Opinione scritta da Antonella76

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    29 Marzo, 2017
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Tre piani dell'anima



Un libro bellissimo che è anche una grandissima e corale "confessione".
Un romanzo che ci mostra la necessità di raccontare e raccontarsi per potersi liberare di tutti i fallimenti, le psicosi, le paure e le debolezze umane.
E magari trovare anche il modo di pagare per i propri sbagli.
(Perché, a quanto pare, nel giudaismo non è sufficiente pentirsi...bisogna "riparare".)

Una palazzina di tre piani, nei pressi di Tel Aviv.
Al primo piano c'è Arnon, padre furioso e convinto che la sua bambina sia stata oggetto di molestie da parte di un vicino affetto da Alzheimer...(si racconta ad un suo vecchio amico scrittore).
Al secondo piano troviamo Hani con i suoi barbagianni che le parlano dall'albero e lo spettro della follia che non le dà tregua...(scrive una lunga lettera alla sua più grande amica di sempre).
Al terzo piano vive Dvora, vedova e giudice in pensione, alla ricerca della sua strada e del modo per poter espiare le proprie colpe...(dialoga con suo marito morto attraverso una vecchia segreteria telefonica).
Tre vite, tre confessioni, tre voci intime...altro non sono che un'allegoria per rappresentare i tre piani freudiani dell'anima.
Arnon con i suoi istinti e le sue pulsioni abita il piano dell'Es, del principio del piacere.
Hani con il suo essere sempre in bilico tra sogno e verità è l'inquilina perfetta del piano dell'Io, che coniuga desideri e principio di realtà.
Dvora, con il suo essere donna ligia e irreprensibile, abita il piano di Sua Altezza il Super-Io, il censore che richiama all'ordine.

"I tre piani dell'anima non esistono dentro di noi.
Esistono nello spazio tra noi e l'altro, nella distanza tra la nostra bocca e l'orecchio di chi ascolta la nostra storia.
E se non c'è nessuno ad ascoltare, allora non c'è nemmeno la storia".

Una scrittura bellissima, coinvolgente, che si dona al lettore senza filtri, senza artifici...consapevole dell'intensità delle parole pronunciate da personaggi terribilmente umani, giunti ad una fase della vita in cui non possono più custodire i propri segreti, dove il bisogno d'amore, di perdono, di espiazione è diventato così forte da costringerli a mettersi a nudo, consegnandoci tutte le loro fragilità.  

Un romanzo, a mio avviso, nettamente superiore a "La simmetria deidesideri" (che pure avevo apprezzato)...tanto da farti desiderare, giunta all'ultimo piano, di poter continuare a salire...

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    27 Marzo, 2017
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"La tenda"



Ma quanto mi piace Pavese...
Un libro scritto nel 1940 (pubblicato nel '49) e terribilmente audace per quegli anni.
Pavese lo definì "la storia di una verginità che si difende".
È una storia sul passaggio dall'adolescenza alla maturità, è la perdita dell'innocenza, con tutti i suoi turbamenti, dubbi, tentennamenti e l'inevitabile, fedele, immancabile...sofferenza.

"Qualche volta pensava che quell'estate non sarebbe finita più, e insieme che bisognava far presto a godersela perché, cambiando la stagione, qualcosa doveva succedere."

Siamo in una grigia Torino degli anni '40, cupa e malinconica, e troviamo una sedicenne alle prese con la dolce tentazione del proibito che si scontra con il suo senso del pudore, la sua vergogna.
L'ambientazione e un po' bohemien: pittori, modelle, quadri di nudo...
Pavese riesce, con un linguaggio semplice e lineare, a trattare temi scottanti come l'iniziazione al sesso, la disinibizione, la malattia (a trasmissione sessuale), l'omosessualità femminile...tutto concentrato in un centinaio di pagine.
Lo snodo fondamentale del romanzo, a mio avviso, risiede esattamente nel momento cui l'insicurezza amorosa sfocerà in gelosia, e questa gelosia porterà a compiere gesti che, travestiti da spavalderia, porteranno solo una grande umiliazione.
La "bella estate" è più che altro una stagione della vita, quella piena di attese e aspettative, quel momento in cui ogni cosa ha il sapore e i colori di una festa...quel momento che precede di un passo la disillusione.
Arriveranno altre estati sì, ma non sarà mai più la stessa cosa.

Ho scoperto che, inizialmente, il titolo di questo breve romanzo sarebbe dovuto essere "La tenda"...chi lo ha letto lo sa...la tenda presente nel libro ha una grande valenza simbolica: è, in un certo senso, la tenda che divide l'adolescenza dalla maturità, l'innocenza dal peccato, ma è anche la tenda dietro la quale si nasconde l'occhio indesiderato che guarderà la nostra protagonista nel suo momento di maggiore fragilità, e che farà crollare tutti i suoi sogni di donna innamorata, coprendola di vergogna.
E la stagione del suo primo amore disperato e disperante...finirà.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    23 Marzo, 2017
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La scrittura crea, distrugge...ma non ripara.



Grandioso.
Un McEwan in grandissima forma.
Quando un autore riesce a creare un personaggio tanto odioso quanto indimenticabile, allora vuol dire che è riuscito nell'impresa più difficile per uno scrittore.
E Briony è uno di quei personaggi che io non ho amato, ma che non dimenticherò mai.
E mai perdonerò.

A dispetto del titolo, non c'è nessuna Espiazione.
Non esiste alcuna possibilità di rimediare a determinati errori.
Ma, sopra ogni cosa, non esiste "perdono"...né da parte di chi ha subito, né da parte di chi è stato causa di tanto dolore, di sconvolgimento, di distruzione.
"Perdonarsi" è ancora più difficile che perdonare...si può convivere con i sensi di colpa, si può diventare bravissimi a sopportarne il peso, ci si può fingere distratti, occupati, perfino accidentalmente felici, ma il mostro è sempre lì, insediato tra le pieghe della tua pelle.
E quando pensi di avere armi e forza sufficienti a sconfiggerlo, poi ti rendi conto che è dentro di te, fa parte di te...e per uccidere lui, dovresti uccidere anche te stesso.
Ma sto divagando...

McEwan ha la rara capacità di inchiodarmi alle sue parole, gli consento descrizioni lunghissime e dettagliate (cosa che non permetto a tanti altri)...forse perché percepisco, nella sua scrittura, una costante, sottilissima e persistente, nota sensuale.
Ma si tratta di una sensualità che prescinde dalla scena raccontata, una sorta di "sensualità della parola"...
Immagini così nitide da risultare accecanti nella loro bellezza e tragicità: un amore appena nato consumato in una biblioteca in penombra, una gamba su un albero, il delirio di un giovane soldato che toglie lucidità anche in chi legge...

E poi c'e la forza delle parole...parole apparentemente semplici, ma portatrici di sentimenti caleidoscopici: "Sí, ho visto", "Torna da me, ti aspetterò"...parole che possono rovinare delle vite e parole che mantengono in vita.

Con questo romanzo McEwan esalta il potere della scrittura: la scrittura crea e la scrittura distrugge...ma non ripara.
Non in questo caso.
L'ultima parte, geniale nella struttura, l'ho percepita di una crudeltà inaudita e, allo stesso tempo, meravigliosa: illusione e disillusione nel giro di poche pagine.
Gioia e lacrime.
McEwan ci mostra l'onnipotenza di chi scrive, di chi sa scrivere, si prende gioco di noi.
E lo fa alla grande!
Avevo già visto il film, in realtà sapevo già tutto...eppure, per un attimo, ci ho sperato ancora.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    10 Marzo, 2017
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L'America ed i suoi sogni infranti...



Tre generazioni, tre piani temporali...e un comune denominatore: Nelson "il Trombettiere" e lo scoutismo.
Wisconsin.
    Siamo nel 1962 e iniziamo a conoscere un Nelson tredicenne, durante una delle settimane più difficili della sua vita al campo scout, dove viene continuamente fatto oggetto di scherno e di violenza da parte dei suoi coetanei: essere uno bravo, sempre ligio al dovere, fedele ai principi di giustizia e lealtà, non ti rende popolare né benvisto dai pari...almeno fino al giorno in cui non dovrai calarti e nuotare in una latrina da campeggio per recuperare una monetina.
Nelson lo fa. Nelson non si sottrae mai al suo dovere, fosse anche uno stupisissimo pegno di gioco.
Lui, il trombettiere dalla tromba ammaccata (e pisciata dai compagni), non ha amici...tranne Jonathan, un quindicenne che riesce a concedergli qualcosa che si avvicina all'amicizia.
     Nel 1996 ritroviamo Nelson e Jonathan adulti (la vita li ha separati, ma non persi) alle prese con Trevor, il figlio sedicenne di Jonathan...e il tentativo di suo padre di distruggere la sua purezza, il suo sguardo incantato, il suo amore pulito per Rachel...alla vigilia della settimana al campo scout.
Tette al silicone e una cicatrice di cesareo saranno il metodo scelto per l'iniziazione al disincanto.
     Ed infine ci ritroviamo nel 2019, ancora al campo, ma stavolta ci sono Rachel e Thomas, figlio di Trevor...ed un Nelson ormai settantenne che si ritroverà ancora a combattere per il giusto, contro un'America che fa acqua da tutte le parti.
Sullo sfondo c'è la guerra in Vietnam, l'11Settembre, l'Afghanistan...
Ogni passaggio temporale rappresenta uno snodo importante per la vita dei protagonisti (qualcosa cambia per sempre) e per una terra che vede sempre piu i suoi sogni infrangersi...

Un romanzo tutto al maschile, sull'amicizia, sul coraggio, sulla crescita, sui rapporti matrimoniali e genitoriali.
Ne viene fuori l'immagine di un' America ferita, senza più sogni, guerrafondaia, che non ha più spazio per gli eroi, né per i boyscout e la loro solidità.

Un bel romanzo...Butler riesce a legarti ai suoi personaggi e ai suoi luoghi in un modo difficile da spiegare: è come se ti avvolgesse in una coperta calda, come se ti facesse entrare dentro una canzone che hai voglia di ascoltare fino alla fine.
Tuttavia, secondo me, non è riuscito a ricreare l'atmosfera intima di "Shotgun Lovesongs"...quella ballata struggente che avrei voluto non finisse mai.
Ma lui è uno bravo davvero.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    05 Marzo, 2017
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Bang...



Lorenzo, Antonio ed Elena.
Tre voci, tre sguardi, tre prospettive...un solo bacio, un grande dolore, una immane tragedia.
Un racconto che ti ferma per un attimo il cuore, veloce come un lampo e come un lampo ti acceca...il rumore lo sentirai dopo, a libro finito.
Soprattutto quando leggerai che la storia è ispirata ad un fatto vero, di cronaca (nera) americana, quando ti renderai conto che fino a quando vivremo in una società così gretta e ottusa, continueranno ad esserci baci portatori di violenza.
Un libro probabilmente esile sia dal punto di vista fisico che narrativo, ma così denso di contenuto che tutto il resto passa in secondo piano: una denuncia aperta ad una società che ancora condanna l'omosessualità.
Bullismo, omofobia, la paura di accettare le proprie inclinazioni di fronte ad una comunità che ti schiaccia con i suoi giudizi, ti condanna ancora prima che tu possa prendere piena coscienza di ciò che sei.
E chi invece vive genuinamente il proprio sentire, sordo agli insulti degli stolti, è destinato a soccombere.
Ciò che veramente uccide non è lo smalto ed il rossetto esibiti senza vergogna, né il proprio amore urlato in un campo di calcetto, ma è l'ignoranza, il pregiudizio, l'intolleranza, la guerra contro chi non ti sembra uguale a te.
Ma, purtroppo, questa è una guerra in cui ci sono solo sconfitti.
Da qualunque angolazione si guardi.

Un libro da leggere e da far leggere...a tutti.
Nelle scuole, soprattutto.

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Romanzi
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    05 Marzo, 2017
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Quando "casa" è il nome della tua terra...



Questo libro è esattamente come una torta alle fragole fatta in casa: buono, genuino e vero...da assaporare in ogni sua pagina.
Un libro di persone autentiche, quattro ragazzi profondamente legati alla loro terra, alle proprie radici, al sentimento di amicizia che li lega e che è indissolubile dal luogo che li ha visti nascere, crescere, fortificarsi insieme...Little Wing, Wisconsin. 
Una terra dagli inverni freddissimi e dalle estati così calde e verdi da farti dimenticare che l'inverno ci sia stato...e che ritornerà, un luogo dove, se dimentichi la porta di casa aperta, ti ritrovi con un coyote in salotto, o un orso.
Dove le albe e i tramonti sono capaci di generare melodie, musica...che poi, qualcuno di loro, sarà in grado di trascrivere su un pentagramma.
In questo libro troviamo la storia di Lee, Henry, Ronny e Kip...troviamo la musica, la terra da coltivare, i rodei, fabbriche da ristrutturare, fiumi di birra e un amore che poteva essere e non è stato, un bocciolo d'amore che diventa pericoloso, che rischia di mettere a repentaglio anni e anni di certezze.
È un libro corale sull'amicizia maschile (e virile), sulla fiducia, sul successo, sul tradimento, sul rimorso, sulla lealtà...insomma è un libro lieve, a tratti struggente, che smuove i sentimenti, quelli buoni, e ti fa ricordare che in fondo in fondo ci sono anche quelli.
Ma attenzione, non è assolutamente melenso.
Butler ti fa innamorare della sua terra, vera protagonista di tutto, ti fa venir voglia di indossare stivali da cowboy, camicia a quadri di flanella, jeans scoloriti e partire...anche solo per sederti sul tetto di una fabbrica abbandonata ad aspettare l'alba.
Una lettura che ti scalda, profondamente consolatoria, e che vorresti continuare a leggere ancora e ancora e ancora...

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Racconti
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    24 Febbraio, 2017
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Coppie in tilt...



