Opinione scritta da Bruno Izzo
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Il valore delle scelte
Molti, direi anche troppi, dei romanzi di Stephen King hanno avuto una trasposizione cinematografica, alcuni anche molto fortunata.
Anzi, qualcuno conosce più lo scrittore del Maine come ispiratore di film baciati da un certo successo, a firma di registi che vanno per la maggiore, che per averne effettivamente letti i libri.
È il caso di “Shining” diretto da Stanley Kubrick, de “Le ali della libertà” o “Il miglio verde”, ambedue a cura di Frank Darabon; molti altri invece sono stati magari successi di pubblico, ma da dimenticare, film davvero di bassa lega, horror e splatter che con il vero King, signor scrittore, non hanno molto a che fare.
Il motivo per cui il cinema ha massivamente saccheggiato i testi di King per farne copioni e sceneggiature stanno, oltre che nell’originalità dei temi e la ricchezza di spunti e idee ammalianti nei suoi testi, proprio nel modo direi magistrale di scrivere del nostro.
Nei suoi libri, Stephen King si esprime per immagini, letteralmente ti fa “vedere” luoghi, fatti, personaggi; il Re dell’Horror, com’è superficialmente etichettato, ha un modo tutto suo di esternare cose e sentimenti, letteralmente pone il suo lettore in prima fila, e gli sciorina i suoi testi sotto forma di figure animate sul personale schermo mentale di ognuno.
King è un maestro nella sospensione dell’incredulità, stringe un patto con i suoi fedeli lettori, li invita ad accomodarsi, fidarsi di lui, girare le pagine, e letteralmente ti trasporta nel suo mondo fantastico.
Nello stesso tempo che il lettore è rapito dall’incanto della sua narrazione, lo emoziona, e intanto che scorre la sua narrazione, tra le righe infila il suo messaggio artistico, la sua morale, la sua opinione.
Non la sussurra all’orecchio, te la fa vedere in testa, a modo tuo, nella maniera più adatta al suo lettore, che così si ammalia, si lega per sempre alle sue storie, ai suoi libri, almeno quelli più riusciti. Uno scrittore che si esprime per immagini, dunque, l’ideale per i cineasti.
Volete che un autore così non si cimenti lui stesso, direttamente, in una sua sceneggiatura?
“La tempesta del secolo” infatti, non è un romanzo, ma una sceneggiatura.
Uno spettacolo con un cast ricchissimo, l’intera cittadinanza di una piccola isola, e questo è nelle corde dello scrittore, abilissimo a descrivere tutti i tratti somatici e interiori caratterizzanti le singole figure che animano le sue storie, senza perdere di vista l’insieme del racconto.
A complicare le cose, il set è ridimensionato, giusto per dare un pizzico di pepe in più alla narrazione; a causa, infatti, di una perturbazione di eccezionale violenza, la tempesta del secolo, appunto, l’intera comunità è intrappolata sull’isola, nessuno può entrare, nessuno può uscire.
Niente di grave, dopotutto, queste comunità isolane mettono in preventivo la possibilità di ritrovarsi tagliati fuori dal mondo per un periodo, sono attrezzati all’uopo.
Solo che stavolta, rinchiuso con loro, con loro, c’è una brutta persona: Andrè Linoge.
Angelo o demonio, stregone o umano, tra loro c’è l’elemento perturbatore degli equilibri che intercorrono tra i cittadini, brave persone quando tutto va bene. E quando tutto va male?
Quando il male si chiama Andrè Linoge? E chi sarebbe, chi è Andrè Linoge?
Essenzialmente, André Linoge è un contenitore.
Un armadio, un archivio, un classificatore, un vaso di Pandora all’incontrario.
Esso è un recipiente che racchiude in sé tutte le nefandezze, le scelte errate, scorrette, sballate, malefiche commesse dagli abitanti della piccola isola.
Si badi, Linoge non è il male, è soltanto un involucro che racchiude il male commesso dagli uomini, da quegli uomini; non esiste il male in sé, esistono le scelte malvagie, volutamente realizzate e messe in atto per i propri egoistici e perfidi interessi.
Meglio ancora, egli è uno specchio, nel quale ciascuno rivede i propri errori, le proprie malefatte volontariamente compiute, il male deliberatamente fatto e del quale non ci si pente, non ci si sforza in alcun modo di porvi riparo, ci si compiace.
L’artificio dello specchio non è nuovo in King, egli l’ha già usato, per esempio, in “It” e “Cose preziose”, ma è ancora efficace. In questo senso, allora, Linoge rappresenta un deposito delle scelte negative dei protagonisti, e in lui sono contenute scelte tipo il tradimento della persona amata, l’abbandono degli anziani indifesi, il traffico di stupefacenti, l’aborto gratuito non giustificato dalla gravità delle motivazioni, tutta una miscellanea di cattive azioni, un miscuglio di malvagità gratuite, letteralmente una “legione”, un misto di scelte spregevoli, abiette, ignobili, vergognose.
Gli abitanti dell’isola compiono delle scelte, e sono scelte meschine; danno un certo valore a queste scelte, le considerano pregevoli, valide, eppure sanno, in cuor luogo, che, in realtà, sono scelte miserabili. Volutamente e coscientemente, piccola metafora di gran parte dell’umanità, essi fanno scelte disgraziate, ma le scelgono comunque, quelle e non altre, perché gli danno un valore alto; e non si rendono conto, o non vogliono accorgersi, che il prezzo da pagare sarà, inevitabilmente, altrettanto alto. Certamente l’animo della maggior parte di loro è lacerato dai complessi di colpa: si rendono conto della grettezza delle loro scelte, ma non possono o non vogliono, magari non ci riescono, nonostante i loro sforzi, a mutare rotta. Si struggono, si tormentano, si affliggono per le loro scelte sbagliate, non pensano che potrebbero porre fine alla loro sofferenza interna semplicemente compiendo una scelta diversa, rimediando al danno già fatto, imparando dagli errori e non seguitando a compierli; si fa fatica, richiede un forte impegno e perciò non attrae, non conviene, non fa comodo cambiare strada, scegliere un diverso cammino, modificare drasticamente la propria scala dei valori, correggere il valore delle scelte.
Non reiterare le stesse, medesime, immutabili, sbagliatissime scelte, malgrado Linoge glielo dica apertamente, l’inferno è ripetizione. L’inferno, semmai esiste, è su questa terra, e consiste nel perseverare la propria malvagità. I loro dilemmi interiori certamente li struggono, con loro combattono ma preferiscono soccombervi, pertanto rimangono a lacerarli, generano nel loro animo turbamento, subbuglio, agitazione, una vera e propria burrasca dei sentimenti; e poiché i propri problemi, i propri interessi, le proprie ansie sono sempre sentimenti unici, sono egoisticamente ed individualmente i più importanti, i più essenziali, i più degni di nota, ecco che la burrasca della coscienza e del giudizio non è, per ciascuno di loro, una tormenta qualsiasi, una perturbazione come quella degli altri, ma la più grande, l’unica, la madre di tutte le tempeste, la tempesta del secolo.
Il male è una scelta consapevole, non è mai casuale, e se e quando lo è, perde d’efficacia, di potenza, si può porvi rimedio. Il male richiede una scelta determinata, perché non è mai inconsapevole, chi fa il male, tranne le dovute eccezioni, sa benissimo quello che fa, ma lo fa con coscienza per i suoi interessi, rinunciando con questo alla correttezza ed al bene alla base della propria umanità. Il male richiede decisione, consapevolezza, convinzione, richiede quindi forza nel cedere alla debolezza di compiere il male.
Il male va combattuto con correttezza, nel rispetto delle regole, altrimenti non differisce in nulla ciò che è giusto dall’ingiusto. Non si combatte la violenza con la violenza, non si ripagano gli assassini con la pena di morte, la legge del taglione era valida, semmai lo era, ai tempi del Medio Evo. Gli abitanti della piccola isola sono dei bravi e fedeli americani, patrioti che si commuovono alle note di “Star and stripes”, hanno giurato fedeltà alla Costituzione, hanno votato l’approvazione della Miranda Escobedo, eppure il maggior amministratore dell’isola, e con lui la moglie dello sceriffo, e quindi una persona vicina a chi sa di legge, non esita un istante a proporre allo sceriffo stesso di piazzare una pallottola fra gli occhi di Linoge, così, giusto per evitare rottura di scatole varie, prima ancora che Linoge si riveli compiutamente. E la Costituzione, le leggi, il Bill of Rights? Gesù, ma che bella gente gli abitanti dell’isola! Si meravigliano che sono stati scelti da Linoge per la sua ricerca? Di che cosa tratta, dunque, “La tempesta del secolo”?
Un buon libro, ve lo assicuro, mi correggo, una buona sceneggiatura di King.
Tout court esso afferma, lo dice lo stesso Mike Anderson, nello struggente prologo: “Nella vita, si passa pagando. Talora tutto ciò che si ha.”
Intende affermare che ogni scelta che si compie comporta una conseguenza, se la scelta è nefasta, il prezzo sarà maligno, se la scelta è corretta e rispettosa, la conseguenza sarà giusta e gratificante. Anderson è la personificazione del “buono” nella storia, ma direi di più, è la personificazione di chi cerca, si sforza, s’impegna ogni giorno della sua vita, per fare del suo meglio; e quindi, per fare il bene. Com’è giusto che sia. Non è per niente una persona eccezionale: egli fa appello esclusivamente alla sua buona volontà, al buonsenso, alla propria fondamentale onestà, al rispetto delle regole del gioco, qualunque esse siano. Volendo credere a Linoge, non è egli stesso immune da colpe, ha compiuto azioni disdicevoli, ma non di gravità tale da nuocere deliberatamente al proprio prossimo, che egli tanto giustamente rispetta, chiunque esso sia, di qualsiasi razza, religione, essenza, e se pure lui stesso, come tutti, ha talora sbagliato, ha riscattato e sopperito alla sua scelta errata con una condotta non diciamo esemplare, che non esiste, ma una condotta di vita impegnata, questo sì, alla giustizia ed al bene, in assoluta buonafede.
Ci si può ribellare a Linoge?
Naturalmente. C’è sempre un’alternativa ad una scelta sbagliata, il male non è inevitabile.
Linoge è un miserabile sciamano, la sua forza consiste in quello che siamo disposti a credere.
Come un vampiro, non entra se non lo lasciamo entrare; non si fanno scelte sbagliate se non ci si auto convince che sono indispensabili.
Linoge lo dice: non posso costringervi, il che ci fa capire subito che non può tutto, che non è invincibile! Ma posso punirvi, questo sì. Avanti, allora! Fatti sotto, pezzo di merda!
In “It”, i bambini si fanno da sé una piccola pallina d’argento, e credono, assai fortemente credono, con fede devota e incrollabile, che questa fa male ai lupi mannari! Gli fanno male davvero!
Anderson lo dice: confidiamo in Dio, è l’unica scelta di valore. Voleva dire, confidiamo in noi stessi, abbiamo fede nella nostra decisione, diamo un valore inestimabile alla nostra scelta di non rinunciare, nemmeno per un momento, alla nostra umanità. Comunque fossero andate le cose, Linoge sarebbe stato sconfitto. Ma essi scelsero diversamente. Linoge li scelse appunto per la loro diversità, perché erano malati, ciechi, deboli, vigliacchi. Non perché avevano qualcosa che gli dava fastidio, come pensa Mike ricordando il biblico “fammi sapere perché” di Giobbe, ma perché avevano, al contrario, qualcosa che gli piaceva: davano pochissimo valore a scelte che nuocevano gli altri, andava tutto bene fino a quando non erano toccati nel loro privato giardinetto. Ognuno per sé e Linoge per tutti, un gregge esemplare adeguatamente guidato da un pastore pedofilo.
Come sempre accade, il male colpisce gli innocenti. In guerra, i civili inermi sono le vere vittime. Le donne, i bambini…Naturalmente, i bambini.
L’unico a salvarsi è, naturalmente, Mike Anderson.
Avrà la sua ricompensa. Perché il difficile, in simili tragedie, è la certezza del sapere, sapere ad esempio che suo figlio è in pace, libero di giocare in un posto dove i bambini sono veramente bambini, e scelgono di rimanere tali per sempre, mentre nella mente gli scorrono i versi finali di un’antica, bellissima, proposizione di scelta, una eternamente valida dichiarazione dei valori principali, ideata millenni prima da un oscuro predicatore della Galilea, figlio di un modesto falegname, che con le sue scelte, i suoi valori, avrebbe segnato per sempre la storia dell’umanità.
Versi che, giustamente, terminano con un “…e liberaci dal male”.
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Giochi di guerra
Me l’hanno chiesto di recente, discutendo di traduzioni letterarie, e di come talora sia difficile trovare buoni testi in italiano tradotti da certe lingue poco diffuse: conosci scrittori ungheresi di chiara fama?
Certo che sì, ho risposto, citando senza esitazioni Edith Bruck e Sandor Marai.
E Ferenc Molnar, no?
Ragazzi, che gaffe! Come ho fatto a non ricordarlo?
Sfido chiunque ad affermare che non conosca la celeberrima opera di quest’autore ungherese, “I ragazzi della via Pal”.
Un romanzo diffusissimo, celebrato in tutto il mondo, considerato un classico della letteratura dell’infanzia, al pari di altri titoli parimenti celebrati, come quelli ad esempio di London o la saga delle sorelle March di Luisa May Alcott.
Ecco, forse è per questo che non mi è venuto in mente.
Dissento su questa classificazione.
Il libro è un bel racconto, appassionante, avvincente, anche ben scritto, sebbene nella prima versione che lessi era tradotto in un italiano antiquato, quindi un po’ troppo pomposo, pesante, che rallentava la dinamica della narrazione.
Tuttavia, ritengo che questo non sia un libro per ragazzi.
Direi che è un libro deleterio per la gioventù.
Riporta pessimi esempi educativi, è un racconto di guerre, di battaglie, di violenze, di sotterfugi e tradimenti, di menzogne e bassezze fisiche e morali.
Pur risalendo a prima dei due conflitti mondiali, è un’elegia, neanche tanto celata, del militarismo più acceso, dello spirito guerriero, pugnante e dedito ad eroismi in nome della patria e della bandiera, che tanti guasti avrebbe prodotto negli anni a venire.
La storia è una cronaca di guerra, è un imitare pedissequamente, da parte di uno sparuto gruppo di ragazzini di varia età ed estrazione sociale, di quanto di peggio possano mostrare gli adulti.
Il testo è ambientato alla periferia di una grande città, e tutta la trama si snoda intorno al contendersi di un grosso spazio di terreno, recintato ma facilmente accessibile, uno di quei grandi spazi della periferia urbana a ridosso della campagna, destinati a futura speculazione edilizia, insomma una sorta di via Gluck ante litteram.
Un terreno spoglio, e però non privo di un certo fascino, vi si trova la casupola del custode, cataste di legame per future costruzioni, e soprattutto un’area vasta e sgombra.
A contendersi questo sito, non sono gruppi d’immobiliaristi d’assalto, volti ad accaparrarselo per dar luogo a una cementificazione selvaggia, tutt'altro, se lo disputano aspramente per i loro giochi gruppi di ragazzini.
Capite bene, un gruppo eterogeneo di giovinetti, ragazzini ancora con i calzoni corti, che anziché dividersi il terreno per giocare tutti insieme appassionatamente, magari cimentandosi in lunghissime ed estenuanti partite di calcio, come farebbero tutti i ragazzini del mondo, organizzandosi in autonomia per squadre e turni di gioco, letteralmente scimmiottano l’arte della guerra.
Si azzuffano tra di loro per il possesso materiale del sito, non solo, ma anche per una presunta superiorità ideale di un gruppo sull'altro, di un bambino su un altro bambino.
Lo fanno pure con tutto il sentimento, con tanto di fortino rudimentale, bandiere, vedette, presentatarm, suddivisione della truppa in graduati, dotazione di lance di legno e bombe di sabbia.
E ancora, spedizioni punitive, servizi di intelligence per scoprire i piani del nemico, torture e punizioni esemplari delle spie, dei codardi e dei traditori, corte marziale, degradazioni, battaglia finale.
È incensato quindi, ma chiaramente, con tanto di squilli di trombe, fanfare e vessilli al vento in giro per il quartiere, tutto quello che fanno normalmente, e periodicamente, gli adulti.
Quasi fosse una prassi normale nel corso di un’esistenza se si vuole farla apparire eroica e affascinante, e non quello che, in effetti, è, un’abietta follia.
Non si tratta assolutamente di un gioco, come si potrebbe presumere, tutt'altro, questa, è letteralmente la rappresentazione di una guerra, anche realmente cruenta come vedremo alla fine.
I piccoli protagonisti, gli adulti del futuro, danno luogo a fenomeni di bullismo, nonnismo, lotte di classe, anche se non se ne avvedono, non se ne rendono conto, non fanno cose belle di cui vantarsi.
Peccano finanche di maschilismo, non esiste una ragazza in questo gruppo di belligeranti, neanche una crocerossina.
Le uniche donne citate sono quelle che, naturalmente casalinghe per tradizione, non sono ovviamente, per motivi anagrafici, le loro mogli e figlie, ma le madri e le sorelle.
Nulla però cambia nel loro ruolo istituzionale, il massimo che gli compete fare è cucire una bandiera per gli eserciti in lotta. La guerra è cosa riservata ai soli maschi.
Volete che una simile lettura possegga intenti pedagogici, come dovrebbe avere un qualsiasi testo per l’infanzia?
Assolutamente! Presenta esempi da non imitare, da aborrire.
Pure, come dicevo, è un bel libro, scritto bene, con personaggi ben delineati, tracciati nelle loro caratteristiche più incisive, con ottime capacità descrittive di luoghi e dinamiche.
Un ottimo libro, riservato però prioritariamente agli adulti, perché riflettano sulla propria stupidità.
Ecco, a mio parere, per restituirgli una valenza morale, dovremmo partire dalle ultime righe, quando il capo dell’esercito vittorioso, dopo l’omaggio ai combattenti e ai caduti, e la fine delle ostilità e l’armistizio con la fazione sconfitta, si reca a visitare il suolo definitivamente conquistato, restando spiazzato.
Infatti, nessuno più giocherà su quel campo, vincitori e vinti restano con un pugno di mosche, il proprietario del terreno di lì a poco farà costruire un palazzo.
Tutto è stato inutile, come sempre sono inutili tutte le guerre.
Si capisce solo quando è troppo tardi, quando gli eventi dolorosi sono già avvenuti, quando già sono cadute le vittime innocenti.
Sono sempre i più buoni a pagare il prezzo più salato della guerra.
“…Giovanni Boka guardava fisso davanti a sé: e, per la prima volta, la sua anima di fanciullo intuì quel che è veramente la vita, per la quale noi, suoi schiavi ora tristi ora lieti, lottiamo."
Ecco, possiamo ripartire da qui, da queste righe finali.
Leggere insieme ai nostri ragazzi questo libro, facendogli capire che devono agire esattamente all'inverso di quanto il libro esalta. Non alla guerra, ma alla vita va riservato l’onore delle armi.
Armi che si chiamano rispetto, solidarietà, amicizia, lealtà.
Sono armi deflagranti, sono valori. Gli unici da seguire, fin da ragazzini.
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Vedere voci, sentire immagini
Di cosa parla questo libro, ed il film e le varie versioni teatrali da esso tratto, ce lo dice direttamente la protagonista, una ragazza sordomuta:
“…il mio cervello capisce molte cose, e i miei occhi sono le mie orecchie.
Le mie mani sono la mia voce e la mia lingua.
Il mio modo di esprimermi, la mia capacità di comunicare, sono notevoli quanto i vostri. Forse di più, perché io posso comunicarvi con un’immagine un’idea più complessa di quella che voi potreste spiegarvi reciprocamente con cinquanta parole…”
Almeno per sentito dire, questo titolo, questa definizione: “Figli di un Dio minore”, è entrato nell'uso comune, ma non tutti ne conoscono la genesi.
Sicuramente la conoscono tutte le persone sordomute: “Figli di un dio minore”, libro e film, è stata il punto più alto dell’orbita raggiunto dal pianeta delle persone diminuite nell'udito e nella parola.
Nei primi anni ’80, dopo l’exploit seguito al successo di critica e di pubblico registrato dal film, non si è mai più discusso così a lungo e diffusamente, in pubblico ed in privato, sui sordi, sull'essere sordi, sulla lingua dei segni, sulla sordità: definizioni, modalità di insorgenza, piani operativi di recupero, welfare apposito, leggi ad hoc.
I sordi erano l’attualità, erano trendy, erano l’argomento di discussione perenne, sui giornali ed in tv, dovunque si parlava di sordi.
Non so quanti degli stessi sordi in effetti conoscono il romanzo, in realtà è un testo teatrale, a firma di Mark Medoff, edito nel 1980: devo dire che sarebbe rimasto un testo sconosciuto ai più, relegato nel giro delle compagnie teatrali dei circuiti underground, nei tour artistici – culturali d’avanguardia americani, non fosse stato per l’apoteosi succeduta al successo del film.
Perché è un libro tosto, difficile da leggere, da digerire.
Parla di sordi, parla della difficile condizione di sordo, parla di come sia arduo per il sordo recuperare la propria autonomia, realizzare la propria personalità, ritrovare la propria identità di persona.
L’input primitivo, il punto iniziale, la linea di partenza, è data dalla fiducia in sé stessi, dal proprio livello di autostima, dalla cieca e ostinata ricerca di un equilibrio interiore, che permetta di spiccare non dico il volo, ma almeno superare con un balzo iniziale la palude, il divario tra la condizione negletta, svantaggiata, arretrata di partenza, per approdare felicemente su una lingua di solida terra sotto i piedi.
La società linguistica dominante invece non solo non agevola, ma in nome di un pregiudizio tanto infondato quanto diffuso, aizza la disistima nel sordo, potenzia le barriere comunicative anziché allentarle, è mono comunicativa e mono culturale, cieca e sorda ad ogni lasciapassare, rafforza gli ostacoli sul cammino dei sordi.
Non costruisce ponti, non agevola il traffico per i sordi, ma blocca, devia, obbliga su percorsi considerati a priori gli unici adeguati alla condizione di sordo.
I sordi li lascia indietro.
I sordi non li reputa all’altezza, anzi peggio, i sordi sono definiti minorati mentali, tout court, e quindi un fastidio, più da assistere, tollerare e tenere a bada, che supportare all'integrazione.
Libro e film, insieme, sono stati un testo miliare, una tappa fondamentale nel cammino dei sordi di tutto il mondo verso l’autonomia, hanno incentivato all'autostima, hanno spronato i sordi a credere maggiormente in sé stessi, sono stati la “madre” di tutti i libri e di tutti i film a seguire sulla condizione sorda.
Il film tratto dal libro, poi, è un vero e proprio cult per la generazione sorda a cui io stesso appartengo.
Per quelli della mia generazione, all’epoca dell’uscita del film baldi 20nni o poco più, costretti nelle scuole dirette ai fini speciali per sordomuti, alcuni di questi poco più di ghetti, se non veri e propri lager e luoghi di tortura, dolore e sfruttamento, poco istruiti per non dire del tutto ignoranti, costretti spesso a ripetere a sproposito gli anni delle scuole dell’obbligo, “Figli di un Dio minore” è stato il riscatto, la rivalsa, la vendetta covata per decenni e mai pienamente realizzata, è stata la rinascita, la resurrezione, l’idea stessa di riabilitazione completa del nostro onore e della nostra intelligenza, mortificata, calpestata ed umiliata dall'inizio della nostra storia.
Il testo in sé si riduce ad una tenera, delicata e “diversa” storia d’amore tra il professore udente di un liceo per sordi James Leeds, interpretato sullo schermo da William Hurt, e la ragazza sorda Sarah Norman, sempre sullo schermo magistralmente interpretata da Marlee Matlin, attrice sorda per davvero e non per finta.
Sarah, pur essendo dotata di intelligenza e capacità “normali”, si occupa delle pulizie, è relegata, e con il proprio avallo, in un ruolo inferiore, umile, dimesso, anche se con la sua intelligenza e preparazione potrebbe aspirare a ben altro.
Le hanno inculcato a forza il concetto che una persona sorda semplicemente “non può” e basta, per definizione.
Il professore si accorge delle “normali “potenzialità della ragazza, ne intuisce la ritrosia ad evidenziarle perché da sempre le è stata negata la validità della sua intelligenza, a cominciare dalla sua stessa famiglia. Sarà l’amore sorto tra i due, la dedizione sincera del suo compagno, a darle la forza di credere maggiormente in sé stessa e nelle sue capacità, e di estrinsecare al meglio le sue notevoli possibilità: perché in fondo la ragazza sa benissimo qual è la verità, e lo dice chiaro.
La ragazza ha capito perfettamente tutto: sa che i meno fortunati che sono stati, per così dire, creati male, da un Dio meno capace, sono in realtà tutti gli ignoranti di questo mondo, udenti e sordi insieme, arrogantemente chiusi nella bolla della propria ottusità.
Sono loro i veri emarginati, trattati peggio degli altri perché considerati diversi, inferiori, meno degni degli altri. I sordi, invece, sono costretti ad “ignorare”, ed è ben diverso, non è una loro scelta.
Riesce davvero difficile separare il testo di Mark Medoff dal film omonimo, come è sempre impossibile non accostare il romanzo “Via col vento” di Margareth Mitchell con il film omonimo della coppia Clark Gable-Vivien Leigh
Con questa interpretazione, la splendida attrice sorda Marlee Matlin vinse l’oscar, l’oscar di Hollywood, quello vero, quello degli udenti, e divenne un simbolo, l’icona mondiale dell’orgoglio sordo.
Tutti noi sordi, maschi o femmine, ci innamorammo di lei, ci rivedemmo in lei, con tutto il rispetto affermo qui e ora che per i sordi di tutto il mondo ha fatto molto più Marlee Matlin che tanti altri.
Ed infine, me lo chiedo spesso: noi sordi siamo ancora figli di un Dio minore?
Questo Dio si è deciso a crescere e a diventare maggiore, o siamo almeno cresciuti noi, affrancandoci dalla sua, a volte ingombrante, presenza?
Personalmente, mi rispondo così: se solo lo vogliamo, noi sordi non abbiamo bisogno di alcun Dio.
E lo affermo con il massimo rispetto del sentimento religioso di tutti.
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Una volta per sempre
Questo non è un saggio, o un pamphlet vetero-femminista; neanche un “grido di dolore” sulla condizione delle donne in Italia, e dovunque, in verità.
Nemmeno un’inchiesta giornalistica, neppure un libro con un taglio da cronista o d’elzevirista d’assalto.
A mio parere, è un libro che dice molto altro, ha tanto da dire, e lo dice bene.
Scritto da una signora scrittrice, poiché definirla giornalista, mezzobusto televisivo o simile mi sembra molto riduttivo; Lilli Gruber, infatti, di là dalla sua bravura di reporter e corrispondente, è una persona che rende veramente bene nero su bianco.
Si esprime con stile fresco, giovanile, diretto, senza tanti fronzoli o orpelli inutili, punta diritto al sodo di quanto desidera mostrare.
Quello di cui ci parla è un semplice report, un grafico elementare ma con tanto di numeri reali, una disamina onesta, accurata, precisa nei minimi aspetti di quanto accaduto lo scorso anno, il 2019, sul fronte uomo-donna.
Niente di barboso o accademico, affatto. Una riflessione quieta, una piacevole chiacchierata.
A partire da un suo personale evento professionale, che ha dato il via a tutto, è stato motivo d’ideazione del libro, e leit motiv di tutta la trama a seguire.
Il fatto originario è stato un appuntamento ripetutamente richiesto, perorato con insistenza, ricercato e ambito ossessivamente da Matteo Salvini, con lei e con il suo programma televisivo che conduce.
Sennonché Salvini, con la superficialità, l’arroganza, la sbruffonaggine e la faciloneria nazional popolare che lo contraddistingue, all'immediata vigilia si lamenta invece in pubblico, falsamente e ipocritamente, di essere “costretto” all'ospitata da una giornalista poco gradita al suo elettorato.
In verità, il programma della Gruber è una trasmissione fortunata e molto ambita da chi cerca visibilità.
A Salvini comunque mal gliene incoglie, letteralmente scivola su una buccia di banana: la Gruber non è donna che accoglie seraficamente le bizze di chicchessia, è nota per dire pane al pane, e soprattutto le cose non le manda a dire.
Lilli Gruber pubblicamente spiega a Salvini che, se non gradisce intervenire, non è per nulla obbligato a presentarsi, rimarcando oltremodo che è stata la segreteria politica dell’allora vicepremier a richiedere l’incontro con insistenza.
Salvini, vistosi colto in flagrante, si affretta a spiegare, come suo solito, che è tutto un equivoco montato ad arte dai suoi nemici, è tutta una sciocchezza, un pettegolezzo tra comari, e che lui certamente farà facilmente pace con la bella giornalista…munito di regolamentare mazzo di fiori.
In seguito, aggiungerà una scatola di cioccolatini. Non si salverà nemmeno con questi.
“Basta” inizia da questo episodio, banale e indicativo insieme.
Lilli Gruber lo proporrà poi sviluppando articolatamene tutto il tema: è ora di finirla con la politica del testosterone. Vale a dire con il predominio dei maschi solo perché tali.
Basta con il luogo comune, ma comune perché montato ad arte e creato appositamente dal genere maschile, che giustifica sempre il maschio perché è tale, che può cavarsela e tirarsi dagli impicci utilizzando gli eterni, biechi, reconditi e ammuffiti luoghi comuni.
Il maschio è cacciatore, la donna è preda, e anche lieta e lusingata di esserlo, che bastano due moine, fiori e cioccolatini per aver ragione di qualsiasi donna, e farle accettare qualsiasi offesa, mancanza di rispetto e ignominie varie.
Dopotutto, è quello che vogliono, un maschio che pensi anche per loro, una casa da accudire, figli da crescere, da che mondo è mondo
Le cose sono sempre andate così, è giusto che continuino a girare in questo modo; invece Lilli Gruber dice basta, basta a quest’andazzo pazzesco, dalle retribuzioni inferiori ai carichi di lavoro domestico, dalla libertà di girare da sole e vestirsi come gli aggrada senza rischiare molestie, ai carichi sociali e alle discriminazioni di ogni sorta.
Basta con l’assioma che in fondo i maschi vanno perdonati, non è colpa loro, lo hanno inciso nel loro DNA, nei loro ormoni, i motivi della becera maleducazione, della violenza di genere, del sessismo insito nel loro essere, che va perciò sempre e comunque tollerato e accettato come ineluttabile dal pianeta donna.
Un pianeta difettoso, basti pensare che non è mai completamente efficiente, sempre e comunque, basti pensare ai giorni del mese in cui è fuori uso, ci sarà pure un motivo per questa diminuzione, di efficienza e stabilità emozionale, no? E la Natura che l’ha voluto.
E via così, tutto su questo tenore.
Allora Lilli Gruber parla, con pacatezza ed efficacia.
Parla di Carola Rackete, per esempio, che per aver disobbedito all'ideatore della vergogna dei “porti chiusi”, è vittima di aggressioni scioviniste sul web.
Così come altre donne; con loro non si discute, sono donne, sono inferiori, servono a una sola cosa, e da qui insulti, violenze, stupri, omicidi.
Tutto questo la Gruber lo sintetizza più volte in una battuta. “…paura, eh?”
Sì, gli uomini hanno paura.
Perciò fanno quadrato. Pretendono a forza l’invisibilità delle donne, escluse dai ruoli decisionali.
Gli uomini minacciati nei loro ingiusti privilegi, vogliono Salvini al potere, o chi per lui, vogliono il machismo al potere.
Vogliono al potere Trump, Putin, Xi Jinping, Bolsonaro, Erdogan, Johnson.
Quelli che chiaro e tondo lo dicono: le donne devono stare indietro, non devono prendere potere, vanno semplicemente prese, e usate.
In tutti i sensi, letteralmente.
Solo che…questi maschi al potere governano male, malissimo.
Abbiamo in tutto il mondo, un’emergenza migratoria assai amaramente gestita, una crisi economica infinita, un pianeta in fiamme, letteralmente, come in Australia e in Amazzonia.
Un clima di arroganza e di odio, di violenze e femminicidio.
Invece le donne fanno assai meglio, basta guardare ai fatti.
Finanche in un campo per definizione tutto al maschile, com'è il calcio, le donne lo fanno meglio.
Calcio pulito, elegante, spettacolare, che richiama pubblico, e senza tutto il corollario di polemiche, scorrettezze, finzioni, sceneggiate, fallacci e violenze in campo e fuori che sono la norma nel calcio maschile.
Non un’utopia, basta chiedere a Milena Bartolini, e alle ragazze della nazionale di calcio americana che hanno vinto il Mondiale, sbeffeggiando bellamente il maschilista Trump che le aveva stupidamente mortificate ed ha dovuto fare vergognosamente marcia indietro.
E ancora, Lilli Gruber cita donne come Greta Thunberg, politiche come Ursula von der Leyen e Christine Lagarde, elenca fatti, numeri, dati, storie e personaggi.
Non solo: lo dice chiaramente. Non si toglie potere agli uomini perché si è donne.
Si ottiene il potere, per capacità.
Per questo, invita le donne a competere, a mettersi in gioco, a farsi valere, a studiare e a prepararsi. Per farsi trovare pronte, e lavorare per il bene comune.
Il bene comune comprende però, si badi, anche gli uomini.
La qualità umana, e la Gruber lo rileva chiaramente, prescinde dal genere.
Detto da una donna come lei, c’è da crederci.
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Viaggio al termine della notte
Un romanzo che ho riletto di recente, e volentieri.
Ispirato a farlo, in verità, non tanto dalle cronache degli ultimi tempi, bensì da un piacevole scambio di opinioni con l’utente di Q LIBRI Marianna Archeomari, cui simpaticamente dedico questo mio pensiero.
Grazie Marianna, ti sono debitore di qualche ora di gradevole rilettura.
La realtà supera sempre la fantasia.
Non s’inventa mai nulla, che poi la vita non sappia ripresentare in proposito di più, e meglio.
Avreste mai detto appena pochi mesi or sono, ancora alle prese con le difficili digestioni post natalizie, che di lì a poco un parassita subcellulare, neanche una struttura autonoma con tutti i crismi di una cellula vivente, ma un miserabile protista, ci avrebbe dato tanto filo da torcere a noialtri umani, costretti giocoforza a rivedere completamente il nostro stile di vita e di interazione sociale?
Pure, è cronaca dei nostri giorni.
L’arte però, quando è espressa da valenti rappresentanti, ci si avvicina parecchio.
A tutti, nei giorni di quarantena forzata, sarà certamente emerso dai ricordi di scuola Boccaccio e il suo Decamerone, che ebbe il suo motivo di essere proprio in virtù di una pandemia, batterica stavolta, il Covid19 ancora doveva essere di lì a venire.
A qualcuno, poi, sarà anche venuto in mente il romanzo “Cecità” del Premio Nobel Josè Saramago, scrittore portoghese.
Anche qui, una pandemia improvvisa, che costringe i poveri disgraziati che ne rimangono vittime a essere reclusi in….chiamiamole così, particolari, ma molto particolari, unità di terapie intensive, dove gli orrori non mancano.
Il primo però che ha fatto romanzo particolareggiato di una pandemia virale rapidamente contagiosa, e con un indice di mortalità vicino allo sterminio totale della razza umana, è stato Stephen King, con il suo “L’ombra dello Scorpione”, e pure in epoca non sospetta, la prima uscita del romanzo in Italia risale, infatti, al 1978.
Scordatevi il titolo italiano, non significa niente e nulla ha a che fare con la trama, sarà stata una trovata pubblicitaria di richiamo del lettore.
Molto più chiaro il titolo originale, “The Stand”, in italiano la posizione, il palco.
In estrema sintesi, all’epoca o giù di lì il mondo intero era nella realtà scosso, colpito e impaurito per i guasti nefasti di un virus allora completamente sconosciuto, l’HIV, come tale identificato più tardi, agente etiologico dell’ AIDS, e di cui tutti, medici compresi, ignoravano qualsiasi cosa.
Tranne il fatto che, per fortuna o iella nera, secondo i casi, si trasmetteva con i rapporti sessuali promiscui.
Specialmente nella comunità gay, o in certi ambienti della prostituzione, o in caso di sesso non protetto, e non in altre situazioni, almeno in apparenza, con tutte le conseguenze di emarginazioni sociali del caso, la caccia alle streghe, il dagli all’untore, e le inevitabili condanne al pubblico ludibrio di benpensanti, moralisti e religiosi.
Ebbene King, come suo solito attento osservatore della realtà sociale americana, coglie il pretesto per ingigantire l’evento, lo accentua, lo esaspera, ne peggiora portata, diffusione, contagiosità e mortalità, aggiungendoci una diretta responsabilità di militari, a mò d’invettive a guerrafondai incapaci e irresponsabili.
Lo trasforma in orrore.
Dopodiché, letteralmente s’issa su un palco, prende posizione, resta neutrale, e placidamente si pone in osservazione, quasi dall’alto, con una visuale davvero ampia, testualmente spazia da uno stato americano all’altro, e con la sua magistrale capacità descrittiva ci delinea perfettamente uomini e cose, stati d’animo ed eventi.
In sintesi, come reagisce l’umanità presa alla sprovvista da un evento che è in sé e per sé horror vero, reale, tangibile, allo stato puro.
Tragico, stupido e banale, come lo è sempre l’horror che deriva, è colpa degli uomini stessi.
Il Re dell’Horror, com’è noto King al grande pubblico, dimostra qui, ancora una volta, tutta la sua grandezza di scrittore, spesso misconosciuta dai letterati puri.
Lo scrittore del Maine non sta qui a dilungarsi su angeli e demoni, come qualcuno assai superficialmente lo riduce, King descrive ben altro orrore.
Mostra a chiare lettere quello che diventa l’uomo quando giocoforza gli avvenimenti esigono una precisa scelta di parte.
Il romanzo inizia subito a spron battuto, ha un decorso progressivamente, e irreversibilmente tragico e angosciante, senza se e senza me ci introduce nel cuore della storia, l’evento da cui tutto si origina a cascata. Da un laboratorio supersegretissimo, di quelli dove si studiano e si approntano le migliori armi chimiche e virali per la guerra batteriologica, quindi gli agenti etiologici di bazzecole tipo ebola, peste, vaiolo e cosucce del genere, sfugge al controllo, fuoriesce e si diffonde rapidamente per tutti gli Stati Uniti, il campione assoluto dei germi patogeni.
Non è che un banalissimo virus influenzale; solo che muta talmente in fretta che l’organismo non fa in tempo a creare gli appositi anticorpi, figuriamoci poi approntare un vaccino adatto.
È contagiosissimo, quasi il 97% dell’umanità ne sarà vittima, non esiste cura efficace, e quello che è peggio, i contagiati al 100% sono spacciati, muoiono dopo pochi giorni, se non poche ore, dal contagio, senza possibilità di scampo.
Questo virus quindi, denominato Capitan Trips, letteralmente viaggia per il mondo, si diffonde ovunque, e spedisce in fretta chi infetta a compiere il gran viaggio nelle celesti praterie.
Contamina i soli esseri viventi appartenenti al genere umano, per fortuna, ma data la sua rapidissima contagiosità, si diffonde in tutti gli Stati Uniti d’America, e poi anche, e di proposito, nel resto del mondo, secondo l’etico assioma tutto umano, quanto stupido, del mal comune mezzo gaudio.
Seguono quindi scene di apocalittico delirio, si dilegua ogni parvenza di legge, di ordine e di regole civili, qualsiasi etica e morale comportamentale viene meno, viene messa al bando qualsiasi scrupolo o freno inibitorio.
Ognuno bada alla sua sola sopravvivenza, ovunque restano abbandonati nelle strade, nei negozi, nelle case, i morti da virus o da mano umana.
Imperversano, come sempre durante un’apocalisse, furti, violenze, sopraffazioni, fughe, saccheggi, non esistono più remore, divieti, controlli.
Il caos, l’illegalità e la paura regnano sovrani tra i pochi superstiti, che neanche sanno il motivo per cui il loro organismo fortuitamente è immune dal mortale contagio.
