Opinione scritta da Renzo Montagnoli

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    07 Novembre, 2017
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Il (presunto) nemico in casa

Se qualcuno pensasse che questo romanzo sia stato scritto da poco, tanto è attuale, incorrerebbe in un grossolano errore, perché l’anno di stesura è stato il lontano 1938. Viene allora da chiedersi per quale motivo Simenon abbia ideato quest’opera, in cui l’elemento cosiddetto giallo è solo un pretesto, ma a questa domanda non c’è risposta, o meglio si potrebbe dire che quelle caratteristiche di veggenza che si riscontrano sono dovute esclusivamente alle intuizioni di un autore capace come pochi di sondare l’animo umano. Siamo sinceri, nel 1938 non c’era nulla che lasciasse supporre prossimo o abbastanza prossimo il fenomeno dell’emarginazione sociale dello straniero, nel caso specifico di una famiglia tedesca, i Krull, la quale, suo malgrado, si vedrà coinvolta nelle indagini per il brutale assassinio, preceduto da violenza carnale, di una giovane ragazza. E’ proprio questo l’innesco che fa esplodere nella popolazione quell’odio a lungo sopito, quel guardare quegli esseri umani, originariamente tedeschi e poi naturalizzati francesi, come un bubbone insito nella collettività, frutto di parole dette a bassa voce, di maldicenze e anche di sciocco e inutile ostracismo. La tensione, che negli anni precedenti non si scorgeva, limitando la gente a non fraternizzare, cresce lentamente e a dismisura, si vuole passare dalle parole ai fatti e buon per i Krull che la polizia riesce a dissuadere i facinorosi. Resta in ogni caso una domanda: l’inibito Joseph Krull, prossimo alla laurea in medicina, è colpevole, oppure no, dell’orrendo delitto? Non c’è una risposta diretta, anzi ce n’è una indiretta che lascia nell’incerto e nel vago il lettore che desidera, invano, sapere il nome dell’assassino. Ma non era l’omicidio e la successiva indagine lo scopo del romanzo di Simenon, era invece un ammonimento per il futuro, perché la gente non dovesse considerare diversi degli esseri umani solo perché di altra nazionalità. Dal 1938 di anni ne sono trascorsi molti, c’è stata una seconda guerra mondiale con le brutture naziste, con l’olocausto, e poi, dopo un periodo di relativa quiete, ha preso il via il fenomeno dell’immigrazione, un evento lasciato colpevolmente a se stesso che ha visto e vede i nativi di tanti paesi europei, il nostro compreso, insicuri e timorosi, ben poco propensi all’accoglienza e più che disponibili a ricacciare gli stranieri che approdano sui nostri lidi.
Anche in quest’opera, oltre a un Simenon dalle solite elevate inalterate capacità, troviamo un autore che lancia un allarme, ma che come Cassandra resterà inascoltato.
Da leggere, non c’è dubbio.

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Romanzi storici
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    02 Novembre, 2017
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La gelosia

Fiorella Borin è un’eccellente narratrice specializzata in romanzi storici, di frequente ambientati a Venezia, sua città natale; è altrettanto brava nel misurarsi in prose più brevi, i cosiddetti racconti, forma tecnica che in verità da noi non appare di particolare gradimento ed è un errore, perché quando sono scritti avendo ben presente le particolarità del romanzo (una trama che così come inizia finisce) sono altrettanto validi. Al riguardo, Lo scrivano nulla ha da invidiare di opere più corpose, perché la vicenda è presente nella sua interezza ed è narrata con uno stile di raffinata eleganza, così che la lettura, oltre che facile, risulta particolarmente piacevole. La storia di Pietro Bontremolo, questo scrivano degli inizi del XVI secolo, ricco in una Venezia che è ancora nello splendore della sua potenza, è una di quelle che si snoda e si sviluppa quasi come un giallo, con quest’uomo, sposato per motivi d’interesse con una donna che non ama, e che occasionalmente ha modo di conoscere una suora, di cui si innamora follemente, peraltro ricambiato. Ma le passioni umane hanno anche nel piatto della bilancia un peso contrapposto che, in questo caso, è la gelosia, una serpe che si alleva in seno e che tramuta una passione d’amore in una lucida follia. Non intendo aggiungere altro per non togliere il giusto piacere della lettura, ma desidero richiamare l’attenzione sulla stupenda descrizione dell’ambiente, sull’atmosfera, sulla psicologia dei personaggi in un racconto in cui vengono perfettamente mescolati il genere storico, quello giallo e anche il fantasy. Sullo stile ho già detto, ma ripetersi a volte è necessario: Fiorella Borin sussurra le sue storie, non le grida, sempre distaccata dai suoi personaggi sa tuttavia far intuire la sua presenza dietro di essi quando ciò non solo è necessario, ma aggiunge valore all’opera.
Mi pare perfino superfluo aggiungere che Lo scrivano è un gran bel racconto.

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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    31 Ottobre, 2017
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Più che un saggio, un sunto

Dal 1861, anno in cui avviene la proclamazione del Regno d’Italia, al 1870, allorché il 20 settembre i bersaglieri entrarono in Roma dalla breccia di Porta Pia, trascorrono all’incirca due lustri, un periodo di tempo abbastanza breve, ma talmente denso di avvenimenti per il nostro Risorgimento che è impensabile poterne parlare in modo esauriente e anche critico in sole 160 pagine. Nondimeno, Arrigo Petacco ha voluto provarci, ma ne è uscito, come era logico prevedere, un saggio che ha più il sapore di un sunto che di un’opera storica di stretto rigore scientifico. Gli avvenimenti in quei dieci anni sono talmente tanti e di rilevante importanza che per ognuno di essi già 160 pagine risulterebbero inadeguate. Basti pensare, al riguardo, all’originario progetto di Cavour, abortito sul nascere con l’improvvisa morte dello statista, e che prevedeva per l’Italia un assetto federale, progetto che se attuato avrebbe cambiato il corso della storia del nostro paese, che con ogni probabilità non avrebbe sofferto di quei problemi ormai divenuti cronici e di cui patisce ancor oggi. Anche la questione meridionale, cioè quella lotta al brigantaggio, che poi solo in parte era brigantaggio, che travagliò il Sud dal 1861 al 1865 ha lo spazio di poche pagine, pur presentando il pregio di evidenziare come i Savoia procedettero con mano particolarmente pesante, come anche in altre zone annesse, per esempio la Romagna, dove pure certe rivolte avevano un’origine diversa, cioè più motivata da questioni socio-economiche che da un tentativo di restaurazione borbonica proprio invece del Meridione. Pure i disgraziati esiti delle battaglie in terra e sul mare del 1866 nel corso della terza guerra di indipendenza sono diligentemente riportati, ma con scarsi approfondimenti. E così si arriva alla presa di Roma quasi all’improvviso, fatta eccezione per pochi cenni all’intenso lavorio che la precedette. Certo per chi volesse avere un’idea della storia d’Italia in quel periodo il saggio di Petacco è l’ideale, ma non gli si può chiedere di più, e questi due aspetti costituiscono rispettivamente un pregio e un limite, con il secondo tuttavia che prevale sul primo.