Tanto mi piace leggere racconti, tanto trovo poi difficile parlarne.
Come fai a spiegare bene cosa ti hanno dato 21 brevissime "pillole" nella loro totalità?
Ci provo.
Innanzitutto qui ci troviamo di fronte a vere e proprie miniature, racconti brevissimi, di pochissime pagine, ognuno dei quali diviso in 4 piccolissimi paragrafi.
Ma il motivo di questa costante ripartizione mi sfugge...
Un'altra particolarità è che tutti i racconti sono scritti dal punto di vista maschile, nessuno escluso: la voce narrante è sempre quella del marito.
Non esistono nomi propri, così come non sai mai in quale città siano ambientate le storie o che lavoro facciano i protagonisti.
Si tratta di piccoli momenti quotidiani, di vita coniugale, in cui qualcosa va storto, va in tilt...e il meccanismo del vivere insieme s'inceppa.
Relazioni che celano, sotto un'apparente normalità, un malfunzionamento inaspettato che può essere generato da qualsiasi cosa: una sigaretta fumata di notte, una meringa non mangiata, una veranda inesistente, una lezione di geografia...
La sensazione che ho avuto è che questi racconti siano come una versione ancora più "tagliata" e snellita di quelli di Carver: stesso sguardo desolato, spesso annoiato, distaccato...
L'atmosfera è nera, ma non perché ci siano elementi narrativi tipici della letteratura dell'orrore, ma perché si respira un'aria carica di cose non dette, di attese minacciose.
C'è una sottile inquietudine che pervade tutti i racconti e che raggiunge vette considerevoli in alcuni di essi, come "Murales" e "Ultimi fuochi".
Ne viene fuori un'immagine tremenda della vita di coppia, dell'amore visto come un'incubatrice di odio, un dialogo muto, un continuo darsi le spalle che, sinceramente, non condivido, ma che non posso non riconoscere come possibile direzione.

"Certe coppie parlavano, altre stavano zitte.
Dal numero di parole scambiate si poteva dedurre da quanto stavano insieme.
A che punto era la loro speranza."

Mi è piaciuta moltissimo la sua scrittura, che con poche parole riesce a dare vita ad una situazione, che con pochi dialoghi concisi ti fa arrivare tutto il non detto della storia, il sottotesto.
Ogni racconto ha un incipit ed una chiusa perfetti.
Non una parola di troppo, non una di meno.
Ma nuotiamo nel minimalismo più marcato che io abbia mai incontrato finora. 
Bravo, indubbiamente.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    23 Febbraio, 2017
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La ritornata



"Ero l'Arminuta, la ritornata".
Questo è un libro sul senso di appartenenza, sul concetto di famiglia.
Sulla lacerazione di chi si è visto privare delle proprie radici e si ritrova alla ricerca di una normalità perduta, ignorando quale luogo sia "casa", quale luogo sia "una madre".

"La parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori.
Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza.
È un vuoto persistente, che conosco ma non supero".

Alzarsi una mattina e scoprire, all'improvviso, non solo che coloro che hai sempre creduto i tuoi genitori in realtà non lo sono, ma allo stesso tempo sapere che non ti vogliono più....che vogliono "restituirti" a coloro che non ti hanno mai voluta.
Avere due mamme e non averne nessuna: essere orfana di due madri viventi.
Una l'aveva ceduta con il latte ancora sui capezzoli, l'altra l'ha restituita dopo 13 anni. 

"La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure".

La paura di ritrovarsi catapultata da un ambiente pulito, amorevole e silenzioso ad una casa affollata, sporca e soprattutto "affamata", dove si sgomita per una fetta di prosciutto e si divide un materasso impregnato di urina.
La paura di dover festeggiare il proprio compleanno da sola, perché nessuno se ne è ricordato, nella rimessa, con un dolcetto e una candelina sopra, autosussurrandosi gli auguri e sentendo un applauso immaginario.
La paura di dover subire le scelte altrui e dover ancora e ancora separarsi da qualcuno, lacerare i legami...
La paura di non sapere perché chi l'aveva cresciuta non la volesse più...e poi la paura di scoprirlo.
Ma una perdita nasconde spesso anche una scoperta, un ritrovamento...e così l'Arminuta scopre la bellezza di avere una sorella che la ama dal primo istante.
E la loro complicità le salverà entrambe.

Questa è una storia dura, aspra, come duro e aspro è l'Abruzzo degli anni '70 in cui è ambientata e non poteva che essere raccontata con parole schiette, affilate, potenti nella loro semplicità.
Un romanzo spigoloso, ma accogliente, dove...nonostante tutto...non c'è spazio per l'odio.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    31 Gennaio, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

"Ti vedo, ti vedo, in ogni posto ti vedo"



Un romanzo ad altissima densità.
Ogni pagina di questo libro ha un peso specifico altissimo: tutti i gesti, tutti i pensieri,  tutte le azioni ed elucubrazioni del protagonista sono sviscerate dal profondo, analizzate in tutto il loro contorto significato.
È un libro difficile da "portare", nel senso che, man mano che leggi, ti fai carico di tutto il fardello di emozioni di questo giovane ragazzo "ossessionato"...e a fine lettura ti ritrovi sommerso, schiacciato dal peso di questo "amore senza fine".
Dove per "amore" c'è un concetto totalizzante, che non conosce ostacoli per arrivare all'obiettivo amato, anche a costo di perdere la propria libertà, il rispetto di se stessi e, non ultimo, la ragione.
E dove "senza fine" non ha il significato che comunemente si dà a questa frase, ovvero quello di un sentimento romantico che continua a vivere in noi anche dopo che la storia si è conclusa, ma nel senso di "malattia"...di qualcosa che va "oltre", oltre il limite che separa dall'abisso, oltre l'amore stesso.
David e Jade hanno 16 anni quando si innamorano...17 quando vengono allontanati.
David ne ha quasi 30 quando, dopo tante tribolazioni, ancora non riesce a farsene una ragione.

"E adesso per l'ultima volta Jade, non m'importa né domando se sia pazzia: io vedo il tuo volto, ti vedo, ti vedo, in ogni posto ti vedo."

Scrittura avvolgente ed elegante che ti trascina, e che ha il pregio di raccontare tutti i disagi di un amore patologico senza però sommergerti di morbosità, anzi...portandoti quasi a pensare che tutto sia "nella norma", che sia proprio amore.
E chissà che non lo sia davvero poi...

Credo che per apprezzare questo libro bisogna essere disposti a lasciarsi andare, a lasciarsi coinvolgere dalla follia di David senza giudicarlo, imparando ad amarlo per quello che è, con tutto il suo carico di deviazioni, sensi di colpa e di passione.
Io ho sofferto davvero tanto insieme a lui...gli ho voluto bene per tutto il tempo.
David è come uno tsunami....passa e travolge chiunque si trovi sul suo cammino, portando morte e devastazione, ma mantenendo sempre le sembianze della vittima.
E vittima lui lo è davvero, del suo amore tossico, di sé stesso...

È un romanzo denso, sensuale (e sessuale!).
Potente...di una potenza distruttiva però.
Quanti romanzi possono vantare una notte d'amore (e sesso) lunga più di 30 pagine, senza mai, neanche per un attimo, essere lezioso, volgare o morboso?
Impeccabile.
Ti lascia molto amaro in bocca e un grande senso di vuoto dentro...ma è davvero bellissimo.
(Questo libro è del 1979, ma, per quanto mi riguarda, potrebbe essere stato scritto ieri!)

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    28 Gennaio, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

Piccolo e immenso



Sono tante le parole che possono essere usate per parlare della pagina più buia e triste della storia dell'umanità, eppure io ne ho davvero pochissime...
Lascio volentieri la parola ai libri.
Libri come questo, piccolissimi nell'aspetto, immensi nel contenuto.
Ogni volta penso di essere pronta, di essere ormai "corazzata"...ed ogni volta mi scopro fragilissima, impreparata ed impaurita.
Questo libro, come anche "Una bambina e basta" di Lia Levi, letto pochi giorni fa, non tocca con mano l'orrore dell'olocausto, ma lo sfiora...ce ne dà una visione "periferica", non entriamo dentro i campi di sterminio, non assistiamo direttamente alla ferocia della malvagità umana nella sua più riuscita realizzazione, ma non per questo ci scombussola di meno.
L'orrore è solo più sottinteso.
Il dolore è solo apparentemente "attutito" da un racconto genuinamente adolescenziale.
Eppure in queste poche, intense pagine, basta una parola, l'ultima del libro, a capovolgere tutto, a ridare un filo di luce e di speranza nel nero di un orrore inimmaginabile.
La gioia di scoprire di non essere stati completamente traditi da chi si è amato molto si scontra con l'amara consepevolezza che tale "sentimento ritrovato" sia comunque troppo troppo...tardivo.

"Bisogna fare attenzione prima di concedere la propria fiducia a un tedesco.
Come si fa ad essere certi che l'uomo con cui si sta parlando non abbia immerso le mani nel sangue dei vostri amici o dei vostri parenti?"

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    10 Gennaio, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

Amore distruttivo...



La storia del suicidio della prima moglie dell'autore...Sylvia Bloch.
Un romanzo autobiografico che ti fa scivolare in un vero e proprio inferno coniugale.
Leonard e Sylvia si incontrano per caso, a casa di un'amica comune: quello stesso pomeriggio faranno l'amore e il giorno dopo andranno a vivere insieme.
Uno di quegli amori fulminanti, che non lascia scelta...

"Ci conoscevamo da meno di un'ora, ma sembrava che fossimo insieme, nella pienezza di quel momento, da sempre.
Cominciò senza un'inizio. Facemmo l'amore finché il pomeriggio divenne crepuscolo e il crepuscolo divenne notte fonda."

Ma quest'amore prende subito una direzione distruttiva, ogni cosa diviene motivo di urla, liti furiose alternate ad amplessi voraci dall'esito devastante, facendoli sentire spossati,  ma continuamente insoddisfatti...come se volessero nutrirsi l'uno dell'altra senza riuscire a saziarsi mai.
Lei è sempre sull'orlo del precipizio, pronta ad esplodere per qualsiasi cosa: una cravatta non indossata, un apprezzamento per una modella su una rivista, il tempo che lui cercava di dedicare alla scrittura, o alle cene dai suoi genitori, anche solo una telefonata di un amico che riuscisse a strappargli un sorriso era causa di una gelosia cieca e devastante.
Lui non poteva neanche concedersi il lusso di avere la febbre e mettersi a letto...
Non poteva camminare due passi avanti a lei...
Non poteva contraddirla...
Ma non poteva fare a meno di amarla.
Un delirio.
Liti, urla e sesso...e ancora liti, urla e sesso.
Ancora e ancora.

"Non sapevano come stavano davvero le cose.
Neanch'io lo sapevo, quando stringevo Sylvia tra le braccia e la insultavo e le dicevo che l'amavo. 
Non sapevo che eravamo perduti."

Si cullavano all'idea che tutte le coppie fossero così...così infelicemente normali o normalmente infelici.
Ma, alla fine, è stata lei a scegliere per tutti e due.
Aveva solo 24 anni.
24 anni...e 47 Seconal in corpo.
Poco più di centoventi pagine dense, amare, che vivisezionano un amore insano, rabbioso e claustrofobico con precisione chirurgica, ma senza dimenticare la poesia e le emozioni.
Un libro pieno di inquietudine, follia e bellezza...proprio come Sylvia.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    09 Gennaio, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

Edipo...da Sofocle a Dürrenmatt



"Mi sono sempre stupito e continuo a stupirmi immensamente che gli uomini siano tanto smaniosi di conoscere il futuro.
Sembra quasi che preferiscano l'infelicità alla felicità."

In questa frase è racchiuso tutto il senso di questo piccolissimo e irriverente racconto, che da un lato irride e dall'altro esalta i miti greci.
Qui la Pizia Pannychis, sacerdotessa di Apollo che si occupa degli oracoli di Delphi, è un'imbrogliona che usa tutta la sua fantasia per inventare le sue profezie.
È tutto una sorta di business...
Ma poco prima di morire tornano al suo cospetto tutte quelle figure coinvolte nella sua stravagante profezia fatta ad Edipo tanti anni prima: "ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre".
Tutto ruota intorno al mito di Edipo, figura che cambia continuamente identità ad ogni nuova rivelazione.
In realtà per poter godere appieno della genialità di questo libro è necessario possedere delle solide conoscenze classiche...che io non ho...e quindi non aspettatevi da parte mia nessuna disamina in merito al mito di Sofocle.
Posso dirvi però che anche chi, come me, non possiede le giuste basi per "capire" fino in fondo tutto il sarcasmo e la voglia di dissacrare la mitologia di Dürrenmatt, potrà apprezzare questa storia intricatissima (e spassosa), che nasconde sotto una feroce ironia, una satira alla società contemporanea e all'utopica ricerca della "verità", unica e sola, dimenticando che non esiste...ma ce ne sono tante, tutte vere e plausibili agli occhi di chi le crea.
È  stato il mio primo Dürrenmatt, ma sono convinta di non aver iniziato dal libro giusto, perché per quanto io lo abbia apprezzato, non rientra nella tipologia di lettura che amo.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    08 Gennaio, 2017
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Bella o intelligente???



