Opinione scritta da annamariabalzano43
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Thus bad begins
“Thus bad begins and worse remains behind” sono le parole piene di biasimo e di dolore che Amleto rivolge alla madre, in una delle scene più drammatiche dell’opera shakespeariana.
Non è la prima volta che Marias ricorre a Shakespeare per il titolo di un suo romanzo. Era già accaduto in “Un cuore così bianco” dove il riferimento al Macbeth è esplicito.
Siamo nella Spagna post franchista. Al centro della storia sono un regista di mediocre successo, Muriel, sua moglie, Beatriz, alcuni frequentatori della loro casa, legati da vincoli di amicizia, come Roy, Rico e il pediatra Jorge Van Vechten. Il narratore Juan De Vere ha il ruolo di assistente e segretario del regista. La storia, con i suoi enigmatici e tormentati personaggi, serve da pretesto per approfondite riflessioni su un lungo e oscuro periodo storico di cui la Spagna è stata protagonista e delle conseguenze che si sono protratte fino quasi ai nostri giorni.
Non è un mistero che l’ordine apparente che regna nei regimi autoritari nasconda profonde fratture, drammi, crisi di coscienza, abusi, prevaricazioni e violenze. Non tutto avviene alla luce del sole. La verità emerge solo in un tempo successivo, quando le dittature cadono o si estinguono naturalmente, come nel caso della Spagna. E se dolore e paura hanno dominato durante il regime, diffidenza, sospetto e tradimenti non mancano nel periodo della normalizzazione. É questo uno dei punti centrali di questo bellissimo romanzo. L’analisi delle reazioni, dei sentimenti di chi ha avuto la fortuna di sopravvivere a un lungo periodo di repressione e oppressione è condotta con sapiente sensibilità. Marias insiste su quel fenomeno che egli chiama “patto sociale” necessario, anzi indispensabile per sopravvivere dopo simili eventi. Proprio grazie ad esso il popolo spagnolo è riuscito, se non a dimenticare, che é cosa assai diversa, a pacificare gli animi, a conciliare in qualche modo le posizioni opposte, a tacitare le meschine delazioni. La convivenza civile ha richiesto uno sforzo quasi sovrumano. Molto si è taciuto. Molto si è volutamente ignorato. “Dei fatti storici di un paese parleranno soprattutto le generazioni che non li hanno vissuti, per poterli capire, per cercare di appartenere a una parte o all’altra.”
Ed è così che comincia il male, quando “il peggio resta indietro, perché ormai è passato”.
In questa prospettiva si inserisce l’ambiguo personaggio di Van Vechten. E d’altra parte l’ambiguità circonda anche Muriel e Beatriz. La loro storia si trascina fino alla fine in un succedersi di dubbi e supposizioni, che catturano l’attenzione del lettore.
Da un punto di vista strettamente letterario, il personaggio del narratore testimone degli eventi raccontati, il giovane De Vere, rientra nella classica tradizione del romanzo picaresco che ha le sue origini proprio in Spagna con il Lazarillo de Tormes. L’esperienza del giovane Juan lo condurrà a quella consapevolezza, a quella maturità che farà di lui un uomo, come era avvenuto all’Ishmael di Melville, al Gulliver di Swift, al Robinson di Defoe, fino a giungere a personaggi più moderni e di notevole spessore letterario quale Stephen Dedalus dell’Ulisse di Joyce.
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Ossessione fatale
Irritante. Si, irritante é dir poco. Il romanzo della Hart, sicuramente ben scritto, ha due grossi limiti: il primo riguarda l’ambiente in cui la storia si dipana, circoscritto all’alta borghesia londinese, che sembra vivere avulsa dal contesto sociale del paese, impegnata unicamente a perseguire e conservare quel successo e quei privilegi che rendono piacevole la vita. É indubbio che esistano ancora, nell’Inghilterra di oggi famiglie che hanno un tenore di vita e interessi simili a quelli dei protagonisti, ma è abbastanza inverosimile che la loro esistenza possa procedere senza essere minimamente influenzata dai drammi sociali politici e economici che tormentano il mondo. Ci si muove dunque qui in una sorta di microcosmo di perfezione estetica, di bellezza fisica e di ricchezza, un mondo fatto di agi e belle dimore, come la casa di campagna del padre di Ingrid, in cui ancora ogni stanza ha il nome d’un fiore diverso, secondo la tradizione dei romanzi dell’ottocento. É possibile immaginare che l’autrice abbia volutamente creato uno scenario così perfetto perché risaltasse inequivocabilmente il contrasto con la perversione e il degrado morale in cui precipiterà il narratore. Più il mondo circostante é impeccabile, più si accentua il buio dell’anima. E qui si rivela l’altro grosso limite del romanzo. Non c’è dubbio che la passione possa sconvolgere la vita degli individui, portare a distruggere affetti e legami esistenti. Non c'è dubbio che il sesso svolga un ruolo fondamentale nell’esistenza umana, ma ciò che risulta irritante e perfino in certo qual modo inverosimile è come in un uomo razionale, evoluto, legato profondamente alla famiglia, possa prevalere in maniera sfrenata e brutale una passione per la donna amata dal figlio. Non che ciò non possa accadere. Tutto può succedere, sempre. Forse l’irritazione scaturisce da una certa inevitabile pruderie borghese, che tende a condizionare gli istinti più primordiali per farli rientrare nei limiti ammessi dalla morale. E tuttavia si vorrebbe che prevalessero le qualità razionali, i legami indissolubili, il principio di lealtà che danno dignità all’uomo. Se dunque lo scopo della Hart era quello di denunciare la mostruosità di un certo tipo di comportamento in un ambiente che di per sé dovrebbe essere noto per correttezza e impeccabilità, allora bisogna ammettere che vi é riuscita perfettamente. Non dimentichiamo che il personaggio intorno al quale tutta la tragedia si svolge é una donna che da adolescente era stata oggetto del desiderio incestuoso del fratello. Da qui la frase più significativa del romanzo :” Chi ha subito un danno é pericoloso. Sa di poter sopravvivere.”
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Cocksure e wasp?
Satira e ambiguitá erano giá ferocemente presenti nel titolo originale di questo romanzo del ’68 di Mordecai Richler “Cocksure”, correntemente tradotto come “ sicuro di sé, impettito, presuntuoso”, con un esplicito riferimento all’organo genitale maschile. Né si può dire che questo aspetto sia poco rilevante nel romanzo, anzi. Il protagonista, Mortimer, é costantemente afflitto da una insicurezza che compromette la sua vita sessuale, e provoca in lui un calo avvilente di autostima.
Un romanzo che mette in discussione la cultura e la controcultura anglosassone della fine degli anni sessanta. Richler non si limita a scardinare le più comuni e solide basi su cui aveva prosperato ed era cresciuta la borghesia anglosassone, la sua satira va oltre, investe la spregiudicatezza a volte imbarazzante e grottesca con la quale si vuole rinnovare la cultura e la società . Emblematico, a questo proposito, è il modello educativo adottato da Joyce , la moglie di Mortimer, nell’educazione del figlio Doug, che cresce testimone dell’ infedeltà della madre e ne diventa complice.
Uno dei temi centrali del romanzo é certamente l’antagonismo tra la cultura ebraica e quella protestante. Qui l’ambiguità é esplicita e percorre tutto il corso della narrazione. Mortimer nega ripetutamente di essere antisemita, ma il suo orgoglio wasp (bianco anglosassone protestante) lo rende sospetto agli occhi degli amici ebrei. La satira ovviamente, anche qui, investe non solo il mondo dei gentili, ma anche lo stesso ambiente ebraico, un po' alla maniera del primo Woody Allen. Il lettore, sicuramente divertito, non ha, tuttavia, certezze. L’ambiguità investe ogni campo, quello sessuale, quello politico, quello sociale. Il personaggio più emblematico è il Creatore di stelle, una grottesca caricatura del magnate hollywoodiano, che esercita il suo potere come un padrino mafioso e aspira a divenire onnipotente. Una sorta di divinità terrena.
La ferocia narrativa di Richler non risparmia nessuno e la sua predilezione per i coup de theatre offre un’inaspettata conclusione della storia, come sarà per “La versione di Barney”.
Un libro dissacrante e molto “british”, una lettura molto piacevole.
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La beffa del reduce
Ci rivediamo lassù di Pierre Lemaitre
La beffa del reduce
Ci sono guerre pubbliche e guerre private. Ci sono guerre mosse da pretestuose motivazioni ideologiche e ci sono guerre di difesa del territorio. In ogni caso ogni guerra genera solo sconfitti, tutt’al più sconfitti che si celano dietro una maschera da vincitore.
Del conflitto del ‘15- ’18 hanno scritto autori di nazionalità diverse, affrontando il tema ciascuno secondo la propria sensibilità ed esperienza. Si pensi alle opere di quegli scrittori di cultura mitteleuropea che videro cancellato un mondo fino ad allora ritenuto incrollabile, o anche a romanzi come “Addio alle armi” di Hemingway o “La paga del soldato” di Faulkner.
Il romanzo di Lemaitre presenta due parti molto diverse tra loro, che sono, tuttavia, assai armoniosamente collegate e integrate. La prima si concentra sulla guerra, sui giovani chiamati alle armi, sui loro rapporti con le famiglie, e dà ampio spazio agli eventi sul campo di battaglia e agli orrori che ne derivano. Qui la narrazione è drammaticamente coinvolgente. È palpabile la solitudine dell’individuo di fronte a situazioni di pericolo estremo che non ha né scelto né cercato.
Ciò che accade a Edouard e a Albert li legherà indissolubilmente in una lotta per la sopravvivenza lontano dalle famiglie d’origine. La guerra privata di Edouard contro suo padre, amplificata e trasformata in quella condotta al fronte, continuerà fino alla fine, attraverso scelte difficili e drammatiche.
Il viso orribilmente sfigurato di Edouard non può non riportarci al personaggio di Faulkner ne “La paga del soldato”. È il tema fondamentale del rientro dei reduci, del loro reinserimento, della difficoltà di ricoprire o ritrovare un ruolo nella società civile. Se Faulkner aveva affrontato l’argomento mantenendo il tono altamente drammatico in tutto il romanzo, Lemaitre lo sviluppa nella seconda parte con una vena satirica che spesso sfocia nel grottesco. Non si creda tuttavia che ciò allenti la tensione narrativa o la drammaticità dell’azione. È proprio il paradosso che provoca maggiore disprezzo e disgusto in tutto ciò che si genera intorno al business della guerra. Gli interessi non si limitano agli affari delle industrie degli armamenti e all’indotto che ne deriva e che sollecitano interventi bellici, ma si sviluppano e si moltiplicano anche nel momento immediatamente successivo con speculazioni private e truffe vere e proprie. Ed é qui, nella seconda parte del romanzo che i personaggi si definiscono con maggior precisione. L’ignobile Pradelle non può che riscuotere il disprezzo del lettore perché specula sui cadaveri dei caduti e organizza una truffa colossale ai danni del governo facendo rientrare salme di sconosciuti, talvolta di nemici, in bare estremamente piccole, attribuendo ad essi false identità.
D’altra parte Edouard e Albert, vere vittime della guerra, organizzano una truffa ingegnosa ai danni di comuni e privati vendendo falsi monumenti che non saranno mai realizzati. Qui, tuttavia, il lettore non può che sentire simpatia per i personaggi. Ed è questo il rischio che si evidenzia in questo romanzo: laddove le istituzioni mancano o tradiscono il loro compito, ogni atto di furbizia, ogni azione truffaldina rischia di venire giustificata e persino assolta, ogni concetto di patria, di solidarietà, di lealtà e rispetto rischia di diventare pura e vuota retorica.
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La memoria unica prova dell’esistenza del passato
“Forse Esther” è il primo romanzo di Katja Petrowskaja, anche se in realtà non si tratta proprio di un romanzo, quanto piuttosto di una ricerca nel passato, di una raccolta di testimonianze e di episodi riguardanti la vita degli antenati della scrittrice. Un lavoro nato dall’esigenza di ricercare le proprie radici per guardare al futuro con consapevolezza e coscienza ed evitare di vivere affannosamente un presente limitato nel tempo e nello spazio.
“Credo si chiamasse Esther, disse mio padre. Si, forse Esther. Avevo due nonne e una si chiamava Esther, proprio così.” Da qui il titolo dell’opera, che, non a caso, contiene in sé tutta l’importanza di recuperare e conservare la memoria, perché la storia non finisca nel nulla dell’oblio.
Difficile quanto doloroso ripercorrere gli anni delle persecuzioni, dei ghetti, dei lager e dei gulag per la Petrowskaja, esempio di quel complesso intreccio di culture, ebraica, tedesca, russa e polacca che si creò nelle zone dell’Europa centro-orientale, come ci è stato ampiamente descritto anche dai fratelli Singer.
Nella ricostruzione degli eventi, spiccano energiche figure di donne, come la nonna Rosa, che insegna il linguaggio dei segni ai bambini sordomuti e ne salva duecento dall’assedio di Leningrado. La lingua e il linguaggio sono elementi centrali nell’opera della Petrowskaja. Lei stessa sceglie di scrivere in tedesco, la lingua del nemico, che diviene “la bacchetta del rabdomante”, il mezzo per ripercorrere il passato e stabilire la verità. E da sempre la conoscenza della lingua di un popolo permette di penetrarne e comprenderne non solo gli usi, ma anche i sentimenti, la mente, il cuore. “Il mio tedesco, verità e illusione, la lingua del nemico, era una via di fuga, una seconda vita, un amore che non passa perché mai lo si conquista, offerta e dote, come se avessi restituito a un uccellino la libertà.”
Una scelta tanto più difficile per un’ebrea sovietica, la cui famiglia si trovò a essere perseguitata su più fronti. Il viaggio nel passato inizia attraverso la Polonia, nell’89, nel momento in cui la Petrowskaja non aveva padronanza di nessuna lingua, né del polacco, né dello yiddish né dell’ebraico e neanche della lingua dei segni: “l’intuito sostituiva la conoscenza. La Polonia era sorda, io ero muta.”
Varcare il cancello, con la sua assurda quanto cinica scritta, è esperienza sconvolgente, al punto da non sapere più, per lungo tempo, quale valore e quale collocazione dare al concetto stesso di lavoro.
Ricostruire il passato per la Petrowskaja, significa passare ancora attraverso la conoscenza degli atti del processo a Judas Stern, colpevole di avere attentato alla vita di un diplomatico tedesco e per questo fucilato, significa risalire lungo la forra di Babij Jar dove vennero trucidate migliaia e migliaia di persone, dove trovarono la morte anche la bisnonna Anna e la prozia Ljilja. Camminare in quei luoghi vuol dire calpestare lapidi, camminare sugli orrori del passato, che si è voluto seppellire perché non ve ne fosse testimonianza.
Con questo traumatico percorso la Petrowskaja giunge a ricostruire un’unitarietà familiare, a dare un senso a episodi fino a quel momento isolati e privi di un nesso logico, a ricreare la storia della sua famiglia, ricomponendo nello stesso tempo le varie parti del suo essere così composito. Il suo è un vero, doloroso tentativo di ritrovare quell’identità di cui la storia l’aveva arbitrariamente privata.
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Aschenbach da Mann a Visconti
Che “La morte a Venezia” di Thomas Mann faccia riferimento ad alcuni episodi della vita dell’autore è noto. Ciò, tuttavia, non fa dell’opera un romanzo autobiografico. Lo splendido personaggio di Aschenbach, un artista in crisi, giunto a Venezia per ritrovare quella disciplina e quel rigore su cui aveva sempre basato la sua arte, diviene il simbolo del declino d’un’epoca e portavoce del suo profondo malessere. Il racconto procede con la continua contrapposizione tra la bellezza struggente d’una Venezia dei primi del novecento e la nauseabonda e maleolente aria che si respira attraversando i suoi canali. La vicenda umana e artistica di Aschenbach si dibatte tra la perenne aspirazione alla perfezione e al sublime e l’amara constatazione del progressivo degrado. In questo scenario si inserisce la passione improvvisa per il giovane Tadzio, la cui efebica bellezza incarna ai suoi occhi la perfezione del mondo classico. Aschenbach, tuttavia, vive questo sentimento con un profondo senso di colpa. La purezza di Tadzio è contaminata dal desiderio dell’anziano artista, al punto da divenire egli stesso personaggio ambiguo e inquietante. Eros e Thanatos, Vita e Morte, Salute e Malattia, nello splendido scenario veneziano.
L’Aschenbach scrittore di Mann diviene l’Aschenbach musicista di Visconti. É sempre la crisi dell’arte in tutte le sue espressioni, al centro della realizzazione cinematografica del regista italiano.
Anche Visconti ha rappresentato la crisi del mondo borghese, con lo stesso nostalgico sentimento, anche nelle raffinatissime riproduzioni degli ambienti veneziani si nota un indulgere su personaggi e situazioni che vanno lentamente scivolando nel passato. La musica di Mahler si sostituisce alla parola di Mann. Le espressioni del viso di Aschenbach,, interpretato da Dirk Bogarde, sostituiscono le descrizioni e i pensieri del personaggio di Mann. Se il protagonista del romanzo, tuttavia, non può in nessun caso coincidere con l’autore, qualche coincidenza si può, al contrario, riscontrare tra Aschenbach e Visconti stesso. Nonostante ciò, neanche il film può essere considerato come opera autobiografica.
Mann e Visconti, sia pure in momenti storici diversi, hanno saputo rappresentare con lo stesso pathos, il sofferto rimpianto d’un mondo scomparso, il mondo di ieri.
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What might have been and what has been
“What might have been and what has been
Point to one end, which is always present.”
Sono versi, questi, tratti dal primo dei Four Quartets dal titolo Burt Norton di T.S.Eliot, ai quali viene spontaneo pensare leggendo la raccolta di racconti di Murakami Haruki, recentemente pubblicata da Einaudi con il titolo “Uomini senza donne”. Le sette storie, infatti, hanno un filo conduttore comune, pur essendo assai diverse tra loro, che si identifica con lo straordinario senso del tempo, con la consapevolezza dell’irreversibilità degli eventi accaduti che vanifica la ricerca di una felicità terrena, e induce a rifugiarsi in una sfera fantastica.
Tutti questi sette racconti descrivono, infatti, storie ai limiti della realtà, o meglio storie che peccano volutamente di razionalità. Anomalo è il comportamento di Kafuku (Drive my car) che decide di diventare amico dell’amante della moglie, dopo la morte di lei, per capire qualcosa di più su una donna che credeva di conoscere alla perfezione, come anomalo è il rapporto di amicizia che lega Kitaru e Aki e che coinvolge anche Erika (Yesterday). Sono legami destinati a interrompersi e a finire in una recondita e sofferta parte della memoria. Molto significativa è la libera e arbitraria traduzione che Aki fa dei versi della canzone dei Beatles, “Yesterday”: “Ieri è l’altro ieri di domani, il domani dell’altro ieri.” Il tempo dunque, come elemento fondamentale e imprescindibile in tutta la narrazione. Irrazionale e alquanto assurdo, appare nel terzo racconto la tesi del dottor Tokai secondo la quale ogni donna è dotata di un organo indipendente che le permette di mentire. È tuttavia proprio l’incapacità di Tokai di prendere decisioni e stabilire rapporti duraturi che lo condanna a una morte per inedia. Come non pensare al “I would rather prefer not to” del Bartleby di Melville?
Sempre in relazione al tempo si snoda il racconto Sherazade, ispirato alle Mille e una notte. Il procrastinare all’infinito la conclusione della storia raccontata da Sharazade a Habara crea una dimensione irreale, che sarà rifugio per il protagonista. “Perché le donne offrivano un tempo speciale che annullava la realtà, pur restandovi immerse.”
