Opinione scritta da Cristina72
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Fratelli della razza di Caino
I retroscena di un massacro fanno sempre presa sulla curiosità morbosa della gente, ma “A sangue freddo” è molto più di questo. E' un libro di non-fiction che si può leggere come un romanzo, è il tentativo riuscito di elevare al rango di letteratura la cronaca.
Si può spiegare razionalmente l'omicidio efferato di una famiglia indifesa? Qual è la pena appropriata per i colpevoli? E poi, la domanda più scomoda di tutte: è davvero così netto il confine tra Bene e Male?
Con una scrittura elegante e apparentemente asettica, e persino con un briciolo di ironia che si intravede a tratti, Truman Capote sviscera l'argomento da vari punti di vista, attraverso testimonianze dirette e indirette.
Conosciamo la normale quotidianità degli abitanti di Holcomb, nel Kansas occidentale, le “pungenti risonanze di prateria” del loro accento, l'economia piuttosto florida della zona, basata prevalentemente su agricoltura e sfruttamento del metano.
Nessuno sbarra la porta di casa a Holcomb, perché nessun avvenimento eccezionale aveva mai turbato la tranquilla esistenza delle sue duecentosettanta anime fino a quella notte di novembre del 1959.
La tragedia che colpisce i Clutter, famiglia stimata da tutti, scuote ogni certezza e mette paura:
“...è come sentirsi dire che Dio non esiste. Fa apparire inutile la vita”. Inutile come la gentilezza e la generosità dei coniugi Clutter e come i sogni spezzati dei loro due figli adolescenti.
Agghiaccianti le parole di chi li uccide senza un motivo, senza provare nulla né durante né dopo, con l'indifferenza di chi colpisce dei bersagli ad un tiro a segno:
“Mi pareva un signore molto simpatico. Cortese. La pensai così fino al momento in cui gli tagliai la gola”.
Quello che lo scrittore intraprende è un viaggio in fondo ad un abisso da cui lui stesso non si riprenderà mai del tutto (dopo i fatti narrati i suoi problemi di alcolismo peggiorarono).
Traccia un approfondito ritratto psicologico dei due assassini, e negli anni che passano nel Penitenziario di Stato in attesa dell'esecuzione della pena capitale diventa il loro confidente e amico.
Scopre una certa affinità con Perry, quello con velleità culturali e un'infanzia traumatica “...perché la vita di Perry Smith non era stata un letto di rose, ma una misera, laida, solitaria corsa verso un miraggio dopo l'altro”.
Ma non dimentica che sono soprattutto spietati criminali, “fratelli della razza di Caino”, e nel libro Bene e Male si fronteggiano restando ben distinti.
Eppure non mancano zone d'ombra, passaggi significativi che mostrano il lato oscuro degli esseri umani, al di là del comprensibile desiderio di vedere i colpevoli pendere da una forca.
Per esempio, la delusione provata da molti dopo la cattura, quando si scopre che non si è trattato della vendetta di un abitante del villaggio (la storia sarebbe stata più interessante), o la folla di curiosi (oltre cinquemila persone) che presenziarono all'asta per la vendita della fattoria dei Clutter.
E non sembrano troppo lontane dalla verità le parole di Perry sui giurati: “Guardagli gli occhi. Mi venga un accidenti se sono l'unico assassino nell'aula”.
Rabbia, orrore, raccapriccio, pietà sono i sentimenti che suscita a fasi alterne la lettura di questo libro, consigliato a chi crede che la pena di morte sia un modo per ottenere giustizia ma anche a chi, al contrario, vede nel perdono l'unica possibile via d'uscita.
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“Davanti a noi, chilometri di notte”
La notte è tenera per Dick e Nicole Diver, che iniziano ad amarsi circondati dall'oscurità e la illuminano, o almeno si illudono di farlo.
Giovane coppia di coniugi americani residenti in Costa Azzurra, costituiscono il polo d'attrazione di una compagnia ricca e chiassosa di connazionali alla ricerca di quei piaceri mondani che la generazione degli anni Venti insegue ossessivamente.
Tutto brilla di una luce intensa e falsa, persino il sole della riviera, dietro la superficialità patinata dei dialoghi.
L'inizio del romanzo sembra concentrarsi sull'educazione sentimentale di Rosemary, starletta hollywoodiana in vacanza che resta ammaliata dal fascino dei Diver in generale e di Dick in particolare. L'infatuazione, per quanto priva di profondo significato, segna in qualche modo la fine del rapporto tra i due protagonisti, e non solo.
Lo stile nella prima parte è nebuloso e la narrazione procede lenta, tra allegorie, episodi staccati dal resto della trama e flussi di coscienza.
I personaggi restano distanti e ce la mettono tutta per recitare la loro parte: “La guardia più forte è posta ai cancelli del nulla. Forse perché la condizione di vuoto è troppo vergognosa per venir divulgata”.
L'impressione è nel complesso irritante, con la sensazione che si voglia temporeggiare lasciando a bella posta il lettore fuori da una qualche importante verità.
La rivelazione arriva nella seconda parte e parla di traumi, schizofrenia, alcolismo.
A questo punto si capisce che il fulcro del romanzo è un grumo di dolore a cui lo scrittore si accosta cautamente, per gradi, e forse anche con un certo pudore, rivelando molto di sé e del suo travagliato rapporto con la moglie malata di mente.
“Controllati, Nicole!”. Dick la tiene per mano nei labirinti oscuri della demenza, aiutandola a superare il sonno della ragione. Ma combattere certi mostri ha un prezzo.
Dapprima salvifico nel ruolo di marito/psichiatra, cade sempre più a pezzi e nella sua sincerità alcolica perde gli “amici”, rivelando un isolamento esistenziale che ispira pietà.
Sembra non avere più alcun posto nel mondo, è un sole che si spegne senza che a nessuno importi granché.... “Mi pare che potrebbe avere la delicatezza di andarsene”.
Ed ecco l'uomo “tipico” di Fitzgerald, il suo alter ego: così diverso dagli altri, così solo.
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Gnocche alla sorrentina
L'inizio lasciava ben sperare. Un inno d'amore alla terra d'adozione a mo' di prologo, mare, sole e Vesuvio celebrati con parole quasi poetiche. Ma quello che segue è molto vicino alla scempiaggine e su diciotto racconti se ne salva uno solo, “Scirocco”, che almeno suscita un po' di emozione.
A chi intraprende una lettura del genere - le avventure di un veterinario - interessa poco se lo stesso ama circondarsi di collaboratrici “belle e intelligenti”, una bionda l'altra bruna, occhi verdi ed occhi grigi, “respingenti” anteriori di tutto rispetto e “morbide masse nascoste sotto i camici”.
L'attacco storiografico che apre ogni racconto rende noiose storie già di per sé insulse, ma in ogni caso il dotto', come lo chiama la sua variegata clientela, sembra più interessato a raccontare le grazie del gentil sesso che gli incerti del suo mestiere e per tutta la narrazione occorre sciropparsi i suoi virili languori, tra cuccioli di leopardo che le colleghe cullano al seno (e che suscitano, manco a dirlo, la sua invidia) e pazienti a quattro zampe coccolati con arrapanti voci roche e annesse erre mosce.
Gli animali fanno solo da cornice, i loro malanni sono un'incombenza che si sbriga in poche righe per dare spazio a fatti e personaggi che nelle intenzioni dell'autore dovrebbero suscitare ilarità e stupore.
Nel primo racconto, tanto per non farsi mancare niente, c'è un'assistente rossa di capelli (amica con benefit), e poi la soubrette famosa affascinata dal dottorino, la gattara, il vecchietto, vari camorristi.
Manca un genuino trasporto, e tutto trapela fuorché amore per gli animali.
Definire “volpe di fuoco” un volpino ferito che fugge avvolto dalle fiamme dopo un incidente in ambulatorio non è divertente, né farsi beffe di una gattara addolorata per la morte del suo vecchio gatto (steso con un pugno rocambolesco da una delle avvenenti dottoresse).
E non brilla certo per arguzia la storia della cocaina donata da un cliente camorrista in segno di gratitudine. Troppo pauroso per sniffarla, il dotto' decide di regalarla ad un amico che ne fa uso abituale e che non finisce di ringraziarlo per l'altissima qualità della merce: “...abbiamo fatto un party per otto persone e stiamo ancora sulle stelle...”.
I racconti sono tutti inventati tranne uno, ma visti i risultati l'autore avrebbe fatto bene a lavorare meno di fantasia raccontando gioie e dolori autentici di un mestiere fuori dall'ordinario.
All'inizio del libro viene citato un certo James Herriott, veterinario dello Yorkshire che anni fa scrisse un'opera autobiografica con garbo, deliziosa ironia, amore per il proprio mestiere, rispetto per gli animali. Un libro da leggere... quello di Herriot ovviamente.
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Castigo e delitto
Vale la pena raccontare la storia di un inetto?
Questo è Giovanni Episcopo, “uomo a cui si manca di rispetto”, secondo la definizione beffarda che gli affibbiano i suoi colleghi d'ufficio. Viene però da chiedersi se sia degno di maggiore considerazione chi si diverte ad infierire sui deboli, sicuro di farla franca.
Quello che fa D'Annuzio in questo breve romanzo è tentare di riscattare un'anima, restituendo almeno la dignità della sofferenza ad un essere umano calpestato dalla sorte e dai suoi simili.
Lo fa attraverso la drammatica confessione del protagonista, con uno stile dostoevskiano, anche se in questo caso è il castigo a precedere il delitto.
In effetti la vita di Episcopo sembra essere tutta all'insegna di una punizione per una colpa non meglio identificata, e il “marchio” gli verrà impresso in fronte da Wanzer, uomo violento e prepotente che scaglia un bicchiere durante una lite ferendolo per sbaglio.
Da quel momento, per qualche strana ragione, Wanzer carnefice trova nel povero Episcopo il suo servo, la sua vittima designata:
“Io non vi so definire, per esempio, il sentimento profondo e oscuro che mi veniva dalla cicatrice”. E' un'onta, il segno di un legame persecutorio da cui non riuscirà più ad affrancarsi.
Spinto da una passione mortifera che i soliti lazzi crudeli dei colleghi incoraggiano, sposa una donna "di tutti" che lo disprezza: “...si metteva a ridere, di quel riso spaventevole, di quel riso inumano che le luccicava più nei denti che negli occhi”.
E' il dolore il leitmotiv di quest'opera, dolore impotente per un'esistenza vissuta da vile, dolore struggente per Ciro, il figlio morto che non è riuscito a proteggere col suo amore e che gli appare nelle notti insonni: “Quando mette il piede su la soglia, è come se lo mettesse nel mio cuore; ma piano piano, senza farmi male, oh, tanto leggero...”.
Ciro, cresciuto in una casa che gli appetiti sessuali della madre hanno reso simile ad un bordello, incarna il simbolo della purezza oltraggiata, in una narrazione percorsa da presentimenti di morte ed angosce ossessive che ricordano i deliri di Edgar Allan Poe.
L'epilogo sarà la lotta sanguinosa di un angelo contro un demone senza vincitori né vinti:
“I morti ritornano. Ritorna anche l'altro, qualche volta. Orribile, oh, oh, oh, orribile!”.
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La banda degli onesti
“Non si po' annare a travagliare la terra come per annare a fari la guerra”.
Questo libro è la storia di un'ingiustizia perpetrata ai danni di un'intera famiglia e smaschera i meccanismi perversi dell'organizzazione mafiosa, privandola di quell'aura “d'onore” che ancora oggi si attribuisce alle sue origini.
Chi erano i Sacco?
Camilleri ce li presenta in tutta la loro generosità, pronti ad offrire a chiunque ne avesse bisogno “'na scanata di pani frisco, 'na forma di cacio, tanta frutta e un ciasco di vino”.
Onesti agricoltori ed abili imprenditori, a cominciare dal capostipite Luigi che a Raffadali, piccolo centro rurale dell'agrigentino, osa l'inosabile: denunciare il tentativo di estorsione della mafia locale, che pretende parte degli introiti del suo duro lavoro.
Non c'è più pace da quel momento, né per lui né per i suoi familiari:
“Luigi sta mannanno a buttane le regole dettate dalla mafia e da tutti osservate. Luigi è praticamente un morto che cammina”.
I suoi cinque figli maschi si vedono così costretti ad andare a coltivare le loro terre in assetto di guerra nel timore di agguati. Armati fino ai denti, cominciano a far paura ai criminali: “Coi Sacco capaci di tutto e accussì 'ncaniati, meno ci si fa sentiri e megghiu è”.
Le ritorsioni mafiose non si fanno comunque attendere, e qualsiasi tentativo di denuncia cade nel vuoto: “Avete le prove che sono stati loro?”.
Il peggio arriverà quando la mafia comincerà a servirsi di un'arma molto più potente del ferro e del fuoco: la legge. Sarà infatti la mente machiavellica di un avvocato, punto di riferimento dei rozzi mafiosi del posto, a sferrare i colpi più terribili.
Imbrogliare le carte, trasformare i persecutori in perseguitati e viceversa: ecco il capolavoro.
Ed il piano diabolico riesce in pieno, mentre mani fino ad allora macchiate solo di terra finiscono per sporcarsi di sangue.
Il regime fascista e i metodi discutibili del prefetto Mori (proprio colui che era stato mandato da Mussolini a sradicare la mafia) faranno il resto: i Sacco, socialisti da sempre, vanno presi vivi o morti.
Ed ecco nascere “la banda Sacco”, accusata, tra le altre cose, di avere ucciso due feroci capimafia (strano genere di briganti, che non risponde mai al fuoco delle forze dell'ordine).
Li seguiamo nei rifugi improvvisati, sempre pronti alla fuga, braccati da mafiosi e carabinieri, imputati di tutto l'imputabile anche senza prove. Si fa terra bruciata intorno a loro, arrestando persino l'anziana madre.
