Opinione scritta da 68

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68 Opinione inserita da 68    20 Agosto, 2022
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Quale definizione di se’?

….” Gli Spatriati, come qui chiamano gli incerti, gli irregolari, gli inclassificabili, a volte i balordi o gli orfani, oppure celibi, nubili, girovaghi e vagabondi, o forse, nel caso che ci riguarda, i liberati”…

Una dimensione duale, di amicizia, di amore, di crescita, una relazione maturata all’ interno di famiglie tenute insieme da patti dolorosi, dal non detto, due protagonisti ugualmente diversi, opposti che si attraggono, una dipendenza che lotta oltre il senso di crescita e di abbandono.
Il romanzo di Desiati, recente vincitore del premio Strega, inserisce la vita di Francesco e Claudia in un contesto allargato, di condivisione e di lontananza, alla ricerca di una zona di comfort, personale e relazionale, l’ infanzia segnata da una fragilità persistente.
L’ intreccio erotico-sentimentale dei loro genitori, ( la relazione improvvisa e totalizzante tra la madre di Francesco e il padre di Claudia ), segna l’ inizio di un cammino diverso, che ridefinisca il proprio essere, unito alla sofferenza per una perdita inaccettabile, rincorrendo il fantasma di un affetto negato.
L’ infatuazione di Francesco per Claudia, sin dall’ adolescenza, osteggiata da un’ aura di irraggiungibilità, da una certa ritrosia, dalle proprie debolezze, dallo sfacelo famigliare, dagli amori fragili di lei, oltre che da un futuro che la porterà lontano da casa, prima a Milano e poi a Berlino, evolve in uno stato di inerzia, in attesa di un futuro che possa cambiare, di sentirsi vivo, tuttora ancorato alla città natale ( Martina Franca ).
Un giorno, aspirando a raggiungerla, vorrà essere quello che vuole essere, divorare la vita, oggi è posseduto da ambizioni annebbiate, guarda al futuro con paura e possibilità, al contrario di Claudia, guidata da speranza e determinazione.
Una relazione da lei declinata in uno stato di complicità, un afflato ispirato da musica e poesia, ma a diciannove anni non si può conoscere l’ amore, un percorso a ostacoli, lontananze presenti, un viaggio sentimentale alla scoperta della propria sessualità, per giuoco, per spirito di rivalsa, per compensare un senso di vuoto con la speranza di rivivere il primo amore.
Sopravvive uno spazio interiore che oscura e sostituisce il proprio luogo natio, la Puglia e le sue tradizioni, che li fa sentire a casa altrove, un luogo in cui riporre se’ stessi e le proprie fragilità.
E allora Francesco attende una telefonata di Claudia e auspica il suo ritorno, il senso di una vita vissuta nella reciproca lontananza, due solitudini perfette, ad attenderlo l’ unica patria in grado di riconoscerlo.
Come definire il loro afflato, un istinto condiviso, una forza solidale che …” fa annusare i pensieri l’ uno dell’ altra”,,,? E’ molto più sottile e sofisticato dell’ innamoramento, …” una nazione libera e indipendente che non ha nome “….
Si può lasciare la propria terra per ritrovare se stessi, una migrazione inversa, spatriare per riappropriarsi del senso famigliare, dell’ amore, di tutto ciò che ha un senso di vita. Finalmente a casa lontani da casa, anche se qualcosa è cambiato, e in quella città dove tutto è possibile nulla è più come prima e non può esistere un amore non condiviso.
La definizione di amore cambia, la fuga e l’allontanamento dalle proprie famiglie non serve quando sono loro a non essere mai uscite da noi, marchiate per sempre sulla nostra pelle.
Un romanzo che ci parla di vite irrisolte, del senso di identità, di appartenenza, del desiderio di essere, di amare ed essere amati, delle proprie radici e dello sradicamento da esse, della voglia di crescere, della ricerca di libertà. Tanti temi e sfaccettature, ma tutti irrisolti, complicato definirne il carattere dominante, oltre uno stato confusionale imperante. Partenze, assenze, ritorni, fughe d’ amore, inclinazioni sessuali, solitudine, condivisione, vicinanza, alla fine non si esce da un cerchio involuto di precarietà, un capogiro emozionale in una giostra di sentimenti variopinti.
Permane il desiderio di fuga per tornare a essere, ma da che cosa esattamente e da chi, da se’ stessi, dagli altri, dal passato, da una vita condivisa, dalle proprie paure?
Gli spatriati continuano ad annaspare in un microcosmo di incertezza e di precarietà, in parte voluto, per ritornare all’ origine, da vincitori e da sconfitti, forse liberati, non è dato saperlo.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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68 Opinione inserita da 68    16 Agosto, 2022
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Fuga claustrofobica

….in quel momento l’ unica cosa che gli riempi’ la mente fu la semplice idea che quella era la vita e nient’altro altro, e che la vita, come il Karma, andava sempre avanti, infinita e ingiusta in ugual misura, come tutte le cose prestabilite ma impossibili da prevedere….

A Bangkok, dove tradizione e storia sono sopraffatte dai cambiamenti della contemporaneità, una città piena di indesiderabili, truffatori, forestieri e girovaghi di professione, stranieri ( farang ) viziosi invisi agli indigeni, c’è un luogo non luogo, il Kingdom, epicentro del romanzo di Lawrence Osborne, un complesso lussuoso covo di residenti stranieri e famiglie dell’ alta società, ….” un angolo di opulenza upper-class nascosto dentro uno sfacelo dimenticato “….
Quattro torri di ventun piani, separate da porte di vetro, inaccessibili dall’ esterno, rifugio di misteri e paure, un mondo di spiriti in cui immaginare lusso e discrezione, chiedendosi chi sono i propri vicini, chi si nasconde dietro i semplici conoscenti, che cosa aspettarsi da una vita siffatta.
Sarah, una giovane americana in fuga da New York con duecentomiladollari indebitamente sottratti a una scrittrice di fama di cui è stata la segretaria, entra in questo microcosmo di attesa braccata dalla paura, un fantasma vivente in uno dei pochissimi luoghi dove una donna bianca e sola può sperare di passare inosservata.
L’ incontro con altre tre residenti, come lei straniere annoiate, avvolte da un alone di mistero e indefinitezza, da’ inizio a una frequentazione, per solitudine, interesse, amicizia, difficile dirlo, di certo per riempire un senso di vuoto nella sospensione viziosa del presente, tra lusso e modernità, privilegi di classe, il futuro da scoprire, il passato un’ incognita.
Ciascuno, a modo suo, inscena una trama personale, dichiara di essere quello che non è, un giuoco fragile di incastri destinato a crollare al primo soffio di vento. Braccati da un senso di soffocamento ci si addentra nel labirinto di vetro e nella virtualità del Kingdom, estranei a ciò che accade all’ esterno, generando una fiction a tinte forti e una trama degna di una spy story.
Dopo una prima parte che tesse la rete dei protagonisti, la costruzione di relazioni possibili e la rappresentazione di un mondo siffatto, sempre con sottile sarcasmo, il cuore del racconto sovverte ogni ipotesi precedente, svelando un reale diverso e virando in una ghost story.
Anche Sarah racconta la sua verità’, impegnata in una guerra tra lei e le classi opulente dove tutte le astuzie sono legittime, i colpi bassi giustificati, in fuga da un mondo che la tormenta.
Quando là fuori i disordini e i sovvertimenti politico-sociali imperversano, braccati e isolati all’ interno del Kingdom, senza protezione, l’ incertezza esplode, la scena si fa buia e ci si ritrova a tessere una nuova porzione di storia che ci ricorda ” Il condominio “ di Ballard, anche se lì la trama claustrofobia era funzionale al senso del racconto.
Le menzogne costruite collassano, verità e fantasia si fondono, alcuni protagonisti dissolti, altri con un’ idea di fuga, mentre un nemico invisibile ( e forse più di uno ) tesse la propria trama nell’ ombra.
Il romanzo di Osborne è accurato nella rappresentazione dei vizi e delle virtù di una terra a lui ben conosciuta, la prosa fluente ma lo sviluppo della trama piuttosto statico e la costruzione e rappresentazione dei personaggi non sempre efficace, relazioni e situazioni si ripetono, la seconda parte insegue un epilogo piuttosto morbido, caotico, nebuloso, indirizzato alla ineluttabilità di una vita indecifrabile.


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68 Opinione inserita da 68    12 Agosto, 2022
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Il viaggio della consapevolezza

Un viaggio sulla piccola isola di Aburi, ai confini dell’ arcipelago giapponese, in compagnia di una fragilità che insegue l’ ombra del suicidio paterno.
In questo luogo poco popolato e con tradizioni consolidate, tre giovani inconcludenti ( Ryosuke, Kaoru, Tachikawa ) accettano un lavoro a termine, una terra di pesca, di bovini e di capre ( pinza ), immersa nello splendore della natura selvaggia, gli stranieri trattati con sospetto e ritrosia.
Ryosuke, il protagonista, un ex cuoco sopraffatto dall’ impulso suicida, vive lo sbiadito ricordo del padre in un innato senso di sconfitta, nauseato da un mondo ostile e dalla propria inconcludenza, con una certa ritrosia a parlare di se’.
Il suo tentato suicidio sfocerà in una improvvisa voglia di vivere, chiedendosi la ragione di un tentativo siffatto e che cosa a suo tempo, quando era ancora bambino, aveva spinto il padre al suicidio, vittima del suo stesso sentimento.
La fine scongiurata svelerà un nuovo inizio, la permanenza sull’ isola di Ryosuke e dei suoi due compagni di viaggio, un lavoro duro durante il giorno, la sera un tempo in cui riflettere sul vero motivo della propria permanenza, ricercando nel volto di uno sconosciuto ( Hashi ) le parole della madre, un uomo indispensabile per definire il passato e proseguire nei giorni a venire.
Da lui Ryosuke attende una risposta su quello che è stato , il presente un complicato cammino alla ricerca di se’, la vita sull’ isola ostile, di certo non un posto per giovani.
Il tempo svelerà un’ attrazione irrinunciabile per quella porzione di terra e per le sue bellezze naturali, Ryosuke si nutrirà del legame con Hashi, spinto dal desiderio di riuscire laddove il padre aveva fallito, produrre il formaggio di capra nonostante l’ ostilità dei pochi abitanti e le condizioni climatiche avverse.
Un viaggio di scoperta e di crescita, di condivisione e di appartenenza, perché ritornare su un passato nefasto se il presente ha ancora da essere scritto, in fondo l’ isola conta relativamente se paragonata al valore della propria esistenza e quando i giorni scorrono pensando a ciò che si è perso.
Ryosuke vorrebbe portare a compimento quello che il padre aveva lasciato, realizzarne la memoria e riscattarne il sacrificio, ma i pericoli e le delusioni incombono e c’è sempre quel demone interiore che lo tormenta. Dove si trova lo spirito paterno, l’ io che crede di essere esiste veramente o è solo l’ illusione della propria presenza?
Un senso di fallimento lo sovrasta, Hashi gli e’ amico e guida paterna indicandogli l’ importanza delle sconfitte e la fortuna del fallimento mentre la perseveranza può generare scoperte inattese e, quando tutto pare perduto, creare legami insospettabili e una nuova armonia, un senso profondo di condivisione con se stessi e il mondo.
Un romanzo di formazione tardiva che possiede la leggerezza di dialoghi fitti e irriverenti, l’ attesa e il silenzio pensato di certa cultura giapponese, tratti ed elementi della tradizione locale, il recupero di immagini della memoria, sprazzi di bellezza assoluta immersi nella vaporosa luce di una natura che tutto sovrasta e ricopre.
L’ individualismo e il pessimismo cedono alla condivisione e alla costruzione di un senso, per se stessi e per la memoria degli scomparsi, un sogno che a un certo punto pareva dissolto, il presente un amalgama in cui tutti gli elementi si fondono.
La prosa nel fluire del racconto acquisisce piena consapevolezza, le descrizioni si fanno poetiche, le riflessioni profonde, la voce interiore richiama il senso di appartenenza, l’ uomo parte di un sistema armonico, quella vita a lungo abbandonata a se stessa finalmente rivestita di un senso.


…Oltre quel gusto vide il muso di Hanako. Anche i saltelli di Puno gli vennero alla mente. Gli occhi lucidi e splendenti della maestra, e la borsa da postino di Toshiba, e i volti e le parole di Hashi, di Tachikawa e di Kaoru gli tornarono alla memoria e sparirono di nuovo, uno dopo l’ altro. E anche i giorni passati a trasferirsi da un posto all’ altro con sua madre. Lo sfocato volto sorridente di suo padre. Chiuse gli occhi e si strofinò la faccia con un gesto rapido. Allora si rese finalmente conto che stava piangendo. Il pezzato gli si avvicinò piano.Gli si strusciò addosso. Ryosuke lo abbracciò stretto….

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68 Opinione inserita da 68    08 Agosto, 2022
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Eloquio smisurato e ammorbante

“ Nova “ è un romanzo piuttosto semplice da definire, con l’ impressione iniziale e la conferma finale di una certa fragilità e inconsistenza.
La sua prosa pare uscita da un accurato lavoro di cesellatura, colta, raffinata, poco colloquiale.
Un uso elaborato della lingua all’ interno della lingua stessa forse pensato in funzione della trama e del mondo cui appartiene, un microcosmo di raffinatezza, di certo non funzionale a un timbro espressivo e poetico, un linguaggio onnipresente che fagocita anche le situazioni più banalmente descrittive, l’ esito è un elaborato in eccesso che costringe il lettore a una semplificazione necessaria, difficile da gustare e da digerire, artificioso, scostante, protagonista unico e irriverente che contribuisce a mantenere un certo distacco con il narrato.
La trama è scarna, semplificata, i turbamenti irrisolti di un neurochirurgo chiamato a salvare vite umane in una professione che si rapporta con il mistero insondabile del cervello umano di cui la scienza può rispondere solo in parte, un organo dai parametri non quantificabili, all’ interno del quale si esprimono esiti di emozioni varie e plurimi comportamenti insondabili.
Davide, il protagonista, dovrà dare risposte al se’ professionista e al se’ individuo, alle proprie paure e insicurezze, al pensiero della morte, a un senso di incompiutezza, di debolezza e vigliaccheria di fronte ai quali cercherà di ricostruirsi, ridefinendo i confini tra bene e male, giustizia e violenza, riappropriandosi del proprio “ potere “, chiedendosi chi sono coloro che lo circondano e che ama, famigliari, amici, parenti, un percorso che si incrocia e sfocia casualmente nella complicata relazione e amicizia con Diego, personaggio bizzarro, un Monaco zen che ha lasciato un passato di spaccio e violenza.
I personaggi sono poco credibili e piuttosto scontati, il chirurgo profondamente fragile, la moglie responsabilmente vegana, il figlio adolescente innamorato, il vicino di casa odioso e prepotente, il primario con poteri divinatori, il Monaco zen onnisciente, non inseriti all’ interno della trama, essenze non essenze ricoperte di individualismo.
L’ ambientazione è piuttosto scarna, per non dire assente, le relazioni scontate e ripetitive, certe situazioni imbarazzanti.
Alla fine della lettura che cosa rimane? Poco o niente, se non un esercizio asfittico di bello stile che si bea di se’ stesso ricoprendo pagine e pagine.
“Nova “ è stato tra i finalisti del premio Strega, non ne conosco le ragioni e non le comprendo, più probabilmente i requisiti di selezione sono piuttosto fragili o rispondono ad altro.
Questo breve commento manca del suo aspetto necessario, l’ addentrarsi all’ interno del romanzo e dei suoi significati, di tutti i contenuti e di ciò che essi hanno destato, non si parla di profondità, di narrazione, di trama, di personaggi, di relazioni, di sentimenti, di poetica, ci si limita a sottolineare tutto quello che evidentemente non c’è ma che, paradossalmente, ne costituisce e riflette l’ essenza più vera.

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68 Opinione inserita da 68    04 Agosto, 2022
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Amore molesto

…” Questa è la storia di un veterinario e della sua celestiale diletta “…

In un lunghissimo monologo per stomaci forti che sgretola ogni certezza, Kurt, la voce narrante, un veterinario cinquantenne, si apre al nudo racconto di una torrida estate trascorsa nella bigotta campagna olandese.
È qui che ha origine la propria insana e irrinunciabile passione per una strana quattordicenne che crede di potere volare, nata lo stesso giorno di Hitler, che dialoga quotidianamente con Freud, si incolpa della sciagura delle Torre Gemelle, vive di musica e di buona letteratura, che non parla molto di se’ se non in chiave poetica, di libri, di film, di canzoni ma non della propria vita vissuta con il fratello e il padre, che nasconde il dolore e il senso di colpa di una perdita incalcolabile, che soffre dell’ assenza materna e di un padre affettuoso ma rigido, che vorrebbe lasciare la fattoria in cui è cresciuta anche se vi è affezionata.
È un soliloquio lucido nella ricostruzione dei fatti, detestabile negli esiti e nei contenuti, la disgregazione di una famiglia e di un matrimonio, l’ accusa di abuso sessuale, spietato e frustrante nel mostrare i sentimenti tronchi di una vita ancorata all’ origine, soggiogata da una madre oppressiva, patologica, vendicativa, epicentro di incubi, di tutto quello che dalla propria genitrice non ci si aspetta, quell’ amore gratuito e disinteressato che indirizza alla gioia di vivere.
Il protagonista vaga in una dimensione a metà fra il sogno e l’ incubo, la consapevolezza e il senso di colpa, per quello che ha fatto e ha saputo distruggere, ossessionato da una passione irrefrenabile, schiavo di pulsioni carnali ma con l’ intento di proteggere una creatura fragile e bisognosa di cure, il desiderio nascosto di salvare se stesso e l’ unica forma di amore che conosca, quell’ urgenza emozionale ignara dei sentimenti.
Nella “ sua diletta “ Kurt immagina una giovinezza non vissuta per colpa della madre, un adulto-bambino e un bambino-adulto, in lei rivede là possibilità di tornare a quel tempo, di giocare, dimenticando i gelidi anni della propria infanzia, un giuoco sopraffatto dai propri desideri di adulto.
Di certo la ragazza e’ una creatura singolare, sfuggente, illeggibile, strana, che sembra essere altrove, vivere in un mondo di fantasia, smarrita ma amabile, con un senso interiore di perdita, senza un luogo dove sentirsi a casa, che assapora il mondo all’ interno della propria testa pur aspirando a un forte desiderio di visibilità.
È educata, gentile, a metà tra l’ essere e l’ apparire, nasconde un nitido abisso dietro il proprio io recitato, un vuoto sconfinato che si specchia nell’ altro per riempire se stessa .
Tra i due cresce un amore inderogabile, una diversità condivisa in un respiro unico e necessario, voce lontana dal coro, un senso dell’ esserci e del sentirsi vivi che sfocia in una gelosia totalizzante e in un reale impossibile.
L’ amore e il senso unico di un amore, intenso e mutevole, in attesa di un Godot che scacci solitudine e dolore, un amore senza il quale ci si potrebbe ammalare ma che per l’altro può essere l’ inizio della malattia.
Marieke Lucas Rijneveld si conferma, dopo “ Il disagio della sera” ( 2019 ), autore di grande talento accompagnato dalla propria singolare storia personale.
Durante la lettura si ha l’ impressione di varcare la soglia della semplice narrazione per avventurarsi in un universo parallelo, cosparso di luci e di stelle, ma anche di ombre e di incubi, un luogo misterioso e impervio che risponde a un’ inderogabile esigenza di interiorità, laddove sofferenza e dolore hanno forgiato forza e fragilità e una creatività mai banale mostra una notevole capacità introspettiva .
Un testo aspro e crudele che rimanda attimi di dolcezza e poesia a chi oltrepassa la semplice soglia della narrazione, quella caleidoscopica ridda di citazioni, rimandi, ricordi, sogni, incubi, un rimescolio di sensazioni forti che vale la pena assaporare fino all’ ultima goccia.

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68 Opinione inserita da 68    31 Luglio, 2022
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Frammenti di solitudini….

La famiglia, da sempre oggetto di dibattiti e dissertazioni, indagini psicologiche e sociologiche su base storica, creazioni letterarie, culla di misteri irrisolti e distanze incolmabili, per qualcuno semplice convenzione sociale, per altri origine di ogni male, epicentro di amore, comunanza e condivisione ma anche di odio, ingiustizie, segreti, ricatti affettivi.
Quale valore oggi, di certo questo romanzo di Claudio Coletta, che si avvale di una scrittura asciutta, diretta, lineare, si addentra in un tema difficile e controverso, per non dire insondabile, la ricerca di un senso all’ interno di una disgregazione famigliare accettata ma non condivisa, scoperchiata da un lutto improvviso che riporta a misteri e ricordi di un’ infanzia monca e tortuosa.
La fine di una vita, tre fratelli doverosamente riuniti di fronte alla salma paterna, nessun preavviso, emozione, il fatto compiuto, il presente ricoperto di silenzio, attesa, indifferenza, vite naufragate, il desiderio e la necessità di essere altrove.
Alessandro, il primogenito, non si è mai sentito amato, un ingegnere trapiantato al nord che in una sola giornata ha perso la moglie Carla, il lavoro, il proprio padre, un matrimonio frantumato da assenze e tradimenti, desideri infranti in un senso di grandezza dissolto.
Silvia, la figlia di mezzo, è sola e innamorata del proprio lavoro, il mistero di un antico affresco da lei attribuito a un grande maestro le rievoca l’ assenza dell’ amore materno, una vita frammentata e controversa con una figlia da non lasciare sola, il senso di colpa per non avere assistito alla morte del padre, perché ….” una figlia deve esserci, fino alla fine “….
Gabriele, il più piccolo, fragile e sbagliato, un cocainomane naufragato nella propria dipendenza e nel disastro economico conseguente, che sa di avere sempre deluso il padre, anche oggi, abbandonandolo di fronte alla morte, ma anche l’ unico ad averlo sopportato, a non essere partito, ad essergli stato vicino fino alla fine. Avrebbe tante domande da porgli, consapevole di avere desiderato che smettesse di soffocargli la vita con la sua presenza, che arrivasse questo momento, e allora come giustificare il senso di vuoto che vive dentro?
Vite soffocate da obblighi, rimpianti, ansia, dolore, indifferenza, risposte negate, un peso dentro e un tarlo, quella figura materna prematuramente scomparsa e che improvvisamente ritorna, come un quadro eroso dal tempo da riportare allo splendore primario, una giovane donna prematuramente sottratta alla quiete domestica, partita per non fare ritorno, dissolta nella nebbia di una presunta malattia tra lettere della memoria, una melodia dolce e malinconica, fotografie che testimonino altro,
Inizia un percorso della memoria, come sono potuti naufragare i legami fraterni, semplici circostanze, incomprensioni, differenze incolmabili, vite altrove.
La seconda parte del romanzo vive la necessità del presente nella scia del tempo perduto, declinando l’ introspezione e l’indagine psicologica a favore della trama, una suspance che esige una soluzione e un senso, l’ idea di un amore negato, di una sofferenza protratta, l’ impossibilità di una vita in un ambito famigliare siffatto, quello che pare non è come sembra.
E allora si svela una verità acclarata, una soluzione necessaria che rigetta la complessità del tema iniziale, privando il romanzo delle premesse e delle profondità auspicate. I personaggi navigano in un limbo di solitudine, le loro vite paiono disperse, sole, abbandonate, scollate, porzioni di sofferenza individuale.
Un’ assoluzione a metà, altro dolore, l’ impossibilità di risposte tardive, una rapporto ritrovato, uno possibile negato per sempre, la conferma di un amore, un segreto necessario e solo in parte condiviso, il mistero dell’ esistere, inafferrabile e imprevedibile…

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68 Opinione inserita da 68    21 Luglio, 2022
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Identità violata e vite in bilico