Anche Kino, il personaggio centrale della storia successiva, tradito dalla moglie, si rifugia in uno spazio e in un tempo che sembrano sospesi. “Il mondo era un immenso oceano privo di punti di riferimento e Kino una barchetta che aveva perso carta nautica e ancora” Egli non riesce infine più a ricollegarsi alla realtà.
È “Samsa innamorato” il racconto che meglio esprime, tuttavia, l’esigenza di Murakami di rappresentare un mondo assurdo in cui è difficile orientarsi e ritrovare i valori tradizionali. Qui è La metamorfosi di Kafka, che offre l’ispirazione allo scrittore giapponese. L’assurdo è il tema centrale ed è in ogni caso la condizione in cui si dibatte l’uomo.
Uomini senza donne sono dunque coloro i quali non riescono ad avere rapporti stabili e duraturi, in un mondo in cui di stabile e duraturo è rimasto ben poco.
Ogni racconto è narrato al ritmo d’una musica di successo, che siano i Beatles o jazzisti afroamericani come Ben Webster, Coleman Hawkins o Billie Holiday, o che sia il tema del film di Denver Daves “Scandalo al sole”. Le numerose fonti di ispirazione di matrice occidentale e la predilezione per la musica anglo americana, fanno sì che Murakami Haruki sia uno scrittore particolarmente gradito alla cultura eurocentrica, pur conservando tutte le caratteristiche della cultura del suo paese.
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Luci e ombre
La prima cosa che colpisce chi inizia la lettura del romanzo di Robin Black “Ritratto di un matrimonio” è la copertina. Una scelta veramente felice e appropriata. Si tratta di un’opera della coppia di artisti Clark & Pougnaud, che fa parte della serie dal titolo “Lost in meditation”, in cui risalta il sapiente gioco di luci e ombre, di chiaro e di scuro che avvolgono l’unico personaggio, una donna seduta di fronte a una finestra, assorta a meditare. Ed è il bianco della blusa insieme col tenue colore della pelle del braccio sollevato fino all’altezza del capo, che dà centralità al soggetto.
Luci e ombre, dunque, che si alternano come accade in un matrimonio.
Non è un caso che i protagonisti del romanzo siano due artisti: lei, Gus, pittrice, lui, Owen, scrittore. I quadri di Gus sono disabitati, eppure in lei esiste un intimo desiderio di ritrarre personaggi. Ciò che dipinge ricorda molto da vicino il mondo di Hopper, è la stessa rappresentazione della solitudine dell’uomo nel mondo contemporaneo. La solitudine, considerata nei suoi molteplici aspetti, è uno dei temi centrali del romanzo: la solitudine che si cerca come alternativa al clamore della città, quando si è nel pieno vigore della giovinezza, la solitudine dell’abbandono e del tradimento che coincide con il deserto che si è fatto strada nell’anima, la solitudine della vecchiaia che cancella ogni traccia di presente, lasciando spazio solo a sprazzi di passato.
Le relazioni di coppia sono descritte dalla Black con grande sensibilità. La fedeltà e la lealtà, condizioni indispensabili per creare una solida base su cui stipulare un contratto di matrimonio, sono al centro della crisi che travolge Gus e Owen. Confessare o tacere il tradimento, alleviare la propria coscienza, riversando sull’altro il proprio rimorso o al contrario assumersi le responsabilità della propria colpa, tenendo per sé ciò che sarebbe inevitabilmente causa di profondo dolore, è uno dei quesiti che questo romanzo pone al lettore. La personalità di Gus, angustiata dai rimorsi è come divisa esattamente in due: le esperienze della vita incidono a tal punto da sovrapporre in lei i tanti “io” ai quali esse hanno dato origine. Ella è a un tempo ciò che fu e ciò che è. Questa oggettiva difficoltà in cui si trova le impedisce di ritrarre figure umane nelle sue opere. Non riesce a dare un’anima ai giovani caduti sul campo nella guerra del ’15 – ’18. Il suo passato è disseminato di assenze. La perdita della madre prima, della sorella poi, la demenza del padre hanno fissato in lei immagini statiche.
Né è solo sull’amore e sulle sue implicazioni che si dilunga la Black, ma anche sui vari aspetti dell’amicizia, sulla sua eventuale ambiguità, sul rischio d’un condizionamento e di una perdita sia pure parziale di autonomia e riservatezza che comporta una scelta di completa disponibilità. È comunque sempre il dolore che Robin Black riesce a interpretare con grande sensibilità, del dolore descrive le tracce indelebili che esso lascia nell’animo umano, come modifichi le prospettive, vanifichi le illusioni, conducendo a una inevitabile faticosa crescita.
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La disgregazione di una famiglia e il crollo di un
Non ci è possibile, purtroppo, cogliere tutte le più sottili sfumature di questo romanzo di Isaac Bashevis Singer, giunto a noi nella traduzione italiana. L’originale fu scritto in jiddish, per una chiaro tentativo dell’autore di conservare ancora una parte di quella cultura ebraica che andava estinguendosi. E lo jiddish sembra essere una lingua particolarmente complessa. Nonostante ciò rimane grandissimo il valore dell’opera, anche nella sua traduzione, per la rappresentazione di un mondo in crisi, drammaticamente e inesorabilmente condannato a scomparire.
Attraverso la storia di una grande famiglia che ha nel suo patriarca il proprio punto di riferimento, con grande realismo Singer analizza i limiti, le debolezze, i vizi di una parte di quella comunità ebraica residente nell’Europa orientale. I personaggi da lui creati sono di grande spessore, dal capostipite Meshulam, a Abram, a Asa Heshel, a Koppel per non parlare dei bellissimi personaggi femminili, da Adele a Hadassah a Lia. Non risparmia nessuno Singer, di tutti mette in risalto i difetti e i vizi, ma lo fa senza alcun intento moralistico, anzi quasi con indulgenza. È per questo che il lettore non è mai portato a condannare gli eccessi di Abram, pronto a soddisfare le sue improvvise e accese passioni, al punto da ignorare il principio del bene e del male, così come è indulgente verso le debolezze di Asa Heshel. Forse il personaggio verso il quale Singer è più spietato è Koppel, di cui mette in rilievo la grossolanità e la disonestà.
C’è sempre una grande differenziazione tra i personaggi maschili e quelli femminili. Dei primi si sottolineano i difetti, dei secondi la concretezza e la volontà. Ma è certamente Asa Heshel, il personaggio più significativo, per ciò che egli rappresenta nella comunità ebraica di quel tempo e di quei luoghi. Egli è l’intellettuale che non riesce tuttavia a completare alcun progetto iniziato. Studioso di Spinoza, entra in conflitto con l’ebraismo, per il fatto stesso che Spinoza escludeva il principio del creazionismo. Dunque l’inerzia di Heshel compromette tutti i suoi rapporti affettivi. Egli in un certo modo si compiace della sua infelicità e della sua incapacità di amare, pur amando appassionatamente. La sua condizione è la condizione stessa dell’ebreo prigioniero delle sue incertezze. Egli non riesce neanche ad aderire al sionismo, perché in esso non vede la soluzione ai problemi del popolo ebraico. Ciò che per altri rappresenta una speranza per Asa Heshel è solo un’illusione. Egli è dunque l’uomo singolo e parte d’una collettività a un tempo. Il suo destino non può essere che assistere al totale sconvolgimento del suo mondo, all’annientamento e alla distruzione dei valori che gli erano appartenuti. La conclusione del romanzo non lascia alcuna speranza. Se la nostalgia del passato per altri autori di religione ebraica di provenienza mitteleuropea derivava dal rimpianto d’un ordine e di un’armonia perdute, per Singer il passato non ha in sé alcunchè di mitico. Il vuoto è incolmabile. La morte è totale. L’ultima frase pronunciata da Hertz Yanovar è emblematica: “Il Messia verrà presto.” […..] “La morte è il Messia. Questa è la verità.”
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Cultura e società
Un romanzo breve ma denso di contenuti, l'ultima opera di Carlo Repetti. Un racconto che può offrire molteplici interpretazioni, a livelli diversi, dal più semplice al più complesso. E in questa particolarità risiede il suo maggior interesse. Già nel titolo il riferimento al minuscolo colibrì, che nella lingua spagnola è conosciuto come picaflor, troviamo una volontà esplicita dell'autore di dare una connotazione di delicatezza e esclusività al luogo in cui si svolge l'azione. Una delle caratteristiche, infatti, di questo minuscolo e bellissimo uccellino è di poter volare velocissimamente, girando e persino capovolgendo il suo delicato corpicino durante il volo e di fermarsi agitando vorticosamente le ali sui fiori per succhiarne il nettare con il suo lungo becco appuntito. Picaflor, questo paese in un angolo sperduto del mondo, dunque, come il colibrì, ha alcune specifiche capacità di adattamento alle situazioni e alle necessità della vita. E' qui che il protagonista Giorgio, un uomo giunto alla soglia dei cinquant'anni, con un passato di mediocrità alle spalle, viene invitato quasi perentoriamente, a recarsi da un personaggio a lui sconosciuto e di cui conoscerà l'identità solo una volta raggiunta la meta. Quasi malvolentieri, dunque, Giorgio intraprende questo viaggio lunghissimo,prima attraverso i cieli, poi per terra su bus malridotti, infine sull'acqua in traghetti antiquati. Qui il tema del viaggio, come percorso indispensabile per giungere alla conoscenza, tanto caro alla letteratura di tutti i tempi, si carica di simbolismo e di fascino. Ed ecco Picaflor, un paese quasi sospeso nel nulla e nel tempo, rimasto isolato dal resto del mondo dopo il crollo dell'unico ponte che ad esso lo collegava. Ogni personaggio qui incontrato ha una sua precisa dimensione, un definito carattere. Sembra dunque di essere immersi in un ambiente di favola, con una ben definita distinzione tra buoni e cattivi, dove Giorgio incontra Petra, la principessa dei suoi sogni. Ed è certamente questo il primo e più semplice livello di lettura di questo romanzo. Ma la favola, come sempre, cela significati ben più profondi. L'isolamento di Picaflor dal resto del mondo ha fatto sì che i più deboli soccombessero ai più prepotenti, che la cultura, vista sempre in questi casi, come pericoloso mezzo di emancipazione e veicolo di ribellione, venisse repressa con la significativa distruzione di ogni libro o testo scritto. L'arte per esistere ha bisogno di uno scambio continuo con il nuovo, con mondi diversi e l'isolamento di Picaflor porta all'inaridimento di ogni forma di espressione, all'estinzione delle idee. Compito di Giorgio è dunque quello di ricostruire il ponte distrutto, per dare nuovo slancio e nuova vita a un popolo ormai chiuso in se stesso, condannato alla malinconia e al rimpianto, un impegno morale a cui Giorgio non sa sottrarsi e che con difficoltà riesce a rispettare. Ed è a questo punto però che sorge in Giorgio l'interrogativo più inquietante. Se l'isolamento condanna all'estinzione delle idee e in definitiva della libertà, il continuo scambio, il benessere portato all'estremo, un certo progressivo allentamento dei costumi possono portare alla degenerazione della società , alla sua corruttibilità.
Il ponte di Picaflor come il vaso di Pandora. La scelta si pone dunque nell'alternativa tra un mondo chiuso e isolato, che rischia di immiserirsi e un mondo aperto all'innovazione e allo scambio più difficile da controllare e gestire. La risposta sta al lettore, che si sa, non è unico.
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Il coraggio della verità
Un libro complesso e difficile “Il tamburo di latta” di Gunter Grass. Un romanzo che assume un più ampio significato alla luce di quanto rivelato dallo stesso autore, molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, sulla sua appartenenza alle SS hitleriane.
La storia copre un periodo piuttosto ampio, che va dagli ultimi anni dell’ottocento fino agli anni cinquanta e si svolge in parte a Danzica, in parte a Dusseldorf, con qualche tappa in Francia. I luoghi sono estremamente importanti, perché teatro di contese territoriali laceranti e interminabili. La Casciubia o Pomerania era quella zona popolata da polacchi e da tedeschi, guardata con interesse e avidità dalla Russia, con l’inestimabile pregio dello sbocco sul mare.
Oskar nasce in questa terra povera ma ambita. Delle sue origini ricorda l’avventuroso incontro della nonna con il nonno, rifugiatosi sotto le quattro accoglienti gonne di lei per sfuggire all’inseguimento e alla cattura dei gendarmi. E a quel rifugio ampio e caldo si dovrà la nascita di Agnes e ad esso Oskar guarderà sempre come l’unico luogo ove sia possibile trovare un sicuro riparo. Nel suo viaggio a Parigi, ormai quasi adulto proverà la stessa sensazione di protezione sotto l’ampia base metallica della Tour Eiffel.
La nascita di Oskar è accompagnata e scandita dal simbolico e ripetuto scontro di una falena contro la lampadina, anticipazione dell’ossessionante suono del tamburo che Oscar suonerà dall’età di tre anni in avanti. E già a questa tenera età Oskar è così disilluso dal mondo che lo circonda, dal menage à trois dei genitori con Jan Bronski, così critico dei miseri interessi culturali della famiglia, dell’importanza esagerata sconfinante nel disgusto che essa dà al cibo che decide di non crescere più e di manifestare la sua protesta battendo energicamente sul suo tamburo e frantumando i vetri con la sua voce stridente. Questo sarà per molti anni il suo modo di contestare e deprecare il mondo che lo circonda. Dalla sua prospettiva di nano egli può permettersi di notare ciò che altri non riescono a cogliere. Con un’efficace tecnica di straniamento di brechtiana memoria, Grass alterna la narrazione in prima persona del giovane Oskar con quella in terza in cui è lo stesso Oskar che parla di sé da un punto di vista esterno. E dunque, come Gulliver, nano nel paese di Brobdignag, egli riesce a percepire gli errori e gli orrori dell’umanità, coglie la boria aggressiva del tedesco del terzo Reich, nella persona del padre putativo Matzerath, l’illusione inefficace e ambigua dell’oppositore al regime nella persona dell’altro padre Bronski, la spietata e ottusa persecuzione all’ebreo nella vittima Markus. Disgusto e volgarità sono percipiti ad ogni livello. Egli assiste agli espliciti e peccaminosi approcci tra Jan e sua madre. L’amore è sempre visto come qualcosa di apertamente o velatamente morboso. Così nel suo rapporto con Maria, mentre più limpida sarà la relazione con la nana Roswita nel suo viaggio in Normandia dove si esibirà con il maestro Bebra sui bunker costruiti con il cemento in cui hanno trovato orribile sepoltura persino inermi cagnolini.
Solo con la morte di Matzerath, Oskar deciderà di seppellire il suo tamburo e di cominciare a crescere. Eppure la sua crescita lo lascerà comunque nella perenne condizione di nano con l’aggravante della comparsa di una deformante gobba sulla schiena. Qui la metafora costruita da Grass intorno al personaggio Oskar raggiunge il livello più alto. La deformità di Oskar è la deformità di una Germania che ha perso ogni dignità, il cui popolo non ha più neanche lacrime per piangere. Ed è questo il significato del capitolo “Alla cantina delle cipolle”, dove come atto di estrema pietà verso se stesso ogni individuo si reca per recuperare il benefico effetto terapeutico del pianto.
Nella sua missione di espiazione, Oskar diviene un Cristo in terra, un salvatore che assume su di sé le colpe d’una umanità perduta. Il suo cammino procederà a fianco dell’implacabile Cuoca Nera, la cattiva coscienza di ogni individuo.
La complessità dell’opera non investe solo l’aspetto interpretativo della metafora: essa si estende al piano stilistico, che vede l’uso di un linguaggio diverso per ogni tipo di situazione o personaggio, fino all’inserimento di qualche pagina che riproduce una scena teatrale e verso la fine si lascia andare a una sorta di flusso di coscienza, così tipico della letteratura della prima metà del novecento.
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Costumi e religione in uno shtetl dei primi del No
“La pecora nera” di I.J.Singer fu pubblicato postumo nel 1946 ed era stato inteso dall’autore come il primo volume di un’ autobiografia, rimasta purtroppo incompiuta. L’opera, infatti, ripercorre l’infanzia dello scrittore fino alla sua adolescenza. L’insieme che ne risulta è di grande interesse storico e culturale.
Ci si offre l’opportunità, infatti, di approfondire quelle che furono le usanze e i comportamenti delle comunità ebraiche degli shtetl, villaggi o vere e proprie cittadine situate nei paesi dell’Europa Orientale.
Qui siamo a Bilgoraj, nel distretto di Lublino, Polonia. L’epoca in cui inizia il racconto coincide con l’incoronazione dello zar Nicola II, il 1894, quando l’autore aveva pressappoco un anno. La cultura e la politica russa eserciteranno inevitabilmente un’influenza non indifferente sulle comunità ebraiche lì stanziatesi.
Alla descrizione dettagliata delle povere case del luogo, Singer aggiunge una galleria di personaggi molto ben delineati, di cui sottolinea, con notevole capacità satirica, i limiti, le idiosincrasie, le meschinità caratteriali. Incontriamo così Yosef il sarto, dedito alle birbonate, Leybush il fornaio, sempre coperto di farina come il suo cavallo, Yitskhok il carrettiere, magro e allampanato, reduce dal servizio militare in Russia, che va in giro a commerciare con il suo cavallo sporco e malconcio.
Il piccolo Singer dimostra sin dai primi anni di vita una predilezione per i personaggi più discussi e discutibili, parte di quella comunità. Egli diviene la pecora nera della famiglia.
I ritratti sicuramente più riusciti, tuttavia, riguardano i vari tipi di maestri che si succedono nel villaggio. C’è lo squilibrato mentale, Reb Meir, il maestro David, che consumava i pasti a casa degli scolari, il maestro Asher, soprannominato il silenzioso, che si reggeva i pantaloni con le mani, quello che accarezzava i bambini invece di frustarli e per questo allontanato precipitosamente, infine Moshe, che usava strapparsi la barba e masticarla.
L’ironia dell’autore non risparmia comunque neanche i genitori di cui ripetutamente evidenzia i limiti. Del padre sottolinea la mancanza di volontà, la pigrizia, l’incapacità decisionale, in breve la dabbenaggine. Della madre, che pure conduce una vita sottomessa, mette in risalto l’ intelligenza e la cultura.
Ed è il ruolo della donna, così maltrattata e sminuita nel contesto sociale, che viene riscattato dalle descrizioni di Singer. Egli rileva l’ingiusto trattamento ad esse riservato, per esempio al momento d’un parto. Generare una figlia significava non aver diritto neanche ad una giornata di riposo. Eppure queste comunità si basavano fondamentalmente sul lavoro e sull’impegno delle donne.
Se il quadro sociale risulta ampiamente dettagliato, non meno lo è quello religioso. Si apprende quanto sia importante il ruolo del rabbino, non solo per la divulgazione e l’approfondimento delle scritture, ma anche per la funzione di mediatore e di paciere nelle cause controverse tra coniugi. La sua funzione era dunque moralizzatrice e pacificatrice.
Il giovane Singer sembra non sopportare le regole della sua comunità spesso rigide e ipocrite. Egli infatti si comporta talvolta in modo non consono ai principi che gli erano stati trasmessi, quasi a voler affermare e ribadire il concetto che l’eccessivo rigore imposto ai giovani spesso genera una naturale e spontanea ribellione.
Non mancano infine accenni alla storia del popolo ebraico, alla diaspora che li portò a radicarsi in parti diverse del mondo e soprattutto è interessante l’accenno alla persona di Herzl che fu il primo ad affermare la necessità della creazione di uno stato di Israele. Ma questo investe il piano più specificamente politico, che forse Singer avrebbe sviluppato nel secondo volume che non ebbe tempo di scrivere, ma che certamente avrebbe compreso le dure e tristi esperienze della persecuzione e dell’esilio.