A questo punto King ci porta nel cuore della storia, sfodera il meglio di sé, sviluppa un colossale romanzo corale, proprio un canto gregoriano a più voci.
Di più, un vero romanzo distopico, un volume poderoso in cui racconta tanti personaggi, tutti uniti tra di loro, ma è come se raccontasse tante storie, tanti piccoli romanzi nel romanzo, e il tutto ad un ritmo veloce ma piacevole, fluido e stuzzicante, una brezza primaverile rivitalizzante per il lettore.
Secondo logica, la situazione vorrebbe che i superstiti si unissero, facessero fronte comune davanti ad una simile avversità, che ha cancellato di colpo la civiltà come la conosciamo.
Si supportassero a vicenda, se non con amore almeno con un minimo di empatia e di solidarietà, per ricostruire un nuovo mondo, traendo debito insegnamento dalla luttuosa esperienza, serbandone memoria a monito, ricostruendo una nuova civiltà ripartendo da basi etiche, che aborriscano armi, violenze, crudeltà, iniquità ed ingiustizie.
Ma dove? Ma quando mai? Ma come vi viene? Ma non esiste! Ma vien via! Pura utopia.
Gli uomini non si smentiscono mai: e si dividono.
Da una parte, abbiamo un gruppo eterogeneo di persone normalissime, diverso per ceto, età, indole, e inclinazioni, che sono accomunati da un’unica, banale caratteristica: la compassione per i propri simili.
Questo gruppo annovera la studentessa universitaria incinta Frannie Goldsmith, l’operaio Stu Redman, il cantante pop Larry Underwood, il sordomuto Nick Andros, il demente e ritardato Tom Cullen, e altri ancora, tutte persone diversissime tra di loro, una variegata umanità mirabilmente descritta, e nei minimi particolari esistenziali, da King.
Lo scrittore del Maine si sbizzarrisce alla grande, sciorina tutto il suo incommensurabile talento narrativo, scrive, descrive, ritrae, analizza, scava, riporta, commenta, coinvolge, immedesima, incanta.
Focalizza il suo talento in pari misura su ognuno dei membri più rappresentativi di questo gruppo di sbandati, strappati ad un’esistenza semplice e comune, basata su valori universali non solo materiali, ma incentrati a priorità umane di solidarietà, condivisione, compartecipazione.
Tutti insieme guidati da una leader assai improbabile, eppure convincente, reale, di immenso valore umano e spirituale, una vecchissima signora di colore, Mother Abigail, la leader carismatica di questo gruppo di sopravvissuti, il gruppo della gente normale e perbene, i campioni dell’american way of life, sotto l’egida della Bibbia, del Bill of Rights, della legge Divina e Umana, e del Quinto Emendamento.
In contrapposizione a questo, il gruppo dei cattivi, un'altra ghenga di sopravvissuti, che comprende un folle piromane, detto "Pattumiera", un capo della polizia fuori di testa e tanti altri pazzoidi, violenti, delinquenti, dissoluti, immorali, che manco a farlo apposta hanno la loro base nella città più peccaminosa e dissoluta d’America, Las Vegas, la capitale del gioco, della perdizione, della bassezza umana, l’emblema della perdizione e del vizio.
Alla loro testa, chi poteva esserci?
Se la vecchia, paciosa e bonacciona Mother Abigail è il leader dei buoni, alla testa dei cattivi ci deve essere per forza un cattivone della peggior risma, un vero satanasso, se non il diavolo in persona, tale Randall Flagg, l'Uomo che cammina.
Sulle strade buie e oscure, anche sotto il sole di mezzogiorno.
In sintesi, Stephen King mette in scena l’eterna lotta del Bene contro il Male, un lungo viaggio al termine della notte, contrappone la casetta con il camino al casinò scintillante di neon, l’umile lavoro manuale alla tecnologia per la distruzione di massa, l’amore e la passione alla lussuria e alla depravazione.
Facendo agire e parlare i tanti, diversi e intriganti personaggi che pullulano nel romanzo, cosicché davvero il fedele lettore assiste da un palco in prima fila all’evolversi dell’umana avventura.
Si snoda su un copione già visto, sempre uguale, che vede la storia dell’umanità contraddistinta dall’incapacità di schierarsi compatti da una parte sola, non quella più giusta o meno sbagliata, semplicemente quella più umana.
Quello che, a mio avviso, rende questo poderoso romanzo davvero bello da leggere, è non solo la fluidità, la velocità delle azioni e dello svolgersi degli eventi che sono descritti, la capacità analitica dell’animo umano da parte di King che sa “rendere” i pensieri stessi dei protagonisti in guisa di dialoghi correnti, ma è anche, paradossalmente, l’estremo realismo del racconto.
Stephen King non racconta favole, scrive storie che suscitano emozioni da favola, non termina il romanzo con una conclusione felice come le fiabe, lo termina esattamente come andava finito, con verosimiglianza.
Come un romanzo, vero, reale, vissuto.
Lo scrittore americano non è un buonista o un illuso, scrive di cose vere e tangibili, e proprio per questo suo estremo realismo tutti i suoi personaggi, a ben vedere, si assomigliano.
Ciascuno di loro è un uomo, e perciò è buono e cattivo contemporaneamente.
Non bianco o nero, semplicemente; ma tutte le sfumature della gamma cromatica conosciuta.
Nessuno di per sé è dichiaratamente un arcobaleno o una notte completamente buia; sarebbe troppo facile e poco veritiero, non da King, non da grande scrittore.
Che cosa prevale in un uomo, lo determinano le circostanze, l’indole, le esperienze di vita, i caratteri, e in ultima analisi il libero arbitrio.
Non termina bene, o male, il romanzo: è un finale normale. Sapiente nella sua semplicità.
L’uomo alla fine resta sempre uguale a se stesso.
Sì, magari rimane scottato da qualche brutta esperienza, tipo una pandemia, e però, passata la buriana, qualcuno finisce sempre per ubriacarsi, il sabato sera, e dare fastidio agli altri, se non peggio.
A quel punto, magari, le forze dell’ordine non ce la fanno più a rimettere in riga i facinorosi, e qualcuno comincia a pensare che sarebbe il caso di armarli, gli agenti, i poliziotti, procurargli armi, celle e manette, autorizzarli all'uso della forza.
Davanti a queste cose, le solite cose, tanto vale dare un segnale, alzarsi, andarsene a realizzare altrove, novelli pionieri, o Adamo ed Eva, un uomo nuovo, una società a misura d’uomo. Altrove
Non si può stare sempre su un palco, a osservare, in posizione.
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Due
Questo romanzo breve, e anche datato, la sua prima edizione risale, infatti, giusto a dieci anni or sono, è a mio parere, l’opera migliore di Niccolò Ammaniti, o almeno quello che meglio caratterizza l’arte dello scrittore romano.
In verità, per essere precisi, credo che il suo cult sia “Ti prendo e ti porto via”, più esaustivo, di cui questo “Io e te” è una versione ridotta, diciamo così.
Ambedue questi libri che ho citato sono la summa che lo contraddistingue, nell'indole narrativa e nella preferenza tematica, che lo definisce bene, per stile di scrittura, secca, decisa, precisa.
Il suo modo di scrivere, suo, originale, è mirabilmente descrittivo, di luoghi, ambienti e personaggi, ma non tanto in sé e per sé.
Non è, infatti, Ammaniti uomo da visione ampliata, finanche quando ci parla di campagne assolate, non svaria, bensì si esprime meglio, con efficacia, tramite i dettagli.
Così indugiando nei particolari, solo quelli essenziali, restituisce all'immaginario del lettore un quadro d’insieme, e questo suo modo di scrivere ne mostra, in sintesi, limiti e grandezza del suo iter di scrittore.
Personalmente, ritengo, infatti, Ammaniti non un bravo scrittore, ma un grandissimo scrittore; e però, per un verso o per l’altro, non riesce mai ad estrinsecare completamente ed esaurientemente tutte le sue potenzialità, che sono notevoli. E lo restano comunque.
Può apparire strano, dopotutto ha al suo attivo ben altri titoli, a cominciare dal suo testo d’esordio, il dissacrante e originalissimo “Branchie”, per poi passare per il cupo e cinico “Fango”, per giungere al notissimo “Io non ho paura”, quello che gli diede immediata popolarità tra il pubblico, anche grazie alla fortuna del film omonimo.
Senza dimenticare “Come Dio comanda”, vincitore del premio letterario che lo ha consacrato definitivamente come scrittore, per giungere al suo ultimo, controverso e discusso “Anna”.
Eppure Ammaniti mi lascia sempre un che d’incompiuto, di sospeso, a ogni sua lettura.
Intendiamoci, piace, ti prende e diciamocelo, ti porta via per davvero; e però vorresti sapere anche qualcosa in più sulla destinazione finale.
Ti lascia come se…avesse troncato all'improvviso, quando mancava giusto un ultimo step per un’eccelsa simbiosi tra lettore e scrittore.
In “Io e te” Ammaniti non parla di luoghi e persone, anzi, potremmo dire che scrive un breve testo da cui letteralmente traspare claustrofobia.
Nemmeno i protagonisti sono personaggi agli antipodi, come talora ha scritto altrove, tutt'altro, è come se descrivesse la stessa persona, la stessa solitudine estrema che alberga, in apparenza, in due.
Sono un “io e te” che non si fanno due per farsi forza, una sola è l’entità che li contraddistingue.
Niccolò Ammaniti è come se si ponesse a fianco di uno specchio, di profilo, rileva due immagini riflesse, descrive uno e uno che sono due perché non si sovrappongono, ma in realtà è lo specchio che è difettoso, perché deformante.
Lo scrittore si cimenta non con il racconto di due persone, s’immerge invece nell'età più difficile e delicata dell’umana esistenza, quella della prima adolescenza.
Età particolare per chiunque, anni in cui vieni dalle medie, e non sei ancora ragazzo di liceo pieno, tempi in cui l’insofferenza verso i primi affetti, quelli parentali, si stanno ormai sbriciolando con facilità. Non sono più sufficienti i genitori, i fratelli, la famiglia in senso stretto a riempire la tua sensibilità affettiva, ma nemmeno hai testa, modo, e anima per cercare le giuste alternative al di fuori di quell'ambito, che ti appare ormai liso, vuoto, inutile, finanche ossessivo, opprimente, fastidioso.
Succede un po’ a noi tutti: giunge l’età in cui ci affacciamo alla vita di fuori, non ne possiamo più di mamma che ci sta addosso o papà che manco si accorge che esistiamo, e allora desideriamo altro.
Desideriamo amici ma amici veri, intimi, intrinseci; non compagni di giochi, ma traghettatori, compagni con cui condividere le emozioni esterne, e senza sapere bene come o perché nei particolari, cerchiamo…l’etica dell’esistenza.
L’altro. Il genere diverso. Il solo capace di indurci al narcisismo per apparire.
Per arrivarci, a questa nuova maturità affettiva ed esistenziale, servono gli amici, quelli nostri, quelli fidati. E se non riesci a procurarteli…soffri.
Questa è la storia del quattordicenne Lorenzo, che per questa sua difficoltà a intrecciare l’indispensabile empatia con i suoi coetanei, la sola che garantisce una sana crescita emozionale, soffre.
Sta male, si ammala, al punto da sviluppare un disturbo narcisistico di personalità.
Una vera e propria paura di essere. E cosa si fa quando si ha paura?
Si finge, si mente, e ci si da alla fuga, si scappa.
Letteralmente, con una scusa, Lorenzo si allontana da casa, ma non fa molta strada; si barrica in cantina, munito di viveri e munizioni, libri di Stephen King e playstation nello specifico.
Si rifugia in quel luogo per trascorrere di nascosto un po’ di tempo da solo, anzi non da solo, ma in compagnia della sua solitudine, fingendo con tutti una sua presunta normalità, quella cioè di avere amici con cui si è allontanato per trascorrere una settimana bianca sulla neve.
Sennonché, per tutt'altri motivi, nello stesso microcosmo, nella stessa cantina, si rifugerà Olivia, la sua sorellastra, di qualche anno più grande.
Olivia non è che la versione più matura di Lorenzo, di altro genere, ma il tipo di persona, distruggente e distruttiva verso se stessa, che Lorenzo rischia seriamente di divenire.
Attraverso un testo tutto dialogato, con linguaggio diretto e informale, “io e te” si ritrovano dapprima a scontrarsi, e poi a confrontarsi su svariate tematiche, come quello delle dipendenze dalle droghe, l’accettazione di sé, l’omologazione nel gruppo, la famiglia, gli amici, gli amori sbagliati, in estrema sintesi sull'adolescenza, ed i problemi che essa comporta quando ci arrivi impreparato, senza il necessario supporto affettivo, senza gli strumenti giusti per crescere in modo sano, equilibrato, armonico.
Attraversare l’adolescenza senza una preventiva preparazione, equivale a lanciarsi in acqua sapendo qualche nozione di nuoto, ma senza conoscere correnti e profondità. Si rischia, come sempre quando si è soli.
Sono “io e te”, sono ciascuno con la propria solitudine, solitudine che altro non è che un disperato bisogno di amore, quello non ricevuto.
Quando due solitudini s’incontrano, però, non è che si sommano, ne fanno una più grande, no. Accade che una si riversi completamente nell'altra, lasciando a chi ne resta privo, spazio per un’empatia futura, quindi speranza per il futuro.
Questo è quanto accade nelle struggenti righe finali, dico righe e non paragrafi, qui Ammaniti dà chiaramente il meglio di sé, indicandoci che se un vincitore c’è, è chi ha realizzato la sua crescita.
E chi no.
Così, qui e ora, Niccolò Ammaniti mostra tutto il suo talento.
Lasciando il lettore coinvolto ed emozionato, tanto e bene.
Però chi scrive desidererebbe anche altro, ecco, ancora un po’. Sarebbe l’apoteosi.
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Bello e impossibile
“Cyrano de Bergerac” non è un romanzo, ma una commedia, ma più di ogni altra cosa è una bella storia, anche ben raccontata; è una celebre commedia teatrale del 1897 dal poeta e drammaturgo francese Edmond Rostand.
Cyrano è lo stereotipo di un uomo comune, e di come diviene, e come sa divenire, quando è completamente “falling in love”, e di converso come diveniamo noi tutti quando siamo innamorati. Innamorati davvero, sul serio, da adulti e non da timidi adolescenti, con pienezza di sé, con logica frammista al sentimento, e non da solo impulso emotivo ed ormonale, letteralmente cotti, presi nella spirale di amorosi sensi.
Un uomo comune, non proprio qualunque, perché è ricco di qualità, prima di ogni cosa è una brava persona, ha un animo delizioso, sensibile, romantico, è letteralmente un poeta, d’indole e di fatto.
Non è neanche uno smidollato, tutt'altro, come talora può accadere a un uomo di sole lettere, è un uomo direi completo di testa, cuore e fisico.
È un valente spadaccino, pressoché invincibile, cosa che non guasta data l’epoca alquanto piena di pericoli imprevisti, ma non solo si fa valere nella tecnica di spada e fioretto, è un uomo di coraggio e valore non comune.
Per di più anche empatico e solidale, un guascone, forse, ma un amico vero, una persona preziosa, con valori e di valore, fidato e di cui fidarsi.
Una bella persona, anche disponibile: bello e possibile, quindi.
A rendersi impossibile, ci mette del suo.
Innamorato pazzo, e capace di fare sciogliere perfino il cuore della donna più fredda ed insensibile della terra, con le sue sole poesie.
Il sogno di ogni inguaribile romantica, ricevere versi in rima grondanti parole dolci e tenerezze varie. Per di più, ad una sola donna, la cugina Rosanna, a lei solo si dedica e è devoto corpo e anima, è quindi anche un innamorato fedele e dedito ad una sola donna, il che lo rende anche affidabile. Insomma, un amante ideale, da amare e da farsi amare.
Cyrano de Bergerac, tuttavia, come tutti i veri innamorati, è fragile e vulnerabile in amore.
La paura, il timore assurdo ma atavico di non essere all’altezza dell’amato bene, lo invade e lo devasta, lo possiede e lo annichilisce, lo immobilizza e gli amputa le gambe.
Succede a tutti, confessiamolo. Quando ci tieni davvero a un amore, hai il terrore di perderlo.
Per un motivo o per un altro, più spesso per cause inesistenti, reali solo nel proprio immaginario, ed evidenti solo a se stesso, qualsiasi cosa per quanto assurda può irresistibilmente divenire pretesto perché la paura di perdere il tuo amore o che consideri un altro ti prenda, ti terrorizzi, ti annienti.
Cyrano il prode, lo spadaccino temerario, il poeta incantevole, non ce la fa proprio a vincere la sua paura e la sua timidezza, e dichiararsi alla bella Rossana, poiché bloccato dalla paura di non piacere.
Una paura indotta dal suo aspetto esteriore, reso non gradevole dalle insolite dimensioni del suo naso. Proprio così: il suo tallone di Achille è un naso spropositato, niente che un intervento di chirurgia estetica oggi non saprebbe rimediare. Oggi, appunto.
All’epoca, Cyrano veste i panni del brutto ma innamorato, che odia il mondo in cui vive.
Un mondo in cui ciò che appare vale tanto, troppo di più, di ciò che invece è realmente.
Un mondo, in ultima analisi, come quello in cui viviamo noi oggi.
In cui apparire vale molto più dell’essere.
Capite quindi la modernità della commedia?
Cyrano è senz’ombra di dubbio un personaggio moderno, la cui situazione ha ispirato notevolmente la letteratura, la musica, il cinema e la televisione.
Basti pensare al telefilm statunitense "Ugly Betty" (La Brutta Betty), che tratta della vita di una ragazza goffa, bruttina e sovrappeso che viene per caso impiegata nel mondo della moda, dove è ben noto, l’apparenza è tutto.
O il distopico romanzo "Brutti" di Scott Westerfeld, che immagina un mondo dove la bruttezza è stata riconosciuta come il peggiore di tutti i mali, e per tanto la popolazione mondiale tutta è obbligata a sottoporsi all’età di dodici anni a una serie di dolorose operazioni estetiche pur di guadagnarsi un posto nella parte “giusta”del mondo.
Celeberrima è poi la sofferente vita del poeta romantico Giacomo Leopardi, innamorato della bella Silvia, cui continua a dedicare poesie pur sapendo che lei non lo contraccambierà mai a causa del suo aspetto, la cui biografia è notoriamente affine alla descrizione di Cyrano.
Quest’ultimo sfortunato personaggio è celebrato inoltre da Francesco Guccini, il celebre cantautore italiano, nel suo pezzo “Cyrano” tratto dall’album "Di morte, di amore e di altre sciocchezze", rilevando per l’appunto, il vuoto e l’effimero di un mondo, dove non c’è spazio per chi non è bello e perfetto.
La soluzione ultima, che pare banale, è il consiglio “non giudicare il libro dalla copertina”, ma tentare di andare oltre, di non fermarsi all’involucro, ma di scavare nell’animo delle persone.
Anche perché in fondo, se in più di duemila anni di storia non siamo stati capaci di dare una risposta univoca alla domanda di Socrate “cos'è la bellezza?”, non siamo forse tutti dei Cyrano?
Invece, ognuno di noi è bello perchè unico. Ognuno di noi è bello e impossibile. Basta crederci.
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Il fedele amico
Esistono temi fissi che ormai ritroviamo a cadenza regolare nelle cronache: per esempio, la genetica, la manipolazione del DNA, le ricombinazioni di geni e cromosomi.
Leggiamo con sempre maggiore frequenza anche di tecniche di medicina, e in particolare di chirurgia, rivoluzionarie e sempre più ardite, spesso molto invasive, tanto da suscitare più di un interrogativo etico: è giusto travalicare i confini che la natura ha spontaneamente imposto alla creazione?
Ancora, riscuote sempre molto interesse la sperimentazione in vivo, con la mai tanto abbastanza esecrabile vivisezione.
Più in generale, si discute animatamente del rispetto dovuto alle specie animali, indifesi contro le crudeltà umane, argomento questo che diviene sempre attuale in estate e riguarda in particolare i cani, con il vergognoso fenomeno dell’abbandono in coincidenza della partenza per le vacanze.
Infine, non ci si stanca mai di leggere, e indignarci, per i privilegi di una “casta politica” sempre più privilegiata e intoccabile, ben arroccata sulle sue posizioni di difesa dei propri personali vantaggi, anche se a spese dell’assai meno fortunato “popolo”, di cui si fanno indegnamente rappresentanti e paladini.
Tutto quanti i particolari della cronaca quotidiana, appena citati, potrebbero essere fonte d’ispirazione di un romanzo descrittivo della società attuale, e, in effetti, lo sono, ma un libro che li comprende già c’è.
Esiste da tanto una storia con questi ingredienti, e per quanto inverosimile non è un racconto scritto di recente, bensì nel lontano 1925, nella Russia sovietica da poco costituitasi a seguito della Rivoluzione del 1917.
“Cuore di cane” è un piccolo gioiello di Mikail Bulgakov, un libro sempre assai attuale nonostante l’epoca di scrittura, un gioiello piccolo sia per le dimensioni del libro, non è, infatti, un tomo poderoso, ma un piccolo gioiello inteso in senso inversamente proporzionale, poiché l’esiguità del numero di pagine non lo rende certo meno prezioso, anzi.
La vicenda narra, dal punto di vista del protagonista, il cane Pallino, randagio per le vie di Mosca all'indomani della NEP, Nuova politica economica, voluta dai vertici del Soviet, le bassezze umane volte alla tutela del proprio personale ed egoistico interesse.
Pallino è un cane comunissimo, attento e osservatore, e pur con la sua psicologia spicciola di randagio, è un cane”colto”, sa leggere ed orientarsi nella “giungla”moscovita.
Si rende conto che l’avvento del nuovo sistema politico, lungi dall’aver portato un’equa distribuzione dei beni, che per il cane s’identifica nel concetto di cibo con i parametri di disponibilità e abbondanza, ha invece rafforzato ancora di più, se possibile, la suddivisione degli individui in classi.
Gli umani sono semmai sempre più in contraddizione, e in competizione tra di loro, per la soddisfazione dei più elementari bisogni, con l’inevitabile insorgere di ruberie, sopraffazioni, furbizie volte al predominio dei propri meschini interessi.
Pallino osserva quindi tutto questo con estrema chiarezza, evidenzia come coloro dotati di qualche potere lo usino a proprio esclusivo vantaggio, non esiste per niente tra gli umani alcuna forma di solidarietà né di empatia, o di calore e considerazione.
Assiste quindi allo spettacolo di una misera e diffusa umanità, forte con il debole e debole con i forti, una umanità meschina perché ancora immersa nel bisogno, malgrado l’eguaglianza e l’abolizione di differenze e privilegi che la classe politica tenta di far credere.
Tanto bene lo descrive, quest’andazzo, che il romanzo non ebbe vita facile.
Infatti, “Cuore di cane”, poiché è una critica nei confronti della società sovietica, verso i nuovi ricchi del periodo che segue la rivoluzione sovietica, fu un romanzo proibito, censurato, che fu possibile editare solo anni dopo dalla sua stesura.
Un romanzo scomodo, perché descrive con un pretesto assurdo una realtà doppiamente assurda, e però reale, veritiera e direttamente verificabile.
Pallino tutto osserva, specialmente la crudeltà degli umani: e la sua avventura comincia con questo, sperimentando di persona tale crudeltà quando viene crudelmente scacciato, e ferito, da un getto d’acqua bollente.
Il povero animale si trascina per le vie della città presagendo il suo prossimo infelice destino quando, contro ogni sua aspettativa, viene approcciato da un ricco signore che con garbo, allettandolo con del cibo, lo invita a seguirlo e lo porta presso la sua ricca residenza.
Qui Pallino è accolto, curato, rifocillato, dal suo benefattore.
Il padrone di Pallino è un medico, il dottor Filip Filipovi? Preobraženskij, che insieme al suo assistente, il fido dott. Bormental, ha accolto Pallino poiché in realtà ha in animo di compiere un insolito esperimento.
Un esperimento chirurgico che trasforma il cervello della bestia in quello di un presunto uomo nuovo; l’uomo cane Pallinov che disquisisce retoricamente di Marx ed Engels, partecipa alle riunioni politiche dei vari comitati dei soviet, si procura non tanto un lavoro bensì una carica politica. Pallinov parla come un uomo, dice oscenità, ruba e si fa prestare soldi che non restituisce, mostra il peggio di sé a riprova che il vero autentico selvaggio non è certo l’animale Pallino, come appare nel fisico, ma il greve Pallinov, di cui il canide ha l’intelletto.
Si tratta come vediamo quindi dell’eterno mito della bella e la bestia, del dottor Jekill e mister Hyde, del bene e del male contrapposti: e tra l’uomo e il cane, è evidente in questo romanzo chi è il male, chi la bestia, la vera bestia.
L’essenza del romanzo è tutta qui, e lo dice lo stesso autore, quando fa dire allo scienziato, novello Frankenstein, riferito alla creatura da lui creata:
“Dovete capire, invece, che il vero disastro è che lui non ha più un cuore di cane ma un cuore di uomo.”
Cui pone giustamente rimedio, restituendoci Pallino con il suo melodioso abbaiare.
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Niente e così sia
“Il resto di niente” di Enzo Striano è un romanzo storico, in verità almeno in apparenza di non facile lettura. Un libro interessante, certamente, anche insolito.
Questo perché si svolge in una situazione storica normalmente poco nota al grande pubblico, quello della nascita, alla fine del ‘700, nel nostro Paese, in piena monarchia, e in una situazione sociale di assoluta deriva reazionaria, di quella che potremmo definire la prima “repubblica socialista”, sull'onda delle emozioni trasmesse con i venti rivoluzionari napoleonici.
Una repubblica liberale, democratica, alla quale aderirono entusiasti il fior fiore degli intellettuali locali, che in verità ne furono gli artefici.
Più che il popolo con i suoi caporioni, come spesso accade nelle rivoluzioni a stampo puramente etico, e non di ricerca di migliorie logistiche delle condizioni di vita dei meno abbienti, furono loro, i nobili, gli intellettuali, gli istruiti, i pensatori di larghe vedute, coloro che prepararono il terreno.
Con i loro scritti e le loro idee favorirono l’avvento, in piena aristocrazia, della Repubblica napoletana, che fu tra l’altro un’avventura tanto esaltante quanto breve, dell’ordine di pochi mesi.
Per quanto originale sia l’ambientazione e, come vedremo, la protagonista, in questo tipo di romanzi, il rischio di creare un “polpettone”, rigoroso nella descrizione dei fatti, ma noioso e poco attraente, è sempre assai alto.
Tuttavia, Striano se la cava alla grande, anche perché si sofferma sull'analisi di un personaggio in verità anch'esso assai singolare, un’eroina davvero diversa di come in genere immaginiamo le protagoniste di fatti storici patriottici.
Una vera donna di oggi, giovane, moderna, una femminista ante litteram, anche troppo per l’epoca.
Non è, infatti, una ragazza d’armi, la nostra protagonista, anche se inserita in una situazione storica, una breve parentesi in verità, tuttavia assai sanguinosa.
La nostra si cimenta invece in una battaglia diversa, un conflitto in cui usa, assai bene, armi a lei maggiormente adatti, le lettere, gli articoli, i libri.
In un’epoca, un paese, dove le donne istruite erano per lo più un orpello curioso.
La battaglia della protagonista è uno scontro molto nobile, e lei stessa è una nobile: la battaglia della diffusione d’idee nuove. Nuove, e come tali rivoluzionarie.
Prima di essere uno scrittore, Enzo Striano è stato un giornalista, e un giornalista in servizio presso i quotidiani della sua città; perciò il suo romanzo ha il “taglio” di una cronaca, più che un racconto è un pezzo giornalistico, un resoconto fedele più che una storia di fantasia.
E questo in qualche modo lo alleggerisce, resta un libro difficile, ma ne migliora la leggibilità.
Striano ci parla di una città magnifica, così com'era all'apice del suo splendore sul finire del 1700, e precisamente fino al 1799, e di una donna altrettanto magnifica, la prima “pasionaria” della storia, ben prima delle eroine dei romanzi di guerra più famosi, una fervente democratica e riformatrice, femminista ante litteram, la colta intellettuale Lenor protagonista del “Resto di niente”, la marchesa Eleonora Pimentel de Fonseca.
Giovane nobile di origini portoghesi ma nata a Roma, costretta a Napoli da bambina, insieme alla famiglia, per motivi politici di attrito con lo stato vaticano.
A Napoli la piccola Lenor cresce, integrandosi benissimo, respira a piene nari la napoletanità, intesa come filosofia di vivere con curiosità e acume, senza ristagnare sui pensieri immobili ma proiettando la mente oltre l’orizzonte visibile.
Non solo, ma Eleonora cresce assimilando ben presto lo spirito “letterario” della città, all’epoca al massimo della vivacità culturale, imparando non solo a leggere e a scrivere, fa già quindi ben di più di quanto previsto per una donna dell’epoca, ma si dedica invece con dedizione e con profitto alla letteratura, studiando, componendo, traducendo, dedicandosi con passione allo studio delle lettere.
Tuttavia, Eleonora non si limita a studiare, a scrivere, a leggere, a confrontarsi con i maggiori intellettuali di corte, per la cultura fine a se stessa.
Piuttosto, perché diventino gli utensili con cui forgiare gli strumenti pedagogici e educativi, utili alla plebe, a quanti vivono e sopravvivono ai margini della monarchia, a coloro cui niente è dato, niente è dovuto, nemmeno un resto, il resto di niente.
La crescita intellettiva della giovane, stupefacente in sé, data l’epoca, anche per un’appartenente al ceto nobile e privilegiato vicino alla corte, subisce in un certo qual modo un brusco arresto quando, in seguito a lutti familiari, Lenor è costretta a sposarsi, a metter su famiglia.
Striano dipinge la mentalità corrente all’epoca anche attraverso le vicissitudini matrimoniali della giovane Lenor, data in sposa a un uomo rozzo, brutale, manesco, pur di posizione altolocata, è infatti un capitano dell’esercito, un uomo simbolo del modo di vivere e di pensare più deleteri del tempo.
Lenor è troppo “avanti” per i tempi in cui vive, troppo colta e conscia che esistono altri temi, altri modi di intendere l’esistenza.
Concetti altisonanti come democrazia e liberismo, ostici ad un certo universo retrogrado e reazionario, affascinano la giovane letterata che, dopo l’ennesimo brutale sopruso, con l’appendice del dolore derivante dalla perdita dell’unico figlio, lascia il marito e riprende la sua attività di letterata, bibliotecaria reale, compositrice di saggi e di sonetti, assidua frequentatrice dei salotti letterari, intima amica dei più bei nomi dell’intelligenza illuminata locale.
Aderisce quindi, sull’onda emozionale delle notizie rivoluzionarie che provengono dalla Francia, agli eventi che portano all’avvento della Repubblica Napoletana, partecipando in prima persona ed esponendosi con le armi di cui dispone, le lettere.
I suoi scritti, infatti, di chiaro stampo democratico, pubblicati e diffusi un po’ ovunque, la gratificarono portandola alla carica di direttrice del principale giornale repubblicano; ma appunto si espone in prima persona per le idee in cui crede, e viene per questo imprigionata con l’accusa di giacobinismo.
Come dire un’amica e sostenitrice della costituzione.
L’assalto alle carceri del popolo, in favore del quale si esprimeva nei suoi articoli, la libera e le permettono di vivere in prima persona i fatti della nuova nata Repubblica Napoletana, proclamata nel 1799 ed esistita per alcuni mesi sull'onda della prima campagna d'Italia (1796-1797) delle truppe della prima repubblica francese dopo la Rivoluzione.
Con il suo pensiero, magistralmente riportato da Striano quasi come se Lenor riflettesse ad alta voce, emerge un atteggiamento sinceramente democratico, contrario a ogni compromesso con le correnti moderate e volto soprattutto a diffondere nel popolo gli ideali repubblicani, attività nella quale la Pimentel s’impegnava attivamente in prima persona…e forse anche in maniera ingenua.
Lenor dentro di sé è onesta, ammette di non aver nulla in comune con la plebe, niente, il resto di niente condivide con quei lazzari ignoranti, sporchi e superstiziosi; il suo interesse per loro è diremmo quasi di natura scientifica, volta a una possibile rieducazione pubblica e civile.
Il popolo è lazzaro, perché senza istruzione e senza educazione, come pensa Eleonora, e ciò è vero.
Come suggerisce Striano, intanto che il popolo è ignorante, resta lazzaro: quasi a dire che le rivoluzioni, prima di dar frutto, richiedono tempo.
Lenor non lo sa, non ha una reale conoscenza delle condizioni delle classi inferiori, e i suoi tentativi di rendere popolare il nuovo regime hanno scarso successo; non solo, ma non sa neanche di non avere più tempo, gli eventi precipitano rapidamente e tumultuosamente così come furono creati.
Come sempre il fuoco della rivoluzione arde intensamente all'inizio, per poi rapidamente scemare.
Lenor coerentemente propugna le sue idee, ma ciò acuisce il malanimo dei Borbone nei suoi confronti, e le attira addosso la loro vendetta, la restaurazione è sempre meschina e vendicativa, e quando la Repubblica, nel giugno del 1799, è rovesciata e la Monarchia restaurata, Eleonora è arrestata e rinchiusa in attesa di giudizio.
Sono queste le pagine più struggenti del romanzo, quelle in cui la giovane anela disperatamente di rimanere viva. Fidando del suo lignaggio, fidando del suo ruolo e delle sue motivazioni, fidando di continuare a vivere, poiché la morte è niente, e tutto è sempre meglio di niente.
È impiccata nella storica centrale Piazza Mercato, la principale della città, e con lei il fior fiore degli intellettuali napoletani, come lei coinvolti nei fatti della repubblica, come lei convinti di aver agito per il meglio, come lei, o forse solo con il suo esempio, mostrando un fiero coraggio sul patibolo.
Muore Eleonora Pimentel Fonseca, muore in piazza dileggiata con canzonacce satiriche da quegli stessi lazzari per cui tanto si era spesa, muore con il rimpianto enorme, ma non di morire, ma per il tempo, per lei già finito, e pure c’è tanto da vivere, la morte è niente, anzi è peggio, è il resto di niente.
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Un grande paese
Gira e rigira, poi si finisce per tornare sulla strada di casa, a fare le cose che ti riescono meglio.
Questo è quanto è accaduto di recente a Stephen King, il re della letteratura horror, famoso per aver riportato in auge, ambientandoli direttamente ai nostri giorni, nei tempi moderni, i mostri “classici”, vampiri e similari orribili scherzi della natura.
Quelli che abbiamo sempre conosciuto, per esempio, leggendo autori come Bram Stoker e Mary Shelley, portati nell'immaginario visivo dalle fattezze di attori divenuti famosi proprio interpretandoli in film a basso costo.
Davvero un colpo di genio, quello dello scrittore del Maine di riproporre e riportare quei miti dell’horror ai tempi correnti.
Questo, e il suo talento, sono quelli che hanno fatto la sua fortuna di pubblico e di critica non preconcetta.
Perché per King l’horror è qualcosa che scuote, e spaventa, e quindi ti spinge affannosamente a riflettere e a trovare una spiegazione, escogitare un rimedio a un simile orrore, a prescindere dall'aspetto che assume.
Può essere un demonio, o un talento innato tanto misterioso quanto indesiderato, o anche un mostro antico rifugiato nelle fogne e di periodica ricomparsa.
Rilevando, nel frattempo, quasi di straforo, distrattamente, che magari altri fenomeni altrettanto mostruosi, forse di più, eppure paradossalmente considerati nella norma, i fenomeni moderni come la pedofilia e il femminicidio, appaiono molto più truculenti, e orridi, di un qualsiasi vecchio conte con i canini appuntiti o di un decerebrato ululante alla luna.
Dopo un periodo di…divagazioni, essendosi cimentato in una trilogia di police procedural books, con solo un sottofondo alquanto contorto e nebuloso di fenomeni orrorifici più all'acqua di rose, lo scrittore del Maine torna a raccontarci di temi che conosce meglio, e in cui eccelle.
Ci parla qui innanzitutto della sua America, quella più vera e più diffusa, fuori dalle luci della ribalta della grande città, la provincia americana, la stessa, dove è nato e ha vissuto.
King s’inoltra e ci immerge pari pari, grazie alla sua valente abilità descrittiva, nelle strade, nelle consuetudini, nell'intimo delle piccole cittadine sparse negli ampi spazi tra una metropoli e l’altra degli Stati Uniti.
Ci porta nel vivo del tessuto connettivo degli States, nei luoghi piccoli o medi, operosi, vitali, coesi, di valore, che sono le stazioni di sosta, i gangli di smistamento dell’energia, della forza lavoro, delle idee e dei valori che fanno dell’America un grande paese.
Una provincia dove il buon senso, la solidarietà, la compartecipazione, tutto sommato la fanno ancora da protagonisti essenziali, sono sempre l’anima più autentica della nazione.
Dove l’ordine regna sovrano in una realtà affatto sonnacchiosa, e la legge è fatta rispettare più appellandosi ai valori civici, patriottici ed etici dei cittadini, che alla forza pubblica di per sé.
Dove è nata la dichiarazione di Indipendenza, la tradizione del tacchino ripieno per il ringraziamento, la torta di mele e il drive inn, e il codice dei diritti è insito nel DNA di ognuno insieme alla libertà e al rispetto delle regole.
Dove ognuno è pronto a imbracciare il fucile contro i cattivi, a fianco dello sceriffo, e a dividere la torta di mele appena sfornata con i vicini, senza omettere di serbarne una fetta per l’homeless della cittadina.
E infine, King torna a cimentarsi incantandosi e incantandoci con il racconto di un materiale magico e altisonante insieme, che plasmato dalla sua arte letteraria si erge a materia guizzante, puntiforme, ridondante di emozioni vive e genuine, palpitanti, proprio perché rilevate al loro iniziale nascere e primitivo divenire.
Stephen King eccelle, come sempre ha eccelso, quando si cimenta a ricamare letterariamente l’anima dei suoi protagonisti prediletti: i ragazzini della prima infanzia.
Quelli che provano i brividi più intensi, magnifici, trepidanti e impressionabili nei confronti dei comuni eventi della propria crescita fisica, sentimentale, ormonale.
Proprio perché non ne hanno ancora nozione alcuna.
Sono sensazioni nuove, pure, pulite, incantevoli, mai più ne proveranno di simili, sono singolari per definizione, appartengono a quell'età, e non più ad altre, per quanti sforzi adopererai.
Come si emozionano, come trepidano, come si porgono i preadolescenti davanti alle prime emozioni forti, i primi batticuori, i primi turbamenti, è materia delicata e suadente insieme, coinvolge, commuove, trascina in un turbine di ricordi dolci e deliziosi, carezzevoli sul cuore con una piuma. Perché ciascuno ritrova se stesso, rivive le stesse emozioni che ha provato davanti al primo amore, alle prime amicizie, alle prime emozioni non più ludiche ma già spirituali, pure, intense, non intaccate ancora dal materialismo del vivere e del crescere.
King è un maestro in questo, su questo ha basato la sua fortuna, a questo ritorna.
Dove possiamo trovare dei preadolescenti? In un istituto, per esempio.
Un istituto dove però sono costretti a forza.
Perché si tratta di preadolescenti particolari, provvisti loro malgrado di un potere, un’intelligenza particolare, qualche capacità di telepatia, di telecinesi, di premonizione, che ne fa dei diversi, quindi dei mostri. Quando talora non è che l’estrinsecazione di una sensibilità sublimata all'estremo.
In realtà, i veri mostri sono coloro che in questo istituto li hanno rinchiusi, strappandoli crudelmente alle loro famiglie, al loro ambiente, manipolandoli brutalmente per fini criminali, nascosti dal paravento di una presunta superiore necessità nazionale, operante tramite organismi segreti infiltrati come un veleno nelle istituzioni.
Una velata critica del democratico King alla deriva reazionaria della politica trumpiana.
Tocca alla provincia, alla parte buona del paese, alla brava gente della provincia americana, rimettere le cose a posto, assicurare un futuro ai teneri ragazzini coinvolti loro malgrado, troppo presto, nelle lordure degli adulti.
