, che si accinge a spietato osservatore della realtà siciliana, in cui sembra non scorgere nessun segno di miglioramento con il procedere del tempo e della storia. E tanto più è pessimista verso gli uomini quanto è in grado di provare conforto e sollievo attraverso le stelle, i pianeti, la natura ed anche la morte, accolta come parte indissolubile e necessaria della vita stessa.
In conclusione quindi, un'opera di grande spessore letterario, che non possiamo non leggere o rileggere con grande piacere e soddisfazione intellettuale.
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Donarsi alla vita con la certezza di essere accett
Marco ha compiuto da poco 18 anni e lavora in una piscina come addetto alle pulizie.
È grazie a questo impiego che viene a contatto con il mondo dei tuffi e con le persone che li praticano. È attratto in particolare da una ragazza, Virginia, ed inizia a sentire una forza misteriosa che lo chiama sul trampolino e lo fa provare a tuffarsi.
“Lentamente, il tuffatore si era sollevato in punta di piedi, poi aveva piegato leggermente le ginocchia e si era lanciato all'indietro. Marco l'aveva visto ripiegarsi su sé stesso come un fiore al tramonto e roteare nell'aria, sospeso: una, due, tre volte, come una girandola di luce. E in quel momento aveva capito che tuffarsi in quel modo era come donarsi alla vita con la certezza di essere accettati. Era appartenere al mondo per diritto e ottenerne l'ammirazione: proprio tutto ciò che gli era sempre mancato nel corso della vita […].”
Marco infatti si porta dietro, pur essendo molto giovane, un bagaglio di sofferenza e privazione. È stato abbandonato alla nascita ed ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza tra un rifiuto e un altro, girovagando da una famiglia affidataria ad un'altra: ha provato la solitudine, il dolore e l'abbandono.
Eppure adesso, attraverso i tuffi, ha capito, per la prima volta, che può esistere qualcosa di prezioso per cui lottare e da cui ottenere, forse, un riscatto.
Ma un'altra brutta sorpresa attende il povero Marco: di nuovo un episodio sfortunato e negativo gli farà mettere in dubbio la possibilità di diventare un tuffatore.
A causa dell'incidente il ragazzo conosce una bravissima fisioterapista, Lara, che si comporta con lui in modo opposto rispetto a come tutti fino a quel momento l'avevano trattato. Lara lo prende a cuore, lo vuole aiutare; addirittura lo vuole portare al suo paesino, a Sarcola, perché la sabbia e il mare possano avere un effetto positivo sulla sua salute. Ma sarà solo per questo? Oppure ci sono altre motivazioni per cui Lara vuole tornare al suo paese dopo quasi vent'anni e portare con sé Marco?
Vorrei lasciar scoprire all'eventuale lettore gli altri tasselli della trama e il finale del romanzo.
Avevo letto ed amato il primo libro di Basile, “Lo strano viaggio di un oggetto smarrito” che, in effetti, ha con questo alcune affinità, ad esempio il sapore dolce di una storia ammantata di buoni sentimenti, quasi una fiaba moderna.
“La leggenda del ragazzo che credeva nel mare” tuttavia non è riuscito a coinvolgermi come l'altro romanzo, vi ho letto anche una certa dose di retorica, qualche elemento troppo scontato che più che attrarmi mi ha respinto. Mi è sembrato, in alcuni punti, veramente troppo banale e carico di luoghi comuni.
È comunque una lettura scorrevole e piacevole, che lascia qualche traccia di salsedine e un po' dell'azzurro intenso del mare.
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Unicuique suum
“A ciascuno il suo”, romanzo di Leonardo Sciascia pubblicato nel 1966, ricorda, per certi aspetti, un giallo: c'è un iniziale duplice omicidio, c'è la figura di un protagonista, il professor Laurana, che si mette ad indagare su ciò che è successo. Il mistero si dipana lentamente nel corso della narrazione, ogni tassello si incastra nel punto giusto perché sia chiaro e risolto l'enigma: eppure il lettore rimane in ben altro stato d'animo rispetto a quello che gli può provocare la tranquilla e rassicurante lettura di un giallo classico.
Ci troviamo davanti ad una vicenda d'invenzione, eppure sembra di trovarsi proprio di fronte ad un fatto reale o che potrebbe senz'altro essere accaduto. Penso che sia questo che dà forza al testo e riesce a sconvolgere il tranquillo lettore, magari abituato anche a dilettarsi con situazioni ben più sconvolgenti e stravaganti, ma che gli appaiono in qualche modo lontanissime e fantasiose rispetto alla realtà: qui no, con Sciascia siamo in un mondo potenzialmente reale.
E' vero, sta descrivendo una realtà sociale di più di cinquant'anni fa e molti aspetti di quella realtà non esistono più o si sono trasformati in modo molto marcato. Ma altri motori della narrazione invece sono tuttora pienamente accesi e pronti a partire.
Seguiamo quindi l'autore in quel piccolo paese della Sicilia, fra uomini che si ritrovano al circolo o in farmacia per parlare di politica o di donne, fare pettegolezzi o discorsi su cultura e società.
Proprio in quel piccolo paese, in quella dimensione apparentemente così tranquilla e inoffensiva accadono però atti di violenza molto forti e inaspettati. E nessuno sembra preoccupato, scioccato o inorridito da questa violenza: come se la morte di brave persone per omicidio fosse una banale seccatura di cui dimenticarsi in fretta, di cui non è certo necessario accusare qualcuno.
"«Certe cose, certi fatti, è meglio lasciarli nell'oscurità in cui stanno... Proverbio, regola: il morto è morto, diamo aiuto al vivo. Se lei dice questo proverbio a uno del Nord, gli fa immaginare la scena di un incidente in cui c'è un morto e c'è un ferito: ed è ragionevole lasciare lì il morto e preoccuparsi di salvare il ferito. Un siciliano vede invece il morto ammazzato e l'assassino: e il vivo da aiutare è appunto l'assassino […]".
Questo è in grado di scioccare il lettore, di farlo saltare sulla sedia, anche il lettore di oggi, del 2018.
La vicenda inizia quando l'integerrimo farmacista Manno riceve una lettera anonima con la scritta : “Questa lettera è la tua condanna a morte, per quello che hai fatto, morirai.” Avendo però la coscienza pienamente pulita il farmacista considera la minaccia solo come un brutto scherzo.
Ma poco tempo dopo il povero Manno viene trovato morto insieme al dottor Roscio, con cui andava abitualmente a caccia. Tutti pensano alla lettera anonima e si concentrano sul farmacista, pensando che il dottor Roscio invece sia stato ucciso per errore, perché si era trovato nel classico posto sbagliato al momento sbagliato. A questo punto si inserisce nella narrazione la figura del professor Laurana: un insegnante di italiano e latino nel liceo classico del capoluogo, quasi amico di Roscio. Il professore comincia a notare dei particolari della vicenda che lo portano a pensare che, forse, non era Manno il vero bersaglio dell'omicida.
Laurana è presentato come una delle pochissime persone oneste del romanzo: purtroppo, o forse proprio per questo, è dunque anche “non molto intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità”. E' ingenuo fino alla fine, pur non essendo affatto stupido.
Lo stile è conseguente alla natura del testo : una prosa essenziale, asciutta e lineare e quindi molto moderna e piacevole. Ho apprezzato in particolare i dialoghi, realistici e in grado di dare alla narrazione un ritmo quasi scenico.
Un romanzo quindi, “A ciascuno il suo” di Sciascia, di denuncia sociale: scritto con lo scopo di far indignare il lettore in modo inversamente proporzionale a quanto i personaggi invece, si disinteressano di colpe gravi e crimini, che, pertanto, restano impuniti.
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Io non sono nato per fare l'eroe
«Io non sono nato per prendere iniziative, per fare l'eroe.»
É facile leggere un libro e mettersi nei panni della vittima; prendere una posizione netta, capire esattamente dove sta il bene e dove sta il male e giudicare una trama e dei personaggi di finzione. É facile anche guardare un film o un'opera teatrale e fare le stesse cose.
Ma nella realtà è altrettanto facile, scontato ed indolore? Quando l'opinione comune intorno a te è completamente contraria all'idea di giustizia che ti sei faticosamente costruito nella tua coscienza, è così semplice mettersi contro tutto e tutti, subire conseguenze sgradevoli e pesanti per difendere qualcuno? Oppure è più conveniente seguire la corrente ed ottenere vantaggi e regali insperati?
Pierpaolo Vettori ci racconta un'immaginaria storia, ambientata nella Germania degli anni Trenta del Novecento, in cui il protagonista, la voce narrante, non è la vittima, non è il carnefice. É l'uomo comune, anzi, si tratta di un ragazzino, Hans Klepp, poco più di un bambino, che non ha la stoffa dell'eroe.
Hans e la sua famiglia si trasferiscono in una casa più grande e in un quartiere migliore, grazie all'interessamento di un medico ebreo di successo, Georg Loew, presso cui la madre di Hans lavora come infermiera. I Loew sono ricchi e vivono in uno splendido appartamento all'ultimo piano del palazzo in cui vanno ad abitare i Klepp. Anche il padre di Hans sarebbe medico, ma, per qualche oscuro incidente che non viene rivelato, adesso può solo fare il dentista in periferia.
Ben presto Hans conosce e diventa amico del figlio maggiore dei Loew, Max, e si innamora della figlia, Kitty. Max è una persona speciale: generoso, difende Hans dai bulli della scuola, lo protegge e soprattutto gli fa conoscere il jazz. Il ragazzino comincia a suanare il banjo nella band del grande Max e scopre una grande passione che lo accompagnerà per tutta la vita.
Eppure le cose cominciano a cambiare: nel giro di pochi mesi i Loew iniziano a perdere il prestigio e la posizione preminente in società e vengono additati come “ebrei”.
Max e Kitty devono abbandonare la scuola e cominciano a subire prima insulti e dopo anche aggressioni violente. Il dottor Loew, che faceva pressioni sulle autorità perché venisse trovato l'assassino di alcune bambine delle quali erano stati ritrovati i cadaveri nel quartiere, viene guardato con sospetto e in seguito accusato lui stesso di essere il colpevole.
Mentre i Loew precipitano, i Klepp prosperano: la rovina dei primi sembra essere la fortuna dei secondi. Ed i Klepp non sono eroi: in particolare il padre di Hans non prende iniziative e sembra apparentemente soddisfatto di come stanno andando le cose, salvo poi fare i conti con la propria coscienza. La madre è più battagliera: non vorrebbe adeguarsi allo squallore, alla violenza, alla sopraffazione, ma alla fine chi riesce veramente ad opporsi?
Pierpaolo Vettori riesce a dare voce a chi solitamente viene poco rappresentato, oppure rappresentato solo per essere giudicato e condannato, con uno spiccato realismo. Sono gli ignavi di Dante, il don Abbondio di Manzoni, tutti coloro che, magari nel profondo, sanno da che parte sta la giustizia ma non hanno il coraggio di subire conseguenze per gridare il loro no. Si tratta dell'anti-eroe, dell'uomo qualunque, che alla fine dovrà rendere conto della propria passività ma intanto vuole vivere una vita tranquilla, confortante, conforme all'idea prevalente. Si tratta della stragrande maggioranza delle persone e l'autore ha saputo dare loro una voce prima di giudicarle.
«Improvvisavo, vivevo, mi illudevo di essere libero, ma in realtà non facevo altro che volare in tondo come un insetto intorno alla lampada. Ero un tedesco, ero un italiano, e la mia natura era quella di dimenticare. Nei momenti decisivi, io non prendevo posizione, mi accodavo a quella del più forte. Io, Hans Klepp, sono nato per servire. E non merito compassione.»
Consiglio sicuramente questo romanzo dalla prosa cristallina che cattura l'attenzione del lettore fin da subito ed ha il pregio di indurlo alla riflessione: un romanzo accompagnato dalle note ritmate e malinconiche del jazz.
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La possibile felicità
Imi è un ragazzo di 18 anni, cresciuto in un orfanotrofio ungherese, a Landor.
Una volta divenuto maggiorenne, decide di allontanarsi dal suo villaggio e di andare a vivere a Londra. Lì viene ospitato da una donna molto generosa, Lynne, un'insegnante di tango che ogni anno offre gratuitamente alloggio ad uno degli orfani di Landor. Lynne lo aiuta anche ad ottenere un lavoro presso una caffetteria della celebre catena “Proper Coffee”.
