Opinione scritta da Belmi
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Non del tutto soddisfatta
Terzo atto della saga “Le Sette Sorelle” e pur non avendo letto gli altri, la Riley non mi lascia in “balia delle onde”, ma subito mi fa entrare nella storia. Le Sorelle sono tutte figlie adottive di Pa’ Salt, il quale le ha trovate ognuna in un luogo diverso. Dopo tutti questi anni d’idillio ad Atlantis (Svizzera), alla morte del padre (molto sospetta), ogni sorella ha ricevuto una lettera e delle coordinate per risalire alle proprie origini. Questa volta tocca alla “Sorella Ombra” ovvero a Asterope (nome legato alla costellazione delle Pleiadi) ma da tutti chiamata Star.
Star ha un rapporto di dipendenza reciproca con la sorella CeCe, al punto che pur avendo quasi trent’anni oltre a vivere insieme, dormono ancora nella solita camera. Le parole di Pa’ Salt, sono chiare, vuole che Star prenda in mano la sua vita anche perché “La quercia e il cipresso non crescono l’una all’ombra dell’altro”.
Star decide di seguire il consiglio e il primo indizio la porta davanti l’ingresso di una libreria che vende libri antichi e appena varcata la soglia, si trova davanti lo stravagante Orlando. Il secondo indizio è un nome, Flora MacNichol, cosa avranno in comune le due?
La Riley alterna passato e presente, se da una parte siamo nel 2007 con Star e il suo cambiamento interiore per uscire finalmente dall’ombra, dall’altro siamo nel 1909 e stiamo per conoscere la storia di Flora anche lei vissuta per molto tempo nell’ombra.
Sicuramente alle appassionate della saga, il mio voto avrà fatto un po’ storcere il naso, ma posso dire che la valutazione è motivata. Inizialmente l’approccio al romanzo è stato molto positivo, questa “Sorella” proprio mi piaceva; amante dei libri, della botanica e della cucina, davvero molte affinità con la sottoscritta. Ma quando andiamo a togliere queste passioni, quello che rimane è una ragazza che non ha mai vissuto la sua vita pur avendo ventisette anni. Una donna che fino a quel momento ha sempre condiviso tutto con la sorella e “di punto in bianco” decide di staccarsi da lei rimanendo però ambigua e senza mai affrontare di petto la situazione. Star si nasconde dietro gli altri, si espone poco in prima persona e se adesso non è la sorella a decidere per lei, ci pensano gli altri. Non ho visto il salto “dall’ombra alla luce” così netto. Amo le protagoniste schiette, le ambiguità non sono per me. Per quanto riguarda poi Flora, la mia delusione è stata quasi maggiore. Una donna che è sempre vissuta nell’ombra e ne ha passate molte, nel momento in cui doveva veramente far vedere di che pasta era fatta cede al compromesso e preferisce chiudere gli occhi invece di affrontare la realtà.
Se avessi dovuto valutare solo la prima parte del romanzo, il voto sarebbe stato sicuramente più alto. Parliamo di un romanzo di ben 640 pagine, che fino a metà mi aveva incantato e incuriosito. La Riley era riuscita a creare quell’atmosfera giusta che mi piaceva, con tutta quella campagna inglese sullo sfondo e il profumo dei libri antichi. Ma a un certo punto il suo saltare dal passato al presente invece di aggiungere, toglieva, lasciandomi insoddisfatta. Alcuni anni fa lessi “Il giardino degli incontri segreti” e rispetto a quello sicuramente la scrittrice è maturata ma manca ancora qualcosa.
A Hollywood hanno già deciso che questa diventerà una serie Tv, fossi in lei mi sentirei un po’ condizionata e probabilmente lo è anche lei..
Dopo oltre 600 pagine tira via sul finale. Partita bene ma arrivata male. Se ancora ci fosse qualche dubbio sulle protagoniste..alla semplice domanda di una giornalista che gli chiedeva quale personaggio preferisse, la Riley ha risposto Orlando e Mouse…strano perché le protagoniste erano ben altre.
Buona lettura!
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Come conquistare il mondo
Chi conosce Ignazio Silone sa cosa aspettarsi da un suo libro, ma chi come me se lo ritrova davanti per la prima volta, ne rimane doppiamente colpito.
“La scuola dei dittatori” è un libro che fa riflettere e soprattutto preoccupare per la validità (ancora oggi) dei suoi contenuti.
Siamo a Zurigo e l’anno è il 1939 e tre sono i protagonisti, abbiamo: Tommaso il Cinico che ricopre il ruolo di “insegnante”, soprannominato il Cinico “poiché egli aborre gli eufemismi ed ha l’abitudine di chiamare le cose con loro nome”; Mr Doppio Vu, aspirante dittatore dell’America e infine il Prof. Pickup, l’assistente del futuro dittatore, ideatore della pantautologia.
Il libro è suddiviso in capitoli ed ognuno di essi è dedicato ad un argomento fondamentale per un aspirante dittatore. Gli argomenti non lasciano niente al caso, si parla di colpi di stato, di complotti, dell’arte del doppio giuoco e su come suggestionare le masse.
Il nazismo con Hitler e il fascismo con Mussolini sono gli esempi più eclatanti, ma non gli unici.
Silone, tramite il “suo cinico,” non “le manda a dire” e il suo stile così diretto, esilarante e ironico, da una parte fa sorridere, e a volte proprio ridere, il lettore per il “ridicolo” così evidente; riflettendoci a freddo, è però un’altra la sensazione che rimane ed ha il sopravvento, ovvero la preoccupazione perché alla fine della fiera purtroppo mi sono resa conto che di dittatori o aspiranti tali ne è pieno il mondo.
Questo libro mi ha portato a profonde riflessioni e non posso fare a meno di consigliarlo. Ve ne lascio un piccolo assaggio:
“Tommaso il Cinico: Non so. Comunque mi permetto di riassumere il mio pensiero in questa forma: la prima condizione affinché prevalga un sistema totalitario, è la paralisi dello stato democratico, cioè, una insanabile discordanza tra il vecchio sistema politico e la vita sociale radicalmente modificata; la seconda condizione è che il collasso dello stato giovi anzitutto al partito d’opposizione e conduca a esso le grandi masse, come al solo partito capace di creare un nuovo ordine; la terza condizione è che questo si riveli impreparato all’arduo compito e contribuisca anzi ad aumentare il disordine esistente, mancando in pieno alle speranze in esso riportate. Quando queste premesse sono consumate, e nessuno ne può più, irrompe sulla scena il partito totalitario. Se esso non ha alla sua testa un imbecille, ha molte probabilità di arrivare al potere”
“Non credo che l’uomo onesto debba necessariamente sottomettersi alla Storia”.
Buona lettura!
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Non smettere di cercare
Dopo i fiori, il miele e i profumi, la casa editrice Garzanti si “getta” sulle pietre, dando la possibilità alla scrittrice Parenti di farsi leggere anche su carta. Questa possibilità non viene assolutamente sprecata dall’autrice lucchese che con grazie si conquista un posticino vicino alle sue colleghe di genere.
Siamo a Milano e la piccola Luna e il suo amichetto Leo stanno scoprendo, grazie al nonno di lei, l’importanza delle pietre. Con un alternarsi di presente e passato scopriremo che le pietre hanno una loro voce nascosta e solo chi ha il dono di sentirle ne può capire l’importanza.
Per il nonno Pietro, loro sono i suoi due diamanti che per trovare la luce dovranno scavare e non arrendersi e soprattutto non dovranno mai e poi mai “smettere di cercare”. Ma la vita non sembra seguire il binario che i due si sono prefissati e spesso seguire la via più semplice, sembra anche la più giusta.
Di Chiara Parenti avevo letto un eBook davvero molto divertente ed ironico; in questo romanzo invece ho trovato una scrittrice molto più matura, con una storia intensa da raccontare. Pur essendo partita con una dose non indifferente di scetticismo, la storia e le proprietà delle pietre mi hanno subito affascinata catapultandomi in un altro mondo, quello dove ““Luna, tu hai un dono”. Gli sfuggì un sospiro. “Senti le pietre, come senti le persone””.
La Parenti ci presenta una protagonista che come dice il nome, affronta varie fasi della vita. Toccherà il cielo, poi si eclisserà, ma l’importante è tornare a essere se stessi e brillare di nuovo.
Un romanzo bello da leggere, sicuramente più ideale per il genere femminile, e preparatevi, una volta iniziato sarà difficile da abbandonare. Non sono solo i colori, le dimensioni e le proprietà delle pietre a incuriosire, ma tutta la storia che ognuna di essere si porta dietro; i giacimenti, le loro origini, le terre dove sono nate e le mani che le hanno cercate. L’autrice riesce a renderle tangibili e leggendo la sua intervista a fondo pagina si comprende come sia riuscita a rendere tutto ciò possibile, perché è lei la prima a crederci.
Dimenticavo, ogni capitolo inizia con la descrizione di una pietra e delle sue proprietà..sinceramente ha fatto venire la voglia anche a me di approfondire l’argomento..
Inevitabile è la riflessione che la scrittrice manda: meglio una vita tranquilla e prevedibile con un quarzo o lasciarsi travolgere da un diamante, sapendo bene i rischi che si corrono?
Lo consiglio, ne sono rimasta piacevolmente colpita e spero di poter leggere presto altro di lei. È difficile abbandonare Luna, Leo, nonno Pietro (meraviglioso), Giada e tutti gli altri, siete stati davvero piacevoli compagni per questo viaggio di lettura e avete scaldato il cuore di una romantica.
Vi lascio con questa frase:
““Preparati, tesoro, perché da un viaggio non si torna ma come si è partiti”. Il nonno sorrise e dietro quel sorriso enigmatico intuisco che ci sono molte più cose di quante non mi abbia detto a parole. “E non preoccuparti per i bagagli, non servono a niente. Basta solo che tu dispieghi le ali, cavalcando il vento della paura. Devi mollare tutto e lanciarti nell’avventura, solo così potrai assaporare la sensazione meravigliosa della libertà. E dopo averla conosciuta, posso assicurarti che non saprai più come farne a meno””.
Buona lettura!
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I tedeschi erano tutti nazisti?
Todd Strasser, autore di questo testo, si ispira all’esperimento messo in atto da Ron Jones alla fine degli anni ’60 in America.
L’idea nasce quando l’insegnante (chiamato da Strasser, Ben Ross), si trova a dover spiegare alla sua classe, la storia del nazismo. La domanda che gli viene posta dai suoi allievi, è delle più elementari ma a cui tuttora non è facile dare una risposta, ovvero: “I tedeschi erano tutti nazisti? Come hanno fatto i tedeschi a restare a guardare mentre i nazisti massacravano la gente e poi sostenere di non saperne niente?”.
L’insegnante torna a casa e dopo un’attenta riflessione, decide di fare un esperimento all’insaputa della sua classe di storia contemporanea. Da li ha inizio qualcosa che corre il rischio di prendere il sopravvento e di sfuggire di mano.
“La forza è disciplina, la forza è Comunità”, questo diventa il motto dell’Onda, il movimento creato da questo esperimento che come tale avrà anche un simbolo e un saluto.
Todd Strasser spiega tutta l’evoluzione dell’esperimento e soprattutto la facilità con cui l’insegnante raggiunge i risultati. Se da una parte colpisce la pericolosità con cui tutto s’innesca, dall’altra c’è sempre una piccola speranza “Va tutto benissimo, però a me non sembra la cosa migliore per te, Laurie. Piccola, noi ti abbiamo cresciuto come un individuo”.
Da questo esperimento è stato tratto anche un film. La cosa che mi lascia un po’ perplessa è il fatto che tutti i partecipanti hanno taciuto sull’accaduto e solo successivamente è venuta fuori questa storia. Che l’esperimento abbia avuto delle conseguenze? Su internet le fonti che ho trovato raccontano ognuno qualcosa di diverso. Cosa sarà davvero successo in quella classe e in quella scuola? Sicuramente nella mente di quei ragazzini di quindici anni qualcosa è rimasto.
Se l’elaborato non spicca certo per stile, lo consiglio comunque, è una lettura per ragazzi, ma non fatevi ingannare, l’esperimento coinvolge anche gli adulti, e una lettura che va ad indagare la psiche umana, non può far male a nessuno.
Buona lettura!
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Il diavolo si deve rinnovare
Dopo “Il diavolo veste Prada”, non mi ero più avvicinata a questa autrice, ma la copertina invitante e la voglia di leggerezza mi hanno fatto ritrovare fra le mani “Il diavolo vince a Wimbledon”.
Non posso commentare gli altri libri che si frappongono fra questo e il primo, ma su questo posso dire la mia.
Se da una parte ogni lettrice di letteratura rosa sa cosa aspettarsi da questo genere di libri, dall’altro sta la capacità delle varie scrittrici di “mescolare” bene questi ingredienti “tipici” per fare sempre delle nuove storie che sia si prevedibili ma sempre interessanti.
Questo libro mi ha attirato per l’argomento, il tennis, anche perché il titolo originale dell’opera è “The Singles Game”, titolo che rispecchia maggiormente il romanzo, ma che per avere una maggiore copertura mediatica è stato cambiato. Per chi come me ha già letto l’altro “diavolo”, posso tranquillamente dire che qui di nuovo, c’è veramente poco.
La protagonista, Charlotte Silver, dopo un grave infortunio decide di rivoluzionare la sua vita e da “buona” del tennis si trasforma in una Guerriera. Come nell’altro libro, la personalità della protagonista viene completamente modificata (tanto da chiedersi se una personalità ci sia davvero..)da altri, arrivando a perdere quelle peculiarità del suo carattere che l’avevano sempre ben distinta.
La Weisberger fa “perdere” le sue protagoniste per poi farle ritrovare e questo può essere un bene se non diventa altamente prevedibile e in alcuni casi ridicolo. La cosa che però mi ha più deluso è l’aspetto del tennis. L’autrice insiste sulla fase degli allenamenti e sulla vita degli sportivi fuori dal campo, ma quello che avviene in campo durante una partita, quando ognuno dovrebbe dare il meglio di se e mettersi in gioco, viene analizzato in maniera superficiale. Si punta sui retroscena mondani e sulle rivalità più fuori dal campo che dentro.
Caro “diavolo” anche se il titolo del romanzo era diverso, il succo non cambia, devi rinnovarti. Sono molte le autrici di rosa che apprezzo e seguo costantemente, scrivere di rosa e rimanere originali è davvero difficile, ma visto le altre non impossibile. Senza dimenticare che costa ben 19,50 euro…meno male che c’è la biblioteca!
Buona lettura.
