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Opinione scritta da topodibiblioteca
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C'è qualcuno in quella casa?
Loursat è un avvocato ma prima di tutto è un uomo sconfitto dalla vita, che si abbandona agli effluvi dell’alcol per dimenticare un matrimonio finito male. Ha deciso di rimanere isolato dal resto del mondo- ignorando anche la sua unica figlia- e svernando all’interno della sua grande casa, piuttosto dimessa e in decadimento proprio come lui. Improvvisamente, una sera come tutte le altre, mentre si trova nel suo studio con accanto la fidata bottiglia come unica amica, sente un rumore, quindi incuriosito si alza, esce dalla sua stanza, intravvede un’ombra e…successivamente scopre un cadavere disteso nel letto di una delle tante camere della sua casa. Da quel momento in poi comincia a risvegliarsi dal suo stato di torpore prolungato, a scoprire particolari interessanti riguardo alla vita di sua figlia, venendo a conoscenza del fatto che attorno a lui, nella grande casa, si muovono a sua insaputa, silenziosamente e furbescamente, una serie di individui, “gli intrusi” appunto, che danno il titolo a questo romanzo di Simenon. Loursat a seguito di questa scoperta, ritrova pian piano la gioia di vivere riscattando anni e anni di indolenza fino a rivestire i panni dell’avvocato difensore in un processo per omicidio.
Il libro è l’ennesima prova del talento del grande scrittore belga che ancora una volta, attraverso un noir, una storia di vittime e di carnefici personificati da quella odiosa e falsamente perbenista classe borghese che Simenon dimostra di disprezzare, ci regala pagine profonde ed introspettive. La casa di Loursat, con quell’aria così sinistra e coi misteri che nasconde, non è una semplice ambientazione di sfondo ma diventa uno snodo, un elemento attorno al quale ruotano le vicende che coinvolgono i diversi individui che ben presto Loursat impara a conoscere, prendendosi inoltre quelle giuste rivincite nei confronti di vicini di casa, parenti e colleghi. Costoro pur di salvare certe apparenze ed uscire indenni da situazioni scomode, non esitano a gettare la colpa addosso ad un innocente, colpevole solamente di essere l’anello debole di una catena, di non appartenere ad una classe agiata e non avere “santi in paradiso” disposti a difenderlo.
Simenon ha il pregio di scrivere questo romanzo con quel linguaggio diretto, tagliente e feroce che spesso lo contraddistingue e che invoglia quindi a procedere speditamente nella lettura.
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Passione e adulterio con delitto
Grazie a questo romanzo ho potuto scoprire una nuova anima di Simenon, qualora qualcuno dubitasse ancora della versatilità di questo grande scrittore. L'anima più sensuale ed intima, anche erotica forse (“Andrée ancora distesa sul letto sfatto, nuda, con le gambe divaricate e la macchia scura del sesso da cui colava un filo di sperma…”…"Sei cosi bello gli aveva detto un giorno Andrée che mi piacerebbe fare l'amore con te davanti a tutti”), capace di tratteggiare le implicazioni derivanti da una relazione extra coniugale tra un uomo ed una donna travolti da una passione travolgente. Come talvolta capita in queste situazioni però, nel momento stesso in cui uno dei due amanti raggiunge l'apice, il climax del coinvolgimento, il passo immediatamente successivo è il progressivo raffreddamento, la perdita di interesse. Scatta quindi nella testa di un individuo un meccanismo che ti fa capire che non è il caso di andare oltre e che conviene preservare lo status raggiunto, salvaguardare il proprio matrimonio, la famiglia, e rinunciare alla passione clandestina.
Ma cosa può succedere quando ci si è spinti troppo in là, quando uno dei due amanti pare non accettare una soluzione del genere e folle d'amore è disposto a tutto pur di vivere per sempre con la persona amata? Ce lo dimostra chiaramente Simenon, con un intrico narrativo basato principalmente sul meccanismo del flash-back, sulla storia raccontata da uno dei protagonisti finito sotto indagine giudiziaria e diventato un imputato davanti al giudice istruttore. Molto, molto lentamente cominciano quindi a chiarirsi e delinearsi le accuse a suo carico, i reati apparentemente commessi con la complicità dell'altro amante.
Per chi ama Simenon dunque la trovo un'opera consigliatissima anche perché ho rilevato diverse “contaminazioni” che ricordano molto da vicino "Lo straniero" di Camus: Tony, il protagonista maschile vive la propria esperienza di imputato in maniera molto simile a quella vissuta da Meursault. E' apatico, assolutamente passivo, si lascia scivolare addosso le accuse con disinteresse come se nulla fosse in suo potere per tentare di cambiare la situazione: "..lui non si chiedeva neanche più se sarebbe stato riconosciuto colpevole o no, né quale pena gli sarebbe stata inflitta".
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Un borghese piccolo piccolo
Può esserci nella vita di un uomo un evento scatenante, un qualcosa che lo spinge a mutare, a comportarsi diversamente da come si è comportato fino a quel momento, come se all’improvviso decidesse di svegliarsi da un lungo sonno. E’ quello che avviene a Kees Popinga il protagonista di questo celebre romanzo di Simenon, ennesima prova di successo di questo fantastico scrittore, veramente dotato nell’analisi psicologica dei suoi protagonisti e capace di scandagliare in profondità l’animo umano.
Simenon riesce a descrivere la vera essenza di Popinga, distinto borghese che vive nella cittadina olandese di Groninga, al quale sembra andare tutto per il meglio: impiegato in una ditta di forniture navali, sposato con due figli, possiede una bella casa, è iscritto al locale circolo degli scacchi. La vita insomma sembra sorridergli, fino a quando un evento imprevisto come la perdita del posto di lavoro a seguito della bancarotta della ditta in cui lavora, lo scuotono dal torpore. Tutto è perduto quindi e Popinga decide di impulso di scappare, di prendere uno di quei tanti treni notturni che danno titolo al romanzo e che lui vede passare quotidianamente, solleticando la sua immaginazione che si diverte a fantasticare sui destini dei passeggeri. In breve Popinga raggiunge prima Amsterdam e poi Parigi, si spoglia dei propri freni inibitori e della sua immagine di borghese rassicurante e finalmente "comincia a vivere". Frequenta donne, locali notturni, entra in contatto con criminali, compie reati. Popinga si sente libero non deve più rendere conto a nessuno e come dice lui stesso:
“Per quarant’anni mi sono annoiato. Per quarant’anni ho guardato la vita come quel poverello che col naso appiccicato alla vetrina di una pasticceria guarda gli altri mangiare i dolci. Adesso so che i dolci sono di coloro che si danno da fare per prenderli”.
Questo romanzo mi ha fatto venire in mente tanto Pirandello quanto Pasolini perché proprio come i suddetti celebri scrittori, anche Simenon sembra volerci parlare dell’ipocrisia della classe borghese, dell’importanza dell’apparenza, dell’immagine che si deve mostrare per risultare rassicuranti ed inquadrati nella società, rinunciando a quella spontaneità più genuina in cambio della sicurezza generata dal possesso e dal consumo. Invece la vera anima del protagonista si palesa quando non ha più nulla da perdere ed è così che Popinga desidera presentarsi, ma nonostante tutto è come se la gente, l’opinione pubblica, i media ed anche la polizia che si mette sulle sue tracce a seguito dei reati compiuti, non lo capissero e continuassero a giudicarlo e descriverlo diversamente rispetto al suo essere più vero.
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Racconti di vita
Ci sono cose che accomunano tutti gli esseri umani tanto nel bene quanto nel male. Queste “cose” sono più semplicemente le emozioni positive che ci fanno battere il cuore e sentire scariche di adrenalina, oppure sono quelle che ci appesantiscono e aggravano di tristezza il nostro essere giorno dopo giorno.
Alice Munro, scrittrice canadese Premio Nobel per la letteratura 2013, conosce molto bene queste sensazioni e riesce a descriverle con dovizia di particolari e molto realismo nei racconti che confeziona. Di conseguenza diventa difficile non provare simpatia per i protagonisti delle sue storie, che inevitabilmente riflettono frammenti del nostro essere e delle nostre esperienze passate, presenti e probabilmente future.
Può trattarsi dell’incontro casuale con una persona dell’altro sesso nei confronti della quale si prova un immediato feeling, un’empatia così intensa da scatenare istinti naturali assopiti che possono perfino condurre al tradimento coniugale, oppure molto più romanticamente alla scoperta dell’anima gemella. Può anche trattarsi però di quel dolore e quella sofferenza che fanno perdere la persona amata a seguito di una lunga ed incurabile malattia. La Munro tratteggia momenti di vita vissuta stratificati nella memoria di ognuno di noi (o forse anche nelle nostre fantasie ), utilizzando un linguaggio elegante e mai banale.
Libro consigliato dunque a chi ama storie intimiste che hanno quasi sempre come protagonisti dei personaggi femminili. Forse meno consigliato a chi, come il sottoscritto, preferisce romanzi piuttosto che racconti e non impazzisce per le storie sentimentali. ….ma la qualità dell’opera non si discute.
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IL FU ETTORE MAJORANA
Propedeutico alla lettura di questo breve saggio di Sciascia intorno alla scomparsa (o morte?) del celebre fisico Ettore Majorana, potrebbe esserci “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello.
Varie infatti sono le similitudini e le analogie, riproposte dallo stesso autore, che accomunerebbero Majorana con Mattia Pascal: innanzitutto il senso di estraneità e di incomprensione dell'individuo rispetto al proprio mondo ed alle persone che lo circondano, ma soprattutto la possibilità di scomparire, di farsi invisibile agli occhi di parenti, amici e conoscenti, giocando sulla propria morte. Se nel caso di Mattia Pascal la presunta morte è però frutto di un evento fortuito poi sfruttato dal protagonista per rifarsi una vita, nel caso di Majorana si tratta invece di una morte inscenata e ben congegnata attraverso l'invio di false missive.