Diventano eroi per gli abitanti di Raffadali, ma hanno addosso quella solitudine che contraddistingue chi si ribella al giogo mafioso, e che spesso ne preannuncia la morte.
C'è differenza tra l'essere uccisi e vedersi sottratti quarant'anni di vita?
La triste verità è che la giustizia tardiva non è più giustizia ed ha sempre il sapore amaro della sconfitta.
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L'inesorabile scorrere del tempo
La luce dorata di un tramonto romano e il ticchettio inesorabile di un orologio a vetro poggiato su una mensola. Sotto, un foglio di carta color magenta che contiene la promessa di una nuova giovinezza... Ma meglio non farci troppo affidamento e riservarsi di dargli un'occhiata nei momenti più bui, quelli della deriva.
“La deriva sono tutte le cose che si fanno senza un motivo. Ma dov'è il motivo per ogni cosa?”.
Se lo chiede, a cinquant'anni suonati, la signora Stone, attrice ritiratasi dalle scene dopo un fiasco colossale nelle vesti di Giulietta.
L'errore è stato interpretare un ruolo non più adatto alla sua età e soprattutto non aver messo nel conto, nel corso di un'esistenza frenetica programmata nei minimi dettagli, che la bellezza sfiorisce, mettendo in mostra il “lucido meccanismo ben oleato” della falsa bontà.
E' così che la "meravigliosa" signora Stone si ritrova circondata dal nulla, se si escludono i milioni del compianto marito.
Il declino porta con sé una serie di maldicenze sussurrate alle sue spalle e di umiliazioni che si rincorrono una dietro l'altra come la cascata tintinnante di perle di una collana spezzata.
Il declino si chiama Paolo, giovane amante prezzolato, definito “marchetta” nell'ambiente delle mezzane. Paolo vanesio, anaffettivo e sensuale, con un'omosessualità latente e una patetica tendenza alla menzogna. Gli anni che separano i due amanti lo rendono comunque il più forte, quello che si degna di accostarsi al “sole freddo”, freddo come il letto di lei senza di lui “... un paesaggio innevato, una distesa di desolazione pura”.
I personaggi si muovono in un ambiente un tantino stereotipato (lo sguardo di uno straniero sull'Italia) ma sono tratteggiati con efficacia e il drammaturgo americano ci rende spettatori di una commedia che urla sottovoce in un crescendo di tensione.
Il risveglio dei sensi della signora Stone arriva quando il suo corpo non suscita più il desiderio degli uomini e somiglia ad una vertigine sul vuoto della sua esistenza: “Il nulla sarà interrotto, il vuoto tremendo sarà penetrato da qualcosa”.
E' la parabola discendente di una “gran signora”: “Qualsiasi cosa, davvero, ma non niente”.
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Perduto come un uomo nella notte
Questa è una storia di non amore, che inizia di fatto con l'immagine di una donna rapata a zero e denudata che urla insulti e oscenità contro alcuni ragazzi che la circondano. Una donna probabilmente punita per la sua condotta riprovevole nel periodo del primo conflitto mondiale, mentre il marito era al fronte.
Marcel, io narrante del romanzo, porterà dentro di sé i segni di questa scena della sua infanzia, e la figura umiliata della madre, il suo insolito turpiloquio, ne distruggeranno per sempre la capacità di amare.
Simenon, con stile semplice e scorrevole, non rinuncia in quest'opera a seminare indizi ed interrogativi, ma di natura psicoanalitica.
“...ero diventato un uomo felice, mettetevelo bene in testa, amavo mia moglie e amavo mia figlia”.
La necessità di ribadirlo – forse più a se stesso che a chi legge – nasce da una contraddizione di fondo, perché Marcel accoglie con gioia lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e aspetta con ansia che la Francia sia invasa dai tedeschi: “Quella guerra, scoppiata all'improvviso dopo un anno di calma apparente, era una faccenda personale tra me e il destino”.
Nella sua vita deve succedere qualcosa che nessuno ha il potere di controllare (neppure il suocero che ha deciso tutto per lui), c'è un appuntamento a cui non può e non vuole mancare.
Decide di fuggire con la famiglia prima dell'arrivo dei tedeschi, malgrado la gravidanza avanzata della moglie, acquista provviste per il viaggio, tra cui - emblematica distrazione - un salame all'aglio che moglie e figlia detestano.
Sono profughi ormai, e attendono la partenza del treno che li porterà a sud, verso destinazione ignota: “Non sentivo dolore, e non pensavo a niente”.
A parte una piccola fitta di nostalgia per il gallo e le galline lasciate ad un vicino, Marcel lascia senza rimpianti la sua casa e il suo laboratorio di elettrotecnico, considera anzi “intollerabile” la sola idea di tornare indietro.
Unica costante preoccupazione, quella di avere sempre a portata di mano gli occhiali di riserva, senza i quali, miope com'è, si sente “perduto come un uomo nella notte”.
Cosa cerca Marcel? Cerca una felicità incondizionata, senza passato né futuro, destinata a non durare per la sua stessa intensità: “Un suono acuto, squisito, che faceva deliziosamente male”.
La trova su un carro bestiame, in una donna straniera che gli si concede subito, con l'urgenza e la spensieratezza di chi vive disperatamente il presente: “Torturavamo le nostre carni nel vano tentativo di fonderle in una sola”.
Lei carpisce al volo i suoi pensieri e lo seguirà ovunque fino a quando sarà possibile, mentre in quello stato di ebbrezza lui ritrova odori e sapori di un'infanzia irrisolta.
Vieni con me, le dice, ti amo, le dice...
“Ma poi era lei che amavo, o la vita?”
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“Non domandare, a noi non è dato sapere..."
“Nemico, amico, spasimante, amante, sposo”...
Il gioco, inventato da una ragazza sciocchina, consiste nell'accostare il proprio nome a quello di un uomo, eliminare le lettere comuni e contare sulle dita le restanti. Che ruolo avrà “lui” nella mia vita?
Troppo giovane Sabitha - la ragazza in questione - per sapere che una cosa non esclude affatto l'altra, e soprattutto che domandare non è saggio.
Lo sapeva bene il poeta latino Orazio, quello tradotto dalla sua arguta amica Edith nei compiti a casa: “Non domandare, a noi non è dato sapere, che cosa il destino abbia in serbo per me, che cosa per te...”.
Il passatempo un po' crudele delle due amiche (scrivere ad una zitella false lettere d'amore) diventa nel primo racconto della raccolta il filo di cui la sorte si servirà per tessere la sua trama, seguendo percorsi bizzarri e imprevedibili.
Lasciarsi vivere è quello che fanno i protagonisti dei nove racconti, un fiume in piena di episodi immaginari o reali che si richiamano a vicenda, pensieri inconfessati, sensazioni, in uno scenario canadese che è come una colonna sonora.
A volte si rischia di scadere nel rosa, ma ecco che una frase spiazzante che scava nel profondo rivela una notevole capacità di introspezione che fa riprendere quota alla narrazione.
La scrittrice sembra smaniosa di raccontare tutto, meticolosa quasi fino all'ossessione, come se eventi e personaggi popolassero la sua mente e volessero uscirne fuori.
Per esempio Lorna, moglie e madre che non ama abbastanza il marito e lo odia anche un po', e intanto vive nell'attesa di un amore totalizzante (lei lo chiama “qualcosa”) cercandolo per istinto nella stanza vuota di un amico che la corteggia con discrezione:
“...sedersi per terra, al centro del quadrato di linoleum. Restare seduta per ore non tanto per osservare la stanza di lui, ma per sprofondarci dentro”.
Oppure Nina, felicemente sposata, che in una fredda sera stellata riceve dall'uomo di un'altra un bacio sulla gola, ricordo segreto e prezioso: “Come se in quel momento ogni cosa di lei venisse riconosciuta e onorata e inondata di luce”.
Sono i segreti delle donne, istanti che ritornano ogni tanto “con un susseguirsi di ondate di intensa memoria”.
Maschile, invece, è il punto di vista dell'ultimo racconto, una piccola perla con sviluppi paradossali dal sapore vagamente pirandelliano. Lui, lei e la demenza senile, che ferisce peggio del peggiore dei tradimenti e separa più della morte, mentre la vita, come sempre, dimostra di avere più fantasia degli uomini.
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Onorevole Mangiamerda
La prima cosa che salta agli occhi iniziando la lettura di questo romanzo è lo stile, asciutto e ricercato, venato di un'ironia tagliente che fa da contrappunto ad una notevole capacità descrittiva.
Incontriamo il protagonista bambino, non conosciamo il suo nome ma solo il nomignolo che per qualche ragione gli è stato affibbiato: “il Mangiamerda”.
E' passivo, ottuso, impertubabile, ma considerarlo innocuo sarebbe un errore fatale, vista la sua naturale inclinazione al male.
Rispetto agli altri ha il considerevole vantaggio di non provare sentimenti, al massimo vibrazioni che ogni tanto sembrano risuonare cupe nella sua scatola cranica.
E' uno psicopatico.
Lo ritroviamo quasi adulto, studente ripetente, stupratore di prostitute e fruitore compulsivo di siti porno, mentre coglie al volo l'occasione della sua vita con la stessa indolenza di un rospo che acchiappa un insetto: “...impostando sul motore di ricerca una serie di parole chiave a sfondo marcatamente osceno, ci si imbattè per caso”. E' l'inizio della sua scalata nel cosiddetto Movimento, partito politico di estrema destra a sfondo razzista.
Ed ecco che quello che prima sembrava un thriller di buona fattura assume a poco a poco i contorni di una parodia sociale: “Noi siamo un movimento e non un partito, affermavano; più o meno con lo stesso spirito di chi anziché chiamarlo culo lo dice fondoschiena”.
La galleria dei personaggi che compongono il Movimento è quasi caricaturale, tra malvagità, sesso sordido e corruzione. E qui forse l'autore calca un po' la mano: contenuti meglio calibrati avrebbero reso la narrazione più verosimile ed efficace.
Ad ogni modo Lupo Mannaro (così è ribattezzato dai “coiscritti”) riscuote sempre più consensi, col solito sguardo vacuo che molti scambiano per risolutezza, con risposte monosillabiche o silenzi che ognuno interpreta come più gli aggrada.
Era l'utile idiota, quello che nel partito faceva il lavoro sporco arrivando a strappare a morsi le orecchie degli avversari politici, e in pochi mesi diventa il Nulla che avanza.
Eccolo là, senza cervello né cuore né niente, l'onorevole Mangiamerda.
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“Preziose sono le Ore..."
Cosa c'è nel cuore di una giovane donna impegnata a vari livelli nel sociale, con la passione per la scrittura e il desiderio di condividere e comunicare?
Ce lo rivela la sua prima silloge, quarantasette liriche scritte di getto, parole che danzano leggiadre descrivendo un turbinio di emozioni.
“Preziose sono le Ore in cui sei lì/a pettinarmi il cuore...”, si legge in “Anime nude” - nude di ipocrisia e mediocrità, - disposte a soffrire pur di “sentire”.
E' uno dei punti cardine della raccolta – esporre se stessi consapevoli dei rischi, scendere a patti con le proprie fragilità in cambio di emozioni autentiche:
“...Con tre quarti di cuore/mi arrendo ai timori/di tatuare/un'impronta di te”.
Comunicare significa anche puntare il dito contro le rigide ideologie, e l'autrice usa parole antitetiche per denunciare le pecche di una società sterile che non va oltre l'apparenza e antepone i giudizi ai fatti:
“Modesta è la sua superbia/profonda la superficialità/trasparente è la sua falsità/crudele la sua ironia...” (“L'uomo sociale”).
La catarsi passa attraverso l'Amore e la presa di distanza da ciò che uccide la purezza:
“...E vedrai oltre/ascolterai l'impercettibile/respirerai alchimie/Amerai”.
Le poesie di Selene Pascasi sono pensieri fugaci che trasmettono energia positiva anche quando raccontano il dolore, schegge che riflettono luce e bussano al cuore “come vento” per essere ascoltate, comprese e amate.
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Signorina Holiday Goligthly, in transito
Vi presento Holly Golightly, una bellissima bambina o, come direbbe qualcuno che le vuole meno bene di me, una montatura, ma una montatura autentica. E' quello che dice, tra le righe, l'io narrante di questo breve romanzo, alter ego dello scrittore.
Ad ispirare Truman Capote fu Marylin Monroe - “bellissima bambina” - ed è questa la differenza sostanziale tra il libro e il film cult che ne è stato tratto.
Quel mix di innocenza e peccato, quell'intelligenza nascosta dietro la maschera da svampita, quella solitudine profonda appartenevano alla bionda star hollywoodiana e per apprezzare al meglio queste pagine è necessario dimenticarne la versione cinematografica. Sono pagine scritte in stato di grazia, raffinate, ironiche e mai volgari.
Holly è una prostituta d'alto bordo “in transito”, alla ricerca di un posto tutto suo dove stabilirsi: “Non so ancora precisamente dove sarà. Ma so com'è”.
Quello che non sa è che a volte la felicità può posarsi non vista sulla scala di sicurezza di un edificio newyorkese dell'East Side, mentre asciugandosi i capelli al sole e pizzicando le corde di una chitarra si racconta la propria vita ad un vicino di appartamento aspirante scrittore.
Lui, chiaramente omosessuale, diventa il suo unico vero amico, il suo Fred, fratello che invoca nei sogni: “Dove sei, Fred? Perché fa freddo. C'è neve nel vento”.
“Fred” conosce il suo vezzo infantile di grattarsi il naso quando le rivolge domande importune, le “tolette” con cui si guadagna da vivere, il gatto senza nome amato “senza impegno”, il suo cuore onesto: “Sii quello che vuoi ma non un vigliacco, un fanfarone, un ladro di emozioni, una sgualdrina”.
Il mondo fatuo di milionari ambigui, starlette ottuse e pigmalioni di mezza tacca viene descritto senza sbavature, tra battute argute e litri di alcol che non scaldano mai abbastanza.