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Romanzi storici
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    29 Ottobre, 2017
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La libertà della pazzia

La protagonista del romanzo, la siracusana Lucia Salvo, è realmente esistita e di lei parla Luigi Natoli nelle sue Cronache e leggende di Sicilia, in cui si racconta che fu inviata dalla città natale a Palermo a casa dei Ramacca, una famiglia nobile antiborbonica che di lei si servì per comunicare messaggi segreti ai reclusi del carcere dello Steri. La ragazza riuscì nello scopo fingendosi sciocca, anzi meglio ancora babba, cioè pazza. E fin qui il romanzo è fedele alla storia, ma poi ne diverge per arrivare a descrivere un personaggio straordinario, ben diverso da quello vero, che ha costituito solo lo spunto per una narrazione di più ampio respiro in cui si pone in evidenza come in una società cristallizzata, immobile nei suoi riti e nella sua struttura, necessariamente chi va oltre questi confini invisibili, ma invalicabili, non può che essere considerato pazzo.
Nell’opera Lucia Salvo è epilettica, malattia ancora sconosciuta nel XIX secolo, tanto che per le crisi improvvise e imprevedibili che la caratterizzano veniva considerata alla stregua della pazzia, ma se “il fatto” come tutti, lei compresa, chiamano l’attacco che le provoca convulsioni e le dà la sensazione di morire per poi rinascere, è una condanna che si porta appresso, per il resto è una donna, anzi una fanciulla di soli 16 anni, di grande lucidità che sa vedere, sa capire e sa anche provvedere. Una vicenda che può sembrare anche banale, una protagonista che potrebbe essere il ritratto di una donna qualunque nelle mani di Simona Lo Iacono assumono un crescente spessore, sono quasi un grido di libertà, libertà in un mondo così chiuso da far pensare che i pazzi siano quelli che lo abitano e non invece Lucia, la cui saggezza e la cui indipendenza quasi autarchica non possono non restare in ombra, e se poi aggiungiamo le crisi epilettiche va quasi da sé che per lei l’avvenire non sia che fra le quattro mura di una cella del manicomio. Se il personaggio di Lucia Salvo resterà indimenticabile nel lettore ciò sarà anche in forza delle comparse che l’autore ha saputo metterle sapientemente intorno: i conti Ramacca, con il padre, uomo di una doppiezza incredibile, e il figlio, dall’inappagabile appetito sessuale alle cui attenzioni Lucia reagirà con un morso, i nobili Agliata, con il padre bigotto e la giovane figlia che cerca invano un matrimonio di suo gradimento, il castrato signorino alla ricerca di un’identità nuova che gli consenta di vivere quasi come gli altri nonostante la perduta virilità e il nano Minnalò, factotum della famiglia Ramacca, in particolare del conte figlio, tutte figure che sono emblemi di ruoli ben precisi in una società ammuffita e decadente.
Lucia Salvo a suo modo fu un’eroina nei moti del 1848, ma, grazie alla penna di Simona Lo Iacono, diventa il simbolo di un mondo nuovo, un tenue chiarore che annuncia l’alba in una notte buia e senza luna.
Da leggere, indubbiamente.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    25 Ottobre, 2017
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Un giallo non riuscito

Con ben 193 romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e di racconti dati alle stampe sotto pseudonimi, mano a mano che si prosegue nelle letture aumenta la possibilità di incappare in un’opera meno riuscita, che inevitabilmente esce malconcia da un confronto impietoso con la quasi totalità della produzione, di ben altro ed elevato spessore. E’ così che, arrivato alla fine di questo Firmato Picpus, mi sono anche stizzito, perché questo romanzetto con Maigret non solo è inferiore qualitativamente agli altri scritti da Simenon, ma, secondo me, è addirittura mediocre. Di carne al fuoco ce n’è tanta e la partenza è interessante con quella scritta che un impiegato al bar legge su una carta assorbente (Domani, alle cinque del pomeriggio, ucciderò l’indovina. Firmato Picpus), delitto che puntualmente avviene. Il caso si presenta di difficile soluzione e il celebre commissario non sa dove andare a parare, così fra tentativi vari, piste che si rivelano infondate, si arriva alle ultime pagine, allorché, quasi per magia, saltano fuori nuovi personaggi e uno di questi sarà appunto l’assassino.
A parte il fatto che, a differenza di tanti altri, l’analisi psicologica dei protagonisti è approssimativa e che l’atmosfera, generica, se non banale, non riesce ad avvincere, resta il fatto che la trama gialla vera e propria e, soprattutto, la soluzione del caso zoppicano non poco, tanto da pensare che quando Simenon iniziò a scriverlo non avesse ancora le idee ben chiare, oppure proprio non ne aveva, al punto che la fine viene rapida e improvvisa, sbrigativa, come se l’autore avesse voluto liberarsi da un peso che troppo lo affaticava.
Insomma, per farla breve, mi rincresce francamente di considerare mediocre Firmato Picpus e di conseguenza di non consigliarne la lettura, ma d’altra parte la delusione è stata tanta e, benché sia un appassionato delle opere di Simenon, non posso esimermi dall’esprimere un giudizio negativo, che comunque non incide sulla stima che ho dell’autore.

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Poesia italiana
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    23 Ottobre, 2017
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Il linguaggio delle cose

Di Vito Moretti ho avuto occasione di leggere La polvere sul cucù, una raccolta di racconti sulla grandezza degli umili e Luoghi, una silloge poetica frutto di impressioni di viaggio. In entrambi i casi mi sono trovato di fronte a opere di gradevole lettura, per niente superficiali, ma che, senza approfondimenti eccessivi, tuttavia lasciano qualcosa dentro di sé, un incisione lieve, ma senz’altro duratura. Indubbiamente l’autore ha un talento innato, impreziosito dagli anni di studi e probabilmente anche dalle esperienze maturate in qualità di docente universitario.
Le cose, altra raccolta poetica, parte da un presupposto imprescindibile e di cui spesso nemmeno ci accorgiamo: gli oggetti, per loro natura inanimati, arrivano a un momento che diventano cose, cioè ricordando fatti ed eventi del nostro trascorso finiscono con l’essere parte inscindibile dall’esistenza stessa. Gli oggetti sono amorfi, si considerano per la loro funzione, ma nel momento in cui, invecchiando con noi, sono capaci di suscitarci la memoria acquistano come un’anima, diventando appunto cose. La penna con la quale si è scritta la prima lettera d’amore, il divano sul quale ci si scambiate le prime affettuosità, lo scalcinato ombrello con il quale, stretti stretti, ci si è riparati dalla pioggia e via dicendo, diventano parte di noi stessi, ricordano e rievocano, sono testimoni della nostra esistenza (Ogni cosa, tutto / mi pare perfetto, / il nespolo che resiste / al gelo, la collina / che cala nel suo buio, / il fuoco che arde per me / e per il cane, la via / che si è fatta deserta./ Anche il vetro è uno spolvero / d’umido che lascia lontane / le ore, e la casa é / la memoria che vi abita / le pietre di una torre / cresciuta fino al cielo.).
Le cose hanno un linguaggio pertanto, un linguaggio per ognuno di noi, per le sensazioni che ci fanno rivivere, per le emozioni che ci fanno riprovare (Tutto ha il suo richiamo, / un modo di ripetersi / nella cavità della conchiglia, / un brusio che parla di intrecci / e di comete. /….).
Un po’ in dialetto, un po’ in italiano si esprimono le cose, parole, versi che Moretti traspone sulla carta lasciando trasparire l’emozione che prova, la sensazione che il passato riesca a dare un senso al presente e anche al futuro.
Da leggere, senz’altro.