Questa è in sintesi l'opinione di Sciascia, che rifugge tanto dalla teoria dell'omicidio e del complotto, quanto da quella del suicidio. L'autore infatti ritiene che sia la scomparsa la tesi più probabile e verosimile, tenuto conto dell'intelligenza dello scienziato, del suo carattere schivo e taciturno e soprattutto del fatto che Majorana, prima di tutti gli altri fisici suoi illustri contemporanei, a partire da Enrico Fermi e continuando con il collega tedesco Heisenberg, aveva intuito e previsto le tragiche conseguenze ed implicazioni insite negli studi sulla fissione nucleare. In parole povere aveva prefigurato lo scenario di morte che sarebbe derivato dall'impiego della bomba atomica. Majorana vede nella scienza una trappola pericolosa e micidiale che si innesca quando si superano certe barriere e pertanto decide di non esserne complice. E' un personaggio dotato di un'intelligenza prodigiosa, capace di fare a gara con Fermi sviluppando a memoria formule e dimostrazioni matematiche, ma allo stesso tempo non ama le luci della ribalta, non desidera diventare famoso e pubblicare i risultati delle sue scoperte tanto meno quando capisce in anticipo le conseguenze nefaste di una scienza al servizio della politica e della guerra.
Peraltro lo stesso Sciascia si trova ad assumere la medesima posizione e per farlo cita le parole di Camus: “Vivere contro un muro è vita da cani. Ebbene gli uomini della mia generazione e di quella che entra oggi nelle fabbriche e nelle facoltà, hanno vissuto e vivono sempre più come cani. Grazie anche alla scienza, grazie soprattutto alla scienza”. Sciascia, nello scrivere questa breve opera nel 1975, ha avuto il coraggio di esprimere un'opinione un po' fuori dal coro portando avanti la tesi relativa alla scomparsa di Majorana. Tesi che proprio recentemente quest'anno è stata ulteriormente avallata e ritenuta plausibile da nuove testimonianze, che propenderebbero per una fuga del fisico in Venezuela avvenuta all'epoca della sua presunta morte.
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DELITTO MA ANCHE CASTIGO
Ingredienti: prendete dalla libreria “Delitto e castigo” di Dostoevskij, combinatelo con “Il processo” di Kafka, spruzzate una dose di “1984” di Orwell ed otterrete questo romanzo di Simenon. La storia infatti presenta diverse similitudini con quelle dei tre grandi autori prima citati, in quanto prevede innanzitutto la macchinazione di un delitto, come in Dostoevskij, descrive gli incomprensibili meandri della giustizia e della burocrazia di Kafkiana memoria ed allo stesso tempo, infine, ci ricorda un sistema di polizia segreta, di tortura e detenzione carceraria contenuto nella splendida opera di Orwell.
Questa volta Simenon decide di ambientare la storia in un imprecisato paese dell'Europa centrale occupato da truppe straniere. Si capisce che c'è la guerra, la popolazione soffre la fame, è freddo, nevica e soffre in silenzio. In questa location si muove Frank, giovane ragazzo di strada, che cerca di farsi largo ed ottenere rispetto e considerazione iniziando a compiere attività criminali. Omicidio, furto, frequentazioni sbagliate e pericolose, ben presto però porteranno Frank lungo una strada senza uscita, verso la cattura e la successiva detenzione.
Il romanzo è stato scritto durante il periodo americano di Simenon, e molto chiaramente lo scrittore belga nel descrivere i metodi utilizzati dai funzionari dell'esercito occupante, intende riferirsi alle atrocità compiute dai governi totalitari dell'epoca. A mio avviso più che al Nazismo, Simenon pensa a Stalin ed alla dittatura Sovietica. L'impiego di spie e di delatori, le improvvise sparizioni di persone, gli interrogatori asfissianti ai prigionieri prelevati dalle loro celle in qualsiasi orario del giorno e della notte, l'isolamento continuo, le minacce nemmeno tanto velate di punizioni corporali, ricordano sicuramente i metodi del Kgb o perché no anche quelli della Stasi della fu Germania Est.
Ho trovato piuttosto efficaci e significative le pagine in cui Frank, nelle mani del nemico, prende progressivamente coscienza del proprio stato, della mancanza di libertà e della disperazione causata dalla prigionia e dall'isolamento. Sono proprio queste le pagine più simili a Kafka ed a Dostoevskij, perché assistiamo ad interrogatori sulla falsa riga di quelli subiti da Raskolnikov e notiamo anche l'agire di una burocrazia incomprensibile rappresentata da funzionari che si muovono da una stanza all'altra freneticamente. Invece a mio avviso, risulta meno interessante e memorabile la parte precedente, nella quale Simenon descrive appunto le peripezie da “piccolo gangster” del suo giovane protagonista. In ogni caso l'ho trovato, nel complesso, uno dei migliori romanzi di Simenon, tanto dal punto di vista dell'analisi introspettiva quanto per l'efficacia nella denuncia dei crimini compiuti dalle dittature.
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L'importanza dell'amicizia
Nella lunga e prolifica carriera di Simenon poteva forse mancare un romanzo con un'ambientazione western? La risposta ovviamente è no. Ecco che in due e due quattro, durante il suo soggiorno americano del 1947 giustificato dalla necessità di “cambiare aria” e lasciare temporaneamente l'Europa viste le le errate accuse di collaborazionismo con i nazisti, nasce “Il ranch della giumenta perduta”. Come ampiamente noto Simenon è versatile ed eclettico, riesce a ricreare qualsiasi location con grande semplicità, pertanto quello che descrive ci appare assolutamente credibile e familiare: l'Arizona, i rancheros allevatori di cavalli, le miniere di rame, il gioco d'azzardo, le pistole e le imboscate. Proprio il tema del tradimento e delle imboscate sono alla base di questa storia che ha come presupposto la grande amicizia giovanile che unisce tra loro due ragazzi, Andy Spencer e Curly John, arrivati in Arizona per cercare fortuna. La fortuna sembra arrivare, i due fondano un ranch, ma all'improvviso una brutta vicenda, un tentativo di omicidio, poi fallito, da parte di un sicario nei confronti di Curly John crea un'insanabile frattura tra i due. Tutti gli indizi infatti parrebbero convergere verso Andy Spencer quale mandante. Curly John tronca qualsiasi rapporto con l'ormai ex amico, lo accusa di averlo voluto eliminare per impossessarsi della sua proprietà, l'astio ed il senso di tradimento continuano a roderlo dentro per anni ed anni, fino a quando una lettera ritrovata casualmente comincia a svelare retroscena inaspettati ed a cambiare le carte in tavola.
A mio avviso questa è una delle migliori storie di Simenon di sempre. Rispetto ai soliti standard infatti ho trovato un qualcosa in più. Oltre alla classica analisi introspettiva dei personaggi ed ai loro tormenti interiori, oltre alle debolezze umane spesso presenti nelle realtà di provincia così ben descritte, l'autore da fine conoscitore dei meccanismi del romanzo giallo-noir accompagna il lettore mostrandogli una realtà che progressivamente muta, facendo crollare, metaforicamente parlando, il terreno delle certezze consolidatesi negli anni nella mente del protagonista. Curly John a tratti sembra più un Maigret ed un Poirot, un detective indagatore piuttosto che un ranchero allevatore di cavalli.
Sopra a tutto infine, Simenon ci vuole comunicare il valore e l'importanza dell'amicizia che mai come in questo caso avvalora il famoso proverbio che ricorda come chi trova un amico trova un tesoro.
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Personaggi indolenti in una città indolente
Non c'è niente da fare, Simenon riesce a meravigliarmi ogni volta che leggo qualcosa di suo. In particolare mi riferisco alla fantasia che dimostra nell'inventarsi personaggi sempre originali, ambientando le storie in locations così diverse, descritte con dovizia esattamente come se le stesse osservando in quel momento alla maniera di un pittore che dipinge un paesaggio che ha sotto gli occhi.
Nei clienti di Avrenos la vicenda prende inizialmente forma in un night club, luogo già noto ai lettori del Commissario Maigret che spesso, nel compiere le sue indagini, si trova a dovere frequentare questi ambigui locali notturni della capitale francese in cerca di indizi, interrogando avventori, entraineuses ed altri individui molto sui generis ...I clienti di Avrenos però non è un giallo di Maigret e non vi è alcuna traccia del commissario omonimo. E' un romanzo ambientato in Turchia, più precisamente sul Bosforo, nella città di Istanbul e dintorni. L'epoca storica è quella tra le due guerre mondiali, quando la Turchia si sta trasformando in una Repubblica illuminata sotto il governo di Ataturk.
Le strade assolate di Istanbul, i caffé cittadini, il ristorante di Avrenos che dà nome al romanzo, le ville aristocratiche con vista sul Bosforo abitate da ricchi europei o da turchi delle classi elevate, sono alcuni dei luoghi dove si dipanano le vicende di Jonsac, funzionario dell'ambasciata francese ad Istanbul innamorato di Nouchi, ragazza conosciuta in un night club di Ankara, che coglie al volo l'opportunità di un riscatto sociale sfruttando la sua avvenenza e sensualità'. Nouchi grazie a Jonsac ed alla “liaison” che stabilisce con lui, riesce ad accedere ad un mondo frequentato da intellettuali, artisti, giornalisti, avventurieri, politici: quasi tutti uomini (più o meno) attratti da lei, abile manipolatrice che con intelligenza e astuzia, servendosi quindi delle amicizie giuste, riesce a raggiungere il traguardo di quell'agiatezza e quel benessere sempre sognati e desiderati fin dall'infanzia vissuta nelle periferie di Vienna.
Simenon coglie nel segno riuscendo a ben rappresentare l'indolenza, la noia ed il senso di vacuità di questi personaggi che passano le loro giornate bevendo acquavite e fumando ashish, oppure partecipando a feste o facendo escursioni domenicali in barca. Personaggi che si fondono con la realtà quotidiana di una città – Istanbul- indolente e pigra quanto loro, che sembra quasi provare piacere nel mostrarsi così opulenta e sonnolenta, allungando i proprio tentacoli sul Bosforo.