Identità, migrazione, accoglienza, esclusione, diversità, un romanzo che possiede la saggezza e il respiro mediorientale nel cuore pulsante dell’ isola di Lesbo, incastro di storia e di mitologia, oggi teatro degli sbarchi di un’ umanità disperata in fuga da guerre, lotte intestine, persecuzioni, morte.
Tanta gente, famiglie, uomini soli, donne, bambini, siriani, iracheni, afgani, iraniani, africani, tutti stanno scappando, dal regime siriano, dal Dahesc, da gruppi terroristici talebani.
Voci difformi, a partire da quella della protagonista, Mina Simpson, un medico impegnato a scrivere la propria storia e quella di altri, una libanese con una mamma siriana che ha preso la cittadinanza americana, emigrata quarant’anni prima rigettata dal disprezzo famigliare alla ricerca di un’ identità, di genere, di vita, lavorativa.
Un’ adolescenza trascorsa nell’ insicurezza, un ragazzino confuso,…” pieno di finta spavalderia e poca speranza “… anni trascorsi nella finzione …” perfezionando la mia confusione “…
Si può essere stranieri in patria, cittadini altrove, apolidi, storie di rifiuto e di abbandono, di sofferenza e di lacerazioni, ma anche di condivisione e di fratellanza.
Quanto è difficile riconoscersi quando si è nati nel corpo sbagliato, quale identità, idea di se’, inclinazione sessuale, l’ impossibilità di essere amati da chi continua a considerarci un peccato originale.
Mina è partita per dimenticare, inseguendo un futuro in un presente che non c’ era, tralasciando l’ inevitabile, anche se certe ferite rimangono e il passato riemerge.
Oggi si trova sull’ isola di Lesbo a prestare soccorso umanitario in una terra che è stata il cuore della sua infanzia, chiamata da un’ amica che lavora per una ONG, Emma, trascinata dalla voglia di partire, lo sguardo rivolto a un’ umanità disperata, all’ inenarrabile, intere famiglie lacerate e distrutte.
C’è una donna, Sumaiya, gravemente ammalata, con la quale stringere un’ amicizia che contiene una vita intera, un fratello, Mazen, lontano ma mai dimenticato, con il quale si era stretto un patto di sangue mentre continua a desiderare la vicinanza della propria compagna, Francine, tutto ciò che ha sempre desiderato essere.
Mina percepisce l’ eco di una vita irrisolta, uno scrittore omosessuale in crisi d’ identità, a sua volta sbarcato sull’ isola alla ricerca di spezzoni di storie da raccontare, che non percepisce la sofferenza altrui ma scoperchia la propria.
Un coro difforme, una condivisione che restituisce le medesime sensazioni, tanti anni trascorsi e una vita cambiata, ma una parte di se’, esposta ai sentimenti, è rimasta in quel tempo.
Non sempre fuggire significa dimenticare, la memoria di giorni perduti e le immagini di luoghi famigliari possono scatenare una tempesta di fragilità.
Ciascuno a suo modo è in fuga da qualcosa e da qualcuno anche se, obiettivamente, qui e ora, c’è un’ umanità disadorna, sfruttata e dimenticata, aggrappata a un soffio vitale, altrimenti condannata per sempre.
E allora quale relazione tra l’ opulento mondo occidentale e la disperazione dei profughi, corpi spogliati di tutto, riversi sulle spiagge, volti provenienti da ogni dove e che ci appartengono.
Oltre un’ accoglienza dovuta, affidata alla buona volontà di associazioni umanitarie e ai singoli impegnati a soccorrere i profughi appena sbarcati, sovente prevarranno indifferenza, sospetto, odio, paura, noncuranza, dando voce a invenzioni che pacifichino la propria coscienza, mentre immagini di sciagure annunciate scorrono nel viale della dimenticanza e la propria indulgenza svanisce nel soffio di una commiserazione a tempo determinato.
Un romanzo stratificato, intenso e delicato, a tratti aspro ma vero, con tratti di poesia e satira velata, che abbraccia un’ umanità eterogenea in una vita che possa continuare e acquisire un senso.
Una coralità di voci e di testimonianze che riflettono storia, poesia, mitologia, sogni, luoghi della memoria e del’ animo, amori, ma anche dolore, sofferenza, rifiuto, abbandono, incubi, morte.
Un respiro che origina dal dolore di chi ha conosciuto la rabbia, la timidezza e la confusione di un’ infanzia rubata, nascosta nella dissimulazione, una donna nel corpo di un uomo, che un giorno è riuscita a ricostruirsi dentro e che nel presente si è sentita inadatta non solo come dottore ma anche come essere umano.

…” è stato difficile. ma oggi è un nuovo giorno, devo dimenticarmi da dove sono venuta “….

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68 Opinione inserita da 68    11 Luglio, 2022
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Realtà virtuale

Una dimensione umana vissuta all’ interno di un piccolo gruppo di mediatori di contenuti sotttoposto a un lavoro alienante, accarezzando l’ inverosimile, sguardo imparziale e imbarazzato su migliaia di post da approvare o censurare.
La vita di Kayleigh è calpestata da condizioni lavorative inaccettabili e da una paga indecente, d’altronde è piena di debiti e ha bisogno di soldi, accetta l’impiego in una piattaforma per social media incurante della pressione psicologica e dello stress cui sottopone i propri dipendenti, indirizzata a indicatori di quantità, velocità e basso indice di errore.
Chi sopravviverebbe in una condizione siffatta, ne va della propria salute mentale, a Kayleigh non resta che cercare e coltivare relazioni sentimentali all’ interno del proprio gruppo di lavoro, la propria vita.
È noto che l’ essere umano ha la capacità di resistere e di adattarsi mentre l’ odore di marcio lentamente diminuisce, anestetizzati dalla necessità ( denaro e lavoro ) si finisce per assorbire e riproporre il vissuto.
Quanto lo sguardo incessante su abusi, violenze, razzismo, immagini scioccanti intercettate e consumate quotidianamente, può deviare la vita e le relazioni del singolo e quanto questi post ne impregnano l’ animo riproponendosi nel privato, indirizzando giudizi e generando eccessi, modificando le opinioni, inscenando un reale distopico e schizoide?
Ci sono codici e regole per postare contenuti, l’ uso di un certo linguaggio, l’ astenersi dal mostrare determinati particolari, la protezione di determinate fasce deboli, quale il limite della decenza, come regolarizzarlo e non oltrepassarlo?
Questa è una storia personale da raccontare per denunciare l’ inverosimile, con la certezza che è stata vissuta, ma la protagonista è tuttora credibile o è stata a sua volta fagocitata e a sua volta stenta a riconoscersi?
Il mondo social è un macro contenitore di micro contenuti, immagini e fotogrammi scorrono ininterrotti sotto l’ occhio acritico e anestetizzato di chi sembra godere delle sofferenze altrui, guarda e non vede, nessuna pietas ne’ coscienza critica, la sola versione possibile e’ l’ impossibile, l’ unica realtà l’ irreale.
A Kayleigh non resta che andarsene, dimettersi, denunciare cercando di conservare un briciolo di umanità, se non è troppo tardi, in un coinvolgimento e capovolgimento emotivo. Forse la salvezza sta nell’ umana presenza, la denuncia la sola possibilità di arginare l’ inverosimile.
Questo breve romanzo della scrittrice olandese Hanna Bervoets, esito di un’ accurata ricerca sulle condizioni di lavoro dei moderatori di contenuti commerciali in tutto il mondo, caratterizzato da una certa linearità e chiarezza espositiva, suo pregio e limite, ci consegna argomenti già noti, i limiti della decenza, l’ orrore sul web, sfruttamento, precariato, assenza di dignità lavorativa, alienazione, ma credo che una riflessione andrebbe estesa al concetto più esteso di “:socialità “ cui il romanzo non fa riferimento.
La deriva sociale non è più futuribile, è tra noi e dentro di noi, realtà tangibile, anime perse, anestetizzate, sofferenti, inconsapevoli, deboli, furiose, cinicamente e ciclicamente esposte al pubblico ludibrio.
La ricerca del male affonda le proprie radici nell’ origine del male medesimo, vittime e carnefici si incastrano, il tutto sotto lo sguardo indifferente dei più, tra fotogrammi irrinunciabili di velocità e dipendenza acritica.
Qualcuno potrebbe opporsi, distinguere, inorridire, astenersi, negare l’ orrore proposto e generato, i più lo ignorano, sospinti da un narcisismo eccedente e da una morbosa superficialità, esito di insipienza e noncuranza, chi fagocitato da un sistema assai poco etico, chi indirizzato a un’ inconsapevole isteria paranoica, un giuoco al massacro gestito da un reale virtuale assai poco virtuoso, tutto il resto, essenza e contenuti, ridotti, azzerati o mai pervenuti.

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68 Opinione inserita da 68    10 Luglio, 2022
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Dolorosa presenza

“ L’alba sepolta “, esordio letterario di Valentina Ricci, è un bel romanzo che sorprende per lucidità espositiva, maturità letteraria, intensità poetica in un crescendo che reinventa e restituisce forme, immagini e sensazioni forti, un’ atmosfera in bilico tra realtà e sogno, creature e corpi che si smembrano in porzioni d’ interiorità, un condensato di vita e desiderio, dolore e sofferenza, minuziose descrizioni di reale su tratti piuttosto sfumati .
Il giovane e bellissimo Davide vive una vita di eccessi, un binomio apparenza-essenza che lo ancora all’ interno delle proprie debolezze esito di una enorme carenza affettiva, retaggio di un trauma infantile irrisolto.
Le sue proporzioni perfette restituiscono una fisicità che richiama sguardi, attenzioni e desiderio, epicentro scenico di giocosa spavalderia e consapevolezza, anestetico e antidoto alle difficoltà della vita, presenza ossimorica di una forza fragile.
E’ evidente la dicotomia tra una quotidianità di successi, amori fugaci e sempre diversi, un cannibalismo erotico di dissolutezza e un’ interiorità fragilmente esposta, frammentaria, in parte già morta.
È questo il vero dramma che lo incatena, dopo quel tragico evento, una vita caratterizzata dal disfacimento famigliare, il progressivo distacco materno, la convivenza con un padre famoso troppo impegnato e assente, il desiderio di riconquistarlo, ma il futuro è un’ incognita e … “ in fondo non c’è un presente e non c’è un passato per un luogo che non esiste “…
Tutto quello che Davide insegue ottiene, visibilità, ragazze, fama, non è così nei confronti di Karin, inattesa, misteriosa, sfuggente, senza amici, una creatura vicina e inafferrabile, immune al suo fascino, che pare vivere in una dimensione altra, con desideri che si allontanano da corpo e materia, un’ essenza che il protagonista sente vicina e che desidera intensamente.
Voci dal passato ritornano, c’è un presente che esige risposte, un futuro scolastico e di vita da definire, una competizione sportiva da portare a termine, un’ amicizia da non tradire, ma il proprio vuoto ogni volta ritorna.
Il passato non può più raggiungerlo ma nemmeno abbandonarlo, i ricordi …” sono un passato indistinto. “…., ma a poco a poco sembrano …” potere assumere una forma “…. anche se il vero volto dell’ amore è sparito per sempre e il dolore è ancora presente anche quando sembra scomparso.
Vi sono figure che riempiono la scena, altre che continuano ad assentarsi, altre ancora che rimandano le proprie inquietudini per dissolversi in una scia di presenza.
Alla fine, in un crescendo che svela e rivela se’ stessi, anche nell’ impossibilità di raggiungere il raggiungibile, inseguendo sogni di altri o fallendo laddove si credeva di essere giunti, si respira una chiarificazione e una sorta di pacificazione accompagnati dal respiro di un’ ombra che rimarrà per sempre.
All’ interno del romanzo si percepisce un quid di inarrivabile e una nebulosa presenza, inserita in una sospensione temporale, con un finale che ne racchiude e sintetizza il senso, una lucidità condita di attesa e una presenza a metà tra il mostrato e il percepito.
Il lettore fatica a focalizzare una costruzione sempre più densamente stratificata, il progressivo svelarsi della trama riporta a una dimensione di semplicità e il cammino dei personaggi al vero cuore del racconto, i tormenti irrisolti del giovane protagonista in lotta con il proprio io più profondo e un irrinunciabile bisogno d’ amore che possa bilanciare e restituire la propria essenza più vera.

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68 Opinione inserita da 68    06 Luglio, 2022
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Autentica profondità letteraria?

Takako, la giovane protagonista del romanzo, inopinatamente abbandonata dall’ amato, perso il lavoro, vive il presente tra depressione e fallimento, volendo sparire e dormire per sempre.
Grazie a Satoru, uno zio piuttosto eccentrico appassionato di letteratura e viaggi, che non vede dall’ infanzia, proprietario della libreria storica Morisaki specializzata in letteratura contemporanea, situata nel quartiere di Jinbocho, nel cuore di Tokyo, riuscira’ a riappropriarsi del gusto della vita.
Takako decide di accettare la richiesta di aiuto di Satoru e si trasferisce per un breve periodo nella libreria di famiglia abitando al piano superiore. Giorni svuotati di senso, annoiata e triste, ma lentamente, la passione contagiosa dello zio, lo stretto contatto con i libri, la bizzarria di alcuni utenti, la magia della Morisaki, ne risveglieranno la curiosità sopita.
È così inizia a dedicarsi incessantemente alla lettura, affamata di libri, lettrice onnivora, riappropriandosi dei propri desideri, gettando uno sguardo incuriosito alle vite altrui, avvicinandosi ai dolori e ai sentimenti di Satoru, costruendo relazioni importanti e durature, risvegliando i lati oscuri del proprio essere.
Si calerà in rapporti famigliari dimenticati restituendo alla propria vita il senso perduto, nuovi significati indirizzeranno Takako ad avventure e conoscenze ( il ritorno dopo una lunga assenza ingiustificata di Momoko, moglie di Satoru, l’ inizio con lei di una frequentazione rivelatoria, la nascita di un amore), indirizzando la sua vita dove mai avrebbe sperato.
Quale il merito della letteratura in questo e la vita non è un grande libro da scrivere?
Sappiamo che il potere dei buoni libri è in grado di generare gentilezza, empatia, capacità di ascolto, positività, sappiamo che la letteratura educa e cura, indirizza al sentimento, salva vite complicate e dissolte.
Questo breve romanzo possiede i tratti della fiaba contemporanea, trascinando il lettore in un mondo fascinoso e magico con i ritmi lenti e sincopati di una certa cultura e tradizione giapponese, costruita su attesa, pazienza, riflessione, saggezza.
Eppure titolo e contenuto sono fuorvianti, perché di vera letteratura poco si parla, respirandone la sola presenza nella libreria e nella magia del quartiere di Jinbocho oltre che in poche citazioni. Per la maggior parte del romanzo e per tutta la seconda parte, quando la protagonista pare “ guarita “, ci si inoltra in altro, un percorso di affetti, ricordi, rapporti personali e famigliari da riscoprire e indirizzare, di sofferenze lontane e di misteriose assenze.
E allora Takako come ha assorbito il potere dei libri se non per assecondare uno scopo puramente narrativo e quali sono gli insegnamenti letterari che ha fatto propri e che si sono impadroniti di lei?
Esiste un romanzo che ha cambiato il nostro approccio alla letteratura, un’ atmosfera indirizzata alla spiritualità attraverso la lettura, un luogo dell’ animo che respira nel profondo del nostro io? Immergersi per un breve quanto intenso periodo tardivo nell’ universo librario ci cambierà per sempre, ci sarà di aiuto e richiamerà emozionalmente una voce sopita?
Takako è improvvisamente scossa, colpita, trascinata, cambiata per sempre , in verità sappiamo da lettori consumati e appassionati che il respiro letterario prevede anni di immersione e apprendimento, maestri di vita, l’ arte di affinare il gusto e il lento palesarsi della bellezza, la costruzione di un pensiero critico, in altre parole la crescita e lo sviluppo di un’ autentica sensibilità intellettiva e letteraria, fatta di dedizione, tempo, attesa, lunghi silenzi, ogni scorciatoia e fluido magico sarebbero fuorvianti e dispensatori di altro.

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68 Opinione inserita da 68    04 Luglio, 2022
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Cuore infranto

Una madre e l’urgenza di leggersi dentro tra realtà, sogno, ricordi, rimpianti, un tuffo nel passato, un presente a termine, il futuro inarrivabile, almeno per lei, ventiquattr’ore per ridefinirsi e cambiare i colori della propria esistenza.
Philippe Besson inscena il diario psicologico e intimo di una donna tradita che ricostruisce la propria storia nel momento in cui il proprio figlio più piccolo, Theo, decide di abbandonare il focolaio domestico per aprirsi alla vita, cercare gente diversa, nuovi amici, in una città rumorosa dai contorni indefiniti. Se ne va mentre tutto resta, casa, parenti, genitori, niente sarà più come prima, per Anne-Marie devastazione e annientamento affettivo. Che cosa fare per salvare il salvabile, rinviare l’ agonia, indirizzare altrove una mente sopraffatta dall’ ansia e dalla paura ?
Preparativi, trasloco, nuova sistemazione, una cena a tre, ricordi condivisi, emozioni inarginabili, poi la partenza e il distacco definitivo.
Tutto cambia in un attimo non preventivato, per Anne-Marie il dolore è eccessivo, dentro di se’ vuoto e smarrimento, la ricerca di uno sguardo amico, ma il marito Patrick, un tipo tranquillo, con tratti caratteriali diversi, dotato di senso pratico, che ha sempre espletato il proprio ruolo di pater familias, a sua volta è assente, svuotato, ingrigito, impegnato in altro, e non sembra capirci nulla. Inutile affidarsi ai consigli superficiali di una vicina, ne’ cercare un antidoto appellandosi al figlio maggiore, nessuno è in grado di partecipare, di condividere, di consolare una madre.
E’ un lutto che la porta a fare i conti con se stessa, un cambiamento radicale e l’accettazione di un dato di fatto, il fluire necessario della vita. Ma perché cambiare quando si vorrebbe continuare ad accudire, proteggere, assecondare il proprio “ bambino “?
Ci si guarda dentro, si scruta l’ orizzonte, ci si affida agli altri, ma a chi realmente e sara’ possibile una vita diversa, una ridefinizione di se’?
La psicologia di una madre è semplicemente complessa, paura ancestrale, conflitto interiore per “ salvare “ i propri figli, preservarli e conservarli, ma quanto vi è di reale e di immaginario in uno scenario che prevede un vincitore e un vinto, nel quale prevale una visione egoisticamente altra?
Defilarsi, rinunciare, lasciare andare, sarebbe un lutto talmente potente da inscenare un’ idea di auto annientamento, legata al senso di esclusione, di mortificazione, ricordando il passato, quando si era vissuto nel terrore di perdere il proprio figlio.
E allora come guardare al futuro quando ancora si vive rinchiusi nella bolla dei ricordi?
Per Anne-Marie un tempo che ha amato e che sta per sfuggirle per sempre, la rielaborazione di una vita trascorsa velocemente, la felicità delle piccole cose, grata per tutto quello che ha avuto.
Il cambiamento genera paura, lotta interiore, l’ incubo di una casa vuota, di un amore sfuggito per sempre, la fine della famiglia e dei giorni felici, la perdita di un figlio, una nuova vita a due, sicuramente diversa, solitudine, inutilità, invecchiamento, noia, silenzio. Come invertire questa parabola di solitudine implosa?
Una definizione di se’ in una nuova dimensione di tenerezza, il riappropriarsi del presente, poche parole consolatorie … “ dai, vieni, torniamo a casa “….
Un lungo soliloquio di una madre, trattato con dolcezza, garbo, passione, indulgenza nel momento in cui la vita non concede sconti e il futuro è adesso. Tutto cambia per restare uguale dentro di se’, parole che si autoalimentano all’ inseguimento di risposte inevase. Che cosa rimane? Il dolore della perdita, definitiva, e la difficoltà di sentirsi sola, per sempre, orfana di una parte di se’, semplicemente una madre dal cuore infranto.

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68 Opinione inserita da 68    04 Luglio, 2022
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Ritorno a “ casa “…

Una famiglia emigrata e divisa in attesa di ricongiungersi, individualità alla ricerca di un senso in una vita che riservi presupposti diversi e restituisca desideri negati.
Talia, la giovane protagonista, insegue una libertà da lei stessa corrosa, sperando un giorno nel ritorno in una terra straniera che l’ha vista nascere e in cui ha vissuto assai poco ( gli Stati Uniti d’ America ) prima di essere rimpatriata ( in Colombia ) con poche speranze nel presente e nel futuro e rari affetti presto negati ( la morte dell’ amata nonna di cui si è presa cura).
La madre Elena vive da anni l’ incubo della clandestinità e un’ invisibilità umiliante mentre il marito Mauro, per anni annegatosi nell’ alcool, quando pensava di avercela fatta viene incarcerato ed espulso dal paese per ritornare in Colombia, una terra … “ di amnesici, dove i narcotrafficanti divengono senatori e i senatori narcotrafficanti, gli assassini presidenti e i presidenti assassini “...
Eppure il grande paese dei sogni, che non li ha mai accettati e che continua a protrarne lo stato di clandestinità, soffre di una violenza indigesta, qui si può morire ammazzati da chi possiede liberamente un arsenale domestico.
Che cosa tiene incollati i cocci di una famiglia siffatta, che cosa alimenta il desiderio di Talia di farvi ritorno, laddove sembrano non essercene presupposti, speranza, identità.
E allora come guardare avanti, recuperare la voglia di vivere, i ricordi d’ infanzia, il respiro della memoria, gli affetti e le piccole cose che l’ hanno accompagnata da sempre, i sogni infranti, la vita disillusa che si è lasciata alle spalle, la possibilità di cambiare, tornando alle origini?
La verità è che nessuno conosce il proprio futuro fino in fondo, spesso i sogni si infrangono e il reale si mostra inesorabilmente certo, che ci si può sentire stranieri in patria e cittadini in una terra che ci detesta, estranei a se’ stessi e agli altri, mentre ci si può avvicinare a chi nemmeno ci conosce e ci ha incrociato per caso raccontandoci la propria storia.
E allora che cosa resta? Un senso di appartenenza, pochi affetti condivisi, una voce che viene da un’ alba lontana, sensazioni ed emozioni interiorizzate, o forse solo tanta confusione, d’ altronde partire è un po’ come morire e ci si ritrova con molto meno di quello che si aveva prima. Una nuova partenza è un nuovo arrivo, nessuna certezza sull’ origine del proprio viaggio e dove debba finire.
Romanzo di un’ autrice nata negli Stati Uniti da genitori colombiani “ Paese infinito “ affronta con una prosa semplice e delicata e un realismo senza fronzoli il tema delle radici e dello sradicamento, il senso di appartenenza, il bisogno di essere amati, le complesse dinamiche famigliari, la clandestinità, la guerra, la nostalgia di casa, cercando di definire che cosa si intenda per casa e famiglia. Il tema dell’ amore e delle proprie radici ritorna vivo e pulsante, insieme alla constatazione che…
…“ forse non esistono nazioni o cittadinanze, sono solo territori disegnati su una mappa, lì dove dovrebbe esserci una famiglia, dove dovrebbe esserci l’ amore, il paese infinito “…

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68 Opinione inserita da 68    21 Giugno, 2022
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Quale cecità?

