Opinione scritta da enricocaramuscio
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Un tragico passo verso la fratellanza
"Nessuna vocazione è vera se esige il sacrifizio della ragione, nessun voto di obbedienza vale se è contro la coscienza". Come può Severina, giovane suora testimone oculare di un atroce fatto di sangue commesso dalla polizia, dichiarare il falso ed attenersi alla versione di comodo impostale dai suoi superiori per venire incontro alle esigenze della questura? Nella nostra eroina gli ideali della giustizia e della verità sono troppo forti per sottostare a questa subdola imposizione e la ragazza non potrà fare altro che ascoltare il suo cuore e la sua coscienza e raccontare la verità. Da questo momento in poi la sua vita non sarà più la stessa, perfino il suo animo subirà un impensabile stravolgimento. Severina perderà la fede, abbandonerà l'abito e rientrerà nel mondo laico piena di speranza e buoni propositi, accorgendosi però troppo presto che anche fuori dalle mura del convento il suo atto di coraggio e di correttezza continuerà a perseguitarla, punto di non ritorno di una funesta parabola discendente che non potrà che terminare in tragedia. Lasciato incompleto dall'autore e pubblicato postumo grazie al lavoro di revisione e completamento della moglie, questo libro ha tutte le caratteristiche peculiari della produzione letteraria di Silone: la vana lotta dei poveri, dei deboli, degli oppressi per riscattare la propria condizione; l'arroganza, la perfidia, l'indifferenza con cui i poteri forti procedono sulla propria strada senza curarsi di chi vanno a calpestare; l'ineluttabilità di un destino che finisce sempre per far soccombere i primi e far avanzare i secondi. Attraverso i pensieri e le parole di Severina e di Don Gabriele, altro personaggio chiave dell'opera, si manifesta la grande capacità del compianto scrittore abruzzese di raccontare i turbamenti che stravolgono l'animo umano e si accendono interessanti questioni filosofiche che riguardano la vita, la politica e la religione. Molto bello, a tal proposito, l'avvincente dialogo del quarto capitolo. Ma al di là dei contenuti, il libro spicca anche per lo stile pregevole, per la trama interessante e per il coinvolgimento emotivo che riesce a generare nel lettore. Severina è un romanzo contro le ipocrisie della religione, contro la violenta tracotanza dei poteri forti, contro le ignobili connivenze tra Stato e Chiesa, contro l'omertà, la menzogna, gli stupidi preconcetti. È un romanzo a favore della verità, della speranza, dell'uguaglianza sociale e materiale di tutti gli uomini. Severina è, infine, una storia senza tempo e senza spazio perché, per le tematiche affrontate, si adatta a qualsiasi epoca, a qualunque paese, ad ogni tipo di società e di credo religioso. "Al convento le suore si chiamavano 'sorella'. Non biasimava certo quell'usanza innocente, però la vera fratellanza era da ricercare altrove, fra la gente umiliata dalla vita, incatenata alla sua sorte, incapace di risolverla: schiavi legati da catene invisibili che solo mani fraterne potrebbero forse sciogliere. Ma come farlo? Come poteva fare lei, incapace per ora di dominare perfino il proprio destino? Si rallegrava di partecipare al corteo di protesta: era un gesto semplice ma forse sarebbe già stato un passo verso quella fratellanza".
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Un passo verso il buio
"Lo hanno portato in mezzo alla notte, l'ambulanza è arrivata in silenzio, a luci basse, e Spino ha subito pensato: è successo qualcosa di orrendo. Gli pareva di dormire, e invece ha percepito perfettamente il motore dell'ambulanza che imboccava il vicolo con troppa calma, come se non ci fosse più rimedio, e lui ha capito come la morte arrivasse piano e come quella fosse la vera misura della morte, senza fretta e inesorabile". Chi è il ragazzo misterioso che è appena entrato nell'obitorio dove lavora Spino? Che segreti nasconde la sua morte? Spino non riesce a darsi pace, deve indagare, deve scoprire, deve capire. Ma il protagonista è solo in questa sua inchiesta privata, nessuno si interessa a questo caso, a nessuno importa di conoscere l'identità della vittima né le circostanze che hanno portato alla sua uccisione. Neanche le persone che lo hanno conosciuto se ne interessano, nessuna telefonata, nessun appello, tutti si comportano come se non fosse mai esistito. Ma Spino non riesce a far finta di niente, gli anni passati tra cadaveri e celle frigorifere non hanno raffreddato il suo animo, la sua sensibilità. Vuole far luce sul mistero, neanche lui sa bene perché, sa soltanto che lui è vivo mentre l'altro è morto e sa che lasciarlo morire nell'ombra sarebbe come ucciderlo una seconda volta. Allora cerca, chiede, segue i pochi e labili indizi e qualcosa comincia a capire. Forse c'entra il terrorismo, forse è una vendetta, forse un imbroglio. Forse il ragazzo era una vittima sacrificale, forse un testimone scomodo, forse soltanto qualcuno che si è trovato per caso ad uno dei tanti incroci del destino. Ad un certo punto sembra che Spino sia ad un passo dalla verità, invece non può far altro che girarsi, guardare l'acqua e avanzare nel buio. Criptico, disincantato, nebuloso, questo breve romanzo di Antonio Tabucchi coinvolge e affascina il lettore con una trama originale e una prosa fine e delicata. Molto bella l'ambientazione, in una misteriosa città portuale fatta di vicoli stretti e misteriosi, di piccoli locali, di brezza marina e di profumo di salsedine. L'autore usa l'indagine di Spino come pretesto per un'indagine atavica e molto più complessa che è quella che da millenni impegna l'uomo circa i misteri della vita. Entrambe portano inesorabilmente verso il fallimento perché troppo spesso cercare la verità è come cercare di raggiungere il filo dell'orizzonte, quel punto della terra (e della vita) che si sposta mentre noi ci spostiamo e che per questo risulta irraggiungibile.
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Un velo di convenienza
Un matrimonio basato sulla convenienza non può funzionare a lungo. Difatti la bella Kitty ci mette poco a buttarsi tra le braccia dell'aitante Charlie. Anche se suo marito Walter, eminente batteriologo in servizio a Tching-Yen, è molto innamorato di lei e la tratta con cortesia e rispetto, alla giovane donna non è mai importato un fico secco di lui e da quando si sono sposati non è passato un solo giorno senza che abbia rimpianto la sua decisione. La paura di restare sola, le pressioni di una madre invadente, l'accesa rivalità con la sorella minore l'hanno spinta ad unirsi ad un uomo che giudica tetro, seccante, freddo, troppo pieno di sé. Semplicemente ridicolo. Invece Charlie è l'esatto contrario, ha tutto ciò che una donna può desiderare in un uomo. La ama, la rassicura, la rende felice. Ma l'adultero idillio non è destinato a durare a lungo, Walter scopre la tresca e per Kitty arriva un'implacabile resa dei conti. Messa con le spalle al muro dal marito, abbandonata dall'amante, la donna non ha altra scelta che seguire il primo nella sua missione suicida a Mei-Tan-fu, dove il medico si mette volontariamente al servizio della comunità per combattere una terribile epidemia di colera. Delusa, ferita, isolata dal mondo e costretta a trovarsi ogni giorno a tu per tu con la morte, la nostra protagonista perde sicurezza e spavalderia, si riscopre fragile, vulnerabile, impaurita e si vede costretta a rivalutare le figure dell'amante e del marito, finendo per disprezzare il primo ed amare il secondo. Ma quando la vita le dà la possibilità di riscattarsi definitivamente dagli errori commessi, Kitty non riesce, dopo tante falsità, a mentire per una volta a fin di bene. La situazione a questo punto precipita rovinosamente. Maugham racconta una storia pregna di cinismo e disillusione che ruota intorno a temi quali l'incomunicabilità, l'orgoglio, l'infelicità, la morte. L'ottima introspezione psicologica e le rilassanti atmosfere orientali si scontrano con una prosa un po' macchinosa nella costruzione delle frasi, con qualche banalità di troppo e con una serie di personaggi per lo più negativi per cui è difficile provare simpatia ed empatia. La frivolezza e l'egocentrismo di Kitty, l'arrivismo e l'arroganza della madre, la doppiezza e la superficialità di Charlie sono caratteristiche che allontanano il lettore dai protagonisti. Ma forse era proprio questo l'intento dell'autore. Dissacrante e beffardo, Maugham infatti cerca con successo di mettere in cattiva luce determinati comportamenti del genere umano, puntando il dito contro le convenzioni e i costumi di una società falsa e ipocrita che si nasconde dietro un velo di convenienza, di perbenismo e di decoro. "Quanto era accaduto sembrava essere accaduto in un altro mondo. Come una persona essa era che, colpita da subitanea pazzia, e riavutasi si disperi e vergogni per le grottesche cose che vagamente ricorda di aver commesso quando non era padrona di sé, sente di avere, almeno nel suo intimo, un certo diritto al perdono. Kitty pensava che forse un cuore generoso l'avrebbe piuttosto compatita che condannata".
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Un'inarrestabile discesa verso gli inferi
"Sono le sei del mattino, e il giorno non ha abbastanza fegato per avventurarsi in strada. Da quando Algeri ha rinnegato i propri santi, il sole preferisce starsene al largo, in mare, ad aspettare che la notte abbia finito di smontare i suoi patiboli". Per la gente della Casbah la vita ha ben poco da offrire. Fame, degrado, umiliazioni sono all'ordine del giorno, per lavorare bisogna rinunciare alla dignità e mettersi al totale servizio dei pochi ricchi che, pieni di boria e di presunzione, trattano i dipendenti come zerbini. I titoli di studio servono a ben poco e perfino eminenti universitari si vedono costretti a trasformarsi in venditori ambulanti per potersi assicurare due pasti al giorno. In un ambiente come questo è facile farsi traviare, incanalare rabbia e delusione in maniera sbagliata, farsi riempire la testa e il cuore da idee fanatiche e violente. Se la vita non riesce a dare altro che amarezze, si può sperare in un aldilà in cui basta schioccare le dita per vedere realizzarsi ogni desiderio. Ma per guadagnarsi il paradiso la strada più sicura e veloce è allo stesso tempo quella più tragica e crudele: il martirio. Lo sa bene il giovane Nafa Walid, aspirante attore convinto di essere nato per piacere e per sedurre, speranzoso di conquistare i cuori solo con la sua grazia ed il suo talento. James Dean, Omar Sharif, Alain Delon sono i suoi idoli e le loro immagini tappezzano le pareti della sua squallida cameretta. In attesa della giusta occasione, Nafa si adatta a fare l'autista per i Raja, ricca ed eminente famiglia tra le più importanti e arroganti di Algeri. Sopporta tutto il nostro eroe, obbedisce anche agli ordini più assurdi ed ingiusti pur di lavorare, fino a quando, però, i suoi padroni oltrepassano il limite. Allora non gli resta che abbandonare volante, divisa e stipendio e tornare a passeggiare tra lo squallore della Casbah, sognando il cinema e affidando le sue speranze ad improbabili stage per finire vittima di spietate truffe. Arrabbiato con se stesso e con chi lo circonda, deluso dal suo paese, in contrasto con la sua famiglia, senza alcuna chance di migliorare la sua condizione, Nafa diventa facile preda di fanatici fondamentalisti che arruolano i loro adepti proprio tra i tanti ragazzi che si trascinano tra rabbia, frustrazione ed impotenza. La sua speranza taglia la corda, il suo cielo perde le stelle, ogni cosa diviene insignificante. Per lui, che sognava il paradiso, comincia un'inarrestabile discesa verso gli inferi. Spietato, lucido, sagace, l'autore ci riporta ai tempi della guerra civile algerina, proiettandoci in un contesto sociale e culturale difficile, dove il divario tra ricchi e poveri è abissale e dove i contrasti che caratterizzano la politica interna si trasformano con troppa facilità in impietosa violenza. Quello algerino è un popolo orgoglioso, che prima avrebbe preferito tagliarsi la mano piuttosto che tenderla, ed ora si ritrova a doverle tendere entrambe; che si accontenta della mensa popolare mentre gli altri buttano i soldi dalla finestra; che si vede pompare il petrolio sotto il naso senza trarne alcun beneficio, che vede continuamente calpestate la propria dignità e le proprie speranze. Se l'ambientazione ci riporta agli anni novanta, fin troppo attuale resta il tema di fondo: la triste facilità con cui ragazzi, delusi e pieni di rabbia per la loro condizione, si ritrovano ad imbracciare le armi votandosi ad una causa che maschera dietro ipocrite motivazioni islamiche obiettivi, metodi e ragioni che con la religione non hanno niente a che fare. Con la sua esperienza di ufficiale dell'esercito, la sua capacità di entrare nella mente dei personaggi e la sua prosa delicata e a tratti poetica, Yasmina Khadra non si limita a condannare il terrorismo, ma cerca di immedesimarsi in chi ci è invischiato e prova a comprenderne le pur ingiustificabili ragioni. La condanna si estende però anche a chi governa, a chi permette ai ricchi di prevaricare le leggi e di usarle a proprio piacimento, a chi non fa nulla per contrastare le differenze sociali e per combattere il degrado, la disoccupazione, la frustrazione dei deboli. Perché nella lotta al terrorismo le armi servono soltanto ad aggiungere violenza ad altra violenza, ed il vero sistema per contrastare fanatici e fondamentalisti è dare alla gente lavoro, dignità e speranza. "Tornando a casa, ritrovavo il malumore di mio padre, piazzato nel suo angolo come un sortilegio, che approfittava della minima banalità per mettersi a sbraitare contro di noi. Lo detestavo, detestavo la sua dentiera che ammuffiva nel bicchiere, il suo odore di malato immaginario; detestavo il nostro tugurio dove soffocavano le mie sorelle la cui povertà teneva lontani i pretendenti nonostante la loro reputazione di ottime donne di casa e la finezza dei loro lineamenti; detestavo lo squallore della mia camera pari a quello della mia anima, i miseri pasti improvvisati da mia madre, il suo sorriso che si scusava di non avere nient'altro da offrire, il suo sguardo triste che mi faceva sprofondare sempre più ogni volta che si posava su di me...Non ne potevo più. Fuori, era peggio".
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Una sordida matassa
Una giovane sposa viene ripudiata dal marito la prima notte di nozze perché non illibata. Riportata a casa dei genitori, viene sottoposta ad un violento interrogatorio finché non tira fuori il nome del colpevole del misfatto: Santiago Nasar, giovane e ricco rampollo della più importante famiglia della comunità araba del villaggio. Non verrà mai chiarito se sia stato veramente lui a deflorare Angela, anzi, viene il forte dubbio che la ragazza abbia fatto il suo nome soltanto per proteggere il vero responsabile. Tuttavia non c'è tempo per appurare la veridicità dell'accusa, perché la macchina della vendetta si mette subito in moto in maniera implacabile e tocca ai fratelli della giovane disonorata andare a punire il delinquente lavando con il sangue l'onta che si è abbattuta sulla famiglia. Eppure nessuno nel villaggio avrebbe mai pensato che Pedro e Pablo Vicario fossero capaci di uccidere un uomo, nemmeno loro stessi. I giovani macellai fanno il possibile per essere fermati in tempo prima di commettere l'atroce delitto, facendosi vedere in giro con i loro inquietanti coltelli e annunciando a tutti quelli che incontrano, compreso l'alcalde, le loro intenzioni criminali. Nessuno però riesce (o, più probabilmente, vuole riuscire) ad evitare la tragedia e, seppur riluttanti, gli assassini sono praticamente costretti a compiere l'ignobile dovere dettato da barbare convenzioni sociali. Ad anni di distanza dall'accaduto, un anonimo amico della vittima indaga sulle cause e sulle conseguenze del fattaccio, facendo luce su impensabili retroscena, fatali malintesi e ineluttabili casualità. Il risultato è un resoconto preciso e dettagliato degli avvenimenti che si propone di essere una pura e semplice cronaca ma che la magnifica penna di Marquez trasforma in un racconto armonioso e vivace. Curiosità, interesse e suspense sono garantiti nonostante si conosca con largo anticipo la conclusione, annunciata dallo stesso titolo, mentre affascinano la prosa e le atmosfere quasi oniriche che rendono tanto speciali le opere del compianto maestro. Tra festeggiamenti colossali, lussuriosi baccanali e il clima caldo e gioioso dei Caraibi, si dipana la sordida matassa in cui si intrecciano retrogradi concetti d'onore, ipocriti pregiudizi e becere tradizioni popolari, in una società incivile e sessista che l'autore mette alla berlina con il suo immenso talento e la sua intelligente e pungente ironia.
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Due, ma con una faccia sola
"La mia impresa somiglia ad un solitario già calcolato in anticipo; prima ho disposto le carte scoperte in modo da essere assolutamente certo del successo; poi le ho raccolte in ordine inverso e ho consegnato ad altri il mazzo così ricostruito, nell'assoluta certezza che il gioco sarebbe riuscito". Hermann Karlovic, tedesco di origine russa impegnato nel commercio della cioccolata, si imbatte per caso nel vagabondo Felix, accorgendosi subito della straordinaria somiglianza che li lega, quasi fossero "due, ma con una faccia sola". La mente del protagonista elabora subito un piano infallibile che, approfittando del suo sosia, gli permetterà di uscire dalla situazione di stallo in cui si trova la sua vita, tra problemi aziendali, tediosa routine quotidiana e l'ingombrante ed ambigua presenza fissa di Ardalion, un pittore cugino di sua moglie, invadente e scroccone. E passi se bisognerà passare sul cadavere di quello stupido barbone. Non sarà assalito di certo dai sensi di colpa per aver tolto dalla faccia della terra un essere così inutile. E non avrà nulla da temere neanche dalla legge perché la sua strategia è infallibile, la sua intelligenza superiore ha studiato tutto nei minimi dettagli e non esiste neanche la più remota possibilità che la truffa fallisca. Ma davvero il presuntuoso, arrogante e antipatico protagonista riuscirà ad attuare il proprio progetto criminoso senza incappare in errori? La somiglianza tra lui e Felix è realmente tale da riuscire ad ingannare gli altri? L'autore propone una storia a metà tra "Delitto e castigo" e "Il sosia" di Dostoevskij; lo stesso Hermann a tratti ricorda il fosco Raskol'nikov e a tratti il folle Goljàdkin. Tuttavia queste analogie, più che un omaggio al grande maestro, appaiono dei palesi tentativi, da parte di Nabokov, di delegittimare il suo collega e predecessore, nei confronti del quale non ha mai nascosto la sua poca stima. Comunque, al di là degli accostamenti con le opere del passato e delle discutibili antipatie dell'autore, questo libro risulta un'opera originale e accattivante che, con uno stile letterario di prim'ordine, racconta una vicenda turpe e cupa con ironia, eleganza e brio, giocando con le parole come solo Nabokov sa fare e mettendo in ridicolo risibili velleità e spocchiose vanaglorie che caratterizzano l'animo umano e che spesso portano dritte verso un vortice di disperazione. "Sebbene in fondo al cuore non avessi dubbi sulla perfezione della mia opera, e fossi persuaso che nel bosco in bianco e nero giaceva un uomo morto identico a me, nondimeno, in quanto novizio della genialità, ancora disavvezzo al sapore della fama, ma colmo dell'orgoglio che si accompagna al rigore verso se stessi, agognavo, fino allo spasimo, che il mio capolavoro (terminato e firmato il nove di marzo in un bosco tenebroso) fosse apprezzato dell'umanità, o in altre parole, che l'inganno - poiché ogni opera d'arte è un inganno - fosse coronato dal successo; quanto ai miei diritti d'autore, chiamiamoli così, che la compagnia assicurativa doveva versarmi, li consideravo una questione di secondaria importanza. Oh, sì, ero l'artista, allo stato puro, del romanzesco".