Le conseguenze delle proprie azioni
“Tutto ciò che voleva era lavorare, fare un bagno e dormire, finché non fosse stata ora di lavorare di nuovo. Ma era inutile, lo sapeva bene. Per quanto sgobbasse, per quanto umile fosse il lavoro che svolgeva, e per quanto zelo e fatica ci mettesse, per quanto avesse rinunciato a chissà quali illuminazioni intellettuali, a chissà quali insuperabili momenti sul prato di un college, non sarebbe mai riuscita a rimediare al danno. Lei era imperdonabile”.
Già il titolo dell’opera prepara il lettore “Espiazione”; inevitabilmente fa pensare a qualche colpa da scontare, da espiare appunto. Chi sia il colpevole può essere facilmente prevedibile ma la colpa da espiare arriva con calma, permettendo al lettore di farsi già personalmente qualche congettura. Non intendo addentrarmi nella trama, quello su cui invece voglio soffermarmi è lo stile dell’autore.
Il romanzo si suddivide in quattro parti, e devo dire che terminare la prima parte (circa duecento pagine) non è stato proprio una passeggiata. Se lo stile dell’autore colpisce subito il lettore, la lentezza e alcune digressioni non ne facilitano la scorrevolezza. Dalla seconda parte in poi è difficile invece discostarsi dalla lettura.
McEwan mostra la società del tempo senza “veli”, con tutte le sue incoerenze, le sue sfaccettature e con quell’alone di snobismo che caratterizza la famiglia Tallis. Ho apprezzato particolarmente la decisione dell’autore di approfondire, dal punto di vista psicologico, i vari protagonisti andando ad analizzarli in maniera minuziosa e profonda.
Questo libro porta inevitabilmente a delle riflessioni. Fondamentale è la descrizione da più punti di vista di una scena, com’è semplice fraintendere un comportamento visto da lontano e giudicarlo in maniera totalmente diversa dai protagonisti che invece l’hanno vissuto. Una cosa ancora più riflessiva è la “leggerezza” con cui i protagonisti compiono determinate azioni, azioni che poi giocheranno un ruolo importante nella loro vita. Per fretta, per omissione o per rabbia, sono molte le “opzioni” che possono portare a sbagliare.
Non sempre le colpe si possono espiare, ma prendere consapevolezza e tentare di rimediare può essere già un buon inizio. Lo consiglio, anche se la prima parte, che corrisponde a più di metà dell’opera, è molto lenta e non è facile entrare subito nella storia. Ho avuto la possibilità di vedere anche l’omonimo film che mi sento di consigliare, non ne rimarrete delusi.
Buona lettura!
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La radio: collega un milione di orecchi a un’unica
Il premio Pulitzer del 2015, Anthony Doerr, pubblicò nel 2014 “Tutta la luce che non vediamo”, uno dei libri più venduti di quell’anno. Il successo, dal mio punto di vista, è stato proprio meritato e posso dire che il premio gli è stato giustamente conferito.
I protagonisti sono due, da una parte troviamo Marie-Laure, una ragazzina francese che all’età di sei anni perde la vista; dall’altra parte troviamo il giovane Werner, un orfano tedesco. Siamo nel 1934 e se da una parte si pensa che la guerra non potrà più tornare, dall’altro c’è un paese che cova vendetta. L’autore decide di alternare i due protagonisti dando la possibilità di poter confrontare i vari momenti salienti. Per non farci mancare niente, alterna anche presente e passato.
Se da un lato vediamo la piccola Marie-Laure che combatte con la sua cecità “Che cos’è la cecità? Dove dovrebbe esserci un muro, le sue dita non trovano niente. Dove non dovrebbe esserci niente, la gamba di un tavolo le apre il solco in uno stinco. Le auto ruggiscono per strada; le foglie mormorano nel cielo; il sangue le fruscia nell’orecchio interno”; dall’altro c’è Werner, che scopre la sua passione per la radio “Aprite gli occhi, conclude l’uomo, e guardate tutto quello che potete prima che si chiudano per sempre, e poi un pianoforte attacca a suonare un brano malinconico che a Werner fa l’effetto di una barca d’oro..”.
Non voglio aggiungere altro sulla trama, questo è un libro che va scoperto, quello che posso dire e che se vi aspettate una grande storia d’amore o qualcosa che pensate sia prettamente femminile, vi sbagliate. Qui si parla di guerra e di due vite che si mettono in gioco. Si parla di tedeschi e francesi, soprattutto di quelli che sono dietro le quinte e anche di un padre che vive per la figlia.
Lo stile dell’autore è veramente sublime, l’unica cosa su cui posso fare un appunto è forse la scelta di cambiare continuamente scenario. Nell’arco di poche pagine, dalla Francia ci ritroviamo in Germania. I passaggi sono così netti e rapidi e sinceramente degli intervalli maggiori, invece di danneggiare l’opera, avrebbero dato un po’ di respiro al lettore. Per il resto non posso far altro che consigliarlo. Sulla guerra si è scritto tanto, questo libro la affronta in maniera più personale; è la vita dei protagonisti il vero fulcro, una vita che si evolve e che fa capire che: “”Il tuo problema” fa Friedrich “è che credi ancora che la tua vita sia tua””.
Vi lascio due estratti davvero molto significativi:
“Jutta bisbiglia: “Oggi hanno cacciato una mia compagna dalla conca dove facciamo il bagno. Inge Hachmann. Non potevamo farci fare il bagno con una mezzosangue, hanno detto. Non era igienico. Mezzosangue, Werner. Ma non siamo mezzosangue pure noi? Non siamo mezzi della mamma e mezzi del papà?””.
“Naturalmente bambini, il cervello è rinchiuso nell’oscurità totale, dice la voce. Galleggia in un liquido trasparente dentro il cranio, senza mai vedere la luce. E tuttavia il mondo che costruisce nella nostra mente è pieno di luce. Trabocca di colore e movimento. E dunque, bambini miei, come fa il cervello, che vive senza uno sprazzo di luce, a costruire per noi un mondo pieno di luce?”.
Buona lettura!!!
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Più per lettrici che per lettori
Dopo aver letto “Il rumore dei tuoi passi”, la diffidenza nei confronti di questa scrittrice era ai massimi livelli. La sapevo capace di raccontare storie tremende che più che scaldare il cuore, lo straziavano proprio. Quando mi è stato consigliato di leggere questo libro, pur scettica, non mi sono voluta tirare indietro e ho voluto dare una seconda possibilità a questa autrice.
Angelica è una ragazza di vent’anni con il corpo ed il viso completamente pieno di cicatrice (l’unica parte sana è la schiena), ma la parte più lesa di lei è all’interno di se, perché la persona che l’ha messa al mondo, sette anni prima, ha tentato di portarla con se nell’aldilà. Non ci è riuscita, ma quello che ha lasciato è una ragazza priva di amor proprio e sfiduciata verso il mondo. Chi poteva toccare quell’anima tormentata? Semplice, uno spirito libero che per ironia della sorte ha un problema di vista che lo porterà, un domani, a diventare cieco. Lui è Tommaso.
La D’Urbano scegli tematiche sempre molto forti, questa volta però mi ha toccato il cuore, coinvolgendomi e lasciandomi sperare (con lei il lieto fine non è così scontato). Angelica è un’anima fragile che piano piano si riaffaccia alla vita, non senza però ricadere più volte nel baratro. Il suo sviluppo da crisalide a farfalla non sarà così semplice e immediato.
Non è l’unica a cui verrà data un'altra possibilità, molti sono i personaggi secondari che si faranno strada all’interno della storia, che alla fine così secondari non saranno. Prima fra tutti Giulia.
“Non aspettare la notte” è un romanzo profondo, intenso e crea dipendenza. Una storia che forse vedrei meglio per un pubblico femminile. Non è un romanzo rosa, ma l’autrice ha quel modo di scrivere che sembra proprio indirizzato al gentil sesso. Le sue tematiche toccano corde molto sensibili, non lasciatevi influenzare dalla copertina, date una possibilità a questa storia, se la merita.
Non posso però non menzionare i vari errori grammaticali trovati durante la lettura e soprattutto avrei apprezzato qualche “sforbiciata” qua e la.
Vi lascio con questa frase:
“Non si può sostituire qualcosa di unico, non si può riempire un abisso che non vuole essere riempito, che sfugge, continua a spostarsi. Ci si può accontentare, ma certe cose ti mancheranno per sempre”.
Buona lettura!
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Total Khéops
“Questa era la storia di Marsiglia. La sua eternità. Un’utopia. L’unica utopia del mondo. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: “Ci sono. È casa mia”. Marsiglia appartiene a chi ci vive”.
Izzo ambienta la storia nella sua Marsiglia, una città di porto che come tale non ospita solo i marsigliesi, ma anche una gran quantità d’immigrati. Se all’inizio la compresenza di queste varietà era un valore aggiunto per la città, ultimamente la situazione non è più tale:
“I francesi, il pane fresco, se l’erano mangiato tutto negli anni Settanta. E il pane secco volevano mangiarselo da soli. Non volevano che gliene venisse rubata neppure una briciola. Gli arabi, ecco cosa facevano, rubavano la miseria dai nostri piatti”.
Fra gli immigrati troviamo Ugo, Manu e Fabio, tutti innamorati della stessa donna, Lole. Dopo una grande amicizia, ognuno segue la propria strada, chi all’interno della delinquenza e chi come Fabio Montale nella giustizia, diventando poliziotto. Ma ora del trio è rimasto solo Fabio, e due cadaveri a cui rendere onore.
Quello che l’agente Montale ancora non sa, è il totale casino in cui si troverà a navigare perché sia fra i buoni sia fra i cattivi..non è ben visto.
Izzo inizia la sua trilogia con un libro malinconico, spietato ma non crudo. Si sente l’amore per la sua città, così ricca e così povera. Una città il cui fascino è proprio legato alla sua incongruenza. Se il contenuto non è certo di altissimo livello, molto buono invece è lo stile che pur presentandosi poco accattivante, porta comunque il lettore a non abbandonare la lettura. Buono il primo, a breve gli altri.
Buona lettura!
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Un latitante per caso
Per chi come me che negli anni ’70 non era ancora nato, il “Caso Carlotto” non è qualcosa che si può ricordare, pur essendo stato uno dei casi più controversi e lunghi della giustizia italiana. L’unico modo per poterlo affrontare e capire, può essere quello di leggere “Il fuggiasco” che non parla del processo in se, ma delle conseguenze che ha causato a chi l’ha dovuto subire.
Doverosa è una premessa, che viene proprio dalle parole dell’autore:
“Queste note autobiografiche non riguardano comunque il processo, ma raccontano come il sottoscritto abbia vissuto per alcuni anni una sua diretta conseguenza – la latitanza – e il ruolo che ha ricoperto negli ultimi mesi della vicenda giudiziaria”.
E in particolare:
“Queste note.. vogliono descrivere la vita, i comportamenti e la quotidianità di chi latitante lo è diventato per caso. Un particolare tipo di fuggiasco che non è assolutamente pericoloso e pensa solo a sopravvivere e a conservare la propria libertà, giorno dopo giorno”.
Carlotto parla di se, di come la sua vita in poco tempo sia completamente cambiata e di come la decisione di diventare latitante lo abbia mutato profondamente. Anche perché Carlotto diventa sì un latitante, ma un latitante per caso, ovvero “La caratteristica del latitante per caso è di non disporre di mezzi e protezioni e di non sapere assolutamente nulla di come si fa a latitare”.
Con ironia ci presenta i travestimenti, gli spostamenti, le abitazioni, gli amori e le amicizie di un latitante per caso.
È il terzo libro di Carlotto che leggo (gli altri sono “Le irregolari” e “Il turista”) e ogni volta quest’autore mi sorprende per la capacità di trattare argomenti così diversi gli uni dagli altri. Questa volta ci ha donato molto di se e l’ha fatto con una genuinità e schiettezza che mostra come una giovane vita abbia combattuto, sofferto, perso la speranza e poi ritrovata.
Sotto tutta quell’ironia, non è facile celare il dolore di un uomo e di una famiglia che ha vissuto un’esperienza tale e che sa che quegli anni non potranno ritornare.
Questo libro permette di conoscere un aspetto dell’autore che non potevo minimamente immaginare; non è stato facile accostare l’uomo che vediamo oggi con l’immagine del ragazzino diciannovenne che si è visto crollare il mondo addosso.
Lo consiglio.
Buona lettura!
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La maledizione degli armeni
“Costantinopoli, sera del 24 aprile 1915. La grande retata ha inizio”.
Antonia Arslan decide di raccontare una storia, ma non una storia qualsiasi ma quella della sua famiglia. “Solo da vecchio – a bocce ferme – Yerwant aprirà con la bambina la teca della nostalgia”.
Yerwant è il nonno della nostra autrice; l’Arslan è nata in Italia e pur non avendo vissuto in prima persona “la maledizione degli armeni”, porta dentro di se un grande dolore.
Siamo nel 1915 in Turchia e gli ordini sono chiari:
“Qui si incide un bubbone, hanno spiegato gli ittihadisti, senza rancori personali, per far guarire il corpo ammalato della nazione, per fare pulizia. E a coloro che opereranno bene, molto sarà perdonato, e dato il libero godimento di ciò che possono spremere da questa impura sottorazza di preti e trafficanti”
“Nessuna pietà per donne, vecchi e bambini. Se anche un solo armeno dovesse sopravvivere, poi vorrà vendicarsi”.
“La masseria delle allodole” è il primo libro di una trilogia, seguito poi da “La strada di Smirne” e “Il rumore delle perle di legno”.
Se il libro mi ha colpito per il contenuto, andando, infatti, a toccare un argomento molto forte come il genocidio degli armeni, dall’altro mi ha sconcertato per lo stile. L’autrice non mi ha emozionato pur avendo tutte le carte in regola per farlo. L’Arslan sta, infatti, raccontando la storia della sua famiglia, della sua gente ed è stata anche insegnante di letteratura, ma pur avendo tutti questi elementi a sua disposizione resta sempre in superficie, non arriva e soprattutto mi ha trasmesso poco.
Il suo stile mi è davvero così poco congeniale che per il momento ho deciso di non continuare la lettura degli altri e in particolare mi è rimasta la voglia di approfondire l’argomento e per questo dovrò rivolgermi altrove.
Peccato, di questo libro avevo davvero sentito parlar bene, ma i gusti son gusti e ognuno ha i propri…
Buona lettura!
Così attuale da fare ancora più male
“Ma sono stanchi, e nervosi, e non vogliono perdere tempo, e alla fine, siccome lei esita ancora, le intimano senza garbo di sbrigarsi. Siete talmente tanti, si giustifica l’agente mentre le preme le dita nell’inchiostro. Siete come la sabbia del mare. Non finite più”.