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UNA SAGA APPASSIONANTE
Questo libro è una vera e propria saga familiare e narra le vicende della famiglia Karnowski coinvolgendo ben tre generazioni differenti: quella di David innanzitutto, ebreo osservante ed ambizioso che decide di emigrare dalla natia Polonia a Berlino in cerca di fortuna e di un ebraismo più illuminato e sapiente di quello vissuto in patria. Quindi la generazione di Georg, figlio di David, ebreo non osservante e ribelle tanto da sfidare apertamente suo padre sposando una donna non ebrea, ed infine quella di Jegor, figlio di Georg, personaggio pieno di contraddizioni ed insicurezze. Dunque tre personaggi così diversi, ma dotati di personalità ben delineate e tratteggiate dall'abile mano di I.J. Singer., scrittore che dimostra di conoscere bene i punti di forza, di debolezza e le tradizioni del popolo ebraico al quale del resto appartiene.
Il vissuto storico della Germania nel quale i tre co-protagonisti sono inseriti non rappresenta solamente lo sfondo attorno a cui fare vivere David, Georg e Jegor, ma è parte integrante del loro comportamento, del loro modo di agire e di pensare. Più specificamente la Prima Guerra Mondiale costituisce “l'humus” attorno al quale si forma la figura professionale di Georg, che matura come uomo e come medico durante la sua esperienza al fronte, vissuta appunto, da ufficiale medico al servizio dei soldati tedeschi in guerra. La fine della guerra, il fallimento bellico e la crisi economica dilagante che porta al periodo di super inflazione, con la totale perdita del potere di acquisto del marco, sono i presupposti che conducono la Germania ed il popolo tutto ad abbracciare la follia dell'ideologia nazista, dalla quale scaturirà poi l'odio viscerale verso gli ebrei. Il momento storico a cavallo tra le due guerre sarà anche quello che condurrà alla crisi la famiglia Karnowski, crisi economica ma anche umana e relazionale, soprattutto nei rapporti tra Georg ed il figlio Jegor che non riesce a riconoscersi nella sua identità ebraica ed esalta invece la razza ariana della madre. Il peso di questa anomala situazione si scaricherà sulla già debole personalità di Jegor al quale non basterà l'allontanamento dalla patria natia, con destinazione gli Stati Uniti e la città di New York, a sanare i suoi contasti interiori.
In definitiva Singer ha l'indubbio merito di descrivere con grande accuratezza la situazione degli ebrei in Germania in un periodo storico così cruciale come quello di transizione tra le due guerre mondiali. Le vicissitudini dei Karnowski e di altre famiglie ebraiche sono raccontate con dovizia di particolari, attingendo anche alla tradizionale terminologia yiddish, tanto nel loro vissuto privato quanto nella loro dimensione pubblica perché, come dice David Karnowski al figlio Gregor, occorre comportarsi da tedesco in strada e da buon ebreo in casa.
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Dei vampiri non ci si stanca mai
Mi sono finalmente deciso a leggere il libro dopo avere visto varie volte l’omonimo film con protagonista Will Smith. Ero ovviamente a conoscenza delle differenze esistenti tra libro e film e del fatto che la bilancia pendesse sicuramente dalla parte del libro (che strano, non è praticamente sempre così?), però non pensavo che questo racconto di Matheson fosse così coinvolgente ed anche profondo per le tematiche trattate.
Ammetto pertanto di essere rimasto particolarmente soddisfatto, a lettura conclusa. Al di là della nota storia della serie “ultimo uomo sulla terra che deve difendersi da orde fameliche di vampiri-non morti bramosi di succhiare il suo sangue”, ho apprezzato la capacità dell’autore di incuriosire e coinvolgere il lettore conducendolo alle origini dell’epidemia che ha portato alla estinzione della razza umana ed al trionfo dei vampiri! Sembra veramente di affiancare Robert Neville, il solitario protagonista nonché novello scienziato, assistendo al suo certosino lavoro di ricerca delle cause dell’epidemia, partecipando ai suoi trionfi e condividendo le sue sconfitte.
In definitiva credo che il merito di Matheson sia innanzitutto quello di mischiare elementi tradizionali della letteratura gotica che qui si ritrovano immancabilmente (es. l’aglio, i paletti di legno, la croce…), con alcune geniali trovate e novità soprattutto per quanto riguarda il contagio e le caratteristiche della popolazione vampiresca. Proprio nelle pagine finali possiamo osservare il comportamento dei vampiri che a onore del vero non risultano poi così diversi dagli umani, per lo meno nei loro difetti ed in certi atteggiamenti tipici quali l’istinto di sopravvivenza, la sopraffazione del prossimo, la paura che nasce dal contatto con il diverso.
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Fantastico Simenon
Decisamente si, Simenon continuerà a rimanere uno dei miei scrittori preferiti. Trovo infatti inarrivabile la sua capacità di dipingere, proprio come fosse un pittore, certi “quadri”: bastano poche pennellate ma l’effetto è garantito. Il modo in cui usa le parole, costruisce i periodi è un vero spettacolo, in quanto riesce sempre ad entrare in profondità nella psicologia dei personaggi che crea riuscendo ad infondere a noi lettori i sentimenti più giusti per quella situazione. In questo breve romanzo, credo che il sentimento più forte ed immediato – almeno per quanto mi riguarda- sia la sensazione di pietà ed ingiustizia nei confronti del protagonista, il libraio Jonas Milk, trapiantato nella provincia francese dopo essere fuggito in tenera età assieme alla madre dalla città di Archangelsk, in Russia, per scampare alla Rivoluzione Bolscevica. Sarà proprio questa piccola realtà di provincia, dove tutti si conoscono ed ovviamente non ci sono segreti che tengono, dove tutti si salutano ogni mattina davanti alla piazza del mercato, che riserverà al signor Jonas una brutta sorpresa. La moglie, una specie di madame Bovary perennemente inquieta e fedifraga, all’improvviso lo abbandona per sempre, sparendo con una banale scusa e portandosi dietro la sua preziosissima collezione di francobolli rari. Jonas tuttavia, anche se vittima, non fa nulla per denunciare e rendere pubblico l’accaduto. Nel nome di una sua incomprensibile responsabilità nei confronti della moglie continua a occultarne la scomparsa raccontando bugie e contraddizioni pur di coprirla, adottando un comportamento che ben presto si rivela fatale soprattutto nel momento in cui arriva la polizia per chiedere spiegazioni al marito. Come solo Simenon riesce a fare la vicenda si tinge di giallo ed in certi punti ritroviamo quelle atmosfere ed ambientazioni ben note a chi conosce il commissario Maigret, basate su interrogatori, sospetti, rivelazioni, colpi di scena.
Per associazione di idee trovo quest’opera una sorta di ibrido tra “Madame Bovary”, come già accennato prima in quanto certe dinamiche nel rapporto moglie-marito sono abbastanza simili, e “Lo straniero” perché il signor Jonas presenta tutta quella passività, quel lasciare scorrere gli eventi senza fare nulla per cambiarne il corso, che si ritrova appunto nel protagonista del libro di Camus. Con la differenza però che qua egli è considerato ed additato come colpevole anche se del tutto innocente. In realtà la vera colpa di Jonas davanti all’opinione pubblica è quella di essere uno straniero, un soggetto che nonostante i numerosi anni di permanenza non viene considerato dalla gente come del tutto integrato nel tessuto cittadino, perché in fin dei conti nessuno ha dimenticato le sue origini di ebreo russo. Jonas in sintesi è un eroe tradito ed abbandonato non tanto dalla moglie bensì da una intera comunità.
Per concludere ritengo che nonostante alcune similitudini con le opere precedentemente citate, questo libro sia da considerarsi assolutamente fantastico ed innovativo, per nulla scontato e quindi da leggere.
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Cronache da Rebibbia
Zerocalcare, all’anagrafe Michele Rech, cresciuto a Roma ma di origine francese, è probabilmente il più noto (e forse anche più bravo) fumettista italiano degli ultimi tempi, salito alla ribalta dopo anni di gavetta disegnando e scrivendo storie nel circuito dei centri sociali oltre che per alcune testate e riviste di settore. Si può considerare un’artista completo che disegna e scrive i testi delle proprie produzioni.
Dimentica il mio nome è il quinto libro a fumetti uscito recentemente e segue il clamoroso successo dei libri precedenti (forse sarebbe meglio chiamarle graphic novels), in particolare de “La profezia dell’armadillo”, il primo della serie che ha dato inizio alle avventure di “Calcare” stesso e del suo inseparabile armadillo, una sorta di alter ego, un “amico immaginario” che si palesa a fianco del nostro eroe, sempre pronto a dispensare consigli e suggerimenti. Anche Dimentica il mio nome, come del resto le altre pubblicazioni, è ambientato principalmente nella periferia romana e precisamente nel quartiere di Rebibbia dove Zerocalcare vive tuttora. Pertanto si tratta di una storia dal contenuto fortemente autobiografico che parte da un lutto, la morte della nonna di Calcare, per poi svilupparsi attraverso il meccanismo del flash-back, nel passato raccontando la vita della sua parente. L’infanzia e l’adolescenza passate a Nizza, dove la nonna viene allevata da una aristocratica famiglia russa scappata giusto in tempo dalla rivoluzione bolscevica, il matrimonio con un misterioso signore inglese e le vicende successive che saranno opportunamente svelate in modo da gettare nuova luce sull’alone di mistero che avvolge il passato della nonna e più in generale della famiglia “Calcare”, per lo meno da parte di madre.
In definitiva, rispetto ai precedenti albi Dimentica il mio nome è forse una storia più intimista e matura, che fa solo sorridere e un po’ meno ridere, anche perché prevalgono momenti di tristezza molto personali, peraltro perfettamente calati nel contesto della vita di strada e di periferia in cui non sempre è facile crescere soprattutto se sei un ragazzo chiuso e dotato di molta (troppa) fantasia. A proposito di fantasia anche in questa, come nelle altre storie, vale la pena di evidenziare certi elementi che costituiscono una sorta di marchio di fabbrica di Calcare: la costante presenza di parenti ed amici con le sembianze di animali (tra cui la madre e la nonna appunto), la comparsa di personaggi di fantasia tratti dal mondo dei fumetti, del cinema o dei cartoni animati giapponesi che sottolineano l’anima “Nerd” dell’autore, come “I cavalieri dello zodiaco”, lo spartano Re Leonida del film 300, il cattivo Darth Vader di “Guerre stellari” o personaggi e situazioni della saga fantasy “ Le cronache del ghiaccio e del fuoco” di G. Martin.
