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siti Opinione inserita da siti    06 Settembre, 2019
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Due ragazzi del '99

È in libreria dal tre settembre il nuovo romanzo di Marcello Fois, scrittore prolifico che spesso ha fatto oggetto di narrazione la sua terra, la Sardegna, immergendo il lettore in atmosfere e ambientazioni pregne di storia, tradizioni, identità e che altre volte ha scritto sperimentando nuovi moduli letterari e abbandonando lo scenario noto della terra di appartenenza. “Pietro e Paolo” sigla il ritorno alla Sardegna , questa volta quella dei primi anni venti del Novecento, quelli immediatamente precedenti e di poco successivi al primo conflitto mondiale. È proprio la guerra è il fattore che determina il cambiamento del rapporto fra Pietro e Paolo, fra il figlio del servo e il figlio del padrone: sono coetanei e a dispetto della loro diversa estrazione sociale coltivano, crescendo insieme, una bella amicizia. Pietro custodisce il sapere antico, quello della terra, della conoscenza della flora e della fauna, Paolo gode del privilegio di poter frequentare la scuola e accedere al sapere , quello veicolato dalla scrittura, quello spesso snaturato dalla mancata conoscenza della realtà per cui si crede a tutto ciò che dice il maestro. I due bambini scambiano i loro saperi, li barattano, li intrecciano abbeverandosi così di un sapere più completo e traendone giovamento entrambi. Svelare oltre della trama andrebbe a rovinare il piacere di una lettura che fa leva sulla curiosità di capire a cosa allude la voce narrante, di sapere che cosa è successo e quale sarà l’epilogo della vicenda. La struttura stessa della narrazione, scandita da brevi capitoletti con una numerazione a ritroso dal sedici allo zero, accompagna velocemente il lettore alla fruizione dell’opera che ha il pregio di far godere di una buona storia capace di far riflettere sul valore dell’amicizia.

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Storia e biografie
 
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siti Opinione inserita da siti    05 Settembre, 2019
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31 luglio 1919

Nel centenario della nascita di Primo Levi è ancora più prezioso risentire la sua voce, ripercorrere il suo pensiero, riproporre le sue riflessioni. Quelle compendiate in questa sua ultima opera (1986) sono il risultato di un lungo processo di recupero del fatto storico, nato prima dall’esigenza del giovane scampato al lager di testimoniare e di fare della scrittura terapia, per giungere poi in una continua evoluzione del pensiero ad una sedimentazione ragionata del fatto in sé. Solo una necessaria distanza e la capacità di trattare l’argomento in un mutato scenario umano, storico, sociale ed economico permettono all’uomo che fu prima vittima di accompagnare ognuno di noi nella comprensione del fenomeno evitando le storture che scaturiscono in primis dai truffaldini meccanismi della memoria- in maniera trasversale di quella delle vittime e quella dei carnefici – e in secondo luogo da certe immagini standardizzate che tutti conosciamo (il pigiama a righe, il filo spinato, i forni, le sevizie …) e che rischiano di appiattire il variegato “mondo concentrazionario”. L’opera di testimonianza che ha accompagnato l’esistenza del chimico reintegrato alla vita sociale è stata poi decisiva per questo labor limae perché, nel corso del tempo, ha permesso di chiarire l’inconsistenza delle domande più ricorrenti, sempre le stesse, che gli venivano rivolte dai giovani delle scuole ma non solo. Levi ha avuto il tempo di percepire tutte le fasi che hanno distinto la tardiva “scoperta”, lo studio, la celebrazione, la memoria e lo stesso negazionismo del “fenomeno Lager” e ha avuto l’intelligenza di intervenire con un acuto aggiustamento del tiro, un ripensare il fenomeno stesso in ottica più elevata, di vera comprensione al fine soprattutto di scongiurare il ripetersi di tale abominio. È soprattutto uno scritto che rifugge ogni semplificazione o qualsivoglia manicheismo, fornendo nel frattempo dettagli sconosciuti e in rigorosa sospensione del giudizio. Ognuno degli otto capitoli di cui si compone l’opera permette di affrontare una riflessione sui diversi aspetti che emergono a trattare un fenomeno storico così complesso: la vergogna, la memoria, la comunicazione, la violenza inutile, gli stereotipi in una serie di rimandi culturali che impreziosiscono il pensiero espresso e forniscono eventuali spunti di futura riflessione (è citata per esempio l’esperienza del filosofo Amèry). In conclusione, un’opera necessaria, utile a tutti e raccomandabile soprattutto alla generazione dei Millenial.

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siti Opinione inserita da siti    02 Settembre, 2019
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Incessante forza distruttrice

È tempo di riscoprire questo romanzo che all'epoca della sua prima pubblicazione nel 1974 fu, al tempo stesso, un vero e proprio successo editoriale e un oggetto di critica spietata. Invero, pare che ancora oggi sia molto venduto anche se dai più non letto o scoperto tardivamente. Non è certo l'eco distruttiva della critica ideologizzata a tenercelo lontano, quanto un inspiegabile e generalizzato disamore per la storia. Eppure questo romanzo di oltre seicento pagine assolve l'importante funzione di avvicinarci alla nostra storia e lo fa in modo semplice con protagonista un mondo di popolani, espressione di una vitalità sincera e genuina, sprovveduta e meschina. Al centro Ida, una maestrina romana d'adozione, ebrea, vedova, madre di due figli, Nino e Useppe, in realtà fratellastri perché il secondo è il frutto di una violenza gratuita perpetrata da un giovane e sprovveduto soldato tedesco ai danni di Iduzza. Attorno al loro universo ruota un microcosmo di personaggi che si muovono imperterriti nello scenario di una Roma sventrata dagli eventi della seconda guerra mondiale. Sono i quartieri popolari bombardati, il ghetto forzatamente popolato e poi tristemente svuotato, le periferie suburbane dove ancora la campagna riesce a restituire una primordiale vitalità. Il tempo del vivere è scandito dagli eventi bellici e l'esistenza è ridotta a pura sopravvivenza; molti soccomberanno mentre altri resisteranno, tutti però in un modo o nell'altro verranno schiacciati dalla Storia. Opera meritoria, di godibile lettura con il pregio di non scadere mai nella retorica nonostante il dolore rappresentato, capace anche di trasmettere non un'ideologia, come molti avrebbero auspicato al tempo, ma ideali, benché pervasi da un cupo pessimismo, a cui l'umanità non dovrebbe mai rinunciare. Una tensione alla vita, pura e bella, contro i soprusi del passato e le temute involuzioni del presente, quelle degli anni '70 così tristemente attuali ancora oggi.

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siti Opinione inserita da siti    24 Agosto, 2019
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E la vita, la vita, e la vita l'è bela, l'è bela..

Solo al decimo capitolo, sul finire della narrazione, prendo contatto con l'opera e ne respiro gli umori e inizio ad apprezzarla; avviene quando l'autore scopre il suo intento, quando, abbandonata la cronistoria del suo vivere quotidiano, fa trionfare l'ironia e tutto ciò che finora ha descritto della sua misera vita cittadina diventa il contraltare per proporre un'ideale di vita alternativa. Poche pagine serrate, meravigliose, divertenti e tristemente note: lì c'è tutta la miseria della nostra vita attuale, nulla è cambiato, anzi, si è realizzato all'inverosimile ciò che Bianciardi quasi profetizzava nel '61. Il consumismo si è fatto sfrenato, la qualità della vita si è abbassata ulteriormente, viviamo alla ricerca di inutili bisogni da soddisfare, spendiamo il nostro tempo a inseguire delle chimere che non soddisfano affatto che il mercato e la sua incessante sovrapproduzione. E il mondo si è fatto di plastica e l'aria è irrespirabile e l'uomo si è isolato: vive la sua vita agra. A leggere di quella dell'autore inizialmente si può provare noia, distacco emotivo e generazionale. Che ci fa un provinciale a Milano? E perché coltiva sogni anarchici, addirittura atti terroristici, da bombarolo puro? Perché non è rimasto con Mara e con la sua figlioletta in Toscana? Che ci va a fare in una città alienante come Milano? Chi glielo fa fare di ammazzarsi di lavoro? Poi lentamente trova la sua dimensione, una situazione però di pura sopravvivenza che spegne ogni ardore e la vita sfuma e l'uomo si perde e la vita va …
Triste, malinconico, in bilico tra il rifiuto e la ricerca di approvazione e di riconoscimento. Una vita schiacciata, un intelletto sprecato. É bene leggerlo per cercare di intuire quanto siamo tristemente omologati, ingenui e perfino felici.

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Romanzi storici
 
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siti Opinione inserita da siti    21 Agosto, 2019
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Niente retorica!

Siamo alla vigilia del centenario della Grande Guerra, il Paese è in fermento, la retorica diventa industria e i già monumentali sacrari italiani, squadrati, vuoti, simbolo dell'incapacità di custodire il ricordo e di farlo parlare appaiano mere spersonalizzazioni di quella che invece fu la tragedia più individuale che potesse colpire i popoli della vecchia Europa, quando niente parlava di guerra, quando il progresso spianava la via della sicurezza e della tranquillità. Confido di avere provato sentimenti simili presenziando a certi eventi commemorativi dove la retorica dell'Istituto Luce veniva proposta, ancora, e senza nessun filtro. La guerra è guerra, sempre, la guerra è morte, non si vince, si perde, sempre. Paolo Rumiz, ecco, ha risvegliato in me quel sentimento, quando raccontando del suo sconforto provato nel sacrario di Redipuglia decide di seguire le voci di quei militari italiani e di spingersi fino alla sperduta Galizia e di ripercorrere il sacrificio dei tanti italiani che combatterono dalla parte sbagliata, come suo nonno, o meglio combatterono a favore di quella che allora era la loro patria. Il nonno tornò ma la sua esperienza divenne un tabù nella sua Trieste divenuta italiana. E l'Italia ha dimenticato questi soldati, per loro nessuna celebrazione, nessun monumento, solo l'oblio e la vergogna per aver combattuto dalla parte sbagliata. Il viaggio intrapreso da Rumiz apre le porte al lettore per dimensioni geografiche, storiche e culturali spesso inesplorate o dimenticate o peggio ancora denigrate, alla scoperta di un'umanità accomunata dalla stessa tragedia. È un itinerario difficile da seguire, uscire da Trieste verso est è oggi difficoltoso, quello che un tempo era il centro dell'impero austroungarico è attualmente una terra sulla quale la nostra nazione non investe, la rete ferroviaria imperiale è dismessa, il viaggio si presenta subito difficile ma non impossibile. Rumiz però non ha fretta, segue il suo istinto e raggiungendo i luoghi delle battaglie, quelle sconosciute dell'altrettanto sconosciuto piatto fronte orientale del quale nessun manuale di storia nostrano fa menzione, si immerge in essi, li fa propri, li sente quasi in forma mistica e ce li ripropone come dovettero viverli e sentirli i nostri triestini. Porta con sé i loro scritti e li fa riecheggiare, ritrova i sepolcri di quelli che non ebbero modo di rientrare e di testimoniare e vi lascia un lumicino. Il viaggio prosegue poi verso la Polonia e pagina dopo pagina apre inesplorate geografie ritrovando storie e destini che spesso si incrociano. Una lettura affascinante, ricca di riferimenti bibliografici, dai diari dei soldati ai memoriali letterari, alla letteratura yiddish, al mito del finis Austriae. Una prima conoscenza di Rumiz del quale mi riprometto di leggere gli altri memoriali di viaggio ai quali da decenni ormai si dedica. Un senso di gioia nell'aver trovato un degno successore di quel Terzani che tanto mi aveva arricchita in termini culturali e umani con le sue esperienze di vita, di viaggio, di lavoro.

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Terzani
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siti Opinione inserita da siti    21 Agosto, 2019
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Una distopia ignota ai più

L'ingegnere Dale, disgustato dalla vita che conduce all'estero e smosso nell'intenzione dalla visione di una scultura proveniente dalle sue terre in mostra nell'Esposizione della città ove abita, decide di tornare nel suo Paese, vi manca dagli anni della prima infanzia e si è costantemente tenuto aggiornato sulla guerra fra partigiani e bande che vi imperversa; Barbara, una giovane donna sua amica, gli scrive che al momento i partigiani hanno la meglio e che è dunque un periodo relativamente tranquillo. Gradualmente, col suo arrivo, il lettore viene immerso in un'atmosfera dapprima impregnata della novità tipica di chi prende contatto con una realtà nuova, per poi sentirsi avviluppato in atmosfere sempre più più atipiche, stranianti, inusuali: non sono eventi particolari a innescare uno stato di allerta quanto gli atteggiamenti, le predisposizioni personali, i comportamenti. Tutto invita a una moderata presa d'atto di un costume nuovo, di un fare da rimodulare, a partire dalle relazioni da instaurare con le persone. Soprattutto Dale si rende conto che egli è avvertito come uno straniero, un diverso, un potenziale nemico, offrire la sua professionalità al servizio del governo non sarà semplice, conoscere nuove persone sarà altrettanto arduo e perfino frequentare la sua amica Barbara potrebbe destare sospetto...
Un romanzo distopico, anticipatore del grande fratello di Orwell, una società privata di libertà, in balia di sussurri, delazioni, tradimenti, denunce. Al bando ogni forma di individualità: pensieri e sentimenti sono pericolosi, il governo ambisce alla felicità di ognuno che può essere raggiunta annullando il sentimento di colpa che si proverebbe al solo pensiero di non conformarsi. -“Noi” proseguì l'Inquisitore, “vogliamo che i nostri cittadini siano felici. Devono essere felici per forza (...) Tutto quello che li turba è delittuoso. Essi hanno la verità, la giustizia , la felicità. Essi non hanno misteri. Possono vivere pubblicamente uno di fronte all'altro, senza nascondersi nulla. Non si devono nascondere nulla. Il mondo intero deve essere pulito, senza ombre, senza segreti, senza veleni di desideri e di nostalgie. Ora esiste una pianta umana che non siamo riusciti ad estirpare del tutto, è un'intera razza di uomini. Essa deve scomparire. Dopo il mondo sarà felice, soltanto dopo. Deve essere felice”-. Dale tenterà di muovere obiezione a siffatte ideologie senza riuscire però a rappresentare se stesso e la sua volontà, vittima anche a lui, sebbene a modo suo, di un processo di involontaria adesione. L'opera uscì nel 1938, epurata di una ventina di righe per mano della censura fascista che avrebbe voluto falciarla di venti pagine, passò inosservata, venne bandita solo nella Germania nazista, fu costretta sempre per mano della censura ad un' ambientazione russa; gli è più congeniale la dimensione atemporale che si adatta a qualsiasi frangente nel quale venga negata la libertà. A me ha ricordato la Spagna di Salazar rappresentata da Tabucchi in “Sostiene Pereira”. Interessante prova di un autore non troppo conosciuto e che si associa generalmente al mondo calabrese da lui rappresentato nella sua opera più nota mentre penso sia più rappresentativo il suo “Quasi una vita”, vincitore del Premio Strega nel '51 per restituire all'intellettuale la sua giusta dimensione.

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Sostiene Pereira
1984
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siti Opinione inserita da siti    12 Agosto, 2019
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Destino:solitudine.