L’inizio di una pandemia, una cecità ingravescente, alcune persone messe in quarantena, una malattia che investe tutti indistintamente, inaspettata, paradossale, molte domande, nessuna risposta, se non cercare riparo e conforto nel buio più estremo.
Ma quando, progressivamente, la cecità riguarda ogni dove e si trasforma in pandemia, tutto cambia e inizia una nuova era.
Una massa indistinta attende che … “ il sogno abbia compassione della propria tristezza “…, nella speranza che questa cecità sia provvisoria, come è venuta potrebbe andarsene, certi che solo voce e udito siano di una qualche utilità e che il mondo che conta sia totalmente interiore.
E allora occorre adattarsi a un nuovo equilibrio mondiale, laddove subentrano altre priorità perché nessuno vedrà più le persone e le cose saranno realmente come sono.
A che scopo l’ estetica, l’ igiene, cinema, teatri, musei, la paura accieca, forse si insinua il sospetto di essere già stati ciechi nel momento in cui lo si è diventati, una paura che manterrà per sempre una condizione siffatta, Eppure la cecità, quando si trasforma in reale obbligato, non renderà migliori ne’ peggiori, sarà un semplice cambiamento di status.
Il mondo ,,,’ caritatevole e pittoresco “… dei poveri ciechi è finito e si va trasformando nel regno duro, implacabile, crudele, dei ciechi, buoni contro cattivi, un modus operandi nel quale ragioni e non ragioni umane non fanno che ripetersi, è noto l’ egoismo che permea l’ essere umano.
E’ un reale trasformato e senza speranza nel quale il camminare o lo stare fermi saranno indistinti, un reale allegorico e crudelmente esposto nel quale neppure le lacrime hanno più senso perché ogni senso è perduto, ciechi e già morti, già morti in quanti ciechi, i sentimenti cambieranno e cosa diventeranno? Un governo di ciechi che pretende di governare i ciechi, senza futuro, ed è come se il presente non esistesse.
In un tale stato di ‘ normalità ‘ chi ancora ha la fortuna di vedere è costretto ad assistere all’ orrore che gli altri sentono in una condizione imperante e definitiva, si fanno anche dei voti, si pensa che si guarderanno gli occhi altrui credendoli anima o spirito mentre l’ unico sopravvissuto alla pandemia si farà ogni giorno sempre più cieco perché non avrà nessuno che lo possa vedere.
Questa la neo rappresentazione del mondo di “ Cecità’“, un microcosmo indistinto che si dibatte tra vero e presunto, realtà e distopia, una massa di individui senza nome con tratti e caratteri peculiari, visione estrema ed estremizzata di un incubo che si stenta a razionalizzare, situazione reale e paradossale rivestita di quotidianità presto soppiantata da una capacità di adattamento e di sovversione e dalla crudeltà propria dell’ umana specie.
C’è una cecità vera in una limpidezza di sguardi, una condizione di cecità spirituale e sentimentale ricoperta di finzione, egoismo, nichilismo, sterilità. Individualismo, feralita’, di tutti i vizi imperanti, la presunta malattia non è che l’ estremizzazione di un sentimento indistinto.
L’ incubo è visibile, reale, tra noi, la cecità palese, indigesta, molesta, esposta a una vita che pare inevitabilmente segnata…



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68 Opinione inserita da 68    18 Giugno, 2022
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Svendita

Hanio, giovane aspirante suicida, ha fallito nel proprio tentativo di autoannientamento e, deluso dal proprio operato, decide di mettere la propria vita in vendita. D’altronde dove può portare una esistenza svuotata di senso, tra nichilismo aberrante e isolamento emozionale, contrari a qualsivoglia pulsione emozionale, convinti della assoluta mancanza di significato all’ interno di una socialità condivisa, rigettando ogni forma di bieco materialismo e senza un’ idea di futuro?
I compratori di certo non mancano, uomini d’ affari o gangster che siano, ma quali porzioni di storie raccontano o cercano di nascondere, chi sono realmente, un misto di sogno e realtà, e come si può indurre la fine agognata?
L’ annoiato protagonista, contravvenendo al senso insensato della propria esistenza, vorrebbe restare padrone del proprio destino, decidere di che morte morire ed essere pagato per questo, ignorando e negando la volontà altrui, neppure quando arriverà a pensare che la vita in fondo non è così aberrante, che è difficile morire, anche per mano di altri e che potrebbe spendere il denaro guadagnato in attimi di autentica felicità.
Ma allora quale il senso del proprio operato, come porsi di fronte alla libertà di non temere la morte, lui che è già morto una volta, liberato da qualsiasi responsabilità ed attaccamento nei confronti del mondo, condannato e quindi libero di osare?
Molteplici storie presentano losche figure, sagome indefinite, sfuggenti, lontane, donne misteriose, innamorate, intraprendenti, bugiarde, Hanio pare vittima e carnefice della sua stessa essenza, confuso tra desiderio di vita e di morte, affetto da un male di vivere che si inginocchia di fronte alla forza pulsionale e alla sacralità della vita stessa.
Tutto questo genera un cortocircuito in un romanzo che stenta a decollare ingrigito da una annoiata banalità, che pare ricercare consenso infarcendosi di teorie supreme.
I capitoli si susseguono, tra crudo realismo e sogni di grandezza negati, satira e sarcasmo, sogni e incubi ricorrenti, situazioni improbabili e paradossali accompagnate da una certa fretta espositiva, momenti slegati e distinti, intrecciati solo nell’ epilogo ma che lasciano un grande dubbio sulla profondità e sul senso dell’ opera intera, rammentando la profondità a cui l’ autore ci aveva abituati.

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68 Opinione inserita da 68    18 Giugno, 2022
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Cuore materno

Una madre israeliana, Yoela, nascosta nell’ ombra che spia una casa illuminata in una città di un paese lontano, con il rischio di essere scoperta, all’ interno una figlia ( Leah ) e la sua famiglia la cui vita splende pericolosamente sotto i suoi occhi, un solo grande problema, l’ amore, con se’ i resti di una relazione da anni svanita nel nulla.
Flashback, ricordi, vividi, confusi, svaniti, la ricostruzione di giorni che faticosamente si cerca di riacciuffare, elementi che giustifichino la fine di un’ intimità.
Che cosa è realmente successo e quale la causa? Non si tratta di confessare una colpa, forse di inadeguatezza, di certo qualcosa è mancato e una risposta pare nascosta nel proprio passato.
Un’ amnesia prolungata investe gli anni prima della nascita di Leah, una sorta di tabula rasa risorta nel camminano in compagnia della figlia.
Di certo l’amore incondizionato di Yoela è stato il motore di comportamenti oggi vivisezionati, un sentimento che ha ecceduto in ansia, paura, accudimento, che ha sofferto di pause in un’ infanzia che aveva dimenticato e che invece ha rivestito una tale importanza nel suo presente relazionale,
Può un amore all’ eccesso distruggere una figlia, trasformare l’ inclusivita’ in un’assenza assoluta, come capire e spiegare il presente quando ogni momento era stato condiviso?
E allora Yoela guarda delle foto in cui Leah sembrava felice, rimuginando su un’ armonia famigliare dissolta ma, dopo l’ improvvisa scomparsa del proprio compagno, non c’è più nessuno a cui chiedere.
Vero è che …” le storie di madri e figli non hanno mai un vero e proprio inizio, che spesso hanno bisogno di un riconoscimento “…., vero è che quando la vita improvvisamente deraglia la propria figlia, pur enigmatica, ha bisogno …” di tutto il nostro amore e appoggio incondizionato “….
Una lunga riflessione autoimposta, rimuginino e soliloquio di una vita intera, un pezzo della quale improvvisamente ci ha lasciato quasi per caso, imprevedibilmente, ricoprendoci di un’ ombra estesa al dolore della perdita e all’ abbandono a domande che scoperchiano una crisi identitaria.
Il tema relazionale madre-figlia riveste pagine di intimità svelate da una voce addolorata, quella materna, delicata, imperscrutabile, preoccupata, a tratti egocentrica e narcisista, perché riguarda una parte di se’ e, in questo caso, una diretta emanazione di se’.
Giusto sondare l’ imperscrutabile, radiografare il passato, richiamare sentimenti lontani, ammuffiti ed erosi dal tempo, aggrapparsi ai propri, alla buonafede, al cosiddetto amore incondizionato?
La profondità e gratuita’ affettiva di una madre risale alla notte dei tempi, avvolta dal mistero, dalla paura, dalla proiezione dei propri desideri, dal bisogno di amore, dalla legittimazione di un ruolo, ma può sfociare in una personalità deviata e deviante che rivela una certa morbosità trascinando la controparte all’asfissia.
È inevitabile, per una coscienza turbata e ferita, scavare dentro di se’ e nei propri sentimenti, alla ricerca di un’ assoluzione pacificatoria o di una condanna molesta, ma alla fine quanto realmente ne sappiamo dell’altro?

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68 Opinione inserita da 68    08 Giugno, 2022
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Presenze invisibili

Questa, come ci ricorda l’ autore, è una storia d’ amore all’ interno di un senso di malattia e di un desiderio di invisibilità, due protagonisti accomunati dal colore della propria pelle, in bilico tra reale e immaginario, nata dal vuoto che li circonda e che vivono dentro, da un afflato particolare, dalla necessità di scansarsi dal mondo.
Uno scrittore trentottenne che pecca di immaginazione e un bambino che crede di possedere il dono dell’ invisibilità, il dubbio che sia solo fiction, la paura che sia veramente accaduto, la certezza che la vita non promette niente di buono.
I due si incontrano per caso, intrappolati dall’ incertezza, apparentemente diversi, immersi in un reale irreale che li ha condannati a essere quello che sono,
Sarebbe meglio sparire da un mondo siffatto, inzuppato di menzogne, violenza, odio razziale, vittime di bullismo, un luogo dove è impossibile vivere se non imprigionati nella paura o immersi nella fragilità di incontri fugaci, imbevuti di alcool e sesso.
C’è chi ha visto tutto e si è circondato di niente e chi è stato condannato a causa del colore della propria pelle, sin troppo nera, oggetto di sguardi indiscreti, circondato da morte e violenza, dei propri cari, di semplici conoscenti, di persone comuni.
Si può colmare il vuoto affettivo con la fantasia, sparire è un po’ come vivere altrove, ma in fondo tutti desideriamo essere amati.
A volte, sin da bambini, l’ invisibilità è necessaria o solo auspicata, come riuscire ad amare se stessi in un mondo che non è un bel posto dove stare?.
La fantasia è un dono ma può essere un’ onta, ci sono posti migliori per trascorrere il tempo, lo scrittore non si serve della realtà ma di un reale immaginario in cui passa gran parte del proprio tempo. Difficile separarli laddove imperversano immagini fugaci e fotogrammi di precarietà, sovente non sappiamo realmente chi siamo, immaginare è un po’ come sparire, allontana la paura, protegge, permettere di stare soli.
All’interno della fantasia e dell’ invisibilità si può costruire un’ altra storia senza sapere dove ci porta e che cosa rimane di noi. Di certo vi è l’ imprevedibilità di relazioni invisibili che tanto ci mancano, che ci toccano nel profondo e ci rendono altro, relazioni uniche e pericolose, che ci permettono di vivere, che solo noi riusciamo a vedere.
Un romanzo di piacevole lettura, costruito su satira e leggerezza all’ interno di tematiche importanti in un mondo in tutt’altro affaccendato che riversa arroganza, superficialità, odio e violenza su vittime designate.
Può il colore della propria pelle continuare a essere un peso insostenibile, indirizzare milioni di vite già scritte o si può auspicare un destino diverso? La risposta parrebbe evidente me per nulla scontata.

…” cavolo, ho paura, ma sono stanco di avere paura. Ho avuto paura per tutta la vita. Sono scappato. Non ricordo di avere mai fatto altro. E lo stesso vale per lui. Lo so, perché io e lui siamo la stessa persona. Portiamo tutti lo stesso peso, ma dobbiamo provare a spezzare il ciclo della paura. Abbracciare lui è abbracciare me stesso. Finalmente, dopo una vita, sono il non visto e l’ innegabile allo stesso momento “…
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68 Opinione inserita da 68    06 Giugno, 2022
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Isolamento d’amore

… sono io la legna del fuoco. Ho fatto esperienza, sono mutata nella natura. Sono stata bruciata, danneggiata, e ora sono più resistente. Una vita è come una perlina d’acqua sulla superficie nera, così fragile, così forte, il suo mondo incredibilmente compatto…

Lo scorrere di una vita, tra passato e presente, ricordi e rimpianti, una voce che si affida al tempo nel cuore di una pandemia che non concede sconti. Racconto d’ amore e morte, resurrezione e sentimenti, carne e brama artistica in evoluzione continua, una storia da raccontare per cercare di sopravvivere.
La voce narrante è una scultrice di successo oggi sola, pronta ad accogliere la propria fine in una dimora isolata, con lei mille ricordi, i cocci di un’ infanzia nelle vesti di una madre menomata che ha cercato vanamente di fare la madre, un padre assente, il proprio talento artistico, un amore improvviso e unico in un periodo di contumacia, quando la forza del virus sradica percezione e sentimenti e il respiro illogico della malattia impregna ogni dove.
Il lockdawn, un destino incerto, la lotta contro un nemico forte e invisibile, anima e corpo forgiati dalla voglia di vivere ogni singolo istante. Domande sulla propria infanzia, la voglia di riviverla, una nuova versione dei fatti che non si può avere, riassetti temporali, il significato della vita impossibile da carpire.
Vige una neo dimensione famigliare, intrappolata dentro casa in compagnia di un amante che sembra possedere l’ intensità di un sogno, un vicendevole scambio in un contesto che ha poco di umano, la lotta per sopravvivere, infettati nel corpo e nella mente, all’ esterno un paese impegnato a non cadere a pezzi, a curare i malati, a controllare che cosa è rimasto in dispensa, a piangere la libertà perduta.
Un giorno ci sarà un post pandemia, e allora come saremo, o meglio, cosa sarà rimasto di noi? Forse l’ esperienza ci avrà forgiati e saremo più forti o forse avremo imparato che cos’è la transitorietà e la capacità di resistere. Nell’ ultimo anno si sono viste cose diaboliche e avvertito la vicinanza della morte, ma …”noi siamo le nostre tendenze peggiori, restiamo quello che siamo, tra l’ evidenza e l’ illusione, è lì che siamo tutti..”.
Un breve romanzo che abbraccia un flusso di coscienza ininterrotto, flashback, immagini e voci spezzettate all’ interno di una fragilità che impregna ogni cosa, nessuna risposta se non i cocci di una vita complessa e imperscrutabile, costretta all’ isolamento forzato, una nuova dimensione che, contravvenendo ai sintomi della malattia, acuisce i sensi e le sensazioni, ridiscute il quotidiano, ridefinisce l’ essere, nel frattempo la propria creazione artistica è più violenta e accompagna un amante a scrivere un’ altra storia altrettanto crudele.
Sarah Hall ridiscute le tonalità di una vita in un’epoca indecifrabile, ne coglie le necessità, i cambiamenti, la disperazione, dibatte in prevalenza con se stessa su amore e morte, arte, relazioni, sentimenti, in un quotidiano nel quale le priorità sono mutate, la carnalità esplosa, la sofferenza amplificata, le perdite improvvise e inaspettate e l’ arte va ridefinendo il proprio linguaggio. Quale esito e quale destino?

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68 Opinione inserita da 68    06 Giugno, 2022
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La sacralità e il disprezzo

Giusto condannare chi si pensa abbia violato la sacralità della morte e come giudicare chi continua a violare la sacralità della vita? Ogni guerra, carneficina di innocenti, è abominevole e insensata per definizione.
Quello che Selma Lagerlof scrisse oltre un secolo fa, dopo la Grande Guerra, è un romanzo intriso dell’ immortalità e della bellezza dell’ arte inserite in un senso di attualità’.
Sven Elversson è un giovane uomo tornato al paese avito dopo che, ancora bambino, fu affidato alle cure e all’ educazione di un’ abbiente famiglia aristocratica inglese per ricevere un’ istruzione consona alle sue facoltà intellettive.
È circondato da un’ onta impossibile da espiare, dopo una spedizione avventurosa nel nord Europa finita male, accusato di necrofagia e per questo inviso e allontanato da una comunità religiosa che condanna chi ha violato la sacralità della morte. Sarà la bella Sigrun, dolce e immacolata, moglie del parroco della comunità, il cui giudizio agli occhi di Sven è paragonabile a quello di una Corte Suprema, l’ unica persona ad accoglierlo e a considerarlo per quello che è, un uomo buono, saggio, onesto, un filantropo.
Sven vivrà un protratto isolamento forzato, cercando di espiare una colpa che crede di avere commesso e che lo esclude in toto dalla vita comunitaria.
Col tempo eviterà la compagnia umana e non solo, adotterà comportamenti molto umili, sentendosi mortificato, provando avversione e ripugnanza per se stesso, perfettamente consapevole del torto commesso.
Sigrun, a sua volta aliena al mondo, è costretta a mentire per sopravvivere a un matrimonio infelice con un uomo geloso che vuole trattenerla a se’, che l’ ha amata oltre ogni limite imprigionandola nel proprio egocentrismo, che non ne ha mai rispettato i desideri, costringendola a fingersi morta per ritornare in vita.
Lo scoppio della Grande Guerra trascinerà l’ Europa in un vortice di dolore e morte, migliaia di corpi restituiti dal mare in attesa di sepoltura. Quale il destino di Sven, e quello di Sigrun?
Il romanzo di Selma Lagerlof è una fiaba del reale dalla forte connotazione pedagogica, i personaggi rappresentano altro, simboli in una trama apparentemente e forzatamente cruda che tra le righe trasuda amore, dolcezza e condivisione.
Il destino infelice di Sven Elversson, antieroe per definizione, salvato non dal suo amore ne’ dalla sua missione, ma dal pensiero della sacralità e della nobiltà della vita che lo libera dal proprio senso di colpa, può improvvisamente cambiare, ma ormai poco gli importa.
Non è forse la vita mille volte più inviolabile e più grande della morte? E che cosa è meno peggio, fare violenza a un morto o a un vivo? Vita e morte ingaggiano una lotta permanente, ma è indispensabile mantenere la sacralità della vita.
Se “ L ‘ imperatore di Portugallia “ descrive la forza dell’ amore genitoriale che contrasta la realtà dei fatti trascinando il protagonista in un delirio affettivo che lo trattiene nel cuore di un’ illusione di vita, accentuando la crudeltà della trama, in “ Il bandito “ una certa visione dei fatti crea e convalida un’ idea supposta a partire da una presenza dogmatica che non può essere contraddetta e che precede e contrasta un reale inverso.
Eppure quella fine che pare già scritta, quella vita da vivere e già finita, può essere ribaltata e portare un vento nuovo, non estraneo ne’ inseguendo rivelazioni sorprendenti, ma ispirandosi a un cambiamento di rotta e alla forza dell’ amore e del perdono, frutti coltivati e raccolti nel cuore dell’ io più profondo.

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68 Opinione inserita da 68    06 Mag, 2022
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Arma letale




Griffin, brillante fisico londinese resosi invisibile, figlio di un desiderio presuntuoso d onnipotenza e di ricevere fama e riconoscimento dalla comunità scientifica oltre che di un senso di vanità del tutto personale, precipita in un boomerang di dissolvenza, ostaggio di un’ arma a doppio taglio.
In “ L’ uomo invisibile “, romanzo di fine ottocento, H.G.Wells, autore britannico considerato, insieme a Jules Verne, il padre della fantascienza, almeno nella prima parte della propria produzione letteraria ( ricordiamo “ La macchina del tempo “ e “ L’ isola del dottor Moreau “ ), e definito dall’ amico Joseph Conrad “ il realista del fantastico “, fa coesistere reale e fantascientifico all’ interno di una trama suddivisibile in due parti.
Una narrazione in terza persona, asettica e in parte ironica anche se piuttosto piatta e poco coinvolgente, caratterizza la prima parte, l’ approdo di una figura losca in una locanda di una località di provincia ( Iping ) suscitando curiosità e sospetto all’ interno della vita comunitaria ( nello specifico l’ autore riprende l’ incipit de“ L’ Isola del tesoro “ ).
Griffin è uno straniero dall’ aspetto piuttosto bizzarro, la testa bendata, un passo svelto e sfuggente, gesti rabbiosi e maniere brusche per allontanare ogni tentativo di curiosità, comportamenti che turbano la gente semplice di provincia.
Nessuno conosce il suo nome ne’ lo ha mai visto, il susseguirsi degli avvenimenti svelerà la verità sottesa, la sua invisibilità, dando il la’ a una confessione al cospetto di una controparte buona, il dottor Kemp, fino a quando, nel cuore di Londra, assisteremo a una caccia all” “ uomo ” e a quello che di lui resta, l’ inqualificabile arroganza e disumanità oltre che l’ irrefrenabile desiderio omicida ottemperato dal proprio egocentrismo e dalla certezza di una superiorità che lo trasformerà in un assassino efferato.
Di fatto lo stesso Wells parla di un certo influsso stevensoniano all’ interno del romanzo, con riferimento allo “ Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde “ ( si pensi all’ analogia Griffin-Hyde e Kemp-Jekyll ) anche se, ribadiamo, “ L’ uomo invisibile “ è per lo più narrato in terza persona.
In fondo Griffin non è che un essere umano, frutto di un esperimento su se stesso che lo ha sottratto agli occhi altrui, l’ esito controverso ne diviene il limite, i tratti umani si ritorcono contro una realtà inafferrabile e pericolosa sfuggitagli di mano e che tramuta la sua collera in pura follia.
E allora ci si domanda: che cosa significa questo stato di invisibilità per il protagonista?
Mistero, potere, libertà, eppure genialità e privilegi saranno la causa di una solitudine irrefrenabile e del desiderio di vendetta nei confronti del mondo ( possiamo pensare alla creatura mostruosa del “ Frankenstein “ di Mary Shelley ). Improvvisamente è senza un rifugio e senza qualcuno di cui potersi fidare, anche se, e qui la narrazione utilizza la prima persona, “… sono Griffin, dell’ University College, un uomo del tutto normale che si è reso invisibile “…
In questo momento sente il bisogno di privilegiare l’ aspetto personale, di affidarsi a un qualsiasi essere umano e alla sua misericordia ed emergono tutte le cose che un uomo può desiderare e che l’ invisibilità non può restituire, l’ amore, l’ ambizione, la condivisione, rendendosi conto di quello che è, “… un mistero ammantato “…, “….una caricatura avvolta da fasce e bende “….
Ed allora la propria invisibilità si trasforma in collera e malvagità, il tentativo folle di instaurare un regno del “ Terrore “, del tutto fuori controllo, trasformando la scena in una tragicommedia dell’ assurdo con una fine scontata.
Un romanzo con un’ idea interessante, che riprende spunti letterari ( riferimenti a Shakespeare, Stevenson, Christopher Marlowe, ) e aspetti prettamente scientifici, ma che non convince pienamente, perché si mantiene a metà tra letteratura e scienza sfuggendo a una personale definizione.
Che cosa prevale, l’ asettica invisibilità e dotta disquisizione dello scienziato o la tormentata parabola di dissolvenza di un uomo solo che soffre della propria diversità? L’ impressione è di una marcata dicotomia tra le due parti che l’ autore non riesce pienamente a coagulare, generando un’ opera zoppicante con una risoluzione piuttosto scontata.

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68 Opinione inserita da 68    30 Aprile, 2022
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Quale vita?

Sudamerica, In una sperduta e imprecisata terra di frontiera tra oriente e occidente bene e male coesistono con realtà e leggenda, un luogo nel quale si riversa una moltitudine di persone in fuga da una epidemia di morte sperando di dare una degna sepoltura ai propri cari.
Due donne, Angustias Romero e Visitacion Salazar, intraprendono un viaggio di comunanza nel cuore delle proprie diversità respirando un dolore condiviso ai confini di vita e morte, restituendo un briciolo di dignità a esistenze precocemente strozzate da un mondo crudele e palesemente ingiusto.
All’ interno di una trama cruda e per stomaci forti che continua a riversare orrore, sopraffazione e morte, la vita è un soffio di vento, la corruzione imperversa e c’è chi ha eretto il proprio impero sulla pelle della povera gente, trafficando persone in cambio di armi in un luogo in cui la droga da’ da vivere, mentre il volto smunto e affranto di Angustias non chiede altro che rimanere accanto alle proprie giovani creature defunte.
Visitacion, una nera il cui nome è sulla bocca di tutti, pare una figura a metà tra il reale il leggendario, qualcuno a cui affidare la disperazione di chi non ha niente, neppure un posto dove sotterrare i propri morti. In realtà è ben altro, ne’ una santa ne’ una trafficante ma una donna come tante, che beve, balla e fuma, si gode la fugacità del presente, seppellisce la gente da una vita, racconta storie più o meno vere, magnetizza il mondo, più famosa della Madonna.
La gente le si avvicina continuamente chiedendole consolazione e aiuto per seppellire i propri cari, d’ altronde ai morti va ridato quello che la vita gli ha tolto ed è importante riportarli in questo mondo anche se non ci vivono più.
La verità sottesa dice che tutti questi morti non torneranno, la loro sepoltura ci riporta al senso dell’ essere vivi.
Angustias, rappresa in un dolore che stenta a metabolizzare e a coagulare, affianca Visitacion, sovente non ne comprende intenzioni e ragionamenti, sospinta dal desiderio irrinunciabile di stare vicino alla tomba dei propri figli, unico modo per mantenerli in vita, finché un incontro cambia le carte in tavola e la riavvicina al vero senso dell’ essere.
Una storia di donne forti, aspre, testarde, torchiate dalla sofferenza, ma anche generose, altruiste, coraggiose, in se’ un senso d’amore materno, la necessità di portare i soldi a casa, la volontà di capovolgere un destino già scritto e di raddrizzare un torto subito.
Per contro un microcosmo maschile corrotto e perverso, così vuoto da continuare a farsi la guerra e sparire per sempre, sopravvissuto solo per scontare le proprie colpe su questa terra, eccezionalmente in grado di ravvedersi.
Un romanzo intenso, prezioso, necessario, laddove la cruda realtà ricopre i sentimenti, la solitudini si apre alla condivisione, l’ accettazione riscopre la speranza, universo allargato di due donne vere, cuore del mondo, Angustias e Asuncion.

