Opinione scritta da Mian88
1513 risultati - visualizzati 151 - 200 | « 1 2 3 4 5 6 ... 7 31 » |
Quali orchidee, Miss Blandish?
James Hadley Chase, uno dei molteplici pseudonimi, di René Lodge Raymond, ex libraio e di poi scrittore classe 1906, Regno Unito, e venuto a mancare in Svizzera nel 1985, in “Niente orchidee per Miss Bladish” propone ai suoi lettori un giallo ambientato in America, Kansas City.
Una ricca e giovane ereditiera, Miss Blandish, viene rapita da una banda di criminali. Sono inesperti, impreparati, fiutano il “colpo facile” e si buttano a capofitto nella possibilità di ottenere il guadagno della vita. Ma è proprio la loro inesperienza a farli cadere innanzi a una banda più scaltra capitanata da Mamma Grisson, spietata criminale molto ambiziosa, che scoperto il sequestro interviene uccidendo i malviventi e portandosi via la malcapitata donna. Scatta la richiesta di risarcimento milionario. Il padre paga, ci mancherebbe, tutto il quantum pur di riavere la figlia.
Ottenuto il riscatto però qualcosa non va come auspicato. Originariamente il piano era quello di uccidere la donna subito dopo aver ottenuto il denaro ma, tuttavia, Slim il figlio di Mamma Grisson, si innamora perdutamente dell’ereditiera. È un uomo con problemi di mente, inquietante, squilibrato e perverso. Rappresenta il perfetto pazzo criminale normalmente idealizzato nell’immaginario comune. Ma cosa succede se il gioco si inverte e una mente criminale diventa un gioco del gatto col topo? Se dietro la facciata vi è altro? Se il gioco si stesse inaspettatamente complicando?
Una trama semplice, lineare, una scrittura scorrevole e fluida nel suo essere. Non è una lettura banale, forse nemmeno indimenticabile ma certamente coinvolge per l’aspetto della crudezza e della violenza che viene inserito. La storia, infatti, sembra essere interamente scritta dal punto di vita della mentalità criminale senza nulla risparmiare a chi legge. E sia chiaro, è una storia semplicemente crudele.
Slim è instabile, sociopatico, violento, la madre, dal suo canto, non ha scrupoli e non ha interesse all’osservazione e rispetto della vita umana. Sono per questo il binomio perfetto di una coppia brutale e senza vincoli o morali di qualsivoglia genere.
Come contrappeso abbiamo un detective burbero, tormentato, in perfetto stile anni ’30 e che conosce bene non solo i suoi limiti ma anche quelli da non oltrepassare. Meno incisiva come personaggio è proprio Miss Blandish, una donna mite, docile che a tratti sembra essere invisibile, anche se nel concreto è la protagonista e molla scatenante delle vicende.
“Niente orchidee per Miss Blandish” è un buon testo soprattutto se contestualizzato nel periodo storico inerente e nel momento della sua creazione. Non può dirsi un capolavoro e per alcuni passaggi di crudezza può disturbare, o si ama o si odia. Di facile lettura, capace di conquistare per intreccio e/o binomi narrativi. Crudele.
Indicazioni utili
Au revoir Poirot!
«Forse, allora, penserai che sarebbe stato meglio restare all'oscuro di tutto e poter dire "Calate il sipario.»
La penna di Agatha Christie sa essere sempre pungente e magnetica, una penna che trasporta il lettore nella sua comfort zone e che lo coccola in ogni circostanza e avventura narrata. Lo stesso vale per “L’ultima avventura di Poirot. Sipario” opera in cui il conoscitore saluta e dice addio al simpatico ed eclettico investigatore Belga.
Tra queste pagine non manca quel velo di nostalgia e malinconia che spesso accompagna le opere del collega Simenon, ma anche della stessa autrice, che si voglia per un ritorno al passato o per uno al presente, per un ritorno a quello Styles Court dove tutto ha avuto inizio. Un vero e proprio ritorno alle origini e narrato in prima persona, un ritorno alle origini che ci mostra che tutto è cambiato a Styles esattamente come tutto è rimasto identico e immodificato. Sono passati cinquantacinque anni da quel primo caso, adesso Hastings dovrà essere sia occhi che orecchie per l’anziano investigatore acciaccato, pieno di dolori, quasi impossibilitato a muoversi ma pur sempre nel vivo delle sue facoltà cognitive. E non serve forse questo per risolvere un caso?
«Non c’è niente di più triste, a parer mio, della vista di un uomo devastato dagli anni, soprattutto se è un amico.
Il mio povero amico! L’ho descritto molte volte, e lo rifaccio ora per darvi un’idea di quanto fosse mutato. Storpiato dall’artrite, si spostava servendosi una poltrona rotelle. Il suo corpo, un tempo grassoccio, si era smagrito. Il viso era grinzoso, coperto di rughe. Baffi e capelli conservavano il colore corvino, ma Poirot commetteva un errore tingendoli, anche se per niente al mondo avrei usato offenderlo, facendoglielo notare.»
Poirot resta un uomo saggio, acuto, meticoloso, un uomo che osserva, un investigatore previdente e prudente. Ricollega i tasselli, identifica più crimini commessi da Mister X, questo il nome fittizio che decide di dare al colpevole, tace con Hastings sulla vera identità del presunto reo per proteggerlo ma anche perché sapendo potrebbe perdere di lucidità. Ed essendo quest’ultimo tanto gli occhi quanto le orecchie dell’investigatore, non è plausibile.
Tanti i personaggi che si susseguono tra cui anche la figlia ventunenne di Hastings, Norton, un innocuo uomo di mezza età che ama l’osservazione per gli uccelli e della natura, sir William Boyd Carringoton, ex governatore di una provincia dell’India, la signorina Elizabeth Cole, che nasconde la propria identità a causa del passato, l’arrivista ed egoista Allerton, la signorina Craven, infermiera. Tutte persone che risiedono nel pensionato che viene gestito dai coniugi Luttrell.
Muore prima la signora Franklin, moglie del dottor Franklin di salute cagionevole, seguita a ruota dalla morte di un altro personaggio e dello stesso Poirot. Suicidio? Hastings fatica a credervi, le medicine scomparse fanno pensare a tutto tranne che a una morte volontaria. Ma come farà Hastings a venire a capo della matassa? Vi riuscirà? Ad aiutarlo vi saranno gli indizi custoditi all’interno della valigetta di Hercule, sarà l’uomo a dover poi ricomporre la matassa nel suo intero.
«A chi non è capitato qualche volta di sentire un tuffo al cuore rivivendo un'esperienza, un sentimento o un'emozione?
"Non è la prima volta che mi capita questo..."
Perché queste parole colpiscono tanto profondamente?
Era la domanda che mi ponevo mentre, seduto in treno, vedevo passare davanti ai miei occhi il piatto paesaggio dell'Essex.»
Ben quattro mesi dopo la morte dell’investigatore il caso troverà una soluzione, una soluzione che si radica e trova il suo punto forte nelle scene teatrali, indizi inizialmente molto complessi. Postuma giungerà anche una lettera che contiene osservazioni sul mistero.
Ancora una volta Agatha Christie stupisce e coinvolge, conquista e lascia il lettore appagato. E vi riesce con uno scritto dalla penna precisa e in perfetto suo stile ma anche con analisi introspettive e psicologiche che accompagnano chi legge in un ritmo narrativo sempre più incalzante. Lo stesso epilogo non delude essendo caratterizzato da una serie di tratti che lo rendono d’impatto e che consentono di mescolare osservazione dell’intelletto a indagini minuziose.
Il risultato finale è un’opera che ben saluta l’eroe principale della scrittrice ma che non delude le aspettative, un eroe che torna nelle ultime pagine, che risolve il mistero, che lascia un vuoto nel cuore e nell’animo, un profondo velo di malinconia.
«Scesi le scale, con un gran peso nel cuore. Non riuscivo a immaginare la mia vita senza Poirot.»
Indicazioni utili
Malik e Mattia
«I numeri gli hanno fatto scoprire un mondo dove tutto può trovare un suo spazio preciso, senza possibilità di errore, e giocarci ha il potere di liberarlo, anche dal pensiero di sua madre che lo aspetta, o di cosa possa nascondersi dentro i cespugli.»
Torna in libreria Simona Sparaco con “La vita in tasca”, Solferino libri, opera narrata con la tecnica dell’alternanza delle voci narranti in cui seguiamo le avventure di due giovani volti; Malik e Mattia. Due giovani che affrontano due percorsi preadolescenziali diversi, per due realtà altrettanto diverse.
Perché se Malik vive in Africa con la madre e un padre scomparso, che non ha più fatto ritorno da quel deserto così bramato e così temuto, è uno studente che – tematica che torna dopo “Dimmi che non può finire – con i numeri trova conforto e che fa propri soprattutto nei momenti di maggiore paura, Mattia vive a Milano con la madre Luisa. Se Fara la madre di Malik si ammala di malaria e fa di tutto per mandare il figlio a Nizza dallo zio affinché possa continuare a studiare e avere un futuro vero, Luisa è anatomopatologa e spesso lontano dalla propria casa. Questo fa sentire Mattia solo, trascurato anche se sa di non esserlo. Non vede da anni il padre, il mondo degli adulti è un qualcosa che non merita e ottiene la sua stima. Il rischio di intraprendere una brutta strada è dietro l’angolo. Non è entusiasta nemmeno della scuola, vuoi perché dislessico e discalculico, vuoi perché non vi trova alcuna forma di stimolo e/o interesse. Sarà l’incontro con Jonathan a cambiare le cose, a rimescolare le carte, a portare su un nuovo piano Mattia.
«Lui scuote la testa, e? ovattata, i suoni attutiti, la mente si oscura, i 10 nella pagella scompaiono, come i sapori della cena appena consumata e gli odori della sua casa, e quelli della scuola già troppo lontana. «Ma... ma tu cosa farai?»
«Io ti aspetterò qui.»
Le pupille del ragazzo oscillano nel vuoto.
«L’Europa, figlio. L’Europa.»
Simona Sparaco propone con “La vita in tasca” un romanzo introspettivo, riflessivo, intimistico. Ritornano tematiche a lei care, quali come anzidetto i numeri e la loro forza nella vita e nel nostro vivere, l’infanzia, la difficoltà della vita, i legami familiari, ma anche tematiche nuove che spingono il lettore a una nuova e rinnovata analisi interiore.
Il futuro fa paura, è sempre una incognita incapace di dare una qualsivoglia certezza. Ancor maggiore è il timore per questo divenire se si è adolescenti. Ed anche se a narrare e parlare sono due persone completamente diverse con storie differenti e realtà altrettanto opposte, questo timore è latente, impresso nel lettore.
La storia che viene narrata con una penna delicata e precisa è una storia di esistenze allo sbando, di perdizione, di ricerca di salvezza. Per scoprire chi si è davvero, per trovare quello che è il nostro posto nel mondo, per essere, semplicemente, felici.
Ed è qui che l’autrice mette in evidenza le difficoltà del vivere, gli scontri che il quotidiano ci porta ad affrontare, ma anche quell’umanità che ancora è capace di sorprenderci. Ancora non mancano problematiche quali il desiderio di appartenenza, l’emigrazione, la solitudine, la nostalgia, la tratta di esseri umani, l’abbandono.
Un romanzo concreto, veritiero, che dona emozioni e che sa farsi apprezzare per la sua autenticità.
Indicazioni utili
Un'avventura made in Diciassettesimo secolo
Robert Harris, negli anni, ha abituato i suoi lettori a scritti avventurosi quanto capaci di far riflettere.
Autore poliedrico, eclettico, eterogeneo capace di toccare tematiche diverse ma pure di assaporare settori più specifici quali la fantapolitica, la distopia storica, torna in libreria con uno scritto che questa volta si sposta nell’America del Diciassettesimo secolo. E questa è già di per sé una prima grande novità in quanto sino ad oggi le opere storiche dello scrittore erano incentrate in altri luoghi del mondo. Rappresenta inoltre una ulteriore crescita che si riallaccia alla maturazione già riscontrata nel precedente “V2” dove, però, ad essere narrate erano le vicende di questi missili durante il conflitto mondiale.
Siamo nel 1660 quando il colonnello Edward Whalley e suo genero, il colonnello William Goffe, approdano sulle coste del Massachussetts. Sono in fuga perché accusati dell’omicidio del re Carlo I. Esecuzione passata alla Storia che ha portato al culmine della guerra civile inglese ma anche all’affermazione delle truppe parlamentari che hanno combattuto con i realisti. Eppure, questi due uomini ricoperti di salsedine, provati e in fuga, dalle barbe incolte e l’aspetto chiaramente trasandato, hanno proprio i realisti alle calcagna. Cosa è successo in questi dieci anni trascorsi? È successo che dopo la decapitazione di Carlo I, i realisti sono tornati al potere con il chiaro e inequivocabile intento di vendicarne le sorti colpendo i cinquantanove uomini che ne hanno firmato e siglato la condanna a morte. Sono colpevoli, costoro, di alto tradimento e per questo devono essere puniti. Ha avuto inizio la caccia all’uomo, caccia che ne ha già uccisi alcuni, imprigionati altri.
Da Londra, inoltre, Richard Nayler in qualità di funzionario della commissione del Consiglio privato istituita per arrestare i colpevoli, è in partenza.
Due i continenti, una caccia all’uomo senza eguali in quel del Diciassettesimo secolo. Tra storia nella Storia, tradimento, brama di potere, religione, vendetta e ogni altro istinto umano capace di coinvolgere l'uomo nel suo intimo più profondo.
Il risultato è quello di un romanzo ricco di colpi di scena, capace di incuriosire e dove sono ben bilanciate le fasi di finzione narrativa e Storia. Certamente è una ennesima riconferma delle doti narrative dell’autore, tuttavia, la maggiore o minore gradevolezza dello scritto è fortemente influenzata dalla propria e soggettiva gradevolezza per il tema trattato e anche per il periodo storico. Il lettore che ama le opere ambientate nel Diciassettesimo secolo non faticherà a sentirsi in empatia con il narrato, a trarre piacevoli spunti di riflessione ed anche a ultimare in poco tempo la medesima. Chi apprezza più l’Harris della fantapolitica alla Fatherland o il romanzo storico ambientato in Europa e durante il Primo o Secondo conflitto mondiale gradirà ma mantenendo le giuste riserve in merito.
Nel complesso un libro da leggere e con cui trascorrere ore piacevoli.
Indicazioni utili
Swiv
«Combattere è durissimo, eppure non ci dobbiamo fermare mai.»
Quello proposto da Miriam Toews è un romanzo che fonde ironia e introspezione, empatia e capacità narrativa. Tra queste pagine, per mezzo di un linguaggio in apparenza meno forbito perché molto più vicino al linguaggio parlato, ella ci avvicina alle vicende riuscendo a rendere il lettore partecipe e a lui trasmettere molteplici messaggi lasciati tra una situazione e l’altra.
La protagonista vive in una bizzarra famiglia caratterizzata da una nonna che, da sola, tutti vorremmo avere e manda avanti l’intero motore del nucleo familiare. Il passato per lei è un misto di complicazioni fatto di nodi intricati e matasse non sciolte ma è possibile disattenderlo in modo molto semplice se viene affrontato e vissuto con la giusta prospettiva. Perché a volte della vita bisogna anche ridere e non lasciarsi scappare quella leggerezza e quella innocenza che ci ha caratterizzato soprattutto in età giovanile. Questo potrà aiutare a non lasciarsi sopraffare dagli acciacchi, dalla sordità, da quel corpo che sembra abbandonarci negli anni e che con il tempo inizia a mostrarsi con tutta la sua fragilità ed effimerità. A ciò si somma la figura della figlia, incinta e in piena crisi ormonale e umorale e della bambina che sa essere riflessiva e amorevole senza temere il mondo dei grandi.
«Mi sono interrotta e l’ho squadrata severamente. La nonna ha squadrato severamente me. Ho sbattuto le palpebre un paio di volte. Ci sta, ho detto. È legittimo. La nonna è sembrata felice di sentirlo. Ma di nuovo, ho detto, ricordati sempre del tuo lettore. Non è il caso di sostituire la chiarezza con dei paragoni brillanti.»
Da qui ha inizio una storia godibile e piacevole che ci propone figure attuali e reali proprio grazie a quelle che sono le loro più semplici ma concrete imperfezioni.
Un romanzo dai giusti toni è “Notte di battaglia”, uno scritto che sa far sorridere ma che resta anche inciso nella mente dei lettori in un perfetto caleidoscopio di voci e volti.
«Nella vita non importa le parole che usi, tanto non ti eviteranno di soffrire.»
Indicazioni utili
Kodachi e Mimi
«Fukiage è un luogo particolare, una specie di isola remota circondata dal mare e dalle montagne su cui si raccontano storie misteriose. In qualche modo si intuisce quali di queste siano vere, e da adulta mi sono resa conto che le persone fanno di tutto per renderle credibili. Solo andando via da qui ho scoperto che posto eccentrico sia.» p. 9
Banana Yoshimoto ha dimostrato e continua a dimostrare nelle sue opere una profonda crescita e maturazione dal punto vista non solo stilistico quanto anche contenutivo pur restando in alcuni passaggi sfuggente, sul superficiale. In “Le strane storie di Fukiage” scopriamo che Kodachi, dopo essersi recata in questo luogo, svanisce del nulla. La sorella gemella sa che è sana e salva seppur di lei se ne siano perse le tracce. Mimi e Kodachi sono orfane di padre, uomo venuto a mancare a seguito di un grave incidente stradale. La madre verte ancora in stato comatoso, uno stato silente e indecifrabile che non lascia trapelare spiragli sul futuro. Prima della decisione di trasferirsi in quel di Tokyo, vivevano con una coppia di amici dei genitori, Kodama e Masami. Sono due giovani molto diverse. Seppur gemelle esse hanno interessi e tratti molto diversi. Kodachi ha preso dal padre i lineamenti e ama tutto quel che concerne l’arte, è poco più bassa di Mimi che invece assomiglia alla madre e ama lo sport. Nulla viene dalle ricerche dei tre (Mimi, Kodama e Masami). Anche il rivolgersi a una divinatrice non porta grandi risultati se non quelli di sciogliere alcune incertezze interiori. A ciò si somma il potere salvifico dell’animo dato dalla natura, Mimi ha infatti un rapporto molto stretto con Yoshimoto, il guardiano del cimitero che è particolarmente avvezzo ai suoi e i colori che questa sa offrire.
La giovane protagonista, però, tra queste pagine non cerca solo la sorella ma anche e soprattutto se stessa, un io interiore, introspettivo e un aspetto emozionale capace di donarle forza e capacità di ripartenza.
«Aprendo gli occhi scoprii di avere un piccolo fiore di manuka in una mano. Un minuscolo fiorellino che emanava una luce intensissima. Proprio come il mazzetto del sogno. Quasi a volermi dire che c’era ancora speranza.»
Un po’ come ne “Le sorelle Donguri”, dove protagoniste sono nuovamente due sorelle tra loro molto diverse di nome Donko e Guriko, anche in “Le strane storie di Fukiage” la Yoshimoto tesse un universo fatto di carattere onirico e introspettivo finalizzato all’analisi e comprensione dell’animo umano. Altro aspetto è dato dalla ricerca delle proprie origini, della propria storia, delle proprie origini, carattere e vita, una prospettiva ulteriore in quest’ultima fatica dell’autrice.
Ma non mancano anche temi di riflessioni quali la morte, la separazione, i legami famigliari, l’andare avanti, il sopravvivere, il trauma di una perdita, il coma, temi già affrontati in opere quali ad esempio “Su un letto di fiori”.
Un titolo senza interruzioni, senza alcuna suddivisione in capitoli e dove l’argomentazione centrale è e resta il dolore. Si apprezza per le problematiche e per la maturazione dell’autrice, resta in alcuni passaggi vacuo, fumoso, sfuggente e per questo tende a perdere in parte di mordente.
Indicazioni utili
Il gioco di Drek
14 settembre 2011. Josh Blay ed Edie Ledwell non sono ancora consapevoli del successo della loro idea. Tutto è nato in un cimitero, dalla passione per il disegno e l’arte, dal legame amoroso e sentimentale. “Un cuore nero inchiostro” è approdato su YouTube e nessuno si sarebbe mai aspettato cotanto riscontro mediatico, nemmeno, appunto, i creatori. I fan si moltiplicano, nasce anche un gioco ispirato alla saga chiamato “Il gioco di Drek”. Il fandom è entusiasta ma al tempo stesso non perdona. Non perdona l’approdo a YouTube, non perdona Edie. Se Josh è visto come un idolo nonostante la vera mente e motore tra i due sia la donna, è Edie ad essere dipinta come un mostro ingordo di fama e denaro. Da qui partono i soprannomi quali IngordEdie, Edie Contaballe, Edie Mangiatutto e chi più ne ha, più ne metta. Anomia, uno dei moderatori nonché co-fondatore insieme a Morehouse del gioco, non ammette errori. Non le concede possibilità di perdono. È mosso da un astio incontrollabile, sa tutto, ogni mossa e segreto del passato e presente della donna. Anomia che non rimanda tanto ad anonimo quanto a mancanza di normali standard sociali ed etici. Ogni occasione è buona per darle contro e scagliarsi contro di lei. Quattro anni. Quattro lunghi anni di continui attacchi a Edie.
Anno 2015. Cormoran Strike e Robin sono al Ritz. La serata ha preso una piega completamente inaspettata, una piega che potrebbe incidere sul futuro del duo. I casi però sono tanti e questo permette ad entrambi di “far finta di niente” e rimandare il discorso a data da destinarsi. Quando Edie Ledwell bussa alla porta dell’agenzia è una donna esausta, provata dagli anni di oppressione di Anomia, desiderosa di fermarlo e di conoscere la verità. Ha tentato il suicidio, è vero, ma adesso vuole provare a riprendersi la sua vita e a toglierla dalle mani del fandom. L’agenzia non può però aiutarla, non sono esperti di crimini informatici e scoprire chi è Anomia è quasi impossibile per chi non è del settore. Questa, almeno, la risposta di Robin che vede sul collo della donna dei lividi. Tuttavia, qualcosa cambia nel corso della vicenda perché poco dopo l’incontro con Robin la coppia viene ferita. Un grave doppio accoltellamento avvenuto nel cimitero di Highgate che ferisce a morte Edie Ledwell, di anni 30, e Josh Blay, di anni 25, sopravvissuto ma con gravi lesioni e paralisi conseguenti. Ma chi potrebbe essersi macchiato di questo reato? Sembra che le vittime siano state colpite da un taser e poi accoltellate alle spalle. Adesso non si tratta più di un crimine informatico e nonostante le indagini siano svolte dalle autorità vengono investiti del caso anche Cormoran, Robin e tutta la loro squadra al fine di scoprire chi sia Anomia e, se possibile, far anche giustizia. I sospetti di Scotland Yard, ad ogni modo, vertono tutti su un’organizzazione di estrema destra con finalità terroristiche e ideologie razziali.