Come nell’epos un ruolo determinante assolve la stratificazione di racconti derivati dal mito e tramandati oralmente, così questo romanzo incentra la sua riflessione sulla stratificazione operata dagli uomini negli spazi da loro abitati, vissuti e ideati per le più diverse necessità. La riflessione su di essi è dunque uno dei fili conduttori di questa scrittura che, cavalcando la professione del suo protagonista, Jacques Austerlitz è un professore di storia dell’architettura, conduce ad una presa d’atto della caducità delle stesse edificazioni umane e della loro necessaria, successiva e funzionale sovrapposizione. Ci sono in questo romanzo pagine imperniate su descrizioni dal fascino decadente che accompagnano il lettore nella scoperta di luoghi; può trattarsi di spazi fisici che abbiamo sicuramente presenti alla nostra memoria: spazi urbani per lo più riconducibili a città quali Londra, Parigi, Anversa, Praga o ancora spazi dismessi, riconvertiti, inglobati in nuovi scenari suburbani o ancora siti abbandonati o vecchi appartamenti dalla memoria lisa o ville dai gloriosi fasti passati o un ghetto tristemente noto per i disegni dei suoi bambini che furono poi deportati nei campi di sterminio di Treblinka e Auschwitz. Tutta la dimensione spaziale, accompagnata in molte pagine anche da scatti fotografici che documentano quanto descritto, si intreccia con quella temporale e con il racconto del narratore che, a più riprese nel corso degli anni, ha incontrato dapprima in modo casuale e fortuito poi in modo sempre più sistematico ma mai certo, Austerlitz il quale nel corso di questi incontri gli affida la sua memoria storica: il suo spazio e il suo tempo; dimensioni nel suo caso nebulose. Grazie al narratore possiamo anche noi conoscerne la storia assistendo proprio ad un recupero della dimensione spaziale che soggiace all’identità temporale di questo uomo venendo a conoscenza della sua storia personale sepolta in strati di memoria sopita. Un romanzo davvero originale che ci permetterà di sapere chi è Austerlitz, perché vive solo e rifugge il contatto umano, o ancora perché la sua identità di bambino, la sua vera identità , non gli si era rivelata prima che il suo destino di uomo adulto venisse costretto in una gabbia di auto isolamento.

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siti Opinione inserita da siti    07 Agosto, 2019
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Cercando Camus

Romanzo del 1947, successo di pubblico e di critica ma ben lontano da quella forma perfetta raggiunta nel romanzo d’esordio “Gli indifferenti”. Potremmo definirlo un romanzo appartenente al genere del realismo psicologico, interessante per ambientazione, Roma fascista ai tempi della guerra d’Etiopia, e per i personaggi ritratti: una popolana, prostituta e in coppia con una madre vedova e sconfitta dalla vita, un ragazzo popolano autista presso una ricca famiglia, un giovane studente provinciale appartenente alla media borghesia, un poliziotto , un delinquente. Se vogliamo è presente, con la sua impronta, anche tutto un sottosuolo di umanità sfatta, povera ma viva e pulsante: sono le amiche di Adriana, la giovane prostituta, sono i clienti che si aggirano per strade buie e per taverne e per logore stanze in affitto il tempo necessario per consumare. Il tutto rappresentato dalla voce narrante della stessa Adriana che racconta pochi anni della sua esistenza , dalle pressioni subite dalla madre che, data la sua bellezza giunonica ma non più alla moda, cerca di farla sfondare, appena sedicenne, come modella riuscendo però solo a farla posare nuda per alcuni pittori, fino al suo primo innamoramento, alla delusione per una storia che non potrà avere futuro e al tramonto delle sue speranze giovanili di matrimonio e figli fatte coincidere con il passaggio al mestiere. Da quel momento Adriana diventa un personaggio autonomo, tutta la prima parte era invece tesa a rappresentarla come succube di una madre arrivista, è ora capace di scelte, vittima a questo punto solo della sua condizione sociale. Tuttavia, proprio i molteplici rapporti intrattenuti con i vari clienti la portano a una razionale decodifica della realtà che, pur non facendole mancare momenti di grande sconforto, le daranno anche la possibilità di rafforzare la sua personale attitudine verso la vita, un sano ottimismo, una rassegnata accettazione. Lei diventa il fulcro sul quale convergono individui molto più combattuti intimamente, incapaci di vivere, preda dei propri istinti, delle proprie emozioni o peggio in balia di una totale assenza di linfa vitale, come nel caso di Mino, il giovane studente borghese, vero e proprio nichilista . Questa complessità umana è filtrata dallo sguardo di una popolana, Adriana appunto, e benché lei stessa si rappresenti limitata nell’intelletto e profondamente ignorante , risulta però capace di una lettura che è evidente traduzione del sentire dell’autore che l’ha messa in scena. La sua voce, le sue parole, la profondità di analisi psicologica tradiscono purtroppo l’intellettuale Moravia, e questo è il limite, a mio avviso, più evidente dell’opera. Il romanzo è tuttavia scorrevole, godibilissimo, a tratti noir, capace ad ogni modo di evidenziare una critica al mondo borghese, costante dell’opera dell’autore, che, rispetto al vivace pullulare di vita del ceto popolare privo di sovrastrutture culturali, ne esce sconfitto e mortificato. Ancora una volta sull’onda di un latente esistenzialismo.

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Moll Flanders
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siti Opinione inserita da siti    30 Luglio, 2019
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Vox populi

Il gusto del narrare, a dispetto di una materia autobiografica difficile da governare perché frutto di quello che viene avvertito come un fallimento esistenziale che altro non è che uno stato di malattia, in questo romanzo bello, fresco e originale non viene mai meno. Direi anzi che è l'essenza che regge la materia narrata meglio e più delle contingenze legate al puro contenuto. Uno stile dallo stesso Berto definito psicoanalitico, un libero fluire di parole per associazioni che non portano al pericolo di far perdere la bussola al lettore come avviene con la tecnica del flusso di coscienza ma che, al contrario, aprono nuovi quadri narrativi che si comportano come tasselli di un medesimo puzzle, ogni bordo coincide giustappunto con altri e si regge in un tutto grazie ad essi. Un gusto del narrare che la stessa malattia ha messo in crisi non fossero bastati un'altra serie di elementi concomitanti: Berto è inviso agli ambienti letterari dell'epoca, è stato fascista, ha scritto opere di facili successi, non si allinea anche quando, e lo fa più volte ma a modo suo, riconosce deleterie le sue precedenti simpatie politiche situandole nel mero dato biografico - ecco perché bisognerebbe conoscerlo un uomo prima di giudicarlo (e non parlo di non giudicare affatto, pratica secondo me misconosciuta a qualsiasi esemplare di essere umano) – e si comporta ora come un non allineato. Certo sono i tempi della dolce vita, quella felicemente ritratta da Fellini, ma lui viene da Mogliano Veneto sebbene risieda nella capitale. Insieme a lui a Roma c'è anche l'ombra paterna, quella dalla quale è sfuggito e che anche dopo la morte lo assilla al punto tale da far esplodere una nevrosi che covava da tempo. La narrazione si apre appunto nel pieno del conflitto familiare nel momento della morte del padre, siamo subito allineati alle bellissime pagine del romanzo di Svevo, La coscienza di Zeno, e Berto ne è pienamente consapevole ma lo stacco è immediato, l'impronta c'è ma il solco ora tracciato vivrà di un altro respiro. Concomitante all'evento tragico la narrazione procede impietosa a inanellare i molteplici episodi in cui il male si manifesta e tutti hanno una precisa collocazione nel corpo e nelle sue manifestazioni dolorose, è il dolore la spia prima del malessere, dolore localizzato nelle vertebre lombari, e nello stomaco se non negli intestini. Si arriva perfino ad un intervento urgente per sospetta peritonite: si taglia e si cuce senza nulla trovare. Forse è l'ulcera duodenale il vero male... Esilarante, divertente oserei dire e non abbiatene a male, a me questo Berto sta proprio simpatico, al limite tra il tragico e il comico. Ha avuto la capacità di esorcizzare il suo male con un'infinità di espedienti, e qui ci si ritrova tutti, non necessariamente perché nevrotici, basta un banale attacco di emicrania o anche l'herpes simplex, che tutto è tranne che semplice se recidiva. Ha inoltre avuto il coraggio di sperimentare l'analisi e con buoni risultati fidandosi del transfert e traendone indubbio beneficio e soprattutto non ha del tutto messo a tacere il suo super-Io che ambendo, con buona dose di narcisismo, al capolavoro e alla gloria imperitura, non ha avuto tutti i torti. Leggetelo per riappacificarvi con Zeno, per incuriosirvi verso Gadda, a cui si deve da “La cognizione del dolore” il titolo stesso del romanzo, o se per caso siete passati per Pomella e il suo “L'uomo che trema”. Leggetelo anche per dare uno schiaffo morale a chi non credeva alla voce di uno scorbutico, non allineato e molto critico verso i salotti buoni, gli unici che potessero partorire buona letteratura, naturalmente con il gioco di rimandi interni fatti di recensioni, amicizie nell'editoria e buoni divani.

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L'uomo che trema
La coscienza di Zeno
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siti Opinione inserita da siti    25 Luglio, 2019
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Di cosa non ti puoi privare...

Più che una recensione al dramma queste poche righe vorrebbero tendere alla lettura dell'edizione della BUR classici (febbraio 2016) in quanto funzionale alla decodifica di un'opera che si presume di conoscere e che puntualmente si finisce per archiviare come un vero e proprio dilemma. L'edizione presenta testo inglese a fronte, un ricco apparato di note a cura di Keir Elam, un saggio di Viola Papetti e la traduzione del compianto Gabriele Baldini. Fin da subito appare chiaro, anche all'occhio profano, che si andrà a fruire di un lavoro importante e che la lettura rallentata dal fitto apparato di note sarà un 'occasione per avvicinare un'opera che spesso nell'immaginario collettivo, come capita con tante creazioni del Bardo, è stata liberamente interpretata e di volta in volta calata a mere esigenze di attualizzazione. Una stessa sezione dell'introduzione è interamente dedicata ad “Amleto in scena e sullo schermo” senza trascurare le moderne interpretazioni italiane da Gassman ad Albertazzi fino ad Antonio Latella nel più recente 2003.
Arricchiscono il volume un interessante apparato bibliografico, una nota filologica e le varianti testuali. A chi meno edotto su tali questioni già il solo corpus testuale diventa fonte di preziose informazioni: il lettore infatti ha modo di ricordare di essere di fronte ad un testo in poesia la cui ricchezza semantica è intessuta non solo di sforzo e maestria metrica ma, soprattutto, di fine ricerca lessicale rivolta all'uso del doppio senso spesso di carattere sessuale, o di una retorica che fa di metafore, metonimie ed endiadi il substrato semantico di un significato complesso. I temi, poi si intrecciano in modo tale da far oscillare nel dubbio tra dramma pubblico o privato. L'impostazione scenica, quella presunta del Globe, infittisce il mistero: le forzature nella divisione in atti e in scene, le supposizioni circa gli stesi atti scenici se non addirittura sulla presenza scenica di alcuni personaggi in dati momenti, restituiscono la complessità già presente alla base. La stessa rappresentazione del dramma sul finire dell'epoca elisabettiana è indicativa di ulteriori significati contingenti al periodo storico che si chiudeva e che le note aiutano a cogliere permettendo di ampliare la nostra visione. Ci si ritrova anche di fronte a interessanti scorci metaletterari, o meglio meta-teatrali, che indirizzano sullo stato del teatro nell'Inghilterra dell'epoca e sul ruolo che la compagnia dell'autore ricopriva, in termini di novità, rispetto al passato.

Certo c'è poi da gustare l'opera letteraria in sé, ma lo sapete questa è atipica per tensione narrativa, è il dramma dell'inazione per antonomasia, ciò che qui va cercato è il significato della parole e non è semplice da rintracciare. Ecco perché una buona edizione merita una recensione più della stessa opera di cui si occupa. Buona degustazione.

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siti Opinione inserita da siti    22 Luglio, 2019
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Dalla parte di Swann

“Il buon angelo della certezza” veglia su di noi ad ogni risveglio, ci posiziona nello spazio e nel tempo e ci dota di bussola, necessaria per navigare nel mare della vita, uniche coordinate a disposizione l'identità e la memoria. Siamo il prodotto di una stratificazione incessante che si compie lungo tutto il corso dell'esistenza e che concorre a definirci, a plasmarci e a restituirci un senso di appartenenza talmente fugace che basta il sonno successivo a destabilizzare ma anche a riplasmare. Identico processo di stratificazione si compie in noi ogni qualvolta un' opera letteraria si situa così profondamente nel nostro Io da concorrere, da allora in poi, a fornire una chiave di lettura della realtà, una sorta di materiale galleggiante nella nostra memoria letteraria che altre letture successive sapranno richiamare da questo mare magnum fluttuante che siamo noi: idee, emozioni, immagini, sensazioni, ricordi. Questi, tuttavia, non è semplice attivarli, il ricordo spesso non è un atto volontario, è piuttosto un processo di innesco, imprevedibile; nella vita non è raro che il richiamo passi per la sfera sensoriale: un odore, un sapore, mentre nella città di carta l'unicuum rappresentato dalle parole stampate su foglio bianco non pare offrire alcun riscontro. È la decodifica di quei segni, i significanti, che attiva i significati, ricostruisce immagini, forgia concetti, propone quadri visivi, genera storie. E alcune volte, quelle storie, le hai già sentite, non tali e quali: ecco è a quel punto che ti accorgi che sono state richiamate. Proust chiama Balzac. Per fortuna mi accade questo corto circuito solo nella seconda delle tre parti che compongono il primo tassello di questo romanzo, “Un amore di Swann” ,mentre “Combray” e “Nomi di paesi:il nome” mi iniziano prima e mi riportano poi alla meravigliosa unicità di questo autore e al suo tratto distintivo. Una scrittura, restituita dalla splendida traduzione di Giovanni Raboni, dalla prosa limpida ed efficace, nutrita di capacità visionaria che niente ha del fantastico e dell'irreale ma di essa imbevuta all'atto del sigillo operato dal ricordo. All'autore la maieutica della liberazione. Nel primo volume il narratore bambino, le sue paure, i suoi affetti, i suoi luoghi e gli adulti in una società che pare ciecamente cristallizzata in un tempo che non c'è più. Una paralisi inutile in un'incessante divenire che il ricordo riuscirà forse a restituire in quella breve porzione temporale che chiamiamo il nostro tempo.

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Politica e attualità
 
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siti Opinione inserita da siti    14 Luglio, 2019
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Il sacro fuoco dei Minerva

Volume ricco di spunti di riflessione, uscito postumo nel 2016, copre un arco temporale di quindici anni attraverso l'antologia delle famose bustine di Minerva che, pur risalendo la prima al 1985, interessano gli anni a partire dal 2000 fino alla morte dell'autore. Il taglio è sempre il medesimo, un contributo breve dalla sintesi perspicace che partendo da un assunto, ma spesso e volentieri da un dubbio,si chiude con una nota comica, il picco massimo, a mio parere, della genialità espressiva dell'autore. Un microtesto che condensa ogni volta spunti di riflessione i quali pur descrivendo le storture della società liquida, e in questo inquietandoci, riesce poi con abile virata a offrire chiavi di lettura e prospettive inaudite con il chiaro scopo di sdrammatizzare e soprattutto di tentare una lettura non disfattista ma critica e funzionale alla soluzione dei problemi. Per comodità di fruizione gli interventi antologizzati sono riuniti in nuclei tematici senza seguire il criterio cronologico e ciò da modo di avere uno sguardo di insieme capace di far emergere l'interesse trasversale di Eco ai diversi problemi della nostra contemporaneità spesso anticipando, il nostro, considerazioni che sorgono spontanee in molti quando il fenomeno è acclamato e non latente e quindi ancora di difficoltosa lettura. Involuzione tecnologica, web, libri, le grandi tensioni dell'odio e dell'amore, l'apparire, il falso problema della privacy, il decadimento dei principali canali formativi: scuola e università, la perdita della dimensione storica se riferita al passato, ovvero la perdita della memoria, stupidità e follia. Una lettura arricchente e comoda, nella sua forma di selezione, anche per chi all'epoca non si è perso nemmeno una bustina; è sempre bello d'altronde ritrovare un appunto scritto su un foglio per la sua capacità intrinseca che possiede di rievocare un'epoca, un sentimento, un tempo che non c'è più ma che ha concorso a formare la nostra visione attuale del presente.