Imi è un ragazzino estremamente ingenuo ed animato da buonissimi sentimenti; la vita, nonostante tutto, gli appare come una dispensatrice di opportunità e si immagina un futuro luminoso. Dovrà diventare grande però, scontrarsi con le ambiguità, le contraddizioni e le ingiustizie che dominano un mondo dove il valore più importante è il profitto.
Imi è veramente un personaggio dolcissimo, protagonista di una storia apparentemente semplice ma densa di significati e raccontata con uno stile intriso di pacata serenità. Ciò che mi è piaciuto di più e che ha caratterizzato tutto il romanzo è il sentimento di apertura verso la speranza, l'ottimismo e la costante e tenace fiducia nel futuro ed in ciò che di buono può esserci nell'uomo.
Si tratta di una lettura lieve e delicata, in grado di porci di fronte a situazioni difficili senza esasperare dolore, tristezza e cattiveria: facendoci capire che tutto ciò esiste, ma esiste anche una possibile via d'uscita, una risposta diversa.
« “E' incredibile quanto spesso la felicità possa accadere in un posto come questo” pensa. E si rende conto che, forse, la felicità non dipende tanto da quel che si possiede: ma dal sapersi rassegnare a ciò che non si ha.»
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L'abbandono, la colpa, l'amore
“Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull'orlo dello stradale che da Nuoro conduce a Mamojada, e s'avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini, glauchi e un po' obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliegie.”
Questo l'incipit di “Cenere” di Grazia Deledda, pubblicato nel 1903; vi si narra la storia di Anania, figlio illegittimo della bella, giovanissima e ingenua Olì.
Anania viene al mondo in una misera casetta a Fonni, dopo che sua madre è stata rinnegata e cacciata di casa dal proprio padre perché è rimasta incinta di un uomo sposato.
Quando il bambino nasce Olì ha già perso la voglia di vivere e di sperare: il figlio trascorre un'infanzia fra povertà e tristezza, trascurato dalla mamma e con la voglia di conoscere suo padre. Ma quando Olì lo porta per davvero dal padre e lo lascia lì, Anania ne soffre enormemente: l'abbandono e la colpa di questa madre già assente sia fisicamente che emotivamente gli scava dentro una ferita profondissima che non riuscirà mai a far rimarginare.
La scelta di Olì si rivela, in fondo, razionalmente giusta: Anania trova una famiglia; la moglie del padre, al contrario del vecchio stereotipo della “matrigna cattiva” sarà la vera figura materna per lui, quella che lo nutrirà, lo consolerà, lo aiuterà ed intercederà per lui, per fargli avere un futuro migliore. Il ragazzo, grazie ad un benefattore locale, riuscirà a studiare, si potrà fidanzare con la bella e ricca Margherita.
Eppure...
Eppure qualcosa lo consuma dall'interno: è il dolore che gli ha causato sua madre, Olì. L'autrice riesce a descrivere questi sentimenti ambivalenti e totalizzanti con un realismo ed una intensità sempre perfettamente credibili. Anania passa dall'estremo odio all'amore più profondo nei confronti della mamma: dal desiderio di essere liberato dal peso dell'esistenza di lei, che rappresenta la colpa e gli ricorda il suo abbandono, al bisogno urgente di ritrovarla e di averla per sé.
“Cenere”, uno dei primi romanzi della Deledda, si presenta quindi come un'opera di notevole valore letterario: la vicenda, narrata in una splendida prosa poetica che non mi stanco di ammirare e di rileggere, riesce a toccare la nostra umanità nel profondo, andando a scavare in sentimenti ed emozioni primitive e necessarie come l'amore, il dolore, il senso di colpa.
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Come un vecchio film
Respiriamo atmosfere un po' retrò, che rimandano ai vecchi film in bianco e nero, in questo thriller psicologico di A. J. Finn.
Anna Fox, stimata psicologa infantile, vive sola in una magnifica abitazione signorile ad Harlem, New York. E' separata dal marito e dalla figlioletta, Olivia. Anna soffre, da circa dieci mesi, di agorafobia, il terrore degli spazi aperti: questo la costringe a non uscire mai di casa. Trascorre le sue giornate bevendo molto merlot, giocando a scacchi on-line e... osservando tutto il vicinato grazie al teleobiettivo della sua macchina fotografica.
Siamo alla fine di ottobre quando nella villa davanti alla sua si trasferisce una nuova famiglia, i Russell, formata da un padre, una madre ed un figlio adolescente. Stranamente la solitudine di Anna viene scardinata sia dal ragazzo, Ethan, sia dalla madre, Jane, della famiglia Russell, che si presentano entrambi a casa sua, pur non insieme e per motivazioni diverse. La nostra protagonista prova subito un'innata simpatia per la stravagante Jane Russell e un moto d'affetto per il giovane Ethan, un vero e proprio “bravo ragazzo”.
Ma una sera Anna, affacciata alla finestra di camera sua, vede accadere qualcosa nel salotto dei Russel: di che cosa si tratta in realtà? Perché nessuno crede all'attendibilità di Anna?
Il ritmo della narrazione scorre piuttosto lento fin oltre la metà del libro, per poi regalarci un finale inaspettato e molto coinvolgente. L'autore, tramite la voce narrante di Anna Fox, si sofferma sul dolore e sull'angoscia della protagonista, che cerca in ogni modo di “anestetizzarsi” con alcool e farmaci per non affrontare l'evento traumatico che l'ha resa agorafobica. Eppure Jane Russell era riuscita a scalfire la sua estrema solitudine: che cosa è successo a Jane? Anna dovrà far funzionare di nuovo bene gli ingranaggi arrugginiti della sua razionalità per riuscire a capirlo.
Siamo di fronte ad un thriller molto mentale, psicologico. Non ci sono particolari eccessivamente violenti. Il male può nascondersi dove non ci aspetteremmo e soprattutto, mai sottovalutare la potenza della mente, nel bene o nel male.
L'autore ha dichiarato di essere lui stesso, come del resto la protagonista del suo romanzo, un grande estimatore del cinema d'autore in bianco e nero ed in particolare del grande Hitchcock. L'opera quindi esplicita i modelli a cui l'autore si è ispirato: ne risulta un thriller sofisticato ed intrigante da cui sarà presto, pare, tratto un film.
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Che quartetto!
In cerca di una lettura estiva e non particolarmente impegnativa ed avendo anche voglia di gustarmi un bel giallo dopo molto tempo, ho pensato che fosse giunto il momento di leggere “Sara al tramonto” di Maurizio De Giovanni.
Premetto che non avevo mai letto niente di questo autore, né la serie del commissario Ricciardi, né quella dei bastardi di Pizzofalcone, quindi non posso fare paragoni in tal senso.
Mi sono trovata di fronte ad un giallo piacevole e ben strutturato, anche se piuttosto semplice e lineare: a metà libro avevo già capito chi fosse il colpevole ed intuito il finale.
La protagonista, Sara Morozzi, è una donna sulla cinquantina che non si tinge i capelli e quindi li ha grigi (l'autore si sofferma tantissimo su questo particolare: ma sono così poche le donne al mondo che non si tingono i capelli?), non si trucca, non porta i tacchi né vestiti appariscenti. Tutto ciò perché Sara vuole restare invisibile: è bella, anche se non più giovane, ma non vuole farsi notare, sia perché ha svolto per quasi tutta la vita un mestiere molto particolare, in cui era meglio rimanere nell'ombra, sia, soprattutto, perché a lei non importa niente di ciò che pensano gli altri. Ha preferito non essere mai falsa o ipocrita ed ha compiuto delle scelte abbastanza discutibili per inseguire un grandissimo amore.
Devo dire che più di un giallo mi è sembrato un romanzo rosa: la storia d'amore tra Sara e il suo Massimiliano permea ogni pagina, lasciando un senso di velata malinconia.
Sara è una donna distrutta dalla perdita del suo compagno, sola, introversa, che vuole nascondersi dal mondo. De Giovanni quindi le affianca degli altri personaggi per rendere la situazione un pochino meno grigia e desolata: l'ispettore Davide Pardo, che convive con un bellissimo ed alquanto ingombrante esemplare di Bovaro del Bernese, e Viola, una ragazza al nono mese di gravidanza che fa la fotoreporter. La squadra così composta funziona molto meglio, secondo il mio personale parere e si aggiungono qua e là anche delle note umoristiche che arricchiscono la narrazione.
In conclusione, ritengo che si tratti di una lettura piacevole, che dà più spazio alla caratterizzazione dei protagonisti rispetto all'elaborazione di una trama particolarmente avvincente, probabilmente anche in previsione di una futura e fortunata serie.
Mi è sembrato un buon libro per intrattenersi qualche ora senza la pretesa di trovarsi di fronte ad un capolavoro.
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L'eroina dei Mille
Sulla lapide della tomba di Rosalìe Montmasson, nel cimitero del Verano, a Roma, possiamo leggere:
«Prima moglie di Francesco Crispi
con lui cospirò per l'unità della Patria
con lui prese parte alla leggendaria Spedizione dei Mille
Unica donna nella legione immortale
Ne divenne l'eroina
Godette la fiducia di Mazzini e l'amicizia di Garibaldi
Esempio alle donne italiane
di maschie virtù pubbliche e di gentili virtù domestiche. »
Ma chi fu veramente costei? E perché non ne troviamo traccia nei libri di storia né nella memoria condivisa del nostro Paese? Eppure deve essere stata una figura di donna straordinaria: perché questa voluta damnatio memoriae dell'eroina dei Mille?
Maria Attanasio, rimasta comprensibilmente affascinata ed incuriosita dalla storia di questa donna fuori dal comune, ha voluto ricostruirne la vita memorabile, fare luce sulle palesi ingiustizie che Rosalìe ha dovuto subire e restituire alla conoscenza degli italiani un personaggio volutamente oscurato dal maschilismo e da meschini giochi di potere. E ci ha fatto un bellissimo regalo: in una narrazione a metà fra saggio, biografia e romanzo storico, che procede con uno stile molto elegante, ha restituito la memoria di una donna che sicuramente vale la pena conoscere.
Rosalìe Montemasson nasce nella Sabaudia, nel paese di Saint Jorioz, ma capisce fin da giovanissima di non voler fare la fine della madre, morta a 38 anni dopo una vita di lavoro e botte. Così decide di lasciare la famiglia d'origine e il suo paese e tentare una nuova vita altrove. La ragazza arriva a Marsiglia dove si imbatte per la prima volta nell'uomo che amerà per tutta la vita: Francesco Crispi. E' a Torino però che scoppia la passione e l'amore fra Rosalìe e Crispi. La ragazza si innamora dell'uomo ma anche e soprattutto degli ideali che lui abbracciava in quegli anni: le fa conoscere la possibilità di lottare per la libertà, per la pari dignità sociale e di genere.
“ Ma non era contenta. Sentiva come un'assenza: un'urgenza a fare senza sapere bene cosa. Né in quale direzione andare e cercare. Fino all'irruzione di Fransuà nella sua vita.
Con lui quella fame di mondo aveva preso parola e forma: era lo specchio dove ritrovava l'immagine di sé- nitida e in cammino verso la vita- che fin dall'adolescenza inutilmente aveva cercato.”
Rosalìe ferve per questi valori di libertà e diventa una cospiratrice mazziniana in prima persona, rimanendo la compagna di Crispi. Lo segue ovunque, lo mantiene grazie al suo lavoro manuale di stiratrice e donna di servizio: quando lui viene mandato in esilio a Malta pretende un regolare matrimonio. Continua insieme al suo Fransuà una vita difficile; in esilio a Londra, conosce e frequenta Mazzini e diventa una convinta repubblicana democratica.
Il Risorgimento intanto si sta compiendo ed arriva il momento della spedizione dei Mille. Rosalìe segue Crispi anche in quest'impresa, non come una semplice sostenitrice a distanza, ma come una dei mille volontari di Garibaldi, l'unica donna ammessa a partecipare alla spedizione.
Il tempo passa e purtroppo Rosalìe si rende conto che il suo uomo sta cambiando: inizia a diventare un sostenitore della monarchia, rinnega tutti i suoi precedenti ideali in cambio di prestigio, posizione politica di potere e soldi. Dovrà provare sulla stessa pelle quanto sia falsa e traditrice l'anima del suo amato Francesco Crispi. L'uomo infatti non si farà nessuno scrupolo a gettarla via come un oggetto dismesso per soddisfare nuovi appetiti sessuali. Arriverà persino a negare la validità del suo matrimonio con Rosalìe, per poter sposare una donna con meno della metà dei suoi anni, in uno Stato dove ancora non esiste il divorzio.