«Era in momenti come quello che a Robin riusciva difficile rimanere arrabbiata con Cormoran Strike, per quanto irritante lui potesse essere in genere.»
Robert Galbtraith, alias J.K. Rowling, dona ai suoi lettori un romanzo stratificato, complesso, arguto. Un libro caratterizzato da molteplici tasselli che prendono forma e campo. Nulla è dato per scontato e nulla è come appare. Pagina dopo pagina il lettore viene travolto in un caso sempre più arzigogolato che porta, nel vero senso della parola, ad aprire un vaso di Pandora.
Al tutto si somma una prosa pulita, limpida, accattivante, mai prolissa. E non deve spaventare nemmeno la mole, il romanzo è godibilissimo e rappresenta un perfetto giallo all’inglese, con i giusti tempi e il ritmo mai troppo lento, mai troppo veloce. Qualche novità sul fronte sentimentale ma non quelle che molti lettori auspicherebbero, anzi. Vi è una maggiore presa di consapevolezza ma a far la differenza è il giallo. Un giallo che muove nell’attualità facendo riflettere sulla forza dei social e il loro impatto nel mondo circostante, sulla forza della parola del singolo se comunicata con i giusti mezzi sulla massa, l’effetto boomerang di quel che diventa virale, l’ossessione, la persecuzione anche mediatica, la vendetta e poi vi è il crimine, il crimine che esce dallo schermo e diventa concreto e reale. Il sangue che macchia il gioco che non è più solo questo. Ed ancora vi è la riflessione dettata da tutto quel che consegue anche il celarsi dietro uno schermo, l’accettarsi, il vivere con le proprie ossessioni, paure, deficienze. Il crearsi uno specchio, una maschera, in cui essere quel che non si è. Indossare i panni di quel che vorremmo essere, di un mito che non siamo ma che è esente da tutte le nostre paure e i nostri limiti fisici e psichici. Queste e molte altre sono le riflessioni che vengono suscitate da queste pagine.
Infine, ma non per importanza, la struttura del testo: dal prologo sino alla conclusione, anche l’impaginazione è espressione di attualità e riporta anche circostanze e dati che molti di noi hanno vissuto nella dimensione del web con maggiori o minori interazioni social e non. Questo rende ancora più corposo e veritiero il componimento.
L’attenzione non cala, la curiosità è tanta, il desiderio di conoscere chi è Anomia e chi ha ucciso Edie, ferito Josh, attuato il meccanismo complesso che si cela dietro i delitti, è insaziabile e il lettore, come in un perfetto rompicapo, si cala nei panni di Cormoran e Strike e prova a individuare egli stesso il colpevole. Perché i reati che si delineano sono su più piani ma sono veramente tante le dimensioni e i multilivelli di analisi che vengono descritti.
In conclusione, un altro godibilissimo capitolo delle avventure di due personaggi che si fanno sempre più apprezzare e che leggere è sempre un’attesa che poi viene ripagata. Uno di quei libri che il conoscitore si gode battuta dopo battuta e che desidererebbe non finissero mai. A quando il prossimo J. K. Rowling/Galbtraith?
«Robin ebbe l’impressione che fosse così assorto nei suoi pensieri da non rendersi nemmeno conto di quello che stavano facendo.»
Indicazioni utili
L'Eneide secondo Marilù
Marilù Oliva si propone al lettore con una lettura se, così si vuol dire, ardita quanto impegnativa. Tra queste pagine torna il mito, torna l’amore struggente di Didone per Enea che, naufrago, trova in lei soccorso e rifugio nell’ospitalità della reggia di Cartagine, come sappiamo dai libri di scuola. È infatti nel Libro IV de L’Eneide che si delinea l’amore, la passione e una delle passioni più memorabili e struggenti dell’amore e delle storie tali occidentali. Ma cosa sarebbe successo se Didone non si fosse uccisa? Cosa sarebbe successo quel suo approccio alla vita così noto fosse stato diverso?
Ecco che sopraggiunge, dopo circa un centinaio di pagine, la proposta audace di Marilù Oliva che osa ma al contempo sprona ad abbracciare un mito visto in un’ottica completamente diversa.
Un’altra prova ben riuscita dell’autrice che già aveva riportato il mito negli anni del nuovo Millennio con opere quali L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre. Un titolo sinceramente piacevole e da leggere con semplice naturalezza e gusto.
Indicazioni utili
Un viaggio nella Storia e in una famiglia
«Il passato ci appartiene, voltargli le spalle sarebbe meschino. Quello che non esiste più torna, sempre. Riemerge attraverso la memoria, attraverso i libri, attraverso le parole. Puoi negarlo, rifiutarlo, metterci una pietra sopra, ma non serve a nulla quando ti pizzica la mente.»
Presente, passato, futuro. Quello che è stato, quello che è. Quello che sarà. Un passato che è nostro, che è presente, che è presenza. Perché non è possibile voltare le spalle al passato, un passato che ci appartiene e che è parte del nostro essere. Anche quando ci ha fatto soffrire, anche quando il dolore è tale da costringerci a metterci una pietra sopra, per conviverci, per andare avanti.
Quello che è stato al tempo stesso ci forma e plasma a sua immagine e somiglianza, ci dona emozioni e sensazioni eterogenee quanto divergenti. Ecco perché quello che è stato può indurre alla riflessione il lettore, un lettore che vi ripensa anche solo come spettatore ma poco importa in quanto che si sia spettatori o partecipi in prima persona, ciascuno ne ha un ricordo tale da influenzare il proprio essere.
«Chi scrive lo sa bene che con i romanzi si fanno sempre i conti con se stessi, ci si imbatte nei propri fantasmi, si proiettano le proprie ansie e le proprie vergogne...»
Ed è questo che accade con “Stirpe e vergogna” di Michela Marzano. Il conoscitore entra nella vita della scrittrice che torna indietro in quella che è la storia della sua famiglia. Cerca documenti, legge carte, osserva fotografie, fa domande, chiede e chiede ancora, non sempre ottenendo quelle che sono le risposte alle proprie domande. Eppure è proprio interrogando il passato che è possibile interrogare il proprio vivere e al tempo stesso ritrovarsi.
Da qui ha inizio una ricerca, da piccoli interrogativi finalizzati a trovare dei perché. Ed è proprio scoprendo del passato del nonno che era stato chiuso quale una vergogna che nasce il desiderio di sapere della verità.
A questo bisogno di verità si mixa una scrittura rapida, fluida, incalzante, una narrazione senza fronzoli che non perde di interesse e che mira a sfiatare dubbi in primo luogo dell’autrice stessa. Un romanzo interessante, che sa far riflettere il lettore e che interroga anche sulla memoria storica, su un pezzo di Storia quale quella fascista, senza remore e senza timori.
Indicazioni utili
Natale 1914
«Ci nasciamo, pensò, con il desiderio di un filo, almeno uno, che ci leghi agli altri, senza farci disperdere nel vuoto del mondo, e quel desiderio finiamo per portarcelo dentro tutta la vita.»
Mattia Signorini torna in libreria con un romanzo molto ma molto più maturo che si propone di parlarci di una pagina della Storia troppo spesso dimenticata e/o per alcuni sconosciuta. Si tratta infatti di un evento noto, seppur paradossale se si pensa al contesto, ma che non tutti conoscono. Un evento che ha portato ristoro e pace in un conflitto che si è dimostrato essere macchia indelebile.
Tra queste pagine ci sono uomini, uomini nella loro fragilità, nelle loro cadute, nella loro paura. Uomini più o meno giovani che vivono tante storie che con il loro piccolo grande contributo hanno contribuito a dare una svolta alla Storia.
Ma facciamo un piccolo passo indietro. È il 1933, il mondo sta per cadere, nuovamente. Il clima politico-sociale dell’Europa non ammette repliche, la Germania ha intrapreso sempre più una volta dura, nera, dittatoriale, non ammette altre possibilità. La follia di un singolo uomo ha coinvolto una nazione intera, il nuovo devastante e oscuro capitolo sta per scriversi. Un uomo, ancora, sta accompagnando il figlio a Ypres, un uomo che il baratro e l’abisso lo ha visto molto bene in quel 1914 quando in un bosco incontra William Turner, quando tutto attorno a loro è guerra, trincea, bombardamenti, pioggia che cade e speranza che viene meno. Poco importa che siano tedeschi o inglesi, non ce la fanno più. William è il primo che vorrebbe andare verso il Mare del Nord, tornarsene a casa da quel padre con cui ogni rapporto è venuto meno, a consegnare orologi riparati, a ripensare a quella madre andatasene troppo presto. Ed è Natale in quel 1914. Un Natale che non chiuderà quella guerra che durerà altri 5 anni ma che in quella terra di nessuno permetterà al mondo di fermarsi per qualche ora. Perché non saranno più inglesi, non saranno più tedeschi, saranno solo uomini. Uomini che si offriranno amicizia, doni, cibo, aiuto. Ed è la Tregua di Natale, un evento che entrerà nella Storia.
Ecco allora che tra queste pagine siamo trascinati, coinvolti, emozionati. È una storia a metà tra finzione e realtà, una storia che ci parla di eroi ma anche di animi e di fragilità. Non si tratterà di una guerra lampo e proprio tra quei luoghi, 20 anni dopo, quella stessa paura, quella stessa mortificazione, quella stessa tragedia, quello stesso dolore, tornerà a capeggiare. Tra roghi, trincee morali, culturali, razziali e una Storia che non perdona.
Al tutto si somma uno stile narrativo rapido, fluido, che sa conquistare il lettore e trattenerlo nello sviluppo di un’avventura da vivere e far propria magari con la speranza di non commettere ancora una volta gli stessi errori.
«Possiamo passare il resto della vita a darci la colpa o capire che non scegliamo noi in quali circostanze incappiamo. Forse la vita non è altro che il modo con cui reagiamo a ciò che ci capita e un modo nuovo di reagire, forse, possiamo provare a trovarlo insieme appena tornerò.»
Indicazioni utili
Cate & Alexander
«Non si poteva affidare la speranza ad altri. Bisognava farsi speranza, opporre resistenza e barricate, ricucire e andare avanti, rimboccarsi le maniche, e bussare alle porte chiuse, per farle aprire.»
Il suo nome è Caterina Hill, detta Cate, ed è un medico chirurgo. O meglio, prova ad esserlo. Perché in quella Londra del 1914 una donna e ancor più medico è un qualcosa di impensabile. Ecco perché il suo lavoro è paragonabile a quello di un professionista di serie D, ecco perché per campare si occupa di prostitute e donne disperate che cercano cure per le problematiche cui sono soggette a fronte della propria posizione sociale. Cate è però una donna di buona famiglia. Di origine per metà italiana, circostanza questa non positiva in un mondo dove essere originaria di uno Stato che ancora non ha preso una decisione sul dove stare e con chi schierarsi nell’imminente conflitto è condizione tanto negativa quanto disturbante, e per metà inglese cresce da sola una figlia. Un marito, in verità, e un padre mai vi è stato. Tuttavia, la piccola Anna di anni 5 è una realtà, ed è anche la sua fortuna. Ha di recente subito un’aggressione, Cate. Questa l’ha portata a lasciare l’ospedale presso la quale operava e ora che si occupa di reiette mai si sarebbe aspettata della visita di Flora Murray e Louisa Garrett Anderson. Sono venute a proporle un’offerta molto accattivante, importante non solo a livello economico ma anche sociale. Le donne medico vogliono coinvolgerla in un progetto che ha quale obiettivo quello di curare i feriti in guerra, più precisamente in Francia. Si tratta di un progetto che la vedrebbe coinvolta per sei settimane ma che la vedrebbe realizzata come medico-chirurgo e che la vedrebbe poter fare la differenza per quel mondo così ostile alle donne e al loro ruolo nella società. Cate non può accettare, come potrebbe fare con la piccola Anna? Lasciarla a Mina e Joseph, l’uomo e la donna che l’hanno letteralmente raccolta per la strada? E se si pentisse di rifiutare? Se un domani fosse colta dai dubbi per quest’unica occasione perduta? Fortunatamente saranno proprio Mina e Joseph a farla riflettere e Cate partirà con le donne medico alla volta della Francia per soccorrere e aiutare i soldati feriti in guerra.
«Il fiore non si rende conto di essere già morto quando viene colto, pensò. Sarebbe capitato anche ad Andrew, se Alexander non avesse fatto qualcosa. Come certi fiori che sbocciavano da recisi, sarebbe marcito mentre ancora respirava.»
E sarà qui che incontrerà per la prima volta Alexander, il capitano, che con la sua truppa, si trova al fronte nella speranza di sopravvivere e fare il suo dovere. Due volte le strade tra Cate e Alexander si incontreranno; una prima volta sarà la giovane a “raccoglierlo” letteralmente dal mulino in cui l’uomo si trova ferito grazie all’ausilio di un cavallo, mentre una seconda volta sarà lui stesso ad approdare tra le “mani” della dottoressa che dovrà decidere, a seguito di una ferita, del suo futuro. Perché una scelta presa oggi potrebbe inficiare su quel che sarà di lui domani.
«Ci vuole coraggio, ci vuole un cuore forte nel petto, per vivere in un mondo che ti rifiuta.»
Nel mentre la Storia scorre rapida tra incedere della guerra che tutto è tranne che lampo, tra suffragette che affermano i loro diritti e soldati che imparano a vivere in una nuova condizione di vita essendo questi anche tacciati a vita di quelle che sono state le conseguenze del conflitto, non sempre e solo fisiche ma più spesso conseguenze psicologiche e morali. Non debba stupirsi il dato dei militari che ricamano, storicamente è stato davvero un espediente utilizzato per far vivere questi in un contesto ospedaliero, tra accettazione del trauma e nuova vita. Non stupisca nemmeno l’affermarsi di ospedali gestiti interamente da donne, anche questa è verità storica.
«Allora Cate capì che era lui il capo, e di nuovo si interrogò su quanto potente fosse il lato oscuro che la guerra nutriva in ciascuno di loro, tanto da trasformare una giovane anima in bestia affamata.»
Ilaria Tuti torna in libreria con un altro romanzo storico che conferma quel che è il pensiero già insediato con “Fiore di roccia”: ella non è una thrillerista (ambito in cui francamente rende molto ma molto meno nonostante il fortunato personaggio della Battaglia con cui è conosciuta) quanto un’abile romanziera storica e… d’amore. La Tuti sa infatti mixare bene il dato della memoria con quello del sentimento umano creando e dando vita a pagine che sanno emozionare e trasportare. Si parla di fiction storica, sia chiaro. L’inizio di “Come vento cucito alla terra” (il cui titolo è alquanto opinabile seppur comprensibile se messo in parallelo alla lettura del contenuto) è lento, scontato, prolisso. Sinceramente in alcuni punti calca troppo sulla verve femminista, le scelte della protagonista sono intuibili e il pathos potrebbe venire meno. Proseguendo si riprende e conduce per mano nella Storia della storia. La parte più avvincente è proprio quella degli ospedali da campo per i militari nonché quella relativa ai militari stessi e al fronte, alle condizioni nelle trincee, alle difficoltà dei soldati. Ed ecco che nella transizione tra seconda e terza e ultima sezione il romanzo compie uno smacco ulteriore. Ci si stacca dal fronte francese, si ritorna in patria ed è qui che le Lady Doctors iniziano ad operare e a rimarcare la propria lotta individuale. Non mancano i soldati che, già incontrati quali Alexander, giungeranno nuovamente in Patria per ragioni che non è dato spoilerare. Questo porta il libro ad evolversi in una dimensione più statica che vive la guerra non più in prima persona sul campo ma su un diverso campo di battaglia, la madrepatria stessa. Talvolta sembra lasciarsi nelle retrovie il fattore guerra quando in realtà questo si respira sempre come una costante. Ad essere primi attori sono le dottoresse e il corpo militare nonché la vita in ospedale e quel che è la condizione sociale femminile e anche maschile in un contesto sociale che muta ed evolve.
L’opera, dunque, assume un connotato più statico per lasciare spazio al fattore emozionale. E c’è da dire che questa volta il lettore trova “papaveri”. A buon intenditor (e lettor) poche parole.
Lo stile coinvolge, è il canonico della narratrice, non particolarmente erudito ma piacevole, a tratti troppo prolisso. L’approfondimento storico c’è ma si tratta di una fiction, pertanto, c’è molto ma molto di romanzato. Questo anche per renderlo più appetibile. Nel complesso una lettura d’intrattenimento, gradevole con cui trascorrere ore liete. Un prodotto ben riuscito.
«Ci vuole coraggio per fare dell’esistenza un’esperienza piena, bisogna essere disposti a pagarne il prezzo.»
Indicazioni utili
Il trauma celato della maschera di marmo
Classe 1961 è Jean-Christophe Grangé, autore, scrittore e sceneggiatore francese laureato in lettere alla Sorbona, pubblicato in Italia da Garzanti e le cui opere spesso sono state tradotte in film, non a caso è vincitore del Grinzane Cinema nel 2007 proprio per il miglior libro da cui è stato tratto un film. Nei suoi componimenti, inoltre, non mancano alcuni denominatori comuni quali, ad esempio espedienti narrativi intrisi di colpi di scena e mixati a personaggi ben caratterizzati nel loro essere.
Questa volta Grangé ci porta negli anni Trenta, verso la loro fine. Siamo in Germania e il nazismo è una realtà ormai improcrastinabile. Regna sovrana con le sue espressioni di violenza falsamente celata e le sue imposizioni dittatoriali ivi comprese le discriminazioni razziali. Ma cosa potrebbe succedere se i corpi di due generali nazisti fossero ritrovati senza vita tra le luci sfavillanti di quella che già da altri romanzi storici e testimonianze storiche sappiamo essere una Berlino mondana inconsapevole della guerra imminente ma altrettanto spregiudicata?
Le indagini sulle morti sono affidate a Franz Beewen, spietato ispettore gerarca nazista che ben presto giunge a Simon Kraus, psicanalista specializzato nell’interpretazione dei sogni. Pare infatti che entrambe le vittime fossero sue pazienti e fossero tormentate dall’incubo di essere inseguite da un uomo dal volto coperto da una maschera di marmo. A livello psicanalitico la figura di un uomo con il volto coperto da una maschera di marmo rappresenta la personificazione di paure e traumi del passato mai superati e trascinati nel presente del vivere. Tuttavia, le indagini di Beewen e Kraus sono ostacolate e non solo dall’assassino ma anche dallo stesso partito nazista perché scoprire della verità delle due morti potrebbe significare dover andare a indagare in aspetti e retroscena che il partito non ha interesse a che vengano riportati alla luce. A esserne inficiati potrebbero essere gli stessi valori della patria attorno ai quali il nazismo si è eretto e fortificato. Ancora, inoltre, legami umani e psicologici che vengono tra loro a intrecciarsi sino a ricostituire un volto e un periodo storico le cui dinamiche sanno essere anche a distanza di così tanti anni ancora oscure.
Come in ogni romanzo di Jean-Christophe Grangé anche in questo caso non mancano “gli smacchi” come precedentemente anticipato. Nulla è lasciato al caso ed è come appare, almeno in prima battuta. Lo stile narrativo come di consueto è fluido, rende la lettura rapida e non fatica e farsi esaurire nel suo sviluppo. Su questo un grande merito va al traduttore e al suo lavoro di adattamento. C’è però da dire che l’opera conquista solo in parte, in realtà. Questo perché seppur si tratti di un thriller storico ci sono delle incongruenze nello sviluppo che fanno perdere in parte di intensità e al tempo stesso cadono nel cliché tanto che il lettore che già ha letto testi di questo genere o con medesima ambientazione si trova davanti a una sensazione di deja-vu che gli fa venir meno dell’interesse verso le pagine.
Senza lode, senza infamia. Leggibile e gradevole ma non tra i migliori lavori proposti dallo scrittore.
Indicazioni utili
- sì
- no
Gli anni gloriosi del Secondo dopoguerra #vol1
Pierre LeMaitre torna in libreria con un romanzo storico, formula già riutilizzata in passato ma che questa volta si coniuga anche in modo stringente nella modalità avventura. Siamo nel 1948 con “Il gran mondo” e la narrazione si sviluppa e concentra prendendo in esame molteplici prospettive geografiche di narrazione. Siamo tra Beirut, Saigon e Parigi e ad essere oggetto della vicenda è la famiglia Pelletier che ha raggiunto il successo negli anni Venti per merito di un saponificio di successo che poi è riuscito ad andare oltre confine raggiungendo anche l’estero. Già da questa impostazione geograficamente dislocata la mente del lettore si proietta e orienta su titoli già rivisti, quale anche la formula spesso adottata nelle opere di Ken Follett. Il capofamiglia della storia è Louis, un uomo che ha fatto fortuna grazie alle proprie capacità imprenditoriali e che nel concreto rappresenta la sua posizione di leader più formalmente che sostanzialmente. Pelletier è sinonimo di garanzia agli occhi della gente e lo stesso capostipite non manca di ostentare quella che è la propria ricchezza stante che nulla, nemmeno la Seconda guerra mondiale, è riuscita ad intaccarne le finanze e ricchezze.
Ma Louis e Angèle, la moglie, hanno quattro figli. A preoccuparli sono maggiormente le loro sorti essendo ciascuno di questi personalità eclettiche e con prospettive, sogni e desideri non sempre in combinato disposto con il tempo e l’epoca.
Jean è il primogenito che un giorno erediterà l’azienda di famiglia. Già qui la prima crepa perché il giovane non rappresenta l’emblema del leader, anzi. Sin dal punto di vista familiare con la moglie Geneviève che da quello finanziario/imprenditoriale si dimostra debole, fragile, indeciso. Con la moglie non riesce a farsi valere e a imporre esattamente come nell’attività. È dunque Louis a dover intervenire per colmare quelli che sono i fallimenti e le mancanze del primogenito.
François sogna di lavorare in un giornale e pur di riuscirci si trasferisce a Parigi dove inventa e millanta di voler proseguire gli studi presso la Sorbona. Il figlio è dunque mantenuto dai genitori che vanno fieri di lui e dei suoi intenti quando egli in realtà mente perché abituato a stare nelle retrovie e ad essere schiacciato dai fratelli, non riesce a manifestare la volontà che realmente lo muove.
Etienne è invece innamorato del suo Raymond, il bel soldano che si è arruolato nella legione straniera, ora in guerra in quel di Saigon. Lo incontriamo all’inizio del romanzo in partenza per ritrovare proprio il suo militare del cuore. La famiglia è consapevole di questi sentimenti e non lo ostacola anche se chiaramente si preoccupa, a maggior ragione dopo un mese di sue mancate notizie. Che sia perito? Che sia successo qualcosa di grave? Etienne e il suo gatto staranno bene in quel di Saigon?