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le "Bustine di Minerva"
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siti Opinione inserita da siti    09 Luglio, 2019
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Tutto scorre...

In puro stile da presa diretta, come se fossimo al cospetto di una sceneggiatura già tradotta in movimento, Saramago entra dentro un'azione scenica, imposta un narratore e gli fa traslare il fatto in sé, i protagonisti e i luoghi, imponendosi fin da subito come il detentore della verità. La voce narrante è infatti onnisciente, non tanto perché anticipa fatti o riprende gli antefatti, quanto perché è la detentrice di quella verità cui tende l'intera narrazione: è il filosofo contemplato da Platone, colui che ama la verità e non insegue l'opinione.
In questo romanzo il mito della caverna è alla base dell'intera narrazione e si mostra funzionale all'epilogo della vicenda narrata che altro non è se non un banale e sano quotidiano minacciato dall'aleatorio, dal superfluo, dal ridicolo.
Cipriano Algor è vasaio, ha sessantaquattro anni, una figlia, un genero che lavora in città, nel Centro, vero cuore pulsante dell'attività economica del circondario, e una vicina che potrebbe alleviare la mancanza della sua cara moglie defunta. Si ritrova presto anche padrone di un cane. E sappiamo fin da subito, e ancor prima di lui, che presto diventerà nonno. A fasi alterne, godendo di alcune piccole anticipazioni, ignari ancora gli stessi personaggi, saremo resi edotti anche di altri piccoli fatterelli, che pur carichi di un'implicita drammaticità, vengono affrontati dagli stessi con atavico eroismo misto a pura rassegnazione.
Il fatto che innesca la narrazione, e rompe ogni dimensione temporale e ogni certezza, una sorta di velo di Maya, è la risoluzione unilaterale del rapporto lavorativo di Cipriano con il Centro che non ha più bisogno dei suoi vasi, della sua terracotta, della sapienza creatrice delle mani, della caducità di un oggetto, semplicemente perché la domanda non incontra più l'offerta e il suo prodotto ha cessato di essere concorrenziale. La sua estromissione è graduale, lenta e patetica, metafora della caducità a marcare l'idea che tra un essere umano e un coccio non intercorre differenza alcuna.
“Punto più, virgola meno”, la narrazione scorre compatta in pagine fitte per assenza assoluta di capoversi e per dialoghi espropriati del loro codice interpuntivo, diventa massiva e claustrofobica, scandita da rari eventi che amplificano le conseguenze fino a giungere ad un epilogo che consola e restituisce speranza. Una riflessione più che mai attuale sullo stato del nostro progresso e sulle implicazioni etiche che comporta il rinnegare il passato semplicemente pensandolo come antitetico al nostro presente.

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Borges, Finzioni
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siti Opinione inserita da siti    04 Luglio, 2019
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Il mio io è dentro me

“Perché io appartengo ai boschi e alla solitudine”, questo è il lascito della voce narrante che occupa la parte preponderante della narrazione e che coincide con il personaggio principale, il tenente Glahn, solitario abitante di una baita nel Nordland. Dedito alla caccia, immerso nella natura, temperamento irascibile, natura scontrosa, racconta, a distanza di due anni, la sua estate nel nord e la faticosa integrazione con gli abitanti del vicino centro abitato. Le sue brevi frequentazioni lo avvicinano a due giovani donne godendo solo di quella che meno gli preme; l'altra infatti pare essere il contraltare della sua natura irrequieta. La giovane Edvarda è infatti capricciosa, insolente e infantile e lui ne è vittima ammaliata. Nessun coinvolgimento emotivo suscita quest'anima tormentata, la sua natura esplode in comportamenti bizzarri e insoliti rendendolo inviso anche al lettore. Un' ultima parte affidata ad un'altra voce narrante ce ne consegna infine il destino ultimo. Nessuna presa in me il panismo rappresentato e il suo infrangersi a contatto con il complicato mondo sociale. I fatti narrati annullano ogni possibile riabilitazione.

Stesso destino all'autore?

Premio Nobel, molto amato da Thomas Mann sin dalla gioventù, leggerne la controversa biografia mi ha allontanata ancora di più da una piacevolezza di lettura purtroppo mancata suscitando in me invece un interesse morboso rispetto alla sua biografia: medaglia del Nobel in regalo a Goebbels, necrologio a Hitler, accuse di collaborazionismo, internamento in manicomio...Approfondirò...

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L'Oratorio di Natale
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Arte e Spettacolo
 
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siti Opinione inserita da siti    01 Luglio, 2019
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Sempre utile

Pubblicato per la prima volta nel 2002, il saggio in questione vive in un'edizione riveduta e illustrata del 2005 ed è inserito in un'opera di grande respiro che si nutre di pubblicazioni difficili da collocare per genere, materia trattata, suggestioni derivanti dal coacervo culturale che intrecciano e al quale si ispirano. Un saggio? Ecco il dubbio si presenta anche per “K.”, lo definirei piuttosto una interessante prova di esegesi letteraria sulla scorta di una lettura del mondo che contraddistingue l'opera e l'attività culturale di Calasso alla ricerca delle commistioni tra sacro e profano, tra storia e religione, tra culture e generi letterari. Il fatto che si tratti dell'interpretazione dell'opera di Kafka, sfuggente nel suo simbolismo, fa di questo scritto una lettura interessante e una base d'appoggio per eventualmente riprendere in mano non solo la trilogia ma anche i racconti e gli scritti di matrice autobiografica a partire dai diari. L' edizione del 2005 è poi una coccola per il lettore più interessato perché arricchita dai disegni di Kafka che con pochi tratti di china nera fissano in altra forma l'immaginario che già le sue parole avevano costruito nella nostra mente. Tratti stilizzati che ripercorrono luoghi noti, schizzi compulsivi che richiamano appunto i luoghi dei romanzi e non solo, intesi come spazi fisici ma anche come i topoi mai nella sua opera riconducibili a loci ameni. Suscitano la stessa inquietudine che vibra e percuote ogni sua pagina letteraria e non.
Suddiviso in quindici capitoli il testo di Calasso procede per nuclei tematici spesso isolando particolari contenuti principalmente nei romanzi per affrontare, a partire da essi, puntigliose disamine che trascendono l'opera stessa e si riagganciano alla biografia sulla scorta dell'uso sapiente delle pagine dei diari. Al lettore un sentimento di spaesamento iniziale, un appagamento successivo nel recuperare le atmosfere note e le sensazioni provate di fronte all'opera del praghese. Parallelismi fra i romanzi, fra gli stessi personaggi dei romanzi, fra i luoghi in essi rappresentati, un primo focus su “Il processo” e “Il castello”, un assaggio de “Il disperso” sufficiente per avvallare la tematica dell'estraneità e per inserire l'inserto erotico, e poi , via via , un procedere a scandagliare gli abissi del particolare: personaggi, conversazioni, spazi, ansie, paure, prigioni, catene in un claustrofobico ritrovarsi nelle stesse dichiarazioni rese nei diari su se stesso, la sua famiglia, le donne, e il processo di scrittura. Un 'ampia sezione è dedicata ai testi brevi, da “Il verdetto”, primo racconto risalente al 1912 a “La tana” passando per “Nella colonia penale” e l'immancabile ”La metamorfosi”. Riconosco che questi capitoli centrali mi hanno affascinata: l'intreccio fra vita e scrittura giunge al suo apice. Ho necessità estrema ora di leggere gli scritti autobiografici: confessioni, diari, lettere, consapevole del monito kafkiano che recita come un mantra “Non si deve prendere tutto per vero, lo si deve prendere solo per necessario”.

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le opere di Kafka
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Salute e Benessere
 
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siti Opinione inserita da siti    30 Giugno, 2019
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Un disorganico silenzio

Agile libello che si legge tutto d'un fiato ma senza particolare entusiasmo. Si tratta di riflessioni tratte dall'esperienza del grande esploratore norvegese che, dopo aver attraversato l'Antartide in solitaria, solo e in silenzio per cinquanta giorni, ha maturato nel suo intimo e rafforzato poi con il pensiero di filosofi o l'espressione creatrice di diversi artisti. Il libro è ricco di citazioni che spaziano dal pensiero di Heidegger a quello di Wittgenstein passando per Kierkegaard per arrivare a Sacks e sfiorare gli universi musicali o pittorici di altri artisti. Il filo conduttore è il tentativo di dare risposta a tre quesiti iniziali - Ma cos'è il silenzio? Dove lo si trova? E perché oggi è più importante che mai?- con trentatré riflessioni che coprono ognuna al massimo tre pagine. É proprio questo a mio avviso il limite del libro che, pur riflettendo un approccio condivisibile e oggettivamente interessante, non riesce a elaborare un pensiero organico e di accompagnamento a riflessioni più mature. Encomiabile il tentativo, appena sufficiente il risultato finale.

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a chi sta sotto l'ombrellone
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Classici
 
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siti Opinione inserita da siti    13 Giugno, 2019
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Anticipando Camus

1929. Ventidue anni per il giovane autore. La sua opera d'esordio.

Sarebbero sufficienti queste coordinate per capire il valore di questa opera se ricordassimo semplicemente che siamo in epoca fascista, che fare letteratura all'epoca, soprattutto per dissentire, era pressoché impossibile e che la stessa letteratura, se voleva calarsi nel reale, non aveva altra scelta se non quella di contribuire a celebrarne i fasti.
Eppure questo è un potente romanzo realista e segue capolavori quali La coscienza di Zeno (1923) e Uno nessuno e centomila (1926). Pirandello, Svevo, Moravia: giovanissimo e già capace di rappresentare la stanchezza, la noia, il disincanto, lo stallo più assoluto della classe borghese e di farlo, tra l'altro, sulla scia delle potenti letture che avevano riempito la sua giovinezza malata: Joyce, e Dostoevskij. Senza dimenticare lo stesso Svevo di Senilità. Impossibile non ricordare Emilio Brentani in Michele, con i dovuti distinguo. Realismo appunto a restituire una situazione di stallo totale. Tutto nella narrazione è funzionale a ottenere il più assoluto immobilismo: il tempo rappresentato, appena due giorni, lo spazio gestito nelle dicotomie aperto-chiuso, grande- piccolo, o attraverso atmosfere cupe, coltri polverose di vecchi tendaggi, luce soffusa o assente. I personaggi, cinque appena, al centro la famiglia monca e decaduta, una coppia, guarda a caso fratello-sorella, un trio con la madre, un quartetto con Leo, una cinquina esplosiva con l'amica della madre. Rapporti tesi, difficili, ambigui fra di essi, sulla scia di un latente erotismo declinato nelle sue più rocambolesche variazioni. Dialoghi pressanti, è tutto un vociare che tace la verità. Ambivalenza totale, rovelli interiori, consapevolezza assoluta e presa di coscienza della propria inettitudine, accettazione totale di essa secondo differenti scelte: Michele e Carla che Carlotta non può divenire. Un finale aperto e ambiguo. Un 'opera magistrale.

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Camus
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Romanzi
 
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siti Opinione inserita da siti    06 Giugno, 2019
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PROFONDO SUD

Mi piace definire questo romanzo non tanto una lettura, fra le tante, quanto una vera e propria esperienza di lettura; il sapore lasciato dall'ultima pagina, quando si giunge al termine, è quello dolce amaro di un arrivederci nel quale si mescolano sentimenti contrastanti che sintetizzano in sé emozioni diverse. Forte è il segno che esso nel complesso lascia, grande il sollievo per averlo terminato - la lettura è stata, soprattutto nella prima parte davvero ostica -, amaro infine il ricordo che, della realtà rappresentata, si sedimenterà nel mio universo emotivo di lettrice.
Attraverso scelte ardite: molteplicità di voci narranti, focalizzazioni funambolesche, anacronie impensabili, flussi di coscienza, molteplici discorsi diretti estemporanei, l'autore come un preciso programmatore di disgrazie mette in scena una famiglia in decadenza sotto tutti i punti di vista. Non basta il tracollo finanziario della fine degli anni '20, non sono sufficienti le disgrazie umane quali un ritardo mentale in famiglia, non bastano neppure le differenze umane che possono rendere difficile la convivenza tra consanguinei, e non sono nemmeno sufficienti i retaggi di un'epoca post-coloniale quando può ancora avere un senso, nel profondo sud americano, marcare le differenze tra bianchi e neri; qui c'è di più. C'è l'urlo e c'è il furore, c'è l'impossibilità di essere e c'è la fatalità di non poter essere. Personaggi meravigliosi, ognuno nella sua specificità: madri, padri, fratelli, sorelle, nonne. Inetti, incapaci, vinti, piegati, disfatti alcuni, riscattati altri. Forse presente un unico vero e proprio personaggio positivo ( non penso alla serva nera), marginale e neanche voce narrante; un piccolo spiraglio di umanità dove tutto pare avere un'atavica forma di rassegnata disperazione. Immobilità assoluta, annullamento spazio-temporale. Tutto rimane uguale a se stesso; è tempo di rompere gli orologi: rimando alla meravigliosa seconda parte alla quale devo questa immagine e una chiave complessiva di lettura.

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Storia e biografie
 
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siti Opinione inserita da siti    26 Mag, 2019
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UMANESIMO, SEMPRE.

Interessante scritto sulla figura di maggior spicco della cultura umanista, fa parte del filone biografico ampiamente calcato da Zweig e di fatto dovrebbe essere ascritto a tal genere, tuttavia e per brevità di trattazione e per taglio potrebbe definirsi maggiormente un piccolo saggio monografico.
La figura de Erasmo viene infatti delineata a partire da un criterio puramente cronologico e tratteggiata attraverso i nodi cruciali della sua esistenza, ciò ci fa avvicinare al biografia pura, ma viene anche approfondita nella dimensione più ampia della disputa teologica che investì l'Europa dell'epoca con l'apparire sulla scena di Lutero e con i deragliamenti successivi che la sua nuova dottrina assunse quando fu strumentalizzata da contadini e principi. A partire dalla seconda metà dello scritto, infatti, l'oggetto della trattazione è principalmente Lutero, l' antagonista che tanto serve a Zweig per imprimere ai suoi personaggi la giusta aura tragica che vuole far emergere- è una costante delle sue biografie-, mentre Erasmo diventa personaggio secondario. Con gli ultimi capitoli che avviano all' epilogo esistenziale emerge poi il messaggio di fondo dell'austriaco: Erasmo come “primo teoretico letterario del pacifismo”, Erasmo uomo solo e isolato “uno spirito libero e indipendente”, un uomo dunque che “non ha patria in terra”; Erasmo che preferisce la morte quando vede tramontato il suo ideale di un “impero universale umanistico concorde”, “libero come tutti i solitari, solitario come tutti i liberi”. Vi ricorda qualcuno?