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Poesia italiana
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    23 Ottobre, 2017
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Poesia dell’anima

Ho tenuto a lungo sul comodino questo libriccino donatomi da un padre che vive nel ricordo del figlio, l’ho sfogliato, ho letto qua e là, ho cercato di comprendere la poetica di un autore che troppo presto è venuto a mancare.
Mi piacciono questi versi che erano su fogli a mani della fidanzata, ma cerco nel limite del possibile di essere del tutto imparziale nel giudizio, che non voglia sia influenzato da questo doloroso evento che ha stroncato una giovane vita. Mi dico e mi ripeto che Antonio più che mai ora deve avere un giudizio obiettivo sulla sua arte, perché è doveroso soprattutto per lui e intendo che si ricordi la sua opera per il suo intrinseco valore e non per altre circostanze, anche perché c’è una valenza intrinseca effettiva di un autore che si può definire in itinere, che non aveva ancora maturato una consistente esperienza, ma che aveva molto da dire.
A volte sono poesie lunghe, altre notevolmente brevi, tanto da sembrare dei frammenti e si avverte chiaro che sono state scritte in epoche diverse, ma quello che è lo stile, per nulla aulico, anzi stringato – ma non per questo meno piacevole – è quello e probabilmente sarebbe stato quello, se il destino benignamente gli avesse permesso di vivere, fra trent’anni, magari un po’ più sfumato, ma pur sempre incisivo. Mi si potrà obiettare che comincio a parlare dell’opera con la forma e non è un caso però, poiché la forma è sì una modalità di espressione, ma in questa raccolta è parte stessa del costrutto, del discorso che si vuole sviscerare, della sostanza a cui si tende. Versi brevi, a volte quasi raffiche, sospensioni, arresti improvvisi, ma seguiti da tre punti che avvertono che il discorso non è cessato, ma prosegue nei sottintesi. Una bella maturità, direi, perché una forma siffatta non solo non è facile da realizzare, ma potrebbe – e non è questo il caso – rendere meno accessibile, e quindi poco piacevole, la lettura.
Certo, diverse poesie non nella stessa epoca comportano anche una tematica varia, ma a me quello che pare evidente è che il filo conduttore è la ricerca delle risposte a tante domande essenziali: perché vivo, dove vado, che senso ha il mio essere qui? Quesiti che non sono infrequenti, ma che in genere un giovane, a meno che non sia particolarmente maturo, di certo non si pone. E invece Antonio è quasi assillato da queste domande, cerca una risposta che ognuno crede di trovare, ma che non è mai quella giusta, e lui invece probabilmente ci azzecca. Tende, sovente in modo pudico, a quel livello che generalmente chiudiamo in un vocabolo che desta stupore: l’assoluto. Si rende conto, cioè, che la terra imprigiona troppo, che l’uomo per sentirsi libero e realizzato deve avere una visione non principalmente materialistica, e questo tentativo di librarsi porta non di rado a composizioni che hanno il notevole pregio di infondere grande serenità nel lettore. La sua non è semplice poesia, è qualcosa che viene dal più profondo, è un canto, il canto dell’anima.
Nel leggere queste poesie invito l’appassionato a coglierne l’essenza, a lasciarsi andare a quella serenità che io ho trovato nei versi, un appagamento totale che da solo già giustifica il mio giudizio ampiamente positivo di questa raccolta.

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Romanzi
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    21 Ottobre, 2017
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Uno di noi

Di questo libro ne avevo sentito parlare da tanti e sempre con giudizi ampiamente positivi, anzi entusiastici, tanto da fa supporre che fosse nata una Stonermania. Eppure, quando il romanzo fu pubblicato nel 1965 non ottenne molto successo, anzi finì con il diventare una delle tante opere che ogni anno vengono date alle stampe e che è già molto se ha un volume di vendite discreto; infatti, il titolo ben presto finì fuori catalogo. Fu in occasione della sua ripubblicazione nel 2003 che incominciò a incontrare i favori di un numero sempre più ampio di lettori che parlandone sui social network contribuirono in modo determinante a una sua ampia diffusione. Cosa era cambiato per fare diventare best seller un libro che quasi quarant’anni prima aveva incontrato solo tiepidi favori e quale era il motivo del suo travolgente successo? Era subentrata una nuova generazione di lettori, di gente che nel soffocante neoliberismo aveva cominciato a chiedersi quale era il senso della vita, insoddisfatta dai proclami secondo i quali ogni uomo è artefice di se stesso, desiderosa di trovare una verità che, per quanto non auspicabile al massimo grado, era però la premessa indispensabile per porsi le domande che il materialismo aveva soffocato: chi sono, cosa faccio, dove vado, posso ribellarmi al destino? In questo senso la figura di William Stoner, questo figlio di agricoltori che hanno lottato sempre e solo per sopravvivere, portati ad accettare la loro condizione con rassegnazione, si identificava e si identifica con quella di un uomo qualunque, come la sua vita è una vita qualunque, senza gesta memorabili, senza eroismi, insomma una vita come quella che è propria di ognuno di noi.
Stoner riesce a lasciare la desolazione della campagna laureandosi e quasi per caso scopre la sua vera vocazione di insegnante, si sposa con la prima donna che ha occasione di conoscere e non sarà un bel menage coniugale, riesce perfino ad avere un’amante per un breve periodo, ha contrasti con un collega prevaricatore nell’università in cui entrambi insegnano, arriva alla vecchiaia e in prossimità di quella pensione che non potrà tuttavia godere. Come un giunco sotto la forza del vento, Stoner si piega, ma non si spezza, certo potrebbe anche opporsi al destino, almeno in alcuni casi, ma non lo farà, come non lo facciamo noi, poco propensi a rincorrere l’incerto restando adagiati in un certo che non ci soddisfa, ma con il timore che cambiare sia peggio. All’inizio della lettura Stoner sembra un personaggio del tutto anonimo, una comparsa quasi, ma, mentre si procede, ci accorgiamo della sua personalità, delle sue miserie e delle sue grandezze, diventa sempre più familiare, troviamo in lui caratteristiche che ci accomunano, Stoner è solo uno di noi. E come ciascuno ha una valvola di sfogo alle vicissitudini della vita, come per esempio chi trova nella religione la forza per vivere e superare le avversità, Stoner ha una sua religione, laica, la letteratura, un’arte in cui immergersi e costruire un proprio mondo, un’arte a cui ha contribuito con una pubblicazione ed è questa pubblicazione che prende con difficoltà in mano negli ultimi istanti della sua vita, ma che sfuggirà dalle sue dita con l’ultimo respiro. A proposito, le ultime pagine di questo romanzo sono dedicate alla morte del protagonista e sono un’esperienza indimenticabile, certamente struggenti, ma il crescendo di partecipazione emotiva con un uomo che ripercorre in pochi minuti la sua esistenza di cui forse ora è soddisfatto consente di arrivare a vette eccelse, permette di raggiungere il sublime.
Non aggiungo altro, e le mie parole sono superflue di fronte a un simile capolavoro che si giudica da sé.

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Consigliato a chi ha letto...
Augustus e Burcher's CVrossing, entrambi di John Williams.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    15 Ottobre, 2017
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L’oppressione della borghesia