Infine l’ultimogenita, Hélène. Irrequieta, insicura, incostante, inconsapevole e decisa per quel che riguarda il suo futuro. Cosa fare? È bella e conscia di esserlo, Hélène. Seguire il fratello a Parigi? Oppure, se non seguirlo, quale altra strada intraprendere per sfuggire alle sorti della famiglia e soprattutto al controllo dei genitori?
Denominatore comune che conduce e accomuna ognuno dei personaggi è la voglia di ricominciare, di abbracciare un nuovo inizio. Talvolta anche abbracciando scelte deprecabili in quello che è uno sfondo storico che viene delineato per la sua semplice verità, senza fronzoli o benefici del dubbio.
È un romanzo molto duro quello di LeMaitre dal punto di vista dei sentimenti e delle indoli. A far da padrone è l’individualismo e l’egoismo, non vi è pace e spazio per la bontà, per l’amore. I personaggi sono forti delle loro individualità e sono disposti a tutto pur di cavarsela e raggiungere i propri traguardi/obiettivi. Sono disposti anche a scaricare le responsabilità pur di averla vinta e/o farla franca. Agire per amore è sinonimo di punizione. Abbracciare una morale non è qualcosa di consentito e/o concepibile. L’autore non lascia spazio a quella che è la possibilità di salvezza, redenzione. Se la famiglia è oggetto e luogo di segreti non professabili, la giustizia è schiacciata dagli intrighi politici ma anche economici e al contempo non vi è spazio per il sentimento inteso e coniugato nella sua purezza e totalità. Ciascuno dei Pelletier sembra avere un dono particolare per l’invischiarsi in questioni più grandi del proprio potere.
È un romanzo che divide. Ci si aspetta un maggior focus storico che francamente non è prevalente e tende a essere manchevole perché schiacciato dal carattere dell’avventura che talvolta è fin troppo eccessivo, dall’altro i personaggi incuriosiscono ma faticano a farsi amare, a suscitare empatia. Tendono ad allontanare e talvolta le loro scelte sono schiaffi per il lettore che ne comprende i meccanismi seppur senza condividerli.
Lo stile tende a perdersi in digressioni e prolissità che potevano essere maggiormente sintetizzati con un più approfondito lavoro di editing. Si tratta del primo capitolo di una trilogia dedicata agli “anni gloriosi” del Secondo dopoguerra ma, almeno in questo episodio capofila, gli intenti sono maggiori dei risultati e l’opera, seppur si faccia leggere, non riesce a conquistare nella sua totalità. La speranza è che il tiro venga aggiustato nei successivi due capitoli, altrimenti il rischio è quello di incorrere in una trilogia con un mordente spuntato e questo sarebbe un peccato perché i presupposti e l’idea ci sarebbero tutti per la realizzazione di una serie degna di nota.
Indicazioni utili
- sì
- no
La libertà perduta
«Ma sai perché non m’aggio piegato, Polpè? Per amicizia, certo. Ma pure per fargli capire che una dignità la teniamo pure noi: io, te, Caffeina, Santo Domingo, Pasqualone. E che la dignità non se la possono comprare.»
Antonio Caruso sa bene di averlo commesso l’omicidio di Skorpio, sa bene di meritare la condanna, sa bene di non aver comunque fiatato al tempo e nemmeno ora sul suo possibile complice ma anche su come andarono i fatti. E sono sei anni che sta scontando, e sette quelli che gli restano, per questa sua pena che cela dietro la facciata perché lui pentito non è del gesto fatto, il fetente se lo è meritato di passare a miglior vita dopo quel che è stato fatto al compare suo. Eppure, proprio in uno di quei giorni che, come tanti, scorrono in carcere, ecco che Antonio si ritrova libero. Scarcerato. Libero. Scarcerato. Scarcerato perché il vero colpevole ha confessato il reato. Com’è possibile, si chiede, se appunto è consapevole di essere lui il vero artefice? Ben presto scopre chi ha confessato della morte ma scopre anche della sua fine. Torna in libertà, cerca di riconquistare la sua Maria Luce, bella come non mai seppur con quel suo parlare con i segni che manco sempre comprende se lei è particolarmente arrabbiata e quindi troppo veloce nel compiere, non vede l’ora di riabbracciare la sua Rachelina che gli ripete che sono mille giorni che non viene. Ma cosa può fare un ex galeotto con alle spalle una condanna per omicidio per tornare a una vita normale? Quale lavoro potrà mai trovare? A quali condizioni? E soprattutto, chi mai si fiderà di lui? Si rivolge a padre Vincenzo conosciuto in carcere e che un effetto su di lui, scopriremo, lo ha avuto.
«È vero, Caffeina sapeva come trattare i fantasmi degli altri. Perché i fantasmi lui li conosceva bene: ci combatteva giorno e notte. I suoi erano implacabili e non riusciva a domarli. Ogni tanto me ne parlava, e durante le nostre chiacchierate non mi chiedeva mai una consolazione o un facile perdono, piuttosto scavava nel profondo delle sue angosce per cercare di scacciarli quei fantasmi. Ma l’impossibilità di non poter rimediare a ciò che aveva fatto e al dolore che aveva causato, lo tormentava più di ogni altra cosa…»
Tuttavia, Antonio, sembra chiamarsele. Tante le circostanze che si trova ad affrontare, da un lato vi è il desiderio di riconquistare la moglie e mantenere l’affetto della figlia, dall’altro vi è il desiderio di sentirsi utili, lavorare, portare a casa i soldi che la compagna guadagna rovinandosi le mani, dall’altro ancora il desiderio di non tornare più dentro a un carcere. Ma cosa può fare? Tubi non ne sa aggiustare, imbiancare non è capace, muratore nemmeno, giusto un po’ con le macchine si arrangiava da giovinetto. Ed è qui che, per vie traverse, si ritrova a guidare camion. Gli viene procurata pure la patente. Sembra anche un cerchio che si chiude stante che, anni orsono, tutto è iniziato proprio con lui che aveva trovato lavoro come autista di questi mentre poi è finito in gattabuia. Gli offrono anche un lauto compenso, ad Antonio. Ottocento euro, poi dimezzati, per guidare il camion sino a un paesino della Calabria. Tanti soldi per una notte, tanti, troppi, soldi. Ma Antonio deve lavorare, deve pagare gli occhiali alla figlia, deve aiutare la moglie. Parte. Davanti è scortato da una macchina, dietro ha Gennaro, lo scagnozzo del mandante Tony. C’è qualcosa che proprio non gli torna in quel viaggio. Un qualcosa che lo convince sempre più di essersi cacciato in un gran bel guaio ma anche in una situazione losca ai danni di un qualcosa che nemmeno immagina.
«Ma per me era una frase tanto per dire, che non significava niente. Perché nella vita succedono cose piene di dolore che non puoi evitare e prima o poi ti toccano, e in quelle occasioni è giusto piangere, è un diritto che all’uomo spetta.
Però ci sono situazioni come queste, che sei stato stesso tu a creare. E allora, se ti metti a piangere, vuol dire solo che nella vita hai sbagliato tutto. E pure se ti sforzi, pure se cerchi di lottare, quello che hai sbagliato continua a stare là, come un’ombra nera che ti aspetta, e che quando meno ci pensi salta fuori, ti acchiappa per un braccio e ti ringhia sulla faccia.»
Arriverà il momento in cui Antonio scoprirà della verità e dovrà agire. Si dirà di farsi i fatti suoi ma poi non potrà tirarsi indietro perché a farne le conseguenze saranno persone innocenti, vite innocenti. Ci sarà un prezzo, come per tutte le cose. Ma ci sono anche momenti in cui la coscienza, la morale, la giustizia, vanno oltre e tu semplicemente devi fare quello che è giusto perché non puoi portarti il peso di non aver fatto.
Avrà inizio da qui una narrazione serrata, che trattiene il lettore attaccato alle pagine. Tante le tematiche che vengono trattate e che ruotano sì attorno al diritto carcerario, al reo, alla rieducazione del condannato, alla realtà carceraria, al reinserimento sociale con annessa e connessa fallacità del sistema ma che toccheranno anche la criminalità, l’immigrazione, il diritto di vivere, il diritto di avere una seconda occasione, la possibilità di auspicare a una vita dignitosa, all’umano trattato come oggetto utile in ogni sua parte e componente e poi buona a essere gettata dopo l’utilizzo.
Andrej Longo pone in essere una perfetta fotografia della realtà detentiva ma anche sociale del concreto vivere. Realizza un’opera che sa toccare il lettore nelle corde più profonde e sconvolgerlo. In appena 298 pagine offre a questo molteplici spunti di riflessione che non mancano di sollevare domande a cui è necessario dare risposte. Un libro dal quale non ci si riesce a staccare, si finisce in una notte. Un sincero ringraziamento, dal cuore, per questo regalo ricevuto. Inaspettato quanto incancellabile e prezioso.
«Non lo so se è una questione di coscienza. Per me il fatto è che ci va di mezzo sempre chi non ha niente, sempre i più disgraziati. Un po’ come noi che stiamo chiusi qua dentro, perché noi alla fine, per la maggior parte, siamo quelli che non avevano niente. Certo, abbiamo le nostre colpe, anche io ho le mie, non dico di no. Ma se io, tanto per dire, ero figlio vostro, allora forse non avrei fatto quella vita che poi mi ha portato qua dentro. Perciò alla fin fine, per rispondere alla sua domanda, penso che non si tratta di una questione di coscienza, ma più che altro di giustizia.»
Indicazioni utili
Simon Leyland
«A che scopo studiare il maltese? - Voleva semplicemente conoscere la lingua, aveva risposto Leyland. Semplicemente conoscere. Anche in seguito Leyland aveva sentito di quando in quando domande simili: - Il sardo? In Sardegna tutti sanno l’italiano - Lui voleva sentirne la sonorità, sentire non solo il suono delle parole, ma la vocalità della gente, la vocalità della loro vita.»
Torna in libreria Pascal Mercier, pseudonimo di Peter Vieri, autore filosofo di origine svizzera noto al grande pubblico per il suo “Treno di notte per Lisbona”, scritto che ha quale tema centrale la svolta. Nel bene e nel male. Scritto dal quale è stato tratto l’omonimo fil nel 2013. Ne “Il peso delle parole” ad essere protagoniste sono proprio queste, le parole. Parole che vengono a fluire in un fiume inarrestabile, che prorompono negli idiomi, che portano Simon Leyland, a diventare traduttore. Che sono eviscerate ed auscultate nelle loro più recondite sonorità. Per comprenderne le forme, ragioni, istanze. Anche perché sono le parole a donargli tranquillità e pace; egli solo quando è immerso in queste è al riparo dalla realtà ma anche nel presente. Suo obiettivo primario è oltretutto quello di imparare tutte le lingue presenti nel Mediterraneo, ivi compreso il Maltese.
Interessante è la struttura del romanzo che si evolve in sistemi “circolari” che fanno sì che il libro inizi e si chiuda sempre nello stesso luogo, con la frase “Welcome home, sir” rivolta proprio alla voce narrante e che si focalizza sulle scelte di vita più che su eclatanti colpi di scena comprendendo quello che è un arco temporale di narrazione che si sviluppa in otto mesi che modificheranno la sua esistenza.
È tra Londra e Trieste che si divide la vita di Leyland. Egli dirige la casa editrice ereditata dalla moglie Lidia scomparsa prematuramente quando la prole era ancora adolescente. Per Leyland la parola è tutto. Ecco perché per lui che soffre anche di forti attacchi di emicrania perderne l’uso anche solo temporaneamente è un fenomeno e un’esperienza sconvolgente. Accade infatti che a causa di uno di questi attacchi egli perda l’uso temporaneo della parola tanto da doversi ricoverare in ospedale dove la figlia Sophia, già infermiera mentre sta completando gli studi di medicina, lavora. Qui sopraggiunge la sentenza: glioblastoma. Un tumore al cervello sembra averlo ormai gravemente colpito. I medici gli consigliano delle terapie che rifiuta, nel mentre scrive alla moglie deceduta per confrontarsi con lei e narrare di quel che sta accadendo. Segue anche la decisione di chiudere e vendere la casa editrice, i figli sono dediti ad altro, il maschio alla giurisprudenza e la figlia alla medicina. Tanti sono anche, inoltre, gli impegni negli anni presi. Ma come fare? Questa sentenza non sembra lasciare possibilità d’appello.
Undici settimane dopo la verità: due cartelle sono state invertite, Leyland non ha un tumore al cervello, solo forti emicranie. Ha venduto la casa editrice però, la sua vita adesso deve ripartire da un nuovo punto. Torna a Londra, la riorganizza e nel mentre inizia anche il tempo dei bilanci, tra sentimenti contrapposti e viaggi tra la capitale inglese, Trieste e Padova. Ancora conosceremo personaggi quali Andrej Kuzmin, ex detenuto russo e reo di omicidio passionale, Francesca Marchese, autrice che non riesce a condividere la sua opera con i lettori e Paolo Michelis, un indigente scrittore che sopravvive con incarichi precari quale docente.
Tanti volti che si incontrano e fondono tra queste pagine, che conducono per mano il lettore e che sono tutte avvalorate da un denominatore comune: le parole e l’amore verso queste. Le parole sono un bene ma anche un’arma. Possono essere ristoro, possono essere meraviglia ma possono essere anche devastanti. Basti pensare alla sentenza declarata all’inizio al protagonista.
Un romanzo, quello di Pascal Mercier, che si snoda nell’espressione del cambiamento, nell’espressione di una vita che può mutare dalla mattina alla sera, in una vita che scorre rapida nella sua imprevedibilità e capacità di sorprendere e piegare.
L’intero scritto si incentra proprio sul valore della parola tanto scritta quanto verbale, e per mezzo di questa vengono narrate le scelte del protagonista, nel bene e nel male. Questo perché fondamentali sono le scelte che facciamo nella vita anche quando non pensiamo di avere un futuro o altra possibilità, anche quando queste sono dettate e scelte da fattori esterni e ingovernabili.
Grande pregio dello scritto è il tono del narrato, la pregevolezza della forma erudita adottata. Grande pecca, ravvisata anche in “Treno di notte per Lisbona” è il suo perdersi in digressioni e digressioni letterarie che ne rallentano il ritmo, che rischiano di far perdere di mordente a un componimento che ha tanto da dire e tanto su cui far riflettere.
Indicazioni utili
Nel vivere, nel sopravvivere.
«Del resto, non si trattava di controllo, Ben lo sapeva. Se a volte suo padre faceva in modo di vederlo, non era certo per sindacare il suo comportamento, ma solo per il piacere di un contatto, sia pure a distanza.»
C’è una strana quiete in quel di Everton, una cittadina scandita dal ritmo della quotidianità, di una vita fatta di bicchieri di latte bevuti a casa di donne che si occupano della prole e mariti che si dilettano tra i locali e i boccali di vino e birra. Una quiete che nasconde una strana forma di tenerezza che, a sua volta, è emblema e simbolo di “una quiete prima della tempesta”, di una quiete che si mixa a dolcezza. Sembra quasi un paradosso nel paradosso. Ben è solo un bambino di pochi mesi, profuma di latte e pane appena sfornato. Il padre, Dave Galloway, si ritrova solo con lui. La moglie se ne è andata. Non una riga, non una parola. Tanti piccoli fogli accartocciati e strappati con tanti piccoli grandi tentativi di scrivere di un messaggio forse d’addio, forse di commiato, forse di derisione. Una donna dal profumo e dalle scarpe volgari, scelta appositamente per questo. Una piccola sfida per Dave ma anche il suo personalissimo atto di ribellione contro il sistema. Che fare adesso? Per Dave conta solo la felicità del figlio e a questo si dedica interamente. Senza nulla mai mettere innanzi a lui. Ben prima di tutto. Come stai Ben? Sei felice Ben? “Sì, Dad”, rispondeva solennemente questi. Un bravo ragazzo, un giovane uomo cresciuto con un padre forse troppo silenzioso ma pur sempre un padre. Un bravo ragazzo che anche a scuola sapeva cavarsela. Sono passati quindici anni e Dave è adesso spiazzato. È un sabato sera. A differenza del precedente in cui era raffreddato e non era uscito, sta tornando da casa di Musak. C’è silenzio, troppo silenzio. Ben presto si accorge che manca anche il suo furgone, quello di seconda mano acquistato appositamente per i piccoli spostamenti del suo lavoro di orologiaio. Ben già sapeva guidarlo seppur non disponesse ancora di una vera e propria patente di guida. Eppure è Ben ad averlo preso, pare, da quel che viene ad apprendere da una famiglia vicina, per una fuga d’amore. E se non si fosse trattata solo di una fuga d’amore? Se quel figlio cresciuto affinché fosse felice si rivelasse un assassino? Un giovane uomo capace di togliere la vita ad altri e senza nemmeno pentirsene? Chi è davvero Ben? Quali e quante risposte dare a quei giornalisti che cercano lo scoop e che interrogano il padre con domande alle quali egli stesso fatica a rispondere perché forse conscio del fatto che quel figlio non lo conosce davvero?
«Ma Dave ascoltava? Gli pareva che le parole non fossero più parole, ma immagini che gli passavano davanti agli occhi come una pellicola a colori. Non avrebbe saputo ripetere una sola frase, eppure aveva l’impressione di aver seguito i movimenti di ciascuno dei personaggi citati.»
Ancora una volta Simenon propone ai suoi lettori un’indagine psicologica forte, profonda, mai lasciata al caso. Un’indagine accompagnata da un ritmo narrativo ben cadenzato, mai troppo rapido, mai troppo lento. Anzi. Siamo davanti a un libro in cui personaggi ordinari vengono strappati a una vita che credono essere la loro per essere condotti sull’orlo del baratro, un baratro che non consente ammissioni, scuse, scusanti, eccezioni. Si tratta di un rapporto causa-effetto. Il figlio ha commesso un reato di cui non sembra essersi pentito, anzi, sembra andarne fiero. Il padre, dal suo canto, non abbandona quel figlio che è appunto carne della sua carne. Prima cerca di analizzare e comprendere, è destabilizzato, risponde ai giornalisti e alla polizia quasi come se fosse in uno stato di nebbia e confusione, dopo cerca di seguirne le orme, il figlio è pur sempre inseguito dalle forze dell’ordine di sei Stati e dall’FBI, inoltre, scopre anche rifiutarsi di volerlo vedere. All’inizio cerca anche di giustificarne il perché poi prende consapevolezza del dato e del fatto.
Ed è qui che il confine psicologico è ancor più approfondito. Simenon ci fa dubitare di chi conosciamo, insinua in noi il dubbio di non conoscere davvero chi abbiamo accanto, anche nel caso di nostro figlio. Ci fa riflettere sul come e quanto talvolta pensiamo di comprendere e capire una persona per poi ritrovarci davanti a un’altra verità. A ciò si aggiunge la non spiegazione: il gesto di Ben non è mai spiegato, il padre a sua volta non si pone domande, non cerca risposte se non nell’affermazione di un atto di ribellione che accomuna nonno, padre e figlio in una dicotomia fatta di vivere o sopravvivere, in una realtà in cui quell’unico atto di rivolta, di uscire dagli schemi può essere “letale”. Come nel caso del nonno che sempre pagherà per quell’unica scappatella, o del padre che ha tentato la sua ribellione scommettendo su una donna che chiaramente non era adatta a lui. Ma non vi è ricerca di movente, non vi è ricostruzione dei perché. Non vi sono risposte. Forse perché in una condizione di completa apatia, non dialogo, l’unica soluzione è l’auto-annientamento. Per quanto incomprensibile o indescrivibile.
“L’orologiaio di Everton” ci presenta un Simenon che ci mostra la difficoltà del vivere, la ricerca di una redenzione nel sordido, l’incapacità di scegliere, la difficoltà dell’esistere. È un Simenon che narra dell’amore di un padre per un figlio, del suo dolore per la consapevolezza di non conoscere quella prole che voleva solo sapere felice e per la quale ha fatto tutto il possibile, di una verità e realtà sincera quanto spietata. Questo anche nella conclusione dove a permeare non è più quel senso di tenerezza che può accompagnare nella narrazione per mezzo di questo personaggio che non si giustifica ma che si sente vicino, quanto, invece, la solitudine. Una solutine che se precedentemente aleggia, adesso è completa e totale padrona della scena. Ma nella solitudine può esservi ancora una speranza di contatto, legame, nuovo inizio?
«Lo sguardo dei tre uomini non tradiva forse una stessa vita segreta, o meglio, una vita che aveva dovuto ripiegarsi su se stessa? Sguardo di esseri timidi, quasi rassegnati, mentre l’identica smorfia del labbro indicava una ribellione repressa. Erano tutti e tre della stessa razza, una razza opposta a quella di un Lane o un Musselman, o di sua madre. Gli pareva che in tutto il mondo non ci fossero che due tipi di uomini, quelli che chinano la testa e gli altri.»
Indicazioni utili
La melanconia nell'io
«La notte, con una luna e le sue stelle, col suo profumo freddo e caldo allo stesso tempo, tiepido con ciocche di fresco, riempiva ogni stanza, creava mulinelli dappertutto, si appiccicava allo specchio e ai mobili lustri, fluiva nei lavandini e nella tazza del cesso, s’infilava nei due buchi delle prese elettrice.», Ponti
Mircea Cartarescu torna in libreria con “Melanconia” edito Nave di Teseo e disponibile dallo scorso 27 settembre. Scrittore romeno già noto al grande pubblico per la monumentale opera che comprende tra gli altri tre volumi di Abbacinante e Solenoide, nei suoi scritti riesce sempre a spiccare per lo stile narrativo difficilmente emulabile ma anche per le storie che hanno sempre ad oggetto diverse e profonde tematiche. Questo accade ancora una volta con “Melanconia” dove ad essere padrona indiscussa è la separazione, una separazione che viene vissuta, affrontata e narrata nei vari racconti per mezzo di quelle che sono le fasi divergenti e differenti della vita.
Tradotto ancora una volta da Bruno Mazzoni, il titolo si sviluppa per mezzo di tre racconti di canonica lunghezza che sono introdotti da un pezzo di apertura e un epilogo.
«A volte, soprattutto di sera, quando lo coglieva la melanconia, apriva il vecchio armadio per vedere le sue pelli.» racconto, “Le pelli”
Torniamo così all’infanzia perché è in questa fase che ha inizio il sentimento della melanconia che nel crescere sempre ci accompagna a maggior ragione quando ci sentiamo completamente soli, senza nessuno pronto a tenderci una mano e ad accompagnarci nel nostro viaggio. Siamo poi nell’età della ragione e, ancora, dell’adolescenza. Se da un lato il bambino di cinque anni è convinto che la madre uscita per andare a fare la spesa lo abbia abbandonato, dall’altro abbiamo Marcel che di anni ne ha otto e vive in simbiosi con la sorella Isabel che si ammala, e poi Ivan che ancora di anni ne ha quindici e sentendosi solo e in solitudine, conserva nell’armadio le pelli che anno dopo anno ha dovuto cambiare, mutare, togliere, estirpare.