Molto più corroborante, rimedio infallibile scaccia “paturnie”, è fare un salto da Tiffany: “Non ci può capitare niente di brutto là dentro, con quei cortesi signori vestiti così bene, con quel simpatico odore d'argento e di portafogli di coccodrillo”.
A fare da sfondo a questa improbabile amicizia c'è New York con le sue giornate autunnali deliziosamente tratteggiate, che fanno pensare al futuro parlando del passato ed hanno la struggente bellezza delle foglie che cadono.
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Zana, l'inglese
Zana Muhsen. Nell'Inghilterra degli anni Ottanta si è molto sentito parlare di questa ragazza e di sua sorella Nadia, vendute dal padre yemenita e “sposate” a loro insaputa.
Le due sorelle, quindici e tredici anni, partono entusiaste alla volta dello Yemen convinte di trascorrere una vacanza esotica di qualche settimana, ma Zana ci resterà otto anni e Nadia...il caso di Nadia resterà a lungo, troppo a lungo, una ferita aperta.
“Facevo sogni d'amore, volevo l'amore. Loro hanno saccheggiato tutto questo”.
Non c'è più spazio per l'amore in una terra ostile e arretrata, ed è soprattutto l'odio a sorreggere la protagonista di questa storia vera. Odio e orgoglio contro il “suocero” che la picchia selvaggiamente e le impone lavori sfibranti, odio e disgusto per il “marito” ragazzino che la stupra quasi ogni notte: “Non avranno la mia sofferenza, la rifiuto anche a me stessa. Pietra sono diventata e pietra resterò”.
Nadia, la sorellina minore e più debole, finisce per chiudersi in un'apatia rassegnata, “morta vivente”, sfiancata da continue gravidanze.
Zana invece non si rassegna, lei sopravvive solo per tornare a casa e stringe i denti per aggredire e resistere: “Con le mani più o meno bruciate e il cuore a pezzi sono sempre io: Zana, l'inglese”.
La ragazzina occidentale, “l'impura” di Birmingham presa di mira da una suocera malvagia, dovrà sopportare attacchi di malaria e la tortura di un parto difficile, imparerà ad arrostire focacce a mani nude sulla fiamma, a trasportare in testa bidoni d'acqua, a scrostare mucche rachitiche e pecore, a vangare con attrezzi rudimentali, ma non accetterà mai di piegarsi ad usi e costumi di un paese retrogrado e maschilista. Venduta nel corpo, resta libera nella mente: “La libertà è dentro di me. E' un privilegio sapere che siamo tutti uguali”.
La libertà è un minuscolo spiraglio di luce che lei, con i cinque sensi perennemente allertati, riesce a scorgere nelle tenebre, e arriverà perché fortemente voluta, dolce e amara.
Non smetterà mai di lottare per la sorella rimasta nello Yemen, chiedendo aiuto alle autorità e ai media, sbattendo contro insormontabili ostacoli burocratici, incassando rifiuti: “Non cederò mai, Nadia, te l'ho promesso”.
Non ha ceduto e, sebbene non confermato da canali ufficiali, pare che alla fine abbia davvero vinto.
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“La città sgozzava le vecchie signore...”
“Era inverno a Belleville e c'erano cinque personaggi”. Inizia così la favola metropolitana di Pennac, mentre il lettore dubbioso cerca di capire come approcciarsi alla narrazione. Perché il tono è ironico fin dalle prime battute, lo stile brillante, ma subito dopo arrivano, spiazzanti, splatter e poesia, un colpo di pistola che fa esplodere un cranio “formando un grazioso fiore nel cielo invernale”.
E poi c'è la strampalata famiglia Malaussène, fratelli e sorelle figli di molti padri grazie alla candida sensualità di una madre perennemente gravida, “bella come una bottiglia di Coca Cola piena di latte”.
Voce narrante nella metà dei capitoli è il capofamiglia Benjamin, ufficialmente direttore letterario di una casa editrice ma di fatto capro espiatorio, “capro fino al midollo”.
Il suo compito, peraltro ben remunerato, è sciropparsi le lamentele dei clienti, colpevole di tutto agli occhi di tutti. Piagnucolare e spuntarla, spuntarla e vincere, questo deve fare.
Ogni tanto il capro alza la testa, butta là con rabbia pacata qualche bestemmia agnostica, si concede zitto zitto un'azione scorretta, per esempio un rapporto sessuale con la sua donna in stato comatoso. Ma possiede anche un cuore che palpita di incertezze: “Sono un innamorato pieno di dubbi, ho il cuore che dubita. E perché mi si dovrebbe amare? Perché io invece di un altro?”.
Facciamo la conoscenza di Pastor, poliziotto arguto con l'aria bizzarra e senza età del Piccolo Principe, che passa le sue notti su una branda "in un ufficio da sbirro mal pagato".
Tocca a lui e al suo collega impasticcato di ansiolitici scoprire chi in città passa il tempo a sgozzare vecchie signore. Entrambi hanno dei conti da saldare con la vita, afflitti dal dolore inconsolabile di chi, un brutto giorno, ha visto morire l'amore.
Lo scrittore rifugge decisamente dai cliché e punta sul demenziale per denunciare pressanti problematiche sociali: anziani abbandonati, droga, corruzione.
La trama del romanzo è forse troppo attorcigliata e poco verosimile, lo sviluppo del noir non è certamente dei migliori, ma poco importa: alla fine resta un fondo di bellezza “vero come l'oro” e la sensazione di non aver sprecato il proprio tempo nella lettura.
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Un po' di tutto e molto di niente
Gli onori tributati a questo romanzo dalla stampa britannica sono decisamente eccessivi: anche nei suoi momenti migliori, si potrebbe definirlo un insieme di logorati cliché.
L'attacco, innanzitutto, con la protagonista molto incinta che riceve una chiamata in piena notte: manco a dirlo, è il passato che bussa alla sua porta, e lei dovrà affrontare un viaggio oltreoeano senza l'adorato marito bloccato dal lavoro.
Segue, qualche pagina dopo, il racconto della sua movimentata adolescenza, causa una madre eccentrica ed inquieta che la strappa all'affetto dei nonni, amandola di un amore intenso ed incompiuto. Il padre, mai incontrato e sposato con un'altra donna, resterà sempre una figura vagheggiata ed assente. C'è poi tutta una galleria di personaggi secondari blandamente tratteggiati che si fa presto a dimenticare e che appaiono e scompaiono, una volta adulti, un'altra bambini.
Kitty, virtuosa in cuor suo quanto la madre è corrotta, finisce per sfiorare il fondo tra party a base di coca e proposte sessuali di milionari a caccia di lolite. Assaggia la trasgressione, ma sopraffatta dagli eventi decide che la normalità è meglio.
E rieccola nel presente, mentre avverte “la piccola vita che pulsa dentro di lei” e promette a se stessa che sarà una buona madre. La sua di madre, in fondo incolpevole perché mentalmente labile, chiederà umilmente perdono, rinchiusa in un reparto “pieno di persone che hanno tentato di farsi del male in modo irrimediabile”.
L'autrice non riesce sempre a barcamenarsi tra presente e passato e inciampa spesso nel descrivere lo scorrere degli eventi. Il suo stile manca di fluidità, costringendo spesso il lettore a tornare su alcuni passaggi. Ne esce fuori un piatto insipido condito di buoni sentimenti, irrimedibilmente banale anche quando vorrebbe scandalizzare. Forse lo avrebbe salvato l'approfondimento di certe tematiche, o almeno una buona dose di ironia.
Invece resta fermo a metà strada, un po' di tutto e molto di niente.
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"Quell'imprudenza mi affascinò..."
E' la storia dell'apprendistato erotico-sentimentale del sedicenne François, personaggio che si racconta attraverso ghirigori psicologici dal sapore proustiano. Si tratta di un Proust più passionale ed egoista, certamente meno romantico, e sono solo poche pagine, ma dense di immagini emblematiche che si imprimono nella mente del lettore.
Innanzitutto, l'incontro fatale del protagonista con Marthe, che scende dal predellino di un treno ancora in movimento: “Quell'imprudenza mi affascinò. Il suo vestito, il suo cappello, erano la prova della sua poca stima per l'opinione degli estranei”.
E' la prima scintilla di una passione nascente che diventa fin dall'inizio complicità, mentre dietro dialoghi in apparenza banali già si consuma il tradimento della donna verso il suo uomo al fronte, sottilmente messo in ridicolo.
La Prima Guerra Mondiale - definita con candido cinismo già nell'incipit “quattro anni di grandi vacanze” - sarà complice della relazione adulterina, mirabilmente rappresentata dal gesto di Marthe, che getta nel caminetto le lettere del marito soldato davanti al giovane amante.
Lei, ebbra d'amore, tutto sacrifica ai capricci infantili dell'amato infischiandosene dei pettegolezzi, e intanto respinge con fastidio le tenerezze del coniuge tornato per pochi giorni in licenza.
La scoperta del sesso acuisce in François, anziché placare, un odio inconscio che nel suo animo va di pari passo con l'amore: “Ce l'avevo con Marthe, perché dal suo viso riconoscente capivo tutto il valore dei legami carnali. Maledicevo l'uomo che prima di me aveva risvegliato il suo corpo”.
E' l'apoteosi della bramosia amorosa, che tutto infiamma e brucia nel suo cammino tra luci ed ombre, bugie e un paio di tradimenti che non lasciano rimorso: “Quanto meno speravo di trovarci piacere, ma ero come il fumatore abituato ad una sola marca”.
L'inizio della fine è l'immagine dei due sotto una pioggia fredda, lei incinta ed esausta, lui che finge di cercare un albergo dove trovare riparo, preso in realtà da smanie crudeli, dalla voglia di infierire su un'amante schiavizzata: strano e patetico quadretto di Sacra Famiglia in salsa profana.
L'educazione sentimentale del ragazzo si concluderà con un dolore acuto, ma che si percepisce destinato alla guarigione, curato dalla madre “come se si fosse trattato di una scarlattina”. Cadrà in piedi, almeno lui, riservando all'epilogo drammatico di una pagina della sua vita parole venate di un egoismo quasi beffardo: “Capii che, alla lunga, l'ordine si dispone da solo nelle cose”.
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L'insetto sublime
Il primo capitolo del breve romanzo si gioca sul filo del comico-grottesco.
L'impiegato Gregor Samsa, solerte e vagamente frustrato, si risveglia trasformato in un insetto mostruoso. “Non era un sogno” - si precisa subito.
La cosa singolare è che Gregor prende atto della situazione quasi con noncuranza, preoccupandosi più che altro del suo ritardo al lavoro e di non riuscire ad alzarsi dal letto, impacciato com'è nei movimenti.
Ed ecco la tipica situazione kafkiana, quel crescendo di drammaticità che nel lettore si preannuncia con leggeri brividi suscitati da frasi fortuite (non ha più gambe ma “zampette”, non cammina ma “striscia”), mentre il tenace ottimismo del protagonista-vittima appare sempre più fuori luogo.
E' già la fine, ma lui ancora non lo sa.
La pietà mista a repulsione della madre e della sorella, il senso di colpa per non poter più mantenere la famiglia e pagare i debiti del padre gli gravano addosso, insieme ai calci sferrati dal genitore rabbioso e disgustato.
Il cappio si stringe sempre più, gli si fa terra bruciata intorno, il rifugio della sua stanza diventa “tana”, e col tempo la pietà dei familiari lascia il posto a risentimento e disprezzo, mentre la sua testa di insetto si allunga invano cercando una carezza. E' ancora lui, cerca di farsi comprendere attraverso parole che somigliano a squittii, ma non vogliono più riconoscerlo: “Dobbiamo tentare di liberarcene”.
Gregor Samsa è anche Franz Kafka, uomo sublime che si credeva abietto, figlio inadeguato di un padre che lo avrebbe voluto socio in affari.
Kafka/Samsa che sa di dover scomparire, col cuore gonfio di amore inutile.
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"Perdonami, compagno..."
Questo non è un libro sulla guerra ma sulla pace, parla soprattutto di morte ma è un inno disperato alla vita.
Accostarsi alle sue pagine non è facile, è come essere costretti ad assistere ad un tragico spettacolo da cui si vorrebbe distogliere lo sguardo: cadaveri smembrati, continue esplosioni, sangue, urla e un unico, fondamentale conforto: lo spirito di fratellanza che si viene a creare tra commilitoni.
E poi, il caso che ti salva o ti fa soccombere, una manciata di secondi che fanno la differenza tra la vita e la morte, quell'impulso primordiale che spinge a correre verso una possibile salvezza perfino con le gambe spezzate. Ma la cosa peggiore è la ragione che vacilla insieme al corpo, la speranza che si spegne, il massacro dell'anima.
E' la Prima Guerra Mondiale, guerra di logoramento combattuta in trincea che falciò giovani vite strappandole dai banchi di scuola.
Ecco cosa hanno fatto - si insiste amaramente nel corso della narrazione - quelli che parlavano di eroismo e gioventù di ferro: “La nostra gioventù se n'è andata da un pezzo. Noi siamo gente vecchia”.
Vecchia e disillusa, perché guardare negli occhi il proprio nemico e capire che è un essere umano come te un attimo prima di ucciderlo è qualcosa che non ha niente a che fare con l'eroismo: “Perdonami, compagno, come potevi tu essere mio nemico?”.
Sono pagine di grande intensità quelle dedicate all'incontro ravvicinato tra il protagonista, tedesco, e un francese delle truppe avversarie, ferito a morte dalle sue coltellate.
Ore passate insieme in una buca mentre fuori infuria il combattimento, la lenta e dolorosa agonia di un uomo che il suo uccisore tenta invano di soccorrere: “Prenditi venti anni della mia vita, compagno, e alzati; prendine di più, perché io non so che cosa ne potrò mai fare”.