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Il vero arbitro è il cuore
Nella Sicilia degli anni trenta, come in tutta l'Italia dell'epoca, il regime si vantava del fatto che i propri cittadini potessero dormire sonni tranquilli anche lasciando aperte le porte di casa. Ciò era il risultato dell'inflessibile ed implacabile lotta alla criminalità messa in atto dalle camicie nere, in nome della quale il governo, nella persona del ministro Alfredo Rocco, reintrodusse la pena di morte nel codice penale, a dimostrare che il fascismo non scherzava nei confronti di assassini e disonesti. Con questi presupposti, poteva un semplice ragioniere palermitano, reo confesso di un triplice omicidio nei confronti della propria moglie, dell'uomo che lo aveva scalzato dal suo posto di lavoro e del suo superiore che ne aveva chiesto ed ottenuto il licenziamento, scampare all'inevitabile patibolo? Se in più consideriamo che in casa dell'assassino era stato trovato il ritratto di Matteotti e che una delle vittime, l'esimio, stimato e integerrimo Avv. Comm. Giuseppe Bruno oltre che Segretario del Sindacato Forense era Presidente dell'Unione Provinciale Fascista Artisti e Professionisti, rimanevano ben poche speranze all'imputato di evitare una sorte ormai scritta. Quale giudice, quale giurato, quale individuo che teneva alla propria carriera, alla propria vita, alla sua serenità personale e a quella della propria famiglia avrebbe potuto mettersi contro una decisione dettata da un codice scritto nonché da importanti motivazioni politiche? Sciascia ci riporta indietro di qualche anno, a quella che rimane una delle epoche più nere della storia del nostro paese. Lo fa con la sua penna scaltra e incisiva, disegnando un perfetto ritratto della società dell'epoca, in un periodo in cui il regime tira fuori gli artigli per cercare di recuperare un consenso che va via via scemando. "Non si erano mai posto il problema di giudicare il fascismo nel suo insieme, così come non se lo erano posto nei riguardi del cattolicesimo...Ma tante cose disapprovavano della chiesa cattolica. E tante del fascismo. Cattolici, fascisti. Ma mentre il cattolicesimo stava ancora lì, fermo e massiccio come una roccia, per cui sempre allo stesso modo potevano dirsi cattolici, il fascismo no: si muoveva, si agitava, mutata e li mutava nel loro sentirsi sempre meno fascisti. Il che accadeva in tutta Italia e per la maggior parte degli italiani. Il consenso al regime fascista, che per almeno dieci anni era stato pieno, compatto, cominciava ad incrinarsi e a cedere". Se il clima pesante della dittatura aleggia sul libro dalla prima all'ultima pagina, non è esclusivamente nei suoi riguardi che si concentra l'atto di denuncia dell'autore. Il reale imputato, in quest'opera che ha i veri e propri connotati del processo, è la pena capitale. Sciascia si fa avvocato dell'accusa e, attraverso i pensieri e il comportamento di un coraggioso e intelligente "piccolo giudice", mette in atto un'eccellente requisitoria nei confronti della pena di morte, importante per i contenuti e interessante per lo stile letterario e per le argute e pertinenti citazioni che spaziano da Vitaliano Brancati a Stefan Zweig, fino ad arrivare all'immenso Tolstoj. "Quando vidi come la testa si staccava dal corpo e come l'una e l'altro, separatamente, andavano a sbattere nella cassa, allora capii, non con l'intelligenza, ma con tutto il mio essere, che non vi è alcuna teoria della razionalità dell'esistente e del progresso che possa giustificare un simile atto e che quand'anche tutti gli uomini al mondo, fin dalla sua creazione, basandosi su teorie quali che siano, trovassero che ciò fosse necessario, io so che ciò non è necessario, che ciò è male e che, quindi, arbitro di quel che è bene e necessario non è quel che dicono e fanno gli uomini, e neppure lo è il progresso, ma lo sono io, con il mio cuore" (Le confessioni - Lev N. Tolstoj).
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Fumettone pretenzioso e confusionario
Gibreel e Saladin sono due uomini diversi che condividono le stesse radici e un destino comune. Entrambi indiani, Gibreel è un eroe in patria, stella più splendente del firmamento del cinema asiatico, specializzato in film di stampo teologico, incallito donnaiolo, cinico e viziato. Gibreel invece ha fatto fortuna all'estero, a Londra per la precisione, con la partecipazione ad una fortunata serie televisiva di fantascienza e sfruttando le sue "mille e una voci" in svariati spot pubblicitari. Pacato, superbo, freddo, ha deciso di rescindere completamente i legami con la madre patria e di diventare cittadino britannico non soltanto sui documenti ma in ogni aspetto della vita privata. I due si conoscono su un volo Bombay-Londra. L'aereo viene dirottato da un gruppo di terroristi inesperti e fatto esplodere sui cieli del Canale della Manica. Un volo vertiginoso e allucinato di seimila metri, la caduta in mare, l'approdo su una spiaggia. Gibreel e Saladin sono gli unici sopravvissuti al disastro. Per loro è una rinascita, una sorta di reincarnazione. D'altronde "per rinascere si deve prima morire". La nuova vita tuttavia riserverà ad entrambi delle spiacevoli sorprese, facendone crollare difese, sogni e convinzioni e mettendoli faccia a faccia con le proprie paure, con i propri fallimenti e con scomodi e invadenti fantasmi. In una sorta di delirio mistico, i due si ritroveranno ad incarnare rispettivamente i ruoli di angelo e di demone e verranno coinvolti in un'ambigua battaglia tra il bene e il male che si rivelerà una guerra contro se stessi. Le peripezie dei protagonisti, cui sono affiancati numerosissimi personaggi delle specie più svariate, vengono raccontate con una prosa discreta ed un ritmo sostenuto, in un clima di fantasia e mistero in cui culture diametralmente opposte si uniscono e si respingono al contempo, mettendo a nudo i propri pregi e difetti. Integrazione e rispetto delle proprie radici sono argomenti alla base di quest'opera di Salman Rushdie, in cui non manca l'occasione per parlare anche di sentimenti importanti come l'amore e l'amicizia. Tuttavia è la religione l'aspetto che risalta maggiormente nel libro, non soltanto per il modo in cui viene trattata ma anche, e soprattutto, per gli strascichi polemici che ne sono scaturiti. L'autore infatti affronta l'argomento in maniera irriverente e provocatoria, proponendo una sorta di parodia del mondo musulmano che non è piaciuta alle frange più estremiste dell'islam e che gli ha procurato una scomunica e una condanna a morte che lo costringono a vivere tutt'ora sotto scorta. Il racconto delle disavventure di Gibreel e Saladin, infatti, è interrotto da capitoli dedicati ad una personale rivisitazione di alcuni momenti della vita di Maometto, dell'arcangelo Gabriele e della fantomatica messaggera Ayesha che in realtà, dal punto di vista prettamente letterario, rappresentano i momenti migliori del romanzo. Per il resto l'opera appare come una sorta di fumettone pretenzioso e confusionario, in cui una trama disordinata e poco coinvolgente sembra spesso sfuggire di mano all'autore per poi ritrovarsi in un finale che vorrebbe essere ad effetto ma che, in realtà, risulta scialbo e privo del necessario pathos. Peccato, perché gli elementi per un buon libro ci sarebbero tutti. Purtroppo non bastano dei buoni ingredienti per fare un buon piatto.
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Il tramonto dell’infanzia e delle illusioni
A metà tra favola e romanzo di formazione, l'opera di Elsa Morante ripercorre le varie tappe della crescita del piccolo Arturo Gerace, orfano di madre e lasciato a se stesso da un padre assente e scostante. Le bellissime descrizioni dell'isola di Procida, la capacità di raccontare in maniera esplicita i sentimenti confusi e contrastanti del protagonista, lo stile di scrittura poetico e suggestivo fanno di questo libro un'opera piacevole e profonda che tocca temi caldi e delicati come la solitudine, la mancanza di affetti, la misoginia, l'omosessualità, l'amore. Protagonista assoluta del libro è però la disillusione, il disincanto che prende il sopravvento quando i sogni crollano a contatto con la dura realtà, quando la devozione si rivela tradita, quando la vita abbatte inesorabilmente priorità, aspettative, speranze. Arturo ha il nome di una stella, la più brillante della figura di Boote, un nome che fu portato anche da re valorosi e condottieri carismatici. Cresciuto a latte di capra e libri di avventura, il protagonista scorrazza per l'isola libero e solitario, avvalendosi soltanto della compagnia del suo cane e, di tanto in tanto, di quella di Wilhelm, suo padre, spesso assente per lunghi periodi e per motivi misteriosi, che finisce per diventare per lui un personaggio dedito a chissà quali lunghi viaggi e quali ardimentose e impavide gesta. Arturo non ha regole se non una sorta di codice morale redatto da lui stesso, non ha vestiti se non il necessario per coprirsi, non ha cibo se non quanto gli serve per vivere. La sua esistenza scorre spensierata tra gite in barca, scorrazzate tra campi e scogliere, letture e mirabolanti fantasie sulla sua vita futura che lui vede ricca di viaggi, di avventure e imprese eroiche. Intanto cresce schivo, superbo, maschilista e misantropo, tenendo un'altezzosa distanza nei confronti degli altri abitanti dell'isola e considerando le donne come esseri brutti, stupidi e buoni a malapena per le faccende domestiche. L'entrata in scena di Nunziata, moglie di seconde nozze di Wilhelm Gerace e quindi matrigna, seppur quasi coetanea, del protagonista, segna per lui una netta linea di demarcazione tra l'infanzia e quello che per tutti è il periodo più delicato della vita: l'adolescenza. Da questo momento in poi la quotidianità del ragazzo viene stravolta, le sue certezze cominciano pian piano a sgretolarsi, le sue fantasie si scontrano con una realtà difficile. Perfino la figura del padre, da sempre visto come una sorta di dio in terra, viene rivalutata scadendo fino al rango di "Parodia". Invidia, gelosia, amore, disillusione, rabbia cominciano a mescolarsi nell'animo del giovane e ingenuo Arturo che, travolto da un maremoto di nuove emozioni, di esigenze finora sconosciute, di tentazioni fin qui insospettabili, non ha altra scelta che compiere un gesto forte e definitivo per uscire dall’impasse in cui si trova intrappolato: lasciare per sempre l'isola, emblema di un passato felice che non tornerà mai più e simbolo di speranze tradite da un presente difficile, per salpare verso altri mondi, verso la vita vera, verso la piena maturità. "Il piroscafo era già là, in attesa. E al guardarlo, io sentii tutta la stranezza della mia tramontata infanzia. Aver veduto tante volte quel battello attraccare e salpare, e mai essermi imbarcato per il viaggio! Come se quella, per me, non fosse stata una povera navicella di linea, una specie di tranvai; ma una larva scostante e inaccessibile, destinata a chi sa quali ghiacciai deserti!".
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Niente è come appare
Amore, sospetto e tragedia sono gli elementi alla base di questo noir ambientato nella Parigi degli anni Cinquanta. In poche pagine caratterizzate da una prosa essenziale, da descrizioni semplici ma efficaci e, soprattutto, da una sottile e indovinata introspezione psicologica, Simenon racchiude un piccolo capolavoro letterario che mette allo scoperto zone buie e angoscianti della mente umana. L'amore è quello che da sedici anni lega il quarantenne Etienne alla moglie Louise, più vecchia di lui di sei anni, titolare di una cartoleria e già vedova del primo marito. Una storia apparentemente felice, fatta di una passione mai sopita, di piccole abitudini e premure, di tanto lavoro, pochi amici e qualche piccolo svago. Il sospetto è quello che nasce nella mente di un marito che sa di essere stato la causa di un delitto ma ha sempre preferito far finta di non sapere, finché non si ritrova lui stesso nella posizione di possibile vittima di un crimine analogo. La tragedia è la conclusione inevitabile di questa intrigante sfida psicologica in cui Etienne e Louise si sfidano a colpi di cose non dette, di sotterfugi, di bugie. Il racconto parte in sordina, la vita dei due coniugi appare semplice, banale, quasi metodica. Niente però in questo libro è come appare, l'aria si fa sempre più cupa, panico e diffidenza prendono pian piano il sopravvento, piccoli flashback aiutano a chiarire un po' le idee. Etienne è costretto a letto, sotto pesanti coperte, in una camera soffocante, collegato al mondo soltanto da una scala a chiocciola, quella che dà il titolo al libro e che unisce la sua stanza da letto alla cartoleria della moglie. Attraverso questa scala l'uomo spia la consorte, ne studia i movimenti, ne ascolta le telefonate. I sospetti crescono, gli indizi si accumulano fino a diventare prove. La partita diventa sempre più accesa, le carte cominciano a scoprirsi, ma se da un lato la potenziale vittima non può fare a meno di indagare, dall'altro appare incapace di avere una concreta reazione, come se fosse immobilizzato dalla paura, dall'incredulità, dall'amore saldo e disperato che, nonostante tutto, continua a legarlo alla sua subdola anima gemella. La tensione sale in un crescendo di suspense ed emozioni che incolla il lettore alle pagine portandolo verso un finale straziante e drammatico. "Erano stati due solitari, che, cercando di scavare sempre più oltre la loro solitudine, avevano ridotto il loro universo al loro appartamento, alla loro camera, al loro letto, battendovisi disperatamente contro l'impossibilità di integrarsi più profondamente l'uno nell'altra di quanto non sia concesso a un maschio e alla sua femmina. Aveva deciso di vivere. Non voleva ritornare sulla sua decisione. Aveva anche deciso di tenersi Louise".
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Caccia, chiacchiere e fiumi di alcool.
Premettendo l'innegabile verità che l'autore nella sua lunga carriera abbia scritto (molto) di meglio, partiamo col dire che il libro va visto sotto due differenti aspetti, uno prettamente letterario, l'altro morale. Dal primo punto di vista, siamo davanti ad una specie di resoconto di caccia, di diario di viaggio, raccontato però senza la schematicità tipica di questo genere di opera ma con la fluidità, la naturalezza e la passione propri del romanzo. Lo stile di Hemingway non conosce fronzoli, si sa, è semplice ed asciutto ma sempre brioso, disinvolto, coinvolgente. Le descrizioni degli animali sono perfette, quelle dei paesaggi meno curate ma riescono tuttavia a trasmettere la maestosità, la bellezza ed il fascino di un continente impareggiabile. Hemingway porta il lettore sotto il sole cocente di un'Africa selvaggia, incontaminata, dura ed affascinante, lo arma di carabina e installa in lui il piacere non tanto della caccia indirizzata all'uccisione, quanto quello della preparazione, della tattica, dell'attesa. Lunghe giornate acquattati ai limiti di un lick in attesa di un animale che forse non verrà mai, oppure ore di marcia attraverso erbe alte, cespugli, intrichi vegetali, a combattere con il caldo, gli insetti e con se stessi, con la propria smania, le proprie ambizioni, le proprie paure. Poi cala il sole, la caccia termina, si accende il fuoco e tra un pezzo di carne arrostita su un falò crepitante e un sorso rigenerante di alcool, ci si gode il fresco della sera. Illuminati dal chiarore delle stelle che tempestano gli sconfinati cieli africani, ci si lascia andare ai ricordi, ai commenti e ai programmi per il giorno successivo. Ma ci sono anche il tempo e la voglia di staccare, di pensare ad altro. Allora ci si abbandona ad interessanti dissertazioni riguardanti la vita e l'arte, ovviamente con particolare attenzione alla letteratura e a ciò che ci gira intorno, a scrittori più o meno bravi e a critici che sembrano assomigliare sempre più a pidocchi. Passando agli aspetti morali ci imbattiamo invece davanti a qualcosa che non sempre quadra. Se la caccia è un argomento che può infastidire qualcuno, bisogna comunque considerare che ogni cosa va rapportata con il suo tempo e come è noto a tutti in quegli anni non c'era la sensibilità attuale riguardo al rispetto per gli ecosistemi e al rapporto tra uomini ed animali. Spesso non c'era neanche, ma questo ahimè manca in troppi casi tuttora, la capacità di rapportarsi ad altre culture "meno sviluppate" senza arroganza e senza porsi in posizione di superiorità, come troppe volte e con grande naturalezza sembrano fare il protagonista-scrittore ed i suoi compagni nei confronti degli indigeni di cui si circondano e dei quali si servono come portatori, autisti e guide. Forse il sensibile lettore moderno gradirebbe che ogni tanto il dito non schiacciasse il grilletto e sicuramente preferirebbe una maggiore commistione tra diverse culture e, perché no, l'instaurazione di una sincera amicizia tra cacciatori occidentali e aiutanti (non schiavi) Masai. Sorvoliamo con la speranza e (meno) la convinzione che ciò oggi non accadrebbe. Lasciano perplessi anche l'idea di ritorno al contatto diretto con la natura, di rifiuto della società moderna senza tuttavia rinunciare ad aspetti peculiari di essa come la comodità di armi e mezzi di trasporto, di scarpe dalle soffici suole, al piacere rinfrescante di una schiumante birra tedesca d'importazione e al calore rinfrancante di un sorso di ottimo whisky. Ma passi anche ciò, non bisogna essere integralisti. Fanno sorridere le rivalità e la competizione che si creano tra compagni-rivali per chi uccide l'animale più grosso, chi conquista il manto più pregiato o le corna più lunghe e la boria quasi infantile che si genera in chi, uccisa la preda, sente per un attimo di essere il re del mondo. Insomma, un'opera dai due volti di cui è difficile criticare l'innegabile valore letterario ma che, per il resto, ognuno può giudicare, tenendo presente il momento storico in cui i fatti sono accaduti, in base alla propria sensibilità a certi argomenti, alla propria maturità e a ciò che cerca quando si imbarca in una nuova lettura.
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Un'aura di solitudine morale
Meursault, indolente impiegato francese in terra algerina, rappresenta la precisa identikit dell'uomo che affronta la vita lasciandosi trascinare dalle circostanze, incapace di prendere decisioni, di opporsi agli eventi, di abbandonarsi alle sensazioni. Freddo, abulico, pigro, il protagonista si muove con l'indifferenza dello straniero capitato per caso in un posto noioso e insignificante, impermeabile alle emozioni e capace di rispondere soltanto ad istinti primordiali come la fame, la sete, il desiderio carnale. La morte della madre lo lascia impassibile. La possibilità di fare carriera non sembra smuoverlo. Accetta, senza alcun entusiasmo, la proposta di matrimonio di Marie, la donna con cui ha intrecciato una blanda relazione. Subisce passivamente l'amicizia di Raymond, dal quale si fa coinvolgere, come un automa, in una torbida storia di tradimento e vendetta che lo porterà alla rovina. Meursault uccide un uomo, un arabo, senza una reale ragione (se mai ce ne fosse una per ammazzare una persona) e subisce le conseguenze di questo gesto con la consueta arrendevolezza, con la solita accidia, con quel suo comportarsi da spettatore inerte e disinteressato anche davanti a ciò che lo riguarda da vicino. Perché Meursault è questo, uno spettatore che osserva la propria vita invece di viverla, un burattino inerte che si lascia comandare da fili invisibili, una voce narrante che racconta la sua rovina con la freddezza e il distacco di un cronista annoiato. Un sole soffocante pervade l'intera storia creando una cappa opprimente di calore e abbagliando gli occhi e le menti con i suoi raggi implacabili. Un mondo ipocrita, una società guardona, una giustizia inefficiente sembrano disinteressarsi al delitto e puntare invece il dito sul modo di essere dell'imputato. Un’aura di cupa tristezza, di solitudine morale, di nichilismo aleggia su un racconto scandito da una prosa essenziale, secca, scarna, che rappresenta in pieno il modo di pensare, di agire, di vivere del protagonista. Un protagonista che non incontra cerco i favori del lettore, ma al quale tuttavia quest'ultimo non può fare a meno di affezionarsi finendo, se non con il condividerne il pensiero, per lo meno con il comprenderlo e con l'immedesimarsi in lui. Un personaggio che può apparire discutibile ma che rappresenta in pieno il pensiero esistenzialista, la teoria dell'assurdo, la tragica alienazione che caratterizzano le opere di Camus. Un uomo che si arrende alla vita ma che fino all'ultimo respiro resta coerente con sé stesso, con le sue idee, con la propria dignità, che anzi proprio quando queste vengono messe in discussione sembra finalmente avere una reazione, sembra svegliarsi, ribellarsi, vivere. "Aveva l'aria così sicura vero? Eppure nessuna delle sue certezze valeva un capello di donna. Non era nemmeno sicuro di essere in vita dato che viveva come un morto. Io, pareva che avessi le mani vuote. Ma ero sicuro di me, sicuro di tutto, più sicuro di lui, sicuro della mia vita e di questa morte che stava per venire. Sì, non avevo che questo. Ma perlomeno avevo in mano questa verità così come essa aveva in mano me".