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68 Opinione inserita da 68    18 Aprile, 2022
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Relazioni insondabili

Al centro di una famiglia vagamente ebraica, i tre fratelli Popper, Serge, Jean e Nana’, alla soglia dei sessant’anni, rivivono nelle parole e nel racconto di Jean il legame che lì ha caratterizzati, fragilmente esposti alla memoria di una gioventù condivisa e di un presente in cui poco hanno da spartire, in particolare da quando è mancata la figura materna che teneva in piedi la loro sgangherata baracca famigliare.
Jean, il fratello di mezzo, è pervaso dall’ idea di trattenere e vivere un rapporto logorato dal tempo, dai cambiamenti, da legami inconcepibili, da conflitti irrisolti, da incompatibilità caratteriali, riflettendo sull’ insensatezza del presente, sul significato della propria essenza, riproponendo immagini fluide del passato e l’ origine del proprio malcontento in questa parabola di cupa dissolvenza.
Di fatto la percezione del tempo è un fatto del tutto soggettivo che riguarda il proprio io più profondo, ma i tre fratelli resteranno sospesi in un tempo in cui nulla è cambiato e continueranno a sentirsi semplicemente i Popper.
Jean è il gregario, il senza personalità, Nana’ la cocca di mamma e papà, la smorfiosetta, Serge il primogenito, il condottiero, lo spericolato.
Da dove origina il loro senso di appartenenza, sono così evidenti le differenze caratteriali, privi di una storia famigliare di cui farsi carico, conservare e trasmettere, affetti da individualismo ed egocentrismo ( Serge ), imbrattati da una socialità tardiva ( Nana’ ) e da un senso di incompiutezza ( Jean )?
Ogni legame sembra sfaldato, un ebraismo di facciata poco profondo e includente, radici genitoriali dissolte nella malattia, storie personali frammentarie e fallimentari, singole ed esposte a un senso di lontananza, figli, nipoti, amici, amanti, semplice merce di scambio nel proprio contorto e controverso ambito relazionale.
E allora che cosa mantiene questo respiro di condivisione? In fondo i legami fraterni si sbilanciano e si disperdono finendo per non ridursi ad altro che …” a un sottile nastrino di sentimenti o di conformismo “...
Serge e Nana vivono un dissidio profondo, l’ altruismo dell’ una cozza contro l’ egoismo dell’ altro, neppure il viaggio nel dolore e nella memoria di Auschwitz riuscirà a riavvicinarli, ne’ i tentativi di riconciliazione da parte di Jean, ciascuno cercherà di trascinare il fratello dalla propria parte prima di allontanarsi definitivamente l’ uno dall’ altra.
Forse Jean, in questa suo essere così conciliante, e’ sospinto dal proprio senso di fallimento, dal sentirsi un orfano in simbiosi con le prime letture d’ infanzia, dal desiderio di essere benvoluto, di non essere solo al mondo anche senza figli, dalla paura di perdere Serge pur vergognandosi della sua imbecillità, dalla vana ricerca della natura primigenia di Nana’, invecchiando e sprofondato in una vena melodrammatica.
Ecco un fluire di accadimenti e di sentimenti all’ interno di una vita ingiusta o solamente diversa da come la si credeva, le separazioni non sono evidenti ne’ definitive, le relazioni semplicemente esistono, continuano, si assentano, ritornano, certi legami si autoalimentano.
Yasmina Reza, considerata uno dei principali drammaturghi contemporanei, si addentra in una dimensione temporale e relazionale in cui il tempo sembra assentarsi, scandito dalla voce dell’ interiorità. Con un linguaggio vivo, diretto, pulsante, a tratti sarcastico e un’ ambientazione scarnificata, espone i tormenti di vite che sembrano sfuggirsi e legarsi in un rapporto indecifrabile.
Alla fine che cosa conta realmente se non il fluire della vita stessa?

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68 Opinione inserita da 68    13 Aprile, 2022
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Incantevole estate

… “ Il pensiero di Deephaven ci farà sempre ricordare le nostre lunghe e tranquille giornate estive, la lettura ad alta voce sugli scogli in riva al mare, la fresca aria salmastra e lo spettacolo dei tramonti, il lamento del canto domenicale dei salmi in chiesa, i licheni gialli che crescevano sugli alberi, sulle case e sui muri di pietra; le gite in barca e i vagabondaggi sulla riva; a come tutti furono gentili con entrambe. Voltandoci vedremmo la lanterna del faro risplendere sull’ acqua, e il vasto mare in movimento ci parlerebbe pigramente nel suo sonno indolente dell’ alta marea “…

Un’ estate indimenticabile vissuta a Deephaven, piccolo borgo marinaro del New England, da due inseparabili amiche d’ infanzia, Helen Denis, la voce narrante, e Kate Lancaster, premurosa, generosa, divertente, un racconto che non ha nulla di autobiografico ma è il resoconto di una vacanza alla scoperta di un luogo “ magico “ e speciale al di fuori della propria radice cittadina.
Questo romanzo di fine ‘800 dell’ autrice americana Sarah Orne Jewett ( 1849-1909 ) accostata per certi versi a Mary E. Wilkins Freeman e a Mark Twain all’ interno di quel filone che da un certo realismo si spinge verso il naturalismo letterario, esprime anche altro.
Tra le pagine un esplicito riferimento dell’ autrice alle Dame di Llangollen, che alla fine del ‘700 fuggirono dal paese natale gallese per sottrarsi a un destino già deciso e vivere intensamente la propria femminilità in una vita che, per la loro presunta omosessualità, aveva generato scandalo e ammirazione.
E ancora, la stretta relazione tra Helen e Kate con l’ impossibilità di immaginarsi lontane l’ una dall’ altra, può essere definita un Boston marriage, termine reso famoso dal romanzo di Henry James “ the Bostonians “ ( 1886 ) a indicare una via di uscita per le donne che volevano rendersi indipendenti dagli uomini e che lottavano per l’ emancipazione e i diritti femminili in una società in cui l’ omosessualità era ancora un tabù ma che, considerando l’ universo femminile privo di qualsiasi desiderio sessuale, le lasciava libere di scambiarsi anche in pubblico degli espliciti gesti d’ affetto senza destare sospetto.
Helen e Kate si nutrono della semplice quotidianità del piccolo borgo, si concentrano sulla vita e sul carattere dei suoi abitanti, ingentilite dal pensiero e dall’ osservazione delle cose semplici, interessate e curiose verso ciò che agli altri parrebbe insignificante.
Deephaven è un paesino di pescatori, rigidamente autoctono, con livelli sociali ben definiti, tempi scanditi dalla pace e dalla tranquillità, dal faro e dall’ oceano, dai pittoreschi abitanti che la popolano da sempre i cui racconti irrobustiscono memoria e conoscenza.
Le due giovani donne vi si accostano con naturalezza, precedute dal buon nome della prozia di Kate, recentemente scomparsa, nella cui grande casa si stabiliscono.
Qui gli orologi e i nativi sono fermi da anni, ogni cosa è influenzata dal mare, nessuna frequentazione giovanile, il paesino sembra una pigra cittadina inglese, non americana, nessun entusiasmo, nessuna fretta, nessuna fabbrica, pochi stranieri.
Non sarebbe corretto pensare a un romanzo di semplice matrice naturalistica bensì a un viaggio nell’ interiorità e nella maturità delle due giovani protagoniste che scoprono l’ intensità e il significato di una vita cristiana, consapevoli del mistero e della inevitabilità della morte, della finitezza del presente, che vivono il senso di privazione dal superfluo e lo spirito intatto nelle cose ritenute inanimate. Un’ essenza emersa da caratteri peculiari, la calma, la serietà e la serenità di chi vive a stretto contatto con la natura seguendone gli istinti più veri, nessuna irrazionalità come parrebbero credere i saggi per definizione.
Helen e Kate possiederanno il respiro intenso di un’ estate del tutto particolare, continueranno a condividersi, faticheranno a lasciare Deephaven anche se mai rinuncerebbero alla propria attitudine cittadina.
Entrate in punta di piedi alla scoperta di questo angolo di mondo, hanno osservato, imparato, comunicato, condiviso, si sono ritagliate momenti di ascolto e di silenzio, impressionate dal quotidiano e da quanto romanticismo, tragedia e avventura si possono trovare in una tranquilla cittadina di campagna di altri tempi.

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68 Opinione inserita da 68    10 Aprile, 2022
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Verità negata

New York, anni ‘80, una famiglia borghese imperfetta scopre un copione diverso da quello vissuto e immaginato durante ventisette anni di matrimonio.
Philip, il giovane protagonista, ha combattuto da sempre con la propria omosessualità sottraendola agli occhi e al giudizio dei genitori per paura che smettano di volergli bene.
Aspetta che qualcosa segni l’ inizio della sua vita da adulto, una vita che non vorrebbe rivivere, e ne è contento, lo sguardo affamato di futuro.
Per contro Rose e Owen ( i suoi genitori ), costretti a vendere la propria casa, si scoprono impreparati a qualsiasi idea di futuro e si rivolgono preoccupati al passato. Impiegati in un lavoro di routine tra editoria e insegnamento conducono una vita famigliare fatta di lunghi momenti di solitudine e domeniche da separati, aspettando a casa e camminando altrove, forse con un posto dove andare, forse no.
Un ménage famigliare come tanti, nessun litigio o discussione, Philip mantiene il riserbo ma è evidente la sua sofferenza e la scarsa autostima.
Di famiglia in realtà poco si tratta, ciascuno si mostra confuso, smarrito, artefatto, anime che si specchiano in un reale poco gratificante e si trascinano in luoghi non condivisi e in una verità negata anche a se stessi.
Owen da sempre e’ combattuto da un senso di colpa che non lo lascia dormire, costretto a camminare senza destinazione, Rose si sente invisibile, abbandonata a se stessa, una donna di mezza età dallo sguardo pensieroso di cui provare pietà, che sta cercando di vivere tra le macerie di una sembianza, nessuno dei due vuole affrontare il reale, neppure quando si incrociano casualmente a spasso per la città, imbarazzati, silenti, due estranei.
Philip avrà una breve relazione piuttosto tardiva, idilliaca e piena di ansia, terrorizzato dall’ idea di non piacere abbastanza, sentendosi sempre in difetto, e temendo che la fine del suo rapporto con Eliot sia la fine di tutto.
Nel turbine degli accadimenti la verità non può più essere procrastinata, pena la fine della vita stessa e la rottura definitiva. Un’ espiazione è necessaria, d’altronde gli incubi si susseguono, i sospetti anche, non è più possibile temporeggiare.
Sospetti confermati, un passato che è un rimescolio di attimi e un tentativo di ovattare il presente, una solitudine estesa al senso di niente, la vita richiama un’ idea di famiglia mai esistita.
Ecco un ribaltamento di ruoli, improvviso, da confessore a confidente, c’è chi non è disposto al perdono, chi finalmente si sente sollevato, chi ha la necessità di trovare un riparo.
E allora genitori e figli paiono creature fragili all’ interno di un enigma, una vita che ai figli riserva un destino diverso, la possibilità di un futuro vestito di una maturità uscita da un passato lasciato alle spalle.
Leavitt, in questo suo primo romanzo, descrive un nucleo famigliare inesistente e allo sbando che tocca singolarmente il fondo di solitudine e depravazione nascoste da convenzione sociale, convincimenti e colpe personali, una sola bugia a logorare il tessuto della propria vita.
Come si può guardare il proprio figlio e marito senza riconoscerli, sperare di essere altro, ritenere il matrimonio unica cura della “ malattia “ ? Come si può sperare di conservare un’ identità sessuale negata anche a se’ stessi? Come si possono dominare e superare ansie e paure?

“…Qualunque sia la cosa che amiamo è ciò che siamo “...

Vero, ma quanto è duro e complesso, forse impossibile, deviare da questo lungo percorso di sofferenza, menzogna e invivibilita ’.

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68 Opinione inserita da 68    10 Aprile, 2022
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Melodia d’autore

Una dolce melodia risuona nella delicata prosa di Abdulrazak Gurnah, recente premio Nobel per la letteratura, scrittore africano naturalizzato inglese cantore di un angolo di continente ( Zanzibar ) con evidenti contaminazioni mediorientali e reduce da un passato di colonizzazione, voce pacata e poetica espressione di cultura, saggezza, profondità.
In un’ Inghilterra rifugio di un’umanità in fuga da una terra percossa da governi fragili e persecutori, senza presente e futuro, l’ anziano protagonista del romanzo, Saleh Omar, mercante di mobili, oggi vive la mezza vita di uno straniero in una terra aliena con i timori e l’ agitazione che sente attorno a se’ mentre cammina nelle vie della piccola città di mare in cui è approdato.
Il passato ha le sembianze di un angolo di terra molto lontano sulle rive di un caldo oceano verde, quella porzione di Africa orientale dove risuona la lingua kishwahlili, in se’ conserva le innnumerevoli voci del passato, la fragranza dell’ out-al-qamari, il soffio dei musim, i venti monsonici, immagini trasferite nel presente grazie a una presenza ignara di quello che è stato, Latif Mahmud, un rifugiato come lui che a sua volta si è costruito una vita in questa terra, in fuga dal passato e da una famiglia a pezzi, che lo ha riconosciuto grazie al nome che porta, di un nemico e di un padre, un nome falso ma necessario a salvargli la vita.
Oggi Saleh Omar è un uomo privo d’identità, lasciato a marcire e umiliato, uno strumento all’ interno delle belle storie di altri, ma qualcuno deve farsi carico della sua vita, il recupero della propria storia passa attraverso il riconoscimento, una maschera che cade facendo riemergere ricordi dolci e crudeli.
Ha Inizio una narrazione duale, una trama complessa con radici lontane, un rapporto di odio e di malinformazione, il rimescolio di voci e di tradizioni, di popoli e di culture contaminate e diverse, storie di mercanti e di marinai, di uomini e di famiglie divise, spezzate, di lotte intestine e di perdite, di colonizzatori che un giorno se ne sarebbero andati lasciando caos e violenza insieme alla fine del loro impero.
La narrazione si copre delle fragranze e della melodiosa presenza di una terra nostalgicamente lontana, ma anche del dolore e della sofferenza di un passato violento con il gusto un po’ amaro della meschinità e della vanità personale e una critica a un occidente che non ha saputo che colonizzare e dimenticare.
Di fronte a lui un uomo colto che non si è concesso all’ odio e alla vendetta, il cui sorriso sembra esprimere calma e rassegnazione, che si è costruito una vita altrove, lontano dalla propria terra da più di trent’anni, poeta e insegnante di letteratura, che ricorda un padre rassegnato nella sua futilità.
In questi lunghi momenti la ricostruzione di un intreccio dalle radici lontane stravolge il presente in una nuova versione che ridefinisce i rapporti e cancella le ombre, la frequentazione e la curiosità ispirano la voglia di ritornare in un luogo e in un tempo che si è lascati alle spalle, di sentire il racconto della controparte, di trovare un po’ di sollievo. Intanto il “ nemico “ continua il lungo racconto e confessa le proprie colpe, un destino favorevole e avverso nel cuore di una verità da rivelare, una confessione necessaria che non chiede l’ assoluzione dei propri peccati

D’ altronde … “ è un posto triste il paese della memoria, un deposito buio con pavimenti marci e scale arrugginite dove a volte si passa il tempo frugando tra cose abbandonate “…

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68 Opinione inserita da 68    30 Marzo, 2022
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Quale vita?

“ L’ uomo che aveva visto tutto “ è un labirinto inafferrabile, un contorto giuoco mentale e di specchi, strani accadimenti che attraversano il tempo, particolari che richiamano la memoria e frammentano il reale, suoni, voci, immagini, protagonisti, tutto cambia in un viaggio dai contorni metatemporali.
Realtà e fantasia, prima, dopo, durante, una ricostruzione improbabile, impossibile e non necessaria.
Il romanzo inquadra pochi fatti. 1988, Saul Adler, il protagonista, uno storico specializzato nello studio dei paesi dell’ Europa dell’ est comunista, viene investito senza conseguenze apparenti da un’ automobile sulle strisce pedonali di Abbey Road a Londra, rese famose da una celebre copertina di un album dei Beatles. La sua vita pare riprendere forma ma viene lasciato dalla fidanzata, Jennifer Moreau, una talentuosa fotografa che vorrebbe sposare, si trasferisce per un periodo a Berlino per conoscere e scrivere sulla vita nella Germania dell’ est poco prima della caduta del Muro, frequenta due fratelli, Walter e Luna, si innamora, li tradisce, ritorna in patria e trent’anni dopo viene nuovamente investito sulle stesse strisce pedonali e si ritrova a riflettere in un letto d’ ospedale.
In questi trent’anni ha convissuto con vuoti di memoria, conosce pezzi di futuro, è attraversato e ossessionato da sensazioni famigliari, vede volti e persone che ritornano, interpreta situazioni, ricorda frammenti di vita, ignora porzioni della stessa, confonde i volti, insegue una logica all’ interno del proprio senso di fallimento.
Il lettore è rapito dall’ idea di una possibile ricostruzione consequenziale, di dare un volto a persone invecchiate e ringiovanite in un istante e nella stessa stanza, presenze che parlano dal passato e dal futuro a qualcuno che non c’è, cercando cause ed effetti.
Tutto cambia, rimosso da una nuova versione dei fatti, le poche certezze sfumano in personaggi che ne interpretano altri o che non esistono se non nella mente allucinata e fragile del protagonista.
Quante trame, parole e gesti necessari per scardinare il visibile e afferrare l’ inafferrabile nel caos di una vita indefinibile. Perché Jennifer non si fida di Saul e il suo progetto di matrimonio è fallito? Quale relazione con un padre autoritario e comunista e con un fratello sadico e violento?
E la comunione con Walter il cui sguardo gli legge dentro e la cui presenza lo fa sentire libero? E l’ affetto per l’ amico Jack, un tipo che sembra non avere sentimenti, poco amabile perché poco amorevole? Cosa dire di una madre impressa nella propria mente dall’ età’ in cui è morta? Che ne è stato di Luna, lunatica come il proprio nome, innamorata dei Beatles, che voleva costruirsi un futuro altrove?
E tutte quegli oggetti e sensazioni che hanno accompagnato il viaggio di Paul, una scatola di fiammiferi contenente delle ceneri, l’ obiettivo di una macchina fotografica sempre puntato contro, le foto di un’ altra geografia e di un altro tempo, dell’ ananas in scatola da comprare, un barboncino a cui parlare, un presunto incendio, una fidanzata che amava il suo corpo e che gli ha sempre impedito di descriverla fisicamente?
Nel 2016, in un letto di ospedale, Saul Adler si domanda cosa ne è stato di se’ e che cosa è successo in tutti questi anni, lui che non è mai riuscito ad avere una relazione libera con il proprio corpo, che non è mai stato libero, sempre distaccato e assente, che ha abbandonato ogni volta l’ intimità, che non sa come gestire la vita e quello che essa comporta, responsabilità, amore, solitudine, sesso, storia, che ha scoperto uno spettro in ogni fotografia.
“ L’ uomo che aveva visto tutto “ esce da un costrutto classico per trascinarci in un caos che ci induca a riflettere sul significato della parola libertà, vera e presunta, sul senso di prigionia e di autoritarismo, sulla finzione e il legame con il proprio corpo, sulla vita con la sua onda sentimentale, su sbarramenti reali e immaginari.
Della propria vita si è capito ben poco così come di quella degli altri, forse tutte quelle fotografie che hanno cercato di fissare un attimo, credendo di impadronirsi dell’ altro, continuano egoisticamente a parlare di se’ e della propria storia.

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68 Opinione inserita da 68    23 Marzo, 2022
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Resa dei conti

… Maimai, Maimai,
dove vai tanto oppressa?
Che cosa porti nella tua casa tanto grande?
Una pena o un fardello, o forse entrambi?
Ah puoi solo andare avanti, come la vita!
Forza Maimai! Addio!…

Il dolore della perdita, luci e ombre di un passato che si risveglia, un ricongiungimento insperato, misteri irrisolti, la forza inafferrabile dell’ amore. L’ ultimo capitolo della pentalogia “ All’ombra del cardo “ si ricopre da subito di una dolorosa presenza, la morte inattesa di Mitsuko accompagnata dal lutto del figlio Taro, erede della sua misteriosa essenza.
Un’ assenza che ne inscena la presenza, il recupero di spezzoni di vita vissuta e sprazzi lucidi della propria infanzia.
Taro è un giovane di straordinaria bellezza e di grande talento pittorico, un “ half “ ( mezzosangue ) che si esprime con il linguaggio dei segni, poco informato sulle proprie origini e sul vissuto materno, del quale Mitsuko ha da sempre mantenuto un tacito riserbo, a metà tra spirito e materia, libraia raffinata e colta che amava discorrere di arte e di filosofia e entaineuse in un bar per uomini facoltosi.
Il giovane è cresciuto con la nonna materna ( Bachan ) che lo ha coccolato sin dall’ infanzia, le vuole bene e ha bisogno di lei, ne ha ereditato il sapere ma continua a ignorare l’ alba dei propri giorni, l’ origine di un padre senza volto che non ha mai conosciuto e un viaggio misterioso che non c’è mai stato.
Il percorso della memoria gli riserva qualcuno che sembra conoscere porzioni di verità, oggetti evocanti ombre e il ricongiungimento con un’ amica d’ infanzia, Hanako, istruita, raffinata, educata, che proviene da un altro mondo e con la quale condividere spezzoni di ricordi e un’affinità che sa di amore ma osteggiata dal desiderio famigliare e da un segreto celato.
Come i versi della poesia che continuamente risuona nella testa di Taro e che Mitsuko gli recitava quando era bambino, ci sono una pena e un fardello da condividere e portare con se’ in una vita di cui non ci si può liberare, come la lumaca ( Maimai ) non può liberarsi della sua conchiglia. A chi sono rivolti questi versi e quale il loro significato sotteso?
La ricerca di un’identità cozza con l’identità supposta o immaginata, ogni storia ne genera un’altra, l’essenza maturata sin dall’ infanzia riscopre il vero volto dell’amore, del perdono e della condivisione.
Che sia giunta l’ora di accogliere il passato e di incamminarsi nel cuore della vita oltre ogni cruda verità inattesa?
La lentezza espositiva, immagini sovrapposte che inseguono i ricordi alternate a lunghe riflessioni di un’interiorità che attinge a fonti eterogenee ma riempita dal silenzio e ricoperta di colori, fragranze, idiomi, un amalgama che trasmette pace ed equilibrio all’ interno della tempesta di accadimenti che investe il racconto.
Questo il maggior pregio di Aki Shimazaki, come già detto per i capitoli precedenti, una semplicità riccamente esposta, un concerto che attraversa, assapora e assorbe il complicato e turbolento viaggio dell’esistenza scongiurando pregiudizio e banalità.