A Melania Mazzucco viene chiesto di scrivere un libro sui profughi che arrivano o sono arrivati in Italia. Lei all’inizio non se la sente, si deve riprendere ancora dagli ultimi scritti, ma quando trova la forza per farlo, decide di scriverlo su una donna. Alla fine la trova, lei è Brigitte.
Il racconto inizia in una giornata fredda, siamo a Roma, alla Stazione Termini e Brigitte che proviene dal Congo, cammina senza meta. Non sa dove si trova e non capisce la lingua. Un incontro fortuito la incamminerà verso tutto quell’iter burocratico che ogni profugo si ritrova a seguire. Senza speranza, senza fiducia e soprattutto senza futuro. Brigitte da un giorno a un altro si è ritrovata senza niente, era una donna importante al suo paese, orgogliosa e coraggiosa. La sua vita non sarà facile ma avrà la fortuna di incontrare persone “umane”, che considerano lei e gli altri come persone e non solo come dei numeri da smistare.
La Mazzucco mostra il volto odierno dell’Italia, dell’Europa e dell’Africa. Il nostro è un paese che come sempre riesce a distinguersi soprattutto per le sue incongruenze e contraddizioni. Un’Italia che si divide in chi “da la carota e chi il bastone”. Mostra la vita di tutte quelle persone che ogni giorno troviamo nelle nostre città, nei nostri paesi e nelle nostre vite; racconta il loro passato, cosa possono aver subito e soprattutto cosa si aspettano.
Spiega anche come il mondo dei profughi è cambiato:
“Quando ha dovuto dirgli di no, un ragazzo marocchino lo ha maledetto, chiamandolo razzista di merda. Razzista, a lui. Capita sempre più spesso. Quando è arrivato nel 2002, e per svariati anni, ascoltavano con rispetto ciò che dicevano e si fidavano delle sue parole. Adesso credono di sapere tutto – hanno ricevuto informazioni prima di partire, e non si rassegnano ad accettare l’idea che siano false e ingannevoli”.
Brigitte è una delle tante ma la sua storia colpisce, ferisce e non si digerisce. Posso non aver apprezzato molto lo stile della scrittrice ma comunque le sue parole, anzi le parole di Brigitte, arrivano direttamente al cuore o almeno al mio. Sicuramente mi ha reso più consapevole e l’attualità del testo (Brigitte è arrivata nel 2013 e nel Post Scriptum parliamo del 2016) fa male, anche se molti ci “marciano”, altri hanno alle spalle storia come quella della protagonista e la domanda che si è formata nella mia testa e ancora non ha trovato risposta è: riusciranno a dimenticare? Potranno tornare a sorridere come una volta?
Grazie Mazzucco, “Io sono con te” racconta un periodo buio che però lascia spiragli per il futuro.
Buona lettura!
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Niente brividi in Svezia ma tanta solitudine
Ultimo libro di Henning Mankell che nel 2015 si è dovuto arrendere a una malattia. Pur essendo stato catalogato nella categoria Gialli/Thriller/Horror, questo romanzo se ne discosta in maniera netta.
Siamo nell’arcipelago svedese, l’autunno incalza e la routine dei pochi abitanti, rimasti dopo la partenza dei turisti, viene scombussolata dall’incendio della casa del protagonista.
Lui, il dottore, è un settantenne che per un riflesso notturno è riuscito a scampare all’incendio; le cause ignote, innescano una serie di reazione che poche hanno a vedere con il brivido e la suspense.
“Nella notte, nel giro di qualche ora, la mia esistenza era cambiata a tal punto che d’un tratto mi mancava tutto. Non avevo neanche un paio di stivali di gomma completo”.
Fredrik è un uomo singolare, dottore in pensione, si è rifugiato nell’arcipelago svedese ereditato dai nonni dopo un intervento non andato bene. Non si è mai sposato ma si è trovato padre di una figlia già adulta con cui ha un rapporto molto particolare e non semplice. Ogni mattina si sveglia e s’immerge nelle fredde acque svedesi, cura malattie immaginarie e non dei suoi compaesani e ha un odio profondo per i prodotti made in China. La perdita della casa lo porterà a rivalutare la sua vita e soprattutto la sua solitudine.
Mankell ci porta nell’autunno e nel freddo svedese, in un mondo in cui ci si muove in barca ed essere proprietari di un’isola è la normalità. Una vita così diversa dalla nostra e per questo molto affascinante.
Il romanzo parla della vecchiaia e queste parole ne rendono bene il senso: “Il sole splendeva attraverso una leggera foschia che copriva la città. Mi colpì il fatto che le persone che vedevo con poche eccezioni, erano più giovani di me. Non mi era stato così chiaro: mi trovavo su un confine umano, facevo parte di quel gruppo che si stava allontanando dalla vita”.
La solitudine attira persone simili a noi, altri, che della solitudine hanno fatto il loro marchio di vita. La speranza, come ci ricorda l’autore, sta in una nuova vita.
Un romanzo introspettivo, profondo e molto svedese. Solitudine, anzianità e cambiamenti.
Per chi fosse alla ricerca del brivido dei romanzi del nord, sconsiglio questa lettura; per gli altri che invece avessero voglia di una lettura lenta che però scorre bene, scritta con un buono stile, possono affrontare queste 425 pagine senza paura.
“Era già la fine di agosto.
Presto sarebbe arrivato l’autunno.
Ma il buio non mi faceva più paura”.
Buona lettura!
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V.S. veda quello che vole che dica, lo dirò
Durante lo studio per la preparazione della parte dedicata alla peste dei “Promessi sposi”, il Manzoni si ritrovò fra le mani un processo legato alla storia della Colonna infame. Voglio proprio iniziare questa recensione con la premessa del Manzoni stesso:
“Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagato la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d’aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de’ supplizi, la demolizion della casa d’uno di questi sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un’iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell’attentato e della pena”.
L’estratto del processo giunse fino al Manzoni perché fra i vari accusati ci fu anche una persona importante che fece stampare le sue difese e una parte del processo.
Il Manzoni ripropone una vera e propria telecronaca dei fatti, correlata da parti in corsivo estratte direttamente dallo stampato.
Quello che colpisce, oltre agli estratti che mostrano come “l’armi eran prese dall’arsenale della giurisprudenza; ma i colpi eran dati ad arbitrio, e tradimento”, una vera e propria caccia alle streghe che si trasforma in una caccia agli appestatori.
Nella “Storia della Colonna Infame”, sono molteplici i collegamenti con Verri, Beccaria e Farinacci. Quello che differenzia il Manzoni da questi altri grandi nomi è l’umanità, la psicologia e il sarcasmo che il milanese inserisce nella sua storia.
Si parte si da una base storica, ma la differenza sono i commenti e gli interventi dell’autore che fra le altre cose pensa anche a tutto il peso delle ripercussioni che un processo del genere ha portato.
“Storia della Colonna Infame” lo consiglio agli appassionati di storia giuridica che come me hanno apprezzato Beccaria e Verri e anche a chi volesse leggere un Manzoni dedito a far chiarezza e giustizia.
“Spegnere il lume è un mezzo opportunissimo per non veder la cosa che non piace, ma non per veder quella che si desidera”.
Buona lettura!
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Se piangiamo accettiamo. Non bisogna accettare
La caratteristica principale di “Uomini e no”, di Elio Vittorini, è che incominciò a circolare già poche settimane dopo la liberazione. Era infatti stato scritto dall’autore durante il periodo in cui Milano ricopriva un ruolo importante prima della fine della guerra. Probabilmente è il primo o uno dei primi libri in circolazione sulla Resistenza.
Quello che lo può differenziare dagli altri è che questo non è il solito resoconto o racconto in prima persona. Vittorini decise di scrivere un “romanzo” molto particolare, intervallato da pensieri personali. Inoltre il momento stesso in cui l'autore l'ha scritto ("a caldo") rispecchia le emozioni e pensieri che un uomo può provare in un determinato momento della vita.
Il suo protagonista è Enne 2, uno dei capi della Resistenza, siamo a Milano nell’inverno del 1944. Se da una parte risalta il ruolo dei combattenti, dall’altra viene rappresentato il dramma interiore che sta vivendo il protagonista.
In “Uomini e no” i capitoli sono ricchi di dialoghi che scorrono velocemente, intervallati da parti scritte in corsivo. La parte in corsivo rallenta un po’ la lettura, ed è quella in cui l’autore comunica direttamente con l’io interiore del protagonista. Vittorini interagisce, commenta e fa riflettere Enne 2 e noi insieme a lui.
L'autore, pur lesinando con le descirzioni, riesce comunque a rendere una Milano tangibile, reale e profonda. Con i suoi dialoghi così secchi, con quelle frasi ripetute, non fa smarrire il lettore, ma lo lascia ancorato alla pagina e lo fa riflettere. Gli interrogativi e i pensieri che accompagnato Enne 2, accompagnano anche noi. Possiamo essere uomini oppure no. Sono poche le azioni che si svolgono durante la narrazione, ma restano indelebili, in particolare c’è una scena che mi ha toccato profondamente.. “Sembrava che volesse tutto di quell’uomo sotto i suoi colpi. Non che per lui fosse uno sconosciuto. Che fosse davvero una vita”. Pur essendo un romanzo, molto del pensiero dell’autore è all’interno del libro. Le frasi lasciate in tedesco rendono la parte ancora più reale.
Non posso fare a meno di consigliarlo, e voglio lasciarvi con due parti tratte dal romanzo:
“Un uomo deve avere una compagna. Tanto più deve averla se è uno dei nostri. Dev’esser felice. Che cosa può sapere di quello che occorre agli uomini se uno non è felice? Noi per questo lottiamo. Perché gli uomini siano felici”.
“Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel segno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un’altra donna: questo era il modo migliore di colpire l’uomo. Colpirlo dove l’uomo era più debole, dove aveva l’infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la costola staccata e il suo cuore scoperto: dov’era più uomo”.
Buona lettura!!
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Un Tabucchi insolito
Voglio iniziare questa recensione con le parole che si trovano a "Nota a" di questo romanzo:
“L’aveva scritto nel corso di alcuni anni; ne aveva parlato con convinzione in varie interviste; l’aveva dettato integralmente a Vecchiano nel 1996; l’aveva definito, in un testo di finzione, “un romanzo strambo, una creatura strana come un coleottero sconosciuto rimasto fossilizzato su un sasso”. Nel frattempo si era messo a scrivere altre cose…l’aveva dato in custodia a un’amica cara; infine le aveva chiesto di restituirglielo perché lo voleva rileggere, forse lo voleva pubblicare. Ma era l’estate del 2011 e nell’autunno si ammalò”.
Scusate questa lunga premessa ma serviva a rendere omaggio a questo grande autore e a questo "strano" romanzo. "Per Isabel" racconta il viaggio di un uomo alla ricerca di informazioni su Isabel, una donna di cui si è perso le tracce molti anni fa.
Come mai la cerca e come mai ognuno ha una sua versione? Chi era veramente Isabel? Sono molti gli interrogativi che il lettore si pone. Il suo viaggio parte da molto lontano fino ad avvicinarsi sempre di più:
"Purtroppo non ho idea di chi fosse, non conosco il suo nome, ma può darsi che sia ancora vivo, forse può stringere ancora un cerchio attorno alla persona che cerca, io non saprei dirle di più.."
Come si può capire dal titolo completo "Per Isabel. Un mandala", la ricerca del protagonista è suddivisa in circoli che vanno sempre più restringendosi intorno alla figura di Isabel e richiama molto lo schema di un mandala.
Per chi come me ha letto "Sostiene Pereira", non è facile far ricollegare le due opere al medesimo scrittore. Se da una parte lo stile dell'autore è ben definito e sublime in entrambi, quello che può un pò stupire è la seconda parte di questo romanzo. Tabucchi va oltre. Se la prima parte si basa su scoperte tangibili e verificabili, nella seconda si va oltre. Mistero, animisti, telepatia e molto altro rendono questo romanzo insolito o come l'ha definito lui "strambo".
Lo consiglio sicuramente perché leggere Tabucchi non è mai una perdita di tempo, solo non vi aspettate il solito "scrittore" di "Sostiene Pereira".
Buona lettura!
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La confessione di una donna
“L’indomani all’imbrunire ero di nuovo in umile attesa davanti alle tue finestre, in attesa, come lo sono sempre stata per l’intera mia esistenza, davanti alla tua vita che mi era preclusa”.
Una donna, ormai vicina alla fine, decide di raccontare la sua vita in una lettera e spedirla all’uomo che ha sempre amato ma da cui non è mai stata riconosciuta, da qui il titolo del libro.
La bellezza di scrivere una lettera è quello di non poter mai venire interrotti e di sentirsi liberi di raccontare quello che in tutta una vita non siamo riusciti a dire.
Quello che ho particolarmente apprezzato nella scelta di Zweig è quello di presentarci una donna profondamente immersa in un amore a senso unico ma comunque lucida e consapevole dei difetti dell’uomo dei suoi sogni. Nelle sue parole si può percepire quest’amore così profondo, e visto la fine, anche deleterio, ma che comunque ha sempre guardato in faccia la realtà pur sperando sempre in altro.
Impossibile non pensare allo stato d’animo in cui la protagonista ha scritto questa lettera e non da sottovalutare, anche le conseguenze di chi si è ritrovato fra le mani una confessione del genere e non può più porre rimedio ai proprio errori. Straziante in entrambi i casi.
Per chi avesse trovato questa lettura piacevole, com’è successo a me, posso consigliare anche la visione del film “Lettera da una sconosciuta” del 1948. Il film è in bianco e nero e il nostro scrittore è diventato un musicista e con l’eccezione di alcune modifiche, (visto il periodo della pellicola, sono state modificate alcune parti rendendo un pò più "nobile" la nostra protagonista, e un inizio e un finale che rendono il protagonista maschile degno di “onore”), si attiene molto alla trama. Quello che manca è la scena per me definita “madre” ovvero quando lui le mette i soldi in mano (per chi ha letto il libro, sa bene di cosa parlo).
Non posso fare a meno di consigliarlo, lo stile è molto elegante e la lettura scorre veloce e bastano poche ore per terminarlo.
Buona lettura!
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Un inizio molto sottotono
“Dopo quattro giorni d’attesa e di inutili pedinamenti forse aveva individuato la preda che avrebbe reso indimenticabile quella vacanza”.
“Il turista” è il primo libro della nuova serie di Carlotto che vede come protagonista l’ex capo della omicidi, Pietro Sambo, diventato ex per un “errore”. Nella sua bella Venezia si aggira il Turista, un serial killer con il modus operandi molto insolito. Come l’ex capo della omicidi, anche il Turista commetterà un errore e da lì una serie di eventi renderanno Venezia una città meno sicura.