L’orfano sbarca a La Rochelle all’imbrunire e inizia la sua vicenda venendo a conoscenza di essere l’unico erede di una colossale fortuna lasciatagli dallo zio, fratello di suo padre. Per uno che di certo non se la passa bene dovrebbe essere un tripudio di gioia, ma non è così, perché certe ricchezze sono frutto di insulsi ricatti, sono il termometro di una società malata in cui un’agiata borghesia ha dei conti in sospeso, e non si tratta di bazzecole. Lo zio era temuto e odiato e il nipote, per la sua qualità di erede, è pure malvisto in un mondo dalle posizioni cristallizzate, pressoché inamovibili, tanto più che, se all’apparenza potrebbe essere considerato un ingenuo, è tutt’altro, perché vuol sapere, vuol conoscere, soprattutto, come tanti, è interessato al contenuto di una cassaforte di cui ha la chiave, ma non la combinazione. Chi vorrebbe consigliarlo non è per niente un amico, bensì si tratta di persone in rapporti d’affari con lo zio, da cui erano autenticamente vessati. Il giovane, che di nome fa Gilles Mauvoisin, nel mentre cerca di penetrare i segreti del parente deceduto, amministra con rigore e anche con capacità il notevole patrimonio, quasi esclusivamente costituito da partecipazioni in lucrose iniziative. La vena gialla del romanzo affiora però quando dapprima muore avvelenata la moglie paralitica di un medico che è l’amante di Colette, moglie dello zio deceduto e relegata dal marito a semplice comparsa quando questi si accorge della tresca, e più tardi quando si scopre che anche lo zio Octave Mauvoisin era morto non per cause naturali, bensì per l’ingestione di arsenico. A complicare il tutto subentra un’altra questione e cioè che il giovane Gilles, benché sposato con Alice, si innamora della zia Colette, giovane, più carina che bella e che assomiglia, come tipo, alla defunta nonna paterna. Gli sviluppi dei casi sono in rapida evoluzione, ma non aggiungo altro, perché altrimenti tolgo quel po’ di mistero che caratterizza il romanzo, limitandomi a dire che alla fine sarà uno di quei pochi casi in cui si potrà dire, per tutte le parti coinvolte, che vissero felici e contenti. In un certo qual modo Simenon pare sottendere che la malvagità è stata giustamente punita, ma che le colpe primigenie di questa classe arricchita non sono state purgate, sono state semplicemente auto perdonate. Il mondo chiuso della cittadina di La Rochelle che, con l’arrivo del giovane Gilles e la sua ricerca della verità, era entrato in ebollizione si assopisce nuovamente, ognuno prigioniero del suo ruolo in cui l’apparenza prevale sulla sostanza. Non sarà così per Gilles e Colette perché in fondo hanno voluto e saputo affrontare l’ostracismo di un ambiente chiuso e che proprio per questo se ne andranno liberi per il mondo.
Il viaggiatore del giorno dei Morti è un altro stupendo romanzo di Georges Simenon.

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Romanzi
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    06 Ottobre, 2017
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C’era una volta il West

John Williams ha la straordinaria capacità di stupire il lettore, con una prosa, tanto dissimile nel suo sviluppo, quanto uguale nei suoi intenti; in ogni suo romanzo parla dell’essere umano, nella sua naturale incompletezza e nel senso che cerca di dare alla sua esistenza. Che sia l’anonimo insegnante Stoner, o l’uomo più potente del mondo, l’imperatore Augusto, in ogni caso ci troviamo di fronte a esseri che vengono dall’oscurità per brillare nella migliore delle ipotesi per qualche istante e che infine ritornano nell’oscurità. Tutto è fatuo, nulla è durevole, la caducità ci è propria e possiamo solo vivere di sogni che il più delle volte finiscono con il trasformarsi in incubi, come accade a Schneider, a Miller, a Hoge, a McDonald, quattro dei personaggi di Butcher’s Crossing, spalle del protagonista Will Andrews, un giovane di buona famiglia, che lascia l’università e che si spinge all’ovest alla ricerca del suo destino. Approderà a Butcher’s Crossing, questo misero villaggio polveroso, e parteciperà al sogno collettivo di abbattere una mandria gigantesca di bisonti. Partono in quattro (Schneider, Miller, Hoge e Andrews) e tornano in tre, dopo che il loro sogno si è trasformato in incubo per ritrovarsi di nuovo in quella fogna di paese, sconfitti tutti, anche McDonald, tranne Andrews che considera l’esperienza una tappa del suo continuo pellegrinaggio. Il mercato delle pelli di bisonte è crollato, la ferrovia che doveva passare per il villaggio transiterà a una cinquantina di chilometri dallo stesso, tutto appare finito e superato, in una luce crepuscolare che incornicia gli ultimi giorni di un’epoca e di un’epopea. C’era una volta il West, terre libere, selvagge, battute dal vento e dal sole, calpestate da mandrie di bisonti e dagli stivali di uomini pronti a giocarsi tutto per alimentare un sogno, c’era, ma tutto sta cambiando e così anche quel mondo, che più non ritornerà.
Romanzo caratterizzato da una vena malinconica e pessimista, Butcher’s Crossing si chiude in modo enigmatico, con il giovane Andrews che riprende il suo cammino, senza sapere dove andrà, anche se in cuor suo sa che sta procedendo alla ricerca di se stesso. Opera dai ritmi lenti, anche dove forse dovrebbero essere accelerati, come nel caso della carica dei bisonti, si fa apprezzare anche per la grande abilità con cui l’autore è riuscito a ricreare l’ambiente e l’atmosfera, al punto che le pagine poco a poco si fanno immagini in movimento, tanto che si ha netta la sensazione di essere presenti nella valle solitaria dei bisonti, sotto la neve che cade impietosa, fra quegli uomini che invano cercano di dare un senso alla loro vita, alle spalle di Miller che implacabile con il suo fucile stende i grossi mammiferi, in preda a un’ansia corrosiva che lo fa somigliare al capitano Achab di Moby Dick. Ma forse è inutile cercare di dare un senso alla nostra vita, perché tutto è già stato scritto nel libro del destino, anche che quegli uomini sono le ombre ormai di un mondo che scompare.
Imperdibile.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    02 Ottobre, 2017
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Non certo fra i migliori

Simenon ci abitua troppo bene, perché leggere i suoi romanzi costituisce sempre un’esperienza nuova e assai piacevole. Non è infrequente dire che si trova di fronte a degli autentici capolavori e quindi è evidente che quando ci si accinge alla lettura di un suo romanzo le aspettative sono molte. Capita, tuttavia, peraltro raramente, che queste aspettative vadano deluse e questo è accaduto con La casa dei fiamminghi, un poliziesco con protagonista l’inossidabile commissario Maigret, questa volta non in veste ufficiale, anzi addirittura chiamato come investigatore da una delle parti in causa. La vicenda di per sé è semplice e proprio per questo mi sarei aspettato che Simenon avesse lavorato maggiormente sui personaggi, che la sua analisi psicologica fosse più approfondita, e invece non è stato così tanto che gli attori di questa commedia della vita non riescono ad assumere un volto, restano sostanzialmente delle ombre, delle semplici comparse, quando invece dovrebbero essere dei protagonisti. E poi la conclusione, con Maigret che nulla mette in pratica per far arrestare il colpevole mi ha lasciato di stucco, perché non è che ci si trovi di fronte a una vittima che si ribella ad anni di angherie, ma a un personaggio che, con mente lucida, premedita un feroce omicidio. Insomma, se non fosse per la bellissima descrizione del fiume Mosa in piena, questo romanzo non sarebbe diverso da tanti insignificanti gialli di anonimi autori.
E sì, da Simenon ci si attende senz’altro di più.

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    29 Settembre, 2017
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Finti riti satanici

Era da un po’ di tempo che avvertivo la mancanza di Biagio dell’Orso, il capitano di giustizia dei Gonzaga protagonista dei primi tre libri (I leoni d’Europa, Le righe nere della vendetta e Un sicario alla corte dei Gonzaga) usciti dalla felice penna di Tiziana Silvestrin e, se devo essere sincero, ho cercato di spiegarmi più volte perché questo personaggio mi attragga così tanto. In fin dei conti è un uomo come tutti gli altri, né pavido, né eroe, uno che svolge con coscienza e con passione il suo lavoro, insomma, per non pochi aspetti, quasi un anonimo investigatore del XVI secolo. E forse è proprio questa normalità che me lo rende simpatico, che mi consente alcune volte nel corso della lettura di identificarmi con lui, soprattutto quando si prende a cuore i poveri diavoli, le vittime di tante ingiustizie. E così dopo ben più di un anno sabbatico (il volume precedente è stato edito nel 2014) ecco bussare alle porte degli appassionati di thriller storici Il sigillo di Enrico IV, come sempre pubblicato per i tipi della Scrittura & Scritture, una piccola casa editrice napoletana che si fa apprezzare di certo più per la qualità che per la quantità della sua produzione.
E’ una storia in apparenza venata di stregoneria, di riti satanici, di lotte fra i fedeli servitori della religione cristiana e gli anticristo, ma appunto è solo apparenza, è il “fumus” che cela trame e interessi ben più terreni che vengono alla luce poco a poco non appena si dissolvono i vapori di zolfo. Certo l’idea che possano esistere maghi fa un po’ sorridere noi smaliziati lettori del XXI secolo, ma appunto fa solo sorridere, perché è brava la Silvestrin a propinarci fatti incredibili senza pretendere che possiamo crederci, ma lasciando fin dall’inizio chiaramente intendere che si tratta di un escamotage. Ci sono omicidi, rapimenti di bambine, così che il nostro bravo Biagio non può stare assieme alla sua Rosa, venuta a trovarlo a Mantova per un’esperienza di menage extraconiugale, perché per risolvere l’intricato caso dovrà spostarsi prima a Cremona, poi a Torino e infine addirittura a Parigi, dove si chiarirà tutto e l’indagine potrà essere chiusa. Tuttavia, le ultime righe lasciano intendere che siano una promessa, cioè che avremo ancora il piacere di incontrare il capitano di giustizia, visto che gli perviene da Mantova una missiva con cui si reclama il suo urgente ritorno, perché un’antica profezia si è avverata e un’oscura minaccia incombe sul ducato. Altra stregoneria, altri rii satanici? Forse no, più probabilmente la conferma che dalla penna di Tiziana Silvestrin sta uscendo un’altra appassionante avventura. Quando? Non si sa e quindi per ora soddisfiamo il nostro palato di lettori con Il sigillo di Enrico IV.