Stephen King, come altre volte, rende omaggio al suo Paese, è, in effetti, un democratico, e un fervido patriota. Sa che l’America, in fondo, è un istituto, non altro; dove vigono regole, che se condivise unanimemente, permettono il regolare decorso dell’esistenza civile, con rispetto, lavoro, sacrificio, e regole di relax e buonumore, sport, feste e ballo di fine anno, come in una qualsiasi high school di una media cittadina americana.
Tutto sta a scegliere bene i gestori dell’istituto, il corpo docente, insomma.
Lui lo sa, è stato giovane allievo, bravo insegnante, bibliotecario appassionato: e si vede.
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Differenti modi di amare
Antonio Manzini ci ripresenta, in quest’ultimo romanzo, il suo personaggio meglio riuscito, quello che gli ha regalato fama e popolarità: Rocco Schiavone, l’originale e anticonvenzionale vicequestore della polizia di stato, e dicesi vicequestore, come lui stesso sottolinea, i commissari non esistono più.
Schiavone, romano purosangue, un romanaccio di quelli viscerali, dislocato a forza in quel di Aosta, nell'immaginario collettivo ha le sembianze di Marco Giallini, l’attore che ben lo interpreta nelle fortunate fiction tratte dai romanzi della serie.
Tuttavia, il personaggio di carta ha qualcosa in più, a mio parere è preferibile e meglio contraddistinto, presenta dei tratti più precisi e incisivi, delle definizioni caratteriali che non sempre risaltano nella trasposizione cinematografica.
Non è, infatti, una macchietta in romanesco, come potrebbe apparire, burbero e furfante, affatto.
Meno che mai un casareccio Robin Hood, che ripara torti e distribuisce favori agli amici, e che comicamente si trova a operare in un habitat non ideale per la sua indole.
E per di più spinellando a gogò, in stile casual chic.
Di divertente ha poco, Rocco Schiavone, semmai possiamo definirlo meglio sarcastico e disilluso, è piuttosto un emblema di serietà e praticità del vivere, in verità essenzialmente un uomo duro e temprato dalle miserie della vita.
I fatti della vita, suo malgrado, l’hanno reso scontroso, diffidente, soprattutto stanco delle miserie umane, ai quali tenta da sempre di porre un freno, e che lo vedono, puntualmente, sconfitto e deluso. Certo, fanno da contraltare alla sua solitudine di uomo e di poliziotto degli intermezzi ironici, ma dopotutto la vita è così, alterna momenti tragici a quelli comici con tutte le diverse sfumature possibili. L’ironia e il sarcasmo delle storie appartengono invece più a certi bislacchi elementi della sua squadra.
Agenti però per niente improbabili, tutt'altro, c’è da rilevare, sono davvero figure veritiere, con i loro limiti, le loro preoccupazioni, gli stress e le poche ore di riposo, le scarse possibilità economiche, magari il doppio lavoro in un panificio, e pensieri balzani, al limite dell’illecito, ma sono veri, non invenzioni letterarie.
Il vicequestore stesso è figura reale, è un di più di quello che appare in video, è una persona a prima vista malinconica, un introverso malgrado le origini popolari e caciarone, una persona insofferente e un po’ orsa, pronto spesso a deviare dalla linea diritta della giustizia, se la traiettoria non lo convince del tutto. Perché diciamolo, è un poliziotto che infrange spesso e volentieri le regole, è vero, che si macchia di qualche delitto, e non importa di quale misura, non dovrebbe farlo e basta, è pur sempre una persona per scelta e giuramento tenuto a far rispettare la legge dello stato, senza deroghe ed eccezioni. Rocco Schiavone però, appunto, non è un eroe, è un uomo comune, con la sua storia, che l’ha plasmato esattamente nel modo tutto suo come si presenta.
Nato e cresciuto in un quartiere popolare e borgataro di Roma, di quell’ambiente difficile di vita conserva memoria, esperienza, e soprattutto amici. Marchiati a fuoco sulla pelle e sul cuore.
Conosce direttamente i casi della vita, le ingiustizie e le ipocrisie, perciò è un uomo di conseguenza.
La vita ha deciso per lui, si è avviato a una professione che gli permettesse, in qualche modo, di rimediare certi guasti; accorgendosi ben presto che sarebbe stata impresa vana.
L’ipocrisia, il delinquere, il malaffare, non è prerogativa solo di certi ambienti e strati sociali; è assai più frequente, e invasiva come un bubbone maligno, in altri livelli cosiddetti perbene e perbenistici.
Ne consegue un suo barcamenarsi tra lecito e illecito, tentando in qualche modo di trarre anche vantaggio materiale per sé e per i suoi da qualche digressione alla regola, ma questo è umano, comprensibile, dati i precedenti, vista la sua esistenza, la sua origine, e a quanto assiste.
Reagisce perciò d’istinto, segue il suo cuore profondamente buono, dopo tutto, onesto e leale, è questo suo essere normalmente istintuale verso il bene che gli dona spessore reale, è un difetto che lo rende comune, vero e non inventato.
Dato il suo spessore umano, commette reati da “cattivo” anche se fa parte dei “buoni”, ma resta fedele ai cardini vincolanti dell’etica del buon senso, della ragionevolezza, del non commettere azioni magari perseguibili penalmente, ma giustificati coram populo, dal senso di giustizia spicciola, rapida e diretta, che ognuno coltiva in sé.
Come dire, rubare a un ladro non è un furto.
Nemmeno uccidere un pluriomicida.
E farsi una canna, non è lo stesso che rovinare giovani spacciando.
Insomma, un comportamento opinabile il suo, ma di qualche moralità, almeno accettabile.
Pagandone per di più il prezzo in prima persona, per esempio con la scomparsa dell’unico amore della sua esistenza, la moglie Marina; e in seguito anche con l’allontanamento coatto dalla sua città, dal suo ambiente, dalle sue radici, i suoi odori, i suoi gusti, i suoi amici.
Trasferito in un locus all'estremo della sua indole, in Val d’Aosta, regione splendida ma semplicemente agli antipodi del suo modo di intendere l’esistenza, che lo porta ad affrontare per esempio neve alta con un paio di polacchine Clark, più adatte per una passeggiata a Villa Borghese.
Rocco Schiavone è un uomo qualunque, con una sensibilità estrema, un’empatia umana sopra la media, cui però la vita ha riservato il colmo dei destini per un uomo di simile inclinazione: Schiavone ama la pulizia di spirito, la lealtà, la fedeltà agli amici, l’amore per la sua donna, ed è invece costretto quotidianamente a sguazzare tra omicidi, lordure, tradimenti, infedeltà, violenze e tutto questo fango, alla fine, gli penetra sottopelle lasciandogli un alone scuro.
Quest’ultima avventura lo trova convalescente, poco prima del Capodanno, in un letto d’ospedale a Aosta, dove si va riprendendo dopo l’operazione a seguito di una grave ferita, dopo un conflitto a fuoco nell'esercizio delle sue funzioni.
Uno scenario diverso dalle sue abituali avventure tra Roma e Aosta, una storia a campo ristretto, un ospedale, nel quale Schiavone, ancora più insofferente del solito nei panni del paziente, indaga efficacemente su un caso di presunta malasanità.
Qui Manzini approfitta, forse per il periodo natalizio scelto in cui fa decorrere il suo racconto, o per una forma di riguardo per la location, un ospedale, un luogo impregnato prioritariamente di sentimenti empatici come il dolore, la sofferenza, la pietas umana, e si sbizzarrisce in parentesi di vario genere in cui espone differenti modi di amare, le ragioni, i motivi e le cose che fa fare l’amore, ah l’amore, proprio.
Assistiamo così all'instaurarsi di un qualche rapporto affettivo tra Rocco Schiavone e la giornalista Sandra Buccellato, che si svolge con esito imprevisto e imprevedibile.
Vediamo il consolidarsi dell’unione tra un valente anatomopatologo, restituito a dimensione fallibile da una banale distrazione, e una professionista della scientifica, tanto brava e diligente quanto insolita, una vera miracolata dalla legge Basaglia, che le permette di girare a piede libero.
Siamo in prima fila nel seguire le triple evoluzioni ginniche sessuali del neo ispettore Antonio Scipioni, che finirà per preferire la vicina di casa, molto più rassicurante.
Triste vedere il consolidarsi dell’insano rapporto tra il poliziotto Italo e la ludopatia; struggente ascoltare l’accorata, testarda e disperata richiesta di conservare l’amicizia, che altro non è che una specie d’amore, con il suo vicequestore, che viene dall'inetto poliziotto D’Intino; sorridiamo davanti alla burocratica dichiarazione d’amore di Casella.
Più di tutto, forse la manifestazione d’amore più gradita per Schiavone, è quella fattiva, pratica, sbrigativa e affettuosamente intensa dell’amico di una vita, Sebastiano.
In questo romanzo Manzini ha raccontato di Schiavone, certo; e però, mai come stavolta, ha dato ampio spazio ai comprimari delle sue storie.
Quasi volesse indicare che, anche per il vicequestore, gli anni passano, che non è invulnerabile, forse è il caso che si metta un momento da parte, che faccia un passo indietro.
È questa sua fragilità, che lo rende umano, perciò gradito.
Anche con un pezzo in meno. Questione d’amore, quindi, ah l’amore, l’amore.
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L’umana dicotomia
Per quanto scritto all'indomani della Liberazione da un intellettuale dichiaratamente di sinistra, e malgrado sia una storia di lotta partigiana, questo libro non è, né vuole essere, una elegia della Resistenza.
O almeno non solo.
Direi che ha un intento invece meramente morale, con chiari riferimenti etici sulla natura dell’Uomo, e sul significato della propria esistenza, già dal titolo.
Questo infatti non sta a indicare una separazione, meno che mai è uno spartiacque tra buoni e cattivi, uomini definiti tali come sinonimo di buoni, perché combattenti nella Resistenza, o invece indicati come cattivi, perché inquadrati nelle truppe dell’occupazione tedesca e degli ultimi disperati ancora schierati con il fascismo.
Questo romanzo è un libro straordinario per l’epoca della sua pubblicazione, è avanti, in anticipo sui suoi tempi.
Precorre in forma romanzata, attraverso dei racconti di guerriglia nella Milano occupata degli ultimi tempi di guerra, redatti con stile cronachistico, conclusioni intellettive di filosofia morale, che seguiranno di lì a poco.
Considerazioni stupefacenti, e terribilmente logiche, che saranno enunciate più tardi, in modo forse più esauriente ed esaustivo, all'indomani del processo di Norimberga, da valenti studiosi, un nome per tutti, Hanna Arendt, allorché vari pensatori discetteranno a mente fredda, in proposito alla cosiddetta “banalità del male”.
Perché il male, ricordiamolo, è stupido, insensato, illogico, perciò è banale.
Se è banale, significa che è comune, alla portata di chiunque, qualsiasi uomo “normale” o no, può compierlo. Per questo è spaventoso.
Il male alberga in chiunque, nessuno ne è esente, ciascuno a suo modo.
Non esistono gli innocenti, i puri di cuore, gli angeli, ognuno è arbitro di quanto succede nel suo stesso arco temporale di vita.
Chiunque perciò sa fare il male…anche il bene, e però questo è più impegnativo, e meno gratificante.
Solo in questo senso, allora, si può parlare di uomini che si impegnano o meno, uomini e no.
Esiste un solo genere, una sola specie di uomini, l’unica possibile: quella che è in grado di pensare, di ragionare, di distinguere tra giusto e sbagliato, tra corretto o meno, e sa farlo bene, se solo vuole farlo.
Distinguere tra uomini e no in base ad una presunta appartenenza che ti rende incolpevole, non responsabile, uno che ha solo obbedito agli ordini, per quanto pazzeschi, è un falso, un alibi di comodo.
Una menzogna detta sapendo di mentire, anche a sé stessi.
Se un uomo non fa quanto sa perfettamente che è etico, non lo fa perché non vuole, preferisce la scelta più facile e comoda, quella più banale, appunto.
Bene e male guidano la nostra esistenza, sono come due entità viventi, a volte predomina l’una, a volte l’altra, dipende da noi, quale delle due alimentiamo al meglio.
Non esiste nella realtà una netta distinzione tra uomini e no, tra bene e male, tra nero e bianco; tra due estremi esistono infinite sfumature di toni e di colori, e sono queste quella che si rinvengono con maggiore frequenza: sono necessariamente quelle più veritiere.
Sono le circostanze, gli eventi, i fatti creati dall'uomo stesso a guidarli nelle loro azioni; possono perciò trovarsi costretti ad obbedire ciecamente agli ordini, pena la loro stessa vita; altrettanto facilmente possono decidere di prendere le armi e togliere la vita, o ancora possono astenersi, possono scegliere di schierarsi, o di non schierarsi ed assistere passivamente, possono sforzarsi di cambiare fatti, idee, circostanze, possono fare tutto ed il contrario di tutto.
Ognuno presenta una propria sfumatura, e la decide in autonomia.
In ognuno c’ è una spinta a manifestarsi al meglio possibile, date le circostanze in cui si ritrova nel suo personale cammino umano.
Può allora ritrovarsi, come il protagonista Enne 2, un qualsiasi signor nessuno, suo malgrado, nei panni di un capo della lotta partigiana, che progetta e attua eroici attentati contro militari tedeschi
Per poi realizzare, con amarezza, con dolore, che quanto egli ritiene sacrosanto provoca, in maniera stupida e banale, la rappresaglia su quaranta innocenti. Mandando in crisi la sua coscienza.
Un male assurdo, ritenuto indispensabile, proprio per la sua illogicità, non può che provocare altro male, tanto futile quanto doloroso. La banalità del male.
Enne 2 è a modo suo un uomo schierato dalla parte giusta, ma certamente non è un uomo perfetto.
Coltiva amore e passione per la donna di cui è innamorato, che non lo corrisponde, perché già sposata, e dibattuta nel dilemma morale della fedeltà o il cedere al nuovo amore; eppure nel cuore di Enne 2 alberga la comprensione, non il banale livore nei confronti del rivale.
Il male è banale.
Un ufficiale tedesco fa brutalmente sbranare dai suoi cani un pover’ uomo neanche coinvolto nella guerra partigiana, è un atto banalmente indicativo di una mente malata. Finanche un militare che assiste sente stringersi il cuore, e distoglie banalmente lo sguardo.
L’operaio che succede a Enne 2 al comando del gruppo partigiano, per quanto abile, patriottico e coraggioso, evita di sparare ad un giovane tedesco, si riconosce in lui, anche se sarebbe banalmente facile premere il grilletto. E via così, tutto il libro scorre su questa falsariga.
Quello che rende lirico, intenso, addirittura onirico e teorico il romanzo, è con tutta evidenza lo stile con cui è redatto. Mirabile magistrale insieme, unico, originale.
Da un lato le azioni e le considerazioni di Enne 2, le sue emozioni, i suoi pensieri, i suoi dubbi e le sue paure; dall'altro, e appositamente redatto in carattere corsivo, a beneficio del lettore, tutte le altre considerazioni, riflessioni, introspezioni su quei gesti e quei ragionamenti dette con il tono del narratore, di colui che spiega, che discetta, che ragiona.
In verità, non è l’autore, non è il narratore, è l’alter ego del protagonista stesso, la voce della sua coscienza, il suo io interiore che si interroga sulla giustezza e la logica di quanto sta accadendo.
Non è lui, ma sono tutti gli uomini, i veri protagonisti di questo romanzo di Vittorini.
Non è un libro della Resistenza e della Liberazione, è un libro che parla di Resistenza e di Liberazione per sottolineare l’assurdità della guerra, delle morti, delle divisioni, della violenza.
Della banalità del male.
Molto particolare, redatto in forma discorsiva, con artificio del corsivo di cui abbiamo detto, che esprime l’umana dicotomia, che infine si estrinseca nell'unità etica del romanzo.
Un romanzo realista, un’opera miliare del neorealismo letterario italiano, ma direi intensamente realistica, descrive mirabilmente non solo l’azione, ma anche meglio l’interiorità degli uomini.
Se solo si impegnano, sanno essere assai meno banali, gli uomini. Possono, si.
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Vecchio sax
"Ci vorrebbe un sassofono" di Pino Roveredo non è un libro facile, specie se chi lo legge appartiene al genere maschile.
Questo è un libro scritto, con tutta evidenza, da un uomo che si vergogna di essere un uomo.
Pertanto, tutto il breve romanzo presenta uno stile di scrittura asciutto, crudo, succinto, lapidario. Non perché all’autore non riesca meglio; al contrario, Pino Roveredo sa scrivere, e sa scrivere bene, è uno scrittore coi fiocchi, dalla prosa solenne, chiara, incisiva ed esaustiva, se solo lo vuole, quando ci si mette, e decide di scrivere al meglio.
Scrive come se disegnasse, rappresenta immagini con le parole; figlio di genitori sordomuti, ha conosciuto in passato il manicomio, il carcere, l’alcolismo.
Perciò sa esprimersi assai bene come se utilizzasse la lingua in segni visivi delle persone sorde, traccia con le parole il suo dire in termini secchi, brevi e incisivi, con sapienza.
Inoltre, dato il suo vissuto, è uomo che conosce bene la vita, sa perfettamente di cosa parla, e dei risvolti violenti e brutali che contrassegnano talune esistenze.
Stavolta lo scrittore triestino fa una precisa scelta di campo, in questo suo libro sale sul banco degli accusati, si espone al pubblico ludibrio al pari dei suoi sodali di genere.
Continua a scrivere bene, comunque, non crediate, perché la scrittura è nel suo DNA, non ha dismesso di saperlo fare anche volendo, ma ora non ha un approccio distaccato dalla storia che racconta.
Se ne fa coinvolgere, la vive, la sente sua, ne sente il biasimo morale che ne fuoriesce e lo sferza, lui al pari di tutti gli altri maschi che la leggono, lasciandogli nell’anima strie rossastre, roventi, caustiche.
Il suo inconscio di maschio lo guida a raccontare, in questo modo un po’ particolare, diverso dal solito, a lanciare il suo j’accuse anche verso se stesso. Ognuno tocchi Caino.
Non è altro che un estremo tentativo, il suo, di creare distacco da quanto dice, in qualche modo di svincolarsi, di eludere il suo coinvolgimento, che esiste solo perché è un uomo.
Scrive volendo manifestamente far intendere che egli è altro, che è dalla parte della protagonista.
Che ne condivide il pensiero a proposito del pianeta uomo: inutilmente.
Per quanto si sforzi, sa che non riuscirà mai a essere completamente convincente, non è possibile, lo si voglia o meno, è parte in causa, è incastrato, costretto nel suo genere, anche se non lo ha scelto.
In estrema sintesi, tutto quello che c'è da dire sul suo romanzo sta già nella dedica iniziale del libro: “Sconsigliata la lettura ai maschi col coraggio della vigliaccheria”.
A riprova della magistrale abilità di Pino Roveredo di dire tantissimo con un uso parco, centellinato delle parole. Ci dice tanto, ben di più di tomi poderosi.
Pino Roveredo non parla qui di femminicidio, non descrive delitti e violenze contro le donne, sarebbe un testo limitativo e mediocre, altrimenti, tutto questo non è che una conseguenza.
Piuttosto, si scaglia all’origine, inveisce senza mezzi termini contro lo sporco, dannato, estremo insulto che ogni uomo porta quotidianamente alla donna, a qualsiasi donna, vedendola sempre e soltanto, per quanti sforzi faccia, in termini di “possesso”.
La mia donna, la mia ragazza, la mia fidanzata; la mia amante, la mia compagna, mia figlia, mia sorella, mia madre; la mia maestra, la mia insegnante, la mia concubina.
Mia. Di mia proprietà. Obbediente. Sottomessa. Sottoposta. Per forza, è mia.
Sempre e comunque: non è che una donna. Necessita sempre di un pronome di possesso.
Claudia è una donna ancora giovane, una donna normale, né bella né brutta.
Che come tante un giorno ha incontrato un uomo sbagliato, come capita con estrema frequenza.
L’ha sposato, suo malgrado, perché incinta, o costretta a incintarsi, com’è più facile credere, la gravidanza “casuale” è da sempre un’ottima catena per uomini senza scrupoli.
E da quell’uomo Claudia ha subito ogni tipo di umiliazione, meschinerie, cattiverie gratuite, e violenze e atrocità di ogni genere; e quando il marito è in fin di vita in ospedale, si trova costretta ad assisterlo…perché così richiede la morale corrente, la società, gli amici, la famiglia, la chiesa, il falso perbenismo dilagante, l’ipocrisia diffusa, così pretende la figlia, troppo giovane ancora per aver già appreso come l’universo maschile sia velato ad arte dai suoi abitanti, che ne celano così trappole ed inganni.
Macchinazioni, menzogne e trabocchetti che sempre utilizzano gli incapaci di scindere il possesso dalla compartecipazione, la dolcezza dall’interesse, l’amore dal sesso.
Un libro con dedica esplicativa, dicevamo, e completamente esaustiva.
Dedicato agli uomini, ma a tutti gli uomini, non solo quelli "cattivi" per definizione.
Perché tutti noi maschietti ci sforzassimo per una volta, per l'ennesima volta nel corso della nostra esistenza, ad ignorare la nostra metà deficitaria, quella contraddistinta da Y, il cromosoma diverso. Diverso, perché noi siamo alieni alla Terra, estranei all’empatia e alla solidarietà scevra dal bieco possesso: l’umanità appartiene solo a chi ha un cromosoma uguale, XX.
Secondo me, quest'è. Meglio rifugiarci nelle note di un sax, va.
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Attenti al lupo
Gran bella fortuna godere del privilegio di nascere in una bella famiglia, ricca nei mezzi e prodiga di buoni sentimenti.
Ne consegue che, con facilità, cresci libero, sano, forte, circondato da amore, non ti manca nulla per essere felice: cibo ottimo e abbondante, un tetto e un riparo caldo, affetti, pace, serenità.
Poi un giorno qualcosa all'improvviso gira storto, e tutto cambia.
Sei strappato a forza dalla tua famiglia, dai tuoi affetti, da tutto quanto di comodo, di caldo, di sicuro la vita ti aveva finora riservato.
Per la prima volta, incontri la violenza, la cattiveria, la brutalità, crudele e bestiale.
E ti fa male, ti fai male, soffri un dolore che mai in vita tua neanche avresti immaginato che potesse esistere. Non lo conoscevi, non lo avevi mai provato, non ne avevi menzione, è una scoperta atroce.
Un dolore che ti strazia la carne e ti annichilisce l’anima, sei disposto a fare qualsiasi cosa, a obbedire a qualunque ordine, a perdere ogni e qualsiasi traccia di dignità, perché dolore, umiliazione, strazio abbiano termine.
Magari sei anche grande e grosso, ma sei completamente impreparato all'evento, niente e nessuno ti avevano mai solo prospettato un simile disumano modo di essere: sopraffatto, prevaricato, brutalizzato. Non sai neanche come reagire, sei confuso, disorientato, anche paralizzato e incapace.
Allora, hai due scelte: o subisci, una volta per sempre, e ti adatti a gestire l’esistenza sempre in posizione sottoposta, attento a schivare le botte e ad accontentarti che non te ne siano distribuite troppe. A leccare la mano che, come ti sfama può, a suo piacimento, colpirti brutalmente se non ti adegui a ogni ordine impartito, fosse pure per capriccio, se non ti sottometti, letteralmente ti genufletti, senza discutere, con obbedienza piena e assoluta: e così, solo così, hai davvero molte speranze di cavartela.
Senza mai alzare la testa, naturalmente, ma ti è dato di sopravvivere, anche bene, date le circostanze.
Oppure…oppure puoi reagire. Certo, questo ha un prezzo. Serve coraggio, cuore e testa.
Un prezzo assai doloroso da pagare, in termini di orrore ancora maggiore di quanto già elargitoti.
Senza sconti di alcun genere. Un prezzo di botte, di torture, di fame, di umiliazioni, di testa chinata, di reiterate sconfitte, per un numero imprecisato di volte.
E però…e però, se sei davvero tosto, veramente deciso, fortemente determinato a imparare, se apprendi e fai tesoro di quanto assorbi, se osservi e impari a gestire quanto ti viene mostrato, se sei disperatamente disponibile a non tollerare oltre le cose che ti vengono imposte, a batterti per questo ed a morire nel tentativo, ma a non subire ancora un qualsiasi tipo di oltraggio fisico e morale, ecco, allora hai una probabilità. Una sola, bada, non ne avrai altre.
L’unica…quella che devi farti necessariamente bastare, per vincere.
Per reagire, per restituire colpo su colpo, per divenire il più feroce, il più crudele, il più bestiale, in definitiva, in quest’ambito, il Migliore.
Quello di cui gli altri hanno paura, colui che temono, da cui pur di non subire dolore e mortificazioni, si sottomettono senza discutere.
Perché lo riconoscono superiore, più spietato, invincibile, il capo supremo e indiscusso.
Insomma, come si suol dire, quello che non ti uccide, ti fortifica. Se però scegli tu di fortificarti.
Se hai talento e fortuna, e l’indole necessaria a cambiarti tuo malgrado in qualcuno che mai avresti pensato di essere, se non soccombi alla violenza delle bestie, divieni tu per primo una belva temuta dalle più violente delle bestie.
Quanto detto vale per qualsiasi essere vivente, per un uomo o, perché no, anche per un cane.
In estrema sintesi, questo è il senso del “Richiamo della Foresta”, celeberrimo romanzo breve di Jack London, autore di vari e fortunati libri come “Zanna bianca”, “Martin Eden” e racconti quali “Batard”, e “Preparare un fuoco”.
London è stato considerato a lungo, e a torto, uno scrittore per l’infanzia, ed in effetti devo confessare che anche per me è stato così, l’ho letto la prima volta che ero un bambino.
Non è stato in verità il primo libro che ho letto in assoluto, quest’onore è toccato, infatti, allo smielato e melenso “Cuore” di Edmondo De Amicis, neanche un cattivo libro questo, se vogliamo, ma era una lettura pressoché imposta, da leggere e far leggere il prima possibile ai bambini della mia generazione, gli era attribuito un potere pedagogico irresistibile, evidentemente, intriso com’ è di buoni sentimenti e racconti esemplari del vivere civile.
“Il richiamo della Foresta” e poi anche gli altri citati di London, però, è stato il mio primo libro “bello”, il primo cioè che ha concorso, se non contribuito in massima parte ad instradarmi ai piaceri incommensurabili della lettura.
Perciò sono grato al testo, all'autore, e al protagonista, il cane Buck.
Al quale ultimo devo, probabilmente, anche il mio amore per i cani: il mio primo cane volevo infatti chiamarlo Buck, solo dopo qualche resistenza mi feci convincere a chiamarlo in modo più originale…Lupo, trattandosi di un pastore tedesco.
Buck è un bell' esemplare di cane, un incrocio tra un San Bernardo e un pastore scozzese, il pet beniamino di una ricca famiglia californiana.
Un bel cagnone grande e grosso quanto mansueto, idolo dei bambini di casa, ben trattato e coccolato da tutta la famiglia.
Sono gli anni della celebre “corsa all'oro” appena scoperto in Klondike, nell’America del tardo ottocento, e Buck è un esemplare prezioso perché adatto a essere utilizzato come cane da slitta, ricercatissimo all'epoca per quei climi dove si avventuravano i cercatori del prezioso metallo. Rapito quindi da loschi individui a scopo di lucro, e venduto a crudeli addestratori, è sottoposto a ripetute e letteralmente bestiali violenze, volto a fiaccarne la resistenza e a trasformarlo in un obbediente cane da tiro, una vera e propria macchina di carne, usa ad essere impiegato in faticose corse sulla neve senza reticenze e ribellioni di alcun genere.
Da parte di chicchessia: perché la legge del più forte, e del più crudele, vale non solo per il suo padrone, che lo sottomette spietatamente alla sua legge con le botte inferte crudelmente con il bastone, ma anche per i suoi simili.
Il capobranco, infatti, con le sue zanne, non è da meno per violenze e sofferenze, impone la sua legge, predomina sui suoi simili, distribuisce a suo piacimento onori e oneri.
La crescita di Buck, la sua emancipazione, il suo rivalersi, il suo affermarsi come vincente passa proprio attraverso un progressivo fortificarsi, fare tesoro delle esperienze cui la sorte l’ha costretto, per riuscire vincente nella lotta contro i dettami di queste violenze portate dal bastone e dalla zanna.
Vincerà sul bastone, finendo per legarsi, anzi fa di più, finendo per affezionarsi a un padrone finalmente degno dell’appartenenza al genere umano e non a quello bestiale.
Vincerà sulla zanna, finendo per spodestare il capobranco divenendo lui stesso prima guida della slitta.
Sembra sia giunto per Buck finalmente una stagione della vita a misura naturale; e però, anche stavolta, un destino avverso si pone di traverso sulla felicità del bravo animale.
Proprio una tribù di pellerossa, che per il loro stile di vita dovrebbero apparire più vicini alla Natura, e alla sua empatia per i viventi, si dimostrano bestiali come un qualsiasi bieco umano dalla pelle bianca, trucidando il suo nuovo, caro e unico amico uomo rimastogli.
Lo vendicherà, Buck, facendo giustizia, dopodiché tra il ritorno e una civiltà forse più confortevole ma di sentimenti bestiali e una Natura dove esiste ugualmente la violenza ma mai gratuita e insensatamente crudele come tra gli umani, Buck accoglie senza esitazioni il richiamo della foresta, ritorna alle sue origini ataviche e selvagge, dai suoi progenitori, i lupi, gli unici che possono accoglierlo nella sua reale dimensione, a misura di un cuore buono e generoso, violento il giusto.
Perché il lupo descritto nelle favole non esiste, non è un lupo cattivo, è semplicemente un animale a misura di foresta; dentro e fuori di questa, i veri mostri hanno solo due zampe.
Un buon libro, dalla morale semplice e diretta, quindi un romanzo breve sempre attuale, direi.
Non una favola, ma un’ottima storia, adatto a chiunque, un piccolo gioiello scritto bene, in maniera semplice, chiara, fluente eppure “sentita”.
London descrive con delicatezza e poesia tanto i panorami naturali quanto il cuore dell’animale, i suoi pensieri, le sue sensazioni, oserei dire i suoi sentimenti.
Questa sua abilità gli deriva, a mio parere, dal grande amore da egli nutrito per la Natura, e per tutti i sui rappresentanti in fauna e flora.
Da come scrive, sono convinto che a London stesso dispiacesse far parte della razza umana, non avrebbe affatto disdegnato di seguire anch'egli, d’istinto, un a lui più congeniale richiamo della foresta. Non sarebbe stato il solo, lo avrei seguito volentieri anch'io.
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Lungo viaggio attraverso la notte
Qualcuno ancora afferma che commedie, drammi, tragedie e opere teatrali non siano proprio testi attinenti alla letteratura in senso stretto, non siano cioè da considerarsi alla stregua di romanzi o racconti.
Come dire che Cechov, Moliere, Shakespeare, Goldoni, Pirandello non esistono come letterati sensu strictu, ma solo come drammaturghi; sarà, ma mi risulta un Nobel della Letteratura al buon Luigi citato, che non mi pare fosse un romanziere.
Tra l’altro, forse non è pertanto uno scrittore con tutti i crismi che il termine così inteso comporta, ma io ne conosco uno che scrive commedie, ed è talmente letto e conosciuto, che in tutto il mondo è noto con il solo nome di battesimo: Eduardo.
Eduardo De Filippo è ormai unanimemente considerato da pubblico, critica e studiosi tra i massimi esponenti della cultura italiana del Novecento, i numerosi drammi e le commedie teatrali da lui stesso messi in scena e interpretati sono stati in seguito tradotti e rappresentati da altri anche all'estero.
Con umorismo sarcastico e amaro, descrivendo le vicende di persone con tutta verisimiglianza partenopei e parlanti in napoletano, dialetto comprensibilissimo a tutti, certamente assai più del noto vigatese di Camilleri, descrisse in realtà l’intera società italiana per quella che, in effetti, era. Tratteggiò la caduta dei valori, rese evidenti velatamente e sarcasticamente l’ipocrisia della classe borghese, denunciò la meschineria, l’insulsaggine, la miseria morale insita nell'uomo.
Solo i semplici, gli umili, la normale buona gente, le comuni persone per bene, tentano in qualche modo di porre rimedio ricorrendo ai valori “napoletani”, e perciò universali, della solidarietà, del calore umano, della condivisione.
Come ebbe a dire lui stesso: “…l’attore di teatro ripete sul palcoscenico quello che la gente comune recita davvero ogni giorno nella vita reale”.
Particolare curioso, Eduardo de Filippo fu anche candidato per il Premio Nobel per la letteratura; il premio non gli fu conferito, più che altro perché all'epoca la drammaturgia non veniva appunto ancora considerata letteratura come tale, Pirandello fu un’eccezione; decenni dopo invece tale discriminazione cessò di essere, ed infatti un premio Nobel per la Letteratura fu attribuito al drammaturgo italiano dialettale Dario Fo.
La fama di Eduardo, e tutto il suo mondo e il suo messaggio artistico, risiede essenzialmente nelle sue commedie.
“Napoli milionaria” non è una cronaca di guerra, e neanche è la storia delle sofferenze cui è costretta la popolazione civile durante l’ultimo conflitto mondiale.
La commedia è molto di più, è la cronaca del decadimento dei valori provocati dalla guerra e dall'uomo, e del difficile compito di mantenersi coerenti e fedeli alle proprie scelte morali.
Ambientato interamente in un tipico “basso” napoletano, l’angusto e malsano ambiente situato a livello stradale cui, per bisogno, sono costrette a vivere migliaia di famiglie partenopee, narra le alterne vicende e fortune della famiglia Iovine, formata da Donna Amalia e suo marito Gennaro, tranviere disoccupato per via dei bombardamenti che martoriano la città, e i loro tre figli, Amedeo, Maria Rosaria e la piccola Rituccia.
Il vero capofamiglia è Amalia, donna forte e pratica, che per la necessità richiesta dai tempi, provvede al mantenimento della famiglia praticando con acume, furbizia sagacia e senso pratico tutto partenopeo la borsa-nera.
Acquista in proprio cioè generi di prima necessità, per lo più alimentari, facendone incetta sul mercato e rivendendoli a prezzi maggiorati.
Gennaro invece è l’anima buona della famiglia, la coscienza del popolo per bene; egli non approva la disonestà, lo sfruttamento, l’avidità e l’ingordigia del facile arricchimento indotta dai tempi burrascosi che si stanno vivendo, senza legge, senza regole, e soprattutto senza morale.
Tuttavia, non essendo uno sciocco, comprende come sono gli eventi stessi, nella loro drammaticità, a indurre le persone, prese dalla disperazione, a intraprendere atti che normalmente non oserebbero fare. Tutto sta nel dosare gli impulsi della propria coscienza, la sua partecipazione alla borsa nera è, diciamo così, una partecipazione alla buona, una complicità discreta, volta a sbarcare il lunario in attesa di tempi migliori, e non altro.
La sua presenza è un deterrente perché la moglie e i due figli maggiori in qualche modo siano frenati, non si lascino coinvolgere dal malessere, dalla smania dell’arricchimento senza scrupoli, dall'imbarbarimento che serpeggia ormai dilagante nella società in pieno evento bellico.
Cosicché, quando Gennaro scompare dopo un bombardamento, la sua assenza permette il libero sfogo dei peggiori sentimenti; ormai privi di qualsiasi freno morale, come, in effetti, fungeva Gennaro, il resto della famiglia e lo stesso basso subiscono un deciso ed evidente cambiamento, non si sa quanto del tutto volto al meglio.
Al lusso esteriore, non corrisponde però un altrettanto innalzamento della statura morale dei protagonisti, anzi, esattamente all'inverso.
In questo frangente, d’improvviso ricompare Gennaro, reduce dalla prigionia.
L’animo buono e gentile di Gennaro non è stato cambiato da questa triste esperienza, anzi, ha rafforzato in lui i sentimenti della solidarietà, della semplicità di vivere negli affetti familiari, dei buoni sentimenti. E si accorge invece, con tristezza e crudo realismo, come lo stesso non si può dire per la sua famiglia, travolta dagli eventi e che ha ormai perso di vista i valori unici ed essenziali dell’esistenza: nessuno è disposto ad ascoltarlo, nessuno vuole sentire parlare della guerra, la guerra è finita, gli ripetono, ma Gennaro sa che non è vero, che la guerra non è finita, e che sopratutto ha lasciato dietro sé tante macerie, non solo materiali.
Poi gli eventi precipitano: la figlia piccola di casa, Rituccia, sta male.
Una febbre maligna sta portandosi via la povera creatura innocente. Sarà Gennaro ad accorgersi della gravità della cosa, trascurata da tutti, e il medico subito occorso confermerà l’estremo bisogno di una medicina, probabilmente la penicillina, altrimenti la piccola morirà in breve tempo.
Il farmaco è stato fatto sparire dai vertici della borsa nera, di modo che il suo prezzo tenda a salire, e a nulla valgono gli sforzi, le corse, lo strazio di Amalia e di tutti gli altri protagonisti per trovare il farmaco, a qualsiasi costo.
Tutto il terzo e ultimo atto è di una drammaticità eccezionale, centrato su Amalia e Gennaro, la prima fuori di sé, vinta e terrorizzata all'idea di perdere non solo la piccola ma l’intero suo mondo di affetti di cui solo ora riconosce l’incalcolabile valore, finalmente conscia dei suoi errori e delle cose davvero essenziali dell’esistenza, e Gennaro, che pur vinto dall'amarezza, affronta con pietoso realismo gli eventi che travolgono i suoi cari.
L’innocente Rituccia si salverà?
Tutti si rivolgono angosciati con questa domanda a Gennaro, che risponde: “Addà passà a’ nuttata”.
Deve trascorrere la notte.
Gennaro si rifà all’antica saggezza popolare, che recita che solo quando è completamente buio, allora è possibile vedere la luce delle stelle.
Un lungo viaggio attraverso la notte è il solo che redime verso la luce.
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Gente perbene
Il cinema ne ha dato una versione piacevole, forse, popolare ma troppo macchiettista, limitata, mirata esclusivamente a far leva sulla comicità, più che sul sarcasmo e sulla arguta ironia, nonché sulla morale, insita nelle storie all'origine delle sceneggiature.
Senza contare che le pellicole tratte dai libri devono molto alla personale caratterizzazione data ai personaggi da due attori, che allora andavano per la maggiore, quali Fernandel e Gino Cervi.
Tuttavia “Mondo Piccolo” e i libri successivi nati dalla penna di Giovannino Guareschi, non sono dei ritratti divertenti basati sullo scontro tra due antagonisti storici, litigiosi e dispettosi per partito preso.
Non sono racconti basati su uno schema collaudato, come nei cartoni animati, per esempio l’eterna lotta tra Will Coyote e Beep Beep, o Silvestro e Titti, dove ognuno dei due si ingegna nei modi più strambi di sopraffare l’altro, ed il buono predefinito finisce sempre per vincere. Assolutamente.
Giovannino Guareschi, giornalista e scrittore emiliano del secondo dopoguerra, non è un comico, o un raccontatore di cronache divertenti. Direi che è un buon scrittore, soprattutto un uomo buono.
Un sagace osservatore della realtà sociale dei suoi tempi, certamente.
Un artista dalla grande sensibilità umana, mediata dalle proprie dolorose esperienze personali. Guareschi ha sofferto in prima persona la tragedia della guerra, dapprima come militare e poi come internato, prigioniero di guerra in un lager, per essersi rifiutato di combattere contro i propri connazionali dopo l’armistizio.
La fame, le privazioni, i dolori, hanno influito incisivamente sull'animo sensibilissimo dell’artista della Bassa emiliana, influenzandone anima e scrittura.
Sempre nei suoi scritti emerge una forte critica e severità verso i potenti, gli intrallazzatori, i guerrafondai, gli affaristi; e contro i guasti della società, di cui sono responsabili.
Soprattutto il consumismo, il freddo materialismo che si stava approntando, spodestando i buoni, semplici, imperituri, sani valori che derivano dalla cultura naturale, contadina sì, ma solidale, armonica e armoniosa, come la Natura stessa, come il grande Fiume sullo sfondo delle sue storie.