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Follie metropolitane
Le follie del titolo che vengono raccontate dallo scrittore americano Paul Auster sono in realtà “storie di vita” che coinvolgono una serie di personaggi che vivono a Brooklyn, il quartiere di New York dove si svolge buona parte di questo romanzo. Se si dovesse analizzare, scomporre, o per meglio dire sezionare quest’opera, si scoprirebbe che accanto alla storia principale, l’incontro tra lo zio Nathan ed il nipote Tom che casualmente si ritrovano nel quartiere di Brooklyn rinsaldando un rapporto affievolitosi negli anni, esistono una serie di avventure secondarie che ruotano attorno ai due co-protagonisti. Tanto per fare qualche esempio, mi riferisco alla storia del libraio-falsario Harry, datore di lavoro di Tom e buon amico di entrambi, alla storia della cosiddetta B.P.M. (acronimo che sta per bellissima e perfetta madre), splendida donna vicina di casa di Tom, a quella di Lucy nipote di Tom che tanto scompiglio porterà nella sua vita. Tutte queste rappresentazioni potrebbero reggersi indipendentemente le une dalle altre, come se si trattasse di un libro di racconti indipendenti, invece risultano ben congegnate ed incastrate tra loro, mostrando momenti esilaranti alternati a situazioni più tragiche ed intimiste.
Anche se a mio parere si tratta di un’opera un pelo inferiore ad altri romanzi di Auster quali, “Mr. Vertigo” oppure la “Trilogia di New York”, consiglio la lettura del libro in quanto trovo che l’autore abbia la capacità di scrivere storie semplici, scorrevoli, allo stesso tempo intense e mai banali con riflessioni a 360 gradi sulla vita, la morte, la letteratura e l’amicizia.
Concludo citando un paio di pensieri che ritengo degni di riportare. Il primo sull’importanza della lettura nella vita di Nathan “…..leggere per me era evasione e conforto, era la mia consolazione, il mio stimolante preferito: leggere per il puro gusto della lettura, per il meraviglioso silenzio che ti circonda quando ascolti le parole di un autore..” , il secondo invece sull’idea di felicità (che condivido pienamente): “Desidero parlare della felicità e del benessere, di quei momenti rari e inaspettati in cui la voce dentro la tua testa tace e ti senti tutt’uno con il mondo”.
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Chi trova una lepre trova un tesoro
Siamo in Finlandia ed un auto con a bordo due uomini che sono in viaggio per lavoro, un giornalista ed un fotografo, sta percorrendo una strada che lambisce un bosco. All’improvviso compare davanti alla macchina una lepre, l’uomo al volante cerca di frenare per evitare lo scontro ma….. Questo è l’incipit de “L’anno della lepre” dello scrittore finlandese Arto Pasilinna, uscito per la prima volta in Italia nel 1994 e che fin da subito riscosse un grande successo, esattamente come avvenne in patria quando uscì circa vent’anni prima.
Con questo romanzo si inaugura il genere “umoristico-ecologico”, in quanto le avventure che vive il giornalista Vatanen con la lepre sono tutte piuttosto strampalate ed assurde, così come sono molto pittoreschi e sui generis, i personaggi che incontra. Giusto per fare qualche esempio trova sulla sua strada un pastore luterano molto arrabbiato perché la lepre ha lasciato nella sua chiesa delle palline di sterco, oppure un ex insegnante che ha deciso di consacrare la sua vita alle divinità pagane finlandesi e pertanto vuole rapire la lepre per sacrificarla agli dei in cui crede. Sullo sfondo delle vicende di Vatanen, l’autore dedica grande attenzione alla flora ed alla fauna finlandese. I due “personaggi“ si muovono lungo laghi e foreste, trovano la neve che comincia a cadere già a fine agosto, si imbattono nelle renne ed anche in un pericoloso orso con il quale Vatanen ingaggia un lungo inseguimento.
Indubbiamente si tratta di un’opera dal forte contenuto simbolico. Vatanen viene descritto come una persona cinica, infelice, delusa dal suo matrimonio e dal suo lavoro. Nel momento in cui trova la lepre e decide di fuggire con lei, lontano dal mondo urbanizzato e da Helsinki, riesce finalmente a riscoprire sé stesso ed a raggiungere la pace interiore. Con la fuga Vatanen si assume la responsabilità di abbandonare la sua routine quotidiana scegliendo la vita che ha sempre sognato a contatto con la natura.
Concludo con le mie impressioni. Ho letto questo libro sull'onda dell'entusiasmo trasmessomi da amici oltre che dai commenti su internet di altri lettori. Col senno di poi posso dire che la storia è sicuramente molto particolare ma io non l'ho poi trovata così divertente!...... Sicuramente la colpa è solo mia in quanto si vede che non capisco l'humour finlandese :)
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Brividi sull'Appennino
Ho riletto questo libro a distanza di alcuni anni e credo proprio di potere affermare che è stata una piacevolissima riscoperta! Malastagione inaugura un nuovo filone giallo della premiata ditta “Guccini-Macchiavelli” ed introduce un nuovo personaggio: Marco Gherardini detto “poiana”, ispettore della forestale in quel di Casedisopra, borgo situato nell’Appennino tosco-emiliano.
Chi ha già letto romanzi di Guccini e Macchiavelli è al corrente che i due scrittori amano profondamente la montagna e la frequentano assiduamente (Guccini ha abbandonato Bologna per tornare alle origini nella sua Pàvana, sull’Appennino modenese). Pertanto il territorio appenninico è il vero protagonista di questa storia ed i due autori hanno l’indiscusso merito di tratteggiare Casedisopra in maniera molto convincente. Questa amena località infatti la possiamo vedere, sentire, toccare con mano come se effettivamente fossimo là, magari seduti a gustare una bistecca Chianina nella locanda di “Benito”, divertendoci ad ascoltare gli sfottò che si scambiano gli avventori, tutti abitanti del posto che si conoscono da una vita. Le descrizioni dei paesaggi, dei boschi, delle abitudini tipiche risultano sicuramente credibili e verosimili. Così come sono assolutamente attuali anche i problemi: il progressivo abbandono di borghi e paesi, il fenomeno del bracconaggio, il pericolo di incendi dolosi, la speculazione edilizia (più o meno) selvaggia che sottrae terreno alla montagna per costruire case ed alberghi per turisti grazie alle generose concessioni dei Piani Regolatori adottati dai Comuni. La vicenda narrata tocca proprio questi elementi che stanno alla base dell’indagine condotta dall’ispettore Gherardini. Egli è sveglio, furbo e tenace e a quanto pare ben si merita l’appellativo di “poiana” che si porta dietro fin dalla giovane età. Gherardini è un vero uccello rapace: aspetta, osserva la preda e nel momento in cui questa si scopre la aggredisce e la inchioda alle proprie responsabilità!
In conclusione ritengo Malastagione una lettura leggera ma consigliata, tanto che al più presto leggerò anche il nuovo romanzo recentemente uscito (La pioggia fa sul serio) sempre incentrato sulla figura dell’ispettore Gherardini coinvolto in una nuova indagine. A mio avviso, l’unico neo, potrebbe essere la mancanza di un vero colpo di scena nel giallo. Infatti, chi si aspetta particolari emozioni, depistaggi, tradimenti, tipici della letteratura nordica o scandinava (ad es. Jo Nesbo), potrebbe rimanere deluso.
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Inquietudini mortali
I dolori del giovane Werther rappresenta un vero classico che merita sicuramente una rilettura per assaporarne meglio tutti i dettagli! Così è stato nel mio caso per questo romanzo epistolare di Goethe, spesso letto in età adolescenziale tra i banchi di scuola quale manifesto del “Romanticismo tedesco” e forse nemmeno troppo amato.
In realtà, al di là della nota vicenda che narra le delusioni d’amore del protagonista sfocianti nell’estremo atto del suicidio, ed al di là dei passaggi più rappresentativi come l’immedesimazione di Werther con la natura soprattutto quale medicina per placare i suoi turbamenti interiori, quello che mi ha colpito a distanza di anni rimane la contemporaneità di certi pensieri ed atteggiamenti tipici della natura umana ieri, oggi e domani. Ad es. traspare il senso di insoddisfazione di Werther per quello che sa di non potere avere ma che desidera a tutti i costi -l’amore incondizionato di Lotte già sposata con Alberto- e che pertanto non gli permette di apprezzare pienamente quello che ha già. Pensandoci bene quante volte anche noi nel nostro piccolo desideriamo ardentemente una cosa proprio perché non riusciamo ad averla e tutto il resto non ci importa più? Nel libro difatti troviamo: “……Sentiamo molto spesso che ci mancano tante cose, e proprio quello che ci manca ci sembra che un altro lo possieda…”.
Nelle pagine dell'opera traspare poi da parte di Werther, nei confronti di Alberto marito di Lotte, un senso di ammirazione che sfocia quasi fino all’invidia: anche questo è obiettivamente un atteggiamento molto comune ed umano!
Conscio di questa situazione inoltre si rivolge anche a Dio dicendo: “Dio buono, tu che mi hai donato tutto ciò perché non ne hai trattenuto la metà dandomi in cambio fiducia in me stesso e contentezza di quello che ho?”
In definitiva trovo che si tratti di un libro da tenere sempre a portata di mano nella propria libreria, magari da rileggere proprio come è successo a me per apprezzarne le varie sfaccettature.
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La malavita secondo Simenon
Ciò che ho sempre apprezzato in Simenon, e che continuo ad apprezzare tuttora specie dopo avere letto questo romanzo, è la sua grande versatilità letteraria, il suo talento nel dedicarsi a generi differenti, la semplicità nel mettere insieme le parole e quindi i periodi, costruendo trame assolutamente avvincenti. Si potrebbe dire che Simenon si trova a suo agio praticamente su tutto, riuscendo a spaziare dal giallo, con l'intramontabile commissario Maigret, al filone Western (Il ranch della giumenta perduta), passando dalla narrativa più "intimista" (Le campane di Bicetre) fino alle storie di mafia e spionaggio come nel qui presente I Fratelli Rico.