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I leoni d’Europa, Le righe nere della vendetta e Un sicario alla corte dei Gonzaga, tutti di Tiziana Silvestrin.
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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    29 Settembre, 2017
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L’ascesa irresistibile di Napoleone

Non c’è che dire: Napoleone Bonaparte deve molto all’Italia, perché se diventò nel bene e nel male quel grandissimo personaggio che è stato molto lo deve al nostro paese, grazie a quelle due campagne di guerra condotte in Liguria, Piemonte, Lombardia e Veneto fra il 1796 e il 1800 che lo consacrarono definitivamente come uno dei più grandi condottieri della storia. Era preparato, era un abile stratega, sapeva avere un alto ascendente sulle truppe, ma, soprattutto, era anche molto fortunato perché una delle sue vittorie più belle, quella ottenuta sugli austriaci il 14 giugno 1800 nelle campagne di Marengo, fu merito di un suo generale, Desaix, che nell’occasione cadde in combattimento e che tramutò in successo una altamente probabile sconfitta dovuta a un madornale errore di valutazione di Napoleone stesso. Ciò nulla toglie alle sue qualità militari, che ben si accompagnavano a quelle politiche, visto che aveva fiutato per tempo la crisi del Direttorio e che anche ricorrendo alla forza lo aveva fatto sostituire con tre consoli, di cui lui era il primo e dotato di pieni poteri.
E’ indubbiamente interessante questo saggio di Gianni Rocca che ripercorre l’ascesa di Napoleone appunto con la conquista dell’Italia, considerato un fronte secondario nella lotta fra la Francia e gli stati monarchici europei, ma che il piccolo corso trasformerà in fronte principale, capace quindi con i suoi risultati di condizionare l’esito dell’intero conflitto. Curioso poi è il modo con cui, secondo criteri strettamente storici, viene svolto il tema, immaginando l’esistenza di un inviato speciale (l’autore stesso) al seguito dell’esercito francese in quelle campagne, un giornalista molto particolare che osserva e annota a fianco del futuro imperatore. In questo modo, senza che si finisca nel romanzo storico, la narrazione diventa molto scorrevole, a tutto vantaggio della gradevolezza della lettura.
Il Napoleone descritto da Rocca è quel genietto che ben conosciamo, vanitoso, mai contento del successo ottenuto, in preda di una fortissima stima di sé che se lo porta a ottenere grandi risultati, talvolta invece lo conduce alla catastrofe, come appunto nel caso di Marengo, evitata per un soffio dall’intuito e dall’eroismo di un suo sottoposto.
Da leggere, ovviamente.



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Romanzi storici
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    22 Settembre, 2017
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Il prezzo del potere

In attesa di poter leggere il ben più noto Stoner ho ripiegato (ma il termine è eccessivo, come emergerà con il mio giudizio) su Augustus, un romanzo storico sul primo degli imperatori romani, su quell’Ottaviano successore designato di Giulio Cesare. L’autore, molto opportunamente, riporta in una nota all’inizio dell’opera una precisazione con cui evidenzia che, per quanto abbia cercato di rispettare rigorosamente gli eventi e i personaggi, così come pervenutici dalla storia, ha dovuto, per esigenze letterarie, commettere errori voluti, inventare fatti, creare personaggi che forse non sono mai esistiti. In buona sostanza ha ritenuto doveroso evidenziare che non si tratta di un saggio, di una biografia, bensì, a tutti gli effetti, di un romanzo storico. La metodologia adottata per parlarci di Augusto è la più varia, ricorrendo a epistole di Cicerone, a brevi brani degli Atti di Augusto e al frammento di un libro perduto della Storia di Tito Livio conservato da Seneca il Vecchio. Comunque siano state le fonti quello che mi preme evidenziare è che Williams è riuscito a darci un ritratto realistico di quello che fu Augusto, inserito perfettamente nel suo contesto storico che ci consente anche di avere un’idea, non vaga, e nemmeno allo stato di ipotesi, di quella che doveva essere realmente la società romana, dei giochi di potere che fermentavano, che dividevano, che minacciavano l’esistenza stessa di Roma, una sorta di politica nefasta e corrotta che presenta straordinarie analogie anche con l’Italia d’oggi. Ottaviano, poi divenuto Augusto, è un uomo esile, dalla salute cagionevole, ma dalla fortissima e determinata personalità, un protagonista assoluto che saprà sbarazzarsi degli assassini di Cesare e poi del rivale Marco Antonio, assicurando a Roma un lungo periodo di quiete e di prosperità. L’uomo più potente della terra, un Dio in terra, è in realtà un abile e accorto politico, che, al di fuori di quella che è la gestione dello stato, ha solo due passioni: la moglie Livia e la figlia Giulia. Per quanto le ami dovrà sacrificarle alla ragion di stato così che questa stella di prima grandezza, che splende di fuori agli occhi di tutti, è in effetti un essere profondamente infelice, che resterà progressivamente solo con la dipartita degli amici fidati, da Agrippa a Mecenate, all’adorato Virgilio. Questa intima malinconia è resa in modio splendido dall’autore, che ha anche avuto l’idea accostare la solitudine della potenza con la serenità degli esseri umili. Al riguardo le pagine in cui descrivono l’incontro, per le vie di Roma, di Augusto con Irzia, che gli fu compagna di giochi e amica quando entrambi erano bimbi, ora una donna un po’ più anziana, non ricca, ma nemmeno povera, amata dai figli, baciata da una serenità contagiosa anche se avverte prossima la dipartita, sono forse le migliori del romanzo. Augusto riconosce l’amica, che lo chiama, come da bambina, Tavio; prova gioia, pur nella malinconia che lo permea, e i due parlano, prima del passato, poi del presente. “Ho dato a Roma una libertà di cui io solo non posso godere”. “Non hai trovato la felicità, dissi io (Irzia), nonostante tu l’abbia data.” .”Così è stata la mia vita”. Si scambiano altre parole e al momento del commiato Augusto poggia le labbra sulla guancia di lei. Credetemi, raramente mi è capitato di leggere pagine in cui il contrasto fra l’aridità del potere e la pace della vita semplice sono state rese così bene. Credo che Williams sia riuscito a carpire dopo tanti secoli la personalità di Ottaviano, e non solo quella, ma anche le altre di Mecenate, di Orazio, di Virgilio e della sua piccola cerchia di amici. Quando parlano sembrano vivi, non si ha cioè quella sensazione di parole messe in bocca a chi non può pronunciarle e forse accade questo perché ci siamo lasciati avvincere dall'opera e ora siamo in lei, camminiamo sul selciato del foro, ascoltiamo le gare poetiche di Orazio e di Virgilio, siamo accanto ad Augusto nei rari momenti di gioia con la moglie e la figlia, lo seguiamo in punta di piedi mentre con passo sempre più stanco si avvia verso la soglia dell’Ade.
Augustus non è stato di certo un ripiego, visto che lo considero un capolavoro.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    17 Settembre, 2017
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In attesa dell’ultimo tramonto