Camillo Tarocci, parroco, e Giuseppe Bottazzi, sindaco, in arte Don Camillo e Peppone, non sono affatto, tra l’altro, i protagonisti del romanzo a puntate, dispiegatosi in volumi successivi, o racconti raccolti in volume, che dir si voglia, trattandosi all'inizio della loro comparsa di novelle su giornale, che nell'insieme costituiscono la saga, lunga e complessa, di “Mondo Piccolo”.
Lo ripeto, non sono loro i protagonisti, sembra strano, ma sono i comprimari.
Il vero protagonista dei libri di Guareschi è uno solo, l’unico, il Cristo sulla croce.
Questo del titolo è un mondo assai più grande, in verità, una terra grande quanto il pianeta, e nemmeno reale e concreta, direi onirica.
Una terra che è un sogno, un mondo ideale, un luogo di pace, concordia, solidarietà, al di là di ogni ideologia e modo di vedere.
Un posto dove ognuno trova da vivere, da lavorare, da amare, da mettere su famiglia, crescere i figli con la stessa cura con cui aiuta a far crescere i frutti della terra.
All'ombra del grande fiume, che dà e che toglie, che pretende cura nel rinforzare gli argini, e in cambio rende fertile la terra, prodigandosi per il benessere collettivo.
Giovannino Guareschi ha delineato nei suoi racconti non tanto un preciso, e dettagliato in verità, spaccato della piccola provincia italiana nell'immediato dopoguerra.
Neanche ha voluto sottolineare la divisione tra due Italia.
Semplicemente, ha voluto indicare che altro dovrebbe essere la vita, altro il mondo, piccolo nelle dimensioni, ma grande per i valori che dovrebbe accomunare tutti.
Guareschi ha voluto mostrarci un paese di gente perbene, diversa per quanto possano essere le persone, ma unite tutte sotto una stessa croce, un unico valore.
Perciò il vero protagonista dei libri di Guareschi è uno solo, l’unico, il Cristo sulla croce.
Quello che parla con Don Camillo…e cosa ci sarebbe di strano?
Non è forse il Cristo il datore di lavoro del prete Don Camillo?
Non dovrebbe comunicargli le sue disposizioni?
A chi non è capitato di parlare con la propria coscienza?
Chi credete che sia il Cristo, se non la parte buona, onesta e sincera di noi stessi?
E non parla solo al prete: parla anche al cuore del sindaco comunista, sì, ma che nascostamente si è sposato in chiesa, ha battezzato i figli, si segna furtivamente davanti all'altare, e sempre, sempre, sempre ascolta la voce della sua coscienza, il Cristo che parla al suo cuore e dirige il suo agire secondo i precetti del comune buon senso.
Lo dice lui stesso: “…nel segreto dell’urna, Dio ti vede e Stalin no”, e perciò traccia il suo voto a favore del parroco eterno antagonista, fingendosi furibondo, ma in realtà in pace con sé stesso.
Il comune buon senso…che si chiama così proprio perché è Buono.
Il comune buon senso…che è l’omonimo dell’Eterno Buono.
Il Cristo sulla croce è il simbolo del valore assoluto che dovrebbe guidare la vita di ognuno: l’umanità.
Guareschi con Mondo Piccolo auspica la creazione di una società a misura d’uomo, dove i valori dell’Amore, della Solidarietà, della Comunione, della Condivisione siano i pilastri fondanti del vivere civile.
Sono gli stessi valori sia del cattolicesimo che del socialismo, a ben vedere, come dire che Gesù era un bravo compagno e Stalin un bravo Cristo.
Per intendere questo, Guareschi descrive due paesi, che in realtà possono e devono convivere, magari stringendosi un pochino, ma dove possono tranquillamente starci tutti, tutte persone perbene.
Un’Italia cattolica, per teorica definizione retriva e reazionaria, rappresentata da Don Camillo, prete poco caritatevole in verità, un ecclesiastico brusco, per non dire burbero, un uomo che va per le spicce, anche a costo di tirare fuori dalla tonaca un palo di pioppo per rimettere le cose a posto a modo suo, e che inevitabilmente con il suo sottanone nero richiama il nero dei manganellatori d’epoca recente, il cui ricordo è ancora ben vivo nella memoria dei contemporanei.
Contrapposta all'altra metà del paese, all'altra Italia, un’Italia progressista e socialista, almeno nelle intenzioni, guidata con altrettanto brusco cipiglio dal sindaco comunista Peppone, che smessa la divisa di indefesso, fedele e solerte militante del partito, indossa gli abiti a lui più congeniali, la tuta sporca di grasso dell’unica officina del paese, dove presta la sua opera come valente meccanico.
Quindi, a prima vista, i racconti presentano sempre un episodio del vivere comune, che a causa delle diverse e contrapposte ideologie, porta a d uno scontro tra le due diverse fazioni capeggiate dai caporioni carismatici.
Sempre però trovano un punto d’incontro; sempre predomina l’amicizia, la stima, il rispetto…sempre predomina la voce del Cristo, il buon senso.
A significare che non sarebbe poi tanto difficile vivere a misura d’uomo.
Lo sanno perfettamente Don Camillo e Peppone, hanno fatto insieme la guerra, sono stati decorati insieme, ognuno di loro ha fatto del suo meglio come meglio poteva, nascondendo i partigiani Don Camillo, e portando aiuto fisico e morale ai feriti, imbracciando il mitra contro i tedeschi Peppone. Ma sono intercambiabili: Don Camillo sa usare perfettamente un mitra, Peppone sa dipingere con maestria la statuetta del Bambinello del Presepe.
Perché ognuno dei due si adatta, con buon senso, e insieme si danno reciproco aiuto e conforto, e lo stesso fanno tutti gli altri protagonisti del Mondo Piccolo: lo Spiccio, lo Smilzo, il Brusco, il Bigio, Straziami, la vecchia maestra…
Su tutti, veglia il Cristo, e sorride.
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Una ragazza decisa
Sebbene nell'immaginario collettivo “Via col vento” sia soprattutto “il film”, quello famosissimo con Clark Gable e Vivien Leigh, vincitore di svariati Oscar e ritenuto il “Kolossal” del cinema per eccellenza, il successo della pellicola è dovuto soprattutto alla bontà intrinseca dell’unico libro di Margaret Mitchell.
Pubblicato poco prima dell’ultimo conflitto mondiale, è divenuto in breve tempo un autentico best seller dell’epoca, ristampato e riletto ancora oggi, vincitore di un prestigioso premio Pulitzer.
E a ragione: perché si tratta in definitiva davvero di un bel romanzo, un bel tomo, di molte pagine, ma tutte ben scritte, ben curate, un ottimo lavoro, e oserei dire un vero peccato non avere altre opere di questa autrice.
Lo dico subito, può non essere un libro facile da leggere, perché la trama è risaputa, merito o colpa del film, quindi si crede di leggere qualcosa di già letto, letteralmente un film già visto, per questo serve un approccio diverso, una diversa disciplina.
L’autrice è stata brava, ha cesellato personaggi credibili e ben caratterizzati, ha inventato una bella storia, verosimile e avvincente, ha innescato un fluire del racconto secondo un filone storico logico e rigoroso, ma con un altissimo livello emozionale.
Non è, come si è soliti credere con superficialità, un polpettone melodrammatico, di per sé, non una storia smielata e sdolcinata che ruota attorno agli amori veri e presunti della protagonista, che tutto è tranne che un’oca giuliva, viziata e arrogante, che briga capricciosamente per i suoi sentimenti dettati da bieco egoismo.
Il romanzo è, prima di ogni altra cosa, una storia di determinazione, l’epopea di una gran donna, una donna decisa e determinata a vivere la propria vita secondo il proprio intendimento, ed in un tempo ed in un luogo che non glielo avrebbe mai permesso.
Poi è anche, in diretta conseguenza, una storia d’amore, ma non di amori, come potrebbe sembrare: Scarlett O’Hara è una donna che è mossa da Amore, usa gli uomini, ma non si fa usare da loro, ama ed è decisa ad amare solo chi dice lei, non quelli che usa per i suoi scopi essenzialmente pratici.
Non si creda pertanto che sia una storia con una squallida sequenza di amori di convenienza, tutt'altro, i sentimenti di Rossella sono quelli di una donna vera, una donna innamorata, anche se ancora non intravede la giusta canalizzazione del suo sentimento.
Scarlett/Rossella è una donna lasciata a sé stessa, che intraprende giovanissima la sua storia affettiva, in un’epoca difficile e disconosciuta per i sentimenti delle ragazze.
Rossella ama, e si ostina ad amare, a seguire solo i dettami del suo cuore, e non quelli convenzionali dell’epoca retriva nella parte d’America ancora più retriva, quella degli Stati del Sud di tradizione agricola e benpensante.
Solo per questo, per l’epoca e i luoghi in cui si svolgono le vicende, è una ragazza, una donna eccezionale, e da ammirare incondizionatamente.
Decisa, tosta, determinata: fuori dal suo mondo, letteralmente.
Una suffragetta ante litteram, nell’America della Guerra di Secessione; e la storia pur improntata dalla modernità della protagonista, presenta tuttavia momenti d’intensa delicatezza e sensibilità, richiama comunque i sani sapori tradizionali del mondo agricolo, quelli che erano i valori di un tempo antico, di cui si è perduto il ricordo ed è subentrata una struggente nostalgia.
Il romanzo è anche “scomodo”, non proprio politicamente corretto, ma perché è perfettamente ancorato al suo tempo.
Perciò è, ad esempio, velatamente razzista, presenta sempre in primo piano la versione femminile del buon zio Tom; per gli stati a traino economico agricolo come erano quelli del profondo Sud degli States, la mano d’opera di colore era una necessità quotidiana, neanche avvertita come un’ingiustizia dei diritti dell’uomo.
La guerra di secessione è pertanto impostata come una diatriba esclusivamente economica tra il Nord industriale, ricco e progredito, contro il Sud agricolo e retrogrado, e non anche come una lotta per i diritti civili dell’umanità, come fu in effetti.
Ancora, e questo è forse più grave, si descrive senza scandalo o levata di scudi una situazione tra coniugi alquanto fastidiosa, per non dire scabrosa e ripugnante.
Perché la donna è con vergognosa naturalezza ben situata in un’ottica soccombente a quelli che possono essere le pretese coniugali del proprio marito, anche richieste di forza.
Tutti questi particolari sono quelli che conferiscono realtà e incredibile verosimiglianza alla storia, che è quindi un affresco molto realistico di tempi, luoghi, usanze.
Sono incensati in questo libro i valori dell’epoca, della famiglia, della patria, della propria terra da difendere, della lealtà, della bontà d’animo e della cavalleria; proprio il personaggio principale, l’eroina Rossella O’Hara, è una moderna eccezione, e questo la fa personaggio originale, grazie ai suoi capricci, la sua volubilità, il suo essere dopo tutto una donna opportunista e interessata, non è che l’incarnazione del mito americano della “self made woman”.
In quel mondo arcaico dove gli uomini comandano, dispongono e decidono, Rossella s’inventa imprenditrice, manda avanti una tenuta agricola, scaccia a pistolettate gli sbandati della guerra, cura i feriti, non si perde mai d’animo, ha sempre le idee chiare, sa sempre cosa fare e dove andare a parare per quelli che sono i suoi scopi.
Della donna innamorata conserva la fedeltà di pensiero per l’uomo che crede destinato a lei; salvo ricredersi, con umiltà impensabile per una simile “ragazzaccia” volubile e capricciosa.
Corona infine il suo sogno d’amore con il suo Rhett.
Rhett Butler è la quintessenza dell’uomo intelligente, affascinante, un’adorabile canaglia, un sagace avventuriero, furbo, uomo esperto, gentiluomo di mondo, scafato delle cose della vita: ma infine, fa quanto gli dice Rossella, da lei è guidato, malgrado sembri che sia lui a curarla ed assisterla, è semplicemente lei che glielo permette.
Rhett Butler è chi potrebbe essere da subito l’uomo di Rossella, se non lo diventa, è solo per demerito suo, malgrado tutte le sue qualità vincenti.
E di fronte alle vere difficoltà personali della vita, non sa fare altro che rifugiarsi nell’alcool, andarsene, sbattersi con rabbia, rifiutare l’accettazione dei drammi dell’esistenza, che accadono, che capitano, che devi saper gestire, per te e per gli altri.
Rossella no, nonostante gli stessi dolori, lei no, lei non se ne infischia di riprendere saldamente in pugno le redini della propria esistenza, lei sa perfettamente, tutta la sua esistenza ne è una comprova, che la vita può sempre riservare altro e certo, devi volerlo, ci devi credere, il vento corre, può portarti via, ma dopo tutto, sei tu che puoi orientare le vele, decidere un decorso diverso, alla luce di un giorno nuovo.
Appunto, domani sarà un altro giorno…solo che tu lo voglia.
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Il più grande
Un assioma della letteratura recita che ogni scrittore immette nelle sue storie parte di se stesso, della sua esperienza di vita, e del suo modo di intendere l’esistenza.
Per alcuni, meglio che per altri; capita perciò di incontrare chi sa riversare mirabilmente sulla carta le passioni, i brividi, i batticuori e le impressioni non per sentito dire, ma sperimentate direttamente sulla propria pelle nel corso del proprio arco vitale.
Tratteggiando di conseguenza i protagonisti principali delle storie inventate, ma con un substrato reale, basandosi sulla propria persona, almeno nei caratteri emozionali.
Questa verità incontestabile si adatta come non mai alla figura e alle opere di Ernest Hemingway, a mio modesto parere il più grande scrittore dei tempi moderni.
Intendiamoci, non il più bravo, ma il più grande.
Perché Hemingway aveva un modo di scrivere tutto suo, che può non piacere, e a tanti, in effetti, non piace, ve lo dico subito, qualcuno lo giudica anche pesante e noioso.
Presenta uno stile di scrittura, di conversazione, un’esposizione di luoghi, fatti e dialoghi resi con un timbro asciutto, essenziale, a volte laconico e inespressivo, non ermetico ma troppo intimista, talora anche ridondante e “in sospeso”, se così si può dire.
Usa cioè periodi lunghi, talora scoordinati con l’azione che sta descrivendo, fa decorrere il tempo in considerazioni, mentre si “attende” il seguito delle azioni che sta descrivendo, della storia che racconta.
Che racconta, appunto, perché Hemingway non scrive, racconta.
Le sue opere migliori, il meglio di sé, lo offre nei racconti, non nei romanzi.
Lo si rinviene nei pezzi giornalistici, il suo primo impiego, nei resoconti, nelle cronache da inviato sui fronti di guerra prima, e poi anche dopo, nelle arene delle corride spagnole, ad esempio, quasi fosse un cronista sportivo, un Niccolò Carosio della tauromachia, intento a descrivere le evoluzioni nell’arena di toreri, tori, matador, tra sangue e sabbia resi davvero vividi dai suoi scritti.
Oppure quando racconta del mare, di Cuba, di barche a vela, altre sue passioni.
Hemingway non scrive romanzi, si racconta. Quello che dice, l’ha vissuto. Provato. Sperimentato.
Racconta fatti che l’hanno visto protagonista, e le emozioni che ha provato vivendole.
Perciò non possono essere intese da tutti. Come non è da tutti aver vissuto com’è vissuto lui, certo.
Però a lui è toccato, e gli è toccato vivere certe esperienze e non altre, provare certe sensazioni e non averne solo notizia, perché se le è andate a cercare. Una scelta di vita.
È stato cacciatore e pescatore appassionato (“I quarantanove racconti”), autista di ambulanze sul fronte di guerra italiano durante la prima guerra mondiale (“Addio alle armi”), ferito gravemente e sul punto di morte. Reporter nella guerra civile spagnola e combattente del fronte della libertà (“Per chi suona la campana”), diretto osservatore della tragedia della seconda guerra mondiale (“Di là dal fiume o tra gli alberi”), si è guadagnato medaglie al valore e onorificenze militari, ha reinterpretato a modo suo il “Moby Dick” di Melville usando Santiago un vecchio pescatore bruciato dal sole, e un pesce di dimensioni minori, uno squalo che passava nei paraggi (“Il vecchio e il mare”).
In tutto questo trova pure il tempo di frequentare intimamente intellettuali come Gertrude Stein e Francis Scott Fitzgerald nella Parigi nel pieno del suo splendore artistico, entrando a far parte a pieno titolo della corrente letteraria della “generazione perduta”.
A tempo perso, così, giusto perché si trovava passando, vince un Pulitzer ed è insignito del Premio Nobel per la Letteratura.
E al termine della notte, spente le luci delle emozioni intense, le uniche che gli fornivano l’energia indispensabile per affrontare il grigiore della quotidiana esistenza, toglie il disturbo, suicidandosi.
Il più grande, per davvero, prima come uomo formidabile, e poi come scrittore, quasi una conseguenza obbligata. Una scelta di vita la sua, quella di vivere alla grande, del tutto rispettabile.
Come si conviene al più grande.
“Per chi suona la campana” deve parte del suo successo al film omonimo con la bellissima attrice Ingrid Bergman, da giovane: scordatevelo. Il romanzo è tutt’altra cosa.
Il libro è un racconto delle ragioni di una precisa scelta di campo.
Il protagonista, Robert Jordan, è un membro importante della Brigata Internazionale, l’organizzazione di volontari che combatterono a fianco degli insorti antifranchisti contro l’esercito fascista durante la guerra civile spagnola, incaricato di far saltare in aria un ponte ritenuto essenziale ai fini strategici della guerriglia.
L’attacco al ponte, e i relativi preparativi, sono l’occasione per una disamina politica e sociale della Spagna sotto il giogo fascista di Franco, attraverso un racconto a più voci dei partigiani coinvolti e reclutati per far saltare il ponte.
Entrano in scena figure semplici e complesse insieme, dai nomi tipici e caratterizzanti: El Sordo, un capo partigiano, coraggioso quanto pusillanime e opportunista, Anselmo, il partigiano vecchio saggio della banda, Pablo, capo della guerriglia, Maria, protagonista di una breve quanto intensa e struggente storia d’amore con Robert Jordan, Pilar, una vecchia partigiana che ha preso Maria sotto la sua tutela, e poi altri giovani e meno giovani, Fernando, Andrés, il giovane Primitivo, il comunista Joaquín, e altri ancora.
Un vero e proprio coro greco, un insieme di voci diverse e variegate, tutte declamanti all’unisono la stupidità, la follia assurda e incredibilmente distruttiva della guerra per gli uomini e le cose di ambo gli schieramenti, con la natura muta e attonita spettatrice.
Una disamina lucida e spietata sull’inutile crudeltà, la stoltezza di gesti, violenze, capitali impiegati in armamentari di morte anziché in strutture e apparati di gioia e di pace, come sarebbe semplicemente più umano.
Di qui, la necessità di schierarsi, di provare a ripristinare l’ordine naturale delle cose, quello più equo e salubre, estirpando l’erba velenosa.
Una scelta di campo, una scelta di vita.
E dopo, farne ammenda, perché il sangue non si cancella, qualsiasi sia il colore, il sangue ha memoria. Il sangue richiama sangue, è il vecchio Anselmo che lo ricorda. “…dopo bisognerà fare ammenda, bisognerà espiare in qualche modo, fare il bene, insegnare il bene.”
Dopo. Ora il ponte va fatto saltare in aria.
Anche se magari non servirà a molto nel decidere i destini della guerra.
Ma va fatto. A qualsiasi costo.
Anche a rischio di perdere non tanto la tua vita, non tanto l’amore della tua vita., ma la Vita stessa.
Per farlo, c’è un’unica via: schierarsi dalla parte giusta. Fare una scelta di campo.
Una scelta di vita. Non tutti ci riescono. Solo alcuni, solo qualcuno.
Il più grande.
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Nemmeno questo è un uomo
Questo non è un romanzo, e colui che lo ha scritto non è uno scrittore, nella vita faceva tutt'altro, era un chimico; e però per i casi della vita, e di quelli più tragici, è divenuto suo malgrado un testo essenziale per la crescita intellettiva di ognuno di noi.
Un libro che non può mancare nelle competenze dei protagonisti del vivere civile, meglio ancora quando più sono giovani, facilmente ricettivi ad assorbire quanto rilevato, e sopratutto a non dimenticarlo.
Perché ricordare, mai come in questo caso, è necessario, direi indispensabile.
Primo Levi non è un romanziere, e perciò la sua scrittura non è fluida, armonica, articolata; non si perde in iperbole o allegorie del buon scrivere, non è uno scrittore in senso classico, ha uno stile asciutto, scarno, freddamente cronologico, a tratti nervoso.
Eppure descrive bene quello che è essenziale riportare, quello che desidera mostrare all'umanità intera, e così facendo emoziona, coinvolge, compartecipa i lettori nelle vicende che descrive, proprio perché non è uno scrittore, ma è molto di più: un testimone.
Direi una rarità, un diretto testimone, molto attendibile, un cronista in presa diretta, un’Oriana Fallaci presente in prima linea, sul posto degli orrori.
Una mente lucida e scientifica, in grado di riportare le vicende vissute, con sgomento ma attendibilità, attenendosi esclusivamente ai fatti crudi che lo vedono protagonista, anche se sono fatti di orrore allo stato primordiale.
Il tutto filtrato dalla sua sensibilità di comune mortale, per niente una persona fuori dall'ordinario.
Primo Levi è stato un intellettuale che ha vissuto sulla propria pelle, assai di più nella sua mente e nel suo animo lacerato, il più vile sterminio di popolo, voluto dalla follia nazista, recluso in un campo di concentramento tedesco durante gli ultimi tempi prima della caduta del Reich.
E per fortuna sua, perché come da lui stesso ammesso, fosse durato ancora un poco la sua prigionia, non sarebbe sopravvissuto per raccontarla, tanto indicibili erano le condizioni di vita in cui erano costretti non per sopravvivere, ma per trascinarsi fino all'epilogo inevitabile.
Fin dall'inizio Levi comprende di trovarsi letteralmente in un Inferno dantesco, ma senza niente di letterario o di allegorico: solo fame, botte, umiliazioni fisiche e morali, demolizione completa dei corpi e degli spiriti secondo un ordine logico, assurdo, irreprensibile e irrevocabile, banale nella sua essenza come sempre sa essere banale il Male.
La stessa ignobile, lurida, beffarda, bugiarda, laida insegna all'ingresso del campo di sterminio, o di sterminio tramite lavoro estenuante fino a consumare le persone, come vogliamo definirlo, quella tristemente nota che recita “Il lavoro rende liberi”, redatta nella lingua gutturale dei presunti superuomini, altro non è, per il colto Levi, che un preciso richiamo a ben altra, e assai più nobile insegna, la famosa “Lasciate ogni speranza o voi che entrate” all'ingresso dell’Inferno dantesco.
Così come all'opera di Dante richiama il medico che seleziona crudelmente, con asprezza e immorale malignità i deportati secondo le attitudini lavorative, deciso a trarne ogni forza lavoro fino allo stremo dei poveri sventurati: del tutto identico, nell'immaginario del recluso Levi al Minosse distributore dei dannati nei vari gironi infernali.
Lavoro fino allo stremo, e indegnità, e crudeltà, e vessazioni, e botte, e affamamento, tutto il campionario dei campi di concentramento nazisti è sciorinato addosso ai poveri sventurati, tutto è disumanamente attuato per l’annientamento fisico e morale dei prigionieri, la loro forzata degradazione a reietti, a larve umane, la maniacale progressiva persecuzione volta alla degradazione dell’uomo da parte di altri uomini, fino alla perdita, alla completa cancellazione di ogni sorta di dignità umana.
Fino all'epilogo finale, scontato, e presagito da subito allorché si viene schedati all'arrivo e identificati da un numero progressivo.
Basta poco a comprendere che è in realtà un codice, che indica il numero di prigionieri transitati per il campo, un numero assai superiore alle poche migliaia effettivamente presenti, in visibile appello quotidiano: non è difficile pervenire alla tragica conclusione.
Quello che è il dolore più grande, il vero trauma amaro, straziante, angoscioso, è la constatazione, la triste verifica di quanto accade, quanto può verificarsi a un uomo quando posto in simile atroci condizioni di vita, si riduce inevitabilmente a qualcosa di degradante, abominevole, funesto e infelice: alla perdita totale della propria umanità.
Non più dignità, nessuna decenza; nessun onore o onorabilità, meno che mai nobiltà o correttezza, per non parlare di solidarietà concordia, aiuto, mutua assistenza.
Ognuno per sé, ciascuno per sé; e la moralità dei prigionieri sopravvissuti diviene pari a quella dei propri carcerieri.
Qualcuno, come Levi stesso, si chiede i motivi, ne cerca le ragioni, continua tenacemente a credere nell'unità, nell'intesa, nel calore, nella condivisione, ma lui e altri come lui sono semplicemente sommersi dall'inevitabile, spietata indole di sopraffazione che prende coloro che, spogliati dall'ultima parvenza di umanità, desiderano semplicemente salvarsi, anche a costo di divenire, per esempio, un kapò, passare tra le file degli aguzzini a danno dei propri compagni, magari solo per una razione di cibo supplementare. I sommersi e i salvati.
Si salverà Levi da questi orrori, la scamperà, anche se lui è con tutta evidenza un sommerso, sia pure per caso, e ne porterà allora testimonianza diretta di quanto ha vissuto, quasi una forma di redenzione personale, una remissione del peccato, e ne scriverà allora accuratamente.
In prosa, come in versi.
Gliene siamo grati, tutta l’umanità deve innalzargli un monumento per aver levato la sua voce.
Anche se…talora mi viene da pensare, davanti a certe immagini. Se davvero è servito.
Perchè nemmeno questo è un uomo, dottor Levi, dopo decenni, dopo una Resistenza, costretto a emigrare stipato su un barcone sconnesso, o su un gommone sfiatato, a rischio della vita, dopo aver pagato il viaggio con fame e con botte, violenze di ogni genere, specie se donne; e tutto per…per un po’ d’erba al limite dei feudi. Forse.
Nemmeno questo è un uomo, costretto a urlare la sua rabbia contro una recinzione, a piangere con i figli al gelo sugli scogli.
Nemmeno questi sono uomini, perché non sono di razza ariana, per loro i porti sono chiusi. Sempre.
Considerate se questo è un uomo.
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Ditelo con i fiori
Gelsomina Settembre, protagonista di questo romanzo di Maurizio De Giovanni, è un personaggio relativamente nuovo, avendo già compiuto delle brevi comparsate in racconti precedenti dello scrittore napoletano.
De Giovanni è oramai un autore di chiara fama, noto al grande pubblico in particolar modo per i suoi romanzi seriali, aventi a protagonisti eroi trasportati anche in fortunate fiction cinematografiche, o in procinto di esserlo.
La fortuna di De Giovanni gli è data dall’abilità con cui, ad esempio, ha saputo creare Luigi Alfredo Ricciardi, originale figura di commissario della Regia Questura di Napoli durante il ventennio fascista.
Un commissario di polizia inconsueto a dir poco, molto sui generis, perché all’aspetto da bel tenebroso fa da contraltare una spiccata sensibilità personale, una struggente e malinconica, misteriosa qualità, un “fatto” al limite dell’inverosimile, e che poi altro non è che un particolarissimo “sentire” le atmosfere lugubri dei tempi, foriere di futuri lutti e sventure.
Ricciardi non è un sensitivo, è un sensibile, non è un medium, è un sensate, quello che “recepisce” non è qualcosa di utile alle indagini sugli assassini su cui è chiamato ad investigare, anzi, è più spesso fuorviante.
Semplicemente il nostro commissario “sente” perfettamente le persone, le strade, gli umori, la mentalità e il modo di vivere della città in cui opera, Napoli da sempre miserevole e miseranda, ancor di più sotto la dittatura, da sempre vittima e carnefice di se stessa.
Dove ancora c’è gente che muore letteralmente di fame o per i motivi più tragici e ingiusti, e Ricciardi è come un medico che sente il polso alla città, ne capta gli umori e i veleni, le vanità e sopratutte le più manifeste ingiustizie. Gli travagliano l’anima, e assumono parole e sembianze degli ultimi momenti di vita delle vittime della tragedia di vivere di questa città.
Analogamente, funzionano i romanzi di De Giovanni con protagonisti i Bastardi di Pizzofalcone.
Nonostante il nome dispregiativo, si tratta di poliziotti, e di bravi agenti dopo tutto, un’intera squadra investigativa volta a reggere le sorti di un commissariato di Polizia, in uno dei quartieri più insoliti e variegati di Napoli, Pizzofalcone, appunto.
Un quartiere vasto e disparato, posto in posizione strategica e delicata, tra la collina, il mare e il centro antico e fatiscente, misterioso e coinvolgente.
Ricco di monumenti e opere d’arte e di obbrobri impronunciabili, dove puoi trovare piccoli delinquenti e camorristi d’alto bordo, ricchi imprenditori e affaristi sull’orlo del fallimento, famiglie ricchissime e immigrati alla fame.
Dove vivono frammisti e a contatto di gomito, quasi stratificati in poco spazio l’uno sull’altro i ceti sociali estremi e disparati, dove s’incontra la Napoli antica e anticata del centro storico, affascinante, ammaliante e pericolosa per definizione più che per fattiva realtà abitativa, con la Napoli bene e meno bene, la Napoli dei volgari nuovi arricchiti e dei vecchi benestanti per nobiltà presunta o vantata.
Come Ricciardi esercita a Napoli e osserva e sente Napoli, e, il suo umore, così nella Napoli moderna del giorno d’oggi anche qui i poliziotti indagano, scandagliano Napoli e i suoi abitanti, tastano con mano il suo umore, ne “sentono” suoni, rumori, armonie, strida.
Poiché ciascuno di loro è una persona a sé stante, è come se tutti insieme componessero un puzzle, costituito dai pezzi della città, piccoli frammenti dell’essere senziente denominato “Napoli”, ciascun pezzetto unico, perchè mediato dalle personali esperienze di vita dei poliziotti.
Ne viene fuori un ritratto vero, reale, figurato, vissuto, una panoramica della città, con tutte le sue continue stridenti contraddizioni e contrapposizioni, ciascun pezzo del puzzle va così a incastrarsi perfettamente con gli altri, decantando la soluzione dell’arcano su cui indagano.
Gelsomina Settembre non è da meno, è la sorella minore dei personaggi di De Giovanni che l’hanno preceduta nel parto della fantasia dello scrittore napoletano.
Come in quei romanzi, anche qui la vera protagonista assoluta non è Mina Settembre, assistente sociale, che sbarca il lunario tentando disperatamente di far funzionare un presidio sociale in uno dei quartieri più sgangherati della città.
La vera signora del libro è Napoli.
La Napoli dove la gente non va dall’assistente sociale per avere sussidi, ma per chiedere che le istituzioni scolastiche la smettano di infastidirli, pretendendo che i piccoli di casa frequentino la scuola: forse non è chiaro a quegli sfaccendati operatori di cultura che a casa loro sono i piccoli a procacciare i mezzi di sostentamento. In quale modo, non è essenziale saperlo.
Una città dove deve essere non un adulto, sotto qualsiasi veste, anche di un vicino di casa o di un parente, di un prete o di un insegnante, ma una bambina di pochi anni a preoccuparsi, a prodigarsi, a industriarsi, a cercare il modo di evitare il più spietato dei femminicidio, quello della propria madre.
Una città dove le amiche si premurano di cercarti un partner, ti criticano per la vacuità della tua vita sociale e affettiva, ti aggiornano con certosina precisione su futilità e pettegolezzi vari, ma non esitano a prodigarsi generosamente a proprio rischio e pericolo, in tuo soccorso, collaboranti e collaborative senza indugio e senza freni.
Il tutto, condito con ironia, sarcasmo, umorismo involontario o meno, costante arte di arrangiarsi, abitudini deleterie, giornate all’insegna di…rifiuti umani, commenti salaci e battutine sul decolleté della giovane assistente sociale, della sua onnipresente e ossessiva madre pseudo invalida, sulla timidezza dei medici corteggiatori di Mina, ammaliati da lei, anche a loro insaputa.
De Giovanni è un giallista, per definizione, etichetta in verità alquanto risibile: c’è quindi qui anche un mistero, e un serial killer, legato alla consegna di rose rosse, un mistero enunciato effettivamente in codice grazie alla regolare consegna dell’omaggio floreale, come dire, un classico ditelo con i fiori.
Se poi l’enigma è simile a quello ideato nel romanzo prequel della serie dei Bastardi di Pizzofalcone, ebbene…poco male.
Il format di Maurizio De Giovanni è quello, come la protagonista di tutti i suoi libri, Napoli.
La città che ama, che come tutte le donne di cui ci s’innamora, ci esalta e ci fa dannare insieme.
Resta sempre bellissima, stupenda, merita rose rosse. A gambo lungo.
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The good doctor
Questo è un romanzo che racconta di un medico, che parla dell’esercizio della professione sanitaria, che descrive casi clinici, riferisce di camici bianchi e stetoscopi, per di più sapientemente ritratti da uno scrittore che sa perfettamente di cosa sta parlando, è stato un medico egli stesso.
Si realizza così il connubio perfetto: un buon libro, scritto bene da un bravo scrittore, oltretutto uno scrittore padrone della materia che tratta.
Non è cosa così scontata: un conto è informarsi, un altro è vivere realmente, sulla propria pelle, una particolare esperienza dell’esistenza.
Non solo, ma dati i tempi di ambientazione, si parla dell’epoca pionieristica della medicina, quanto malati e malattie sono gestite direttamente dal rapporto umano, non ancora mediato da macchine, analisi, indagini: una medicina d’ascolto, quindi, con tutte le conseguenze, anche emotive, che ne possono derivare, e che si prestano magnificamente a essere narrate.
Una medicina d’ascolto, dunque, abbiamo detto…l’ascolto richiede attenzione, e questa richiede predisposizione.
La predisposizione pretende empatia, ma non tutti ne sono all'altezza.
Soprattutto, per taluni l’empatia è una merce, non una qualità.
In estrema sintesi, questa l’essenza de “La cittadella” di Archibald Cronin, che parla dei mali, non necessariamente solo di quelli del corpo, di come s’insegna debbano essere considerati, di come sono curati, anche di come non sono sanati, ma soprattutto con che cuore, con che orecchio sono ascoltati i sintomi che dovrebbero aiutare il medico a capire.
Troppi medici, però, non ascoltano: sono sordi, liquidano i sintomi, non avvertendoli come segnali.
Ascoltano rumori, non la musica; i rumori li provoca il corpo, ma la musica viene dall'anima, ciò che differenzia un medico dal buon medico, è lo spartito che decide di seguire.
Il romanzo piace non soltanto perché è un libro scritto bene, e con competenza specifica, piace ed è un romanzo attuale, moderno, coinvolgente, perché Cronin, attraverso la storia professionale e umana del giovane protagonista, un medico scozzese che opera in Galles sul finire del secolo scorso, ci offre un agglomerato, una vera e propria cittadella d’insegnamenti etici, morali, virtuosi.
Racconta di comportamenti esemplari e irreprensibili, di attività rette, nobili, dabbene, ma fa ancora di più.
Indica chiaramente che il vivere con stile buono, leale, integro e degno, è e deve essere insito nella natura umana di per sé, l’unico che ci permette di definirci uomini, e uomini degni, degni cristiani.
Tuttavia, in chi sceglie di esercitare un’attività di guarigione fisica e morale, tali qualità vanno espresse all'ennesima potenza, con spirito di disciplina il medico deve imporselo, deve avere coscienza piena dell’onere e dell’onore che gli viene concesso con l’esercizio della sua scienza.
Lo impara a proprie spese il protagonista, l’esistenza del medico scozzese Andrew Manson è una vera e propria nascita, caduta e redenzione.
Intraprende con entusiasmo la professione medica, la esercita dapprima con abnegazione e spirito empatico di dedizione ai suoi pazienti.
Si perde poi per strada e intraprende una carriera di puro arricchimento, di egoismo e avidità di guadagno, all'opposto della carità e filantropia del suo precedente agire.
Ritrova infine se stesso e i suoi ideali medici, etici, scientifici, anche se a caro prezzo, si riscatta rimettendosi in carreggiata con umiltà e nuova responsabile consapevolezza.
Comprende cioè che la responsabilità dell’uomo e del professionista consiste appunto nel termine stesso, RESPONSE – ABILE, cioè capace di fornire risposte, ma non puoi rispondere se non ascolti attentamente la domanda nella sua interezza.
Torna a esercitare la professione, quindi, con dedizione e spirito di solidarietà con i suoi pazienti, come solo un medico, e un bravo medico, sa fare.
Perciò è un romanzo attuale, nonostante il decorso del tempo, un romanzo che spiega con chiarezza e onestà che un medico non è un guaritore, uno sciamano o uno stregone.
Nemmeno un manipolatore di sostanze o intrugli, neppure un guaritore, meno che mai un Dio.
Un medico è semplicemente un uomo alla sua massima capacità di ascolto, di compartecipazione, di empatia.
Lo suggerisce perfettamente, una volta di più, purtroppo o per fortuna, la cronaca d’oggi.
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Di tutto e di più
Questo notissimo titolo di Alexander Dumas padre è stato il prototipo del perfetto romanzo d’appendice, un racconto lungo di avventure varie edito in puntate, che richiamava puntualmente schiere di appassionati in religiosa attesa, fedeli al consueto appuntamento con l’uscita della puntata successiva.
E a ragione, perché mai come in questo racconto, un altro capolavoro dell’autore dei “Tre moschettieri”, si realizzava in pieno quel meccanismo letterario detto della fidelizzazione del lettore.
Questo rappresenta la soddisfazione maggiore di un autore, quello di sapere che i suoi lavori contano su uno zoccolo duro di amatori, che seguono con fedele e intensa partecipazione la sua storia.
I fedeli lettori si concentrano sulla lettura con attenzione degna di miglior causa, trepidano per le avventure del loro eroe riversato sulla carta, solidarizzano con questo, ne seguono letteralmente con il cuore in gola le sue alterne fortune.
Restano immancabilmente, e sempre, proprio sul più bello, delusi per la fine della puntata, perché ansiosi di seguire l’evoluzione degli avvenimenti, pertanto in febbrile attesa dell’uscita successiva, per riprendere il ciclo emozionale che tanto li gratifica.
Di tutto questo fu maestro Alexander Dumas, in virtù dell’abilità descrittiva, semplice ed efficace insieme, incisiva pur se espressa con prosa fluida ma scarna, che conta su pochi tratti elementari, delineati tenuto conto della platea dei lettori.
Inoltre, a questa si univano la sua fervida fantasia e l’indubbia capacità di suscitare “suspense”, la spasmodica attesa nel lettore, tenendolo in qualche modo direttamente coinvolto nei risvolti morali delle vicende descritte.
“Il conte di Montecristo” non è pertanto di per sé un classico, o un capolavoro della letteratura d’avventura, è contemporaneamente qualcosa di meno nella forma e qualcosa di più nel contenuto. Lo stile della scrittura non è colto o forbito, poiché il testo è indirizzato a una varietà di utenti differenti tra loro per motivi di censo, di cultura e di capacità di lettura, comunque non certamente un lettore erudito, secondo i canoni classici, più spesso erano lavori graditi dalla piccola e media borghesia e dal popolino con un minimo di capacità di lettura.
La sua fortuna sta tutta nel contenuto: esso è una summa, un condensato di elementi letterari di vario genere, un contenitore di tutto e di più tale da accontentare qualsiasi tipo di lettore.
Non solo; proprio per questo coacervo di generi, suscita sensazioni diverse, talora contrastanti: commuove e indigna, entusiasma e deprime, avvince ed esalta.
Questo è un romanzo di brave persone e di buoni sentimenti; è una storia d’amore filiale e di passione per la propria donna; è un racconto di giustizia e di tradimenti, di beghe politiche e differenze sociali; tratta di tesori, di ricchezze, di arricchimenti leciti o truffaldini, di suicidi e avvelenamenti, d’inganni e travestimenti, di duelli e di assassinii, d’infanticidi e amori proibiti e omosessuali.
E ancora, e oltre, e ancora oltre: di amore e di morte, di tutto e di più, non c’è lettore che non ne esca soddisfatto dalla sua lettura, perché rinviene inevitabilmente elementi narrativi che solleticano la corda giusta adatta a tutti.