L’autore è conosciuto soprattutto nel “mondo” del Noir, anche se io l’ho potuto apprezzare con "Le Irregolari. Buenos Aires Horror Tour”. Questo suo nuovo romanzo è difficile da classificare. Non è un noir, non è un giallo e direi neanche un thriller. Quello che posso dire, che sicuramente lascia perplessi il lettore o almeno questo è accaduto a me.
Una trama che aveva i presupposti per essere davvero allettante, con una Venezia tutta da scoprire, si trasforma in breve in qualcosa che da scoprire non ha proprio niente.
La trama e tutto quello che gira intorno ad essa, infatti, viene “spiattellata” volta volta dallo scrittore. Non servono intuizioni, il dubbio non potrà palesarsi e l’adrenalina e la suspense possono tranquillamente rimane a “dormire”. Oltre a dirmi praticamente tutto, Carlotto crea anche un protagonista che personalmente ho trovato “poco simpatico”.
Quando arrivi al finale poi..arriva il colpo di grazia…il libro rimanda già a un successivo e l’unica cosa che pensi, è che al momento la voglia di leggerne un altro proprio non ti sfiora.
Buona lettura
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Connessioni impreviste
““Perché la meraviglia è imperfetta?” Lui la fissa, in attesa. Lei si chiede se dovrebbe cercare una risposta accurata, o cavarsela con una battuta; alla fine parla senza riflettere.“Perché non dura””.
Siamo in Provenza, l’autunno incalza e Milena Migliari non demorde e continua a preparare i suoi gelati, la stagione turistica è finita, ma lei è sempre lì nel suo laboratorio della gelateria “La Merveille Imparfaite”, creare nuovi gusti è una necessità, non può farne a meno. Un blackout mette a rischio il suo lavoro quotidiano, quando la disperazione sta per coglierla, arriva un’ordinazione imprevista e lei parte con il suo furgoncino.
Il gelato va consegnato in una villa di proprietà di Nick Cruickshank, la rockstar dei Bebonkers.
Milena è una donna perfezionista, istintiva, vive in un mondo fuori dalla realtà e la sua passione sono i gelati, non quelli classici ma quelli creati di volta in volta da lei, al punto che lo stesso gusto la volta dopo non può avere il solito sapore. La sua vita è a un bivio, la sua compagna vuole avere un bambino da lei.
Nick è paranoico, bisognoso di affetto e di attenzione, è alla continua ricerca di se e alla soglia del suo terzo matrimonio e di un concerto con la sua band, sono molte le domande che si pone.
Con le sue 366 pagine “L’imperfetta meraviglia” di Andrea De Carlo racconta, nell’arco di pochi giorni, la storia dell’imperfezione, di come dal passato e dai nostri errori possiamo imparare molto e come un incontro può sconvolgere le nostre esistenze.
Di come possiamo essere cosi simili e così “sbagliati”. Di come molte volte è la vita che decide per noi, ma noi possiamo metterci del nostro perché “La vita è troppo breve per sprecarla a realizzare sogni altrui”.
Un libro che va assaporato e ascoltato, fra una cucchiaia di gelato e un accordo rock non sarà semplice capire come mai questa storia che sembra dire così poco, in realtà racconta tanto. Sembra banale, prevedibile e lenta ma la mente non se ne stacca, non molla, torna sempre al libro e quando sei quasi all’arrivo, vorresti fermarti per non farla terminare, per poterla gustare ancora un po’.
Non conosco De Carlo come scrittore ma ho letto che questo libro è un po’ fuori dal suo genere. Non potendo fare un confronto con gli altri posso dire che con questo mi ha conquistata, mi ha tenuta incollata alle pagine e seppur convinta che il contenuto non sia di altissimo livello, le emozioni che ne sono scaturite sono invece molto intense.
““Ecco la meraviglia imperfetta”. Lui sorride ancora. “Al grado più alto di perfezione che l’imperfezione potrebbe mai raggiungere””.
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Riflessivo
Domenico Starnone con il suo romanzo “Lacci” presenta quello che purtroppo, oggi succede spesso, ovvero che il marito lasci la moglie per una donna molto più giovane. Tutti i lacci che un tempo tenevano legati la famiglia si allentano sempre di più e quello che doveva essere un “per sempre” viene messo a rischio dalle scelte di un uomo. Ma dall’altra parte c’è una donna che non si arrende e che pur di far tornare il marito è disposta a tutto.
Una cosa è innovativa, gli anni, Starnone ambienta il suo romanzo fra una Napoli degli anni ’70 e una Roma di oggi.
L’autore decide di dare voce ai suoi protagonisti; il libro infatti è composto da tre monologhi, si parte con la moglie “Se tu te ne sei scordato, egregio signore, te lo ricordo io: sono tua moglie”, si giunge al marito “Queste parole sono state le prime a capitarmi sotto gli occhi, quella notte, e subito mi hanno riportato a quando me ne andai di casa perché mi ero innamorato di un’altra”, e si termina con i figli, in particolare con la figlia “Sono state ore leggere, forse le più lievi mai vissute in questa casa”.
Quello che può mancare in un monologo, viene poi compensato con l’altro rendendo alla fine molto chiaro lo schema.
Le dinamiche ci sono tutte, quello che i nostri protagonisti non hanno valutato sono le conseguenze. Sono giorni che ho finito questo libro e ancora non mi sono data pace, lo spreco di vite, vissute per sentimenti non puri e senza sincerità, ci ricordano che di vita ne abbiamo una sola e che non dobbiamo sprecarla.
Starnone è spietato, diretto e forse l’avrei preferito un po’ più elaborato. Un’opera riflessiva che in parte mi ha ricordato “Il disprezzo” di Moravia, non tanto per la trama ma perché in entrambe le opere, è l’assenza di dialogo che la fa da padrone. Se da una parte “tifi” per la famiglia, dall’altra ti chiedi se la scelta sia proprio quella giusta e che forse i “lacci” a un certo punto, vanno sciolti, perché quando si tirano troppo, poi è difficile farli tornare come prima.
I libri hanno il bellissimo dono di ispirare riflessioni, di farci entrare nella storia, di trarre le nostre conclusioni e di darci molti insegnamenti, “Lacci” non può lasciare indifferenti e anche dopo averlo chiuso vi accompagnerà per un bel po’…
“E non solo sentii per la prima volta nella carne quanto l’avevo scempiata, ma mi resi conto con la stessa insopportabile intensità che mentre io ero stato attento a schivare l’urto di quella sofferenza, i nostri due figli ne erano stati investiti, forse dilaniati. Tuttavia chiedevano dei lacci. Tu ti allacci le scarpe come me? Sei ridicolo, ma mi insegni?”.
Buona lettura!
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È lo stile che fa la differenza
“Jettatura” è stato un po’ una “fregatura”. Dopo aver letto la quarta di copertina, quello che mi aspettavo di trovare era un romanzo ironico, grottesco e anche divertente. Quello che all’inizio può far sorridere il lettore, diventa qualcosa che alla fine fa quasi “strappare i capelli”.
Gautier in maniera magistrale mette a confronto il mondo ottocentesco inglese che “crede solo in quello che è spiegabile” con il mondo napoletano che invece vive di superstizione.
““Che il popolo ignorante sia turbato da simili influssi, arrivo a concepirlo”, disse Miss Ward; “ma quel che mi stupisce, è che un uomo della vostra nascita e della vostra educazione condivida questa credenza”. “Più di una persona che si atteggia a spirito forte”, rispose il conte, “appende un corno alla sua finestra, inchioda un trofeo sopra la sua porta, e non cammina se non è coperto di amuleti; quanto a me, sono franco, e confesso senza vergogna che quando incontro uno iettatore, prendo volentieri l’altra parte della strada”.
Anche se la storia può lasciare l’amaro in bocca, quello che invece addolcisce il tutto è lo stile di Gautier.
Théophile Gautier infatti oltre che scrittore è stato anche poeta e pittore e nelle sue descrizioni entrambe queste altre sue due strade sono ben percepibili.
Le descrizioni dei personaggi e gli scenari, sono tutti raccontati da un narratore esterno, e quello che colpisce è la ricchezza e l’originalità dei particolari, così intensi da rimanere indelebili nel pensiero del lettore e tali da rendere questo piccolo romanzo degno di attenzione.
Vi lascio un piccolo “assaggio”:
“Quella lunga linea di colline che, da Posillipo al Vesuvio, disegna il meraviglioso golfo in fondo al quale Napoli si riposa come una ninfa marina che si asciuga sulla spiaggia dopo il bagno, cominciava a pronunciare le suo ondulazioni violette, e si stagliava in tratti più netti dall’azzurro smagliante del cielo; già qualche punto biancastro, picchiettando lo sfondo più scuro delle terre, tradiva la presenza di ville sparse nella campagna. Vele di pescherecci rientrando in porto scivolavano nell’azzurro uniforme come piume di cigno agitate dal vento, e manifestavano l’attività umana sulla maestosa solitudine del mare”.
La mia recensione punta a preparare il lettore a quello che si troverà ad affrontare e per essere più pronti di quello che ero io.
Buona lettura!
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La donna empia, la mavara
Carmela Scotti esordisce con “L’imperfatta”, libro finalista al premio Calvino. Un esordio davvero molto forte in cui l’autrice mette molto di se e del suo trascorso (leggendo la conversazione finale con l’autrice il romanzo diventa ancora più reale e tangibile, più profondo).
Sullo sfondo di una Sicilia ottocentesca si sviluppa la storia di Catena, ragazzina che scopre troppo presto quello che la vita le ha destinato “Io sono nata da una radice di dolore, la felicità non so com’è fatta, se ha faccia, mani o bocca per parlare”. Cresciuta con l’unico amore del padre che troppo presto l’ha dovuta abbandonare, sono pochi i conforti che le rimangono.
La Scotti ci presenta la società agreste, in cui le donne hanno poca voce in capitolo, in cui il male non si deve andare a trovarlo fuori ma è tra le mura di casa, quelle mura che dovrebbero accudirti e che invece diventano un incubo.
Dall’altro, un altro capitolo buio della nostra società, il carcere, in cui una giovane Catena si trova a dover trascorrere i suoi giorni per scontare i suoi peccati.
Fra superstizione, magia e mali, si sviluppa questa storia di dolore e sofferenza. Lo stile della scrittrice mi ricorda molto quello di Vanessa Roggeri e nelle sue parole ho trovato molta poeticità, forse in alcuni casi anche troppa.
Il romanzo si sviluppa con un altalenarsi di passato e presente, di vita di boschi e di prigione, di voglia di morire e di voglia di andare avanti. Una storia profonda che tocca il cuore, in alcune parti fa veramente male ma trovando la forza di arrivare alla fine comprendi che come dice la copertina “Nessuno può rubare la libertà a chi la custodisce dentro di sé”.
Un esordio davvero molto buono che al momento la collocata fra quelle”nuove” scrittrici che ho intenzione di seguire ancora.
“Gli raccontai la storia di quella notte lontana, e a lui, solo a lui, parlai di mio padre, dei libri letti con Antonia e Teresa davanti al fuoco del camino. Trasformavo in parole il male che avevo dentro e, raccontandolo, mi sembrava che diventasse più sopportabile… Il bambino non disse nulla, ma dal suo respiro calmo capii che non mi condannava”.
Buona lettura!
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La minore delle Bronte in tutti i sensi
"L'attenzione invece va tenuta ben desta poiché Agnes Grey è, e insieme non è, autobiografia. Pur partendo infatti dal dato personale, la narrazione lucidamente se ne discosta, sperimentando un metodo attento all'economicità della composizione, teso più spesso a sottrarre che a dilatare".
Ho deciso di iniziare questa recensione con un estratto preso dall'introduzione a cura della Sestito, perché in queste parole trovo un buon riassunto di quello che è "Agnes Grey" di Anne Bronte.
Dopo aver letto "Cime tempestose" e "Jane Eyre" ho voluto dare una possibilità anche alla minore delle sorelle Bronte, affascinata dal fatto che ben tre sorelle, al tempo, si fossero dedicate alla letteratura. La sofferenza della famiglia Bronte e le loro difficoltà sono ben percepibili in questi tre lavori, ognuna però l'ha affrontata a modo suo.
"Agnes Grey" si presenta sotto forma di diario, diviso in ben venticinque capitoli, in cui la protagonista si racconta, partendo dalla sua prima esperienza come governante, fino ai giorni presenti. Come si può evincere dal titolo, la piccola Anne non può competere con le sorelle in quanto a stile, che si presenta molto acerbo, privo di emozioni e dettagli, e neanche a trama. Manca la complessità e quelle sensazioni che le altre due, ad anni di distanza (ho letto entrambi i libri anni fa) ancora mi hanno lasciato.
La nota positiva è invece il contesto e la critica nei confronti della società del tempo. Non proprio una novità, ma è affrontata in maniera diretta senza la necessità di leggere fra le righe. Inoltre viene contrapposta la donna umile alla Lady, con la riflessione che forse nascere dalla parte "sbagliata" poteva essere anche una fortuna.
"Oh! Non fa niente! Non bado mai ai domestici, non sono che automi; quello che i padroni dicono o fanno non li riguarda e non oserebbero farne parola; quanto poi a ciò che pensano - ammesso che ce l'abbiano, la presunzione di pensare - naturalmente nessuno se ne cura. Ci mancherebbe solo che i nostri servi ci tappassero la bocca!".
Anne Bronte che nella sua vita non ha avuto un happy end, da invece una bella possibilità alla sua protagonista che pur mancando di spessore cerca di raccontare una società ingiusta, snob e meschina lasciando però uno spiraglio di luce per il futuro.
Non vi aspettate il capolavoro né il classico imperdibile, ma date comunque una possibilità alla piccola Bronte, il romanzo si legge velocemente e può essere anche una buona occasione per confrontare lo stile delle tre sorelle.
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L’identikit del libertino
“Ci basti per ora, ai fini della nostra ricerca, sapere ciò che il libertino non è; in primo luogo un dongiovanni .. né tanto meno un play-boy, che del dongiovannismo contemporaneo è tra le più volgari (di massa) e deteriori raffigurazioni”.
Franco Cuomo, autore particolare, ci presenta un saggio davvero insolito, che ha come obiettivo quello di illuminarci sulla figura del libertino e di tracciarne una ben chiara distinzione con il più comune dongiovanni. Come si può ben capire dal titolo, il libertino viene elogiato e descritto nel dettaglio per aiutare anche i più contemporanei a seguirne le orme.
Devo essere sincera, durante la lettura di questo testo, più volte mi sono chiesta se forse in passato sono stata troppo “spietata” nei confronti dei libertini o se Cuomo ne è davvero un estimatore.