Un vecchio politico, che è stato più volte Presidente del Consiglio della Repubblica francese e che per la sua abilità ed esperienza è considerato un mostro sacro, vive l’ultimo periodo della sua vita nella sua villa in Normandia, attorniato da un’infermiera, da una segretaria, da un’autista e dal personale di servizio. E’ un uomo fondamentalmente solo che è rinchiuso nell’armatura del suo potere che, adesso che sembra fuori dei giochi, risiede in certe notizie compromettenti per altre personalità che abilmente nasconde fra i libri della sua biblioteca e che qualcuno, o anche di più qualcuno, sta cercando. Inoltre è intento a scrivere memorie non ufficiali (quelle ufficiali sono già state date alle stampe da tempo) della sua vita e della sua attività di politico e vi è il fondato motivo di ritenere che potrebbero dare luogo a rivelazioni del tutto inattese e sorprendenti. Quest’uomo, che si può dire abbia fatto la storia, è ormai un monumento, un simbolo vivente della repubblica francese e come tale, almeno fino a quando è in vita, deve avere le attenzioni che si merita. L’analisi psicologica di Simenon, sempre molto attenta, in questo caso è superlativa, perché la figura di questo vecchio malato, che ha la tentazione di mandare a monte l’incarico presidenziale ricevuto da un suo ex collaboratore, riflette infallibilmente certe cariatidi politiche anche di nostra conoscenza, permeate da quell’illusione che a loro il potere non verrà mai meno, combattute fra il desiderio di pesare ancora sui destini di un paese e i malanni dell’età che vanno progressivamente accentuandosi. Ma l’attenzione per l’introspezione spinta non riguarda solo il protagonista, ma tutti i personaggi che gli ruotano intorno, compreso anche quelli che non ci è dato di vedere, ma che veniamo a conoscere in base alla descrizione del soggetto principale, di quest’uomo che, nella valutazione dei pro e contro della sua vita, nella convinzione che prende sempre più piede secondo la quale è stato non un soggetto, ma un oggetto della storia, si trova di fronte a una decisione suprema. Da essere intelligente quale è comprenderà di aver ormai fatto il suo tempo e che ora ciò che conta prima di quel gran salto nel buio è di estraniarsi dalle lotte di un mondo di cui non è più parte e di attendere serenamente l’ultimo tramonto
Il Presidente, oltre a essere un capolavoro, è uno dei più bei romanzi di Simenon.


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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    10 Settembre, 2017
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Il leone del deserto

Angelo Del Boca è il nostro più autorevole studioso del colonialismo italiano e, probabilmente per questo motivo, ha avuto la straordinaria opportunità di poter consultare una documentazione di cui era ignota l’esistenza: le memorie di Mohamed Fekini, capo della tribù dei Rogeban e fra i maggiori oppositori, fra il 1911 e il 1930, alla conquista italiana della Libia. E’ certamente un documento di parte, ma incrociandolo con gli eventi che si susseguirono nell’arco di circa un ventennio, si trovano conferme di particolare rilievo, quali il comportamento dei vari governatori, alcuni degne persone, altri falsi e feroci, fra i quali non si può fare a meno di ricordare il sanguinario Generale Graziani, un individuo che avrebbe meritato di finire la sua vita non nel suo letto, ma di fronte a un plotone di esecuzione. Fekini morì comunque nel suo letto, ma esule e dopo non pochi anni di stenti, un personaggio che per certi aspetti potrebbe ricordare il nostro Giuseppe Mazzini. In queste memorie, prodighe di descrizioni di avvenimenti, di giudizi su amici e nemici, è encomiabile l’obiettività dell’estensore, un uomo coerente e mai disposto a rimangiare la parola data. In verità, se c’è chi non fa una bella figura, a parte alcuni traditori berberi, sono proprio gli italiani, quasi sempre dediti al doppio gioco, prodighi di promesse, ma avari di concretezza. Se dovessimo guardare alla nostra avventura coloniale come predominio culturale di un popolo sull’altro, le parti dovrebbero essere invertite, perché i capi libici e fra questi Fekeni dimostrano un livello di civiltà più elevato del nostro, soprattutto quando gli incaricati di reprimere la sacrosanta ribellione dei locali rispondono al nome di Graziani e di Badoglio, individui in tutto e per tutto spregevoli.
Poi, come si sa, la rivolta venne soffocata, provocando, fra battaglie e deportazioni in massa, non meno di 100.000 vittime fra i libici, che infatti, sconfitti, ma non domati, non poterono che perpetuare l’odio nei nostri confronti.
E’ il caso di dire che diventammo potenza coloniale tardi e male e che, a conti fatti, le nostre conquiste in terra d’Africa ebbero un costo assai rilevante, di molto superiore agli scarsi vantaggi economici che ne potemmo ritrarre.
Nella tragedia della sanguinosa repressione italiana Fekini rappresenta l’uomo fedele alla sua terra al punto di immolarsi, se necessario, e infatti lui fu vicino alla forca, anzi la evitò solo rifugiandosi in Algeria con tutta la sua tribù con una marcia nel deserto in cui rimasero, morti, molti uomini.
Se Fekini era imparziale nei giudizi, così è anche Del Boca, e pertanto questo libro presenta, oltre a un notevole interesse, anche un apprezzabile e certamente non consueto equilibrio.
Da leggere, quindi.

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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    07 Settembre, 2017
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Caporetto e Caporettismo