Senza dilungarmi sulla trama, chiunque fosse interessato può infatti leggere il riassunto proposto dalla redazione Q-libri, credo che l'aspetto più interessante sia la capacità di Simenon di giocare d'anticipo rispetto a quanto successivamente proposto dalla letteratura e poi dal cinema con la saga del "Padrino" e di tanti altri film che hanno trattato il tema delle lotte di potere e dei loschi affari della criminalità organizzata italo-americana. Siamo nel 1952, durante il soggiorno negli Stati Uniti di Simenon e lo scrittore belga decide di impostare un romanzo "on the road", con protagonista Eddie Rico, incaricato "dall'organizzazione" di trovare suo fratello Tony per convincerlo a non parlare, a non vuotare il sacco, perchè la prima regola è non tradire i compagni ed i pezzi grossi. Eddie è un uomo d'onore ma capisce di rappresentare un semplice ingranaggio manovrato da uomini più potenti di lui che controllano ogni suo movimento. Le pagine in cui Simenon lascia dialogare i vari personaggi con uno stle diretto ed asciutto sono tutte ben congegnate e descrivono abilmente i classici atteggiamenti intimidatori che usano i superiori ai vertici dell'organizzazione nei confronti dei cosìddetti pesci piccoli destinati ad obbedire, a portare rispetto, oppure a soccombere.
Allo stesso tempo risultano molto verosimili i momenti di incontro che coinvolgono i membri della famiglia: Eddie, i suoi fratelli, la loro madre.
In definitiva credo si tratti di un libri consigliato non solo a chi ama Simenon ma a tutti coloro che sono in cerca di storie ambientate nel mondo dei gangsters, del crimine ed in generale della malavita.
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Opera d'avanguardia
Penso che la recensione di questo libro di Flaubert alla vigilia della ricorrenza della festa della Donna (notare la maiuscola….) possa risultare una scelta positiva. Cercando di andare oltre l’aspetto commerciale dell’evento dell’8 marzo, ritengo che nel libro dello scrittore francese sia possibile trovare un forte messaggio di emancipazione del ruolo della donna nella società del tempo, messaggio che dovrebbe continuare a perpetrarsi anche ai nostri giorni senza dovere dedicare alle donne (aggiungerei l’avverbio ipocritamente) un giorno all’anno per celebrare la loro festa.
La storia è una cosa nota: la giovane Emma donna di campagna sognatrice ed amante dei libri, si sposa con il dottor Bovary in quanto vede nel matrimonio la soluzione per ottenere felicità e soddisfazioni. Purtroppo le sue aspettative non si rivelano corrette perché ciò che l’attende è una vita vissuta ai margini della città, circondata da persone zotiche, attaccate al denaro, che fanno del pettegolezzo il loro passatempo preferito. L’unica soluzione che la sig.ra Bovary troverà per fuggire da quest’esistenza sarà quella di costruirsi un mondo tutto suo, ritagliandosi spazi di felicità grazie alle avventure extra coniugali con giovani del posto che tuttavia non esiteranno ad abbandonarla dopo averla illusa.
Senza andare oltre per non svelare troppi risvolti della storia a tutti coloro che ancora non hanno letto il libro, vale la pena evidenziare che l’opera suscitò scalpore ed imbarazzo considerati gli argomenti trattati e venne addirittura sottoposta a processo per oltraggio alla morale. In realtà Flaubert ebbe l’indiscusso merito di rappresentare i vizi della società borghese di provincia del tempo, attraverso le vicende di M.me Bovary riconoscendole, a mio avviso, una valenza in quanto donna coraggiosa e determinata, capace di prendere iniziative (anche se inopportune ed ovviamente impopolari) in autonomia. Lei assume in qualche modo il ruolo di capofamiglia mentre la figura del marito, viene messa in secondo piano, in quanto il signor Bovary è piuttosto passivo rispetto alla moglie.
Infine qualche parola sullo stile di Flaubert che si rifà ai canoni del naturalismo francese: lunghe ed accurate descrizioni dei luoghi, dettagliate rappresentazioni dei personaggi e delle loro debolezze, storia raccontata in modo impersonale. Il narratore cerca di rappresentare la vicenda senza schierarsi od esprimere opinioni, anche se non sempre ci riesce.
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Donne coraggiose
Questo libro di Goffredo Buccini (giornalista del Corriere della Sera) tratteggia sapientemente i vizi e le virtù di un pezzo di Mezzogiorno d'Italia. La storia è ambientata a Verlascio, un immaginario paese dell'entroterra campano. A Verlascio viene improvvisamente aperta la così detta "Fabbrica delle donne", perché al suo interno sono state assunte solamente donne, quasi tutte straniere, provenienti da paesi estremamente poveri, spesso fuggite da maltrattamenti ed in cerca di riscatto sociale ed economico.
Apparentemente la novità viene accolta favorevolmente dagli abitanti. Le donne portano una ventata di allegria e giovinezza così che molti, nel paese, cominciano a socializzare con loro. Ben presto però la situazione cambia ed emerge la diffidenza ed il fastidio nei confronti di queste straniere, tacciate come svergognate (per non usare altri termini...), immorali e provocatrici. La loro colpa è quella di togliere lavoro ai "locali", di mostrarsi troppo emancipate ed indipendenti e così alcuni ragazzi del posto danno inizio ad una serie di minacce ed azioni intimidatorie, che sfociano a conseguenze estreme per alcune di queste; il tutto nell'indifferenza generale degli abitanti e delle istituzioni che non solo fanno finta di non accorgersi di nulla, ma addirittura approvano questi comportamenti criminali.
La storia è raccontata con il linguaggio e dal punto di vista di Gesuino, un adolescente che intraprende un percorso di crescita e maturazione personale anche grazie all'aiuto tanto di Gemmarosa, una delle ragazze della fabbrica con la quale vive una storia d'amore, quanto della "Colonnella", una donna del nord Europa trapiantata a Verlascio e dotata di grande coraggio e determinazione.
La fabbrica delle donne rappresenta un libro importante che consiglio vivamente a tutti, considerato che affronta temi molto attuali come l'emancipazione delle donne in realtà violente ed afflitte da problemi legati alla criminalità locale.
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Per gli amanti della musica
Nel linguaggio musicale il “canone inverso” si definisce come una composizione contrappuntistica che prevede un rovesciamento di intervalli. Questa è sostanzialmente la spiegazione scritta nell’antefatto di questo libro. In pratica il canone inverso è una melodia polifonica eseguita a più voci che si sovrappongono, anche con l’uso di tonalità differenti. Ed è proprio dal titolo che è possibile partire per parlare di questo breve romanzo di Paolo Maurensig, opera seconda dopo “La variante di Lunenburg”. La vicenda infatti ruota, ovviamente, attorno alla musica ed allo straordinario talento di un violinista di nome Jeno Varga ed all’amicizia che lo lega ad un altro violinista di nome Kuno Blau. I due si incontrano nel collegio dove vengono mandati per affinare la loro arte ed affermarsi come musicisti di successo. Questa amicizia nasce e cresce tra le mura della scuola ma continuerà a manifestarsi anche in seguito, una volta terminati gli anni di studio, quando Jeno sarà invitato nel castello di proprietà della famiglia di Kuno. Proprio in questo periodo si assisterà agli sviluppi del rapporto tra i due ragazzi, che sarà sempre più basato sulla rivalità e la competizione. In particolare è a Kuno che pare pesare (e molto) il grande talento dell’amico rispetto alle proprie capacità. L’amicizia verrà vissuta in maniera sempre più sofferta, in un continuo crescendo di tensione, che esploderà nei (vari) colpi di scena finali.
Ecco che allora, ritornando al titolo, diventa chiaro il concetto di canone: la passione e la competizione per il violino e la musica, vengono vissute dai due ragazzi come un continuo doppio inseguimento, con l’impressione di una “voce portante”, quella di Jeno ed un’altra che la segue a ruota, quella di Kuno. Per entrambi diventa fondamentale la ricerca di una perfezione assoluta che tende all’infinito, il raggiungimento di un’immortalità attraverso la musica. Immortalità che, se per Jeno può trarre origine dal talento, per Kuno e la sua famiglia invece è una questione genetica, solo di sangue. Questa visione assume una certa importanza considerato che la storia è ambientata poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale ed in qualche modo fanno capolino alcuni concetti che richiamano temi tipici del nazismo, legati alla superiorità ed alla purezza della razza ariana.
In definitiva consiglio la lettura di quest’opera a chi ama la musica, ma anche i libri di Maurensig. Peraltro ho trovato alcune similitudini con “La variante di Lunenburg”, come l’esistenza di diversi “livelli di narrazione” raccontati da diversi personaggi.
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Panta rei
Si tratta di un libro ripreso in mano e riletto a distanza di parecchi anni e devo riconoscere che anche questa volta le impressioni sono più che positive. Il tema affrontato dall’autore, lo scorrere del tempo che fluisce ininterrottamente nella sua ripetitività, credo rappresenti quanto di più vicino a noi ci possa essere.
Buzzati ci racconta la vita del giovane tenente Giovanni Drogo che comincia la sua carriera militare venendo assegnato alla Fortezza Bastiani, un avamposto militare isolato ed arroccato sulle montagne. Un presidio mantenuto in vita solo per controllare una frontiera, un confine, ritenuto assolutamente sicuro e privo di minacce, perché da secoli non viene attraversato da alcun nemico. La Fortezza pertanto dovrebbe costituire per Giovanni solo una parentesi, la classica gavetta in attesa di una promozione ed una carriera piena di gloria e prestigio. Ma così non sarà. Il nostro protagonista infatti passerà lì dentro la sua giovinezza e l’età adulta. Non riuscirà ad essere trasferito rimanendo invischiato tra quelle quattro mura, inesorabilmente coinvolto nel tran-tran quotidiano.
Per tutta la vita però continuerà a sognare di essere destinato a grandi cose e grandi avvenimenti, illudendosi che un bel dì, dalla frontiera a lungo osservata, giungerà quel nemico che da tanto si attende. A quel punto allora la sua attesa sarà giustamente ripagata, potendosi riscattare impegnandosi in una guerra e dando così un senso alla sua vita.