Vi faccio una domanda: se doveste scegliere se essere, tra due sorelle, quella bella o quella intelligente, cosa scegliereste?
Cosa è meglio?
Vivere all'ombra di chi possiede la bellezza, la dolcezza e l'empatia sentendosi sempre quella sfortunata e compatita, insomma quella che viene "dopo"?
O vivere dovendo sempre giustificare chi cerca di sopperire alla mancanza di bellezza con il sarcasmo, la derisione altrui e la diffidenza, e dovendo perdonare anche l'imperdonabile in nome di un disagio di cui non si ha nessuna colpa?
Juliet è bella, amorevole, benvoluta da tutti.
Cressida è brutta, schiva, chiusa in se stessa...difficile. Intelligente, ma di un'intelligenza ripiegata su se stessa. Astiosa.
Cressida una sera scompare.
Da qui un romanzo psicologico (non un thriller, assolutamente) ricco, ricchissimo di spunti di riflessione.
La Oates è molto brava a tratteggiare tutti gli aspetti psicologici dei vari rapporti all'interno della famiglia, soprattutto di un certo tipo di famiglia americana molto attenta alla facciata, alle apparenze, al "cosa deve pensare la gente se...".
I "Mayfield" di questa storia mi hanno ricordato fortissimamente i "Mulvaney" di "Una famiglia americana", altro (bel) romanzo della Oates.
Ma non c'è solo questo...non c'è soltanto la propagazione del dolore dei componenti di una famiglia di fronte alla "scomparsa" di uno di loro...troviamo anche il tema del coinvolgimento delle truppe americane in Iraq, con tutte le brutture che, chi riesce a tornare, si porta incise nel corpo e nella mente, la situazione dei penitenziari americani (sembrava di essere dentro "Il miglio verde" di King), il tema della pena di morte, e non ultimo quello della religione e del perdono.
Un romanzo ambizioso.
Da incorniciare, per me, l'ultimo capitolo, quello in cui parla la sorella Juliet (quella bella): tutto il senso del libro secondo me ruota intorno a quello che lei manifesta alla fine, senza più nascondersi dietro la facciata di colei che deve sempre "capire", giustificare, perdonare...come se essere più belli di qualcun altro, alla fine, sia una colpa o un dono da dover pagare a caro prezzo.
Non ho amato Cressida, tanto quanto invece ho amato il personaggio del caporale Kincaid e la sua personale guerra, che ha continuato a "portare nella testa" anche dopo essere rientrato dall'Iraq sfigurato, menomato nel corpo e nell'anima, irrimediabilmente.
Unica vera vittima del romanzo, in tutti i sensi.
La Oates è brava, questo è fuori discussione, ma c'è qualcosa che non me la fa amare quanto vorrei, qualcosa che mi infastidisce, che, in alcuni momenti, non mi fa vedere l'ora di finire di leggere i suoi romanzi.
Credo si tratti di prolissità, di insofferenza verso un eccesso di parole, di descrizioni, di divagazioni e ripetizioni, per me, evitabili.
La preferisco di gran lunga nei suoi romanzi più brevi, dove sa essere diretta e incisiva senza rischio di perdersi.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    04 Gennaio, 2017
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Il Cinese e il Coccodrillo



Io vorrei sapere in quanti (come me) leggendo questo libro si sono emozionati, hanno pianto, si sono agitati, adirati ed amareggiati?
No, perché io tutto mi aspettavo quando ho deciso di iniziare a leggere questa serie (sí, lo confesso, ne subisco fortemente il fascino) tranne che raggiungere picchi di emozione così alti!!!
L'ennesimo ispettore? Sempre i soliti cliché? Sempre i soliti casi da risolvere?
No, non so, forse sì...ma la verità è che di fronte ad una lettura così coinvolgente, così ricca di sfumature, di luci e di ombre, di fronte ad una scrittura così piena di "anima", io non mi pongo proprio il problema se sia o meno da inserire in una tipologia ben definita di letteratura, io mi ci perdo e basta!
Mi lascio trasportare da chi, sapientemente, è capace di portarmi giù negli abissi della mente umana per poi farmi risalire in superficie a respirare.
Mi lascio guidare per le strade di una Napoli decadente, molto distratta, quasi assonnata...una Napoli dei giorni nostri che se ne frega di tutto.
Mi lascio confondere dal volto del "male" che, molto spesso, nasconde ragioni non troppo lontane da quelle del "bene"...e le due facce si invertono, si mescolano, si fondono, generando un mostro difficile da condannare.
Mi lascio conquistare da uno scrittore che mette la sua penna al servizio del "noir" senza però rinunciare neanche per un momento alla sua intensità, alla sua pienezza, alla sua profondità.
Pagine traboccanti di vibrazioni.
Non si dovrebbe piangere su questo tipo di libri.
Appunto, non si dovrebbe.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    31 Dicembre, 2016
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Metti un Ferragosto a Bologna...



E chiudiamo questo anno di letture con una botta adrenalinica niente male!
Avevo voglia di un thriller, di quelli che t'incollano alle pagine e, senza sapere quasi nulla, ho scelto proprio il libro giusto.
Divorato in poche ore, dal ritmo serrato e con un'idea di fondo molto originale, di cui non dirò nulla, ma proprio nulla...perché toglierei il gusto della sorpresa che, in libri come questo, è fondamentale.
Mi è piaciuta moltissimo l'ambientazione: una Bologna afosa, torrida, in una desolante domenica di Ferragosto, un palazzo semideserto, un ascensore e tre inquilini.
Riesci a percepire il caldo, ti senti sudaticcio, appiccicoso, dopo un po' incominci ad avere sete (tanta) e un desiderio spasmodico di buttarti sotto la doccia.
Claustrofobico quindi, e non solo per una questione di spazi ristretti.
Mi sono piaciuti anche gli interludi che l'autore ha inserito all'interno del racconto, i quali, anziché farti prendere una boccata d'aria dalla narrazione principale, non fanno altro che farti piombare in altri orrori: "la bambina che graffiava i muri" è stato il momento più orrorifico di tutti...
Mi è piaciuto tantissimo il finale, per me assolutamente inaspettato...
Certo, i personaggi sono un po' dei cliché, non sono proprio approfonditi benissimo, ma credo che lo scopo del libro non fosse quello di fare un'analisi psicologica e sociologica, ma quello di regalare brividi ed emozioni al limite dello splatter...e, in questo senso, il libro fa il suo sporco lavoro. E lo fa molto bene.
Insomma Morozzi è stata una scoperta interessante e mi ha fatto riassaporare il gusto del thriller, mio vecchio amore abbandonato da un po'.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    22 Dicembre, 2016
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Ormai è tardi...



 "A volte la vita è straordinariamente fragile, ma certe vite sono paurosamente forti".

Questo libro ha il sapore amaro dei rimpianti.
Possiede tutta la malinconia racchiusa nelle parole "ormai è tardi": tardi per accorgersi quanto si possano dare per scontate le cose (e i sentimenti), quanto poco si conoscano le persone che abbiamo più vicino, tardi per imparare a leggere negli occhi di una mamma, di una moglie, per decifrare i suoi bisogni taciuti, i suoi desideri repressi.
La forza dell'abitudine ci rende ciechi, sordi, profondamente egoisti...quando però quest'abitudine viene improvvisamente a mancare, ecco che tutto quello che non abbiamo voluto vedere né sentire, si impone con una violenza tale da lasciarci storditi.
Ed ecco arrivare l'onda degli "avessi": "avessi detto", "avessi fatto", "avessi osservato", "avessi ascoltato"...avessi prestato attenzione ai segnali di chi, pur facendosi credere roccia, roccia non era.
Quanti di noi sanno davvero chi si nasconde dietro (e dentro) colei che chiamiamo mamma?
Ci siamo mai chiesti se davvero le piace fare quello che fa?
Cosa prova? Cosa sogna?
Era proprio questa la vita che voleva?
Chissà perché siamo portati a considerare la mamma sempre e solo "la mamma", dimenticando che prima di diventare tale è stata una bambina, una figlia, una ragazza, una donna piena di sogni e speranze che noi neanche conosciamo.
Questa è la storia di una donna, una moglie, una mamma che si perde alla stazione...si perde e nessuno riesce più a trovarla.
La sua scomparsa mette in moto una serie di riflessioni nei suoi figli, in suo marito...i quali, in sua assenza, si rendono conto di quante cose non hanno visto, non hanno capito, di quanto hanno "preso" da questa donna senza dare nulla in cambio.
A suo modo, questo è un libro perfido...ti mette di fronte ad una verità che ti ostini ad ignorare, ti tocca in un punto in cui è certo di farti provare dolore, ti dice qualcosa che sai perfettamente, ma che continui a non voler affrontare, perché sai che il senso di colpa è in agguato.
Di fronte all'amore incondizionato, immenso e totale di una madre, siamo tutti inadeguati.
E irriconoscenti.
Tutto dovuto, tutto scontato, tutto liquidato come "normale".
Come normale è avere sempre meno tempo per lei, lei che ha consacrato tutto il suo tempo a noi.
Il romanzo ha una struttura narrativa particolare, utilizza principalmente la seconda persona singolare, che è una scelta piuttosto insolita e un po' spiazzante all'inizio.
La scrittura non ha grandi picchi e artifici, è semplice, come semplice è la protagonista, come "semplice" è il suo amore per i figli, per quella sua vita umile, spesso difficile e ingiusta.
Ma nella sua semplicità scava in quel punto dolente senza sosta, e lentamente porta scompiglio dentro, crea caos nelle emozioni.
A me l'ultimo rigo ha fatto piangere. Già, proprio all'ultimo. Non ho resistito.


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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    19 Dicembre, 2016
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Ah...le lumache francesi...



Eccomi qui...confusa (e felice???).
Felice di aver letto questo libro sicuramente, ma il livello di confusione e perplessità scaturiti dal finale del romanzo, raggiunge vette altissime.
Mi trovo di fronte ad un'opera che mi ha spiazzato sotto tanti punti di vista: ero molto intimorita da Mari, temevo un linguaggio ed una comprensione del testo al di sopra della mia portata, ed invece pur trovandomi di fronte ad una scrittura altissima, colta, raffinata, che fa delle parole ciò che vuole, ci gioca, le modella, le anagramma, nonostante tutta la cultura che si manifesta in ogni parola pronunciata dal protagonista, le pagine volano via che è un piacere, tutto è chiaro ( sono riuscita persino a venire a capo delle parti in dialetto varesotto!!!), coinvolgente e affascinante.
È un romanzo di formazione, ma anche di avventura, un giallo tendente al gotico, pieno di atmosfere in bilico tra il magico, il surreale e l'horror.
Abbiamo il mito adolescenziale del "mostro", cantine piene di segreti, cadaveri sotterrati in giardino, lumache fameliche...e l'inquietante concetto del "doppio".
Questo "doppio" che, nel finale, ti lascia di marmo.
Non credo di averlo capito.
Anzi, non l'ho capito di sicuro, ma questo non toglie niente alla bellezza e alla forza del romanzo.
Leggendo Mari ho percepito in tutta la sua potenza la mia "inadeguatezza" (io posso dirlo, non lui), in quanto il personaggio di Michelino rimanda a tutta una letteratura che a me manca (Stevenson, Melville, Poe, Lovecraft...), ad una formazione classica che non possiedo e quindi, ahimè, sento di aver perso per strada molte, moltissime, troppe cose.
Ma il piacere di lasciarsi cullare da una scrittura meravigliosa, ricca e trascinante come la sua mi ha ripagato di tutto, anche della presa di coscienza di tutti i miei limiti e della mia ignoranza.
E quindi...Mari, avanti tutta.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    06 Dicembre, 2016
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"Dolceamaro contentarsi"



"Dolceamaro contentarsi"...ovvero aspettarsi il meno possibile dalla vita.
Alessio persegue scrupolosamente questo stile di vita, per non rischiare di affondare, perché convinto di non essere capace di amare, fino al giorno in cui incontra lei, Martina...e allora sente che non ha più bisogno di volare basso per paura di cadere, si lascia andare, prova il brivido di osare, di sperare in qualcosa di più.
Ma "si può sopravvivere a molti inferni e non a un solo Paradiso".
Quando provi quella sensazione di beatitudine, quando assaggi il sapore dolce della felicità, diventa difficile tornare indietro e ricominciare ad accontentarsi.
Mai far dipendere la propria salvezza da un altro.
Le persone possono fare tante cose, ma mai "salvare" qualcuno da se stesso.
La felicità si mostra quando, finalmente, ci trova inermi, ma poi si prende tutto e ci lascia lì, indifesi, esausti, senza più l'energia, né la voglia di tornare in posizione di difesa.

"Per la prima volta voleva assolutamente vivere, e per la prima volta si scoprì oscenamente mortale".
 
La storia in sé non brilla per originalità, ma è il modo in cui Fontana l'affronta che mi piace: è elegante, profondo, ricco di dettagli introspettivi.
Ti fa vivere l'inquietudine di Alessio e il suo dramma sentimentale senza essere sentimentale.
Riesce a fare di una storia apparentemente banale e comune a molti, una storia simbolo di tutti quei "Paradisi" che ognuno di noi ha vissuto e visto sfiorire.
Ma un Paradiso che sfiorisce non necessariamente si trasforma nel suo opposto.
Per Alessio però sí, e sprofonda nell'abisso.
Fontana ci dà l'immagine di un uomo, completamente solo, che imbocca con decisione, la strada dell'Inferno.
E se dall'inferno è possibile tornare, questo, non ci è dato sapere.
Un bel libro, ricco di tanti bei passaggi.
Se, invece, devo trovare dei difetti in questo romanzo, uno è sicuramente l'eccessiva nomenclatura di tutte le vie, viali, corsi, piazze e vicoli di Milano.
Non mi è dispiaciuta la descrizione di una Milano dai toni un po' spenti, sottotono, periferica, un po' squallida e degradata, anzi l'ho trovata perfettamente in linea con i pensieri del protagonista e con l'atmosfera psicologica che si respira durante tutta la lettura, come se il dolore del protagonista si estendesse su tutto cio che lo circonda, ma ritengo che si potesse evitare l'effetto "Tuttocittà".
D'altronde per chi non è di Milano, un nome vale l'altro...
La bravura di Fontana si manifesta nella capacità di fare appassionare ad una storia densa di jazz, alcool e Milano...una persona come me che non ama il jazz, odia l'alcool e non conosce Milano.
E tanto basta.
Sono stata indecisa fino all'ultimo se fare la conoscenza di questo autore da quest'ultimo lavoro o da "Morte di un uomo felice" (possedendoli entrambi), e non nascondo adesso la voglia e la curiosità di leggere subito l'altro.


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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    03 Dicembre, 2016
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La morte...accanto.



Un libro insolito, sulla malattia, che vede coinvolte tre persone: Mario (il malato terminale), Elena (sua moglie) e Lito (il loro bambino di 10 anni).
La parola viene data alternativamente a tutti e tre, e ognuno di loro ci darà la sua visione di quello che sta accadendo.
Tre voci molto diverse fra loro: una amorevole verso un figlio a cui vuole lasciare un ricordo indelebile, una innocente e ignara di tutto quello che di lì a poco lo travolgerà, ed una che cerca disperatamente di rimanere a galla, anche a costo di risultare oscena.
Sebbene il malato sia Mario, io credo che tutto il romanzo ruoti intorno ad Elena ed al suo modo di vivere la malattia del marito, di gestire l'imminente perdita, di incanalare il dolore con pensieri che non vuole pensare e facendo cose che non dovrebbe fare.
Io mi sono sentita letteralmente sommersa dalle sue parole, stranita dal suo comportamento, ma assolutamente incapace di giudicarla, di condannare la sua inadeguatezza.
Quella di Elena è una voce potente, vera, che non ha paura di sentirsi sporca, di vergognarsi, di gridare la sua miseria e il disprezzo per se stessa.
Mi sono sentita quasi obbligata ad aiutarla a sostenere il peso dei suoi sensi di colpa.
In colpa per la sua impotenza di fronte alla morte, per un sentimento che pian piano si fa più vicino all'assistenza che all'amore, per non riuscire più a provare passione e desiderio per un corpo consumato dalla malattia, per il suo provare ancora passione e desiderio per un altro corpo...sano.
Colpa per non riconoscere più in lui l'uomo che era, ma anche per non riconoscere più la donna che era lei.
E quindi, smarrita, si cerca nei libri.
Elena legge, legge tanto...e sottolinea.
Nei libri cerca rifugio, consolazione, non evasione...tra quelle parole lei cerca lui, cerca se stessa. Cerca la vita.