Non è solo una raccolta di racconti “Melanconia”. È in realtà un filo unico conduttore, un grande libro in tre scissioni autentiche, che ci accompagna in una visione profonda e introspettiva, dove un bambino, un adulto, un adolescente sono tre espressioni della ragione, dell’io e dell’essere.
La sensazione che tocca il lettore è quella di trovarsi davanti a una sorta di risposta a “Nostalgia”; opera classe 1989 che viene qui rievocata a distanza di tre decenni. Una risposta che porta quasi a negare il senso di nostalgia che perisce innanzi alla melanconia.
“Melanconia” è un libro che solleva interrogativi e cerca risposte ai tanti quesiti che pone e propone. È un libro silenzioso ma che arriva a gran voce, un paradosso, si potrebbe pensare. Uno scritto che non manca di proporre un Cartarescu più maturo, cupo e profondo. La melanconia è una condizione umana inscindibile e imprescindibile, per questo anche nella ricerca di una condivisione spesso questa non viene meno, non può essere veramente colmata e placata. È come una sete che non è mai saziata da qualsivoglia acqua o bevanda. In virtù di una unicità unica e irripetibile che rende l’io individuale incapace di poter far a meno di una unicità che rende ogni individuo inimitabile e divino a prescindere.
Al tutto si aggiunge uno stile metaforico, visionario, pulito, prezioso. Uno stile che prende per mano, scava nella mente, resta nel cuore.
Indicazioni utili
Il tradimento della nazione
«Fife, sulla sedia a rotelle, si gira e dice alla donna che lo sta spingendo: Non ricordo più perché ho accettato di fare questa cosa. Tu sai dirmi perché ho accettato? È la prima volta che glielo domanda, ma non è una vera domanda: è umorismo lieve, tra l’autoironia e l’autocommiserazione, e Fife si è espresso in francese, ma lei dà l’impressione di non comprenderlo.»
Cos’è davvero la nostra vita? Quanto e quando abbiamo davvero vissuto? Quanto e quando siamo scesi a compromessi o abbiamo mentito, millantato, commesso azioni più o meno deprecabili? Viviamo secondo quello che è il nostro codice d’onore, viviamo secondo quelli che sono i nostri obiettivi eppure, un giorno come un altro, ci risvegliamo ed è tempo di bilanci. Quale senso ha davvero avuto la nostra vita? Quale senso ha? Qual è, se c’è, il nostro lascito? Questo è anche un po’ quel che accade in queste pagine quando conosciamo Leonard Fife, icona in quel del Canada in cui vive da decenni, padrone di storie narrate tra menzogne e verità, tra documentari e racconti, tra omissioni e derisioni. Uomo che con il suo primo lavoro ha smascherato la collusione tra governo canadese e americano allo scopo di testare il famigerato Agent Orange. Ed ora è alla fine della sua vita. Una vita che dovrebbe celebrare i suoi successi, evidenziare il suo legame con l’amata moglie Emma, con i suoi allievi, figure che adesso sono al suo capezzale per ascoltare la sua grande storia. Ma ecco che qualcosa accade e che quella storia narrata da quell’uomo che appare finito e sulla sedia a rotelle, prende una dinamica e una forma diversa, perché quelle che profferisce sono parole fatte di una verità ignota al grande pubblico. Lui è colui che ha cambiato il cinema documentario ed ora che è dietro alla macchina da presa si muove nel tempo, narrando e ricostruendo. È una storia fatta di fughe, tradimenti, paure, viltà, bugie. Una storia che distrugge quella maschera indossata sino ad ora. Oppure no? Una lunga intervista fluida di pensieri. Una vita che scorre come un fiume in piena. È giunta l’ora di rimettere ordine al caos di ricordi, di dare loro nuova linfa e anche giustizia.
«La menzogna potrebbe restare sepolta sotto la verità, continuare ad essere la sua colpa inconfessabile.
Perché no?
La menzogna è ancora abbastanza solida da sostenere la verità, e Fife l’ha passata liscia per cinquant’anni: può lasciarla sepolta per le poche settimane o i pochi giorni che gli restano da vivere, e nessuno ne saprà mai nulla.»
Ma qual è il ruolo della morale? “I tradimenti” di Russell Banks è un romanzo complesso, dove nulla è scontato, dove i messaggi e le riflessioni sono sottese. Partiamo dal presupposto che Banks ha la grande capacità e obiettivo, da sempre, di raccontare il sogno americano e di riuscirvi improntando e impostando i suoi scritti con una verve fortemente critica e anche ironica. Nelle opere precedenti ha sempre evidenziato quelle che erano le criticità del sistema, le difficoltà dei ceti più poveri, le disparità sociali ma anche l’illusione di un perbenismo improbabile quanto inarrivabile, il razzismo, la discriminazione lato sensu, la diversità, il ruolo, ancora, delle classi dominanti rispetto a quelle subalterne. Ma con quest’opera ultima quel che viene messo in evidenza è anche il cambiamento epocale. È come se ci si trovasse davanti a un punto di rottura, ed è già il protagonista a rendercene prova essendo, questo, icona di un tempo ormai non più presente.
E non saranno tanto le rivelazioni l’elemento centrale del testo. Queste saranno sì forti e sconvolgenti ma non avranno il carattere di assoluzione. Ancora, siamo davanti a una confessione vera e propria, ma il nucleo centrale della narrazione e sviluppo dello scritto non è dato a Fife come a nessun altro personaggio introdotto. La domanda dunque che sorge spontanea è: qual è l’obiettivo di Fife/Banks? Fare i conti con un passato che è un macigno sulle spalle o fare i conti con la propria coscienza? Qual è l’effetto di quelle scelte che sono state fatte e che sono delle fughe? È necessario comprenderle esattamente come lo è ricollocare la morale nell’etica. È possibile avere assoluzione in virtù della fuga compiuta? Qual è il confine dell’etica? A far da sfondo un paese con i suoi pregi e i suoi difetti, con un tempo che ha visto il susseguirsi di ideologie, fasi storiche, economiche, politiche, un passato che riporta a un presente imperfetto. Non manca nemmeno il riferimento al conflitto bellico, che è atto liberatorio, espressione di follia dei potenti, un invito a rileggere il nostro tempo che chiarezza e lucidità e non con ideologie e moti del momento.
«Il flusso del tempo che ha rotto gli argini e le dighe che hanno trattenuto i suoi segreti per quasi tutta la sua vita. La sua mente è inondata di ricordi, e il loro traboccare porta con sé i detriti dei suoi timori e sogni più reconditi, delle sue esperienze e ambizioni e fantasie, insieme a canzoni, racconti, poesie e film che ha amato – le macerie della sua vita – e lui, incapace di distinguerli, li racconta tutti.»
Indicazioni utili
Il mostro di Bolzano
Lorena Haller, prostituta, ventiquattro anni, chiamata dai clienti, colleghe e spacciatori “la bambina”, viene rinvenuta priva di vita con ventiquattro fendenti. Il suo caso viene affidato a Luther Krupp, commissario forse troppo giovane, troppo inesperto, troppo ligio alle regole ma che sa benissimo che quel che si trova davanti non è solo un killer ma un serial killer. Un serial killer che in quel del 1992 si aggira per una Bolzano che è una città che illude e getta via, che è un paradiso immaginario e immaginato che non può macchiarsi di questa colpa di una morte e di un omicidio e pure efferato. Siamo in anni in cui non esistono i mezzi tecnologici che conosciamo adesso, anni in cui si mirava a tutelare l’apparenza dei luoghi comuni.
Luca D’Andrea torna in libreria con un romanzo che è un resoconto preciso e minuzioso che fonde leggende, menzogne, articoli di giornale che riportano a lui: “Il Killer delle Lucciole” o “Mostro di Bolzano”.
Un romanzo, dunque, che non è solo finzione ma anche realtà traendo spunto da un fatto realmente accaduto che viene qui narrato mixando persone realmente esistite, cronaca e finzione narrativa. Il risultato che viene ottenuto è un puzzle a 360 gradi in cui viene ricostruito tutto ciò che si manifestò tra anni ’80 e ’90 del secolo scorso. A far da cornice e sfondo una realtà fatta di droga, prostituzione, degrado e serial killer, una cronaca nera del tempo. È molto importante, infatti, focalizzare sul periodo storico e da qui muoversi per contestualizzare uno scritto in cui si fonde indagine poliziesca e cronaca giornalistica.
Al tutto si aggiunge uno stile narrativo rapido, con molteplici colpi di scena, capace di ribaltare le sorti e far riflettere su una indagine mai scontata o lasciata al caso.
Luca D’Andrea, classe 1979, Bolzano, riporta il lettore a vivere di un fatto di cronaca nera solo in apparenza dimenticato ma, in realtà, ancora profondamente attuale.
Indicazioni utili
Il volto dell'Italia e del Paese nel paese
Negli anni Antonio Manzini ha saputo reinventarsi e rinnovarsi. È passato dal giallo all’italiana per eccellenza dalle tinte poliziesche con il suo Rocco Schiavone, ha toccato le corde più profonde dell’attualità con “Orfani bianchi” in cui è stato capace di riportare alla luce realtà a noi spesso lontane, si è prestato alla formula del racconto, satirico e non, ma sempre molto puntuale. Uno scrittore versatile che, ancora una volta, tocca temi del presente con quella punta di originalità e profondità che gli è propria.
“La mala erba” è prima di tutto la storia di un piccolo paese di trecento abitanti nascosto tra le montagne dell’appennino tra Lazio e Abruzzo. Non hanno un futuro auspicabile, non vivono, sopravvivono, costoro. Questa è l’unica condizione loro concessa. Non è esente da ciò nemmeno Samantha, diciasettenne, protagonista del racconto. Un piccolo paese che viene descritto e rappresentato come strumento per parlare di un paese più grande, l’Italia. Con tutte le sue criticità e difficoltà. Con tutte le sue ingiustizie, verità infrante e impossibilità di riscatto.
Samantha è l’emblema di questo non futuro possibile. Nella sua camera osserva il poster della donna lupo dai capelli lunghi e gli occhi gialli, ammira e rimira su quel suo non arrendersi innanzi a nulla e riflette e trasfonde ciò su di sé e sulla sua vita di non gioie. Non è sola e non è l’unica a vivere in un futuro non scritto e in una dimensione non possibile. Anche gli abitanti di Colle San Martino si limitano a sopravvivere, trascinando le proprie esistenze in solitudine totale. Non esiste comunanza, non esiste una dimensione del comune. Padre Graziano, prete reazionario, e Cicci Bellè sono i detentori delle fila di questa realtà non realtà. Sono i burattinai che muovono le marionette, che sono mossi da odio, che si odiano, che muovono le proprie pedine tra ricatti e condizionamenti da cui non si può tornare indietro. Per Cicci solo il figlio Mariuccio di anni 32 e il cervello di 5 è sinonimo di provare un sentimento di affetto. Ljuba, invece, russa, si occupa di Faustino, nipote viziato di padre Graziano. Samantha, dal suo canto, è imbrigliata in un vivere fatto di silenzi e di non essere mai davvero ascoltata, è una giovane che non riesce a trovare conforto nell’uomo/ragazzo che ha accanto come fidanzato, né nei compagni di scuola. Solo con l’amica Nadia riesce a intessere un legame simile all’amicizia.
Ma la realtà del “paesotto” non perdona. Le vicende si snodano e intrecciano, si chiudono solo in apparenza tra le mura delle case, si susseguono e sussurrano tra le orecchie delle persone in un susseguirsi omertoso di fatti non fatti conosciuti ma non dichiarati, di capricci di un destino tragico e drammatico che non perdona e non concede seconde possibilità. Un destino che si abbatte proprio su Samantha. Un destino che si traduce in lutto, in follia, in una vita che ironica e satirica sembra prendersi gioco di te essere umano che la attraversi e cammini. Questa verrà colpita da una sciabolata feroce di eventi, eventi dai quali e per i quali imparerà la vendetta e il sapore agrodolce che questa rappresenta e costituisce. Può esistere una giustizia vera? Può il tribunale della terra concedere giustizia al pari di un tribunale divino? Può essere ammessa una giustizia quando l’unico strumento per raggiungerla è la vendetta? Può la vendetta fungere da strumento per ripristinare la giustizia? Può essere vinta l’oppressione di una realtà provinciale emarginata e chiusa in se stessa che altro non è che la metafora della nostra propria esistenza e solitudine ma anche individuale provincia intensa in senso metaforico?
Antonio Manzini, ancora una volta, scuote e resta con un romanzo che non parla solo di una realtà di provincia ma anche di una provincia intesa quale piccola lente di uno Stato più grande e corposo: il nostro paese. Con tutte le sue contraddizioni, fragilità, paradossi e incapacità di cambiare e cambiarsi. Vi riesce per mezzo di una scrittura diretta, rapida, costante. Vi riesce per mezzo di una scrittura fluida e magnetica che si confà ai suoi personaggi e alla realtà descritta. A ciò si aggiungono pennellate sui volti dei singoli protagonisti e sui luoghi descritti, luoghi e volti che rappresentano alla perfezione la descrizione di una realtà.
Manzini, in primo luogo, realizza uno spaccato del nostro presente ed ha anche il grande merito di riuscire a ricostruirne il volto. È un romanzo di denuncia, di riflessione, di descrizione. Un libro che sa porre l’accento sui più importanti paradossi del nostro vivere, su contraddizioni che non mancano di sovvertire al divenire sino a sovvertire anche il vivere quotidiano. Il tutto in un affresco del presente capace di lasciare molti spunti di riflessione e meditazione. Da leggere.
Indicazioni utili
Quattro epoche per quattro donne
Cristina Comencini si avvicina alla letteratura da sempre con uno sguardo acuto, sensibile, magnetico, uno sguardo che trafigge e lascia un messaggio sempre profondo. Può piacere maggiormente o minormente a seconda del tema narrato, può convincere più o meno nello stile ma mai le sue opere sono lasciate al caso. Questo vale anche per “Flashback” ultima sua fatica edita da Feltrinelli e disponibile in libreria dallo scorso 27 settembre.
E sono proprio i “flashback” i padroni indiscussi di queste 272 pagine circa. Cosa potrebbe accadere se di punto in bianco la nostra memoria iniziasse a farci brutti scherzi? Se iniziassimo a vivere una sensazione strana, anzi stranissima, in cui non ci riconosciamo più, ci sembra di esistere, non esistiamo, esistiamo, non sappiamo chi siamo, perdite di coscienza, vita che la narratrice incontra e che cerca di tenere strette tra la memoria e il legame, donne del passato che bussano nel ricordo sfuggente e vacuo. Donne di un altro tempo che sono oggi e non solo ieri e che fanno parte comunque del suo quotidiano.
Ecco che ci risvegliamo nella Comune parigina del 1871. Eloisa è una cocotte bramata e desiderata da nobili ed intellettuali. Una storia da scoprire ma che può avere ripercussioni proprio in quel presente che fa parte della vita della nostra voce narrante. Perché le parole non sono mai solo parole, non sono mai fini a se stesse. Sono strumento per conoscerci, strumento che cambia la nostra esistenza, che influisce sul nostro vivere anche in funzione di una solitudine talvolta non conosciuta e conoscibile. E questo accade per mezzo di Sofia, che sogna di diventare attrice e che nel suo percorso incontra Sergio (in cui riconosciamo Ejzenstejn) e Gregori, che scopre l’amore e ancora… pouf, è tempo di Rivoluzione d’ottobre. Ed ancora lei, Elda. Elda che è una giovane operaia friulana ai tempi della Seconda guerra mondiale. Elda che deve affrontarlo quello spietato inverno tra il 1944 e il 1945, un inverno che non perdona, che piega, spezza e colpisce nell’animo. Infine, ultima ma non per importanza, ecco Swinging London e i suoi diciassette anni e la rivoluzione sessuale dei primi anni Sessanta. Accettarsi, accettare la propria diversità in un mondo che sta cambiando ma che ancora non è cambiato.
Donne, volti, storie ma soprattutto storia nella Storia. Perché questo è il romanzo più intimista, personale ma anche sovversivo del romanzo stesso della Comencini in quanto ne sovverte completamente i canoni.
Ancora una volta, inoltre, sono le donne le protagoniste della sua opera. Nelle loro fragilità, nella loro intimità, nella loro straordinarietà, nella loro vita semplice, negli eventi che sono chiamate a vivere, nelle loro cadute, nella loro capacità di rialzarsi. Eroine che incarnano la Storia e che in questa si ergono voci nel vento.
Quattro grandi epoche (la Comune di Parigi, la Rivoluzione bolscevica, la Resistenza, la Rivoluzione sessuale) per quattro momenti di ribellione per quattro persone comuni e come tutti noi.
Al tutto si somma uno stile fluido, diretto, pulito, appetibile per ogni lettore della scrittrice che unisce realtà, finzione narrativa, romanzo storico e riflessione. Una buona prova. Da leggere.
Indicazioni utili
Nate, Elizabeth e Lesje
Classe 1979, “La vita prima dell’uomo” di Margaret Atwood si ripropone in libreria con una nuova veste grafica edita da Ponte alle Grazie. Al tempo finalista del Premio del Governatore Generale è uno dei romanzi più intimistici e “tranquilli” e meno distopici della narratrice canadese in quanto focalizzato sui rapporti di coppia, i legami coniugali che qui vengono scandagliati ed eviscerati con tutte le loro criticità e problematiche.
Tre i personaggi principali: Nate, Elizabeth e Lesje. Nate ed Elizabeth sono una coppia sposata con due figli il cui matrimonio sta fallendo, si sta sgretolando. Il legame coniugale va avanti e si regge ancora in piedi per inerzia e soprattutto per il “bene” dei figli. Lesje è invece una paleontologa specializzata in ossa di dinosauro. Da qui anche il riferimento al titolo del componimento. È una donna dalla tempra mite, ingenua, che vive in un mondo a sé. L’opera si snoda in capitoli che hanno la capacità di mutare la propria prospettiva per mezzo di queste tre voci parlante. Sono personalità a se stanti ma unite da un legame comune che finisce per intersecarsi e dar vita a una narrazione in cui gli eventi prendono forma, carattere, spunto e struttura dal punto di vista soggettivo di ogni voce. Questo può anche disattendere e rendere più lenta la lettura poiché pone il lettore in una costante situazione di cambiamento che rende nel complesso la struttura più fragile e meno lineare.
Elizabeth e Lesje lavorano presso lo stesso museo, Nate vive realizzando giocattoli in legno dopo aver abbandonato il percorso giuridico di avvocato. Conosciamo una Elizabeth che si sta riprendendo dal suicidio dell’amante Chris, collega di lavoro, e Nate che sta per porre fine a una relazione extraconiugale con Martha. Lesje vive invece con William. Vi sarà un’evoluzione che vedrà unire Lesje e Nate, un mutamento di prospettiva lavorativa con anche un ritorno alla carriera legale dell’uomo ma a far da sfondo e colonna portante è l’insoddisfazione.
Ed è questo il vero fulcro dell’opera: l’insoddisfazione. Per quanto muti la prospettiva, cambino le strade, i personaggi si rimettano in gioco intrattenendo nuove relazioni e intraprendendo nuove occasioni, nessuno è davvero felice. Nessuno riesce davvero a sentirsi appagato. E non è questo, forse, un po’ quello che spesso proviamo nel nostro quotidiano? Quali sono le ragioni che potrebbero portare a questo senso costante di insoddisfazione? Vi è modo di sopperirvi?
Una narrazione come sempre in perfetto stile Atwood, acuta e ironica, tagliente e diretta nel suo delinearsi. Da ricordare che non mancano anche i riferimenti alla vita personale dell’autrice in particolare proprio sul marito. Non forse il romanzo più avvincente della romanziera per connotati e caratteri ma da leggere se si è interessati a temi quali le riflessioni affettive, i legami umani, le disillusioni, i rapporti coniugali e se si amano le opere con connotato della finction.
Indicazioni utili
Triennio 1938 - 1940: tempo di guerra e di scelte
Dopo “M. Il figlio del secolo” (Premio Strega 2019) e “M. L’uomo della provvidenza”, torna in libreria Antonio Scurati con il terzo volume dedicato al fascismo italiano e a Benito Mussolini, leader e portavoce della dittatura. Con questo terzo capitolo ad essere oggetto della narrazione è il triennio che oscilla tra il 1938 e il 1940.
In libreria dallo scorso 14 settembre 2022, “M. Gli ultimi giorni dell’Europa” si trova ad entrare nel vivo di un periodo storico buio e oscuro. Se in “M. Il figlio del secolo” conoscevamo dell’ascesa di Mussolini, del chi era e del movimento, se in “M. L’uomo della provvidenza” ci trovavamo tra i salotti neofascisti e non e davanti a un romanzo meno dinamico e più statico, in “M. Gli ultimi giorni d’Europa” affrontiamo le leggi razziali, la scellerata e folle alleanza con la Germania nazista, l’opportunismo di Mussolini, il fascismo e il suo incedere e trascinare, il cadere sempre più nel baratro dell’Europa.
Tra queste pagine sorge spontaneo chiedersi come nasce una guerra e viene ancora più spontaneo pensare al presente, al nostro vivere attuale. Perché alla fine la guerra è la guerra, che sia di ieri o di oggi, si erge su uno scacchiere governato da altri con pedine che vengono mosse e quasi mai veri vincitori ma solo tante vittime e morte dilagante. Ecco allora che torniamo nel 1938, Mussolini ha quasi 55 anni, l’impero fascista si estende dal Brennero all’Albissinia ed è stata da lui proclamata l’uscita dalla Società delle Nazioni. In treno, alla nuovissima stazione Ostienze, sta per sopraggiungere il convoglio di aquile e croci uncinate su cui viaggia Aldof Hitler insieme alla sua delegazione di gerarchi per quella visita che toccherà le tre principali città italiane e cioè Firenze, Roma, Napoli. Solo poche settimane sono trascorse dall’Anschluss dell’Austria e della prima “informazione diplomatica” in cui si parla di “questione ebraica” in Italia ma ancora esiste la convinzione dell’attendere, dell’aspettare, dell’aspettare che la brama di potere e potenza si arresti da sola. Lo stesso Renzo Ravenna, avvocato decorato nella Grande guerra e fascista zelante, ne è convinto anche se non riesce a comprendere quella linea presa con l’approvazione delle “leggi razziali”. Una convinzione che al tempo ha portato gli Stati Europei ad attendere, a sottovalutare e infine a essere schiacciati da una verità troppo a lungo negata. Maggiore è ancora lo sgomento quando legge che Nello Quilici, amico giornalista a capo del giornale, appoggia il decreto di espulsione dalle scuole di qualsivoglia alunno di origine ebraica. Margherita Sarfatti che in passato aveva iniziato Mussolini alla diplomazia paga con l’esilio le proprie origini ebraiche essendo oltretutto sostituita da Clara Petacci, giovane fascistissima. Non c’è limite alla provvidenza, tutto sembra andare per “la giusta strada”, tutto sembra percorrere un destino di vittorie e successi per quell’impero inarrestabile e fiero di sé. Galeazzo Ciano, genero del Duce e ministro degli Esteri, si dedica all’invasione dell’Albania ignorando le informative sempre più inquietanti e allarmanti provenienti da Berlino. Ma può davvero Mussolini influenzare le decisioni del Fuhrer? L’Italia è impreparata alla guerra, egli sembra angosciato, eppure, il delirio si porta avanti e quel 10 giugno 1940 eccolo affacciarsi a Palazzo Venezia per annunciare al mondo quelle decisioni irrevocabili di cui la Storia ci ha portato memoria.