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68 Opinione inserita da 68    21 Marzo, 2022
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Il solco dell’esistenza

Una dimensione personale, psicologica e relazionale attraversa e pervade l’ ultimo romanzo di Eshkol Nevo o almeno così sembrerebbe. Tre racconti distinti della contemporaneità e poche righe condivise ( solo un accenno all’ interno del secondo e del terzo racconto a fatti e personaggi delle storie precedenti ) confluiscono nella comune rappresentazione di un singolo fatto di cronaca che innesca un boomerang di ansia, dolore, mistero, senso di colpa, la ricostruzione di una morte accidentale che pare sospetta, il tentativo di sottrarsi a un’ accusa infamante, la ricerca di un uomo scomparso nel nulla.
Dubbi, incertezze e qualcosa da nascondere, nessuno è perfetto, la ricerca della verità e il tentativo di sottrarsi alla rappresentazione della stessa, causa ed effetto a smuovere le coscienze riportando spezzoni di storie a qualcuno già note, incomprensioni famigliari a lungo negate, anche a se’ stessi, ammettendo colpa, inganno, connivenza, fragilità a indagare i motivi di quello che è stato.
L’autore, in un percorso a lui congeniale e nel rimuginino delle tre voci narranti, ( si pensi a “ Tre piani “ ) si muove in una dimensione psicologica che investe il senso dell’ esistere e ricerca il senso di una vita improvvisamente coperta d’ altro, che nell’ imprevedibilità del proprio corso e di un destino che li riguarda più o meno direttamente invoca momenti di attesa e di riflessione.
Non sappiamo se la soluzione raggiunta e sviscerata sia credibile e definitiva, quanto male e bene siano separati e distinti e se la maschera che indossiamo ceda al sospetto e all’ inganno, fino a che punto vi è una lucida ricostruzione o una recita concordata all’ interno del giuoco della vita e dei sentimenti, sovente sconosciuti a noi stessi.
Un giuoco poco credibile quando si tratta di un’ accusa di omicidio e di adulterio, un affetto sincero e paterno è confuso con altro e un marito amorevole sembra avere vissuto una vita infelice dentro anni di quotidianità condivisa.
Si ha l’ impressione, nel fluire del racconto, che i fatti si inchinino a un’ interpretazione degli stessi soggetta a variabili incontrollabili. E allora ecco che una nuova ricostruzione stravolge l’evidenza, un uomo irretito da una donna capace di premere i giusti pulsanti e per la quale perdere la testa e cadere nell’ abisso, divenendo complice di un crimine. D’ altro canto un’azione esecrabile e molesta ma forse amorevole e paterna può rivelare l’ infinito dolore di una perdita e costringerci a vivere dentro un memoriale di nostalgia mentre domande intrise di colpa si susseguono senza risposta, brandelli di verità nascosti tra le parole di cento brevi racconti.
Nel cuore di queste storie si respira un peso insostenibile, la paura di fallire, il terrore di perdere gli affetti più cari svanendo nel nulla, dimenticati dai propri figli, traditi dall’ altro, piegati dalle proprie debolezze e dai sensi di colpa.
C’è una possibilità di salvezza in un mondo e in circostanze siffatte? L’ impressione è che si narri il complesso scorrere della vita in tutte le sue declinazioni, laddove colpevoli e innocenti si fondono e si confondono per divenire pedine e sfumature nel solco della vita stessa, “ le vie dell’ Eden “, quel giardino così pieno di pericoli e dal quale solo una persona su quattro ne uscì incolume, in sintonia con quanto detto e pensato precedentemente.

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68 Opinione inserita da 68    13 Marzo, 2022
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Solitudini condivise

Il ritorno di Sally Rooney in un romanzo che aspira alla maturità letteraria svela la fragile ed enigmatica essenza dei protagonisti, quattro trentenni diversi e complementari, in un’ambientazione irlandese a metà tra Dublino e uno sperduto paesino di provincia.
Le due voci femminili, Alice, scrittrice di successo ( che possiede i tratti della stessa Sally Rooney ), ed Eileen, redattrice in una piccola rivista letteraria, amiche d’ infanzia, vivono la propria solitudine affettiva e lavorativa con un certo grado di insoddisfazione, specchiandosi nelle ripetute email che si scambiano su vita, amore, politica, filosofia, arte, letteratura. Una corrispondenza che è un modo di aggrapparsi alla vita, prendere appunti e preservare qualcosa di un’ esistenza inutile in un pianeta in rapido decadimento, chiedendosi come vivere nel mondo reale.
Alice ha raggiunto la gloria letteraria, eppure denaro e popolarità non le interessano, la scrittura è l’epicentro della sua vita ma le cose che credeva importanti si rivelano insignificanti e le poche persone che dovrebbero amarla l’hanno abbandonata, imprigionata nella inautenticita’ di un mondo autocelebrativo moralmente e politicamente inutile che si preoccupa di costruire storielle fittizie al di fuori del reale.
Lei stessa, travolta da una totale instabilità emotiva, vive in una grande casa di una località di provincia volutamente circondata da niente, ha perso l’ afflato letterario anche se la scrittura è ciò che vuole essere.
Confusa e infelice, smarritasi nella giungla social di una app di incontri ( Tinder ) si imbatterà in Felix, un uomo enigmatico con una saggezza pacata totalmente estraneo alla letteratura e al bel mondo, un magazziniere che si trascina in un lavoro faticoso, radicato in un microcosmo di concretezza.
Si potrebbe affermare che gli opposti si attraggono, di certo vivono una comunione di intenti e una solitudine autoimposta, la ritrosia nel mostrarsi e una facciata di sicurezza che nasconde fragilità.
Eileen ha un lavoro modesto e poco gratificante che non le da’ sicurezza economica, da tempo impantanata in una relazione d’ amicizia amorosa con il bellissimo Simon, amico di vecchia data, un consulente politico ombroso e sfuggente invischiato in relazioni fugaci con giovani modelle. Simon trasmette un senso di pace, la sua figura bella ed elegante, la sua solitudine silenziosa, la sua autosufficienza.
Paiono fatti l’ uno per l’ altra, la bellezza al servizio dell’amore, fugaci interludi di coppia a colmare spazi di assenza, si lasciano e si riprendono, ignari dei propri desideri. Simon si nasconde dietro un lavoro di responsabilità e un cattolicesimo che ne accentua il senso di colpa, una persona capace e affabile ma emotivamente inaccessibile, Eileen e’ soggetta a una depressione ciclica, sommersa da conflitti famigliari irrisolti, da un senso di inadeguatezza sfociato in scelte discutibili.
Le email tra le due giovani donne sono soliloqui sfociati in una teoria di vita impossibile, una relazione a distanza che pare rimandare la necessità di un incontro, sarà una resa dei conti, un chiarimento impensabile, un incrocio di sguardi, una comunanza allargata? La propria sofferenza continuerà a primeggiare in un mondo poco accogliente e in rapido decadimento o ci sarà un cambiamento di rotta? Sesso e amore vinceranno e daranno un senso?
Un romanzo di rapporti e di sentimenti inserito nel cuore di eventi traumatici, ( la pandemia, il disastro climatico ), trentenni che si interrogano su passato, presente e futuro, invischiati nelle proprie paure, fragilità e solitudini da sempre rimandate all’ interno di un mondo poco accogliente che faticano a comprendere e a vivere.
Sally Rooney da’ prova di una certa maturità stilistica, indubbiamente il romanzo è ben scritto, tra dialoghi interminabili e piuttosto crudi, la rappresentazione di una certa fisicità con pause di riflessione e profondità, ma quanto i protagonisti sono credibili e il contesto funzionale al racconto?
La narrazione corre verso un lieto fine che sappia invertire la rotta di una vita difficile da accettare nella propria essenza imperfetta. Una morale, sesso e amore i cardini giustificanti e gratificanti, ma come cambiare improvvisamente esistenze segnate da altro? È sufficiente l’ incontro e lo scontro dialettico a riannodare anni di assenze? Può uno scrittore vivere un’ affinità elettiva con qualcuno che non ha mai letto un libro e viceversa, e costui può surclassarla per profondità di pensiero e conoscenza? È verosimile che un “ fanatico” religioso che avrebbe voluto farsi prete continui a essere un Don Giovanni incallito? Come possono coesistere email con spiccate doti di profondità e banali superficialismi in cui ricadono gli stessi protagonisti ? Si può accettare una vita all’ interno di un mondo letterario settario e commerciale sfruttandone fama e ricchezza ma denunciandone le storture evidenti? E allora chi si è realmente? Verità o finzione?
Permane un sentimento inafferrabile o semplicemente sconcertante, personaggi reali che cadono nell’ irreale fondendosi e confondendosi indistintamente.
E allora ci si interroga sulla credibilità e veridicità di un costrutto narrativo che pare essere una semplice storia d’amore a lieto fine alla ricerca di consenso in un periodo storico difficile e per molti versi surreale, una lucidità letteraria che nasconde caos, una fragilità espositiva mascherata da una omogeneità disomogenea che non sfugge alla sensibilità del buon lettore avvezzo ad altre profondità.

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68 Opinione inserita da 68    08 Marzo, 2022
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Verità soggettivata

Un romanzo autobiografico per leggersi dentro, un corpo che porta con se’ cicatrici, cambiamenti e le persone incontrate nel lungo viaggio percorso. Chi siamo realmente, come ci vedono gli altri, in che modo attraversiamo le esperienze, quali relazioni contano, quanto le etichette ci lasciano un segno?
Guadalupe Netter, apprezzata scrittrice messicana contemporanea, rivive gli anni della propria infanzia e adolescenza, un periodo essenziale caratterizzato da due visioni differenti, il mondo materno stoico e austero e quello paterno eccessivo e libertario.
Un nomignolo ingombrante, “ il piccolo scarafaggio “, affibbiatole sin da bambina, l’aveva accomunata a Gregor Samsa, ma mentre lui si era trasformato in un insetto lei lo era per decreto materno, oltre a una malattia oculare degenerativa che l’aveva costretta a coprire l’occhio malato in attesa di un trapianto di cornea.
Era dentro quel corpo in cui era nata e con cui convivere, un cerotto sull’ occhio che le provocava sensazioni di oppressione e di ingiustizia ma che non ha mai cercato di togliersi. L’ infanzia trascorre in silenzio, defilata, in attesa di qualcosa, dietro un vetro a osservare il mondo e i suoi cambiamenti, con la precoce passione per la scrittura, abbandonata alle cure intransigenti e ottocentesche di una nonna piuttosto eccentrica.
Due genitori con un originale modello educativo, ostili alla menzogna, contrari alla magia del Natale, un’ educazione sessuale senza tabù e repressioni di sorta, la smania correttiva materna a rappresentarne le ossessioni. Il loro matrimonio termina precocemente e si ripercuote in assenze prolungate e per motivi diversi, nel frattempo Guadalupe ha la necessità di crearsi una geografia alternativa, un territorio segreto all’interno del quale muoversi senza essere vista, rifugiandosi nella lettura e nella scrittura, un mondo a parte da plasmare e riconoscere.
Trascorre Infanzia e adolescenza tra Messico e Francia, culture e lingue diverse, strati sociali ben definiti e società multietnica, cambiamenti politici e culturali, un microcosmo intrafamigliare spezzettato e poco invitante, un errore della memoria dove gli altri decidono per lei, regole da infrangere, amicizie rarefatte, passioni fragili, una certa ritrosia nel mostrarsi, la scarsa considerazione di se’.
Cresce, cambia, ricorda, ma sa riconoscere i pregi di chi le sta accanto o si rifiuta di farlo. Definirà, da adulta, il proprio rapporto con la madre con una certa amarezza per tutto ciò che non è stato e non sarà mai, senza rancore, una storia d’amore e di incontri mancati.
C’è da chiedersi cosa resterà di questa storia, quali gli sviluppi, ogni tentativo di oggettività nasconde un quid soggettivo e un’ infinita’ di interpretazioni di cui non si è pienamente coscienti e sicuramente un senso di confusione nello scoperchiare i ricordi e i dolori pregressi con il dubbio che tutto ciò forse non serve a niente.
E allora quale la differenza tra una storia vissuta e un racconto vissuto un’ infinita’ di volte e che cosa c’è dietro quel senso di dissolvimento che l’autrice ha avvertito dal momento in cui ha iniziato a scrivere?
Rimane un senso di incompiutezza all’ interno di pagine scritte con rabbia ma impregnate di dolcezza, un realismo che entra minuziosamente nei sogni e nei desideri di una bambina che si sente derubata di affetti sinceri, che ricorda dettagliatamente volti e parole in un presente traslato e riproposto con le sensazioni di un adulto e quindi inevitabilmente diverso.
La domanda è sempre la stessa: quanto resta dentro di noi, identici, cambiati, diversi, quanto permangono i vuoti affettivi e le sofferenze o solo i rimpianti, e tutto il bello vissuto e le poche amicizie sincere, e il potere salvifico della letteratura e della scrittura? Lo stesso vale per gli altri, chi sono realmente, come hanno vissuto e come ci vedono oggi?
Difficile viverlo e soprattutto scriverlo, permane il dubbio primario che la nostra storia e versione dei fatti non sia la sola, la verità non esiste se non nella interpretazione della stessa, non resta che conviverci con una sana consapevolezza.

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68 Opinione inserita da 68    28 Febbraio, 2022
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Quale vita?

Una vita precocemente sottratta agli slanci dell’ adolescenza diverrà, con il tempo, legame a tre, fallimento salvifico, accomunati dai rimpianti e da una certa allergia verso il mondo.
Pietro Benati e’ un ragazzo sensibile, forse troppo, condannato sin da bambino nella sua Pisa da una strana versione dei fatti, la sparizione e il fallimento di tutti i maschi della famiglia, dal nonno al padre, una spada di Damocle che sembra sbarrargli qualsiasi idea di futuro.
Cresciuto all’ ombra del fratello Tommaso, figliuol prodigo che trasforma in oro tutto quello che tocca, studente modello, calciatore di talento, brillante, estroverso, carismatico, Pietro al contrario è impantanato nella riservatezza dell’ introversione, porta gli occhiali, ha una postura intimidita e riservata, pochi amici, rari slanci emotivi, scarsa stima di se’.
Vive un conflitto interminabile con una madre apprensiva all’eccesso, un padre che passa da un lavoro all’altro inseguendo il mito del denaro, una devozione assoluta per Tommaso, sua ancora, proiezione di se’, al quale è legato da un rapporto speciale nutrito dalla reciproca diversità.
Pietro pare ostaggio di una maledizione e di un proprio modo di essere, uno a cui non capita mai niente, forse senza nessuna curiosità per il mondo, ogni inizio preannuncia una fine e un disastro imminenti. In lui insorgono desideri rarefatti e spesso assoluti cui dedicare animo e corpo come il sogno di diventare il più grande chitarrista di sempre, una stima all’ eccesso e delusioni cocenti, per ritornare ogni volta nel proprio angolo di introversione, sprofondato in un non senso che ne ha frantumato l’ equilibrio precario e le poche certezze.
Sospinto dalla vitalità di Tommaso arriverà il momento in cui tracciare una via, lasciando lo scarno lessico famigliare per coltivare il proprio talento linguistico specchiandosi nella tormentata sofferenza e solitudine affettiva di Dora, una ragazza incasinata e imprevedibile che sembra vivere altrove, in un mondo segreto e solo suo, vittima della propria aggressiva estroversione, troppo succube dei sensi di colpa per abbracciare qualsiasi senso di felicità, immersa in disastri affettivi e incompletezze famigliari, in realtà imbrattata di una romantica solitudine disperante.
E poi c’è Laurent, campione di surf, una giovane carriera distrutta da un infortunio, rampollo di una famiglia atrocemente assorta nei propri privilegi, allegro e malinconico gigolo’ con un’ identità tutta da scoprire.
Tre vite consumate, frantumate, affrante, soliloqui annunciati per l’ inaccessibilità di una condivisione e per la negazione dei propri desideri. Quale la colpa originaria, mentre una tragedia riporta al proprio senso di solitudine e annientamento? È possibile individuare una strada accartocciati in un dolore così vivo e pulsante?
Nessuna risposta, se non tra le pagine e tra i giorni di una vita vissuta. Dolore, rabbia, lutto, rifiuto, accettazione, condivisione, appartenenza, il lasciare andare, semplicemente il vivere o il tornare a vivere. Il passato, accolto e rielaborato, pare dissolversi, alcune figure assentarsi per sempre, altre presupporre una rinascita, la parola consapevolezza appartenere a un nuovo e personale lessico sentimentale.
Un romanzo piacevole che scorre velocemente nella fretta del quotidiano rincorrendo un senso di vita tra i tormenti di una vita complicata e complessa che pare abbandonarsi a un destino già scritto ma che sa trovare un antidoto prima della dissolvenza.
Una scrittura colloquiale, diretta, viva, pulsante, non banale, che ben trasmette la variegata espressione ed esplosione linguistica di una certa toscanita’. Temi importanti trattati con leggerezza in un respiro autoironico e dissacrante che lasciano un filo di romantica melanconia nella tormentata essenza e nel dolce respiro affannato dei protagonisti.

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Fantascienza
 
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68 Opinione inserita da 68    22 Febbraio, 2022
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Destino già scritto

Un viaggio attraverso tre secoli, passato, presente e futuro, molteplici tracce in epoche accomunate da un luogo che ritorna ( la dimora di Washington Square Park ), da omonimie e da una sensazione condivisa, la definizione di se’, la ricerca di un posto dove stare, la realizzazione dei propri sogni, il bisogno di essere amati e di sentirsi liberi.
Quanto è difficile essere se stessi in un mondo dove tutto pare deciso e vigono matrimoni combinati, posti che ci posseggono dai quali non si può scappare.
E allora a cosa serve vivere in uno stato libero se non possiamo essere veramente liberi, si chiede David Bingham, il protagonista della prima storia, ambientata in una New York di fine ‘800, in un’ America divisa tra Stati liberi e non, dove l’ omosessualità è legalizzata o severamente perseguita, un giovane di buona famiglia che non ha mai deciso niente, sempre pacato e corretto, imprigionato in un destino che pare già scritto, tuttora ingabbiato nei propri desideri, con una scelta identitaria e di vita da compiere.
È possibile amare altrove, allontanarsi dalle proprie radici in fuga da un padre ripudiato che ci somiglia, all’ inseguimento di un amore diverso, ma è terribilmente complicato quando non si sa esattamente dove stare e il proprio dolore non è compreso ne’ condiviso.
Così è per il protagonista della seconda storia, ambientata a Manhattan alla fine del ‘900, in un luogo dominato dall’ AIDS, un altro David che ha scelto di fuggire la propria rabbia, di nascondersi per non essere trovato vivendo e amando un uomo facoltoso e molto più anziano di lui.
L’ abbandono della famiglia ( originaria delle Hawaii ) non lo porterà a niente, se non, anni dopo, a un senso di non libertà e alla certezza che conoscere e amare qualcuno significa ricordarlo in una vita inestricabile da quella degli altri.
David protrae il dialogo a distanza con un padre che a sua volta ha compiuto una scelta estrema in nome di un amore da preservare, egoisticamente, consegnando la propria vita e quella del figlio a qualcun altro.
Un futuro ci attende, nel cuore del ventunesimo secolo, un tempo di epidemie e di pandemie, dove sembra non esserci amore ne’ desiderio se non una lotta alienante e alienata, esautorati da un senso di libertà ignoto alle generazioni future.
In questo triste tempo, soggiogati dalla mostruosità di uno stato che ha violato tutte le libertà civili fondamentali, pagando un durissimo prezzo per controllare le malattie in atto, ogni concetto di umanità è venuto a mancare.
Centri di contenimento, di ricollocamento, frontiere chiuse, viaggi internazionali negati, teorie complottiste, gravi pandemie, lotta all’ omosessualità, nuove pandemie create ad arte.
È qui che una giovane donna ( Charlie ) si chiede se sappia veramente amare e se è mai stata amata, quando è stata l’ ultima volta che è stato pronunciato il suo nome con la voglia di conoscerla, quale sarà il destino del suo matrimonio, e uno scienziato ( il nonno di Charlie ) è affranto dall’Idea di come abbia potuto consegnare un mondo siffatto alle generazioni future, un posto dove sopravvivere nel presente e in cui il passato non conta più.
Nel futuro prossimo la gente sarà affetta da una passività legata alla paura della malattia, l’ istinto di conservazione della salute avrà eclissato desideri e valori precedenti insieme a verità inalienabili.
Rimangono legami e immagini flebili, stralci di un’ umanità perduta, il senso di colpa, il ricordo di un amore ad accomunare destini difformi e in parte segnati e congiunti quando ogni rimedio parrebbe impossibile.
“ Verso il paradiso “ è un testo corposo con una narrazione poco convincente, piuttosto scollata e prolissa, che suscita nel lettore un senso di distacco e scarso coinvolgimento, forse volutamente, un testo che si perde in un eccesso di se’, cercando di adeguare il linguaggio al fluire del tempo, rinforzando l’eco di un passato che ritorna anche quando pare non esservene più traccia.
Nel primo capitolo incombe un senso di solitudine emotiva e di soffocamento, nel secondo la nostalgia del passato e l’ idea di un sentimento negato, la terza parte è un grido disperato in un reale arido e asettico, dominato da luoghi non luoghi, imprigionati in un’ essenza di malattia totalizzante che ha rimosso qualsiasi sentire.
È in quel mentre che una voce sgorga dal profondo, quando la vita si è fatta estranea e ogni dialogo assente, in un’ atmosfera assai poco seducente da “ Il Racconto dell'’ ancella “, un senso di umanità disperante, un lumicino che pare accogliere altre storie e gli stessi significati, un sacrificio estremo per un amore da compiersi.
Per chi, come il sottoscritto, aveva apprezzato il precedente “ Una vita come tante “, la delusione è stata evidente insieme alla difficoltà di portare a termine la lettura. Nel mentre una domanda lecita incombe: dove l’ autrice voleva condurci?

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68 Opinione inserita da 68    19 Febbraio, 2022
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Figlio di chi?

Un racconto “ strano “, così definito nell’ incipit dallo stesso Massimo Bontempelli, “ Il figlio di due madri “ ( 1929 ) rientra nell’ ambito di costruzione della nuova narrativa novecentista da lui auspicata tra le righe della rivista Novecento. Ne nasce un vero e proprio romanzo, con una costruzione cinematografica, corredato dallo sviluppo di una storia, piuttosto lontano dalla vena creativa e ironica dell’ autore, un romanzo intriso di realismo magico, che esclude ogni personalizzazione per assumere la terza persona in una rappresentazione a metà tra realtà e inconscio, verità e ipnotismo, una duplicità che ne accarezza i contenuti.
La trama è semplice quanto paradossale. Mario, il giorno del suo ottavo compleanno, improvvisamente, come rapito da un sogno, chiede alla madre Arianna di essere ricondotto da Luciana, che ritiene la sua vera madre, di cui incredibilmente conosce indirizzo e dettagli personali, scatenando una ridda di eventi e un duello tra le parti. Un bambino, due nomi ( Mario e Ramiro, il prima e il dopo ), due date di nascita, la stessa età, otto anni di distanza, due madri, due padri, due case, strane coincidenze, il sospetto che si tratti di un inganno, di una malattia psichica, di una montatura ad arte, di un trauma emozionale, di un delirio lucido, di un semplice attacco di follia.
Particolari troppo vividi per non essere ritenuti veri, un duello a distanza, tra incomprensione e dichiarata follia, una lotta intestina per accaparrarsi l’ amore incondizionato di un figlio che pare avere smarrito la memoria da un lato e riacquisito lucidità dall’ altro.
Impossibile dire che cosa è successo, non resta che seguire il rimescolio di voci e pretese in una guerra tra adulti, per contro l’ ingenua lucidità di un bimbo che richiede di riabbracciare l’ amore materno.
Due donne, due madri, due mondi, le protagoniste assolute del racconto, più di quel figlio che pare strumentale e dei rispettivi mariti, figure lontane e piuttosto stereotipate.
Arianna, madre di Mario, è una giovane donna ancora piacente, d’ animo ubbidiente e di intelligenza tranquilla, alloggiata in un mondo borghese cittadino, oppressa dall’ arroganza di Mariano Parigi, il pater familias, un’ anima semplice poco fantasiosa che vive con terrore un racconto più grande di lei, parole e descrizioni precise, immagini che le appaiono in sogno facendola dubitare della sua essenza di madre.
L’ altra lei e’ Luciana, madre di Ramiro, espressione di un universo popolare, affranta da un duplice dolore, la morte del proprio amante gettatosi da una rupe dopo averla abbandonata e l’ assurda scomparsa di Ramiro all’età di otto anni, una donna auto-esiliatasi che nella memoria ripercorre ogni giorno la propria vita, la solitudine dell’ infanzia, i tre anni di un amore cocente e furioso, i sette della maternità fino alla morte dell’ adorato figlio.
Mario e Ramiro, un bambino che nel pianto assomiglia a una madre e nel riso a quell’ altra, una somiglianza perfetta ogni altra immaginazione.
Nell’aria una strana tenzone, la lecita appartenenza dell’ infante, chi l’ ha visto nascere, chi l’ha visto morire, il pianto, la disperazione, la gioia per il ricongiungimento, il dolore della perdita. Una vita che si inabissa e un’ altra rinvenuta dall’ abisso, una sacra alleanza tra donne che detengono il potere sulla vita e sulla morte del loro frutto prezioso.
La duplicità riesce a legare le due madri in nome dell’ amore, nessuna vuole allontanarsene, alleate contro il caos mediatico scatenatosi nella fiera dell’ umana vanità.
L’ amore materno ne uscirà vincitore o sarà troppo tardi e il dolore della perdita eccessivo?
L’ originalità dell’ idea supposta, brillantemente e vivacemente esposta nei capitoli iniziali quando il viaggio tra realtà e finzione alterna e contrappone la vivida descrizione di un mondo borghese e di un microcosmo popolare identificati e rappresentati in due reali quartieri romani, l’ elegante Ludovisi e il popolare Trastevere, perde forza e mordente nel proprio incedere avvicinando e sfiorando i toni del romanzo d’appendice.