Maria Attanasio, con grande rigore documentario è riuscita a ricostruire anche gli ultimi anni di vita di Rosalìe, di cui non si conosceva niente. Saremo di fronte ad una donna distrutta dal dolore, sconfitta e dedita all'alcool? Oppure la sua forza si mostrerà ancora più evidente, dopo la disfatta nella vita privata, nel continuare a sostenere gli ideali di una vita intera, che lei, al contrario del marito, non aveva mai tradito?
“Era stata quella consapevolezza – e l'aiuto delle amiche impegnate nell'Unione: giovani, meno giovani, della sua età – a farle ritrovare le ragioni del suo esistere: Fransuà non aveva bisogno di lei, ma il mondo sì. E c'era ancora tanto da fare; la povera gente sfruttata, i diritti delle donne negati, senza la cui emancipazione l'unità e il progresso del genere umano non potevano realizzarsi: perchè dimezzata l'anima della storia.”
Una lettura consigliatissima, perchè l'oblio del tempo non cancelli la memoria dell'unica donna ad aver combattuto con i Mille volontari di Garibaldi, di una donna straordinaria e coraggiosa che non rinnegò mai i suoi ideali di libertà.
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Ogni cosa è collegata alle altre
“Tutti sono convinti che i problemi siano qualcosa di personale, ma, nell'immensità che ci circonda, è più inquietante pensare a come ogni cosa sia collegata alle altre. Ecco perché in tanti preferiscono scrivere a noi anche se hanno già qualcuno accanto. Vogliono avere la certezza che lanciando un sassolino in questo oceano così vasto potranno vedere comunque i cerchi nell'acqua. Vogliono sapere che dall'altra parte c'è qualcuno, anche se si tratta di qualcuno che non potranno mai vedere.”
Guriko e Donko sono due sorelle che hanno sofferto tantissimo durante l'infanzia e l'adolescenza. Adesso, all'età di circa trent'anni, hanno aperto un sito internet dove ricevono e rispondono a mail di persone sconosciute che chiedono un consiglio, confidano un problema o uno stato d'animo.
La voce narrante appartiene a Guriko, la sorella minore, che si occupa a tempo pieno del sito e gestisce la casa, mentre ricerca faticosamente pace, serenità ed equilibrio interiore. La sorella maggiore, Donko, è invece più eccentrica, meno propensa all'interiorizzazione delle esperienze; ha un lavoro nella redazione di una rivista femminile ed una spiccata tendenza ad innamorarsi. Non vuole sposarsi o costruire relazioni stabili però, è attratta soltanto dalla fase iniziale delle storie d'amore, dopodiché perde tutto l'interesse. Le due sorelle sono unite da un passato difficile e da un profondo legame che i genitori si immaginavano già per loro prima che nascessero: decisero infatti, alla nascita della prima figlia, di darle la metà del nome Donguri (castagna in giapponese), mentre l'altra metà del nome l'avrebbero data alla sorellina, che sarebbe nata un paio d'anni dopo.
Guriko sta attraversando un momento particolare, esce raramente, non ha una vera e propria vita sociale, ma vive intensamente una spiccata sensibilità. Riesce ad essere in contatto con la propria parte interiore più profonda e sommersa, che si manifesta nelle sensazioni, nei ricordi, nei sogni.
Siamo di fronte ad un breve romanzo delicato ed introspettivo: lo stile di Banana Yoshimoto è lieve nel descrivere situazioni dolorose e complicate. Ognuno vive cercando di tirare avanti meglio possibile, affrontando lutti, abbandoni, incomprensioni inevitabili. Ma nessuno è completamente isolato dagli altri, anzi, siamo tutti collegati da una rete di sentimenti ed emozioni: quello che provano gli altri, quello che accade a chi ci ha voluto bene ha un effetto che ricade su di noi.
“ Una persona muore e fa un cerchio sull'acqua che si allarga a includere chi gli sta intorno. Ciascuno di noi occupa una porzione di spazio in questo mare enorme che è la somma di tutte le nostre anime, ed è uno spazio uguale per tutti.”
Una lettura che induce alla meditazione ed all'introspezione. Una storia sussurrata che lascia nell'aria una miriade di pensieri e riflessioni.
“Di tanto in tanto penso a tutti gli uomini straordinari che lasciano questo mondo senza scrivere libri, senza andare in tv, senza quasi mai raccontare le proprie idee ed esperienze. Mi immagino la loro interiorità come qualcosa di limpido, simile a un lago dalla superficie cristallina che, al momento della morte, li inghiotte serenamente, in armonia. La laboriosità delle loro vite è controbilanciata dalla quiete con cui il cielo li prende con sé. Le loro mani rugose e piene di graffi, le carni esauste e raggrinzite sfumano con grazia. Come una piante che si secca conservando la propria bellezza, se ne vanno senza lasciare ombre.”
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Sangue, sudore e lacrime
E' un romanzo denso di contrasti “Salvare le ossa” di Jesmyn Ward; duro e crudele come uno schiaffo preso in piena faccia.
Siamo lontanissimi dalla corrente minimalista che caratterizzava i vari libri che ultimamente ho letto provenienti dagli Stati Uniti. Qui emerge una ben definita umanità che non ha niente dell' “americano medio” descritto da una Strout o da un John E. Williams. A partire dall'ambientazione geografica: dimentichiamoci delle distese coltivate a mais e soia del Midwest. Ci troviamo a Bois Sauvage, nel delta del Mississippi, pochi giorni prima dell'arrivo dell'uragano Katrina.
La voce narrante e protagonista della storia è Esch,una ragazzina di circa 14 anni che vive e si muove in un mondo prevalentemente maschile.
Esch ha tre fratelli, due poco più grandi di lei, Randall e Skeetah, ed uno più piccolo, Junior, per dare alla luce il quale la mamma è purtroppo morta. Il padre è un alcolizzato, forse distrutto dal dolore per la perdita della moglie, che non sa prendersi cura dei propri figli.
Il romanzo si caratterizza per i forti contrasti che lo animano e che danno vita ad una narrazione straordinaria ma allo stesso tempo scioccante e violenta.
La ragazzina, Esch, vive in un contesto socio-economico di privazioni. A livello affettivo è ancora ben aperta la ferita per la morte della madre; Esch è molto legata ai fratelli ed ha un bellissimo rapporto con tutti e tre ma ha una concezione dell'amore fra un uomo e una donna del tutto distorta: fa sesso con chiunque glielo chieda e si invaghisce di un ragazzo che la usa a suo piacimento, che non la guarda mai negli occhi, che la considera solo una debole femmina da sfruttare. Lo sciocco ragazzo non riesce a comprendere che la sua è una visione miope ed ottusa, che invece sia Esch, sia le femmine in generale possono tirare fuori una forza devastante come un uragano.
“«Qualsiasi cane dopo un parto del genere è meno forte di prima. Anche se non te ne accorgi. A un animale toglie un bel po' di forze allattare e star dietro ai piccoli in quel modo. E' il prezzo di essere femmina». Finalmente mi lancia un'occhiata, che mi scivola addosso come se fossi di vetro.
Skeetah scoppia a ridere. Sembra che la risata gli squarci la gola.
«Scherzi? E' proprio quando diventano più forti. Hanno qualcuno da proteggere». Si gira a guardarmi anche lui, e continuo a sentirmi addosso il suo sguardo anche quando ormai ha distolto gli occhi. «E' quello che gli dà forza».
Dicevo, un romanzo che mi ha colpita per i forti contrasti che vi sono celati. Esch conosce la mitologia classica e si immedesima in Medea, però non è in grado di andare in un consultorio per farsi prescrivere un anticoncezionale. La voce narrante si esprime con un linguaggio aulico, denso di metafore e bellissime descrizioni che lasciano pieni di ammirazione. La realtà in cui la protagonista ed i suoi fratelli si ritrovano a vivere è caratterizzata invece dalla violenza, dalla sofferenza e dalla lotta per non soccombere. In questo contesto ciò che verrebbe più naturale è piangere, ma anche il pianto è un lusso che agli abitanti della Fossa non è concesso fino in fondo.
“Cosa piangete a fare? Smettetela di piangere. Piangere non cambia niente. Ma noi non avevamo mai smesso di piangere. Solo, lo facevamo in silenzio. Ci andavamo a nascondere. Avevo imparato a piangere senza quasi versare lacrime, ingoiando l'acqua calda e salata e sentendola scorrere giù per la gola. Non potevamo fare altro. E così ingoio, aguzzo gli occhi tra le lacrime e mi metto a correre.”
Anche il legame fortissimo tra Skeetah e il proprio cane non ha niente di ordinario e comune: infatti China, il cane di Skeetah, è un cane da combattimento, che con il sangue e la violenza ha un rapporto di familiarità.
Infine, come non notare il contrasto tra la natura benigna che offre riparo e protezione attraverso i boschi e l'acqua della Fossa e la natura distruttrice e devastante incarnata nella furia dell'uragano Katrina. Anche lei, guarda caso, una femmina.
In conclusione, un romanzo che lascia il segno; una di quelle letture che, pur non propriamente piacevoli, si ricordano per anni per la loro potenza.
In particolare, rimarranno impresse le tre entità femminili: Esch, il cane China e l'uragano Katrina, apparentemente deboli e sottovalutate da un mondo dominato da maschi, che invece riusciranno ad imporre la loro forza, a volte una forza devastante e distruttiva, a volte invece una forza in grado di portare vita, e salvezza.
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Guarda! Sono vivo!
Mi sono avvicinata alla lettura di “Stoner” di John Williams avendo delle aspettative altissime: ebbene, dopo aver ultimato il romanzo, posso dire che, per quanto riguarda la mia personale opinione, queste aspettative sono state rispettate in pieno, o anche di più.
In primo luogo vorrei sottolineare lo stile dell'autore: chiaro, essenziale, fluido e insieme poetico e struggente. Quante volte mi sono trovata di fronte opere contorte e complicate da un linguaggio assurdo e astruso, sperimentazioni linguistiche e stilistiche assurte a capolavori sulla sopportazione di noi poveri lettori. “Stoner” è il contrario di tutto questo. John Williams riesce a narrare la vita di un uomo nella quale non accade, apparentemente, niente di eccezionale ed a farne un capolavoro.
La grandezza di Williams sta proprio in questo: nel saper raccontare la vita di Stoner, nella quale non avvengono accadimenti strani e particolari, rendendola incredibilmente intensa e speciale. Nessuna avventura rocambolesca, azione o paura ci tengono incollati alla pagina. Ci innamoriamo di un protagonista che, forse spesso passivo e poco ambizioso, all'età di circa vent'anni subisce una specie di “conversione” verso la letteratura e decide di fare dello studio e dell'insegnamento la propria vita. Lo seguiamo nel percorso della sua esistenza, in cui incorrerà in scelte sfortunate ma anche nell'amore, fino alla fine.
“Oltre il torpore, l'indifferenza, la rimozione, quell'amore era ancora lì, solido e intenso. Non se n'era mai andato. […] Stranamente, l'aveva dato a ogni momento della sua vita, e forse l'aveva dato più pienamente proprio quando non si rendeva conto di farlo. Non era una passione della mente e nemmeno dello spirito: era piuttosto una forza che comprendeva entrambi, come se non fossero che la materia, la sostanza specifica dell'amore stesso. A una donna o a una poesia, il suo amore diceva semplicemente: Guarda! Sono vivo!”
Sarà difficile dimenticarsi di questo protagonista e di quest'opera scritta così bene.
Buona lettura.
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A chi ha letto ed apprezzato le opere di Elizabeth Strout
Una piccola guerriera che corre per la libertà
Non voglio che sia un caso se proprio oggi scrivo la recensione dello splendido e tristissimo libro di Giuseppe Catozzella, “Non dirmi che hai paura”.
Questo romanzo, narrato in prima persona dall'autore, racconta la storia vera di Samia Ysuf Omar.
Samia vive a Mogadiscio, in Somalia ed ha per sorella la guerra, perché lei e la guerra sono nate insieme. Trascorre un'infanzia difficile ma alla fine ancora felice, perché ricca di amore e speranza. Samia comprende prestissimo di avere un dono, sa correre velocissima. Vuole realizzare il suo sogno di diventare un'atleta e correre per la libertà: la libertà dalla guerra, dall'oppressione e dalla prevaricazione in cui è costretta a vivere. Samia non ha mai odorato il profumo dell'aria senza la presenza della polvere da sparo. Non può andare sulla spiaggia: potrebbe essere uccisa solo perché si trova lì. La situazione peggiora di anno in anno, alla guerra si aggiunge la presa del potere da parte di un gruppo di estremisti islamici, Al-Shabaab. Da un giorno all'altro viene vietato di ascoltare la musica, vengono chiusi tutti i cinema, vengono spenti i pochi lampioni sotto ai quali le persone si radunavano a leggere, la sera. Gli uomini sono obbligati ad indossare pantaloni lunghi, rasarsi i capelli a zero oppure portarli lunghi, come le barbe. Le donne però hanno una sorte ancora peggiore, sono costrette a portare il burqa, non possono più fare niente, anche camminare per strada può essere fatale.