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Tra storia e biografia
Così bisognerebbe studiarla, la storia. Attraverso le testimonianze di chi l’ha vissuta. Ed è alle giovani generazioni del nostro tempo, non più abituate a uno studio nozionistico, che ciò sarebbe particolarmente utile. Questo è il pregio fondamentale dell’opera di Stefan Zweig, “Il mondo di ieri”, che ripercorre la storia dell’Europa dai primi del novecento fino all’inizio della seconda guerra mondiale: egli ci consegna una testimonianza diretta dei tragici fatti che cambiarono la storia del mondo con la partecipazione emotiva dell’intellettuale che si era sempre battuto per la pace, con l’ideale aspirazione di vedere realizzata una Europa unita. Egli dunque si sofferma non solo sulle conseguenze che politiche scellerate ebbero sui popoli vittime di decisioni di cui erano assolutamente ignari, ma anche sull’influenza che esse esercitarono sul mondo della cultura e dell’arte.
Zweig guarda con nostalgia all’Austria dell’impero asburgico, a ciò che essa aveva rappresentato in Europa, ne esalta il ruolo leader nella cultura, nell’arte, nella musica. Ricorda i grandi musicisti, celebra gli antichi legami con i più eletti tra i poeti, gli scrittori, i compositori di ogni paese europeo. Rievoca i suoi viaggi nel mondo, le esperienze emozionanti, prima dello sconvolgimento creato dalla prima guerra mondiale. Ha nostalgia di quell’ordine puramente formale ed estetico, diverso da quello repressivo e violento degli squadristi di Hitler. Eppure proprio dalla frammentazione di quell’ordine sono nate le opere più importanti e innovative del novecento, l’Ulisse di Joyce, La Waste Land di T.S.Eliot, il cubismo di Picasso. Questo forse l’unico limite nella nostalgia di Zweig: egli non realizza quanto fosse necessario nell’Europa del primo dopoguerra scomporre la realtà, atomizzarla per ricostituire un’unità armoniosa. D’altra parte lo stesso Freud, suo grande amico, non aveva fatto altro, nel suo studio dell’ego, che analizzare, sezionare la psiche umana, per restituirle l’equilibrio perduto.
L’analisi dei tempi portata avanti da Zweig si addentra nel campo difficile dell’educazione, della liberalizzazione dei costumi sessuali. Accetta le novità e ne sottolinea il benefico influsso sullo sviluppo espressivo dei giovani.
Ciò che appare particolarmente interessante è il continuo costante paragone tra le motivazioni che hanno generato le due guerre più sconvolgenti d’Europa. Egli ricorda l’entusiasmo assolutamente ingiustificato con cui l’Austria e la Germania si fossero gettate nella guerra del ’14, per uscirne umiliate e distrutte economicamente e politicamente. Egli ricorda con amarezza i giorni dell’ascesa di Hitler forieri d’una guerra ancora più feroce, priva di ogni motivazione ideologica. Zweig si sofferma a lungo sulla persecuzione degli ebrei, appena iniziata al tempo in cui il suo racconto si interrompe. Con angoscia denuncia la solitudine e la disperazione di quanti in Europa si erano integrati assimilando la cultura e le tradizioni dei paesi in cui avevano messo radici, perdendo ogni identità ebraica e divenendo a tutti gli effetti cittadini austriaci, tedeschi, francesi, polacchi e così via. Perseguitati, i più fortunati riprendono il cammino in cerca d’una patria, in cerca di una nuova identità.
In questo clima la funzione dell’intellettuale è vanificata, a meno che egli non sia organico al regime. Ed ecco che la cultura portatrice di valori di pace viene isolata e demonizzata.
La citazione che Zweig trae da Shakespeare “So foul a sky clears not without a storm” (Un cielo così nuvoloso non si rasserena senza una tempesta”) assume un significato ancora più illuminante nelle righe conclusive della sua memoria: “Mentre tornavo a casa mi accorsi d’un tratto della mia ombra che si allungava davanti a me [….] Da allora quell’ombra non mi ha più abbandonato [….]. Ma in fondo ogni ombra è anche figlia della luce, e solo chi ha conosciuto luce e tenebra, guerra e pace, splendore e decadenza, può dire di avere vissuto davvero.”
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Riuscirò a mettere ordine nelle mie terre?
“Shall I at least set my lands in order?” – “Riuscirò infine a mettere ordine nelle mie terre?” Questo è l’interrogativo che si pone il Re Pescatore nella Waste Land di T.S.Eliot. E come nella Terra Desolata si celebra la dissoluzione e la frammentazione di un mondo passato che si tenta dolorosamente di ricostituire attraverso l’arte e la poesia, così il romanzo “La Cripta dei Cappuccini” di J.Roth, pubblicato nel 1938, l’anno dell’Anschluss, può essere considerato il canto funebre, l’epicedio dell’impero asburgico e di tutti i valori da esso rappresentati.
Al centro del racconto è il declino della famiglia Trotta, simbolo di un’epoca che va definitivamente scomparendo. Con la conclusione della prima guerra mondiale tutto l’assetto politico - geografico dell’Europa muta radicalmente. I grandi stati sovranazionali, come l’impero austro-ungarico, non resistono al mutamento dei tempi e le popolazioni più eterogenee, diverse per etnie e religioni, perdono quel punto di riferimento unitario nell’impero e si trovano a essere nuovamente, unicamente ruteni sub carpatici, ebrei della Galizia, sloveni e così via, senza una patria e con un incerto avvenire. Il passato diviene allora oggetto di nostalgia e di rimpianto.
In questa dolorosa situazione il protagonista, il cui nome, non a caso, è Francesco Ferdinando, dà dell’attributo “mondiale”, con cui veniva definita quella tragica guerra, una spiegazione del tutto aderente al significato intrinseco del romanzo : “[…]la grande guerra[…]viene chiamata ‘guerra mondiale’ non già perché l’ha fatta tutto il mondo, ma perché noi tutti, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo…”.
Il rientro a casa dopo la sconfitta accentua le amarezze. L’amore di Elizabeth complicato e superficiale è destinato a tramontare squallidamente, come destinate al fallimento sono le avventure commerciali intraprese. Il giovane reduce Trotta, più incline a una vita contemplativa che portato verso iniziative avventurose, vede esaurirsi in breve il piccolo capitale rimastogli. Solo la vecchia madre, forte e tenace, rappresenta per lui un punto di riferimento. “La mia vecchia mamma, col suo vecchio bastone nero, teneva lontano il disordine.” È lei che rappresenta ai suoi occhi il vecchio mondo in declino e quando la malattia la priverà di alcune facoltà non potrà fare altro che vedere in lei la sua patria ferita e oltraggiata.
Senza affetti e senza casa, nostalgico di un mondo fatto di un ordine non solo estetico ma anche morale, disperato come Lear che nella sua cecità aveva compreso e colto il capovolgimento del mondo che lo circondava, vera profonda rivoluzione copernicana, si rifugia nella Cripta dei Cappuccini, il luogo ove può unirsi alla sola reliquia del passato, il monumento funebre dei suoi imperatori. E qui di fronte al sarcofago l’ultima tragica domanda, quasi un urlo disperato: Dove devo andare , ora, io, un Trotta?
L’eterno interrogativo dell’ebreo errante.
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Iniziazione sulle rive della Martesana
L’adolescenza è certamente, nella vita dell’essere umano, il periodo più difficile, più sofferto, meno compreso. Viene quasi spontaneo chiedersi perché nell’arte figurativa venga rappresentata così raramente l’età adolescenziale, mentre ci si sofferma assai spesso sull’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, come nello stupendo dipinto di Klimt, “Le tre età della donna”. Quel periodo di transizione che conduce, attraverso incertezze, complessi e ribellioni all’esuberanza giovanile, appare forse così sfuggente e a volte persino imbarazzante nella sua complessità, da indurre spesso a sfumarlo nell’età precedente e in quella successiva.
Recentemente il mondo letterario ha prestato un’attenzione particolare al mondo dei teen-agers, ed è infatti con sensibilità e grande efficacia espressiva che nel suo ultimo romanzo “ Il regno degli amici”, Raul Montanari ha raccontato la storia di un piccolo gruppo di adolescenti che si incontra in un luogo abbandonato in mezzo allo squallore della periferia milanese, sulle rive del naviglio della Martesana, all’inizio degli anni ottanta.
La casa abbandonata vicino al canale soprannominata “Il Regno” diviene il rifugio in cui Demo, Fabiano, Elia e Velardi si riuniscono per ascoltare la musica dei Led Zeppelin, fumare spinelli, leggere giornaletti porno. È il luogo della libertà, il cui simbolo è il mangiacassette Aiwa, è il luogo dell’emancipazione e della trasgressione delle regole imposte dai grandi, il luogo dell’evasione dal mondo esterno. In questa sorta di isola felice compare Valli, che sarà l’elemento destabilizzante, colei che metterà in discussione i vincoli di amicizia e lealtà. E il Regno, microcosmo segreto, cambierà per sempre la personalità e i rapporti tra i giovani amici. Qui troverà asilo la bellezza e la violenza, l’amore e la tragedia.
Così nel breve spazio di tempo di un’estate il processo di iniziazione alla vita si è compiuto e il destino di un gruppo di ragazzi prende una strada diversa da quella prospettata. Ciascuno dei protagonisti imparerà che “nel bene e nel male ci si abitua a tutto”. Sarà l’amara lezione della vita che li porterà a ridimensionare anche gli episodi più dolorosi per poterli affrontare con lucidità e coraggio.
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Tra Nietzsche e Schopenhauer
Possiamo ragionevolmente considerare “I Buddenbrook” di Thomas Mann l’opera più rappresentativa della crisi esistenziale dell’uomo borghese dei primi del novecento. L’inconciliabilità tra il mondo dell’arte e quello del profitto e dell’interesse era già stata rappresentata al massimo livello espressivo dai personaggi di Dorian Gray (Wilde - Il ritratto di Dorian Gray), Des Esseintes (Huysmans - A rebours) e Andrea Sperelli (D’Annunzio - Il piacere), in quel periodo che in letteratura viene comunemente conosciuto come Decadentismo. L’umanità descritta da Mann, tuttavia, pur consapevole del dissidio interiore che l’ affligge, non riesce a ripudiare il mondo a cui appartiene e di cui ammira in fondo le qualità di concretezza e praticità.
In ogni personaggio esiste una sorta di scissione interiore, anche in quelli che sembrano aderire con più convinzione ai valori borghesi tradizionali. È questo il caso di Tom, che da giovane rinuncia ad un amore sincero perché consapevole del compito che dovrà assumersi un giorno nella direzione dell’attività commerciale iniziata dai suoi avi e che in seguito dovrà accettare numerosi compromessi contrari alla sua natura e alla sua coscienza. La stessa Tony, incapace di accettare l’irrimediabile decadenza della famiglia, dopo aver sciupato la sua giovinezza contraendo matrimoni sbagliati, sempre con l’illusione di perpetuare quel benessere e quegli agi ai quali era abituata, trascorrerà gli anni del declino in un continuo e triste ricordo del passato. I personaggi però che meglio rappresentano la crisi d’inizio secolo e soprattutto la crisi dell’artista e dell’intellettuale sono Christian e Hanno. Il primo trascina la sua esistenza nell’incapacità di svolgere qualsiasi attività, attratto solo dalla musica e da tutto ciò che intorno a lui viene considerato superfluo e inutile. Paranoia e ipocondria lo accompagneranno per tutta la vita. È Hanno, però, il figlio di Tom, la vera vittima di questo mondo che emargina chi fa della propria sensibilità un modus vivendi. Hanno è un adolescente quando prende coscienza d’essere attratto più dalla musica che da ogni altra cosa. Il suo dramma si materializza nel momento in cui capisce che ciò è inconciliabile con il ruolo che gli è predestinato. Egli non ha una sufficiente carica vitalistica , una volontà morale abbastanza forte che possa aiutarlo ad affermare i suoi valori. Hanno, in quanto personaggio incapace di lottare per far emergere le qualità straordinarie di cui è dotato, anticipa “L’uomo senza qualità” di Musil. Hanno ha in sé quel desiderio di autodistruzione, di cupio dissolvi, che porta al definitivo tragico crollo.
Se Mann critica la chiusura della mentalità borghese nei confronti dell’arte e di tutto ciò che attiene allo spirito, egli tuttavia, diversamente dagli artisti decadenti, di essa ammira la concretezza e la solidità materiale capaci di procurare e mantenere il benessere. Mann, stesso, dunque, come uomo e come artista conosce e vive un drammatico dualismo: egli è a un tempo rispettabile borghese e “avventuriero dello spirito”.
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La forza dell'amore in una striscia di terra desol
È un romanzo toccante, coinvolgente e commovente pur nella crudezza descrittiva di certi brani, l’ultima opera di Susan Abulawa.
Con un’originale tecnica narrativa che vede ogni capitolo preceduto da una brevissima introduzione affidata al personaggio di Khaled, l’adolescente colpito dalla sindrome “locked in” che non gli permette di comunicare con l’esterno, e che lo lascia sospeso nel blu, tra il cielo e il mare, l’Abulawa ci descrive il mondo dei profughi palestinesi rifugiati nella striscia di Gaza, dopo la distruzione della città di Beit Daras da parte degli israeliani. Una saga familiare che copre parecchi decenni e segue le sorti dei numerosi membri della famiglia. Un romanzo epico, in cui il coraggio e la forza delle donne violate e umiliate dal nemico, la dignità e la fermezza dei giovani presi prigionieri e torturati sono temi fondamentali.
Nella desolazione dei campi profughi, tuttavia, i sentimenti resistono, acquistano nuovo vigore, altre vite vengono a popolare un mondo senza prospettive sicure, in cui persiste una speranza incrollabile in un futuro migliore. Sono le donne la colonna portante di questa società maschilista, che con sacrificio, dedizione e coraggio affrontano la fame e la povertà, mentre i bambini percorrono i tunnel scavati sotto terra per fare contrabbando di ogni tipo di merce. Ed è agli spiriti ginn, a Sulayman, che ci si rivolge nei momenti in cui più si ha bisogno di conforto, o quando si vuole allontanare il malocchio. La superstizione in questo contesto storico e sociale diviene un’esigenza comprensibile, non tanto legata a un sottosviluppo culturale, quanto a un’umana necessità di speranza e fiducia. E la vita non è più facile per quelli che riescono a emigrare, come nel caso di Nur e del nonno che aveva coltivato fino alla fine il sogno di tornare nel suo paese.
Con sobrietà e dignità, Susan Abulhawa descrive la sofferenza collettiva e individuale d’un popolo che da decenni non conosce pace, racconta la sua forza, la costanza con cui riesce a ricostruire ciò che la guerra distrugge : “La speranza non è un soggetto/non è una teoria./E’ una dote.”
Bellissimo è l’ultimo brano affidato alla voce narrante di Khaled, ormai nel blu, nei colori, fuori del tempo, tra il cielo e il mare, nel cielo di Gaza, in Palestina.
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La persistenza della memoria
È l’inquietante immagine dell’opera di Salvador Dalì dal titolo “La persistenza della memoria”, più diffusamente conosciuto come “Gli orologi molli”, che evoca la lettura di questo bellissimo e tristissimo romanzo dell’uruguaiano Mario Benedetti.
Se nel dipinto di Dalì la dinamica e ineluttabile tendenza del tempo al deterioramento e alla corruzione della materia in uno spazio immobile e statico rende molli gli orologi ormai privi delle caratteristiche originali, ne “La tregua” è sempre il tempo con il suo inesorabile scorrere a lasciare il suo segno su uomini e cose. Non a caso l’autore si serve della tecnica diaristica. Il diario, infatti, serve a scandire le ore e i minuti, a registrare eventi di cui si perderebbe memoria, eventi che hanno contribuito alla crescita di ogni individuo, lo hanno segnato talora con indulgenza talora con severità. Questo è il diario: è trovare nella pagina bianca un muto interlocutore a cui affidare confidenze che rispecchino un’assoluta verità. Il diario, dunque, come “journal intime” , per usare la definizione di Lejeune.
Cinquantenne, vedovo, Martin Santomé , il protagonista di questo romanzo, ci racconta le difficoltà d’una vita trascorsa nella routine tra il lavoro d’impiegato e l’educazione dei tre figli, nel ricordo d’una moglie amatissima. Alla soglia della pensione egli si dibatte tra il desiderio di potersi finalmente riappropriare del proprio tempo, senza ulteriori sacrifici, e l’angoscia dovuta alla consapevolezza che non essere più parte attiva della società avrebbe accelerato il suo invecchiamento.
L’amore per Avellaneda giunge improvviso e insperato e fa rinascere in lui sentimenti sopiti. Il legame diviene profondo e Martin comincia a pensare al suo tempo futuro come a qualcosa di piacevole e confida al diario le proprie speranze. Ma ciò che può sembrare felicità si rivela spesso essere solo una breve tregua in un’esistenza difficile e tormentata.
Sono molti i temi affrontati in questo romanzo con un’ analisi profonda e acuta. C’è un continuo lavoro di introspezione, uno studio accurato dei rapporti umani, una esaltazione dei valori fondamentali che danno dignità all’uomo, contemporaneamente al disprezzo per l’ambizione che gli toglie ogni spiritualità trasformando il qualcuno in qualcosa.
Sono infine il rapporto con la morte e l’enigma dell’oltre la vita a riproporre il tema della fede che si affievolisce ogniqualvolta la sofferenza raggiunge una soglia insopportabile. Indagando nei sentimenti umani, Benedetti riesce, dunque, con fine sensibilità a portare alla luce quelle esperienze di gioia e dolore che sono proprie di ogni individuo.
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Una generazione perduta
Aurora e Giovanni, giovani e innamorati negli anni settanta. Anni duri, difficili, inquieti. Sono gli anni in cui infuriano il terrorismo, le brigate rosse, la contestazione nelle università, gli anni degli indiani metropolitani, degli ideali delusi e delle ideologie vanificate. C’è chi ce l’ha fatta, c’è chi si è perso. E Aurora e Giovanni sono lo specchio di questo tempo pieno di contraddizioni, in cui i giovani sono alla disperata ricerca di qualcosa che dia un senso alla loro vita, che restituisca una parvenza di giustizia alla società di cui non si sentono più parte. Tra loro qualcuno ha solide basi culturali, qualcuno, più impreparato, si lascia trascinare da facili entusiasmi in un gioco più grande di lui. La lotta politica di Aurora e Giovanni inizia come ribellione all’autoritarismo dei genitori e con il rifiuto di quei principi borghesi di cui essi sono il simbolo, pur appartenendo ad ambienti diversi. Aurora è profondamente critica nei confronti del fascistissimo padre, Giovanni non sopporta il perbenismo del padre avvocato. L’evidente contrasto generazionale è uno dei temi fondamentali del romanzo. La decisione di unirsi con il vincolo del matrimonio, indispensabile per garantire un’alea di rispettabilità alla bambina che sta per nascere, nuocerà irrimediabilmente ai rapporti tra i due giovani.