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68 Opinione inserita da 68    10 Febbraio, 2022
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Umanità in ostaggio

“ Gli ansiosi “, ultimo romanzo di Fredrik Backman, è un fluire di situazioni e di sensazioni che travolgono un’umanità complessa e disadorna stritolata da solitudine, disperazione, indifferenza, in procinto di affogare o ancora all’ inseguimento di una speranza, aggrappandosi a un soffio vitale che pareva dissolto.
Microstorie, corpi, volti, sguardi, mani che si sfiorano per lasciarsi immediatamente ritrovandosi irrimediabilmente intrecciate per sempre.
È paradossale che un gruppo di persone che neppure si conoscono debba condividere un piccolo spazio in un tempo tanto breve, la vigilia di Capodanno, ostaggio di un rapinatore improvvisato e maldestro in un appartamento vuoto nel bel mezzo di una compra-vendita.
Due coppie, un’ anziana signora, un uomo travestito da coniglio, una direttrice di banca, il rapinatore stesso, una pistola, due poliziotti, ( padre e figlio ), una psicologa, un copione già scritto e in parte da scrivere, attesa, illusioni, speranze, interrogatori, un puzzle da ricomporre, presente, passato, futuro assai incerti, ma che cosa realmente conta?
Backman ci sa fare con le parole, costruisce una commedia dai ritmi incalzanti ( soprattutto nella prima parte ) che accarezza satira e sentimenti con un pizzico di malinconia, quella distanza che teniamo gli uni dagli altri ricoperta da una corazza di superficie.
I protagonisti sono affetti da ansia, sospetto, diffidenza, indifferenza, gente comune e tanto diversa, un paesaggio dell’ animo sopraffatto da una coltre rabberciata e ammuffita di quotidianità’ .
Siamo certi che la realtà non è altro e altrove, che la disperazione del rapinatore e degli ostaggi non si equivalgano, che la propria storia non si specchi in quella dell’ altro, che i personaggi non recitano una parte, abituati a mentire, sopportare, resistere, reinventarsi per sopravvivere, accettando l’ insostenibile, per essere credibili, sfuggire a un passato irrisolvibile o accomodato, ricercare un senso di giustizia personale e una verità nascosta in un tempo lontano?
C’è un ponte davanti a se’, come un quadro sospeso, attraversato da frazioni di vite allo sbando, affacciate sul vuoto, un paesaggio su cui posare lo sguardo sentendosi affogare.
E allora questa storia di cosa parla, di una vita che non doveva andare così, di semplici cretini, di un ponte, di amore o di altro? Difficile dirlo quando l’ ansia prende il sopravvento, ciascuno nasconde demoni dentro di se’, lottando con la propria storia.
Roger è un uomo ferito, ad Anna-Lena manca la casa, Lennart non riesce a togliersi la testa di coniglio, Julia è stanca, Ro preoccupata, Zara prova dolore e Estelle non sa definire chi è lei stessa.
E allora il rapinatore diventa uno di loro, neanche il più disperato e il più solo, qualcuno da ascoltare e in parte da assolvere, da aiutare, tradito dai propri sentimenti, che vorrebbe semplicemente una vita, come tante, una casa, fare felici i figli, amare ed essere amato, potere assolvere al meglio il “ mestiere “ di genitore. Ma come si può tirare avanti quando si è rimasti soli, senza un lavoro, non si riesce a pagare l’affitto, con due figli da mantenere, d’altronde nessuno presterebbe soldi a chi soldi non ha.
Nel frattempo si è costretti a condividere uno spazio e del tempo, guardandosi in cagnesco, nutrendosi di errori e pregiudizi, mentre c’è chi ricerca una verità sfuggita all’evidenza e qualcuno che non è dove dovrebbe. È lì’, in quel mentre, spogliati delle proprie bugie, fragili e disadorni, che si creano nuovi rapporti ponendo le basi per un futuro diverso. È lì che dovremmo riuscire a perdonare noi stessi, convinti di non essere la somma di tutti gli errori commessi, è lì che nasce un’altra storia che forse verrà raccontata ai propri figli.

... “ La verità? La verità su tutto questo? La verità e’ che questa storia parla di molte cose diverse ma soprattutto di gente stupida. Perché facciamo il massimo, anche noi. Tentiamo di cavarcela e diventare adulti e amarci, cerchiamo qualcosa a cui aggrapparci, qualcosa per cui combattere e qualcosa a cui tendere. Abbiamo tutte queste cose in comune e comunque rimaniamo perlopiù estranei tra noi, non sappiamo cosa facciamo l’ uno all’ altro, come la tua vita influenza la mia.
Forse oggi ci siamo passati accanto di sfuggita nella calca e nessuno di noi se n’è accorto, le fibre del tuo cappotto si sono intrecciate per un singolo istante con quelle del mio e poi abbiamo proseguito. Non so chi sei.
Ma quando arriverai a casa stasera, quando questa giornata sarà finita e la notte ci prenderà, concediti un respiro profondo. perché siamo sopravvissuti anche a questa.
E domani ne inizierà un’ altra “....

Una piacevole fiaba contemporanea con una morale non scontata, umorismo, risate, sarcasmo, psicologia, società, riflessioni, pensieri, parole, tante parole... semplicemente Fredrik Backman.

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68 Opinione inserita da 68    25 Gennaio, 2022
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L’uomo-bambino

Una fiaba sul tempo in un tempo che non c’è, almeno per il protagonista, Erzan, l’ uomo-bambino, un violinista sublime che negli anni ha maturato coscienza e anima, è cresciuto dentro ma resta imprigionato, per cause imprecisate, nel corpo di un dodicenne.
Nel cuore del Kazakistan un treno avanza tra la luce e le tenebre in una steppa sempre più spoglia fino a farsi deserto, popolata da innumerevoli specie e animali, poco dagli uomini, una zona di frontiera nei pressi di una stazione di transito nella quale si manifestano esplosioni nucleari improvvise, la risposta sovietica alla corsa agli armamenti cercando di pareggiare gli americani e sorpassarli nel caso di scoppio della terza guerra mondiale.
Erzan ufficialmente ha ventisette anni, comincia a raccontare la sua storia a un passeggero qualunque, l’ infanzia trascorsa in mezzo a due famiglie, al confine con la “ Zona “, sede degli esperimenti nucleari, cresciuto dai nonni, senza padre, una madre sentimentalmente lontana, l’ amicizia speciale con la coetanea Ajsulu, l’ amore per la musica, il violino, lui talento precoce, un’ infanzia e una giovinezza felici, fino a quando ha smesso di crescere.
È il momento in cui si chiede da chi è veramente amato, chi sono gli altri, cosa fare, dove vivere, in una vita che non può essere autentica ne’ come una canzone, imprigionato in un corpo destinato a rattrappirsi per sempre.
Che cosa gli è successo e perché, trattasi di una malattia o di un incantesimo, di certo un mistero che ne guarnisce l’ anima e il corpo, una preda imprigionata in se’ stessa.
Che il suo talento di bambino ne sia stata la causa e che cosa ha invertito il tempo in un’ implacabile versione dello stesso? Difficile dirlo, tutto cambia, proiettati nel futuroattraversando un passato ricco di cultura, di tradizioni, di storia, le persone crescono, il paesaggio muta, le parole scorrono, ma Il corpo di Erzan resta radicato in un infinito presente, prigioniero di se’.
...” Ci si può liberare della propria anima nel crescere e invecchiare del corpo e se questo corpo si arresta nel suo movimento eterno, accade altrettanto all’ anima? “...
E allora potremmo considerare il tempo solo in ciò che è stato e sarà, non in ciò che è, un tempo in cui fermare la bellezza dell’ esistenza, e in cui, una volta trascorso, riconoscersi.
E forse il significato dell’ esistenza di Erzan sta proprio lì, nell’ avere vissuto, nell’ essersi consumato e logorato.
Un autore sorprendente, Hamid Hismailov, una fiaba poetica, seducente, ipnotica, che fa riflettere sul racconto di una vita, su noi stessi, sul senso di infinito e di finitezza, di anima e di materia, in un’ alternanza di reale-immaginario e di sogno-realtà, rimescolando le carte, l’ io narrante, l’ uomo-bambino, altre storie, un flusso narrativo che scorre nel tempo in un luogo non luogo che esiste, lo sguardo rivolto a un vecchio ricurvo e all’ impeto di un bambino mentre si allontanano oltre le case abbandonate nella profondità della steppa.

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68 Opinione inserita da 68    22 Gennaio, 2022
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Quale destino?

Paul Raison, alla soglia dei cinquant’ anni, è chiamato a riflettere su una vita difficile, sulle parole, i sentimenti, il proprio lavoro, su una relazione sentimentale sopita, dubitando di quello che è stato, preoccupato di ciò che sarà e a cui il paese andrà incontro, nel presente gli esiti della contemporaneità.
Paul e’ uno dei più stretti collaboratori di Bruno Juge, apprezzato ministro dell’ economia, uomo di potere, un tecnico poco empatico ma con un cuore, i due vivono una simbiosi lavorativa e un legame che sa di fiducia e di confidenza, accomunati da una certa noncuranza nelle relazioni personali, dal disfacimento del proprio matrimonio in un paese minacciato dal terrorismo informatico e da un nemico senza volto.
Lo stato sara’ in grado di affrontare la minaccia? Pubblico e privato ricostruiscono e restituiscono una politica indirizzata al bene comune, quando non al fine personale, inseguendo indicatori macroeconomici, senza una precisa ideologia e un piano politico strutturato, una vita ignara di tutto il resto, ingiusta ma necessaria, sfuggita di mano in un’ imprecisata rappresentazione di se’.
In un periodo storico nel quale la rivalità economica ha soppiantato quella militare, lo sviluppo tecnologico e’ la nuova forza politica determinante e il protezionismo la risposta del presidente ai propri elettori, le cose hanno preso una brutta piega, il quotidiano ...” infettato da una normatività quasi fascista ovattata da un’ atmosfera pseudo-ludica “...
Nel mentre il privato di Paul riflette la solitudine degli uomini di potere, un microcosmo spogliato di qualsiasi senso di appartenenza, immerso nel lavoro per scacciare i pensieri, sulla compagna Prudence, sul padre, sulla sorella Cecile.
Ogni sera ritorna nel suo grande appartamento parigino in una Francia che è ...” una giustapposizione aleatoria di agglomerati urbani e deserti rurali “..., semplice spazio vuoto di una separazione condivisa con Prudence, stanze separate dove ripetere una gestualità spogliata di qualsiasi tenerezza.
La loro crisi non è una coincidenza, ...” il miglioramento delle condizioni di vita va spesso di pari passo con un deterioramento delle ragioni di vita “... in particolare della vita di coppia.
Il cuore del romanzo percuote laconicamente le riflessioni del protagonista, è sobrio, scarno, uno stillicidio di fatti, immagini, parole, pensieri caustici.
Idee che attraversano un uomo poco avvezzo ai voli pindarici, tra malinconica rassegnazione e arguto sarcasmo, all’ interno della caducità del presente, che afferma l’ inutilità dei rimpianti, degli errori di gioventù, ignaro dei rapporti interpersonali, con la famiglia, i fratelli e il padre, della cui vita poco si è occupato e poco conosce.
Ci sono momenti, sempre più numerosi, in cui realizza l’ incompiutezza di una vita a metà, porzioni di storie che divengono la propria storia, chiamato al capezzale del padre malato, un grave lutto che lo tocca intimamente, i giorni con Prudence ricoperti d’ indifferenza, quesiti irrisolti sulla natura della propria assenza.
Avrebbe bisogno di più tempo ma c’è un lavoro da portare avanti, nuove alleanze, elezioni presidenziali imminenti, un nemico sempre più minaccioso, una politica che macina giorni e sentimenti, stritolati dalla macchina della popolarità e del consenso.
Un modus operandi che Paul non riesce a vivere, dissimulare e rappresentare e che lo getta in uno stato di sconforto e di noncuranza, un uomo del proprio tempo che agisce all’ interno delle regole, pur disprezzandole, che è conforme alle proprie idee ma privo, da sempre, di una grande forza morale.
Houellebecq si muove all’ interno di un campo minato, fluttua tra pubblico e privato, politica e potere, economia e società, denunciando storture note ormai acquisite, Paul è sospeso tra le due rappresentazioni di se’, l’ uomo e il politico.
Nel narrare la propria storia, una verità fatta di bugie, aggiustamenti, inganni, sentimenti ignorati e calpestati in un ménage famigliare piuttosto svilente, occorre un trauma definitivo per scoperchiare le parti e continuare nella propria insana menzogna.
Si può cadere e rialzarsi dopo l’ elaborazione di un lutto, un senso di cui appropriarsi per provare a essere, sempre che un senso vi sia.
Se la vita, un giorno, pare aggiustarsi, acquisire consapevolezza o semplicemente restituirsi a un umanesimo perduto, rilasciando una porzione di tempo e di intimità condivise, ( con Prudence ), non tutto può essere indirizzato, travolti da un quid che inscena tutt’altro.
D’ improvviso l’ impensabile investe i propri giorni, secondo un fragile schema psicologico che ricopre il se’ di una colorazione difforme, insana, illogica ma vera, a tempo determinato, come la vita finora non era stata.
Una nuova dimensione, soli o con chi si ama, un lungo tunnel e una luce interiore generata dal cambiamento, un volto, parole, gesti, attesa, doppiamente consapevoli che ...

“...Non eravamo troppo fatti per la vita, vero... in una realtà che si erano limitati ad attraversare in una incomprensione spaurita.

.... Ma erano stati fortunati. Molto fortunati. Per la maggior parte delle persone la realtà era, dall’ inizio alla fine, solitaria...

..Non credo che fosse in nostro potere cambiare le cose, no, avremmo avuto bisogno di meravigliose menzogne “...

Un romanzo sul tramonto di un’epoca attraverso gli occhi e la vita di chi in essa ha vissuto, sul senso di decadenza pubblica e privata di questa prima parte del ventunesimo secolo, un’epoca arroccata sui resti della famiglia e della vita coniugale, in un processo di disfacimento economico, sociale, culturale, politico, individuale.
Il racconto scalfisce e corrode l’ intimità del protagonista, si fa commovente per alcuni temi trattati, l’esistere, la malattia, la morte, ma è anche una visione fredda, caustica, distaccata che pare accomiatarsi da una vita satura di premesse poco invitanti.
Una trama corposa ma non sempre armonica, in alcuni passaggi prolissa, indigesta, si pensi ai sogni maldestri del protagonista, ad alcune astratte dissertazioni socio-politiche ed economiche, a relazioni interpersonali non sempre oggettivamente credibili che riflettono situazioni stereotipate.
Per contro è apprezzabile l’ ultima parte, quando ormai tutto pare perduto e riguadagnato, un soliloquio con momenti di delicatezza estrema di fronte ai grandi temi della vita e della letteratura, l’ essenzialità dell’esistenza nei suoi principi più veri, i limiti e le debolezze di un uomo che rimugina nella propria coscienza, tra paure ( la morte ) e certezze ( l’ amore ), temi trattati con intelligenza, sobrietà, profondità, che evidenziano una sensibilità intellettiva, artistica e umana d’eccezione.

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68 Opinione inserita da 68    20 Gennaio, 2022
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Mistero oltre l’ovvio mostrarsi

Una storia vera, protagonista delle cronache a partire dal 2008, ricostruita dettagliatamente e romanzata da Florence Aubenas, giornalista e scrittrice, con l’ intento di restituire un senso e una verità tuttora immerse in un mistero profondo e innominato.
Un noir che si tinge di vita vissuta in un borgo di provincia tra la Francia e la Svizzera, Montreal la Cluse, incastrato in mezzo alle montagne, a seguito dell’ omicidio efferato di Catherine Burgod, quarant’anni, alta, bella, di solito bionda, impiegata delle Poste.
Ventotto coltellate, nessun movente se non a scopo di rapina, forse un delitto passionale, ma perché tanto accanimento e di chi è la colpa, il paese è piccolo, tutti si conoscono ma nessuno ha visto niente.
È qui che si ricerca il colpevole e si restringe il campo, si pensa ai famigliari, all’ ex marito tradito, al padre ingombrante che ha fatto di tutto per trattenere la figlia, al nuovo compagno, e poi Catherine era in dolce attesa.
La sua pareva una vita perfetta, un matrimonio e due figli, una cerchia di amiche di infanzia, relazioni sociali consolidate, ma oltre l’ apparenza il buio, il forte desiderio di sparire, anche di morire.
Di fronte a un’ indagine singhiozzante e a un immobilismo che esige un colpevole c’è un altro indizio, a un certo punto il solo e un volto, quello di Gerald Thomassin, un parigino capitato in mezzo alle montagne quasi per caso, un ex attore di successo, vissuto tra violenza e riformatorio, una fama giovanile sfumata negli abissi di un passato tormentato e dissolto in una mente contorta affondata tra droga e alcool.
Thomassin va snocciolando senza sosta la propria vita in un paese di taciturni, si barcamena grazie a un sussidio governativo, abita di fronte alle poste, frequenta compagnie poco raccomandabili, non lavora da tempo, ha bisogno di denaro e conosceva la vittima, è uno sbandato che ha smarrito la strada maestra.
Di certo quello di Catherine Burgod non è un suicidio, il colpevole è lì’, da qualche parte, ma il paese comincia a ritrarsi e a chiudersi in se stesso, l’omicidio ha lasciato tutti nello sconcerto, una misera refurtiva per un massacro siffatto, che si tratti di un delitto passionale?
A Montreal la Cluse si conosce tutto di tutti, orari, spostamenti, è una regione poco popolata, ma dalle seicento testimonianze raccolte emerge un vuoto eccedente, come se l’ assassino si fosse dissolto nel paesaggio.
La colpa converge su Thomassin anche se le tracce del dna rinvenute non sono le sue ma quelle di uno sconosciuto, il tempo passa, ci sono nuove testimonianze, la famiglia ( il padre di Catherine ) esige un colpevole, Gerald è uno sbandato, un attore multiforme, che sa mentire ed entrare nei panni dell’ altro, ritagliarsi un ruolo, sdoppiarsi, immedesimarsi, l’ incubo di una vita dissolta lo ha portato a straparlare di se’ sempre e comunque.
Quando il caso pare instradato in una soluzione di colpevolezza improvvisamente si riapre, inscenando una vicenda diversa e tutt’altra storia, Il ritmo si fa incalzante, quello che è stato potrebbe non essere, avvalorare un’ ipotesi o confermare la stessa. La ricerca di un colpevole devia obbligatoriamente per accogliere una formula inversa, non del tutto convincente, all’ inseguimento di una giustizia finalmente giusta.
Una storia ben scritta, anni di ricerche dettagliate, testimonianze, interviste, vita vissuta in loco, un credibile approfondimento giornalistico di una vicenda nebulosa e complessa, che restituisce un’ umanità fragile e contorta dietro l’ovvio mostrarsi.
Oltre la cronaca un mondo relazionale sommerso e una figura, quella di Gerald Thomassin, da subito tintasi d’ altro, a metà tra la realtà e la fiction, un ingrediente che pare stridere e alimentare l’ immaginazione di un inventore di storie, ma qui non c’è niente di inventato, per dissolversi misteriosamente come nella trama di un film lasciando la scena ad altri, senza un colpevole certo.

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68 Opinione inserita da 68    20 Gennaio, 2022
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Il cammino della vita

Amore, tentazione, passione, desiderio, tradimento, ma anche senso famigliare, identità, passato, ricordi, tanti i temi di “ Fukinoto “, nuovo capitolo della pentalogia “ All’ ombra del cardo “ di Aki Shimazaki.
Tra le pagine un riferimento al No, il teatro classico giapponese risalente al quattordicesimo secolo, i cui interpreti, esclusivamente maschili, hanno il volto coperto da una maschera anche se qui è Atsuko, la protagonista femminile, a indossare la maschera di una vita serena trascorsa nella solidità coniugale di un ritorno alle origini, dopo essersi trasferita in campagna per dedicarsi alla fattoria di famiglia. Il recente passato in città assolto e dissolto, ma il doloroso ricordo del tradimento, quando il marito Mitsuo si era invaghito della bellissima Mitsuko, frequenta incessantemente i sogni di Atzuko.
Oggi Mitsuo si è redento, ha fondato la rivista Azami privilegiando l’ integrità famigliare, è attento, dolce, premuroso, eppure, nei pensieri di Atsuko persiste la paura di non essere amata abbastanza e di un nuovo tradimento insieme al ricordo di Mitsuko, conficcato in lei come la spina di un cardo.
La protagonista è alla ricerca di una collaboratrice in azienda e la troverà in Fukiko, misteriosa e splendida quarantenne appena divorziata, ammirata e desiderata, che scopre sua amica dei tempi del liceo.
La presenza di Fukiko ricorderà i momenti della giovinezza e della reciproca corrispondenza epistolare, quando i sentimenti dell’ amica nascondevano altro e la loro affinità pareva eccessiva, ma c’è di più, la somiglianza tra Fukiko e Mitsuko, potenzialmente pericolosa, si perde in una realtà che è commistione di sogno e desiderio.
Atsuko ripercorre il passato rivisitando il presente, approfondisce la conoscenza, si legge dentro, vive la tentazione di superare convenzioni sociali e famigliari, con il rischio di sciupare tutto per inseguire un desiderio tanto pericoloso quanto irrinunciabile, terribilmente reale, impersonando una vendetta per i torti subiti o semplicemente assecondando un’ inclinazione naturale, per una volta anteponendo se’ stessa agli altri.
Per lei un interrogativo incombe, gettata la maschera per chiedersi chi è veramente e che cosa conosce davvero di se’, insieme a una scelta identitaria sofferta ma necessaria, forse definitiva.
Fukinoto è un tuffo nella vita della protagonista, riportandoci storie e personaggi già noti in un flusso che pare scorrere nella ineludibilita’ di gesti ripetuti, lenti come la narrazione, semplicemente composta. Si crea un’armoniosa presenza, parlo di musicalità espressiva ed espositiva, perché l’essenza del racconto, al contrario, è un vortice di passione e desideri sovente fuori controllo.
Questo il pregio indiscusso della poetica di Aki Shimazaki, una dosata miscela che ogni volta genera e restituisce un senso di piacevole incanto, presenza quieta in un mare in tempesta, sapendo cogliere, rappresentare e restituire il gusto dolce e composito, dalle parole ai fiori, dalle tradizioni ai sapori della propria amata terra.