Intese, sentite, partecipi, trascinanti le pagine finali dove si consegna l'eredità di Erasmo e, con insolito piglio ottimista, si tratteggia la scia dei suoi eredi ideali: Montaigne, Diderot, Voltaire, Schiller, Kant, Tolstoj, Gandhi e Rolland. Sono loro i paladini della comprensione, della tolleranza, dell'internazionalismo. Sono loro “gli araldi di un elemento di unione fra i popoli, che accendono ferventi nel cuore umano l'idea di una futura umanità superiore”. Bello uno Zweig ottimista, idealista, come qualcuno mi fece notare incapace di vivere il suo tempo perché ingenuo e ancorato ad un mondo ormai tramontato, io lo preferisco così dimenticando per un attimo il suo triste epilogo esistenziale.

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Il mondo di ieri
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Storia e biografie
 
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siti Opinione inserita da siti    23 Mag, 2019
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Delusione...

Ho letto in passato alcune biografie di Zweig rimanendone ogni volta affascinata e colpita, in modo particolare sono stata rapita da quella di Magellano e da quella di Maria Antonietta, apprezzandone il taglio romanzesco, la limpidezza della prosa e il carattere divulgativo. Devo ammettere, però, che quest'ultima dedicata alla regina scozzese è stata da me meno gradita e mi ha portato a riconsiderare anche gli apprezzamenti elargiti nel passato. Senza nulla togliere a Zweig, mi rendo ora conto che ciò che maggiormente mi colpiva in passato era la tragicità insita nei personaggi storici fatti oggetto di tali narrazioni, e di ciò mi ha reso consapevole proprio questa biografia dedicata ad un'altra grande vittima della storia come Maria Antonietta o del Fato, come Magellano. Maria Stuarda incarna infatti il prototipo della maschera tragica ma questa volta, la narrazione eccessivamente prolissa, ridondante, quasi retorica a tratti, mi ha allontanato dal piacere provato in altri tempi. Eppure questa è anche fra le tre l'opera maggiormente supportata da documenti che dovrebbero restituire quell'oggettività insita alla ricerca storica e di conseguenza alle biografie di personaggi storici. Ma qui spesso la narrazione è pretestuosa e l'amarezza del travaglio dello scrittore esule- lo scritto è del 1935- e del bando subito dalle sue opere trapela ripetutamente con considerazioni sibilline che altro non sono che strali lanciati contro il suo tempo, resi universali perché adattabili anche al XVI secolo. Una forzatura, quasi. Per non parlare di una vena misogina che attraversa in maniera prepotente la prima parte dello scritto e che ripetutamente avvalla l'ipotesi che donne e politica sono universi distanti e inconciliabili data la natura acida, cattiva e capricciosa delle stesse. Tali limiti li attribuisce non solo a Maria ma anche alla sua eterna rivale Elisabetta I, abilmente usata per rafforzare inoltre la tesi di un'isteria atavica e inguaribile nella natura femminile. Ecco, mi ha irritata! Per il resto, se si ha voglia di leggere una narrazione dal taglio drammatico e retorico per conoscere i dettagli di una vita comunque eccezionale, questo libro potrebbe fare al caso vostro; gli salvo solo i continui e precisi riferimenti all'opera del Bardo.

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Romanzi
 
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siti Opinione inserita da siti    03 Mag, 2019
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Ragazzi di vita

La mia edizione datata 1965, a lire 350, quella con la copertina amaranto e il classico capello romano da prete, nella collana Garzanti per tutti - Romanzi e realtà, reca in copertina una sorta di occhiello che recita: “vizi e pettegolezzi della vita di provincia di uno dei più spregiudicati romanzi del realismo italiano”. Sorrido: è il segno del tempo. Mi chiedo, ancora una volta, che segno lascia un'opera d'arte in noi lettori a dispetto delle categorie, della moda dei tempi, di un lancio editoriale. Sono partita dal più famoso romanzo di Parise, scritto nel 1954 quando l'autore aveva venticinque anni, e se l'ho acquistato nel mercato dell'usato è perché qualche meccanismo, legato molto probabilmente a un'indecifrabile reminiscenza, è scattato; eppure tutto è respingente, fin da quelle righe sopra citate. La lettura, purtroppo, per un misto di contingenze, tutte estranee al romanzo, si è dilatata in modo disfunzionale, languendo e arrivando perfino a incancrenirsi; la tentazione di abbandonarlo è stata forte. Complice la voce narrante di Sergio, un ragazzetto della Vicenza fascista, città mai palesata nel suo toponimo ma a cui lo scritto tende per natura e per genesi, proseguo nonostante le decantante bellezze di Don Gastone e benché le smancerie virginee delle sante donne ecclesiastiche non mi facciano affatto divertire, a tratti sbadiglio e mi annoio. Neanche le bravate della naia, la cricca di poveracci a cui Sergio si rifà, o il suo momentaneo assurgere alle grazie delle pie donne, affinché egli sia il mezzo per arrivare a cotanta proibita bellezza, via beneficenza, mi aiutano a superare la reticenza. Poi arriva lei, Fedora, ventiduenne rigogliosa, e finalmente l'azione narrativa subisce una gradevolissima svolta e la caratterizzazione supera le beghine e le frontiere della piccola provincia si aprono e succede ciò che fino ad allora si era solo paventato: il prete si fa uomo. E i monelli vivacchiano e tutto smette di ruotare intorno all'immobilità delle vergini e la lotta per la sopravvivenza del povero si fa più ardua e più dura. Sorprendente seconda parte, mentre già qualcosa mi aveva spinto fin lì: la rappresentazione realistica, vivida , verace e insieme poetica della miseria, gli ampi inserti descrittivi di uno spaccato suburbano i cui bozzetti pennellati finemente dell'autore si imprimono nella memoria come fotogrammi. Sono il portico della custodia biciclette, i salotti perbene, il gabinetto volante, uno stravagante sgabuzzino fra i tetti, dotato di un prezioso water: immagini felliniane, quasi. Ecco, il pettegolezzo vicentino è quello che mi ha meno interessato, così come ho trovato certo funzionale la critica al fascismo attraverso la rappresentazione di un suo mirabile prodotto fattosi prete ma non bella. La bellezza del romanzo però l'ho trovata, senza ricercarla appunto, anzi quasi rischiando di non avvertirla, nella storia del piccolo Sergio, del suo amico Cena e nella sfortuna che si ha a nascere poveri. Lo consiglio, con consapevolezza.

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Pasolini, Ragazzi di vita
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Storia e biografie
 
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siti Opinione inserita da siti    27 Aprile, 2019
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Da donna a donna

Chi era Caterina? Caterina Martinelli. Chi era? Una donna come tante, certamente. Eppure una donna speciale. Oggi basterebbe dire che la sua specificità è insita nel suo essere donna, moglie e madre come è impensabile esserlo nel tempo attuale ma come lo sono state, e neanche in giorni lontanissimi, le nostre madri o, per le più giovani, le nostre nonne. Sette gravidanze, sei figlie viventi, il primogenito morto, una delle bimbe malate, un marito con un modesto lavoro, le incombenze quotidiane ma soprattutto la guerra e con essa la povertà e la fame. Noi non sappiamo cosa sia. Eppure non è tutto ciò a rendere speciale Caterina, quella era la normalità e non solo negli anni bui del secondo conflitto mondiale sui quali si incentra il prezioso lavoro di Anna Maria Balzano, in particolare sui faticosi, tristi, incerti giorni successivi all' 8 settembre del '43. Il suo essere speciale è invece da ricercarsi nella sua mente vigile e attenta che, nonostante la modestia della sua condizione, alimenta un atto di ribellione necessario per rifiutare le condizioni di vita a cui la guerra la sottopone. Sono i giorni disperati della primavera del '44, l'aumento dei prezzi ha reso la fame insostenibile e le code ai forni interminabili, infruttuose e disperate. Perché aspettare diligentemente una razione sempre più misera e neanche certa? Questo dubbio, mosso e alimentato dall'impotenza crescente di non poter nutrire i propri figli, la portano alla necessaria disobbedienza e con essa alla morte, brutta, secca, ossimorica, se accostata allo “sfilatino” che l'ha generata: morte per il pane, da sempre simbolo di vita.
Scrivo queste poche righe a cavallo di due date importanti il 25 aprile, Festa della Liberazione, e il 2 maggio, la data del decesso di Caterina, 75 anni fa, e le scrivo soprattutto per ringraziare l'autrice che ha restituito, con preciso scrupolo storico e un'importante bibliografia a corredo delle sue ricerche, un piccolo vissuto, anonimo, anche se ampiamente ricordato in quel dell'ex Tiburtino III, nella nuova realtà urbana, sapientemente evocando le bellissime pagine manzoniane dell'assalto ai forni ma soprattutto aderendo in pieno ad una poetica che celebrava “il principio di necessità”:.. “che la poesia, e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto, e l’interessante per mezzo”. Grazie Anna Maria.

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siti Opinione inserita da siti    17 Aprile, 2019
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Una storia esemplare

Richiamata da uno splendido titolo - scopro poi essere l'incipit di una lirica di Borges, la cui attribuzione è stata più volte messa in dubbio in quanto parte degli ultimi scritti senza attestazione editoriale e citati per la prima volta da questo autore colombiano - mi ritrovo a leggere un vero e proprio tributo a un padre molto amato. È un memoriale autobiografico, non dunque un romanzo, e insieme è un atto di scrittura necessario a un figlio che ha perso il genitore amato e compie il definitivo e ultimo atto di un laborioso percorso di elaborazione del lutto. La specificità dello scritto, rispetto a quella che parrebbe a prima vista una storie fra tante, risiede nel fatto che trattando un dolore personale si offre il ritratto della travagliata storia colombiana di cui il padre, annoverabile oggi fra i suoi martiri moderni, fu involontario protagonista. Era un medico poco avvezzo alla pratica chirurgica e un pragmatico dispensatore di principi di igiene, convinto, nonostante fosse un professore universitario, di avere il dovere di istruire le persone raggiungendole di persona nei luoghi più poveri del Paese. Era un idealista e si batteva per una seria riforma agraria, per l'acqua potabile accessibile a tutti, per i vaccini e per i diritti umani, professore spesso costretto all'esilio volontario per allentare la pressione ricevuta tra i palazzi dell'università in seguito al suo pericoloso esporsi che lo rendeva inviso alle classi sociali più conservatrici. La sua morte arriva preannunciata e non temuta perché, benché morissero progressivamente tutte le persone vicine a lui, egli era consapevole della sua fortuna e della sua vita felice e pur non preferendo morire, altro non poteva fare che vivere ancora come aveva sempre fatto anche se minacciato.
Lettura interessante, inizialmente eccessiva e ripetitiva nel decantar le lodi paterne per giungere a un giusto equilibrio espressivo nella parte centrale e in quella più delicata che ci consegna la rappresentazione dell'omicidio e del dolore senza cadere nel vanto o nella retorica. Lo consiglio, a me ha richiamato nomi quali Guido Rossa, Mario Calabresi, gli anni di piombo ma anche Falcone e Borsellino e la loro lotta alla mafia. Ci sono pagine in cui viene descritto lo scenario colombiano fra gli anni '70 e '80 e ci si ritrova basiti a contemplare la descrizione di meccanismi già noti e già vissuti qui in Italia e purtroppo non ancora tramontati.

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Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là
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siti Opinione inserita da siti    16 Aprile, 2019
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Mutatis mutandis...

Copertina nera, al centro, piccolo, il nostro pianeta, sospeso. Uno spazio fisico ridotto per contrasto a quello della realtà aumentata che la rivoluzione tecnologica ha prodotto e che noi stiamo vivendo, forse subendo, sicuramente producendo in una spirale auto-generativa la quale avviluppa il tutto, il reale e il virtuale, in una commistione dall'indubbia identità ibrida.
Rivoluzione la cui portata non è certo chiara nei suoi esiti finali, ammesso che una fine abbia, e che sarà destinata a evolversi in un indefinito che non è possibile immaginare. Detrattori, pare dirci Baricco, fatevi avanti, spendete il vostro lume per argomentare le nefandezze prodotte da tale cambiamento e vi ritroverete arresi nel constatare che ciò in cui siamo attualmente invischiati, altro non è che il puro e semplice prodotto del genio umano.

Con fare sommesso, ammiccando al lettore, pazientemente l'autore ci prende per mano e ci conduce in un confortevole viaggio partendo dalla tesi che domina ogni assunto: la modalità gioco, tipica dei primi videogiochi è il linguaggio specifico sul quale è stato costruito tutto quello che gravita oggi intorno a noi. Il viaggio, inizialmente, nella sua prospettiva rigorosamente cronologica, appassiona e incuriosisce in maniera proporzionale all'età che si ha: più ci avvicina a quella dell'autore, più ci sente coinvolti; di contro neanche il più giovane si sente abbandonato, perché il tono colloquiale e il registro medio lo fanno sentire degno destinatario. Per facilitare ulteriormente la comprensione, a corredo, significative cartine che rappresentano l'evoluzione tecnologica legata all'informatica, le varie tappe come dorsali emergenti da un mare piatto e calmo che custodisce nei suoi abissi, in un'ottica invertita, tutto il reale finora esperito. Il viaggio, o meglio il percorso, ora molto simile al volo di un drone diventa però a tratti ansiogeno come un volo areo disturbato da più perturbazioni che fanno tremare ogni certezza riaccendendo sopite fobie. Più volte mi sono ritrovata a pensare a quanta resistenza iniziale abbia io usato contro molte delle novità che si sono susseguite in modo repentino e quante alcune di loro ancora mi siano sconosciute, persistendo l'atteggiamento di fondo: la paura dell'appiattimento, dell'omologazione, della manipolazione. E poi all'improvviso razionalizzare un evento significativo quale la nascita del figlio primogenito e richiamare alla memoria le sue fotografie scattate con la fotocamera del telefono, quello che ritenevo accessorio fino a pochissimo tempo prima del lieto evento. Ecco, l'intelligente sguardo di Baricco, mi ha messo di fronte a me stessa dentro quel grande fenomeno, mi ha permesso di leggere la mia esistenza all'ombra dell'innovazione, andando magari a quel lontano '95 quando la prof. all'università chiedeva un saggio in formato word e l'amico informatico capace di scriverlo sotto mia dettatura pareva essere il depositario della verità rivelata, o quando ancora alcuni anni dopo andai alla faticosa ricerca di un personal computer il cui possesso non rientrava nelle mie facoltà finanziare, fu un medico a prestarmelo. Vero dunque che questo sistema iniziava, fin da subito, a far percepire un digital divide che non a caso oggi contribuisce a caratterizzare la povertà economica mentre, in altre latitudini, alimenta povertà ideologica.

Consiglio sicuramente la lettura perché permette uno stacco critico necessario, una tappa di avvicinamento a una consapevolezza che è sempre difficile raggiungere mentre un fenomeno è ancora in corso e muta sembianze in modo imprevedibile.