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Un commuovente spaccato di vita reale
Miseria, fame e violenza sono pane quotidiano per gli abitanti della Piccola Shangai, sordida baraccopoli della periferia romana, tutta fango, pietre e immondizia, in un secondo dopoguerra in cui la povera gente si lecca ancora le ferite lasciate dal conflitto e dal regime. Tra accattoni, prostitute, ruffiani e gente che cerca faticosamente di sbarcare il lunario in maniera più o meno onesta, seguiamo le vicende del giovane malandrino Tommaso Puzzilli, ragazzo di vita, sbandato e nostalgico del ventennio. Insieme alla sua cricca, composta da altri balordi come Lello, Carletto, il Cagone, il Zimmio, il Zucabbo, il Matto, il giovane protagonista vive un'adolescenza che oltrepassa i limiti della legalità e della decenza morale, senza studiare né lavorare, passando il tempo tra alcool, coltelli e cazzotti, a vendersi ad omosessuali in cerca di compagnia, a rubare macchine e rapinare benzinai e prostitute. Mentre i suoi compari continueranno a condurre questo genere di esistenza, le dure esperienze del carcere e della tubercolosi cambieranno profondamente l'animo del protagonista, portandolo alla ricerca di una vita tranquilla, di un lavoro onesto e di una storia seria con una ragazza perbene. Per Tommaso arriverà anche una grave e sentita presa di coscienza che ribalterà totalmente il suo credo politico e la sua idea di impegno civile, portandolo ad abbracciare un nuovo ideale e a compiere un coraggioso gesto di solidarietà che, purtroppo, si rivelerà per lui fatale. Pasolini presenta un preciso e commuovente spaccato di vita reale, portandoci nelle miserie quotidiane di sfollati e sciagurati, tra stracci, disperazione e malcostume, dove vigono le leggi del più furbo e del più forte. Lo fa senza giudicare, senza mettere in cattiva luce nessuno, anzi presentando con simpatia anche i personaggi più laidi e abietti e portando il lettore ad immedesimarsi in essi e a comprenderne le pur riprovevoli azioni e i pur inqualificabili ragionamenti. È invece sulle istituzioni che l'autore punta il dito. Senza mai dirlo apertamente, è chiara l'intenzione di denuncia nei confronti di chi lascia vivere la gente in condizioni ai limiti della decenza, ricordandosi dell'esistenza di questi diseredati soltanto quando deve metterli in galera, di chi assegna le case popolari senza criterio né obiettività, di chi si oppone con fare violento e intimidatorio a chi cerca di far valere i propri diritti e le proprie ragioni. Emblematici in tal senso il capitolo dedicato al rastrellamento notturno di Pietralata e quello relativo alla repressione dello sciopero nell'ospedale Forlanini. Lo stile dell'autore è fortemente influenzato dal dialetto romanesco che domina nei continui e briosi dialoghi ricchi dei tipici intercalare del vernacolo capitolino, di parolacce e di folklore, ma si riflette anche sulla voce narrante, sporcandone spesso la correttezza dell'italiano ma aumentando sia la veridicità del racconto che l'empatia prodotta nel lettore. Tipico esempio di romanzo verista, l'opera di Pasolini ci riporta alle vicende narrate dal miglior Verga, dove personaggi in balia di un'avversa provvidenza provano costantemente a venire fuori dalla miseria senza mai riuscirvi, travolti dall'immutabilità della loro condizione che ne frustra ogni velleità di riscatto ed ogni barlume di speranza. “Non era successo niente: una borgata allagata dalla pioggia, qualche catapecchia sfondata, dove ci stava della gente che, nella vita, ne aveva passate pure di peggio. Ma tutti piangevano, si sentivano spersi, assassinati. Solo in quel pannaccio rosso, tutto zuppo e ingozzito, che Tommaso ributtò lì a un cantone, in mezzo a quella calca di disgraziati, pareva brilluccicare, ancora, un po’ di speranza.”
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Occhio alla penna
Surreale, sarcastico, imprevedibile, Queneau ci lancia all'inseguimento della piccola e impertinente Zazie, tra le strade e i locali di una Parigi anni '50 frizzante e carismatica, dove un falso ed apparente moralismo viene squarciato da un recondito libertinaggio. Affidata per un paio di giorni alle cure dello zio Gabriel da una madre sempre impegnata in nuove avventure erotiche, la giovane protagonista si caccia in situazioni paradossali vivendo delle ore indimenticabili al fianco di personaggi equivoci e bizzarri, tra avventure indimenticabili e dialoghi irriverenti. Ce n'è per tutti i gusti, dal poliziotto satiro alla vedova in cerca costante di consolazione, dal pappagallo assillante all'omaccione che si guadagna da vivere facendo la ballerina in un night club gay. Ci sono scazzottate e sparatorie, liti verbali e domande imbarazzanti, amicizie vecchie e nuove e ambigui misteri. C'è anche, in questa giostra vorticosa, il tempo per l'amore. Se ad un primo impatto quest'opera può sembrare leggera e superficiale, ad un'analisi più approfondita vengono fuori dei pregi inconfutabili che risiedono soprattutto nel coraggio e nella disinvoltura con cui l'autore tratta temi delicati come l'abuso sui minori, l'alcolismo, la violenza domestica e gli ipocriti e insensati pregiudizi che ruotano attorno al tema dell'omosessualità. Ma il pregio forse più grande sta nel linguaggio, vero e proprio protagonista dell'opera e, in generale, di tutta la letteratura dell'autore. Queneau usa una prosa fuori da ogni schema, irriverente, eccentrica e ai limiti della cattiva grammatica, inserendoci qualche volgarità senza mai spingerla agli eccessi e facendo largo uso di un gergo parigino che ha sicuramente creato grossi problemi al traduttore e che, trasformato in italiano, probabilmente non produce lo stesso effetto che ha invece in lingua originale. Un libro sicuramente diverso, strampalato, coraggioso, che proprio a causa di queste sue caratteristiche può risultare piacevole ed affascinante, ma che va letto "oltre le righe" per non arrivare a considerarlo un frivolo ed inconcludente fumetto in prosa. "Baie, balle e bibbie dei miei cogliomberi. Comunque ho unto la giuntura dei miei ginocchi col suddetto sudore della mia fronte e così, edenico e adamico, mi guadagno il pane. Fra pochi minuti mi vedrete in azione; ma, attenti! Non vi fate imbrogliare, quello che sto per presentarvi non è un semplice slip-tease, bensì arte! Arte coll’A maiuscola, occhio alla penna! Arte con quattro lettere e le parole di quattro lettere sono incontestabilmente superiori sia alle parole di tre lettere (che trascinano tante volgarità giù per la maestosa correntìa della lingua francese) sia alle parole di cinque lettere che altrettante ne menano".
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Banale e frettoloso
Antesignano del genere letterario gotico, questo libro di Horace Walpole pubblicato nel 1764 ed ambientato in pieno medioevo, pur avendo in sè tutti gli elementi che caratterizzano le grandi opere, non rappresenta certo una lettura imperdibile né tantomeno indimenticabile. Amori contrastati, cavalieri senza macchia, donzelle virtuose se la vedranno con intrighi di potere, tiranni usurpatori, efferati fatti di sangue, il tutto condito da una prosa forbita, da atmosfere tetre e surreali sulle quali aleggiano le ombre di antiche ed implacabili profezie e da misteriosi ed inspiegabili eventi soprannaturali. Siamo all’interno delle mura del bellissimo castello di Otranto e un oscuro omicidio rovina quello che avrebbe dovuto essere un gran giorno di festa. Questo truce evento scatena un inarrestabile effetto domino che si concluderà con l’immancabile vittoria dei buoni ma non prima che altro sangue innocente venga versato. Si potrebbe pensare di essere di fronte, se non ad un capolavoro, per lo meno ad un romanzo di grande spessore. Invece ci si accorge, già dalle prime pagine, che non è così. La trama appare subito abbastanza banale e prevedibile, mancano suspance e colpi di scena e campeggia dalla prima all’ultima pagina un’eccessiva aura di buonismo rotta soltanto dalla malvagità dell’unico personaggio negativo della storia sul quale sembrano caricati tutti i difetti e i vizi del genere umano. Il ristretto numero di pagine fa sì che gli eventi vengano narrati in maniera poco accurata, con una fretta eccessiva che dà un po’ un’idea di superficialità e non consente al lettore di appassionarsi più di tanto alla vicenda. Se allo spiccato buonismo e ai tempi ristretti aggiungiamo che l’ambientazione rimane circoscritta alle mura del maniero ci rendiamo presto conto che più che ad un romanzo sembra di essere di fronte ad un’opera teatrale per bambini. Certamente bisogna ammettere che nel giudicare questo libro bisogna tenere conto anche e soprattutto del momento storico in cui è stato scritto e pubblicato. Da questo punto di vista il giudizio potrebbe cambiare in positivo, soprattutto in virtù del fatto che, come detto all’inizio, si tratta di una vera e propria novità per l’epoca e rappresenta un punto di partenza per un genere che ha poi avuto ed ha tuttora notevole successo. Le sue virtù, tuttavia, potrebbero davvero essere tutte qua.
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Una nazione allo sbando
Attraverso gli occhi del ventenne Johnny, studente universitario e giovane recluta del corso per ufficiali del Regio Esercito, Fenoglio racconta il disfacimento di un’intera nazione impantanata in una guerra insensata e alle prese con un regime fascista arrivato ormai al capolinea. In questo momento delicato, il nostro protagonista è alle prese con il duro addestramento e con la pesante quotidianità della vita militare, in cui la difficile coabitazione tra gente proveniente da ogni parte dello Stivale e di ogni estrazione sociale dimostra quanto ancora sia lontana la vera unità all’interno del Paese. Ma le divisioni non mancano neanche a livello politico, la fiducia nel Duce e in ciò che rappresenta è al minimo storico e, a parte qualche “fascistello” che ancora ci crede, “la stragrande maggioranza era afascista, i pochi restanti antifascisti, distribuiti tra settentrionali e meridionali; con questa sostanziale differenza: che per gli anti del Sud i fascisti erano buffoni, per gli anti del Nord criminali.” Per le reclute, ancora lontane del poter essere impiegate al fronte, la vita scorre noiosa fino al fatidico 8 settembre 1943: l’armistizio segna un punto di non ritorno, negli ambienti militari la disorganizzazione e l’incertezza regnano sovrani, la rassegnazione è il sentimento più diffuso e porta ad una inqualificabile arrendevolezza nei confronti degli ex alleati tedeschi. In una nazione divisa, la scelta è restare in un esercito allo sbando o disertare ed unirsi ai ribelli partigiani. Johnny, disgustato e ormai senza fiducia né speranza, vorrebbe soltanto tornarsene a casa ma, ad un passo dalla meta, il suo orgoglio, il suo amore per la Patria, la sua rabbia, lo porteranno ad imbracciare di nuovo le armi. Fenoglio, in poche pagine, riesce ad unire il rilevante valore storico e politico di un’opera che rappresenta una testimonianza importante di uno dei periodi più difficili del nostro paese alla qualità letteraria, regalandoci una lettura al tempo stesso interessante e piacevole. L’autore usa uno stile per lo più sobrio ma si diverte a sfoggiare neologismi e frasi dissacranti nei confronti della retorica e della fraseologia fascista e ad affiancare alla lingua italiana brevi interludi in inglese. Se il sarcasmo gioca un ruolo fondamentale in quest’opera, a risaltare sono le amare e provocatorie riflessioni sulla superficialità, sull’indolenza, sulla negligenza di un popolo che vuole difendere i propri confini con cannoni finti, che si arrende nonostante la netta superiorità numerica, che quando le cose si mettono male si fa annientare dal panico, dalla confusione, dalla paura. “Attraversarono la borgatella, muta e sprangata, solo una gelosia si scostò mostrando una esangue corolla di visi di ragazze, che fissarono tragicamente i soldati, i disgraziati uomini della generazione dalla quale avrebbero estratto i loro sposi e amanti”.
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Un rettile divora l’altro
Quattro fratelli dai caratteri diametralmente opposti alle prese con un padre lontanissimo dal prototipo di genitore modello. Dmitrij è il maggiore, frutto del primo matrimonio, passionale, irrazionale e peccatore. Ivan è il secondogenito, colto, lucido, freddo, nato da seconde nozze così come Aleksej, il terzo, mistico, timido e immacolato. Infine Smerdjakov, figlio illegittimo cresciuto nell’izba della servitù, epilettico, disadattato, imperscrutabile. Fedor Pavlovic Karamazov è il padre che nessun figlio vorrebbe mai avere. Degenerato, avido, lussurioso, intrigante e completamente disinteressato ai propri figli, tanto da metterli al mondo ed affidarli alle cure di servi, lontani parenti e di chiunque capiti sulla loro strada e dimostri un minimo di interesse nei loro confronti. Vissuti sempre lontani gli uni dagli altri, i cinque si ritrovano ad un certo punto a vivere tutti nella città natale. Le differenze di carattere, il risentimento, le divergenze d’opinione porteranno la situazione a precipitare in modo inevitabile, e quando si metteranno in mezzo donne e denaro la spirale diventerà sempre più vorticosa fino a stringersi in un tragico ed ineluttabile epilogo. Con la sua penna sublime Dostoevskij crea un clima cupo e spietato, in cui alla tragedia principale si uniscono quelle personali che ogni personaggio porta con sé e che l’autore sviscera con il suo solito talento impeccabile nel riuscire a scavare nelle profondità dell’animo umano, presentando al lettore storie coinvolgenti ed emozionanti e profili psicologici precisi ed affascinanti. Oltre ai cinque protagonisti già citati, spiccano da questo punto di vista le due principali figure femminili del romanzo, la fiera, dolce e leale Katerina Ivanovna e la passionale, eccessiva, incontrollabile Grusenka. Da segnalare anche il mite starec Zosima, il dolce e sfortunato Iljusa, l’intelligente Kolja ed il fedele Grogorij. Capolavoro assoluto di livello mondiale, I fratelli Karamazov racconta quello che all’unanimità è definito il “parricidio più celebre della storia della letteratura”, unendo al racconto appassionante di una sconvolgente faida familiare lunghe ma interessanti riflessioni di carattere psicologico, sociale e spirituale che vertono attorno a temi che da sempre attanagliano l’animo di tutti gli uomini. Chi infatti non ha mai sentito dentro di sé la perenne lotta tra il bene e il male, tra la follia e l’equilibrio, tra la passione e la razionalità? Chi non ha mai avuto l’animo diviso tra ragione e misticismo, tra virtù e peccato, tra la ricerca di Dio e la sua negazione? Chi, da una parte o dall’altra non si è mai trovato ad essere protagonista dell’inevitabile scontro generazionale tra padri e figli? “«Certo che ho la testa a posto…una testa abietta come voi, e come tutti questi…grugni!» si voltò tutt’a un tratto verso il pubblico. «E’ stato ucciso un padre e loro fingono di averne orrore» disse, digrignando i denti con un disprezzo furioso. «Si fanno le smorfie l’un l’altro. Bugiardi! Tutti desiderano la morte del proprio padre. Un rettile divora l’altro…Non ci fosse stato un parricidio, si arrabbierebbero tutti e se ne andrebbero infuriati…Che spettacolo! Pane e spettacoli! Del resto anch’io sono buono! Avete dell’acqua o no? Datemi da bere, in nome di Cristo!»”
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L’atavica diatriba tra vendetta e perdono
Immaginate di essere ad un passo dal realizzare i vostri desideri, dall’affermarvi nel lavoro, dal legarvi per sempre alla persona amata, dal poter dare tranquillità ai vostri cari. Immaginate che proprio nel momento più bello della vostra vita i vostri castelli crollino all’improvviso senza un motivo comprensibile e voi vi ritroviate con un pugno di mosche in mano, soli e senza prospettive. E’ proprio quello che succede a Edmond Dantès, protagonista di questo favoloso romanzo di Alexandre Dumas. Il nostro eroe infatti vive un momento magnifico, sta per sposare la sua bella catalana Mercedes e per essere nominato capitano del Pharaon, la nave su cui presta servizio da anni. Ma, è risaputo, i successi di un uomo possono suscitare invidia e avversione nella persone che lo circondano e che vedono, proprio a causa del trionfo altrui, capitolare i propri sogni e le proprie aspettative. Ecco quindi che il povero Dantès diviene vittima di un complotto ordito dai suoi rivali e aggravato dalla malafede di un magistrato. Senza neanche sapere di cosa è accusato, il ragazzo viene arrestato e rinchiuso nel Castello d’If, una famigerata prigione in mezzo al mare dalla quale, una volta entrati, non si esce più. La rabbia, l’impotenza, l’impossibilità di conoscere le cause che lo hanno portato in cella producono in Edmond un comprensibile turbamento che lo porta ora ad allontanarsi da Dio, ora a cercarvi rifugio, ora a desiderare la morte, ora a voler vivere nella vana speranza di essere liberato. La solitudine, lo sconforto, la frustrazione attanagliano l’animo del malcapitato, finchè un giorno entra in contatto con un altro detenuto, un abate ritenuto pazzo, che cambia completamente la sua vita. Tra i due nasce un’amicizia fortissima e il frate, persona di grandissima cultura e intelligenza, trasmetterà al giovane tutto il suo sapere, gli darà l’occasione per evadere e le indicazioni per trovare un tesoro favoloso. Dopo quattordici anni di detenzione, Dantès riuscirà a lasciare il Castello d’If e tornerà nel mondo civile ricco, colto e assetato di vendetta. La voglia di rivalsa, la rabbia per ciò che ha perduto, il desiderio di farla pagare ai responsabili della sua malasorte, faranno sì che Edmond, che da ora in poi si farà chiamare Simbad il marinaio o Conte di Montecristo, si sentirà investito da una sorta di potere divino e si trasformerà in un ambasciatore della Divina Provvidenza, pronto a restituire il bene a chi lo merita e a punire chi, fin qui, non ha fatto altro che seminare il male. Ma nel compiere la sua opera, il protagonista si renderà conto di quanto illusorio, evanescente e inutile sia il senso di appagamento che deriva dalla vendetta e si troverà costretto a confrontarsi, in un impietoso faccia a faccia, con la propria coscienza. Alexandre Dumas architetta una trama intricata quanto avventurosa, proponendo una storia mozzafiato ricca di colpi di scena, di situazioni drammatiche e di parentesi poetiche. Numerose sono le citazioni letterarie e i riferimenti storici, notevole l’introspezione psicologica del protagonista ma anche degli svariati personaggi che entrano nella storia. Il machiavellico piano di vendetta del Conte viene svelato solo alla fine e solo allora tanti particolari che apparivano di poco conto, tante storie che fino a quel punto potevano sembrare minori e fuori dal contesto, tanti personaggi ritenuti marginali dimostreranno tutta la loro importanza. L’autore inoltre traccia un preciso ed interessante ritratto storico di una Francia di inizio Ottocento ancora scossa dagli strascichi della rivoluzione e divisa tra illuministi, sostenitori della Restaurazione e nostalgici bonapartisti, puntando il dito sui vizi, i peccati e l’avidità della società dell’epoca, società da cui lo stesso protagonista prende ripetutamente le distanze preferendo richiamarsi ad una cultura orientale diametralmente opposta a quella francese, cui si avvicina soltanto per realizzare il suo piano di vendetta e da cui subito dopo si discosta. Avvelenamenti, fughe, duelli, dissertazioni filosofiche, amori traditi e amicizie indissolubili, niente manca a quest’opera che da circa due secoli appassiona e tiene con il fiato sospeso milioni di lettori e che, al di là del lato avventuroso, ha il merito di accendere un dibattito morale sul sottile confine che divide il concetto di giustizia dal desiderio di rivincita, nonché di proporre una profonda riflessione sull’atavica e perenne diatriba tra vendetta e perdono che da sempre divide e affligge l’animo umano.