La sua analisi è veramente ben fatta e completa e parte dagli “albori” mettendo a confronto Casanova e Dongiovanni, e la storia va avanti fino al contemporaneo. Il “libertinaggio” è davvero un’arte e sono molteplici le caratteristiche che il soggetto deve avere. L’identikit è minuzioso e fra le cose più particolari posso menzionare il rapporto del libertino con l’ecologia, con il cibo, con la città, con la religione, il denaro e l’autorità politica.
Un saggio particolare, dettagliato e non scontato. Molti si ricrederanno, altri ne rideranno ma molti ne potrebbero seguire le orme… Quindi lo consiglio a chi come me voleva approfondire la figura del libertino (c’è davvero molto dietro a questa figura) e anche a chi ne volesse cominciare e continuare “la scuola di pensiero e di vita”.
Voglio ricordare ai futuri “seduttori” che “Enormi sono le differenze che contraddistinguono nella fine, come nell’esordio della loro carriera, il libertino dal comune dongiovanni” e che “È evidente che a questa soglia si arriva soltanto dopo un tirocinio travagliato, talvolta stremante, poiché, se amare una donna e perderla può lasciare un segno indelebile in un uomo di una certa sensibilità (e il libertino per forza di cose deve esserlo) immaginate quale garbuglio sanguinoso di graffiti debba lasciare l’averle tutte amate e perse tutte”.
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Le donne e il romanzo
Siete in una biblioteca e davanti a voi trovate un lungo corridoio, i volumi sono suddivisi per secoli, quanto dovrete camminare prima di trovare un romanzo scritto da una donna?
A Virginia Woolf, negli anni Venti, fu affidato un tema davvero particolare per due conferenze:
“Quando mi avete chiesto di parlare delle donne e il romanzo, mi sono seduta sulla riva di un fiume e ho cominciato a chiedermi cosa significassero queste parole”.
La Woolf tramite gli occhi della sua “protagonista”, fa riflettere il lettore sulla condizione della donna e su tutta quella parte di privilegi che gli sono sempre stati preclusi.
Ironica e schietta, sarà anche molto critica nei confronti del gentil sesso:
“Solo Jane Austen ed Emily Bronte l’hanno fatto. Questa è un’altra piuma, la più bella forse, sui loro capelli. Scrissero come scrivono le donne, non come scrivono gli uomini”.
In fondo ad una donna cosa serve per scrivere se non una rendita e una stanza tutta per sé? Una frase così semplice che nasconde un mondo dietro, fatto di lotte e di gran fatica per ottenerli.
Un saggio che consiglio, lo stile dell’autrice è intrigante, coinvolgente e superlativo, e non mancheranno le riflessioni e degli ottimi spunti di lettura. Per i più scettici ve ne lascio un “assaggio”:
“Il mio pensiero – per chiamarlo con un nome più altisonante di quanto meritasse – aveva gettato la lenza nella corrente. Ondeggiava, di minuto in minuto, qua e là, tra i riflessi e le erbe, lasciandosi sollevare e riaffondare nell’acqua, finché – conoscete quel piccolo strappo, quell’improvviso conglomerarsi di un’idea all’estremità della lenza; e poi la cauta manovra per raccoglierla, per estrarla? Ahimè, una volta sull’erba, come pareva piccolo e insignificante questo mio pensiero; quel tipo di pesce che il buon pescatore getta di nuovo in acqua perché possa crescere e meriti un giorno d’esser cotto e mangiato”.
Buona lettura!
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Seconde possibilità
Nella vita di ognuno di noi arriva il momento in cui bisogna crescere e assumersi le proprie responsabilità. Può succedere con la fine degli studi, con l’andare a vivere da soli o com’è successo alla protagonista di questo libro, Letty, quando i suoi genitori decidono di tornare in Messico e lei si ritrova a fare per la prima volta la madre.
Il panico, il fallimento e la paura di crescere, fanno iniziare questo romanzo che affronta un tema davvero particolare. Molti genitori che si ritrovano una figlia diciottenne incinta, possono decidere di far continuare alla “ragazza” la sua vita (anche se deve abbondare gli studi e lavorare per i figli) e di caricarsi sulle spalle un bel po’ di responsabilità e crescere i nipoti. Può essere un bene o meno, ma cosa succede quando una “ragazza di trentatré anni” (il termine ragazza è voluto) si trova a dover fare da madre dalla mattina alla sera a un figlio di quindici anni e una bambina di sei?
Il mondo di Letty viene stravolto e per una volta deve contare solo sulle sue forze e sull’istinto di sopravvivenza e di madre. Le difficoltà da affrontare saranno molteplici e non sempre i risultati alla fine saranno quelli sperati.
Una ragazza che deve diventare una madre e un adolescente (Alex) che deve riconoscerne il ruolo e affrontare anche lui le sue battaglie e le sue sfide, renderanno questo romanzo una lettura piacevole e profonda, intervallata da sospiri di sollievo e da ostacoli quasi insormontabili. Le difficoltà della vita sono più pesanti se nasci dalla parte sbagliata del “ponte”.
Vanessa Diffenbaugh è conosciuta al pubblico con il suo primo romanzo “Il linguaggio segreto dei fiori”, che ho letto qualche anno fa e personalmente ho preferito questo secondo.
Il romanzo è ben strutturato e abbastanza credibile, la cosa che invece non mi ha convinto è il finale. Forse è una mia considerazione personale, ma per me la parte finale incide molto sulla valutazione dell’intero romanzo, alla fine è quella che ti rimane più impressa e spesso ti riporta alla rilettura stessa del libro. Ultimamente sono molteplici i romanzi che mi ritrovo fra le mani in cui gli autori s’impegnano per gran parte del romanzo e sul finale, tirano via, come se due paginette tirate e striminzite, possano bastare a colmare le lacune lasciate lungo il percorso. Avrei preferito più sostanza e meno immaginazione, è vero che ogni lettore ne ha tanta, ma in alcuni casi può infastidire doverla usare.
Rimane comunque un romanzo che consiglio, molti gli interrogativi e le riflessioni che il lettore si ritrova a fare. Da questo libro si capisce bene l’importanza del dialogo e di come la comunicazione sia alla base di ogni rapporto.
Buona lettura!
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Non ci fu mai una morte più annunciata
“Lei indugiò appena il tempo necessario per pronunciare il nome. Lo cercò nelle tenebre, lo trovò a prima vista tra i tanti e tanti nomi confondibili di questo mondo e dell’altro, e lo lasciò inchiodato alla parete con la sua freccia precisa, come una farfalla senza più scampo la cui sentenza era scritta da sempre.
“Santiago Nasar” disse”.
Márquez ci porta in quel “villaggio bruciato dal sale dei Caraibi” per farci vivere la cronaca di una morte annunciata, scritta moltissimi anni dopo. Un fatto già compiuto, una storia ormai svanita di cui ormai solo il sapore agro può essere rimasto…e quando pensi che quello che leggerai non potrà sorprenderti, puoi dormire sogni tranquilli perché la magia di Márquez colpisce ancora.
Basata su un fatto reale, la cronaca va a indagare su quelle incongruenze, su quei dubbi e interrogativi su cui ancora non è stato fatto luce. “Non ci fu mai una morte più annunciata di quella” eppure…
Márquez con le sue novanta pagine “mette a nudo” le vite degli abitanti di quel paesino dei Caraibi, ci racconta quel mondo, ci svela le sue contraddizioni, le tradizioni e l’importanza dell’onore. I ruoli (e le dinamiche) all’interno del villaggio sono ben dettagliati.
“A differenza delle ragazze dell’epoca, che avevano trascurato il culto della morte, le quattro sorelle Vicario erano maestre nella scienza antica di vegliare gli infermi, confortare i moribondi e avvolgere i morti nel sudario. L’unica cosa che mia madre rimproverava loro era l’abitudine di pettinarsi prima di andare a letto. “Ragazze” diceva loro, “non pettinatevi di notte perché s’attardano i naviganti”.
Con uno stile unico, mai banale e sempre coinvolgente, verrete conquistati da questa cronaca. Non posso far altro che consigliarlo, non ne rimarrete delusi, io ne sono rimasta affascinata.
Buona lettura!!
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Un terzo capitolo che non delude!
Siamo al terzo capitolo e la tristezza già mi accompagna perché dovrò aspettare almeno un anno per sapere come andrà avanti questa serie, anche perché la Rowling, che scrive con lo pseudonimo di Robert Galbraith, ci lascia proprio sul più bello e dopo seicento pagine senti che non sono state abbastanza.
I protagonisti indiscussi sono sempre loro due, l’investigatore privato Cormoran Strike e la sua bella assistente Robin, ma questa volta il registro cambia. I due sono sempre in azione, ma la vicenda li coinvolge personalmente; il criminale che sta facendo tremare le donne di Londra, non va cercato ovunque, ma solo da una parte, nel loro passato, in particolare in quello di Strike, qualcuno vuol mettere in cattiva luce l’investigatore privato più famoso del momento.
Il messaggio recapitato a Robin è chiaro, una gamba di donna con un bel bigliettino mette subito i puntini sulle “i” e fa restringere il campo d’azione su tre uomini, ma sono molte le variabili, come sempre, da valutare.
La Rowling regala agli amanti di questa serie una cosa davvero inestimabile… ci fa conoscere i due protagonisti in maniera intima, facendoci entrare nelle loro case, nelle loro storie e soprattutto nel loro passato. Negli altri due libri non ci aveva proprio lasciato a “bocca asciutta”, ma questa volta li mette veramente a nudo, e ce li fa apprezzare ancora di più. Ovviamente per darci questo ha dovuto un pochino lesinare sulla storia che rispetto alle altre è un pochino meno avvincente ma non per questo meno interessante.
Ricordo sempre che questo non è un thriller ma un giallo alla vecchia maniera, in cui i dettagli fanno la differenza e ogni parola non è detta tanto per dire ma ha un fine. Per chi cerca l’adrenalina questo non è il libro per voi, ci vuole pazienza e attenzione.
Il problema per me è che quest’autrice mi crea dipendenza e incomincio a capire cosa ha rischiato Conan Doyle quando voleva liberarsi di Sherlock Holmes e per le proteste…lo fece resuscitare.. noi lettori ci possiamo davvero innamorare di alcuni personaggi. Quindi non posso fare altro che consigliarvelo e aspettare il quarto della serie..
Buona lettura!
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La persona sbagliata
Un tavolo, un uomo e una donna. Il loro è un appuntamento, non certo galante anche perché i ruoli sono subito ben chiari.
Lei è la vittima ed è costretta a subire le insane idee e voglie di colui che ha il potere in mano per tutta la durata dell’appuntamento. Lui è il nostro narratore.
Gli equilibri sono subito chiari, l’ago della bilancia pende da una parte sola, finché la protagonista non decide di farli cambiare a suo favore.
Un gioco pericoloso, in cui il potere della gestione dell’appuntamento cambia; niente è come sembra. La privacy diventerà qualcosa di pubblico.
Pulixi con questo noir ci tiene incollati alle pagine, con la suspense e il timore di cosa ancora può succedere. La scrittura è intrigante, l’atmosfera anche, quello che non mi ha convinto è il contenuto. Un inizio davvero promettente, in cui mi sono subito sentita coinvolta, ha subito poi una parabola discendente per la restante parte.
Un’altra nota dolente è il prezzo, 14 euro per 129 pagine (copertina morbida). Mah.
Buona lettura!
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Sono ancora un uomo
“Unbroken” racconta la storia di Louis Silvie Zamperini, figlio d’immigrati italiani, diventato il “Tornado di Torrance”. La sua storia è ricca e molto riflessiva ed è stata raccontata all’autrice Laura Hillenbrand dal protagonista stesso, venuto a mancare nel 2014.
Loius, o meglio Louie, fin dall’infanzia era sempre stato un ragazzino irrequieto, tanto da diventare nell’adolescenza un piccolo teppistello. Con l’aiuto del fratello Pete e della famiglia, riuscì a trovare la sua strada, ovvero l’atletica, diventando detentore del record sul miglio per tantissimi anni.
Come si può evincere dal titolo (il libro era gia stato pubblicato nel 2012 con il titolo "Sono ancora un uomo"), questa è una storia che parla di sopravvivenza, resistenza e soprattutto riscatto. Con lo scoppio del conflitto e la successiva entrata in guerra degli Stati Uniti, Louie si trovò a combattere su un fronte forse meno conosciuto, il Giappone, di cui poi divenne prigioniero.
Questo libro racconta una parte della storia che spesso preferiamo tralasciare perché è davvero difficile da affrontare, ovvero il destino dei prigionieri di guerra.
Laura Hillenbrand, per aiutare il lettore a comprendere meglio la situazione, ci accompagna in qualche digressione sulla cultura giapponese. Il Giappone è sempre stato un popolo molto coraggioso e dedito all’onore. Un popolo che si sentiva superiore e che vedeva la giustezza di comandare gli altri. Un popolo che credeva nel combattere fino alla morte e che meglio morire che diventare prigionieri, ora la domanda sorge spontanea, come potevano rispettare chi invece si faceva imprigionare?
Le descrizioni sono molto forti e l’accanimento nei confronti di chi vuol mantenere la dignità ancora più pesanti.
In questo libro, ovviamente, l’unico e vero nemico è il Giappone e sono stati omessi alcuni dettagli, come ad esempio il trattamento ricevuto da quei giapponesi presenti negli Stati Uniti che ormai erano più americani di altri.. Qui stiamo parlando della storia di un eroe americano raccontata da una scrittrice americana, da cui poi è stato tratto il film “Unbroken” diretto da Angelina Jolie.
La storia di Louie, come quella di moltissimi altri sopravvissuti, è davvero sorprendente; la biografia è arricchita con molte fotografie dell’epoca che rimandano ancora di più la mente del lettore a quegli anni.
Una lettura che consiglio con la consapevolezza che si tratta di un libro di oltre 450 pagine in cui non tutto sarà facile da digerire ma che sentire i racconti in prima persona da chi ha potuto farlo perché è tornato..è davvero emozionante.
""Se sapessi di dover rivivere quelle esperienze" disse alla fine "mi ucciderei"".
Buona lettura!
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Ospite in casa propria
L’irlandese Maeve Brennan ha avuto una vita intensa, profonda e non semplice. Fin dall’adolescenza ha vissuto negli Stati Uniti, diventando una giornalista e scrittrice molto apprezzata. “La visitatrice” è stato dato alle stampe solo nel 2000 e rappresenta la sua opera più lunga che però l’autrice non ha avuto il tempo di vedere pubblicata.
Dopo aver letto il romanzo e sfogliato la sua biografia, posso dire che la Brennan ha messo molto di se nel testo.