"Poi passerò la serata leggendo. I miei nervi si calmano con i libri. Falso. Non si calmano: cambiano direzione."

Mario, benché "incattivito" dalla sofferenza e dalla consapevolezza della vita che gli sfugge via...non può fare a meno di sorridere a suo figlio, negandogli la verità, ed anche quando non avrà più le energie per stare in piedi, per mangiare, per dormire, avrà sempre un sorriso e una bugia per lui, perché finché riuscirà a mentire a Lito...vorrà dire che non è ancora morto.

"Come stai amore?" l'ho salutato stamattina.
"Qui a morire, e tu?" ha borbottato.
E ieri mi aveva risposto:
"A mangiar merda, grazie".

Una lettura che "fa male" senza straziare, un racconto lucido che ti trascina nella stanza del dolore, ma senza pietismo, a volte quasi con durezza, carnalità e sfacciataggine.
Così come sfacciata è la sofferenza.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    03 Dicembre, 2016
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...ed io cosa avrei fatto???



Una cosa su tutte: la Cline sa scrivere, sa scrivere proprio bene.
Ma questo romanzo non è solo scritto bene, fa di più...punta il faro di luce su quelle che sono le conseguenze della solitudine interiore in un'età delicatissima qual è l'adolescenza.
Perché se a 14 anni perdi i tuoi punti di riferimento: i tuoi genitori si separano e sono troppo impegnati a "ricostruirsi", il tuo amore platonico fugge via con la sua fidanzata incinta e la tua migliore amica ti volta le spalle...allora tu, ragazzina bisognosa di attenzioni, rischi di incrociare gli occhi sbagliati, e di riconoscere una bellezza ed una forza in chi invece la propria forza e bellezza l'ha venduta in cambio di un surrogato di amore.

"Nessuno mi aveva mai guardata davvero prima di Suzanne, perciò da un certo momento in poi era stata lei a definirmi."

Questa, per me, piu che la storia di una tragedia che ricalca un po' un fatto di cronaca realmente accaduto, più che la storia di una setta (di fine anni '60) con le sue dinamiche interne di sesso libero, amore universale e disfacimento totale, è la storia di un'ossessione, di una dipendenza...quella di Evie da Suzanne.
Evie fa tutto e vive tutto solo in funzione degli sguardi di Suzanne, di una sua approvazione, della sua vicinanza, della sua intimità.
Anche a distanza di oltre 40 anni, mentre rivive quell'estate della sua adolescenza, Evie non può fare a meno di pensare a lei, di sentirsi turbata dal suo ricordo, di riconoscerle una dimensione salvifica che forse non ha mai avuto, o forse sì.
Suzanne decide che Evie "deve essere fuori", la salva e, allo stesso tempo, la condanna.
La salva da una tragedia dalle proporzioni agghiaccianti, ma la  condanna al ruolo di chi è innocente solo perché non "ha potuto esserci", la condanna all'eterna domanda "...ed io cosa avrei fatto???".

"Suzanne mi impedì di fare quello che forse sarei stata capace di fare.
E così mi restituì al mondo come avatar della ragazza che lei non sarebbe stata."

La condanna ad una vita infelice, fatta di incontri sbagliati, di solitudine senza possibilità di riuscire a colmare quell'assenza.
Suzanne in carcere ha la sua possibilità di riscatto, i gruppi di studio, le interviste in prima serata, una laurea...lei, invece, ha collezionato solo fallimenti, ha continuato tutta la vita ad essere un innocente in fuga da un crimine che non ha commesso.

"A volte mi sembra di non essere mai scesa da quella macchina. Che una versione di me sia sempre lì."

La Cline ti fa vivere la seduzione subita da Evie, il suo smarrimento, riesci a toccare con mano i loro capelli lunghi e luridi, i vestiti sdruciti, senti la puzza acre del loro sudore e la viscida presenza di Russell, il guru, il santone, il leader indiscusso...il dispensatore di amore "vero", nonché artista fallito in cerca della sua triste vendetta.
Non nascondo che ci siano stati dei momenti nella lettura piuttosto faticosi, un po' ripiegati su se stessi, un'attesa angosciosa di una tragedia imminente che non vuole arrivare mai, ma il valore di questo romanzo ti ripaga di tutto.
La copertina (orribile), il titolo (scontato), e il clamore che ha suscitato l'uscita di questo libro, allontaneranno molti dalla sua lettura.
Ed è un peccato.



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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    25 Novembre, 2016
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Ti insegnano a non splendere. E tu splendi, invece


Oggi, in occasione della "Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne", non ho cambiato la mia foto profilo, niente scarpette rosse, né slogan preconfezionati.
Se proprio devo celebrare una giornata contro un abominio che andrebbe combattuto tutti i giorni, lo faccio a modo mio, nel modo che mi è più rappresentativo...leggendo.
Ed ho scelto di farlo con questo libro.
Un libro sulla violenza domestica.
Un libro sulle donne vittime di amori sbagliati, malati...
La storia è più o meno quella di tutte le donne che hanno la sfortuna di incontrare, innamorarsi e sposare, uomini meno che mediocri, che hanno bisogno di dimostrare tutta la loro forza e il loro potere per colmare la totale mancanza di intelligenza, per cercare certezze della loro presunta virilità.
Di colmare il loro "niente".
È la storia di tutte le donne che vediamo nei Tg, quelle umiliate, picchiate e troppo spesso uccise dalle stesse mani che le accarezzavano...
Ma il fatto che questo fosse "solo" un romanzo, non ha attenuato il mio sdegno, la mia frustrazione, la mia rabbia, tanta...troppa.
Poi scopri che non è "solo' un romanzo...e a quel punto la rabbia cede il posto dapprima ad una sorta di furore (che ho dovuto contenere per non scagliare contro il muro il mio kindle), poi ad un sentimento di scoramento.
Quell'orribile sensazione di impotenza che ti assale, che ti fa venire voglia di farti paladina di tutte queste donne calpestate da ominicchi.
Più sono "piccoli" più picchiano.
Io, questi mezzi uomini, li ammazzerei tutti.
Senza stare ad analizzare i perché ed i per come si diventa dei mostri. Basta!
Nessun perdono.
Nessuna pietà.
E la Rattaro è stata bravissima a raccontarci questa storia, con il suo solito modo di scavare nelle imperfezioni, nel dolore, con una semplicità ed una chiarezza tali da lasciarti senza parole, ma con gli occhi e il cuore gonfi di lacrime.
Le mie sono anche scese.
Semplice nel raccontare ciò che semplice non è affatto.
Emma è l'emblema della donna vittima di un marito psicotico e paranoico che piano piano s'impossessa della sua vita, della sua libertà, della sua dignità: la rinchiude in casa, le fa terra bruciata intorno (famiglia e lavoro), decide quando e cosa deve mangiare, usa la loro figlioletta come minaccia...e poi le botte, tanto c'è sempre un motivo per darle.
Emma ha vissuto l'inferno, ma non vi è morta dentro. Ha potuto raccontarlo.
Purtroppo dalle violenze domestiche non se ne esce semplicemente andando via da casa, il percorso è lungo, faticoso, irto di ostacoli...specie se ci sono dei bambini.
Io auguro a tutte le "Emma" sparse per il mondo di riuscire a trovare la strada della salvezza, che, inevitabilmente, passa dall'imparare a volersi bene.
E dal chiedere aiuto. Sempre. Da subito.

"In astronomia la chiamano "energia oscura".
Ed è la causa primaria dell'espansione accelerata dell'universo.
Qui, sul pianeta Terra, la riconosciamo in ogni donna capace di portarsi in salvo".

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    21 Novembre, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

È tutto vero, anche quando non lo è...



Ho finito il libro, l'ho chiuso e l'ho riposto in libreria...ma io sono rimasta incatenata qui, a Leros, in quest'isola maledetta dimenticata dal mondo e da Dio.
Con i matti.
In quest'edificio, con occhi neri e bocche sdentate, dove non batte mai il sole.
Sono inchiodata, impaurita e ghiacciata, con tutti coloro che qui hanno trovato l'inferno...
...con chi si mette un sasso in bocca per tenere al sicuro le parole, parole che comunque hanno smarrito la strada per uscire fuori dalla bocca.
...con chi ha smesso di credere in Dio, perché lo ha visto morire in un pomeriggio di Settembre.
...con chi vede i mostri, ha paura del buio e grida nel sonno.
...con chi lascia questo mondo così come ci è venuto: senza denti, né parole, né consapevolezza...e sulle labbra una sola parola..."mamma".
...con chi si è lasciato prendere dal mare, perché sopraffatto dalla violenza di chi matto non è. No, matto no, ma disumano sí.
...con chi scrive poesie bellissime e poi le nasconde sottoterra.
...con chi ha dentro di sé il dolore più grande del mondo perché ha visto succedere cose contro natura...e non sa perdonarselo.
...con chi si è perso in un "altrove" non più raggiungibile. E muore senza più avere un nome, né una storia.
C'è chi muore una volta sola e chi, come coloro che sono stati confinati a Leros, nell'edificio di Lepida per malati di mente e prigionieri politici, muore continuamente, ogni giorno.
E ogni notte.
E dovranno morire tante e tante volte prima di poter morire davvero.
Un libro che fa male, che scoperchia la botola che chiude ermeticamente il problema del disagio mentale.
La pazzia, la follia....cosa sono esattamente?
Un libro sui muri che si costruiscono per separare i sani dai malati, ma soprattutto su quelli che s'innalzano nella testa, e che non vengono giù neanche a suon di picconate.
L'autrice, alla fine, ci dona anche una piccola parte di sé. Dolorosissima.
Lei che la "pazzia" l'ha vissuta molto da vicino.
Ed ha cercato di capirla, di guardarla in faccia.
L'eredità della follia di una madre è un fardello troppo pesante da portare: erigere quel famoso "muro" per proteggerla, per essere sempre insieme, sole.
Ma in questa solitudine c'è uno dei due che è più solo dell'altro: la mamma aveva lei...ma lei non aveva più la sua mamma.
E i bambini non salvano gli adulti.
I bambini, in quanto bambini, non possono e non devono salvare nessuno.

"Tutti i malati di mente, i pazzi, i diversi, gli inquieti, i maniaci, gli psicopatici, gli ansiosi, i depressi, i suicidi, i morti in vita, i mostri del passato sono qui.
Ognuno racconta i suoi bisogni, e i sogni, gli incubi, i desideri, la sua versione dei fatti e hanno tutti ragione perché una prima verità non esiste da nessuna parte.
È tutto vero, anche quando non lo è."

Un libro duro e dolorosamente bello...un libro necessario, da cui non riesci più ad uscire.
A meno che tu non sappia nuotare per giorni e giorni, senza sosta...lasciandoti Leros alle spalle.
Io no. Non so nuotare così bene.


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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    14 Novembre, 2016
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"Ho fatto un sogno"



"Ho fatto un sogno".
Il senso di tutto questo romanzo si concentra in questa piccola frase, che la protagonista ripete, quasi come un mantra, per giustificare la sua decisione improvvisa di non mangiare più carne (non mangiare, non cucinare, non servire, non guardare), e in questa frase è racchiuso il suo mistero, rimangono imprigionate tutte le sue motivazioni.
Visionario e onirico.
Ma anche feroce.
La scrittura della Kang è potente e riesce benissimo a rappresentare la storia di una negazione, di una sottrazione, di un annullamento come unico sistema per affermare la propria esistenza.
Scomparire per esserci.
Consumarsi per rinascere altro da sé.
Una vita trascorsa nella trasparenza, nella remissività, prima al servizio della violenza paterna, poi all'ombra di un marito cinico ed egoista che si serve di lei per nascondere la propria mediocrità.
Yeong-hye non rifiuta solo la carne, ma rifiuta il mondo nella sua brutalità, aspira ad una trasformazione radicale del proprio essere, aspira ad un'innocenza che non appartiene alla razza umana.
La protagonista è raccontata da tre punti di vista: quello del marito, quello del cognato e quello della sorella maggiore.
Ma nessuno dei tre riesce a rappresentarla veramente.
Il marito è troppo autoriferito e, di conseguenza, totalmente incapace di comprendere le ragioni di Yeong-hye, il cognato viene risucchiato in un vortice di "erotismo ed arte" che gli dà una visione alterata del problema, mentre la sorella, pur avvicinandosi di più al suo sentire, è troppo impegnata a mantenerla in vita e a venire a patti con il proprio fallimento per riuscire ad entrare davvero nel suo mondo.
Il tutto deve anche essere contestualizzato all'interno della società sudcoreana, dove vigono atteggiamenti molto lontani dai nostri rispetto alle scelte alimentari, ma è anche vero che questo non è un libro sul vegetarianismo, né sui fondamenti etici ad esso correlati, né su principi salutisti o estetici, ma sul malessere di vivere.
È un grido disperato.
È un "no" urlato senza voce.
Il primo "no" di una donna ingabbiata nella sua inesistenza.
Questo romanzo è stato un'esperienza forte, violenta, in alcune parti profondamente sensuale, permeato da un desiderio di incorporeità, di trascendenza, dove ad un costante bisogno di mangiare per sopravvivere si contrappone un disarmante "Perché, è così terribile morire?".

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    12 Novembre, 2016
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"Vieni con noi"...a Convergence!