Metafora apocalittica dal già titolo, romanzo-romanzo, storia nella Storia, Storia nella storia, ecco che viene ricomposta l’immagine di un puzzle dalle dimensioni corpose e valorose, immagini che riportano l’Italia a riflettere su quella guerra che ha rappresentato un gigantesco equivoco nonché la più grande macchia. Ma nulla tra queste pagine è lasciato al caso. Né la stesura, né l’evoluzione dei contenuti, né l’evolversi di una vicenda che accompagna in un susseguirsi ben cadenzato e ancor meno il logo e la copertina rappresentati dalla M di Mussolini stilizzata dagli esperti degli anni Trenta, al colore nero della lettera su sfondo bianco in cerchio con campo rosso attorno. Scelta visiva d’impatto ma anche significativa perché ci fa comprendere sin dal primo sguardo chi è il protagonista del libro, quali vicende regnano, e il come il Fascismo divenne succube del Nazismo.
Non mancano alcuni piccoli refusi, non mancano alcune imprecisioni storiche che possono starci stante il lavoro di costruzione ma che si potrebbero correggere nelle prossime ristampe (a titolo di esempio a pagina 60 si parla di Alessandro Preziosi quale capo indiscusso dell’antisemitismo fascista quando in realtà fu Giovanni Preziosi a esserlo, o ancora a pagina 85 si parla di Romano Ravenna, ultimo figlio del podestà Renzo Ravenna, quale “battezzato” ma occorre ricordare che non esiste il sacramento del battesimo inteso in senso cattolico nell’ebraismo).
Interessante anche la scelta narrativa impostata in questi tre volumi nel focalizzare sulla figura del primo leader, interessante quanto capace di suscitare riflessioni per la grande complessità della personalità stessa con tutti i suoi “cambiamenti di bandiera”, scelte, azioni e decisioni. Vasta la trattazione del periodo storico nonché delle tematiche, ampio lo spazio che viene rilasciato alla persecuzione ebraica anche per mezzo della voce di due ebrei fascisti. Circa 1/3 del libro ne è oggetto ed è specchio, quale scelta, secondo il modesto parere della scrivente, di una necessità del nostro tempo di ricordare e meditare sulle nostre scelte, sui paradossi, sul clima sempre più pregnante e particolare di ieri e di oggi.
Nel complesso, una lettura intrigante, travolgente, che si legge in modo rapido, composta da brevi e rapidi capitoli, avvalorato da documenti storici ufficiali, dal ritmo incalzante e anche i tratti di una fiction. Una prova ancora più corposa delle precedenti, uno scritto che entra ancor più nel vivo della fase fascista. Da leggere.
Indicazioni utili
Un capodanno corale
Loro. Chi? Loro. Loro, amiche e amici che si ritrovano insieme per festeggiare la fine di un anno e l’inizio di un nuovo lustro in una villa e in una serata dalle tante aspettative non sempre riuscite, spesso disattese. È proprio l’imprevedibilità quel che più segna queste pagine, pagine che narrano di pensieri, problemi, gioie e successi, pagine che ci parlano di un tempo che scorre di cui vorremmo essere padroni esattamente come del mondo circostante. E poi c’è lei: la clessidra. Che sia questa, forse, la vera protagonista? Strumento che scandisce il tempo, che segna la linea di demarcazione tra lo ieri e l’oggi, l’ora precedente e l’ora successiva, clessidra che può contenere anche “altro”.
Venti storie, venti volti, venti persone. Un romanzo corale dove ciascuno racconta la propria verità nella convinzione più semplice di poter tenere celati i propri segreti. È una festa di “illusioni” ed “illusi”, di maschere falsamente e brevemente indossate in quanto sono gli umori altrui a dettare gli effetti sugli umori propri.
La finzione è uno dei temi più presenti in “L’anno capovolto”, una finzione pirandelliana quanto umana, in cui la sottigliezza dell’io mette in inganno con l’altro perché alcune verità non possono essere dette ma possono essere scoperte. Esattamente come quelle colpe che ciascuno si porta con sé insieme ai tanti segreti dell’animo. La confessione diventa uno strumento per difendersi dal giudizio altrui, dall’accusa, ma anche da se stessi e dal dover fare i conti con quel che si è. Talvolta a regnare può essere una profonda sensazione di impotenza, di fallimento, di necessità, di brama di successo e denaro, chi si illude della perfezione di una vita imperfetta e di un cinismo che diventa strumento con cui far fronte alle difficoltà, di un disprezzo che falsamente dovrebbe sdrammatizzare ma in realtà è specchio di verità. L’arrivo della mezzanotte forse riuscirà a mettere tutte le voci narranti d’accordo, sul come, ci sarebbe molto da dire.
Il teatro costruito da Innocenti ha tanti buoni propositi di riflessione ma talvolta, il copione, non riesce a soddisfare le aspettative del pubblico spettatore. Tra queste pagine si percepiscono gli intenti ma si percepisce anche una dissonanza, una difformità che non rende la voce corale uniforme quanto individuale.
Le storie si susseguono rapide ma non risultano ben coese tra loro. Sono tante, forse troppe, creano frammentarietà. Nel far ciò si percepisce un senso di mancanza, come se un qualcosa sfuggisse. Le vicende non riescono ad arrivare nella loro interezza, non riescono a coinvolgere completamente perché sono percepite più come singoli racconti “raccolti” che come un flusso di tante voci volte a ricostruire un disegno unico. I personaggi sono disillusi, non hanno aspettative, non temono di ingannare l’altro ma sembrano procedere su binari paralleli non destinati a incontrarsi. Questa a differenza di tante altre storie narrate con la stessa impostazione ma finalizzate a ricostruire un disegno più grande e uniforme, come le estremità di un cerchio che si ricongiungono. Interessante il gioco tra finzione e realtà ma a tratti, l’opera, non esula dal ricordare il film “Perfetti sconosciuti” al punto da far un po’ perdere di interesse al lettore. Tra i lati positivi il fatto di poter rappresentare una forma di sceneggiatura che lo rende papabile per una eventuale trasposizione.
In conclusione, un romanzo con un buon potenziale non completamente sviluppato e che fatica a trattenere completamente il lettore.
Indicazioni utili
- sì
- no
Bentornata Mma Ramotswe
Dopo “Gli effetti benefici delle vacanze” torna in libreria Alexander McCall Smith con “Il club delle vacche grasse”, opera che rappresenta il seguito naturale del volume che antecede. Precious Ramotswe e Grace Makutsi hanno lavorato insieme per anni anche se non sempre i ruoli sono stati così ben definiti stante anche il comportamento un poco autoritario di Grace rispetto a quello più buonista di Mma Ramotswe.
Questa volta l’attenzione della protagonista si rivolge a una signora canadese che, dopo anni di legami e trasferimenti, vuol ritrovare le proprie origini.
«Abbandonare il Botswana è stato come abbandonare la mia vera patria, il luogo in cui ero cresciuta, che mi era familiare nonché l’unico che conoscessi davvero… Il mio cuore è rimasto qui. Io sono partita con i miei genitori, ma lui no»
È possibile ritrovare la propria vita perduta? Mma Ramotswe però non dovrà occuparsi solo di questo. La sua amica, la signora Potokwani, scopre che Polopetsi è diventato un investitore restando invischiato in uno “schema Ponzi” e passando il suo tempo a proporre agli amici investimenti su investimenti possibili.
«Ha aggiunto che si chiama il Club delle vacche grasse e che offre ottime possibilità di guadagno. Anzi, ha precisato che i guadagni sarebbero superiori a qualsiasi interesse offerto da banche o compagnie assicurative e che se avessi avuto diecimila pula da parte avrebbe potuto fare in modo di inserirmi in questo club e ottenere – e questa è la parte che mi ha lasciato di stucco – un interesse del venticinque percento sui soldi investiti.»
Come tirarlo fuori dai guai? Come salvarlo senza offenderlo e senza rischiare che finisca in prigione? Una nuova doppia avventura per Mma Ramotswe che dovrà agire su più fronti. Alexander McCall Smith, esperto di diritto applicato alla medicina ma anche alla bioetica, ci propone un degno e piacevole nuovo capitolo delle avventure di una protagonista. Forse non è il più semplice e scorrevole, il messaggio non è immediato e non è il personaggio meglio riuscito, ma nel complesso è una lettura che lascia un buon invito, un invito al perdono. Un perdono che non cade nel buonismo ma nell’autenticità.
Indicazioni utili
Il parroco delle anime
Avvicinarsi a un romanzo quale quello di Anna Vera Viva significa tuffarsi in una realtà del napoletano ben diversa da quella che generalmente siamo soliti immaginare, anche e a seguito, dei tanti racconti o aneddoti che siamo soliti ascoltare e/o leggere. Salentina d’origine, napoletana d’adozione, la romanziera ci prende per mano e accompagna per le strade del Rione Sanità in un mix e caleidoscopio di immagini e ritratti che sono delineati senza grande e troppa difficoltà tra le pagine.
In “Questioni di sangue” quel che maggiormente emerge non sono però solo e soltanto le descrizioni e i destini opposti che vivono per cause anche di forza maggiore i fratelli Peppino e Raffaele Annunziata, tra rivalità e ricongiungimento, ma anche il carattere introspettivo. E sia chiaro, le storie prendono forma e si snodano ma il vero protagonista è e resta il Rione. Perché il Rione è l’affresco di una Napoli scomoda ma che non lascia scampo. È un luogo dove essere poveri è una condanna, un destino già scritto, un fare che già ha preso i suoi connotati, un luogo dove la criminalità prende sempre più spessore perché è l’unica vera strada percorribile. E cosa fare, se non cadere preda e vittima di questa, per non cadere nuovamente preda e vittima della legge del più forte che piega e spezza senza remora alcuna? Sei una pedina e come tale devi eseguire quel che ti viene detto e imposto altrimenti, sarà peggio per te.
Ed ecco che Don Raffaele Annunziata torna tra quelle vie con un altro nome, prende possesso della chiesa del quartiere, scopre un mondo che sa essere simile ad altri, che può essere riconosciuto ma che al contempo è molto lontano e sconosciuto. C’è quel qualcosa che torna alla memoria, che fa rivivere un passato che nella narrazione “se la gioca” con il presente. Peppino si sente attratto da quel prelato misterioso quanto fastidioso e amichevole. Nel momento in cui prenderà forma un omicidio nella verità della quotidianità sarà proprio il parroco a doversi cimentare nello scoprire una verità che si sedimenta nelle anime dei fedeli.
«Quarant’anni erano trascorsi, un tempo lunghissimo, in cui aveva creduto che i fantasmi del passato non sarebbero ricomparsi. Ma ora, tornando a Napoli, nel suo vecchio quartiere, si sarebbe trovato di fronte a scelte che pensava di non dover affrontare mai più.»
Partiamo dal presupposto che “Questione di sangue” non è solo un giallo. È anche un giallo. Ma, prima di tutto, è un affresco. L’affresco di una Napoli che viene ricostruita per mezzo dei suoi abitanti e per mezzo delle ombre che la popolano. Il testo ha molto di una sceneggiatura, ricorda a tratti anche il tipico giallo all’inglese mixato alla realtà del paesino in cui tutti sanno, tutti ascoltano, tutti osservano tutti ma nessuno parla, ha visto o sentito. Il Rione sembra parlare da solo, con i suoi connotati, pregi e difetti. Nulla e nessuno tra queste pagine è controfigura. Ciascuno ha un suo ruolo, un suo essere determinante. La prospettiva muta e cambia, si alterna e sussegue.
Il risultato è quello di un romanzo che ha tanto da dire e che ci trasmette una profonda e interminabile voglia di riscatto. Tra vittime e carnefici che non sono mai completamente vittime e mai completamente carnefici. Tra donne e uomini che cadono e si rialzano, che sono schiacciati da una realtà più grande di loro ma che vanno avanti.
A tutto si somma uno stile rapido, fluido e fluente, che accarezza il lettore e lo conduce per mano con un ritmo narrativo ben cadenzato e la giusta dose di colpi di scena. Perché qui ad essere protagonista è prima di tutto la vita, la persona intesa come essere vivente con i suoi pregi, difetti, cadute e paure. La persona e il contesto sociale in cui cresce e nasce, in cui combatte e va avanti giorno dopo giorno.
Un romanzo adatto a chi non si ferma alla superficie ma cerca e desidera anche altro e soprattutto a chi desidera interrogarsi sull’animo umano con tutte le sue luci e ombre.
«La vita differente che avevano affrontato li aveva costruiti in forme opposte, seppure con gli stessi mattoni… L’uno immagine speculare dell’altro, quasi banali nel loro essere il bianco ed il nero, il bene ed il male.»
Indicazioni utili
Bocconcini di tradizione
«Non provo gratitudine per quella sazietà, adesso e neanche allora. Erano tempi che facevano cambiare le cose materiali mettendo insieme persone sconosciute ma concordi, tempi puntuali come un appuntamento. Uno come me, schizzato fuori dal suo posto di origine, poteva essere sfamato da una folla compatta. Capivo che la politica era camminare in molti al centro della carreggiata. Entrare in quella politica era scendere dal gradino del marciapiede e unirsi a una corrente.»
Cucina e sapori di cucina, sapori di casa, sapori di palati affamati. Ricordi, ambienti, famiglia, infanzia. Luoghi che si snodano tra odori ed esperienze di viaggio, incontri e papille gustative che vengono allietate nel tempo che cresce.
E per comprendere davvero l’importanza del mangiare, della pietanza, del suo gusto e del suo intento ecco che viene a galla l’importanza del digiuno e dello “svuotamento”. A conclusione del testo affiorano ed emergono anche ricette che fanno parte della tradizione e che sono risultato dei segreti di nonna Emma e zia Lilina, passando da ragù, peperoni ‘mbuttunati, casatiello, pastiera e nocino. Tra luoghi comuni e vivere nell’esistere.
«Alle tavole dove sono cresciuto si spalancava bene l’apparato orofaringeo per ricevere la consistente forchettata, che perciò si chiamava boccone, niente a che vedere con il bocconcino. Qui ci sono spizzichi e bocconi, storie di cibo familiare.»
Sono tanti i romanzi a firma Erri De Luca, romanzi eclettici ed eterogenei che oscillano tra tematiche, storie e verità diverse, che narrano di poesia e narrativa, di quotidianità e speranza. Tradizione che si sussegue tra ricordo e antiche e succulente pietanze come nel caso di “Spizzichi e bocconi”. Ed è da questa breve premessa citata che si evince lo scopo di De Luca di coinvolgere il lettore, renderlo parte e partecipe, non solo spettatore di un piatto presentato in casa.
Ad avvalorare ulteriormente l’ultima fatica del romanziere vi è anche l’apporto di Valerio Galasso, nutrizionista che ci ricorda quanto sia importante mangiare e quanto lo sia porre attenzione negli alimenti assunti e assorbiti, potenzialmente rientranti nel nostro piano alimentare.
Erri De Luca si dimostra nuovamente un maestro nel creare scene che sanno essere evocative, empatiche, emotive e che conducono il lettore per mano. Qui il cibo non è però solo evocazione ma identità e fattore di aggregazione in un tempo che passa e che scorre.
Indicazioni utili
Le (im)perfezioni del nostro tempo
«La luce del sole si riversa nella stanza dal bovindo, tinge di smeraldo le foglie traforate di una monstera tropicale vasta come una nube, va a riflettersi sul pavimento a doghe larghe del colore del miele. Gli steli sfiorano appena lo schienale di una poltroncina di taglio scandinavo, su cui è poggiata una rivista aperta col dorso verso l’alto. Il verde smagliante della pianta, il rosso della copertina, il petrolio dell’imbottitura e l’ocra chiaro del pavimento risaltano contro il bianco polveroso delle pareti, richiamato da un angolo di tappeto chiaro che svanisce nei margini dell’immagine.»
Vincenzo Latronico si ripropone ai lettori con un quarto romanzo con tanti spunti di riflessione e “cose da dire”, uno scritto che non stupisce del suo successo tanto in ambito di premi letterari – si veda la selezione al Premio 48° letterario internazionale Mondello – e non solo. Latronico parla di Berlino, parla di oggetti, parla di figure, parla di crescita, parla del non essere più ventenni ma di risvegliarsi trentenni e decenni di ancora e ancora, parla di coppia e di immagini. Delle immagini che osserviamo quando rivolgiamo il nostro sguardo al mondo esterno, parla di immagini riferite a noi stessi e cioè all’immagine del sé che ciascuno vuol trasmettere agli altri in tanti modi. Se un tempo Pirandello ci parlava di maschere indossate dai suoi “Sei personaggi in cerca d’autore”, oggi Latronico ci parla delle maschere indossate per mezzo dei social network e di quella storia che si muove e snoda in quella che è la nostra quotidianità. Una quotidianità fatta di consumi, di autocompiacimento, di freddezza. Una freddezza che non si trova soltanto nei personaggi e nelle vicende ma anche nel narrato e nello specifico nello stile narrativo adottato che è distante, distaccato, volontariamente freddo ed intimistico esattamente come lo scritto.
«Sfioravano la soglia senza mai attraversarla per due volte, tre; poi si ritrovavano in coda al guardaroba per riprendere i cappotti. Erano stanchi e puzzavano ma il senso di disagio si sublimava non appena mettevano piede nell’aria fresca della strada. Tornavano a casa in taxi o a piedi nella luce grigia del primo mattino, tenendosi per mano, esaltati, uniti. In realtà erano sollevati di non aver fatto nulla che li costringesse a un controllo delle malattie veneree, di non aver accettato le bottigliette d’acqua e le bustine e le fiale. Una volta a letto l’eccitazione si si disserrava in una mollezza intenerita. Si stringevano a cucchiaio sotto le coperte, sincronizzando il respiro sulle pulsazioni dell’altro, e sentivano che quella vicinanza era più intima e appagante di qualunque sex party. Al mattino quel pensiero gli sembrava patetico.»
Se da un lato “Le perfezioni” è un romanzo, dall’altro è quasi un saggio che parte da un omaggio a Perec che si somma alla volontà di adottare uno stile ricercato, talvolta anche troppo compiaciuto ed autoreferenziale.
Ma “Le perfezioni” parla del nostro tempo, del nostro vivere. Sono parole che ricompongono il puzzle della nostra contemporaneità e che lo fanno rendendo i social parte integrante e attiva perché questi, in primis, sono parti attive della nostra quotidianità. Non sono né controfigure né sceneggiature. Ad essere narrata è ancora la crisi esistenziale di una coppia e cioè quella crisi che di solito è vissuta singolarmente ma che qui è vissuta in un binomio per mezzo di Anna e Tom e quella pena, affetto, comprensione ed empatia che per loro e verso di loro aleggia.
Un libro che tratta anche di cambi generazionali, età che si susseguono, disillusioni e illusioni, di mancanze. Di vuoti. Di insoddisfazione. Di denaro perché questo sembra essere l’unica vera ambizione del presente di questa epoca del consumismo e della frivolezza. Di politica. È la storia di una generazione fortunata e sfortunata al tempo stesso. Ma esistono davvero le perfezioni? Esiste la perfezione? È davvero raggiungibile? Un romanzo che divide. O si ama, o si odia e questo anche e soprattutto per la scelta stilistica che pone un distacco voluto e volontario dal lettore e che per questo incide in maniera determinante.
«È tutto davvero perfetto, dirà la story a corredo. È proprio come nelle immagini.»
Indicazioni utili
Nowa Ruda
Classe 1962 è Olga Tokarczuk, polacca, nota al pubblico italiano per molte opere tra le quali “Dio, il tempo, gli uomini e gli angeli” si propone ai lettori con un libro che ripercorre la Storia e le storie. “Casa di giorno, casa di notte” esce per la prima volta in patria nel 1989 vincendo il premio letterario polacco NIKE e focalizza su Nowa Ruda, città polacca dove la narratrice si trasferisce insieme al marito. Siamo nella Polonia occidentale e la situazione che si prospetta innanzi ai nostri occhi è estremamente complessa. Siamo in una fase storica che risente del passato, la guerra non è solo un ricordo e qui gli abitanti sono guardati a vista dalle guardie di frontiera ceche. Non solo. È il confine a destare sconvolgimento. Da un lato vi è il mondo polacco, dall’altro la frontiera con quella musica e quelle discoteche che varcano ogni distanziamento e limite geografico. Due realtà diverse che sembrano inconciliabili, quasi rette parallele. La situazione politica stessa risente di quel che è stato. Ci troviamo davanti ad anime che hanno dovuto lasciare la zona orientale della Polonia e in particolare i territori della Lituania ma anche Bielorussia, che sono passati all’Unione Sovietica, e che si trovano ora a ovest dove hanno occupato le case abbandonate dai nazisti in fuga dopo la Seconda guerra mondiale. Ma il passato non è mai solo passato. Quel che apparteneva ai tedeschi esiste ancora, è seppellito forse sotto le foglie o le radici nei boschi, ma esiste ancora. È storia, storia che vuol tornare a galla e che vuol parlare di sé anche per mezzo della forma del ricordo che nel suo essere è anche estremamente doloroso. È con l’aiuto di Marta, enigmatica, non più giovanissima, controversa vicina, che queste storie vengono raccolte sino a ricostruire la storia di Nowa Ruda sin dalla sua fondazione. Pian piano tornano alla luce racconti eterogenei che si intrecciano con racconti agiografici, aneddoti eclettici anche volontariamente non cronologicamente ordinati, personaggi con storie variopinte che vengono descritti in modo da ricreare una cartina tornasole del posto. Tra i tanti Marek, ubriacone convinto di avere un uccellaccio nero imprigionato nel corpo, o ancora Franz Frost che pensa di essere colpito dalle influenze celesti maligne e che per questo costruisce un copricapo in legno, sono solo alcune delle tante verità che ricostruiscono questo puzzle fatto di vite, quartieri, oggetti, tra loro interconnessi seppur apparentemente sconnessi. Tra aneddoti, realtà, passato, presente e Storia che si ricompone.