La protagonista è la ventiduenne Anastasia, che dopo aver trascorso sei anni a Parigi, alla morte della madre, decide di tornare nella sua casa di origine a Dublino. Ad attenderla c’è la nonna e Katharine, la governante.
Conoscendo bene la nonna, quello che la protagonista si aspettava era un incontro freddo ma non così tanto da farla invece sentire solo una visitatrice di passaggio, un ospite in casa sua.
La Brennan ha uno stile di scrittura che incanta e fa riflettere. La trama del romanzo è molto scarna e pur capendo il quadro generale della storia, i dettagli, quelli che fanno la differenza, arrivano a noi pagina dopo pagina. Con il suo stile è riuscita a coinvolgermi e a lasciarmi stupita per la padronanza di linguaggio e la semplicità con cui sembra scrivere.
Difficile non immedesimarsi nello stato d’animo della protagonista e vivere il suo tormento. Pensare di tornare dall’unica famiglia rimasta e sentirsi solo una visitatrice, con gli altri in attesa della tua partenza.
“La casa è un luogo della mente. Quand’è vuota, diventa irrequieta. Si anima di ricordi, visi e luoghi e momenti passati. Immagini amate riemergono, disobbedienti, a rispecchiare quel vuoto”.
Lo consiglio, si legge velocemente (sono circa cento pagine) e la riflessione è garantita.
Buona lettura!
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Uomini illustri e non illustri
“Per quel che concerne Leone Ginzburg ho scelto di tenere la distanza che richiede un grande personaggio storico, distanza di rispetto. Ho narrato, dunque, la sua vita straordinaria basandomi esclusivamente sulle fonti scritte e documentate che sono stato in grado di procurarmi…Per ricostruire la storia delle vite ordinarie degli Scurati e dei Ferroni, miei ascendenti, mi sono basato invece esclusivamente su ciò che di quelle storie è sopravvissuto nei ricordi. Solo fonti orali, dunque, e rapporti personali. Niente altro.”
“Per tutti loro, uomini illustri e non illustri, la memoria conservata in un racconto è l’unica forma di sopravvivenza. Si narrino, dunque, una accanto all’altra, in una sorta di profano vangelo sinottico, la vicenda tragica dell’eroe intellettuale, della sua stirpe e della sua discendenza, e quella della mia gente, gente comune, le si narrino addirittura fino al punto in cui questa linea genera me, lo scrivente. Il più insignificante.”
Sono passati dieci giorni dalla fine della lettura di questo “saggio” e ancora non trovo le parole adatte per recensirlo. Ho chiesto quindi un aiuto all’autore e utilizzando le sue parole, ho voluto introdurre il mio pensiero.
Scurati crea un libro insolito e a tratti spiazzante. Vengono altalenate le vicende di Leone Ginzburg, l’uomo che si è rifiutato di giurare fedeltà al fascismo l’8 gennaio del 1934, e quelle delle famiglie Scurati e Ferroni. Se da una parte ritroviamo un racconto quasi giornalistico, con fatti, date e personaggi raccontati con quel distacco che l’autore vuole volontariamente avere nei confronti di Ginzburg, dall’altro ci ritroviamo la sensibilità e il phatos di una storia di famiglia.
Un Ginzburg circondato da personalità importanti come Pavese ed Einaudi si contrappone a un uomo come tanti che ci racconta la sua passione per i Pupi Napoletani e il suo incontro con Totò.
L’altalenarsi e il susseguirsi delle vicende, specialmente nella prima parte, non è poi così leggero e scorrevole, solo dopo metà le pagine si “voltano” più velocemente. Alcuni tratti sono anche un po’ noiosi e soprattutto non saziano la conoscendo nei confronti di Ginzburg, una figura così poco conosciuta ma così estremamente interessante: “”Faccio quel che posso per accontentarVi,” scrive a Einaudi, “ma la mia rapidità di lavoro ha un limite invalicabile, quello dell’esattezza.””
Per colmare le mie lacune su questa figura, mi sono già segnata alcuni titoli della moglie, Natalia Ginzburg.
Questo era il mio primo incontro con Scurati, sicuramente non mi ha lasciato indifferenze, anzi la sua idea era davvero particolare, ma non così tanto da indurmi a leggere subito un altro suo libro. Un libro che comunque consiglio, ma va affrontato con l’idea che non è un romanzo.
Buona lettura!
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Sei proprio una barca nel bosco
“Sentimi bene, Padre nostro che sei nei cieli, facciamo così: tu mi aiuti a pescarmi un po’ di amici, neanche poi tanti, forse me ne basterebbe anche uno solo, forse. Uno straccio di amico tanto per fare due chiacchiere, cosa ti costa? Facciamo così: se mi fai questo piacere, io ti giuro che da grande in cambio ti costruisco un altare. E sia santificato il tuo nome e liberami dal male. E anche dall’odore di polpette, che non ne posso più. Amen”.
Questa preghiera che viene recitata da Gaspare, il nostro protagonista, ci racconta molto di lui. Nato in un’isoletta del sud, è estremamente dotato a scuola e i genitori decidono di dividersi e dargli l’opportunità di studiare in un ambiente più adatto, un liceo del Nord. Il padre deve rimane sull’isoletta a lavorare per mantenere gli studi e la madre segue il figlio, destinazione Torino, a casa della zia Elsa.
Da qui nascono le difficoltà di incontrare un ambiente nuovo da cui farsi conoscere e soprattutto farsi accettare. Come “Una barca nel bosco” si ritrova il nostro protagonista, dove la scuola e gli insegnanti non stimolano particolarmente la sua voglia di conoscenza, in particolare l’insegnante di latino, e i nuovi compagni sono così diversi dagli isolani.
In branchi, così si dividono i ragazzi, omologati in categorie e sempre al passo con i tempi, tempi che il povero Gaspare non riesce proprio a tenere. Imbarazzato dai suoi 10 in latino, la sua più grande passione diventa un deterrente per fare nuove amicizie. Anche lui tenterà di entrare in quel vortice e pur di essere accettato metterà se stesso e i suoi interessi in discussione.
“Mi porta in cortile in un angolo deserto e, senza che nessuno ci veda, m’insegna a cammellare. Si tratta di camminare curvi, lo sguardo a terra, spostando spalle e testa ritmicamente in avanti e all’indietro, e molleggiando anche con falcate decise. Una vera impresa”.
Eccezionale è il ruolo della zia Elsa “Non so, mi turba questa mia zia Elsa che sembra un parallelepipedo inerte e poi invece se ne va per il mondo ed è anche l’unica che risolve i problemi…è un po’ come avere un agente segreto in casa”.
La Mastrocola è un'insegnante e sinceramente non da un bel ritratto della sua categoria. Quello che stupisce è la conoscenza che ha del mondo dei ragazzi, di cui credo sia davvero un’attenta osservatrice. Difficile non ritrovarsi nei pensieri e nelle insicurezze di Gaspare. Ricordo benissimo le categorie, anche durante i miei studi c’erano, ora saranno cambiati i nomi ma la sostanza è sempre la stessa!
L’autrice usa uno stile giovanile, ironico e ilare anche se in realtà a volte mi sono trovare a ridere di cose di cui invece c’era da piangere, ma il viverlo con allegria non ha tolto niente all’importanza del messaggio che l’autrice ha voluto mandare.
L’unica pecca l’ho riscontrata a metà romanzo quando l’autrice ha deliberatamente saltato qualche dettaglio (veramente importante) per poi scriverlo solo alla fine. Ad alcuni passaggi che consideravo meno interessanti, avrei sicuramente dato la giusta attenzione se ne fossi stata informata prima.
Una lettura che consiglio, un’autrice che sto scoprendo piano piano. Una curiosità, l’ultima parte del romanzo credo sia stata l’idea che ha poi generato la favola da me letta: “L’anno che non caddero le foglie”.
Buona lettura!!!
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Waris, una nomade in Occidente
Waris Dirie racconta la sua storia, dalla nascita in una famiglia nomade somala, alla sua carriera di modella, fino a diventare ambasciatrice per l’Onu.
Waris si racconta con l’aiuto di Cathleen Miller; parte dalla sua giovinezza vissuta nel deserto, con i ritmi e la vita e la cultura del suo popolo finché non decide di lasciare quel mondo. Il padre, a solo tredici anni, la voleva dare in sposa a un uomo di sessanta; da li inizia la sua fuga e il suo lungo viaggio pieno di difficoltà e di svolte. Davvero difficile pensare che una sola persona possa aver dovuto subire tutto quello che è toccato alla protagonista.
“Fiore del deserto”, oltre ad essere una biografia è anche un messaggio con destinatario il mondo intero e in particolare quei paesi che praticano ancora la mutilazione genitale, come l’infibulazione, che la nostra protagonista ha subito all’età di cinque anni. Il suo messaggio ha avuto una risonanza internazionale al punto da diventare ambasciatrice.
Dopo tutto questo, voi vi chiedere come mai un voto così basso allo stile, la risposta è semplice, non so se per volere di Waris o della Miller, ma questa biografia resta sempre in superficie. Un concatenarsi di eventi, uno dietro l’altro, scritto come un tema delle medie in cui si punta più agli argomenti che alla sostanza.
Questa è una storia importante che aveva bisogno dei suoi ritmi e dei suoi tempi e dell’intensità giusta. Sono una persona sensibile, ma pur capendo l’importanza delle parole scritte, molte “mie corde” non sono state toccate. Con uno stile simile ho letto “Io sono Malala”, in cui la giovane protagonista è stata aiutata nella scrittura, in entrambi il messaggio è importante, ma se li comprendevo la semplicità di linguaggio, visto la giovane età della protagonista, qui invece parliamo di una donna adulta che poteva dare molto di più. Nel libro si parla molto spesso di persone che hanno sentito la sua storia a voce e ne sono rimaste sconvolte nel profondo, forse con lo scritto doveva dare qualcosa in più.
In alcune parti la fanno passare per una ragazza capricciosa e superficiale, cose che vedo molto difficile visto il bagaglio di esperienza che si porta dietro.
Un libro che comunque consiglio e, anche se gli argomenti sono forti, la lettura è per chiunque, perché leggere uno stile così elementare, non sconvolge. Avrei preferito più emozioni e sensazioni, non ho condivido il dolore della protagonista, l’ho solo letto fra le righe, peccato, affrontato in maniera diversa, avrebbe sicuramente aumentato la sensibilità verso l’argomento, un argomento che veramente merita tutto il rispetto visto che queste pratiche sono ancora attive in molti paesi.
Buona lettura!
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Jay il passato non ritorna
Guardando un po’ le recensioni su “Il Grande Gatsby”, mi sono resa conto che questo libro divide i lettori, c’è chi l’osanna e chi proprio non l’ha digerito.
Dopo l’uscita del film, più volte mi ero ripromessa di leggere il libro e finalmente sono riuscita a fare entrambe le cose, ovvero leggere Fitzgerald e guardare il film.
La storia viene raccontata da Nick, che si ritrova ad abitare accanto alla maestosa casa di Gatsby, quest’ultimo dovremmo aspettare un po’ di pagine prima di conoscerlo.
La storia è conosciuta e non è su quello che mi voglio dilungare anche perché sinceramente la trama non è proprio il pezzo forte del romanzo, quello che mi ha colpito è lo stile dell’autore.
Fitzgerald ci porta nell’America degli Anni ’20, in cui il lusso, il mondo sfrenato, i contrabbandieri e le trasgressioni sono all’ordine del giorno. Un mondo che sembra quasi consapevole della grande crisi che arriverà e che cerca di dare il massimo (non in senso positivo) prima della catastrofe.
Il personaggio che mi ha veramente incuriosito è Gatsby, i sentimenti che può suscitare possono essere dei più diversi; a me ha trasmetto fra le altre cose, tanta solitudine, tristezza e amarezza, per un uomo che per andare avanti ha bisogno di essere ancora ancorato al passato, un passato che proprio per il nome non può tornare.
“Era stato così a lungo pieno di quest’idea, l’aveva sognata in tutto il suo svolgimento e aspettata a denti stretti, per così dire, arrivando a un livello inconcepibile d’intensità. Ora, per reazione, si stava scaricando come un orologio dalla molla troppo tesa”.
Fitzgerald ci mostra un mondo d’illusioni, ci fa credere che possiamo essere migliori di quello che siamo ma che alla fine, quando si fanno i conti quelle che rimane è poco “”Sono un branco di porci” gridai attraverso il prato. “Tu, da solo, vali più di tutti quanti messi insieme””.
Probabilmente come dice Nick “Mi accorgo adesso che questa è stata una storia del West, dopo tutto: Tom e Gatsby, Daisy e Jordan e io eravamo tutti del West e forse soffrivamo di qualche deficienza che ci rendeva sottilmente inadatti alla vita dell’Est”.
Un romanzo affascinante, in cui la personalità dei protagonisti è il vero ingrediente della trama. Ho visto il film e devo dire che ho molto apprezzato la scelta dei protagonisti che rispecchiano abbastanza quello che mi ero immaginata. Un DiCaprio che non mi ha deluso, toccante quando davanti al pontile cerca quella luce…
Buona lettura!
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Impreparata!
Cresciuta con l’idea che il punto forte del film “Colazione da Tiffany” fosse l’eleganza di Audrey Hepburn, ho iniziato a leggere questo libro, ma mi sono subito resa conto di essere impreparata, quando “davanti” mi sono ritrovata la “Signorina Holiday Golightly in transito”.
Holiday, anzi Holly, è un personaggio davvero singolare, contradditorio, affascinate e difficile da classificare tanto da chiedersi “Ma c’è o ci fa?”.
Una donna che ha le “paturnie” che solo Tiffany può placare. Imprevedibile, con i suoi cambi d’umore, le sue “tolette” per mantenersi e il suo strano rapporto con gli uomini.
Ritorna bambina con Doc, malinconica e dolce quando parla di Fred, ingenua e genuina quando va a trovare Sally Tomato, svampita con il vicino di casa Paul e che a lei ricorda tanto il fratello Fred. Tutto questo è molto altro è Holly.
Per colmare la mia lacuna, ho visto anche il film, scoprendo che Truman Capote aveva altri piani e voleva una protagonista diversa. Devo dire che il film mi è piaciuto anche se vengono messi meno in risalto alcuni punti salienti del libro per puntare su altri. Primo fra tutti il rapporto di Holly con il vicino scrittore (il cui ruolo nel film viene stravolto), vengono saltati alcuni punti importanti (chi ha letto il libro e visto il film sa di cosa parlo) per arrivare al finale che è stato praticamente riscritto per le esigenze, sembra, del pubblico. Mah.
Comunque una lettura piacevole che consiglio.
Buona lettura!