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Una fantomatica ricerca di se stessi
Lui, lei e l’altro tra le sabbie del Sahara. Port Moresby e la moglie Kit vagano per il Nordafrica accompagnati dall’amico George Tunner, in un viaggio senza meta e senza limiti di tempo che li differenzia dai comuni turisti, pronti a tornare a casa in capo a qualche settimana. Loro invece si definiscono viaggiatori, perché non appartengono a nessun luogo, non hanno fretta e non hanno obiettivi precisi. Il gruppo si muove secondo un itinerario stabilito alla giornata, tra sabbia e insetti, tra città fatiscenti e culture diametralmente opposte, trovandosi coinvolto in un intreccio di amore e tradimenti, di noia e diffidenza, di fatalismo e insoddisfazione. La coppia attraversa un momento di profonda crisi, l’indifferenza sembra aver preso il posto dell’amore, la presenza del terzo incomodo pare essere studiata apposta per dare una svolta alla situazione. Ma la svolta arriverà da un’altra parte e sarà la morte a portarla. Port sarà stroncato da un letale attacco di febbre tifoidea e questo evento scatenerà in Kit un turbine di sentimenti contrastanti che la porterà a vivere con arrendevolezza e confusione una serie di tragiche avventure. Le atmosfere magiche del Magreb, le distese sabbiose bruciate dal sole, la brillante idea, tipicamente Beat, del viaggio senza meta sono gli elementi di maggior interesse in un libro che fatica a catturare il lettore con una trama poco coinvolgente e personaggi che, crogiolandosi nella noia, nell’ozio, nella passività, non riescono a trasmettere la giusta empatia. Non aiuta di certo, in questo senso, l’atteggiamento dei tre protagonisti e degli altri occidentali che entrano nella storia, di rifiuto, avversione, totale diffidenza nei confronti della cultura del luogo, le continue lamentele riguardanti il cibo, le condizioni sanitarie, l’indole delle popolazioni indigene. Tanto che viene da chiedersi: come mai non sono rimasti a casa loro? Lo stesso autore, pur ambientando l’intero libro in terra magrebina, non approfondisce mai neanche il più banale aspetto delle tradizioni e della civiltà del mondo arabo, concentrandosi soltanto sui caratteri occidentali di protagonisti snob e viziati che sembrano viaggiare, vivere, amare soltanto per inerzia, con un’indolenza e un’apatia deplorevoli, impegnati in una fantomatica ricerca di se stessi che non li porta da nessuna parte. “«Pensavo che la vita fosse qualcosa che andasse via via acquistando slancio. Anno per anno sarebbe diventata più ricca e più profonda. Uno imparava sempre più, diveniva via via più saggio, aveva maggiori capacità di introspezione, si addentrava sempre più nella verità…». Esitò. Port rise bruscamente. «E ora sai che non è così. Vero? E’ piuttosto come fumare una sigaretta. Le prime boccate hanno un sapore meraviglioso, e non pensi nemmeno che possa mai esaurirsi. Poi cominci a darlo per scontato. D’improvviso ti rendi conto che si è consumata quasi tutta, e proprio allora ti accorgi che in fondo sa di amaro»”.
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Una verità che nessuno vuole ascoltare
Dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri, Susan Abulhawa ripercorre, attraverso quattro generazioni, la storia di una famiglia palestinese che è la storia di un popolo umiliato, defraudato, violentato, torturato, trucidato in nome di una sudicia e dissennata legge di compensazione, sotto gli occhi indifferenti e compiacenti di un Occidente che si dimostra sempre più forte con i deboli e debole con i forti. Si parte dal 1941 ad ‘Ain Hod, un pacifico villaggio ad Est di Haifa che vive tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole. La famiglia Abulheja, guidata dal patriarca Yehya Muhammad, trascorre un’esistenza serena traendo sostentamento da una terra fertile, generosa e ricca di tradizioni secolari. Ma da quando in Europa si è conclusa la Seconda Guerra Mondiale, l’aria in Palestina diventa sempre più pesante. Ebrei scampati alla Shoa si riversano nel Paese spinti dalla rabbia e dalla paura e fomentati da pericolosi sentimenti sionisti. Il progetto di pacifica convivenza si rivela ben presto un’utopia e cede il passo alla violenza, alla prepotenza, al sangue. La lotta è impari, da un lato c’è un popolo povero, praticamente disarmato e abbandonato a se stesso; dall’altro uno ricco, armato fino ai denti e appoggiato da influenti potenze. Il risultato è scontato e per Yehya Abulheja e la sua famiglia non ci sono molte alternative: o fuggire o sottostare alla legge del nemico. Ma lasciare la propria terra non è semplice, a maggior ragione quando si viene cacciati con la prepotenza e l’ingiustizia. Ecco quindi che per i protagonisti si aprono le porte del campo profughi di Jenin, con le capanne di paglia e fango donate dall’ONU come squallido e ridicolo risarcimento per il sangue versato e per la terra perduta. Una vita da reclusi in casa propria, soggetti a regole imposte con la forza, con un cecchino sempre pronto a premere il grilletto, ad osservare nella totale impotenza stranieri che si comportano come se fossero sempre stati i padroni. In queste condizioni scorre la vita della famiglia Abulheja e, tra paura e umiliazione, tra morti e violenze, c’è anche il tempo per la speranza, per il ricordo, per l’amore. C’è un uomo sparato alle spalle per aver osato cogliere un frutto da quello che era sempre stato il suo albero, ci sono due fratelli che si ritrovano a combattere contro, donne che impazziscono per il dolore, altre violentate e sventrate con una vita ancora in grembo. Ci sono memorie incancellabili di albe poetiche e di abbracci affettuosi, speranze tradite e diritti calpestati, famiglie che nascono e crescono tra massacri e sofferenze, legate da sentimenti più forti di qualsiasi odio o ingiustizia. C’è chi resta e combatte, chi resta e subisce, chi va via e poi ritorna, chi va via e non ritorna più. C’è un libro che tocca nel profondo, che racconta vicende che colpiscono dritte e brutali come un pugno nello stomaco. C’è una storia romanzata che sembra avere molto di autobiografico e che coinvolge e appassiona per l’umanità dei personaggi e la dolcezza della prosa. C’è una storia vera, la storia di un popolo a cui è stato tolto tutto raccontata dal punto di vista dei più deboli. C’è una verità da urlare al mondo ma c’è un mondo che questa verità non vuole ascoltarla, un mondo che confonde vittime e carnefici, che chiama “operazione di pace” una forza d’attacco di novantamila uomini e parla di “terrorismo” quando dei ragazzini lanciano pietre contro dei carri armati. Non ci sono “giornate della memoria” per un eccidio senza precedenti che continua ancora oggi nella più totale indifferenza, non ci sono risoluzioni delle Nazioni Unite capaci di fermare l’orrore, non ci sono occhi che vogliano vedere né orecchie che vogliano sentire. “«Avete paura che il mondo veda quello che fate ai bambini?» «Zitta. Ti ammazzo qua su due piedi, se no» la minacciò lui alzando il fucile ma, stranamente, con un sorriso sul volto. Imperturbabile, la suora rispose: Spara. Non siete diversi dai nazisti che volevano impedirmi di prendermi cura degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale».”
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Il dolore acuto dei ricordi
Un capezzale, un corpo divorato dalla cancrena, la voce di un vecchio incattivito dalla vita e dalla malattia che detta la sua biografia ad uno scrittore di fama e talento. Tristano, questo è il nome dell’io narrante, racconta sprazzi di un’esistenza divisa tra l’amore e la guerra, tra passioni travolgenti e nemici da combattere, fino all’ultima sfida, la più difficile, quella dura e spietata con la malattia e con la morte. Tristano, italiano eroe della Resistenza Greca, capace di far fuori da solo un intero plotone di soldati tedeschi, guidato dal coraggio e dal sangue freddo, ispirato da ideali di libertà e giustizia. Ma ben presto il nostro protagonista si rende conto che le idee per cui ha lottato sono state tradite, che la ricostruzione dalle macerie della guerra non è andata come lui e molti dei suoi compagni sognavano, che in fondo in questi casi si fa sempre e soltanto una cosa: si sostituisce un dittatore con un altro dittatore. “Gli inglesi e i loro cuginetti hanno due democrazie, quella buona, per consumo interno, e quella avariata rimasta a muffire nei magazzini del tempo, è quella da esportare, adatta ai popoli poveri, tanto i poveri digeriscono tutto”. Tristano detto Clark, per il suo fascino e per quella pettinatura che lo fanno assomigliare a Clark Gable, che ha tutte le donne ai suoi piedi ma soltanto una nel cuore, Daphne, che lui chiamava Mavri Elià per i suoi grandi occhi simili a due olive nere. Di questa donna però l’eroe non parla volentieri, vuole tenere tutto per sé il sentimento che lo ha unito al suo grande amore. Parla invece di Marilyn, una ragazza americana anche lei impegnata nella Resistenza che lui chiama Rosamunda in ricordo di un pezzo di Schubert, o più raramente Guagliona. Un rapporto travagliato, una grande attrazione carnale, un intrico di tradimenti e scorrettezze, un continuo perdersi e inseguirsi che sembra non portarli da nessuna parte. La voce del protagonista è sempre più fievole, il suo racconto sempre più sconnesso, la sua rabbia nei confronti del sistema sempre più accesa, le sue riflessioni sulla storia, sulla politica, sulla condizione dell’uomo sempre più amare. Al dolore provocato dalla malattia si aggiunge quello forse ancora più acuto dei ricordi, dei fantasmi, dei rimpianti, delle delusioni, di quella verità che dimostra quanto è labile il confine tra l’essere un traditore o un eroe, tra lottare per una causa comune o combattere guerre personali. Tristano si rende conto che nella sua vita avventurosa ha pensato di aver conosciuto la paura ma che quella non era vera paura: “…la vera paura è un’altra, quella era una paura da poco, perché aveva il privilegio dell’aleatorio, poteva andargli male, ma poteva anche cavarci le gambe… La vera paura è quando l’ora è fissata e sai che sarà inevitabile… è una strana paura, insolita, si prova una volta sola nella vita, e non si proverà mai più, è come una vertigine, come se si spalancasse una finestra sul niente, e lì il pensiero si annega davvero, come se si annientasse. E’ questa la vera paura…”
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Il piacere e la passione per la letteratura russa
Nella Berlino degli anni Venti seguiamo le vicende personali del giovane immigrato russo Fedor Kostantinovic Godunov-Cerdyncev, alle prese con i suoi primi passi nella poesia e nella letteratura, con i primi sentimenti amorosi e con il fantasma di un padre scomparso che ha lasciato nella sua anima un vuoto incolmabile. Proprio a lui, Kostantin Godunov-Cerdyncev, famoso entomologo ed avventuroso esploratore, Fedor vorrebbe dedicare la sua prima opera in prosa, dopo il modestissimo successo del suo volume poetico d’esordio. Ma il protagonista si perde un po’ troppo tra ricordi nebulosi ed insensate fantasticherie, finendo per abbandonare il progetto e dedicarsi a tutt’altro, cioè ad un saggio su Cernysevskij, scrittore e filoso russo tra i leader del movimento rivoluzionario del 1860. La sua opera non incontrerà i favori di editori e critica ma il protagonista potrà contare sull’amore e sulla stima incondizionata della bella e premurosa Zina che lo sosterrà e incoraggerà aiutandolo nel difficile passaggio dalla giovinezza all’età adulta. Questo libro di Nabokov è un’opera molto particolare e certamente di non facile lettura. Per comprenderne appieno il valore ed il significato si deve andare ben al di là di una trama che di per sé non sembra avere molto da dare o da dire, leggendo tra le righe e spingendosi verso un’interpretazione che tenga conto del periodo storico e del pensiero politico dell’autore. Nabokov gioca con le parole mettendole al servizio di una satira che tende a sviscerare la sua personale ed incrollabile critica verso tutto ciò che accadeva in Patria, senza tuttavia voler nascondere la sua malinconica e tormentosa nostalgia per il suolo natio. L’autore si spinge anche a mettere in ridicolo alcuni comportamenti e modi di pensare della società in cui si ritrova a vivere da esule, indirizzando le sue frecciatine sia verso il suo Paese ospitante che verso i suoi connazionali che, come lui, si sono visti costretti ad allontanarsi dall’amata Russia. Ma le riflessioni forse più importanti e profonde Nabokov le propone a livello letterario, mettendo in evidenza la sua idea di letteratura essenzialmente al servizio del bello, fine a se stessa, contrapponendola ad una concezione di arte piegata all’impegno civile, sociale e politico, prendendosi gioco di una classe intellettuale che vuole cambiare il mondo attraverso le pagine di un libro ma che, gira e rigira, si perde sempre e soltanto dietro interessi futili e materialisti. Puskin, Turgenev, Nekrasov, Tolstoj, Dostoevskij, Gavrilovic sono i veri protagonisti di un romanzo che forse soltanto attraverso una profonda e capillare conoscenza della letteratura russa può essere compreso pienamente ed apprezzato fino in fondo, ma che lascia un bel ricordo e rappresenta una piacevole lettura anche per chi, come me, ne ha una conoscenza lacunosa e superficiale ma vi si approccia con il piacere e la passione di un accanito lettore.
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Un baccanale di erotismo e spiritualità
In un carnevale di suoni e colori, in un’orgia di danze e profumi, in un guazzabuglio di cachaca e birra gelata, Amado fonde religione, stregoneria e folklore proiettandoci in una Bahia in cui è impossibile distinguere la virtù dal peccato, la realtà dal sogno, il giusto dall’ingannevole, dove santi cristiani e dèi pagani si confondono fino a diventare un tutt’uno ed intercedono nella vita dei mortali cambiandone la storia, il corso, il destino. In un Brasile calpestato da una dittatura che vorrebbe soggiogare il popolo a rigide regole di obbedienza, silenzio, violenza ed arbitrio, ci pensano gli Orixa a spegnere il fuoco del dispotismo e lavare via la sottomissione e la paura. Ecco allora che Santa Barbara sbarca nel porto della città brasiliana sotto forma di scultura, una statua bellissima e famosissima che la ritrae con un fascio di fulmini in mano, per essere esposta in una prestigiosa mostra di arte sacra. Ma appena la nave che la trasporta attracca, la santa prende vita, saluta tutti e va via sulle proprie gambe trasformandosi poi nella potente Oyà Yansà, “il cui grido di guerra accende crateri di vulcano sulla cima delle montagne”, pronta a vendicare i torti subiti dalla sua gente. Entriamo allora nella vita della giovane Manela, innamorata del bel Miro ma succube della severa e puritana personalità della zia Adalgisa e del suo terribile scudiscio di cuoio. Conosciamo Danilo, marito di Adalgisa, ex campione di calcio e donnaiolo incallito castrato dalla pudicizia e dalla bigotta moralità della moglie. Incontriamo due preti molto diversi tra loro, il mite e colto don Massimiliano von Gruden, Direttore del Museo d’Arte Sacra, finito nei guai dopo la scomparsa della statua e il turbolento e marxista Padre Abelardo, convinto sostenitore della lotta e della resistenza dei bisognosi, sempre accompagnato dalla bella, prorompente e innamorata Patricia, pronta ogni momento a strappare il suo amore al voto di castità. Accanto a loro un nugolo di altri personaggi delle più svariate risme che si confondono in un baccanale di erotismo e spiritualità, tra passi di capoeira e riti pagani, pasti luculliani e sbronze sonore, gioia e allegria che si scontrano con le ineluttabili asprezze della vita e con la cappa di piombo del regime militare e di un perbenismo religioso di facciata. Qualche eccesso di tecnicismo sul funzionamento del Candomlé e un continuo ed un po’ confusionario saltare da un episodio all’altro non tolgono smalto alla consueta virtù della penna dell’autore che come sempre ci regala storie pregne di magia e significato costellate da personaggi affascinanti che incarnano la voglia tipicamente brasiliana di dire no a qualsiasi tipo di costrizione, di insensata moralità, di ipocrita preconcetto. “Il popolo aveva dato inizio al Carnevale, un mese e mezzo di trambusto e di follia, di festa ininterrotta, ché nessuno è fatto di ferro per sopportare l’anno intero le amarezze della vita, la miseria e l’oppressione, la disgrazia avvilente e incessante. Il dono di far festa malgrado tali calamitose condizioni, proprio ed esclusivo del nostro popolo, è un dono del Signore del Bonfim e di Oxalà: i due insieme non fanno che uno, il Dio dei brasiliani nati a Bahia”.
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C’è un Barnabo in ognuno di noi
Barnabo ama la montagna. Ama guardare il sole levarsi dalle grandi cime e vederlo tramontare dietro al Col Verde. Ama la casa dei Marden, con le vecchie travi marcite e le finestre che non si chiudono, l’intonaco scrostato e le tavole nere, il tetto che, stanco di contare le piogge e discutere con il vento, ha cominciato a slabbrarsi. Ama la vita del guardiaboschi, l’estremo contatto con la natura, i turni di guardia alla polveriera, le serate passate vicino al fuoco a raccontarsi vecchie storie. Ama quell’eterno vivere nella perenne attesa che arrivi qualcuno da un momento all’altro ma non arriva mai nessuno. Intanto le cime hanno lo stesso colore delle nubi e non cambiano mai. Ma alla fine qualcuno arriva, sono i briganti, e Barnabo non si fa trovare pronto, viene sopraffatto dalla paura, pietrificato dal panico. C’è poco da fare, quando un guardiaboschi non compie il suo dovere viene rispedito a casa, non c’è posto per i codardi. Ah se soltanto avesse osato, se avesse fatto fuoco sui nemici. Se avesse anche semplicemente provato a giustificarsi davanti al suo capo e ai suoi compagni. Invece la vergogna gli ha tolto ogni volontà. Allora non gli resta che ricominciare da capo, rifarsi una vita nelle campagne. Ma il suo pensiero è sempre lì ai monti, alla casa, ai compagni. Barnabo non riesce a dimenticare, non riesce a vivere lontano da ciò che ama. Ed ecco che dopo tanta attesa gli si presenta l’occasione per tornare, per riscattarsi, per riguadagnarsi il suo piccolo paradiso. Saprà essere pronto questa volta? E’ l’attesa la grande protagonista di questo breve romanzo di Buzzati che porta il lettore in mezzo a paesaggi incontaminati, tra cime battute dal vento, boschi misteriosi e silenzi interrotti soltanto dai suoni della natura. Una storia semplice ma ricca di metafore, raccontata da una penna delicata e fantasiosa e scandita da un tempo che scorre lento e sornione ma tuttavia inesorabile. Impossibile per il lettore non immedesimarsi nel protagonista, perché ognuno di noi è a suo modo come Barnabo, sempre in attesa di un’occasione, di un evento, di qualcuno o qualcosa che trasformi la nostra vita, che dia una scossa alla nostra esistenza, che ci dia la possibilità di riscattarci. E noi, quando l’attesa sarà finita, sapremo farci trovare pronti? “Barnabo ha rialzato il capo per ascoltare; è il suo cuore che batte oppure è il passo della sentinella fuori della polveriera? E’ stanco, un po’ addormentato, non riesce più a ricordare. Allora, come una volta, come nei tempi lontani, Barnabo prende il fucile e si avvicina alla soglia. Fuori c’è il grande silenzio e una pallida luce nel cielo tutto coperto. Le montagne sono nascoste ma si sentono vicine; sono immobili e solitarie, sprofondate nelle nubi”.