Ed è qui che il mondo di Aurora si allontana da quello di Giovanni. È lei che assume su di sé tutte le responsabilità della vita quotidiana, mentre lui insegue il sogno dell’eroe negativo che vuole realizzarsi nel compiere eclatanti gesti rivoluzionari. La fragilità che lo caratterizza lo condannerà a ruoli gregari e insignificanti di cui egli stesso ha orrore e si troverà ben presto prigioniero della sua debolezza. Solo il rapporto tenero e disinteressato con la figlia Mara riuscirà a restituirgli in parte quella dignità perduta. Ed è di nuovo il rapporto padre- figlio al centro del romanzo, un tema che si propone come leit-motiv, quasi a volere sottolineare che gli errori di questa parte di gioventù non sono attribuibili interamente agli stessi giovani, ma in modo rilevante alle generazioni che li hanno preceduti e li hanno messi al mondo. Un libro estremamente amaro che non fa sconti a nessuno, ma che procede con obiettività ed equilibrio. Non è un libro che si può leggere tutto d’un fiato. In alcuni passaggi è un vero pugno nello stomaco. Sicuramente non ci sono assoluzioni, ma in fondo neanche condanne. È solo la cronaca di una stagione di errori nel pubblico come nel privato. È la cronaca della vita.
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Il fascino della cultura mitteleuropea
Una grande famiglia borghese, una grande casa, simbolo del benessere e del prestigio dei suoi abitanti, sono al centro di questo avvincente romanzo storico che ci porta nella Vienna della decadenza e del crollo dell’impero asburgico e ci conduce fino alle soglie della seconda guerra mondiale.
Il palazzetto, simbolo del prestigio e del benessere degli Alt, da generazioni produttori di pianoforti così perfetti da essere definiti “La melodia di Vienna”, ospita i numerosi membri della famiglia e, vero e proprio microcosmo, esso diviene lo specchio della società austriaca di quell’epoca di cui ogni personaggio rappresenta un aspetto.
Le influenze del romanzo storico dell’ottocento, in particolare l’influsso di Stendhal e, in parte, di Tolstoi, sono palesi, così come lo stupendo personaggio di Henriette, con le sue debolezze, i suoi errori, i suoi rimorsi e le passioni incontrollabili, sembra essere l’erede di Emma Bovary. D’altra parte il mondo e l’epoca a cui appartengono queste creature così umane nella loro fragilità, così generose nell’amare quanto egoiste nel non sapere rinunciare alla felicità di un momento, le relegano a ruoli subalterni. L’infelicità di Henriette non è molto diversa da quella di Emma o da quella di Anna Karenina.
Gli stessi figli di Henriette riflettono i diversi caratteri dell’austriaco dopo il crollo dell’impero. Hermann, il secondogenito, ne esprime i lati più meschini e spregevoli.
La sua insensibilità e il suo cinismo risaltano in particolare nel momento in cui, al ritorno dalla prima guerra mondiale, si vede come la sua reazione di reduce sia diversa da quella del fratello primogenito Hans. Quest’ultimo è palesemente sconvolto dall’esperienza vissuta. Il reinserimento nella vita civile è difficile e traumatica. Un tema, questo, tanto caro agli scrittori del novecento, un esempio significativo ne è“La paga del soldato” di Faulkner.
Hans è il nuovo uomo, che si farà sostenitore dei valori democratici e combatterà l’abuso e la violenza dell’Anchluss, si opporrà alla barbarie dell’invasore, risveglierà in sé e negli altri il giusto orgoglio nazionalista, ricordando come il suo paese avesse dato i natali ai più grandi artisti sia nel campo letterario che in quello musicale. E alla borghesia intellettuale ebrea viene riconosciuto il suo ruolo determinante nel progresso della cultura di cui era sempre stata parte integrante. Non a caso il personaggio di Henriette, di origine ebrea, è destinato a conoscere anche l’umiliazione della discriminazione razziale.
La disgregazione della famiglia Alt è in senso lato la disgregazione dell’Austria come stato sovranazionale, e la crisi dei personaggi è la crisi della società.
“La melodia di Vienna”, pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1944, è un omaggio dell’autore alla sua patria, di cui ha voluto ricordare con orgoglio i fasti e la grandezza del passato. Una nota aggiunta da Lothar in calce al testo solo nel 1962 esprime l’inquietudine dello scrittore per la minaccia di una svolta autoritaria nel suo paese, un tempo culla della tolleranza e del sentimento.
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Un romanzo di iniziazione nella Vienna dell’Anschl
La vicenda ha inizio alla vigilia dell’annessione dell’Austria al terzo Reich. Il giovane Franz è costretto da sua madre, rimasta sola e senza risorse economiche, a trasferirsi dalla campagna in città. L’impatto con la capitale austriaca è abbastanza traumatico. Egli dovrà essere d’aiuto nell’esercizio di una tabaccheria di proprietà di un vecchio reduce della prima guerra mondiale, mutilato d’una gamba in combattimento. Le prime esperienze di Franz sono sensoriali: ciò che coglie nell’immediato è il rumore, fatto di “un’accozzaglia di suoni”, è la luce, fatta di uno sfavillare di vetrine e specchi, è l’odore di grasso stantio, di fogna, di fumo, di catrame. È la città con il suo olezzo che si contrappone ai profumi di una campagna idealizzata nei ricordi di un adolescente.
L’incontro con il vecchio Otto, il tabaccaio, abituato a trascorrere la sua vita dietro a un banco e a fare solo i passi indispensabili per muoversi, appoggiandosi alle vecchie stampelle, lo intimidisce. A poco a poco, tra i due si instaurerà un rapporto affettivo profondo. Otto gli insegna come diventare un competente tabaccaio, gli fornisce i primi rudimenti per riconoscere un buon sigaro ed apprezzarne il profumo e il gusto, curarne le foglie di tabacco con cui vengono arrotolati dalle donne cubane. Un’arte.
La vita monotona del giovane Franz nella capitale viene movimentata da due eventi importanti: l’incontro con il Professore, il noto psicanalista Sigmund Freud, che ama i buoni sigari e gli spiega qualche concetto fondamentale dello studio del subconscio, e l’incontro con Anezka, la ragazza boema di cui si invaghisce e che lo inizia all’amore.
Il fanatismo nazista, tuttavia, dilaga nella città austriaca. La persecuzione degli ebrei si fa sempre più serrata. In questo clima, attraverso il dolore e la perdita Franz trova la giusta strada dell’onestà e del rispetto per il prossimo.
È la solitudine il vero protagonista di questo romanzo. La solitudine d’un giovane che impara a crescere con la sola guida di alcune figure carismatiche, alle quali deve le sue scelte definitive. La sua crescita è rapida e dolorosa. È, ancora una volta, la città, con tutte le sue allettanti e ingannevoli seduzioni, la città contrapposta alla semplice vita della campagna che lo aiuta a superare la soglia dell’adolescenza e lo introduce nel tempo della conoscenza e della consapevolezza.
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Un Picaro nell'India del VI secolo a.C.
È la ricerca dell’assoluto ciò che induce Siddharta ad abbandonare la casa paterna. Un percorso di conoscenza attraverso il dolore, che lo porterà inizialmente a spogliarsi degli inutili orpelli della vita, per raggiungere quella purezza di spirito che è il fine ultimo del suo viaggio.
Svuotarsi dei desideri, privarsi del cibo, delle bevande, di ogni gioia e di ogni sofferenza, è la condizione unica per risvegliare il grande mistero che giace in fondo all’ essere. È così che Siddharta giunge alla mortificazione del suo corpo, per esaltare il suo spirito, seguito dal fedele Govinda. Egli è il grande Samana, il grande pellegrino, che tuttavia non riesce ad abbracciare nessuna dottrina, neanche la dottrina del Buddha, perché essa gli impedirebbe di scendere a fondo nel suo io e di conoscere la vera natura del suo essere, di giungere all’illuminazione.
Rimasto solo, Siddharta prosegue il suo viaggio che lo allontana dal proposito di esaltare il suo spirito, mortificando il suo corpo e giunge dunque a conoscere i piaceri dell’amore tra le braccia dell’etera Kamala. Sperimenta la vita nella ricchezza nel lusso e nella lussuria per lungo tempo, fino al giorno in cui il suo spirito risorge e gli impone di lasciare quei luoghi dove ha vissuto nell’ozio e nella prepotenza troppo a lungo.
Solo l’incontro con Vasudeva sollecita la consapevolezza di Siddharta, che capisce quale grande errore sia voler scindere nell’uomo la sfera spirituale da quella materiale. Solo il giusto equilibrio tra corpo e spirito può rendere l’uomo parte armoniosa dell’universo. Ed è il fiume, a questo punto della narrazione, che assume un ruolo fondamentale. Il fiume, con il suo scorrere, rappresenta simbolicamente la vita e tuttavia è proprio il suo scorrere a sovrapporre il presente al passato, proiettandosi verso il futuro. Piani temporali che suggeriscono l’idea dell’eternità. Hesse ha certamente assimilato le teorie filosofiche di Eraclito, con il suo principio del panta rei, insieme allo stesso paradosso di Zenone che dimostrava il principio del non movimento, per non parlare delle moderne teorie bergsoniane del tempo come un unicum tra passato presente e futuro.
Non è solo, tuttavia, la componente filosofica a fare di questo romanzo un grande saggio sui valori della vita. Non è meno importante la tendenza moralistica e didascalica che riguarda più da vicino il rapporto padre-figlio. Con dolore e amarezza Siddharta dovrà rassegnarsi a lasciar partire il figlio nato dalla sua unione con Kamala. Solo in quel momento realizzerà quanto doveva aver sofferto prima di lui suo padre, nel momento in cui egli aveva deciso di lasciare la casa paterna. Suo figlio, come lui stesso, anni prima, compirà errori, soffrirà nelle sue peregrinazioni nel mondo. Non ci sarà protezione, né riparo, né rifugio. È l’esperienza che porta alla conoscenza, è il libero arbitrio la massima facoltà che si concede all’uomo.
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Distopia del XXI secolo
Come “Animal Farm” e “1984” di Orwell prima e “Fahrenheit 451” di Bradbury più tardi avevano rappresentato le distopie del XX secolo, descrivendo società governate da regimi repressivi e totalitari, così il recentissimo romanzo di Houellebecq, “Sottomissione”, prefigura una Francia governata dal Partito della Fratellanza musulmana, dopo le elezioni del 2022 e il crollo dei partiti tradizionali.
Il protagonista del romanzo, François, è un professore universitario, studioso del grande Huysmans, che - e ciò dimostra quanto non sia casuale la scelta di questo artista piuttosto che un altro - insieme a Oscar Wilde e D’Annunzio fu il grande rappresentante di quella corrente letteraria nota come Decadentismo. D’altra parte nello sconvolgimento istituzionale prefigurato, il mondo dell’istruzione è il primo ad essere rivoluzionato: l’insegnamento torna a essere obbligatorio solo fino ai dodici anni. Quindi, tranne alcuni casi funzionali alla nuova società, l’istruzione è riservata solo al sesso maschile, mentre le giovani donne, che saranno la base su cui si fonda la famiglia, vengono indirizzate verso l’approfondimento e lo studio dell’ economia domestica. Il mondo femminile è il più colpito in questo nuovo assetto: la moda mortifica la femminilità, ogni scelta autonoma è negata, il sesso è imposto, non desiderato.
Con la vittoria del nuovo partito, l’organico dei docenti universitari è sospeso, ma ben presto, per esigenze politiche e pratiche, parte del corpo insegnante verrà riassorbito a condizione che si converta all’Islam.
A François appare ben presto chiaro che il vero nemico dell’Islamismo non è tanto il cattolicesimo, quanto il laicismo identificato con l’ateismo. In questa ottica, la religione regola la vita dell’individuo, ne segna i confini e ne traccia i principi morali, mentre l’ateismo con il suo deprecabile umanesimo ammette ogni licenza e porta all’immoralità.
Anche la vita privata di François subisce un brusco cambiamento, con la partenza di Myriam, la sua ragazza, ebrea, che lascia la Francia per recarsi in Israele. È quanto si apprestano a fare in queste condizioni, le comunità ebraiche molto numerose a Parigi.
Il quadro costruito da Houellebecq è di una lucidità inquietante. Egli prospetta l’annientamento del mondo occidentale, realizzabile anche grazie all’appoggio di quella parte del mondo arabo più ricco e disposto a concedere lauti finanziamenti. Proprio grazie a questi contributi, lo sconvolgimento del mondo occidentale vedrebbe una breve crisi economica nell’immediato, assorbita in poco tempo. Ciò che più sconcerta è il prospettato azzeramento di tutta una cultura e di una civiltà che Houellebecq immagina sostituita dai valori del mondo di Ben Abbes, il nuovo Napoleone, il leader con il sogno di ricreare l’impero romano.
Come in 1984 di Orwell il principio sul quale il Grande Fratello basa la sua politica repressiva è “La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza”, nel romanzo di Houellebecq troviamo un principio altrettanto delirante: “ E’ la sottomissione. L’idea sconvolgente e semplice [….] che il culmine della felicità umana consista nella sottomissione più assoluta.”
A ogni singolo lettore il compito di dare un giudizio su questo concetto. Ciò che credo risulti chiaro da questa lettura è che l’annientamento di una civiltà, di una cultura, qualsiasi siano i suoi valori, qualsiasi sia la sua fede, è assolutamente esecrabile. Non esiste una cultura o una fede migliore di un’altra. In nessun luogo del mondo.
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Only connect.
Only connect. Proprio il sottotitolo dell’opera “Casa Howard” di E.M.Forster, che Eco pone all’inizio di “Numero zero”, è la chiave di lettura del suo ultimo originalissimo romanzo.
Protagonista della storia è un giornalista desideroso di affermarsi che viene ingaggiato come ghost writer dal direttore d’un giornale perché racconti, a nome suo, l’anno di lavoro speso a preparare un quotidiano che non avrebbe mai visto la luce.
Sin dalle prime pagine si evidenziano i rapporti a volte ambigui, a volte compromettenti tra editore e direttore, si capisce come la libertà di stampa possa venire spesso condizionata, se non tradita, da valutazioni di interesse e opportunismo. È il direttore Simei, che si rivela immediatamente nella sua dimensione truffaldina, a svelare a Colonna, il protagonista, alcuni trucchi per condizionare l’opinione del lettore. È così che si spiega l’uso delle virgolette per introdurre frasi di persone intervistate su un certo argomento, quando non si abbiano fonti attendibili, avendo cura di inserire per ultime le opinioni su cui si vuole dirottare l’attenzione. Traspare qui un sostanziale disprezzo per il lettore medio che per l’editore e il direttore è ghiotto di pettegolezzi e mostra un’età mentale d’un dodicenne. È il vero giornalismo “trash”.
Tra gli inconsapevoli redattori convinti di lavorare per un giornale vero, spicca la figura di Braggadocio. Il nome di questo personaggio è di per sé indicativo di ciò che l’autore si appresta a descrivere. Il significato, infatti, di braggadocio evoca un’idea di millantatore, di spaccone. Un espediente, questo, molto usato nella letteratura di tutti i tempi. Anche un mezzo per prendere le distanze da ciò che si sta per raccontare, specialmente se l’argomento presenta qualche lato scabroso. È Braggadocio, infatti, che racconta una storia che si rivela esser “la storia” dell’Italia dalla cattura di Mussolini fino al 1992. Si percorrono così i fatti più importanti accaduti in questo periodo e ben noti, facendo riferimento all’operazione Gladio, alla P2, al tentativo di golpe Borghese, all’assassinio di Papa Luciani, al rapimento Moro e moltissimi altri tristi episodi di terrorismo, tra cui la strage di piazza Fontana e dell’Italicus. Tutti questi fatti nefasti apparentemente episodi singoli con singole matrici vengono da Braggadacio connessi a un solo unico movente che ne sarebbe stata l’origine. Egli effettua una sorta di sinapsi di ogni singolo evento.
In definitiva con quest’opera, sia pure affidata alla forma del romanzo, che alla fine si colora di giallo, Eco insinua nel lettore il sospetto che tutto ciò che gli è stato raccontato da certa stampa e da certi organi di informazione, possa nascondere sempre in sé un’altra verità. -“ I giornali non sono fatti per diffondere, ma per coprire le notizie”- afferma Braggadocio.
C’è dunque da chiedersi come ci si possa difendere da una disinformazione costruita a tavolino. L’unica possibile risposta può risiedere nell’emancipazione dall’ignoranza, nel rifiuto della rinuncia e della rassegnazione.
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Politica, fede e inganno.
È la pace il tema di fondo dell’ultimo romanzo di Amos Oz, e non sorprende se si pensa che lo scrittore israeliano è stato uno dei firmatari, insieme a Grossman e a Yehoshua del documento che chiede il riconoscimento dello stato della Palestina.
La storia raccontata in quest’opera ruota intorno alla figura di Shemuel, il protagonista, al quale Atalia, una giovane vedova, offre un lavoro sottopagato che consiste nell’assistere il suocero, Gershom Wald, vecchio e invalido. Shemuel trascorre i mesi invernali tra il 1959 e il 1960 nella casa di Atalia, dove giunge palesemente sofferente per essere stato abbandonato dalla sua ragazza e per aver dovuto rinunciare ai suoi studi universitari, proprio nel momento in cui aveva già cominciato a lavorare alla tesi. Questo, tuttavia, sarà il periodo della sua vera iniziazione alla vita, il momento della sua crescita spirituale e intellettuale.
I veri protagonisti del romanzo, tuttavia, sono, a mio avviso, due personaggi/non personaggi, Abrabanel e Giuda, figure che appartengono al passato, ma a cui Oz affida il messaggio centrale di questo bellissimo libro.
Abrabanel e Giuda, politica e religione. Il primo, defunto padre di Atalia, deciso contestatore della politica di Ben Gurion, con lungimiranza e lucidità aveva sin dalla costituzione dello stato di Israele previsto le guerre che sarebbero derivate dalla contrapposizione con il popolo palestinese. Egli si era più volte pronunciato a favore d’una pacifica convivenza, in una terra senza stati sovrani, dove si potesse realizzare un’ integrazione sociale e economica, pur conservando ciascun popolo le proprie tradizioni e la propria fede.
In tempi storici così difficili, con la viva e dolorosa eco della Shoa ancora così vicina, l’utopistico ideale di Abrabanel non poteva che risuonare come un tradimento per i sostenitori del sionismo. Ecco dunque che la figura di questo pacifista assume un aspetto sinistro e viene emarginato e ignorato dai sostenitori della politica di Ben Gurion.
Giuda, oggetto di studio della tesi di Shemuel, rappresenta il corrispettivo di Abrabanel in campo religioso. Proprio l’apostolo divenuto il simbolo del tradimento, colui che la storia ci ha descritto come l’ignobile che vendette il profeta per trenta denari, viene qui rappresentato in maniera totalmente diversa. Egli fu il seguace più assiduo dell’operato di Cristo, colui che più tra gli apostoli lo aveva amato, il più convinto della sua capacità di compiere miracoli e dunque della sua componente divina. Per nulla dubitando della capacità di Cristo di scendere dalla croce salvo, una volta condannato, lo vendette per quella somma irrisoria di cui lui, ricco, non aveva assolutamente bisogno, certo che il miracolo che il suo Signore avrebbe compiuto scendendo dalla croce avrebbe diffuso il messaggio di bontà e di pace che aveva sempre fin lì predicato. La morte di Gesù, lo scontro con la realtà è il momento più tragico nella vita di Giuda. È la raggiunta dolorosa consapevolezza dell’umanità di Cristo, a cui l’apostolo non può sopravvivere.
Qui il messaggio più importante del romanzo di Oz: se Giuda, universalmente conosciuto come abietto traditore, diffusamente rappresentato come l’ebreo per eccellenza con tutte le sue spregevoli caratteristiche, fosse stato riabilitato agli occhi del mondo intero, in particolare a quelli del mondo cristiano, quante guerre e persecuzioni si sarebbero potute evitare. Perché, e qui Amos Oz è molto chiaro, nella storia, dalle sue origini, gli ebrei sono stati perseguitati più dai cristiani che dai musulmani.