«L'unica cosa che posso dire di me stessa è che mi lascio vivere, scorro attraverso un luogo nello spazio e nel tempo e sono la somma delle proprietà di questo luogo e di questo tempo, niente di più.»
Al tutto si somma uno stile semplice, fluido, rapido che ben si confà a quelli che sono i personaggi ma anche le vicende narrate con autentica e semplice genuinità. L’opera conquista anche per il suo riuscire a trattenere e coinvolgere il lettore in un filo conduttore principale anche se, nel concreto, si è davanti a una lettura frammentaria, non convenzionale, che si ricompone un poco alla volta.
Indicazioni utili
Teresa Poletto
«Strega rifletté sulla sensazione della collega. Anche Mara Rais aveva detto la stessa cosa: il caso di Dolores Murgiaaveva risvegliato sas animas malas, aveva affermato.»
Tra gli scrittori italiani da non perdere c’è sicuramente Piergiorgio Pulixi. Scrittore dalla penna magnetica, la prosa fluida e lo stile impeccabile è noto al grande pubblico per opere quali “L’isola delle anime”, “Lo stupore della notte”, “Un colpo al cuore”. Pulixi è ancora un autore di quelli che sanno risvegliare il lettore dal torpore, trasmettere emozioni ed anche trattenere tra le pagine grazie a colpi di scena ben ponderati e intrighi da scoprire. Le sue storie sono sempre originali, mai banali e capaci, soprattutto, di toccare corde nel profondo che fanno meditare.
E torniamo quindi ad abitare queste pagine. La squadra investigativa di Vito Strega è proprio nel bel mezzo dei festeggiamenti per un precedente caso risolto in Sardegna quando viene sconvolta da un nuovo avvenimento: una morte improvvisa quanto inaspettata, il ritrovamento di un corpo di una donna nelle terre del Parco del Ticino. È denudata, non sembra aver subito violenza sessuale ma certamente è stata drogata, ed ancora indossa una maschera bovina e le mani sono legate dietro alla schiena. Sarà Clara Pontecorvo, la new entry, ispettrice toscana, di questo quarto libro sui Canti del Male a fare il collegamento con un omicidio rituale risolto dalla squadra di Vito Strega. Non solo la donna colpisce per il suo aspetto imponente e la sua altezza ma è anche dotata di ironia e schiettezza. Il corpo di Teresa Poletto, donna rinvenuta priva di vita, è un mistero che affascina. Chi era davvero la ragazza? Oppressa dai debiti ella viveva tra le stanze di un hotel. Ma come poteva sopravvivere in una situazione del genere? Perché la sua scomparsa è minimizzata sin nei più eclettici termini e dagli stessi parenti?
«La morte era come se fosse un’ospite indesiderata che si autoinvitava a una festa con la precisa intenzione di rovinarla, riuscendoci puntualmente. Era la sua maledizione. Non poteva godersi un attimo di felicità senza che il buio riuscisse a scovarlo e tormentarlo.»
Dal ritmo incalzante, una squadra ben mixata, composta da personaggi eterogenei e di varie origini sociali e culturali, riti ancestrali, misticismo e un ritmo narrativo rapido, accattivante, in un canto degli “innocenti” che prende sempre più forma e corpo, è “La settima luna”. Un libro che presenta una piccola, piccola lacuna, se così vogliamo definirla ma che… lascio al lettore il beneficio del dubbio di trovare.
Nel complesso un libro da leggere, un altro episodio delle avventure che merita di essere scoperto, una riconferma per il narratore. Un ritmo incalzante con dialoghi accattivanti e ben funzionali.
Indicazioni utili
Colpo al cuore della nazione
James Patterson nelle sue opere ha la gran capacità di riuscire a trasmettere ai lettori emozioni diverse che oscillano tra coinvolgimento e colpi di scena e un ritmo narrativo ben cadenzato che compagna e conduce per mano. Questo anche grazie a quella capacità di saper rendere vivide le immagini, di saper rendere sceneggiature vere e proprie le sue storie.
Questo non è da meno nemmeno in “Bersaglio. Alex Cross”. Tra queste pagine l’indagine complessa ben si mixa con i dettagli e un susseguirsi di accadimenti che si svolgono su più fronti e in modo più congeniale.
Le vicende hanno inizio con un corteo funebre. Siamo sulla strada che conduce da Capitol Hill alla Casa Bianca, è in corso la processione per commemorare la morte della presidente degli Stati Uniti d’America. Tra tutti, Alex Cross, osserva. Lui che ha dedicato tutta la sua esistenza a proteggere gli altri è scosso, turbato. L’evento che si apre innanzi ai suoi occhi è di una gravità pazzesca. Un lutto che lo riporta a una perdita personale, quello della prima moglie.
Ma attenzione, perché è in un momento così drammatico che il sistema può mostrare “il fianco”, che il Governo può mostrarsi debole, scoperto, il bersaglio perfetto. Ed è proprio questo ciò che accade: Elizabeth Walker viene colpita dal proiettile di un cecchino, lei che è una delle senatrici più influenti e importanti della California è l’ennesimo colpo al cuore della nazione. Una prima perdita che si somma a un secondo colpo al cuore per gli Stati Uniti che deve essere risolto. La polizia è sotto pressione, la neopromossa capo della squadra omicidi Bree Stone, sa di non avere scampo e scelta, deve trovare il colpevole o sarà la sua poltrona (e testa) a saltare. Ad aiutare nelle indagini con l’FBI è proprio Alex Cross che teme non trattarsi di un “colpo isolato”. E come potrebbe esserlo? Mai la nazione è stata così debole ed esposta, mai la nazione ha così esposto al mondo la sua fragilità. È il bersaglio perfetto. Incaricato dal nuovo Presidente per coadiuvare le indagini, Cross inizia quella che è letteralmente una corsa contro il tempo.
Il risultato è quello di uno scritto rapido, veloce, scorrevole che trattiene tra le sue pagine e avvince il lettore per trama, intrigo ed enigma da risolvere. Si tratta di un romanzo d’intrattenimento, non definibile quale il migliore dell’autore ma in ogni caso piacevole nella lettura e capace di regalare ore liete. I personaggi sono capaci di suscitare empatia anche se non sono sempre descritti con minuzia o dovizia di particolari. Non mancano nemmeno i canonici cliché già incontrati nelle precedenti pubblicazioni o comunque in romanzi del genere.
L’ultima fatica di Patterson si conferma un prodotto nella media, buono, molto sceneggiato, ottimo anche per una eventuale trasposizione cinematografica o comunque televisiva.
Indicazioni utili
Padri e figli, nodi legati e slegati
«La vita che in me si disperde si ritroverà in te e nel mio popolo.» Nazim Hikmet
Perché scrivere un libro? È dal cercare di trovare una risposta a questa domanda che ha inizio “A grandezza naturale” di Erri De Luca, opera classe 2021 che parte nel suo narrare da un ritratto di Marc Chagall che raffigura il padre “a grandezza naturale” e che proprio sui legami tra padri e figli si interroga. Una domanda che per De Luca è altrettanto forte quanto simbolica stante che egli, come da prefazione, non è riuscito in questo “prolungamento”. Ecco allora che dalla mancanza nasce la ricerca di un perché, di un significato, di un bisogno costante di capire, interrogarsi e trovare le giuste risposte anche quando queste molto probabilmente non esistono o non possono essere trovate.
Un linguaggio scarno, rapido, dialettico e dialogato, uno stile pungente e tagliente che non perde tempo in fronzoli e che ha il dono di racchiudere in poche ma esaustive battute concetti e riflessione che non vincono nella mole quanto nell’essenza.
Ma cosa significa davvero essere padre? Cos’è la paternità? Perché per alcuni è concetto di esperienza comune mentre per altri è un desiderio disatteso e forse nemmeno mai espresso? Come convivere con questa sensazione di essere uomini a metà? Se da un lato si è figli, perché dall’altro non è consentito essere padri? Ad essere poi analizzato è il concetto stesso di paternità negli anni e nelle fasi della vita. È questo diverso se percepito in età adolescenziale così come in età adulta o terza età. Da qui i nodi. Nodi di vita, saldi e forti, legami che si sviluppano e restano salvi ma che possono restare non annodati se mancanti di quelle premesse.
Ecco allora che il legame si rafforza e trova forza e il concetto di paternità non è più solo legame tra figlio e padre ma metafora intesa in senso lato, più esteso. Perché questo legame può essere appunto slegato ma non lo è il concetto di paternità che qui viene analizzato e scavato dal basso, con sguardo proprio e personale, con la sensibilità di un uomo adulto e con la premessa di mai dare nulla per scontato ma semplicemente con la voglia di raccontare.
Un libro piccolo nelle dimensioni ma grande nel contenuto per cui ringrazio del dono ricevuto, un dono inestimabile quanto prezioso.
Indicazioni utili
Solitudine incompleta
Tre fratelli e un ultimo saluto, al padre. Tre vite soffocate da obblighi e senso del dovere, tra sensazione di incompletezza e insoddisfazione per quei legami che proprio non sembrano prendere forma, sostanza.
Il suo nome è Alessandro ed è il primogenito, colui che mai si è sentito amato. È un ingegnere trapiantato al nord, ha perso in una sola giornata la moglie Carla, il lavoro ed anche il padre. Il suo matrimonio è l’emblema di assenze e tradimenti, di legami andati avanti più per consuetudine sociale che per verità concreta. E poi c’è lei, Silvia, la mezzana. Soffre della mancanza di amore materno, di una vita controversa, di speranze disilluse. Infine, Gabriele, il più piccolo e quasi come un cliché, il più fragile. Naufragato nella cocaina è schiacciato dai sensi di colpa per aver deluso quel padre e ha distrutto il suo patrimonio economico per una dipendenza che non porta resa se non sconfitta.
Silenzio, attesa, silenzio, attesa. La salma sembra tagliare la quiete con la propria presenza – quasi – ingombrante. I tre si riuniscono per ricordare la fine di una vita e sembra di essere alla resa dei conti perché a passare innanzi ai loro occhi è una vita fatta di rimpianti, ansie, assenza di una figura materna scomparsa prematuramente.
Ed ancora una volta tornano ad essere presenti le problematiche della famiglia, ancora una volta le tante domande che ruotano attorno a questa tematica si fanno vive e vivide. È Claudio Coletta, questa volta, a farsi portavoce di quelle dinamiche sociali e psicologiche che prendono forma all’interno delle abitazioni, tra le mura. Non nascondo che per l’impostazione e la presenza di questi tre fratelli tutti avvalorati da una propria fragilità, insoddisfazione e insofferenza alla vita, lo scritto mi ha ricordato molto “Serge” di Yasmina Reza. Da questo punto di vista l’ho ravvisato un po’ troppo un ennesimo cliché. Sono anche prese le dovute distante da questo componimento edito da Adelphi ma la mente rimanda e pensa e riflette sulla comunanza di fattori che al contempo li accomuna.
Coletta propone ai lettori un elaborato con un buon potenziale. Soprattutto nella prima parte l’opera è ben caratterizzata, i personaggi incuriosiscono, si scoprono poco a poco, come se si stessero sfogliando le pagine della loro vita, si attraversa e percepisce il loro dolore. Lo si assapora e percepisce con vividezza. Tuttavia, la sensazione che resta al lettore è quella dell’incompletezza. Perché se in prima battuta il narratore è coinvolto dalle vicende, vuole scoprirle, svilupparle, dall’altro canto resta con una sensazione di non completo sviluppo del libro. I personaggi restano bloccati nel loro essere, non riescono a trovare le loro risposte e dunque sono incapaci di offrirle al lettore, il mistero del vivere e dell’esistere resta tale. Ed è un peccato. Perché un titolo come questo ha certamente un ottimo potenziale che se ben sviluppato avrebbe potuto renderlo semplicemente indimenticabile. La sensazione invece è quella di personaggi persi nei meandri della loro mente, come in un labirinto di specchi senza vie d’uscita.
Indicazioni utili
Mimì e la sua Milanese
«Scoprii in quella circostanza che la bambina dei miei pensieri e sospiri si chiamava a quel modo oscuro – la milanese – e aveva attirato, oltre alla mia attenzione, anche quella di molti altri compagni. Non solo. Era di dominio pubblico che, quando c’era il sole, la guardavo scimunito dalla finestra o passavo molto temo sotto il suo portone. Vero? Mi chiusi nel mio solito mutismo, ma prima gli dissi: vafanculostrunznunmeromperocàazz, che era la formula necessaria quando nessuno pareva adatto a capire quale persona speciale fossi e che grandi cose avrei fatto.»
Napoli. Mimì, presuntivamente diminutivo di Domenico, fa capolino tra le pagine con i suoi nove anni e la sua fantasia. La vede per la prima volta in un giorno come tanti danzare. È lì, davanti al balcone di casa sua, che danza. Danza con la grazia che i suoi occhi sanno vedere e parla in un modo incantevole ed elegante di un italiano non intriso di carenza campana. Se ne innamora, ora e subito. Subito ed ora. È la sua musa, la sua fata. Deve salvarla, proteggerla, tutelarla. Si ripromette di salvarla anche dopo la sua morte esattamente come provò a fare Orfeo con Euridice (Mimì ha l’obiettivo di non girarsi, però, fino all’ultimo). Il bambino è ossessionato dall’idea della morte, forse a causa della nonna vedova dopo due anni di matrimonio che gli parla della fossa dei morti ove i defunti sono soliti raccogliersi, forse per quei miti che lo incuriosiscono. E questa è una parte anche estremamente interessante, infatti, il lettore è coinvolto dalle dinamiche dei giochi tra bambini, da questa fascinazione e anche dalla figura stessa della nonna che conquista e scalda il cuore con la sua perfezione nell’imperfezione. Ma si sa, la vita non è perfetta e ci sarà un evento scatenante che porterà alla conclusione dell’infanzia del protagonista ma che troverà, di poi, fondamento e spiegazione solo nell’età adulta quando egli sarà un giovane studente universitario di Lettere antiche.
«“[…] lo feci con passione senza pretese, sapendo ormai che quel poco di veramente vivo che facciamo vivendo resta fuori dalla scrittura […]”.»
Tanti sono i temi trattati da Starnone tra queste pagine. Temi che riguardano l’amore e i legami familiari, temi che rimandano a Lacci. Ma tra i protagonisti indiscussi vi è certamente la morte. Morte che accompagna tutte le pagine, morte che accompagna la nostra vita come una consapevolezza pari a una spada di Damocle.
È nella semplicità che vince “Vita mortale e immortale della bambina di Milano”. Mimì è un bambino come tanti, con una infanzia normale, come tutti. E poi c’è quel bisogno di vita ed esistenza, quel bisogno di pienezza dato dalle esperienze vissute quasi per casi e caso. “La milanese” per il giovane è il primo amore. È emozione pura, ingenua, elementare, atavica come ogni esperienza giovanile sa essere. Molto più difficile è per lui “capire” ciò che si vuole e… lasciare andare.
La morte non tarda a farsi attendere, è uno spettro sempre presente che non teme di abbracciare la sua vittima e la vita chiede che si facciano i conti con questa. Non se ne può fare a meno. Anche quando si cerca di evitare che sia così, anche quando si cerca di fare in modo di eludere il dato, la realtà. Ed è qui che subentra il mito, la letteratura.
Alcuni passaggi in napoletano non sono semplici da leggere se non si è del luogo ma lo stile e il contenuto sanno trattenere il lettore senza troppe difficoltà.
Ed è la stessa chiave metaletteraria la chiave di lettura di questo piccolo ma consistente romanzo. Perché lì dove finisce la vita, la speranza, l’idea di sopravvivenza, ecco che subentra l’arte, la parola, l’attimo. L’emozione.
Indicazioni utili
Rache
«La ringrazio di cuore per avermelo presentato. Non si dice forse “il modo migliore per studiare l’umanità è osservare l’uomo?”»
L’incontro tra John Watson, ex medico militare appena rientrato nel Regno Unito dalla guerra in Afghanistan a causa delle ferite alla spalla e al ginocchio e Sherlock Holmes, avviene più per necessità che per caso. Alla ricerca di un appartamento in cui abitare da un collega gli viene presentato il suo futuro coinquilino con cui andrà ad abitare in quel del 221B di Baker Street. Già dal primo sguardo Holmes lascia dedurre di essere munito di una profonda capacità intuitiva e ragionamento deduttivo che si mixa e confà con quello che è il suo naturale alter ego, Watson, uomo di scienza e logica. Uno sguardo che già fa intuire all’investigatore la provenienza del medico e anche il suo trascorso quale degente a causa delle ferite riportate. Sistemati in quel dell’appartamento ecco sopraggiungere un telegramma di Scotland Yard che richiede l’intervento intuitivo dell’investigatore a seguito di un omicidio che nasconde un misterioso rompicapo da risolvere. Andare, non andare, che fare? Holmes, curioso, decide di recarsi sul luogo seguito da Watson. Ben presto ricollega tutti i tasselli e, proprio quando il caso sembra essere risolto, un’altra morte si palesa a rimescolare gli equilibri. Gli indizi confermano e fanno supporre che i delitti sono stati compiuti per mezzo della stessa mano, Scotland Yard brancola nel buio, Holmes sa che risolverà il caso ma che il merito andrà interamente alle forze dell’ordine. E chissà, certamente o quasi, non sbaglia. Un filo rosso da seguire, un susseguirsi di certezze e valutazioni che faranno combaciare ogni tassello del puzzle.
«È sempre sbagliato confondere lo strano con il mistero. Il crimine più banale è spesso il più misterioso perché non presenta aspetti nuovi o speciali da cui trarre conclusioni.»
Corre l’anno 1887 quando Arthur Conan Doyle pubblica il suo romanzo intitolato “Uno studio in rosso”, prima opera all’interno della quale fa il suo ingresso il famoso e di poi leggendario Sherlock Holmes coadiuvato dalla fedele spalla John Watson e già da questo primo scritto si evince e si delinea il carattere forte e vincente di una serie di opere che per ovvi motivi han finito con il lasciare il segno.
Se da un lato colpisce lo stile narrativo adottato che vede Watson narrare e una rottura degli schemi a partire dalla seconda parte del narrato quando il lettore viene catapultato alle origini del delitto in un’epoca e in un tempo lontano dai fatti, ad avvalorare la portata del componimento è altresì la struttura dei personaggi che sono costruiti in modo solito e accattivante. Ciascuno con i suoi caratteri principali, ciascuno con le sue debolezze e forze. La fusione spalla-spalla che si interseca tra i medesimi rende ciascuno parte indispensabile del mistero e fa sì che nessuna delle due voci principali prevarichi l’altra quanto, al contrario, l’accompagni.
A ciò si aggiunge un intrigo solido, funzionale, lineare, che non fatica a conquistare il conoscitore e che trattiene tra le pagine incuriosendo e coinvolgendo. Altrettanto interessanti sono le ragioni storiche che portano Doyle a stendere l’opera nonché tutti quei retroscena che accompagnano le sue opere, non solo gialle ma anche fantasy e storiche. Uomo di gran fantasia, lo scrittore è riuscito senza difficoltà a trasporre la sua genialità tra le pagine e a rendere uniche le sue storie in modo semplice e genuino.
Un primo capitolo da scoprire, leggere, assaporare e gustare in totale e completa tranquillità.
Sia per chi già conosce e ha letto del personaggio, sia per chi desidera avvicinarvisi, è e resta un titolo che merita di essere assaporato.
«Ormai dovrei sapere che quando si presenta un fatto che contraddice una lunga catena deduttiva è stato invariabilmente mal interpretato.»
Indicazioni utili
Paulini
Germania dell’Est. È qui che Norbert Paulini, libraio antiquario, ha radicato la sua fama che si estende sino e oltre i confini della sua Dresda. Scaffali, libri, libri, scaffali. Tesori inestimabili che pervadono gli ambienti ma che sono anche garanzia e tutela stante che i suoi lettori qui possono sempre trovare tesori inestimabili. Ma non sempre è semplice tirare avanti. La modernità segue un filo e un arco temporale che sembra non volersi fermare, il tempo scorre inesorabile, è l’autunno del 1989 e la politica con gli sconvolgimenti economico-sociali, il significato della caduta del muro di Berlino, e tutto quel che consegue e sussegue nella storia, segnano e scuotono le vite e gli equilibri. Internet, a sua volta, fa capolino nella quotidianità dell’esistere e fa concorrenza a chi vive in un’altra epoca per morale e rettitudine. Paulini resiste, fa il possibile. Fa appello a questo e alla sua morale. E se quella rettitudine fosse ella stessa attaccata dal mondo circostante? Come può questa ombra incidere sul vivere, sull’essere, sull’io? Come può trasformare il nostro pensiero in un divenire completamente opposto, in uno slittamento costante? Come può farci risvegliare reazionari e rivoluzionari quando in realtà la nostra è una indole umanista?
Quello proposto da Ingo Schulze è un titolo molto particolare. Anche un poco pretenzioso, se si vuole essere completamente obiettivi. La prospettiva proposta è interessante. Abbiamo un uomo solido nei suoi principi, che vive per i libri, che li assapora. Quel che avviene fuori, avviene fuori. Sembra non intaccarlo, sembra essere completamente distaccato dai fatti e dal vivere di un’epoca che non perdona e soprattutto diventa sempre più frettolosa e meno dedita ad attendere. Indossa un mantello che lo rende esente da tutto e questo può apparire quasi come forzato.
A ciò si aggiunge una narrazione molto autoreferenziale ma non esente da refusi. Nella mia copia a pagina 85/86 si fa riferimento all’euro quando siamo in un’epoca, il 1989, in cui l’euro inteso come moneta unica era tra i progetti della Comunità Europea ma non anche tra gli obiettivi raggiunti. La narrazione inoltre tende ad essere in più parti confusionaria. In primo luogo si perde su se stessa e soprattutto nella parte seconda finisce con l’arrovellarsi su un filo logico che si ingarbuglia, perde il nord, diventando illogico. Il conoscitore resta confuso, si sente come se non riuscisse davvero ad assaporare il contenuto e resta con una sensazione di incompletezza. Si chiede a più riprese quale sia l’obiettivo del narratore, ne riconosce certamente i meriti per l’idea e il progetto, ma si rende anche conto che è un titolo riuscito solo in parte. Lasciando questo senso di inappagamento, di inadeguatezza, di incompletezza, di amarezza, fatica ad arrivare e a conquistare.