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Piccolo gioiello letterario
La spiaggia di Danzica fa da scenografia alle imprese adolescenziali di un gruppo di ragazzi alle prese con il periodo più delicato della vita, mentre fuori impazza una guerra drammatica e feroce. Nella comitiva spicca il singolare Joachim Mahlke, figlio unico orfano di padre, una strana scriminatura, una fortissima devozione per la Madonna, il sogno di diventare clown e oggetti di ogni specie appesi al collo per cercare di mascherare un titanico pomo di Adamo che gli ballonzola per la gola ad ogni movimento, tanto da sembrare un topo in eterna fuga da un invisibile gatto. “Ed ecco che un gatto grigio attraversa il campo, dritto come un fuso, verso la gola di Mahlke, e quando vede la gola di Mahlke, pensa il gatto: è un topo quell’affare che si muove, e il gatto salta…Ma no, è stato Pilenz che ha preso il gatto e gliel’ha – o non è così?” Le giornate scorrono scandite dai suoni dei bombardamenti e dai continui bollettini di guerra, i ragazzi del Conradinum dopo la scuola si ritrovano sulla spiaggia e da lì, a nuoto, raggiungono il Rybitwa, un dragamine semi-affondato a largo di Danzica. Qui, mentre gli altri passano il tempo a prendere il sole, a grattare sterco di gabbiano dalla carcassa del natante per poi assaggiarlo, a dedicarsi a gare di autoerotismo, Joachim dimostra il suo valore con ardite immersioni dalle quali torna portando con sé gli oggetti più disparati. Si spinge fino a scoprire una camera segreta che soltanto lui riesce a raggiungere e la trasforma in una sorta di personale rifugio con tanto di viveri, grammofono e foto della Vergine. Queste imprese gli permettono di guadagnarsi il rispetto e l’ammirazione del gruppo, ma non quella che può definirsi una vera e propria amicizia. Con la sua eccentricità, con il suo carattere introverso, con il suo rifiuto di uscire da quella sorta di mondo personale che si è costruito, Mahlke rimane sempre un diverso, un emarginato, un ragazzo che tenta di mettere al sicuro quella sorta di topo che è la sua anima da quel gatto crudele e spietato che rappresenta il mondo circostante. Tra una bricconata e l’altra arriverà anche per lui il momento di andare a combattere e anche al fronte il ragazzo saprà ritagliarsi uno spazio da protagonista. Ma il gatto senza scrupoli è sempre in agguato e il povero topo non sempre è in grado di difendersi. Secondo capitolo della “Trilogia di Danzica” questo breve libro di Gunter Grass racchiude in poche pagine un piccolo gioiello letterario che brilla per la vivacità della narrazione, per la bellezza della prosa, per la fervida e brillante ironia e per la capacità tipica dell’autore di mascherare con la simpatia l’amarezza di temi delicati come quelli della diversità, dell’incapacità di adattarsi, del bisogno di affermarsi per ciò che si è. La guerra, triste filo conduttore dell’intera trilogia, anche qui è una presenza continua nella storia e di tanto in tanto compaiono personaggi che fanno da protagonisti nel precedente “Il tamburo di latta” e nel successivo “Anni di cani”. Ma il protagonista assoluto della letteratura di Grass è quel bisogno innato, profondo, atavico di cercare e trovare un rifugio, uno scudo, un piccolo anfratto dove riuscire a nascondersi e proteggersi dal male che ci circonda. “Da quel venerdì so cosa è il silenzio: il silenzio che si allarga quando i gabbiani se ne vanno. E nulla sa suscitare tanto silenzio quanto una draga in funzione, alla quale il vento sottrae i rumori. Ma il silenzio maggiore lo provocò Mahlke, non rispondendo al mio chiasso”.
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Un Marquez insolito
Un paesino non meglio identificato di una Colombia in cui si è appena instaurato l'ennesimo governo di facciata, fa da cornice a questo insolito romanzo di Gabriel García Márquez. Le atmosfere oniriche ricche di pathos e magia a cui il grande maestro sudamericano ci ha abituato, in queste pagine lasciano il posto al realismo e alla denuncia sociale, senza tuttavia deludere il lettore dal punto di vista della qualità letteraria, dell'impatto emotivo e della trama. I consolidati meccanismi di una piccola comunità fluviale vengono stravolti da una serie di "pasquinate", ovvero da dei fogli appesi agli usci delle case con cui, in stile grezzo e sgrammaticato, si spifferano i segreti dei paesani. In realtà questi messaggi non svelano niente di nuovo, qui tutti sanno tutto di tutti. Tuttavia il gioco comincia a dar fastidio a molti e a mietere le prime vittime, tanto da convincere le persone più in vista del paese, l'alcalde, il giudice ed il prete, a rimboccarsi le maniche ed intervenire. I risultati saranno però molto scarsi, il responsabile non sarà facile da trovare perché, come dirà la maga Cassandra, l'autore delle pasquinate «E' tutto il paese e non è nessuno.» La soluzione del giallo tuttavia ha un aspetto marginale in quest'opera che punta invece a mettere in luce le magagne e le atrocità di un regime travestito da democrazia, in cui le elezioni sono pilotate, in cui i funzionari vedono i loro uffici per la prima volta a distanza di mesi dalla loro nomina, dove la giustizia si amministra in base agli interessi economici, la vita della povera gente vale meno di zero e gli ospiti delle prigioni vengono colpiti da misteriose ed inspiegabili "sincopi". Un cielo grigio e carico di pioggia si alterna a giornate afose che tolgono il respiro, aumentando il clima di oppressione. Il fetore di una vacca in decomposizione accompagna l'intera vicenda, unendosi alla metaforica puzza di marcio che viene fuori dai pubblici uffici. L'alcalde, subdolo e calcolatore, incarna alla perfezione l'idea del governante corrotto che con una mano dà e con l'altra toglie, che gestisce le regole a suo piacimento e nel suo esclusivo interesse ma si impegna a dimostrare che tutto funziona bene. Il giudice è il classico esempio di funzionario accidioso e assenteista la cui unica preoccupazione è quella di non essere disturbato. Il prete rispecchia quel clero a cui interessa soltanto il rispetto di una morale di facciata. " «Fino a quando continuerete a comportarvi in questo modo?» chiese l'alcalde. La donna parlò senza alterare la sua espressione mansueta. «Finché ci risusciteranno i morti che ci hanno ammazzato.» «Adesso è diverso» spiegò l'alcalde. «Il nuovo governo si preoccupa del benessere dei cittadini. Voi, invece...» La donna lo interruppe. «Sono gli stessi con le stesse...» «Un quartiere come questo, costruito in ventiquattro ore, era una cosa che prima non si era mai vista» insistette l'alcalde. «Stiamo cercando di fare un paese decente.» La donna tolse la roba pulita dal filo di ferro e la portò nella stanza. L'alcalde la seguì con lo sguardo finché giunse la risposta: «Questo era un paese decente prima che arrivaste voi.» Non aspettò il caffè. «Ingrati» disse. «Gli stiamo regalando la terra e si lamentano ancora.» La donna non ribatté. Ma quando l'alcalde attraversò la cucina per uscire in strada, mormorò curva sul focolare: «Qui sarà peggio. Ci ricorderemo ancora più spesso di voi, coi morti dietro il patio.»"
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Uno scoglio di Mala Speranza
La malattia, l'eterna lotta tra la vita e la morte, l'inevitabile resa, la voglia di amare e di amarsi nonostante tutto sono gli argomenti principali di questa bella opera di Bufalino. L'incedere lento della tubercolosi detta i ritmi del romanzo, la prosa barocca crea un'atmosfera cupa ma al contempo poetica, la bellezza degli assolati paesaggi siciliani ravviva l'aura di decadenza in cui sono invischiati i personaggi. Una sottile ironia pervade l’intero racconto, un sarcasmo dissacrante che sembra prendersi gioco delle velleità e delle speranze di noi poveri comuni mortali. La guerra è appena finita, ma ognuno, chi in un modo, chi nell'altro, ne porta addosso i segni. Siamo in un sanatorio nel palermitano, più precisamente nella bellissima Conca d'oro, nei mesi che seguono la fine del secondo conflitto mondiale. A capo della struttura sanitaria troviamo il Gran Magro, primario sui generis troppo dedito all’alcool e alla blasfemia per curare la propria cirrosi. Tra le mura della rocca si respira aria malsana, la malattia opprime il fisico e condiziona la mente, la falce del Tristo Mietitore è sempre in agguato. In mezzo allo stuolo di disperati in bilico tra la vita e la morte troviamo l’io narrante, un giovane reduce cui il freddo e gli stenti patiti al fronte hanno dilaniato i polmoni. In attesa che la tisi decida cosa farne di lui, il nostro protagonista si trascina stanco e sfiduciato di giorno in giorno, coltivando una singolare amicizia con il Dottore fatta di brindisi a base di Porto, partite a scacchi e bizzarre dissertazioni filosofiche e teologiche. L’entrata in scena della bella ed esangue Marta, ricoverata nel reparto femminile, scombinerà tutte le carte inserendo un nuovo fattore nella delicata partita tra la vita e la morte: l’amore. Ma come può un così dolce e nobile sentimento non trovarsi in totale contrapposizione con il senso di disfacimento e distruzione che pervade quella sorta di prigione che è il sanatorio? Come può la vita continuare a reclamare spazio in un corpo ormai martoriato da un “innominabile minotauro”? Cosa può sentire di essere un uomo davanti al disegno di un creatore “gaffeur”, “cavadenti”, “schiappa”, “garzone di mago” se non “un guardiano di faro scordato dagli uomini sopra uno scoglio di Mala Speranza”? “Fossi stato sicuro di non lasciarmi dietro a ogni passo le mie lumacature e polluzioni d’untore, non sarei rimasto a covare nel pagliericcio la febbre come una cimice, ma sarei sceso a consumarmi fra la gente, in fretta, ero troppo vigliacco per morire a rate. Questo nei primi mesi, poi alla esistenza smozzicata degli altri finii con l’assuefarmi, e dal loro consorzio non volli più disertare.”
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Un incubo latteo e vertiginoso
Un'automobilista fermo ad un semaforo, una luce rossa che vieta di passare, lo sguardo fisso in attesa del verde. Ad un tratto però tutto, automobile, strada, semaforo, il mondo intero, si riduce ad un solo colore: il bianco. Gli occhi dell'automobilista smettono di vedere, ma la sua cecità non lo fa precipitare in una fitta tenebra, bensì in un candido alone ovattato. È l'inizio di una terribile epidemia che si estenderà in poco tempo a tutto il mondo circostante, investendo l'intera umanità e mettendo in luce un'altra cecità del genere umano, ancora più terribile di quella che colpisce gli occhi: quella dell'anima.
"Penso che siamo già morti, siamo ciechi perché siamo morti, oppure, se preferisci che te lo dica diversamente, siamo morti perché siamo ciechi, il risultato è lo stesso". Soltanto una donna, per ironia della sorte moglie di un oculista, resterà immune da questo male. Le toccherà sobbarcarsi il pesante onere di essere l'unica testimone oculare della cloaca in cui si trasformerà tutto ciò che la circonda, ma sarà anche la custode della fievole fiammella di speranza che, ostinata, tarderà a spegnersi. Crudo e disilluso nei contenuti, brillante e coinvolgente nell'incidere del racconto, originale nello stile, Saramago getta il lettore in un incubo latteo e vertiginoso da cui è difficile uscire anche a distanza di giorni dal termine della lettura. Ad un handicap già di per se spiacevole come quello della cecità, si aggiunge l'abbandono da parte delle istituzioni. La paura dei sani di essere contagiati porta all'emarginazione, all'isolamento, all'abbandono di coloro che, mano a mano, perdono la vista. La quarantena si svolge in un regime di autogestione che tira fuori il peggio dell'animo umano. L'organizzazione, il senso civico, la decenza, il reciproco aiuto cedono il passo all'accidia, all'indecenza, all'egoismo, alla prepotenza, allo stupro del corpo e dell'anima. Non ci sono nomi, non ci sono luoghi, non ci sono date, l'autore lascia tutto indefinito quasi a voler mettere a nudo la natura umana sotto qualunque latitudine essa si trovi. Non esiste pietà, non c'è ombra di conforto, non esiste più ragione. Resta solo un po' di speranza, ma questo pallido sole sarà sufficiente a diradare la nivea e subdola nebbia che offusca gli occhi, le menti e i cuori?
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Il fascino arcano delle spezie
Dal banco della sua bottega di Oakland, Tilo dosa e dispensa sapientemente ai suoi clienti le più profumate e deliziose spezie, destinate a finire in piatti prelibati, dando loro quel tocco in più e facendo sentire un po’ di aria di casa ai tanti immigrati asiatici finiti in “Amrikah” a cercare una sorte migliore. Ma quella che gestisce la nostra protagonista non è una bottega comune, né comuni sono le sue mani, capaci di cantare alle spezie. Tilo è una maga, discepola prediletta dell’Antica, della prima Madre, la sua missione è quella di aiutare la gente attraverso i poteri, arcani e potentissimi, delle spezie. Eccola allora ad elargire cumino, neroblù e luccicante come le foreste del Sundarban, per allontanare il malocchio e sovrastare ciò che il fato ha scritto per l’amico Haroun. La vediamo spargere chiodi di garofano e cardamomo sbriciolati per aiutare Jagjit, vessato dai compagni e incompreso dalla famiglia, dandogli forza con un po’ di cannella, capace di procurare amici e di distruggere i nemici. La seguiamo mentre, con la potenza dei semi di finocchio, tenta di salvare la moglie di Ahuja dalla violenza e dalle umiliazioni di una vita matrimoniale da incubo. Per Tilo, però, ci sono dei confini invalicabili, delle regole ferree che le impediscono di superare certi limiti nel compimento della sua missione. Limiti che lei, tuttavia, non può fare a meno di valicare, spinta dal bisogno di fare l’impossibile per aiutare gli altri. La situazione precipita ulteriormente quando nella sua vita entra un uomo, Raven, accendendo un nuovo fuoco dentro di lei e risvegliando la sua voglia di vivere una vita normale. Ma quando Tilo decise di diventare maga imboccò una strada senza ritorno e l’unica via d’uscita per lei sono le fiamme ardenti del fuoco di Shampati. La magia di antichi riti, il fascino dell'Oriente, la delicatezza dei buoni sentimenti si confrontano con la dura realtà della vita da immigrato, con i pregiudizi, il razzismo, l'aggressività di chi ha dimenticato che la sua "perfetta democrazia" si fonda proprio sull'immigrazione, sull'usurpazione della terra e dei diritti altrui. Scene di violenza, anche domestica e di vite difficili si alternano ad atmosfere oniriche, a piccoli eccessi di buonismo e a qualche banalità di troppo che non intaccano comunque l'importanza dei contenuti e la piacevolezza della prosa. La nostalgia per la patria e le difficoltà ad adattarsi ad un mondo nuovo la fanno da padroni, ma c'è anche spazio per valori forti come l'amore, l'amicizia e l'altruismo. Il conflitto interiore che attanaglia la protagonista tra la consapevolezza del privilegio e dell’importanza di detenere un potere unico e la voglia di avere un'esistenza normale sembra risolversi, in un finale un po' scontato ma fortemente simbolico, con l'idea che, potere o no, il modo migliore di vivere la propria vita è quello di metterla al servizio degli altri.
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Un manto ipocrita
Siamo nella Sicilia degli anni Settanta, periodo di grandi turbolenze politiche e sociali. Un pittore, voce narrante di cui non conosceremo mai il nome, si imbatte per caso e per curiosità nell'Eremo di Zafer, un tempo fantomatico e mistico rifugio di un asceta cristiano, ora ambiguo albergo di proprietà della Chiesa. Incuriosito dalla notizia che in questo luogo stiano per convergere importanti personaggi della vita pubblica come ministri, presidenti, banchieri ed alti prelati e attirato dalla carismatica e misteriosa figura di don Gaetano, prete colto, intelligente e misterioso che gestisce l'hotel, il nostro protagonista decide di fermarsi lì per qualche giorno e di assistere, scettico e canzonatorio, agli esercizi spirituali che vi si svolgeranno. Capirà presto che per i pregevoli ospiti le pratiche religiose sono solo un ipocrita pretesto per incontrarsi lontano da occhi indiscreti e dedicarsi in tutta tranquillità ad intrallazzi di tutt'altra specie, da quelli economici a quelli politici, finanche a quelli carnali. Per qualcuno sarà addirittura l'occasione giusta per regolare alcuni conti in sospeso e, nel bel mezzo di un singolare e scenografico rosario, un colpo di pistola scatenerà un'inquietante serie di delitti che il prestigio, l'influenza e l'intoccabilità dei personaggi coinvolti lascerà senza soluzione.
Le interessanti dispute filosofiche, le continue citazioni letterarie e i tanti riferimenti a opere e pittori fanno da piacevole cornice a questo giallo atipico che, con grande stile letterario e con una sottile e tagliente ironia, mette in evidenza le magagne della società italiana. La politica è al servizio degli interessi economici, l'economia è in mano ai poteri forti, la religione è un manto ipocrita che copre e giustifica. Siamo nella cosiddetta "Prima Repubblica" eppure non c'è differenza con i nostri giorni. Ancora oggi sono all'ordine del giorno corruzione, abuso di potere, guadagni illeciti, connivenza tra alte cariche istituzionali e religiose, torbidi intrighi di sesso, denaro e potere coperti dall'ostentazione di alti ideali. Ogni giorno possiamo vedere politici con l'amante sotto il letto dediti a sfrenati bunga bunga che si fanno fotografare in prima fila al family day, strenui difensori del crocefisso nelle scuole che si indignano se il figlio di un immigrato nordafricano siede allo stesso banco del proprio pargoletto, porporati che risiedono in lussuosi attici e predicano povertà e carità, benpensanti che sbandierano valori cristiani ai quattro venti e che sparerebbero a vista verso dei poveri disperati che attraversano il mare su precarie imbarcazioni. "I delitti più efferati in cui mi sono imbattuto, i più razionali, i più difficili da scoprire, come anche i più folli e i più facili, sono stati quelli commessi da uomini e donne che avevano i ginocchi così» modellò come una grossa pagnotta «per lo stare dietro le balaustrate del coro e la grata del confessionale... E alcuni, si capisce, per sesso; ma la maggior parte, mi creda, per denaro; e quasi sempre per denaro da ereditare dal prossimo più prossimo»."