L’interesse di quest’opera risiede proprio nel tentativo di dimostrare quanto ingannevoli possano essere i presupposti della politica e gli atteggiamenti di chi l’amministra, così come ingannevole può essere una fede male interpretata.
Con il rischio sempre più grande che l’onestà diventi la vera utopia del mondo intero.
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Un romanzo al femminile
Settecentocinquanta pagine e una miriade di personaggi nell’ultimo romanzo di Almudena Grandes, che ci immerge nella storia della Spagna dagli anni trenta fino agli sgoccioli del ventesimo secolo.
Tra le tante figure di donne, tre spiccano per il loro spessore morale e per il loro coraggio: Manolita, la protagonista, Eladia e Isabel. Per ciascuna di loro la vita si dipana in tutta la sua durezza, esige sacrifici e compromessi che talvolta devono mettere a tacere la coscienza. In un paese dilaniato dalla guerra civile, regna la sfiducia e la diffidenza. Ogni uomo ostile al regime è esposto al rischio di una condanna assurda, anche solo per aver distribuito volantini sovversivi, come nel caso di Silverio. Se vivere e sopravvivere è difficile per Antonio, Tasio, Juani, ancor più lo è per le loro donne che il carcere lo conoscono dentro e fuori, che vivono l’umiliazione fisica e morale, che viene loro imposta quale prezzo per essere vicine ai loro compagni. È il disgusto che coglie Manolita, con le degradanti perquisizioni impostele per congiungersi con Silverio, è l’inferno che attraversa Eladia per proteggere Antonio, è l’aberrante persecuzione che subisce Isabel, la cui unica colpa è di essere la figlia di due prigionieri politici. E non c’è ambiente che possa costituire un luogo di protezione per queste anime miserabili, neanche il convento dove Isabel è trattata in modo disumano, dove la generosa protezione di Suor Carmen viene ostentatamente interpretata come un’amicizia particolare, dove non esiste né giustizia né onestà spirituale. “Perché per noi c’era solo una vita possibile, il carcere dentro e fuori del carcere, le reti dei parlatori, il cimitero dell’Est, e i lavatoi dove una ragazzina minorenne si consumava le mani facendo il bucato con la soda”. Queste le parole di Manolita, che con profonda amarezza capisce come il regime tradisca il proprio impegno di educare le figlie più grandi dei detenuti, mentre dedica attenzione all’istruzione delle più piccole, più docili, sulle quali è più facile “calcare sopra una memoria opposta” a quella originale.
Eppure l’affievolirsi della speranza che alimenta la miseria e la povertà di questi personaggi femminili non impedisce loro di lottare, ciascuno a modo suo.
Se le donne di questo romanzo emergono per le loro qualità, gli uomini vengono rappresentati in maniera piuttosto diversificata, nessuno emerge in modo particolare. Interessante dal punto di vista umano è “La Palmera”, il diverso costretto a rinunciare al suo trucco appariscente, perché non accettato dal regime. Generoso e appassionato, protegge le persone che ama.
Molto ben delineato è il personaggio dell’Orejas, il delatore, l’infido, il subdolo confidente della polizia che suscita indignazione e disprezzo nel lettore.
L’eccessiva lunghezza e il numero dei personaggi penalizzano certamente il romanzo, che tuttavia offre un’interessante descrizione d’un periodo storico drammatico e tormentato. La lotta per la libertà che costò la vita a tanti giovani non potrà essere dimenticata. Chi ha combattuto per il proprio paese ha certamente perseguito il sogno di creare una realtà di cui essere orgogliosi, per cui valga la pena sacrificare interessi singoli e particolari.
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Tra metafora e realtà, la solitudine dell’uomo
Opera fondamentale per tutta la cultura del ventesimo secolo, La metamorfosi di Kafka, è stata ampiamente commentata sin dalla sua pubblicazione.
Certamente di grande aiuto per la sua interpretazione si rivela la lettura dell’amara “Lettera al padre”, in cui emerge in tutta la sua dimensione negativa il difficile rapporto tra lo scrittore e il dispotico genitore, il cui animo rozzo non era certo in grado di cogliere e gratificare la personalità sensibile del figlio.
L’inaspettata e improvvisa metamorfosi del giovane Gregor in scarafaggio, insetto immondo che vive nella sporcizia e di essa si ciba, si rivela subito come la metafora di quella condizione di assoluta solitudine in cui si trova l’uomo, in particolare l’artista, costretto a vivere in un mondo volgare in cui non si riconosce e di cui non desidera fare parte. L’istintiva ripugnanza che Gregor suscita nei suoi familiari accentua l’impossibilità di stabilire con essi un rapporto. La pietà stessa della sorella sarà di breve durata. Egli dunque si sentirà sempre più ai margini, escluso da quel mondo di cui pure aveva fatto parte. Prigioniero del suo corpo, diventerà straniero nella sua casa. La collera paterna gli impedirà di parlare. Qui la metafora è esplicita. La volgarità del mondo che lo circonda impedisce all’artista qualsiasi forma di espressione. La negazione della parola è la negazione della letteratura. La scelta di Kafka di rappresentare Gregor trasformato in un insetto ripugnante accentua il senso dell’incomunicabilità dell’arte e dunque del fallimento della sua stessa funzione. Gregor ha ribrezzo per se stesso, si considera la manifestazione della degradazione dell’uomo.
Il tema dell’alienazione e dell’incomunicabilità è stato ampiamente affrontato successivamente da autori di grande rilievo. Si pensi al romanzo dell’assurdo, all’Etranger di Camus, o a un’opera come l’Ulisse di Joyce, la cui stessa forma vuole essere testimonianza della difficoltà di stabilire un rapporto artista-società.
Si pensi infine a un certo cinema degli anni sessanta, a Blow up o a Deserto rosso di Antonioni. Anche qui domina una visione pessimistica della realtà umana, vi è una ricerca spasmodica da parte dell’artista di giungere all’essenza delle cose. È la rappresentazione del fallimento esistenziale dell’uomo e della sua arte.
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La cognizione del dolore
Potrebbe forse sembrare arbitrario fare riferimento al romanzo di Carlo Emilio Gadda per affrontare il tema de “Il tempo della vita” di Marcos Giralt Torrente, premio Strega Europeo 2014. È proprio, tuttavia, il controverso e doloroso rapporto genitore – figlio, al centro di queste due opere, così diverse per contenuto e forma a giustificarne l’accostamento. Se Gadda aveva fatto suo il concetto di Schopenhauer secondo il quale vi è una diretta relazione tra dolore e conoscenza, nell’opera di Giralt Torrente lo stesso concetto viene esplicitamente e ripetutamente dimostrato.
“Il tempo della vita” è una biografia non un romanzo, è il resoconto a volte dettagliato delle fasi più importanti della vita dell’autore. Nonostante il ripetuto ricorso alle date, che può sembrare a volte eccessivo, l’opera non diviene mai un cronologico e freddo resoconto di fatti. Risulta infatti evidente la necessità dell’autore di collocare in un tempo preciso l’evoluzione dei suoi rapporti col padre, senza avere tuttavia la pretesa di raccontare ogni singolo episodio della loro esistenza: “Tento di aprire una finestra: di mostrare una porzione della nostra vita, non la sua totalità.”
Dopo una breve infanzia felice con entrambi i genitori, l’abbandono del padre, pittore irrequieto in perenne ricerca di se stesso e di una espressione artistica universalmente accettata e riconosciuta, traccia una ferita profonda nell’animo dell’adolescente Giralt Torrente, che comincerà a nutrire nei confronti del padre sentimenti sempre contrastanti, ora di rancore ora di ammirazione, in un continuo assolvere e dimenticare per poi tutto rimescolare e ricominciare.
Attraverso l’analisi e la rievocazione delle sofferenze giovanili, l’autore giunge a quella consapevolezza dolorosa, che gli permette tuttavia di affrontare con coraggio e generosità la malattia incurabile del padre. E qui assistiamo davvero alla trasformazione del figlio in padre, alla sua commovente quasi disperata dedizione alla cura di quel genitore divenuto ormai fragile e indifeso. E qui si palesa altresì come l’arroganza, sia pure inconsapevole, degli anni giovanili, vienga superata, quasi cancellata, con il diminuire della forza fisica e con l’aumentare delle debolezze e delle insicurezze. Attraverso il dolore, attraverso la cognizione del dolore, il figlio Giralt Torrente assolve il padre, gli restituisce quella dignità che non gli aveva più riconosciuto nel suo rancore giovanile. È un percorso di sofferenza infinita che gli serve per riscattarsi come figlio e per riscattare il padre allo stesso tempo.
Questo processo egli lo affida consapevolmente alla scrittura, quella forma d’arte, che, proprio perché diversa da quella paterna, gli consente di esprimersi con tono personale e originale. È il modo per descrivere come si possa rimanere impantanati nei sentimenti e come con il passare degli anni si rimpianga il tempo sprecato e si diventi più vulnerabili di fronte all’ineluttabilità del destino.
Il riscatto della figura paterna fa sì che il figlio cerchi in ogni modo le affinità che lo leghino a lui, nel tentativo di radicarlo profondamente dentro di sé, per non perderlo definitivamente con la morte. Perché la morte è assenza, è oblio, è il nulla.
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La voce del silenzio
“Danny l’eletto” di Chaim Potok è un’opera che coraggiosamente mette in risalto le contraddizioni e i contrasti che caratterizzavano la comunità ebraica alla fine degli anni quaranta, nel momento in cui la tragedia della Shoah veniva alla luce in tutta la sua inconcepibile e incomprensibile atrocità, e negli anni immediatamente successivi, quando si cominciava a parlare più concretamente della definitiva istituzione di uno stato di Israele in terra di Palestina.
Il romanzo si ambienta negli Stati Uniti, terra di rifugio e di riferimento per molti ebrei giunti da diverse parti del territorio europeo. La storia, semplice nella sua trama che vede come protagonisti due giovani adolescenti , diviene la metafora delle differenze culturali e religiose che distinguevano il mondo ebraico. Ancora oggi tali differenze non sono del tutto superate e ciò impedisce una definitiva omogeneità nelle scelte politiche e sociali della classe dirigente dello Stato di Israele.
L’accesa competizione sul campo nella partita di softball che vede Danny e Reuven affrontarsi come nemici più che come atleti, annuncia metaforicamente quelle differenze fondamentali che minacceranno di separare i due ragazzi pur legati ormai da un sentimento di profonda amicizia. L’educazione impartita dal rabbino Saunders al figlio Danny risulta incomprensibile agli occhi di Reuven, abituato a un rapporto di confidenza e fiducia con suo padre, il professore Malter, studioso del Talmud. Sono due concezioni del mondo diverse, in contrasto l’una con l’altra. Da una parte la chiusura e l’intransigenza del rabbino gli impedisce ogni contatto confidenziale con il figlio, che educa e alleva nel silenzio, col timore che l’eccezionale intelligenza di Danny possa essere di impedimento alla crescita e alla rivelazione della sua anima. La fede diviene così qualcosa di freddo e impersonale, un formale inno al Signore. Reuven, al contrario, trascorre molto tempo con il padre che gli spiega nei dettagli le parti più complesse del Talmud. Danny è attratto dalla psicanalisi e dalle teorie freudiane, considerate con disprezzo da suo padre, Reuven, invece, ha una mente più razionale e preferisce la psicologia sperimentale. Due mondi a confronto: ciò che interessa Potok è il rapporto tra ebreo e ebreo in terra americana, tra tradizionalisti e secolarizzati, tra chassid e apicoros, tra l’uso dello yiddish e l’uso dell’ebraico, nel tentativo strenuo di creare una coesione e una unitarietà indispensabili nel momento della creazione di uno stato ebraico. E qui è il punto più politico dell’opera. Il rabbino Saunders ostacolerà ostinatamente il sionismo, che è invece la vera meta che si prefigge Malter, e di cui rende partecipe il figlio Reuven.
Se da un lato Saunders afferma la necessità di attendere il Messia per costituire lo stato di Israele, Malter afferma, più realisticamente: “Il nostro Messia dobbiamo crearlo noi stessi”.
Ciò che risulta più interessante in questo romanzo è proprio l’aver evidenziato il diverso approccio alla religione e alla politica in seno alla società ebraica, e la necessità di superare le differenze o almeno di conciliarle, perché solo con una coesione interna un popolo può affrontare e superare le sfide che gli si pongono di fronte.
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Diritto e coscienza
Spesso scegliere non è facile. Specialmente quando la scelta investe la sfera morale, coinvolge la coscienza, mette in gioco la vita degli altri. Avere ruoli e responsabilità importanti è altrettanto difficile. Non è un luogo comune affermare che il successo si paga e che a farne le spese il più delle volte sono la famiglia, gli amici, gli affetti.
Il giudice Fiona Maye, la protagonista dell’ultimo romanzo di Ian McEwan, La ballata di Adam Henry, ha sacrificato se stessa e la sua vita privata per realizzare un fine di perfezione professionale e di successo personale. Alla soglia dei sessant’anni, stimata, rispettata e ossequiata, si trova di fronte a una crisi coniugale che le riesce difficile gestire e che le impone di rimettere in discussione tutte le scelte fatte fino a quel momento. Contemporaneamente le si presenta un caso molto difficile da giudicare, al quale dovrà dedicare tutta se stessa per procedere nel massimo rispetto della deontologia professionale e della propria coscienza.
Il giovane Adam Henry, quasi maggiorenne, è gravemente ammalato di leucemia e rifiuta ogni intervento trasfusionale, come gli impone la sua religione che lo vuole, insieme ai genitori, ortodosso testimone di Geova.
La decisione del giudice sarà una sentenza di vita o di morte. Qui dunque si pone il primo quesito morale: fin dove è lecito decidere di lasciar morire un individuo per rispettare la sua fede religiosa o viceversa fin dove può spingersi l’autonomia del giudice nell’ignorare questa fede per salvare una vita.
Il discorso potrebbe riguardare ogni integralismo religioso, ogni fede che non consideri la vita come l’evento più importante, nella sua unicità, nell’esistenza dell’uomo. La paura della morte è talmente innata nell’individuo, che ogni forma di fanatismo che ne sottovaluti la drammaticità diviene innaturale. D’altra parte il progresso scientifico stesso è inteso e volto al miglioramento delle condizioni di vita e al suo prolungamento.
La decisione del giudice, dunque, valuterà l’importanza del punto di vista religioso, ma non ne sarà condizionata. Fiona Maye deciderà a favore della vita di Adam, sollevando, paradossalmente, gli stessi genitori di ogni responsabilità.
Ciò che si può scatenare nella psiche di un giovane restituito alla vita appartiene all’imponderabile. Un senso di ribellione nei confronti di un credo estremamente rigoroso, che nega la possibilità di godere di tutte le opportunità che offre la vita, può a volte scatenare uno squilibrio momentaneo o duraturo. Le certezze del giudice Maye vengono sconvolte dal giovane Adam che a lei si era rivolto in cerca di aiuto. Un appello rimasto incompreso e dunque non raccolto. Qui si palesa ancora una volta l’abilità dell’autore nel creare un gioco di metafore contenute nella ballata che Adam scrive e invia a Fiona. La drammaticità del finale del romanzo è accentuata da una sorta di crescendo musicale che accompagna i pensieri della protagonista.
Ciò su cui ci si interroga, in ultima analisi, è fino a che punto si abbia il diritto di sostituirsi agli altri, imponendo, sia pure in buona fede, il proprio punto di vista o se invece, non sia più giusto lasciare a ciascun individuo la libertà di decidere della propria vita e della propria morte. E soprattutto quali e quanti rischi si corrono nello scardinare principi basilari di ideologie, culture, religioni e tradizioni diverse senza avere alcunchè di valido da sostituire ad esse?
Il romanzo di McEwan pone questi interrogativi, senza avere la pretesa di dare una risposta, anche perché una risposta non esiste. Sta alla coscienza individuale trovare una soluzione per ogni caso, senza l’arroganza di credere che essa sia l’unica giusta in assoluto.
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Il romanzo come esplorazione della vita
“Il romanzo non è una confessione dell’autore, ma un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato.” Quasi la formulazione di una teoria del romanzo, nelle parole di Milan Kundera nella parte quinta de “L’insostenibile leggerezza dell’essere”.
Le vite di Teresa e Tomas, di Sabina e Franz sono al centro di questa bellissima opera. Attraverso le vicende e il dramma esistenziale dei suoi personaggi, l’autore affronta il tema dell’eterna dicotomia tra sfera ideale e sfera sensibile, tra anima e corpo. L’amore di Tomas per Teresa non gli impedisce di continuare una vita di inganni e tradimenti. Le sue scelte sono condizionate dalla decisione di non superare quella scissione tra il sentimento sincero per la sua donna e l’esigenza di soddisfare il suo ego. Egli non accetta di lasciare che il suo corpo sia imprigionato dall’anima. Come Parmenide aveva visto l’universo diviso tra luce e buio, tra essere e non essere, Kundera si pone il dilemma della scelta tra leggerezza e pesantezza: il leggero è positivo, il pesante è negativo.
Teresa, al contrario, vive il suo amore per Tomas, con passione e dedizione, pur consapevole delle infedeltà del marito. Ella non sa far tacere la sua anima e non saprà far tacere la sua coscienza.
Il tema del tradimento e della fedeltà è centrale in tutto il romanzo. Vivere senza vincoli sarà fondamentale per Sabina, che, incapace di fare una scelta definitiva rinuncia all’amore di Franz. Ogni personaggio sembra dunque incapace di ricomporre in un tutto unitario le sfere del proprio essere. Tomas e Sabina tendono a trasformare il pesante in leggero, in un’eterna illusione. Teresa riuscirà a vedere con lucidità solo quando si unirà senza amore in un incontro occasionale. Questa scissione delle due sfere in ciascun personaggio è accentuata dalle vicende storiche che fanno da sfondo al racconto. Siamo nella Praga oltraggiata dall’invasione dei carri armati sovietici e poi governata da un regime fantoccio imposto dall’Unione Sovietica. Nulla è in realtà come appare. Il mito di Edipo ritorna spesso nel corso del romanzo, sia in rapporto all’arrivo improvviso e inaspettato di Teresa a casa di Tomas, sia successivamente, in relazione alle nefandezze commesse inconsapevolmente da coloro i quali avevano accettato le violenze e i soprusi nella propria patria. Anche Edipo era ignaro di aver condiviso il letto con la propria madre. Tomas non accetta il principio della colpa “inconsapevole”. Egli ricorda che Edipo si era strappato gli occhi nel momento stesso in cui aveva preso coscienza delle sue colpe. Qui il messaggio politico si fa più esplicito, come anche in altri capitoli del romanzo. Una posizione di una lucidità e di un coraggio notevoli, anche in considerazione dell’epoca in cui fu scritta quest’opera, quando ancora non era caduto il muro di Berlino.
Leggerezza e pesantezza investono dunque anche la coscienza. Solo conciliando sogno e realtà, si può rendere accettabile l’idea nietzschiana dell’eterno ritorno altrimenti opprimente e terribile.
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Grottesco, gotico e noir.
Grottesco, gotico e noir.
Tutto questo è “Grottesco” di Patrick McGrath.