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Dieci storie su cui riflettere
Francisca, Mané, Juana, Simona, Layla, Luisa, Guadalupe, Andrea e Ana Rosa, sono le nove donne che si ritrovano riunite nello studio di Natasha (la decima), la loro psicoterapeuta, per volere di quest'ultima.
Nove donne più una che per andare avanti si raccontano le une alle altre. Dieci donne fra le più svariate si mettono a nudo e narrano la loro storia e cosa le ha portate a ritrovarsi in quello studio.
La scelta è veramente eterogenea, si va dalla povera, all’attrice famosa, da una madre in difficoltà a una giovane lesbica, da chi vive nel passato e chi aspetta il futuro.
Marcela Serrano, scrittrice cilena, ci divide questo romanzo in dieci racconti, che con il leggerli diventano sempre più collegati gli uni agli altri come se “Alla fine, dice fra sé allontanandosi dalla finestra, alla fine tutte noi, in un modo o nell’altro, abbiamo la stessa storia da raccontare”.
La Serrano racconta ogni storia con uno stile diverso, rappresentando in maniera egregia le qualità e le tipicità della protagonista di turno. Ne cambia il lessico, le pause, i dialoghi e tutto questo in maniera davvero molto coinvolgente. Difficile rimanere insensibili alle emozioni che suscitano queste pagine e in base al nostro trascorso e alle nostre esperienze è ovvio che qualche storia possa colpire più di altre.
Nel mio cuore sono rimaste Luisa, vedova desaparecido che per trent’anni ha continuato ad aspettare il ritorno del marito e Layla, che non era mai riuscita prima di allora a raccontare che l’amore della sua vita, il suo stesso sangue, in realtà viene dalle viscere del nemico.
La volontà di farcela è l’elemento che le accomuna insieme alla loro forza, la forza delle donne, quella che viene fuori nei momenti più bui, senza poi dimenticarsi che “Non sono sola quando sono da sola”.
Una lettura profonda, riflessiva e molto emotiva. Un Cile raccontato e vissuto in maniera molto personale. Un libro che mi ha particolarmente colpito e che non consiglierei a tutti, ma solo a chi cerca un romanzo insolito, profondo e con al centro la femminilità.
Buona lettura.
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Una Femminista Felice Africana del XXI secolo
“Dovremmo essere tutti femministi” è la versione rivista di un intervento tenuto da Chimamanda Ngozi Adichie, nel 2012, alla TEDxEuston Conferenze.
L’autrice è una donna nigeriana di etnia Igbo, che divide la sua vita fra l’America e la Nigeria. La curiosità di questa conferenza, è che la Adichie ci presenta una versione, finalmente, del femminismo in chiave moderna, in cui la parola stessa “femminismo” non vuol dire avversione nei confronti degli uomini, ma anzi punta anche su di loro per far capire meglio il concetto (Tutti dovremmo essere femministi).
Il librino, purtroppo, è lungo solo una quarantina di pagine, ma in queste l’autrice mette molto di se, raccontando in prima persona le sue esperienze di vita. Se da una parte troviamo la Nigeria e in particolare l’etnia Igbo che pensa che le femministe sono: “donne che non trovano marito e, dunque, infelici”, ci frappone dall'altra, la moderna America, in cui anche lì le donne devono ancora combattere per avere i soliti diritti degli uomini.
Ironica, realista e diretta, la Adichie sdrammatizza e fa riflettere su cose veramente importanti e con esempi così lampanti che anche il più scettico potrebbe avvicinarsi alla “causa”.
La conferenza ha avuto molto successo al tempo, al punto che la cantante americana Beyoncé, nel 2013, ha usato parti della conferenza per la canzone Flawless.
Come avrete capito, questo librino mi è arrivato al cuore, tanto che ho già prenotato altri libri dell’autrice. L’unica nota dolente è la brevità che quando arrivi alla fine ne senti già la mancanza. Chi avrà già letto altre mie recensioni, sa benissimo come sono sensibile al tema, e questa volta, più di altre, ne voglio consigliare la lettura soprattutto agli uomini, vi può far aprire gli occhi sulle femministe del XXI secolo e farvi vedere la differenza con chi vuole l’uguaglianza e chi si spaccia per femminista per fare i suoi comodi.
Lo consiglio, vi lascio con questa frase:
"La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora possiamo e dobbiamo far sì che lo diventi".
Buona lettura!!!
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A lezione con Eco
“Sei passeggiate nei boschi narrativi” è il resoconto dei sei interventi tenuti da Eco, nel 1992-1993, in occasione delle Norton Lectures, all’Harvard University.
Questo libro quindi va letto con la cognizione di seguire una vera lezione di Eco e avere ancora la possibilità di “ascoltare” il grande scrittore. Sentirsi allievi di Eco può essere una bellissima esperienza, il tutto è aiutato oltre che dalla suddivisione in lezioni, anche dal supporto di alcuni grafici e immagini che rendono così bene il mondo universitario.
Per le sei lezioni, Eco aveva scelto un tema molto particolare, legato al lettore e all’esperienza della lettura. Si avvale del “bosco” e lo definisce come:
“Un bosco è, per usare una metafora di Borges, un giardino dai sentieri che si biforcano. Anche quando in un bosco non ci sono sentieri tracciati, ciascuno può tracciare il proprio percorso decidendo di procedere a destra o a sinistra di un certo albero e così via, facendo una scelta a ogni albero che incontra. In un testo narrativo il lettore è costretto a ogni momento a compiere una scelta”.
Eco presenta il lettore e lo suddivide in più categorie fra cui il “lettore modello” e il “lettore empirico”. Racconta e si racconta, analizzando molti testi, in particolare quello di “Sylvie. Souvenirs du Valois” di Nerval di cui consiglio la lettura prima di questo saggio.
Dalle sue parole si evince di come l’autore abbia sempre rispettato il suo lettore e di come lo vedesse una parte integrante dell’opera “Del resto, come ho già scritto, ogni testo è una macchina pigra che chiede al lettore di fare parte del proprio lavoro”. Un altro tema molto importante e trattato nelle sue lezioni è il rapporto tra finzione e realtà, comprensibile con diversi esempi davvero curiosi.
Per terminare e far capire che grande uomo era (e che vanto per noi italiani) vi lascio con questa frase:
“Quando mi chiedono quale libro porterei con me sull’isola deserta, rispondo: “L’elenco telefonico; con tutti quei personaggi potrei inventare storie infinite””.
Buona lettura!
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Lina e Squirri
Paola Mastrocola è un’autrice che scrive romanzi, poesie, graphic novel, pamphlet e favole.
La sua ultima opera è appunto una favola intitolata “L’anno che non caddero le foglie”. L’autrice con semplicità e chiarezza va ad affrontare il tema dell’amore sotto molte sfaccettature. Le protagoniste sono Lina, una fogliolina che dopo essersi innamorata, si ribella alla Legge e Squirri, una scoiattolina innamorata, ma così timida che non è neanche capace di uscire di casa.
Le storie di queste due insolite protagoniste s’incontrano, anzi si scontrano, quando gli interessi di una vanno a danneggiare quelli dell’altra. Chi riuscirà a spuntarla delle due?
La Mastrocola ci porta in un mondo senza tempo, dove la natura e gli umani ci mostrano molto di loro, a volte anche il peggio. I suoi personaggi sono presentati con schiettezza e semplicità, riuscendo a farci percepire le loro emozioni e le loro contraddizioni, il loro coraggio e la forza dell’amore che fa rischiare e ci fa mettere in gioco.
Alla fine della lettura quello che mi è rimasto è la consapevolezza che questa è una favola per tutte le età, capace di mostrare le debolezze umane e la grandezza della natura. L’unica nota un po’ stonata è forse il troppo cinismo che in alcuni parti diventa quasi tangibile, forse la scrittrice voleva mandare un messaggio, soprattutto agli adulti, che credo sia arrivato.
Non posso fare a meno di consigliarla e soprattutto di indicarla per i più piccoli e perché no, condividerla insieme, anche perché sono molti gli insegnamenti che l’autrice lascia in queste centocinquanta pagine “condite” poi dai suoi bellissimi disegni, anche perché una favola senza disegni, non è una favola che si rispetti.
Buona lettura!
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Un fratello speciale
Giacomo Mazzariol ha diciannove anni e il 21 marzo del 2015 carica un corto su YouTube, un video che fino ad oggi ha avuto quasi 150.000 visualizzazioni. Quando pensiamo a internet, video e giovani, solitamente il mix ci fa pensare a niente di buono, invece questa volta il risultato è stato strepitoso.
Giacomo ha pubblicato un video intitolato “The Simple Interview” che dopo la lettura del libro ho visto e che mi è arrivato dritto al cuore. Il corto parla del suo fratellino Giovanni, un bambino speciale, con un cromosoma in più e di come le differenze e le distanze le creiamo noi con i nostri pregiudizi. Da qui l’idea di realizzarne un libro su “Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più”.
Giacomo si racconta dall’età di cinque anni fino ai giorni nostri; il tutto parte, quando i genitori gli annunciano, a lui e alle sue due sorelle, che presto avrebbero pareggiato i conti, 3 maschi a 3 femmine e che il fratellino in arrivo sarebbe stato speciale. Giacomo pensa subito a un supereroe.
Da qui parte il viaggio di Giacomo e la difficoltà, con il crescere, di farsi accettare con un fratello “speciale”. Il giovane scrittore affronta tutte quelle tappe che noi possiamo immaginare, che includono la paura di essere deriso, allontanato e che ti fa arrivare fino al punto, non di omettere ma di mentire. Racconta anche del suo difficile rapporto con un fratello con cui credeva di correre in bicicletta e che invece non potrà condividere con lui molte cose. Ma Giacomo cresce e Giovanni ha un ruolo in questo.
Mazzariol ci presenta la vera famiglia del “Mulino Bianco”, quella che non si ferma davanti alle difficoltà, che fa del sorriso la sua carta vincente e che nel diverso non vede differenze. Con il suo stile semplice e diretto, ci fa conoscere il suo mondo, che è anche quello di milioni di persone. Con delicatezza e genuinità ci racconta uno spaccato di se, non così facile da condividere con gli altri e per questo lo ringrazio di cuore.
Bravo Giacomo e soprattutto grande Giovanni, mi hai fatto sorridere con gli occhi e con il cuore.
“Giovanni che va a prendere il gelato.
-Cono o coppetta?
-Cono!
-Ma se il cono non lo mangi.
-E allora? Neanche la coppetta la mangio!”
Lo consiglio.
Buona lettura!
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Ken Follet al femminile
Dopo “I giorni del tè e delle rose” e “Come una rosa d’inverno”, ho finito di leggere anche “Una rosa selvatica” e posso dire che la Donnelly ha fatto centro anche questa volta.
Il ciclo della famiglia Finnegan, dopo Fiona e Charlie, coinvolge Seamie, l’ultimo fratello, il famoso esploratore. Siamo nel 1914 e il mondo sta per cambiare. Come nei precedenti casi, la Donnelly manda avanti anche le vite degli altri protagonisti che ormai sono molteplici ma tutti ben distinguibili.
Le donne anche questa volta hanno il ruolo principale. Dopo l’inarrestabile Fiona e la tenace India, questa è la volta della temeraria Willa Alden, la giovane scalatrice che pur avendo perso un arto non ha smesso di portare avanti il suo sogno e spersa in Nepal, dovrà presto tornare a Londra e fare i conti con il suo passato, un passato di nome Seamie.
La Donnelly, parla della lotta per il diritto di voto delle donne, dell’importanza dell’istruzione per le classi inferiori, della speranza e dell’aiuto reciproco e soprattutto spinge “le sue donne” a ottenere la parità con gli uomini.
Al conflitto non viene dedicata una parte proprio centrale, sono altri gli scenari in cui l’autrice ci porta, fra cui l’Africa, la Turchia e il Mediterraneo. Con la presenza di Lawrence d'Arabia, ci racconta anche il mondo di una spia e la forza di seguire un sogno.
Alla Donnelly piace scrivere e tanto, ogni volume della trilogia supera le seicento pagine (il secondo addirittura le ottocento) e dal primo molte cose sono cambiate. Il primo volume rimane indiscutibilmente il mio preferito e questo si colloca in fondo alla serie. Ho visto una Donnelly un po’ frettolosa in alcune parti, un po’ pesante in altre e soprattutto questa volta l’ho vista un po’ esagerare.
Adoro l’importanza che da alle donne e alle loro lotte. Il romanzo è storico ma con un filo di rosa; importanti sono i temi storici ma molto ruota intorno ai due protagonisti. Consigliarlo? Assolutamente, una volta iniziato sarà difficile (per gli appassionati del genere) smetterlo! Per alcuni potrà sembrare una recensione contraddittoria, ma il mio intento era quello di spiegare che il libro mi è piaciuto e molto, ma che rispetto agli altri ha qualcosina in meno.
Buona lettura.
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Il popolo di internet si ribella
Dopo aver finito queste 180 pagine, che messe insieme arrivano a un massimo di novanta, le emozioni suscitate in me erano un po’ contrastanti.
Per vedere se l’impressione era solo mia, ho fatto un “giro” sul web anche perché dovete sapere che la Casciani viene proprio da li.
Susanna Casciani è “famosa” per la sua pagina facebook “Meglio soffrire che mettere in un ripostiglio il cuore”, seguita da oltre 200.000 persone. Da qui a far “nascere” un libro, il passo è stato breve e questo è il risultato.
Il popolo del web si è diviso, chi ha osannato l’opera, coronamento del lavoro già iniziato dalla Casciani, chi invece l’ha bocciato in pieno, considerandolo una “caricatura” della pagina che sul web può prendere ma scritta come libro fa pena.
Come si può capire dal titolo il cuore è il centro del romanzo, la sua protagonista è Anna, una ragazza che dopo essere stata lasciata dal fidanzato, si mette a scrivere un diario, conteggiando i giorni dopo la fine. Si parte dall’abbandono “fresco fresco”, per allontanarsi sempre più. Le pagine si susseguono e ognuna inizia appunto con: 7 giorni dopo la fine, 10 giorni dopo la fine e via seguendo. I pensieri e le emozioni sono scritti di getto e vanno ad affrontare una tematica importante come l’abbandono, la difficoltà di andare avanti dopo la fine di una storia e il rimettersi in gioco.
I sentimenti descritti dalla Casciani sono banali per chi ha provato queste emozioni, ma da una parte anche confortanti, si dice che il dolore condiviso è dimezzato.. La sua protagonista affronta un percorso che molti nella vita prima o poi si trovano a dover fare e veder materializzati su carta questo genere di emozioni fa capire di non essere i soli.