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68 Opinione inserita da 68    14 Gennaio, 2022
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Inquietudine famigliare e turbamento sociale

America, primi anni settanta, un ambito famigliare e relazionale ristretto in un paese sconfinato attraversato dalla storia e dai suoi cambiamenti, dal movimento hippy alla guerra del Vietnam, dalle mode ai nuovi generi musicali, alla fede religiosa, ai conflitti sociali che lo attraversano, dalle riserve in cui sono confinati gli indiani Navajo, alla droga, alle diseguaglianze razziali, ma arroccato su un particolarismo borghese e puritano degenerato in autocompiacimento, in un senso di fallimento personale e famigliare.
Nella prima parte, accompagnata dai giorni dell’ Avvento, i dubbi e i quesiti delle nuove generazioni confluiscono e cozzano con il disagio di genitori esasperati da una vita al collasso, con l’ idea un po’ bizzarra di poterla azzerare calpestando i sentimenti dei figli e la sacralità del matrimonio.
New Prospect, Chicago, quante microstorie all’ interno della famiglia Hildebrandt, due genitori e quattro figli, un percorso controverso e balbettante.
Il pastore Russ, pater familias, respira l’ ansia e l’ angoscia di una squalifica professionale, soverchiato dal carismatico padre Ambrose, fondatore di Crossroads, e vive un afflato sentimentale per la giovane e adorabile parrocchiana Russell con cui instaura un lungo corteggiamento destinato a un tradimento fugace.
La moglie Marion è ostaggio di un’ esistenza nella quale non si vuole bene e non si sente amata abbastanza, continua a incolparsi del suicidio del padre, ripercorre un amore giovanile intenso e fallimentare, che le aveva sottratto la possibilità di un figlio.
Clem, il primogenito, da sempre in simbiosi con la sorella Becky, rifugge l’ autorità genitoriale che vorrebbe separarli, abbandona il primo vero amore terrorizzato dalla possibilità di essere riamato e gli studi universitari con l’idea di arruolarsi, per ritrovarsi in Sud America ancora in fuga da se stesso.
Becky, travolta dalla propria avvenenza e popolarità, soggiace a una superficialità effimera sfociata in un idillio giovanile totalizzante, sarà perseguitata da un’eredità ingombrante maturando negli anni il desiderio di dare un senso alla propria vita, nella fede e nell’ amore.
Per finire Perry, adolescente geniale e fuori dagli schemi, egoisticamente introverso, avviato a un percorso di auto annientamento, causa della rovina economica della propria famiglia, un ragazzo da salvare, curare, comprendere, irrimediabilmente perso.
Una realtà con cui confrontarsi, esistenze esposte ai cambiamenti, travolte da una fragilità ovattata da ideologie e falsi sentimenti, da una palese immaturità, dall’ incapacità di dare ascolto a voci vicine, ostaggio di flussi adolescenziali opacizzanti e di una religiosità controversa.
Che cosa è Crossroads? Un ....” qualcosa che porta in superficie le emozioni, cento ragazzi e un unico leader carismatico “..., un luogo dell’ animo in cui respirare, confrontarsi, risorgere.
Le relazioni famigliari degli Hildebrandt odorano di preconcetti, estrapolazioni sentimentali, visioni distorte, menzogne, manchevolezze, desiderio di rivalsa, un viaggio immaginifico nel futuro e un ritorno al passato scansando il presente e le proprie fragilità, genitori ossessionati dall’ idea di non essere amati dai figli.
La maschera della vita, indossata per sopravvivere e lenire il dolore, fatica a cadere, la ...”sincerità rende vulnerabili “... e, quando i desideri si avvicinano, ci si accorge di avere smarrito la dolcezza, il senso della realtà, o semplicemente di essere sopraffatti dal senso di colpa.
E’ allora che, nella seconda parte del romanzo, e il richiamo alla Pasqua non è casuale, in un processo di espiazione e catarsi che prevede rinascita e ricostruzione, si ritorna alle origini, a quella storia che avrebbe potuto essere altro, il matrimonio tra un mennonita e una cattolica mezzo ebrea ( Russ e Marion ) e si scopre di vedere con occhi diversi, si perdona l’ imperdonabile grazie alla fede, ignorando un castigo differito, è allora che la fine coincide con un nuovo inizio.
Chi tra Russ e Marion è stato il peggiore, chi realmente merita l’altro e può aspirare alla gioia? Clem e Becky riusciranno a perdonarsi, riconciliandosi, o forse non è cambiato niente, neppure nella loro testa?
Il perdono nasce dall’ accettazione di se’, ciascuno, all’ interno di dinamiche famigliari ormai consolidate, nel complesso viaggio della vita, più o meno scientemente, si abbandona ai sentimenti più veri.
Si finisce col chiedersi, ed è un quesito che riporta all’origine, quale sia il vero scopo dell’esistere, consapevoli che ...” tutto è vanità, successo, privilegio, bellezza “... , che in fondo il cammino della vita non è scandito da un tempo preciso, e allora la sola salvezza risiede nella profondità. Una profondità che pare avere toccato le nuove generazioni, meno avvezze all’aggiustamento, più lucide e consapevoli, con vista su un futuro da scrivere.
La corposita’ del romanzo racchiude i temi da sempre cari alla buona letteratura, la capacità di rappresentare una storia restituendo il senso della Storia e di un’epoca. I personaggi di Franzen sono credibili, attraversati dalla vita e imbevuti della vita stessa, emozionali, critici, mimetici, sentimentali, dubbiosi, egoisti, arrabbiati, caotici, sensibili, profondi.
È inutile sottolineare quanto gli anni ‘70 qui siano ben rappresentati, anche se prevale l’ aspetto individuale e intrafamigliare, all’ interno di chiavi di lettura molteplici e multiformi, ciascuno vi scoverà verità acclarate e temi sottesi, anche controversi, un flusso narrativo che scorre imperturbabile in un amalgama che sa di romanzo vero.

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68 Opinione inserita da 68    25 Dicembre, 2021
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Colpa e colpevolezza

Un mimetismo assoluto e furtivo ha avvolto sin da bambino la vita del protagonista, oggi scrittore affermato, che cerca di comprendere e sviscerare la differenza tra una vita vissuta e una di cui avrebbe potuto scrivere. La scrittura, in questo senso, lo aiuta almeno a ...’ smettere di non dire la verità “....
In lui un reiterato senso di colpa e qualcuno a cui attribuire l’ incomprensibile, il non detto, le omissioni e le sottomissioni, l’ incontro tardivo con un ramo della famiglia, quello materno, fortemente radicato nella tradizione e nella religione ebraica, il non essere informato di niente, sentendosi tradito.
La rivelazione materna, improvvisa e inaspettata, l’ appartenenza alla famiglia Sacerdoti, tradizione, cultura, potere, denaro, ebraismo, tutto quello che finora non era stato, un viaggio lussuoso in una dimensione alternativa.
E allora di chi è la colpa, che cosa resta e quale futuro, una volta che la vita pone di fronte a tragedie improvvise, a un destino non scritto, che ci cambia per sempre?
Il protagonista racconta, molti anni dopo, quello che è stato, fatti, desideri, possibilità, attratto e respinto da un mondo esecrabile e autocelebrativio, alla disperata ricerca di amore e di una musa ispiratrice, intrappolato in una ...” cappa ammorbante “.... da cui cerca di liberarsi grazie alla scrittura, una famiglia e un passato pesanti che puntualmente ritornano anche quando pensa di esserseli lasciati alle spalle.
È una vita non infelice ma ....” i bambini si adattano a ogni cosa “..., e poi ...” l’ infelicita’ comporta consapevolezza e aspettative “..., è un’ alternanza continua, inafferrabile, due genitori diversi percepiti come un’ ossessione e un’ assenza protratta, una vita vissuta in un quartiere piccolo borghese, tra litigi continui e carenza di denaro, eroismo paterno e una madre ossessionata da costose forme di megalomania .
Che cosa resta della propria infanzia perduta se non il poco tempo trascorso con genitori inferociti che hanno acuito il proprio senso di oppressione, solitudine e sconforto, sperando di addormentarsi presto e ogni volta di risvegliarsi sapendo di averla fatta franca?
“ ...Erano semplicemente lui e lei, non mamma e papà ...”, c’è da chiedersi da dove nasce questo personalissimo senso di manchevolezza, perché ci si reca a scuola odiandola, perché qualsiasi affetto e intimità con la propria madre è precluso e non si ritornerebbe a quei tempi.
Ci sarà un dopo, un destino mutato da un viaggio, dalla generosità di uno zio Pigmalione, dalla consuetudine con i propri cugini, modificando la percezione del proprio destino, l’ idea che la vita vissuta finora non era l’unica possibile .
Ecco un’ infatuazione per chi ci ha iniziato alle delizie dell’edonismo mentre il passare del tempo esclude che questa possa essere la sola famiglia possibile, alimentando un senso di estraneità contrario al tentativo di assimilazione.
Nella famiglia Sacerdoti si respira un senso di espansiva asetticità, si ride di cose poco divertenti, si soffre di megalomania, e persino l’ ebraismo diviene una cosa poco seria, una coccarda da ostentare in società, un brand, un simbolo di distinzione intellettuale e di rigore morale non così vincolante.
E allora al protagonista mancano i propri genitori, quella ossessiva presenza, semplicemente una parte della propria storia, la più importante, e quale il proprio ruolo in quello che è stato e non è stato?
Un romanzo corposo con un linguaggio che richiama un’ ampollosa presenza, una forma barocca con tratti ottocenteschi che rischia di perdersi in ridondanza e autocompiacimento piuttosto stucchevoli. L’eccesso stilistico condanna lo stile, vittima di se stesso, la ricerca di un colpevole si copre di colpevolezza, il detto e ridetto di noia molesta, a un certo punto mi sono sentito senza fiato, inseguito da paroloni fini a se stessi, e da un tentativo di dare un senso laddove senso non c’è. Ed allora c’è da chiedersi: “ ... di chi è la colpa ...”?

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68 Opinione inserita da 68    19 Dicembre, 2021
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Quale colpevolezza ?

Gunnar Gunnarsson, uno dei più grandi autori islandesi, più volte candidato al Nobel, celebre per “ Il pastore d’ Islanda “, con “ L’ uccello nero “, pubblicato in Danimarca nel 1929, è considerato l’antesignano del noir scandinavo.
Una fattoria isolata ai confini di un villaggio d’ Islanda, due coppie accerchiate da chiacchiere sempre più insistenti, un doppio assassinio incrociato, ( i rispettivi coniugi ) Bjarni e Steinunn, presunti amanti, sospettati di un’idea atroce che ha solo da essere dimostrata, un giovane cappellano coinvolto che narra in prima persona gli accadimenti, un giudice intransigente alla ricerca della verità, un’ orda di testimoni chiamata a processo.
Tutto pare scontato, le persone interrogate ignorano i fatti ma nel villaggio le parole rivelano un senso e una porzione di verità, le confessioni e i timori pregressi dei morti ammazzati a testimoniarla.
Jon e’ improvvisamente scomparso, si pensa al suicidio, sul suo corpo restituito dal mare i segni dell’ omicida, Gudrun è una donna fragile e malaticcia sopravvissuta a un tentativo di avvelenamento e morta in circostanze misteriose, quale il legame tra le due morti, se non una crescente tensione intrafamigliare e una passione sfociata in una risoluzione definitiva?
La tensione cresce, alimentata da ipotesi e attesa, una tensione che apre ferite interiori, generando nuovi sospetti, che si interroga e scava nel profondo di anime disperate e corrotte all’ interno di un destino già scritto.
Bjarni e Steinunn sono colpevoli, basta guardarli, ma, seguendo un percorso umano e di fede, il dubbio rimane. Nella ricostruzione di un viaggio parallelo, oltre l’ovvietà dei fatti, risiede il senso del romanzo, un processo che scoperchia ben altro.
Il giovane cappellano, custode della fede e della spiritualità, è chiamato a ottenere una confessione quantomai necessaria, l’irreprensibile giudice tutore della legge a una verità definitiva che mandi a morte i colpevoli.
Il fine è lo stesso, la confessione, i modi diversi, nel mezzo incertezze, una tensione che inscena un altro processo con una parziale assoluzione, un dialogo a due, un monologo interiore, domande poste a se stessi, ai propri convincimenti, a un’ umanità corrotta e disadorna, a una violenza nota e annunciata, a un senso di giustizia a metà.
C’è un momento nel quale la verità abbandona il proprio animo, quella verità che ...” non è che uno dei lupi mannari che popolano l’ esistenza, la sua legge è la stessa che popola la vita, procreare e distruggersi”...
Quale giustizia oltre una condanna definitiva, quella salvezza e perdizione che ciascuno porta dentro di se’ in ...” una notte oltre le cui tenebre vibrano ancora fede e speranza”...
La verità è che ...” ora anche noi due abbiamo ucciso “..., che ” in un modo o nell’ altro ci saranno sempre delle vittime “.. ne’ si può...” assistere a uno spettacolo del genere senza sentirsi colpevoli di omicidio “...
Un grande scrittore Gunnar Gunnarsson, che devia dalla soave poetica del “ Il pastore d’ Islanda “ per scrivere un noir vestendolo d’altro. Ne nasce un processo nel processo, un percorso vivido e interiore che si riempie di umanità laddove l’efferatezza è compiuta, scansando l’ ovvio per riflettere su temi di più ampio respiro, giustizia, colpevolezza, assoluzione, pentimento, espiazione in un duello verbale che non ha vincitori ma vinti, perché...

... “ ognuno di noi prima o poi, che lo voglia o no, si trasforma in torturatore e assassino. Tutti inchiodiamo alla croce il figlio di Dio! In noi stessi e nel nostro prossimo “...

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68 Opinione inserita da 68    12 Dicembre, 2021
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La propria storia

Una scrittrice cinquantenne finalmente arrivata scava dentro il proprio passato per mostrare una plausibile verità che possa restituirle un senso di appagamento e d’ identità, da sempre negato, facendo chiarezza su un tragico incidente che continua a ripercuotersi dopo trent’anni.
Che cosa si nasconde oltre questa dettagliata e nebulosa ricostruzione dei fatti, l’ espiazione di una colpa, un thriller psicologico, le farneticazioni di una donna abituata a inventare storie, la traccia di un romanzo, una terribile verità, e chi è il colpevole, la vittima supposta, la famiglia con i propri segreti, la scrittrice stessa, talmente imbevuta di se’ e della propria adolescenziale inadeguatezza, rifiutata dagli altri, adirata per quello che da adolescente non è mai stata e neppure da figlia, da moglie e soprattutto da madre.
L’esito e’ un flusso narrativo stratificato, fluttuante, una miscela esplosiva di finzione e realtà, salute e malattia, psicologia e clinica, vasi comunicanti che paiono non comunicare, ribaltamenti di interpretazione e di ruoli, tutti possibili, una sequenzialita’ a singhiozzo che afferma e nega ogni volta, per aggiungere un pezzo di storia, aprire frontiere, ritrattare un’ evidenza supposta.
La trama è costruita attorno a un fatto di cronaca molto vicino alla protagonista, improvviso, cruento, insondabile che compie trent’anni , la caduta accidentale, forse no, di una bellissima sedicenne, Livia, dal terrazzo di casa, un incidente che porterà per sempre gli esiti di quel salto nel vuoto, un trauma fisico e soprattutto neurologico.
Livia rimarrà se’ stessa, per sempre, una cinquantenne nella mente di una bambina, circondata da un microcosmo famigliare che vorrebbe la verità e un risarcimento, una sorella ( Federica ) via via più lontana, che si è costruita una vita altrove, l’ amica della sorella ( la scrittrice stessa ) che si occuperà di lei ricercando un senso in tutto quello che sta facendo .
Che cosa oltre i fatti, se non un profondo senso di inadeguatezza, protrattosi per una vita intera, fino a un ribaltamento di ruoli con il raggiungimento della fama agognata.
Personalmente ho trovato la lettura piuttosto faticosa, non per l’assenza di stile, il romanzo è ben scritto, ma per un certo caos imputabile a una mancanza di uniformità di contenuto. Quale confine tra reale e immaginario, verità e menzogna, o un’ unica protagonista che si serve di altro per raccontare il proprio senso di inadeguatezza, soprattutto come madre, che ha origini lontane?
Quali i contorni e l’essenza del testo, personaggi percepiti come tali, capovolti secondo la propria versione dei fatti, tutto e il contrario di tutto, e che cosa si cela dentro la narrazione, un thriller psicologico, un racconto prettamente autobiografico, una trama tutto sommato lineare, una semplice analisi intrafamigliare di una vita si’ unica ma in fondo come tante?
La confusione regna sovrana, tra detto e negato, conferme e smentite, una suspance solo accennata con continui rimandi a tratti di psicoanalisi piuttosto scontata.
La semplicità del costrutto apre a ipotesi eterogenee su quello che è stato, o potrebbe essere stato, ma il cuore del racconto è altrove, in quell’ interminabile monologo autobiografico, intriso di assoluzione e colpa che sfocia in una confusione a cui il lettore non può sottrarsi.
E allora chi è realmente la protagonista accompagnata dalla sua voce difforme, che cosa ha fatto e desiderato, andarsene, rimanere, odiare, amare, è cinica, egoista, amorevole, altruista, buona, cattiva, vittima, carnefice, donna, bambina?
Alla fine un’ assoluzione narrativa pare accoglierla, inseguendo la grandezza di un amore più grande, la soddisfazione e il plauso del lettore invece un’ ipotesi piuttosto lontana.

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68 Opinione inserita da 68    12 Dicembre, 2021
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Una donna

Rennie Wilford è una giornalista per riviste di viaggio e una donna inseguita dalle scorie di un passato sfociato in una malattia invalidante, il presente nulla di stupefacente, il futuro un’ ipotesi da sondare.
È cresciuta a Griswold, località canadese dove tutti sanno tutto, prima o poi, circondata da vecchi, onesta e con un carattere difficile, cercando un modo per andarsene, non volendo essere come sua madre, diventare come lei.
Fa il suo mestiere perché è brava e non saprebbe fare altro, nel frattempo le sue velleità si sono trasformate in illusioni, l’ uomo giusto in diversi uomini quasi giusti, l’ unica storia vera in tante storie quasi vere.
Svuotata dalle incertezze, decide di lasciare Toronto per un breve soggiorno nei Caraibi, isola di St. Antoine, con l’ intento di scrivere un pezzo sul turismo locale. Qui, se stessa unico referente, la attendono giorni insondabili, improvvisamente immersa nella violenza e nell’ immobilismo di un paese corrotto e in preda a continui rivolgimenti di potere, imbevuto di sangue, esposto alla brama degli occidentali, a droga e traffico d’armi, sospesa nella propria fragilità sentimentale e manipolata da uomini che inseguono affari per lei inconcepibili.
Rennie è una donna intelligente e ferita, nel corpo e nell’ anima, tempo fa si è ammalata di cancro al seno, è mutilata e così si sente, vive l’ incubo di una recidiva, sospesa tra passato e presente, di fronte le scorrono le immagini di una sofferenza che ne ha indirizzato il pensiero verso un senso di morte.
Il privato ripercorre i propri sentimenti, divisa tra Jake e Daniel, gli amori del passato, uno se ne’ andato non sapendo come affrontare e superare la sua menomazione, lasciandole un vuoto da colmare, l’ altro pare un perfetto ideale di normalità, il suo angelo custode, colui che l’ha guarita salvandola da morte sicura.
Oggi, in una sospensione affettiva e temporale, l’ amore ha il volto di Paul, un americano enigmatico cui rivolgere le proprie incertezze che le ha restituito il suo corpo.
Alla fine niente torna, il presente è odioso e irreale, non è cambiato ciò che vede ma solo il modo in cui lo vede, Rennie tornerà, con la sensazione di rientrare da un viaggio nello spazio, nel futuro, ma è lei a essersi trasformata.
A metà tra il thriller psicologico e il classico romanzo della Atwood, tra femminismo e femminilità, denuncia delle nefandezze e delle storture del presente, nel tratteggiare un microcosmo umano frastagliato e frammentato, emerge la voce di Rennie, protagonista indiscussa, anche se il proprio equilibrio interiore che pare distrutto poco sembra spartire con il resto, con i personaggi e gli accadimenti che la circondano, restituendoci un senso di vuoto e precarietà, onnipresente, inserito in una narrazione piuttosto fragile e ancora lontana dalla grandezza e complessità dei costrutti a venire.

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68 Opinione inserita da 68    26 Novembre, 2021
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Fuga e ritorno

Il ritorno di Paolo Cognetti è un’ immersione nello smarrimento e nella crisi d’identità di Fausto Dalmasso, uno scrittore quarantenne che non sa più cosa scrivere, in fuga dalla città’, abbandonata la fallimentare convivenza con una quasi moglie.
Fontana Fredda, alle pendici del Monte Rosa, pare essere un rifugio sicuro, luogo ideale per rinascere, almeno per ricominciare, montagne che conosce e frequenta sin da ragazzino su ispirazione paterna.
La montagna ripara le ferite, è curativa, consolatoria, e il tempo riesce a condividere con gli altri le proprie scorie. È lì che Fausto si reinventa una porzione di vita e una nuova professione, il cuoco in un ristorante che possiede origini letterarie, “ Il pranzo di Babette “, dal nome della proprietaria, una donna affascinante, misteriosa, curiosa, che parla dell’ impossibilità di guarire dentro ma della possibilità di trovare una consolazione.
Qui Fausto incontra Silvia, una giovane ex studentessa e libraia che solo recentemente ha scoperto la montagna, in fuga da un passato insoddisfacente, da lungo in conflitto con la figura materna, che aspira a cercare un rifugio sui ghiacciai. La loro vicinanza e convivenza nel ristorante ne accende la conoscenza e rivela altro, una comunanza di vita e di storie, un nuovo sentimento, una solitudine condivisa sfociata in un affetto puro e sincero.
E poi c’è Santorso, un gattista cacciatore che un tempo era stato nella forestale, un uomo che racconta storie di montagna e al quale non piacciono i fatti degli umani, preferendo i lupi, le volpi e i galli di montagna.
Oggi Fausto è uno scrittore che ha imparato a campare, gli sono così lontane ed estranee quelle storie di coppie che narrava all’ inizio e che gli sembrano scritte da qualcun altro, è stanco di scrivere di uomini, donne, amori.
La vita di montagna insegue il trascorrere delle stagioni e risveglia i sensi, riporta una nuova e ancestrale dimensione spirituale e corporale, ricordandoci che i significati a lei attribuiti non sono che i nostri. La montagna vive in eterno, indifferente alle azioni e ai significati umani che la colorano del proprio vissuto, dei propri ricordi. La sua essenza, probabilmente, si raggiunge e si svela nel momento in cui la si svuota di qualsiasi senso.
Sta semplicemente lì, come i ghiacciai che si stanno sciogliendo, un paesaggio che muta in altezza, che .....” si asciuga fino a sembrare un corpo celeste, un pianeta perennemente levigato dal vento, un luogo di una bellezza assoluta ma estremamente duro “....
È qui che la parabola di Fausto Dalmasso si compie, la sua essenza matura, in attesa di qualcuno che se ne è andato e che forse un giorno ritornerà.
Un romanzo che parla di montagna, e qui l’autore sa muoversi mirabilmente in una materia che frequenta da sempre e che conosce perfettamente ma anche di altro, di un’umanità fragile che ricerca se’ stessa, ferita, logora, spoglia, tra realtà e desiderio, sogni e speranze, e ...” intorno a Fontana Fredda la montagna esisteva e sarebbe continuata a esistere al loro risveglio “...