L’origine del termine grottesco risale alle pitture e agli affreschi ritrovati in antiche grotte e in ville romane. Per l’esagerazione o alterazione di alcuni aspetti dei soggetti rappresentati esso giunse più tardi a definire un vero e proprio genere letterario. Elementi di grottesco si ritrovano nei personaggi di Gargantua e Pantagruel di Rabelais, come nel Cyrano di Cervantes, per non citare l’opera Grotesques di Theophile Gautier. Si tratta sempre della rappresentazione di una situazione ai limiti della realtà in cui vengono evidenziati ed esasperati gli aspetti più comici e paradossali. Molte delle caratteristiche proprie del grottesco si ritrovano nel romanzo gotico, noto soprattutto per le opere di Horace Walpole e Mary Shelley. Nel novecento questi elementi si fondono nel romanzo noir che rielabora anche la suspense dei racconti di Edgar Allan Poe.
il romanzo di McGrath offre una piacevole e arguta sintesi di tutti questi aspetti. Con uno stile impeccabile, l’autore dà sfogo alla sua vena satirica, tipicamente “british”, creando personaggi inquietanti come il maggiordomo Fledge, oppure apparentemente legati alle convenzioni sociali, come Harriet o fragili e sensibili come Cleo. Ogni personaggio viene visto attraverso gli occhi del narratore Sir Hugo Coal, che, vittima di un incidente, è condannato a vivere su una sedia a rotelle apparentemente ridotto a uno stato vegetale.
Fledge è l’elemento “satanico” del romanzo, a lui, Sir Hugo attribuisce l’intenzione di usurpare il suo posto : “Meglio regnare all’inferno – si sarà detto, come il Satana di Milton – che servire in cielo.” D’altra parte non meno inquietante è l’antica dimora dei Coal, Crook, sinistramente rumorosa e fatiscente, battuta dal vento, umida per la palude vicina e buia per la nebbia persistente. Il lettore non può non lasciarsi prendere dagli eventi a volte ansiogeni che vedono coinvolti i personaggi, ma allo stesso tempo l’abilità dell’autore è tale da suscitare in lui dubbi sulla veridicità dei fatti raccontati. Ogni cosa è al limite del paradosso, come è tipico del grottesco. È la stessa voce narrante che crea questa ambiguità tra realtà e apparenza, al punto che egli stesso ci racconta una versione dei fatti da lui immaginata ma non vista. I numerosi sogni che meglio delineano il carattere del personaggio di Sir Hugo potrebbero essi stessi essere manifestazione d’una mente turbata.
In questa prospettiva, il “Nil desperandum” che il protagonista ripete più volte a se stesso è un’espressione che rimette tutto in gioco.
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Da Shakespeare a Pinter
Audace nella struttura l’ultimo romanzo di David Grossman. Servendosi dei mezzi espressivi tipici del cabaret, l’autore mette al centro della scena un singolare personaggio, Dova’le, che con la sua arguzia si rivolge direttamente al pubblico, a poca distanza da lui. Il monologo del protagonista si alterna, nel corso della narrazione, alle osservazioni e ai ricordi del giudice Avishai Lazar, suo amico d’infanzia, che ha accettato con molte perplessità di assistere allo spettacolo. Ciò che appare immediatamente evidente è la volontà dell’attore di porre il suo pubblico di fronte alla realtà spogliata di ogni falsa apparenza. Prima di addentrarsi nel racconto della sua vita egli si rivolge infatti a singoli individui in sala, senza risparmiare loro osservazioni dure e talvolta offensive. Appare qui subito evidente l’eredità shakespeariana del personaggio del clown e della sua funzione di denuncia. Dova’le, infatti si presenta subito come un buffone al centro della scena. Con l’intento di alleggerire la rappresentazione, egli alterna al racconto drammatico vere e proprie barzellette, più gradite al pubblico. Non a caso informa quasi subito lo spettatore della sua abitudine giovanile di camminare sulle mani e vedere il mondo alla rovescia. Questo atteggiamento bizzarro nasconde una tragica visione della vita. Sin da bambino, infatti, Dova’le non riesce a stabilire un rapporto armonioso con la realtà che lo circonda. Dal racconto del suo tormentato viaggio attraverso il deserto per ritornare a casa dal campeggio militare dove si era recato, richiamato per la morte d’un genitore, emerge tutta la sua disperata solitudine accentuata dall’angoscia di non sapere se sia morto suo padre o sua madre. Ritornano così alla sua mente fatti della vita quasi sepolti in un piccolo spazio di memoria dove è sempre presente il dramma della Shoa.
Come i personaggi di Pinter, Dova’le è chiuso anch’egli nella sua “stanza dell’oppressione” nella quale egli intende trascinare anche il suo pubblico persuadendolo della necessità della ricerca della verità. Immergersi nel suo passato gli serve per denunciare insieme ai suoi limiti, anche i limiti e le colpe di chi lo aveva conosciuto nel passato e aveva mostrato indifferenza verso il suo destino.
Il contatto diretto con il pubblico agevola la comunicazione. Solo di tanto in tanto Dova’le si rifugia in una poltrona, unico arredo del palcoscenico, che ha lo scopo di sottolineare il limite entro cui egli stesso è chiuso. Il suo spettacolo tuttavia non è gradito a tutto il suo pubblico. Una parte di esso desidera rifugiarsi in qualcosa di illusorio e sfuggire alla cruda rappresentazione della realtà.
La presenza del giudice Avishai, tanto desiderata da Dova’le, al suo spettacolo, assume un significato più sottile, proprio alla fine del monologo. Giudicare senza partecipare emotivamente non è sempre garanzia di equilibrio e obiettività. Giustizia non è negazione di umanità. Dova’le desidera che l’amico d’un tempo si senta finalmente partecipe della sua storia e ne dia un giudizio sereno.
“Per lo meno rimarrà qualche parola di me […] Come la segatura dopo il taglio di un albero ….”
Personalmente, egli ha finalmente preso coscienza del significato dei drammi vissuti. Rivisitare il passato gli ha permesso di penetrare nell’animo delle persone che ha amato. Presupposto essenziale per non dovere più camminare a testa in giù.
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Originale e divertente
E cinico al punto giusto, senza superflue esagerazioni. Già dal titolo si capisce che siamo di fronte a personaggi creati con l’intento di evidenziare i limiti e le ipocrisie della società di cui facciamo parte.
Con una efficace tecnica di straniamento, Antonella Di Martino fa sì che il protagonista del suo romanzo assista al suo funerale per seguire sotto le spoglie di invisibile fantasma le azioni e le reazioni di alcuni dei parenti a lui più vicini. Egli appare da subito consapevole della sua mediocrità e sente di essere oggetto della curiosità di amici e conoscenti desiderosi di sapere se la sua morte sia da attribuire a un omicidio o a un suicidio.
Da qui dunque si delinea poco alla volta il carattere del personaggio, politico d’ un certo successo, che del mondo di cui faceva parte aveva ben assimilato i giochi e le tendenze al compromesso, le piccole e grandi astuzie, e si era ben adattato alla deprecabile consuetudine delle tangenti, al punto da essere ormai conosciuto come Diecipercento. Con la freddezza di chi non fa più parte del mondo dei vivi, egli rivisita alcuni degli episodi più significativi della sua vita, prendendo coscienza dei torti inflitti agli altri. Spinto dal gran desiderio di smascherare quello che egli chiama Il Maledetto, responsabile vero della sua dipartita, non risparmia a se stesso un’analisi finalmente obiettiva della sua condotta sulla terra. In questa sua peregrinazione da fantasma segue soprattutto la nipote Margherita, l’unico personaggio che nel racconto ha un ruolo veramente positivo, e per questo diviene la gran signora dei tonti. È lei infatti l’unica che segue il suo cuore e i suoi sentimenti, conservando quella dote ormai rara dell’onestà e abbandonando il mondo falso e ipocrita in cui era cresciuta. Ed è verso Margherita che Diecipercento è soprattutto in debito, per gli inganni perpetrati a suo danno. Bello e avvincente l’episodio dell’anello.
Muoversi leggero, sciolto dai vincoli d’un corpo terreno, vuol dire per Diecipercento raggiungere non visto ognuno dei suoi cari, riesaminarne i difetti, senza tuttavia nascondere l’affetto che lo lega a loro, e accettare l’immagine negativa che ha lasciato di sé tra i vivi.
Con una felice operazione di demistificazione della morte, Antonella Di Martino ci ha offerto una piacevole e intelligente rappresentazione della commedia della vita contemporanea, con una prosa sapientemente ironica.
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Verso un nuovo Risorgimento
Ogni creazione letteraria, che sia frutto di immaginazione o resoconto di fatti realmente accaduti, una volta completata, assume una sua autonomia, diviene qualcosa d’altro rispetto all’autore, e i personaggi che ne sono parte si animano di vita propria, al punto che risulta difficile controllarne le azioni e i pensieri. Questo è quanto spesso si sente ripetere da scrittori che sono riusciti a creare figure destinate a imprimersi in modo duraturo nella mente dei lettori. Ed è in questo senso che va interpretato il capitolo di inizio dell’ultimo romanzo di Ala Al Aswani, che vede due tra i personaggi più importanti della storia, Kamel e Saliha fare visita all’autore, prima della pubblicazione del libro, per rivendicare il diritto a esprimere i propri pensieri e il proprio punto di vista sui fatti narrati. Da questo momento Kamel e Saliha non sono più astratte creazioni letterarie, ma concrete figure che rappresentano quella parte della società egiziana, tesa alla conquista dei valori democratici basati sul rispetto dei diritti umani e della dignità dell’individuo.
Un inizio geniale e avvincente. La rivendicazione di Kamel e Saliha a inserirsi in prima persona nel corso del romanzo spiega l’alternarsi delle due diverse tecniche narrative, espressioni di diversi punti di vista.
Il luogo in cui convergono i personaggi è l’Automobile Club del Cairo e il periodo storico è quello degli anni quaranta. L’Egitto è ancora parzialmente occupato dagli inglesi ed è governato da una monarchia corrotta e decadente. Le condizioni di vita dei dipendenti del Club sono le stesse della massa del popolo egiziano, che soffre della disuguaglianza sociale esistente tra le classi ricche e quelle povere, dove quest’ultime sono tenute in condizioni di semischiavitù. Le prevaricazioni del Camerlengo del re, il Kao, sfociano spesso in umilianti punizioni corporali. Il direttore del Club, un inglese di nome Wright è altrettanto privo di scrupoli. In questo contesto e a questi personaggi è legata la storia della famiglia di Abdelaziz Hamam. I figli sono lo specchio dell’Egitto dell’epoca, di quella parte che lotta per il progresso e l’emancipazione culturale e sociale, come Kamel e Saliha e di quella legata a interessi particolaristici ed egoistici come Sa’id e Mhamud.
Se da un lato il ruolo degli inglesi nella storia dell’Egitto è qui rappresentato in modo estremamente negativo dal personaggio di Wright, esso tuttavia si riscatta attraverso la figura di Mitzie, generosa e pronta a dare il suo contributo disinteressato al progresso e all’emancipazione del paese.
Ed è dunque attraverso le avventurose vicende che legano questi personaggi che l’autore guarda al passato, al presente e al futuro dell’Egitto: un futuro di democrazia ancora lontano, ma sempre più vicino, se l’opera di diffusione della cultura continua, con il convincimento che la democrazia debba essere una conquista di ogni popolo che la desideri, e non un valore imposto da altri. Questo appare il messaggio di Al Aswani. Per avviarsi verso un duraturo Risorgimento Arabo.
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“Riparare è molto più eroico di costruire”
Il romanzo si apre su una descrizione della città di Palermo vista dall’alto, all’alba, quando la luce ancora incerta ne altera i colori, ma la rende ancora più seducente e smagliante. Di fronte allo spettacolo in chiaroscuro dei tetti e del riflesso di luce che giunge dal mare, Federico, il giovane protagonista del romanzo, pensa all’arte del Caravaggio. E sarà proprio il chiaroscuro l’elemento dominante nel racconto, l’alternarsi di spazi di speranza a spazi di disperazione nella vita dei personaggi.
Qui , in questa città ricca di arte, custode di tradizioni e culture antiche, si sono radicati abuso e sopraffazione, sfruttamento e violenza. L’opera coraggiosa di 3P, come veniva affettuosamente chiamato Padre Pino Puglisi, è volta al recupero dei giovani più diseredati, di bambini abbandonati e adolescenti dediti al furto e alla prostituzione. In lui è una volontà, un desiderio e l’ambiziosa aspirazione a spegnere il fuoco dell’inferno che circonda i suoi ragazzi. L’inferno esiste ed è sulla terra e Federico lo imparerà a sue spese nel momento in cui coraggiosamente deciderà di aiutare Don Pino. L’amore per Lucia lo sosterrà nell’impegno.
Ciò che convince in questo romanzo è la capacità dell’autore di non abbandonarsi più del necessario a riflessioni religiose. Certo il personaggio di Don Puglisi non può prescindere dalla sua professione di fede, ma visto attraverso gli occhi dell’adolescente laico Federico, risulta più convincente e più coinvolgente il suo impegno ad aiutare i più deboli. È quasi un ritorno a un Cristianesimo delle origini che si libera della retorica ecclesiastica e agisce con dedizione e generosità. Ed è questo che convince, io credo, anche il lettore più laico. Perché in fondo Padre Pino intendeva solo restituire all’uomo quella dignità di cui era stato privato, e alla morte la tragicità di cui era stata spogliata. Come sacerdote non eccede in superflue prediche ma rende i sacramenti aderenti alla realtà. Con questo spirito raccoglie la confessione di Francesco, che diventa vera catarsi, cancellazione del suo inferno interiore.
“Riparare è molto più eroico di costruire” – queste le parole di Don Pino a Serena, volte a persuaderla a non arrendersi. E in fondo questa era sempre stata la sua missione, portata avanti con tenacia e perseveranza, quella tenacia che sua madre riconosceva con ammirazione come un aspetto del suo carattere, quando diceva: “Disse la goccia alla roccia, dammi tempo che ti percio”.
Dal punto di vista stilistico, la prosa è piuttosto ridondante, per l’uso frequente di figure retoriche, ma ciò che altrove può senz’altro essere considerato un difetto, qui diventa quasi naturale, visto l’argomento, affrontato e portato avanti con passione. D’altronde laddove si è accennato al chiaroscuro per descrivere i colori della città al primo risveglio, non appare fuori luogo un uso frequente dell’ossimoro, proprio per sottolineare i contrasti che esistono nei luoghi e nelle persone che li abitano.
Non a caso proprio Federico, che aspira a diventare poeta, dice del suo stile e della sua tendenza all’esagerazione barocca : “Del barocco amo l’arguzia, la metafora che sloga la realtà e il grande gioco delle parole con cui sfidarla d’azzardo”
Un romanzo coraggioso con il quale Alessandro D’Avenia intende celebrare la figura di Don Puglisi e ricordare il suo amore per quel quartiere degradato, Brancaccio, e il suo impegno per sottrarre quella parte di umanità diseredata e dimenticata all’inferno dell’abuso e della violenza del passato e del presente per traghettarla verso un futuro di dignità e di rispetto che inferno non è.
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La tigre, minaccia e libertà
È sorprendente come una scrittrice giovane quale Fiona McFarlane, australiana, sappia immedesimarsi nella condizione fisica e psicologica dell’anziana protagonista del suo romanzo, Ruth, e ne sappia interpretare le ansie, i malesseri e le ossessioni tipiche della terza età.
Questa è un’opera sulla fragilità e la vulnerabilità di quanti, rimasti soli, si ostinano a coltivare l’illusione che tutto possa continuare come prima, nonostante il vuoto, il silenzio, l’immobilità che li circonda.
Riesce molto bene la McFarlane a descrivere il rapido decadimento dell’anziana Ruth, dal momento in cui, rimasta vedova e con i figli lontani, resta a vivere nella casa sulla spiaggia, che era stata scelta in un primo tempo come una casa di vacanze per riunire la famiglia. È schiacciante la solitudine di questo luogo lontano dal movimento cittadino, dove gli unici rumori sono la risacca del mare e il volo degli uccelli. È una solitudine che allunga il tempo, moltiplica i minuti e le ore, rende interminabili le notti e popola la casa di spettri. Unica compagnia per Ruth sono i suoi gatti, che la seguono dovunque. In queste notti interminabili, nei momenti sempre più frequenti di insonnia, l’anziana signora si convince che una tigre venga a passeggiare nel suo salotto, ne sente il respiro ansimante, ne annusa l’odore aspro e poco alla volta si lascia pervadere da un forte senso di disagio. Ancora presente a se stessa, ma con qualche cedimento psicologico, Ruth accetta di buon grado la compagnia di Frida, che giunge inaspettata, dichiarando di essere stata inviata dal governo per assisterla. Da questo momento in poi, Ruth comincerà a perdere la sua autonomia, i suoi mali si accentueranno, gli unici momenti piacevoli delle sue giornate saranno quelli spesi nel ricordare il passato, nel rivivere quell’amore giovanile che l’aveva lasciata delusa e addolorata. Sarà il momento in cui, sostenuta dall’apparente sollecitudine di Frida, accoglierà per un fine settimana il suo ex amore e, ormai così avanti negli anni entrambi, si uniranno in un rapporto delicato e appassionato.
Rimasta nuovamente sola, la mente di Ruth si offusca ancora più rapidamente, perde sempre più frequentemente quella lucidità che sarebbe la sua unica difesa e ritorna la tigre, metafora della minaccia che incombe su quella fascia d’età che si chiude in una solitudine nociva, lontano da ogni relazione affettiva. Sarà, tuttavia, proprio la tigre a restituire a Ruth la libertà.
I personaggi del romanzo sono ben delineati, le situazioni a volte un po’ eccessive. La condizione degli anziani qui descritta non può né deve essere intesa come una realtà che ineluttabilmente riguardi tutta questa fascia d’età, ma è indubbiamente una presa di coscienza di ciò che spesso può accadere.
Dal punto di vista stilistico si nota qualche asperità narrativa, ma certamente si tratta di un’opera scritta con passione.
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Guttuso e Chagall. Levi e Modiano
Osserviamo la “Crocefissione” di Guttuso. Tutto in questo dipinto ci colpisce e ci emoziona profondamente, il messaggio giunge immediato nella sua tragicità.
Consideriamo la “Crocefissione bianca” di Chagall. Lo stesso tema e la stessa tragicità rappresentati con colori più tenui, con una prevalenza di bianco. Un invito a una riflessione profonda sui molteplici simboli contenuti nella scena. Due rappresentazioni diverse d’una stessa realtà. Entrambe le opere stupende.
Leggere Dora Bruder di Patrick Modiano, recentemente insignito del premio Nobel per la Letteratura, è molto diverso dal leggere “Se questo è un uomo” di Primo Levi. Eppure entrambi scrivono sull’orrore della Shoah.
Modiano cerca di ricostruire l’ultimo periodo della vita di un’adolescente ebrea, vissuta a Parigi durante il periodo dell’occupazione tedesca, di cui si perdono le tracce dal momento della sua fuga dal collegio in cui i genitori l’avevano lasciata, con la speranza che almeno lei potesse sfuggire alle persecuzioni. Di questa ragazza dunque si sa poco o niente. Le tracce lasciate sono pochissime. L’autore ripercorre le strade di Parigi, ormai cambiate nel tempo, raccoglie qualche testimonianza, documenti, alcuni riguardanti anche altre persone che possono aver condiviso la stessa sorte di Dora. È una ricerca appassionata, attraverso le strade d’una Parigi diversa, completamente diversa da quella a cui ci siamo abituati dagli anni sessanta a oggi, con il suo centro così sgargiante, le vetrine di lusso, i ristoranti affollati. Modiano traccia una mappa della Parigi di periferia da boulevard Ornano alla Porte de Clignancourt a Saint Denis. Egli immagina e vede Dora camminare per quelle strade, sa che la sua fuga è una richiesta di aiuto in un mondo che le è contro, senza che lei ne abbia alcuna colpa. È il solo modo di riportare Dora in vita, seppure nell’immaginario, seppure per qualche momento. È un tributo doveroso. Troviamo in queste pagine un dolore e una partecipazione sommessa, quasi silenziosa, una descrizione in cui il pathos traspare solo dai percorsi ricostruiti scrupolosamente, diverso dal pathos che emerge dalle descrizioni di Levi, che suscitano un’indignazione immediata e un orrore profondo.