Trovano soddisfazione qui chi ama il mare, gli amori inebrianti, l’epopea napoleonica; i castelli e le segrete, le fughe e le evasioni, i misteri e i tesori nascosti.
La ricchezza e la possibilità di cambiare vita, crearsi ex novo una nuova storia ed una nuova identità, porre rimedio alle ingiustizie e ricompensare i buoni, nascondersi e camuffarsi, sorprendere e rivelarsi, innamorarsi di nuovo e rifarsi un’esistenza lieta dopo tanto patire.
Il protagonista Edmondo Dantes è il prototipo della persona perbene, serio, onesto, lavoratore indefesso bravo e competente, figlio devoto e perdutamente innamorato della sua fidanzata.
Un giovane in procinto di spiccare il volo, di dare un costrutto rilevante alla propria esistenza umana e professionale, allorchè per una palese e crudele macchinazione ai suoi danni, è ingiustamente privato del suo onore e della sua libertà, perde tutto, dagli affetti alla reputazione, e ridotto in catene nella più tetra e inoppugnabile fortezza.
Dalla quale riesce, ovviamente in maniera rocambolesca, che libro di avventure sarebbe, se no, ad evadere, e diventa ricchissimo grazie ad un classico tesoro nascosto.
Da questo momento in poi si comporta come si comporterebbe chi, ai nostri giorni, venisse baciato in fronte dalla fortuna azzeccando una vincita multimilionaria al superenalotto.
La nuova condizione finanziaria gli permette una svolta epocale, come sogniamo tutti.
Si rifà un’esistenza, a suo piacimento, nel fisico e nell’origine, come i mezzi gli permettono.
Si vendica dei suoi nemici e accusatori, e nei modi più fini ed indicati all’uopo, in una sorta di legge del contrappasso, premia e ricompensa coloro che in epoca non sospetta erano dalla sua parte.
Come si vede è contemporaneamente giudice e giustiziere, angelo del bene e nemesi spietata, come farebbe piacere a chiunque esserlo nei confronti dei vicini prossimi della propria esistenza.
Chi di noi non ha mai sognato di togliersi qualche sassolino dalla scarpa, se solo la dea fortuna si decidesse a volgere il suo sguardo benevolo su di noi?
Attorno a questo nucleo centrale, Dumas si sbizzarrisce a creare intrighi, intrecci, personaggi vari e differenti, racconti e avventure dentro la storia principale, fa sfoggio di tutta la sua abilità di letterato, crea infine un romanzo che è la metafora dell’eterna lotta del bene contro il male.
Un romanzo solo per questo quindi da definire eterno e inesauribile, che riguarda e coinvolge tutti, ognuno trova qualcosa che gli piace in questa lettura.
Per questo, continua a essere letto. E riletto, che non è cosa che vale per tutti i libri.
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A poco a poco
Questo testo assai datato, in verità, la prima edizione è di oltre mezzo secolo fa, ha di recente ispirato uno degli ultimi racconti lunghi di Stephen King, “Elevation”.
Richard Matheson, a torto ritenuto uno scrittore di fantascienza, si rivela qui per quello che, in effetti, è: oserei dire un fine osservatore della natura umana.
Come altri suoi colleghi, e vale per lo stesso King che ha più volte rilevato quanto sia stato influenzato dalle sue letture, Matheson utilizza un espediente semplice e paradossale insieme.
Inventa una situazione ai limiti del verosimile, la esaspera fino a farla divenire insolita, e che come tale induce sorpresa e spavento, in pratica permette l’irruzione del terrore, del diverso, dell’ignoto nella comune, talora banale esistenza di qualcuno, e poi si limita a descrivere le reazioni dei personaggi coinvolti.
Traendone utili e significative, spesso disperanti, indicazioni sulla natura dell’animo umano.
Così ha fatto per esempio nella sua opera forse più famosa, “Io sono leggenda”.
Un libro che parla del mostro forse maggiormente rappresentato nei cinema di provincia dei suoi tempi, il vampiro; memorabili le interpretazioni del Conte Dracula di attori del calibro di Christopher Lee e Bela Lugosi.
Tuttavia, in generale un vampiro è un’eccezione, e gli umani gli danno la caccia: nel testo di Matheson invece, l’autore ribalta la situazione, lo fa divenire usuale.
La maggioranza delle persone sono vampirizzate, e danno la caccia all’unico umano deciso a non farsi vampirizzare, tenacemente attaccato alla propria umanità, deciso a non perderla.
Questa tenacia, quest’attaccamento alla propria natura umana, si riscontra ancora più evidente in questo romanzo.
In “Tre millimetri al giorno” il protagonista Scott Carey, a seguito di un fortuito ed incolpevole incidente radioattivo, vede sminuire il suo essere uomo, giacchè letteralmente diminuisce, perde inesorabilmente, con crudele progressione, tre millimetri al giorno delle sue dimensioni.
Da buon americano wasp, da ragazzone in buona salute alto e grosso, assiste impotente alla sua progressiva diminuzione, senza nulla potere per farle fronte, e con angoscia prende coscienza della pari contemporanea perdita di solidarietà ed empatia umana nei suoi confronti, da parte di tutti coloro che lo circondano.
Scott è progressivamente, ma inesorabilmente, lasciato solo ad affrontare il dramma che sta vivendo, anziché soccorrerlo e in qualche modo supportarlo nel percorso di presumibile infausto esito, quanti lo circondano, almeno originariamente deputati a considerarsi prioritari nei suoi affetti, lo lasciano a se stesso, lo abbandonano, lo rinnegano con paura, fastidio, disprezzo.
Per i suoi simili oramai è un mostro, un fastidio alla vista, un memento orrorifico da celare, nascondere, ignorare.
Per esorcizzare l’atavica paura per il diverso, il timore di venire in qualche modo contagiati, unti dall’infezione blasfema che lo rende “brutto”, “deforme”, indegno dell’appartenenza di genere, finanche coloro che più lo amano lo scacciano e lo ripudiano.
Scott deve guardarsi anche dai suoi pet, finanche il gatto di casa inizia a considerarlo più un inutile e insignificante trastullo vivente che una possibile, succulenta preda.
Un romanzo quindi che al lettore richiama inevitabilmente i testi del miglior Franz Kafka.
Tuttavia, a differenza di Gregor Samsa con la sua spaventosa metamorfosi, Scott non ha alcuna intenzione di nascondersi.
Tenacemente, non intende provare vergogna, intuisce che sono semmai i suoi simili a doversi vergognare per un simile, inumano, comportamento.
Allora reagisce, prova con tutti i modi di trovare ancora riscontro e solidarietà dai suoi sodali nonostante il suo essere inferiore, sì, ma solo nell’aspetto esterno, ha comunque conservato tutto quanto conferisce dignità a un essere umano.
E quale emozione è da ricercare come conferma di sé, che sia più umana ed empatica dell’amore?
Allora prova a innamorarsi, s’innamora, di una persona quasi alla sua pari, appunto piccola e diversa, ma non per questo priva di umanità: una persona nana, di piccola statura per definizione stessa.
Tuttavia, nemmeno questo funge da salvagente, va ancora perdendo dimensioni, è abbandonato una volta di più da tutti e tutto, deve oramai meramente sopravvivere, guardandosi dal non essere schiacciato con fastidio finanche dai familiari, reagendo con rabbia vittoriosa all’attacco di una creatura un tempo considerato innocuo e trascurabile come un ragno, ora trasformatosi in un vorace mostro pronto a divorarti, da incubo notturno dopo abbondante libagione, ma stavolta del tutto reale.
E giunge quindi il momento zero, quello oltre il quale penetra nella dimensione invisibile a occhio nudo, la sola nella quale può sperare ora di trovare pace, chissà. Sperare…
La speranza, si sa, è una tenace prerogativa tutta umana.
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On the air
Qualsiasi scrittore riversa parte di sé stesso in quello che scrive, inconsciamente o meno.
Una verità lapalissiana, diremo anche una logica conseguenza.
Ognuno di noi è frutto del proprio vissuto, siamo il risultato di tutti gli infiniti input che dalla nascita in poi ci hanno formato, qualsiasi stimolo sensoriale, educativo, relazionale, lascia una traccia pressoché indelebile sulla nostra personalità.
Le persone che ci hanno educato, gli amici, i parenti, tutta la varia ed eterogenea umanità con cui ci siamo in qualche modo confrontati e con cui abbiamo interagito, i luoghi e gli avvenimenti vissuti, lo stato sociale, gli studi, gli amori, le esperienze di vita, tutto ha contribuito a fare di noi quello che siamo. E le nostre letture, naturalmente.
Nessun uomo è esente da questo iter formativo, non lo è quindi nessun scrittore.
Stephen King è cresciuto appassionandosi fin da piccolo ad un certo genere di avvenimenti: e perciò nell’infanzia leggeva fumetti che parlavano di mostri venuti dallo spazio, scriveva raccontini a scuola con protagonisti dinosauri risvegliatosi nella moderna New York da un sonno millenario nei ghiacci.
Nell’adolescenza si sciroppava le serie televisive “Ai confini della realtà”, un nome che è tutto un programma; da giovane adulto era affascinato e leggeva tutto quanto riusciva a trovare di autori come Bram Stoker, Mary Shelley, Edgar Allan Poe, Howard Lovecraft.
Andava al cinema a vedere i cosiddetti B-movie, film realizzati con pochi soldi e pochissimi, elementari e patetici effetti speciali che raccontavano le imprese di mummie egiziane risvegliatesi dal sonno di secoli, morti viventi vari e mostri della laguna nera.
Insomma, non è che ci portava le ragazze a limonare, consolandole per i loro spaventi, come facevano tanti, no, a lui piaceva proprio vedere questo genere di spettacoli.
Tutto questo lo ha raccontato Stephen King in persona, in un suo saggio, “Danse macabre”.
Tra i suoi autori preferiti annoverava il suo preferito in assoluto, Richard Matheson, il celeberrimo autore di tantissimi romanzi di fantascienza, oserei dire romanzi distopici, in verità, tra cui ricordiamo il notissimo “Io sono leggenda”.
Tra gli altri suoi titoli, non possiamo non menzionare “Tre millimetri al giorno”, il preferito di Stephen King; in questo romanzo, Matheson descrive l’epopea di un tale Scott Carey, il quale in seguito ad un incidente radioattivo, osserva con sgomento al suo rimpicciolimento nella statura, tanto inesorabile quanto inarrestabile, nella misura appunto di tre millimetri al giorno…con le conseguenze del caso.
Un ottimo e originale spunto narrativo, che a King fece un certo effetto.
“Elevation” è un ottimo e originale omaggio di Stephen King a tutti coloro che direttamente o meno hanno contribuito a trasformare un banale insegnante di inglese grassottello e squattrinato, ma dotato di talento e indole creativa, in uno scrittore da milioni di copie vendute in tutto il mondo, osannato da legioni di lettori di diverse generazioni che, a torto o a ragione, lo hanno proclamato the King, il Re, il re dell’Horror.
Trattasi di un racconto lungo, più che un romanzo, in pratica un racconto che, a causa dell’estrema prolificità narrativa dello scrittore americano, non si riesce mai a delimitare nell’ambito canonico editoriale di racconto, ma neanche è un testo abbastanza vasto da definirsi un romanzo.
Un testo comunque completo, esaustivo e di qualità, all'altezza dei lavori migliori dell’autore, anche se un tantino sotto alla qualità di altri analoghi racconti lunghi, quali, per esempio, i quattro piccoli capolavori, contenuti nella raccolta “Stagioni diverse”.
In “Elevation” il protagonista, Scott Carey, guarda caso, stesso nome del protagonista del racconto di Matheson, si accorge che, giorno dopo giorno, per cause imprecisate, perde peso.
Una situazione tragicomica, all'inizio, da fare invidia ai milioni di sovrappeso e oltre nel mondo che quotidianamente litigano con la propria bilancia.
Situazione che degenera in tragedia, quando ci si accorge che niente e nessuno può arrestare quel fenomeno.
Carey perde peso, ma non perde volume; le sue fattezze rimangono inalterate, ma il suo peso tende inevitabilmente a diminuire.
Questo fenomeno lo porterà, inevitabilmente, ad una tragica fine: la diminuzione di peso, a causa della forza di attrazione gravitazionale, lo porterà ad una condizione di levità, dannosa al fisico, alla densità ossea, alla consistenza stessa degli organi interni, la stessa che subisce un astronauta sulla luna, dove l’assenza di gravità letteralmente ti sbalza nell’aria, on the air, ma senza tuta spaziale a salvaguardarti.
Come fa sempre, King prende come espediente questo fenomeno insolito, e spaventoso, come pretesto per scrivere di altro.
Lo scrittore Stephen King ci narra di altro: ci descrive qui l’atmosfera retriva, ottusa, arretrata che sembra essersi instaurata negli Stati Uniti all’indomani dell’elezione a Presidente di Donald Trump.
Agli occhi del democratico King, l’America trumpiana ha tirato fuori il peggio di sé, con questa nuova deriva politico sociale, è divenuta, da nazione aperta e solidale, con un deciso passo all’indietro, un paese retrogrado e oscurantista, un posto pericoloso perché ha riscoperto l’intolleranza, l’insofferenza, l’odio di genere.
Tutto quanto detto King lo riversa nella consueta, magistrale descrizione del boicottaggio sociale, bieco e retrivo, di un’intera cittadina nei confronti di una coppia di nuove venute, colpevole agli occhi di tutti, di tutto e del contrario di tutto solo perché omosessuale.
Il classico capro espiatorio delle miserie umane, il diverso, il non allineato, il mostro.
Una situazione assurda, inconsistente, vaporosa, del tutto assurda, da sparare in orbita per liberare le anime strette nelle maglie oscurantiste, un qualcosa di inammissibile, inconcepibile, inaccettabile, ingiustificabile nei tempi moderni e nel vivere civile di benessere e progresso.
Scott Carey allora effettua una decisa scelta di campo, la sola possibile per il “buono” della storia, e come l’omino disneyano di Up che vola con la sua casetta sollevata dai palloncini, si eleva a sua volta al di sopra delle miserie umane. On the air.
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Canzone
Franco Bordelli è un commissario di Pubblica Sicurezza, così come si chiamavano una volta, nei bei tempi andati i funzionari della Polizia di Stato.
In questo “Nel più bel sogno” lo ritroviamo in servizio presso la Questura di Firenze sul finire degli anni 60, il 1968 per intenderci, l’anno passato alla storia come quello della contestazione giovanile; è il protagonista seriale di molti dei romanzi dello scrittore fiorentino Marco Vichi.
Come per tutti i personaggi seriali, che per essere pubblicati in vari volumi sequenziali devono necessariamente aver conseguito un buon successo di pubblico, conta su un folto gruppo di lettori affezionato e fidelizzato.
S’intende quindi che per apprezzarlo al meglio andrebbero letti i volumi precedenti, in ordine cronologico di pubblicazione, giusto per farsene una prima impressione e prendere gradualmente confidenza con luoghi, caratteri e comprimari.
In questo caso, non lo ritengo però necessario, a mio modesto parere, perché Marco Vichi, sebbene il commissario Bordelli diriga la squadra omicidi, e quindi è necessariamente coinvolto a indagare su gravi delitti, non scrive gialli in senso stretto, credo sarebbe oltremodo limitativo etichettare Marco Vichi come un autore di mystery.
Tutt’altro: se argomento predominante nella scrittura di Vichi c’è, ed è la costante in questi libri, non è l’indagine poliziesca in sé, ma la fiorentinità dell’intera storia.
Attraverso le avventure di Bordelli, Marco Vichi ci parla di Firenze, direi che faccia addirittura di più, declama l’amore per la sua città.
Ne decanta i luoghi, le vie, i quartieri, specialmente quello storico, antico e caratteristico di San Frediano, lo stesso delle “Ragazze” di Vasco Pratolini, i monumenti, anche quelli meno conosciuti e fuori dai consueti giri turistici, le botteghe e i luoghi insoliti e curiosi, magari noti solo ai nativi.
Ne ricorda gli eventi storici, quali la disastrosa alluvione, anzi l’Alluvione, con la maiuscola, del 1966, che vide convergere sulla città giovani dai posti più disparati a salvare e porre in riparo strappandole alla furie del grande fiume straripato le ricchissime, uniche e inestimabili opere d’arte della città del Giglio, guadagnandosi così, questa meglio gioventù dell’epoca, direttamente sul campo, anzi sull’acqua, il titolo grandemente onorifico di Angeli del Fango.
Descrive i fermenti successivi di quel tempo, gli scontri nel 1968 tra studenti di vario censo sociale e politico e la polizia, la Celere, le squadre antisommossa dell’epoca.
Bordelli, poliziotto tutto di un pezzo o quasi, ligio più alla Giustizia che alla Legge, pur dovendo doverosamente parteggiare per i ragazzi altrettanto giovani ma in divisa, malgrado sia già avanti con gli anni non per questo risulta preconcetto nei suoi giudizi sugli scontri o scevro di genuina curiosità nell’approfondire i motivi del contendere, con fiorentino buon senso.
Ammira con discrezione ma con sincerità la contestazione dapprima goliardica e poi progressivamente virulenta di questi giovani, magari gli stessi che pochi mesi prima s’inzaccheravano a salvare i tesori dell’Umanità intera e non della sola Firenze.
Ne apprezza l’entusiasmo, gli ardori, la voglia di cambiare e migliorare, se possibile, una società troppo a lungo fossilizzatasi in canoni e limiti non più accettabili.
È attratto giovanilmente dalle nuove richieste e aspirazioni di giovani nella cui vitalità e voglia di fare e di cambiare si riconosce; è stato a suo tempo anche lui se vogliamo un contestatore, arruolandosi in guerra nel glorioso Battaglione san Marco e combattendo contro i tedeschi proprio nelle sue amate colline nei dintorni della città.
Ama la convivialità schietta e tutta fiorentina, e perciò Vichi lo descrive spesso ai tavoli del suo ristoratore preferito, Totò, che gli sciorina ogni volta i pezzi forti, buonissimi ma letteralmente laboriosi da digerire, della gastronomia fiorentina.
Non solo, ma spesso e volentieri raduna nella cascina, dove vive, gli amici storici, quelli incontrati durante e protagonisti di una vita di indagini, avventure, scorci insoliti e frammenti intensi di vita vissuta.
Una strana e variegata umanità, variamente assortita, sì, questo gruppo di amici di Bordelli, ma un tutt’uno nobile, magnifico, aristocratico, coeso con l’ arguta fiorentinità che pervade l’intero romanzo. Un’umanità usa a raccontare storie dopo la cena, Bordelli stesso è un appassionato cultore della lettura, colti e profondi sono alcuni dei suoi amici, non a caso siamo a casa del padre nobile della nostra letteratura. Marco Vichi trova così tempo e modo di elogiare titoli e autori a lui cari. Ecco allora i suoi amici con cui condivide l’esistenza, il medico legale Diotivede, il questurino Piras, il vecchio Dante, la prostituta Rosa, il delinquente Bottarini detto Botta, chef ufficiale delle serate culinarie a casa Bordelli, avendo acquisito pratica di alta cucina come addetto al vitto nelle patrie galere, finanche un nobile decaduto, e poi, ma non è una novità nei romanzi di Vichi, una vera ospitata per il misterioso Colonnello Bruno Arcieri, ex carabiniere ed ex agente segreto. Diciamo “ospitata” non a caso, perché per chi non lo sapesse, Bruno Arcieri è il protagonista seriale dei romanzi dello scrittore fiorentino Leonardo Gori, amicissimo di Vichi.
Come dire, una prova evidente del valore che Marco Vichi, da buon fiorentino, attribuisce all’amicizia e alla solidarietà umana, rinsaldata nell’unico modo consono al luogo, davanti a un bicchiere di buon Chianti.
E di converso, Bordelli indaga anche su una serie diversissima di omicidi, una catena di sangue, assassinii slegati tra di loro per movente, ambientazione, presunti colpevoli coinvolti nelle indagini; non si tratta di gialli, perché la soluzione è quasi banale, ma appunto per questo sono cronache reali, verosimili, direi comuni. Quelli che accadono normalmente in qualsiasi città.
A riprova che la professione di Bordelli è un di più: il commissario è il pretesto di Vichi per parlare di altro, anche di emozioni, anche di primavera, e naturalmente anche di amore.
Perciò è una buona lettura, consigliata, che si apprezza piacevolmente: Marco Vichi scrive bene, offre compagnia, fa trascorrere ore liete al lettore, quasi come cullandolo in un bel sogno, come recita una vecchia canzone di Don Backy, che si intitola…”Canzone”. Uno sberleffo da bischero!
Come dire, fai bei sogni, all’ombra della Signoria.
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Profumo agrodolce di donne e di agrumi
Questo è un romanzo datato, edito da una decina d’anni circa, non per questo meno bello e intrigante, attualissimo, una buona lettura, una storia ben scritta e ben raccontata, direi rilassante e ammaliante, semplice e complicata insieme come può esserlo una…bella ragazza del nostro sud, che ti affascina, ti attrae, ti fa sorridere, anche tribolare, penare e riflettere tutto insieme.
Insomma un romanzo che è esattamente come un’arancia, che è un signor frutto: sa essere bella tonda, sanguinella e zuccherina, ma ha anche un che di aspro e di tosto, si presta a numerose varianti, nudo e crudo, in spremuta, in torte o in scorze candite, insomma una frutta eclettica, come eclettica e multiforme sanno essere le donne, certe valenti ragazze in particolare.
A ben pensarci, le due metà di una bella arancia, le due circonferenze, dopotutto richiamano moltissimo i seni di una bella figliola, sono della misura giusta, tanto da essere facilmente contenuti in una coppa di champagne o nella mano di un gentiluomo.
Un po’ come accade per quelle simpatiche cassatine che si preparano in onore della santa patrona di Catania, S. Agata, le “minne” di Sant’Agata appunto; ma mentre queste sono bianco latte con ciliegina rossa, e si gustano al meglio in Sicilia, gli agrumi che intendiamo qui sono quelli originari della splendida Puglia, terra di masserie, olive, olio, burrate, puccia salentina, pizzica e appunto aranceti.
Sempre di profondo sud si tratta, ma volete mettere, tutta un’altra cosa, e la circonferenza delle arance del posto si prestano a rendere meglio il personaggio principe di Gabriella Genisi, di cui da poco è edito il suo ultimo “I quattro cantoni”.
Protagonista seriale di questo e molti romanzi a seguire della Genisi è Lolita Lobosco, per gli intimi Lolì, commissario di Polizia in quel di Bari, a cui la circonferenza delle arance però mal si adatta, in verità, trattasi di quel che si dice una bella ragazza prosperosa, avendo un seno di misura ben superiore, e con il frutto citato ha in comune solo la passione smodata con cui lo gusta in tutte le varianti, in spicchi come in preparazione culinarie varie, di cui è maestra appassionata.
Una specie di Montalbano in gonnella, quindi, ma assai diversa dall’eroe di Camilleri, la Lobosco prima di essere una poliziotta, svolgendo quindi un’attività considerata tuttora di appannaggio esclusivamente maschile, è una donna, e una donna assai in gamba anche.
Una delle donne moderne vanto del nostro Sud, fedele ai valori antichi e genuini e alle tradizioni, specialmente culinarie, della sua terra; e però una ragazza moderna, liberamente e femminilmente calata nel suo ruolo, che le calza a pennello proprio perché lei stessa la adatta a misura di donna.
Veste la divisa, in tutti i sensi, metaforicamente, senza nulla concedere alla differenza di genere. Non è il commissario Lobosco, è la commissaria; non è un poliziotto, è la poliziotta; lo rimarca, lo sottolinea, semplicemente pretende di vivere la sua realtà di genere, svolge con efficace normalità il suo ruolo, la sua professione senza nulla cedere agli stereotipi che ritengono inammissibile ad esempio un poliziotto con i tacchi.
Lolì i tacchi li porta, spesso e volentieri, tosta e dalle idee chiare, ben decisa a farsi largo nel retaggio simil medievale del suo ambiente di lavoro, incurante dei lazzi, dei commenti maschilisti e fastidiosi, delle pressioni e considerazioni inopportune e talora affatto gradevoli cui è sottoposta.
Una donna che vive e lavora tra i maschi, come tante, dunque, e che a differenza di molte sa farsi rispettare benissimo, nonostante i pessimi maschi che abbandonano sulla faccia della terra: e solo per questo suscita immediatamente la nostra simpatia.
Le ragazze determinate e capaci, ben decise a farsi rispettare, di fatto, o inconsapevolmente conseguono consenso unanime, inutile discuterne oltre.
Poi è anche una bella donna, ben descritta; e attraverso il suo personaggio, Gabriella Genisi ci immerge nella cultura, nei luoghi, nelle usanze e nelle tradizioni di un territorio, il suo, quello di Bari, e della Puglia, usando pure sfiziosissimi modi dialettali d’intendersi, esattamente come fanno i colleghi del commissariato di Vigata di Camilleri.
Descrive il sud, Gabriella Genisi, attraverso quello che potremmo definire il suo alter ego Lolita Lobosco, il sud dell’Italia splendido e splendente, esecrabile e sgradevole, tutto e il contrario di tutto, che poi è quello che rende unico e affascinante, quantunque le pecche, il nostro Sud.
E lo descrive attuale, vigente, reale, ci parla di violenza carnale, vera o presunta, di amore, di passioni vecchie e nuove, di sesso tanto per dire e tanto per fare, di tradimenti, di avidità, di difetti fisici tramandati su base genetica, di femminicidio, di misteri svelati tramite un indizio trascurabile inciso su…un’arancia, perché no.
Lolita Lobosco non risolve gialli e misteri, non solo almeno: essenzialmente, i romanzi di Gabriella Genisi ci mostrano, con semplicità, quanto meglio le donne sanno fare le cose che certa cultura vuole siano prerogativa solo maschile.
Non è questione di competizione, ma è che a loro riesce meglio, facile, come sbucciare un’arancia.
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Non si scherza con i sentimenti
Confesso che nutro un debole per “Carrie” di Stephen King: perché, dopo averne avuto un primo timido assaggio con la raccolta di sfiziosissimi racconti de “A volte ritornano”, questo è stato il primo romanzo che ho letto dello scrittore americano, e…all’epoca ero poco più che ventenne, King era ancora misconosciuto al grande pubblico, cosa inverosimile oggi, aveva esordito proprio con questo romanzo, da pochissimo pubblicato in Italia. Un tuffo nella mia gioventù, quindi.
“Carrie” dunque, ed il successivo primo film omonimo tratto dal libro, con la regia a firma di Brian de Palma, rappresentò il trampolino di lancio dello scrittore del Maine, il suo successo iniziale che farà da traino dei fortunati romanzi successivi.
Pur essendo il suo primo libro, e quindi per questo con uno stile di scrittura accattivante ma ancora acerbo, presenta tuttavia un’ottima fluidità e piacevolezza di stile e di lettura, anche se non proprio ancora l’eccelsa capacità descrittiva nel profondo e nel dettaglio di luoghi e persone, di cui darà prova ampia prova successivamente, rivelandolo come un vero, bravissimo scrittore a prescindere dai temi in cui si cimenterà.
Temi che, come da etichetta, a mio parere assai ingiusta, recitano che Stephen King è sì un King, un Re, ma “Il Re dell’Horror”.
Stephen King non è a mio modesto parere uno scrittore dell’horror in senso stretto, ma egli è invece, tra le altre cose, essenzialmente un osservatore, un attento scrutatore dei meandri dell’animo umano, ed un insigne descrittore degli stessi.
In particolare, è un insegnante di lettere, per chi non lo sapesse, quindi anche per indole è particolarmente attento ad un’epoca della vita che egli considera la migliore del corso dell’umana esperienza, quella più tenera e delicata, più magica e poetica, più sensibile e delicata, più fine, più dolce, più emotiva: l’età della primissima adolescenza.
Guarda caso, è l’età anche più impressionabile dell’umana esistenza, e perciò l’età in cui la curiosità è particolarmente pungente, la fantasia fervida, la voglia di sapere, di conoscere, di vedere oltre le apparenze, sono fortissime, tenaci, in un’ottica non più infantile ma non ancora freddamente razionale, tipica dell’età adulta, e si cede perciò facilmente e docilmente al fascino dell’horror.
L’horror spaventa, ma affascina; l’horror terrorizza, ma incuriosisce; ed i maggiori consumatori dell’horror in tutte le sue forme sono proprio i ragazzini della prima adolescenza, perché non credono più alle favole, certo, e però credono ancora nelle storie “strane”, non sono più bambini, vero, ma nemmeno abbastanza grandi da limitarsi ad etichettare come illusorio ciò che non arrivano ancora cocciutamente a spiegare solo con la ragione.
Perciò King parla di adolescenti, dell’adolescenza, si incanta per quell’età, e perciò indirettamente scrive di horror, ma lo fa non per impaurire il lettore e come attività fine a sé stessa, ma utilizza l’horror come un artifizio, come un pretesto, uno specchio riflettente che appunto riflette ben altra realtà e considerazioni.
Carrie White, la sua protagonista, è un’adolescente, ed una adolescente tormentata in tutti i sensi, in famiglia, a casa come a scuola.
Maltrattata nel fisico e nel morale dalla propria madre, una persona letteralmente fuori di testa, bullizzata a scuola, anche e soprattutto in conseguenza di questo, privata com’è stata di qualsiasi corretto iter educativo ed affettivo di qualsiasi genere, sottoposta a continui stress intollerabili per qualsiasi personalità in divenire, in quell’età così fragile, vulnerabile, sensibilissima, resta comunque ostinatamente, malgrado tutto, con la caparbietà tipica degli adolescenti, una persona buona, dolcissima, tenera e amabile, che prova in qualche modo a focalizzare altrimenti la rabbia distruttiva che non è altro che una forma di difesa esasperata contro i crudeli assalti esterni.
Poi è King che con la sua fantasia e la sua arte trasforma tale rabbia giovanile in un potere paranormale, quale la telecinesi; ma questo superpotere è in realtà un simbolo, il simbolo della rabbia distruttiva allorché si scherza coi sentimenti di un adolescente.
Perché a quell’età, soprattutto in un adolescente femmina, che da poco ha avuto il menarca, l’anima è sensibilissima, fortemente emotiva, eccitabile, fenomenica proprio, e allo stesso tempo fragile, fine, facile a lacerarsi, estremamente recettiva ed impressionabile: non si scherza con i sentimenti di un adolescente. Perché altrimenti le conseguenze saranno disastrose, distruttive, letali.
Ecco perché spesso King nei suoi romanzi parla spesso di adolescenti, e adolescenti o anche bambini o giovanissimi che per reazione, per difesa, per le nefandezze degli adulti a cui sono sottoposti rivelano poteri insoliti, paranormali, che non sono altro che meccanismi di difesa.
Sono adolescenti i protagonisti dei suoi maggiori successi: da Carrie White di “Carrie” con la telecinesi a Danny Torrance di “Shining” con la telepatia a Charlie McGee di “Firestarter” (L’Incendiaria) dotata della pirocinesi, fino a tutti i Sette Perdenti, i ragazzini protagonisti di “It”.
Sono adulti ma con la purezza, l’onestà, l’innocenza e la capacità di credere e vivere in pieno certi valori, con l’entusiasmo travolgente tipica degli adolescenti, gli Stu Redman ed i Larry Underwood di “The Stand” (L’ombra dello scorpione); sono ragazzini infantili mai arrivati all’adolescenza o arrivateci male, anche certi personaggi negativi, sfortunati, vittime loro malgrado come l’Annie Wilkes di “Misery”. E via così.
E qualcuno ancora crede che King scriva di horror, di sangue, di splatter.
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Il nascondino
L’ambientazione del “Gioco di Gerald” di Stephen King è quella che già altre volte lo scrittore del Maine ha utilizzato come artifizio letterario per raccontarci le sue storie.
Non è nuovo infatti per King l’espediente della “camera chiusa”, utilizzato per esempio da diversi giallisti: lo ritroviamo già nel racconto lungo “Nebbia”, che si svolge in un supermercato, o in “The Dome”, dove l’azione è rigidamente delimitata entro i confini invalicabili, addirittura, di un’intera cittadina.
Questo escamotage tipico dei mistery, e qui subito il pensiero corre agli inimitabili piccoli capolavori come “Assassinio sull’Orient. Express” o “Dieci piccoli indiani” della Christie, questo ambientare gli eventi in un’unica, claustrofobica location, dove i fatti si svolgono in un ambiente chiuso che non permette ai personaggi di escludersi dallo scorrere degli eventi, né ad altri esterni di intervenire, permette di mettere in scena un vero e proprio teatrino di mistificazioni e depistaggi.
Il re dell’horror, come certa critica riduttiva si ostina a classificarlo, non scrive gialli, ma appunto storie “di paura”. Dove però la paura suscitata ad arte in fondo non è che un sentimento apicale posto in cima al miscuglio di emozioni, sensazioni, capacità, conoscenze ed etica che caratterizza il cuore delle comuni persone di ogni giorno. Una volta solleticata ad arte, la paura dà poi la stura al rigurgito di tutto quanto acquisito nel cuore dei protagonisti. La paura, l’horror, il terrore permette ad ognuno di mostrare il meglio, o il peggio, di sé stesso. Stephen King lo sa benissimo, prende a prestito il babau collettivo che ciascuno ha in sé, memento delle proprie esperienze negative vissute, mette davanti a ciascuno il proprio spauracchio personale, che magari in apparenza avrà l’aspetto di un vampiro, di un uomo lupo, di uno zombie, ma nella realtà sono ben altri i mostri di cui aver paura.
La pedofilia, l’incesto, gli abusi sessuali, questi e altri, il peggio delle nefandezze umane, questi sono i veri, unici, autentici mostri di cui aver paura.
Perciò ciascuno è condotto a riflettere, a rivedere e a esorcizzare a forza i propri mostri interni, unico sistema per recuperare e recuperarsi, superare una volta per sempre i limiti che le azioni malvagie, fatte e subite, impongono al corretto ed esemplare fluire dell’esistenza.
In questo che è tra i meno orrorifici romanzi di King, la protagonista Jessie Mahout si isola in un cottage sul lago insieme al marito Gerald, e si sottomette a lui come vittima passiva in un gioco erotico, volto più che al piacere sessuale in sé, a cercare di recuperare un rapporto coniugale ormai sfilacciatosi da tempo.
Sennonché per una serie di sfortunati imprevisti la povera donna si ritrova sola e abbandonata in tale luogo sperduto, costretta ammanettata alla spalliera di un letto.
In balia degli eventi, quindi, ed in balia dei deliri onirici che sempre si instaurano in situazioni parossistiche di stress estremo.
Da un gioco erotico si passa quindi ad un vero e proprio gioco del nascondino: le lunghe ore di forzata immobilità, lo stress e la tensione, inevitabilmente inducono la donna ripercorrere in un vero e proprio flash back continuo, in cui ella stessa cela e nasconde a sé stessa pagine dolorose della propria esistenza.
La liberazione di Jessie passa quindi necessariamente per una presa di coscienza, per l’acquisizione schietta e completa, per la consapevolezza piena del proprio vissuto esistenziale, deve dissipare a forza le ombre che per tanto, troppo tempo l’hanno ammanettata ad un vissuto con colpa, e non per colpa propria.
Jesse deve riprendere in mano le redini della propria vita, riconsiderare gli eventi per quello che in effetti furono, rielaborarli come va giustamente rielaborato un lutto, ed infine acquisirlo ed accettarlo per giungere a…fare tana, liberarsi nella mente e inevitabilmente anche nel fisico.
Una mente libera dagli orrori subiti, infatti, inevitabilmente si attiva con idee qualitativamente migliori, non più restrittive dalle paure trascorse, che porteranno alla liberazione anche del fisico costretto sul letto.
Jessie recupera sé stessa, e da quel momento si libera anche dei propri mostri personali, non ha più bisogno di giocare a nascondino con i suoi segreti inutilmente rimossi, e può quindi affrontare serenamente la realtà, che non le offre più ombre malefiche con sembianze note, ma semplicemente effetti ottici talora illusori, certo non mostri reali, ma semplicemente giochi di luce, di luce lunare.
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IL SENNO DI PRIMA
Forse meno conosciuto dei capisaldi della letteratura distopica, opere notissime ormai leggendarie, come “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, il celeberrimo “1984” di George Orwell e il più recente “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood, e scritto qualitativamente con forma, stile e fluidità di lettura un gradino sotto i precedenti citati, è questo “La notte della svastica” di Katharine Burdekin. Un romanzo che presenta però delle caratteristiche sue peculiari, che denotano un’abilità, una fantasia, un modo di elaborare la realtà del proprio tempo e mostrarla con arte e sensibilità, raccontarla con un “sentito” forte.
Indizio di un’emotività intensa dell’autrice, che riesce a captare con assoluta chiarezza certi sentimenti ancora ai primordi nel suo tempo, addirittura ben celati e mistificati dall’autorità vigente all’epoca, e che però sono veri, reali, possibili, e solo per poco, e per fortuna, non si sono fattivamente realizzati come nelle funeree previsioni.
Il romanzo, infatti, è stato scritto nel 1937, ben prima della definitiva affermazione totalitaria del nazismo, dello scoppio della seconda guerra mondiale, dei patti di acciaio, delle innumerevoli vittorie nella guerra lampo delle forze tedesche, dell’alleanza con il Giappone per la creazione di un malefico e malaugurato impero mondiale.
Eppure in qualche modo se li configura tutti, o quasi, e in epoca non sospetta, quasi l’autrice fosse in possesso di una futuristica macchina del tempo che le permette di vedere in anteprima il tempo che sarà, e resocontarlo con il senno di prima.
Profetizza fatti realmente realizzatisi, come l’avvento di Adolf Hitler, non tanto alla guida totale della Germania nazista, quanto al suo ingresso in pompa magna nel Valalla dei nibelunghi, la mitizzazione ed esaltazione estrema, anche nel fisico, del piccolo e insignificante caporale austriaco, che lo porterà in pompa magna nell’empireo degli dei per tutti i tedeschi, sull’onda della cavalcata delle Valchirie di Wagner.
L’Adolf Hitler capostipite della nuova società a venire, qualche secolo dopo la fine del vittorioso per lui conflitto mondiale, come efficacemente e verosimilmente descritto in questo romanzo, non sarà certo un misero pazzoide come in realtà era, piccolo e con i baffetti, schizofrenico, megalomane, minato nel morale e nell’etica, burattino nelle mani dei poteri industriali antisemitici della Germania dell’epoca,.
Bensì il primo motore immobile della mitologia germanica, generato e non creato, letteralmente proiettato fuori armato di tutto punto dal cranio di un dio, alto, bello, invincibile, come Atena mitologica fuoriuscita bellamente dal cranio del padre suo e di tutti gli dei Zeus.
Un Adolf Hitler direttamente giunto in Germania a miracolo mostrare dal paradiso degli eroi morti in battaglia, nel quale essi giungono guidati dalle valchirie e, tra esercizi d’armi e banchetti, si preparano alla battaglia finale in difesa e per l’affermazione del nazismo e dei cavalieri eletti.
Un epilogo surreale, tanto più magistrale perché ideato, scritto e edito appunto con il senno di prima, quando ancora pochi prendevano effettivamente sul serio il cancelliere tedesco e l’intera tragica faccenda, e l’epilogo era ben lungi dall’apparire scontato.
Quello che lo contraddistingue ulteriormente, inoltre, è il senso vivissimo del posto in cui sarebbe facilmente relegato l’universo femminile in toto in questa simile prospettiva.
Come nei romanzi distopici precedenti, come in quelli dell’Atwood in particolare, è la donna, la prima vittima di un simile stato di cose.
In un universo marziale e maschilista, militarista e guerrafondaio, ignorante, rozzo, barbaro e triste non può esserci posto e ruolo per amore, garbo, gentilezza, empatia e…logica umana.
Non può essere ammesso che in posizione subordinata il pianeta donna, quindi: che proprio per il suo valore intrinseco di meraviglia, tenerezza, attenzione per l’altro, destabilizza un simile scenario maschile.
Sempre quanto l’uomo si sente minacciato nella sua supremazia di genere, reagisce con violenza: non fa eccezione un simile futuro per quanto solo inventato, in cui la donna è relegata in una misera e disgraziata condizione di mero oggetto sessuale, privo di qualsivoglia diritto o pretesa, volto al piacere del maschio e alla procreazione necessaria di nuovi soldati, di nuovi eletti.