Considerato che Mario Silvestri non è uno storico di professione questo suo libro (Caporetto: una battaglia e un enigma) assume maggior valore, perché l’autore vi ha profuso la passione dell’autodidatta, ma restando vincolato, giustamente, alle ferree regole alla base di ogni ricerca che, andando a ritroso, cerca di avvicinarsi il più possibile alla verità. Di questa disfatta, di cui tanti hanno scritto e che nei testi scolastici viene presentata come un dramma senza precedenti nella storia italiana, Silvestri ci fornisce un resoconto a volte fin troppo capillare, quasi ora per ora di quelle tragiche giornate che videro un grande esercito in un’iniziale disordinata ritirata. Peraltro, non mancano le premesse, ciò che prima avvenne, in funzione soprattutto di cercare di comprendere i motivi per i quali un attacco congiunto dei tedeschi e degli austriaci, che avrebbe dovuto avere soprattutto funzioni di alleggerimento della nostra pressione sul fronte orientale, per poco non finì per trasformarsi in una vittoria del tutto insperata. Incapacità del comandante in capo, cioè di Cadorna? Pochezza dei comandanti divisionali? Stanchezza e sfiducia delle nostre truppe? Non è improbabile che concorsero insieme queste circostanze, ma ciò che stupisce in tutta la vicenda è che lo stesso soldato sconfitto, ribelle alla disciplina, logorato dalla guerra, a ritirata ultimata dietro la sponda
del Piave e sul massiccio del Grappa si trasformò, come per incanto, in un milite deciso, disposto anche al supremo sacrificio pur di difendere la propria patria. A essere sinceri al brillante arresto dell’offensiva austro-tedesca contribuì non poco anche una diversa metodologia tattica imposta più dalle circostanze che non da una tradizione, e cioè la possibilità di scelte autonome sul campo, svincolate quindi dalle lungaggini degli ordini, che partendo dal comando centrale raggiungevano dopo non poche ore le unità combattenti. I nostri, pressati, si ritiravano, ma poi, appena possibile, andavano al contrattacco, praticando così quella difesa elastica dei tedeschi che aveva vanificato tanti attacchi dei nostri alleati sul fronte occidentale. Ma Silvestri non si limita a discutere solo di Caporetto, perché giunge a formulare l’ipotesi che quella nostra disastrosa disfatta sia sintomo di un male che ci affligge da prima e anche dopo di allora. Secondo l’autore l’Italia caporetta è, innanzi tutto, l’Italia priva del senso delle proporzioni, con la carenza dei relativi freni inibitori che prepara il terreno alle Caporetto storiche e cita alcuni esempi. La sconfitta di Adua fu una Caporetto antedatata, frutto di una politica inseguitrice di obbiettivi contraddittori e se ad Adua avessimo vinto la situazione sarebbe rimasta la stessa, cioè l’Italia sarebbe restata quel che era, un paese depresso in corso di lentissimo progresso industriale. Caporettissimo fu Benito Mussolini, perché, pur predicando per tanto tempo la violenza internazionale e pur perseguendo una politica estera aggressiva, trascurò le forze armate, ridotte a poca cosa, quando invece la politica di potenza adottata richiedeva il contrario. Non mancano strali anche per i controsensi dell’Italia attuale, per quelle spese folli e ingiustificate di cui prima o poi si dovrà render conto, probabilmente quando il paese sarà oggetto di una Caporetto finanziaria ed economica. Può darsi che Silvestri abbia ragione, ma io non sono del tutto d’accordo. Certo, la nostra politica è tutto e il contrario di tutto, però la tragedia di Caporetto secondo me fu provocata da un comandante in capo che aveva tenuto troppo sulla corda i suoi uomini, considerati alla stregua di carne da macello, da un’impreparazione di un esercito alla difesa , essendo stato impegnato sempre prima in manovre offensive, dalla stanchezza e dal disagio morale di truppe troppo impegnate, da comandanti divisionali per lo più burocrati e privi di fantasia, e anche da alcune circostanze sfortunate, che sono sempre presenti in qualsiasi evento. Il motivo poi per cui questa massa di sbandati e sfiduciati, una volta arroccati sulla sponda sinistra del Piave e sul Grappa, ha combattuto con la massima determinazione, come anche riscontrato dal nemico, sta anche e forse soprattutto nel fatto che ora non si trattava più di conquistare territori, ma di difendere la propria casa; inoltre fra individui che avevano sperimentato un’angosciosa ritirata si era venuto a cementare uno spirito di comunione che per la prima volta li aveva fatti sentire fratelli, figli di quella stessa madre che ora difendevano con unghie e con denti.
Da leggere, perché è un libro molto interessante.

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Poesia italiana
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    06 Settembre, 2017
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Mai fu più intensa una così breve vita

Spesso ignorato, a volte appena oggetto di un accenno, l’opera del poeta ha rischiato di affondare nelle sabbie mobili dell’oblio, evento nefasto a cui non poco ha contribuito la figura dell’autore, poliedrica, interprete genuina di un ceto diseredato a cui ha tentato di dare una speranza. Certo la figura di Rocco
Scotellaro, sindacalista, uomo politico sindaco di Tricarico, avvolta nel mito ancor più reso incisivo dall’improvvisa scomparsa a soli 33 anni di età, splende a tal punto da correre il rischio di oscurare lo Scotellaro poeta, nonché narratore, artista di non poco conto, anzi fra i grandi della seconda metà dello scorso secolo. Il rischio più grosso, però, fu che questa notevole produzione poetica restasse nei cassetti, ma per fortuna Carlo Levi, che aveva conosciuto Scotellaro negli anni del confino, la rese nota con la pubblicazione nel 1954 di una raccolta intitolata E’ fatto giorno. Ci troviamo quindi di fronte all’atipico caso di un poeta postumo, giacché nella sua breve vita non ebbe la gioia di essere alla ribalta, almeno in questo campo. Successivamente seguirono pubblicazioni di altre raccolte, fino a quando non si decise di provvedere organicamente alla messa in stampa dell’opera omnia ed ecco allora il presente volume, secondo una ricostruzione e un accorpamento dei vari testi effettuata da Franco Vitelli che, nella nota introduttiva, precisa di averli divisi in quattro blocchi (E’ fatto giorno; Margherite e rosolacci; Frammenti ed epigrammi; Canti popolari). Credo che questa impostazione, oltre a rendere più omogenea la pubblicazione, abbia anche il pregio di cercare un accomunamento di tematiche che tendono meglio a delineare l’intrinseca elevata qualità di questa poesia neorealista.
In ogni caso le liriche, armoniche, sono di particolare bellezza nella loro varietà e, per dimostrarlo, eccone due: da Lucania ( M’accompagna lo zirlio dei grilli / e il suono del campano al collo / d’un inquieta capretta. /…) e da L’acqua piovana (Salute, miei parenti morti, / l’acqua piovana vi lava la faccia. /…).
Sullo sfondo c’è sempre la terra natia verso la quale il suo amore deve essere stato viscerale, come viscerale era quello per i suoi abitanti, per i miseri contadini delle valli, e in genere per tutti gli ultimi di questo mondo. Ecco che ritorna, in poesia, il forte impegno civile e sociale, come in Pozzanghera nera il diciotto aprile (Carte abbaglianti e pozzanghere nere…/hano pittato la luna / sui muri scalcinati!/ I padroni hanno dato da mangiare / quel giorno si era tutti fratelli, / come nelle feste dei santi / abbiamo avuto il fuoco e la banda. / Ma è finita, è finita è finita / quest’altra torrida festa / siamo qui soli a gridarci la vita / siamo noi soli nella tempesta. / E se ci affoga la morte / nessuno sarà con noi, / e col morbo e la cattiva sorte / nessuno sarà con noi. / I portoni ce li hanno sbarrati / si sono spalancati i burroni. / Oggi ancora e duemila anni / porteremo gli stessi panni./ Noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti.). Direi che questa poesia è quella che meglio di tutte delinea Rocco Scotellaro sindacalista, politico e poeta, una fusione più unica che rara, un’immagine che di per sé non ha bisogno di commenti. Le poesie di questo volume sono tante (468) e mi piacerebbe riportarne delle altre, ma sarebbe superfluo, perché non c’è di meglio che di leggerle piano piano, centellinando i versi, correndo con la mente a un mondo arcaico, a una civiltà contadina bruciata da un travolgente progresso industriale, e di cui non restano più nemmeno le ceneri, se non nei versi, spontanei, magari sofferti, ma appassionati di un uomo la cui vita, alquanto breve, fu intensa come una lunga combattuta esistenza.
Da leggere, perché i capolavori devono essere letti.