Ed effettivamente, dopo anni e anni di immobilismo e falsi allarmi, l’esercito nemico arriva ed ecco che la presenza della Fortezza assume un senso, quello di difendere il confine dall’invasione. L’emozione e l’entusiasmo sono alle stelle: dunque finalmente si combatte! Anche per Giovanni pare essere arrivato il “tempo del fare” anche se dovrà inesorabilmente fare i conti col proprio destino.
La Fortezza Bastiani diventa quindi l’emblema di una vita noiosa e routinaria, sempre vissuta nella speranza di un riscatto, di una ruota che prima o poi deve girare regalando sorrisi, felicità, piena realizzazione di sé stessi e delle proprie aspirazioni. Ma siamo sicuri che questo avverrà ? Ho trovato veramente toccanti e realistiche le pagine in cui Giovanni si sente padrone del proprio tempo e del futuro, anche se in realtà “panta rei”, tutto scorre, perché ci sono forze più potenti che non riusciamo a governare.
In definitiva, trattandosi di pensieri e comportamenti molto umani, e aggiungerei anche molto comuni, ritengo che si tratti di una lettura consigliatissima.
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Non solo giallo
Si tratta del secondo libro che leggo della scrittrice argentina Claudia Pineiro ed anche questa volta le sensazioni sono complessivamente positive. E' un giallo ambientato a Buenos Aires, o per meglio dire, nella periferia della capitale, in un “country club”, un quartiere esclusivo ed autosufficiente abitato da gente agiata della ricca borghesia, che decide di “ghettizzarsi” isolandosi dal resto del mondo. All’interno di una casa localizzata in questo paradiso dotato di piscine e campi da golf, viene commesso un delitto. In parallelo alle indagini della polizia, un’ex scrittrice di romanzi gialli soprannominata Betibù (per la sua grande somiglianza al celebre personaggio dei cartoni animati !) assieme a due giornalisti di un quotidiano di Buenos Aires, cercheranno di fare chiarezza sulla vicenda, scoprendo pian piano che la morte avvenuta è collegata da un filo logico ad altri decessi che se apparentemente sembrano ricondursi a tragici incidenti, in realtà nascondono trame ben più insidiose, da ricercare nell’oscuro passato di questi personaggi.
Punto di forza del romanzo sono sicuramente le caratterizzazioni dei 3 protagonisti:
- Betibù che si tuffa nel lavoro di “indagatrice” per distrarsi dai suoi problemi personali e professionali, con l’intento di riscattare una carriera di scrittrice ultimamente un po’ in ombra. L’indagine sarà peraltro l'occasione di un ritorno al passato, ad un vecchio amore ormai finito e che porterà poi alla nascita di uno nuovo.
- I due giornalisti che le fanno compagnia e che rappresentano due figure tra loro complementari: l’uno è il classico giornalista maturo, navigato ed esperto ma professionalmente insoddisfatto (nonché il creatore del soprannome Betibù), l’altro invece è il giovane apprendista che ben conosce Internet e le nuove tecnologie, ma che risulta essere completamente inesperto al lavoro sul campo!
Al di là del giallo emergono altri temi su cui l’autrice sembra volersi soffermare e fare riflettere il lettore: il rapporto tra i media ed il potere ad es., oppure le nuove frontiere del giornalismo, oggi alla ricerca di un compromesso tra la necessità di conservare certi comportamenti tipici della professione e l’ineluttabilità di doversi destreggiare con la rete ed i social networks. Forse proprio questi temi si sarebbero potuti approfondire meglio, mentre invece rimangono un po’ sospesi.
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Madre coraggio
In nome della madre comincia la vita. Così (giustamente) Erri De Luca scrive in quarta di copertina. Questa infatti è la storia di una futura madre che vive con un mix di felicità ed apprensione la sua maternità. Il punto è che non si tratta di una madre qualsiasi. Lei infatti è Miriam/Maria ed il figlio che metterà al mondo sarà ovviamente Gesù.
De Luca, con il suo inconfondibile stile, parte da ciò che rivelano i Vangeli di Matteo e Luca e da qui costruisce una storia che ben riflette le credenze, le leggi, gli usi ed i costumi dell'epoca. Credo che non si possa affermare che quello che si legge sia invenzione perché anche se certe cose non si trovano nei Vangeli, rispecchiano una realtà assolutamente attendibile. Maria rimane incinta prima del matrimonio e Giuseppe avrebbe tutto il diritto di ripudiarla come prescritto dalla legge ebraica. I saggi, i dotti, il popolo, sparlano dietro a Maria, considerano questa donna scandalosa, una svergognata perché non credono alla sua divina maternità, e così basta poco affinché tutti prendano le distanze da lei e la isolino. Solo Giuseppe continua a credere fermamente in lei, ad appoggiarla, a camminare a testa alta senza alcun timore ! E così sarà fino al termine della sua maternità, fino alla nascita del bambino in una grotta di Betlemme dove i genitori si erano recati per il "celebre" censimento.
Per leggere ed apprezzare questo libro non importa necessariamente avere fede. L'opera infatti è innanzitutto lo splendido ritratto di una donna unica come Maria che diventa un punto di riferimento per il marito, perché dotata di grande forza e grande coraggio. Una donna designata dall'alto che non si limita ad accettare il proprio destino ma che è in grado di superare tutte le difficoltà, emergendo quindi come un esempio soprattutto in un'epoca in cui la donna veniva considerata meno di zero. Infine questo libro è un atto d'amore a 360 gradi che coinvolge Giuseppe, Maria e le famiglie dei due sposi, perché sarà proprio questo amore a fare superare le difficoltà esistenti.
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Un'amicizia dura come l'acciaio
La vita è dura a Piombino, negli edifici di via Stalingrado. Dura come l’acciaio. Crescere nella periferia popolare di questa città accanto ad un padre che vive di espedienti, respirare il veleno che esce dalle ciminiere dell’acciaieria, trovare lavoro e spaccarsi la schiena tutti i santi giorni nella stessa acciaieria, svagarsi e sballarsi al sabato sera in discoteca o al night club, farsi di cocaina.
La vita è veramente dura a Piombino, nei casermoni di via Stalingrado, sui quali inesorabilmente e minacciosamente si manifesta la torre di “Afo 4”, l’altoforno all’interno del quale si produce l’acciaio, una sorte di torre nera che potrebbe quasi ricordare la tana del perfido Sauron nella trilogia del “Signore degli anelli”.
Tuttavia non c’è solo disperazione da queste parti. E’ infatti possibile trovare anche qualcosa di veramente prezioso: la profonda amicizia tra Anna e Francesca, due adolescenti le cui vite combaciano vicendevolmente, due ragazze che vivono in simbiosi il loro percorso adolescenziale tra primi amori e vicissitudini familiari. E’ proprio questa loro unione, questa necessità di frequentarsi, di vedersi, di toccarsi, che rappresenta la speranza di avere un futuro lontano da lì, sempre assieme, sempre loro due. Il tutto avviene fantasticando e rivolgendo lo sguardo all’isola d’Elba, il cui profilo si staglia nettamente davanti agli occhi delle due amiche. L’isola infatti è l’emblema del riscatto sociale, del successo, dei desideri finalmente realizzati che tutto sommato sono a portata di mano, solo a pochi chilometri dalla costa. Ma la strada per il riscatto è insidiosa e dolorosa e deve inevitabilmente passare attraverso sconfitte personali e familiari ed anche amicizie che per diventare ancora più forti e stabili devono prima incrinarsi.
Acciaio è un concentrato di emozioni, di speranze, gioie e dolori. Un po’ mi spiace non avere dato un voto più alto a questo libro il cui solo neo, a mio avviso ovviamente, è quello di avere pescato da cose già viste, già lette e conosciute. Quindi in certi punti mi è parso come un dejà vu, ma è solo la mia impressione.
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Per non dimenticare
Correva l'anno 1961 quando venne pubblicata per la prima volta quest'opera. Corre l'anno 2012 e quest'opera, ahinoi, risulta ancora estremamente attuale. Cosa è cambiato negli ultimi 51 anni ? Forse ancora troppo poco perchè nonostante la maggiore consapevolezza raggiunta, l'impegno sociale e la lotta contro tutte le mafie, molto rimane ancora da fare.
Rileggendo questo libro mi sono accorto di una sconcertante attualità di certi temi, come ad es. per quanto riguarda il rapporto Stato-mafia. Sono proprio i legami con la politica che hanno garantito nel corso degli anni la sopravvivenza della mafia e la possibilità della stessa di radicarsi nel territorio e prosperare. Cosa può fare dunque il Capitano Bellodi, solido uomo del nord, integerrimo e determinato a fare fino in fondo il proprio dovere, di fronte ad un sistema così diabolicamente colluso? Se il mandante dell'omicidio dell'imprenditore Salvatore Colasberna gode di una serie di protezioni e testimonianze che depongono a suo favore, se grazie alla rete di conoscenze dell'onorevole di turno che siede in Parlamento è garantita la sua innocenza, come è possibile allora fare trionfare la giustizia? La risposta è che purtroppo non è possibile ed il muro di fronte al quale si trova il capitano Bellodi diventa invalicabile ! L'unica magra consolazione è quella di venire considerato, suo malgrado, un vero uomo, un degno avversario e non un "quaquaraqua".
Il romanzo induce il lettore a riflettere ed è indubbiamente permeato da un forte alone di pessimismo e di sconfitta. Dietro ai vari personaggi ed alla storia raccontata è molto facile intravedere le realtà di ieri e di oggi. Nonostante tutto però rappresenta un contributo di denuncia che dovrebbe fornire gli stimoli necessari per reagire.
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Un messaggio sempre attuale
Esistono dei libri che sono come il vino buono: più invecchiano e più migliorano. "Il buio oltre la siepe" di H. Lee rientra sicuramente nella categoria. Lessi questo libro qualche "secolo" fa, quando ero ancora alle scuole medie e mi ricordo che già all'epoca mi colpì notevolmente. Ora, a distanza di diversi anni, avere avuto la possibilità di rileggerlo mi ha permesso (purtroppo) di cogliere pienamente l'attualità del messaggio in esso contenuto.