In questa prospettiva “Dora Bruder” di Patrick Modiano è un’opera di grande spessore, e di grande valore documentaristico.
Una delle funzioni più importanti dell’arte è quella di mantenere vivo il ricordo del passato non solo nei suoi aspetti gloriosi, ma, e soprattutto, nei suoi aspetti più terribili. Con un laico auspicio che il Cristo della Crocefissione bianca di Chagall accolga l’invito a scendere su quella scala simbolicamente posta alla base della sua croce, per venire in soccorso dell’umanità.
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Da Machiavelli a Camus
Un romanzo agghiacciante che vede al centro il rapporto padri-figli, ma soprattutto un romanzo sull’emarginazione in tutte le sue forme, non solo quella che riguarda il diverso, il derelitto, ma anche quella di chi per scelta rifiuta il codice del vivere civile.
I protagonisti di questa storia vengono delineati con cura e attenzione nelle loro caratteristiche fisiche e morali. Il carattere di ognuno emerge nel corso della storia, rivelando lati nascosti e oscuri a volte sorprendenti.
L’abitudine di due fratelli, uno, politico di successo, l’altro, insegnante in aspettativa, di incontrarsi con periodica scadenza in un ristorante, per trascorrere una serata insieme, diviene l’occasione per affrontare l’argomento sconvolgente che riguarda i figli, macchiatisi d’una orribile aggressione a un barbone che aveva occupato lo spazio antistante un bancomat. Il fatto, ripreso dalle telecamere esterne, viene trasmesso in tv durante la trasmissione Telefono Giallo. La serenità di due famiglie viene sconvolta. Ogni genitore si trova di fronte a un figlio che fino ad un attimo prima credeva di conoscere a fondo e in cui aveva fiducia, e che invece si rivela essere un estraneo, qualcuno che ragiona e si comporta talmente autonomamente da fare scelte e compiere azioni del tutto inaspettate.
Fin qui i genitori si trovano davanti all’alternativa se denunciare i figli, come vorrebbe il codice etico comportamentale di ogni individuo onesto, o proteggerli fino alle estreme conseguenze, con quell’amore indiscusso e indiscutibile di sempre. Ciò ovviamente mette tutto in gioco, le carriere di successo, il futuro dei giovani. Tra le due coppie si accentua il divario che esiste da sempre. C’è chi opterebbe per una soluzione anche la più discutibile, secondo il principio del fine che giustifica i mezzi, pur di salvare la reputazione e l’avvenire dei ragazzi, chi si pronuncia, invece, per una linea più rigorosa e rispettosa della giustizia.
Le cose, tuttavia si complicano nel momento in cui la personalità di uno dei genitori, Paul, si chiarisce nelle sue sfaccettature più nascoste. Egli si rivela un ribelle, a volte violento, che, in circostanze avverse, non riesce a trattenere la sua aggressività, né cerca minimamente attenuanti o giustificazioni. Dunque Paul è qualcuno che vive l’emarginazione come scelta, un’emarginazione diversa da quella del barbone o di Beau-Faso il bambino adottato, apparentemente integrato, vittima e colpevole allo stesso tempo. L’emarginazione di Paul è simile a quella di chi si sente estraneo alla società di cui fa parte e di cui a fatica accetta i codici e le regole del gioco. Simile in questo a Lo straniero di Camus, che suscita orrore negli altri per le sue scelte. Dunque qui il rapporto padre – figlio si complica, la problematica si amplia e l’autore lascia al lettore il compito di trovare le risposte più idonee.
La conclusione inaspettata accentua l’aspetto cinico e crudo del romanzo.
Questo testo è estremamente interessante se si vuole considerare la tendenza della letteratura contemporanea a focalizzare l'attenzione sui mali dei nostri tempi, a denunciare i limiti d'una società che mette al centro dei propri interessi l'opulenza e il potere, perdendo di vista ogni valore.
Il romanzo di Koch è stato recentemente liberamente rielaborato dal regista De Matteo per il film “I nostri ragazzi” con Alessandro Gassman, Barbora Bobulova, Giovanna Mezzogiorno, Luigi Lo Cascio. Un ottimo film, per un’ottima regia, che tuttavia si discosta alquanto dal romanzo originale, attenuando forse gli aspetti più crudi dei personaggi dei genitori, ma rendendo la storia più vicina a noi e alla nostra società. Assolutamente da vedere.
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La vita davanti a sé di Romain Gary
“La vita davanti a sé” fu scritto da Romain Gary con lo pseudonimo di Emile Ajar e pubblicato per la prima volta nel 1975. Si tratta di un romanzo davvero interessante e originale, sia per il suo contenuto che per la forma espressiva. Il racconto è affidato al punto di vista di un adolescente, Momò, di origine araba, allevato da un’ex prostituta insieme con altri bambini, altrimenti destinati ad essere affidati ai servizi sociali. L’epoca in cui si svolge la storia è quella del secondo dopoguerra e il luogo è Parigi. È già una Parigi multietnica, popolata da una folla di diseredati. La realtà descritta da Momò , filtrata dai suoi occhi innocenti di ragazzo, perde ogni connotazione di volgarità. Di prostitute, travestiti, prosseneti si esaltano la generosità e il senso di solidarietà con cui ognuno soccorre l’altro nei momenti più critici. Ogni situazione viene descritta con umorismo, spogliata di ogni tragicità. Il mondo dei miserabili di Gary si distingue in questo da quello ben più drammatico di Victor Hugo, tanto spesso citato nel romanzo. Entrambe le opere hanno una forte funzione di denuncia, ma se in Hugo il mondo dei poveri viene sempre visto in contrapposizione e in contrasto con quello dei ricchi, il mondo di Gary rimane circoscritto in quei quartieri di immigrati che si distinguono per colore della pelle e per religione. Le battaglie politiche dei miserabili del diciannovesimo secolo, divengono le battaglie di integrazione dei musulmani, degli ebrei, dei perseguitati sfuggiti ai campi di concentramento. Se in Hugo la ragazza madre è emarginata dalla società e viene considerata con pietà cristiana dall’autore, le trasgressioni dei personaggi di Gary sono trattate con comprensiva indulgenza.
Due personaggi più degli altri si distinguono per il grande spessore umano, Madame Rosa e Madame Lola. Pur descrivendone l’aspetto grottesco, a tratti disgustoso, Momò ne esalta le qualità morali, rivelando il profondo legame affettivo che lo unisce a entrambe.
Il punto di vista straniante dell’adolescente Momò propone, dunque, al lettore alcuni spunti di riflessione importanti. In questa prospettiva va considerato il rapporto Francia-Algeria o Israele-Palestina a cui si fa talora riferimento attraverso alcuni accenni alle differenze religiose tra musulmani e ebrei.
La forma espressiva del romanzo è volutamente semplice, a volte perfino povera, come lo è di solito il linguaggio dei bambini e dei ragazzi.
Un romanzo che ha giustamente ottenuto il premio Goncourt e dal quale è stato tratto un film per la regia di Moshé Mizrahi che vinse l’Oscar nel 1978.
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La ferocia di Nicola Lagioia
“L’agnello crea la tigre facendosi mangiare da lei” – queste le parole che Michele, uno dei personaggi salienti dell’ultimo romanzo di Nicola Lagioia “La ferocia”, rivolge alla sorella Clara, ed è in queste parole il vero significato dell’opera.
Non è forse facile per chi ancora nutra delle illusioni sulla condizione in cui versa l’umanità oggi, accettare il quadro che Lagioia dipinge di una parte di quella società che costruisce sull’inganno, sul raggiro, sulla disonesta gestione dei fondi dello stato, il proprio benessere e la propria ricchezza, senza esitare a servirsi persino della complicità di alcuni rappresentanti delle istituzioni.
La storia della famiglia Salvemini, di Vittorio e Annamaria e dei quattro figli, Ruggero, Clara, Michele, Gioia, si svolge in una delle parti più belle del territorio pugliese, sottoposto troppo spesso alle speculazioni e allo sfruttamento da parte di imprenditori senza scrupoli, dei quali Vittorio è importante esponente.
Il dramma che travolge l’intera famiglia ha radici antiche, nasce dal desiderio di elevarsi nella scala sociale, acquisendo potere attraverso il denaro. In questo ambiente, dove i figli nascono e crescono nell’abbondanza, l’inarrestabile ambizione dei genitori cancella ogni manifestazione d’amore e di rispetto. Annamaria, moglie tradita e offesa di Vittorio, accetta di allevare il figlio illegittimo del marito, celandosi dietro un atteggiamento di grande generosità che susciterà la gratitudine del coniuge e sarà sicuramente la carta vincente che le consentirà di conservare gli agi e i privilegi ai quali si è abituata.
Ed è proprio intorno alla figura di Michele, il bastardo, e Clara, la sorellastra poco più grande, che si scatenano le tensioni più laceranti. Tra loro si instaura un rapporto di intima complicità, un vincolo affettivo profondo e controverso.
È sempre l’amore a essere messo in discussione. Laddove esso non riesce a esprimersi o non può realizzarsi, non c’è speranza per l’individuo. Ciò determina la disperazione e lo squilibrio psichico di Michele, privato dalla nascita dell’amore materno, ciò determinerà il disperato autolesionismo di Clara, che si perderà in rapporti avvilenti e degradanti, non per vizio, ma per una spasmodica volontà di punirsi.
Fondamentale in questa storia è il rapporto padre-figli: un padre che mente a se stesso e si convince di aver sempre agito solo per il bene della famiglia e non spinto dall’ambizione e dall’avidità e dei figli che lo disprezzano, ognuno a suo modo, ognuno per ragioni diverse.
Sullo sfondo di questa tragica storia, il degrado ambientale, le verità taciute, le connivenze sospette e celate.
La realtà descritta da Lagioia , tuttavia, oltrepassa i confini del nostro paese, essa diventa, io credo, metafora della condizione verso cui il mondo va rovinosamente e progressivamente dirigendosi. Più che un romanzo di denuncia che si serve abilmente della tecnica del noir che coinvolge e appassiona il lettore, “La ferocia” è un vero grido d’allarme, perché si possa cambiare rotta, finché si è in tempo. Un romanzo che ci riporta al significativo, quanto angosciante Urlo di Munch.
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Nel tempo di mezzo di Marcello Fois
Inizia nel 1943 il viaggio di Vincenzo Chironi, di madre friulana e padre nuorese, dal continente verso la Sardegna, per ricongiungersi alla famiglia d’origine che non aveva mai conosciuto, così come mai aveva incontrato quel padre che pure gli aveva dato il suo nome prima di morire, ponendo in certo modo rimedio a una nascita frutto di un amore di guerra.
Il primo impatto con il territorio isolano è, per Vincenzo, fonte di sorpresa e stupore. “Piccole poiane saettavano sui picchi rocciosi, talmente vicine alle spiagge, da eliminare qualunque certezza …. che mare e montagna fossero inconciliabili.”
Ed è tutta la prima parte del romanzo che descrive l’asprezza e la bellezza selvaggia di quella parte dell’isola e ne mette in risalto il senso di solitudine. “Ogni rumore sembrava interrotto.” Un luogo che anticipa e spiega il carattere chiuso e dignitoso dei personaggi, la loro capacità di affrontare i colpi della vita, di farsi canne al vento, di essere duri, come la terra che non assorbe più acqua, come a rifiutare essa stessa la speranza. E il tempo qui, come in ogni realtà che sia legata indissolubilmente alla natura, è amplificato, lento, quasi sospeso, come lo sono i sentimenti, gli amori e gli odi che nascono e si nutrono delle incomprensioni che l’orgoglio ingigantisce. In questo contesto si spiega il personaggio di zia Marianna che rivive quotidianamente il suo dolore, un dolore che cresce in un silenzio dignitoso, con un’intermittenza di tregue costanti, che resuscita assenze che furono presenze e crea un’illusione in bilico tra immaginazione e realtà.
In questo mondo aspro e difficile, il nonno Michele Angelo conserva intatta la sua personalità dominante fino alla fine dei suoi giorni, per abbandonarsi negli ultimi istanti della sua vita, al ricordo delle opere più belle che egli stesso aveva forgiato lavorando il ferro, un materiale così freddo e duro, che pure nelle sue mani aveva assunto forme delicate e aveva evocato un’idea di fragilità e leggerezza.
Qui Vincenzo trova finalmente una famiglia, pone fine alle sue peregrinazioni da picaro novecentesco, qui trova l’amore, la felicità e la disperazione. Qui proseguirà la stirpe dei Chironi, col tramandarsi rigoroso delle tradizioni isolane.
Un romanzo coinvolgente, che riesce a portare il lettore dalla particolare realtà della vita isolana a quella più universale della condizione umana.
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Morte di un uomo felice di Giorgio Fontana
Un romanzo in cui la narrazione procede su due diversi livelli, pur conservando una sostanziale unitarietà. L’autore alterna capitoli dedicati alla storia del giudice Giacomo Colnaghi a capitoli in corsivo che rievocano la storia del padre del magistrato, l’Ernesto. Le due vicende, molto diverse per il periodo storico a cui appartengono, quello degli attentati delle Br negli anni 80 nel primo caso, e quello della lotta partigiana del dopoguerra nel secondo, hanno, tuttavia, molte analogie per lo meno per ciò che riguarda le conseguenze dolorose che porta con sé ogni lotta armata.
Lo spunto è offerto dall’ormai noto luogo comune che voleva assimilare l’azione delle Br a quella dei partigiani. L’argomento è già stato ampiamente affrontato negli anni successivi al terrorismo, ma qui l’autore vuole, io credo, porre l’accento soprattutto sulla questione morale che investe i giudici e la giustizia.
Giacomo Colnaghi viene descritto come uomo integerrimo, cattolico, democristiano convinto che ama il suo lavoro e lo fa con coerenza e onestà, portando con sé in ogni momento l’immagine del padre, morto eroicamente per mano fascista.
Un uomo felice, apparentemente. Tormentato da dubbi e incertezze in realtà. Ed è proprio la sua fede che pone degli interrogativi di fondo a cui non ci si può sottrarre. Come conciliare il concetto di pietà e misericordia predicato dal cristianesimo con il dovere di amministrare la giustizia degli uomini senza tentennamenti o debolezze?
Interessante, a questo proposito, il dialogo tra Colnaghi e la Borghi, insegnante di teologia all’università di Genova. Se, dunque, amministrare la giustizia non è mai semplice, ancora più problematico può esserlo per chi debba fare uno sforzo aggiuntivo per separare la sfera della fede da quella propriamente laica.
Il personaggio Colnaghi-giudice non può in nessun caso essere considerato separatamente dal Colnaghi-uomo che porta con sé l’immagine eroica di un padre che non ha conosciuto, immagine che non può e non vuole in nessun modo associare a quella di un terrorista della sua epoca. Il suo lavoro sarà ulteriormente motivato da questa esigenza morale che lo porterà a un confronto diretto con uno dei brigatisti arrestati.
Un romanzo nel complesso interessante, che nella seconda parte, tuttavia, pecca di originalità, nella misura in cui privilegia temi cari al buon senso comune.
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La gemella H di Giorgio Falco
Un romanzo che rompe gli schemi sia dal punto di vista della tecnica narrativa, sia per la forma espressiva, rigorosamente legata al contenuto.
La vita della famiglia Hinner si dipana sullo sfondo di un secolo di storia, all’ombra del fascismo e del nazismo. Ciò tuttavia non fa de “La gemella H” un vero romanzo storico. L’importanza degli eventi emerge nel momento in cui essi diventano determinanti nel delineare quel modello vincente, così ben rappresentato dall’ “uomo di Lenhart”. La creazione di Falco di questo stereotipo così perfettamente aderente alle immagini divulgate in certi manifesti pubblicitari dell’epoca fascista in cui si esaltavano le doti fisiche e estetiche dell’individuo, specchio di un ordine morale indiscusso e indiscutibile, è perfettamente funzionale al racconto che vede Hans Hinner concentrare le sue energie e dedicare la sua vita a trasformare l’impegno in lucro.
Nel mondo di Hans tutto diventa merce, ogni cosa viene valutata col metro del profitto e del guadagno. Persino la sua attività di giornalista assume un aspetto mercificato: “Anche da giornalista….ero solo un venditore, suggerivo discorsi a funzionari provinciali….”
In questo clima crescono le due gemelle Hilde e Helga, simili nell’aspetto, ma diverse nel carattere. Ciascuna reagirà a suo modo al mondo esterno. Hilde non lo accetterà mai veramente. Ed è qui che la forma espressiva si rivela estremamente importante e significativa. La prosa di Falco diventa quasi un succedersi di singulti, procede per liste, elenchi di cose e azioni con pause scandite dal punto. In questo deserto dei sentimenti anche il linguaggio diventa frammentario, risponde alla realtà che esprime.
Ed è proprio questa assenza di sentimenti che caratterizza i personaggi di Falco, che si muovono in un mondo dove “non c’è Amore, solo amore.” Non a caso la descrizione della morte della madre Maria prima e del padre Hans poi assume a tratti toni grotteschi.
Gli stessi personaggi di Francesco e Franco, gli uomini di Hilde e Helga, interpretano gli aspetti negativi delle due classi sociali a cui appartengono.
Francesco, chirurgo estetico, figlio di un celebre medico fascista, ossessionato dalla perfezione, sottopone la bella moglie a un intervento destinato a fallire. Questo eccesso di zelo, un vero peccato di hybris, ricorda in qualche modo, una celebre novella di Nathaniel Hawthorne “The birthmark”.
Franco, invece, di umili origini, si rivela un egoista arrampicatore sociale.
Sarà solo nel momento in cui le gemelle incontreranno il vero dolore, che la forma espressiva ritroverà la sua armonia, come già avvenuto nel monologo interiore di Hilde, colpita dalla scelta di Helga di legarsi a Franco. Ed è qui una delle caratteristiche più originali di questo romanzo. Falco inverte la consuetudine del romanzo del primo novecento, in cui il flusso di coscienza procedeva disordinatamente come procede il pensiero. Qui, al contrario, esso recupera l’ordine smarrito, nel momento stesso in cui recupera l’interiorità dell’uomo, i suoi sentimenti inariditi dagli eventi, dalla perdita delle ideologie e la prosa ritorna a essere armoniosa.
Un romanzo importante, che tuttavia offre una visione del mondo assai amara che non lascia spazio alla speranza, indispensabile all’uomo per sopravvivere, pur nella consapevolezza e nel rispetto della verità.
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Come un respiro interrotto di Fabio Stassi
Un romanzo come una melodia. Non solo perché tutto si svolge intorno alla voce soave di Sole, la protagonista, ma per l’uso impeccabile della lingua italiana da parte dell’autore, Fabio Stassi, che crea un’armonia di suoni, densi di significato, dove la metafora sempre equilibrata e spontanea non ricerca l’effetto, ma accentua l’efficacia dell’immagine.
Si ha l’impressione, leggendo questo libro, di essere di fronte al fluire di rivoli che sgorgano da sorgenti diverse, per convergere in un unico ruscello che scorre con un alternarsi di suoni, ora più acuti, ora più dolci, ora stridenti, secondo gli ostacoli o le anse che incontra. E ogni rivolo è un personaggio, con la sua vita, con le sue illusioni e delusioni, i suoi amori e i suoi dolori. E ognuna di queste vite si snoda, attraversa e segna la vita di Sole che accoglierà in sè ogni singola esperienza e la farà sua, rivivendola e rivisitandola con sensibilità e delicatezza.