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Una penna critica, ironica, farsesca
La Russia della seconda metà dell’Ottocento è un calderone pronto a scoppiare. L’assetto societario sta cambiando, le classi povere cominciano un processo di riscatto dalla servitù della gleba che le ha soggiogate per interi secoli e nel paese circolano idee nuove e rivoluzionarie. D’altra parte l’aristocrazia, storica classe dirigente, continua a dimostrare i suoi limiti e la sua lampante incapacità di gestire la vita pubblica. In questo scenario si inseriscono, come schegge impazzite, uomini senza scrupoli e senza ideali che si mascherano da rivoluzionari per creare scompiglio nella società. Tra questi troviamo Petr Stefanovic Verchovenskij, un nichilista sovversivo che si traveste da socialista millantando contatti con importanti cellule rivoluzionarie e che riesce a mettersi a capo di un gruppo di uomini, plagiandoli con impalpabili pretesti ideologici e costringendoli a commettere crimini atroci. Nella mente allucinata di questo pseudo rivoluzionario c’è l’obiettivo di raggiungere il potere ponendo come leader del suo improbabile movimento un altro nichilista, il carismatico, misterioso e affascinate Nikolaj Vsevolodovic Stavrogin. Ma tra i due i rapporti si altereranno e la situazione finirà per sfuggire loro di mano, precipitando in un abisso di nefandezze, di meschinità, di sangue e di demòni. Drammatico ma al contempo grottesco, dissacrante ed insieme mistico, storico ma per certi versi attualissimo, il libro del maestro Dostoevskij scava nei più profondi abissi dell’animo umano con quella capacità di introspezione e quel talento nel creare empatia tra lettore e personaggi che tanto hanno reso celebre il grande scrittore russo. L’elevato numero di personaggi chiamati in causa, le varie situazioni che si vengono a sovrapporre ed incrociare le une alle altre, i continui salti temporali rendono impegnativa e poco agevole una lettura che tuttavia viene allietata dalla bellezza dello stile, dalla spiccata ed arguta ironia e dall’importanza dei temi trattati. Straordinaria la capacità di descrivere la situazione storica e politica del momento, raccontandola e spiegandola attraverso un nugulo di svariati personaggi di ogni risma che rappresentano al meglio i vari strati della società dell’epoca, le diverse visioni del mondo, i vari e contrastanti ideali ed interessi che guidano le azioni di ognuno. Ma ognuno di loro nasconde un segreto, ogni gesto risulta mendace, ogni pensiero corrotto, ogni azione è volta ad ingannare gli altri. Non si salva nessuno, dal governatore all’ultimo dei servi, la penna critica, ironica, farsesca dell’autore ne ha davvero per tutti. Per chi per secoli non ha saputo usare il potere ed ha fallito per eccesso di inettitudine, di pigrizia, di stupida supponenza. Per chi il potere vorrebbe prenderlo a qualunque costo e si dimostra pronto a qualsiasi bassezza, al più squallido inganno, al più turpe reato. Per una classe intellettuale imbevuta di retorica e narcisismo, incapace di esprimere idee degne di nota, pensieri originali, opere di reale valore. Per gli strati più bassi che cercano il riscatto ma non fanno altro che continuare a rotolarsi nell’ignoranza, nel servilismo, nella bassezza morale. “Vedete, è esattamente come la nostra Russia. Questi demoni, che escono dal malato e entrano nei porci, sono tutte le piaghe, tutti i miasmi, tutte le impurità, tutti i demoni e i demonietti che si sono accumulati per secoli e secoli nella grande e cara malata, nella nostra Russia! Oui, cette Russie, que j’amais toujours. Ma una grande idea e una grande volontà la illumineranno dall’alto come quel folle indemoniato e verranno fuori tutti questi demoni, queste impurità, queste turpitudini, che già marciscono sulla superficie…e chiederanno di entrare nei porci. Anzi, forse ci sono già entrati!”
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Amore, ossessione, tragedia
L’attrazione diventa amore, l’amore ossessione, l’ossessione tragedia. La follia è la grande protagonista, ma chi è il folle? E’ Edgar, lo scultore uxoricida, genio e sregolatezza? O Stella, bella e triste, che chiede solo di sentirsi viva? Sarà per caso Max, troppo impegnato a curare la psiche degli altri per accorgersi dei suoi problemi? O Peter, con quella sua aria distaccata, impenetrabile, con la sua misteriosa vita privata? E se fossero tutti folli? Ma cos’è, infondo, la follia? Patrick McGrath cerca di spiegarlo attraverso un’opera a metà tra erotismo e psicanalisi, con uno stile leggero e scorrevole e senza appesantire la lettura con nozioni psicologiche troppo tecniche. L’introspezione dei personaggi, pur non essendo molto approfondita, basta a creare un quadro preciso della psiche di ognuno di loro e a comprendere i loro comportamenti e il modo in cui la mente umana in generale possa essere deviata da determinate esperienze o episodi. La storia segue un filone già visto ma non per questo risulta noiosa o scontata e non mancano certo i colpi di scena. Siamo nell’Inghilterra del secondo dopoguerra. Tra le mura di un manicomio criminale nasce un amore clandestino tra il detenuto Edgar Stark e l’affascinante Stella, moglie del vicedirettore dell’istituto, il dottor Max Raphael. Lui è un artista, uno spirito ribelle finito dietro le sbarre dopo aver massacrato la moglie per gelosia. Lei una donna trascurata dal marito e in cerca di nuove emozioni. L’attrazione fisica dà inizio ad un gioco pericoloso che sfocia in un dramma annunciato in cui a farne le spese sono un po’ tutti, dai due protagonisti al marito tradito, finanche alla voce narrante, il dottor Peter Cleave, lo psichiatra che segue Edgar ed è legato ai Raphael da una profonda amicizia. Ma a pagare più di chiunque altro è il piccolo Charlie, figlio di Stella e Max, vittima innocente della follia, delle ripicche e delle frustrazioni degli adulti. “Dentro di sé rivisse quel momento al sole, in cui si era resa conto che sarebbero andati a letto, perché ormai non si potevano più fermare. Era molto semplice: non farlo era impensabile. E quando capisci che non puoi più evitare, o rinviare, o ignorare una necessità, il rischio cessa di essere un deterrente. Stella cercò di spiegarmi questo.”
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La borghesia americana
Harry Angstrom, ex campione di pallacanestro giovanile conosciuto con il soprannome di Coniglio, si ritrova a quarantasei anni a fare un bilancio della propria vita. Le cose per lui si sono messe bene, la concessionaria del suocero di fatto è ormai nelle sue mani e la sua situazione economica sembra davvero invidiabile. A casa il rapporto con la moglie Janice è ormai recuperato, dopo anni turbolenti di reciproca infedeltà. Il nostro eroe dice la sua anche sui campi da golf, dove passa gran parte del suo tempo libero in compagnia di un’allegra combriccola. Il presente è roseo, così come rosee sembrano le prospettive future. I problemi invece, per lui, arrivano dal passato. Il primo si presenta con Annabelle, una ragazza che piomba in concessionaria e nella quale Coniglio sembra riconoscere il frutto di una vecchia passione extraconiugale. Per lui sarà impossibile non indagare disseppellendo una storia che sembrava ormai sepolta. Il secondo arriva con il ritorno a casa del figlio ventiduenne Nelson, un giovane insicuro e viziato con il quale Harry non ha mai avuto un buon rapporto. Le cose tra i due non si sistemeranno certo, anzi, la convivenza forzata porterà il conflitto generazionale ad un livello insanabile e il ragazzo tirerà fuori fantasmi del passato addossando al padre colpe reali e non. Sullo sfondo della storia gli Stati Uniti a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, un paese che risente degli effetti di una grave crisi petrolifera e di un’inflazione galoppante, con uno sguardo vigile su una politica estera condizionata da interessi prettamente economici e su quella interna caratterizzata da un senso di distacco e sfiducia verso il governo di Carter. Updike è molto abile nell’intrecciare le vicende private del protagonista con la situazione politica ed economica del paese, usando un tipico rappresentante della media borghesia americana per punzecchiare velatamente questa parte di società chiusa in un’esistenza in cui sembrano contare soltanto il guadagno e l’ostentazione di un certo tenore di vita, in cui le vicende del mondo contano nella misura in cui influiscono sul proprio tornaconto. Ma al di là del contesto in cui si svolgono le vicende, l’autore è molto abile nel raccontare sentimenti e punti di vista, sviscerando con grande sapienza temi delicati e di forte impatto emotivo come i conflitti tra genitori e figli, la gestione dei rapporti coniugali ed extraconiugali, le amicizie vere e quelle di facciata, la coscienza personale, l’amore, la rabbia, il perdono. Lo fa con uno stile particolare in cui discorso diretto ed indiretto si fondono e la semplicità della prosa viene spezzata da spunti di livello letterario più alto. Updike propone una storia convenzionale che si svolge in un contesto altrettanto convenzionale senza per questo cadere in banalità o facili cliché, restando arbitro imparziale degli avvenimenti che vengono raccontati con una sorta di apparente distacco, quasi di cinismo, abbandonandosi di tanto in tanto a sprazzi di maggiore enfasi che a volte, come nel delicatissimo finale, diventano dolci parentesi di empatica tenerezza: “Teresa scende silenziosa l’unico gradino che conduce al suo studio e gli depone in braccio quello che stava aspettando. Piccola visitatrice oblunga, imbozzolata, la bambina esibisce il profilo ai lampi di luce colorata che guizzano dal Sony, la minuscola cucitura senza punti di una palpebra chiusa e obliqua, labbra spinte in fuori sotto un naso arricciato come in segno di soave sdegno, sa di essere bella. Lo senti dalla curva del cranio che è femmina, si vede già dal primo giorno. Durante tutto questo tempo c’era lei che spingeva per arrivare qui, in braccio a lui, fra le sue mani, una presenza reale quasi senza peso ma viva. Ostaggio della sorte, desiderio del cuore, una nipote. Sua. Un altro chiodo nella sua bara. Sua.”
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Cronaca, filosofia e abuso di potere
Un cadavere senza testa viene ritrovato in un bosco alla periferia di Oporto. Il giovane Firmino, inviato speciale di un noto quotidiano di Lisbona, giunge sul posto per seguire il caso e sfruttarne la grande attenzione mediatica. Il ragazzo però ha ben altre aspirazioni che andare dietro ad efferati fatti di cronaca nera. Nei suoi progetti c’è la stesura di un saggio sull’influenza di Vittorini sul romanzo portoghese del dopoguerra. Tra l’altro, la città di Oporto non lo attrae per niente, timida imitazione della Londra vittoriana legata per lui a ricordi poco ameni di vacanze natalizie per niente piacevoli. Anche se contro voglia, Firmino si mette zelante al lavoro e si scontra fin da subito con una terribile realtà fatta di traffici di stupefacenti, di abuso di potere, di corruzione e violenza in cui è coinvolta una frangia corrotta della Polizia di Stato. Ad aiutarlo nell’indagine entra in scena il singolare avvocato Mello Sequeira, uomo di grande cultura ed intelligenza impegnato nella difesa gratuita di poveri, derelitti e diseredati. “Io difendo gli sciagurati perché sono come loro, questa è la pura e semplice verità. Della mia nobile casata utilizzo solo il patrimonio materiale che mi è rimasto, ma come i disgraziati che difendo credo di aver conosciuto le miserie della vita, di averle capite e anche assunte, perché per capire le miserie della vita bisogna mettere le mani nella merda, scusi la parola, e soprattutto esserne consapevoli. E non mi costringa alla retorica, perché questa è retorica a buon mercato”. Tra una congettura e un piatto di trippa, tra una disputa filosofica e una discussione letteraria, la collaborazione tra i due si trasforma presto in stima, rispetto, amicizia, sotto l’influsso della magia di una città che ben presto lo stesso Firmino imparerà ad amare. Il corso della giustizia invece sarà deviato dall’autorevolezza di poteri forti e il contrabbando, la tortura e l’omicidio saranno coperti da una maschera di finta legalità e dall’ipocrisia di discutibili medaglie al valore. Dal bellissimo incipit al favoloso finale, il libro di Tabucchi è un eccellente esempio di stile ed eleganza, in cui alla virtù della prosa si accompagnano il preciso ritratto storico e politico di una nazione e l’importanza e l’attualità dei contenuti. L’autore è bravissimo nel descrivere un Portogallo voglioso di lasciarsi alle spalle gli anni bui del regime di Salazar ma ancora incapace di esprimere una democrazia scevra da una mentalità dittatoriale che continua ad influenzare la vita dei cittadini ed il comportamento di governi e forze di polizia. Ma infondo non serve andare poi tanto lontano per trovarsi davanti a certi episodi. La storia di Damasceno Monteiro non può non riportare alla mente i casi nostrani ed attualissimi relativi alla morte di Federico Aldovrandi e di Stefano Cucchi, esempi di folle violenza e di abuso di potere che dovrebbero essere lontani anni luce da una società che si spaccia per moderna, civile e democratica e che invece ancora oggi ci troviamo tristemente a commentare.
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L’amore non esiste
“Soltanto noi uomini non lo sappiamo e non lo sappiamo perché non vogliamo saperlo; le donne sanno benissimo che l’amore più elevato, più poetico, come lo definiamo noi, non dipende dalle qualità morali, ma dalla vicinanza fisica e perfino dalla pettinatura, dal colore, dal taglio dell’abito…l’uomo mente quando parla di sentimenti elevati: a lui interessa solo il corpo, ecco perché perdona qualsiasi bassezza ma non perdona un abito fatto male, di cattivo gusto, di un brutto colore. Una civetta ne è conscia, ma qualsiasi ragazza innocente lo sa inconsciamente, come sanno gli animali.” In poche pagine Tolstoj demolisce il concetto di amore romantico e demonizza quello di amore carnale, smascherando i difetti di un rapporto tra uomo e donna pieno di imperfezioni e meschinità nascoste sotto una maschera ipocrita di virtù e felicità coniugale. L’amore non esiste, semmai si deve parlare di attrazione fisica, di bisogno carnale, di libido, un’impellenza sessuale che trasforma gli uomini in animali incapaci di controllare i propri istinti e rende le donne meri oggetti del desiderio, pienamente consapevoli del proprio ruolo di vittime ma anche della loro capacità di rendere gli uomini schiavi. L’unione dei sessi viene vista come una bestialità che soffoca la natura umana, un contratto di vendita con il quale una ragazza innocente viene offerta ad un depravato. Il fornicatore è trattato alla stregua dell’alcolizzato e del morfinomane, la sua fame sessuale lo trasforma in una bestia accecata dalla passione e pronta perfino ad uccidere. Lo sa bene il nostro Pozdnysev, uxoricida reo confesso, che durante un lungo viaggio in treno si sfoga con uno sconosciuto compagno di viaggio, raccontando la sua triste esperienza e, quasi a volersi giustificare in qualche modo, spiegando le ragioni che lo hanno portato a compiere il delitto. L’uomo, schiavo dei sensi e oppresso dalla gelosia, è prigioniero di un rapporto di reciproca avversione con la moglie che si aggrava di giorno in giorno e viene placato, di tanto in tanto, soltanto attraverso la loro unione carnale. L’ingresso in scena del musicista Truchacevskij e la particolare intesa che si verrà a creare tra lui e la moglie di Pozdnysev, alimenterà nel protagonista il germe del sospetto e lo spingerà a compiere un gesto estremo e drammatico. “Guardai i bambini, lei con i lividi sul viso e per la prima volta mi dimenticai di me stesso, delle mie ragioni, del mio orgoglio, per la prima volta vidi in lei un essere umano. E così insignificante mi apparve tutto ciò che mi aveva ferito, la mia gelosia e così significativo mi apparve ciò che avevo fatto, tanto che avrei voluto affondare il mio volto nella sua mano e chiedere: Perdonami!”
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Un’epica epopea
Attraverso tre generazioni, Mo Yan ripercorre uno dei momenti più turbolenti della millenaria e affascinante storia cinese, l’opposizione all’invasione giapponese nella prima metà del secolo scorso. Ma quello che il Nobel propone non è un vero e proprio romanzo storico, piuttosto l’epica epopea di una famiglia di produttori di vino travolta dagli eventi e divenuta, volente o nolente, protagonista esemplare della resistenza ai “diavoli”. La voce narrante, ultimo rampollo della suddetta dinastia, racconta le gesta dei nonni paterni e dei suoi genitori, ora affascinando il lettore con sprazzi di delicata poesia, di suggestiva tradizione, di incantevole romanticismo, ora mettendolo in apprensione con spaventosi episodi di inaudita violenza, con momenti di grande suspense, con un realismo spesso cinico e disincantato. Un ottimo equilibrio in cui, tra l’altro, non mancano momenti di riflessione filosofica, di critica politica e di dolce e amara ironia. Il racconto non segue un vero filo logico né una precisa sequenza temporale, la narrazione salta continuamente da un episodio ad un altro, in un turbine di flashback che tuttavia non infastidisce né rende difficoltosa la lettura. Siamo nel distretto di Gaomi, nella parte più orientale della Cina, una zona quasi abbandonata a se stessa da un governo centrale lontano e indifferente. La principale fonte di sostentamento per la gente del posto è il sorgo, un cereale che necessita di poche cure ma che, crescendo forte e rigoglioso anche su terreni non particolarmente fertili, si offre a diversi utilizzi, da quello alimentare a quello etilico, finanche a quello tessile. Le sconfinate distese di sorgo sono la principale, quasi unica, scenografia di un racconto che si svolge quasi interamente all’aperto e sono rotte soltanto dall’impetuoso scorrere del “dio fiume” Moshui. Si parte dalla tormentata storia d’amore tra la bellissima Dai Fengliang, costretta a sposare un ricco e lebbroso produttore di vino di sorgo, e l’irrequieto Yu Zhan'ao, da cui nasce Yu Douguan, padre del narratore. Zhan'ao, un portantino divenuto bandito, tira fuori Fengliang dagli orrori di un matrimonio indesiderato, ne diviene amante, dipendente, compagno, la abbandona per un’altra donna ma poi torna tra le sue braccia. “La nonna e il nonno si amarono in un campo di sorgo rigoglioso di vita; i loro spiriti liberi, incuranti delle convenzioni umane, aderirono l’uno all’altro ancor più strettamente dei loro corpi beati. Ararono le nuvole e seminarono la pioggia in quel campo di sorgo, arricchendo l’interessante storia della zona a nord est di Gaomi di un attimo di felicità. Mio padre fu concepito con l’essenza del cielo e della terra, fu il frutto di sofferenza e gioia intense.” Una bellissima parentesi romantica in un contesto crudele e spietato in cui la violenza la fa da padrona, tra migliaia di morti, punizioni corporali, torture e stupri. Zhan'ao diventa il temuto e carismatico Comandante Yu e, affiancato da Douguan, guida un folto gruppo di ribelli contro gli invasori giapponesi e i loro lacchè collaborazionisti, in quella che, oltre ad una guerra di resistenza, diventa anche una sorta di guerra civile in cui si formano diverse fazioni e il popolo cinese, incapace di far fronte comune contro il nemico, si ritrova diviso tra rossi, nazionalisti e banditi, gruppi tristemente in competizione e, spesso, in vera e propria battaglia tra loro. Non ci sono buoni, non lo sono neanche i cani, comunemente conosciuti come i migliori amici dell’uomo. L’odore del sangue che stalla nell’aria, i milioni di cadaveri disseminati nei campi e tra le rovine dei villaggi, risvegliano in questi animali istinti primordiali tutt’altro che amichevoli, portandoli in qualche modo ad entrare in guerra con l’uomo. Gli unici buoni sono il sorgo rosso e il fiume Moshui. Il sorgo che nutre, che dà l’ebrezza, che nasconde i vivi e dà sepoltura ai morti, rosso come il sangue che scorre, come la passione che brucia, come il fuoco che divampa in ogni dove, rosso come le labbra sensuali della bella Lian'er e come la volpe dalla lingua miracolosa. Ed il fiume, che disseta e dà fertilita, che scorre tra i fusti di sorgo raccogliendo cadaveri e lavando la terra del sangue versato, ma incapace purtroppo di lavare la coscienza degli uomini. “Gocce d’acqua argentee cadevano oblique sui fusti tremanti. Nei campi, sottili germogli di sorgo giallo chiaro, fioriti fuori stagione, si mescolavano ai vecchi fusti caduti, alla pioggia e alla nebbia. L’odore dei germogli verdi si mescolava all’odore di marcio dei fusti spezzati, al lezzo dei cadaveri, al fetore dell’urina e degli escrementi dei cani. Mio padre e gli altri avevano di fronte un mondo terribile, sporco, in cui prosperava una vitalità malvagia.”