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siti Opinione inserita da siti    30 Marzo, 2019
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Un compendio alternativo

Successo mondiale apparso in Norvegia nel 1991, Premio Bancarella da noi nel 1995. Lo leggo decisamente in ritardo rispetto alla sua pubblicazione, mi aiuta questo, come sempre, a farmene un'idea del tutto personale.
È un romanzo a tratti affascinante e a tratti respingente, la sezione puramente romanzesca è affidata ad una narrazione nella narrazione, volutamente ideata per creare piani sovrapposti di lettura e di comprensione, surreale in alcuni punti, incerta e fumosa sempre, a metafora della condizione umana di comprensione della realtà; la sezione puramente espositiva è invece didascalica, chiara, esplicativa e rigorosamente basata su un asse cronologico: è una storia della filosofia propedeutica ad uno studio più rigoroso, adatta agli adolescenti che ancora devono approcciarsi alla filosofia e che di contro stanno spontaneamente iniziando a porsi domande profonde e intelligenti sul senso e sul mistero della vita.
All'adulto può risultare utile come compendio alternativo ad altri, ma anche no. Chi ha buone conoscenze filosofiche, è probabile che possa trovarlo alquanto semplice e riduttivo; chi non ha un buon bagaglio di conoscenze penso che invece possa stupirsi rispetto all'asse puramente diacronico che quanto meno aiuta a percepire l'evoluzione del pensiero umano. L'aspetto più interessante sul piano letterario può invece ritrovarsi solo, a mio giudizio, nella radice culturale e geografica di chi scrive perché l'intero romanzo è ricco di citazioni tratte dalla cultura nordica: dalla mitologia a Selma Lagerlöf e può rappresentare uno spunto per approfondire autori nordici, apprezzabile infine la chiarezza espositiva, potrebbe riappacificare qualche imbelle con un sapere che a suo tempo gli parve ostico al punto tale da dichiararsi arreso.

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siti Opinione inserita da siti    17 Marzo, 2019
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Si cambia cifra


Pubblicato in volume nel 1901 è il più famoso romanzo di Luigi Capuana, il teorico della poetica verista, un romanzo però non manifesto letterario come “Giacinta” ma imperniato alla presentazione di un vero e proprio caso umano, un caso clinico, secondo il gusto positivista, di una gelosia fiera e tenace che conduce all’omicidio. Il marchese ha infatti in casa come concubina Agrippina Solmo, una donna del popolo in servizio alle sue dipendenze, e di essa è innamorato ben consapevole che tale unione è osteggiata dalle convenzioni sociali; pressato dalle ragioni legate alla convenienza la dà in moglie al suo uomo di fiducia, Rocco Criscione, facendogli promettere che il matrimonio non verrà mai consumato. La rinuncia alla donna lo porta ad uno stato tale di frustrazione da renderlo incapace di tollerare il sospetto che tra i due sposi stia accadendo quel che è naturale accada. Compie pertanto un delitto, uccide il marito della sua amante, e incapace di sostenere il peso della colpa tenta una serie di azioni che culminano nella pazzia. Paradossalmente, benché la voce narrante sia del tutto impersonale, il lettore tende a simpatizzare per un codardo che getta in prigione un innocente, riuscendo a percepire come egli, in realtà, sia la vittima di un sistema sociale, quello siciliano, ancora fortemente legato alla struttura feudale del mondo agrario in qualità di detentore di un privilegio blasonato che solo apparentemente lo eleva impedendogli, di fatto, di vivere come persona. La lettura è piacevole ma nulla più, permette di percepire la forte distanza stilistica con le tecniche narrative sviluppate da Verga e di apprezzarne maggiormente l’elevata cifra stilistica.

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Classici
 
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siti Opinione inserita da siti    17 Febbraio, 2019
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PIRANDELLO DOC

Certo è che pervenire a codesta lettura digiuni di Pirandello svierebbe il lettore dalla reale comprensione del genio narrativo che in questo primo approccio al romanzo- composto nel 1883, successivamente rimaneggiato e apparso in volume nel 1901- è già ben visibile. Di contro, arrivarci conoscendo la sua produzione romanzesca, novellistica e teatrale, permette di gustare i princìpi di una poetica ben nota, familiare e perché no, rassicurante. La storia di Marta Ajala, forse la protagonista del romanzo, si ascriverebbe altrimenti a quella letteratura d’appendice tipica del periodo, riportando infatti l’esclusione sociale subita dalla giovane donna in seguito al ripudio del marito che la scopre ricevere lettere da un estimatore. Marta, in realtà, è semplicemente un ritratto di donna, è in nuce uno dei tanti personaggi pirandelliani che si trova a darsi un ruolo, una maschera, in una realtà composita, inafferrabile e assurda. È una donna che lotta contro lo stigma sociale, contro un modello familiare, un’identità netta, separata e indipendente rispetto al mondo delle convenzioni ed è al tempo stesso la vittima designata di tale realtà che le tocca vivere. È la protagonista? Non penso, è esclusa anche in questo senso, qui il protagonista è il mondo delle convenzioni sociali, schiaccianti, brutali, limitate e limitanti. Un mondo sapientemente rappresentato da Pirandello attraverso i ritratti maschili che costellano la narrazione: un padre ancorato al perbenismo di facciata, un suocero che marchia la famiglia con la convinzione che tutti i figli maschi siano soggetti alla iettatura delle corna, un marito che soccombe all’universo culturale di cui è imbevuto dalla nascita, gli uomini poi che seducono, o sono sedotti senza riuscire a vivere bene l’amore: una ghenga di idioti, tesi al ridicolo e incapaci di amare, grotteschi e goffi al cospetto delle donne. L’universo femminile invece, è quasi al completo rappresentato in accezione positiva, custode della verità ma da essa schiacciata. Il contesto geografico siciliano è poi la degna cornice di un luogo che potrebbe essere ovunque, pur emergendo per la sua specificità territoriale e culturale senza imprimere marchio alcuno ma solo eccellente caratterizzazione, uno spazio anch’esso assurto al ruolo di protagonista sigillando in ben definiti limiti geografici anche effettivi limiti culturali. Ecco perché vi trovo del rassicurante in questa poetica rispetto all’amarezza di quella pregressa, naturalistica: parliamo di vinti in entrambi in casi ma con la netta differenza della consapevolezza e con la potente arma del tentativo del riscatto, tutto ascritto alla volontà della persona anche se circoscritto alla circolarità del paradosso e all’inevitabilità della follia.

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Romanzi storici
 
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siti Opinione inserita da siti    07 Febbraio, 2019
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Per una nuova alba


Secondo capitolo della trilogia dedicata alla famiglia Aubrey, naturale proseguimento in termini puramente narrativi di una vicenda già ben delineata nel primo volume, eppure accessibile anche ad una lettura isolata visto il buon raccordo offerto all’inizio. La voce narrante, Rose, ripercorre infatti la vita della sua famiglia per poi seguire, sul filo della memoria, i successivi sviluppi. Lei e le sue sorelle affrontano l’ingresso nella vita adulta: è il momento di inquadrare il proprio destino, consapevoli dei sacrifici necessari per perseguire la carriera da pianiste professioniste o per accettare la propria identità e percorrere nuove strade. È il doloroso momento della crescita ad essere rappresentato qui, quello che porta alla definizione più chiara della propria identità e che al contempo misura, irrimediabilmente, la distanza dal nucleo familiare: sorelle e fratelli diventano universi distinti ai quali non è poi così spontaneo o opportuno accostarsi come in passato e gli stessi genitori assumono una nuova identità, filtrata stavolta dalla maturata consapevolezza degli occhi di chi li vede e della mente e del cuore che li decodificano. La famiglia Aubrey, dunque, quell’universo atipico e compatto rappresentato nel primo volume non c’è più, qui ci sono i brandelli, i superstiti, eppure ancora capaci di aggregare a sé persone, affetti, amicizie vere. Il tempo scorre sempre lento, la lettura fiocca, una placidità ristoratrice accompagna il lettore e lo sorprende con le difficoltà della vita mentre irrompe la prima guerra mondiale a generare fratture insanabili e a modificare delicati equilibri. È la notte , il cuore della notte, il suo momento topico, il più buio, consegnato ad un epilogo commovente, delicato e struggente al tempo stesso, degno di una narrazione pacata, impalpabile dallo stile inconfondibile, una prosa limpida e chiara, avvolgente e rasserenante. Buona lettura.

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La famiglia Aubrey
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Racconti
 
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siti Opinione inserita da siti    21 Gennaio, 2019
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Amore e Resistenza

Si tratta di una raccolta comprendente tre racconti lunghi, il cui più noto “Il taglio del bosco” fornisce anche il titolo alla stessa; gli altri sono “Baba” e “I vecchi compagni”. L’ambientazione è quella più confacente alla biografia dell’autore catalizzata dal Volterrano, terra d’origine della madre e molto frequentata anche dal padre. È un angolo di Toscana: fatica, miseria, natura ma è anche il bosco come fonte di reddito per i boscaioli e per i carbonai o come sicuro rifugio alla macchia per i partigiani. È terra lacerata da contrasti forti, da prese di potere, da convenienti associazioni: fascista o comunista, all’occorrenza per alcuni, convinti partigiani e compagni e null’altro per una cerchia di amici, ristretta, sparuta, assediata. Il racconto più noto è contenuto al centro della raccolta dai due a tematica simile, parlano di resistenza, rappresentante l’ultimo , “I vecchi compagni” il proseguimento del primo, il suo naturale sviluppo; mentre in “Baba” è rappresentata l’incertezza dell’intellettuale che non riesce ad aderire agli ideali marxisti, ne “I vecchi compagni” si rappresenta la difficile convivenza con un paese votato al fascismo e che cerca faticosamente un compromesso in seguito alla disfatta del regime e allo sbando conseguente alla Liberazione e all’immediato dopoguerra. “Il taglio del bosco” è nel mezzo un delicato ritratto umano di un giovane vedovo incapace di sperare in un futuro piegato com’è dal suo profondo dolore. Prosa scarna e asciutta, capace con poche parole di rendere vivo il dolore del vivere, dell’essere amato, di amare, di lottare per i propri ideali.

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La ragazza di Bube
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Romanzi
 
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siti Opinione inserita da siti    20 Gennaio, 2019
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NUOCE GRAVEMENTE ALLA FANTASIA

“Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
“malinconia”.
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
“nostalgia”.
Son dunque... che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.”

Forse la celebre “Chi sono”, datata 1909, può aiutare il lettore a godere del romanzo futurista in versione originale, senza correre il rischio di restare ingabbiati nel contesto socio-culturale, nelle maglie seppur larghe del Futurismo, o ancora nella biografia dell’autore. Tutte queste vie sono già state percorse dalla critica, aiutano a orientarsi, perché no, ma ritengo che qui, come in ogni altra opera d’arte, la fruizione individuale, deve essere maestra rispetto a qualsiasi altra lezione.
FOLLIA, MALINCONIA, NOSTALGIA estrapolate dalla lirica insieme agli strumenti dell’anima PENNA, TAVOLOZZA, TASTIERA, riassumono una poetica di pura negazione: né poeta, né pittore, né musìco. Semplicemente un potente strumento ottico occorre per rendere noto ciò che agita un’anima dislocata nel cuore, epicentro dell’umano sentire. L’iperbole del sentire potenziato, l’iperbole della sua rappresentazione surreale, fiabesca, generano un romanzo drammatizzato di godibile lettura e di amara ambivalenza, deprivato inoltre, come nella migliore tradizione, di una lettura univoca.
Di che si tratta? Mettiamola così, sul semplice, in un primo piano di lettura: un uomo di fumo giunge inaspettato in un paese governato da un re; la sua natura è evidente ma egli la disvela meglio non tacendo le sue origini. È stato originato in una canna fumaria al suono delle voci di tre donne, Pena, Rete, Lama, PERELÀ, e al loro svanire è scivolato lunga la canna, ha calzato un paio di scarpe ed è giunto nel paese. Accolto e benvoluto da tutti, viene addirittura invitato a redigere il nuovo codice della comunità. Un evento drammatico pone fine alla sua accettazione, repentina, quanto la sua ascesa sociale, la sua caduta che evolve in una assunzione al cielo.
Vogliamo spiegare il surreale, il metafisico, vogliamo dipanare la matassa allegorica?
Non posso e non voglio. Perelà è per me la verità, codice egli stesso per decifrare il mistero dell’uomo e della divinità. È follia, è malinconia e insieme nostalgia, guardare il cielo e scoprire un’essenza inafferrabile, cercando di scorgere, ora, anche un po’ di fumo residuo, di volatile sostanza di ciò che egli fu, non grigio fumo però, ma eterea nube. Ecco come un’opera d’arte nuoce gravemente alla fantasia, ecco la mia è ora inquinata da Perelà e guardare il cielo non sarà più la stessa cosa.

Buona lettura.

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Narrativa per ragazzi
 
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siti Opinione inserita da siti    20 Gennaio, 2019
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Tutto muta

Come "D'un tratto nel folto del bosco"anche "Soumchi" è un libro per ragazzi, adatto agli adulti. In una Gerusalemme occupata dagli inglesi, prima della seconda guerra mondiale, un ragazzino di undici anni si affaccia alla vita, scopre l' amore e i primi dissidi con la famiglia. Ha un nomignolo, Soumchi, in realtà un toponimo geografico meno noto di un lago, nome da lui sfoggiato, in modo del tutto spontaneo, durante una lezione. Rincorre i suoi sogni che vengono nutriti dalla figura di uno zio eccentrico e dai suoi doni, tra tutti una vecchia bicicletta che in poco tempo lo porterà ad una serie di scambi con alcuni coetanei.La bicicletta è fonte di preoccupazione per i genitori, ignari del fatto che il loro giovanotto già medita viaggi fino al cuore dell'Africa, preoccupati dello scenario urbano di una città che cova rancori, che deve ancora fare i conti con la Bibbia e riscrivere gli scenari urbani contemplando anche vicinanze impensabili. Sarà il padre della ragazzina di cui si è invaghito, un ingegnere, a conversare di politica con lui, piccolo ragazzetto, sostenitore di un'idea di persecuzione subita dagli Ebrei. Si limita a dirgli che la Bibbia ha promesso loro tutto il paese " ma la Bibbia è stata scritta in un'epoca e noi viviamo in un'altra, del tutto diversa." È questa la lezione che farà sua il ragazzetto, riconoscendo, col passare degli anni, che tutto muta, per fortuna.

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Romanzi storici
 
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siti Opinione inserita da siti    16 Gennaio, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Un uomo giusto

Fra i suoi diciotto romanzi, “Lo schiavo” è sicuramente uno di quelli da non farsi sfuggire; pubblicato nel ’62 partecipa con peso specifico alla prolifica stagione creativa che, dal primo romanzo “Satana a Goraj”, porta l’autore, passando per il successo di critica e di pubblico de “La famiglia Moskat”, al premio Nobel del ’78.
È una storia ambientata nel 1600, in una Polonia sferzata da venti gelidi e cosacchi a cavallo, piegata inoltre da una miriade di credenze superstiziose che si vorrebbero derivate dalle grandi religioni monoteiste, senza derivazione alcuna in realtà. La gente è povera, subisce la prepotenza di pochi che la governano, l ‘ebreo, in questo contesto, patisce ancor di più per i ripetuti pogrom e la superstizione aiuta gli animi a sopportare le violenze e le sopraffazioni.
Simbolo della condizione ebraica, racchiusa in un ampio raggio che va dalla sottomissione a Dio, alla ritualità passando per l’intrinseca condizione di esule senza patria, è Jacob, un giovane uomo al quale i cosacchi sterminano la famiglia, moglie e figli, e che in seguito viene venduto a cristiani che, in qualità di schiavo, lo sfruttano per il lavoro nei campi e con gli animali, mentre la comunità del villaggio ospitante ne fa il capro espiatorio di ataviche paure.
Pende su Jacob una condizione di eterna precarietà, potrebbe essere ammazzato per nulla, mentre rassegnato coltiva, per quanto possibile, la sua fede in Dio, mantenendo o recuperando il patrimonio di conoscenze e di riti che la sua precedente condizione di benestante gli aveva assicurato. Ora è un povero schiavo e solo la fede lo consola; l’incontro con Wanda e il successivo legame amoroso-al quale si opporrà con tutte le sue forze perché è vietato per un ebreo legarsi con una gentile- lo porteranno a vivere gioie e dolori, a scontrarsi con le ipocrisie delle due comunità religiose e a sperimentare una nuova condizione servile, rimpiangendo in lui e negli altri la possibilità di godere di piena libertà.
Rimarrà sempre un uomo giusto trascendendo le prescrizioni imposte dalla legge religiosa, seguendo una morale e un’etica che, pare dire Singer, appartiene prima all’individuo poi alla fede. Il romanzo contempla tutta la sua esistenza mentre l’epilogo, bellissimo, ne consegna il suo profondo significato.
Magistrale rappresentazione realistica di un mondo crudele: si fa in fretta a opporlo al nostro, progredito e civile e a distanziarlo così tanto da chiedersi se in fondo in questo nostro mondo, immutato nelle intolleranze religiose, incapace ancora di perseguire il bene, specchio di una finitezza umana misera e votata all’odio, ci siano poi degli uomini giusti che possano farci da guida.