Mentre leggevo questo libro avevo la lucida percezione di fare un viaggio in una dimensione che non ero sicura di voler conoscere.
Inquietante. Gelido e asettico come il luogo in cui si svolge.
Semplici frasi come "Vado con lei", "Vieni con noi", qui assumono una connotazione agghiacciante, sono l'invito ad entrare in un mondo senza fine, dove la morte non esiste.
Non come la intendiamo noi almeno.
Rivivificazione.
Un modo per rendere immortale la morte.
"Convergence" è un luogo non-luogo, sperduto nel deserto del Kazakistan, dove ci sono capsule contenenti corpi umani sospesi, ibernati e nutriti da crioconservanti, ma brulicanti di vita interiore.
Questa è la storia di un figlio che si ritrova a dover fare i conti con la decisione paterna di seguire la donna della sua vita in questa dimensione oltre la vita.
Artis, archeologa, malata senza speranza di guarigione, sceglie di sottoporsi a questa nuova tecnologia criogenica, per risvegliarsi in un futuro in cui la sua malattia non sarà più contemplata.
Suo marito, e padre del nostro protagonista narrante, si accorge di non poter più vivere senza di lei e sceglie di voler far parte della schiera dei "messaggeri della sezione "Zero K", ovvero coloro che accettano di "morire" prematuramente per darsi la possibilità di una seconda vita in un futuro non bene identificato.
Persone che desiderano possedere la fine del mondo, e per farlo sono disposti a ritrovarsi appesi, nudi, depilati e congelati in dei gusci, con la mente cosciente (forse) ed una solitudine definitiva.
Il guscio è forse un ritorno al tempo dell'utero materno?
Con l'opzione però di poter rinascere ad un'età prescelta dal modulo d'iscrizione.
Pazzia o nuova coscienza?
Folle volontà di rinchiudersi al di fuori della storia, di dominare ciò che da sempre fa più paura, la morte, sfidandola, possedendola, comprandola e accettando di fluttuare all'interno dei propri pensieri, pensieri inconsistenti, incapaci di uscire dalle parole ed essere qualcuno.
Incapaci di delimitare il tempo.
Conoscere le parole senza conoscere la persona che le pensa: deriva mentale.
Io ho vissuto momenti destabilizzanti già solo leggendo...
Un tema difficilissimo, eticamente discutibile, che ci porta a riflettere sul concetto di identità, di memoria, di coscienza, di vita e di morte.
Ma anche, e soprattutto, una riflessione amara sui sentimenti di un figlio verso un padre che è sempre stato assente, che ha rinnegato la sua famiglia ed anche il suo nome, che ha sempre fatto della ricchezza e del prestigio il suo credo...e sulla difficoltà, nonostante tutto, di dirsi addio.
O arrivederci.

Il mio primo Don DeLillo...piacevolmente colpita!

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    12 Novembre, 2016
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I buoni, i cattivi...e l'antilingua.



Estate 1992.
Bari.
Un'estate che sembra non voler arrivare mai..."fredda" non solo meteorologicamente, ma anche metaforicamente.
È l'estate delle stragi di Capaci e di Via D'Amelio, l'estate della mafia padrona.
Carofiglio, con il suo solito stile affascinante, sobrio, garbato, sempre in perfetto equilibrio tra forma e sostanza, tra linguaggio tecnico e "di strada", ci porta dentro una storia e ci fa toccare con mano lo sporco mondo della criminalità organizzata, con le sue strutture gerarchiche, i suoi giuramenti, qualifiche, avanzamenti di "carriera", i suoi codici e la sua giustizia interna tanto feroce quanto sommaria.
Stavolta l'autore abbandona la giurisprudenza e le aule di tribunale e ci apre le porte di una caserma dei carabinieri di Bari, dove troviamo il maresciallo Pietro Fenoglio (già protagonista di "Una mutevole verità"), uomo di grandi principi e dignità, di intelligenza vivace e profonde riflessioni filosofiche.
Un uomo ferito nella sfera sentimentale e sempre alla ricerca della "giusta misura".
E proprio il caso che si troverà a dover affrontare, ovvero il sequestro lampo del figlio di un boss locale, lo porterà a dover aprire una finestra sul labile confine tra "buoni" e "cattivi", tra "noi" e "loro", dove diventa estremamente difficile separare il bianco dal nero ed evitare d'immergersi fino al collo in quella sterminata varietà di grigi, accettando tristemente i limiti della divisa che indossa.
I criminali sono sempre tutti "brutti, sporchi e cattivi"?
Ed i buoni...sono veramente tutti "buoni"?
Fenoglio, tra una visita in Pinacoteca, la sua musica classica e un tuffo in un mare cristallino di una spiaggia ancora dormiente della costiera barese, farà i conti con un'estate di sangue e dolore.
Indubbiamente l'essere stato magistrato e sostituto procuratore nell'antimafia, rende Carofiglio particolarmente abile nel raccontare questo tipo di storie (sa di cosa parla) ed è anche molto attento a non indugiare troppo sull'aspetto truce e violento del mondo che racconta (pur presentandoci le cose così come sono), stemperandolo attraverso ciò che lui conosce ed usa molto bene..."la parola".
Carofiglio in questo romanzo fa sfoggio di differenti registri linguistici: alterna al linguaggio fluido della narrazione e dei dialoghi, interi verbali di interrogatori, scritti in quella che Calvino chiama "l'antilingua", ovvero una lingua rigorosa, lontana dai significati concreti della vita, per mantenere le distanze dal mondo reale e dalle sue brutture.
Per sopravvivere.
Ma riesce anche a mescolare molto bene realtà e finzione, invenzione e cronaca, senza che l'una prevarichi sull'altra...rendendo omaggio a Falcone e Borsellino.
Un romanzo che non mira tanto a scatenare forti "emozioni", quanto invece a generare "riflessioni"...e a costringerci, di fronte a ciò che riteniamo inaccettabile, a non girare la testa dall'altra parte.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    01 Novembre, 2016
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"...quelle stelle non erano le mie..."



Questo è un libro color seppia, e non solo per la copertina, è un libro che ha la consistenza delle fotografie ingiallite, che si sgretolano fra le mani...
C'è dentro il senso più intimo e profondo di "paese", quello in cui nasci e che t'ingabbia, ma anche quello che, se riesci ad andar via, è lì ad aspettarti e ti chiama, ti chiama, ti chiama...
Mentre leggi senti il sapore della terra cotta dal sole, l'odore dei falò che vivacizzavano i raccolti, che "portavano bene"...e la luce della luna, quella luna fonte di credenze e superstizioni.
Ma senti anche i crampi della miseria, quella rabbia di una vita senza sfogo che porta gli uomini a prendere a cinghiate mogli e figli...ad ammazzarli, ad ammazzarsi.  
Il protagonista della nostra storia, Anguilla, nasce "bastardo", viene cresciuto da una famiglia che lo accoglie in cambio della "mesata", destinata a chi prendeva in casa i bambini dell'ospedale.
E lui era oroglioso di valere 5 lire.
Cresce con le sorellastre e, in seguito ad una grandinata distruttrice, va a lavorare alla Mora...
Poi ha dovuto scegliere se andare via e conoscere il mondo...o credere per sempre nella luna e nei falò.
A volte crescere vuol dire andarsene, e lui, figlio di nessuno, per trovare se stesso e una propria identità è andato via...prima Genova, poi addirittura l'America, la California...ma, ad un certo punto, si è reso conto che, nonostante il portafoglio gonfio, "quelle stelle non erano le sue"...ed è tornato.
Ma siamo all'indomani della Liberazione...e di quel che era stato, nel suo paese, è rimasto poco più di niente: Anguilla ritrova solo Nuto, il suo amico più "grande", il suo mentore, che si è fatto uomo, come lui del resto.
Conosce Cinto, un ragazzino zoppo che gli ricorda se stesso, la sua infanzia..che vive proprio nelle terre che sono state la sua casa.
E proprio quelle terre, piene di ricordi, saranno teatro del più grande dei falò...ma stavolta non si tratterà di un falò "che porta bene", questo porterà solo morte, la morte di tre persone disperate: la famiglia di Cinto.
E con un altro tragico falò si chiude il libro, un rogo che ha ridotto in cenere un'altra  persona del passato di Anguilla...
Questo è stato l'ultimo libro scritto da Pavese, un libro amaro, sulla disillusione...
Anguilla, triste e amareggiato, parte...e di lui non sapremo mai più nulla.
Anche Pavese partirà, ma di lui sapremo con certezza che non tornerà mai più.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    12 Ottobre, 2016
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La star del buco...per sempre.


Ne "LA MIA SECONDA VITA" ritroviamo una Christiane cinquantenne, ancora sotto terapia di metadone, con il fegato distrutto, un'epatite C cronica e una forte depressione...a testimoniare quello che ormai è una certezza: dalla droga non se ne esce mai, si può sopravvivere, ma "vivere" è un'altra cosa.
Il titolo è ingannevole...perché "la mia seconda vita" farebbe pensare ad una svolta, ad una rinascita, ad un cambiamento.
Niente.
La vita di Christiane continua ad essere un susseguirsi di disontissacazioni e ricadute, disintossicazioni e ricadute...ancora e sempre, con la sola differenza che, grazie ai proventi della pubblicazione del libro "Noi, I ragazzi dello zoo di Berlino", non ha mai piu avuto problemi economici e, quindi, non si è mai più dovuta prostituire.
E quando era "pulita" non mancava certo di fare uso di hascish, alcol, o di ingoiare pasticche come fossero smarties.
Ha avuto la possibilità di frequentare il mondo della musica, venendo a contatto con grandi della musica rock, come David Bowie, Van Helen, Depeche Mode...e di sedersi a tavola con personalità forti della letteratura come Simenon, Suskind, Highsmith, Durrennmatt (al quale non ha avuto problemi a dire di non aver apprezzato i suoi scritti!).
Forse l'unica cosa che avrebbe davvero potuto salvarla, le è stata strappata dopo 11 anni...suo figlio.
Era il suo riscatto, la sua unica possibilità di dimostrare a se stessa e al mondo di non essere più "una drogata", ma non le hanno dato fiducia (d'altronde perché avrebbero dovuto?)...e al primo sentore di una possibile ridiscesa agli inferi glielo hanno portato via.
Strappandole l'anima.
È vero anche che l'opinione pubblica, i media, la stampa, non le hanno dato tregua, l'hanno schiacciata nel suo passato, nel suo ruolo...anche quando lei s'impegnava ad essere una persona migliore.
Christiane è e resterà per sempre una "star del buco", un animale da fiera, una bestia rara.
Una ragazza dello zoo di Berlino.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    12 Ottobre, 2016
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La "bambina" dello zoo di Berlino



L'ho fatto.
Per la prima volta nella mia vita ho riletto un libro...
Ed ho scelto di rileggere "NOI, I RAGAZZI DELLO ZOO DI BERLINO" dopo ben 27 anni.
Un po' per poter poi leggere il suo seguito e un po' per confrontare l'impatto che questa lettura ha avuto su di me a 13 anni e poi a 40.
Avevo il ricordo di una lettura "shock", di quelle che ti travolgono in pieno come se fossi a piedi in mezzo all'autostrada...ebbene, nonostante gli anni, la maturità, l'esperienza di vita...mi sono ritrovata nuovamente inerme, a piedi, al centro di quell'autostrada.
Perché quello che viene raccontato qui non scende a patti con l'età, non si è mai abbastanza grandi, né preparati, né pronti per accettare tanto degrado, squallore, sofferenza e disagio.
I "ragazzi" del titolo...in realtà sono poco più che bambini!
Ero troppo piccola alla mia prima lettura? Non credo, anzi...io lo farei leggere a tutti i ragazzini, tutti.
Su di me ebbe l'effetto, allora, di farmi aprire gli occhi su un mondo sconosciuto (e tale poi è rimasto, fortunatamente), di mettermi in guardia non tanto dalle sostanze stupefacenti in sé, quanto proprio dai meccanismi sociali e psicologici che portano al loro avvicinamento.
Cambiano i contesti, cambiano le droghe, cambiano i ragazzi, ma il "modus operandi" di quel mondo marcio è sempre lo stesso.
Disagio famigliare, noia smisurata, profonda mancanza di senso esistenziale e desiderio di far parte del "gruppo" (anche se è il gruppo sbagliato, quello dei perdenti)...questo è alla base di questo docu-libro, questo è quello di cui ci parla Christiane.
Poi intervengono tanti altri fattori e dinamiche (che non basta una vita per analizzarle tutte)...ma la verità è che tutto questo ha una portata così grande, così al di sopra della mia capacità di comprensione, che io ho davvero difficoltà ad esprimere un pensiero.
Meno che mai un giudizio.
Posso solo fare tesoro di questa cruda testimonianza, prendere atto della continua dicotomia tra voglia di riscatto e rassegnazione, voglia di vivere "alla grande" e desiderio di morire, di arrivare presto al fatidico "buco finale".
Sì perché l'inganno è tutto lì...l'euforia sparisce presto e rimane solo la dipendenza.
"Farsi"...non più per stare bene, per sballarsi, ma solo per non stare male!   
Si procede velocemente verso una depravazione emotiva, ma soprattutto "deprivazione" emotiva: i bucomani sono terribilmente soli, perdono ogni forma di empatia, esistono solo loro e la loro pera.
Quello che mi ha davvero toccato è stato il dualismo di questa ragazzina, il suo sdoppiarsi continuamente in bene e male: c'è una parte molto significativa del libro in cui lei racconta di scrivere delle lettere a se stessa, ovvero "Christiane", la buona, la brava ragazza, scrive a "Vera" (suo secondo nome), la eroinomane, la bucomane, la baby-prostituta.
È una lotta continua fra le due...ma la più forte, inutile nasconderlo, non sarà mai Christiane!

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    03 Ottobre, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

53 anni, 7 mesi e 11 giorni, notti comprese.



SPOILER - SPOILER - SPOILER

"53 anni, 7 mesi e 11 giorni, notti comprese".
In questi numeri è racchiuso tutto il senso di questo grandissimo romanzo.
Ho cercato "la storia d'amore" in tutte le sue pagine, senza trovarla (se non alla fine)...ho trovato invece la struggente storia di "un amore unilaterale", idealizzato, nutrito da pensieri, fantasie, voci, profumi, ricordi di un uomo al limite della follia...un'ossessione disperata e senza fine che ha superato la barriera del tempo, dello spazio, del corpo...
Florentino ama, ama Fermina di un amore totale, bruciante, spossante: le ha parlato solo una volta, si sono scritti delle lettere d'amore furtive, l'ha seguita, spiata, adorata da lontano.
Ma alla fine lei sceglie altro...si accorge di non amarlo, di non conoscere quest'ombra scura che un giorno, all'improvviso, incontra al mercato.
Lei sceglie il buon matrimonio anelato da suo padre, non un matrimonio d'amore, felice, ma "stabile", rassicurante...e con gli anni impara ad amare suo marito, fino a diventare indispensabili l'uno per l'altra...(e Florentino non è mai nei suoi pensieri, se non per qualche strascico di senso di colpa che talvolta raffiora).