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Quando il gioco sfugge di mano
Dai Templari alle logge massoniche, dai Rosa Croce ad Hiltler, passando per Gnostici, Cabalisti, Catari e Assassini di Alamut, Umberto Eco ci catapulta in un intricato viluppo di religione e cultura, di mistero ed esoterismo, di filosofia e superstizione, rivisitando con grande stile e con un’abbondante dose di sarcasmo le varie “teorie del complotto” e, in base ad esse, proponendo nuove chiavi di lettura per interi secoli di storia. La suspense da thriller e i tumulti da libro d’avventura si uniscono alla qualità della scrittura e al fascino degli argomenti trattati, nonché ad un aspetto prettamente umano non certo di secondo piano, sviluppato attraverso le esperienze presenti e passate dei tre protagonisti. Negli uffici della casa editrice milanese Garamond, Jacopo Belbo, Diotallevi e la voce narrante Casaubon sono alle prese con un singolare progetto editoriale volto a promuovere un nuovo filone letterario di carattere esoterico. L’obiettivo del trio è quello di creare curiosità in lettori, scrittori e appassionati di questo genere, reinterpretando a modo loro, nonché con una massiccia dose di fantasia, eventi storici, testi occulti, teorie e fantomatici complotti, riconducendo tutto ad un criptico “Piano” ordito da forze misteriose. Il gioco però finisce per sfuggire loro di mano e il limite tra realtà e finzione si rivelerà talmente sottile da diventare pericoloso. A queste macchinazioni e alle loro rocambolesche conseguenze si affiancano le vicende personali dei protagonisti: gli amori e gli studi di Casaubon, le manie e la malattia di Diotallevi, gli episodi d’infanzia ed i tormenti sentimentali di Belbo, avvicinano i tre personaggi al lettore, alleggerendo la lettura e rendendola più umana ed amena dopo pagine e pagine di misticismo, citazioni e rievocazioni sicuramente di grande spessore ma non sempre di piacevole lettura, spesso anzi ripetitive e poco interessanti. Alle vicissitudini dei nostri eroi fa poi da sfondo un’intrigante spaccato di storia italiana che va dalla Resistenza agli Anni di Piombo, passando per il Dopoguerra e il Sessantotto, volutamente non approfondito dall’autore ma usato come avvincente e ben accetta scenografia. Umberto Eco gioca con la cultura e con il misticismo, tenendosi in equilibrio sul labile confine che divide il razionale dall’illogico, lo scetticismo dalla cieca credulità, le radicate convinzioni dalla voglia di fare nuove scoperte, invitando il lettore a non fermarsi davanti a ciò che gli viene raccontato ma anche a non prendere troppo sul serio teorie seducenti e misteriose che troppo spesso non sono altro che squallidi ed interessati specchietti per le allodole.
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Un fuoco male spento
Nel bar della stazione di Pisa, in attesa del treno che lo riporterà in Germania, il bel quarantenne Eric von Lhomond lotta contro il sonno a colpi di storielle e di ricordi. La memoria torna indietro di quindici anni e si inoltra faticosamente tra gli intricati episodi della lotta antibolscevica in Livonia e Curlandia, “quell’angolo di guerra civile che ora divampava all’improvviso, ora si trascinava e si complicava a tradimento, simile a un fuoco male spento o a una malattia della pelle.” Il protagonista si ritrova in quest’angolo sperduto d’Europa, nel castello di Kratowice, a fronteggiare l’Armata Rossa fianco a fianco con il compagno e fraterno amico Corrado e a difendersi dagli attacchi della sorella di quest’ultimo, Sofia, innamorata di lui. La ragazza, il cui animo è segnato da un crudele episodio di violenza carnale, esterna esplicitamente i suoi sentimenti per Eric ma si vede continuamente respinta, maltrattata, oltraggiata. Ad ogni rifiuto, ad ogni dimostrazione di avversione da parte dell’amato, Sofia sprofonda un gradino più in basso fino a passare dalla totale innocenza all’abbruttimento completo, trasformandosi in maniera quasi teatrale a colpi di rimmel, di zigomi rossi e sporgenti, di calze di seta, di danze selvagge al suono di un grammofono stridente, di rischiose passeggiate nella zona del fuoco e di amanti occasionali. I suoi tentativi di sedurre Eric hanno però nei confronti dell’amato l’effetto contrario, degradandola ai suoi occhi e ponendola al più infimo livello di bassezza sensuale. “Perché le donne vanno sempre ad invaghirsi degli uomini che non sono loro destinati, costringendoli così a scegliere fra lo snaturarsi e il detestarle?” L’epilogo sarà tragico e la donna saprà trovare una maniera crudele, struggente e definitiva per attuare la sua vendetta sul protagonista. Marguerite Yourcenar entra nella mente di un personaggio antipatico, cinico e disincantato che, in questa sorta di confessione, sembra riconoscere il suo vuoto affettivo interiore, la sua paralisi sentimentale che non permette al suo cuore di provare altro legame che non sia l’amicizia o il senso del dovere. Un’incapacità di amare che, per sua stessa ammissione, non gli permettere di cogliere le belle occasioni che la vita gli offre. L’autrice propone un’analisi cruda ma profonda del rapporto tra uomo e donna, aiutata dalla narrazione in prima persona e stimolata da una prosa di prim’ordine e dal vivace incedere della narrazione. Il rapporto tra Eric e Corrado è magistralmente tenuto in bilico tra un dichiarato legame di amicizia fraterna e qualcosa che potrebbe avvicinarsi ad una vera e propria relazione omosessuale che si legge tra le righe, che aleggia nell’aria, che viene volontariamente lasciata alla discrezione e alla sensibilità del lettore. La parte storica è appena accennata e lascia trasparire una visione politica antibolscevica, restando comunque poco invadente e lasciando spazio ad una vicenda privata fredda, spietata, dissacrante ma capace comunque di generare nel cuore del lettore un tumulto di emozioni e di ammaliarlo con il suo alto valore letterario.
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Giallo e denuncia
Tawfîq Al-Hakîm ci porta in viaggio in un Egitto rurale di inizio Novecento ricco del fascino della tradizione ma al contempo pieno di ombre e contraddizioni. Lo fa con grande ironia, con uno stile brillante e spiritoso, alternando frizzanti dialoghi ad argute, e spesso amare, riflessioni. Lo fa giocando tra il giallo e la denuncia, mettendoci al fianco di un sostituto procuratore intelligente e pieno di zelo ma oramai disilluso dal cattivo funzionamento della macchina giuridica e sopraffatto dal lerciume istituzionale. Seguiamo il magistrato in un’indagine per omicidio, a combattere con la corruzione e l’inefficienza della polizia, a scontrarsi con la diffidenza della gente comune e a sobbarcarsi i pesanti oneri di una burocrazia secondo cui l’esigenza di redigere un buon verbale viene prima della ricerca della verità. Al fianco del protagonista, ci inoltriamo poi in una fitta ragnatela di processi minori, di contravvenzioni, contenziosi, ammende e scartoffie. Una carrellata di piccoli casi che rappresentano momenti di forte critica sociale, grazie ai quali l’autore mette in luce l’incolmabile distanza tra popolo e governo, tra chi si barcamena come può per sbarcare il lunario e chi stabilisce regole che non tengono minimamente conto della vita quotidiana, tra chi cerca di far rispettare la legge e chi la legge è costretto a subirla senza capirne le ragioni. Uno Stato che non muove un dito per istruire la povera gente salvo poi punirne l’ignoranza, non rifornisce i villaggi di acqua corrente ma multa chi lava i panni nei canali, emana sentenze in fretta e furia senza neanche ascoltare cosa hanno da dire gli accusati. Un Paese in cui la connivenza tra governo e polizia non è uno scandalo ma la regola, in cui le elezioni sono palesemente truccate, la politica calpesta la giustizia, l’ordine e la morale. Uno Stato che guarda a Ponente, ma dell’Occidente sembra prendere solo il marcio. “…Là, il crimine civilizzato esce sulla sua macchina blindata armato di revolver, mitragliatrici ed esplosivi per dare l’assalto alle più imponenti banche e tesorerie pubbliche, e poi torna nel suo nascondiglio con immense fortune in contanti. Qua, il crimine primitivo esce avvolto nel suo mantello, col randello, la falce o lo schioppo in spalla, per versare il sangue di un povero diavolo e vendicare ciò che le tradizioni e i costumi condannano come un disonore. Là potere e denaro, qua tradizioni e costumi. Ecco la differenza tra il progresso e l’arretratezza, fra ciò che occupa i pensieri dell’uomo civilizzato e ciò che occupa i pensieri dell’uomo primitivo. Il male infatti resta sempre il male. Ma il male prodotto da una grande causa è più degno di stima di quello che nasce da una povera causa da nulla. La civiltà superiore non è quella che elimina il male e cancella la criminalità, ma quella che crea un male superiore e una criminalità superiore.”
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Una forte carica emotiva
Una strada bagnata, una corsa in motorino, un casco non allacciato, un brutto incidente. Angela lotta tra la vita e la morte, nello stesso ospedale dove Timoteo, suo padre, lavora da anni come chirurgo. E l'uomo è lì, in attesa di scoprire la sorte di sua figlia, lottando con il nefasto presente e tormentato da un passato che ritorna, che non è mai andato via. Proprio lì, al capezzale di una ragazzina che quindici anni prima, con il suo arrivo, decise il destino di molte persone, il medico si abbandona ai ricordi, raccontando a sua figlia, a noi, a se stesso, una storia struggente di passione e miseria, di dolore e gioia, di paura e lacrime. Racconta la sua folle corsa, il suo stop non rispettato, il suo casco non allacciato. Il suo veicolo, però, non era un motorino, era l'amore. Ma all'inizio non era amore, o non sembrava tale. Era caldo opprimente, era una vodka di troppo, era la musica di un jukebox. Era Italia, squallida e poco attraente, con i capelli di rafia e l'alito di topo, con vestiti dozzinali e una casa fatiscente. Era un cane cieco, era il poster di una scimmia, una telefonata senza risposta. Era violenza, carne, tradimento. Poi fu ribrezzo, pentimento, odio, ritorno. Poi divenne un piatto di pasta al pomodoro, la più buona che il dottore avesse mai mangiato. Divenne tenerezza, calore, confidenza, divenne scheletri tirati fuori dall'armadio, comprensione, complicità. Finalmente fu amore, amore vero, ma forse, infondo, lo era sempre stato. Ma Timoteo ha già Elsa, ha già una vita, una posizione. Cosa fare? La scelta non è facile e la situazione peggiora quando entrambe le donne gli comunicano di essere in dolce attesa. L'uomo resta come sospeso in un limbo, finisce per lasciarsi trascinare dagli eventi, incapace di prendere una decisione, combattuto tra l'unico vero amore della sua vita e un insormontabile conformismo di facciata. L'epilogo è tragico e, come troppo spesso avviene, sono i più deboli a farne le spese. Dolcemente cattiva, brutalmente romantica, fortemente empatica, la storia di Timoteo e Italia sprigiona un incalzante mix di emozioni che sconvolgono l'animo del lettore provocando rabbia e stupore, disgusto e tenerezza, pianto e sorrisi. Se risulta notevole la carica emotiva, non sono da meno lo stile ben curato e le descrizioni dettagliate. I continui salti temporali, poi, sono dosati alla perfezione e non spezzettano affatto la lettura, anzi la rendono serrata e interessante. Ma il meglio di sé Margaret Mazzantini lo esprime nella capacità di raccontare i sentimenti dei protagonisti e lo fa talmente bene da trasferirli allo stesso lettore che non può sottrarsi dall'immedesimarsi nei personaggi e rivivere le loro stesse emozioni, avere le stesse paure, tormentarsi con le stesse angosce e illudersi con le medesime speranze. “E quando quella mano fredda, come la pietra dov’era posata, si ferma sulla mia guancia, io so che la amo. La amo, figlia mia, come non ho mai amato nessuno. La amo come un mendicante, come un lupo, come un ramo di ortica. La amo come un taglio nel vetro. La amo perché non amo che lei, le sue ossa, il suo odore di povera.”
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Poche idee ma fine letteratura
Quello che propone Balzac non è un vero e proprio romanzo ma una sorta di trattato storico, politico ed economico che, attraverso le parole, i pensieri e le esperienze dei protagonisti, esprime una forte nostalgia per i gloriosi fasti dell'era napoleonica e propone delle linee guida per costruire quella che, secondo l'autore, sarebbe il modello di società da perseguire. Scampoli di politica agraria spicciola, piccoli spunti di economia industriale e l'idea di fondo che il popolo debba essere tagliato fuori dalla vita politica sono i principali argomenti di discussione, che il maestro francese esterna attraverso il personaggio principale dell'opera, il dottor Benassis. Divenuto sindaco di un disastrato paesino della Savoia, il virtuoso medico parigino ha saputo trasformare questo covo di bifolchi in una ridente cittadina modello in cui agricoltura, industria e artigianato brillano e si sviluppano portando lustro e benessere. In cambio del suo incommensurabile impegno civile Benassis non chiede niente, incarnando il modello ideale di uomo politico che si dedica anima e corpo al benessere della collettività senza perseguire fini personali, ambizioni né ritorni economici. Un modello di classe dirigente che tutti vorrebbero vedere alla guida di un paese ma che, ahinoi, sembra sempre più una lontana e chimerica utopia. Ad affiancare Benassis, sorbendosi i suoi lunghi e ripetitivi monologhi, troviamo il capitano Genestas che, venendo a conoscenza della fama del dottore lo raggiunge, stringe amicizia e chiede ospitalità. Tra i due nasce un legame fatto di stima e rispetto che li porta, nel finale dell’opera, a reciproche confidenze sul proprio passato e ad impegnarsi insieme per il benessere di alcune persone loro care. Questa è la parte di maggior rilievo dal punto di vista letterario, dove la finezza della prosa, la descrizione dei sentimenti e delle vicissitudini umane, il romanticismo e il dramma ripagano il lettore delle tediose dissertazioni economiche e politiche che si limitano a presupporre una società poco democratica in cui tutto dovrebbe funzionare e tutti starebbero bene, ma in concreto non propongono niente di nuovo o interessante né in relazione ai nostri giorni, né all’epoca in cui il libro fu scritto.
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Una perversa luna di miele
Le assolate spiagge delle coste francesi e spagnole fanno da cornice ad una romantica luna di miele che si trasforma ben presto in una torbida storia di follia e perversione. Protagonisti del romanzo sono David e Catherine, sposati da qualche settimana e intenti a godersi la vita tra bagni, abbronzature integrali, ozio, sesso, pasti luculliani e fiumi di alcol. Lui è uno scrittore emergente reduce da recenti successi editoriali e impegnato nella stesura di un nuovo romanzo, lei una ragazza bella, ricca ed eccentrica che finanzia le pubblicazioni del neo marito. Le stravaganze di Catherine si fanno sempre più intense e frequenti, fino a palesarsi per ciò che sono realmente, cioè manifestazioni di vera e propria pazzia. David sembra subire passivamente le follie della moglie, assecondandola e accettando improbabili scambi di ruolo e triangoli amorosi con la bella ereditiera Marita. Ma quando gli insani comportamenti di Catherine finiscono per mandare in fumo intere giornate di lavoro il legame tra i due si rompe irrimediabilmente. Pubblicato postumo e manipolato dall'editore, il romanzo di Hemingway si presenta intrigante per i contenuti ma noioso e ripetitivo per gran parte della prima metà. La vicenda comincia a prendere un po' di ritmo con l'entrata in scena di Marita e raggiunge l'apice con il definitivo crollo psicologico di Catherine, per spegnersi in un finale indefinito che lascia un po' di amaro in bocca. Certo la maestria dell'autore è sempre di prim'ordine, prosa curata, descrizioni dettagliate, introspezione psicologica e un'eleganza straordinaria nell'impregnare ogni pagina di erotismo senza mai essere esplicito né tantomeno volgare, affrontando temi come la pazzia, la bisessualità e il rapporto di coppia con intelligenza e savoir-faire. Merita una menzione la storia nella storia, quella che David narra nel suo libro e che unisce il fascino e il brivido dell’avventura all’eterna diatriba generazionale e ideologica tra genitori e figli.
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La Sicilia nel cuore
Quella tra Gnazio e Maruzza non è una semplice storia d’amore, perché i racconti di Camilleri non sono mai semplici racconti. Con la sapienza del grande maestro, l’autore riesce ad intrecciare a regola d’arte fantasia e realtà, storia e leggenda, amore e amarezza, trascinandoci in una favola dal gusto dolceamaro e incantandoci con il suo linguaggio vernacolare simpatico e frizzante. Sullo sfondo una Sicilia affascinante e tragica, dove la bellezza dei paesaggi si scontra con l’asprezza della vita, dove la limpidezza del mare e l’amenità degli uliveti e dei mandorli in fiore contrastano con la triste situazione di braccianti stagionali considerati alla stregua di pidocchi, “pirchì i pidocchi sunno come i braccianti stascionali, che macari Dio si scorda che esistino”. Proprio per sfuggire alla triste sorte di questo mestiere, Gnazio va a cercare fortuna in America, ma il richiamo della sua terra e delle sue radici è troppo forte ed il ritorno è inevitabile. Il bravo potatore, comunque, ha messo da parte un bel gruzzoletto e, rimesso piede sul suolo natio, può comprarsi un pezzo di terra che sia tutto suo, da coltivare con le sue mani, da riempire di animali, da arricchire con una bella casa e una numerosa famiglia. Trova la terra, la compra a dispetto di strane dicerie e storie raccapriccianti, la risveglia e la rende feconda. Compra gli animali, costruisce la casa. Quello che manca è una donna con cui mettere su famiglia, ma ad aiutarlo nella ricerca ci pensa la Gnà Pina, una vecchietta tutto pepe esperta di erbe medicinali e di tutte le cose del mondo. Ed ecco che nella sua vita entra una ragazza un po’ stramba, innamorata del mare e convinta di essere una sirena, ma di una bellezza disarmante: Maruzza. “Aviva dù occhi ca parivano palluzze di celu, la vucca doviva esseri russa russa comu ‘na cirasuzza. Il nasuzzo dritto e fino spartiva a mità ‘a miluzza frisca, appena cugliuta, ch’era la so facciuzza. I capilli le arrivavano sino a sutta i scianchi. La cammisa era a sciuri, e faciva ‘na bella curvatura all’altizza delle minnuzze. La vita era accussì stritta che lui l’avrebbi potuta tiniri tutta tra il pollice e l’indice della mano e dalla vita si partiva una gonna tutta buttuna buttuna che arrivava fino ‘n terra. Da sutta alla gonna spuntavano i piduzzi che addimostravano ch’era fimmina e no sirena. Doviva esseri quattro o cinco jita cchiù avuta di lui. Era meglio di tutte le fimmine che aviva vidute nella Merica.” Tra i due nasce un amore forte e intenso, fatto di passione e compromessi, che supera ogni difficoltà e ogni differenza, che genera figli e nipoti, che ci lascia incantati con il profumo del mare nel naso, il canto di una sirena nelle orecchie e la Sicilia nel cuore.