Pensieri indegni di un soldato e su cui è meglio non soffermarsi troppo, se si vuole sopravvivere. Ciò che conta è tornare a casa dai propri cari, a casa, dove ancora non sanno che dal fronte nessun ragazzo uscirà più veramente vivo: “Oh mamma mamma! Perché non posso prenderti nelle mie braccia, e morire insieme? Poveri disperati che siamo!”.
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Forever young
I giovani della Londra di fine secolo ne imitano l'abbigliamento distinto, per strada lo additano come modello di bellezza e stile, sul suo volto indugia da decenni tutto il candore appassionato della giovinezza. E' Dorian Gray, “Principe Gentile” per chi lo adora, “Patto col diavolo” per chi ne ha sondato gli abissi dell'anima.
Un fragrante e luminoso giorno d'estate apre il romanzo, scenario bucolico a cui fanno subito da contrasto le volute azzurre di una sigaretta “greve di oppio”: quella di Lord Henry, cinico dalle battute paradossali e alter ego dello scrittore. Sarà lui, nel corso di un primo e fatale incontro, a “convertire” un candido Dorian all'edonismo, al culto della bellezza fine a se stessa.
Lo specchio mente all'eterno giovane dandy, ed è un tipo di menzogna che gli procura un sordido piacere: il suo viso non porta i segni del tempo e delle segrete depravazioni, le emozioni più autentiche se le scuote presto di dosso, deciso com'è ad “usarle, goderle, dominarle”.
Ma ogni tanto affiorano pensieri che incutono terrore e immagini di oscene marionette ghignanti si affacciano alla sua mente parlandogli di delitti inconfessati.
Ed è impossibile sfuggire all'attrazione esercitata da quel ritratto sempre più repellente che Dorian osserva spesso di nascosto, specchio impietoso della sua anima, “come il ritratto di una pena, un volto senza cuore”.
Il romanzo di Oscar Wilde, riveduto e corretto dall'autore per adattarlo alla morale dell'epoca, non possiede probabilmente la forza della versione originale che fece gridare allo scandalo.
Il tema dell'amore omosessuale è appena accennato e lo scrittore lascia solo intuire, con qualche reticenza di troppo, le dissolutezze del protagonista, tra bettole equivoche e quartieri malfamati.
Fiore all'occhiello dell'opera è il penultimo capitolo, con le note di un notturno di Chopin che accompagnano malinconicamente le ultime illusioni, l'estremo tentativo di una confessione, le buone e vane intenzioni di un'anima dannata.
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“Lei non ha idea, maresciallo...”
Il colpevole lascia spesso, per chi sappia guardare, “una scia apparentemente irregolare, incostante, ma di fatto uniforme e dritta come una freccia indicatrice”.
Lo stile di Fruttero e Lucentini è inconfondibile, frizzante e ammiccante, con un'ironia che non risparmia nessun personaggio e strizza continuamente l'occhio al lettore.
Questo è un giallo caratterizzato da citazioni dotte, reminiscenze classiche e dantesche, e da ambienti tipici che danno un'impronta decisamente italica alla narrazione.
Siamo in Toscana, e la pineta della Gualdana, luogo ameno per vacanzieri nel periodo estivo, assume improvvisamente in una giornata d'inverno “un lucore cadaverico sbarrato dal rigor mortis di 18.300 pini”. E' un coperchio sotto il quale bollono amori, odi, rancori, solitudini e depressioni.
Ne sa qualcosa il protagonista, (ex?) depresso per il quale un omicidio e due misteriose sparizioni saranno un toccasana corroborante.
Toccherà a lui sbrogliare la matassa, lui che s'intende di alternanze maniaco-depressive e conosce bene i meccanismi tortuosi della mente.
L'intreccio è originale e ben congegnato, si legge di delitti e miserie umane senza angoscia, spesso si ride. La galleria di personaggi ricorda un po' quelle di Agatha Christie, ricca com'è di colore e brio, ma le azioni di alcuni di loro, montate ad arte per gettare fumo negli occhi al lettore, a volte non si amalgamano bene alla trama e restano distaccate dall'insieme.
Nel complesso è un romanzo godibile, che porta a riflettere con leggerezza su alcuni aspetti della vita, “gioco di infinite contrapposizioni e contaminazioni”, con un occhio all'inesorabile fatalità: “Ciò che è stato è stato, ciò che doveva accadere è accaduto, come sempre”.
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La prostituta bianca di Sadec
“Accade ogni sera, nel quartiere malfamato di Cholen. Ogni sera quella piccola viziosa va a farsi accarezzare da uno sporco cinese milionario”. Quindici anni e mezzo, scarpe di lamé col tacco acquistate in saldo, cappello di foggia maschile, vestito logoro di seta naturale adatto al clima torrido dell'Indocina.
Ha un aspetto originale che si fa beffe della ricchezza questa donna bambina di origini francesi che già cattura gli sguardi degli uomini, un fascino naturale fatto di contrasti, occhi sensuali e cerchiati che sanno ancor prima di sapere. Non si fa illusioni sulla vita, glielo impediscono lo sguardo spento e quasi folle della madre, rovinata da speculazioni sbagliate, e la malvagità del fratello maggiore, il prediletto, l' “assassino senza armi”, colui che con la su vitalità malsana “ucciderà” il fratello minore, il fratellino. Tutti e tre amano la madre di un amore dolente che va oltre l'amore: “Per quel che è stato fatto a lei, così dolce, così fiduciosa, odiamo la vita e ci odiamo”.
I ricordi si accavallano in questo romanzo, c'è un prima e un dopo e poi ancora un prima, prima e dopo “l'esperimento” con il giovane cinese, uomo consumato dalla passione per la bambina bianca. Continui passaggi dalla prima alla terza persona, un tono disincantato che svela i pensieri più inconfessabili, i fatti più intimi, odori, suoni e colori di una terra “che non ha primavere, non ha risvegli”: c'è tutto questo nella memoria della scrittrice.
E c'è la garçonnière dell'uomo di Cholen, rifugio dal presente, luogo di piaceri proibiti dove “approfondire la conoscenza di Dio”, dove piangere sul passato e sul futuro mescolando le sue lacrime con quelle dell'amante.
E' sola la ragazzina disonorata, sola con il suo corpo “abbandonato all'infamia di un piacere che fa morire”, sola col suo dolore inaspettato mentre lascia l'Indocina alla volta della Francia.
Appoggiata al parapetto della nave che abbandona il porto guarda la limousine nera dell'amante cinese e avverte il suo addio silenzioso: “E poi alla fine non l'aveva più vista. Era sparito il porto e poi la terra”.
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Cuore di uomo
Gustoso pezzo di satira fantascientifica, queste breve romanzo suscita compassione, ilarità e raccapriccio a fasi alterne, caratterizzato com'è da immagini vivide e da una prosa potente che non perde un colpo.
Ed è un crescendo di tensione emotiva, mentre i fatti si susseguono tra il comico e il grottesco, riportati con dovizia di particolari e logica apparente.
C'è Pallino, cane randagio e maltrattato, che osserva e giudica acutamente il genere umano, con un'innocenza inconsapevole che lo rende subito simpatico: “Uuuuhhh, guardatemi sto morendo!”.
C'è il luminare della scienza che lo raccoglie dalla strada, facendone di lì a poco una cavia per un esperimento senza precedenti: trasformarlo in essere umano con il trapianto di ipofisi e organi genitali prelevati da un cadavere.
E Pallino diventa “il signor Pallinov”, mentre i suoi occhi fedeli si velano di sarcasmo e i latrati diventano turpiloquio.
Ma è lecito sopprimere una buona bestia per ridare vita ad un cattivo essere umano?
Le leggi di natura vilipese scatenano il caos e l'omuncolo, ex cane, rivela subito un animo rozzo e meschino, finendo per legare con politicanti “amici del proletariato” e assimilando il loro ottuso burocratese contro il suo “paparino”: “Il vero disastro è che lui non ha più un cuore di cane ma un cuore di uomo”.
I sostenitori del regime sovietico vengono descritti senza tanti giri di parole alla stregua di un manipolo di cialtroni (il che portò al sequestro dell'opera da parte del KGB), ma l'ironia di Bulgakov non risparmia neppure lo scienziato altezzoso, che lucra quotidianamente sul desiderio di ringiovanimento dei suoi pazienti con interventi aberranti.
Non è certo fra questi personaggi, diversi ma tutti ugualmente specchio di una società malsana, che vanno ricercate verità e purezza, ma nei pensieri di una bestiola che adora senza condizioni il suo “benefattore”, sdraiata in dormiveglia su un tappeto: “E' vero che m'hanno tagliuzzato la testa in lungo e in largo e chissà perché... ma passerà”.
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Per fortuna va tutto bene
Cuore pulito, mente sveglia, piedi ben piantati per terra. E' il ritratto che viene fuori da questa autobiografia, seguito di un libro dove il protagonista narrava la sua infanzia di colono italiano in Etiopia. Qui si riparte dall'Eritrea, dove la sua famiglia è costretta a trasferirsi a seguito dei disordini di Addis Abeba.
L'impero coloniale dell'Italia fascista in Africa è agli sgoccioli e sono gli inglesi a prendere il sopravvento, con una politica che lascia però molta libertà agli italiani insediati nel posto.
Le pagine scorrono veloci, tra i ricordi di un ragazzino che non trascura i minimi particolari di un'esistenza decisamente felice, dove i problemi si appianano “con l'aiuto di Dio”, il coraggio e la buona volontà.
Lo stile non è perfetto, a volte ci si perde in dettagli superflui, ma è un difetto che a tratti diventa perfino un pregio, vista la purezza della narrazione: “Mi piace osservare le formiche che camminano velocemente una dietro l'altra lungo la pista che si forma man mano che transitano. Alcune trascinano un pezzo d'erba più grande di loro. Non me la sento proprio di ammazzarle”.
Attraverso i suoi occhi limpidi scopriamo usi e costumi di un pezzo di terra africana, dove gli italiani vivono e lavorano in tutta tranquillità mentre l'Europa è straziata dalla guerra.
Il suo ritorno in Italia, ormai adolescente, ci offre uno spaccato di vita dal dopoguerra fino agli anni Sessanta da cui emergono con chiarezza i germi dei mali che avveleneranno il Paese nel corso degli anni. Ma Lorenzo va dritto per la sua strada, tra studi universitari, servizio militare e festicciole,
fino alla laurea, festeggiata in famiglia con una torta “senza candeline” preparata dalla madre, al primo lavoro e, soprattutto, al coronamento del suo sogno d'amore: “Usciamo dalla Chiesa tra gli abbracci festosi di tutti e il saluto del sole”.
Sono pagine che allietano lo spirito e fanno riflettere senza inquietare, mentre si finisce per aspettare la consueta e rassicurante frase del narratore: “Per fortuna va tutto bene”.
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Le stelle negli occhi
“A mio padre che non vuole andar sulla Luna perché sulla Luna non ci sono fiori né pesci né uccelli”. Questo libro è molto più che la cronaca di un viaggio nel mondo degli astronauti, perché c'è dentro la metamorfosi di un'anima: quella della stessa autrice, giovane donna già lontana dai dogmi della Chiesa ma non ancora atea, ironica ma non ancora cinica.
Un anno passato a contatto con i gladiatori dell'era spaziale, “che voglion andar sulla Luna perché il Sole potrebbe morire”, basterà a convertirla, a convincerla che progresso e futuro hanno un prezzo che vale la pena pagare: montagne affettate, fiumi deviati, alberi abbattuti. Ma esplorare sempre nuove frontiere è un imperativo a cui l'umanità non può sottrarsi, perché rompere le catene che ci tengono legati alla Terra è una sfida esaltante che affonda le sue radici nella lotta per la sopravvivenza.
Grazie ad un sapiente uso del flash-back, il ponte tra passato e presente, tra vecchio e nuovo mondo, dà esattamente l'idea di ciò che è stato e che occorre lasciarsi alle spalle per abbracciare la causa di chi guarda ardito al futuro: “Un albero solo non conta. Mettiti in testa che un albero solo non conta e comprenderai che la morte non esiste, papà”.
Il lettore contemporaneo sorride ormai di certe previsioni scientifiche datate 1965, come la convinzione che nel 1990 i razzi sarebbero diventati normali mezzi di trasporto, ma la forza che la Fallaci riesce ad imprimere alle pagine non ne viene intaccata.
Dalla parlata fiorentina che caratterizza l'intera narrazione fa continuamente capolino un'ironia che non risparmia neppure i più autorevoli scienziati e tecnici della NASA, mentre si scopre che gli eroi forse è meglio non guardarli troppo da vicino per non rovinare l'effetto e che la Luna non è affatto bianca e luminosa come appare dal nostro pianeta, ma più nera del nero.
Eppure fuori dall'atmosfera terrestre qualcosa c'è, un mistero di cui ci si innamora e che si lascia con rimpianto. Lo sanno bene quelli che ci sono stati e che dopo, con le stelle negli occhi, continuano per mesi a camminare guardando il cielo con aria assente.
Il lato umano di un mondo automatizzato, è questo che ci fa scoprire la scrittrice, interessata, più che alla spiegazione di certi sistemi automatici, a certe rughe precoci intorno agli occhi di chi sta intervistando: “Era come scoprire, non so, che in cielo vengon le rughe, che anche gli angeli diventano anziani, e dava una sensazione spiacevole, colma di perplessità”.
Ma assistere per la prima volta al lancio in orbita di un razzo metterà anche a lei, per sempre, le stelle negli occhi, rivelandole quanto siano meravigliose le potenzialità dell'uomo, anche quando trasforma il paradiso in inferno: “per un minuto, uno stupendo minuto, m'è sembrato di vedere gli uomini che giocavano a carte con Dio”.
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“Povera mamma...”
E' un racconto che possiede le caratteristiche di un sogno ad occhi aperti scaturito dall'odio viscerale di una quattordicenne, non più bambina e non ancora adulta, sola in quella terra di nessuno che è l'inizio dell'adolescenza. Ma Antoinette non è un'adolescente qualunque, possiede già in potenza la sensualità di una donna e un'intelligenza acuta che le permette di giudicare gli adulti con spietata cognizione di causa.