"Il problema del matrimonio è che finisce tutte le notti dopo che si è fatto l'amore, e bisogna ricostruirlo tutte le mattine prima della colazione".

Lui è affamato d'amore, si consuma in un fuoco che scaverà dentro di lui una voragine immensa...e che cercherà di colmare amando mille donne, senza amarne nessuna.
Giovani, mature, sposate, vedove, quasi bambine...non importa. Lui le amerà tutte.

"...aveva imparato che si può essere innamorati di diverse persone per volta, e di tutte con lo stesso dolore, senza tradirne nessuna.
Il cuore ha più stanze di un casino."

Ma non s'impegnerà mai davvero con nessuna, lui deve mantenersi "libero" per Fermina, perché lui lo sa, sa che un giorno sarà sua. 
E non importa se quel giorno arriverà mezzo secolo più tardi, quando ormai la pelle è avvizzita, gli occhi sono liquidi, le membra stanche...
Fermina s'innamorerà di Florentino, sì...ma non del ragazzo che è stato, non del ricordo di lui, ma amerà il vecchio, l'ultrasettantenne senza capelli e senza più ardore, ma in grado di emozionarsi ancora per una mano nella mano, per un bacio a fior di labbra dal leggero sentore acido, per il suo corpo di donna che ha ceduto al tempo, alla gravità, alla vita.
Ho trovato in questo romanzo una sensualità disarmante, un erotismo raffinatissimo e una delicatezza senza pari nell'affrontare l'amore che passa attraverso le trasformazioni del corpo.
Una storia di speranza, quella che davvero non muore mai...
Ringrazio Garcia Marquez per averci regalato l'illusione che davvero i sogni si realizzino, prima o poi...e spero mi voglia perdonare per le mie parole indegne.



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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    02 Ottobre, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

Alice, una di noi...



Immaginate di avere a disposizione una tavolozza di colori...
Vi siete mai chiesti che cosa possa nascere dalla fusione di giallo e rosa?
Ebbene...la risposta io ce l'ho: i libri di Alessia Gazzola con protagonista Alice Allevi!
Una sfumatura che lei ha saputo creare sapientemente mescolando una giusta dose di ingredienti gialli, ben calibrati e incastrati a dovere (sulla base di una evidente competenza tecnica in materia di medicina legale), ed una pioggerellina di gocce rosa, una sfumatura di rosa che non è né quella shokking tipica della chick lit, né quella tenue e pallida dei romanzi romantici...ma una nuance tutta sua, moderna, non stucchevole, che riflette benissimo l'incarnato di tante donne, donne che ritrovano nella protagonista un po' di se stesse, delle loro paure, della loro confusione, sogni, mancanze e ambizioni.
In questo nuovo e, pare, ultimo capitolo della serie, ci ritroviamo con Alice, la più simpatica specializzanda in Medicina legale, alle prese con un nuovo caso: quello dell'omicidio di un noto e stimatissimo psichiatra, nonché suo professore universitario.
Alice denota una grande mancanza di precisione e affidabilità, dovuta al suo essere pasticciona, distratta, un po' sognatrice, ma in compenso ha spiccate doti investigative (alimentate dalla sua grande curiosità) che mette al servizio del buon Calligaris, ispettore di polizia che, ormai, si avvale della sua perspicacia e collaborazione durante le indagini.
Anche in questo romanzo, come negli altri, la storia gialla fa da veicolo per trasportarci nel cuore di Alice, nella sua vita privata, nelle sue altalene sentimentali, sempre in bilico fra due uomini: uno dolce e attento, ma troppo innamorato del suo lavoro di reporter e della sua vita nomade (a cui proprio non riesce a rinunciare), e l'altro tremendamente attraente, passionale, libertino e troppo innamorato di se stesso.
Ma stavolta Alice dovrà scegliere, dovrà fare i conti con la chiusura di un ciclo di vita, che coincide anche con il termine della sua specializzazione: presto non sarà più "un'allieva" e dovrà imparare a guardarsi dentro e venire a patti con i suoi sentimenti, ma sopra ad ogni cosa dovrà imparare a "stare con se stessa".
La Gazzola riesce sempre a farsi leggere tutto d'un fiato, a farti sorridere, divertire ed emozionare, con una scrittura semplice, leggera, fresca e non banale.
Forse...se è vero che questo romanzo è la "conclusione" della storia di Alice...avrei voluto un finale più "finale", meno aperto...ma, nello stesso tempo, questo lasciare i contorni non definiti, mi fa ben sperare in una possibile, quanto desiderata, futura continuazione.
Io ci conto davvero!

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    21 Settembre, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

"I duri hanno due cuori..."


Ho rimandato la lettura di questo romanzo per giorni, settimane (2 mesi per l'esattezza)...perché sapevo benissimo che, una volta finito, mi sarei sentita così...orfana di Schiavone.
E ora?...quanto dovrò aspettare per rincontrarlo???
Manzini ha dato vita ad un personaggio riuscitissimo...in barba a chi sostiene che ormai di commissari, ispettori e vicequestori ce ne siano troppi e si somiglino un po' tutti.
Sarà che a me, degli altri personaggi e delle loro somiglianze con Rocco, non importa nulla...sono pazza di lui e stop.
Cinque romanzi che si sviluppano in un crescendo notevole: la figura di Rocco Schiavone si delinea in maniera sempre più netta, arricchendosi di tanta introspezione psicologica, ci prende per mano e ci accompagna nel suo passato, nei suoi errori, nei suoi dolori, abbassa la guardia e ci offre su un vassoio d'argento tutti i suoi punti deboli, senza per questo perdere neanche un grammo del suo fascino di "duro", anzi...le trame man mano  s'infittiscono di situazioni, intrecci e colpi di scena perfettamente dosati e ben orchestrati. 
Se con i precedenti quattro romanzi Manzini era riuscito a renderci dipendenti dal suo personaggio, con quest'ultimo lavoro ci ha proprio steso!
Un "romanzo/confessione" che rende chiari tutti i non-detti degli episodi precedenti, che trasforma i nostri sospetti, intuizioni e deduzioni in certezze, che chiude un cerchio e apre le porte ad un personaggio più vulnerabile, più umano e più vero.
Il peggio e il meglio di un uomo racchiusi in una sola persona.
Cosa gli si può chiedere di più?
Nulla...
O forse sì...scrivere, scrivere, scrivere ancora!!!

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Racconti
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    21 Settembre, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

Delicatezza e dignità



È il mio terzo Zweig nell'arco di pochi di giorni.
Direi che questo autore ha colpito nel segno.
Direi che leggere questo racconto è stato un vero piacere, balsamo per l'anima di un lettore appassionato.
È la storia di un ricordo...un ricordo dapprima sfuggente, che non prende forma, e poi, pian piano si fa strada nella memoria portando con sé tutto un patrimonio di emozioni.
Il protagonista del ricordo è Jakob Mendel, detto Mendel dei libri, uomo dalla straordinaria capacità di memorizzare tutti i cataloghi di libri, autori, pubblicazioni, costi...e della sua vita priva di senso al di fuori delle lettere stampate.
Non c'era posto per nient'altro, neanche per la guerra, quella guerra che lo priverà di tutto, anche del suo dono.
Mendel non sara più lo stesso, ma anche il mondo, dopo una guerra mondiale, non lo sarà piu...
Dentro queste poche pagine troviamo tanta dolcezza, tristezza, tenerezza, ma anche rispetto verso chi ha dedicato la propria vita ad una passione così totalizzante che, inconsapevolmente, è stata la sua rovina.

"I libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall'inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l'oblio".

Forse a questa novella manca la suspance psicologica che ho respirato in "Paura", il dolore e lo struggimento di "Lettera di una sconosciuta", ma ho trovato una delicatezza, un contegno e una dignità che difficilmente mi faranno dimenticare quest'uomo e il suo mondo fatto solo di parole scritte.

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Romanzi
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    18 Settembre, 2016
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Appuntamenti col destino...



Un De Silva decisamente diverso dal creatore dell'avvocato Malinconico.
Abbandona per un po' la sua solita ironia e leggerezza (mai banale a mio avviso)...e ci regala una storia breve, ma intensa...profonda e piena di sentimento, ma non sentimentale (niente frasi da "Bacio Perugina", per intenderci).
Qualche piccolo scivolone in realtà c'è...ma perdonabile.
Insomma, entra in punta di piedi, con tocco leggero, dentro due universi che, senza saperlo, si sfiorano, si cercano, si attraggono...senza incontrarsi mai...o quasi.
Ci racconta di una storia d'amore che tarda a presentarsi all'appuntamento col destino.
Ognuno con il proprio vissuto, con la propria storia, Irene e Nicola si ritrovano soli, incapaci di vivere in pieno la libertà ritrovata (lei per scelta, lui per volere del destino),ma con l'assoluta consapevolezza di sapere quello che non desiderano più, quello che non vogliono più essere.
Racconto brevissimo, dal finale aperto, ma a me è piaciuto anche per questo...perché più che raccontarci una storia, De Silva ci propone delle "situazioni" e ci mette nella condizione di fare delle riflessioni.
Riconosco lo sguardo acuto di De Silva, attento a tutto ciò che ci circonda, il suo essere "indagatore" dei comportamenti tipici dell'uomo e della donna moderni, senza falsi moralismi.
Riconosco la sua scrittura semplice, fluida, fresca, che scava senza atteggiarsi troppo, senza pretendere di essere ciò che non è.
Una scrittura onesta.
E poi...come sempre, nei libri io cerco sempre un pezzettino di me, riesco a prendere ciò che mi serve...

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    18 Settembre, 2016
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Un delicato gioco di equilibri



Questa è una storia di addestramento, di apprendistato, di manipolazione...
Questa è Michela Murgia...con la sua scrittura perfetta, dialoghi fulminanti, introspezione fatta col bisturi.
Lui, Chirù, ha 18 anni, studia violino e sogna di diventare un artista, ma per farlo ha bisogno di lei, Eleonora, 38 anni, attrice, che accetta di diventare la sua guida, la sua mentore.
Lei che aveva giurato di non prendere più allievi, lei...che dietro al successo...nasconde ferite lontane e porta il peso di un grande senso di colpa.
Ma ogni rapporto educativo è un delicato gioco di equilibri e squilibri, in cui spesso i ruoli si invertono e si confondono...i due si sfiorano, si fraintendono, si usano a vicenda, dando vita ad un legame forte, di pelle e di testa, che rifugge qualsiasi definizione se non quella di "amore", ma nella sua accezione più grande.

"Io vorrei poter dire che fra noi c'è stata un'affinità elettiva, ma la verità è che questo ragazzo aveva delle cose marce dentro e io le ho riconosciute, perché sono le stesse che ho io".

Il libro non si divide in capitoli, bensì in "lezioni"...perché la prima cosa da imparare è come si riconosce, come si esprime e come si governa il "potere"...proprio quel potere che è alla base della loro relazione.
A dispetto del titolo del libro, la vera protagonista della storia è lei, con tutto l'irrisolto che si porta dietro, a partire da un padre violento...
E solo attraverso i suoi occhi conosceremo Chirù.

"Sei infelice, ma in un modo che uno potrebbe anche pensare che ti stia bene addosso..."

Ci sono pagine bellissime, da leggere e rileggere affinché rimangano dentro.
Fantastiche quelle sulla società svedese (che io conosco da vicino sottoscrivendo ogni parola).
Potrei parlare per ore di tutte le cose meravigliose che ho trovato in questo libro, di tutte le verità contenute, dell'eleganza della prosa...ma non riuscirei comunque a trasmettere quello che il romanzo ha dato a me.
Posso solo consigliarlo. Vivamente.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    06 Settembre, 2016
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Feroce...



Ma che meraviglia...
Della Nemirovsky avevo letto e apprezzato moltissimo "Suite francese", ma questo racconto, in una manciata di pagine, forse forse mi ha dato molto di più...
Ci ho trovato dentro una feroce ironia nei confronti di coloro che inseguono disperatamente lo status sociale di "ricchi", e un altrettanto feroce attacco alla figura materna, quella incapace di guardare oltre il proprio "io", concentrata sempre e solo su se stessa, affamata di considerazione altrui e inutili riconoscimenti, ma completamente anaffettiva nei confronti della sua stessa figlia, oserei dire anche gelosa.
Qui ci troviamo di fronte ad un dispetto adolescenziale che si trasforma in una vendetta fatta a regola d'arte, dettata dalla mancanza d'amore, dal dover essere sempre e solo spettatrice muta dell'ego smisurato della donna da cui, invece, ci si aspetterebbe amore e dedizione.
Si assiste alla volontà di iniziare a "vivere" da parte di madre a figlia, ma per una questo significa emergere dall'anonimato della povertà, per l'altra ribellarsi all'autorità genitoriale che la schiaccia pesantemente.

"Era l'attimo, l'istante impercettibile in cui si incrociano "sul cammino della vita": una stava per spiccare il volo, l'altra per sprofondare nell'ombra. Ma non lo sapevano."

Questo piccolo romanzo, fortemente autobiografico, ci dà la misura di quanto burrascoso fosse il rapporto della scrittrice con la propria madre...
Una scrittura elegante, raffinatissima, ma anche affilata, tagliente, ironica e dissacrante.
Un piccolo gioiello.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    06 Settembre, 2016
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Il viaggio di una mutazione...



Questo libro è un viaggio...
Un viaggio attraverso il tempo, lo spazio...ma soprattutto attraverso il corpo.
Il corpo di Calliope.
Il viaggio di una mutazione genetica del 5° cromosoma, che dalla Grecia d'inizio '900 arriverà in America negli anni '60, sopravvivendo per tre generazioni e portando con sé tutta la storia di una famiglia.
Tutto inizia con Desdemona e Lefty, fratelli (e non solo) che riescono a salvarsi e a scappare dall'incendio di Smirne ad opera dei turchi.
Sarà una nave e una scialuppa di salvataggio la culla del loro amore proibito...e lì si riinventeranno, si racconteranno una storia in grado di legittimare i loro sentimenti e di mettere a tacere (ma mai del tutto) il loro senso di colpa e la paura...
Quel giorno, su quella nave, inizierà anche il viaggio di un gene recessivo che, 60 anni dopo, a Detroit, sceglierà proprio Calliope per manifestarsi.
Cresciuta per 14 anni come "femmina"...affronterà la pubertà con lo sconvolgimento di chi, ignara di quello che realmente accade dentro il suo corpo, non si riconosce nello sviluppo delle sue pari, niente seno, niente ciclo, altezza e magrezza eccessive, attrazione ingiustificata verso "l'Oggetto" dai capelli rossi...
Vive la tempesta emotiva di chi non sa esattamente cosa ci sia di sbagliato in lei, ma percepisce chiaramente che qualcosa non va...
Fino al giorno della scoperta...
Dottori come se piovesse, luminari di genetica che faranno di lei il proprio personale fenomeno da baraccone, e poi la certezza di non voler essere "trasformata" da un bisturi, ma solo dal coraggio di accettare la propria naturale trasformazione in "maschio", in quel maschio che è sempre stata, senza saperlo.
Ma per farlo deve essere sola, lontana da chi l'ha sempre amata come "figlia": ucciderà Calliope davanti allo specchio di un barbiere...e farà nascere "Cal", l'ermafrodita.