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Un vortice di paura, noia e disperazione
Una città senza piccioni, senza alberi né giardini, senza battiti d’ali o fruscii di foglie, dove la primavera si riconosce soltanto da ciò che si vende nei mercati, d’estate il sole arde implacabile sulle case, l’autunno è un’invasione di fango e le belle giornate arrivano soltanto in inverno. Siamo ad Orano, prefettura francese sulla costa algerina, nella seconda metà degli anni Quaranta. Una quantità incalcolabile di topi continua a morire in ogni angolo della città appestandone l’aria e non promettendo niente di buono. Di lì a poco, infatti, cominciano a morire anche le persone, assalite da febbri altissime, da gonfiori alle membra e ai gangli del collo, da violenti attacchi di vomito. I sintomi riconducono inequivocabilmente ad una malattia debellata ormai da tempo, di cui non si dovrebbe più sentir parlare. Sembra impossibile ma purtroppo è la triste verità: si tratta di un’epidemia di peste. Orano è costretta all’isolamento, il vortice di paura, di noia, di disperazione in cui si ritrovano i suoi abitanti tende ad evidenziarne pregi e difetti, rimarcandone i vizi o esaltandone le virtù a seconda dei soggetti e della loro reazione alla sciagura. Bernard Rieux, medico e principale protagonista del racconto, cerca di organizzare una strenua opposizione al terribile male, aiutato da una squadra di volontari e affiancato da un gruppo di fedeli amici. Una battaglia che ricorda molto l’eterna lotta che l’uomo combatte da sempre contro un mondo ostile e spietato. La peste di Camus si rivela infatti come un’amara metafora dei mali che affliggono l’umanità dall’alba dei tempi e che l’uomo non è ancora riuscito a debellare, né si mostra capace di poterlo fare. Un argomento importante trattato però in maniera fredda e meccanica dall’autore. Un racconto piatto, una prosa poco coinvolgente, personaggi incapaci di creare empatia con il lettore, lunghi passaggi in cui si ripetono sempre gli stessi concetti sono i principali difetti di un’opera che parte da uno spunto interessante per poi perdersi pagina dopo pagina e ritrovarsi soltanto in finale che lascia aperta la porta della speranza ma che al contempo ricorda “che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.”
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Dio è dalla parte dei ricchi
Un goccio di pinga e un piatto di fagioli per colazione alle cinque di mattina. Il tempo di affilare i coltellacci sulla porta dello spaccio e alle sette si è già a tirar giù cocchi di cacao dalle piante, tra le foglie secche che tappezzano la terra e i serpenti che si scaldano al sole. I profumi, i colori, l’atmosfera sono belli, dolci, irreali. Il lavoro invece è un vero incubo. Alle nove si è già stesi su tavolacci di legno, il silenzio regna sovrano, il sonno è di quelli senza sogni né speranze. Il giorno dopo si ricomincia da capo e i tremilacinquecento réis, frutto di questa immane fatica, finiscono tutti nello spaccio dove si è costretti ad acquistare viveri e bevande a condizioni disumane. Qualcuno riesce a risparmiare qualcosa per passare il sabato sera in dolce compagnia a Pirangi, altri passano mesi senza uscire dalla fazenda e spesso soddisfano i loro istinti nei modi più beceri. Una vita fuori dal mondo, una miseria che non interessa a nessuno, un vago presentimento che tutto ciò un giorno finirà. Come, non è dato saperlo. Il prete, vestito di oro e seta, chiede obbedienza per sé e per il padrone e ammonisce, pena l’inferno, dal dare ascolto a pericolose teorie egualitarie. I braccianti si guardano intorno, vedono la casa del Coronel, bella, immensa, elegante. Poi guardano le loro baracche di fango, coperte di paglia e allagate dalla pioggia. La differenza è abissale. Qualcuno afferma rassegnato che in fondo è Dio a decidere a chi dare la fortuna e a chi no. Qualcun altro risponde stizzito che anche Dio è dalla parte dei ricchi. La premessa di Amado è chiara, l’opera punta poco sull’aspetto letterario e molto sul dovere di cronaca. Il secondo è ampiamente rispettato, la vita dei braccianti delle piantagioni brasiliane di cacao negli anni Trenta è descritta in maniera magistrale, con tutta la durezza, la tristezza, l’ingiustizia che ne scaturiscono. Il primo, nonostante il preludio, non appare certo di secondo livello, grazie alle grandi doti letterarie di un autore capace di tirar fuori sempre e comunque libri di grande spessore che affiancano la goliardia alla denuncia, la magia di atmosfere quasi oniriche all’efferatezza della realtà, l’amore all’odio, l’allegria alla tristezza. Sempre nel preambolo, Amado si chiede se quello che verrà fuori sarà un romanzo proletario. La risposta, inevitabilmente, è affermativa ed eloquenti, al riguardo, sono le parole del protagonista: “Perché non hai ammazzato Colodino? Perché gli volevi bene? - Mi piaceva Colodino…Non l’ho preso perché era affittato come noi. Uccidere un Coronel va bene, ma uno che lavora non lo ammazzo. Non sono un traditore… - Solo parecchio tempo dopo ho saputo che il gesto di Honòrio non si chiamava generosità. Aveva un nome più bello: Coscienza di Classe.”
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Un amore malato
Nella sua testa c'è soltanto lei. Per quanti sforzi lui faccia per non pensarla, lei è un chiodo fisso, un dolore allo stomaco, un malessere di tutto il suo corpo. Lei occupa ogni millimetro quadrato del sul cervello, anche gli angoli più reconditi dove lui tenta di rifugiarsi cercando invano di sfuggirle. Ma lei è sempre lì e non lo guarda, non si accorge nemmeno di lui, parla con altri, tresca con altri e fa l'amore con altri. Lei, per lui, è gioia e disperazione, speranza e angoscia, cura e malattia, benessere e umiliazione, vita e morte. “E tutto quello che non era lei, che non riguardava lei, tutto il resto del mondo, il lavoro, l’arte, la famiglia, gli amici, le montagne, le altre donne, le migliaia e migliaia di altre donne bellissime, anche molto più belle e sensuali di lei, non gliene fregava più niente, andassero pure alla totale malora, a quella sofferenza insopportabile soltanto lei, Laide, poteva portare rimedio e non occorreva neppure che si lasciasse possedere o fosse specialmente gentile, bastava che fosse con lui, al suo fianco, e gli parlasse e magari controvoglia fosse costretta a tener conto che lui almeno per alcuni minuti esisteva, solo in queste pause brevissime che capitavano di quando in quando e duravano un soffio, soltanto allora lui trovava pace”. Antonio è un affermato architetto cinquantenne con problemi a rapportarsi con le donne. Gli unici contatti che riesce ad instaurare con il gentil sesso sono quelli a pagamento. Laide è una ballerina ventenne che arrotonda le entrate con il mestiere più antico del mondo. Dall'incontro tra i due nasce un amore sbagliato, malato, unilaterale. Antonio è vittima, succube, una sorta di zerbino alle complete dipendenze della giovane prostituta, devastato dalla gelosia e privato di ogni briciolo di dignità. Laide è carnefice, manipolatrice, sa benissimo di poter fare di Antonio ciò che vuole e non si lascia sfuggire l'occasione. L'ambientazione è una Milano anni Sessanta che risente dei primi benefici influssi del boom economico e si innalza a capitale della vita notturna. La prosa è dolce ed elegante, la scarsa punteggiatura è l'escamotage corretto per rendere il ritmo serrato e dare l'idea del vorticoso scorrere del tempo e dei pensieri. L'erotismo è gestito con grande stile, mai esplicito ma costantemente aleggiante su ogni pagina dell'opera. L'analisi psicologica è magistrale, Buzzati ci porta nella mente del protagonista sviscerandone ogni più riposto pensiero, ogni insano meccanismo mentale, ogni angosciante paura. L'epilogo è sorprendente, l'amore, che sia reale o immaginario, sano o malato, appagante o tormentato, è sempre il grande, vero, inevitabile leitmotiv della vita di tutti noi.
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Un’ultima, disperata, drammatica difesa
Tra il grottesco e il drammatico, tra la matematica rigidità del calcolo delle combinazioni e la poetica dolcezza di una penna d'eccezione, Vladimir Nabokov ci racconta una storia di scacchi e follia, di gioco e genialità, cullandoci con la raffinatezza della sua scrittura e guidandoci negli arcani recessi della mente umana con una profonda introspezione psicologica. Da Pietroburgo a Berlino, passando per i più prestigiosi club europei, conosciamo la vita ed i successi di Aleksandr Ivanovic Luzin, virtuoso della scacchiera, campione indiscusso e indiscutibile la cui fama raggiunge ogni angolo del globo. Una vita interamente dedicata al gioco degli scacchi, nobile attività che lo tira fuori da un'infanzia difficile segnata dalla propria indolenza e dal bullismo dei compagni di scuola, per catapultarlo nelle contraddizioni di un'esistenza di fama e successi, ma non certo di felicità. Il Luzin adulto, infatti, è uno sciatto e malandato trentenne la cui apatia sfiora i limiti dell'autismo, la cui mente, geniale durante il gioco, fatica ad adattarsi a tutto ciò che esula dalle sessantaquattro caselle della scacchiera. Più stanco dopo ogni sfida, più solitario dopo ogni combinazione inventata o risolta, più folle ogni giorno che passa, il nostro protagonista giunge a quella che dovrebbe essere la partita più importante della sua vita, la sfida con l'italiano Turati, contro il quale ha escogitato una particolare tattica difensiva. Questo duello lo porterà ad un drammatico tracollo e soltanto l'amore sembrerà in grado di tirarlo fuori da una precipitosa rovina. Alternando realtà e allucinazione, giocando tra risate e commozione, Nabokov ci porta nel vivo di una paradossale partita a scacchi che vede il protagonista alle prese con la sfida più difficile di tutte: quella contro la stessa vita. Una vita che, per il buon Aleksandr Ivanovic, è il vero e più temibile avversario, con i suoi imprevisti, i suoi tranelli, la subdola malignità dei suoi disegni, la geniale ostilità delle sue possibili combinazioni. Contro un nemico tanto infido e scaltro, così micidiale ed ineluttabile, al povero protagonista non resta che affidarsi ad un’ultima, disperata, drammatica difesa. “E il giovedì Luzin capì tutto. Già alla vigilia, aveva tramato un ingegnoso stratagemma con cui avrebbe forse potuto sventare le macchinazioni del misterioso avversario. Lo stratagemma consisteva nel commettere volontariamente un’azione assurda ma inaspettata, che esulasse dall’ordinamento sistematico della vita, portando così la confusione nella sequela di mosse architettata dal suo avversario. Era una difesa sperimentale, una difesa per così dire a casaccio, ma Luzin, pazzo di terrore di fronte all’imminente, inevitabile iterazione in arrivo, non riusciva a trovare niente di meglio.”
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Un successo editoriale figlio del cinema commercia
Nella Germania del Fuhrer i libri non si leggono, si bruciano. La piccola Liesel Meminger, invece, li ruba. Il suo primo furto avviene durante il funerale del fratellino, quando i suoi occhi colmi di lacrime scorgono tra il bianco della neve qualcosa di nero e rettangolare. Istintivamente, le sue mani gelate lo raccolgono dando inizio ad una sfolgorante carriera. Ma inizialmente Liesel non sa bene cosa farsene di questo misterioso oggetto. La ragazzina non sa leggere, i suoi occhi si posano sulle pagine senza riuscire a decifrare quei misteriosi intrichi di lettere. Pian piano però la piccola protagonista imparerà a decifrare le misteriose parole, aiutata dalla sua spiccata forza di volontà e dall’amorevole pazienza del padre adottivo. Di pari passo con i suoi progressi aumenteranno i furti, tra un libro salvato da un rogo ed uno sottratto alla biblioteca del sindaco, finché la nostra eroina, avida di letture, non deciderà di scriverne uno di proprio pugno per raccontare la sua singolare esistenza. Decisione che le salverà la vita. Una narratrice d’eccezione, la morte in persona, ci guida nella Germania nazista, dai crudeli splendori iniziali alla triste decadenza sotto i colpi degli alleati. Un paese diviso tra chi segue ciecamente il regime e chi è costretto ad adeguarvisi, subendolo passivamente e dovendo fare buon viso a cattivo gioco. Se l’idea di fondo del libro appare tutto sommato buona, il risultato invece non è particolarmente brillante. L’autore sembra proteso soprattutto ad arrufianarsi il lettore, trattando temi di sicuro impatto emotivo senza originalità né particolare pathos, ricorrendo ad una prosa fin troppo elementare e infarcendo il tutto di luoghi comuni e di facile buonismo. Si salva la caratterizzazione dei personaggi, ben curata almeno per quanto riguarda i protagonisti principali, tra cui ricordiamo Hans e Rosa Hubermann, genitori adottivi della nostra Liesel, e il simpaticissimo Rudy, suo fedele amico e compagno di marachelle. Per il resto si tratta di un’opera piuttosto piatta e banale che, pur trattando argomenti forti ed importanti, non spicca né per virtù letteraria né per consistenza dei contenuti, più adatta sicuramente ad un pubblico adolescente che ad uno adulto, il cui grande successo editoriale è figlio più che altro di quello cinematografico della dozzinale pellicola hollywoodiana derivatane.
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La verità sta nel mezzo
Le cuffiette che sparano musica rap a tutto volume, le dita di una mano che reggono un lacero testo scolastico, quelle dell'altra impegnate a digitare mono o bisillabi di un improbabile italiano su uno smartphone, la TV a tutto volume sintonizzata su dozzinali programmi americani, il divano disseminato di cenere di sigarette e di wurstel crudi. È questa l'immagine che Michele Serra trasmette dei giovani contemporanei. Una generazione di "sdraiati" abulici e indolenti, persi dietro avanguardie tecnologiche e mode astruse, insensibili ai richiami, ai consigli, perfino ai più semplici e cordiali discorsi rivolti loro dagli adulti. Giovani che sembrano aver perso ogni contatto con la realtà, che passano più tempo in chat o sul web che nel mondo reale, che dormono fino all’ora di pranzo e non hanno la minima idea di cosa significhi vendemmiare il Nebbiolo sulle langhe, godersi lo spettacolo terribile di un temporale da una terrazza in riva al mare, gustarsi il piacere di una passeggiata in montagna tra silenzio e natura. Alla critica dell'autore nei confronti dei giovani si unisce comunque una forte autocritica verso se stesso e gli altri genitori che, come lui, si lamentano del comportamento dei propri figli ma poi permettono loro di fare ciò che vogliono, acconsentendo ad ogni loro capriccio (apparecchi tecnologici ultramoderni, costosi capi d’abbigliamento di discutibile gusto), permettendogli di uscire, mangiare e studiare disordinatamente, difendendoli sfacciatamente con discutibili giustificazioni davanti ai loro avvilenti risultati scolastici. A volte simpaticamente ironico, altre insopportabilmente saccente, Serra alterna spunti brillanti e originali a petulanti e scontati luoghi comuni, ora coinvolgendo il lettore e strappandogli un sorriso, ora annoiandolo e infastidendolo. Tra uno sbuffo e una risata, l’autore ci catapulta un po’ tra le pagine de La Grande Guerra Finale, fantomatico libro di dimensioni tolstojane che narra di una guerra spietata tra vecchi e giovani, un po’ nella sua personale battaglia con il figlio adolescente per convincerlo ad affrontare insieme un’amena passeggiata sul Colle della Nasca. Nell’atavica lotta generazionale tra genitori e figli, come sempre, non esiste un reale vincitore, né si può stabilire chi abbia torto e chi ragione perché, come spesso accade, la verità sta nel mezzo. “Siete arrivati in un mondo che ha già esaurito ogni esperienza, digerito ogni cibo, cantato ogni canzone, letto e scritto ogni libro, combattuto ogni guerra, compiuto ogni viaggio, arredato ogni casa, inventato e poi smontato ogni idea...e pretendere, in questo mondo usato, di sentirvi esclamare “che bello!”, di vedervi proseguire entusiasti lungo strade già consumate da milioni di passi, questo no, non ce lo volete – potete, dovete – concedere. Il poco che riuscite a rubare a un mondo già saccheggiato, ve lo tenete stretto. Non ce lo dite, “questo mi piace”, per paura che sia già piaciuto anche a noi. Che vi venga rubato anche quello.”
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Difficile ma di grande spessore
Due amici inseparabili legati da un sacro patto di sangue sancito con uno speciale temperino. Una dinastia di lupi che culmina con il cane pastore preferito di Adolf Hitler. Una grande e controversa nazione in uno dei momenti più bui e al contempo più gloriosi della propria storia. Grass ci guida in un viaggio attraverso la Germania nel periodo che va dal primo dopoguerra alla ricostruzione post nazista, unendo storia e fantasia, alternando gioco e serietà, confondendo realtà e allegoria, odio e amore, rivalità e amicizia. Protagonisti dell'opera sono il coraggioso, iracondo, digrignatore di denti Walter Matern e il goffo, estroso, ciccione Eduard Amsel. Seguiamo la vita dei due amici fin dalla prima infanzia trascorsa insieme sulle rive della Vistola, tra mulini a vento, vermi chiaroveggenti, spaventapasseri, zingari e cani pastore, in un paese che si lecca ancora le ferite procurategli dal primo conflitto mondiale. Li vediamo giocare, aiutarsi, proteggersi, crescere insieme, andare via da casa per completare gli studi, finché l'avvento del nazismo separerà le loro vite. Eddie, in quanto "itzig", giudeo, ne subirà la violenza e sarà costretto a cambiare aria, nome, fisionomia e perfino dentatura. Walter, nonostante le sue idee comuniste ed antifasciste, si ritroverà risucchiato dal sistema e indosserà la camicia bruna delle SA, combatterà per il Reich sul fronte orientale, conoscerà l'alcolismo, lo scolo, la delusione e la solitudine interiore. Ma, come un invulnerabile “ometto sparainpiedi”, non verrà mai sopraffatto e, alla caduta del regime, lo seguiremo in giro per le rovine della Germania, accompagnato dal cane del Fuhrer, in cerca di vendetta, di calore, di opportunità e del migliore ed unico amico che abbia mai avuto. I due si ritroveranno e percorreranno insieme un ultimo, catartico viaggio dalle atmosfere dantesche in una sorta di inferno sotterraneo popolato da spaventapasseri meccanici che, fatti ad immagine e somiglianza dell'uomo, ne rappresentano debolezze, vizi e bassezze. Un libro di grande spessore letterario, sia per lo stile che per l'importanza dei contenuti, ma non certo un'opera di facile lettura. A tratti divagante, a tratti confusionario, troppo spesso prolisso, Grass appesantisce notevolmente la prosa rendendo la lettura lenta, pesante e difficoltosa. Per fortuna la sua penna sa ripagare gli sforzi del lettore con sprazzi di virtù letteraria, con la varietà e la genialità di metafore ed allegorie e la particolarità di situazioni e personaggi. Spiccano su tutti la dolce Jenny e la subdola Tulla, il mugnaio Metern che predice il futuro attraverso i vermi della farina, il professor Brunies che non riesce a resistere davanti alle caramelle, gli spaventapasseri di Eddie e i pugni di Walter, improbabili processi radiofonici, epiche partite di pallapugno e pupazzi di neve che, come magiche crisalidi, trasformano bruchi in farfalle. Alternando pagine bellissime a lunghi passaggi tediosi e inconcludenti, l’autore traccia un quadro preciso di come il nazismo, ma questo potrebbe valere per qualsiasi regime, sia pericolosamente riuscito ad insinuarsi nella vita di tutti i giorni, illudendo, seducendo, coercizzando chiunque, perfino chi, come Walter Matern, professava tutt’altra fede politica. Ciò non può che essere un monito sempre valido per gli uomini di ogni epoca e di ogni latitudine, affinchè gli anni di cani che si sono vissuti in quell’epoca e che, anche se in maniera diversa, continuiamo a vivere tuttora, diventino soltanto un cattivo ricordo. “Guardatemi: con la testa calva anche all’indietro. Un armadio vuoto pieno di uniformi di ogni partito. Ero rosso, ho vestito bruno, passai al nero, mi tinsi: rosso. Sputatemi addosso: vestito, impermeabile, bretelle regolabili, un ometto sparainpiedi, che cammina su suole di piombo, sopra calvo, dentro vuoto, fuori coperto da resti di stoffa, rossi, bruni, neri – sputate!”
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