Scrivo purtroppo perchè i temi trattati sono, ahinoi, tuttora presenti nelle nostre società. Il razzismo, la discriminazione nei confronti di coloro che hanno un altro colore della pelle, o più semplicemente la paura del "diverso", di chi non si conosce, sono aspetti che non occorre andare a ricercare nella storia americana del XX secolo.
La vicenda, ambientata in una cittadina dello stato dell'Alabama, nel "profondo sud" degli Stati Uniti, ruota attorno alla famiglia Finch ed in particolare all'avvocato Atticus che viene incaricato della difesa d'ufficio di un uomo di colore, ingiustamente accusato (dai bianchi del posto) di violenza sessuale nei confronti una ragazza. Ma i pregiudizi e le abitudini sono dure a morire e ben poco valgono le evidenti prove dell'innocenza dell'accusato davanti alla giuria composta da bianchi .....
Concludo evidenziando che il titolo originale inglese dell'opera è traducibile con l'espressione "uccidere un passero", con la quale si intende la crudeltà di eliminare, di compiere azioni violente verso una creatura innocente come può essere un passero ! .....Ed il messaggio che ci trasmette l'autrice evidenzia che la violenza può essere tanto fisica quanto psicologica, considerato che le vittime di questo romanzo sono due: il povero Tom Robinson, l'uomo di colore ingiustamente accusato, ed il fantomatico Boo Radley, segregato in casa da anni e vittima dei pregiudizi e delle dicerie prive di fondamento degli abitanti del posto.
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Il piacere di leggere Simenon
Finalmente mi sono deciso e dunque eccomi qua a recensire non tanto questo singolo romanzo del Commissario Maigret letto recentemente (anche se, tra l'altro, è uno dei miei preferiti) ma più in generale l'intera opera del prolifico Simenon con protagonista il nostro affezionatissimo Commissario del Quai des orfevres :) .....ebbene si, confesso il mio debole nei confronti di questi piccoli libretti gialli Adelphi che raccontano le intricate vicende investigative di Maigret e della sua squadra.
Ringrazio Simenon per avere creato questo straordinario personaggio apparentemente burbero e serioso ma sotto sotto estremamente umano e gioviale ! Maigret pensa, osserva, riflette ed alla fine riesce a trovare il bandolo della matassa ! L'illuminazione arriva improvvisamente, magari quando il commissario è seduto al tavolo di un bistrot a bere una birra,
oppure sulla poltrona di casa avvolto dal fumo della sua immancabile pipa.
Nei romanzi di Maigret non troveremo mai sangue che scorre a profusione, né truculente descrizioni di cadaveri od episodi di violenza. Troveremo invece personaggi dal profilo psicologico complesso e che spesso si portano dentro drammi umani. L'abilità di Maigret sta proprio in questa sua capacità di "leggere" le persone e capire se classificarle come vittime o colpevoli.
Sullo sfondo come co-protagonista (quasi) sempre presente ma molto discreta troviamo la città di Parigi. La Parigi di Simenon è un'autentica opera d'arte, un quadro d'autore in cui le pennellate tratteggiano una ville lumiere così realistica e credibile che sembra avvolgere anche il
lettore. Basti pensare, ad es., all''atmosfera proveniente dai bistrot e dai locali notturni, al caldo soffocante che avvolge la città nel periodo estivo, alla nebbia autunnale proveniente dalla Senna.
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La morte va in vacanza
Mi considero pienamente soddisfatto anche questa volta. L’ennesima lettura di Saramago non delude le mie aspettative: libro piacevole, scorrevole, divertente ed intelligente. Cosa potrebbe diventare la vita degli uomini se un bel giorno la morte (con la m minuscola, come scritto e precisato nel libro) decidesse di prendersi un periodo sabbatico e non fare morire più nessuno? Apparentemente si può essere tentati di dire che le conseguenze sono solo positive ma …..ragionando meglio si capisce che è l’esatto contrario ! Provate a pensare infatti: enormi costi previdenziali a carico dello Stato, che si troverebbe obbligato a dovere pagare per sempre le pensioni a sempre un maggior numero di persone (all’Inps si metterebbero le mani nei capelli !!!), inoltre sarebbe un disastro economico per alcune categorie imprenditoriali. Le imprese di pompe funebri infatti fallirebbero senza persone morte, mentre le compagnie d’assicurazione non riscuoterebbero più polizze sulla vita….che senso avrebbe pagare se nessuno muore più? E ancora, gli ospedali e le case di riposo avrebbero enormi problemi logistici in quanto in poco tempo non saprebbero più dove infilare anziani ed ammalati (badate bene che non morire non vuol dire non invecchiare e non ammalarsi !). Anche per la Chiesa sarebbe un autentico disastro considerato che nessuno si preoccuperebbe più di credere in una vita oltre la morte. Pertanto la fede delle persone, ed il ruolo della Chiesa, sarebbero messi a dura prova.
Nuove opportunità invece si dischiuderebbero per la maphia (rigorosamente col ph) che potrebbe, in maniera del tutto clandestina ed irregolare, trasportare vecchi decrepiti e malati oltre frontiera, in un altro Stato, dove invece la gente continua regolarmente a morire.
Cosa succederebbe inoltre se, al termine del periodo sabbatico, la morte decidesse di riprendere la sua consueta attività, ma, con l’inattesa ed imprevedibile novità di informare preventivamente i futuri defunti mediante lettera? (Sono spiacente di avvisarla che il giorno tal dei tali Lei morirà). Il caos ed il panico si diffonderebbero inevitabilmente tra la popolazione, anche se in compenso Stato, Chiesa, ospedali, case di riposo, imprese di pompe funebri e compagnie d’assicurazione tirerebbero un sospiro di sollievo.
Ed infine cosa succederebbe se la morte, per qualche misterioso motivo, non riuscisse a recapitare la lettera informativa ad una determinata persona e la stessa fosse rispedita più volte al mittente ? Per la prima volta nella storia si troverebbe in grossa difficoltà dovendo decidere di agire diversamente per risolvere questo spiacevole grattacapo. E dall’incontro tra potenziale vittima e morte possono scaturire situazioni imprevedibili…..
Tutto questo (e tanto altro) è contenuto nelle Intermittenze della morte di Saramago. Consigliatissimo insomma !
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Opinioni in libertà
Riconosco che dopo avere letto questo libro sono rimasto abbastanza stupito nel constatare come certi argomenti che ruotano attorno alla religione siano considerati così importanti anche in un paese nordico come la Germania, peraltro patria della riforma protestante. Se infatti il libro fosse stato ambientato in l’Italia, certe invettive rivolte contro una società borghese-cattolica caratterizzata da un’aura di ipocrisia e sempre pronta a criticare chi non è allineato col sistema, mi avrebbero sicuramente meravigliato di meno.
Invece il personaggio creato da Boll, è un clown di professione, specializzato nella recitazione di monologhi e pantomime. Attraverso le opinioni espresse nella casa di Bonn dove si è rifugiato ed esternate sottoforma di pensieri, telefonate a parenti, presunti amici o conoscenti, e ricordi, dipinge un quadro a tinte piuttosto fosche della società tedesca degli anni sessanta, che pare volere celare gli orrori compiuti durante la guerra ed a chiedere timidamente scusa di ciò che è capitato.
Il nostro clown è un attore la cui carriera è ormai compromessa, in caduta libera, a causa del forte contraccolpo psicologico causato dalla sua ex compagna Maria che lo ha lasciato per sposarsi con un fervente cattolico praticante. Inoltre, come se non bastasse, un infortunio ad un ginocchio non gli permette di muoversi e recitare liberamente sul palcoscenico e rappresenta pertanto un’ulteriore motivo di difficoltà nella prosecuzione della sua professione. Ecco che l’insieme di queste cause, diventano quasi una scusa per abbandonarsi a sé stesso, per piangersi addosso e cominciare ad attribuire le colpe del suo stato ai cattolici di Bonn. Costoro sono accusati di avere convinto Maria, anche lei assidua praticante e frequentatrice di quella comunità, a lasciarlo in quanto non era concepibile che i due vivessero “nel peccato”, senza essere uniti dal vincolo del matrimonio. Oltre a Maria viene inoltre descritta una galleria di personaggi piuttosto folta, e risulta molto difficile trovarne uno che agli occhi del protagonista sia esente da qualche colpa o da qualche difetto, compresi i suoi genitori e suo fratello, anche lui convertitosi alla causa cattolica !
In definitiva si tratta di un libro indubbiamente non facile, che talvolta potrebbe risultare un po’ ripetitivo, ma che complessivamente rappresenta un’opera di indiscusso valore, tenuto conto dei temi affrontati.
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Una prova di grande coraggio
Leggere Saramago è un po’ come entrare nella tana del Bianconiglio ed approdare in un paese lontano pieno di meraviglie. Al posto dello stregatto e del cappellaio matto si troveranno però altri personaggi alquanto sui generis e descritti in un modo che solo Saramago è capace di fare. Lo stile di scrittura del portoghese è sicuramente molto particolare, con le sue frasi lunghe composte da tante virgole e pochi punti, i discorsi diretti “buttati” lì all’improvviso e non sempre di facile lettura, i commenti e le riflessioni dell’autore che si incastrano con le vicende narrate. Una volta superato lo scoglio iniziale però ti si apre un mondo nuovo ed inesplorato che ti coinvolge e ti attrae sempre di più, inesorabilmente.
Nel presente libro l’ateo Saramago riscrive la storia di Gesù dalla nascita fino alla sua Passione e morte. Questa riscrittura potrebbe infatti essere considerata un nuovo Vangelo, un’ulteriore testimonianza delle vicende di Gesù Cristo. Quel che colpisce infatti è la straordinaria storia terrena di quest’uomo. Gesù innanzitutto non nasce per opera dello Spirito Santo ma dall’unione tra Maria e Giuseppe. Vive inoltre con dei fratelli, cresce, poi abbandona la casa paterna e pian piano cominciano a manifestarsi in lui quei comportamenti che lo porteranno ad essere considerato il figlio di Dio. Ed un bel giorno incontrerà proprio suo Padre, al quale proverà a chiedere spiegazioni, tentando di sottrarsi e perfino ribellarsi al suo destino, seppure inutilmente, in quanto dovrà accettare ciò che il Padre ha previsto per lui. Il Gesù di Saramago è uno strumento nelle mani di Dio, un Dio onnipotente ed egoista che ha scelto per suo figlio la via del dolore e della sofferenza, attraverso la quale fondare un nuovo credo.