Eppure Samia non vuole assolutamente lasciare il suo Paese, non vuole affrontare il Viaggio.
“Il Viaggio è una cosa che tutti noi abbiamo in testa fin da quando siamo nati. Ognuno ha amici e parenti che l'hanno fatto, oppure che a loro volta conoscono qualcuno che l'ha fatto. E' come una creatura mitologica che può portare alla salvezza o alla morte con la stessa facilità. Nessuno sa quanto può durare. Se si è fortunati due mesi. Se si è sfortunati anche un anno, o due.
E fin da quando siamo bambini il Viaggio è uno degli argomenti preferiti di conversazione. Tutti hanno racconti di parenti giunti a destinazione in Italia, Germania, Svezia o Inghilterra. Colonne di tir con uomini cotti dal sole e morti dentro il forno del Sahara. Trafficanti di esseri umani e terribili prigioni libiche. E poi i numeri dei viaggiatori che muoiono nel tratto più difficile, la traversata del Mediterraneo, dalla Libia all'Italia. Chi dice decine di migliaia, chi dice centinaia di migliaia. Fin da quando siamo nati siamo abituati a questi racconti, a questi numeri senza fondamento. Perché chi arriva, quando chiama a casa dice sempre la stessa cosa: non riesco a descrivere cosa è stato il Viaggio. E' stato terribile, questo di certo, ma non so dirlo a parole. Ecco perché è sempre avvolto dal più assoluto mistero. Un mistero per alcuni necessario per arrivare alla salvezza.”
Samia vuole correre per il suo Paese, la Somalia, vuole portare i colori della sua terra alle Olimpiadi di Pechino 2008. Ed infatti ci riuscirà. Perché Samia ha il dono di saper correre velocissima e parteciperà veramente alle Olimpiadi. Eppure tutto continua ad andare di male in peggio in Somalia, tanto da spingere la nostra protagonista ad intraprendere qualcosa che non avrebbe mai voluto, che era lontanissimo dai suoi progetti e dalle sue aspirazioni.
Consiglio questo libro, basato su una storia vera, a tutte le persone che quando ascoltano o leggono notizie di attualità su barconi e clandestini, non si rendono conto che stanno parlando di esseri umani, con una loro storia, famiglia, amici, affetti, sogni da realizzare. Persone, non concetti astratti da colpevolizzare o su cui speculare. Uomini, donne e bambini che sicuramente avrebbero preferito non intraprendere mai questo Viaggio, ma probabilmente vi sono stati costretti malgrado tutto. Un'opera di narrativa che Catozzella ha scritto grazie alla testimonianza della sorella di Samia, Hodan, che ci ha permesso di entrare nella casa, nella vita, nei pensieri e nel cuore di questa piccola guerriera che correva per la libertà.
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Giorni migliori
Confesso di essermi avvicinata alla lettura di questo libro con qualche preconcetto.
Un romanzo d'esordio tradotto in 35 lingue.
Uno dei casi editoriali dell'anno.
Ho pensato che fosse il solito romanzo carino ma anche molto “commerciale”. Poi, per caso, mi sono imbattuta in un'anteprima e ne ho letta qualche pagina: è scoccata subito la scintilla e non sono più riuscita a smettere di leggere, ho comprato il libro e l'ho terminato in breve tempo. E mi è piaciuto tantissimo.
Eleanor Oliphant è una donna di trent'anni che vive in Scozia. Lavora da circa nove anni in un ufficio dove si occupa di contabilità. Eleanor non ha una famiglia, non ha parenti né amici, nemmeno con i colleghi di lavoro è mai riuscita ad instaurare una minima relazione. La sua vita è caratterizzata da un'intensa solitudine che viene interrotta soltanto dalle telefonate della madre, ogni mercoledì sera. Eppure questi momenti sono forse i più tremendi e difficili, anche più del resto della settimana che trascorre in una solitaria routine. La madre di Eleanor infatti è un essere cattivo, che le ricorda un passato tristemente doloroso che ancora la nostra protagonista non si è lasciata alle spalle e di cui sono una testimonianza continua le cicatrici che sono rimaste su un lato del suo volto.
La vita di Eleanor comunque non può continuare così. Lei dichiara di stare bene, anzi benissimo, ma in realtà è alla ricerca di un cambiamento della sua situazione esistenziale. Così si innamora di un musicista visto una sera ad un concerto: non sa niente di lui eppure si lancia in questa cotta dal sapore molto adolescenziale. E' un modo per iniziare a prendersi cura di sé stessa, per fare qualche cambiamento alla propria immagine ed allo stesso tempo iniziare lentamente ad uscire dalla corazza che si è costruita.
Negli stessi giorni dell'inizio dell'amore virtuale conosce una persona che realmente è gentile con lei e si mostra senza preconcetti, Raymond, un nuovo collega informatico. Per caso avviene un qualcosa che costringe Eleanor e Raymond ad iniziare a frequentarsi ed i due diventano amici.
“Sul mio cuore ci sono cicatrici altrettanto spesse e deturpanti di quelle che ho in viso. So che ci sono. Spero che resti un po' di tessuto integro, una chiazza attraverso la quale l'amore possa penetrare e defluire. Lo spero.”
Inizia così un percorso molto difficile per la protagonista,che la porterà a ricordare e in qualche modo, superare, le sofferenze ed i gravi traumi che si porta dietro dall'infanzia e che purtroppo l'avevano costretta a vivere questa vita di solitudine.
“Eleanor Oliphant sta benissimo” è un romanzo in grado di far emozionare, far commuovere e far sorridere i lettori. La protagonista è veramente indimenticabile, ed è impossibile non amarla, con il suo linguaggio forbito e la sua ingenuità da adolescente, per la forza straordinaria che continua a dimostrare nei confronti della vita. Davvero una lettura coinvolgente ed affascinante.
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Il canto delle sirene
“Il cielo sopra l'Everest”, scritto da David Lagercrantz e pubblicato da Marsilio nel maggio 2018, racconta una immaginaria spedizione sull'Everest, svoltasi nel 2000. Gli avvenimenti narrati nel libro prendono liberamente spunto da una reale vicenda che si svolse nel 1996 ed ebbe come drammatico epilogo la morte di ben 8 alpinisti, colti da una tempesta mentre scendevano dalla vetta più alta della Terra.
Il testo di Lagercrantz è un “page turner”, un libro che si legge tutto d'un fiato: gli eventi sono raccontati con lo scopo evidente di catturare l'attenzione del lettore, uno scopo che viene pienamente raggiunto.
Un gruppo di alpinisti, la maggioranza dei quali non professionisti, si accinge a raggiungere la vetta dell'Everest. Per poterci riuscire hanno dovuto pagare delle somme esorbitanti ed affidarsi a guide e portatori esperti di alta quota. Tutti sembrano avere una motivazione ineccepibile per tentare quest'impresa un po' folle: è nella natura dell'uomo sognare di oltrepassare i propri limiti e molte persone di quella sfortunata spedizione sono incuranti di rischi e pericoli e vogliono solo aggiungere un'altra sfida vinta alla loro collezione. All'interno del gruppo però la solidarietà e l'amicizia sono soltanto apparenti, sotto la superficie covano invidia, rancore, gelosia, disprezzo di sé e desiderio di vendetta. Tutto questo, unito alla completa mancanza di rispetto verso lo spirito della montagna, non può portare di sicuro al buon esito dell'impresa.
Lagercrantz padroneggia con maestria l'intreccio della narrazione alternando analessi e prolessi che tengono il lettore incollato alla pagina. Inoltre dimostra di essersi documentato scrupolosamente sull'argomento: leggendo si ha quasi l'impressione di trovarsi sull'Everest, a quote non propriamente confortevoli per l'essere umano, tra mancanza di ossigeno, probabile congelamento, perdita di liquidi, rischio elevato di pazzia e morte. Tuttavia ho avuto l'impressione che la psicologia dei personaggi sia stata descritta in maniera un po' superficiale e talvolta banale. Ed anche lo stile dell'autore mi è sembrato un pochino anonimo, con ripetizioni frequenti delle stesse frasi e degli stessi concetti.
Quindi, in conclusione, consiglio “Il cielo sopra l'Everest” a chi è in cerca di un romanzo d'avventura dal ritmo serrato e dall'ambientazione affascinante. Chi cerca qualcosa in più potrebbe rimanere deluso.
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Finalmente l'amore
«Non un giallo, però» sorride il commissario. «Lo sa? Secondo le regole del giallo classico, il suo non sarebbe nemmeno un caso degno di un romanzo. Perché non si è nemmeno preso la briga di morire, e non si può scomodare un lettore per trecento pagine senza nemmeno dargli un morto.»
«S.S. Van Dine», cito annuendo a mo' di eco. «Più il morto è morto, meglio è.»
Ironica ed autoironica Alice Basso, che torna ad aprile 2018 con un nuovo romanzo della serie con protagonista Vani Sarca, talentuosa ghostwriter e consulente della polizia.
Ritroviamo tutti i personaggi, ormai familiari, che ci hanno fatto compagnia durante la lettura dei precedenti libri della serie: l'amica adolescente e l'amica anziana di Vani, l'ex fidanzato e scrittore, Riccardo, che sarà al centro di un delicato caso di stalking e naturalmente, l'affascinante commissario Berganza. Finalmente l'amore ha trionfato e Vani e il commissario si sono messi insieme.
In effetti quest'ultimo scritto della Basso ha forse più le sembianze di un romanzo rosa che di un giallo, condito con alte dosi di ironia.
Lo stile dell'autrice è brillante ed effervescente, le pagine sono disseminate di citazioni: tutto ciò rende la lettura piacevole. Ho notato però, purtroppo, dei difetti che nei volumi precedenti della serie erano soltanto accennati e che qui invece mi sono apparsi evidenti.
In primo luogo il contenuto della narrazione mi è sembrato, ahimè, un pochino troppo effimero: la Basso gioca giustamente d'ironia sul fatto che sia o non sia un giallo, ma la trama mi è sembrata davvero poco consistente. Inoltre lo stile dell'autrice, da un lato così frizzante, tende facilmente a diventare prolisso e, per il mio gusto personale, c'è un ricorso eccessivo al turpiloquio. Naturalmente la mia è una valutazione del tutto personale e soggettiva e quindi opinabile.
In conclusione, una lettura piacevole, ironica, divertente. Non proprio un giallo, non proprio un romanzo rosa, ma sicuramente un testo apprezzabile e godibile come letteratura d'intrattenimento.
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A chi legge letteratura d'intrattenimento che si colloca a metà strada fra genere giallo e rosa, condita con molta ironia. A chi apprezza i romanzi di Chiara Moscardelli e Alessia Gazzola.
Le stringhe del tempo
Mentre scrivo questa recensione sono ancora avvolta dall'atmosfera particolare del romanzo “22/11/'63”. Il celebre romanzo di Stephen King del 2011 infatti narra di viaggi nel tempo: sicuramente un argomento affascinante e non nuovo in letteratura e nel cinema, reso in questo caso avvincente e credibile dal “re” dell'horror.
Jake Epping, professore di lettere nel liceo di una cittadina del Maine, Lisbon Falls, è il protagonista della narrazione; un personaggio che attira simpatia e consenso: un buono al 100%, un po' riservato ma in fondo molto coraggioso ed intraprendente. Il nostro Jake, incredibilmente, trova un varco temporale, una “buca del coniglio” o una bollicina del tempo che lo può catapultare direttamente nella Lisbon Falls del 9 settembre 1958. Un salto indietro che lo proietta in un mondo che non conosce internet e smartphone, dove tutti fumano indisturbati ed incuranti degli eventuali danni alla salute, fra sapori genuini e dimenticati. Non è un mondo perfetto però, ovviamente, anche nel “Mondo di Allora” troviamo odio, rancore, cattiveria, indifferenza, razzismo, pazzia... Jake ritiene di poter cambiare alcuni episodi negativi della storia, da fatti privati di cui egli è a conoscenza ad eventi di portata mondiale, come l'omicidio del presidente Kennedy, assassinato a Dallas il 22 novembre 1963. Si adopererà per riuscirci in tutti i modi possibili, ma non sarà un'impresa facile, perché il passato non vuole essere cambiato. C'è inoltre una parte romantica che racconta la storia d'amore fra il buon professore e la bella ed altissima Sadie, che, secondo me, rende ancora più piacevole la lettura. Si tratta di un romanzo appassionante: riuscirà Jake a compiere la sua missione? Cosa scoprirà alla fine?