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68 Opinione inserita da 68    24 Novembre, 2021
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Viaggio affrettato e confuso

La vita di Rachele Luzzato, una bella ragazzina alta con i capelli lisci e gli occhi luminosi, discendente da una famiglia ebrea di avvocati romani, si accende nei giorni delle feste natalizie, impossibilitata a impersonare la Vergine Maria nella recita scolastica per ovvie ragioni religiose, cercando di capire e interpretare il proprio passato famigliare, una commistione di cristianesimo ed ebraismo, di conoscere il mondo e i suoi eterogenei protagonisti, vivendo l’ incertezza e l’ incubo di una malattia paterna che potrebbe volgere al peggio, inseguendo i sogni di una dodicenne.
La accompagnano lo spirito candido e umanitario di Edmondo De Amicis, ma qualcuno potrebbe considerarlo eccessivamente patriottico e guerrafondaio, un’ amata supplente ormai in pensione, un nonno ebreo dalla corporatura esile che era stato prete per salvarsi dalla guerra, una nonna brava, onesta e molto coraggiosa, atea convinta ma attenta a non minare la fede ebraica della sua unica nipote, un padre messo al mondo da un medico austriaco che aveva accolto una giovane ebrea.
Una vita come tante e unica nel suo genere, in attesa della cerimonia del Bat Mitzvah
, alle prese con domande inevase, spiegazioni nebulose, desideri infranti, un mondo adulto impegnato a imporre tradizioni vetuste e così impreparato e acerbo in alcune manifestazioni.
In pochi giorni Rachele attraversa l’ intera penisola, città, pianure, mare, Monti, frammenti di vite a cui non si è mai interessata, storie lontane che non ha mai conosciuto, passato, presente e futuro, con la sensazione di essere considerata un’ ebrea piccola e debole e non una ragazza decisa e intelligente.
Si chiede perché non può partecipare alla recita scolastica, in fondo non è una funzione religiosa, che cos’è quell’ appendice che continua a crescere nella testa del padre, e perché gli adulti non gliene parlano apertamente, alcuni di loro lèggono i suoi pensieri, ne anticipano i desideri ignorandone le parole.
Oggi, vigilia del nuovo secolo, quale relazione e commistione tra vita e tradizioni, quale contatto tra ebraismo, cristianesimo e ateismo?
In fondo nulla cambia, siamo tutti esseri umani, Rachele ricorda lo stupore di quando ancora bambina il nonno la fece entrare nel maestoso Duomo, sa che ha una nonna a cui piace la Messa non come espressione liturgica e di fede ma per lo spettacolo intrinseco, i canti e la musica, quella stessa nonna con una figlia che si è convertita all’ ebraismo, Rachele non condivide le rigide posizioni paterne.
Questa ragazzina è una commistione di storie e religioni, qualcos’altro nella propria unicità, i suoi desiderii sono profondamente umani, quella curiosità di esserci, partecipare, ascoltare e comprendere, amare ed essere amata, non rimanere sola al mondo, un desiderio che la spinge verso qualcuno che rimanga con lei, non un Dio ma un fratello, “ .. che stia con me quando tu non ci sarai più ...”
Una fiaba moderna nel cuore del Natale, troppa carne al fuoco e temi importanti non adeguatamente trattati, un’ ambientazione italiana frettolosa e in superficie, la solita abilità di penna, personaggi ben delineati, per un giudizio complessivo non completamente positivo, da questo autore legittimo attendersi altro.

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68 Opinione inserita da 68    15 Novembre, 2021
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Tempi uguali e diversi

“ Estate”, ultimo romanzo di una tetralogia dedicata alle stagioni, inserisce una coralità di voci e microstorie in una circolarità di forma e contenuti, viaggio temporale con vista sulla contemporaneità, rappresentazione poetica e iperrealista di un momento tragicomico che ha assunto i contorni fisici e spirituali di un isolamento protratto in un contesto pandemico tuttora incerto e tremendamente vero.
Il tema fondante è la fragilità del presente, in una solitudine non autoimposta, e, di rimando, la capacità di resistere e reinventarsi, in una condizione di insufficienza e isolamento, privilegiando il nutrimento spirituale, l’ arte, la comunicazione, l’ ascolto, il linguaggio, l’ unicità, in una circolarità che origina da un individualismo sadico e fuorviante ma che restituisce storie e contenuti provvidenziali.
Il romanzo esprime voci ed età difformi, scandito da uno sguardo esterno ma non estraneo, collega microstorie a sbalzi temporali con un intento, dare voce a chi voce non ha, denunciare le manchevolezze di una politica che insegue tendenze e pubblico consenso, dimenticando i dimenticati, in un’ adolescenziale rappresentazione di se’ a partire dal buffo primo ministro britannico e dai suoi comportamenti che nulla hanno da spartire con il dramma del presente, un virus da subito sottovalutato e che non concede sconti.
Oltre un presente che si scontra con la forza del virus, e qui l’ autrice spezza una lancia a favore dell’ eroico sistema sanitario spesso dimenticato, non resta che affidarsi al nutriente potere salvifico della parola di cui i molteplici personaggi ne sono espressione suprema.
Una ragazzina a cui piacciono un sacco le parole, consapevole della follia della specie cui appartiene e che vorrebbe salvare il mondo, un intelligentissimo piccolo fan di Einstein, Robert, silenzioso fuorilegge, una madre preoccupata e sola che rivive i giorni della propria giovinezza, quando si riteneva un’ artista, un padre che si è rifatto una vita nella casa accanto, una giovane donna che sta scrivendo un testo sulle parole prima di perdere lei stessa l’ uso della parola, uno smemorato e bizzarro centenario appena uscito dalla guerra che continua a sognare fluttuando tra passato, presente e trapassato, una ex coppia che gestisce un sito web di art in nature, un eroe indesiderato rinchiuso in un campo di detenzione.
Ciascuno vive a suo modo e rimanda una realtà soggettivata, ugualmente importante, in un presente indefinito per lo più insopportabile e contraddittorio, ciascuno è collegato alla vita degli altri, la determina, la modifica, ne è parte integrante, in tempi e modi diversi, anche altrove.
Ecco, allora, brandelli di immagini che arrivano dal passato, le cose cambiano così di colpo da insegnarci che tutto è fragile e che la felicità può andarsene in un soffio, ma forse dovremmo ammettere che viviamo tutti in una prigione aperta.
Il senso, come sempre, sta nell’ avere qualcosa da dire, nell’ ascolto, nella profondità del pensiero, nella relazione con l’altro, fondata sull’ inclusione, ricordando gli errori pregressi, nell’ accogliere un’ umanità pronta a concedersi, stupire, stupirsi.
E allora ritornano i temi già noti, il delirio della Brexit, l’ omologazione alienante, il linguaggio accidioso e belligerante, la socialità banalizzante, una politica corrotta e autoreferenziale, l’ individualismo becero e narcisista, la ghettizzazione e l’ esclusione dell’ altro, l’ ignoranza becera, ma il soffio vitale dell’ esistenza rifugge limiti e confini. E ci si interroga su che cosa stiamo a fare al mondo, per fare un sacco di soldi, per avere un sacco di gente che urla il nostro nome, per difendere il nostro piccolo orticello?
La forza della memoria riporta a un passato di guerra, imprigionati in un campo di prigionia nella stessa nazione che ci aveva accolti in fuga da uno stermino annunciato, una giovane donna nata per l’arte, un genio del nostro tempo che ha calpestato il suolo britannico ( Einstein ), insieme a voci letterarie immortali ( Shakespeare e Dickens ).
Ali Smith si conferma voce fuori dal coro e acuta scrittrice contemporanea in grado di dare forma laddove regna un caos generalizzato. Il romanzo può essere letto e goduto al di fuori della tetralogia, possiede una forte connotazione politica e storica ma anche una profonda essenza letteraria e un sottile sarcasmo.
Le molteplici voci difformi ne miscelano il contenuto, quell’ umanità unita, pensante, gentile, accogliente, nata per amare.


...” ma l’ estate è così, e’ camminare lungo una strada verso il buio e verso la luce proprio allo stesso tempo. Perche’ l’ estate non è soltanto un racconto allegro, perché non può esistere nessun racconto allegro senza l’ oscurità. La più breve ed elusiva di tutte le stagioni, quella che rifugge da tutte le responsabilità, perché l’ estate fugge e non ve ne resta in mano nulla se non pezzetti, frammenti, momenti, lampo di memoria delle cosiddette, o immaginarie, estati perfette, quelle estati che non sono mai esistite “....

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68 Opinione inserita da 68    12 Novembre, 2021
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Nel cuore della tempesta

Metà Anni ‘90, un serbo e un albanese, Milos e Arsim, l’ uno studente di medicina, l’ altro di letteratura, due corpi e due anime, l’ incontro in quel caffè scritto nel proprio destino.
Dovrebbero essere nemici ma tutto improvvisamente cambia, il respiro della vicinanza e il contatto fisico cancellano la distanza per farsi essenza, tra loro una condivisione totale e la sensazione di non essere come gli altri.
Arsim sente che il proprio sentiero è diviso, prima e dopo Milos, una vita che finora è stata un dettaglio insignificante, non si è mai sentito così bene e al sicuro come con lui.
Eppure tra loro prevale il non detto e forse sarebbe stato preferibile non sapere nulla l’uno dell’altro, l’ impossibilità di qualsiasi idea di un futuro a separarli, la famiglia, i figli e la guerra alle porte, strade invase dalle truppe serbe con i fucili d’assalto, file di carri armati e veicoli militari a Pristina.
Quell’ estate finirà presto, rimarrà incessante il pensiero dell’altro e il desiderio di vivere altrove, mettersi in salvo, sopravvivere alla carneficina, di essere inghiottiti dalla guerra, ignorando un matrimonio combinato e senza amore.
L’ atrocità bellica li segnerà per sempre e ne cambierà il volto in un altrove che conserverà la memoria della propria ignominia e delle atrocità commesse con un’ idea svanita nel nulla, il passato irrecuperabile coperto dalle macerie di un tenero e amabile ricordo, un amore fugace durato il soffio di un’estate sepolto nella crudeltà della violenza al cospetto di un corpo pochi anni dopo sfiorito e smunto e di una mente rapita per sempre, mentre la vita ha deposto i propri sogni giovanili facendosi insopportabilmente molesta.
E allora quale presente e futuro, sempre che ve ne sia uno? La fine della guerra non significa nulla perché la vera guerra inizia con la fine dei combattimenti, con lo scompiglio in cui è stato trascinato un intero paese, Arsim verrà travolto dall’epilogo della propria famiglia, ridotto a niente dopo essere stato così tante cose, uno studente, uno scrittore, un padre, un marito e un compagno e improvvisamente così poco, niente.
La scrittura un sibilo salvifico, il solo, a racchiudere la propria essenza, tutto il resto svanito, nebuloso, perso per sempre.
E allora il tempo si fa importante solo quando lo si è perduto, la sofferenza dell’ altro è anche la propria e quella di un intero paese.
Pajtim Statovci ( 1990 ), giovane scrittore Kosovaro emigrato in Finlandia all’ età di due anni con la famiglia in fuga dalla guerra, scrive un romanzo intriso di realismo ma estremamente poetico, crudelmente esposto e amabilmente fragile, commistione di forza, destino, passione, crudeltà, desiderio, con una scrittura intensa, viva, che richiama a se’ il potere delle parole e tutti i connotati della buona letteratura.

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68 Opinione inserita da 68    18 Ottobre, 2021
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Legame assoluto e fragile

Carlo ed Emma, una resa dei conti all’ interno di una relazione che dura da quarant’anni, una lontananza di venti con il rimorso per quello che si è fatto all’ altro, anche se allora era necessario.
Lui l’ha amata, lei anche, ad accompagnarli la vulnerabilità che l’amore inevitabilmente accende, un sentimento che non può scomparire definitivamente, con il quale fare i conti per sempre.
C’è un momento in cui ci si deve spogliare di tutto, accogliere il remoto e il male che ci si è fatti, in cui, maturi e invecchiati, riannodare i fili di un passato che ritorna, anche se ci si domanda il senso di tutto questo.
Anni trascorsi a inseguirsi, lasciarsi, negarsi, per intraprendere strade diverse, cercando di affermare se stessi, quel senso di gratificazione e giustizia che si prende cura degli altri ( Emma e la scuola ), la ricerca di un successo personale che nasconde desiderio e fragilità in un microcosmo artistico che prevede divismo, egocentrismo e applausi. ( Carlo e il cinema ).
Nel mezzo la vita di coppia, il matrimonio, viaggi, carriera, lavoro, la progressiva voglia di un figlio, due realtà contrapposte, il divorzio, un altro matrimonio, una figlia, relazioni fragili, un mondo borghese privilegiato e narcisista, un mondo operaio immerso nel quotidiano, con l’idea di un possibile riscatto, travolti da cotanto amore giovanile, intriso di una bellezza stupefacente, la propria.
E allora che cosa è questa forza seducente, attrazione fatale, unione tra entità convergenti, il respiro della pura bellezza, o semplicemente l’ inafferrabile e inspiegabile non sense che assumono i giorni privati l’ uno dell’altro, giorni pieni inesorabilmente vuoti, giorni investiti nella affannosa ricerca di un senso, di affetti e certezze consolidate, giorni destinati a svanire travolti da cotanto sentimento?
Forse si è trattato di una semplice evidenza negata, assorti nelle proprie certezze, ignorando l’ altro che era parte di se’, e quei desideri si sono rivelati mendaci.
Può un terribile incidente dare una scossa, impotenti di fronte alla morte, improvvisamente privati di un incontro quando finalmente sarebbe stato possibile, adesso che se ne aveva il tempo e la voglia, rimangono dei quaderni in cui riscoprire il passato e i propri sentimenti, le emozioni e la vita dell’altro, un mondo che inevitabilmente è parte di se’.
E c’è un film, espressione del proprio talento, che ritorna all’ infanzia quando tutto ebbe inizio e cerca di tramutare la vita in arte, rendendola eterna.
Nel mentre una giovane donna, ignara di tutto, sconosciuta a se stessi, rispecchia i propri desideri negati ed è il frutto meraviglioso di un amore siffatto.
È un amore che dura, inspiegabilmente, una fiammella riaccesa quando la vita sembrava sfuggire per sempre, e ci si ferma ad ascoltare e a parlare, in silenzio, come si era soliti fare, quando tutto ebbe inizio...
Romanzo sentimentale, psicologico, relazionale, molto femminile, che cerca di scoperchiare e analizzare la fragilità di una coppia apparentemente estinta. Non è il recupero di un passato ormai svanito ne’ il rimpianto per quello che non è stato a focalizzare i protagonisti, ma una attenta analisi di se’ come nuovo inizio. Il dolore di una possibile perdita accresce un senso di vuoto, generando un boomerang di ansia e angoscia, il tempo cambia le cose ma non i sentimenti, quelli veri.

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68 Opinione inserita da 68    12 Ottobre, 2021
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La verità di una vita

La montagna e le sue innumerevoli forze, impasto di leggenda e realtà, una fiaba senza tempo di un percorso scandito dai singoli giorni.
Adelmo Farandola è un uomo dimenticato da tutti, un pezzo di storia che ha perso una parte della propria, aggrappato e avvezzo ai silenzi, disabituato ad ascoltare, ripete gli stessi gesti, si sposta in modo guardingo, respira sensazioni, odori, rumori, in testa quel suono inquietante di quando era bambino.
Vive quassù, lontano da tutti, un eremita che diffida degli uomini, rigetta sguardi e domande indiscrete, unico compagno un cane parlante, capitatogli tra i piedi, a suo modo saggio o forse soltanto vecchio, mille voci gli parlano.
Non scherza, non ricorda di non ricordare, la solitudine di anni confonde la realtà vera e quella sognata. È abituato ad accontentarsi di poco, a parlare con i gorgoglìi della fame, non si lava da anni, impregnato di uno spesso strato colloso, come una seconda pelle.
Quell’alpe gli appartiene, così come gli animali e l’aria, può farci quello che vuole, non segue alcuna regola, non ha licenze, la solitudine gli piace e gli è vitale, lunghi anni per impararne il piacere ignorando la fame, il conforto di parlarsi da solo e di immaginare le voci delle bestie e delle cose pronte a rispondergli.
Fame, freddo e sonno gli siedono di fronte, fuori si affaccia il lungo inverno, la neve si muove, vive e respira, neve e ghiaccio sono creature rumorose, sfrontate, beffarde, bussano alla porta e chiedono di entrare.
Adelmo è assorto nei suoi pensieri, sepolto dalla neve, racconta in silenzio al cane addormentato, mentre qualcosa riemerge dal suo passato e dal fondo della sua memoria disastrata, un ritrovamento improvviso e inaspettato, misterioso e infausto, un cupo presagio inizia a percuoterne i giorni, le fantasie si fingono ricordi, le ore si confondono sotto gli strati di neve che trasformano la luce in un crepuscolo azzurro.
È qui che tutto nasce e pare confondersi, sparire, dissolversi, per riemergere, e pezzi di storia ricostruiscono accadimenti possibili, certezze nefaste, eventi improbabili, o forse è solo un’ idea nella testa.
Il racconto, secondo quanto ci dice l’ autore stesso, ha avuto origine da una storia vera, un incontro casuale durante un’ escursione montana, l’enigma mai svelato di un personaggio come tanti, intriso di mistero, leggenda, fantasia, epos. Il resto è una storia condita dalla penna, ma vera, e tale si presenta ai nostri occhi, sin dalle prime righe, di certo riesce a restituire l’ incompiuta fragranza di una presenza e di una vita condita di mistero e autenticità, ma che respira vividamente.

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68 Opinione inserita da 68    07 Ottobre, 2021
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Le ombre di una vita

Un unico filo conduttore, storia al femminile nel cuore di una famiglia retta da donne, una scrittura cruda e uniforme, quasi una litania che riflette un sentimento, quella rabbia repressa che avvolge il respiro della protagonista, sin da bambina, incanalandola in una routine che qualcuno ( la madre Antonia ) ha già deciso per lei.
Periferia di Roma, un quartiere popolare che è il perimetro dei propri spostamenti, lotta e miseria, privazioni, denunce, rimostranze, chiedendo di non essere dimenticati, senza una casa, intrappolati da un’ infausta esistenza, tra drogati d’eroina e anziani moribondi, progettando la fuga, una vita che non basta, senza amore, cercando un riscatto voluto da altri, la scuola e lo studio come unica possibilità, i libri a consolare un presente siffatto.
Una famiglia disgraziata e anestetizzante, un padre travolto e immobilizzato dal dolore, che non vuole più stare nel mondo, una madre infaticabile e ossessionata dalle cose giuste, un fratello idealista e ribelle, due gemelli chiassosi che dormono in un enorme scatolone pieno di coperte, una protagonista bambina che già fissa negli occhi la paura, non essere come Antonia, non bastare mai, non vincere nessuna battaglia, coltivando le proprie nevrosi.
C’è un “ noi “ in cui nessuno le ha mai chiesto se voleva abitare, la solitudine compagna della propria infanzia, sentendosi ingombrante nella propria casa, quando è stato necessario trasferirsi in provincia, traslocare sulle sponde di un lago secolare, in un paese dove ci si deve ripulire faccia e corpo, farsi riconoscere, dove si è figli di Antonia la rossa.
Cos’è la famiglia se non un luogo di menzogna in cui nascondere la propria identità, inventarsi favole, proteggere ingiustizie, un angolo infarcito di luoghi comuni, e che cosa realmente vogliamo? Qui si cementano rabbia e rassegnazione, violenza e bugie, qui si è immobilizzati, stesso posto, stessa faccia, stessa ora, nell’ attesa dei propri diciotto anni.
Amori, amicizie, perdite, tradimenti, un luogo dell’ infanzia e della memoria in cui crescere, un malessere sfociato in una violenza inarginabile, un’ implosione funesta, e sentirsi una giovane donna a metà, spezzata, opaca, contenuta da sempre, a lungo anestetizzata nei sentimenti, con una scarsa autostima, in un posto che non sa tenere i segreti, nascondere la morte, occultare il dolore.
Una donna che non ha fatto altro che studiare e scrivere, annotando scrupolosamente il proprio sapere, senza uno sbocco professionale, già vecchia, ignorata nelle proprie opinioni e nelle decisioni importanti, mentre la propria madre rimane la stessa dell’ infanzia e lei un giorno, sarà costretta a tornare in un luogo estraneo.
È allora che incrocia lo sguardo della bambina che fu e che ancora le sussurra qualcosa, e comincia un racconto tra finzione e realtà, fotogrammi del passato, in una casa riadattata, scorrendo con i pensieri quel luogo prosciugato dalla città, entrando tra i vicoli della propria memoria, in un angolo zeppo di ricordi, e c’è un volto amico che le manca all’ interno della magia del lago.
Un romanzo ben scritto, personaggi ben delineati, caratteri crudelmente esposti, ma eccedente nella propria continua sofferta linearità. Quel sentimento di rabbia e di dolore che accompagna l’ intero racconto finisce per limitarlo e infragilirlo, ben oltre la propria ribadita essenza.
In quel mentre tutto pare annebbiarsi, perdere vigore e vitalità, appiattendone e ripetendone toni e contenuti, mentre le proprie manchevolezze assumono i colori sbiaditi di un’ assenza protratta.

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68 Opinione inserita da 68    21 Settembre, 2021
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Il potere dei gatti





La scrittrice giapponese Morishita Noriko ci racconta un periodo particolare e complicato della sua vita, dopo i cinquant’anni anni, in cui fatica a trovare l’ ispirazione letteraria, senza un marito e dei figli, con introiti instabili, la prospettiva di una vecchiaia solitaria, ed è tornata a vivere insieme all’ anziana madre.
Un giorno, quasi per caso, scopre che una gatta randagia ha partorito nella aiuola di casa, cinque esserini della dimensione di una pallina, dando il la’ a una storia tutta da vivere e da narrare, una storia di incontro e di tenerezza, di conoscenza e rinascita, di comunione e condivisione.
Del resto non si possono abbandonare una gatta senza dimora e i suoi cuccioli, ma come accoglierli nella propria casa, non essendo amante dei gatti, non sapendo come avvicinarli, impacciata e maldestra, augurandosi una loro precoce dipartita?
Sappiamo che la tradizione giapponese associa a questi piccoli felini poteri magici, si racconta che possano trasformarsi in mostri e assumere sembianze umane, ma Morishita Noriko e la sua famiglia non hanno mai avuto a che fare con i gatti. Urge un periodo di apprendimento, la richiesta di aiuto ad amici e parenti, ben presto ci sarà una socialità allargata e un pellegrinaggio quotidiano alla sua dimora, oltre che la scoperta di un universo gattesco curativo e gratificante, una forma d’amore con codici del tutto particolari.
In questo l’ autrice è aiutata dalla propria naturale curiosità, inclinazione all’ ascolto e alla osservazione, sperimentando suo malgrado un’ attrazione fatale, inspiegabile, irrinunciabile.
Passerà giornate intere a guardarli, Mimi e Toro, mamma e figlio, instaurando con loro un rapporto privilegiato, fatto di sguardi e tenerezza, agguati e ripicche, mentre gli altri cuccioli sono stati affidati a persone care e in lei si insinuato un senso di benessere spirituale e corporale, allontanando stanchezza, angoscia e agitazione pregresse.
È un viaggio di conoscenza e apprendimento, di ridefinizione di se’, di scoperta interiore, un percorso pedagogico inverso, perché non si può pensare di educare un gatto ma solo di adeguarvisi comprendendo quello che sente. Sono creature speciali, questi piccoli felini, nate compiute, ciascuna con la propria individualità che vive secondo gli usi dei gatti.
E allora è fondamentale apprenderne la lingua, le movenze, i ritmi, le richieste particolari, i comportamenti bizzarri, l’ estemporaneità finalistica, gli sguardi attenti, che paiono venire da chissà quali profondità.
È un incontro per sempre che sfocerà in un amore sincero. Una famiglia allargata si farà, quattro semplici esseri viventi, un sistema relazionale ridefinito e la sensazione che quella fronte appoggiata sul proprio braccio rispecchia un’ intesa profonda con un essere privo di parola ma dotato di intensi silenzi parlanti.
Una lettura leggera, piacevole, vera, nella quale, per chi vive la realtà gattesca, riconoscersi e rispecchiarsi. Ho la certezza, personale, che questi piccoli adorabili amici di casa sono in grado di rivoluzionare e sovvertire vite intere, di accedere ai cuori più sinceri, amando e lasciandosi amare, con il fondato sospetto che sappiano sovvertire e riorganizzare la quotidianità ridefinendo i tempi secondo i propri limiti e confini, di certo posseggono il dono di restituire all’ interno delle famiglie un’ armoniosa presenza e un senso di benessere a tutto tondo.

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