È un romanzo questo sulle speranze e le disillusioni di un gruppo di giovani, impegnati politicamente e socialmente negli anni settanta, una storia che descrive senza rabbia, ma con dolore e rammarico quanto si possa soffrire nel vedere traditi i propri ideali. “E non è colpa nostra se a fare carriera sono stati soprattutto quelli che hanno tradito, che si sono fatti travolgere dal riflusso, che si sono piegati all’individualismo.” Sono queste le parole più esplicite che esprimono il dolore di una generazione ingannata che si è persa nelle strade del ripiego e del compromesso. E le esperienze esterne si intrecciano a quelle familiari, gli amori che si incontrano e si perdono si alternano alle malattie e alle morti dei genitori e dei parenti. Eppure i vincoli affettivi sono così forti, sia verso le persone sia verso le cose che Sole, abbandonando la casa in cui ha vissuto per tanti anni, sente il bisogno di incollare un post-it in ogni luogo in cui era un mobile, uno specchio, una suppellettile, per combattere quel vuoto definitivo che reca l’abbandono. Perché questo è un romanzo, come dice lo scrittore stesso, più sulla mancanza che sulla nostalgia. Ed è questo il motivo per cui Sole, ormai matura, canta: “Perché Sole non cantava, non aveva mai cantato, per nostalgia. Sole cantava la mancanza …. La nostalgia aveva a che fare solo con il passato …. La mancanza, invece, apparteneva al presente, era il sentimento di una menomazione. La prima riguardava i reduci, la seconda i mutilati.”
È questa la storia di una vita, di tante vite, finite così come un respiro interrotto, vite incomplete, come tante. Un romanzo che non può né deve essere letto tutto d’un fiato. Va centellinato, assaporato. Bisogna abbandonarvisi come ci si abbandona a una melodia, e lasciarsi trascinare, per poi credere quasi d’averlo letto a occhi chiusi.
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L'idiota di Dostoevskij
Che la figura dell’idiota di Dostoevskij sia scaturita dall’intento dell’autore di creare un personaggio “del tutto buono” è cosa nota a tutti coloro che hanno letto e approfondito l’opera dello scrittore russo. In realtà si tratta di una figura complessa la cui intelligenza non può in nessun modo essere messa in discussione. Egli stesso dichiara: “Mi credono idiota, ma io sono intelligente e loro non lo sospettano nemmeno.” Proprio la bontà del principe Myshkin, la sua generosa disponibilità verso gli altri rivela la vera funzione del personaggio, che è quella di fare da contrasto alle debolezze e ai difetti di coloro che lo circondano. Il mondo di cui egli è parte è mediocre e meschino. Egli viene ora ammirato, ora disprezzato o commiserato. Lo scontro con la realtà vede Myshkin ripetutamente sconfitto.
La critica alla società dell’epoca è palese e investe la sfera sociale, quella politica e quella religiosa. Sorprende la modernità di pensiero con cui vengono trattati alcuni temi in un romanzo della seconda metà dell’ottocento. Si rivendica il diritto alla libertà di stampa, si condanna la pena di morte e su questo argomento Dostoevskij torna più volte. Sono del principe Myshkin le parole: “Uccidere chi ha ucciso è, secondo me, un castigo non proporzionato al delitto. L’assassinio legale è assai più spaventoso di quello perpretato da un brigante.” Il riferimento esplicito al comandamento Non uccidere non può né deve indurre a concludere affrettatamente che il condizionamento religioso sia determinante in queste affermazioni. È piuttosto un impegno civile e politico da parte dell’autore, che si schiera a favore del rispetto dei diritti umani. Non a caso la religiosità di Dostoevskij è da riscontrarsi non nella critica all’operato della chiesa, di cui ripetutamente vengono rilevati i limiti, quanto piuttosto nella esaltazione del comportamento individuale conforme alla dottrina del cristianesimo: un cristianesimo delle origini, puro e incontaminato. Ed è in relazione alla contrapposizione ateismo/fede che l’autore scrive alcune pagine tra le più significative del romanzo. È l’immagine di Cristo che torna, così come rappresentato nella Deposizione dalla croce di Holbein, un Cristo dai lineamenti contratti e stravolti, che denunciano tutta la sofferenza umana: una rappresentazione che non evoca alcunchè di sacro o di divino, ma piuttosto la ferocia dell’uomo che non esita a torturare chi giudica suo nemico.
Pur essendo ancora lontana la rivoluzione di ottobre, in questo romanzo sono già presenti accenni alle ineguaglianze sociali che porteranno alla caduta degli zar. Le parole del personaggio Pavlovic sul liberalismo e sul socialismo sono estremamente interessanti e significative.
Il romanzo, nel suo impianto generale, rispecchia i canoni del romanzo dell’ottocento, con la figura della cortigiana che ispira passioni violente, amori contrastati e infelici. Nastas’ja è la “dame aux camelias” russa, è colei che suscita un’insana passione in Rogozin e un amore fatto di pietà e tenerezza in Myshkin. Ancora una volta dunque la figura del principe mette in risalto il contrasto tra il bene e il male. Anche nella concezione dell’amore siamo di fronte a due interpretazioni diverse del sentimento, dalla passione carnale a quella spirituale.
Non si può fare a meno di notare, infine, quanto sia evidente nella stesura del romanzo l’influenza del grande Hugo. Echi dei Misèrables si distinguono per esempio nel personaggio di Marie.
L’idiota, dunque, il buon pricipe Myshkin, non può resistere in un mondo in cui le sue qualità positive appaiono goffe e ridicole debolezze. La sua stessa malattia, il grande male dell’epilessia, si manifesta sempre quando le sue difese sono più deboli, come a proteggerlo dal mondo volgare e crudele che lo circonda.
Un romanzo, che pur datato nel suo impianto e nella sua struttura, si rivela sorprendentemente moderno nei contenuti.
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La storia di Elsa Morante
Quando uscì nel 1974, La storia di Elsa Morante fu un vero caso editoriale. Ne furono inaspettatamente vendute seicentomila copie, eppure, nonostante il grande successo di pubblico, il romanzo suscitò numerosissime critiche.
L’opera copre il periodo che va dal 1941 al 1947 e ogni capitolo è preceduto da un accurato sommario degli eventi storici che lo caratterizzarono.
Il titolo del romanzo fu considerato da alcuni eccessivamente ambizioso e in parte fuorviante. In realtà la Morante, a mio avviso, ha inteso giustamente collegare la condizione del singolo al destino collettivo dell’umanità, dando in questo modo maggiore spessore a ciascun personaggio, conferendogli un carattere di universalità.
La vicenda si snoda intorno a tre personaggi centrali, Ida, Ninuzzo e Useppe, ma si estende ad altre storie parallele, che costituiscono dei brevi romanzi nel romanzo. Questa tecnica delle digressioni dà un certo movimento al racconto, che procede con voluta lentezza. La scrittrice si sofferma su descrizioni minuziose dei particolari dei luoghi e dei personaggi, amplificando così ogni vicenda. Ciò rientra nella tradizione del romanzo inglese e francese del settecento e dell’ottocento.
Ida fa parte del popolo di emarginati che subisce gli eventi senza avere una possibilità di riscatto. La sua figura ricorda la Gervaise dell’Assomoir di Zola o alcuni personaggi di Verga, vittime dell’inevitabile destino che le attende. Ida non si ribella alle disgrazie che la colpiscono. Subisce lo stupro da parte del soldatino tedesco dagli occhi azzurri con passiva rassegnazione, lo ricorderà con un sentimento quasi materno, mai con odio. Da questa unione nascerà Useppe, il suo secondogenito, una creatura fragile e dolce, che avrà alcune persone di riferimento che saranno i suoi miti: il fratello Ninuzzo, l’amico Davide e Scimò. La vita di Ida e Useppe scorrerà negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra in un perpetuo nomadismo, alla ricerca d’una stabile dimora. I luoghi descritti dalla Morante appaiono quasi come squallide tane fornite di cucce. E’ il degrado che circonda i personaggi, che ne alimenta la vita e la disperazione. Sarà la ricerca di un sogno impossibile che spingerà Nino a partire per la guerra come fascista, a tornare partigiano e finire i suoi giorni come contrabbandiere e ricercato. Un personaggio che ricorda i ragazzi di vita di Pasolini. Eppure Nino è l’eroe di Useppe, è il suo mito. E quando Useppe scoprirà per la prima volta l’amarezza dell’abbandono con la scomparsa del fratello, l’oggetto della sua ammirazione diventerà Davide. Ma il destino di Useppe è segnato da questi tradimenti, inspiegabili ai suoi occhi. Minato nel fisico dalle frequenti crisi di epilessia, non riuscirà a superare la delusione e il dolore. E ogni crisi giungerà quasi a difesa istintiva da una realtà inaccettabile. Questa la storia nella sua semplicità, ma il messaggio della Morante va oltre. Letto oggi, dopo tanti anni, questo romanzo sembra quasi profetico. Ogni ideologia è qui messa sotto accusa, attraverso le parole di Davide, quando si lascia andare ad un monologo d’un realismo agghiacciante, che rimane tuttavia inascoltato, perché in fondo, finita la guerra, a nessuno interessa più discutere su cosa sia giusto o ingiusto, a nessuno interessa più sapere se il potere sia sempre stato repressivo e tirannico e abbia cambiato solo unicamente nome e facciata. E’ il discorso dell’anarchico Davide, un discorso d’un’onestà intellettuale sorprendente, che cancella ogni illusione. Ed è in questo discorso che Davide, il pacifista che odia la violenza, confessa d’avere brutalmente assassinato un tedesco e di essersi con quel gesto identificato con lo stesso odiato aguzzino tiranno. Qui il discorso sembra allargarsi alla figura dell’ebreo del dopoguerra che si trasforma da vittima in carnefice.
Nel mondo descritto dalla Morante non c’è posto per la speranza. La rinuncia di Ida alla ragione è l’ultimo atto della sua vita. Sopravvissuta alla povertà materiale, non può sopravvivere alla povertà dell’anima e dei sentimenti. In questa prospettiva il suo dolore non rimane limitato alla sfera individuale, ma diviene il dolore di tutta l’umanità tradita e ingannata.
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L'incolore Tazaki Tsukuri
La lettura dell’ultima opera di Murakami Haruki ci pone di fronte ad alcuni interrogativi di natura esistenziale ai quali non è sempre facile dare risposta.
L’infelicità di Tazaki Tsukuri appare evidente sin dalle prime righe del romanzo: espulso inspiegabilmente dal gruppo di amici di cui faceva parte, il giovane Tsukuri perde interesse per il mondo che lo circonda e desidera solo la morte. Egli diviene l’espressione della sofferenza generata dalla perdita dell’amicizia e dell’amore, esperienza già traumatica in qualsiasi periodo della vita, ma certamente ancora di più in quella fascia d’età che segna il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, poiché può lasciare un vuoto incolmabile e creare complessi e insicurezze.
Proprio nel momento in cui Tsukuri riesce a superare parzialmente la sua crisi, l’incontro con Haida e il suo successivo abbandono vengono a sconvolgere nuovamente quella apparente serenità riconquistata.
Tsukuri ha la percezione di se stesso come di un contenitore vuoto, un uomo insignificante, privo di attrattive e di interesse, che può dedicarsi unicamente al lavoro per cercare di sopravvivere. La conoscenza di Sara lo spronerà verso il suo pellegrinaggio, in cerca delle spiegazioni agli enigmi rimasti irrisolti nella sua vita.
E qui è, a mio avviso, l’interesse vero di questo romanzo. Il viaggio di Tzukuri sarà un viaggio di iniziazione e conoscenza, al ritmo della stupenda melodia di Liszt , Le mal du pays, parte di Années de pélerinage, la stessa melodia che suonava Shiro , all’epoca della loro amicizia, quando con Aka, Ao e Kuro erano un gruppo inseparabile. Tsukuri vuole capire quali possano essere le ragioni dei ripetuti abbandoni da parte delle persone che ama, deve superare l’essenza incolore della sua personalità, dare ad essa un contenuto. Il gioco delle parole e dei simboli è a questo proposito molto sottile e significativo: ciascuno degli amici di Tsukuri ha un nome che contiene in sé un colore, rosso, blu, bianco, nero. Persino il nome di Haida, che pure non era parte del gruppo, ma che lo ha ugualmente abbandonato significa grigio. Dunque Tsukuri è l’unico incolore, senza personalità, senza spessore. Il suo nome significa solo “costruire”. Egli, infatti, costruisce stazioni. E qui è un altro elemento interessante in questo romanzo : il movimento, il viaggio, il pellegrinaggio, che implica crescita e conoscenza, spesso ha inizio e finisce in una stazione, e a volte il momento della partenza è chiaro, ma la meta può restare ignota.
Questi elementi sono già tutti presenti nel titolo stesso del romanzo: l’importanza del colore, del costruire e del creare come parte concreta della vita, il suono della melodia, che fa da sfondo al romanzo, come già la canzone dei Beatles aveva accompagnato il racconto di Norwegian wood.
D’altra parte lo stesso Murakami dice : “La vita è come uno spartito complesso …. decifrarla è un’impresa ardua e anche a saperla leggere correttamente, anche a saperla trasformare nella musica più bella, non è detto che poi la gente la capisca …”
In questa prospettiva sta, io credo, al singolo lettore dare la propria personale interpretazione di questo romanzo, che pone molti interrogativi e molteplici possibili risposte. È certo che al di là della semplice storia avvincente e ricca di suspense, questo è un romanzo sul significato della vita, sull’ambiguo confine tra sogno e verità, tra apparenza e realtà.
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Caduto fuori dal tempo di David Grossman
La forma espressiva di quest’opera non è certo quella del romanzo. La parola qui è quella profondamente evocativa della poesia e la struttura si avvicina a quella della tragedia greca. Ci troviamo di fronte a una scena popolata da personaggi diversi per estrazione sociale, interessi, occupazione, ma tutti segnati da un dolore comune, la perdita di un figlio. È come se si assistesse al lamento di un coro e istintivamente si pensa a “Le troiane” di Euripide.
Lo scriba delle cronache cittadine, anche lui colpito dalla stessa disgrazia, è quasi lo scenografo che coordina i personaggi e descrive la scena nel dettaglio.
Entriamo nel vivo del dramma con il dialogo tra l’uomo e la donna, fatto di versi brevi, quasi singhiozzi, che rivelano l’esigenza di allontanarsi, muoversi per andare “Laggiù” e ricongiungersi con il figlio perduto. E “Laggiù” si configura subito come il confine tra la vita e la morte, tra l’essere e il non essere. L’uomo dunque inizia il suo viaggio e diventa l’Uomo che cammina, l’uomo che, svuotato di ogni desiderio, sogno, felicità, ha in sé solo dolore e disperazione. Come non pensare di fronte a questo personaggio, all’Uomo che cammina di Giacometti, la cui essenza è ridotta a un fascio di nervi e di ossa che gli permette a stento di procedere e attraversare una realtà priva di ogni senso e di umanità?
Il dolore e la perdita alterano la percezione di ciò che è intorno a ciascun personaggio, da qui l’esigenza di unirsi nel viaggio per tener vivo il ricordo.
La levatrice, abile ed esperta nel portare alla luce l’essere umano, qui subisce la morte e il suo linguaggio e le sue azioni sono come disgregate, atomizzate. Allo stesso modo la donna prigioniera della rete, simbolo della condizione umana, vede intorno a sé un mondo immagine del caos.
Il centauro, costretto a essere uomo-scrivania, dal momento in cui il lutto lo ha colpito, il maestro di aritmetica, i viandanti, sono tutti in movimento, non possono fermarsi. Sono come morti in vita la cui unica meta è “Laggiù”.
Ognuno di loro va incontro al figlio “caduto fuori dal tempo”, perché la crudeltà più grande per il genitore privato del figlio è pensare “come posso passare a settembre, mentre lui rimane ad agosto?”
Un’opera, questa, in cui c’è la costante contrapposizione tra movimento e staticità, vita e morte e dove il dolore si chiude in se stesso, in una sofferenza personale e egoistica. Ed è proprio l’universalità del dolore che unisce il lettore all’artista e ai suoi personaggi. E la conclusione raggiunge l’apice della poesia con quel grido espresso dal Centauro, che unisce il dolore a un profondo senso di colpa:
“ E’ solo che il cuore
mi si spezza,
tesoro mio,
al pensiero
che io….
che abbia potuto…
trovare
per tutto questo
parole.”
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Stoner di John Williams
Personaggio emblematico d’un tipo di intellettuale introverso, in conflitto col mondo che lo circonda, Stoner, il protagonista dell’omonimo romanzo di John Williams, diventa l’antieroe di un’epoca sempre più drammaticamente protesa alla esaltazione dell’ego e alla sopraffazione del prossimo.
Di origini contadine, dopo gli studi superiori, Stoner approda all’Università di Columbia, per frequentare inizialmente la facoltà di Agraria, che abbandonerà ben presto per dedicarsi allo studio della Letteratura Inglese. Già dalle prime pagine del romanzo la figura di questo personaggio si delinea come mite e riflessivo, pronto però ad affermare la sua volontà nella scelta degli studi. Sarà questo, tuttavia, il solo ambito in cui, nel corso degli anni, riuscirà a far rispettare le sue decisioni.
Divenuto un discreto insegnante, incontra e si innamora di una giovane donna di buona famiglia, Edith, che accetta di sposarlo, pur non amandolo. Il matrimonio si rivela subito un fallimento e nulla può neanche la nascita della figlia Grace, che, trascurata dalla madre, si lega profondamente al padre.
Stoner sembra assistere inerme al disfacimento del proprio matrimonio, alla prevaricazione di Edith su Grace, alla trasformazione della figlia da bambina dolce e affettuosa in donna apatica e apparentemente insensibile. Ciò che Stoner vede intorno a sé non è che desolazione e distruzione. La sua vita a cavallo delle due guerre più sanguinose del ventesimo secolo, si trascina tra delusioni e perdite. La sua scelta di non partecipare alla prima guerra mondiale lo allontana in parte dai suoi due amici, di cui uno, Dave, morirà pochi giorni dopo essersi arruolato. Dunque questa è forse la caratteristica principale di Stoner: scegliere di non scegliere. E così sarà anche nel suo rapporto con Katherine Driscoll, il suo vero grande amore, che abbandonerà, perché non forte abbastanza per lottare in condizioni di vita diverse e meno agevoli. E se il lettore a volte non capisce le ragioni di tanta inerzia, la rassegnazione a volte colpevole di Stoner, c’è da chiedersi se in fondo egli non sia un personaggio emblematico considerato il periodo storico in cui vive, quando gran parte del mondo era stato inspiegabilmente messo in ginocchio dall’arroganza, la prepotenza e la violenza. Ci sono esseri la cui mitezza sembrerebbe inspiegabile, a volte persino irritante, ma che tuttavia nascondono in sé una forza insuperabile che è quella della rassegnazione. Perché alcuni scelgono una lotta più difficile, tutta interiore. L’unico momento in cui Stoner riesce a palesare il suo disaccordo e a lottare per le sue scelte, sarà nel suo ripetuto scontro con Lomax, che, con Edith, rappresenta il lato oscuro del mondo che lo circonda.
Il romanzo sembra non trasmettere alcun messaggio positivo, eppure io credo che sia nascosto proprio nelle ultime righe del testo il vero profondo significato dell’opera. “Aprì il libro, e mentre lo faceva, il libro smise di essere il suo.” Ecco Stoner sfoglia il libro che lui stesso ha scritto e in quegli estremi sublimi momenti, capisce che la sua opera qualunque sia il suo valore non appartiene più solo a lui, ma appartiene al mondo intero. Perché è questa la funzione dell’artista.
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