“Non sei molto sveglia, temo, povera figlia mia”, sospira spesso Rosine, madre odiosa e odiata.
Il sapore salato e amaro di lacrime di umiliazione è una costante nelle scene di vita familiare, ma sono lacrime che non scorreranno impunemente, e Rosine, donna dalla rabbiosa voglia di godersi una vita di lussi arrivati forse troppo tardi, da carnefice diventerà la vittima perfetta.
La figlia entra senza difficoltà nella sua mente limitata e ne scandaglia i pensieri: il desiderio di un amante, l'angoscia di scorgere i primi segni di vecchiaia davanti allo specchio, la paura di essere presa in giro da chi dovesse scoprire che non è nata ricca.
I suoi vezzi da parvenue, come quello di dare del lei al marito in presenza dei domestici o di addobbarsi di gioielli dalla testa ai piedi, diventano inutili e patetici di fronte al giudizio implacabile di Antoinette - e alla sua implacabile vendetta.
Il giorno del ballo, organizzato in gran pompa per entrare ufficialmente negli ambienti che contano, segnerà l'inizio di qualcosa per entrambe: una comincerà a vivere “ricca del suo avvenire”, l'altra, “raggomitolata su stessa”, a morire.
Spettatrice e attrice, la ragazzina si godrà gli effetti dello sfacelo di cui è artefice, con “una sorta di sdegno, di indifferenza sprezzante” che stupisce chi non conosce già la sensibilità furiosa della Némirovsky e dei suoi personaggi.
La battaglia è vinta, la vendetta è compiuta: Rosine è finalmente distrutta, umiliata, annientata...
E' il momento di concedere al nemico, con una carezza senza affetto, l'onore delle armi: “Povera mamma...”.
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Generazione call center
Non è solo di giovani “choosy” che si parla in questi cinque racconti, sebbene ampio spazio sia dedicato a quelle generazioni defraudate del loro futuro e accusate di inerzia proprio da chi a quell'inerzia le ha condannate.
Ciò che spicca è il grigiore e la mediocrità del quotidiano, le delusioni che i protagonisti di queste storie finiscono per accettare passivamente come dati di fatto.
Il racconto di apertura, ritratto di una famiglia moderna, è il meno riuscito, per una generale banalità di contenuti che non riesce a coinvolgere il lettore.
Un po' meglio il secondo, grazie ad alcuni passaggi di una certa efficacia: l'atteso pasto serale ad alto tasso alcolico dell'impiegata di un call center, la “luce inutile” di una giornata di sole, l'attimo di gratificazione che le regala la parola gentile di uno sconosciuto, materiale con cui imbastirà i suoi sterili sogni.
Stravagante e provocatoria, nel terzo racconto, l'idea di una Casa di Lavoro per quarantenni precari con alle spalle una lunga sfilza di curricula ignorati e colloqui falliti. Si tratta di un alloggio alternativo garantito dalla società a quei giovani non più tanto giovani che non hanno ancora lasciato casa e non trovano un lavoro stabile, una via di mezzo tra un regime carcerario con libertà condizionata ed un ospizio (c'è anche il parlatorio per le visite settimanali dei genitori).
Non può mancare, poi, il perdente per antonomasia, sbeffeggiato al lavoro, tradito e disprezzato dalla moglie, figlio di serie B che conserva come un tesoro “il ricordo tiepido” della madre che lo aspettava sveglia di notte quando era ragazzo. Lui, “patetica, insulsa marionetta”, di colpo consapevole di esserlo, con una sofferenza che è “contrazione al cuore”.
L'ultima storia ha il tono struggente di un dolore ingestibile come l'afa di un giorno d'estate, di un ritorno al paese d'origine tra facce sudate e senza sorriso, di un amore perduto insieme a tutte le certezze, e di un rancore mai sopito: “Forse è proprio per questo che non piove da tanto. A pregare dev'essere solo gente come mio padre”.
Lasciano senza dubbio qualcosa questi spaccati di vita, con pagine più riuscite di altre che rivelano talento e idee. Ma l'autrice avrebbe dovuto osare di più, approfondire i passaggi più intensi, affondare senza esitazione il dito nella piaga e, soprattutto, non sottovalutare la forza corrosiva dell'ironia.
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Il diavolo in groppa
Nella medicina moderna si chiama dipendenza sessuale, una patologia che risucchia ogni capacità di raziocinio. Brancati, oltre mezzo secolo fa, ne ha fatto letteratura in un romanzo che porta il lettore fino alle più alte vette dell'intelletto, con elucubrazioni di sapore proustiano, per farlo bruscamente precipitare nella cloaca dei più bassi istinti.
Ne esce fuori il ritratto di un uomo intelligente e dall'indole sensuale, fatalmente dilaniato da forze contrapposte.
Cresciuto tra pranzi luculliani, canzoni strimpellate alla chitarra per favorire la digestione e avventure galanti, Paolo Castorini, precoce nei suoi primi impulsi erotici sulla scia dei parenti maschi, viene iniziato al sesso dalla domestica Giovanna, «la sputacchiera di famiglia». Solo il padre, malaticcio e disgustato dai sensi, di intelligenza sopraffina e - si vedrà in seguito - profetica, costituisce l'eccezione che conferma la regola.
Le priorità del baronetto catanese sono chiare: «Entrare per la prima volta nell'intimità di una donna: ecco un momento sublime». E di momenti simili Paolo ne conoscerà parecchi, una volta trasferitosi a Roma ed entrato a far parte dei decadenti salotti letterari della Capitale, descritti con dovizia di particolari.
Proprio a lui - si vocifera negli incontri tra intellettuali all'insegna del pettegolezzo piccante - le signore mature dovranno «il colorito della domenica».
Della donna - di qualsiasi donna - Paolo brama «quell'odore di pensieri sconvolti, il sudore della sua anima», fino alla vertigine del bene dell'intelletto.
L'amore e la vita coniugale, «voluttà benefica, ristoratrice dell'intelligenza», sembrano offrirgli un porto di quiete, ma non per molto. Il riserbo e l'orgoglio del siciliano, più forti che mai nei momenti critici, gli impediscono di chiedere esplicitamente aiuto alla moglie quando «il diavolo in groppa» si fa risentire. La scissione tra sesso e sentimento diventerà per lui sempre più netta, trasformando in depravazione il primo e in ideale angelicato il secondo.
Il romanzo, sia pure postumo e mancante degli ultimi due capitoli, ha un finale ben preciso, secondo le ultime disposizioni dello scrittore. L'impressione singolare che se ne ricava è che Brancati, con poche righe vergate in fretta, sia stato costretto ad abbandonare il suo personaggio ad un destino ineluttabile, più forte persino della sua volontà di autore.
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Sottrarsi al nulla e vivere
Questo libro è il frutto dolceamaro di un periodo di lotte femministe, ma è anche specchio impietoso di quesiti esistenziali, espressi con stile struggente e caustico.
Decidere se dare la vita o negarla, quando non si crede in Dio e nella vita, significa dover percorrere da soli un sentiero pieno di contraddizioni laceranti.
La protagonista è una madre che gronda tenerezza dalle unghie, capace di difendere il suo bambino contro tutto e tutti, ma forse non contro se stessa. E' il prezzo da pagare alla cosiddetta maternità consapevole, che disdegna ogni forma di retorica da melodramma.
Ed ecco sbocciare l'amore più puro, quello non imposto dallo Stato e dalla religione, amore caparbio verso una creatura che prende forma: “Dormiamo insieme, abbracciati. Io e te, io e te... Nel nostro letto non entrerà mai nessun altro”.
E invece il mondo ci deve entrare, con le sue leggi buone per tutte le stagioni, con le sue ipocrisie: “Tu che non conosci ancora la peggiore delle verità: il mondo cambia e resta come prima”.
Una madre deve fare anche questo, preparare il figlio a difendersi dalle prepotenze, raccontargli favole senza lieto fine, insinuargli il dubbio: vale davvero la pena sottrarsi al nulla e vivere?
Ma sul terreno sdrucciolevole del dubbio lei stessa finisce per inciampare, e i sentimenti ostili di una donna che non fa sconti neppure a se stessa prendono il sopravvento: “Ti insinuasti in me come un ladro, e mi rapinasti il ventre, il sangue, il respiro. Ora vorresti rapinarmi l'esistenza intera. Non te lo permetterò”.
E' la zampata di una tigre abituata agli spazi aperti e costretta all'immobilità da una gravidanza difficile, forse è solo un momento di stizza, ma necessario come la vita stessa.
Costerà “vallate di tristezza invano fiorite d'orgoglio”, ed approderà ad una speranza carica di disillusione, messaggio estremo rivolto ad un essere che alla fine, avvilito, ha smesso di lottare:
“Il dolore non è il sale della vita. Il sale della vita è la felicità, e la felicità esiste: consiste nel darle la caccia”.
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Non avrò più paura
Questa è la storia di un diario atipico, il diario di un corpo, meccanismo ad orologeria per eccellenza, e di un fermo proposito: “Non avrò più paura”.
Un punto di vista, quello del corpo, “radicalmente diverso”, prima di tutto perché non mente mai, e poi perché, “stramaledetto groviglio di nervi”, esige sempre di essere assecondato.
Aggrapparsi alla propria realtà fisica, registrandone le sensazioni, significa per il protagonista bambino sfidare la paura di esistere a dispetto di una madre che lo considera un tentativo fallito, “fantasma” di un padre tornato dalla guerra inesorabilmente spezzato.
Ma è a questa roccia spezzata che lui si aggrappa, e alla domestica Violette, autentica figura materna, così diversa da quell'altra che verrà ricordata solo per la sua “orgogliosa, menzognera e pontificante imbecillità”.
E poi c'è Dodo, fratellino minore che lo aiuta nei momenti più duri e che scompare magicamente con la fine dell'infanzia, senza però dimenticarsi di lui...
L'amore fisico sarà quello che lo terrà legato indissolubilmente alla donna della sua vita (“ho trovato la mia femmina”), e poco altro il lettore verrà a sapere della sua vita di coppia, o del suo lavoro di uomo d'affari.
La sua donna, gli amici d'infanzia, i figli, i nipoti, i pronipoti: affetti solidi che dovranno però fare i conti con l'ineluttabile, con la scomparsa fisica che i ricordi non bastano a compensare.
La narrazione perde mordente con l'arrivo della mezza età, diventando interessante nella misura in cui può esserlo la conversazione con una persona anziana di umore un po' malinconico: acciacchi, aneddoti già sentiti, prodezze verbali di intelligentissimi nipoti.
Altro limite del libro - limite per certi versi “fisiologico” - è il senso di fastidio che alla lunga trasmette l'attenzione meticolosa, quasi maniacale, verso tutte le variegate e non sempre gradevoli manifestazioni corporee, tanto che l'indice analitico posto alla fine, a mo' di appendice semiseria, ricorda quello di un'enciclopedia medica.
Se si aggiunge qualche pagina non molto verosimile, e che indugia un po' sul sentimentalismo, il romanzo non può certo definirsi un capolavoro, ma ha il merito di descrivere con efficacia la parabola discendente di una vita - “della” vita.
Ma che senso dare ad una realtà che ha per tutti una data di scadenza?
La risposta è forse racchiusa nelle parole di tenerezza che il protagonista rivolge alla figlia, a cui il diario è affidato: “Oh! Mia Lison! La felicità senza alcun altro motivo che la felicità di esistere”.
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U carannuluni
Il titolo, innanzitutto: un concentrato di ironia e di verità beffardamente rivelata e taciuta.
In effetti, protagonista del romanzo è Giovanni, quarantenne siciliano con una particolare predisposizione alla pennichella pomeridiana, servito e riverito dalle tre sorelle zitelle.
Nel tempo libero dal riposino e dal lavoro in un negozio di stoffe, dove si impegna «ad aiutare con gli occhi» lo zio e i cugini, Giovanni insegue «la donna» per le strade di Catania in compagnia degli amici, andando in visibilio per uno sguardo indifferente, un centimetro di pelle scoperto, un contatto casuale: «Non posso guardare nemmeno una caviglia che... uhuuuu!». Molte chiacchiere e pochi fatti, in realtà, ma che importa? Nella città siciliana «i discorsi sulle donne davano maggior piacere che le donne stesse».
Del resto crogiolarsi nella contemplazione di una bellezza può essere altrettanto piacevole che allungare la mano per afferrarla, e sicuramente meno faticoso.
L'amore per una «continentale», il matrimonio e il trasferimento a Milano stravolgono le sue abitudini: non più abluzioni mattutine con acqua bollente, ma docce fredde, poco cibo e ginnastica svedese, fino a far sparire stoicamente la tentazione di strusciarsi contro i caloriferi e di imbacuccarsi. «Tu sei un altro!» esulta la bellissima moglie.
«L'altro», tra insipide scappatelle ed un solido amore coniugale, non sembra infelice, guarito persino dalla fregola dei lunghi anni da scapolo. Fino al ritorno alla terra d'origine per un breve soggiorno: «Facciamo una corsa in Sicilia, e torniamo subito!».
Tornerà Giovanni? Già passato lo Stretto, il lettore è avvolto da odori e voci ammalianti, da tutto un turbinare di spezzoni di vita nel sole di maggio, tra alberi di pepe, casse di zolfo e scorze di limone sulla strada bagnata. C'è il lauto pranzetto cucinato dalle sorelle, la vecchia stanzetta che lo accoglie, quel gradevole brivido di freddo che lo induce a mettersi solo per un momentino sotto le coperte... ed ecco che ritornano i pensieri ardenti di un tempo, «un'onda di sangue calda e mormorante», e un lungo sonno ristoratore.
«U carannuluni», volatile esausto e privo di meta, è tornato a casa.
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Il più bello dei siciliani
Il libro inizia con una nota allegra, un'ironia arguta che si affievolisce con lo scorrere delle pagine, fino a lasciare spazio solo all'amarezza.