Una società dove addirittura il massimo disprezzo per la donna è dato dall’esaltazione lirica dell’amore omosessuale, da preferire alla copula con l’essere inferiore donna, per quanto invece indispensabili ai fini di ripopolamento.
Una storia triste, quindi, con un epilogo tristissimo sui destini dell’umanità, sennonché come spesso accade, in una simile assurda costruzione campata in aria malamente strutturata, basta un solo particolare, un mattone sfilato alla base, a fare crollare miseramente tutta una costruzione all’apparenza stabile.
Un singolo mattone, magari un libro che un mattone a ben pensarci assomiglia, oppure un qualsiasi altro trascurabile particolare come una vecchia foto in bianco e nero, è più che sufficiente a far venir meno una costruzione assurda, che poggia su fondamenta inesistenti.
Una foto per esempio che ritrae un piccoletto con i baffetti a spazzolino in colloquio con un essere inferiore: tutto il castello di assurdità viene facilmente meno, basta così poco a smontare l’assurdo.
Per fortuna, distopia o meno.
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Un passo indietro
“L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre” a firma della scrittrice, e per inciso anche insegnante, Marilù Oliva sembra, a una prima impressione, una semplice, anche gradita, rivisitazione del poema omerico. L’ennesima, d’altra parte.
Niente di più sbagliato, a mio parere, non è questo il nostro caso, né l’intendimento originario. Marilù Oliva non ci presenta alcuna rivisitazione, non ci offre una versione riveduta e corretta delle peregrinazioni di Odisseo, semplicemente espone lo stesso testo, con l’identica trama, presenti i soliti noti personaggi, stabili nell’immaginario letterario collettivo.
Il tutto, però, semplicemente visto da una diversa prospettiva.
Un punto di vista, un’angolazione differente, senza nulla inventare ex novo.
In estrema sintesi, infatti, la tesi, quanto mai valida e incontestabile esposta in questo libro, è quella di rimarcare il concetto che l’autore o gli autori del racconto del decennale viaggio di ritorno a casa sua di un eroe greco, anziché incensare l’Odisseo, avrebbe o avrebbero fatto meglio a puntare l’indice altrove.
L’intero poema avrebbe dovuto a ragione intitolarsi diversamente, ma soprattutto sarebbe dovuto essere declinato in genere diverso, al femminile, perché le vere, uniche, principali protagoniste del poema, e tutte di un certo spessore, sono esclusivamente loro, le donne.
Quelle che da sempre, a torto, sono considerate le comprimarie del poema, le figure relegate quasi nei ruoli di spalla di Ulisse, sono in realtà la “conditio sine qua non” l’intera storia non avrebbe mai potuto realizzarsi.
Non è su Ulisse che va puntato lo spot, o almeno non solo su di lui; i riflettori vanno puntati, con pari dignità, sulle protagoniste femminili onnipresenti in queste pagine.
Marilù Oliva si limita a indicarcelo, e non altro.
Sembra il suo un ripetere un particolare trascurabile, è invece un valente servizio sociale in forma letteraria quello che ci elargisce, notevole e rilevante di questi tempi.
Tempi in cui, ancora, tuttora, senza che se ne veda la fine, la luce in fondo al tunnel, s’insinua in pubblico, e neanche troppo velatamente, la necessaria netta distinzione di ruoli e di valori tra uomini e donne, se ne suggerisce al sempiterno “sesso debole” la posizione defilata, manco fosse un gioco dei quattro cantoni, quando invece è ad esempio Ulisse, nel nostro caso, con tutta evidenza, a dover fare un doveroso passo indietro.
Non è quello di Marilù Oliva un lavoro politico inneggiante al femminismo, non è un incensare alla parità di genere, è il testo epico differentemente sottolineato, e pure ben scritto, tra l’altro, ricalca il lavoro di Omero, con quello in più di ristabilire la realtà letteraria dei fatti.
Certamente l’”Odissea”, per una falsa e determinata ridondanza, è una storia che ci sembra incentrata esclusivamente su Ulisse, in realtà essa è una storia raccontata dalle donne che vivono con lui le sue avventure, con uguale partecipazione e dignità scenica.
Ulisse è un eroe unico, e multiforme: è ugualmente abile in vari ruoli, come guerriero e come amante, come diplomatico e come marinaio, come stratega e marito, è astuto, intelligente, scaltro, curioso.
Certamente: e però necessita sempre di un supporto femminile per mostrare al meglio ciascuna delle sue caratteristiche; ha finanche una dea, Atena, schierata dalla sua parte.
A ognuna delle sue versioni caratteriali, corrispondono, infatti, altrettante eroine.
L’amante formidabile, l’uomo prestante e bellissimo, si confronta con Calipso, l’emblema della donna innamorata, attaccatissima al suo uomo, che come tutte le donne innamorate si rassegna a perderlo, con dignità seppure a malincuore, non tanto perché costretta dagli dei, ma perché vedendolo preso perdutamente da altro pensiero.
Solo una donna ha sensibilità e nobiltà d’animo tali da rassegnarsi a lasciar andare chi per lei ha solo il corpo da dare, ma non anche il cuore: nessun uomo se ne farebbe simile scrupolo, anche ricorrendo alla forza.
Sa essere diplomatico e affascinante Ulisse con Nausicaa, che certo è poco più di una bambina, una ragazzina, ma è solo per il suo intervento pietoso che è rimesso in piedi.
Quanta saggezza, quanta umanità in questa giovane donna, che mostra subito di sé l’empatia innata di genere, l’esatto inverso dell’egoismo e della insensibilità degli uomini, quanto espone un pensiero quanto mai attuale: “Nessun migrante è un uomo qualunque, nessuno merita di essere ignorato. Dietro ogni esule si nascondono storie che tutti dovremmo ascoltare attentamente, perché potrebbero ribaltare ogni pregiudizio”; quasi a suggerire nessun “porto chiuso”, nessun “prima i feaci”.
È affascinante e curioso, Odisseo, ma non superiore in scaltrezza con Circe: la maga, o presunta tale, sa perfettamente che, anche nella testa dell’eroe greco, per quanto illuminato, è ben fissa e radicata l’idea che “…la donna, nel nostro tempo antico, serve solo per procreare o dedicarsi alla famiglia, o accondiscendere al piacere dei maschi”; quindi si difende, e alla grande anche, devono intervenire gli dei perché l’eroe possa allontanarsi dall’isola del dott. Moreau dove svernava.
È marito devoto di Penelope, ansioso di rivederla, combatte e si sbatte in fatiche per ritornare da lei…che non gli è da meno, proprio no, un compito il suo assai più difficile nel frattempo della sua latitanza, tenendo a bada da sola, con astuzia e intelligenza solo femminile, una banda di pericolosi latenti stupratori, prima ancora che usurpatori del trono; una donna, una moglie, che come solo una donna sa fare alla fine di tutto può ben considerare: “…Sono di nuovo al tuo fianco, amore mio. Ci sono sempre stata”.
Il ragazzo, intanto, con lei ci stava accanto solo con il pensiero, non anche con il corpo.
Un obiettivo punto di vista, un modo originale per rileggere il poema omerico, un gran bel libro questo di Marilù Oliva; che ha il gran merito artistico di ricordare, non a caso è un’insegnante, con semplicità e incisività insieme, l’importanza di insegnare i valori, oggi pericolosamente in decadenza, del rispetto, dell’accoglienza, della solidarietà.
Solo in questo modo, è tutto il genere umano che avanza, a fianco a fianco, con pari dignità, e nessuno resta un passo indietro, com’è giusto che sia: questo sì, un gesto epico.
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GIONA CHE VISSE NELLA BALENA
Il tema di “L’inverno di Giona” è l’eterno dilemma tra bene e male in cui ciascuno quotidianamente oscilla, e perciò di conseguenza il romanzo parla di fare e subire, di giusto e sbagliato, di sanità e pazzia, è un romanzo multiplo quello di Filippo Tapparelli, è una storia di moltitudine di emozioni e perciò emoziona ai più, piace a tanti, avvince tantissimi, incolla chiunque alle pagine, si presta a diverse letture e rivisitazioni, e, però il tutto riconduce, con semplicità e maestria, all’estrema essenzialità dell’esistenza umana.
Non è più un bambino, non è ancora uomo, Giona: e nella sua breve esistenza, cresciuto dal suo unico parente, il nonno Alvise, non ha mai provato nulla più di un sacco di botte elargitegli con spietato intento pedagogico dal vecchio, e nemmeno un ricordo.
È un nemico immane, il vecchio, potente, perché è il capo temuto e riconosciuto dall’intera piccola comunità montana in cui si trova la sua casa; gli altri paesani, sarebbero anche disponibili a mostrarsi umani, caritatevoli, nei confronti del giovane, a condividerne ricordi ed esistenza, ma il carisma, la violenza, l’autorevolezza del vecchio è spauracchio sufficiente a farli desistere, loro malgrado.
Quel nemico, in ultima analisi, Giona deve affrontare, una volta messo alle strette proprio dal vecchio, dinanzi all’ultima insana, sporca, abietta, estrema scelta.
Per farlo, e per vincere, per ucciderlo e liberarsene e liberare il paese intero, per riconquistare sé stesso e la propria coscienza sepolta nel dimenticatoio, deve compiere un atto coraggioso e rivoluzionario insieme, un percorso di crescita e di consapevolezza.
Deve cioè terminare di rifugiarsi una volta per sempre nell’oblio soporifero della quotidianità rituale, assurda e brutale, come può essere ad esempio il forzare le dita forti nel piegare rami intrecciati a costruire gerle inutili, destinate a trasportare il vuoto.
Deve lasciare il rifugio sicuro del ventre della balena, farsi vomitare sulla riva dal grosso pesce, un’interiorità che gli è stata utile per troppo tempo, per anni, per ottenebrargli i ricordi, allorché intende che sono proprio questi, da tempo rimossi, i giusti terapeutici mentori per il riappropriarsi della propria esistenza.
Perciò la rinascita di Giona, e la sua liberazione, sorprende ed è stupefacente insieme
Il rifugiarsi di Giona nel ventre della balena, infine, non è stato per nulla un’evasione da una realtà difficile, una via di fuga, un escamotage per venir meno alle proprie responsabilità, tutt’altro, è stata essa stessa una scelta, ma una scelta di martirio.
A un bambino però, non gli si può accollare un martirio.
Un bambino ha in sé la saggezza innata del Bene, prima che gli adulti si coalizzino nell'estirpargliela.
Un bambino non martirizza, non fa male, non può, per definizione stessa, un bambino aiuta, specie se gli è espressamente richiesto.
Gli adulti, che bambini non sono più, questo non lo capiscono, lo hanno rimosso dai loro ricordi, non si fanno scrupoli di versare sofferenza anche nell’animo di un innocente.
Aiutare però stanca; e allora il giovane anela il riposo, il riparo; dopotutto un giovane altro non è che un seme, e i semi riposano al meglio sotto la neve, durante l’inverno, l’inverno di Giona.
In attesa della primavera, quando dal terreno, liberato dalla neve, puoi raccogliere sassolini.
E lanciarli felicemente in alto, finalmente.
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E INTANTO IL TEMPO SE NE VA
Si suol dire che ogni scrittore riversa sempre parte di se stesso in quello che scrive.
Non c’è da dubitarne; a rigor di logica, ognuno di noi, nel bene e nel male, non è che il risultato del nostro vissuto, del nostro luogo di nascita, degli influssi inevitabili della famiglia, degli innumerevoli input quotidiani stimolanti la nostra crescita individuale, e degli studi, delle esperienze di vita, degli amori, di quello che abbiamo imparato, i libri letti, i film visti, quanto appreso e sentito.
Uno scrittore racconta storie, magari inventa di sana pianta, mette su carta castelli in aria e temi di fantasia, ma sempre, volente o nolente, si traccia, semina indizi che a se stesso riconducono.
Traspare dalle righe, la sua persona; non fa eccezione Gianrico Carofiglio, e perché mai dovrebbe, data la fortuna arrisa al suo più noto personaggio letterario, l’avvocato Guido Guerrieri.
Quanto di Carofiglio c’è in Guido Guerrieri, è palese nell’evidente e onnipresente atmosfera leguleia che aleggia in tutti i suoi fortunati romanzi precedenti, aventi a protagonista l’avvocato barese: dal primissimo “Testimone inconsapevole” a “A occhi chiusi”, da “Ragionevoli dubbi” a “La regola dell’equilibrio”.
Tutto riconduce alla giurisprudenza, le sue storie testimoniano in maniera splendida tutta la sua cultura giuridica di Magistrato, attività precedente alla scrittura, e predominante per la maggior parte dell’ esistenza di Gianrico Carofiglio.
Intendiamoci subito: Carofiglio non è un autore italiano di legal thriller alla John Grisham, non sforna gialli ingarbugliati risolti dall’investigatore di turno, anzi più spesso i delitti su cui Guerrieri è chiamato a far luce sono anche banali, in sé e per sé.
Guerrieri non è un Azzeccagarbugli che conduce il lettore tra falsi indizi e memorabili colpi di scena alla sorpresa finale di un colpevole insospettabile, tutt’altro, la maggior parte delle azioni si svolgono nelle aule di tribunali, con escursioni tra i fondamenti del diritto, delle regole costituzionali dell’equo processo, del “favor rei”, del “in dubio pro reo”, dell’onere della prova.
Carofiglio snoda e disfa agilmente l’ iter procedimentale e processuale del suo raccontare, è intriso dalla materia, la domina e la padroneggia da maestro, e si vede, poi su questo tessuto giuridico sciorina il suo lato letterario. Con alterna fortuna.
È un altro Guerrieri quello che ogni tanto fa capolino nelle sue storie, è un Guido Guerrieri che ad esempio si mantiene in forma picchiando di buona lena su un sacco da pugile, fissato insolitamente al soffitto del salotto di casa.
Una sistemazione originale per quest’attrezzo sportivo, quasi a indicare in forma letteraria il suo ostinarsi a portarsi a casa, nel salotto buono, e quindi nel posto più rilassante della propria abitazione, il lavoro d’ufficio cui ci si dedica anima e corpo per amore della giustizia e della verità, sfogando in questo modo, con i guantoni, gli stress umani e le frustrazioni da cavilli giuridici cui lo costringe spesso la sua professione.
Come voler affermare: Guerrieri è un eroe perché stakanovista del suo lavoro, cui va sempre il suo pensiero. E ancora…
Guido Guerrieri diviene più un letterato che un legale, allorchè lo vediamo in giro per la città, a trascorrere le notti a discettare di libri e di etica con gli abituali, e insonni, frequentatori notturni delle piccole librerie indipendenti della città.
Lo scopriamo nella sua umanità, impariamo a conoscerlo libero dalla toga e dai codici quando ripercorre le scelte di studi e obiettivi nel proprio divenire, si confronta con colleghi e dipendenti, vive il suo amore corrente e rivive la memoria di quelli passati.
Tuttavia, nonostante gli intenti, quella di Carofiglio non è un’operazione che riesce perfettamente: perché Guido Guerrieri è un avvocato, e Gianrico Carofiglio è un magistrato, compiti diversi, pari cultura e dignità giuridica, e però un Magistrato possiede un quid superiore, non giudica, amministra i fatti portatogli dagli avvocati, fa un’operazione ben diversa, perciò il Magistrato Carofiglio vince sull’Avvocato Guerrieri, prende il primo piano, occupa la scena.
Ma appunto, un Magistrato, non è un uomo di lettere, non uno scrittore sensu strictu.
Gianrico Carofiglio scrive bene, ha una scrittura elegante, fluida, scorrevole.
Direi che scrive in maniera precisa, chiara, esauriente.
E però non “suona” come scrittore. Non prende completamente.
La storia è ben costruita, ben raccontata: ha una sua morale, una sua etica, ma è l’etica giuridica.
Piace, e certamente il libro non è un manuale di procedura legale, ma richiama comunque più la legge che l’arte di raccontare.
In “La misura del tempo” Guido Guerrieri deve fare i conti con il tempo che passa: la cliente che si rivolge a lui, infatti, per la difesa del proprio figliolo incarcerato, è un suo antico, e appassionato, amore degli anni belli della sua gioventù.
Potrebbe essere l’occasione per lo scrittore Carofiglio per un excursus su tempo e memoria, di come il tempo e le occasioni passano velocemente mentre siamo occupati a vivere, di come siamo e come eravamo.
Un discorso interessante, coinvolgente, che potrebbe anche presentare sviluppi interessanti, struggenti, emotivamente coinvolgenti.
Chi di noi non pensa agli amori vissuti? Quelli passati, nei “migliori anni della nostra vita”?
Come rimaniamo a rivedere persone e amori che non ricordiamo a momenti quasi più, e dalle loro rughe, dal loro aspetto, dalla loro postura accorgerci che…che intanto il tempo se ne va.
Che siamo cambiati anche noi, senza accorgercene, quasi in un attimo.
Ecco…uno scrittore di questi particolari ne avrebbe fatto fulcro centrale.
Gianrico Carofiglio, magistrato insigne, si addentra nella flora giuridica, bene e magistralmente; scrive bene, piace, si fa leggere.
Emoziona, anche; ma il suo lato predominante, almeno qui e ora, non è quello letterario.
Magari comparirà, più e meglio, alla prossima.
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ORIENT EXPRESS
La Napoli nell'immediato dopoguerra è quel che rimane dopo quanto descritto nel disperato romanzo “La pelle” di Curzio Malaparte.
La città e i suoi abitanti sono come un “ferito a morte” per dirla come Raffaele La Capria, dilaga la miseria atroce, soprattutto la fame, quella vera, letterale, atavica, quella inverosimile e crudele che ti procura spasmi dolorosi al ventre, e ti degrada inesorabilmente, sperdendo la tua umanità.
Uno scenario, “il ventre di Napoli”, già tante volte ripetutosi nel corso dei secoli, e già amaramente riportato, con triste cura nei particolari, da Matilde Serao.
È la “Napoli milionaria” di Eduardo, in cui la nottata non si accinge ancora a passare, in cui si occultano generi di prima necessità nei “bassi”, le piccole, misere, insalubri abitazioni dei vicoli, per farne commercio clandestino, pur di sbarcare il lunario.
“Il treno dei bambini”, in estrema sintesi, è il racconto salvifico di un viaggio organizzato soprattutto da donne, che richiedono l’aiuto e il supporto morale e materiale di altre donne, soprattutto donne, per la salvaguardia del patrimonio più importante dell’umanità: i bambini, la loro innocenza, la loro pulizia innata e genuina, perché non venga traviata dagli orrori degli uomini e dalle miserie dell’esistenza.
Un romanzo scritto da una donna, per le donne, con donne protagoniste, nel bene e nel male, per la salvaguardia della speranza dell’umanità, dunque: non a caso il piccolo protagonista del romanzo si chiama Amerigo Speranza, recando nel cognome la virtù e nel nome la terra che di quella virtù è l’emblema.
“Il treno dei bambini” è il racconto di eventi realmente accaduti, che fanno parte della memoria storica del nostro paese; non è, però, un racconto di Storia, Viola Ardone con sensibilità, delicatezza, compartecipazione e raffinatezza estetica fa invece storia dei sentimenti, uno su tutti, la solidarietà, che di quegli eventi furono ispiratori.
Per strappare dalla fame e dall'indigenza migliaia di bambini, sottrarli all'ovvia decadenza morale che sempre si accompagna alla miseria e all'ignoranza, le forze democratiche sorte dalla Resistenza allestiscono veri e propri treni speciali.
Una forma di legge del contrappasso: ai recenti, e d’infausta memoria, treni dei deportati verso un destino peggiore della morte, si sostituiscono treni di bambini.
Non sono treni metaforici, sono treni reali, carrozze vetuste e locomotive asmatiche, che portano i bambini verso le terre del Nord Italia, dove saranno accolti, come ospiti temporanei e graditi, presso normali famiglie della parte più florida del Paese, generalmente in Emilia-Romagna.
A questi bambini è offerto quanto di più normale si possa offrire: una casa, pasti regolari, vestiti comodi, la frequenza della scuola, l’attribuzione di compiti, doveri, ricompense, riconoscimenti, vi si svolge una normale educazione familiare che comprende osservare le feste e ricevere i piccoli regali nelle ricorrenze.
Soprattutto, serve a farli sentire bambini, a rasserenarli, restituirgli l’infanzia negata dal bisogno e dalla sofferenza.
Sono treni normalissimi, che li scortano verso uno stile di vita oserei dire banale: ma per coloro che ne hanno fortunatamente usufruito, questi treni sono autentici Orient Express, sono vagoni in viaggio verso paesi ricchi e fiabeschi come quelli magici orientali, sono carrozze dirette al paese del bengodi, sono vetture che ti portano direttamente dalla speranza al sentirsi benvenuti nell'esistenza, come accadrà al piccolo Amerigo.
Quanto di più normale, quindi, come si vede; e quindi, quanto di più crudele da negare a dei bambini.
Questa descritta da Viola Ardone, direi in maniera magistrale e coinvolgente, con una scrittura analitica e struggente insieme, è una delle pagine più belle, e meno conosciute, della storia del nostro Paese; un momento unico ed esaltante in cui gli italiani si riscoprono davvero tali, unici, uguali, uniti, fratelli, e chi può dà, cede spontaneamente quanto ha ai meno fortunati, a chi non ha invece avuto pari destino, e certo non per propria colpa.
Intende che il fine ultimo della solidarietà, è appunto un mondo senza ultimi.
I bambini non chiedono di essere felici, lo esigono.
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E a chi ama tutti i bambini del mondo.
Finiamo in bellezza
“Il pianto dell’alba” è forse il romanzo più realistico che sia stato scritto da Maurizio De Giovanni.
La saga di Luigi Alfredo Ricciardi, commissario della squadra omicidi in servizio nella Regia Questura della Napoli dell’epoca fascista, termina esattamente come doveva terminare.
Perché il barone di Malomonte, come altrimenti conosciuto, non è che una lente d’ingrandimento, con cui lo scrittore napoletano scruta i fatti grigi e le emozioni nefaste della sua, della nostra Napoli, in un passato neanche tanto lontano. Modo, Maione, Bambinella, Livia, Falco sono esattamente non i personaggi di un romanzo, ma i protagonisti effettivi di un preciso scorcio d’epoca, caratterizzato da un clima funebre e funereo. Il “fatto” non è un fenomeno paranormale, in sé e per sé, è l'emblema dell’estrema, direi parossistica, sensibilità d’animo del nostro poliziotto, egli vede quello che gli altri, magari anche per l’ottusa propaganda del regime, non vedono: gli ultimi istanti delle morti violente, che sono poi gli ultimi singulti di un’era e di una società violenta, reazionaria, falsa, ipocrita, demagogica, che sfocerà a breve in ben altri lutti.
Tutte le cose belle della vita terminano, è un dato di fatto: ma hanno di bello anche il fatto che sono ripetibili, la vita si rinnova sempre. Perciò il capitolo finale non è struggente, è bensì un canto di speranza: assume la forma di un pianto, certo, ma la voce di una bambina è sempre un canto. Che echeggia non più nel buio del fascismo, ma nella luce dell’alba.
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Donne che vedono oltre
C’è una frase che condensa, in estrema sintesi, “Teresa degli oracoli” di Arianna Cecconi: “…famiglia finisce con A, perché è femmina…”.
Questa è la spiegazione che dà Nina, una delle protagoniste, da bambina a scuola, alla propria maestra, quando si giustifica sul perché la figura del suo papà, in un classico disegno di gruppo di famiglia, è relegato in un angolo, rispetto al centro del ritratto che contempla solo figure femminili.
Un romanzo di matriarcato verrebbe quindi da definirlo, ma non è solo questo, è ben altro.
Oseremmo definirlo una sagra familiare, un gruppo di donne che orbitano intorno alla mater familias Teresa, donna semplice e tosta, una contadina della bassa padana.
Di quelle donne di una volta, a cui la fatica insegna presto che non è proprio vero che ciascuno è libero di determinare la propria vita, magari lavorando al meglio e contando solo sulle proprie forze, spesso, se non sempre, non è proprio così.
Non è sempre vero che scegli il tuo destino, è il destino che sceglie te: alcuni hanno più opzioni di altri; per altri, guarda caso specie per le donne, pare che la vita complotti perché tutto resti uguale a oggi.
Nella sua semplice ed essenziale saggezza Teresa comprende che una donna non può godere compiutamente di tutti i colori della vita, per le donne la vita scorre come in un vero e proprio limbo. Coperta da una coltre grigia, come se fosse situata sotto una “panza de burro”, una pancia d’asino, simile ad un gigantesco asino in piedi ritto tra cielo e terra, la sua pancia grigia copre dello stesso colore le terre nebbiose, e le donne.
A coprirne i segreti: giacché Teresa, come le Sibille della mitologia del passato, come la Sibilla Cumana o Cassandra figlia di Priamo, è depositaria del potere dell’oracolo, che dispensa secondo il classico dettame: “fermati ed ascolta”.
E si ferma, Teresa, ed ascolta, e dispensa oracoli: ai membri della sua famiglia, gli unici in grado di comprenderli.
Che guardo caso, sono tutte donne.
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Una questione d'amore
Leggere, in special modo, imparare a leggere, impratichirsi della lettura è un’esperienza cruciale, fondamentale, delicatissima del percorso esistenziale di ognuno.
Perché la lettura è potere, la lettura trasmette esperienze, conoscenze, sensazioni non immediatamente rilevabili nel quotidiano e che però, alla fine, si presenteranno, e sapere, avere cognizione, possedere la cultura di ciò che è, che può essere e che sarà, avvantaggia l’individuo, lo protegge, lo educa e, in definitiva, gli insegna a vivere.
Importante è perciò amare la lettura, inculcare la curiosità che spinge a prendere in mano qualsiasi cosa di scritto, insegnare a leggere spontaneamente perché piace, e non per coercizione, perché è un compito a casa, un dovere da compiere.
Indicare, soprattutto con l’esempio, che la lettura, questo straordinario strumento di crescita e di vita, è amore; esso gratifica, rasserena, emoziona, regala le stesse, identiche sensazioni dell’amore, sotto qualunque forma esso si presenta nel corso dell’esistenza.
Non si creda che sia un compito particolarmente difficile, anzi: l’amore per la lettura è naturalmente innato in ogni bambino, perché l’amore per la lettura è sinonimo di curiosità, non esiste bambino che non sia curioso di per sé, per definizione stessa del termine bambino.
Siamo proprio noi genitori, senza neanche rendercene conto, a rafforzare nei nostri piccoli l’amore per la lettura. Quale papà, quale mamma, non hanno letto le fiabe ai loro bambini? Esiste, per esempio, tutto il rituale della favola della buonanotte, vero? Ebbene, in quei momenti il bambino legge. Legge con passione, con curiosità, condivide le emozioni e le sensazioni delle storie e dei protagonisti, s’innamora dei libri, li pretende, li preferisce ai giochi. Egli legge, ama la lettura. Certo, lo fa attraverso di noi: ma ciò accade perché non ha ancora gli strumenti, non ha cognizione della tecnica di lettura, non sa ancora leggere, allora approfitta della nostra, che è lì, disponibile, alla sua portata, e noi adulti ce ne sentiamo gratificati sì, ma purtroppo anche affaticati ed annoiati.
Per cui, quando il bambino impara i rudimenti della lettura, commettiamo un errore madornale: lo lasciamo da solo. Ormai può leggere da solo, pensiamo, che legga da solo, dunque, e noi ci riprendiamo il tempo una volta dedicato alla lettura insieme. Ciascuna tecnica, agli inizi, costa fatica, tutto ciò che è ancora rudimentale, pesa: dimentichiamo troppo spesso, e troppo facilmente, questa verità. Se a ciò aggiungiamo che, da che mondo è mondo, la solitudine ha sempre spaventato ed annoiato il bambino, è inevitabile che ciò che un tempo era amore si trasforma, inevitabilmente, in noia, peso, insoddisfazione, disamore per la lettura. Imparare i rudimenti della lettura, dunque, non significa che il bambino ha completato l’iter formativo del leggere, non è, non deve essere, per il suo stesso bene, un’alibi per lasciarlo solo.
Leggere è amore, e l’amore non vuole individualismi, l’amore comprende l’altro, indiscutibilmente.
Leggiamo con lui, dunque, commentiamo ciò che legge con lui, stiamo insieme con lui. Non ci sarà da pentirsene.
Tutto questo, ed altro ancora, si può trovare meglio espresso in questo gradevole, breve ed agile volumetto di Daniel Pennac, uno dei più grandi educatori e pedagoghi contemporanei. Un testo edificante, per niente difficile o scientifico, che non dovrebbe mancare, a parer mio, nella biblioteca d’ogni educatore, e quindi d’ogni genitore.
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Fiori d'arancio
Con “Nozze” torna in libreria, per la gioia degli affezionati lettori, la squadra di poliziotti in servizio in un Commissariato di Polizia di Napoli, detti i “Bastardi di Pizzofalcone”, protagonisti seriali di alcuni fortunati romanzi dello scrittore napoletano Maurizio De Giovanni, da cui sono state tratte anche alcune fiction RAI di grande successo.
Questi poliziotti sono così indicati perché si trattava, al principio della loro destinazione in servizio nel quartiere omonimo, dei peggiori elementi, per non dire gli scarti, dei vari commissariati di polizia sparsi per la città. Soggetti caduti in disgrazia, nelle sedi di provenienza, in apparenza per motivi disciplinari, ma in realtà vittime essi stessi per primi, poiché il loro personale umanissimo senso della giustizia li ha portati a strafare, in un modo o nell’altro, nell’esercizio delle loro funzioni, e quindi considerati dai superiori più come seccature ingombranti anziché valide risorse dell’organico.
Non sono cattivi poliziotti, tutt’altro, sono solo scomodi, è preferibile sbarazzarsene, in quanto patate bollenti da maneggiare con le molle, inclusi in una lista nera di indesiderati anche se ingiustamente. Elementi ideali da destinare come sostituti dei titolari in un commissariato fresco di scandalo, e prossimo alla chiusura, data la corruzione dei colleghi in ruolo, coinvolti in giri di droga, e quindi indicati come “bastardi” dai residenti del quartiere.
Serve quindi sostituire pro tempore i bastardi corrotti con altri poliziotti raffazzonati, comunque cattivi soggetti e quindi del pari imbastarditi, intanto che si completi l’iter burocratico della chiusura o accorpamento con altre sedi diversamente dislocate in città della struttura di quartiere.
Senonché la squadra delle presunte zavorre inutili e ingombranti si dimostra invece ben presto, già all’inizio del suo insediamento, un tutt’uno solido, solidale, splendidamente attivo e operativo sul territorio con la massima efficienza, efficacia e tempestività, ognuno di loro spinto dal ritrovato spirito di corpo, dall’orgoglio di lavorare fianco a fianco ai colleghi senza più il marchio dei reietti o cattivi soggetti, e grazie alla ritrovata fiducia nei propri mezzi la squadra così coesa tira fuori il meglio di sé.
Così “i bastardi di Pizzofalcone” risolvono brillantemente alcuni casi di difficile soluzione, costringendo quindi le autorità a rivalutare sia il commissariato che i suoi effettivi, tutti, nessuno escluso, anche ampliando la squadra con nuovi arrivi. Soprattutto i residenti riconsiderano gli agenti come figura intrinseca e rassicurante sul territorio, a cui affidarsi con fiducia e riconoscenza.
In quest’ultimo romanzo della serie, i nostri indagano su un omicidio alquanto insolito sia per la vittima coinvolta sia per le modalità di esecuzione dell’odioso reato, ma anche per l’apparente mancanza di un movente sufficientemente valido da spinger qualcuno a commettere un delitto tanto grave. La vittima è infatti una giovane, e ricchissima ereditiera, figlia unica di una coppia della Napoli facoltosa, omicidio avvenuto proprio il giorno prima del suo matrimonio, il giorno più bello della vita per qualsiasi ragazza al mondo.
Una giovane bellissima, ricchissima, colta, educata, Francesca è una ragazza solare e vitale, stupenda, frizzante, amata e riverita da tutti, senza un neo, una pecca, la classica brava ragazza orgoglio dei propri genitori. Anche il futuro marito è un bravo ragazzo, anche se di famiglia non proprio irreprensibile: si tratta infatti del figliolo di uno dei più potenti, e spietati, capi della malavita organizzata della città. Forse solo questo potrebbe essere un motivo valido a giustificare il delitto, una forma di vendetta trasversale, ma il futuro sposo è quello che si dice un giovane pulito e perbene, fuoriuscito fin dall’inizio dagli affari loschi della famiglia, un uomo che ha studiato proficuamente e si è formato professionalmente all’estero, rifacendosi un’esistenza cristallina.
Senza ombra alcuna di sospetto o di coinvolgimento negli affari loschi della famiglia, nemmeno in altra forma perfettamente legale, come oramai d’uso nella malavita, da colletto bianco impiegato nel riciclaggio dei capitali di delittuosa provenienza, nulla di tutto ciò, niente di neanche lontanamente illecito. Il giovane ha tagliato decisamente qualsiasi legame con ogni modus vivendi anche solo superficiale con gli affari di famiglia, con quel mondo ai margini o fuori dalla società civile.
E a questo sembrano pervenire sia le indagini sul campo della squadra dei bastardi, che quella della locale divisione antimafia, con cui agiscono in competizione, sia le indagini private, di pari se non superiore efficacia, svolte dallo stesso boss malavitoso, anch’egli desideroso di apprendere la verità e tuttavia anche lui propenso ad escludere un movente che coinvolga il figliolo solo per il nome che si ritrova. Ma intanto la giovane vittima è stata assassinata spietatamente, un’esecuzione fredda e predeterminata, con una sola coltellata al cuore, ritrovata completamente nuda e supina in un sito assai inconsueto. Si era infatti recata la sera prima del matrimonio in una grotta sul mare, un posto romantico e solitario dove sono soliti appartarsi gli innamorati, recando con sé il proprio abito di sposa, spogliandosi e sistemando in un angolo ordinatamente gli abiti indossati, senza alcun segno di violenza o di costrizione. L’omicidio viene denunciato proprio grazie all’abito nuziale, scagliato in acqua come per sfregio dall’assassino, poiché il classico completo bianco tradizionale da sposa viene avvistato galleggiare sul tratto di mare adiacente la grotta dell’omicidio, quasi il volteggiare di un fantasma bianco sul mare.
Un giallo, quindi, ma un mistero sui generis, come lo sono tutti i libri di de Giovanni, non solo quelli più noti della serie dei “Bastardi”, o quelli aventi a protagonista l’altrettanto fortunato personaggio creato dallo scrittore napoletano, il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, della Regia Questura della Napoli fascista.
De Giovanni non scrive gialli, anche se ne conosce la struttura e sa dipanarla al lettore, egli offre ben altro a chi legge, e lo fa da maestro, racconta cioè storie insigne di ordinaria umanità.
Non narra enigmi, misteri, intrighi, in sé e per sé, ma li prende a pretesto, rappresentano una scusa, l’innesco, l’input, con cui egli ci racconta, e ci descrive altro, il cuore delle persone.
Maurizio de Giovanni ci parla infatti di uomini, di donne, e delle cose, delle bellezze e delle storture, che dagli uomini e dalle donne vengono.
Ci parla di polizia, di commissari, di ispettori, di agenti, di sostituti procuratori, di medici legali, descrive con professionalità metodi e tecniche investigative, ci illustra le procedure di indagini con lealtà e rigore scientifico, ma non dimentica mai che ognuno dei personaggi è una persona, prima di essere un poliziotto, ciascuno di loro è diverso e fine a se stesso, ha un suo vissuto, un suo bagaglio emozionale, una sua realtà umana unica e inimitabile che in un modo o nell’altro trascende e trasfonde nelle sue azioni professionali. Non è un caso, è un effetto voluto; i personaggi fanno squadra, e si completano, ognuno di loro ha una sua storia, differente ma ugualmente interessante, che si intreccia in qualche misura sulla Storia su cui indagano: in questo modo, con questo espediente, De Giovanni ci racconta più storie in una. Essendo un appassionato affabulatore moderno, lo scrittore desidera dire, dirci, raccontare, emozionare, desidera spendersi in quello che più lo gratifica nella vita, in quello che ogni autore veramente degno di questo nome ama fare: scrivere.
E scrivendo De Giovanni ci parla delle persone che lui stesso incontra nel suo vivere quotidiano, che conosce, che sa, che vede, di cui sente dire, di cui ha letto, che vivono in una città che è un caleidoscopio di caratteri, di generi, di fatti, di avvenimenti che gli offre quindi una miniera inesauribile di personaggi, idee e avvenimenti, tutta la città ed il suo variegato campionario umano assurge a materia da considerare, valutare, sviscerare nelle sue verità, un capitale enorme di varie, variegata, e emozionantissima umanità.
Un’umanità eccezionale, che solo una città di eccezionale umanità come Napoli può offrire, con tutte le sue contraddizioni, miserie, commozioni, sensibilità, delicatezza, empatia ineguagliabile.
Anche “Nozze” non fa eccezione, o forse sì, perché in “Nozze” protagoniste assolute sono le donne.
Donna è una vittima, donne le poliziotte uniche ed unite ad individuare la verità dei fatti; donne sono le intuizioni che inducono a pensare che la realtà, spesso quella ideale, non è mai perfetta come vuole apparire; donne o femminili o femminine sono i particolari, i risvolti, i dettagli di tutta la storia, incentrata proprio nel momento più bello, e intrinsecamente femminile, della vita di una donna, quello in cui convola a nozze con la persona amata. Giunge al suo apice, in quel giorno fatidico, il tocco tutto assolutamente e squisitamente femminile di ogni donna nell’industriarsi nei preparativi, nell’ individuare la data e la chiesa adatte, nell’addobbo floreale, nella scelta dell’abito nuziale, che deve rispondere a precise caratteristiche per coniugare al meglio al presente antiche tradizioni tramandate da generazioni di donne, nel viaggio di nozze, nel ricevimento, nelle bomboniere, nel mazzolino di fiori che costituisce il bouquet da lanciare poi esclusivamente alle donne dopo la cerimonia.
Dettagli femminili che solo le donne possono approntare, hanno occhio per queste cose, sanno letteralmente sposare tradizione e tempi moderni, hanno attenzione per i dettagli più minuti, notano subito ogni minima discrepanza, che nessun uomo si degnerebbe invece di considerare, oltre che un’occhiata superficiale. Solo le donne intendono come nessun uomo potrebbe fare che una promessa sposa non oserebbe mai correre il minimo rischio di sgualcire il proprio abito nuziale, e un abito del tradizionalissimo color bianco per di più, il giorno prima della data cruciale, recandolo con sé in un luogo umido e sporco come una grotta sul mare; se lo fa è perché è una donna, prima ancora di essere una promessa sposa, e solo un’altra donna sa capirlo, intenderne il motivo supremo.
Le nozze, dopotutto, e in definitiva, sono l’apoteosi, e il capolinea dell’amore: e Maurizio de Giovanni questo fa, nei suoi libri parla di amore, ogni specie di amore reale, senza alcuna discrepanza.
Magari, al lettore maschile, individuare l’assassino può apparire facile già al principio del romanzo, il romanzo stesso sembra non essere al livello di quelli precedenti dello stesso autore, un gradino sotto per complessità d’indagine e individuazione del reo, ma è una illusione, una pia illusione tutta maschile: serve l’occhio di una donna per intenderlo, dopotutto il termine “nozze” è di genere femminile.
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Le due facce della medaglia
Immaginate una classe dell’ultimo anno di un liceo classico, una classe di maturandi di una scuola d’élite, uno degli istituti più antichi e prestigiosi della città, frequentato perciò dai rampolli della cittadinanza bene e socialmente altolocata, cosa vi viene istintivamente in mente?
Come ve li figurate?
Certamente come un gruppo di baldi diciottenni o giù di lì, ragazzi nel pieno della vita, giovani più o meno spensierati.
Belli, aitanti, sportivi, o forse brutti, sciatti e banali, che importa, hanno dalla loro la bellezza della gioventù, la sfrontatezza, l’arroganza, l’ingenuità e l’audacia tipica degli adolescenti, si affacciano alla vita più o meno carichi e vitali, entusiasti, o solo disperatamente problematici, come solo i giovani di quell'età sanno essere.