Indicazioni utili
Lo scrittore e la fanciulla
John Maxwell Coetzee da sempre si offre al grande pubblico con scritti che sanno toccare tematiche diverse ma anche strutturarsi con una particolare originalità. Talvolta è proprio quest’ultima a far amare maggiormente o minormente un componimento stante che questa può determinare una maggiore complessità di lettura così come di corposità. E questo è quel che accade anche con “Diario di un anno difficile”, una delle opere più corpose e complesse dell’autore proprio grazie a questa struttura che riprende materiale autobiografico ma anche saggistica, musica, rivisitazione di testi.
Coetzee, premio Nobel per la letteratura, stupisce i suoi lettori oscillando tra argomenti di varia natura e al contempo con riflessioni eterogenee.
Quello che ci troviamo davanti potrebbe essere un vero e proprio canto corale. Un canto corale dove ogni personaggio è armonia e disarmonia. Al contempo abbiamo uno scrittore di origine sudafricana che vive in Australia, per scelta, scrivendo saggi di attualità per un volume che sarà intitolato Opinioni Forti. Ma lo scrittore ha una certa età, è anziano. Ha bisogno di qualcuno che scriva al suo posto e dunque perché non buttarsi su una giovane ragazza che vive nel suo stesso palazzo. E poi ancora c’è Alan, il fidanzato di Anya, che è ostacolo tra i due. Speculazione senza scrupoli, emblema della modernità e della società più attuale possibile (si noti bene che il titolo vede la sua prima edizione nel 2007).
Un triplice legame complesso, difficile, annodato, ai confini dell’illegalità. Al tutto si aggiunge una scrittura erudita, una struttura stratificata e tematiche che oscillano tra la terza età, la vecchiaia, il corpo, il corpo che cambia, la musica, la morte, la vita, la violenza, ere e generazioni che si susseguono, la solitudine. Fisica e mentale. La solitudine dell’io nell’individualità e nella collettività.
La fusione delle idee tra un anziano scrittore e una giovane donna che quasi sembra indossare i panni di una moderna Lolita. Le opinioni della giovane saranno linfa per lo scrittore e sarà proprio lei a stringergli la mano nel momento di maggior bisogno.
“Diario di un anno difficile” rappresenta una delle prove maggiori di Coetzee, è una lettura impegnativa anche a livello grafico e visivo, ma è anche uno di quei romanzi da assaporare con calma, poco alla volta, con i giusti tempi e con il giusto ritmo. La sua bellezza risiede anche in quelle disarmonie che lo caratterizzano e vivono.
Indicazioni utili
Tormenta interiore ed esteriore
Il suo nome è Selma Falck ed è un personaggio ruvido, graffiante, vincente per il suo essere imperfetto quanto eclettico. È una donna che ha errato e che ha pagato per i suoi errori, una donna che ha dovuto cambiare lavoro per far fronte a quei vizi che mai l’abbandonano, tra cui il vizio del gioco.
Tutto ha inizio da una tormenta che si abbattuta in Scandinavia. Selma non ricorda nulla. È infreddolita, debolissima, in fin di vita. Qualcuno ha provato a ucciderla e lei non può cedere e non può arrendersi. Chi ha provato a porre fine alla sua esistenza, evidentemente, pensava anche di esserci riuscito, erroneamente l’ha creduta morta. Chi avrebbe mai potuto pensare che sarebbe sopravvissuta a un incendio, percosse e fiato rubato?
Ma Selma non solo è viva, Selma non ha la minima intenzione di morire e di lasciar vivere chi le ha fatto del male. Deve solo riuscire a sopravvivere al freddo, alla fame, all’isolamento. Ma chi potrebbe aver avuto interesse ad ucciderla? E ancora, quali retroscena si celano dietro la morte del genero nonché accademico per shock anafilattico? Come sopravvivere a quella tempesta che si sta abbattendo sulla nazione e che riporterà a galla corruzione, intrighi internazionali, giochi di potere, scenari di violenza dal passato radicati in moti mai disillusi e tanto altro ancora?
«La rete è una croce e una delizia. Apre a una maggiore democrazia, ma allo stesso tempo crea le possibilità per limitarla. I social vengono usati da tutti, da un qualsiasi uomo della strada fino al presidente americano. In ciò è insito un grande pericolo. Parliamo prima di pensare. Siamo emotivamente incontinenti. Ci facciamo del male a vicenda. Uno strumento che in linea di principio è adatto a connettere e collegare le persone ci separa ancora di più.»
Anne Holt, ex primo Ministro Norvegese, specializzato in tematiche di profonda attualità è donna capace di focalizzare l’attenzione del lettore su problematiche mai scontate e capaci, al contrario, di far riflettere e meditare. Questo accade, ancora una volta ne “La tormenta”, opera del 2021 edita sempre da Einaudi Editore.
Tante sono le problematiche narrate tra queste pagine, problematiche che vanno dalla svolta conservatrice della Norvegia sino alle organizzazioni paramilitari e reazionarie che mirano alla democrazia intrinseca. Si parla ancora di odio, violenza, razzismo, nazismo, social e strumentalizzazione dei medesimi con anche notizie false.
Quella che viene delineata è una trama molto complessa che si snoda in un tomo altrettanto corposo e dove le carte vengono tra loro mescolate al fine di ricomporre un disegno più grande. Se da un lato è la protagonista a crescere, a evolversi, mostrandosi anche con le sue fragilità, dall’altro ad avere sempre più campo è la realtà sociale e culturale in cui le vicende vivono e si snodano.
Ancora una volta è la questione sociale a prevalere sul giallo ma nel complesso la lettura sa rendersi interessante e trattenere il lettore senza eccessiva difficoltà. Non deve spaventare la mole, la costruzione è tale da rendere papabile la lettura a un pubblico vasto e amante di trame stratificate e focalizzate sull’attualità.
Indicazioni utili
Una nuova indagine per Selma
Selma Falck, personaggio nato dalla penna di Anne Holt e conosciuto in prima istanza ne “La pista. La prima indagine di Selma Falck”, torna a colorare le pagine delle opere della scrittrice. Come noto la Holt è stata anche Ministro della Giustizia Norvegese prima che scrittrice di gialli del filone scandinavo. È una personalità molto attenta a quelle che sono le tematiche attuali e dunque non stupisce il fatto che nelle sue stesure vi sia sempre una componente di queste. Tratto comune che talvolta prevarica anche sull’aspetto giallo è il caratterizzarle in modo tale da renderle fotografie di cronaca attuale e costante. Ne “La pista”, infatti, abbiamo conosciuto la protagonista, scoperto un primo spaccato di realtà norvegese, fatto i conti con un mondo molto poco concreto e coerente ma anche ben poco cristallino quanto fatto di falsità, inganni e corruzione. Ne “La tormenta”, invece, ad essere oggetto di problematica prevalente era la svolta conservatrice norvegese con annesse organizzazioni paramilitari reazionarie che minavano al perseguimento delle piste democratiche. Ne “Lo sparo” ad essere trattata e affrontata è la problematica degli affidi e delle adozioni.
Selma Falck è chiamata ancora a investigare. Questa volta, oggetto del suo agire e investigare, è dettato da un omicidio che la vede coinvolta in prima persona in quanto un assassino misterioso uccide una sua cara amica, la parlamentare Linda Bruseth. Nel compiere siffatto atto delittuoso viene colpita e ferita la stessa Selma. Che obiettivo principale dell’omicidio non fosse la Bruseth quanto la Falck? Questo verrebbe da pensare se non fosse che altri due morti brutali si susseguono a questa prima occorsa. A dare una mano a Selma vi sarà l’amico giornalista Lars nonché l’ispettore Fredrik Smedstuen.
Nuovamente ci troviamo davanti a un titolo molto particolare e con un personaggio altrettanto eclettico quanto contradditorio. La Falck è una madre anaffettiva, una donna giocatrice d’azzardo, un’amica premurosa ma anche una nonna affettuosa. Sono proprio i suoi vizi ad averla costretta ad abbandonare la precedente carriera; venuti a galla, non poteva più ometterli al giudizio e al contesto sociale in cui era radicata. Il paradosso del personaggio è evidenziato altresì dalla, invece, profonda empatia ed emotività dei personaggi maschili, quali Lars che antepone i doveri di padre a quelli di professionista o, ancora, l’ispettore Fredrik, che da depresso a causa del divorzio, ritrova la forza di ripartire e ricominciare.
Lo scritto scorre abbastanza rapidamente tra le mani del lettore. Non conquista tanto per lo stile che si presenta fluente ma nella norma. Non particolarmente accattivante o capace di trattenere. La caratteristica principale che ne delinea la forza è data dalla caratterizzazione della società e dallo spaccato che descrive. Si evince di trovarsi davanti a un Paese orgoglioso di se stesso, della propria democrazia, di quelle che sono state le conquiste sociali, con un profondo senso di collettività ma che al tempo stesso non è esente da criticità e pecche quali la corruzione, una burocrazia sempre maggiore e ottusa, un popolo incapace di reagire davvero davanti alla spinta e progressione nazista in modo sempre più aggressivo e cruento. Questo aspetto prevale sulla parte gialla e non fa solo da sfondo.
Accompagna i fatti, conduce sino alla risoluzione del mistero ma non sempre riesce a dar il giusto vigore all’arcano. Il lettore è sì affascinato dallo scritto, dall’enigma e dal caso da risolvere; tuttavia, l’intreccio si presenta più debole e trattiene meno. Incuriosisce e prevale il panorama descritto che offre al conoscitore un aspetto da assaporare e conoscere.
Indicazioni utili
Tra il nebuloso e vago ma non concreto
Peter Handke è uno scrittore molto particolare. Da sempre i suoi titoli sanno essere esperimento e introspezione e sono dei viaggi. Viaggi veri e propri che accompagnano il lettore anche con una componente intuitiva più che narrata stante che al conoscitore è appunto indicata una via che sarà poi lui a scegliere o meno di intraprendere, interpretare e perseguire. Lo stesso vale per quest’ultima fatica dal titolo “In una notte buia uscii dalla mia casa silenziosa” ove a essere posto in essere è letteralmente un viaggio che prende campo e forma da un’esperienza misteriosa. Chissà, forse, addirittura solo immaginata. Un colpo. Un bosco. Un farmacista, Taxham. Un uomo d’altri tempi, un uomo che ancora si dedica alla preparazione dei farmaci in modo artigianale, con la cura e la dedizione di un tempo, con la passione e la calma del chi cerca il miglior rimedio per il proprio paziente. È inoltre un ottimo conoscitore di funghi. È lui ad essere destinatario di un accadimento che trova le sue radici nel mondo contemporaneo ma che eppure si sposta in quella che è l’assenza di ogni logica o schema.
Al lettore viene chiesto proprio questo: di viaggiare. Viaggiare cercando e seguendo le tracce del protagonista, del suo vagabondare per le città e steppe, alla ricerca di una figlia ma anche di una e più identità perdute. Una storia, si direbbe, nella storia in cui ogni personaggio è “usato” come voce per narrare di un’altra storia e di altre origini che finiscono con lo scontrarsi con il tempo e la realtà. Il lettore “perde se stesso” e viaggia al “fine di ritrovarlo”. Il tutto affrontando quelle domande ataviche che da sempre assillano l’uomo, a cui da sempre quest’ultimo cerca di dare risposta. Ma è possibile trovare davvero tutte le risposte alle proprie domande?
È un’idea originale quella proposta da Peter Handke tra le pagine di “In una notte buia uscii dalla mia casa silenziosa” ma è anche un’idea che fatica a calzare e a trasportare. La trama è altresì altrettanto originale, le ambientazioni non mancano ma il tutto è estremamente nebuloso. Il lettore ha la sensazione di trovarsi in un viaggio della mente, non si stupisce che il racconto sia in buona parte sfocato, che sia anche una scelta volontaria dello scrittore. Il problema è che in tutta questa vaghezza, in questa nebulosità, in questa dimensione mai a fuoco ma sempre sfuocata, il lettore fatica a lasciarsi trattenere e appassionare. La stessa scrittura è fredda, gelida. Distrae, non trattiene. La narrazione non segue un filo unico e lineare e questo può far perdere di intensità a chi cerca titoli invece che seguano una retta ben definita. Lascia la sensazione di non aver davvero capito. La lettura perde di mordente, la vicenda sembra non evolversi mai, questo rischia di far perdere di interesse e lascia un senso di freddo e amarezza nei confronti del conoscitore. Non per tutti. Una lettura che si presta a chi predilige i titoli di questo tipo ma non anche a chi invece desidera scritture con cui confrontarsi, da cui trattare ispirazione e insegnamento, da cui trarre beneficio e arricchimento seguendo però una vicenda che nasce, si sviluppa e raggiunge un epilogo concreto. Ecco, questo titolo è adatto a chi non cerca necessariamente il concreto.
Indicazioni utili
- sì
- no
Elena e Teseo
Siamo nel 1942, Gibilterra. La vita di Elena, libraia ventisettenne, a La Linea si sviluppa sulla spiaggia con il suo cane Argo. La guerra è uno sfondo. Si respira per le morti, per il profilo che osserva il mare. Per questo lento incedere, per le notizie che sopraggiungono silenti. Teseo, il veneziano, ha un sorriso ingenuo e ammaliante nel suo essere in missione, nel suo essere italiano con un patriottismo radicato e un cameratismo che si respira pagina dopo pagina. Due strade, due vite che sembrano destinate a percorrere binari paralleli. Due anime che quegli anni vivono e respirano tra dubbi, paure e incertezze di un futuro che non sembra arrivare. Elena e il suo Ulisse raccolto in spiaggia, consegnato dal mare.
Sono concreti i personaggi che abitano queste pagine. Personaggi che sono descritti con la loro umanità, che vivono di sogni e paure, che vivono di profumi della libreria, del mare, dei luoghi. Due protagonisti che vivono e abitano tra queste vie combattendo con discrezione, silenzio, tra emozioni e sensazioni. Due volti imperfetti e vincenti proprio per questa imperfezione che riporta al mito e alla leggenda così come da impostazione stessa dell’opera.
Ed è per mezzo le vite di questi due protagonisti che riscopriamo la Seconda guerra mondiale. Scopriamo dei sommozzatori dell’Orsa Maggiore che erano un corpo militare che grazie al coraggio e alle attrezzature dell’epoca riuscirono a sabotare le navi della marina inglese. Sommozzatori che erano un corpo militare, uomini e donne che hanno lottato per la loro libertà. Uomini e donne ricchi di ideali e moralità. Tra Storia, epica, epopea. Perché in questo titolo si respirano tempi che furono, tempi che sono il passato ma che sono anche il nostro presente.
«Lei non è tipo da malinconie o nostalgie, né da culto per i fantasmi; ha troppa consapevolezza della necessaria economia dei sentimenti.»
I personaggi sono presentati in modo tale da favorire l’immedesimazione e l’empatia, sono rivelati al lettore con le loro fragilità, paure ed emozioni. Al contempo è narrata una guerra, con il giusto lirismo, mixando al contempo miti ed eroi.
È innegabile il richiamo alla mitologia classica, si evince già dai nomi scelti per i protagonisti e dal gioco narrativo che è improntato nello sviluppo. Entrambi soli nel loro vivere, accompagnano il lettore tra vite che sembrano non doversi mai incontrare ma che sono accomunate dalla ricerca di una propria strada ed evoluzione.
Al tutto si somma uno stile fluido, rapido, che sa essere attuale e che riporta al nostro presente. La forza dell’opera si trova anche in questo, il trasportare tra uno ieri e un oggi che si percepisce e respira senza snaturarsi e senza sentire la differenza temporale. Al contempo il conoscitore vive quei luoghi e li fa propri. Nel corpo e nella mente. Una buona prova.
Indicazioni utili
Il giusto valore di una società antivalore
Non è così scontato parlare di un romanzo quale “La cena” di Herman Kosch. Premesso che man mano che la storia va avanti più sembra di vivere un fatto di cronaca quotidiana e di attualità, nonostante il titolo sia stato pubblicato per la prima volta nel 2009 in Olanda, l’autore riesce a scuotere le corde del lettore con sincera durezza e crudezza partendo da semplici ma fondamentali assunti.
Immaginiamo di avere un figlio. Chissà, qualcuno di noi già lo ha, altri lo desiderano. Immaginiamo che questo figlio sia un ragazzo di buona famiglia. Immaginiamo che sia andato a una festa con il fratellastro adottivo e il cugino. Consideriamo anche i soprannomi che si danno tra cugini e che già di base esprimono una forma di razzismo sotteso per le origini di colui che è stato adottato sempre per buona parvenza della famiglia, si ricordi, con padre in politica. Immaginiamo che questo figlio abbia barbaramente ucciso una senzatetto solo perché “puzzava” con i suoi rifiuti alimentari, solo perché il suo corpo era d’intralcio al prelievo di uno sportello bancomat necessario per prelevare qualche banconota per comprare l’ennesima birra della serata. Serata in cui anche il cugino che generalmente non beve si è scolato qualche alcolico. Immaginiamo che quanto occorso sia trasmesso prima in un programma televisivo, poi duplicato su internet. Il figlio in questione è altamente riconoscibile per il padre o la madre, forse un po’ meno per uno sconosciuto. Il figlio, di buona famiglia, calmo e dedito allo studio è lì che sghignazza senza problemi mentre getta su un corpo inerme tutto quel che trova. Ecco, se quel figlio fosse il nostro, come reagiremmo?
Due coppie di genitori. Cosa fare? Come comportarsi? Una cena in cui parlare e trattare. Una cena in cui decidere del da farsi e agire. Frasi brevi, dialoghi pungenti, analisi dettagliata del fatto e misfatto. Uno scritto che si muove piano, con un incedere lento e cadenzato che può far sorgere dubbi nel lettore ma che poi accelera e conduce per mano sino a quel che è stato e quel che è. Cosa è giusto, cosa è sbagliato? Cosa è bene che prevalga, la morale a favore di una vita giunta al suo termine per violenza altrui o la parvenza di un ruolo, di una “buona famiglia” che deve andare avanti nella sua scalata sociale e che non può certo perdere il suo ruolo e prestigio a causa di una senzatetto che già di per sé sarebbe deprecabile per vivere a danno dello Stato e che si è trovata al posto sbagliato nel momento sbagliato ostacolando dei giovani alticci?
Ma attenzione perché quel che qui più colpisce non è tanto e solo il fatto che accade quanto la psicologia dei personaggi, i rispettivi pensieri, i comportamenti e ancor più le rispettive decisioni. Tante le tematiche trattate che oscillano dall’educazione dei figli, la responsabilità dei giovani, le azioni, il rapporto tra fratelli, il razzismo, il razzismo tra fratelli, le gelosie e le invidie tra questi, il perbenismo sociale, le apparenze, le istituzioni, il futuro, il successo, il cosa si è disposti a fare pur di raggiungerlo, la diversità, la falsità del buon viso a cattivo gioco e tanto altro ancora. Un romanzo corposo, complesso, che scuote e resta. Lascia letteralmente il segno. Un titolo che smuove nel lettore molteplici riflessioni, che porta a immedesimarsi e anche a porsi domande sul come avremmo agito al posto dei soggetti interessati ma che fanno anche riflettere su quelli che sono i principi e i meccanismi mentali che ne regolano le sorti, le azioni, i giochi di potere, le volontà differenti e presunte. Un libro, ancora, di grande attualità e che perfettamente fotografa la nostra società. Da leggere.
«Più testimoni ci sono, meglio è. L’infelicità è costantemente alla ricerca di compagnia. L’infelicità non tollera il silenzio, specialmente quei silenzi imbarazzati che cadono quando si è soli.»
Indicazioni utili
BarLume in racconto
Sembra ieri che, in quel 2007, Marco Malvaldi approdava in libreria con il suo primo titolo dedicato al BarLume e alle avventure di questi eclettici ma inarrestabili vecchietti. E quanto tempo è trascorso da allora e quanto sono “cresciuti” i nostri vecchietti, talmente cresciuti da essere approdati anche in serie televisive tutte da scoprire e conoscere. Un barista, quattro vecchietti longevi e vispi, una località balneare con i suoi pregi e i suoi difetti ma con, certamente, un morto ammazzato a stagione. Il risultato sono dei gialli umoristici che strappano sinceri e vivaci sorrisi e che o si amano o si odiano. Tra queste pagine non accade di meno.
In “Sei casi al BarLume” sono racchiusi i primi sei racconti brevi comparsi in molte antologie stagionali edite da Sellerio Editore. Il lettore, dunque, si troverà davanti anche a storie che magari in passato ha già letto ma che comunque sapranno colmare la sua curiosità. Questo anche per il fatto di riuscire ad appagare quei buchi nella narrazione che magari in altre opere erano rimasti irrisolti. I personaggi poi scaldano il cuore, sono un sincero ritorno a casa, un modo per sentirsi “parte”. Tra pettegolezzo, ironia, indagini e tanta tanta tanta curiosità.
Ogni racconto può essere letto in completa e totale autonomia, regala autenticità, genuinità e anche leggerezza. Al tutto si somma uno stile rapido ed accattivante che dona ore liete al lettore. Non indimenticabile ma, per i suoi fini, piacevole.
Indicazioni utili
Mathilde e Léopoldine
«Ogni famiglia ha uno scheletro nell'armadio.»
Avvicinarsi a Georges Simenon è sempre un’esperienza unica. Nel bene e nel male. Questo perché i suoi lavori non sono mai “una cosa sola”. Possono essere un giallo e un romanzo d’introspezione, possono essere un romanzo d’introspezione e psicologico, possono essere, come in questo caso, un noir mixato a un romanzo che scarna ed eviscera l’animo umano più oscuro. Ed è bene ancora precisare che, la citazione di cui ab initio, riporta e trasporta già in quelle che sono le emozioni e vicissitudini presenti tra queste pagine dove, a far da padrona, è proprio una famiglia. Nei suoi pregi e nelle sue pecche.
Pochi i personaggi tra cui dominano le sorelle Mathilde e Léopoldine, un luogo unico ove le vicende si sviluppano, malumore e claustrofobia, un segreto racchiuso nel passato, un odio atavico che caratterizza le due donne, sono elementi cari all’autore che qui ritroviamo e che scopriamo man mano che la lettura prosegue.
Una narrazione che tiene viva la curiosità conducendo il lettore a cercare ed attendere un colpo di scena imprevisto e imprevedibile ma dove tutto è calibrato e ponderato al millimetro, anche nel suo non arrivare dell’evento scatenante e risolutivo. Il lettore è incuriosito da quanto accade, condotto per mano. E come sempre Simenon disegna un cerchio immaginario che si tratteggia e ricompone nel suo complesso solo nelle ultime pagine dove tutto trova collocazione sino a che il puzzle si delinea. Lo stesso odio che talvolta può risultare immotivato o giungere quale conseguenza di futilità ha in realtà un suo perché e si radica proprio in un tempo trascorso e stato, un tempo che si ripercuote nel presente come nel futuro.