Sullo sfondo di un'Italia ammaliata e umiliata dalla morsa fascista, si staglia il viso d'angelo di Antonio Magnano, che turba i sogni di ogni femmina del creato: belle o brutte, giovani o vecchie, caste o licenziose, tutte si getterebbero volentieri ai suoi piedi, “bruciando dolcissimamente”.
La prima vittima è la cameriera di casa, che nottetempo, in una scena semiseria, si graffia il viso e si straccia le vesti dietro la porta del “signorino” ignaro: “Chi mi mise questo fuoco grande nelle vene?”.
Giovane mite e dalle abitudini provinciali, orgoglio dei genitori che da Catania lo mandano a Roma a studiare Legge, Antonio non sembra trarre giovamento dalla sua posizione privilegiata, “pigro e sincero come il cameriere di un caffè siciliano in un pomeriggio d'agosto”.
Un'indolenza dalle sfumature sempre più tetre, che tutti attribuiscono senza ombra di dubbio ad un'eccessiva pratica dell'arte amatoria. Delle sue avventure romane di sciupafemmine si raccontano mirabilia, e pare che nelle alte sfere lo tengano in palmo di mano.
Torna in Sicilia dopo la laurea, in quel Sud “povero di avventure” dove lo aspetta la madre con l'uovo sbattuto e il padre fiero di lui. Quel senso di gelo che lo attanaglia, quella condanna inconfessabile sembra sciogliersi di fronte al miracolo dell'amore, ma è un'illusione di breve durata: “Il rumore di quello scandalo fu avvertito da tutta Catania come un boato dell'Etna”.
E' la morte sociale, l'onta inaccettabile anche per la Chiesa, l'umiliazione pubblica in un luogo e un'epoca dove non si ammette impotenza di sorta. Di grande impatto emotivo il dolore dei due anziani coniugi, che si asciugano a vicenda le lacrime per “la disgrazia” toccata al loro unico figlio.
Ci sono le beffe dei fascisti, ovviamente, ma c'è anche, cosa peggiore, la semplice cattiveria umana che ama infierire sui perdenti.
Ma è davvero uomo chi scende a compromessi con le proprie idee, leccando i piedi dei potenti, come avviene nel periodo fascista? E' uomo chi prende con la violenza una donna di condizione sociale inferiore, vantandosene come di una prodezza? Questo sembra chiedersi tra le righe lo scrittore, insieme a qualche considerazione filosofico-esistenziale messa in bocca ai protagonisti che rende un tantino prolissa la narrazione.
Toccante il finale, con i singhiozzi e “i sibili di un petto che, da molti anni, non si apriva a larghi respiri di felicità”.
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Amélie contro Amélie.
Amélie contro Amélie. Da un lato c'è Prétextat Tach, premio Nobel per la Letteratura, vecchio obeso e spietato, malato nei suoi ultimi mesi di vita. Rimpinza da sessantasei anni il suo corpo lardoso di tutto ciò che è commestibile e possibilmente nauseabondo, ed è l'emblema stesso del disturbo da alimentazione incontrollata, “mostro” che sembra in qualche modo emergere in tutte le opere della Nothomb.
Dall'altro lato c'è Nina, giornalista che riesce nell'impresa ritenuta da tutti impossibile: dargli del filo da torcere. Lo fa lanciandogli una sfida dialettica all'ultimo sangue con una bizzarra posta in gioco: chi dei due cederà per primo dovrà strisciare - letteralmente strisciare - davanti all'altro. Comincia un gioco di frasi al vetriolo, battute spiazzanti, insulti, finte, colpi bassi, mentre si fa strada una verità tenuta per anni nascosta nel posto più impensabile, vale a dire sotto gli occhi di tutti.
Prétextat Tach odia e disprezza gli esseri umani in generale e le donne in particolare, donne nel senso di non-più-bambine, contaminate dalla pubertà per diventare ripugnanti macchine da riproduzione: “Non è né la morte né la vita, né uno stato intermedio. Si chiama essere donne”. Vivere in eterno, nell'ottica dell'“assassino”, significa non abbandonare mai l'Eden dell'infanzia, anche a costo di scelte estreme, anche a costo di uccidere.
Non è il caso di impermalirsi, si sa che i libri di Prétextat “rigurgitano di spacconate” (sono parole della giornalista), con “un'alternanza continua tra passi carichi di senso e parentesi di bluff assoluto”. In questo risiede parte del loro fascino, e spetta al lettore riuscire a distinguere ciò che è simulazione da ciò che non lo è – compito arduo ed esaltante.
Ma è ancora più difficile rispondere ad una domanda: chi ha vinto davvero alla fine, Nina, o piuttosto la demenziale logica del vegliardo?
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“Sono stato io a soffiarci, cara!”
“Dicono cose che, se potessimo udirle, ci farebbero semplicemente inorridire”.
Giocando sul filo dell'ambiguità, in questo romanzo di stampo horror-psicologico James lascia che sia il lettore ad esplorare con la sua immaginazione gli abissi del Male, “abissi cristallini”, come gli occhi belli e innocenti di due fanciulli che si muovono con grazia nella quiete di un paesaggio rurale.
E' la loro giovane istitutrice, solerte e ipersensibile, a percepire un pericolo incombente, una terribile intesa tra una coppia di spiriti dannati e le anime pure di Miles e Flora, i suoi due allievi, indotti alla depravazione e contaminati da un influsso malefico.
Sono bambini intelligenti e bellissimi, allievi modello che incantano la donna col loro fascino fino a quando strane apparizioni non mettono ogni cosa in discussione.
Perché, forse, fratello e sorella non giocano, ma fingono, forse non chiacchierano innocentemente tra loro, ma complottano. Terrificante rivelazione, non supportata da alcuna prova oggettiva, ma confermata da troppi indizi.
Parole pronunciate candidamente nel buio di una stanza, con la candela spenta dall'irrompere improvviso di una folata gelida (“Sono stato io a soffiarci, cara!”), danno la misura della lotta tra forze in opposizione che avviene nel piccolo Miles, figura carismatica e poco infantile.
Così come l'atteggiamento “davvero sconvolgente” della sorella, che si lascia andare ad un “lurido linguaggio”, furiosa una volta che l'istitutrice la affronterà apertamente.
Tocca a lei salvarli - la protagonista avrà chiara fin dall'inizio questa certezza - e cercherà di farlo senza alcuna esitazione, guidata dall'istinto.
Lo stile di James è talvolta contorto ed induce il lettore a rileggere certi periodi per coglierne appieno il significato. Ma è proprio quando il non detto raggiunge livelli profondi e quasi insondabili che la narrazione si fa più intensa, e dalle tenebre avanza l'ineluttabile.
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Gli hot dog di boulevard de Ménilmontant
C'è sicuramente del buono in questo romanzo della Nothomb, costruito su dialoghi serrati e farcito, soprattutto all'inizio, di battute politicamente scorrette e ironia demenziale.
Lo stile asciutto e tagliente di certe frasi somiglia a quello dei “Racconti del terrore” di Edgar Allan Poe, e la stessa figura ambigua del protagonista ricorda per certi versi lo scrittore americano.
Eppure qualcosa non mi ha convinto. In meno di ottanta pagine mi aspettavo solo il concentrato del meglio all'ennesima potenza, invece accanto a frasi mordaci spuntano banalità che smorzano tutto l'effetto, forse difficili da evitare in una narrazione “botta e risposta” senza capitoli né paragrafi. Ma tant'è.
L'opera a mio parere meritava maggiore attenzione nelle rifiniture, non l'ho trovata abbastanza ben congegnata per essere un thriller degno di questo nome. La trama poi è un po' stiracchiata, al limite del dilettantesco, oltre che poco originale.
A salvare la forza del libro è un certo gusto per l'eccentrico sempre in agguato: esistono davvero gli hot dog di boulevard de Ménilmontant, vicino al cimitero del Père-Lachaise, a cui non si può proprio rinunciare, a rischio di perdere di vista l'amore della propria vita?
E ancora: siamo sicuri di non avere dentro di noi quella “forza oscura” che potrebbe persino indurci a mangiare vomitevole pappa per gatti?
Queste e altre domande di “abissale profondità”, che più di un lettore si sarà probabilmente posto, rendono comunque il romanzo degno di essere letto.
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La Parata di Pasqua
Perché Yates non sembra provare un minimo di pietà per i suoi personaggi?
E' probabile che non ne avesse neanche per se stesso, perpetuamente assetato di alcol, sistematicamente preso a pugni da una vita difficile, fondamentalmente solo.
C'è molto di lui in una delle due sorelle protagoniste del romanzo, mentre Pookie, la loro scomoda madre, ricorda in modo imbarazzante la sua.
The Easter Parade, tradizionale Parata di Pasqua newyorkese, resterà il punto più alto dell'esistenza di Sarah e Tony, giovane coppia che verrà immortalata alla sfilata in una foto del New York Times. L'immagine di perfetta felicità, incorniciata e appesa al muro per anni, somiglierà sempre meno ad una realtà fatta di violenza, umiliazioni e fallimenti - ammesso che abbia mai rappresentato qualcosa di vero.
Sarah, cocca di papà da bambina, poi madre e moglie “felice”, nasconderà sempre dietro un sorriso fatuo e cristallizzato l'inferno domestico che finirà per distruggerla: “E' un matrimonio. Se vuoi restare sposata, impara a sopportare le cose”.
Emily, la sorellina un po' inadeguata, la “povera” Emily, passerà da un uomo all'altro nel suo incolmabile bisogno d'amore, ostentando una sicurezza e un'indipendenza che non ha. Nessuna delle sue relazioni si rivelerà quella giusta: fin dall'inizio, in ognuna di esse si intravede l'inesorabile fine, il vizio di forma con cui prima o poi occorrerà fare i conti.
E i conti non torneranno mai per le sorelle Grimes, zavorrate fin dall'infanzia da una madre ottusa e volgare, rivali nel contendersi l'affetto del padre - altro formidabile perdente.
Chiave di volta del romanzo è la sostanziale incomunicabilità tra i personaggi, chiusi nel loro egoismo, aggrappati a brandelli di felicità, gelosi persino delle loro stesse sofferenze.
Ancora una volta Yates sa dove colpire per fare più male possibile: il sapore aspro della sconfitta si avverte in ogni frase, in ogni singolo aggettivo, buttato là come per caso a smascherare spietatamente ogni illusione.
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Tutto sarà giusto
Il Demonio che si manifesta ai miscredenti per proclamare con la sua presenza l'esistenza di Dio, e senza smettere di tramare piani di morte e distruzione nel mondo compie inaspettatamente giustizia. Assunto per certi versi inaccettabile, ma è ciò che avviene nel capolavoro di Bulgakov: “Questo è un fatto. E i fatti sono la cosa più ostinata del mondo”. E' la seduzione del Male, probabilmente, ma sarebbe troppo facile liquidare la questione in questi termini.
Non è un'opera semplice questa dello scrittore russo, ricca com'è di simbologia e di spunti dal sapore fantastico e onirico. La loro interpretazione è quasi una sfida che il narratore lancia a chi legge, soprattutto ai seguaci del regime staliniano che vietarono la pubblicazione del suo romanzo.
Sapienti cambi di registro spiazzano il lettore, sconvolgendolo, dapprima, di fronte alla comparsa di Woland, il Maligno, per poi divertirlo con scene esilaranti, comico-grottesche, attuate dalla coppia di “canaglie” che fa parte del suo seguito.
Drammatica la scena della Passione di Cristo “filosofo vagabondo”, narrazione nella narrazione, così diversa da quella raccontata dai Vangeli ma di grande impatto emotivo, e la disperazione di Ponzio Pilato, che non si dà pace per avere condannato a morte un innocente, che dal canto suo non lo incolpa, ma che lascia questo mondo puntando significativamente il dito contro la vigliaccheria, “il peggior vizio dell'uomo”.
E poi c'è la storia d'amore tra il Maestro, autore del romanzo su Ponzio Pilato che i critici rifiutano, e Margherita, affascinata dalla sua opera. Un amore clandestino (lei è infelicemente sposata), che pugnala “inatteso e violento come un assassino che sbuchi fuori all'improvviso”, ma per salvare il quale vale la pena vendere l'anima. Scelta, quest'ultima, dai risvolti tutt'altro che negativi.
E come a sottolineare che Bene e Male sono due facce della stessa medaglia, sarà Yeshua - Gesù - a pregare Satana affinché ricompensi almeno con la pace eterna “chi non ha meritato la luce”.
Sarà il fuoco della satira - ma anche un incendio vero e proprio, incendio infernale – a spazzare via tutto ciò che a Mosca c'è di ipocrita, meschino e mediocre, mettendolo in ridicolo, riducendolo in cenere e lasciandoselo infine alle spalle. Vendetta è fatta: nel Maestro, alter ego dello scrittore, il sentimento di “profonda, sanguinosa offesa” lascia il posto ad “un'indifferenza altera”, e infine ad un presentimento di pace.
Promette Woland: “Tutto sarà giusto, su questo si basa il mondo”.
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Un'illusione più vera del vero
Questo breve romanzo è un gioco di specchi che rimandano l'immagine della Nothomb e delle migliaia di lettori con cui la scrittrice si diletta a intrattenere una corrispondenza.
Non per email, ma con le vecchie lettere cartacee, quelle che prima di essere aperte si osservano e si soppesano con curiosità.
Nel caso in questione, si tratta di un lettore oversize, un drogato di cibo che riempie il vuoto della sua vita ingozzandosi con foga.
E' uno che “vuole esistere per lei”, che ha scelto lei per chiedere un aiuto particolare: evadere dal suo mondo isolato e squallido per vivere nella sua mente.