"Il mondo esterno era finito. Ovunque fossi andato avrei sempre incontrato me stesso".

Una vita difficile, sempre in bilico fra la voglia di essere un uomo come tutti e l'imbarazzo di dover spiegare alle donne della sua vita chi fosse, cosa fosse...
Una donna mancata, un uomo a metà...una persona.
In questo romanzo non c'è solo la storia di Cal/Calliope, ma c'è "la storia" della sua famiglia, della Grecia, dell'America, di usanze, superstizioni, rapporti familiari...e tanto tanto ancora.

"...per andare avanti bisogna tornare indietro dove si è cominciato".

Eugenides, approfittando della narrazione in prima persona, si diverte un po' a sballottolarci avanti e indietro nel tempo, a suo piacimento, ma lo fa con un coinvolgimento tale (e una sottile ironia di fondo) che glielo perdoni senza pensarci troppo.
Il romanzo inizia con un incipit forte, d'impatto...e la cosa che più mi ha colpito è stato constatare che per ben 600 pagine rimane solido su quel livello, nessun cedimento, nessuna caduta.
E non è facile.
Un romanzo ricco, che t'inghiotte...che ti rapisce dal primo rigo, ma che (almeno su di me ha avuto questo effetto) non riesci a divorare, ti richiede tempo, assimilazione, senza mai essere pesante.
Ma merita tutto il tuo tempo, merita di essere assaporato.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    17 Agosto, 2016
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A te che mai mi hai "riconosciuta"



In "LETTERA DI UNA SCONOSCIUTA " Zweig ci parla di un amore assoluto, totale, a senso unico e, proprio per questo, altamente doloroso...che sfiora il delirio, l'ossessione, l'autodistruzione.
E lo fa attraverso una lettera misteriosa, malinconica, struggente, ma allo stesso tempo dolcissima...da parte di una donna verso l'uomo che è stato il centro della sua vita, attorno al quale è ruotato tutto il suo essere...eppure quest'uomo non sa chi ella sia.
"A te, che mai mi hai conosciuta..."
Ma forse sarebbe più giusto dire "a te, che mai mi hai "riconosciuta"...infatti il vero dramma, il vero dolore, la vera sofferenza risiede tutta lì, in quel "non esistere" agli occhi di lui, pur essendoci stata...non essere mai riuscita a farsi riconoscere da lui, a lasciare un segno.
Per lui questa donna non è mai esistita...non ne ha memoria...
Quindi a lei non rimane che un modo per diventare reale ai suoi occhi...scrivergli una lettera..."scrivere per esistere", paradossalmente proprio nel momento in cui non esisterà più, continuando a rimanere per sempre...un' eterna sconosciuta.
Immensamente doloroso e immensamente bello.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    17 Agosto, 2016
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Paura, giudizio e punizione...



Zweig è un maestro dell'introspezione.
Scandaglia l'animo umano così bene da fare male.
Ho letto "PAURA" col fiato sospeso.
Con l'anima in pena.
Con l'ansia a mille.
Ne sono uscita ammaccata...affranta...scorticata.
Tema sempre caro alla letteratura di tutti i tempi, il tradimento,ma in questo caso ciò che rapisce non è la storia in sé, ma il modo in cui l'autore ti fa entrare nella psicologia della protagonista: ti ritrovi negli ingranaggi mentali di questa donna, respiri la sua paura, tocchi con mano la sua vigliaccheria...eppure non riesci ad odiarla, né a condannarla.
Tutto il racconto si basa sulla dicotomia "giudizio/punizione"...ma la vera condanna è proprio quella sensazione gelida chiamata "paura", quella vera, che si attacca alle viscere e divora dall'interno, togliendo ossigeno, lucidità, vita.
Il finale è un po' utopistico...difficilmente concretizzabile nella realtà, ma letterariamente molto bello.
Zweig mi ha conquistato.

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Narrativa per ragazzi
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    17 Agosto, 2016
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Favola nera...molto nera...



Mi sono ritrovata a leggere questo libro per un motivo: questo libro è legato ad un episodio dell'infanzia di mio figlio.
Nel 2009, quando mio figlio aveva appena 4 anni, mio marito gli portò il dvd di "Coraline e la porta magica", film animazione tratto appunto da questo libro di Gaiman...
Convinti che si trattasse di un cartone animato per bambini, una bella sera gliene proponiamo la visione...inserisco il dvd nel lettore nella sua cameretta...e vado a preparare la cena.
Tempo dieci/quindici minuti, vedo arrivare Andrea con il visino spaventato che mi chiede: "Mamma, vieni a vedere il film con me?...ho un po' paura!".
"Ma su...cos'è che può farti tanta paura, dai..."
Comunque vado con lui, inizio a vedere un po'...e spengo tutto.
Era praticamente un film horror realizzato sotto forma di animazione.
Un bambino traumatizzato per sempre...????
Oggi, a distanza di sei anni, ho letto il libro...effettivamente si tratta di una favola dark, nera, molto molto nera, raccontata con un linguaggio e una scrittura semplice ed elementare, per bambini, appunto, ma che i bambini farebbero bene a non leggere prima dei 10/11 anni, a parer mio.
Il target giusto probabilmente è rappresentato dall'età pre-adolescenziale, ma va bene anche per un pubblico adulto amante del genere fantasy & Co.
Io ho superato la pre-adolescenza da un po' e non sono assolutamente amante del genere, ma riconosco che il libro è ben fatto, ti trascina nel suo mondo e ti coinvolge.
Ma le mie letture sono altre.

P.s.: mio figlio sta bene...successivamente ha rivisto il film senza problemi, ed ora mi ha chiesto di leggere il libro!

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Fantascienza
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    16 Agosto, 2016
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L'abbruttimento sociale



Astenersi stomaci deboli.
Vietata la lettura a coloro che non sopportano vedere rappresentata (seppur attraverso una eccessiva metafora) la parte più "bassa" dell'essere umano, la più decadente, degradata...mi verrebbe da dire "bestiale", ma poi, pensandoci bene, gli animali certe cose non le fanno!!!
Immaginiamo una comunità di circa 2000 persone che vivono in una scatola super-lussuosa che punta verso il cielo, una città verticale (un grattacielo di 40 piani appunto)...dove l'ascesa verso i piani più alti sta a rappresentare una sorta di scalata sociale.
Dai proletari ai liberi professionisti, passando per la media borghesia.
L 'esplosione di violenza sarà spiazzante...
Non ci sarà un vero e proprio fattore scatenante, se non piccoli inconvenienti tecnici, che porteranno ad una profonda "regressione" di tutti i condomini, perché, in realtà, sono proprio le differenze sociali alla base del forte antagonismo, che ben presto sfocerà in odio, cattiveria, follia pura...
L' incalzante involuzione ad "esseri" (perché usare il termine "uomini" proprio non mi riesce) privi di qualsiasi morale, buonsenso e civiltà, va di pari passo con la totale mancanza di igiene personale, che anziché portare disagio, diviene valore aggiunto, segno di riconoscimento e dominio sull'ambiente.
Il Condominio diventa un microcosmo pieno di violenza, alcool, sesso, miseria e abbruttimento, dal quale gli abitanti non vogliono più uscire, disconoscendo il mondo esterno, e crogiolandosi nel sudiciume materiale, ma anche e soprattutto in quello interiore e morale.
Un regno dove dare libero sfogo agli impulsi più beceri e anormali.

Io posso capire il punto di vista e il messaggio dell'autore, questo voler liberare gli uomini da tutte le imposizioni e restrizioni sociali, mettendo a nudo la parte più istintuale nascosta sotto la tendina della buona educazione e del vivere civile...ma, davvero, faccio fatica a credere che sotto le sovrastrutture sociali che ci costruiamo ci sia tutto questo marciume.
No.
Non ci sto.

Per certi versi mi ha ricordato un po' la violenza e la disperazione dei ciechi di Saramago, ma lì c'era una causa di fondo, una lotta per la sopravvivenza e, soprattutto una luce in fondo al tunnel...qui è tutto gratuito, immotivato e disperatamente definitivo.

Un bel libro. Scritto molto molto bene.
Inquietante e piacevolmente disgustoso.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    16 Agosto, 2016
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Miss Brodie e il suo fulgore!!!



De-li-zio-so!!!
Questo piccolo romanzo della Spark racchiude in sé irriverenza ed eleganza, leggerezza e ironia, ma anche intelligenza e grande acume psicologico.
Edimburgo. Anni '30.
La nostra Miss Brodie è un'insegnante (quarantenne e zitella) di una prestigiosa scuola femminile, che vive il suo ruolo quasi come una missione ed adotta metodi didattici non proprio ortodossi, che più volte hanno messo in pericolo il suo posto di lavoro.
Ma nessuno poteva fermare Miss Brodie nei suoi anni di fulgore!!!
Spesso il suo voler trasformare le sue giovani allieve nella "creme de la creme" della società equivaleva a voler creare doppi di se stessa e a voler vivere attraverso loro ciò che non le era possibile fare in prima persona: una storia d'amore, una guerra...
Lei che, superata ormai la trentina, cercava di riempire il vuoto del proprio nubilato con viaggi alla ricerca di idee nuove, ma, poi, fondamentalmente era una conservatrice, amante degli studi classici e sostenitrice di Mussolini e Hitler...

"Datemi una bambina a un' età influenzale e sarà mia per la vita"

Ma dedicare i suoi anni "migliori" alle sue piccole donnine in crescita non ha preservato Miss Brodie da ciò che quasi sempre accade quando si cerca di muovere i fili delle vite altrui...qualcuna, pur amandola, è riuscita a recidere quel filo...e a "tradirla".
Eppure nel cuore di ognuna delle ragazze del "gruppo di Miss Brodie" quegli anni fulgenti resteranno per sempre nella memoria e condizioneranno tutte le scelte da lì a venire.
Stile impeccabile e congegno narrativo perfetto che, nonostante i continui balzi temporali, riesce ad incastrare perfettamente tutti i tasselli, donandoti un'immagine limpida e luminosa di una donna irriverente, alternativa e coraggiosa, ma non abbastanza da vivere pienamente la propria vita senza interposta persona.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    16 Agosto, 2016
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Provincia intramontabile



Molto spesso andare a scovare in libreria (quella di casa) autori un po' dimenticati, può riservare piacevoli sorprese.
Piero Chiara scrive dipingendo il paesaggio che ha scelto con precisione di tratto, ti fa respirare le sue atmosfere, a volte goliardiche e frizzanti, a volte più cupe e decadenti.
Qui ci ritroviamo alle prese con due uomini, due reduci di guerra, con i loro vizi e debolezze, a navigare in un 'imbarcazione sul Lago Maggiore, tra acque calme e agitate, con donne libere e libertine...
Il tono apparentemente leggero e superficiale nasconde, in realtà, una più profonda introspezione psicologica dei personaggi.
La narrazione è spruzzata da una leggerissima sfumatura "gialla", che, in realtà, è funzionale a scandagliare più da vicino l'animo del protagonista più che ad innescare nel lettore la tensione tipica del genere.
La scrittura è un po' datata, ma assolutamente gradevole e musicale.
Si evince in Piero Chiara un certo amore per i piaceri della carne, per la debolezza dell'uomo di fronte alla bellezza femminile, ma senza mai cadere nella volgarità...si tratta più che altro di situazioni da commedia all'italiana.
Temistocle Mario Orimbelli è un personaggio che rappresenta benissimo un certo tipo di uomo italiano...furbo, fannullone, approfittatore, libertino e disonesto.
Nessuno meglio di Ugo Tognazzi avrebbe potuto interpretarlo nell'omonimo film.
Una lettura più che piacevole.
Un autore che, probabilmente, andrebbe rivalutato.
Si dice che Andrea Vitali sia, in un certo senso, il suo erede: personalmente credo che P. Chiara sia su un altro livello. Superiore.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    15 Agosto, 2016
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Tremendamente attuale...



Illuminante.
Geniale.
Irriverente.
Satirico.
Allegorico.
Disarmante.
Sarcastico.
Inquietante.
Amaro.
Realistico.
Potrei continuare per ore...
Una favola amara che ci racconta e descrive lo scenario di qualsiasi rivoluzione e forma di totalitarismo, ma che attraverso l'allegoria ci riporta fedelmente fatti e accadimenti della Rivoluzione sovietica, in cui ad ogni personaggio del romanzo corrisponde un preciso personaggio storico.
Ci sono proprio tutti: a partire dallo Zar Nicola II (Il signor Jones), passando per Lenin e Marx (Il Vecchio Maggiore), Stalin (Napoleon), Trotsky (Palla di Neve), Stachanov (Gondrano)...non mancano neanche i chiari riferimenti ai giornali propagandistici governativi (Clarinetto), le masse facilmente manipolabili dagli slogan (le pecore), la gente comune sfruttata e ingannata dalla dittatura (Berta), la posizione della Chiesa Russa Ortodossa (Il Corvo Mosè), la polizia governativa con la sua politica del terrore (i cani), l'aristocrazia (la cavalla Mollie)...
Sinceramente credo che leggere questo romanzo senza andare a rispolverare le pagine di storia, non permetta di comprendere in pieno tutti i significati e i messaggi che Orwell ci dà...e sarebbe un peccato non farlo.
Anche se, alla fine, la morale della favola è applicabile anche a contesti differenti e molto più vicini a noi.
L' umanizzazione dei maiali è la rappresentazione lampante di come la sete di potere trasformi chiunque riesca a sedersi sulla giusta poltrona, dimenticando tutto quello per cui si era combattuto.
Per cui alla lista degli aggettivi iniziale, mi sento di poter aggiungere anche:
Attuale.
Tremendamente e tristemente attuale.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    14 Agosto, 2016
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Presto arriverà la Primavera...