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Roth, Giobbe
Singer, Satana a Goraj
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Romanzi
 
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siti Opinione inserita da siti    06 Gennaio, 2019
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Non tutto ciò che è reale è razionale

Ivan Grigor’evic, quasi trent’anni in un lager sovietico, alla morte di Stalin viene liberato e torna al cospetto dei vivi, di coloro che erano rimasti nelle loro città, nelle loro case. Senza accusare nessuno, fa vacillare le loro coscienze, sigillate nell’idea di essere stati giusti, opportuni, bravi uomini insomma, invece le coscienze tremano, riprendono le loro tortuose vie nei meandri dell’abisso, quelli della verità corrosiva, spaventevole, orrida. Ivan non recrimina niente, basta la sua presenza a generare l’orrore del loro operato, mentre anch’egli si stupisce, perso nel paradosso della libertà: “effettivamente si sta proprio male nella libertà!”.
Com’è la sua patria dopo tutto? Dopo Pietro il Grande, dopo Caterina, dopo la rivoluzione, dopo Lenin, dopo Stalin? Non resta che considerare che la Russia ha raggiunto il progresso a discapito della libertà del suo popolo, rinnovandone e alimentandone la schiavitù; perseguendo l’utopia di rinnegare lo sviluppo capitalistico ha mantenuto schiavi i suoi cittadini, cambiando solo il padrone: lo Stato che perdendo di vista l’obiettivo, ha sacrificato la libertà individuale. L’analisi del protagonista è lucida, una condanna sicura dell’utopia comunista con l’individuazione di precisi errori storici più nella persona di Lenin che in quella di Stalin.
Il romanzo è strutturato in modo tale da permettere, attraverso il susseguirsi degli incontri che porteranno lentamente Ivan a reintegrarsi nella società, la conoscenza delle diverse prospettive che furono coinvolte nell’annientamento dell’uomo. Si può percepire la debolezza del delatore, la paura dell’accusatore, la rettitudine della moglie che non può accusare il marito di una colpa inesistente, la quotidianità macchiata di codardia di chi ha scampato ogni pericolo facendolo subire ad un suo prossimo, il timore dell’ebreo, la fame dell’ Ucraina…Ci sono pagine talmente vivide nel loro realismo da provocare inquietudine e malessere, la fame in particolare è descritta così pungente che si arriva a un vero e proprio processo di immedesimazione , tale da far percepire sensazioni al limite del reale. Oltremodo sono pungenti le considerazioni politiche e storiche, portano ad un’ennesima riflessione sulla piccolezza dell’essere umano che dimentica la sua natura umana, doveroso allora non accettare l’irrazionale perché, a dispetto di Hegel, “…non tutto ciò che è reale è razionale. Tutto ciò che è disumano è assurdo e inutile.”
Intanto Ivan, terminate le sue peregrinazioni, giace sconfitto in una landa desolata, eppure egli è immutabile e immutato perché è riuscito, nonostante tutto, a rimanere un uomo.
Che ne sarà della Russia?
“Dov’è il tempo dell’anima russa libera e umana? Quando mai verrà quel giorno?”
Per Ivan- Grossman la risposta non può che essere questa: “Chissà, forse non verrà mai, mai spunterà.”
Ricordiamolo: anche il manoscritto di “Tutto scorre” fu sequestrato insieme a quello di “Vita e destino”, per fortuna l’autore ne scrisse un’altra copia che fu poi pubblicata alla sua morte.
Comprensibile l’amarezza della sua risposta.

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Vita e destino
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Politica e attualità
 
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siti Opinione inserita da siti    01 Gennaio, 2019
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Potenziale fascista

Il piccolo e arguto libello parte dall’assunto che la democrazia sia un sistema estremamente vulnerabile per una serie di ragioni a essa connaturate e che le sono, giocoforza implicite. Limiti sono infatti l’instabilità dei suoi rappresentanti, una rappresentatività troppo estesa che genera esasperante immobilismo, l’antieconomicità del suo impianto, il dar voce al dissenso, il fondarsi sulla diversità, sulle differenze, l’essere autolesionista -può infatti nei suoi principi essere usata contro sé stessa - e per finire il basarsi sulla non violenza.

Cosa può, per antitesi, essere proposto, in un altro modo di governare?
Tutto ciò che, purtroppo, si è già insinuato nella mente di ognuno di noi (se si dovesse avere qualche dubbio sul proprio sentire, un test, in appendice, guida all’autovalutazione della vicinanza più o meno percepita alla più valida alternativa di governo che, OGGI, si possa proporre alle storture democratiche).
Un capo, una conveniente banalizzazione della realtà, un sistema comunicativo in cui tutti hanno voce e di conseguenza nessuno viene ascoltato, una serie di nemici cui proiettare tutte le fragilità e le paure di un popolo, un senso trasversale di protezione, a vantaggio di tutti, una sana violenza verbale, un populismo quanto mai necessario, una deleteria identificazione del potere col popolo, una Storia nazionale da riscrivere.

Qualcosa ricorda il passato? Non abbiate paura, non temete: vi è venuto in mente il fascismo? Riflettete. A parte che nessuno, lo chiama più così. E poi , siamo tutti potenziali fascisti, semplicemente perché il suo grado di contaminazione è potente come non mai, amplificato in questi tempi contemporanei da ciò che rende tutti invisibili nel momento in cui ci palesiamo: il web, l’alleato maggiore di chi ha l’intento di contaminare, banalizzando, la complessità che il vetusto sistema democratico ha cercato di decodificare.

In guardia!

Brava Michela!

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siti Opinione inserita da siti    31 Dicembre, 2018
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IN EQUILIBRIO PRECARIO

N è il ministro delle poste di un governo rivoluzionario il cui messaggio di sovvertimento della realtà deve essere ancora imposto alla massa attraverso l’uso della violenza; affinché sia reso possibile l’ordine nuovo occorre infatti che essa, la massa, abbandoni il suo egoismo individualista per abbracciare un significativo bene comune. Il popolo però non sta bene, direi che in tanti, addirittura spariscono, e di essi non si sa niente. Di contro, salda è la struttura del potere che questo nuovo sistema alimenta. N è il tredicesimo, per importanza, ma in realtà neanche lui è stabile nella sua posizione, raggiunta tra l’altro per pura combinazione di eventi. Ci troviamo con lui a un’importante riunione e assistiamo all’arrivo progressivo degli altri membri del direttivo; mentre essi prendono posizione intorno a un tavolo li conosciamo nei loro ruoli ministeriali, nei loro profili professionali, anche tramite il soprannome dato loro dal capo, e soprattutto li inseriamo in un delicato gioco di potere che li vede schierati e, tutti, in bilico. Insomma la società è instabile, il centro del potere lo è ancora di più. L’assenza di uno di loro alla riunione, l’ennesima epurazione del dissidente, mina l’equilibrio precario e dà il via a un necessario sovvertimento e a un nuovo gioco del potere. Qualcuno cadrà, qualcun altro se ne gioverà, la casualità trionferà.

Magistrale racconto dello svizzero, una vera perla, che oltre l’estrema gradevolezza narrativa impiantata su una struttura geometrica, su una nomenclatura nota, su un’estrema spersonalizzazione dei personaggi chiamati con le semplice lettere maiuscolo dell’alfabeto, coinvolge il lettore con la necessità di appuntarsi didascalicamente sigle, ruoli, posizioni, pensieri, collusioni, alleanze e inimicizie, mantenendone desta e tesa l’attenzione per avviarlo alla necessaria riflessione sociopolitica.
Rivoluzione, strutture del potere da essa generate, il potere di per sé: non c’è ideologia che regga, nonostante le buone intenzioni, al limite che il potere porta in sé : è gestito dagli uomini e nel caso del potere generato da rivoluzionari diventa ancora più pericoloso perché mummifica ciò che nasceva per sovvertire creando al suo interno un paradosso di difficile gestione. Ben venga il caos, sembra dirci lo svizzero.

Consigliatissimo.

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siti Opinione inserita da siti    31 Dicembre, 2018
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ULTIMO ATTO

Ultimo atto della produzione novellistica di Pirandello compendiata in” Novelle per un anno”, la raccolta “Una giornata”, pubblicata postuma, raccoglie quindici testi brevi già apparsi in rivista, in buona prevalenza, negli ultimi anni di vita del maestro. Fa eccezione una sola novella, anch’essa postuma cui si possono accostare le due -anch’esse già pubblicate prima- che fecero nascere i testi teatrali “Il gioco delle parti” e “Cosi è (se vi pare)”. Il titolo della raccolta è quello del testo che chiude l’intero lavoro e che congeda abilmente il lettore con l’ennesima illusione: quella della vita, che si è creduto di vivere, che altri pensano di vivere a loro volta e che fugge irrimediabilmente a tutti, sfuggendo nel suo senso più intimo e profondo. Arriva come un balsamo, alla fine, dopo un fugace excursus che spiazza rispetto alla presunta conoscenza dell’autore che si pensava di avere. Chi è infine il Pirandello di questi scritti tardivi e maturi? Un uomo agitato fra sogno e realtà, sempre in bilico fra pazzia e sanità, che ancora sorride, sornione, delle strategie che l’uomo adotta per sfuggire l’inspiegabile, il mistero, la vita. Una risata amara, sboccata, inopportuna. Una intuizione nefasta, omicida, financo. E a far capolino, talvolta, perfino Dio. Altre volte un lieve istinto suicida, o una fortuna insperata. Mi piacerebbe creare una nuvola di parole con questi caratteri fattisi arte, emergerebbero pur sempre su tutte le altre PAZZIA, MORTE, SOGNO?

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siti Opinione inserita da siti    29 Dicembre, 2018
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Dov'è Treblinka?

Dov’è Treblinka?
Non c’è! È stato distrutto questo campo di lavoro e di sterminio dopo una furiosa attività di tredici mesi. Dopo 10.000 morti al giorno, 300.000 al mese, tre milioni in dieci mesi di effettiva attività, se si vuole essere oggettivi e includere le pause forzate dovute al mantenimento stesso dell’inferno. Treblinka fisicamente non c’è più, dopo la rivolta dei suoi detenuti, quelli condannati a viverci perché detentori di abilità manuali necessarie o di abilità professionali imprescindibili alla sussistenza del lager stesso, rivolta datata 2 agosto 1943 che portò alla fuga di pochi e alla distruzione per mano nazista di una testimonianza che si voleva rendere invisibile e mai esistita. Già Himmler, dopo la sconfitta della Battaglia di Stalingrado, provvide di suo ad affinare il negazionismo mentre l’opera era ancora in vita: con una visita fulminea decretò un netto miglioramento dell’operazione di sparizione dei cadaveri. Era ormai improbabile e fuori luogo farli sparire in fosse comuni la cui terra brulicava di insetti grassi e di continua restituzione fisica di prove dell’annientamento; occorreva ora progettare forni capaci di bruciare una quantità enorme di cadaveri fatti riemergere dal fondo della terra e continuare, col nuovo metodo, a smaltire i nuovi arrivi. Perché questo era Treblinka: una precisissima macchina della morte, a ruota continua, un congegno ad alta mortalità a rispecchiare la produttività delle migliori catene di montaggio. Non si risiedeva a Treblinka, non si pativa la fame, non si subiva estenuante lavoro, si arrivava e subito, attraversando meticolose fasi di preparazione, si moriva, subito, previo diabolico annientamento dell’essere umano che ancora respirando, facendo battere il suo cuore, pensando, avendo paura, provando orrore, subendo incredibili e subitanee violenze ante- mortem era lì in piedi a stiparsi verso le camere a gas. Il gas, prerogativa tutta sua, non era lo Zyklon B, no, qui si procedeva con il gas di scarico del carro armato, capace di far respirare a vuoto e di far morire come per strangolamento, o con l’assenza completa di ossigeno che veniva aspirato appositamente dalle camere, o ancora con immissioni di vapore. Taccio tutto l’altro orrore letto e procedo rendendo un infinito grazie a Grossman, lui nell’autunno del 1944 è lì e scrive il suo reportage mentre la terra sputa fuori ciò che la mente stenta ancora a credere: brandelli di vesti, tessuti col ricamo ucraino, capelli, pantaloni, scarpe, candelabri…il suo scritto apparso sulla rivista «Znamja» è letto al collegio d’accusa del processo di Norimberga. È fondato su decine di testimonianze di prima mano: i pochi superstiti, gli abitanti dei dintorni, le guardie. È pervaso da un sentimento di orrore e di incredulità ma soprattutto da quel monito a noi così familiare, lo stesso della poesia “Shemà” che precede “Se questo è un uomo”. È un monito a non dimenticare “quanto sia facile uno sterminio di massa”.