Scrive, e ingrassa compulsivamente, in una smania che è al contempo costruzione e autodistruzione. L'adipe è volontà di vivere e morire, la ciccia debordante diventa persino la donna della sua vita, che di notte, al buio, gli parla dolcemente: “Se nella mia esistenza ci fossero soltanto le notti, sarei l'uomo più felice del mondo”.
Come resistere alla sublimazione di ciò che normalmente ispira ripugnanza? E Amélie non resiste, sta al gioco ed entra in perfetta sintonia con il suo corrispondente obeso. Le ispira affetto, voglia di sapere e di soccorrere.
C'è una storia nella storia, c'è la scrittrice affascinata dalla metamorfosi di un corpo ipernutrito, con la sensibilità morbosa di chi ha sofferto di disturbi alimentari.
Questo libro emoziona, perché riesce a racchiudere in poche pagine un'illusione struggente che diventa più vera del vero, e lo stile della Nothomb possiede un'eco che ricorda le lapidarie e preziose frasi di Victor Hugo.
Il finale, dal punto di vista della trama, è forse un po' superficiale, ma rivela molto della scrittrice, della sua “vita impossibile”, dei suoi tormenti: “Essere uno scrittore per te significa cercare disperatamente la porta d'uscita”.
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Preghiere esaudite
“Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio”.
La biografia dello scrittore americano Truman Capote, eccezionale lavoro di Gerald Clarke scritto in quattordici anni, è una di quelle letture che assorbono in modo assoluto, restando impresse nella memoria di chi legge. Impossibile non accostarsi ai suoi libri dopo averlo conosciuto così da vicino, impossibile non restare affascinati dalla sua personalità brillante.
Il cognome dal suono bizzarro, acquisito dal patrigno con il padre naturale ancora in vita, sembra in qualche modo preannunciare la vita intensa e fuori dagli schemi a cui è destinato. Cresciuto senza l'affetto dei genitori, ferito nel profondo da una madre alcolista amata e odiata, sente forte fin da adolescente la voglia di sfondare nel bel mondo, consapevole delle sue potenzialità.
Ci riesce, e farà molto parlare di sé, per il suo carisma, il suo anticonformismo, e per un talento che emerge già dalle prime opere. Non c'è personaggio del jet set degli anni Cinquanta-Settanta di cui Truman non sia stato amico, tra viaggi, feste grandiose e, fatalmente, sempre più alcol.
E all'improvviso, il fatto di cronaca che sembrava in qualche modo aspettarlo, strappandolo alla sua esistenza frivola e conducendolo in uno sperduto angolo del Kansas: l'omicidio efferato di una famiglia ad opera di due sbandati. Impiegherà sei anni per scriverne il resoconto dettagliato, attraverso un “romanzo-verità” che avrà un successo clamoroso, ma che segnerà per lui l'inizio della fine, sconvolgendolo con i suoi risvolti inaspettati.
Tornerà alla sua vita mondana, ma “niente sarà più come prima”: dovrà fare i conti con il suo lato oscuro, con il senso di colpa, con i dolori di un'infanzia infelice che riemergono più vivi che mai.
Il crollo avverrà con la pubblicazione dei primi paragrafi di un'opera rimasta incompiuta, “Preghiere esaudite”. E' la sua Recherche, il ritratto sottile e impietoso del mondo dei vip, fra sordidi adulteri, omicidi insabbiati, segreti e meschinità di ogni tipo. E' un quadro desolante ed esilarante per i lettori, che costerà allo scrittore il bando da quel mondo dorato di cui era stato il beniamino, ma soprattutto la perdita della sua amica più cara, che non gli perdonerà il tradimento. Tradimento che ha paradossalmente del sublime, perché compiuto in nome della sua arte.
“Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte” - è la frase di Santa Teresa d'Avila da cui l'opera prende il titolo. Sono le lacrime di chi è riuscito a raggiungere le vette più alte del successo, per accorgersi con sgomento di essere ancora più solo.
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“Sono stati commessi degli errori”
“Sono stati commessi degli errori”, scrive Patty, protagonista femminile del romanzo, nel titolo della sua autobiografia, redatta su consiglio dell'analista.
Già, ma il punto è: chi ha sbagliato per primo, chi ha abusato della propria libertà tradendo la persona amata, o le proprie idee? E soprattutto, a prezzo di quali sofferenze si troverà la strada del riscatto?
Bastano poche righe allo scrittore statunitense per mettere il dito nella piaga, per svelare il vuoto significativo racchiuso nei “trenta minuti settimanali di stress sessuale” di una coppia americana di larghe vedute. Bastano gli occhi dei vicini un po' invidiosi, forse, ma attenti, per cominciare a conoscere Walter, saggio ed equilibrato, e Patty, nevrotica e insoddisfatta, ex atleta dalle ali tarpate.
Patty competitiva, ma per molti versi anche perdente - termine aborrito dagli americani -, con una particolare attitudine per le scelte inopportune.
Quelli di Franzen, più che ritratti, sono radiografie che inchiodano alla realtà e che mettono in luce fratture mai del tutto sanate. Sono le questioni lasciate in sospeso, i desideri inespressi, i rancori e le frustrazioni del passato.
Lo stile è scorrevole e i dialoghi, soprattutto all'inizio, incalzanti, sebbene la narrazione sia un tantino appesantita da problematiche politico-socio-ambientaliste sviscerate nei dettagli, e da saghe familiari che risalgono fino alle pecche ancestrali dei bisnonni.
Ma ciò che guasta un romanzo nel complesso ben fatto è la banalità di certe scene da best-seller dal sapore troppo cinematografico, farcite con una buona dose di sesso spinto acchiappa-lettori.
Non può passare comunque inosservata una visione insieme implacabile e pietosa del mondo, e una serie di frasi brillanti che fotografano vecchie e nuove generazioni.
Meno arrabbiate queste ultime, più libere, ma a corto di certezze: “Recitava la sincerità, e quando la recita minacciava di svelare la sincerità come falsa, recitava la sua sincera angoscia per la difficoltà di essere sincero”.
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Verità e bellezza
“Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera”. E' l'incipit del libro, il primo dei sette che compongono la Recherche, capolavoro che sembra scritto da Proust solo per quei lettori che riescono a star dietro alla sua ispirazione, ad accettare i capricci dell'estro creativo, le pulsioni dell'animo, i singhiozzi “mai cessati” di se stesso bambino, che si struggeva nell'attesa della madre per il bacio della buonanotte.
L'opera è a tratti come un caleidoscopio di colori da cui all'improvviso emerge un'immagine nitida, che ci parla di cose e persone passate, ma in qualche modo ancora vive e palpitanti. Attraverso pensieri arabescati, gustose similitudini e un'ironia sottile, in questo primo volume lo scrittore crea luoghi e personaggi ispirandosi alla sua infanzia: i genitori, la nonna eccentrica, la zia ipocondriaca smaniosa dei pettegolezzi di giornata, gli amici di famiglia. E poi le buffe uscite della fedele domestica, donna di mezz'età che resterà cristallizzata nel tempo.
Momenti del passato, attimi di gioia che si credevano perduti per sempre riemergono a sorpresa da sapori, odori e immagini del presente, a rammentare che ciò che la mente dimentica il cuore custodisce, sia pure nei suoi angoli più remoti, secondo logiche misteriose.
Alla ricerca di “verità e bellezza” Proust analizza meticolosamente tutto lo scibile delle emozioni umane, le viviseziona quasi, senza peraltro perdere quella grazia poetica che caratterizza il suo stile.
Swann, colto e raffinato uomo di mondo, vicino di casa e amico, è il protagonista della seconda parte del libro, incentrata sugli effetti perniciosi del mal d'amore.
Amore, nel caso specifico, per una donna dai costumi discutibili, una cocotte d'alto bordo, che s'insinua nell'uomo come un veleno, lentamente ma inesorabilmente, riducendolo ad uno zerbino. Pochi scrittori prima e dopo Proust sono riusciti a descrivere in maniera così vivida lo stato patologico di esaltazione di cui è vittima chi è irretito da una passione che ne assorbe ogni energia vitale.
Sappiamo che la sposerà, lo sappiamo fin dall'inizio, ma succederà paradossalmente quando, finalmente libero, avrà smesso di amarla.
Perché non è solo il tempo ad essere relativo, ma anche i moti del nostro cuore, quei sentimenti che sembravano eterni, per cui avremmo dato la vita, e che nel presente non ritroviamo più.
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Polli che non diventano aquile
Quello che accomuna i personaggi di Richard Yates in questa raccolta postuma di racconti è l’aura di fallimento, mediocrità, disagio che, per quanto si impegnino, non riescono mai a scrollarsi del tutto di dosso. Lo stesso scrittore, del resto, non si fa scrupolo di ridicolizzarli con ironia sottile, mostrando di conoscere bene i suoi polli, volatili che non potranno mai diventare aquile.
Svariati i casi presi in esame: soldati, uomini d’affari, mogli di ufficiali, donnette, tutti frustrati nelle loro aspirazioni sullo sfondo di una quotidianità squallida, a cui restano nonostante tutto saldamente ancorati.
C'è, per esempio, l'esistenza piatta e oziosa di alcuni reduci di guerra ricoverati per mesi in ospedali militari, che passano il tempo raccontando spacconerie più o meno inventate, scaracchiando e bevendo di nascosto birra nei bagni. Antieroi per eccellenza, che poco hanno a che vedere con l'orgoglio patriottico che ci si aspetterebbe da veterani.
E poi spaccati impietosi di vita coniugale, rancori, frustrazioni, incomprensioni che lo scrittore americano tratteggia con implacabile precisione. "Non ho mai avuto l'impressione di tradirti, George, non capisci? Cosa c'era da tradire?" Frase al vetriolo pronunciata "a voce bassissima" da una moglie che si congeda da un marito attonito, dopo anni di apatica convivenza.
“Proprietà privata”, racconto che dà il titolo alla raccolta, si differenzia dagli altri perché privo di sarcasmo, ma amaro quanto può esserlo la storia di una bambina umiliata e avvelenata dal perbenismo ottuso degli adulti. Il suo malessere arriva al lettore in maniera acuta, e la sua piccola figura, bruttina e consapevole di esserlo, non si dimentica. Eileen, che si nasconde come un animale ferito nel capanno degli attrezzi, dopo aver imparato a sue spese quanta poca importanza abbiano le sue ragioni in un mondo di verità posticce.
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"Il mondo è tutto qui dentro"
Romanzo da leggere e rileggere, questo di Saramago, ricco com'è di simbologia, di perle di saggezza da scovare nella melma, di verità scomode e sublimi.
Ecco l'umanità, sembra dire lo scrittore, ecco l'uomo messo di fronte ad una calamità che ne acceca prima gli occhi e poi, gradatamente, il lume della ragione, condannandolo a vedere “tutto bianco”, un velo lattiginoso che lo separa dal resto del mondo.
Anche il lettore si muove quasi a tentoni, costretto ad inseguire le regole della narrazione, ad aggrapparsi alle maiuscole per afferrare l'inizio di una frase, tra dialoghi privi di virgolettato e pochi punti.
“Il mondo è tutto qui dentro”, dice una donna, l'unica persona che inspiegabilmente continuerà a vederci, ed è attraverso i suoi occhi che assistiamo allo spettacolo spaventoso di esseri umani insudiciati nel corpo e nell'anima. E' una lotta disperata per la sopravvivenza che tira fuori il peggio di ognuno e spezza ogni indugio, tra sopraffazioni, omicidi, stupri, accoppiamenti sordidi.
Eppure la luce della speranza non si spegne mai del tutto, grazie soprattutto alla donna vedente, pronta per amore del suo uomo a “difendere la fragilità della vita giorno per giorno”.
E poi ci sono le affinità elettive tra compagni di sventura senza nome e senza volto, che non si conoscono ma col tempo cominciano a riconoscersi, e c'è il potere salvifico di un cane sbucato da chissà dove che lecca e asciuga le lacrime, sorreggendo e guidando chi sta perdendo la strada.
Del resto in un mondo di non vedenti tutto può accadere, anche che bellezza e giovinezza abbraccino bruttezza e vecchiaia e decidano di proseguire insieme il cammino, dando ragione a chi non crede alla ragione.
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Miele e fiele
“In quello spicchio di mondo in cui Hélène Karol era nata, la sera si annunciava con un fitto pulviscolo che volteggiava lentamente nell’aria e ricadeva con l’umidità della notte”.
Alla dolcezza malinconica di queste righe, incipit di un romanzo dal sapore autobiografico, si contrappone la descrizione particolareggiata di uno squallido quadretto familiare composto da persone rancorose, insoddisfatte, rassegnate, che si ritrovano a tavola per la cena. In mezzo a loro, ignorata da tutti, c'è Hélène, una bambina con una gran voglia di dormire e il bisogno struggente e inappagato di essere amata. Due soli affetti brillano nel suo piccolo mondo: il padre, roso dalla passione per il gioco e da quella non meno deleteria per la moglie, e la governante francese, presenza discreta e rassicurante. La madre, donna annoiata che vagheggia avventure galanti, ha ben altro per la testa che occuparsi di lei, che maturerà come “un frutto esposto troppo presto al freddo e al gelo”.
E allora sarà l'odio, anziché l'amore, a indicarle la strada da seguire, a renderla forte e orgogliosa, sempre più consapevole del suo fascino e della sua capacità di elevarsi al di sopra degli altri attraverso la scrittura. Userà questi doni come un'arma, e farà della sua solitudine “aspra e inebriante” un punto di forza: “Grazie a Dio, non amo nessuno, sono sola e libera”.
Conoscerà i baci appassionati di un uomo sposato, conquisterà per vendetta l'amante della madre (“Aspetta, cara mia, aspetta...”), ma conserverà sempre l'innocente sensualità di una creatura selvatica. Perché lei non è come loro, lei è coraggiosa, viva, giovane, e vuole lasciarsi alle spalle il lezzo stantio del passato, il viso ormai sfiorito, “da vecchia strega”, di colei che l'ha messa al mondo.