Una classe piccola, meno di una quindicina di alunni, e quindi per definizione stessa si presume più unita, affiatata, maggiormente seguita dallo staff docente proprio per il numero alquanto esiguo dei componenti.
Non solo; questi studenti si mostrano a tutti gli effetti di straordinaria preparazione culturale, assai superiore alla media, sono allievi, infatti, preparatissimi nelle materie classiche, delle autentiche perle, il fiore all'occhiello dei loro compiaciuti insegnanti: addirittura, conversano tra loro in latino. Da non crederci! Non nell'assai più facile inglese o in un’altra lingua straniera: proprio il latino, la lingua di Cicerone, la lingua morta come si suol dire.
Fanno naturalmente gruppo unico quindi, un gruppo cementato inestricabilmente proprio da questa passione per il latino, per la storia e i miti dell’antica Grecia tramandataci dai maggiori latinisti dell’antichità.
Sennonché, questo gruppo di eccellenze, proprio un’isola felice non deve essere, se a distanza di oltre dieci anni, le forze dell’ordine, un po’ casualmente, si accorgono che i due terzi dei componenti della classe sono, per macabra coincidenza, passati a miglior vita.
Alcuni in maniera simil incidentale, altri per sospette cadute dalla finestra durante una gita scolastica, uno sparisce nel nulla, probabilmente contribuisce a non sollevare sospetto alcuno anche la contemporanea coincidenza di decessi naturali per malattie maligne preesistenti o incaute overdose di stupefacenti.
Ma il decesso/scomparsa di nove alunni su quattordici, tutti con stupefacente cadenza regolare il 21 febbraio di ogni anno, è una eventualità sbalorditiva, statisticamente impossibile a verificarsi, tanto da indurre senza indugio la polizia a sospettare dell’esistenza di un assassinio seriale.
In estrema sintesi, questa la trama di “Musica sull'abisso” di Marilù Oliva, un romanzo che segue al fortunato titolo precedente della scrittrice di Bologna “Le spose sepolte”, e che ci presenta la stessa protagonista dalla parte dei “buoni”, l’ispettrice di polizia Micol Medici.
Una donna straordinaria nella sua semplicità, una comune ragazza d’oggi divisa tra il lavoro, più difficile che altrove per una donna, in un ambiente alquanto becero maschilista come quello nella squadra investigativa della Questura, e in più con una madre tanto stravagante quanto asfissiante, senza contare un nuovo amore dal comportamento lievemente insolito, compulsivo sui generis, infine le uscite con le amiche…e ultima, ma non per ultima, l’indagine sul sospetto, presunto e misterioso serial killer, che se esiste deve avere una motivazione ben forte, per essersi speso anni nell'ideazione e messa in atto di omicidi quasi perfetti.
Un romanzo, questo di Marilù Oliva, devo dire curato e molto ben scritto, che non è un giallo o un thriller sic et simpliciter.
Direi che è un racconto d’amore, amore senza limite, come solo certi amori sanno essere.
Un libro scritto da un’insegnante, e si vede, e una docente che adora i classici, ama il latino, e ci mostra, sa mostrarci, il fascino, la seduzione, la malia insita nella cosiddetta lingua morta del passato e nei miti dell’antichità.
Un romanzo scritto da una donna, per le donne, dalla parte delle donne: che dimostra ancora la sussistenza di pregiudizi e preconcetti ancora ben presenti nei confronti del cosiddetto sesso debole. Che sarà debole forse per struttura fisica, ma possiede l’acume della sensibilità, l’attenzione per il particolare, l’empatia per l’altro, caratteristiche tutte femminili di cui si serve la pragmatica e femminile Micol, magari attraverso la proiezione onirica del suo subconscio, per sciogliere l’enigma.
Donne protagoniste, quindi, centrali nel romanzo, nel bene e nel male.
Ma Marilù Oliva ci fa apprezzare anche altro, la musicalità, la sinfonia, la melodia insita negli anni della nostra beata gioventù.
Una musica che spesso, troppo spesso, si contrappone alla solitudine, al senso di abbandono, d’insicurezza che attanaglia i nostri giovani quando non li seguiamo, quando li abbandoniamo a se stessi, quando deleghiamo agli agi, ai lussi, alla tecnologia di sostituirci nei nostri doveri genitoriali di educazione, presenza, sostegno e supporto alla loro crescita, di provvedere alle loro crisi d’identità personale, per evitare che cadano preda dei mali conseguenziali, la depressione, il bullismo, la droga.
Marilù Oliva di un’epoca della nostra esistenza ci mostra ambedue le facce, ma è la stessa canzone, l'identica musica.
Sta a noi adulti fare in modo che sia una musica melodiosa, non una lugubre litania che trascini in un abisso, in un’autentica discesa negli inferi.
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Il corso della Storia
C’è una frase nel primo capitolo del romanzo storico: ”L’angelo di Monaco” dell’esordiente Fabiano Massimi che, nella sua semplicità, esprime in estrema sintesi tutto il tessuto rilevante del libro; la frase recita: “…nessuno, mai, si accorge del momento esatto in cui il suo destino inizia a compiersi, che lo voglia oppure no.” L’opera, infatti, è quella che si dice una storia romanzata, un metodo di raccontare che prende a pretesto un periodo o un evento storico specifico realmente accaduto, e ne fa lo sfondo di una storia partorita dall’arte dell’autore. Ne sono valenti interpreti per esempio Ken Follet e Federick Forsyte, e Fabiano Massimi agisce su questa falsariga, basandosi su un fatto storicamente verificatosi quali la tragica fine per presunto suicidio da arma da fuoco di una giovane minorenne. Episodio banale, se non esistesse accertata vox coram populi di una relazione, per certi versi misteriosa e presumibilmente illecita e scabrosa tra la vittima, la 17nne Angela “Geli” Reubal, e suo zio, l’allora astro nascente della politica tedesca, il leader del Partito nazionalsocialista dei lavoratori, Adolf Hitler. Adolf Hitler, non ancora il Fuhrer della disperata e disperante Germania Nazista, ma prossimo a divenirlo. Va da sé che l’ascesa al potere del dittatore sarebbe certamente compromesso da voci incontrollate su una tragedia avvenuta fra le sue mura domestiche per presumibili miseri motivi incestuosi e pedopornografici. La figura della giovane vittima potrebbe allora realmente divenire un simbolo come l’Angelo della Libertà, un monumento simbolo di Monaco di Baviera, è questo il momento esatto in cui il corso della Storia potrebbe mutare di colpo, preservando l’umanità dai lutti prossimi venturi. Ma è purtroppo una chimera: già il fatto che l’indagine va espletata e chiusa entro 8 ore anziché le settimane di prammatica, ci fa ben intendere che il Male è forte e astuto e i suoi tentacoli in rapida crescita, anche se…farlo scivolare su una buccia di banana è una tentazione davvero forte. La Storia finirà per fare giustizia, a scoppio ritardato. La storia, gli uomini, o forse, chissà, un angelo di Monaco di nome Geli: la vendetta si gusta meglio a freddo, dopotutto.
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Quel che conta davvero
“Con tanto affetto, ti ammazzerò” questa dedica che ne costituisce il titolo sembra indicare, con tutta evidenza, a prima vista, un libro comico, solo un giallo “buono”, divertente, come a dire un allegro e scherzoso romanzo leggero, tipico delle letture estive sotto l’ombrellone, nulla di profondo e di impegnativo.
Niente di più sbagliato: questo dello scrittore napoletano Pino Imperatore è sì un libro che suscita più di un sorriso e qualche sana e schietta risata, ma non solo, a mio modesto parere, è ancor di più, è qualcosa di più sottile, intenso e significativo, direi una vera e propria metafora dei sentimenti umani.
Ambientato naturalmente a Napoli, nella città che del sentimento in tutte le sue sfaccettature, dal tragico al comico al grottesco, è la capitale morale ed un campione altamente rappresentativo, in estrema sintesi la storia si snoda ponendo a confronto gruppi di personaggi contrapposti sotto ogni profilo, ciascuno a sé stante, che rappresentano gli antipodi dell’umana avventura del vivere.
Facciamo subito conoscenza, per esempio, con la ricchissima e aristocratica famiglia dei De Flavis, diretta con piglio energico dall’anziana baronessa Elena, generosa filantropa e costante finanziatrice di svariate e numerose attività benefiche a favore dei più poveri e derelitti della città, supportata per indole e sentimenti dalla sodale nipote Naomi, a cui fanno da contraltare i tre figlioli della baronessa, tre brutte persone, pusillanimi, negative, quanto di più deleterio possa partorire la progenie umana in fatto di egoismo e pura cattiveria. Sono figli degeneri, aberrazioni genetiche dell’anziana genitrice, autentici parassiti che sprecano la loro miserabile esistenza vivendo dissolutamente e sfacciatamente, senza pudore e senza vergogna, alle spalle della ricca madre, non solo, auspicandone addirittura la fine prematura al fine di impossessarsi dell’eredità prima che l’anziana genitrice dilapidi, scioccamente a loro parere, ulteriori somme a favore dei miserabili diseredati che assiste.
Ancora, fa da contraltare a questo nido di cattiverie un altro gruppo eterogeneo e per nulla inverosimile di agenti di polizia in servizio in un commissariato di polizia, i quali ben volentieri sono di fatto supportati, magari anche solo moralmente, nelle loro fatiche, dall’ intera famiglia allargata, pets compresi, dei proprietari della Trattoria Parthenope, dove gli agenti suddetti consumano la loro pausa pranzo e che è diventata in pratica una succursale del commissariato stesso, data la schietta commistione e simbiosi creatasi tra agenti e ristoratori, assai più che amici e sodali confidenti.
Giacché l’elemento comune che accomuna i personaggi di questo gruppo di sodali investigatori istituzionali e no, è la condivisione dei normali buoni sentimenti, la solidarietà, la condivisione, la banale bontà quotidiana frammista al semplice buon senso del padre di famiglia.
Il romanzo di Pino Imperatore, quindi, pone in essere l’eterno conflitto tra bene e male, tra l’egoismo e l’altruismo, l’avidità e la solidarietà, la grettezza e la condivisione.
Lo fa in maniera paradossale, e perciò comica, strappa il sorriso, ma fa anche riflettere, è un riso amaro, alla Eduardo, per intenderci. Fatti i dovuti confronti, così come Eduardo De Filippo faceva sorridere ma anche indignare con la messa in scena dei drammi quotidiani del suo popolo, così Pino imperatore ci fa ridere...e anche un po' storcere la bocca. Poiché, come egli stesso racconta nella post-fazione, il senso ultimo della sua opera è la sua raggiunta consapevolezza che si giunge ad una età in cui ci si accorge che glia anni già vissuti hanno superato di gran lunga quelli ancora da vivere.
Tempo di bilanci, dunque, tempo in cui tutte le grettezze umane si spogliano della loro futile importanza e si sente il bisogno di concentrarsi sulle cose essenziali della vita, per esempio gli affetti.
Quegli stessi che, magari, quando estremizzati, ti farebbero volentieri ammazzare chi ti suscita disappunto.
Ma non ne vale la pena, appunto, meglio concentrarsi solo sugli affetti: questo è quanto, in sintesi, con gradevole sincerità, ci dice Pino imperatore.
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Giochi a premio
Le idee più geniali sono spesso le più semplici, e questo vale anche per il crimine.
Lo scoprirà ben presto, dolorosamente a sue spese, Rachel Klein, la protagonista di “The chain”, l’originale e avvincente thriller di Adam McKinty.
Conosciamo tutti, più o meno, il meccanismo delle moderne catene di sant’Antonio, un sistema assai semplice che consiste nel diffondere a macchia d’olio ad una platea di utenti una lettera, questo ai tempi remoti ante computer, una e-mail oggigiorno, in cui si richiede di copiare una missiva identica a quella appena ricevuta e inviarla a propria volta ad altri contatti, per diffondere il più possibile un messaggio più spesso di natura delirante su base simil fanatico-religiosa, vantando l’avverarsi di eventi fortunati al felice esito della trasmissione in catena del messaggio, o in caso contrario minacciando supposte acclarate punizioni divine con l’avverarsi di eventi infausti.
Successivamente tale fastidioso, ma tutto sommato innocuo meccanismo di spam, è stato sostituito dalla trasmissione in catena di una struttura piramidale, in verità un modo truffaldino di tirar su un po' di denaro da parte di persone di dubbia moralità. Il meccanismo è una struttura piramidale in quanto al suo vertice vi è una sola persona, che vende ad altre persone la possibilità di entrare a far parte della piramide a dei livelli sottostanti, promettendo a loro volta guadagni in cambio del pagamento di una quota d’ingresso. Una volta pagato l’accesso alla struttura, a loro volta queste persone introdurranno altre persone nella piramide e così via. In realtà è una truffa,
Secondo questo meccanismo, guadagna delle singole quote di ingresso versate solo chi sta al vertice della piramide, per le altre persone che accedono alla struttura, diventa difficile – se non impossibile – convincere altre persone ad accedere alla piramide, anche promettendo lauti guadagni.
Il crimine perpetrato ai danni della povera Rachel è esattamente una catena piramidale forzata sul ricatto: le viene chiesto di versare una sostanziosa quota d’ingresso, ed il premio promesso è.…la salvezza della vita della proprio figliola Kyle, rapita a questo solo scopo di costrizione. Non solo: ma il rapitore di Kyle, a sua volta, non è un bieco criminale, è invece a sua volta una vittima innocente, costretto giocoforza a delinquere, anche a lui è stata rapita una persona cara, la cui liberazione dipende dalla creazione dall’anello successivo della catena. Per cui, il compito di Rachel non è solo quello di pagare la quota d’ingresso, ma anche di scegliere a sua volta un anello successivo, a cui rapire una persona cara e costringerlo a fare altrettanto di ciò che è stato fatto a lei, perché la catena possa continuare al solo esclusivo vantaggio dell’unico colpevole reale che siede al vertice della piramide.
Un gioco semplice, come si vede, ma sottile e crudele, insieme.
“The chain” basa la sua fortuna non solo sull’originalità dell’idea di partenza, quanto nell’abilità a delineare crudamente ma assai efficacemente, in una conseguente atmosfera di sottile angoscia, lo scontro tra il calore dell’amore di una madre, il suo istinto protettivo caldo e rovente di amore oltre ogni limite e a qualsiasi costo nei confronti del proprio figlio, e la freddezza artica, agghiacciante, di un meccanismo ludico reso assai più rigido dal crudele carattere gelidamente lucroso che esula dal gioco in sé, tramutandolo in efferatezza fine a se stessa.
Ma il calore, più spesso, scioglie i ghiacciai.
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Il silenzio; il racconto delle cose non dette.
Marco Vichi è forse conosciuto dal grande pubblico solo e soltanto come autore di una serie di romanzi ambientati nella Firenze degli anni ’60 aventi a protagonista il commissario di Pubblica Sicurezza Franco Bordelli, una sorta di Montalbano ante litteram.
Una serie di romanzi gialli, quindi, come facilmente intuibile, che però è qualcosa di più di un semplice noir, trattandosi più che altro di una forma di nostalgica reminiscenza dei bei tempi andati in quel di Firenze che Vichi, fiorentino purosangue, letteralmente adora in tutti i suoi risvolti.
Ma Marco Vichi è in realtà assai di più: è un artista eclettico, un finissimo intellettuale, sensibile ed empatico, profondo e preparato, autore di romanzi e racconti, sceneggiatore teatrale e televisivo, titolare di vari laboratori di scrittura creativa e presso l’università di Firenze.
In estrema sintesi, “Per nessun motivo” non è un romanzo basato su una ricerca, come la trama potrebbe far pensare: si tratta infatti del racconto del viaggio intrapreso da un maturo professionista, ormai in pensione, sposato con figli ormai adulti , alla ricerca di una figlia sconosciuta di cui solo per caso e dopo 25 anni scopre di aver avuto da una precedente relazione giovanile.
Il vero protagonista del romanzo è invece il silenzio: è il racconto delle cose non dette, delle parole non trovate o che non si è stati capaci di pronunciare, è la storia della mancanza di chiarezza, di esposizione veritiera dei fatti e dei desideri, di quell’assurdo silenzio che permea, per vari motivi, i rapporti interpersonali di ciascuno di noi. Il silenzio è di per sé un assurdo, una contraddizione vivente: esso stimola domande, ma suggerisce anche risposte insinuanti, equivoche, talora sono perciò solo presunte vere; pertanto il silenzio fa comunque tanto rumore. Molto più costruttivo è invece il dialogo, che crea ponti e comunicazione: ma ognuno di noi non ascolta, si perde nei propri monologhi, infine è il silenzio che si impone, e ha effetti deleteri, talora devastanti. In sintesi, non serve mica gridare per attirare l’attenzione: ma nemmeno restare in silenzio. Per dire, le stelle che ispirano tanto romanticismo…le stelle stanno in silenzio, vero? E c’è chi le guarda per ore, in silenzio. Ma non è il silenzio che è bello: è fare l’amore sotto le stelle che è bello. Il silenzio non dovrebbe mai sussistere, in nessuna specie di amore, di più, per nessun motivo, appunto.
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L'isola che non c'è
Antonio Sarti è un insolito questurino di Bologna, personaggio forse banale, un vinto dalla vita, ma talmente serio e dignitoso da non accorgersene lui stesso neanche se glielo fanno notare. Una persona limitata, semplice, di scarso acume investigativo, ma a modo suo è la quintessenza della pulizia morale, della correttezza e della giustizia; come il suo autore è anche lui originario dell’Appennino emiliano, e perciò pregno di valori semplici e cristallini come l’acqua sorgiva delle sue montagne. Tramite Sarti, tout court, Loriano Macchiavelli ci parla essenzialmente dell’amore croce e delizia della sua esistenza: l’Emilia, e Bologna in particolare. E però la Bologna che Macchiavelli ama è cambiata, non è più la sua Bologna, non è più Bologna la dotta, con la sua università plurisecolare, la sua cultura, la sua avanguardia artistica. Ha perso con gli anni i connotati di città aperta ed accogliente, città delle idee nuove, originali e innovative, della libera diffusione delle stesse, città di lettere e di arte, di politica e di incontri, di vita notturna passeggiando a lungo di notte sotto i portici, di discussioni e filosofia, di donne e amore per la vita. Non è più Bologna la grassa, città del buon cibo emblema del vivere conviviale e bonario, delle osterie come punto di aggregazione sociale al di là di ogni censo, luoghi di incontro e di scambio umano e multiculturale, Bologna accogliente con il welfare all’avanguardia, tutta per i diseredati, Bologna la rossa, Bologna città della Resistenza nata e cresciuta nei valori della Resistenza, Bologna isola felice. La Bologna capoluogo dell’Emilia ingegnosa e operosa, con gli operai che producevano ricchezza e ne condividevano i frutti, l’Emilia della Ferrari, della Maserati, della Lamborghini, l’Emilia del Parmigiano reggiano e del prosciutto di Parma, l’Emilia degli agrari e della terra ai contadini, l’Emilia delle coop rosse e della pace sociale, l’Emilia che funziona, l’Emilia esemplare, fiore all’occhiello della sinistra in Italia. Bologna non è più un’isola felice, non è felice, e si dubita che tornerà ad esserlo. Sarti Antonio non è che un testimone di Macchiavelli; davanti ai suoi occhi di questurino sono passati tutti gli eventi delittuosi che hanno fatto della città una metropoli ferita a morte, troppe volte violata: dalla strage dell’Italicus a quella del rapido 904, dalla Uno bianca all’aereo di Ustica, fino all’ultimo, sporco, estremo insulto alla città e al Paese, la strage della stazione del 2 agosto 1980. Ferite gravi, da cui è difficile riprendersi, e la città non si è mai ripresa, benché il “…cardinale Biffi l’abbia definita città sazia e disperata”, come riporta Macchiavelli stesso. Quando un suo amico, uno dei pochissimi che ha, un clochard semplice di nome Settepaltò è aggredito e picchiato a sangue, Sarti si ribella, il suo senso della giustizia a gran voce pretende la giusta riparazione a quella che considera un’infamia, un pestaggio ancora più grave perché portato a danno di uno degli ultimi della scala sociale, proprio per questo più caro a Sarti. L’indagine, semplice e complicata insieme, porta Sarti a sollevare il velo del passato su uno dei più tragici eventi bellici dell’Emilia e dell’umanità intera: le stragi naziste di Sant’Anna di Stazzena, Marzabotto e di Monte Sole, “il più vile sterminio di popolo, voluto dai nazisti di Von Kesserling, e dai soldati di ventura dell’ultima servitù di Salò, per ritorcere azioni di guerra partigiana” come recita Quasimodo nella stele commemorativa di quelle barbarie. Non solo, le indagini di Sarti rievocano dolorosamente tanto altro, miseri fatti della storia reale italiana assai più recenti, complicità politiche, interessi di parte, e quello che è peggio nulla di inventato da Macchiavelli, tutti fatti storici noti a chiunque voglia rievocarli nella loro cruda interezza e da evitare assolutamente di far cadere nel dimenticatoio. Cronache reali che concernono personaggi nefasti come il Maggiore delle SS Walter Reder, e le complicità, le coperture, gli appoggi di cui ha goduto, appena di recente, presso le nostre istituzioni cosiddette democratiche. Un romanzo quindi che è una denuncia, e non è la prima volta, è nello stile di Loriano Macchiavelli: da uomo colto sa benissimo che il titolo corretto del romanzo di Fedor Michajlov Dostoevskij è Delitto e Castigo, e non delitti senza castigo, non può umanamente sussistere un’infamia che non riceva la giusta punizione. Macchiavelli denuncia chiaramente, e incita allo sdegno, e alla vigilanza perché la storia non si ripeta: “…di cosa ci stupiamo oggi, se non ci siamo incazzati ieri?” E giustamente: perchè restando inerti, è facile passare da “Prima gli italiani” e “La pacchia è finita” alla “Difesa della Razza” e alla “Soluzione finale”. E’ già successo. Loriano Macchiavelli lo dice chiaramente, per il tramite di Sarti Antonio: tornare ai valori della Resistenza, al vivere civile, alla democrazia, al rispetto delle regole, alla stretta osservanza della nostra Costituzione nata da quei fatti, è l’unica via perché Bologna, torni a essere l’isola felice, e con lei l’Emilia, e il paese intero. Che oggi come oggi, sono solo l’isola che non c’è.
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Storie di ordinaria discrezione
Quello che apprezzo in Lorenzo Marone è, come potrei dire, la sua discrezione; nei suoi libri lo scrittore napoletano lascia il palcoscenico completamente ai suoi personaggi, liberi di agire come farebbero realmente nel vivere comune, nelle sue storie fa parlare i suoi personaggi senza interferire, senza che si senta la sua mano. Sembra una cosa ovvia, ma non lo fanno tutti quelli che scrivono, anzi, più spesso si indulge a scrivere di sé stessi, non è che Marone dia vita ai suoi personaggi e crei una storia dove questi agiscono, fa qualcosa di diverso, semplice e mirabile insieme: sono i personaggi che vivono di luce propria, loro fanno la storia in autonomia, e lo scrittore, se si riesce a vederlo, è in un angolino, confuso tra i lettori che seguono incantati il dipanarsi della trama. Non è la storia, ma i suoi protagonisti ciò che valorizza i romanzi di Lorenzo Marone: e i suoi personaggi sono persone comunissime, che ciascuno di noi potrebbe realmente incontrare nella vita di tutti i giorni. Talmente comuni da essere unici: il vecchietto Cesare Annunziata, lo sfigato Erri Gargiulo, la giovane avvocatessa precaria Luce Di Notte, il cane superiore Alleria, che ben potrebbe essere l’emblema principe di animalisti e vegani, il piccolo Mimì perso dietro il suo amore adolescenziale Viola sullo sfondo di una tragedia civile, la tartaruga Morla, e via così. E tramite loro si parla di femminicidio, di lavoro, di rapporti familiari, di animali, di omosessualità, di camorra, di amore, di vita, di morte, della difficoltà del vivere comune, insomma i temi della quotidianità. E se lo sfondo delle vicende narrate è Napoli, è solo un caso: in verità Marone parla a tutti e a chiunque, parla di cose e persone che potrebbero essere ogni luogo e ogni persona, per questo piace Lorenzo Marone: infine parla di noi, è lui stesso, siamo noi stessi, i veri personaggi delle sue storie. Leggiamolo, dunque, con fiducia, e: “Tutto sarà perfetto”, come dice Lorenzo Marone.
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Un uomo banale
Non esiste storia migliore raccontata da chi quella vicenda l’ha vissuta come protagonista, in prima persona. Infatti, non è la stessa cosa se quella storia sia riesumata dagli storici traendola da libri, documenti, giornali dell’epoca, e neanche se è raccontata in diretta da testimoni presenti ai fatti. Come già ebbe a dire Akira Kurosawa nel celebre film “Rashomon”, spesso dello stesso episodio, vissuto contemporaneamente da più testimoni che lo riportano per flashback, le versioni non di rado sono contrastanti, e non si capisce mai bene quale sia la verità. Perché la verità appartiene a chi la racconta, e poiché ciascuno è a suo modo, esistono tante verità, per dirla con Pirandello: una nessuna e centomila. Inoltre spesso, se non sempre, la realtà è scritta dai vincitori. Tutto questo ben lo sa Antonio Scurati, il quale in “M. il figlio del secolo” ha l’idea di far raccontare direttamente a Benito Mussolini se stesso, il suo movimento e quello che ha significato per il nostro paese , essendo il duce a torto o a ragione tra i protagonisti della storia del secolo scorso. Giacchè mai come in questo caso la storia è magistra vitae. Se oggi siamo quello che siamo, è anche perché abbiamo vissuto Mussolini, il fascismo e quanto altro, senza dimenticarci dei corsi e ricorsi storici: dalla “gloria dell’impero” ai”prima gli italiani”, dal “fucile che difende il solco tracciato dall’aratro” ai “porti chiusi”, spesso il passo è breve. Ovviamente, il racconto del duce è romanzato: ma tutto quanto dice è reale, storico, non verosimile ma vero, supportato, documentato e documentabile. Più che un romanzo, un documento, quindi, una ricostruzione degli eventi, al termine della quale il lettore, lasciato libero nella sua riflessione, giunge spesso alla stessa conclusione della “Banalità del male” di Hanna Arendt.
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L’altra metà del cielo
Appare difficile, di primo acchito, classificare per genere l’ultimo, e direi ben scritto, originale e fortunato romanzo di Francesca Bertuzzi, poichè è riduttivo definirlo semplicemente un giallo o un thriller, magari solo una storia spettacolare con sparatorie, fughe, tensione e adrenalina sparse. Analogamente si potrebbe descriverlo come un mistery, o una storia al limite dell’attendibilità, il racconto di una sfida alla scienza da parte della scienza stessa, etichettandolo, perché no, come fantascienza pura.
In realtà il romanzo è invece assai più profondo e intimista, semplicemente una storia d’amore portata al limite del parossismo.
Ciò che appare assai evidente, tengo a rilevare, è che è un romanzo esclusivamente ideato, svolto e rivolto al femminile, una storia di donne scritto da una donna principalmente per le donne, ma non solo, è un libro al femminile nella sua accezione più alta del termine, e perciò solo per questo un romanzo completo, compiuto, straordinariamente intenso, semplice e mirabile insieme, apprezzabile finanche dagli uomini, ma da questi dubito interamente compreso nella sua essenza.
Si badi bene, mi ripeto, non è un romanzo femminino, femmineo, donnesco, non un racconto muliebre o un’elegia del gentil sesso.
Non è un romanzo da donna, o delle donne, o dalla parte delle donne.
No, è solo uno scritto al femminile. Il che significa tanto di più.
Solo una donna può capire completamente l’aurea che permea la vicenda narrata, solo una donna, non tutte ma la stragrande maggioranza, quelle cioè che hanno almeno una volta nella vita profondamente amato un loro simile.
Perché, a ragione o a torto, per privilegio unico o per sventura più nera, solo una donna che ha amato, come amore pretende, lei sola può dire, dall’alba dei tempi, con tutta evidenza, dove arriva la ragione e dove il sentimento, dove è la gioia e dove il dolore, lei sola comprende l’essenza dell’esistenza, nel bene e nel male.
Un uomo no, sono altro, sono diversi: gli uomini si legano, le donne si innamorano; gli uomini calcolano, le donne si donano; gli uomini adorano idoli, le donne pregano un dio d’amore, che non è necessariamente maschile.
E gli uomini abusano, in tutti i sensi, solo se ne hanno occasione; le donne si concedono intimamente, compenetrandosi: tutta un’altra storia.
Francesca Bertuzzi in “Fammi male” fornisce un’ottima prova di sé, questo è forse il romanzo della sua piena maturità artistica di scrittrice, dopo le ottime prove passate de “Il Carnefice”, in cui parlava di argomenti all’epoca assai scabrosi e delicati come la pedofilia; o anche come “Il sacrilegio” altrimenti conosciuto come “La paura” in cui si cimenta ancora in un argomento tabù come l’incesto, e infine nel “La Belva” in cui si rivela attenta osservatrice e abile descrittrice dell’intimo sensibile e tormentato insieme delle ragazze adolescenti.
Questa volta la Bertuzzi fa quello che qualunque scrittore deve saper fare: inventare una buona storia e raccontarla per bene. E tutto questo lo fa alla grande.
Quello in più, il valore aggiunto, lo dà proprio il carattere al femminile del romanzo.
Francesca Bertuzzi, con semplicità e amore per la sua arte, fa quello che le riesce meglio, parla di se stessa, riversa nella storia quanto di più femminile c’è nel suo animo.
Narra una storia tenera e violenta, semplice e contorta, una storia principalmente d’amore e sentimento, e pure ragionevole e razionale insieme, la trama e il modo come scorre non è altro che un excursus nel cuore e nella mente dell’altra metà del cielo, intesa nel senso più nobile del termine.
La storia di una fuga di una giovane donna, volta a cercare la verità sulla tragica scomparsa della sorella, avvenuta anni prima durante una vacanza estiva sul litorale di Vasto.
Una storia all’apparenza semplice ma che tanto semplice non è, trattandosi di un vero viaggio nella memoria, la riscoperta di un altro sé in un altro tempo e in un altro luogo, un autentico ricostruire il supporto sinaptico di una memoria scomparsa e che a tratti rinviene, velata dalla nebbia di un limbo, eppure concreta e in piena luce, una storia tremenda e tenerissima insieme.
L’input iniziale dell’intera vicenda è un senso assai distorto del concetto di amore senza fine, quello ad esempio che può essere l’amore materno: un amore che ti porta a dispiacerti se arrivano cattive notizie per un’amatissima figlia: “…Non accadde che qualcuno le attraversasse la carne del torace con lunghe e fredde unghie affilate…graffiandola con sadica perizia. Ma a lei parve di sì.”
Lo vedete un uomo descrivere parimenti il dolore di una madre?
Una storia di donne, di personaggi donne: e sono donne bellissime, magre e sensuali, giovani e adulte, femmine conturbanti e bambine con il lecca lecca, in short di jeans e ginocchia sbucciate, in canotta o seminude, in abiti eleganti o in semplice divise da infermiere, decise e impaurite, dure e sensibilissime, sono donne splendide le protagoniste Ana, Anabelle, Arancia, sono uguali, tra loro simili, cloni e copie tra di loro, e ancora ci sono come detto madri che pregano, madri che amano all’inverosimile, e gli uomini sono semplicemente padri, padri padroni, uomini di possesso e di prepotenza, uomini egoisti, presuntuosi, aridi, killer e tutti potenziali stupratori, spesso per il solo gusto di esserlo, di prendere, di affermare il proprio io mediocre, di umiliare.
Viene da pensare allora che l’amore lesbico, salvifico e vissuto come una bolla di calore umano che pervade corpo e anima, nasca proprio dal fatto che gli uomini, spesso, non sanno andare oltre, non sanno fare veramente l’amore, è insito proprio nel loro cromosoma di due frammenti diversi X e Y, così anomali rispetto a quello femminile, una coppia giusta, razionale, doppia, una coppia uguale Y e Y, proprio come deve essere. Occorre pari intensità tra corpo e anima, Y e Y; se le intensità sono diverse, X e Y, allora è puro squilibrio.
Gli uomini si accoppiano, si legano a una femmina, non a una persona, godono e, e non sempre, fanno godere, ma non sanno fare l’amore.
Le donne invece s’innamorano di una persona, non dei suoi genitali.
E perciò, davanti alla bruttura insita nell’animale maschio, l’amore fra due donne non è raro che si accompagni alla richiesta di una delle due partner di un sussurrato “fammi male” di cui al titolo, un paradosso dolcissimo, giacchè una carezza femminile non sarà mai brutale quanto una ruvida mano maschile. Gli uomini non ci fanno una bella figura in questo libro, ma non per una scelta di fantasia, non per un senso di assurda rivalsa del lato femminile dell’universo su quello maschile, ma perché è quanto normalmente avviene nella realtà dell’universo maschio, se solo li si scruta a fondo nel loro agire e nei loro intendimenti. Magari non è per loro colpa, ma è nel loro estro.
Perciò le donne sono umane, e gli uomini semplicemente assurdi; e per esempio, la scena in un laboratorio medico con animali in veste di cavie, non è raro che faccia rinvenire dalla memoria, almeno per coloro che hanno avuto la fortuna di vederlo, la battuta del famosissimo film cult: “Il pianeta delle scimmie” dove appunto un primate raccomanda ai suoi simili:
“Guardati dalla bestia-uomo, poiché egli è l'artiglio del demonio.”.
Un bel libro, in definitiva: nulla di trascendentale, non un capolavoro, certamente, ma una buona lettura, originale, diversa, e lo affermiamo ancora, una storia al femminile. Un’altra riprova?
C’è un epitaffio dolcissimo scolpito sulla lapide di un undicenne:
“Prima, delle date: 13-07-1982/11-11-1993. Segue un nome: MASSIMO. L’incisione è un epitaffio: NON AVREI POTUTO AMARTI PIU’ DI COSI’. CON TUTTO IL CUORE, PAPA”.
Dite che chiunque poteva scrivere qualcosa di altrettanto delicato sulla tomba di un bambino, magari anche più commovente, non necessariamente una donna?
Forse.
Ma è la tomba di un cane.
E l’epitaffio dolcissimo è contenuto in un libro al femminile.
Scritto con femminile tenerezza da Francesca Bertuzzi.
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Il profumo del buon tempo antico
“Pane per i Bastardi di Pizzofalcone” è l’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni, la cui popolarità come autore, e quella dei protagonisti seriali di alcuni suoi libri, poliziotti del commissariato di zona di un quartiere popolare di Napoli, ha di recente raggiunto un crescendo a diffusione nazionale, grazie alla fortunata trasposizione televisiva delle sue storie e dei suoi personaggi.
Questi “Bastardi” sono funzionari di pubblica sicurezza di vari livelli gerarchici, dal commissario titolare all’ispettore più alto in grado, dai sovrintendenti agli agenti fino al piantone, più precisamente rappresentano nelle intenzioni gli “scarti” della polizia di stato, sono agenti che, a vario titolo, ma sempre a rigoroso scopo punitivo, sono stati trasferiti dagli altri commissariati sparsi per la città e destinati a Pizzofalcone, un quartiere centrale e popolare insieme, proprio perché questo gode di una pessima fama. La scarsa considerazione, sia dai vertici della polizia sia dagli abitanti del quartiere, di cui gode questa sede, e dai cui l'epiteto "bastardi", risale a storie precedenti di corruzione e malversazione dei poliziotti primi titolari del commissariato, con conseguente perdita di attendibilità delle persone e delle istituzioni che questi rappresentano. Il commissariato ha un che quindi di transitorio, è a rischio immediato di chiusura, sennonché i bastardi sostituti, messe da parte le pecche individuali e unitosi diciamo così in un sol uomo, fanno squadra, creano un gruppo efficace e hanno occasione di mostrare più volte di che pasta sono fatti, si comportano con serietà, onestà, acume investigativo, senso dello stato, dedizione e appartenenza al territorio restituendo gradualmente onore e affidabilità alla divisa e a tutto quanto di positivo essa rappresenta per la cittadinanza e per le gerarchie superiori.
In “Pane” i bastardi, ciascuno a suo modo, ma agendo con perfetto spirito di squadra, e diretti dal loro uomo più rappresentativo, l’ispettore Giuseppe Lojacono, indagano sull’omicidio di una figura popolare e singolare insieme, il fornaio Pasqualino, il panettiere del quartiere, colui che tramandando l’antica arte di “fare il buon pane come una volta”, così come il padre ed il nonno prima di lui, è una figura carismatica di Pizzofalcone, amato e ben conosciuto da tutti. Un uomo serio, probo, onesto, gran lavoratore, che malgrado ormai affermato piccolo imprenditore dei prodotti da forno, tuttavia si sveglia ancora nottetempo per recarsi al lavoro, tant’è che è definito “il Principe dell’alba”.
Si tratta di un uomo umile, semplice, benvoluto da chiunque, privo di vizi o di misteri, senza alcuna doppia vita, dedito esclusivamente alla famiglia e al prediletto nipotino.
Dotato anche di una precisa coscienza civica, tempo addietro, infatti, in virtù della sua profonda conoscenza di fatti e persone del quartiere, non aveva esitato a deporre come testimone oculare in un episodio d’intimidazione camorristica, anche se in seguito avevo ritrattato la propria deposizione. Questo particolare induce quindi a ritenere l’episodio come una tardiva ma esemplare spedizione punitiva da parte della cosca camorristica interessata, al punto che l’inchiesta è rilevata dalla locale direzione distrettuale antimafia. Non esistono cioè movente alternativo o alcuno che potesse volercela altrimenti con l’onesto panettiere, letteralmente uomo buono come il pane.
Dello stesso parere non è però Lojacono e i suoi uomini, i quali divergono dall’apparente evidenza dei fatti, e in competizione con gli altri ordini investigativi, dopo una serie di accurate indagini, pervengono al reale andamento dei fatti e all’arresto dell’assassino, con ciò conferendo nuova onorabilità al tanto vituperato commissariato e ai suoi funzionari.
Quello che rende originale e gradevole la scrittura di De Giovanni, e di converso la lettura dei romanzi di questa serie, è stata la sua intuizione di puntare non tanto su un singolo eroe in grado di dipanare misteri ed assicurare i rei alla giustizia, come d’uso nei classici polizieschi, ma inquadrare come protagonista unica l’intera squadra investigativa. Ne consegue che, sullo sfondo dell’indagine principale, che assorbe ovviamente l’attenzione di tutti gli effettivi, come fossero un sol uomo, ciascuno degli elementi della squadra segue, da solo o in coppia con un compagno, tutti gli altri fatti, delinquenziali o meno, di cui deve, esattamente come nella realtà, occuparsi un presidio territoriale di pubblica sicurezza. Con quest’artifizio De Giovanni ci racconta non una ma diverse storie, approfondisce non uno ma vari tipi caratteriali, ciascuno a sé stante, compie una ampia e articolata carrellata tra vizi e virtù dell’animo umano, contrappone tutto ed il contrario di tutto.
Maurizio de Giovanni con un solo libro come questo suo “Pane” letteralmente sazia l’appetito dei suoi fan, riempie l’immaginario del lettore di più storie, affabula e incanta proprio perché, data la varietà dell’offerta, ognuno trova quanto maggiormente gli aggrada, l’azione, l’amore, il dramma, il sorriso, la malinconia per il tempo passato, il disagio per i crepuscolari tempi correnti.
Soprattutto De Giovanni fa quello che gli riesce meglio, descrive i sentimenti dei suoi personaggi.
Scava a fondo nel cuore degli uomini, ne tratteggia in sintesi il meglio e il peggio.
De Giovanni non è un giallista sui generis, nei suoi libri l’azione delittuosa è un pretesto, un alibi, non di misteri o di gialli egli intende parlare, ma di ben altro, più adatto alla sua sensibilità artistica, più nelle sue corde. Lo scrittore non si dilunga su guardie e ladri, ma ci incanta soffermandosi, con delicatezza, oserei dire con gentilezza e indulgenza, sulle persone, e di converso ci affascina descrivendo sapientemente, e cesellandoli con la scrittura, sentimenti, emozioni, passioni, amori, impulsi del cuore in positivo e in negativo. Parla quindi di noi, e a noi tutti.