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siti Opinione inserita da siti    27 Dicembre, 2018
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Il grande fratello

Presso le rovine di Al-Hakim è stato rinvenuto il cadavere di Tina, moglie dello psichiatra Otto von Lambert, autore di un libro sul terrorismo islamico; recuperatolo e trasferitolo per le esequie inusuali e spettacolari tramite un volo aereo in elicottero, il luminare, assalito dai sensi di colpa, ingaggia una reporter affinché sveli il mistero della violenza subita dalla moglie e dei motivi del suo omicidio. In ventiquattro brevi paragrafi, tutti sintatticamente risolti in un periodo della lunghezza variabile compresa tra due e sei pagine con un unico punto fermo, consiste la novella e, se vi dicessi che mi sono resa conto della mancanza di punteggiatura solo a metà libro, sono sicura che renderei l’idea della perfezione stilistica di questa prosa che può fare a meno della classica suddivisione di un testo in frasi.
La F., che aveva filmato, tra tanti, l’evento delle improbabili esequie, accetta l’incarico e dopo essersi rivolta al logico D., il quale esterna le sue elucubrazioni “sull’osservare di chi osserva gli osservatori” parte alla volta del Marocco. In questo contesto avvelenato dall’eterno conflitto tra due centri del potere, ci si perde nel giallo della ricerca, nel nero degli eventi macabri che vengono narrati e rappresentati e filmati, nel grigio alluminio di un’allucinata e allucinante distopia, nel colore che non so attribuire del surreale, per me potrebbe essere il blu giustapposto al giallo del noto quadro di Van Gogh “Notte stellata”. Tanti stili, tanti rivoli di moduli letterari da inseguire fino all’epilogo a sorpresa, ultimo atto della destabilizzante esperienza di lettura offertarci. Geniale, sicuramento. Bello? Piacevole? Per me no, ma ciò ricade nella personale sfera del lettore, non sono il suo lettore ideale in questo caso, gli devo senz’altro il richiamo a un suo illustre anticipatore che, ne “I quaderni di Serafino Gubbio operatore” tante intuizioni, qui ritrovate, aveva anticipato. A voi scoprirle…

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siti Opinione inserita da siti    25 Dicembre, 2018
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Amaro, comunque

Romanzo atipico rispetto a quelli di Simenon da me letti, centrato su una singola esistenza, dai primi anni dell’infanzia fino alla vecchiaia o quasi. Vive di quella capacità di godibilissima caratterizzazione che è tipica della scrittura del belga, capace sempre di regalare personaggi a tutto tondo, ambientazioni di un realismo impressionante e poetico al tempo stesso, romanzo però privo quasi di una trama, delineata solo a grandi linee e per tappe esistenziali.
Louis Cuchas è un bambino piccoletto, silenzioso, tardivo nelle tappe di sviluppo fisico e cognitivo, un bambino che osserva la realtà nel quale è immerso in modo inconsapevole, registrando in quadri visivi dettagli e particolari inutili sul momento per una comprensione della sua esistenza e che, da adulto, riuscirà a sistemare in una netta lettura attraverso l’arte. Definito dai suoi compagni di classe “l’angioletto” per l’estrema bontà che lo porta a soprassedere ad ogni loro angheria, stampa fin da piccolo sul viso un sorriso che pare beffeggiare il mondo intero annullandolo nelle sue miserie per porsi su un piano più alto- apparentemente è invece relegato nella lettura altrui in quello degli ultimi, dei falliti, dei miseri, degli inutili- quel piano al quale giunge con la capacità di cogliere l’essenziale nel particolare e di riuscire a rappresentarlo perpetrando il mistero dell’arte con la sua pittura. Un istinto, una necessità, un bisogno che irrompe nella sua vita con prepotenza e che accetta di assecondare rimanendo sempre, in fondo, quel bambino strano, incompreso, indietro su tutti ma il più brillante a scuola, un ragazzetto il cui sguardo sul mondo non è stato inquinato o deturpato neanche dalla più bieca realtà nella quale ha vissuto.
Godibile lettura la cui atipicità mi ha spiazzata permettendomi un giudizio di piacevolezza non completo come accaduto con altri testi. Lo consiglio sebbene non l’abbia ben apprezzato.

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siti Opinione inserita da siti    22 Dicembre, 2018
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Mistero

Corpo, pensiero, attitudini, scelte, azioni contribuiscono a creare di noi un’immagine che, nel corso dell’esistenza, si cristallizza e fornisce un rimando agli altri- pensiamoci bene- assai parziale di quello che siamo. E molto spesso le nostre esistenze, seppur nella loro unicità, non hanno alcunché di straordinario, se non, immancabilmente, quello di restituirci agli altri, distorti, o nella migliore delle ipotesi, poco conformi all’originale. Questa premessa si rende a me necessaria per avallare la tesi che, nel caso del nostro grande letterato D’Annunzio, tutto ciò che egli è stato, ha fatto, ha pensato, non può essere un codice per decifrare il mistero della sua esistenza amplificato da un estetismo, da un istrionismo, da un‘eccentricità, da un’originalità- direi, sopra ogni altra cosa, che mira appunto a confondere piuttosto che a spiegare. Semplicemente visitare il Vittoriale degli italiani può assurgere a simbolo della confusione e della fascinazione che si patisce a conoscere nel dettaglio gli aspetti dell’esistenza del Vate, soprattutto se essi si riferiscono a un aspetto dell’esistenza così misterioso come la “vita carnale”, oggetto di questo contributo del custode del Vittoriale, appunto Giordano Bruno Guerri. Dico custode nel senso più alto del termine perché il nostro Guerri ama il Vate, ama il Vittoriale, ama l’uomo e ama il poeta e trasfonde a noi una chiave di lettura del suo mito che permette appunto di leggerlo senza mitizzazione alcuna. Insomma, se si approccia questa lettura pensando di indagare un mistero e di risolverlo, si rimarrà ampiamente soddisfatti nel leggere, dopo infiniti particolari, dopo disturbanti scenari, dopo eccessivi particolari, che egli era semplicemente un mistero come ognuno di noi. Un mistero che si perpetua nelle sue creazioni, nelle sue opere letterarie, nel suo lascito che rinnova il mistero e lo alimenta, all’infinito. Desistete dal comprendere oltre. Buona lettura.

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siti Opinione inserita da siti    09 Dicembre, 2018
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Da rivalutare

Rileggo Svevo a distanza di più di un ventennio dalla sua prima lettura, Senilità, in particolare perché risvegliata nell’interesse da un intervento del Professor Gino Tellini, ordinario di Letteratura italiana nell’università di Firenze, che acclama questo romanzo come un capolavoro. Ringrazio dunque la passione del professore che mi ha permesso un riavvicinamento e un percorso di conoscenza dell’opera, sicuramente migliorato.
È un romanzo perfetto per struttura e stile, capace di far penetrare il lettore in quell’inerzia emotiva ed esistenziale del protagonista, la Senilità, in modo tale da far provare distanza immediata, disgusto e noia: Emilio, il protagonista è una macchietta perfetta, è tutto ciò che nessuno di noi vorrebbe mai essere, compendiando invece ciò che forse siamo tutti, nell’intimo. Chi di noi non si maschera, non si illude, non si compiange, non si trincera dietro falsa identità, chi di noi, in fondo, non si sente inadeguato rispetto alle pressioni sociali, e non ha una sfera di vissuto disfunzionale, in un qualche modo? Penso nessuno, ne sono fermamente convinta, poi ognuno nel corso dell’esistenza si crea un’identità: c’è chi subito riesce in questo, cristallizzando spesso il suo Io in qualcosa di assolutamente lontano da se stesso e chi fatica, sopravvive, si lagna, si nasconde, non emerge, e paradossalmente riesce a giungere a più fine conoscenza. Emilio, il caro Emilio, è ormai un uomo, mascherato da intellettuale, in realtà un semplice impiegato, ingabbiato, al par del Belluca pirandelliano, in una sfera privata che lo costringe al ruolo del fratello amorevole. In realtà è, nella sua incapacità di vivere, scosso da forti pulsioni sessuali, risvegliate in lui da una donna di facili costumi, idealizzata per mitigare i sensi di colpa che prova rispetto all’esperienza la cui realtà ha fin da subito subodorato. È un uomo che è amico di un vincente, Stefano Balli, egregio contraltare di ogni sua fisima. Il romanzo è tutto giocato sulle antitesi, procede lento nell’intreccio, sfianca, svilisce, portando a perfetto processo mimetico il lettore che invecchia nel frattempo fino a rinvigorirsi quando l’eroe, rinnegando tutta la sua identità precedentemente costruita, assurge al tono del più volgare degli uomini e insulta la sua Angiolina, dandole della poco di buono, lui ancora svilito, smunto, assediato, torturato dal senso di colpa per la sorella, sua brutta copia, ormai in fin di vinta. Colpisce apprendere sempre dal Tellini nella monografia da lui dedicata a Svevo (Gino Tellini , Svevo, Salerno editrice) che questo libro venne letto dall’autore alla moglie durante il loro viaggio di nozze, sigillando così definitivamente una donna molto conosciuta a Trieste per i suoi costumi libertini e frequentata, a suo tempo, anche dallo stesso scrittore.

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Politica e attualità
 
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siti Opinione inserita da siti    26 Novembre, 2018
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Una ragazza determinata

Francesca Ghiradelli, giornalista che raccoglie e rende note storie di migrazioni e di popoli in movimento, incontra per la prima volta la giovanissima Maxima nell’agosto del 2015, in Serbia, a Belgrado. È in un parco comunale e la sua presenza agli occhi dei passanti può suscitare fastidio, rabbia, disapprovazione. Che ci fanno buttati lì, accampati, quegli straccioni, a disturbare, a deturpare una quiete fatta di normalità? Eppure Maxima è ancora una bimba, una quattordicenne, in viaggio, senza la sua famiglia, con accanto a sé una coetanea e degli adulti che sono dei parenti ma potrebbero essere chiunque… Pochi mostrano la comprensione necessaria, altri ignorano che lei è in viaggio da quasi un mese e poco ormai la separa dall’arrivo in Olanda, dopo aver scampato i pericoli dell’attraversamento del Mar Egeo in gommone, dopo aver sfidato i confini politici attraversandoli in modo clandestino o con lasciapassare temporanei utili almeno al passaggio nei diversi Paesi. Quella è la sua meta, lì i suoi genitori, curdi siriani, l’hanno fatta nascere per poi tornare ad Aleppo dove è cresciuta tranquilla fino allo scoppio della guerra che oltre a sconvolgere il vivere quotidiano e a costringerli a dimorare in una zona rurale prossima al confine con la Turchia, l’ha deprivata della più grossa possibilità di crescita che un’esistenza comune può sperimentare: l’approccio con la cultura nella scuola. E pensare che molti suoi coetanei occidentali invece non hanno ancora compreso quanto essa sia importante per la loro formazione di uomini e donne che saranno i futuri cittadini del domani, quelli che magari avranno una sensibilità diversa e una cultura più elevata utile a comprendere e gestire i flussi migratori e a gestire la profonda disuguaglianza che contraddistingue le diverse aree del nostro pianeta.
Il suo viaggio terminerà a casa di un’amica dei genitori alla quale verrà affidata dalle autorità competenti che si occupano della gestione dei flussi di rifugiati politici e lì Francesca Ghiradelli ha la possibilità di incontrarla nuovamente e di raccogliere il suo dettagliato racconto che possiamo conoscere attraverso questa pubblicazione. Colpisce sicuramente il tono sobrio che accompagna la narrazione, a mediazione zero direi, simile a un racconto di un’adolescente che, pur essendo consapevole della grandezza del suo successo: aver affrontato un viaggio così pericoloso, lasciando la casa, i suoi genitori e il resto della sua famiglia e la sua bellissima terra, ha il tono della speranza che è tipico dei giovani senza mai condannare il rifiuto dei nostri sguardi e facendo leva sulla determinazione personale, l’unica risorsa alla quale ognuno di noi può rivolgersi per rendere possibile ciò che di primo acchito pare impossibile.

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siti Opinione inserita da siti    13 Novembre, 2018
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Risvegli quotidiani

"Souvenirs dormants", il titolo in lingua originale non viene tradito ma solo tradotto e permette proprio una lettura di questo breve, emblematico, potente lavoro del Nobel francese tutto giocato su due dimensioni vitali per l’essere umano: il ricordo e il sogno. Spesso, capita a tutti noi, soprattutto quando i giorni accumulatisi in anni si sono adagiati in un’identità che faticosamente abbiamo costruito e della quale mancano i particolari, perché offuscati da un ricordo non nitido, non oggettivo, non reale ma trasfigurato da pericolose sovrastrutture che ci hanno complicati, le due dimensioni si mescolano, si confondono e determinano nuove verità. Il tutto in fondo rimane misterioso, come la nostra esistenza, fatta di relazioni importanti ma costellata di comparse. Persone che abbiamo appena incrociato, in periodi brevi della nostra vita, incontri fugaci, apparentemente insignificanti che prepotentemente tornano in altre stagioni della vita, nel sogno, nel ricordo, nella rimembranza non casuale ma cercata o più semplicemente attraverso un ennesimo, fortuito incontro. E così, possiamo ripercorrerla la nostra esistenza incastonandola anche in una perfetta geografia: luoghi e ambienti che con la loro fisicità, con la loro presenza, richiamano il ricordo senza però mantenerlo, conservarlo o sigillarlo, poveri custodi di un effimero transitorio che è libero, passeggero, difficilmente intrappolabile. La geografia del ricordo in questo scritto è quella degli spazi esterni di Parigi, quei luoghi che già Modiano ha riesumato in altri suoi romanzi imprimendogli una forte potenza evocatrice, l’universo delle comparse è invece tutto al femminile in un andamento a ritroso che copre la vita di un uomo a partire dal suo debutto da giovincello nei misteri di Parigi. E ora, da vecchio, Parigi è popolata di fantasmi e il narratore si confonde con l’autore e la consapevolezza dell’errore insito nel proprio vissuto amareggia per la sua fuggevolezza:”se potessimo rivivere alle stesse , negli stessi luoghi e nelle stesse circostanze ciò che abbiamo già vissuto, ma viverlo molto meglio della prima volta…”.
Splendida lettura, ve la consegno con grande convinzione.

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siti Opinione inserita da siti    09 Novembre, 2018
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Congedo

Seconda prova narrativa dell’autore cagliaritano il cui esordio con "Carta forbice sasso. Memorie senza raccordo" risale al 2016. Ancora una volta ci troviamo di fronte a un’eccellente prova di scrittura sotto l’aspetto formale, la prosa di Neri è infatti ricca, mai scontata, a tratti audace, impreziosita da un retroterra culturale che sa di cinema, di geopolitica, di amore, espresso in maniera indiretta per la propria terra: la Sardegna. Il titolo la richiama, prepotentemente, estrapolando la struggente nostalgia di un uomo-pastore per la donna amata dal canto di Sini, No potho reposare, divenuto ormai un’icona identitaria per i sardi, con un unico inciso, quel A tie solo bramo- solo te voglio con tutto me stesso- che riassume la trama di un romanzo di non facile lettura. Il lettore è infatti ingabbiato da una cronologia a ritroso che chiude un periodo di tre anni- ottobre 2016/agosto 2013- nel quale vengono giocoforza inserite le esistenze dei vari personaggi le cui economie non possono certo esaurirsi in quel triennio ma vanno a racchiudere tutto il loro percorso di vita. Il lettore è insomma ingabbiato, sostenevo poc'anzi, ma al tempo stesso spronato a ricostruire una vicenda, quella dei due amanti Clelia e Orlando, della quale viene offerto nelle pagine iniziali un epilogo che poi funge da avvio narrativo. Svelare la trama risulterebbe dunque del tutto insensato in siffatta geometria, si può comunque accennare a un buen ritiro voluto da una donna non più giovane e condannata da un male che le lascia poco tempo da vivere nella remota Sardegna meridionale dalla quale viene l’uomo che ha amato dagli anni novanta nonostante egli fosse già sposato. Scoprire chi è lei e chi è lui, novello Zivago, sarà l’oggetto della narrazione affidata di volta in volta al punto di vista degli altri personaggi che gravitano intorno a questa coppia e che offrono una caratterizzazione dei due ampia e articolata. Molto spesso sono lo spazio e il tempo a impreziosire i personaggi perché le piccole vite sono parte di un respiro più ampio, quello della Storia, che le nutre, le forgia e le modella e la provenienza geografica ne sigla, di tali eventi storici, la lettura. “Io non vivo di illusioni. Non dimentico che la vita è anzitutto quello che perdiamo, e quello che perderemo”, dice Orlando, irrisolto uomo, apolide della vita, che trascina nel suo baratro personale l’esistenza di Clelia già naufragata da sé, irrisolta e complicata a sua volta in una storia che definire d’amore è per me un azzardo. Vedo la rappresentazione di due esistenze difficili e fallimentari, incompiute per volontà personale e schiacciate dal peso dello scenario storico in cui sono, loro malgrado, inseriti. La lettura mi ha dunque lasciata perplessa per la visione della vita che rimanda, dura e amara, non sono riuscita a cogliere il bello di un legame d’amore così tormentato e inconcludente pur riconoscendo a Clelia una grande capacità d’amare ma aldilà del sentire personale riconosco all’autore una grande capacità espressiva che vedrei meglio se spogliata di quegli interessi geografici e culturali che sono emersi in entrambe le sue opere. Aspetto dunque Giulio, fiduciosa, in una prova narrativa, che viri abilmente oltre la geopolitica, oltre la Sardegna e oltre i personaggi cupi e a volte trash per azzardare qualcosa di più lontano da sé.