Un nuovo autore, un nuovo amore.
Sì, perché non avevo ancora (ahimè) letto nulla di suo, per fortuna però, non è mai troppo tardi per incontrarsi...ed innamorarsi.
Fante ci regala questo romanzo dal sapore autobiografico, ci racconta quanto sia stato duro essere figlio di immigrati in America, nascere in una famiglia povera, cattolica, dove la povertà la percepisci in ogni cosa, la respiri dal naso e dalla bocca, ti invade...e non ti abbandona più, un po' come la fame, un po' come il marchio di "straniero".
Ma lo fa attraverso lo sguardo di un quattordicenne, quindi con la leggerezza e la rabbia tipiche di quell'età...nessun pietismo, nessun sentimentalismo gratuito.
Arturo Bandini è un ragazzino con il desiderio di essere diverso da quel che è, lo struggimento di un amore adolescenziale non corrisposto, la vergogna di essere povero e la passione per il baseball...combattuto tra l'adorazione e l'odio verso il padre, ai suoi occhi forte e solido, ma anche causa del dolore di sua madre.

"Sei un uomo in gamba, papà! Stai uccidendo mamma, ma sei magnifico!"

Svevo Bandini è un "uomo" orgoglioso, orgogliosamente italiano, tutto d'un pezzo, rabbioso e arrogante anche di fronte ai fallimenti di una vita che non gli ha mai regalato nulla, se non una moglie devota e innamorata che, probabilmente, neanche merita...
Maria è una donna dalla fede incrollabile, la sua dignità supera qualsiasi mancanza materiale, il suo dolcissimo essere madre e il suo amore sconfinato e "ingiustificato" per un uomo granitico e indegno...(o forse solo disperato) la rendono forte, ma non immune al mal d'amore.
Ed eccoli lì, a combattere ogni giorno contro una vita che non li risparmia di nulla, ad aspettare Primavera... Svevo per poter lavorare, Arturo per giocare su un campo da baseball, Maria per tornare a credere nell'amore...tutti in attesa di un nuovo rifiorire, desiderosi di giocare ancora una partita col destino.

"Presto arriverà la primavera, – disse.
– Certo! –
In quello stesso istante, qualcosa di freddo e minuscolo gli sfiorò il dorso della mano. Lo guardò sciogliersi, un piccolo fiocco di neve, a forma di stella..."

Ed eccola qui, la speranza, la voglia di crederci ancora...

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    14 Agosto, 2016
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Nelle mani sbagliate...



Ho iniziato a leggere questo libro perché di questa giovane scrittrice avevo sentito parlare piuttosto bene.
Leggendo le prime pagine mi sono sentita subito catapultata ai miei 17/18 anni...e la ragazzina che è in me ha iniziato a fare le capriole, ma la lettrice (sempre che è in me...) ha iniziato a storcere il naso, quella snob...????
Per qualche momento tutto è tornato...quei timori (e tremori), quelle paure, quelle incertezze...(non che alle soglie dei quaranta non ce ne siano, ma sono meno lievi...), però si sa, il momento "nostalgia da liceo" dura poco...

Amai
Amai trite parole che non uno
osava.
M'incantò la rima fiore amore,
la più antica difficile del mondo.

(U. Saba)

Ecco, questo romanzo è un po' così...non inventa nulla di nuovo, è una rima baciata un po' trita e ritrita, come "fiore-amore", ma, alle volte, non serve necessariamente soprendere con nuove parole, basta trovare un significato onesto a quelle già usate.
La Carcasi lo ha fatto...certo, se hai 16 anni, amerai molto questo libro...se ne hai quasi 40, molto molto meno.
Ed è giusto così.
I libri assumono il loro pieno significato solo quando sono nelle mani giuste.
E non erano le mie.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    14 Agosto, 2016
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La Signora A.



Scrivo sull'onda dell'emozione...e sì, sono una stupida, lo so...ma sto piangendo.
Il finale di questo piccolo romanzo mi ha fatto capitolare...ed anche un po' ricredere sull'impressione generale che ho avuto del libro.
Per una buona metà l'ho trovato un po' piatto, forse anche un po' noioso...triste, ma di una tristezza distaccata, non coinvolgente.
Poi recupera terreno e sfocia in pagine decisamente toccanti.
È il racconto di una duplice malattia, una "fisica" ai danni di un'anziana governante e una "emozionale" ai danni della coppia per cui tale donna lavorava.
Sì, perché senza il collante di questa donna saggia, tradizionalista e d'altri tempi, marito e moglie si accorgono di non riuscire più a fondersi l'un l'altro, senza il suo sguardo che veglia su di loro, si sentono perduti.
Viene a galla che l'umore "nero" di lui (nero come la malattia),così carico di malinconia e "l'argento di lei", pieno di vitalità, luce, riflessi, non riescano più ad amalgamarsi, si ritrovano al limite del baratro...e non si rendono conto che la forza, il coraggio e la tenacia della loro balia adesso è anche parte di loro stessi.
L' evolversi della malattia della Signora A. è stato per me come un mattone pesante posato sul petto, mi sono sentita opprimere...forse perché non ero preparata ad affrontare un tema di questo tipo.
Mi sono rivista moltissimo nel rapporto dei genitori nei confronti del loro bambino...ed è proprio lui, alla fine, che ha fatto cadere tutte le mie resistenze.
La scrittura di Giordano, rispetto a "La solitudine dei numeri primi" (che ho amato molto) e "Il corpo umano" (un' occasione mancata), qui è più matura, più intima, più ricercata.
Non è un libro di cui mi sento di consigliare la lettura...su di me ha avuto un effetto inaspettatamente emozionante, ma, a voler essere obiettivi, non è un romanzo che lasci il segno.

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Classici
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    13 Agosto, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

Le mie notti finirono un mattino...



Sono sempre in grande difficoltà di fronte a libri come questo, indegna anche solo di scrivere due righe, perché su "Le notti bianche" sarà già stato detto tutto (e sicuramente meglio di quanto possa fare io).
Ma, allo stesso tempo, come far tacere questo fiume di sensazioni che mi si agita dentro?
Come ignorare lo struggimento che provo in questo momento?
Ho la testa piena di domande, dubbi...e il cuore denso di emozioni a cui dare un nome.
Possono davvero 4 notti riempire la vita di un uomo abituato a vivere soltanto dei suoi sogni?
Ma, soprattutto, mi chiedo...cosa sia meglio?
Una vita di solitudine popolata da sole fantasie o una vita vissuta percorrendo e ripercorrendo pochi momenti reali, ma dal forte sapore amaro?
Non porta forse all'autodistruzione tutto questo?

"Sarà triste restare da solo, completamente da solo, e non avere nemmeno cosa rimpiangere - niente, assolutamente niente...perché tutto ciò che ho perduto, tutto ciò, era tutto un niente, uno stupido tondo zero, era solo un sogno!"

Una San Pietroburgo notturna e suggestiva, una panchina che ha assistito ed accolto parole d'amore, lacrime, mani dentro mani e promesse non mantenute, hanno contribuito a farmi vivere "dentro" queste pagine, ad amare l'amore di lui, così imploso eppure così totale, e a biasimare lei, così confusa, impaurita e dispensatrice involontaria (o forse no?) di illusioni.

"La mie notti finirono un mattino".

E con questa frase Dostoevskij uccide anche l'ultimo barlume di speranza di un sognatore, destinato a farsi bastare per sempre un solo minuto di non amore, ed essere anche grato a colei che il di lui amore non ha saputo amare.

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Romanzi
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    13 Agosto, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

Trasparenza totale? ...no, grazie!



Una lettura, questa, che esula un po' dal mio genere letterario, non amando io la fantascienza, la distopia, il futurismo e quant'altro mi porti troppo lontana dal mondo reale, ma questo romanzo pur rientrando in tale genere tratta argomenti piu che mai attuali, certo amplificati ed esagerati nei numeri, ma non poi così lontani da noi...
L'autore ha immaginato, in un futuro non troppo distante, una fetta della società completamente votata alla tecnologia, ai social, alla condivisione, alla trasparenza e alla totale rinuncia del buonsenso e della ragione.
Un rapido avanzare del predominio della tecnologia, che mascherandosi da "aiuto" per la società, in realtà non fa altro che monopolizzarla, annientando qualsiasi diritto di essere anomino, fuori obiettivo.
Ci troviamo di fronte ad una protagonista completamente plasmata, inebetita, paladina dell' "essere online" a tutti i costi e schiava del "piacere a tutti".
Con tutto ciò che segue e ne consegue.
Quello che mi è piaciuto, però, nel romanzo, è il fatto che riesca a far arrivare forte e chiara la sua posizione "contro", proprio attraverso la descrizione enfatica di un mondo super tecnologico e "trasparente".
Attaverso il trionfo dell'essere sempre in vista, del conoscere tutto di tutti, arriva l'orrore derivante da questa totale assenza di privacy, considerata un "furto" nei confronti delle altre persone.
Il contraddittorio emerge in poche occasioni e attraverso pochi personaggi, ma quando accade ha una grande forza incisiva.
Trovo che il libro non avrebbe potuto avere un finale diverso da quello che Eggers gli ha dato, senza cadere nell'ovvio...e l'ultima, l'ultimissima frase è davvero agghiacciante.
La scrittura non è "alta", ma io trovo che sia assolutamente in linea con l'ambientazione e con il tema affrontato.
Inutili i paragoni con Orwell e il suo "1984": viaggiano su binari diversi, sia per la qualità stilistica, sia perché in uno troviamo un mondo tiranneggiato da un potere politico, nell'altro il monopolio e il totalitarismo provengono dal potere economico e dal "progresso scientifico".
Un romanzo che scorre bene e che, prima che sia troppo tardi anche per noi, sarebbe bene leggere.

"Non siamo destinati a sapere tutto, Mae. Hai mai pensato che forse la nostra mente è delicatamente calibrata tra il noto e l’ignoto? Che la nostra anima ha bisogno dei misteri della notte e della chiarezza del giorno? Voi state creando un mondo di luce sempre accesa, e io credo che essa ci brucerà vivi, tutti quanti."

Questo passaggio mi piace molto...e racchiude un po' tutto il senso del romanzo.

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Racconti
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    11 Agosto, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

Istantanee di vita...



37 racconti asciutti, diretti, precisi.
Attuali.
Racconti che dicono tanto, eppure, ti lasciano sempre...in attesa.
Carver ti fa entrare dentro uno squarcio di storia, dentro un "momento" di vita, magari un attimo prima o un attimo dopo qualcosa di importante, ma mai durante...ti fa guardare da vicino dinamiche (perlopiù di coppia), piccoli dettagli, frammenti apparentemente trascurabili, e all'improvviso, proprio quando tu sei coinvolto, ti abbandona...ti lascia il tempo e lo spazio per elaborare ciò che hai letto, per dargli un senso, per prendere da ogni racconto quello di cui tu hai bisogno in quel momento.
Non esistono finali, né belli, né brutti...tutto è sospeso, ma di certo non manca una certa tensione di fondo.
I personaggi sono prevalentemente cinici, poco emozionali,...l'alcool è il comune denominatore di tutti i racconti, fa da sfondo a momenti di grande solitudine, disperazione, violenza, malinconia, rassegnazione...
Entri nelle case dei suoi proragonisti, ti siedi sul loro divano e ascolti i loro dialoghi, così essenziali eppure così densi di significati, spesso non detti, celati dietro frasi lasciate a metà o taciute del tutto.
Ci sono stati alcuni racconti che mi hanno fatto male (nel senso bello del termine, masochisticamente parlando), uno su tutti "Una cosa piccola, ma buona"...straziante nella sua compostezza...su quelle pagine ci ho lasciato un pezzettino di cuore.
E poi "Cattedrale"...meraviglioso: può un cieco insegnare a "guardare" a colui che gli occhi li ha buoni? Sì, può...Carver ci dimostra che può!
E poi una piccola chicca, "L'incarico", dove vengono ripercorsi gli ultimi giorni di vita di Cechov, attraverso lo sguardo di un giovane cameriere d'albergo.
Mi sembra di aver capito che questa raccolta sia composta da racconti selezionati dallo stesso Carver, nella versione originale, integrale, prima di passare sotto le forbici dell'editore.
C'è tutta una questione intorno al "minimalismo" di Carver e al suo rapporto con l'editor Gordon Lish, che tagliava per oltre il 70% i suoi scritti, snellendoli...e quanto questo non fosse gradito all'autore stesso.
Comunque mi piace, questo autore mi piace.
È come un fotografo delle piccole cose, non di paesaggi e orizzonti lontani, ma di particolari...non so come spiegare, ma leggendo i suoi racconti è come se visualizzassi delle istantanee: una ruota di bicicletta, un bicchiere su un tavolo, un vaso con una pianta avvizzita, un letto sfatto, un posacenere sporco, una vestaglia da camera appesa ad una sedia, una torta mai mangiata...
Così. E non è poco.

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Romanzi
 
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3.0
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    11 Agosto, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

Puglia sí... (ma non è così! )



Dopo il nichilismo della Teller, lo spaesamento della Kristof, i pugni nello stomaco della Oates e la ferocia fredda e analitica di Saramago, avevo bisogno di una boccata di aria fresca...
Ed ecco qui un romanzo carino, fresco e leggero, come un sorso di aranciata bevuto su una terrazza di fronte al mare d'estate.
"Polignano a mare" è la vera protagonista del libro...(e chi c'è stato sa benissimo che si tratta di un posto incantevole, magico e suggestivo)...e già questo depone a favore del romanzo, in più mi ha divertito tantissimo la descrizione dei matrimoni "very kitch" a cui a volte assistiamo, soprattutto qui da noi, al sud, e nei piccoli paesi in particolare.
Ma attenzione a non pensare che sia un ritratto assoluto della Puglia, perché non lo è...direi che i personaggi sono un po' delle macchiette, divertenti, ma caricaturali.
Disimpegnato, ma ben calibrato nell'alternare il frivolo piu assoluto (e tanti, tantissimi luoghi comuni) a qualche bel passaggio poetico.
Una lettura colorata, piena di profumi e di sapori genuini.
Era esattamente quello di cui avevo bisogno, quindi, ha fatto il suo dovere!

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