E con pari affetto filiale descrive lo scontroso ispettore siciliano diviso tra due amori con contorno di figlia adolescente, la poliziotta figlia di un padre militare integerrimo a cui non sa rivelare la propria omosessualità, il duro poliziotto manesco dal cuore d’oro che trepida per una piccola infante, e via via tutta la svariata umanità che dipana i propri modi esistenziali, il proprio sentire, sullo sfondo della città sentimentale per eccellenza, Napoli, in cui le apprensioni, le trepidazioni, i turbamenti del quotidiano si restringono nei vicoli della città ampliandosi poi nelle sue piazze, quasi un respiro sincrono tra la metropoli e i suoi abitanti.
De Giovanni descrive con sapienza il cuore, sia della città sia dei suoi concittadini, perché lo ascolta, con dolcezza e tenera malinconia insieme, così come farebbe chiunque, ciascuno di noi, perdendosi dietro il ricordo di attimi felici della propria vita, rosolandosi al calore che sempre suscita il profumo delle gioie trascorse, nel buon tempo antico. Tradire quei ricordi, venir meno a certi valori, a certe tradizioni ferree, salde, universali, antiche e sempre nuove, questo è il vero delitto.
Per questo piace Maurizio De Giovanni, non può non piacere a tanti, a molti, così come a tanti, ai più, piace il buon pane.
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Il comune senso della giustizia
Il tema del romanzo “L’estate fredda”, opera ultima di Gianrico Carofiglio, è semplicemente la giustizia, elemento edificante e basilare della società civile, che può definirsi tale proprio in virtù di questo indispensabile principio concreto e morale insieme.
Un bel libro, direi ottimo nel suo genere e nelle sue intenzioni, nella forma del giallo e del poliziesco, ben scritto, in stile discorsivo, sintetico, con un ben preciso intento etico, che induce alla riflessione.
Carofiglio riprende qui un discorso già intrapreso nel suo romanzo di poco precedente a questo, “La regola dell’equilibrio”, discute ancora una volta di giustizia, con sapienza e diretta competenza, dati i suoi trascorsi di magistrato.
Tratta di come la legge sia comunemente intesa dagli amministrati, di quali indispensabili requisiti di grande levatura morale debbono essere provvisti coloro che la esercitano e la amministrano.
Non può esistere giustizia, afferma Carofiglio, se non sono essi stessi giusti coloro che la giustizia la esercitano, l’applicano e la fanno rispettare.
Come per coloro ad esempio che lavorano nella sanità, anche per gli operatori di giustizia non è ammissibile superficialità, negligenza e assenza di rigore e disciplina personale.
Non è logico, né può risultare accettabile e credibile stabilire regole di comportamento, applicarle e pretenderne il rispetto, se coloro che per primi queste regole hanno legiferato, e gli altri che le applicano al vivere comune e ne sanzionano l’inosservanza, non siano essi stessi tenuti per primi al rispetto dei ruoli e di quelle norme, non siano irreprensibili, e di esempio di rettitudine agli altri del consorzio civile.
L’agente di pubblica sicurezza, il carabiniere, il giudice, il legiferatore, tutti coloro che a vario titolo sono dalla parte “buona” della legge, hanno la personale responsabilità giuridica e morale di essere equi, onesti, obiettivi, imparziali, al di sopra delle parti, pena la credibilità dell’intero sistema giudiziario, e di converso della serena convivenza tra gli associati nella società civile.
Il comune senso della giustizia vuole quindi che i buoni siano buoni davvero, spesso fino al sacrificio personale, che li trasforma in eroi; non a caso la vicenda si snoda sullo sfondo dei tragici avvenimenti che portarono all’eccidio per mano mafiosa dei magistrati Falcone e Borsellino, purtroppo loro malgrado uomini retti e eroi della giustizia per definizione.
La storia è ambientata a Bari, in una calda e torrida estate, dove svolge il suo servizio il maresciallo dei carabinieri Pietro Fenoglio, piemontese trapiantato a sud, che si trova a dover fronteggiare, oltre agli usuali problemi di mantenimento dell’ordine pubblico, di presidio del territorio e repressione della delinquenza comune, anche gli scontri e le faide tra bande mafiose in lotta per il predominio sugli affari loschi del capoluogo.
Il senso della giustizia del cittadino comune non vede in questi ultimi fatti violenti di assassini, vendette, lupara bianca, ecc. della criminalità organizzata una precisa devianza criminale, trattandosi di protagonisti essi stessi delinquenti, della serie “meglio che si ammazzino tra di loro”.
Questa logica non vale però per il maresciallo Fenoglio, carabiniere vecchio stampo, non tanto “nei secoli fedele” ma fermamente convinto che la legge sia uguale per tutti, anche se per la sua applicazione non è propriamente reato agire “cum grano salis”, vale a dire con un minimo di buon senso e di umana compartecipazione.
Fenoglio sa perfettamente che una escalation criminale, in quanto tale, è un evento fuori da ogni regola civile, di crimine efferato e privo di scrupoli, non distingue tra buoni e cattivi, tra innocenti e affiliati, per cui si impegna personalmente con i suoi uomini per una accorta vigilanza su fatti e persone della sua giurisdizione.
Quando però, nel corso di queste lotte criminali, viene rapito un bambino, successivamente ritrovato cadavere, colpevole unicamente di essere figlio di un boss locale, le cose virano al peggio, l’indignazione per un tale delitto coinvolge tutti, onesti cittadini e delinquenti abituali, raggiunge il parossismo, proprio perché l’innocenza della vittima svolge un ruolo “morale” di comunione.
Il senso della giustizia comunemente innato pretende la giusta, rapida e esemplare punizione, sic et simpliciter, di chi si è macchiato di un simile delitto, identificato rapidamente in un boss emergente, dapprima braccio destro ed in seguito rivale e concorrente del capomafia padre del piccolo.
Senonché la cosa non convince del tutto il maresciallo, in quanto il boss emergente presunto colpevole, costituitosi alla giustizia e disposto a collaborare, di tutto si autoaccusa, e di reati gravissimi, ma respingendo in maniera assoluta, quasi moralmente sdegnato malgrado il suo status malavitoso, di essere responsabile del rapimento e dell’assassinio del piccolo innocente.
Fenoglio inizia perciò, con tenacia sabauda pari alla cocciutaggine meridionale, un supplemento di indagini che lo porta alla verità grazie al suo fiuto, al suo intuito ma in particolare al suo essere riconosciuto da molti, non solo dai suoi colleghi, ma anche dagli antagonisti del campo opposto, uomo giusto, retto, degno di stima e di fiducia, così come sono riconosciuti i veri, autentici servitori della giustizia, con cui si può perciò lasciarsi andare a rilasciare informazioni confidenziali, senza per questo sentirsi tacciati di infamia.
La verità ha un sapore amaro, per un uomo come Fenoglio, un uomo qualunque, uno come tanti, semplicemente onesto e fedele ai propri principi di lealtà e onestà, la verità che verrà a galla ha un effetto devastante e destabilizzante, provoca una rottura degli equilibri che già aveva devastato l’anima dell’avvocato Guerrieri in un romanzo precedente.
L’estate calda, torrida, si trasforma allora in un’estate fredda, ciò che viene fuori agghiaccia, devasta, determina un contesto di assoluta sfiducia negli uomini e nel sistema della giustizia, una condizione che richiama il “Quis custodiet ipsos custodes?” di Giovenale.
Un paese civile necessita della giustizia, e la giustizia non pretende eroi.
Sono uomini come Pietro Fenoglio, come Guido Guerrieri, come i tanti poliziotti, carabinieri, giudici che ogni giorno agiscono con serietà e onestà, a restituire la speranza, a riabilitare la giustizia, ad affermare la verità, così come facevano Falcone e Borsellino.
Tutti costoro non sono eroi, sono uomini come tanti, semplicemente più di tanti, onesti e fedeli ai principi elementari di giustizia. Gente così, per nostra fortuna, esiste davvero.
Carofiglio lo sa, e lo testimonia di persona.
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GENTE DI MARE
La paranza è un vocabolo poco usuale, in uso specialmente nelle città costiere, ha a che fare infatti con la pesca, con le barche, è un termine da gente di mare.
Identifica un tipo particolare di barca che in genere prende il mare in coppia con un’imbarcazione analoga per attuare una precisa strategia di pesca, e quindi il termine identifica sia il mezzo che l’azione del pescare.
La paranza, la pesca con le paranze, si svolge nelle ore notturne, quelle in cui i pesci abbandonano i fondali e le tane, e viene facilitata dall’uso di grosse lampade che attirano il branco, ingannandolo, facendogli balenare un orizzonte e un habitat ideale, guidandolo invece nel centro delle reti per una più facile cattura.
A volte si indica con paranza anche il pescato, ma non la preda principale, e cioè i totani, i cefali, i branzini, e le spigole, o i piccoli tonni destinati a fare bella mostra di sé sui banchi dei mercati ittici, bensì i pesci piccoli e piccolissimi, per dimensioni e fase di crescita, i molluschi, i minuscoli crostacei ancora senza esoscheletro che rimangono impigliati sul fondo della rete, presi in trappola dal trascinio sui fondali.
Più spesso, fanno mercato a parte, rappresentano la parte più magra del bottino della giornata di lavoro, banale e insapore.
Cucinati uno per uno infatti non hanno neanche un gusto particolare; invece preparati in frittura tutti insieme creano una piccola prelibatezza, detta appunto “frittura di paranza”, a riprova una volta di più dell’antico detto “l’unione fa la forza”.
Tutto quanto appena detto è rimesso pari pari nella difficile realtà sociale dei quartieri più poveri e degradati di Napoli da Roberto Saviano, nel suo ultimo libro “La paranza dei bambini”. Un libro amaro, desolato e desolante, ben scritto, e che spiega direttamente, meglio di qualsiasi trattato sociopolitico, la malsana influenza, gli scempi e gli abusi della camorra a carico di certa difficile gioventù napoletana, già dall’infanzia e dall’adolescenza.
Saviano infatti dà alle stampe un romanzo che descrive l’ascesa e il decorso esistenziale, purtroppo a carattere esclusivamente malavitoso, di un gruppo di dieci ragazzini di Napoli, nati e cresciuti nei quartieri della città in cui è più endemica e radicata la camorra e la deviante mentalità mafiosa.
I dieci bambini, ognuno identificato da nomignoli curiosi, insoliti, talora divertenti, come Maraja, Lollipop, Dentino, Briatò, Pesce Moscio, Dragò, ecc., sono come i pesci piccoli sul fondo della rete, presi uno per uno in apparenza non contano granché, in realtà sono buoni, neanche loro sanno quanto di buono c’è in loro, basti pensare appunto che messi tutti insieme possono dar luogo ad una frittura prelibata, un condensato di innocenza, intelligenza, vitalità e civile consistenza.
Intervengono invece gli adulti di malaffare, che senza scrupoli di alcuna sorta, con l’inganno devastano l’innocenza del gruppo, stimolandone gli aspetti peggiori.
Il problema è tutto in una società malsana che li attira abbagliandoli con la luce del facile arricchimento, li intrappola nella rete del malaffare e della delinquenza comune sfruttando le carenze educative, motivazionali ed affettive di questi piccoli pesci.
Piccoli pesci poco più che bambini, preadolescenti fragili ed intensamente teneri, abilmente traviati da squali in veste di pescatori, pescecani che anche dai domiciliari, dalle carceri, dal duro regime del 41 bis riescono a mostrarsi ancora come guide, come esempi da imitare e a cui assomigliare sempre di più per criminale furbizia, sagacia, e sanguinosa crudeltà.
Costoro, i boss, i capi, i mammasantissima criminali, plagiano e militarizzano con le armi i ragazzini, dapprima dotandoli di autentici ferrivecchi a malapena funzionanti, e poi in una incredibile escalation criminali con i mitra e gli strumenti di morte più moderni e micidiali.
Per fornirsi così a scopo intimidatorio, di presenza e di controllo del territorio, di un mezzo impagabile di terrore di massa, la stesa, i raid con sparatorie che costringono malcapitati passanti indifferentemente colpevoli ed innocenti a stendersi per sfuggire ai proiettili vaganti.
In questo modo i boss possono impunemente continuare anche a distanza, anche dal carcere, a comandare sulle zone di influenza, intessendo i loro loschi traffici, sfruttando senza alcuna remora morale i ragazzini della paranza, armandoli, gestendoli, blandendoli, cosicché si costituisce un vero e proprio gruppo di fuoco dei ragazzini, facendo leva sulla loro innata ingenuità, assicurandogli potere, carisma e immunità, quasi fossero davvero boss loro pari. Sfruttando anche una pretesa onorabilità derivante da una ferrea consuetudine di lealtà e fedeltà ai boss, dimostrata dal continuo intercalare: “addà murì mammà”, che mia madre muoia se non dico la verità, se non sono fedele al gruppo di fuoco, sancendo tale vincolo con pittoreschi rituali di iniziazione al sistema criminale, antichi e affascinanti insieme, specie nella mente dei piccoli protagonisti.
I ragazzini aspirano perciò naturalmente e assai ingenuamente, come tutti a quell’età, a divenire anche essi pesci grossi, a impossessarsi in proprio della gestione dei traffici di droga, delle estorsioni, di tutte le attività illecite del quartiere, si sentono grandi, forti, potenti, pronti a scalare le gerarchie criminali.
Come i piccoli pesci sul fondo della rete sono attirati dalla luce delle paranze: luce che nel caso specifico è il richiamo abbagliante del denaro, e di tutto quanto esso può procurargli. Non capiscono, e neanche possono capire, che in realtà sono manovrati subdolamente, che il loro avvenire è compromesso da una luce effimera e transitoria, che li attira come falene, una luce intensa e malefica. Una luce velenosa rappresentata per esempio dalle Air Jordan e le altre scarpe da ginnastica delle migliori e più costose marche disponibili nei Foot Loacker, dai cellulari più lussuosi e tutti i gadget elettronici più cari ed esclusivi di ultima generazione, le play station, gli abiti firmati, le droghe, i motorini, tutto quanto di più effimero, costoso e materialistico l’odierna civiltà dei consumi offre a compensazione di un assoluto deserto di valori e sentimenti di altra valenza culturale, morale e civile.
E appunto come falene questa luce li incenerirà portandoli alla rovina.
Si badi, non esiste alibi sociale, Saviano non fa del facile moralismo, non si tratta, o almeno non si tratta solo di bambini nati e cresciuti in ambienti miseri, poveri, degradati: il degrado, la povertà, la delinquenza, soprattutto l’assenza delle istituzioni è certamente presente nei luoghi popolari di nascita e di crescita.
Tuttavia si tratta, più che di proletariato in senso stretto, dei figli della piccola e piccolissima borghesia, non a caso il giovanissimo capobanda, detto il Maraja, ha per onesti genitori un umile ma dignitoso professore di educazione fisica in una scuola media, mentre la madre si industria con una piccola stireria.
Ciò che attrare i giovanissimi non è la fuga dal bisogno, come poteva essere una volta, ma l’immersione nel lusso più sfrenato, da loro confuso e identificato con la piena felicità, con la completa realizzazione di sé stessi. A niente altro aspirano che ad essere boss del sistema camorristico, ricchi, temuti, rispettati. Anche se per poco, anche se a prezzo di una vita breve, troppo breve, o da trascorrere per la maggior parte al duro regime carcerario previsto per gli associati a organizzazione mafiose.
Per capirci meglio, alla classica domanda di un professore alle scuole medie di cosa i ragazzi vorrebbero fare da “grandi”, se il meccanico, l’idraulico, o continuare a studiare ancora per intraprendere una professione, uno dei ragazzi risponde con disarmante e agghiacciante semplicità insieme: Flavio Briatore.
Non richiama l’esempio del sagace l’imprenditore, ma dell’uomo immerso nel lusso inverosimile più sfrenato e pacchiano; e per questo il piccolo sarà in seguito chiamato Briatò.
Sono bambini, niente altro che bambini di un’infanzia troppo spesso abbandonata a sé stessa, troppo piccoli per capire che altro dovrebbe essere la loro esistenza, altra cosa è il vivere sereni, e quello che è peggio è che sono lasciati a sé stessi, nessuno glielo insegna, nessuno ha tempo, modo e arte per seguirli, le famiglie meno che mai, e del tutto assente sul territorio sono i presidi a essa sostituiva.
Possono capirlo, forse, solo se colpiti direttamente in prima persona, solo se veramente feriti crudelmente a sangue nei loro affetti più cari. Solo allora potrebbero capire che le armi da fuoco non sono balocchi, che la stesa non è un gioco, che l’amore e la morte non sono solo parole. Potrebbero capirlo, certo, allora e a caro prezzo. Un prezzo spropositato, ma almeno questa esperienza di sangue e dolore negli affetti più cari conserverebbe comunque un aspetto salvifico. Se però interviene sciaguratamente un improvviso e imprevedibile capovolgimento di ruoli, se prevalgono a forza ataviche tradizioni di vendetta, di sangue chiama sangue, di leggi del taglione, il destino di questi bambini è segnato, resteranno sempre e soltanto un gruppo di fuoco della malavita organizzata, destinato a soccombere nel sangue, prima o poi, ad un’altra paranza emergente.
E tutto questo è inevitabile, Saviano ne è consapevole e testimone, con dolorosa amarezza.
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Una donna per amico
Non esiste nulla al mondo che, come e più di un buon romanzo, possa descriverci al meglio e con interesse crescente, insistente curiosità e nitida efficacia, l’intera esistenza di una persona.
Un libro può raccontare in modo laconico ma lapidario un grande intervallo di tempo, un numero incredibile di eventi, di fatti, di cambiamenti, accompagnati dai pensieri, dalle riflessioni, dai dialoghi, dagli umori dei protagonisti, che scandiscono così tutte le loro stagioni di vita, l’infanzia, la crescita, la maturità e l’epilogo dell’umana esistenza.
Se poi tale descrizione avviene con cura estrema, e con tale incanto da ammaliare il lettore, intrattenendolo, interessandolo, emozionandolo, se poi gli si descrive non una sola esistenza, ma due, ecco che di libri ne servono appunto due; e se il romanzo, come in questo caso, scruta, indaga e descrive non solo la vita ma tutto l’animo, lo spirito, l’intenzione, l’indole delle protagoniste, allora i due libri si elevano alla potenza di due, diventano quattro.
Raffaella Cerullo, detta Lina o Lila, figlia di un ciabattino, o meglio di uno scarparo, come si dice in napoletano, ed Elena Greco, detta Lena o Lenù, figlia di un usciere del comune, sono le protagoniste uniche e assolute non del solo romanzo, ma dell’intera quadrilogia con cui Elena Ferrante racconta una storia che si snoda in oltre mezzo secolo di vita, dai primissimi anni ’50 fino ai giorni odierni.
Una storia che si svolge a Napoli, in uno dei quartieri più poveri e degradati della città, ma che avrebbe potuto benissimo svolgersi, con pari efficacia, nelle desolate borgate romane, le stesse dove sono ambientati “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta” di Pier Paolo Pasolini, oppure nelle opprimenti case di ringhiera dell’hinterland milanese e nei tuguri sui navigli descritte da Giorgio Scerbanenco, oppure ancora nel popolare quartiere fiorentino di San Frediano di cui ci parla Vasco Pratolini; e non a caso citiamo luoghi e autori, perché a tali scrittori è senz’altro accostabile il nome e il valore letterario di Elena Ferrante.
Un poker di libri, ciascuno dei quali interessa le quattro stagioni di vita delle protagoniste: “L’amica geniale” contempla l’infanzia fino alla prima giovinezza, “Storia del nuovo cognome” si svolge durante l’adolescenza, “Storia di chi fugge e chi resta” interessa la maturità, l’ultima stagione di vita è richiamata in “Storia della bambina perduta”, quest’ultimo titolo finalista all’ultimo premio Strega.
Un poker di libri necessario per l’esaustività dell’opera, e per l’ampio periodo in cui si snoda la storia, ma non altro; Elena Ferrante, nonostante le apparenze o il numero di pagine vergate, è una scrittrice di rara sintesi ed efficacia, scevra da ridondanze e ripetizioni, una scrittrice essenziale ed esauriente insieme, già questo un pregio unico e raro nel panorama letterario.
Questa storia, declamata da una delle due protagoniste, Lenù, l’io narrante che svolge con certosina dedizione il suo ruolo di scriba, di chi trascrive diligentemente gli eventi e gli accadimenti, commentandoli e analizzandoli, si dilunga dunque in questi quattro libri distinti, ciascuno dei quali gode comunque di una sua interezza, ognuno di essi è fine a se stesso.
L’esigenza di diluire il racconto in più volumi, dettata certamente dalla necessità editoriale di contenerne le pagine, finisce per rilevarsi un gradevole indice di gradimento dell’opera, ci si trova, infatti, davanti a un raro esempio di un raccontare che si vorrebbe non avesse mai fine.
“L’amica geniale” tira la volata agli altri tre che seguono; esso è forse il più bello, il più incisivo, magari i romanzi successivi vivono soprattutto di luce riflessa dal primo libro della serie, ma l’intera storia merita, si fa leggere volentieri, è una buona storia ben raccontata, è una perla della contemporanea letteratura italiana.
Il lettore s’incanta, resta avvinto, affascinato dalla storia, come sempre dovrebbe succedere alla lettura di un buon libro; ma la Ferrante riesce in un di più, crea quell’atmosfera per cui, girata l’ultima pagina, ci si spiace, ci si resta male, si vorrebbe saperne di più, leggere di più, continuare a stare vicino alle protagoniste, seguendone le vicende direi in religioso silenzio, compartecipazione e trepidazione insieme.
Si badi, non si desidera sapere come va a finire, cosa succederà, non si tratta del fenomeno della fidelizzazione del lettore nei confronti dei personaggi come accade per esempio nelle fiction seriali, questa non è una storia a puntate, ma è la Storia, è il Romanzo, è il Summa dell’arte di scrivere.
Si desidera vivere la storia narrata, lasciarsi cullare dal ritmo ipnotico dello svolgersi dei fatti, centellinare le pagine quasi fosse un nettare, un’ambrosia.
Perciò, “L’amica geniale”, se non un capolavoro, è un’opera straordinaria, è pari se non di più ai grandi classici della letteratura, è una di quelle storie struggenti e delicate insieme, tenere e violente, amare e suadenti, in cui ciascuno riconosce se stesso, ritrova in qualche modo parte di sé, delle sue contraddizioni, i dubbi, le ipocrisie del vivere comune, fa pensare a cosa sarebbe potuta essere la propria esistenza se si fossero compiute scelte differenti, se ai bivi importanti della propria vita si fossero intraprese strade diverse, incontrate altre persone, se si fosse viaggiato altrimenti, ci si fosse allontanati o riuniti a posti e persone, è lo scorrere della vita di ciascuno, con il suo bagaglio di eventi purtroppo più spesso tristi che lieti, che è il vero fulcro ammaliante del romanzo, la sua forza è in questo. E non può perciò annoiare, non ci si stanca mai di sé.
Elena Ferrante non scrive una storia romanzata, fa romanzo della vita, perciò ciascuno è indotto, attraverso il racconto dell’esistenza più spesso misera ma sempre accesa di speranza di Lila e Lenù, a riconsiderare le proprie miserie e i propri agi, le proprie scelte e i propri pensieri, a rievocare i sogni realizzatisi o no, a fare racconto di sé, raccontarsi e redimersi, se si vuole, o semplicemente riconsiderarsi.
Facendo i conti con se stessi, con quello che, in effetti, siamo e quello che invece mostriamo, considerando con interezza il nostro genio interiore e non confondendoci con la nostra doppiezza.
La vita si svolge sempre su un binario doppio, bianco e nero, bene e male, sì e no, la vita ha sempre una valenza binaria; per questo, le ragazze protagoniste sono due, Lila e Lenù, ciascuna di lei ha, come tutti noi, il desiderio, la voglia, la volontà di crescere e cambiare, affrancarsi dal degrado morale e materiale in cui per caso o per volere degli dei si sono trovate a vivere, con metodi e scelte differenti, adeguati al proprio io, o semplicemente ritenute le più efficaci e opportune da seguire.
Lila e Lena sono diverse, e complementari; in realtà, non sono come due sorelle, o come due amiche intime e intensamente vicine e compartecipi, tutt’altro, tra loro c’è anche astio, livore, disagio, timori, litigi, rivalità, ci sono slanci di affetto e periodi di distacco, non per forza vanno sempre d’amore e d’accordo, spesso sono separate per tempi lunghi dalle distanze e dai casi squisitamente personali, nemmeno si dicono e si confidano completamente tutto di sé, molte sono le zone d’ombra che ciascuna cela volutamente all’altra.
Il romanzo non è, infatti, come molti credono, un’elegia dell’amicizia, è un di più: Lena e Lila sono due metà dello stesso essere, le famose metà di un’unica mela, ma con qualche distinguo.
Non sono propriamente complementari, sono intimamente parecchio contrapposte:
“Forse devo cancellare Lila da me come un disegno sulla lavagna, pensai, e fu, credo, la prima volta. Mi sentivo fragile, esposta a tutto, non potevo passare il mio tempo a inseguirla o a scoprire che lei mi inseguiva, e nell’un caso e nell’altro sentirmi da meno.”
Sono un’unica entità, diversa secondo le opportunità che la vita presenta a ciascuna di loro pur essendo tanto intimamente contigue, opportunità che possono venir colte o meno per cause indipendenti da loro stesse; possono essere perciò ambedue brillantissime studentesse ma solo una continuerà gli studi, l’altra interromperà gli studi ma si industrierà in una creativa attività imprenditoriale, a ciascuna di loro la vita riserva differenti seconde scelte, diverse opportunità, alterna fortuna, fortuiti e ridondanti incontri, amori comuni e sentimenti contrastanti.
Tuttavia da qualcosa sono intimamente unite, che le rende un tutt’uno geniale, le due amiche sono inestricabilmente legate dallo stesso spasmodico desiderio di crescere, sono congiunte inestricabilmente dalla voglia di non soccombere al “rione”, cioè a ciò che sentono “molesto” per le loro esistenze e per il loro futuro di giovani donne, desiderano con energia vivere libere e sapienti i loro personali “giorni dell’abbandono”, sono provviste di questa indole, questa volontà, questo “genio”, per cui nessuna di loro due desidera prevaricare ed eccellere sull’altra considerata pari grado, ma ciascuna di esse confida spontaneamente nell’altra e la considera di più, si crea un’alleanza concorde, si conviene saldamente lo stesso pensiero d’evasione dal rione e dai suoi abitanti, dalla miseria e dalle brutture, ognuno di loro pensa dell’altra:
“Tu sei la mia amica geniale, devi diventare la più brava di tutti, maschi e femmine.”
Chi, allora, tra Elena e Lila, Lena e Raffaella. Lenù e Lina, è per davvero l’amica geniale?
Lo è ciascuna delle due, ciascuna a suo modo, ciascuna vede l’altra come il proprio alter ego, e quindi per forza di cose ognuna di esse, diversissima e pure tanto uguale alla sua amica coetanea, è per l’altra il genio, o meglio, colei che ha avuto il “genio”, la voglia, l’ambizione, il desiderio forte, la determinazione per essere altro da ciò che è, tenuto conto da dove viene, e da quello che avrebbe dovuto essere.
Il racconto della loro epopea inizia quando, ormai alla soglia dei sessant’anni e più, Lila, quelle della due più inquieta, irrequieta, ribelle, scompare dalla sua abitazione in Napoli; l’altra, Lena, tranquilla e quieta intellettuale sui generis, pacata, razionale e sentimentale, affermata scrittrice in Torino, decide allora di scrivere la storia delle loro due vite, fittamente intrecciata, attingendo a piene mani dal corposo album dei ricordi di due esistenze tanto legate quanto diametralmente opposte.
Il libro inizia quindi da subito nel delineare la trama del romanzo: il racconto della vita per tanti versi condivisa dalla nascita di due donne, ognuna provvista di un proprio carattere, considerato speciale, geniale, dall’altra.
Ognuna avrebbe voluto essere l’altra: in realtà, si tratta di due caratteri ambedue speciali, unici, singolari, geniali appunto.
Due caratteri altrettanto geniali, quelli di Lila ed Elena, tanto diversi da desiderarsi a vicenda quindi, e da subito, fin da piccolissime, anche se lo capiranno solo più avanti negli anni.
Da subito, dalle prime pagine, Elena Ferrante traccia con chiarezza la sua storia: il suo intento è scrutare nell’animo delle sue protagoniste con pari intensità, e con uguale dedizione descrivere la loro insita “genialità”, certa di assicurarsi in questo modo la simpatia del lettore, nessuno riesce a mostrarsi indifferente alla genialità delle sue protagoniste.
Inizia quindi dalla primissima infanzia prescolare, in cui le due bimbe vicine di casa, loro due tra i tanti bambini del rione in cui abitano, istintivamente si avvicinano, si cercano, si trovano, affinano la loro conoscenza nelle lunghe ore di giochi in cortile con le loro rispettive bambole, Nu e Tina; e con i giochi si scambiano le confidenze, condividono le paure, provano a sfidarsi, si studiano, si cimentano nell’identificarsi l’una con l’altra, il tutto velato dall’incanto che fa dei colloqui dell’infanzia scoperta e fiaba:
«È bello» mormorai, «parlare con gli altri».
«Sì, ma solo se quando parli c’è uno che risponde».
Prosegue a scuola, dove Lina, di carattere introverso, chiuso, aspro, rivela un’istintiva innata genialità espressa nella precoce capacità di lettura e scrittura, mentre Lena, più pacata, riflessiva e remissiva, affina invece le proprie capacità di sacrificio e disciplinata applicazione allo studio.
Il loro rapporto si rifinisce nella condivisione del comune obiettivo di affrancarsi dall’ambiente misero e miserevole in cui vivono, affidandosi allo studio, alla cultura, ai libri, alla scrittura, tutti elementi considerate le uniche autentiche armi a disposizione per sottrarsi dalla cappa di povertà, bisogno ed emarginazione che incombe sul rione dove vivono miseramente, e per converso sulle loro famiglie, sui loro amici, sulle loro esistenze.
La cultura per loro è l’inverso della miseria, la conoscenza, il sapere, l’etica insita nelle letture significa amore, e senza amore l’esistenza non merita di essere vissuta, non ha valore.
“Se non c’è amore, non solo inaridisce la vita delle persone, ma anche quella delle città.”
Tant’è che, venute in possesso di una misera somma con il sacrificio delle loro bambole, la investono segretamente nell’acquisto di un libro, da leggere insieme di nascosto, condividendo quasi come con un senso di segreta colpevolezza il piacere di quella lettura, evento particolare nel loro ambiente rozzo, culturalmente degradato e arretrato non tanto in sé e per sé, ma perché ancora disperatamente alla ricerca della possibilità per tutti i loro abitanti del soddisfacimento dei puri bisogni elementari della vita.
Il libro acquistato con tanto amore e tanti batticuori sarà, manco a farlo apposta, “”Piccole donne” , il piccolo capolavoro di Luisa May Alcott, e con altrettanto amore le due amiche lo leggeranno insieme, ne condivideranno con cura il possesso, lo nasconderanno religiosamente a tutti, ne faranno simbolo e cimelio della loro unione, se ne rileggeranno a vicenda più volte i brani più significativi, fino a consumarne letteralmente le pagine, poiché i loro poveri mezzi non gli permetteranno ulteriori acquisti.
Da questa lettura nascerà il loro primo, intimo segreto di scrivere un libro, di diventare scrittrici e così liberarsi una volta per sempre dal degrado sociale e culturale malsano da cui ciascuna di loro è avvinta suo malgrado, e di cui ognuna di loro desidera liberarsi.
Sarà Lila, forse la più precoce delle due amichette, a compiere un primo passo in questa direzione scrivendo appena bambinetta delle classi elementari “La fata blu”, provvedendo di sua mano con cura e commovente amorevole solerzia a confezionarlo con un’elementare ma elegante veste “editoriale”.
Allora, dalle prime pagine del romanzo sembra essere Lila la vera”amica geniale”; invece, per motivi economici, la piccola deve interrompere gli studi dopo la licenza elementare, la famiglia è troppo bisognosa perché si possa accollare l’onere della scuola, e nonostante gli sforzi e le proteste dell’insegnante, che ben conosce l’intelligenza della piccola, la bimba prodigio è costretta suo malgrado ad abbandonare gli studi.
Sarà Elena, assai più timida, paurosa, remissiva, obbediente e gentile, la prototipa della brava bambina desiderosa solo di compiacere agli adulti, che pur completamente senza fiducia nelle proprie capacità, stimolata solo dalla volontà di non assomigliare crescendo alla misera figura zoppicante e scarmigliata della madre, e supportata da Lila, ad avere la possibilità di continuare gli studi oltre la licenza elementare, un lusso per quegli anni, una cosa incredibile per una ragazza in quel rione.
Ecco che i ruoli si ribaltano, è Lena ora “l’amica geniale”, ma le parti in questa storia non hanno motivo di essere, le due ragazze sono due semisfere, nel corso del tempo le vesti e le mansioni spesso se non sempre si rovesciano, ora l’una ora l’altra giganteggerà nei casi della vita.
In questo primo libro, Lila anche se costretta ad abbandonare gli studi, resterà comunque determinata ad andare oltre lo stradone, oltre il tunnel che limita l’angusto orizzonte del rione.
Al principio si limiterà ad aiutare il padre e il fratello nella bottega di scarpari, e la madre in casa nelle faccende casalinghe, mentre Lenù cercherà, invece, di cambiare il proprio destino attraverso lo studio. Poi, Lila s’industrierà abilmente nella confezione di scarpe creative e originali.
La piccola donna, infatti, non demorde, Lila ha un carattere ribelle, tosto, intraprendente, coraggioso; sa muoversi perfettamente a suo agio, benché piccola e minuta, tra i violenti del quartiere, riesce perciò ad ottenere incredibilmente carisma e rispetto, primeggerà giovanissima in quel rione intimamente intriso di miseria e di contrasti, pieno dell’astio e del livore dei poveri l’un contro l’altro, e delle nefandezze e dell’arroganza degli immancabili potenti e malavitosi del luogo.
Compirà la sua scelta, allora, Lila, credendo che sia l’opportunità migliore che la vita possa offrirle al momento, a soli 15 anni compirà un passo fondamentale, convinta che sia quello giusto indicatole dagli dei per ottenere la rivalsa sociale ed economica tanto ambiti, ma che come vedremo nei romanzi successivi, si rivelerà una scelta effimera, errata e ingannevole, si dissolverà come una bolla di sapone, causa di grandi dolori, strazi e sofferenze future.
Di tutto questo, sarà testimone Lenù, che intanto prosegue i suoi studi, portati avanti con sacrificio e ferrea disciplina personale, con amore e determinazione, in grandi ristrettezze economiche e morali, tra miseria, umiliazioni, libri usati e ore rubate al sonno e agli svaghi.
E avrà genio di raccontarlo minutamente.
“L’amica geniale” è un libro che paradossalmente riconduce a due i personaggi principali, ma presenta invece contemporaneamente una pletora di coprotagonisti, ognuno dei quali con un proprio ruolo e una propria indispensabile caratterizzazione; da Rino Cerullo, fratello di Lila, a Stefano Carracci, figlio dell’ex strozzino e borsanerista del rione; da Pasquale Peluso, muratore e militante comunista, a Enzo Scanno, fruttivendolo silenzioso e intraprendente; dall’ambiguo Donato Sarratore, poeta e giornalista, al figlio Nino, brillante studente, da Melina la pazza ad Antonio Cappuccio, meccanico, fino ai fratelli Michele e Marcello Solara, i piccoli boss camorristi del rione.
Ognuno dei coprotagonisti è come il tassello di un puzzle che configura il “rione” in cui si svolge la storia, il rione è la causa e l’origine della storia stessa, è l’essenza unica del romanzo.
Il rione è il vero protagonista del libro, è il luogo amato perché natio e che ti ammalia, ti costringe nelle sue spire, nei suoi rituali, i litigi, i rancori, gli amici, le bravate, le feste, gli spari del capodanno, cosicché non riesci a staccartene, a rifuggirne; è un luogo, un altrove, cattivo e affascinante insieme, ma è il tuo luogo, che tu lo voglia o no, è tuo, è un luogo dove:
“Vivevamo in un mondo in cui bambini e adulti si ferivano spesso, dalle ferite usciva il sangue, veniva la suppurazione e a volte morivano. Una delle figlie della signora Assunta, la fruttivendola, si era ferita con un chiodo ed era morta di tetano. Il figlio più piccolo della signora Spagnuolo era morto di crup alla gola. Un mio cugino, all’età di vent’anni, una mattina andò a spalare macerie e la sera era morto schiacciato, col sangue che gli usciva dalle orecchie e dalla bocca. Il padre di mia madre era rimasto ucciso perché stava costruendo un palazzo ed era caduto giù. Il padre del signor Peluso non aveva un braccio, gliel’aveva tagliato il tornio a tradimento. La sorella di Giuseppina, la moglie del signor Peluso, era morta di tubercolosi a ventidue anni. Il figlio grande di don Achille – non l’avevo mai visto, eppure mi pareva eppure mi pareva di ricordarmelo – era andato in guerra ed era morto due volte, prima annegato nell’oceano Pacifico, poi mangiato dai pescecani.
Tutta la famiglia Melchiorre era morta abbracciata, urlando di paura, sotto un bombardamento. La vecchia signorina Clorinda era morta respirando il gas invece dell’aria. Giannino, che stava in quarta quando noi eravamo in prima, un giorno era morto perché aveva trovato una bomba e l’aveva toccata. Luigina, con cui avevamo giocato in cortile o forse no, era solo un nome, l’aveva uccisa il tifo petecchiale. Il nostro mondo era così, pieno di parole che ammazzavano: il crup, il tetano, il tifo petecchiale, il gas, la guerra, il tornio, le macerie, il lavoro, il bombardamento, la bomba, la tubercolosi, la suppurazione. Faccio risalire le tante paure che mi hanno accompagnata per tutta la vita a quei vocaboli e a quegli anni. Si poteva morire anche di cose che parevano normali. Si poteva morire, per esempio, se sudavi e poi bevevi l’acqua fredda del rubinetto senza esserti prima bagnata i polsi: succedeva che ti coprivi di puntini rossi, ti veniva la tosse e non potevi respirare più. Si poteva morire se mangiavi le ciliegie nere senza sputare il nocciolo. Si poteva morire se masticavi la gomma americana e per distrazione la ingoiavi. Si poteva morire soprattutto se prendevi una botta alla tempia. La tempia era un posto fragilissimo, ci stavamo tutte molto attente. Bastava una sassata, e le sassate erano la norma.”
Da un posto così, da una vita così, chiunque desidererebbe evadere, scappare via.
Invece no: il romanzo non è solo questo, sarebbe semplicistico, le due amiche geniali non odiano il loro rione, capiscono che è incolpevole dei suoi stessi guasti.
Ciò che denigra il rione è altro, il suo limite, il suo degrado è l’ignoranza, e la protervia che ne deriva.
Perciò il rione è privo di cultura, e quindi necessariamente violento:
“Non ho nostalgia della nostra infanzia, è piena di violenza. Ci succedeva di tutto, in casa e fuori, ogni giorno, ma non ricordo di aver mai pensato che la vita che c’era capitata fosse particolarmente brutta. La vita era così e basta, crescevamo con l’obbligo di renderla difficile agli altri prima che gli altri la rendessero difficile a noi. Certo, a me sarebbero piaciuti i modi gentili che predicavano la maestra e il parroco, ma sentivo che quei modi non erano adatti al nostro rione, anche se eri femmina. Le donne combattevano tra loro più degli uomini, si prendevano per i capelli, si facevano male. Far male era una malattia.”
Il rione è malato, e la cultura è l’unica medicina valida; l’evolversi dell’esistenza deve senza indugio rivolgersi al meglio, al bene, all’amore.
In estrema sintesi, questa e solo questa è l’essenza de “ L’amica geniale” di Elena Ferrante.
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