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siti Opinione inserita da siti    09 Novembre, 2018
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Impegno

È un libro necessario questo di Giovanni Impastato, un testimone autorevole di un concetto molto semplice: l’impegno civile, quello necessario per garantire le condizioni atte a rendere impossibile il continuo attecchire del fenomeno mafioso. È altresì uno scritto necessario per comprendere la figura di Peppino Impastato, ucciso dalla mafia, oltre il film di Giordana che, con il suo successo, ha certamente contribuito a farne conoscere la storia ma che, isolato come strumento di conoscenza, rischia di sigillarla, quella storia, in una semplificazione che il fenomeno mafia non concede.
È un libro che trascende inoltre lo stretto vincolo parentale, di un fratello che ricorda il fratello ucciso pretendendo con tutta la sua famiglia la conoscenza oggettiva e dell’uomo e delle condizioni che hanno portato al suo omicidio, facendolo riconoscere come tale dopo l’infame depistaggio volto a farlo passare invece come il suicidio di un terrorista anarchico. Non si tratta neanche di celebrare l’impegno di Giovanni, sarebbe un’autocelebrazione alquanto fastidiosa, quanto di spronare l’impegno di ognuno di noi, di chi minimizza, di chi non conosce il suo territorio, di chi ha smesso di credere nel bene comune, di noi narcotizzati da una cattiva maestra, ancora lei, la TV, o dai falsi miti celebrati dal nostro tempo.
È anche la volontà di raccontare come l’esempio di Peppino non sia stato vano e di come esso continui a vivere sempre più spesso nei giovani che sono stati raggiunti dal suo messaggio attraverso l’attività di Giovanni, della mamma Felicia, della famiglia tutta e infine della Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato. Il volume è poi impreziosito dalle illustrazioni di Vauro che con garbata ironia mette in luce i vari aspetti della vicenda di Peppino e della mafia in generale strappando sorrisi intelligenti.
È infine anche la testimonianza di come questa dolorosa esperienza personale abbia trasceso i suoi confini naturali, aprendo Cinisi e la Sicilia all’Italia e al mondo e viceversa in un continuo incontrarsi, raccontarsi, impegnarsi di tante persone su fronti diversi, non necessariamente legati alla mafia ma alla legalità intesa come rispetto dei diritti umani, sempre e ovunque. Solo ciò, una vera legalità, porterà alla definitiva sconfitta della mafia, un fenomeno sociale e culturale che si può sconfiggere con l’impegno di tutti noi. Grazie Giovanni.

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Romanzi autobiografici
 
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siti Opinione inserita da siti    23 Settembre, 2018
Top 50 Opinionisti  -  

OGNI UOMO TREMA

È un resoconto dettagliato di uno stato patologico, quello legato alla depressione, che accompagna l’autore, un quarantacinquenne, nel suo percorso di vita. Ha il sapore dell’amarezza quando i limiti imposti dalla malattia si fanno insopportabili, paralizzanti ed escludenti. Ha il sapore della speranza quando il paziente cerca l’aiuto del medico e si affida alla chimica per ristabilire gli scompensi che causano il suo malessere. Ha il sapore del disinganno quando ci si imbatte nella scarsa empatia di chi lo dovrebbe sostenere. Ha tutta la magia di un tentativo di vivere nel racconto della quotidianità in seno alla sua famiglia: è sposato e ha un bimbo piccolo. Riesce ad amare e a essere amato. Lavora e anche in quell’ambiente, almeno quello più recente, trova comprensione.
Dietro la storia personale della malattia c’è in fondo il male di vivere, quello di tutti. C’è poi quello specifico, la depressione, una cassa di risonanza quasi delle stesse percezioni e difficoltà che si sposano alla condizione umana. C’è inoltre una grande capacità di razionalizzare lo stato patologico, di scinderlo dalla vera essenza della persona. Vi è poi il vissuto, a partire dall’infanzia, l’abbandono del padre e la punizione inferta dal figlio che a sua volta lo negherà impedendogli il proseguimento del loro rapporto. C’è poi il figlioletto suo che chiede del nonno…
È un contributo interessante per chi ha nella sua sfera di interessi le scienze umane. È però anche una bella storia, come quella che si potrebbe leggere in un romanzo. Il taglio autobiografico, la narrazione in prima persona, lo stile chiaro e limpido, i numerosi riferimenti culturali – si spazia dalla musica, al cinema, alla letteratura – lo rendono un libro adatto a tutti. Conoscere la prospettiva dell’altro è sempre illuminante.

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Il male oscuro
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Romanzi storici
 
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siti Opinione inserita da siti    07 Settembre, 2018
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Al tramonto

Ecco l’ennesimo Roth, per me.
In quale dimensione siamo stavolta?
Il romanzo, apparso nel 1935, viene catalogato come romanzo storico e il titolo richiama subito l’epilogo della parabola napoleonica. Siamo lì, apparentemente, ma non dentro quel periodo storico, no, non totalmente. Dietro lo schermo del resoconto degli ultimi giorni da imperatore di Napoleone, dall’Elba a Waterloo, con focalizzazione quasi assoluta sull’uomo solo e vinto e debole alla quale fa da contraltare la vicenda parallela di un umile stiratrice della sua corte, Angelina Pietri, corsa come lui, si cela in realtà, netto, il fantasma di un altro imperatore, di un’altra guerra, di un altro soldato, di un altro periodo storico e per finire di un altro straniero dentro i confini di un impero che si sta dissolvendo.
Insomma, insieme ai suoi più noti “La marcia di Radetzky” e “La cripta dei cappuccini”, anche questo è, a suo modo, un libro sul finis Austriae e ci riporta a quella prosa nostalgica, necessaria per rendere il senso di smarrimento che accompagnò nei sudditi la fine dell’impero asburgico. Le atmosfere sono le stesse, cambiano i personaggi, Napoleone è come Francesco Giuseppe, smarrito e piccolo e ancora acclamato mentre abdica, Waterloo segna la fine di un mito fatto uomo come la resa austriaca la morte dell’impero austroungarico, il suolo della patria francese trema per il polacco Wokurka, ex soldato ora calzolaio che protegge Angelina quando durante il ritorno del re è estromessa dalla corte, come tremò per un povero galiziano con la disgregazione del mito asburgico e per ogni povero reduce della Grande Guerra.
Per chi conosce i temi più importanti della produzione dello scrittore i paralleli sorgono spontanei, e piacevolmente si gode di questa trasposizione della vicenda napoleonica; qui l’imperatore è restituito nella sua dimensione umana, sia nei momenti di gloria, come quest’ultimo colpo di coda, sia nel momento della sua caduta. Ad essa in particolare è dedicata la terza delle quattro sezioni di cui si compone il romanzo, Tramonto, la più intensa, la più bella, la più accorata, scandita dalla Preghiera alla morte, dalla caratterizzazione dell’imperatore sulla stregua del Giobbe biblico (e qui vi consiglio uno dei suoi romanzi più belli, Giobbe, appunto), dal ridimensionamento del delirio di onnipotenza che ci presenta ora un essere umano stanco e più conciliante, più vicino alla dimensione minima dell’esistenza, capace di far tramontare la sua stella, dopo aver dominato il mondo, a quarantasei anni appena. Votato infine ad un altruismo che gli consente di consolare gli altri: “Non curatevi di me, il mio destino si compie da solo”, per consegnarsi prigioniero al nemico.
Per me, bellissimo. Vi lascio però alle suggestioni infinite prodotte da questo uomo nella letteratura e sapientemente ripercorse da Giuseppe Scaraffia nell’ articolo di cui vi offro il link:
http://www.repubblica.it/venerdi/articoli/2017/10/25/news/napoleone_bonaparte_simon_scarrow_mostra_torino-179279123/

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siti Opinione inserita da siti    02 Settembre, 2018
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Un perpetuo romanzo

“Quel ragazzo non è un poeta, è un perpetuo romanzo”.

Così esclama un personaggio sul finire di questo impegnativo volume della Commedia umana, a siglare l’uscita di scena di Lucien de Rubempré, uno dei protagonisti principali accanto all’amico, poi cognato, David Séchard e alla sorella Eve.
Quanto le sue peripezie dalla provincia a Parigi sono in divenire perenne, tanto lo sono quelle concomitanti della sorella e del cognato, la cui vita è legata alle ambizioni del giovane che parte alla volta della città per innalzare la sua condizione sociale e inseguire le sue illusioni fallaci che lo lusingano e lo ingannano facendogli sognare una vita diversa, da nobile e ricco oltre che da poeta.
La sua avventura parigina attraversa alti e bassi e lo conduce alla perdizione dell’animo attraverso una serie di esperienze che ricalcano episodi ben noti della biografia balzachiana, sia nella scelta dell’ambientazione provinciale e cittadina, sia nelle attività lavorative da lui svolte e in questo romanzo ampiamente descritte e documentate in pieno clima di Restaurazione: il tipografo e il giornalista. Se la prima dà modo di ripercorrere le evoluzioni tecnologiche che hanno portato all’affinamento della produzione di carta partendo dagli stracci per giungere alla sperimentazione di svariate fibre vegetali, la seconda permette invece di capire il difficile mondo dell’editoria colliso con il potere affermato o da riaffermare.
È una lettura complessa per la sfaccettatura del reale che rappresenta, per la lunghezza della narrazione che nell’ edizione da me letta oltrepassa le settecento pagine e per la summa dei motivi balzachiani che vi si ritrovano. A tratti l’ho patita con la forte tentazione di allontanarmi da una narrazione eccessivamente diluita ma ogni mattina, nel mio quotidiano appuntamento con la sua mole, mi ci sono ritrovata e il vissuto dei personaggi principali mi ha catturata innescando il meccanismo del voler almeno conoscerne il destino. Altra molla che mi ha portato a resistere è la meravigliosa rappresentazione di un mondo, quello francese del primo ventennio dell’Ottocento, che passa dalla vita di provincia a quella parigina lasciando in entrambi i casi affascinati, si entra nelle case, nei salotti, nei teatri, si va in carrozza, si conosce il mondo di una tipografia, i suoi odori le sue geometrie, si passa dai pranzi luculliani alla fame più nera con una potenza descrittiva che non ha eguali.

A fine lettura ci si ritrova orfani di quel mondo e di quei personaggi e allora si esprime subito l’intenzione di conoscere il destino di Lucien che si sa essere affidato al volume Splendori e miserie delle cortigiane a conclusione di un dittico inseparabile.

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Papa Goriot
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siti Opinione inserita da siti    31 Agosto, 2018
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Irlanda: terra mia

Con le sue opere ha contribuito “ad abbattere le barriere sociali e sessuali delle donne in Irlanda e non soltanto”, con questa motivazione la scrittrice irlandese Edna O’Brien ha vinto il PEN/Nabokov Award 2018.
Einaudi ha dunque deciso di regalare la prima traduzione italiana, a cura di Giovanna Granato, di uno dei suoi romanzi più celebri e amati, questo appunto, “Un feroce dicembre”.
Uno scritto che restituisce una prosa dura, tagliente, incisiva, maschile direi. Un realismo spietato che coglie il cuore, l’essenza di un popolo e di una Terra, l’Irlanda.
È la storia di una forte inimicizia nata sulle ceneri di una timida amicizia, impossibile fra il nativo e lo straniero. Due uomini, uno che ha vissuto in Australia e che tornando nella contea dei suoi avi, anch’essi piombati lì senza esserne originari, lede il diritto alla terra dell’altro che da quel suolo non si è mai spostato. Un conflitto spietato fra i due con al centro la sorella dell’irlandese doc.
Bugler porta innovazioni e sconquasso, e da quando è arrivato niente è più come prima.
Pochi eventi, quadri giustapposti, veloci apparizioni, concorrono a fornire prima del tragico epilogo una visione di insieme che sa di torba, di duro lavoro, di solitudine, di relazioni difficili e schive: un’Irlanda dura e spietata.

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siti Opinione inserita da siti    29 Agosto, 2018
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Come un mandala

Libro dall’indubbia matrice autobiografica al sapor di montagna, non lascia indifferenti tutti coloro che la amano o la praticano direttamente o indirettamente. Chi scrive abita in una pianura, la più estesa della Sardegna, Il Campidano, nel mezzo appunto, Il Medio Campidano, e la montagna è entrata nella sua vita attraverso la mediazione del suo uomo, prima il ragazzo dell’adolescenza poi il marito della faticosa vita adulta. Lui la pratica con più passione, è la sua passione come la mia è leggere, e io ne capisco di montagna quanto lui delle mie letture: qualche volta ci rimane avviluppato con un ingombro fisico, i libri per casa sparsi, altre volte con le suggestioni di lettura che entrano nel quotidiano delle conversazioni funzionali, quelle del comune vivere, altre ancora quando le nostre letture, per una strana alchimia si incrociano. Ed è stata la volta di Cognetti, lui ha acquistato il libro, io l’ho letto per prima. L’ho divorato perché si legge d’un colpo e la montagna è rientrata nella mia vita. Dopo le prime escursioni per le cale del nostro Supramonte di Baunei, dopo qualche incursione nel più vicino Linas, dopo i primi approcci con le Alpi, Trentino , Valle d’Aosta e le Orobie lombarde, dopo il Tirolo austriaco, dopo i resoconti più fotografici che orali dal Makalu, dal Masnatu e da altre regioni nepalesi, con alle pareti di casa mandala o ritratti di maternità/serenità coi volti felici di madri e figli, mi ritrovo a condividere tutto il contenuto di questo bel libro, io nel basso del Medio Campidano.
Sensazioni di camminata, ambienti che si susseguono, preferenze tra il bosco o la nuda roccia, fatica, malessere, pace, silenzio, rigenerazione .... il fissare l’ambiente che si vive pochi giorni all’anno e non pensare che l’inverno lo trasfigura rendendolo irriconoscibile. Il verde e il bianco, i prati o la neve, l’andare e lo stare, la vacanza, la vita quotidiana. La montagna è dura, non ci sono dubbi, per chi la disturba in vacanza, come capita a me, ma ancora di più per chi ci è nato e ci vive. Eppure, proprio questo legame con la Terra di appartenenza la rende così preziosa per chi ci è nato e per chi ne ha ricevuto l’imprinting frequentandola da piccolo. Ci si ritorna, sempre. Questo libro racconta dunque la storia di un andare e tornare per la montagna seguendo le direttici primarie di due cittadini: un padre e un figlio, ognuno con le sue ragioni. In mezzo, il restare ostinato di chi ci è sempre stato, un giovane montanaro accolto, di traverso, nella famiglia cittadina durante le sue permanenze estive nel territorio che gli appartiene e che gli altri attraversano. Movimento, in fondo di questo si tratta, all’ombra della metafora che nutre la storia delle otto montagne (niente a che vedere con una lista di cime scalate): quale linea seguire? Quale percorso di vita? Seguendo la direttrice verticale o quella circolare. Ognuno persegue il proprio cammino, nessuno è avulso dall’errore, tutti portano alla meta, la propria. Buona lettura.

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