Probabilmente questo libro non piacerà a tutti, tanto per lo stile di Saramago, quanto per i temi trattati che potrebbero turbare per come sono stati affrontati. Tuttavia va riconosciuto all’autore un grande coraggio nel mettersi in gioco contro tutto e tutti e narrare questa nuova versione della vita di Gesù.
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L'amore è sofferenza
Della serie “anche l’influenza ha i suoi lati positivi perché ti regala molto tempo libero”, sono qua a recensire quest’opera di McGrath appena letta, per la precisione la mia seconda dopo Follia. A mio parere questo è un romanzo di livello inferiore rispetto a Follia, ma vi si ritrovano tutti gli elementi psicologici che caratterizzano lo stile dello scrittore.
Sullo sfondo di un importante avvenimento storico quale lo scoppio della seconda guerra mondiale, viene narrata la storia di un amore “proibito e segreto” vissuto tra un medico, il dottor Haggard, e Fanny, la moglie di un collega anatomopatologo che lavora nello stesso ospedale. Esattamente come in Follia l’amore tra i due è vissuto con grande passione anche se clandestinamente ed in maniera molto tormentata, fino al tragico epilogo finale (forse evitabile, come lascia intuire il protagonista nel narrare la vicenda).
A mischiare le carte i tavola su questa intricata situazione, compare fin dalle prime pagine del libro, il figlio di Fanny, arruolato come aviatore nella RAF allo scoppio della guerra e coinvolto nella battaglia d’Inghilterra contro la Germania nazista. E’ proprio grazie a questo “caro ragazzo” (come definito più volte dal dottor Haggard nel corso dell’opera), che si rivolge al medico per avere informazioni sulla madre, che il protagonista riesce a ritrovare quella gioia di vivere e quella speranza che lo avevano abbandonato, rendendo al contempo più sopportabile la permanente sofferenza fisica causata da un brutto incidente e diretta conseguenza della tormentata relazione con Fanny. Attraverso la somiglianza fisica infatti, Haggard riscopre nel figlio la madre, e rivive grazie a lui l’amore perduto. Emblematico il finale che nella sua tragicità, sintetizza i sentimenti provati dal protagonista.
In definitiva consiglio il libro a chi già conosce McGrath. La narrazione talvolta potrebbe risultare un po’ ridondante, ma il pregio è comunque quello di narrare la vicenda evidenziando il pathos (parola chiave più volte citata nel romanzo), la sofferenza emotiva ma anche fisica di una storia d’amore impossibile, arricchita con alcuni approfondimenti di medicina frutto della conoscenza di questa disciplina da parte dell’autore.
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Anche le famiglie borghesi hanno il loro scheletro
Ogni tanto mi capita di acquistare libri d’impulso, senza essermi informato prima e perché trovo la storia (o la copertina) interessanti. Recentemente (enfortunatamente) mi è capitato con questo breve romanzo della lunghezza di 142 pagine che ho ritenuto particolarmente accattivante e coinvolgente.
Come definito dalla quarta di copertina si tratta di un thriller psicologico incentrato sulla figura di Inés, moglie di Ernesto e da lui tradita con un’amante che muore per una fatalità, durante una discussione con lo stesso. Da qui in poi si assiste ad una serie di vicende in cui la moglie, pur di difendere il suo status borghese e conservare i privilegi acquisiti dopo tanti anni di matrimonio, non esita a prodigarsi per difendere il marito a tutti i costi, anche se pienamente consapevole del tradimento subito.
L’autrice è molto abile nel condurre il lettore tra i meandri della vicenda, illudendolo e facendogli prospettare gli sviluppi degli eventi che all’improvviso sono stravolti da nuovi ed inaspettati colpi di scena. In mezzo alle macchinazioni di questa diabolica donna con la complicità del marito (o viceversa) prende pian piano forma la vicenda della figlia, purtroppo vittima dei comportamenti di entrambi i genitori, che definire trascurata è sicuramente limitativo.
Concludo evidenziando lo stile asciutto ma efficace della Pineiro, a mio avviso molto dotata nello scrivere in maniera diretta, senza fronzoli, e capace di sintetizzare in solo 4 pagine e mezzo (di un classico format “Economica Feltrinelli”) il preambolo dal quale scaturisce la storia: moglie tradita dal marito e morte dell’amante. Come dire, perché dilungarsi per pagine e pagine quando basta veramente poco per inquadrare vicenda e personaggi?
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Follia o liberta?
Questo libro è stato una piacevole scoperta in quanto fino ad oggi non mi era ancora capitato di approcciarmi a romanzi dal contenuto così….. “psicologico”. Follia ha avuto il merito di condurmi sempre più in profondità nei meandri delle menti di Stella ed Edgar, nella loro torbida storia di amore, sesso, segreti e complicità, una strada senza uscita che ha portato entrambi al capolinea, ad un punto di non ritorno.
McGrath racconta dettagliatamente la passione travolgente che si innesca all’interno della cornice di un manicomio criminale tra Stella, moglie di uno psichiatra che lavora nell’ospedale, ed Edgar, artista-detenuto paranoico, accusato dell’omicidio della moglie. I due si incontrano, si innamorano e contro ogni logica si lasciano trasportare dal sentimento adottando comportamenti via via sempre più rischiosi e pericolosi, mettendo in pericolo le loro vite e quelle delle persone che gli stanno attorno. Follia è la storia di una discesa agli inferi tra due persone che al di là delle convenzioni sociali accettano coraggiosamente ma soprattutto incoscientemente, di perdere loro stessi e vivere intensamente una storia impossibile che lascerà un segno indelebile nelle vite di molti. In particolare modo Stella trova in Edgar il riscatto, la possibilità di affrancarsi da una vita che non riesce più a condurre nonostante il suo ruolo di moglie e madre.
Consigliato a chi ama letture forti, Follia, grazie alle capaci mani di McGrath ha il potere di incatenare il lettore in una vicenda cupa, quasi claustrofobica, che fin dalle prime pagine è impregnata di un notevole pessimismo.
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Genio e sregolatezza
Un tuffo di oltre 600 pagine che descrivono dettagliatamente la vita di questo autentico genio capace di costruire un impero partendo dal garage sotto casa. Steve Jobs è l’emblema del sogno americano che diventa realtà. Non ha semplicemente creato un’industria informatica di hardware e software, ma attraverso i Mac, gli iPod, iPhone, iPad ha inventato un mondo, uno stile di vita, ponendosi come un “punto di rottura” nello sviluppo della tecnologia ed abbinando sapientemente creatività ed, appunto, tecnologia. I prodotti Apple hanno rappresentato, e tuttora rappresentano, una vera e propria esperienza da vivere intensamente: il design curato nel dettaglio in maniera maniacale, la loro semplicità di utilizzo, la loro funzionalità, sono caratteristiche intrinseche cercate ed apprezzate dai milioni di appassionati che dimostrano la propria fedeltà al marchio della mela accettando di passare ore ed ore in fila davanti agli “apple store” pur di potere dire “c’ero anche io quella volta”.
Ma come spesso capita ai geni, il talento innato è accompagnato da una serie di comportamenti ed atteggiamenti alquanto discutibili. Steve Jobs infatti verrà ricordato anche per il suo carattere da despota nei confronti dei sui collaboratori, concorrenti, familiari. Citando le sue testuali parole riteneva che il mondo si dividesse tra “geni e teste di cazzo”: famose sono rimaste le sfuriate ed esasperazioni rivolte al suo staff, spesso accusato di scarsa dedizione alla causa Apple e ritenuto poco capace di produrre soluzioni innovative in grado di sbaragliare il mercato. Così come alcuni suoi “pallini” come quello di abbracciare la dieta vegana o la scarsa propensione alla pulizia che, soprattutto in giovane età, quando non aveva ancora fondato la Apple, aveva obbligato il suo datore di lavoro ad “isolarlo”, relegandolo ai turni notturni, perché per qualsiasi collega era impossibile sopportare il suo cattivo odore !
In definitiva si tratta di una lettura consigliata per chiunque abbia voglia (e tempo) di approfondire la conoscenza di quest’uomo dalle mille risorse, capace di reinventarsi continuamente, creando valore anche all’industria dei cartoni animati durante il periodo “Pixar”.
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La zietta che tutti vorremmo avere ( o no? )
Zia Mame, la cara zietta che tutti quanto vorrebbero avere. Impossibile non amarla, non provare simpatia nei suoi confronti, non sorridere di fronte alla sua spontaneità incontenibile. In questa esilarante opera dello scrittore americano Patrick Dennis si narrano le vicende di Patrick. che rimasto orfano in giovane età viene affidato alle (amorevoli?) cure di sua zia.
Ben presto il ragazzo rimane, suo malgrado, travolto dall’irrequietissima e mai banale vita della cara zia. Sullo sfondo della crisi del 1929, il protagonista vive e cresce tra feste, spettacoli a teatro, serate di gala, in quanto la zia non perde mai l'occasione per mettersi in mostra nella società americana del tempo. Il giovane protagonista si trova prima catapultato in una scuola che adotta un metodo di insegnamento molto particolare, poi una volta cresciuto assistiamo alle sue fughe notturne dal college per aiutare la cara zietta perennemente nei guai.
Senza svelare troppi particolari come non ricordare l’episodio in cui la bizzarra zia Mame, comunque dotata di un gran cuore e di notevoli disponibilità economiche, decide di adottare una serie di bambini orfani che definire come discoli è un complimento: forse per l’unica volta nella vita della zia, le giovani pesti riusciranno veramente a metterla in difficoltà ed a farle perdere il suo proverbiale buonumore.
Insomma si ride, ci si diverte e si prova un po’ di invidia per un nipote così fortunato ad avere una zia così sui generis.
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