Il romanzo è scritto in prima persona dall'io narrante del protagonista, il linguaggio è scorrevole e colloquiale e non mancano spunti di ironia, nonostante gli argomenti affrontati siano piuttosto cupi. L'opera è molto calata nella storia e nella realtà statunitensi ed io personalmente ho avvertito un po' la distanza da questo tipo di ambientazione.
In conclusione quindi, un ottimo romanzo, scritto per i lettori più che per i critici letterari, si legge volentieri e velocemente, nonostante la mole e lascia addosso un pizzico di magia.
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La scelta di restare
Un libro veramente stupendo “Resto qui” di Marco Balzano, finalista al premio strega 2018. Avevo letto molte recensioni positive e dopo la mia personale lettura non posso fare altro che confermarle.
La storia narrata si apre negli anni '20 del Novecento, poco tempo dopo la marcia su Roma e l'avvento del fascismo, in Alto Adige, a Curon Venosta. La voce narrante è quella di una donna, Trina, che si rivolge alla propria figlia e le racconta la sua vita a partire da quando era solo una ragazza che voleva fare la maestra ed era già innamorata in modo platonico di Erich, che diventerà suo marito e padre dei suoi figli. Trina deve affrontare un periodo storico particolarmente difficile e drammatico: con l'arrivo dei fascisti le viene impedito di realizzare il suo progetto di diventare maestra: dovrà affrontare ingiustizie, prevaricazioni, la guerra, un grande dolore nella vita privata. Trina ed Erich sono legati indissolubilmente al loro paese, Curon. Scelgono in più occasioni di restare lì, di non partire. Quel luogo non è solo un posto come un altro, fa parte di loro, della loro vita. Trina è un personaggio forte, non si rassegna passivamente alle ingiustizie, in ogni situazione fa ciò che può per non rimanere a subire in silenzio. Sarà sempre fedele a se stessa, ai suoi affetti più profondi e alla sua terra.
“Resto qui” è un romanzo, i personaggi e le loro vicende personali sono opera della fantasia dell'autore, ma la storia di Curon purtroppo non ha niente di inventato. Marco Balzano, visitando questo luogo nel 2014 mentre era in vacanza, rimane enormemente colpito dall'immagine del campanile affiorante dall'acqua. Non riesce a sorridere e farsi un selfie vedendo quel paesaggio surreale e dopo ritornare alla sua vita di tutti i giorni. Inizia così a studiare il passato di questo luogo sfortunato, l'unico in Europa dove si sono susseguiti fascismo e nazismo e che, una volta finito l'orrore della guerra, è stato volontariamente sommerso dall'acqua e cancellato dalla storia perché vi si potesse costruire una diga, e decide di scrivere un romanzo ambientato in questa realtà.
Un libro quindi che permette di conoscere meglio una pagina della storia italiana molto dolorosa e controversa dando voce agli immaginari (ma verosimili) protagonisti di questa vicenda, facendoci indignare e commuovere insieme a loro.
Siamo di fronte a un narratore che sa raccontare la sua storia tenendo il lettore incollato alle pagine e stupito dalla bellezza e dall'essenzialità della prosa che spesso si innalza in immagini poetiche. Un vero e proprio capolavoro, secondo me.
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Amore, matrimonio, adulterio
L'ultimo libro di E.J. Howard pubblicato in Italia, uscito il 9 aprile 2018, racconta la storia di una famiglia borghese nell'Inghilterra degli anni Sessanta.
La famiglia in questione è formata da tre donne: Esme, la madre, di 58 anni, rimasta vedova ormai da una ventina d'anni, Cressy, la figlia maggiore di 37 anni, anch'essa giovanissima vedova di guerra e pianista di dubbio talento ed Emma, la sorella minore, di circa dieci anni minore di Cressy, apparentemente indifferente all'amore ed agli uomini, che lavora nella casa editrice di famiglia. Emma e Cressy vivono insieme in un appartamento a Londra, ma ogni fine settimana cercano di raggiungere la madre nella casa di campagna nel Sussex.
E' un venerdì ed il romanzo narra le vicissitudini di un fine settimana particolare, durante il quale i precari equilibri che hanno governato la vita delle tre donne per lungo tempo, saranno destinati ad essere infranti e rimescolati.
In quella settimana di novembre infatti decide di tornare a trovare Esme anche Felix, un medico che circa vent'anni prima, quando era ancora in vita Julius, era stato il suo giovane amante e che l'aveva lasciata senza spiegazioni proprio dopo aver saputo della morte del marito. Alla strana comitiva si unisce anche Daniel, un eccentrico poeta che conosce Emma nella casa editrice e viene invitato dalla ragazza a trascorrere il fine settimana insieme nella casa di campagna di famiglia.
Come già nei romanzi della saga dei Cazalet, l'autrice dà prova di uno stile inconfondibile: le accurate descrizioni di luoghi e oggetti lasciano spazio a poco a poco alla psicologia dei personaggi, in particolare di quelli femminili, dei quali possiamo indagare a fondo angosce, intimi desideri, solitudine e innamoramenti.
Questo romanzo fu scritto dalla Howard prima dei Cazalet, fu pubblicato in Gran Bretagna nel 1965, una delle prime opere di questa autrice. Viene quindi spontaneo fare dei paragoni, anche se forse bisognerebbe cercare di evitarli. Come ho scritto prima, lo stile della scrittrice è già riconoscibile e maturo, i temi affrontati sono simili: la vita delle famiglie e soprattutto delle donne borghesi nell'Inghilterra fra gli anni Quaranta e Sessanta del Novecento, l'ipocrisia che vi si poteva nascondere e la contemporanea ricerca della sincerità e dell'amore. Ho trovato tuttavia “All'ombra di Julius” un po' meno coinvolgente e profondo della saga dei Cazalet, dove venivano sviscerate anche questioni più spinose, come l'omosessualità, la violenza all'interno delle famiglie, la malattia, la sofferenza; questo invece, a tratti mi è sembrato simile ad un romanzo rosa.
Ciò non toglie che sia un libro scritto in modo impeccabile, piacevole, dal sentore vagamente cinematografico o teatrale (ricorda delle commedie romantiche del cinema anglosassone) e che può essere letto come “introduzione” allo stile della Howard. I Cazalet però, secondo me, sono superiori.
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Agata Trambusti
Agata Trambusti è la protagonista del romanzo di Chiara Moscardelli, “Volevo solo andare a letto presto”, di genere umoristico. Un genere letterario troppo spesso ignorato o considerato inferiore nel nostro Paese. In realtà invece l'autrice, secondo me, ha dimostrato di saper padroneggiare molto bene questo genere e ciò che possiamo leggere è un romanzo divertente, spassoso, fortemente ironico e con un'intensa anima romantica all'interno.
Agata, cresciuta a Calcata con una madre ex sessantottina che le ha imposto una libertà esagerata, ha sviluppato per contrasto una personalità dai tratti ossessivi, maniaca del controllo e rigidissima. Lavora per una casa d'aste e quando la storia inizia, si trova, suo malgrado, coinvolta nella sparizione di uno strano personaggio che possiede e vende opere d'arte di valore.
Fra una trasferta a Barcellona e tentativi di rapimento più o meno riusciti, Agata conoscerà finalmente l'uomo della sua vita: il sosia di Christian Bale, bello e tormentato, che sembra uscito da una telenovela. Finalmente la nostra eroina “sboccia” e si apre alla vita e all'amore.
Una lettura certamente di evasione e consigliata a lettrici che non disdegnano il romanticismo di sottofondo, ma assolutamente non banale o sciocca. Un esilarante romanzo umoristico piacevole ed intelligente.
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L'interiorità sotto la superficie
Eccomi a recensire un altro libro di Elizabeth Strout. Ormai è evidente che quest'autrice mi ha conquistata: mi piace tantissimo il suo modo di raccontare i personaggi; ciascuno con il proprio universo interiore che sfiora la vita cercando di essere compreso ed amato.
“Tutto è possibile” ricalca la struttura di “Olive Kitteridge”, ovvero si tratta di una serie di racconti che riguardano vari personaggi di una piccola comunità della provincia statunitense, tutti legati dalla figura di una protagonista. Stavolta siamo ad Amgash, in Illinois e le brevi narrazioni hanno come filo conduttore Lucy Barton, che fra l'altro ha anche un'altra particolarità: è stata la protagonista del precedente romanzo della Strout, “Mi chiamo Lucy Barton”. Ritroviamo quindi alcuni spunti narrativi già accennati nell'altro libro, entriamo nella vita di molti compaesani, parenti ed amici di Lucy Barton.
Devo ammettere che, pur stimando molto lo stile narrativo della Strout, tutto ciò mi è sembrato un pochino ripetitivo e mi ha impedito di gustare questa lettura fino in fondo.
Dopo aver amato “Olive Kitteridge” e aver molto apprezzato “Mi chiamo Lucy Barton”, sono stata letteralmente sommersa dalla piccola provincia americana e dalle storie di personaggi già raccontate nell'altro libro.
Si tratta di un romanzo delicato e profondo, con cui l'autrice ci parla ancora una volta dell'universo delle relazioni complicate che animano i vari tipi di famiglie, della solitudine, del desiderio di ogni persona di essere accolta ed ascoltata, insomma, frammenti di vita interiore ed esteriore di una multiforme umanità. Vengono inoltre riproposti alcuni temi che già erano presenti in “Mi chiamo Lucy Barton”: ad esempio la differenza fra le classi sociali ed il difficile reinserimento dei reduci di guerra nella società.
Di nuovo un romanzo profondo, intimista, bellissimo. Purtroppo anche la sensazione di averlo già letto.
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Un amore impossibile: Mirta ed Ilie
Mirta è una donna di circa 30 anni, originaria della Moldavia, vive a Roma e lavora come badante. La vita della protagonista scorre tra fatica e solitudine ma Mirta ha una grande ferita nel cuore: ha lasciato al suo Paese il figlio di 11 anni, Ilie, che sua madre, ormai anziana, sta crescendo da sola.
Mirta trascorre quindi un'esistenza desolata, prendendosi cura di persone estranee ed avendo invece in qualche modo abbandonato quelle a lei care.
Il romanzo di Manzini arriva come acqua gelata sulla faccia, non possiamo fare a meno di chiederci il perché, il senso di situazioni di questo tipo, che la nostra società ormai dà per scontate. Come se attraverso i soldi potessimo comprare l'affetto, come se gli oggetti materiali e l'attitudine a consumare potessero veramente riempire di significato la nostra esistenza.
“Un'intimità strana, curiosa, che la nonna di turno sicuramente non gradiva. Lei non era una figlia generata da quelle carni, cresciuta con quella donna e di cui ora, come nell'ordine naturale delle cose, avrebbe dovuto prendersi cura cambiandola, spogliandola, rivestendola. Insomma era un'estranea. Poi piano piano ci aveva fatto l'abitudine e non le faceva più effetto.”
Si tratta di una lettura piuttosto triste, che non può essere ignorata, non passa inoffensiva ma lascia il segno. Avevo letto alcuni romanzi di questo autore con il protagonista Rocco Schiavone e sinceramente non li avevo trovati dei capolavori o delle letture imprescindibili. Invece con questo romanzo Manzini mi ha sorpresa e impressionata favorevolmente.
Era veramente difficile costruire una storia di questo genere, che affrontasse un tale tema e renderla così avvincente, mai noiosa o banale. Tiene incollati dalla prima all'ultima pagina, ci fa inorridire, piangere, pensare.
E' una lettura abbastanza angosciante ma di cui abbiamo sicuramente bisogno.
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Chi sei, Mr. Farris?
L'ultimo libro pubblicato da Stephen King, scritto insieme a Richard Chizmar, mi ha fin da subito incuriosita molto: è da un po' di tempo che voglio approfondire la conoscenza del “Re”, per ora assai scarsa, così, quando ho visto la nuova uscita e ho letto la sinossi non ho resistito.
L'edizione cartacea è molto curata, la consiglio sicuramente a chi ama i libri anche come oggetti e non solo per le storie che vi sono contenute: la grafica è accattivante e ci sono anche delle illustrazioni.