Tirando le somme, posso dire che forse la pecca maggiore della Casciani è lo stile e il pensare di poter realizzare una storia con dei frammenti. Dall’altro posso complimentarmi con lei per aver affrontato una tematica così importante, solo che poteva farlo con un pochino più d’impegno.
Se ci avete fatto caso, l’ho sempre chiamata per cognome, non mi sento ancora di definirla una scrittrice in pieno. Come genere non lo definirei una lettura per ragazzi.
Buona lettura!
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Un minuto basta a colmare la vita di un uomo?
Una notte, San Pietroburgo e due anime. Un incontro casuale di due persone destinate a incontrarsi.
Lui è il sognatore, lei è la diciassettenne Nasten’ka.
Lui ritrova la gioia di vivere, lei vuole cominciare a vivere.
Lui è un uomo solo, completamente solo e si definisce un tipo. Lei ha un’infanzia particolare.
Su una panchina, dove si ritroveranno anche altre notti, si raccontano e si trovano.
Lui: “ Aspettavo che Naten’ka, che mi ascoltava spalancando i suoi occhi intelligenti, si mettesse a ridere con il suo riso infantile, irrefrenabile e allegro e mi ero già pentito di essermi spinto così avanti e di aver raccontato invano quello che da molto tempo mi bolliva nel cuore, cose di cui potevo parlare come se fossero state scritte, perché già da tempo il mio racconto era pronto, e pertanto non mi trattenni dalla lettura, dalla confessione…”.
Poi venne il turno di lei e raccontò la sua storia “Voi conoscete già la mia vita per metà, cioè sapete che vivo con una vecchia nonna…”.
Dostoevskij ha catturato la mia attenzione, sono stata anch’io su quella panchina a sentire le loro storie, la loro vita e le loro speranze. Ho sofferto, ho gioito ed ho soprattutto atteso. Sognando insieme al sognatore si è anche consapevoli che prima o poi i nodi verranno al pettine, e leggi, e attendi, il momento in cui accadrà, perché lo sai che accadrà. Un racconto che colpisce, letto con un velo d’inquietudine; un’inquietudine che non ha tolto niente al piacere della lettura.
Posso solo consigliare a tutti di dedicare poche ore del proprio tempo a questo testo, ne sarete ripagati con gli interessi.
“Quanto più siamo infelici, tanto più profondamente sentiamo l’infelicità degli altri; il sentimento non si frantuma, ma si concentra…”.
Buona lettura!
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Una legge più umana
L’illuminista Beccaria nel 1764 pubblicò, in forma anonima, la sua opera più importante, considerata una delle prime che dettero avvio al diritto moderno. Tradotta due anni dopo in francese raggiunse la fama Europea e non solo.
Beccaria con “Dei delitti e delle pene” analizza il sistema giudiziario vigente andando ad analizzarne in maniera sintetica i vari difetti, proponendo dei fini e dei mezzi più validi per raggiungere lo scopo.
Analizza la giustizia in maniera dettagliata andando a indagare e dimostrare quanti innocenti possono essere vittime di una parola. Pone l’accento sulla tortura che è commessa su chi non è ancora reo, visto che la sentenza non è stata ancora emessa e tocca poi uno dei motivi che hanno reso quest’opera così famosa, ovvero la pena di morte, con queste parole:
“Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio”.
Beccaria è diretto, chiaro e deciso. “Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impegnata a distruggerle”. Evidenzia il rapporto fra il delitto e la pena, una pena che deve essere certa, chiara e commisurata al giusto delitto. “Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali”.
Quello che ho trovato in quest’opera è l’umanità, la chiarezza e l’intenzione di trovare soluzioni valide e applicabili. Importane è il lavoro che ha fatto sulle interpretazioni delle leggi, l’importanza dell’educazione e la tutela degli innocenti.
Molti autori hanno tratto ispirazione da quest’opera per realizzarne delle loro. Il linguaggio e la scrittura utilizzati sono quelli del tempo. Alla fine dell’opera si trova il “Commento di Voltaire” che non aggiunge niente a quello che è stato già detto, ma che ne da una sua interpretazione più “pratica” andando ad analizzare sentenze realmente accadute.
Una curiosità che non sapevo è che Beccaria è il nonno materno di Alessandro Manzoni.
Un’opera che fanno ancora giustamente studiare all’università e che consiglio a tutti. Beccaria provò a gettare le basi per il futuro giuridico e qualcuno i suoi consigli li ha seguiti.
Buona lettura!
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La solidarietà fa bene
Tutto nel piccolo paesino di Porvenir procedeva come al solito, quando all’inizio dell’inverno, la scarsa affluenza di lavoro mette a rischio la postina Sara, che per mancanza di lettere può essere trasferita in città.
Sara è una donna con tre figli a carico, abbandonata dal marito, è nata e cresciuta in quel paesino di poco più di mille anime e la partenza per la città la spaventa e la preoccupa.
La Signora Rosa è la sua vicina; non avendo avuto figli, vede Sara come qualcosa di più di una semplice amica. Questa situazione la tocca così profondamente da decidere di mettere in gioco i suoi sentimenti e di creare una catena.
“In città dicono che non ci piace scrivere e ricevere lettere. Come si permettono!”
L’idea dell'originale vecchietta consiste nello scrivere lettere senza il mittente e mantenerne il segreto, e in poche pagine mettere nero su bianco qualcosa che a uno sconosciuto è più facile raccontare. L’importante è non interrompere la catena.
Angeles Donate ci porta fra le viuzze di un paesino in cui la maggior parte delle persone si conosce, ma fino ad un certo punto. L’autrice va oltre quella facciata, mettendo a nudo i suoi personaggi e rivelandoci qualcosa d’intimo di ognuno di loro.
La scrittrice parte davvero molto bene e per metà del romanzo mi sono anch’io sentita parte di quel progetto, ma nel momento più importante, qualcosa viene a mancare. Leggendo ti rendi dell'intento della scrittrice che vorrebbe dare quel qualcosa in più, ma spesso il troppo stroppia e sul finale sei consapevole che il meglio è già passato.
È un romanzo che parla di solidarietà, amore, responsabilità e rinascita. Di chi è partito, di chi è rimasto e di chi ritorna. Una lettura che forse vedo più vicina al mondo femminile.
Per concludere vi lascio con questa frase:
“Ma invece di scrivere la terza riga, la penna si è animata di vita propria…Le dita non obbediscono più a te, ma alla penna. Corrono leggere e tu diventi un mero spettatore che può solo leggere la scia che lasciano sulla carta”.
Questo è per scusarmi, in alcuni casi le mie recensioni sono lunghe perché le dita corrono sulla tastiera senza rendermene conto. Parto sempre con l'idea che voglio essere sintetica ma poi tutto diventa indispensabile.
Buona lettura!
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Una critica non celata
Leggere “La fattoria degli animali” e rimanerne indifferenti è qualcosa che non può succedere. Ho finito di leggere questo libro una settimana fa e sono ancora in difficoltà nel trovare le giuste parole per rendere il mio pensiero. Questo libro mi ha sconvolto.
Orwell con un linguaggio semplice e diretto ci presenta, se così si può definire, una satira politica. “La fattoria degli animali” cela molto più di quel che vuol mostrare. Se agli occhi di un profano può quasi sembrare una storiella senza un lieto fine, per un lettore più attendo, ma neanche più di tanto, la critica di Orwell per il comunismo e per tutti i governi totalitari è palese.
I protagonisti sono gli animali di una fattoria patronale, che decidono di ribellarsi al padrone, attraverso la rivoluzione, uno strumento necessario per diventare liberi e finalmente tutti uguali. Il passare da “Fattoria Padronale” a “Fattoria degli Animali” può sembrare un sogno che si realizza, ben presto diventerà altro:
“Questo lavoro sarebbe stato assolutamente volontario; chi se ne fosse astenuto però avrebbe avuta ridotta di metà la sua razione”.
Orwell ci mostra il corso degli eventi, di come si possa cercare il nemico ovunque, della necessità di un capo espiatorio su cui riversare i problemi, senza dimenticare l’ingenuità e il terrore che può nascere nei deboli. Di come un buon oratore può far diventare bianco qualcosa che invece è nero e di come la difficoltà di farsi avanti e di esporsi ci fa diventare se non proprio dei vigliacchi comunque degli assecondatori passivi.
Nella mente del lettore diventa molto semplice sostituire il ruolo degli animali con quello degli uomini. Personalmente ho trovato particolarmente toccante il cambiamento dei “I sette comandamenti” che venivamo “leggermente” modificati per trovare il vantaggio di chi prima era uguale agli altri. Orwell ci ha mostrato tutto ed è difficile non puntare il dito sul singolo o su chi passivamente ha accettato gli eventi. Però forse in maniera involontaria, ci ha anche mostrato di come il singolo difficilmente poteva fare la differenza.
Una lettura che consiglio. Le riflessioni possono solamente aiutarci a vedere che purtroppo la società, anche da noi, non è poi così diversa, le caste ci sono ancora.
Buona lettura!
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Le trasformazioni di Pictor
Hesse scrisse questa favola per la cantante mozartiana Ruth Wenger, che divenne poi la sua seconda moglie due anni dopo.
La casa editrice “Nuovi Equilibri” ha pubblicato “Le trasformazioni di Pictor” (questo è il titolo della favola) con i disegni originali di Hesse.
È proprio questa la peculiarità dell’opera che insieme allo scritto mostra la vera intenzione dell’autore e cosa ci può essere di meglio che un’immagine per una favola?
Pictor è l’emblema dell’uomo che per la fretta e la mancanza di coraggio rischia di perdersi il bello della vita e che solo l’amore potrà fargli aprire gli occhi e farlo rinascere.
La favola è molto breve ma intensa. Hesse l’ha scritta in un periodo molto particolare della sua vita e nel testo se ne sente l’intensità. La lunghezza della favola è di solo sei pagine che vanno poi accompagnate alle immagini.
Una curiosità sull’opera:
“Solo in vecchiaia ne ha autorizzato la pubblicazione. A questo proposito è interessante anche il modo in cui ha fatto impaginare un’edizione speciale di 650 copie promossa nel 1925 dalla “Società degli amici del libro” di Chemnitz. Il testo venne stampato sempre solo sulla pagina sinistra, mentre le pagine a destra del libricino rimanevano in bianco perché Hesse potesse illustrarle individualmente di propria mano”.
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Un libro che va preso con ironia
Nella sua introduzione a quest’opera, Franco Volpi mette subito le mani avanti:
“Nel leggere il presente trattatello vanno tenuti presenti i condizionamenti e le circostanze, voglio dire il grave fardello della tradizione maschilistica e gli atavici pregiudizi che gravano sulla penna di Schopenhauer”.
Per una femminista come me non è stato facile approcciarmi a un autore misogino come Schopenhauer. Grazie sempre all’introduzione di Volpi, non sono partita “con il dito puntato” e alla fine posso dirmi di essermi fatta qualche risata.
Questo “trattatello” è l’insieme di scritti editi e inediti ripresi da alcune sue opere. L’avversione di Schopenhauer nei confronti delle donne, nasce sicuramente dal difficile rapporto del filosofo con la madre “Il giovane filosofo avrebbe invece voluto riconquistare la genitrice al focolare domestico, cioè a se stesso, ma, scaricato a vantaggio dell’amante, prese in odio la situazione, la madre, le donne, il mondo, e se ne andò di casa”.
“L’arte di trattare le donne” è diviso in diciassette mini capitoli, e ognuno affronta un argomento diverso in cui la donna ne è la protagonista. Fra i più “divertenti” posso menzionare: “I suoi difetti”, “Il matrimonio” e “I diritti delle donne”.
Da questo trattato, risalta ovviamente un’avversione nei confronti della donna molto forte che però fa anche capire quanta attenzione, l’autore abbia dedicato al gentil sesso per riuscire a vederne così tante sfaccettature e purtroppo devo riscontrare che in molte mie conoscenze maschili qualche pensiero di Schopenhauer è condiviso. Avranno forse conosciuto donne sbagliate?!?
Lo consiglio specialmente al pubblico femminile, per far capire cosa possa passare nella testa di alcuni uomini! Avvicinatevi all’opera con molta ironia e allegria, alla fine Schopenhauer, visto il suo passato, “Predicava male ma razzolava bene”.
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La follia di una donna
“Senso” è un cortoromanzo d’amore pubblicato da Camillo Boito nel 1883. L’opera è scritta sotto forma di diario e la protagonista è la Contessa Livia Serpieri, che alla soglia dei quarantenni, grazie alla corte di un avvocatino che gli fa tornare in mente gli episodi della sua gioventù, ci racconta la storia del suo grande amore.
Era il 1865 e la novella sposa aveva ventidue anni e si trovava a Venezia con il conte, un uomo molto più vecchio di lei. La scelta non le era stata imposta dalla famiglia ma proprio da lei, che in quest’unione non vedeva amore, ma vedeva molta convenienza, fra cui carrozze, brillanti, abiti di velluto, titolo…
Tutto inizia quando Livia si ritrova infatuata di Remigio, tenente austriaco, che con la nostra protagonista ha molto in comune. Oltre ad avere un aspetto molto piacevole, questo tenente Ruz era un giocatore di carte, uno sperperatore e soprattutto un uomo di poco onore.
Insomma Livia, senza rendersene conto s’innamora proprio di un uomo così simile a lei. Ma gli eventi prendono una brutta piega e la Contessa non è una donna abituata a perdere.
Boito ci presenta una donna vanitosa, egoista, e superficiale che diventa poi una donna gelosa, ossessionata e vendicativa. Una donna ferita può diventare davvero molto pericolosa. Quello che colpisce il lettore, o almeno me, è che Livia è anche una donna non pentita ma recidiva.
Sullo sfondo di un’Italia che cambia, in piena guerra, questa storia d’amore, se così si può chiamarla, porta alla luce molte debolezze umane. Tutto questo avviene in circa cinquanta pagine da cui poi Luchino Visconti ha preso ispirazione per la realizzazione del suo film del 1954. In realtà non ha preso solo spunto, ci sono delle modifiche all’interno della trama, ma sono lievi, quello su cui invece ha lavorato il regista è lo sfondo politico e rivoluzionario del tempo. Visconti approfondisce una trama un po’ scarna, “condendola” con degli ingredienti che la vanno a completare. Ho apprezzato molto il film e lo consiglio a tutti quelli che si avvicineranno a quest’opera.
Per concludere, posso dire di aver trovato una degna compagna della Marchesa de Merteuil, protagonista del libro “Le relazioni pericolose”, anche se in Livia ho trovato, anche se credevo impossibile, della cattiveria in più. Insieme avrebbero fatto faville…o si sarebbero fatte fuori a vicenda.
Buona lettura!
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