«La cosa non sfuggiva a Mathilde, ma lei aveva già la sua battaglia da combattere. Aveva sempre avuto bisogno di un'idea fissa, di un'ossessione. Come altri rimpiazzano un amore con un altro amore, lei rimpiazzava un odio con un altro odio.»
Un odio, un rancore che si dipinge nelle parole delle sorelle, che arriva quasi a giustificare una meschinità e istinto di vendetta e crudeltà sempre pronto a infliggersi gratuitamente sul malcapitato di turno.
Non vince tanto, come romanzo, per quel che effettivamente si succede nell’evolversi, anzi. La trama, al contrario, è statica, si sviluppa in modo tale da far presupporre un colpo di scena che si pregusta ma non assapora. Per questo attrae e trattiene ma anche sorprende o può stancare.
Ecco allora che il vero delitto prende forma proprio in quel passato che prima o poi sembra essere destinato a tornare a galla.
Quello presente in queste pagine è un Simenon duro e crudo, un Simenon da gustare in solitudine, senza fretta, poco alla volta. Le sensazioni e le riflessioni si radicano così nel lettore, la vendetta emerge e come ogni vendetta si lascia gustare fredda. Non vi è spazio per sentimenti positivi, non vi è spazio per un riscatto propositivo. Sono pagine claustrofobiche e capaci di trattenere con pura e semplice naturalezza.
«E l'odio diventava tanto più spesso, tanto più vischioso, tanto più pesante, tanto più perfetto quanto più lo spazio si riduceva.»
Indicazioni utili
Bianca e Lili
«[…] Il tempo, che fino ad allora si era srotolato nell’urgenza delle sue stagioni inarrestabili, all’improvviso si cristallizzò, la vita mi investì con furia, sebbene al rallentatore, e mi sembrò di vivere dentro a un sogno. Quasi come se non mi riguardasse. Come se fosse soltanto un presentimento, un brutto pensiero. Invece la disfatta era lì, bruciante e terribile, e mi bastava allungare una mano per sentirne la ruvidità.»
Il suo nome è Bianca, bianca come il latte, verrebbe da dire, bianca come Biancaneve, appunto. Lei che è una bambina dal cuore dolce, lei che è una bambina che cresce in un mondo ostile, con un padre debole e lei, Candy. Candy che è frivola, Candy che la tratta come figliastra, Candy che al mattino parte con la sua macchina per lavorare e del resto si dimentica, che sia l’uomo che l’ha colta in casa, che sia la bambina a cui in più occasioni ha dato anche del vino pur di poter fare il suo e uscire, giocare ai casinò e chissà quanto altro ancora. Bianca ama il padre, però. È il suo eroe dalle ali spuntate, colui che le vuole bene e a cui lei più tiene. Se Bianca tuttavia cresce in un contesto che già in partenza è duro, con il tempo le cose non migliorano perché per quanto entrambi imperfetti ella perde proprio di quel padre tanto adorato quanto punto di riferimento.
E poi c’è lei, Lili. Lili che vive e cresce in un’altra epoca, donna data in moglie a uomo con cui condivide un segreto che potrebbe essere una macchia per quello che è un legame coniugale. E poi una sera come tante, lei che vive in Francia, si ritrova su un treno merci con altrettanti deportati. È diretta in uno di quei campi da cui non si fa ritorno. La famiglia del marito, in cui non vi è dialogo e dove subisce una violenza non verbale costante, ha solo cercato di salvare delle persone dalla deportazione. Il clima però non aiuta e la gente parla. Scruta. Osserva. Denuncia. Condanna. Condanna a un non ritorno dall’inferno. Cerca di salvarsi, anche a costo di vite altrui.
«Non sono abbastanza vecchia per bruciare i ricordi, ma ho l’età giusta per smettere di ipotizzare scenari futuri e aggrapparmi soltanto a ciò che è rimasto: che succede se, alla fine della tua vita, ti ritrovi come me a impugnare aria? E ti domandi ogni giorno: come sarebbe andata, se tu avessi agito diversamente?»
Due donne, due volti, due anime apparentemente distanti come epoca, in realtà vicine per storia e pensiero. Due donne che animano e colorano queste pagine fondendo e descrivendo la realtà del Novecento, uno dei secoli più importanti della nostra Storia. Ed è per mezzo dei loro racconti e delle loro voci che questa torna ad avere un volto vero e proprio. Ponendo in essere la forza della donna, ma anche di questo periodo così nefasto per tanti versi. Niente tra queste pagine deve essere dato per scontato, niente. Nemmeno i nomi. Basti pensare a Bianca/Biancaneve che con il suo candore rappresenta la favola, una fiaba che si infrange nel mondo reale.
Se da un lato la Storia che viene affrontata è quella della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto, dall’altro vi è quella dell’ultimo ventennio del Novecento con la strage di Ustica, la strage della stazione di Bologna, il terremoto dell’Irpinia e molto altro ancora.
Al tutto si somma una voce vivida, chiara, cristallina. Marilù Oliva accompagna il lettore e lo conduce per mano in un viaggio che si lascia gustare e cogliere. Tra riflessioni, finzione e verità storica. Senza indugi procede in una narrazione che muta il proprio registro narrativo in funzione delle voci narranti, delle storie narrate. Senza sbavature, senza mai tentennare. Un romanzo godibile, che si fa leggere con rapidità ma che lascia il segno e del quale non smetterò mai di ringraziare per essere stato un dono davvero gradito e capace di sorprendere.
«Il quinto livello, il più pervasivo e agghiacciante, era la disumanizzazione. Azzerato il senso di civiltà, deambulavamo con passo incerto come se fossimo continuamente sul punto di cadere – e guai a lasciarsi andare alla gravità, interveniva subito una guardia a spezzarti le gambe. Si sgretolavano la solidarietà, la cura dell’altro, il rispetto; la regola diffusa era farcela e, quindi, prevaricare.»
Indicazioni utili
Una carezza al cuore
Sin da “Gli insospettabili” Anna Melissari si è presentata come una protagonista eclettica e vivace, una figura da scoprire e capace di solleticare l’anima. Ancora una volta, con “La banda dei colpevoli”, il personaggio nato dalla penna di Sarah Savioli conquista il lettore e lo coinvolge senza difficoltà. Come sappiamo Anna, a causa di un problema neurologico ischemico, ha ricevuto il dono di poter interloquire con altri esseri viventi. Questo le ha consentito di entrare a far parte dell’agenzia Cantoni come collaboratrice con un ruolo sempre più stringente. Questo in particolar modo per quei casi che non sembrano avere risoluzione o ancora che, per qualche motivo, sembrano proprio non trovare luce. Quei casi in cui tutto sembra ovvio quando ovvio non è.
Il libro ha inizio con Anna intenta a subire una seduta psicoterapeutica tenuta da una professionista del settore. Obiettivo della stessa è quello di far prendere consapevolezza ad Anna su quelli che sono i suoi sensi di colpa, il suo sentirsi sempre inadeguata, inadatta e non all’altezza. Anche, se proprio vogliamo essere precisi, sul suo senso del dovere senza sosta e che nella sua ottica è l’unico modo per ottenere amore e affetto.
Prima entrare nel giallo occorre, ancora, delineare il quadro in cui essa si trova: attualmente il marito Alessandro si trova in Islanda tra geyser e muschi per lavoro, il piccolo Luca accusa la mancanza del padre e gli effetti di una scuola non sempre positiva, il padre deve essere seguito nelle cure per la sua malattia e infine la sorella è alle prese con il nuovo appartamento da arredare. Perché è importante questo focus? Perché sarà da qui che Anna entrerà nel vivo della prossima indagine.
Una giovane donna, Lucia Calici, nipote della vittima Ines di sessantasei anni, si rivolge all’agenzia perché qualcosa nella morte dell’amata zia proprio non le torna. Apparentemente questa sarebbe deceduta durante una rapina in casa ma nello scavare e osservare, emerge che molti sono i fantasmi e gli scheletri nell’armadio tra parenti. Asti, sospetti, invidie, vendette. È vero che la donna soffriva di gravi problemi di salute, è vero che una banda di malviventi si sta divertendo a tormentare il quartiere con rapine e sevizie ai malcapitati di turno, ma qualcosa proprio non quadra.
Da qui ha inizio l’indagine che la coinvolgerà ancora una volta con i suoi amici non umani. È bene precisare che Sarah tratta gli animali e le piante con molta attenzione e che ogni suo scritto oltre che ad essere intriso di una profonda componente morale che si fonde e mixa alla componente gialla è anche dotato di profondo acume e ironia. Non mancano infatti le situazioni esilaranti e divertenti come i personaggi eclettici ma tutti ben delineati. Tra tutti la gatta vegana dedita all’aiuto di topolini abbandonati.
A ciò si aggiunge la componente psicologica che regala ai lettori uno spaccato di riflessione su quello che è il moralismo umano e in particolar modo su quel senso di inadeguatezza che spesso ci accompagna. Ha dunque luogo un altro piacevolissimo viaggio in compagnia di Anna e di tutta la squadra, un viaggio che è una carezza al cuore che dona empatia e che invita a lottare contro il pregiudizio. Tra sorrisi e commozione, tra corde che solleticano il cuore. Come pochi autori sono in grado di fare.
Carl, il mio nome è Carl
«Questa è la situazione, Anna. Che degli altri non sappiamo mai abbastanza, però attacchiamo le nostre etichette comunque [...], comprendere ci aiuta ad affrontare il mondo in maniera più costruttiva, non pensi?»
Anna Melissari è una detective molto molto particolare. L’abbiamo conosciuta ne “Gli insospettabili”, opera prima a firma Sarah Savioli di cui ne rappresenta l’esordio in libreria per Feltrinelli.
In questo secondo appuntamento con Anna Melissari, detective che a seguito di una malattia ha iniziato a comprendere il linguaggio animale, la protagonista e il suo capo, Giovanni Cantoni, si ritrovano a dover investigare su un caso che riguarda, appunto, un testimone chiave.
«Ma c'è quello che vogliamo e c'è quello che riusciamo, fra loro c'è tutto quello che non possiamo.»
Oggetto dell’indagine è la morte di Luigi Barani, uomo che prima di passare a miglior vita, avrebbe fatto una ingente donazione alla badante ucraina, Oxana. Il dubbio è sul se questa lo abbia o meno spinto e indotto a porre in essere siffatto atto di liberalità o se, al contrario, questo sia stato spontaneo. È lei stessa a ritrovarne il corpo privo di vita. L’uomo, industriale in pensione, pare essersi impiccato nel suo studio. Andrea, il figlio, è convinto che la stessa abbia agito al fine di mutarne la volontà e vuole vederci chiaro.
Ad assistere all’omicidio è Carl, il Carlino. Quest’ultimo confessa ad Anna che forse non è stato un suicidio proprio proprio volontario. Racconterà il resto solo dopo aver trascorso una notte sfrenata con un Alano. Non stupisce la reazione di Otto, l’alano arlecchino di Cantoni, terrorizzato all’idea. Le indagini vanno avanti tra gag esilaranti e un quadro che prende forma mostrando in Oxana l’unica figura onesta. Pare proprio questa l’unica ad aver veramente tenuto un comportamento integerrimo con il defunto. Sembra proprio che tutti i coinvolti abbiamo qualcosa da nascondere, un qualcosa che in alcun modo vogliono che torni – o venga – alla luce.
«Si nasce, si cresce, si impara e si è chi si è. E noi genitori dovremmo semplicemente accettare, gestire il nostro stupore e capire che, con i nostri figli, il percorso che facciamo si arricchisce di molte più finestre sul mondo.»
Tra le situazioni familiari che coinvolgono la protagonista e un giallo da scoprire e risolvere ha luogo e svolgimento “Il testimone chiave”. Lo stile di Sarah Savioli resta il medesimo. Ancora una volta è fluido, rapido, cattura il lettore e lo accarezza anche nei sentimenti. Si tratta di uno scritto leggero che coinvolge e conquista con la sua semplicità e, ancora una volta, genuinità e purezza. A colpire in maggior modo, però, non è tanto il giallo quanto l’evoluzione dei personaggi. Rispetto a “Gli insospettabili” scopriamo dei cavilli e dettagli in più sulla protagonista ma anche sugli affetti che la circondano. Mentre il marito è preoccupato dell’attività della moglie, il padre è malato e la sorella Lavinia richiede sempre più attenzioni.
Se da un lato il giallo si presenta più debole, molto più stratificato è l’aspetto invece inerente alla vita dei protagonisti e soprattutto l’aspetto morale ed emozionale.
In conclusione, “Il testimone chiave” si presenta come uno scritto piacevole, rapido, di facile lettura, con cui staccare la spina ed emozionarsi. Un titolo ottimo non soltanto per le calde serate estive ma anche per quelle autunnali in cui il clima lascia sempre più posto a nuovi colori e nuovi scenari naturali.
«La mia vita mai come ora mi sembra essere un giardino incolto intervallato dalle bolle a loro modo ordinate dei momenti lavorativi e io sono un'Anna rotta in pezzi che porge parti differenti a momenti differenti e non si sente mai completa o anche soltanto sufficiente.»
Indicazioni utili
On the road
Torna in libreria Paola Barbato con “La cattiva strada” edito da Piemme. Si tratta di un vero e proprio “thriller on the road” che si sviluppa e svolge sulla A1. Le nostre autostrade, cioè, questa volta si prestano a teatro di un romanzo che vede quale eroe principale un antieroe per eccellenza. Il protagonista Giosciua Gambelli è un giovane mai cresciuto, in lite e disaccordo costante con la famiglia che per campare fa “il mulo” ovvero trasporta scatole di cui non conosce il contenuto. Queste gli vengono affidate da altri per conto di altri poco raccomandabili. Si sente un po’ come il suo idolo Clint Eastwood ne “Il corriere”. Dai capelli stopposi, il sorriso largo e sghembo, le basette lunghe, ricorda molto i personaggi dei cartoni animati e mai si è posto grandi problemi su quel che trasporta.
Ma cosa potrebbe succedere se, un giorno, una di quelle scatole, per una ragione o un’altra, dovesse per qualche motivo aprirla? Sorgerebbero molti ma molti problemi ed è questo quel che accade. Oltretutto il personaggio è il classico soggetto che la vita non la vive e che attende che altri prendano decisioni per lui. Subisce gli eventi e scarica la responsabilità, concetto del vivere e del crescere che non vuol minimamente conoscere. Ne rifugge, lascia appositamente che siano altri a decidere per lui, perché non vuole alcuna forma di questa. Non stupisce, dunque, che ridotto sia il suo gruppo di “amici” e tutti appartenenti al mondo degli autogrill, luoghi che tra queste pagine vengono descritti in modo molto attento e preciso.
La carta vincente di questo titolo è racchiusa nella trama abbastanza originale per ambientazione e nel ritmo narrativo che ben si mixa ai continui colpi di scena. Non può gridarsi al capolavoro ma nel complesso, per chi ama il genere, è un gradevole romanzo. Trattiene, distrae e regala ore liete. Radicato nella sua struttura, destinato a un pubblico preciso ma nel complesso apprezzabile.
«Sei finito in una cosa troppo grossa e troppo brutta per te, fratello, ma adesso la facciamo passare.»
Indicazioni utili
Carne, sangue, famiglie e fragilità
«Voglio dire che ci sono questa cattiveria e questa stupidità sconfinate e sono così radicate e, non so, ma sembra che stiano aumentando, come se la gente diventasse sempre più cattiva e più stupida e ne fosse sempre più orgogliosa.»
Classe 1995, “Carne e sangue” di Michael Cunnigham torna in Italia edito in una nuova veste a firma La nave di Teseo. Sono passati quasi trent’anni dalla sua prima pubblicazione, eppure, leggere questo titolo è per il lettore un tuffo puro e semplice nella nostra attualità per ritrovare tanti temi a noi cari quali le relazioni familiari. Ed è esattamente questo ciò che avviene tra queste pagine. Con un occhio acuto e una lente attenta, Cunningham ricostruisce per mezzo di una “famiglia modello” quelle che sono le dinamiche medesime e anche psicologiche sottese. Non mancano emozioni, cadute, sconfitte, vittorie, prese di coscienza, rimorsi, rimpianti, scoperte, perdita, vita, morte e anche un vero e proprio percorso di formazione.
E da cosa partire se non proprio da quel sogno che accompagna tutti coloro che sin da sempre che la memoria consenta sopraggiungono nel Nuovo Mondo con la speranza di poter costruire una vita in America con le proprie forze e con una compagna/compagno al proprio fianco con cui ricostruire una realtà solida ma che sia la concretizzazione di quel sogno di realizzazione? Questo è ciò che accompagna anche Constantine Stassos, immigrato greco, rozzo e poco dotto che qui sogna il riscatto sociale ma al contempo anche la realizzazione del proprio nucleo familiare con la giovane e bella italiana di seconda generazione Mary. Da questa ha tre figli: Susan, bella come poche, Billy, timoroso, fragile, insicuro e introverso ma anche prediletto della madre, Zoe, fragile ma dal temperamento indomabile e alternativo in un mondo che non sembra accettare cambiamento e strade differenti.
Da qui ha inizio una narrazione che prende per mano il lettore e lo accompagna in un mix di vicende che coinvolgono la famiglia nel tempo che passa. Se Constantine si mette in affari con uno spregiudicato e riuscirà a raggiungere la ricchezza costruendo case di scarsa qualità ma intrise di “decoro micro-borghese” e destinate ai nuovi arrivati nel mondo del benessere, Mary è confinata in una vita di coppia insoddisfacente e con un marito aggressivo, arrogante, primitivo, violento talvolta e soprattutto con il figlio maschio che tutto è tranne che il figlio maschio desiderato. Le sorti degli altri due figli saranno altrettanto particolari, Susan, la preferita, si sposerà con un compagno di scuola che non ama, Todd, anche e solo per fuggire a una realtà dove un padre-padrone millanta e minaccia di abusarla, Zoe, sarà preda di una New York che rischierà di schiacciarla e di profittare della sua fragilità. Ogni membro della famiglia vivrà delle sue cadute e vittorie. L’infelicità di Mary si fonderà con Billy che diventerà Will e dovrà fare i conti con la propria sessualità e le due figlie femmine che avranno a loro volta un figlio cadauna. Zoe con un uomo di colore di passaggio, Jamal, e Susan, Ben, bello e dannato con un epilogo che tutto fa tranne che risparmiarlo.
«Sapeva che le case degli altri erano piene di libri. Quelle case rintoccavano con la sicurezza maestosa di un vecchio pendolo.»
“Carne e sangue” è un romanzo semplicemente spietato, crudo, doloroso, stratificato. Il conoscitore è trascinato dalle pagine e nelle pagine. È coinvolto nelle realtà di ciascun personaggio, prova emozioni diverse e anche discordanti che lo portano a vivere un mix di realtà diverse a cui si sommano riflessioni differenti.
Un titolo corposo, dal registro letterario di alto livello, intriso di necessarie figure retoriche, che sa commuovere, colmo di lirismo e spietatamente realistico. Un libro che scuote, segna, demarca e marca. Una di quelle letture da assaporare, gustare, vivere. Perché sono loro le prime a chiedere di essere vissute, gustate ed assaporate.
«Noi abbiamo paura dell'amore, non credi? Diciamo di volere solo quello che riusciamo a trovare.»
Indicazioni utili
Un giallo sociale
Classe 1961 è Arnaldur Indridason autore islandese che ne “In silenzio si uccide” ci propone una indagine dalle tinte noir che vede quale protagonista, per la seconda volta, l’ispettore Erlendur, nostalgico che non comprende quel desiderio di uniformazione agli standard americani sposato e amato dai suoi connazionali. Perché perdere l’autenticità delle proprie radici radicandosi in quel di una dimensione dove viene prediletto il consumismo, il centro commerciale, il modo di dire della grande massa più che l’autenticità, si chiede.
Torniamo dunque in Islanda. L’indagine vede il ritrovamento del corpo di una ragazza senza vita e senza vestiti sulla tomba del Presidente Jòn Sigurosson, eroe nazionale. Il viso è estremamente truccato e la lettera J è tatuata sulla natica di questa. Da un primo esame le cause della morte sembrano essere riconducibili allo strangolamento. L’autopsia conferma le tesi iniziali degli inquirenti ma evidenzia anche un altro dettaglio: la ragazza non solo era anoressica ma faceva anche uso di droghe. Sul corpo sono molteplici i segni di violenza atti anche a comprovarne il consumo. Erlendur e Sigurrour Oli vengono investiti dell’indagine, una indagine che si dimostra lunga e complicata sin dai suoi primi albori. In aiuto allo svolgimento e risoluzione del mistero giunge anche Eva Lind che rispecchia i giovani sconfitti e disillusi e che frequenta le stesse brutte amicizie della ragazza. È così che vengono a scoprire della sua identità. La giovane si chiama Birta, aveva appena ventidue anni e non era originaria del luogo. Questo porta Erlendur e il Sigurrour Oli verso i fiori dell’ovest in una terra di piccoli villaggi di pescatori. Ma chi era davvero la donna? Perché è fuggita? Com’è entrata nel cerchio senza fine della dipendenza da droga?
Al tutto si somma la canonica scrittura rapida di Indrioason, dialoghi serrati e ben congegnati con ambientazioni nella Reykjavik di mezza estate. La sensazione è quella della claustrofobia. Con questo sole all’orizzonte che sembra sempre osservare e demarcare, che scruta e separa, che inquieta con le sue luci pallide. Ottima anche l’analisi sociale, lo svuotamento dei paesi, delle coste, la crescita sempre maggiore delle città, la civilizzazione e anche l’americanizzazione del territorio sempre più coinvolto e partecipe di una realtà non appartenente alle proprie radici.
Non forse il miglior giallo dell’autore ma, certamente, piacevole. Vince infatti non tanto per trama e intrigo dell’indagine quanto, al contrario, per contestualizzazione sociale e per contestualizzazione culturale. Molto interessanti, seppur amare, le considerazioni su quel mondo sommerso che viene riportato a galla, un mondo dove l’uomo-padrone può fare della sua vittima quel che vuole poiché alcunché della reietta interessa ad alcuno. Un mondo dove sembra vigere la regola secondo la quale se hai denaro sei padrone e puoi indiscriminatamente fare quel che vuoi. Di chi vuoi. Quando vuoi. Da considerarsi più un poliziesco che un giallo e da leggere anche per avere una panoramica a trecentosessanta gradi su quella che è la realtà non solo islandese.
Indicazioni utili
1513 risultati - visualizzati 151 - 200 | « 1 2 3 4 5 6 ... 7 31 » |