La scrittrice indugia spesso sull'essenza della giovinezza, sulla “felicità aspra e amara dell'essere viva”, quasi presaga del fatto che per lei la vecchiaia non arriverà mai. E la sua penna, intinta con maestria nel miele e nel fiele, sfida impavida il tempo senza sbiadire.
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“Che fetentacce, 'ste donne.”
Capolavoro assoluto, pietra miliare della letteratura, il romanzo di Maupassant attraversa gli anni senza perdere neanche un po' del suo smalto. E non invecchierà mai, proprio come “Bel-Ami”, il suo protagonista.
Più bello che buono, più furbo che intelligente, Georges Duroy è uno che sa stare al mondo, almeno nel mondo di arrivisti in cui si trova a vivere.
Fascinoso e impettito, con lo stomaco vuoto e senza un soldo, lo incontriamo per la prima volta per le strade della Parigi di fine Ottocento e lo lasceremo in gran tiro, con un avvenire luminoso e la città ai suoi piedi. Non lasciarsi scappare l'occasione giusta, sfruttare al meglio le proprie potenzialità di seduttore, fare a meno degli scrupoli: ecco la chiave del suo successo.
La parola “amore” sarà pronunciata da lui in tutte le salse, ma troverà sempre sbarrate le porte del suo cuore.
L'impresa più impegnativa per il bel Georges non è certo portarsi a letto una donna, ma condurre all'altare quella giusta per le sue ambizioni. Lo farà calpestando senza tanti complimenti le passioni più disperate e scrollandosi con leggerezza di dosso gli insulti dei cuori infranti.
Duroy è una discreta canaglia che suscita la simpatia del lettore per il perenne contrasto tra il comportamento spavaldo che ostenta in società e i suoi pensieri più genuini.
Ci si ritrova a vedere con i suoi occhi il meschino campionario di umanità che gli si para davanti: imbecilli in carriera grazie al cervello delle consorti, mogli ricche e annoiate, signore stagionate e sentimentali.
Ma si perdona tutto a Bel-Ami e si ride delle sue uscite ciniche, dietro le quali fa chiaramente capolino lo spirito di Maupassant, notorio tombeur de femmes: “Che fetentacce, 'ste donne”.
“Duh-lorrr-isss!”
Accade più spesso di quanto si creda che un film superi in qualità il libro a cui si ispira, migliorando di fatto una trovata originale ma non adeguatamente sviluppata. E' il caso di questo romanzo di King, decisamente inferiore alla buona sceneggiatura che ne è stata tratta.
L'idea di fondo c'è ma il contenuto, che con tagli sapienti ci avrebbe sicuramente guadagnato, tende ad essere ripetitivo e verboso a discapito del mordente e della suspense.
Lo stile poi, forse penalizzato dalla traduzione, in alcuni punti rasenta la mediocrità.
Certo non aiutano espedienti narrativi difficili da gestire, come la mancanza di capitoli e paragrafi, sostituiti da un lungo ininterrotto monologo, e le frasi sgrammaticate piazzate a bella posta per rendere più verosimile la narrazione, ma che ottengono l'effetto contrario (chi sbaglia puntualmente i congiuntivi non riporta poi per filo e per segno le frasi corrette pronunciate da altri).
Peccato, perché non mancano passaggi di una certa efficacia e interessanti spunti di riflessione che culminano nella frase emblematica: “A volte fare la carogna è tutto quello che resta a una donna”.
Questa, in effetti, è la storia dell'improbabile alleanza di due “carogne” - donne, mogli e madri - che subiscono, reagiscono, uccidono e forse vincono. Ma forse no.
“Scavai una fossa per i miei nemici e ci cascai dentro io”.
Sulla Cornovaglia e non solo
Questo libro è il resoconto di un viaggio un po' fuori dagli schemi, una vacanza-lavoro che la giovane autrice trascorre col fidanzato in una fattoria della Cornovaglia, associandosi ad un'organizzazione di volontariato ambientale.
Ma è anche la descrizione dettagliata di paure ed emozioni provate prima, durante e dopo il soggiorno nel Regno Unito, e di una relazione sentimentale che grazie a questa esperienza sembra crescere e consolidarsi. La protagonista racconta con dovizia di particolari tutto ciò che le passa per la mente e il cuore, soffermandosi su argomenti privati e problematiche sociali. Il lettore segue lo scorrere dei suoi pensieri e il trascorrere dei giorni fino a farsi un quadro abbastanza preciso della sua personalità, di quella del suo compagno e del rapporto che li lega, in un ambiente che i due ragazzi esplorano con entusiamo.
Le parole della protagonista rivelano un certo gusto per il dettaglio, con un tocco inconfondibilmente italiano: “La pasta era reperibile in ogni supermercato, anche se non disponibile in tutti i formati, bensì solo spaghetti, penne, linguine, farfalle o fusilli e mediamente ogni pacco da 500 grammi costava fra £. 0.79 e £. 0.90”.
Di fronte alle esperienze esaltanti e agli incontri interessanti che malgrado i piccoli contrattempi solo un viaggio può offrire, la routine quotidiana, lasciata alle spalle, appare grigia e monotona, e infondati i timori provati prima della partenza.
Quella che si trovano a vivere è una vita “in sintonia con la natura” e i due giovani, oltre a dare una mano in fattoria, nel cottage dove alloggiano condividono le mansioni:
“[...] lui, estremamente divertito da quell'idea, si dava molto da fare con alcune faccende domestiche, senza mai perdere la virilità, e disapprovando il mio operato quando non corrispondeva esattamente ai suoi canoni”. E' l'occasione per puntare il dito contro certi schemi maschilisti che ancora oggi incredibilmente la società impone, affidando solo alla donna la cura della casa.
L'aura romantica che percorre l'intera narrazione, nonostante riflessioni di ampio respiro che sarebbe troppo lungo citare, culmina con un finale in rosa e una sorpresa che può definirsi la ciliegina “on the cake”.
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I saltatori del fango
Coloni britannici in terra d'Oriente, natura incontaminata e rigogliosa che nella stagione delle piogge si fa spietata e dura come la verità. E' con quest'ultima che i personaggi dei sei racconti di Maugham, uomini e donne di belle speranze, devono fare i conti, scoprendo che a volte il confine tra bene e male, amore e odio, coraggio e vigliaccheria può diventare sorprendentemente labile.
Lo scrittore inglese arriva al fulcro dei sentimenti umani e con sguardo acuto e impietoso ne scandaglia gli abissi.
C'è il missionario senza macchia e senza paura, impegnato incessantemente a recuperare pecorelle smarrite, severo e misericordioso come il Dio che invoca di continuo. Ma tra le righe - e il finale lo confermerà - si avverte il dileggio cinico dell'autore, forte almeno quanto la voce imponente del religioso.
Ci sono scene di vita matrimoniale, la serena convivenza disintegrata all'improvviso dalla disillusione e dal disprezzo che pervade l'animo di uno dei coniugi, la fine violenta e inesorabile di un amore ridotto alla stregua di uno spiacevole equivoco.
E poi c'è il delitto per caso, la virtù che non conosce tolleranza e che inciampa nell'odio, trasformando persone inoffensive in potenziali assassini.
Sono ritratti ben delineati di personaggi simili ai “saltatori del fango”, grossi pesci tropicali che hanno lo stesso colore della melma in cui sguazzano: “C'era qualcosa di misterioso in loro, e allo stesso tempo di divertente. Facevano venire in mente gli esseri umani”.
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La pazzia non è da tutti
“Amava gli uomini e sempre li aveva amati. Smaniava dalla voglia di abbracciarli e di fondere il proprio essere nel loro”.
Per la religione si tratta di sodomia, per la legge di reato infamante punibile con il carcere, per la scienza medica di “omosessualità congenita”, da provare a curare, falliti tutti gli altri tentativi, con "aria fresca e sport".
Maurice è un giovane ordinario dell'alta borghesia, né stupido né intelligente, con un avvenire già programmato. Tutto ciò che gli si chiede è di seguire le orme del padre, gettarsi a capofitto negli affari e mettere su famiglia “nella nicchia che l'Inghilterra aveva preparato apposta per lui”.
Il primo colpo ad un'apatia che rende impermeabili a gioie e dolori lo sferra un sentimento illuminante, che rivela al protagonista il suo vero io e gli dà la forza di mettere in discussione i dogmi della società: “La pazzia non è da tutti, ma quella di Maurice risultò il fulmine che scaccia le nuvole”.
In questo romanzo - in parte autobiografico - Forster tratteggia l'amore omosessuale con la grazia che si riserva ai sentimenti più puri, con una narrazione dalle tinte pastello che non va mai sopra le righe.
La Natura sta candidamente dalla parte di tutti gli amanti, offrendo fragranti notti primaverili, buie abbastanza da favorire amplessi proibiti.
Per Maurice, braccato da una solitudine che minaccia di avvelenarlo e dalle rassicuranti chimere della “normalità”, la sfida sarà quella di riuscire ad accettare che la vera felicità passa attraverso il coraggio di essere se stessi: “Dopotutto, un autentico inferno non è meglio di un paradiso artefatto?”.
Liberarsi dai sensi di colpa e percorrere a testa alta una strada inesplorata significherà cominciare a vivere finalmente da uomo.
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Solitudini incolmabili e legami indissolubili
Questa è una storia di solitudini incolmabili e di legami indissolubili, concepita dall'autore come “sterile espiazione” nei confronti del fratello Dante (chiamato da tutti Ferruccio), giovane uomo nei cui occhi celesti brillava un innocente anelito di vita.
La “colpa” è quella di aver lasciato passare troppi anni senza tendergli la mano, trincerandosi dietro un muro di diffidenza e ostilità. Un muro difficile da abbattere, eretto dall'insensibilità degli adulti tra due bambini orfani di madre, privati così della possibilità di una vita più felice ed autentica da trascorrere insieme.
Ritrovarsi una volta cresciuti, ciascuno con le proprie fragilità, significa farsi calore a vicenda, recuperando il tempo che è stato loro sottratto. Significa, soprattutto, condividere ricordi ed affetti, quello un po' astratto per la madre e quello, più concreto, per la nonna.
Le pagine dedicate a quest'ultima, rinchiusa in un ospizio con il cuore gonfio di amore e orgoglio per i due nipoti, sono fra le più intense del romanzo, intrise di un realismo dolceamaro che non si dimentica.
E quando per Ferruccio arriverà la fine, spietata e persino beffarda, nessun doloroso particolare viene risparmiato al lettore, in un crescendo vorticoso di illusioni, rabbia e disperazione che approderà – unico, estremo conforto - in una toccante preghiera laica.
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La vita in via del Corno
Benvenuti in via del Corno, quartiere popolare di Firenze, luogo di luci ed ombre, di povertà e maldicenze, dove innocenza e vizio si intrecciano fino a confondersi e le mura trasudano passione e violenza.
Non c'è quindi da stupirsi se ci si imbatte in una prostituta dal cuore malato, che soffre per un amore non corrisposto, mentre nell'animo di una giovane donna alberga la perversione.
Può anche capitare di assistere alle effusioni di due coniugi in perfetta ritrovata sintonia dopo un aldulterio, archiviato senza rimpianti né rimorsi come “quelle scapataggini che sono i nostri peccati, ma anche le nostre consolazioni”.
Non è neppure raro incontrare chi, eroe per caso, è disposto a pagare a caro prezzo le proprie idee, ma anche chi, per calcolo o vigliaccheria, si vende al migliore offerente.
E poi, inaspettato, nel momento più buio, per qualcuno sorge l'amore, che sconvolge i piani e se ne infischia delle regole, dando un nuovo significato all'esistenza.
Ad un visitatore occasionale non mancherebbero le ragioni per definire via del Corno uno schifo di posto, ma chi ci ha passato molte stagioni ha imparato ad amarne i suoi ritmi rassicuranti, le tradizioni che accomunano amici e nemici, le giornate di festa che fanno dimenticare per qualche ora le miserie di ognuno.
“Lasciamo che i cornacchiai si mangino il cuore l'uno contro l'altro, è da anni ed anni il loro modo di volersi bene”. E ad essere sinceri la vita, un po' più lontano, non è così diversa.
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Semo perduti...noi che sanza speme vivemo in disio
Non è un romanzo che mi ha convinto del tutto, visto che solo l'ultima settantina di pagine - su 473 -
è stata quella che ho apprezzato di più. Anche prima non mancano passaggi ben riusciti, ma si indugia un po' troppo sul sentimentalismo, su costrutti allungati come gargarismi (“il borborigmo dell'acqua che gorgoglia nella vasca”) e su digressioni noiosette.
Del resto Manuela, la protagonista, chiaramente tratteggiata per ispirare tenerezza, sembra una gattamorta della più bell'acqua con “quell'ossessione della condotta incensurabile”, lei, maresciallo senza macchia e senza paura. E il personaggio di Mattia, bel tenebroso con tanto di Rolex al polso, sembra uscito paro paro da un romanzo rosa. Inaccettabile poi la superficialità con cui viene trattato l'episodio di uno stupro di massa contro una donna sotto l'effetto di droghe: fosse stata la fuoriclasse Manuela, la scrittrice ci avrebbe magari imbastito tutto un dramma, ma era solo Vanessa, la sorella un po' tamarra.
Certo, lo stile è solido e i dialoghi, privi di virgolettato, si amalgamano armoniosamente con i pensieri. Ma è soprattutto l'ultima parte che riscatta tutto il resto: con parole asciutte, spogliate di ogni sdolcinata retorica, si arriva al centro dei sentimenti.
I personaggi si fanno più vulnerabili, si piegano per non spezzarsi e guardano all'avvenire con un coraggio che non ha niente a che vedere con l'eroismo del militare o con la tracotanza di chi sfida la vita. Assistiamo in un certo senso alla loro morte, necessaria per farli rinascere persone migliori.
“Bisogna conciliarsi col proprio destino, e non è una sconfitta, c'è qualcosa di grande, e dolce, in questo. Lo so, dice Manuela”.
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