Arrivando alla storia in sé, che dire? Si tratta di un romanzo breve, o di un racconto lungo, del genere fantastico. Una ragazzina di 12 anni, Gwendy Peterson, un po' cicciottella ed anche molto determinata, intelligente e sensibile, una mattina d'estate viene avvicinata da un misterioso signore dagli occhi azzurri, che indossa un pastrano nero ed ha in testa un piccolo ed elegante cappello anch'esso nero. L'uomo vorrà fare del male a Gwendy? Oppure cerca soltanto di aiutarla? Le consegna infatti una strana scatola con leve da tirare e bottoni da premere: usandola Gwendy potrà controllare la realtà a suo piacimento, sia in senso positivo che negativo.
Il racconto procede spedito e lo possiamo leggere tutto d'un fiato sia per l'effettiva brevità sia soprattutto perché gli autori sanno creare un forte senso di attesa e suspense: non vediamo l'ora di sapere come va a finire insomma.
Conclusa la lettura sono rimasta un po' delusa, non perché l'opera sia breve (avete mai letto un racconto fantastico di Buzzati? Sicuramente non è lungo 1000 pagine) ma perché gli interrogativi suscitati non sono né lasciati in sospeso in modo del tutto inquietante, né spiegati come il lettore si sarebbe aspettato. Mi è sembrata quindi una lettura sì piacevole, ma alla fine un po' superficiale.
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Le cose che salvano nella vita hanno dentro il sal
Pietro è un ragazzino di undici anni, vive a Milano ma la sua famiglia è originaria di una piccola cittadina della Lucania, Arigliana.
Catozzella ci fa conoscere la storia di Pietro narrandola direttamente in prima persona e il racconto sembra proprio scaturire dalle labbra di questo bambinetto: un po' teppistello, un po' tenero, come di solito sono i ragazzini di quell'età.
Fin da subito ci rendiamo conto che Pietro sta attraversando un grande dolore, una ferita profondissima lacera la sua giovane anima: la mamma è morta da poco. Pietro e la sorellina, Nina, devono affrontare la situazione. Abbiamo la percezione che siano molto soli, abbandonati a loro stessi: il padre, rimasto anche disoccupato, li spedisce dai nonni, ad Arigliana, a trascorrere l'estate.
Pietro si ritrova nel paesino della Basilicata dove sono nati i suoi genitori e i suoi nonni, che sembra rimasto sospeso nel tempo e che la modernità non ha ancora toccato completamente. Non a caso il libro preferito del nonno e del padre di Pietro è “Cristo si è fermato a Eboli”. Il bambino stenta a trovare la sua identità, non è considerato come un membro della comunità a tutti gli effetti, viene visto come un settentrionale, un milanese, mentre a Milano erano “una famiglia di invasori in una terra piena di ricchezze e di cose belle”.
Così trascorrono le prime settimane di quell'estate che sembra lunghissima per la quantità e l'importanza degli eventi che la segneranno. In primo luogo c'è la sofferenza di Pietro per la perdita della madre: una sofferenza di cui lui ci parla con apparente leggerezza.
“ Poi, dopo che nostra madre- che si chiama Rosalba, ma tutti chiamano Rosi- è andata avanti nella strada della vita per aspettarci in un posto ancora più bello dove tutti sono felici, e non abita più da noi, un po' è cambiato tutto.”
Pietro le parla ugualmente, sente la voce della mamma che lo guida e lo consiglia e il dolore fortissimo che lo assale in alcuni momenti assume le sembianze di un cane che lo morde e gli lacera la carne; Pietro riesce a vederlo e gli dà anche un nome: Canetto.
Nel paesino di Arigliana avviene poi un fatto inaspettato: vengono trovati a vivere dentro la torre normanna degli stranieri, fra cui anche un ragazzino più o meno dell'età di Pietro, Josh. Attraverso la voce del protagonista sono descritte la paura, il disprezzo, il rifiuto iniziale provati dalla piccola comunità nei confronti dei nuovi arrivati. In seguito una parte della popolazione inizia a conoscere e rispettare gli stranieri, mentre l'altra parte continua a considerarli dei nemici, li incolpa per il peggioramento delle condizioni di lavoro, li rende facili bersagli per mascherare invece lo sfruttamento, la corruzione, la povertà, che già erano presenti all'interno della società di Arigliana.
“ Poi si è girato verso il quadretto appeso in cucina, e mi ha chiesto di leggere quello che c'era scritto. Io non avevo voglia, ma nonno ha insistito. Così ho letto.
«Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né la speranza, né la ragione, né la storia,» ho detto.”
Il libro comunque ci lascia un messaggio di speranza: “E tu splendi.” E' il testamento spirituale che la mamma consegna al figlio: “Ti insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.”
Si tratta, come spiega lo stesso Catozzella nella “Nota dell'autore”, della trascrizione sbagliata di uno stralcio dalle “Lettere luterane” di Pier Paolo Pasolini.
Nonostante il dolore, l'ingiustizia, l'integrazione difficile o impossibile, la solitudine, sembra voler dire l'autore, attraverso il ragazzino Pietro: non perdiamo la voglia di vivere e di splendere. Le cose che salvano nella vita sono salate: le lacrime, il sudore, il mare.
Una lettura che sicuramente non lascia indifferenti: dalla tenerezza e momenti di vera e propria commozione che si provano nei confronti del protagonista rimasto orfano, alle riflessioni che ci spinge a fare il racconto della mancata integrazione fra gli stranieri e gli abitanti di Arigliana, fino alla rabbia per l'accettazione passiva di corruzione e ingiustizie commessi dai soliti prepotenti locali. Il tutto narrato nel linguaggio semplice di un ragazzino che sbaglia tutti i congiuntivi e spesso ci fa sorridere per le sue osservazioni un po' sconclusionate. Un romanzo apparentemente leggero ma in realtà complesso, da assaporare con calma e razionalità.
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Grazia Deledda
“Quasi Grazia” di Marcello Fois è un testo teatrale scritto per ricordare la grande scrittrice sarda, Grazia Deledda.
L'opera è composta da tre atti che raccontano tre momenti significativi della vita della donna: la scena si apre nel 1900, quando Grazia e suo marito Palmiro si apprestano a lasciare la Sardegna e Nuoro per trasferirsi a Roma. Il dialogo più significativo qui è con la madre, che le rimprovera di essere stata una ragazza “diversa”, più interessata a leggere che a ricamare, dedita completamente alla sua passione, la scrittura. Alla fine i genitori le hanno voluto bene, ma né la sua famiglia, né soprattutto i conterranei l'hanno approvata completamente. E invece Grazia Deledda ha vinto il premio Nobel per la Letteratura, unica donna italiana fino ad oggi.
La seconda scena infatti è ambientata a Stoccolma, il giorno dell'assegnazione della famosa onorificenza, nel 1926. Tra un'intervista rilasciata ad un giovane giornalista e l'apparizione immaginaria della madre, assistiamo al dialogo tra Grazia e Palmiro e al loro rapporto fondato sulla complicità e sulla tenerezza, di cui era molto invidioso Pirandello, che sicuramente non aveva avuto una tale fortuna.
Infine, nell'ultimo atto, assistiamo ad una visita medica del 1935, durante la quale la Deledda riceve la notizia che non avrà ancora molto tempo da vivere, a causa del tumore che la sta consumando. La scena ci restituisce un senso di profonda tristezza ma anche di serenità. In fondo Grazia, guardandosi indietro, non può che ritenersi soddisfatta e fortunata per la vita che ha avuto: per la famiglia che si è creata e per la carriera di scrittrice.
Il testo teatrale è scritto in modo magistrale dal bravo Marcello Fois e si legge tutto d'un fiato. La grande passione di Grazia per i libri e per la scrittura è la stessa di Fois e ciò emerge perfettamente dall'opera. Davvero una bella lettura che ci permette di ricordare e conoscere un po' meglio una scrittrice troppo spesso e del tutto ingiustamente, dimenticata.
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La casa del serpente
Marco Laurenti è un professore delle medie alle prime armi: è ancora precario, ha circa 35 anni e vive a Milano. Un amico gli fa sapere che in un paesello di montagna a circa 100 chilometri dal capoluogo lombardo assumono un insegnante di lettere in una scuola privata e lo pagano il doppio rispetto al consueto stipendio di professore. Marco pensa subito di accettare, anche se si chiede perché il suo amico non abbia voluto approfittare personalmente dell'occasione invece di accordargli un simile favore. Si accorgerà a sue spese di trovarsi, più che in una scuola, in un vero e proprio Antro del Male: una sola classe formata da sei o sette ripetenti, perfidi e cattivissimi, pronti non solo a non studiare, ma a commettere crimini violenti, a drogarsi, a bullizzare i più deboli attraverso facebook.
Devo ammettere che la lettura di questo romanzo non mi ha entusiasmata come pensavo e non mi ha convinta molto. Personalmente conosco bene l'ambiente della scuola media e sinceramente in questo scritto non vi ho trovato assolutamente niente di tale ambiente. Lungi da me negare che esistano problematiche molto serie di cyberbullismo largamente diffuse nelle nostre scuole, gruppi classe problematici, alunni difficili, genitori compiacenti con i figli: ma il modo in cui Montanari ha affrontato l'argomento l'ho trovato a dir poco banale e un po' superficiale. Per non parlare di come viene presentata la figura dell'insegnante: assolutamente non credibile, pura fiction. Mi è venuto in mente un altro romanzo, letto tempo fa, “La classe dei misteri” di Joanne Harris, che pur partendo da un'idea simile -l'alunno cattivo e criminale, il professore che si trova in mezzo ad una situazione surreale tipica da libro giallo- presentava un protagonista insegnante ed un ambiente scolastico molto più credibile (eppure questo libro è ambientato in Inghilterra). Un insegnante per prima cosa si prende cura dei suoi alunni, di tutti, può avere a che fare con persone particolarmente problematiche o anche con cattivi e criminali (questi ultimi sono però, per la legge della statistica, una piccola o piccolissima percentuale, come ricordava anche Daniel Pennac nel “Diario di scuola” -un altro, come la Harris, ad aver realmente praticato la professione di insegnante) e sicuramente non si mette a picchiarli ed insultarli in classe.
Quindi, ricapitolando, ho trovato il romanzo oltremodo inverosimile; in fondo è un romanzo, si può obiettare. Infatti. La lettura scorre abbastanza veloce e piacevole ( a parte il piccolo orrore provato per una citazione palesemente sbagliata ): vengono presentati fatti violenti e aberranti che si svolgono in un piccolissimo paesino di montagna, chiuso, ostile e soffocante. Sangue, sesso e droga per sfuggire alla noia e al vuoto esistenziale. Mi ha un po' ricordato “Ti prendo e ti porto via” di Ammaniti, anche se, secondo il mio modesto parere, Montanari è più sbrigativo e manicheo nel tratteggiare la psicologia dei personaggi.
Nel complesso quindi una lettura abbastanza cupa ma allo stesso tempo scorrevole e coinvolgente, forse si potevano affrontare certe tematiche in modo meno teatrale e più profondo, anche se è vero che non trattandosi di un saggio né di un resoconto di vita reale, alla fine può andare bene anche così.
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Madre e figlia
Eccoci di fronte ad un romanzo intimo ed intimista: la penna della Strout scorre sapiente nel tratteggiare il ritratto di una donna, una madre, che a sua volta è stata una figlia. Questa persona sta attraversando un momento difficile: un'operazione, che sembrava una sciocchezza, le ha lasciato invece addosso una fastidiosa infezione che anche i medici faticano a spiegare. Lei adesso è costretta in ospedale già da alcuni giorni e le mancano terribilmente le sue due figlie piccole.
Il marito della donna odia gli ospedali e va raramente a trovarla. La protagonista sta vivendo un momento di particolare fragilità: la solitudine, la preoccupazione per la salute e per le sue bambine. E' in questa situazione che vede arrivare sua madre, che non vedeva da anni, a prendersi cura di lei, lì, in ospedale. La mamma rimarrà con Lucy per cinque giorni.
Siamo in presenza di un romanzo particolarmente delicato dove le emozioni e l'interiorità dell'io narrante occupano gran parte della narrazione. Non leggiamo per sapere cosa succederà, come finirà, ma per ricordare insieme alla protagonista alcuni episodi della sua vita e fermarci insieme a lei sulle sensazioni, turbamenti, impressioni e riflessioni che l'hanno animata.
Lucy Burton ci racconta la sua storia, l'unica che sia veramente in grado di scrivere, a partire dall'esperienza vissuta in ospedale, il sollievo e la vera gioia di avere finalmente accanto sua madre, con la quale ha un rapporto difficile. Facendo dei salti temporali in avanti e indietro, nella sua vita precedente e successiva al ricovero, la protagonista ci racconta la sua infanzia difficile, la tormentata relazione con i genitori e i fratelli, la fuga da quelle persone e da quella vita, tanto cercata e alla fine raggiunta, ma che poi ha provocato inevitabilmente dei sensi di colpa.
La lettura di quest'opera mi ha lasciato un senso di malinconia e lieve tristezza ma anche di profonda tenerezza verso questa donna e la sua storia quasi sussurrata, come affidata al vento oppure ad un tramonto sulla campagna. Una storia che viene richiamata attraverso frammenti, in modo sempre molto sobrio ma anche poetico, e che ci parla del complicato e insieme profondissimo legame tra madri e figlie.
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Aspettare e sperare
Edmond Dantès è un giovane marinaio, il 24 febbraio 1815 sta tornando nel porto della sua città, Marsiglia, a bordo della nave dove lavora, il Faraone. Il ragazzo è bravo, industrioso, energico e ha buoni sentimenti. Ha pochi affetti a cui è legatissimo: il padre anziano e la fidanzata, Mercedes. La vita sembra sorridere al buon giovane: stimato dal proprietario del Faraone, quasi sicuramente ne diventerà il nuovo capitano, visto che quello precedente era appena morto e sposerà l'amatissima Mercedes, prima di riprendere la via del mare, dovuta alla carriera di marinaio.
Ma c'è bisogno che continui a riassumere, se pure a grandi linee, gli elementi costitutivi della trama di questo celeberrimo romanzo? Io stessa prima di iniziare la lettura li conoscevo già. Chi non conosce la storia del conte di Montecristo? La storia di Edmond Dantès, ingenuo perchè incapace di provare i sentimenti cattivi di cui rimane purtroppo vittima, cioè l'invidia, la gelosia, l'avidità, che viene tradito nel modo più vile da alcuni conoscenti e, nel giorno che avrebbe dovuto essere il più felice della sua vita, viene arrestato e condotto nel tenebroso Castello d'If, dove venivano rinchiusi i prigionieri politici.
All'inizio Edmond sembra perdere ogni speranza, passano i giorni, i mesi e gli anni e la prospettiva di trascorrere tutto il resto della vita in isolamento lo fa pensare concretamente al suicidio. Inaspettatamente riuscirà però ad entrare in contatto con un altro essere umano, un altro prigioniero, Faria, che viene considerato da tutti un pazzo ma che in realtà è un uomo eccezionale. Egli inizierà Edmond alla cultura, gli insegnerà le lingue, la filosofia, le scienze, lo farà tornare a sperare, gli rivelerà che esiste uno straordinario tesoro e che lui conosce il luogo in cui esso è sepolto. Edmond ricomincia ad aver voglia di vivere, ma grazie agli insegnamenti di Faria riesce a capire finalmente perché si trova in quel luogo, pur essendo innocente, si rende conto di è stato a tradirlo e a lasciarlo consumarsi nell'oscurità di una cella sotterranea del Castello d'If. In quel momento Dantès cambia, il suo animo luminoso si spegne per dare spazio quasi soltanto ad un irresistibile desiderio di vendetta. Il Caso, il Destino o la Provvidenza lo faranno evadere dalla sua prigione e da quel momento lo scopo della sua vita sarà trasformarsi in una specie di angelo vendicatore.
Devo ammettere che fino al momento dell'evasione la lettura di questo libro mi ha dato molta soddisfazione: mi sono emozionata ed immedesimata nella tremenda sorte del buon Edmond, la narrazione mi ha coinvolto, essendo scorrevole e piena di colpi di scena. Dopo, sinceramente, ho iniziato a trovarla un po' pesante: sono descritte tutta una serie di macchinazioni, intrighi, travestimenti e cambi d'identità che mi sono sembrati eccessivi. L'autore si inoltra in una serie di divagazioni, presentazione di personaggi secondari, esposizione di storie nella storia che in seguito saranno tutte spiegate, ma che personalmente non amo. Il romanzo è infatti uno dei capostipiti del famoso genere del feuilletton, che apprezzo fino ad un certo punto.
Inoltre mi sono sembrati inverosimili molti, troppi particolari. A livello sociale, ad esempio: quasi tutti i personaggi principali (a partire da Dantès, che ha trovato il tesoro) da semplici popolani, pescatori, marinai, al massimo di condizione piccolo-borghese, nel giro di una decina d'anni si ritrovano milionari, nobili straordinari, Pari di Francia... Un po' strano nella società ottocentesca. Ed anche molti altri particolari spiccatamente inverosimili, che adesso non voglio rivelare per non spoilerare troppo, tutti tipici del romanzo d'appendice.
Quindi, in conclusione, sicuramente un libro che sono contenta di aver letto, poiché è un classico che fa parte del bagaglio culturale del lettore medio, un grande capolavoro ottocentesco che riscosse all'epoca tantissimo successo e che lo riscuote anche al giorno d'oggi. Pensavo però che avrei amato di più questo libro prima di iniziarne la lettura, che per buona parte del romanzo è stata più faticosa del previsto.
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Fosca, Valeria e Genova
Fosca e Valeria: due donne di circa quarant'anni, di Genova; due donne ferite dalla vita, tradite, ingannate dai loro affetti più cari, da chi credevano più vicino. Racconta la storia triste e malinconica di queste due protagoniste il nuovo romanzo di Sara Rattaro, pubblicato nel mese di febbraio 2018.
Si tratta del primo romanzo che leggo di quest'autrice, una lettura che mi ha convinta e coinvolta soltanto a metà.
La narrazione scorre facilmente, lo stile dell'autrice è semplice ed essenziale, la sua prosa fluida si fa leggere velocemente e volentieri. Ho notato tuttavia una certa banalizzazione in alcuni dialoghi, dove si fa un uso sicuramente eccessivo del punto esclamativo.
Le situazioni che vengono raccontate sono molto tristi, le due protagoniste vivono entrambe momenti drammatici e sconfortanti delle loro esistenze. Tali vicissitudini sono narrate in prima persona da Fosca e da Valeria: purtroppo ho riscontrato una focalizzazione interna troppo simile tra le due donne: è vero che sono entrambe quarantenni, genovesi e sfortunate, ma devo ammettere che riuscivo a capire quale delle due stesse raccontando solo dall'intestazione del capitolo.
Sicuramente non è un romanzo sull'amicizia. Leggendo la sinossi mi ero fatta l'idea -sbagliata- che il libro raccontasse la storia dell'amicizia nata fra Fosca e Valeria. In realtà vi si narra del loro incontro e della loro conoscenza, ma non si tratta certo di amicizia, quanto del confronto fra due destini sfortunati e fra due diverse solitudini. Si racconta come Fosca abbia affrontato un momento difficile, e come lo abbia fatto Valeria (nel frattempo le due si sono conosciute).
Non vorrei comunque che chi legge questa recensione si facesse un'idea troppo negativa del romanzo: si tratta di una lettura facile ma non eccessivamente banale. Inoltre vengono affrontate tematiche non certo superficiali come l'abbandono, la malattia, il tradimento, la solitudine e l'amore, che possono far riflettere sulla vita quotidiana di chiunque.
In conclusione, “Uomini che restano” è un romanzo adatto a trascorrere qualche ora immersi in una piacevole lettura senza eccessive pretese.
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Espiazione
Nella prima parte della mia vita da lettrice ho avuto una stretta frequentazione con i classici, ma, stranamente, non avevo ancora mai letto niente di Grazia Deledda: davvero imperdonabile, considerando anche che è stata l'unica donna italiana ad aver vinto il premio Nobel per la Letteratura.
Mi sono trovata di fronte ad un romanzo potente, dall'ambientazione incantata e mitica.
Efix, il protagonista, è un vecchio servo, rimasto fedele alle sue padrone dopo che il loro padre è morto. Molti anni prima, una delle quattro sorelle Pintor, Lia, era riuscita a scappare dalla casa paterna, probabilmente con l'aiuto di Efix. Era sbarcata a Civitavecchia e lì si era sposata ed aveva avuto un figlio, Giacinto. Il romanzo si apre con la notizia che il figlio di Lia, Giacinto, sta per arrivare alla casa delle sue zie: sarà una buona notizia? Oppure il giovane, come sua madre, porterà soltanto dolore e scompiglio alla famiglia?
Gli eventi scorrono lenti ed ineluttabili, secondo quanto vuole la sorte: i vari personaggi non riescono ad imporsi al destino.
Efix stesso è consumato da un tormento segreto, ha una colpa feroce che gli pesa sulla coscienza e che non riesce a dimenticare né ad affrontare fino in fondo. Dovrà intraprendere un lungo e faticoso viaggio, sia un vero e proprio cammino sia un percorso dell'anima, per raggiungere la tanto sospirata pace. Anche gli altri personaggi nascondono peccati e segreti, passioni inconfessabili, colpe nascoste, ognuno si porta dentro il proprio tormento.
Lo stile della Deledda è estremamente lirico, le descrizioni dell'ambiente e delle situazioni in cui si trovano a vivere gli esseri umani sono poetiche e languide.
Viene raccontato un mondo rurale che ormai non esiste più, una Sardegna meravigliosa ed arcaica.
“ La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l'uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d'uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa: sì, la giornata dell'uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti”. (p. 6)
Eppure le passioni, i sentimenti, i tormenti che muovono noi fragili esseri umani sono sempre gli stessi.
“ «[…] Ma perché questo, Efix, dimmi, tu che hai girato il mondo: è da per tutto così? Perchè la sorte ci stronca così, come canne?»
«Sì», egli disse allora, «siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la nostra sorte è il vento».” (p. 195)
Una lettura malinconica, triste, lirica, che può ancora parlare al cuore e alla coscienza di un lettore di oggi.
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Glicine e sole
Durante un malinconico pomeriggio di febbraio degli anni venti del Novecento, trascorso a Londra in un club “per nulla confortevole”, Mrs Wilkins legge per caso un annuncio sul “Times”.
“Per gli estimatori dei glicini e del sole.
Piccolo castello medievale italiano sul Mediterraneo affittasi ammobiliato per il mese di aprile. Servitù essenziale inclusa. Z, C.P. 1000, «The Times»."
La donna subito inizia a sognare ad occhi aperti di poter trascorrere un incantevole mese di vacanza in Italia: ha un piccolo gruzzoletto messo da parte con mille sacrifici, potrebbe bastare se solo trovasse una compagna con cui condividere il viaggio e le spese. Detto fatto: nel club Mrs Wilkins vede una signora che conosce di vista, Mrs Arbuthnot, una persona estremamente triste, solitaria e delusa dalla vita, proprio come lei. Non le ci vorrà molto a convincerla che la soluzione per tutti i loro mali sarà recarsi in Liguria nel bellissimo castello medievale dell'annuncio.
Le nostre protagoniste trovano altre due donne disposte a condividere l'affitto e a recarsi in vacanza con loro: Mrs Fisher, un'anziana signora molto antipatica, rimasta ferma all'età vittoriana e Lady Caroline, una giovane tanto bella quanto fredda e scostante verso chiunque.
Il romanzo è abbastanza piacevole e si fa leggere ma non mi è piaciuto molto. All'inizio mi ha coinvolta nella storia narrata e mi ha fatto venire una gran voglia di sole, mare, vacanza. Ma nel corso della narrazione mi ha abbastanza delusa: il luogo ameno, San Salvatore, come per magia risolverà tutti i problemi di tutti i personaggi, in un modo talmente assurdo che risulta evidente che l'autrice ha lavorato molto con l'umorismo. Sì, ci ho proprio trovato l'umorismo inteso in senso pirandelliano, prima come avvertimento e in seguito come sentimento del contrario. Ogni personaggio è molto infelice e insoddisfatto in un modo che l'autrice esaspera talmente tanto da renderlo comico ma direi anche patetico.
Soltanto per il fatto di essere in quel luogo però tutti iniziano ad essere felici, perché tutti capiscono quello che vogliono veramente e lo ottengono, anche in modo comico, bizzarro e triste allo stesso tempo, ma cosa importa? L'importante è godersi il sole, la vita e la ritrovata felicità.
Quindi, un sentimento del contrario con lieto fine: no, non mi è proprio piaciuto.
Rimangono delle belle descrizioni di luoghi veramente incantevoli e una grande voglia di primavera, di fiori, di mare e di sole.
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Niente è come sembra
“Il respiro delle anime. Il professor Fiorello Magi, direttore dell'Istituto di Medicina legale, lo chiamava così. Era quella particolare combinazione pungente fra l'odore del sangue e quello del liquido cerebro-spinale.” p. 113
Secondo libro dell'autore Gigi Paoli con protagonista il giornalista Carlo Alberto Marchi. Stavolta siamo in pieno luglio, durante una torrida estate calda come solo a Firenze può esserlo. Il nostro giornalista è alle prese con le ultime settimane di lavoro prima delle attese ferie.
Nella notte fra il 4 e il 5 luglio si verifica un tremendo incidente stradale che coinvolge un ciclista di nazionalità americana, Michael Homen, uccidendolo. Il giovane era a capo del dipartimento di biotecnologia della Clegg-Horizon, la più grande azienda farmaceutica americana la cui sede centrale è, appunto, a Firenze.
Inizia una nuova inchiesta per Carlo Alberto Marchi, preso sempre più fra il lavoro che ama, la sua adorata figlia Donata e il rimpianto e la nostalgia per l'assenza di una relazione stabile ed appagante con una donna.
Firenze, anche nello splendore dell'estate, nasconde la sua anima oscura e niente è come sembra.
Come in un gioco di specchi del luna park, gli avvenimenti che si susseguono non sono quello che appaiono: si tratta di qualcosa di molto più grande e devastante e soprattutto... pericoloso.
Carlo Alberto naturalmente anche stavolta riuscirà ad andare fino al nucleo della questione, scoprendo delle verità estremamente scomode: le potrà raccontare ai suoi lettori? Oppure si troverà di fronte a qualcosa che anche lui dovrà, per forza, tacere?
Anche questo secondo giallo della serie mi ha convinto, ottima trama e ritmo incalzante. Il protagonista e la struttura del romanzo funzionano benissimo e lo stile dell'autore rende la lettura coinvolgente e piacevole.
Non rimane che aspettare la pubblicazione del terzo romanzo della serie.
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Partire per ricominciare
“L'Approdo”, meraviglioso silent book di Shaun Tan, racconta, senza l'ausilio delle parole ma solo attraverso immagini, una storia di emigrazione. E la sua storia diventa universale.
Un uomo è costretto a lasciare la sua famiglia e la sua casa, il luogo in cui vive, dove si aggira l'inquietante coda di un mostro minaccioso. Partirà per raggiungere un altro posto per ricominciare, in cui sentirsi sicuro e poter vivere un'esistenza serena. Dopo un lunghissimo viaggio per mare il nostro protagonista approda in un Nuovo Mondo: la comunicazione è difficile, lui viene esaminato e schedato e poi si immerge nella nuova realtà. Il nuovo Paese è rassicurante: niente mostri striscianti nell'ombra, ma è così tanto diverso da quello che l'uomo ha lasciato! Pian piano, superando le innumerevoli difficoltà, egli si fa degli amici, conosce delle persone che hanno alle spalle esperienze simili alla sua, riesce a trovare un lavoro e a farsi accogliere nel Nuovo Mondo, fino a diventarne parte integrante e farsi raggiungere dalla sua famiglia.
Non occorrono parole al bravissimo autore per descrivere tutto questo: bastano le splendide illustrazioni che rappresentano una situazione che potrebbe essere ambientata nel passato o nel futuro, in un mondo fantastico o reale: sicuramente è una storia che si trova nel cuore e nel ricordo di che l'ha scritta e chi la legge non può fare a meno di farla sua.
Shaun Tan ha realizzato quest'opera dopo un accurato lavoro di ricerca sui documenti dei migranti di Ellis Island verso l'America. Egli stesso, di origine cinese, è cresciuto in Australia, provando in prima persona l'esperienza della migrazione da un luogo ad un altro, completamente diverso, ma che con il tempo può diventare casa.
Le meravigliose illustrazioni, realizzate con la tecnica della matita su carta, ci raccontano una storia che appartiene a tutti: non abbiamo bisogno di parole o di conoscere lingue straniere per immedesimarci ed emozionarci grazie a questo libro stupendo.
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Firenze Gotham
Carlo Alberto Marchi è un arguto e brillante giornalista di cronaca giudiziaria presso “Il Nuovo giornale”, ultracentenario quotidiano di Firenze, ed è il protagonista del romanzo di Gigi Paoli, “Il rumore della pioggia”.
E' lunedì mattina e il nostro giornalista si barcamena tra gli obblighi domestici (è un padre single di una bambina di quasi 11 anni) e la sua impegnativa ma ormai un pochino decadente, professione. C'è stato un delitto in via Maggio a Firenze, un commesso di un negozio di antichità religiose è stato trovato senza vita, colpito da 23 coltellate: cosa si nasconde dietro la vita apparentemente ineccepibile dell'anziano signore? Il negozio si trova in un edificio di proprietà della Curia, dove ha sede anche l'Economato: quali sono i legami con la Chiesa? Perché l'inchiesta viene affidata al colonnello Lion del nucleo investigativo provinciale dei Carabinieri e tolta alla squadra mobile? E' proprio a queste ed a molte altre domande che dovrà trovare una risposta il nostro Marchi, per dare sempre notizie fresche ai suoi lettori del “Nuovo”. E' un giornalista molto sveglio, con una invidiabile rete di fonti e di amici su cui fare affidamento per apprendere nuovi particolari dell'inchiesta che sta seguendo. Intanto cerca di rimanere un genitore degno di tale nome per la sua figlioletta Donata.
Avendo letto delle recensioni positive su questo libro, ed essendo appassionata di gialli e thriller, ho deciso di dare all'autore una possibilità, pur rimanendo un pochino scettica a causa del continuo proliferare di commissari, “vicequestori”, medici legali, non sempre all'altezza delle aspettative di noi lettori. E invece mi trovo pienamente d'accordo con le opinioniste che mi hanno preceduto: veramente un romanzo ben scritto, un giallo di ottimo livello, un protagonista che rimane da subito simpatico: una lettura piacevole ed intelligente.
Innanzitutto la vicenda è raccontata dal punto di vista di un giornalista e questo già le dà quel qualcosa di diverso ed originale rispetto ai soliti gialli con protagonisti commissari e vicequestori. Inoltre, poiché l'autore è stato veramente il responsabile della cronaca giudiziaria della redazione di Firenze del quotidiano “La Nazione” per 15 anni, risulta evidente che la storia narrata è inquadrata in una cornice ben definita e ben conosciuta: niente vaghezza e superficialità insomma.
Lo stile dello scrittore merita una menzione, si tratta di un linguaggio molto scorrevole, dalle frasi brevi, concise e lapidarie, si tratta di un'espressività diretta impreziosita da una bella dose di fine ironia. Mi ha ricordato per quest'ultimo aspetto il modo di scrivere di Malvaldi, ma mi è piaciuto anche di più.
In conclusione, davvero un bel giallo, che consiglio a tutti gli appassionati del genere: una trama coinvolgente condita da ironia, uno stile avvincente, un'ambientazione inedita in una Firenze poco rinascimentale e molto gotica.
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Guerre di religione in Europa
L'ultimo romanzo di Ken Follett, pubblicato in Italia nel settembre 2017, ci narra il terzo capitolo della saga ambientata a Kingsbridge ed iniziata con “I pilastri della terra”.
Gli eventi raccontati si aprono in Inghilterra, nel 1558: il protagonista, Ned Willard, è appena tornato nel paese natale dopo aver passato un anno a Calais, presso dei parenti mercanti, per imparare il mestiere a cui è destinato. Ned progetta di sposare la ragazza di cui è innamorato, Margery Fitzgerald e lavorare nella prospera attività commerciale di famiglia. Non immagina che il destino abbia in serbo per lui ben altri programmi... Contrasti religiosi e sociali gli impediranno di unirsi in matrimonio con Margery e rivali in affari senza scrupoli costringeranno sua madre a porre fine alla sua ricca attività.
Il giovane però, intelligente, generoso, brillante, nobilissimo d'animo molto più che per nascita, diventerà uno dei più fidati consiglieri della regina Elisabetta, braccio destro prima di sir William Cecil e dopo di sir Francis Walsingham.
Siamo nel periodo delle guerre di religione, subito dopo la Riforma. L'Europa ha perso l'unitarietà della confessione cristiana: cattolici e protestanti si combattono in modo aspro, violento. Si accendono roghi contro i cristiani di una parte e dell'altra, si tramano stragi, uccisioni, invasioni... Il nemico peggiore per gli estremisti non è la persona che ha abbracciato una diversa confessione religiosa ma la tolleranza. Sono poche le persone sagge ed equilibrate che tendono al nobilissimo ideale della tolleranza nell'Europa della fine del Cinquecento: uno fra questi è Ned, il nostro protagonista, un'altra è la regina Elisabetta, che, però, nel corso del suo lungo regno non potrà tenere fede come avrebbe voluto all'iniziale ideologia per questioni politiche.
Il romanzo di Follett ha un ampio respiro, ormai Kingsbridge, con la sua cattedrale, è solo un piccolo punto di partenza. Gli eventi storici sono narrati in modo puntuale ed accurato, sicuramente il nostro autore è un maestro del romanzo storico contemporaneo.
Forse, per chi già conosce abbastanza bene la storia di quel periodo c'è un pochino il rischio di annoiarsi nella lettura, perché sono ripercorsi tutti i maggiori eventi che si svolgono in Inghilterra, Francia, Paesi Bassi e Spagna ed hanno come principale oggetto i contrasti tra cattolici e protestanti. Forse è stato dato troppo risalto alla storia “ufficiale” e troppo poco alla storia della vita quotidiana di uomini e donne del Cinquecento. Avrei preferito che Follett si soffermasse di meno su regine, re, potenti, intrighi di corte – possiamo trovare nel testo dalla minuziosa descrizione della vita e della morte di Maria Stuarda, alla strage di san Bartolomeo, dalla rievocazione dell'attacco dell'Invincibile Armata alla Congiura della polveri, fino ad arrivare alla partenza della Mayflower per l'America e mille altri riferimenti storici- e di più sull'introspezione dei personaggi. Ma è solo un mio parere personale.
Nel complesso un grande romanzo, grande davvero in molti sensi.
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Mondo senza fine
"Non abbiate paura della vostra fame"
Ho da poco finito di leggere “Olive Kitteridge” di Elizabeth Strout e adesso mi appresto a scriverne la recensione: attività non semplice in realtà, visto che è già stato scritto molto su quest'opera, che ha vinto il premio Pulitzer nel 2009.
Personalmente sono rimasta affascinata dal libro e dallo stile della Strout: una prosa limpida, quasi poetica a tratti, che riesce a raccontare sentimenti ed emozioni in maniera profonda ed allo stesso tempo evocativa.
Il libro è una raccolta di racconti che ha per collegamento Olive Kitteridge, un'insegnante di matematica ormai in pensione, che vive in una piccola cittadina del Maine, Crosby. Olive è tutto il contrario di un'eroina: estremamente scorbutica, ha un marito dolce e gentile, Henry e un figlio, Christopher, che appena ha potuto è andato a vivere lontano da lei. I racconti si snodano con Olive come filo conduttore ma non tutti hanno lei come protagonista. In alcuni capitoli la donna compare di sfuggita, sullo sfondo della narrazione, come ricordo, come semplice allusione; in altri invece è descritta molto in profondità, dall'interno. La struttura dell'opera è originale e funziona benissimo, i racconti non fanno perdere la coesione narrativa di un romanzo ma aggiungono vivacità ad una narrazione che altrimenti sarebbe potuta risultare un po' monotona.
La capacità della Strout di metterci di fronte alle relazioni umane è sorprendente: non cerca di spiegare o giudicare, ma riesce veramente a raccontare: il rapporto genitori-figli, i legami fra coniugi, le amicizie...
Diventa così superfluo che Olive ci rimanga simpatica o antipatica, e come lei molti altri personaggi che popolano il libro: sono semplicemente esseri umani, con ciascuno le proprie illusioni, speranze, le proprie vittorie o sconfitte, il proprio modo di vivere e concepire il mondo. Tutti però ricercano un contatto con i propri simili e quello che li fa maggiormente soffrire è la solitudine. Non c'è un'età in cui si sta bene da soli, non c'è una persona, per quanto difficile e scontrosa, che è felice completamente sola. Ed entrare in relazione con gli altri è faticoso ma inevitabile ed essenziale.
Per concludere: un libro profondissimo, scritto in modo straordinario: un capolavoro.
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