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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    05 Settembre, 2017
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A chi ribalta la storia

E’ come una malattia subdola, che dapprima manifesta scarsi sintomi, ma che poi prende forza ogni giorno che passa. Di che si tratta? Di un fenomeno che nel presente secolo intende dare un’interpretazione della storia del tutto distorta, di quel revisionismo che piace tanto a certe destre sicuramente illiberali e che, per esempio, si picca di definire la Resistenza un fatto del tutto trascurabile, una vera e propria invenzione dei comunisti. Ma la vulgata di nostalgici del fascismo non finisce qui e pretende di giustificare la nascita a suo tempo di questo movimento e di quello nazista come argine interposto fra la civiltà occidentale e il bolscevismo , così come giustifica il pronunciamento del generale Franco al fine di evitare l’incombente pericolo rosso. Insomma, la dittatura dei Soviet e il suo massimo rappresentante Giuseppe Stalin finiscono con il diventare la scusa per tutta una serie di fatti ed episodi dello scorso secolo, compresa quella tragedia che fu la seconda guerra mondiale. Sono trascorsi settantadue anni dal 25 aprile 1945 e appare logico che alcuni eventi, analizzati quando ancora esistevano emozioni recenti, possono e devono essere rivisti alla luce di criteri più distaccati, ma ciò non toglie che non possono essere completamente capovolti, come vorrebbero i revisionisti, gente che se in buona fede deve essere considerata superficiale e tutto sommato incapace di analisi coerenti, se in mala fede invece intenzionalmente bugiarda. Sicuro e certo è che la storia è sempre frutto di opinioni, che nel tempo possono essere riviste, ma riviste non vuol dire capovolte trasformando le vittime in carnefici, come pretenderebbero certi pseudo storici di estrema destra a proposito di eccidi compiuti dai partigiani, che senz’altro ci furono, per motivi spesso abietti, ma che non furono una decisione corale, bensì il frutto della violenza di pochi, al di fuori di una linea di condotta che sempre vide la ricerca, ove possibile, della giustizia, il che non impedì tuttavia, in un contesto di reciproche violenze e timori, l’uccisione sbrigativa di taluni elementi sospettati spie dei fascisti o dei tedeschi. Questi revisionisti si guarderanno sempre dallo spiegare i motivi per i quali la popolazione, nella sua stragrande maggioranza, appoggiava i partigiani e al riguardo le testimo9nianze di ex camicie tenere sono illuminanti: “Ci odiavano più dei tedeschi, perché eravamo con i tedeschi, perché quando si facevano i rastrellamenti i primi a subire la nostra presenza erano i contadini, i montanari, trattati non come italiani, ma come bestie.”. E anche la canzoncina che ogni tanto ritorna in ordine alle rappresaglie dei nazisti e dei fascisti, che recita quasi un motto (Se non ci fosse stati attentati dei partigiani, non ci sarebbero state rappresaglie) è una bugia bella e buona, inventata a posteriori per giustificare atti di cui gli esecutori ben sapevano la portata criminosa. Infatti, prima ancora che in Italia appaiano i partigiani, al Sud le truppe naziste compirono mostruosi eccidi della popolazione Del resto, in tutta l’Europa occupata, i massacri avvennero ben prima che sorgessero movimenti popolari di reazione.
Qualcuno potrebbe obiettare sulla imparzialità di Gianni Rocca, le cui idee marxiste lo portarono a iscriversi al PCI, da cui uscì, per protesta, all’indomani dei fatti di Ungheria. Questa è una preoccupazione infondata, perché l’autore, nell’analisi dei comportamenti di quel dittatore criminale che fu Stalin provvede sì a giustificarne alcuni, ma mai tralasciando la sua opinione altamente negativa di colui che fu uno dei massimi protagonisti del secolo scorso, che ebbe anche alcuni meriti, poca cosa rispetto ai misfatti compiuti.
Insomma questo è un libro che merita di essere letto, soprattutto dai revisionisti in buona fede, perché smonta in modo inequivocabile le loro argomentazioni; dubito, però, che potrebbe far cambiare la loro idea, perché sono impregnati di quel fanatismo che non vacilla mai, nemmeno di fronte a quella che può essere considerata dalla logica come la verità.

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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    05 Settembre, 2017
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Colui che osò ferire Garibaldi

Garibaldi, dopo la fortunata spedizione dei Mille, era rimasto con l’amaro in bocca, perché l’amata Roma era ancora in mani papaline, ben protette dai soldati francesi. Era un uomo, però, che non si dava per vinto, così che raccolti dei volontari, sbarcò in Calabria, ma sull’Aspromonte si imbatté in un grosso reparto di soldati regi, mandati a intercettarlo onde non provocare con il suo comportamento pericolose tensioni con la Francia. E’ in quell’occasione che l’eroe dei due mondi fu colpito al malleolo da un proiettile sparato dal fucile del tenente dei bersaglieri Luigi Ferrari che, benché avesse ricevuto l’ordine di fermare i rivoltosi con qualsiasi mezzo, evitò volontariamente il bersaglio grosso. Subito dopo, ci fu la ritorsione di un garibaldino che ferì con un proiettile al piede l’ufficiale regio. Le conclusioni della vicenda furono diverse, però, perché Garibaldi venne curato dai migliori medici, mentre il povero Ferrari dovette subite l’amputazione del piede. Il fatto di essere riuscito a fermare Garibaldi e la ferita patita gli valsero comunque una medaglia d’oro al valor militare, con una motivazione non esplicita, ma che lasciava intendere molte cose («Adempì all'amaro compito di comunque fermare il generale Garibaldi in marcia verso Roma, Aspromonte 1862»). Fino a quando un commilitone non rese nota l’effettiva origine dell’encomio il Ferrari era un valoroso soldato, ritiratosi dall’esercito per la menomazione e divenuto stimato sindaco di Castelnuovo Magra. Alla notizia seguì una maledizione, giacché ora anarchici e garibaldini sapevano con chi prendersela per la ferita del loro eroe. Ferrari si dimise da sindaco, si rifugiò a La Spezia, ma ormai aveva tutto l’interesse di diventare un signor nessuno, di gettare alle spalle quel passato, anche eroico, durante il quale aveva combattuto nella prima e seconda guerra d’indipendenza e di cui il libro parla ampiamente.
Interessante? Sì e no, perché in fondo è quasi una notizia di cronaca; resta il fatto, comunque, che permette di conoscere gli spasmi di un periodo storico in cui il mito era intoccabile, passibili quasi del reato di lesa maestà anche se sono convinto che, se dopo il fattaccio e a ferite ormai rimarginate fosse stato combinato un incontro fra Ferrari e Garibaldi, conoscendo l’animo generoso di quest’ultimo, le cose sarebbero andate diversamente; non ci sarebbe stata senz’altro quella damnatio memoriae che per tanto tempo accompagnò la famiglia Ferrari, rea di essere imparentata con quel criminale che si era permesso di sparare, ferendolo, all’eroe dei due mondi. L’incontro, o almeno il tentativo di abboccamento ci fu, però con Garibaldi ancora convalescente, che non lo ricevette, ma si limitò a salutarlo militarmente da una finestra.
E’ stato proprio per liberarsi da un peso originario che si portavano appresso che, i due autori, entrambi discendenti di Luigi Ferrari, hanno scritto questo libro per restituire alla memoria un personaggio nel complesso senz’altro positivo.
La lettura è comunque gradevole e anche per questo consigliata.

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    01 Settembre, 2017
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Avanti, ma più spesso indietro

“Una pioggia di decorazioni avrebbe successivamente cercato, trincerandosi dietro l’eroismo dei singoli, di nascondere le responsabilità dei Comandi. Sarebbe così nata la consuetudine dell’esaltazione dei caduti, che cancellando gli errori dalla memoria storica del paese gli avrebbe impedito di trarne i necessari insegnamenti, e consentito alle classi dirigenti di rivolgere l’accusa di nemico della patria a chiunque osasse criticare l’operato dei vertici militari.”

Queste lapidarie parole sono le conclusioni che Gianni Rocca trae alla fine di questo saggio storico che, se non dice nulla di radicalmente nuovo, ha però il pregio di evidenziare i motivi per i quali nelle nostre tre guerre d’indipendenza
non solo non riuscimmo ad arrivare a determinanti vittorie, ma furono costellate da una serie di confitte, spesso vergognose. E fu buon per noi se ottenemmo almeno in parte gli scopi prefissati, grazie ai successi dei nostri alleati. Non si discute sul coraggio dei nostri soldati, sempre presente tranne rari normali casi, si pone invece il dito sulla frequente disorganizzazione e impreparazione, sul basso livello degli alti comandi, spesso caratterizzati da menefreghismo, o peggio ancora, da pavidità e da invidie reciproche. Se in fin dei conti la sconfitta nella prima guerra di indipendenza poteva essere giustificata da un esercito sabaudo di non adeguate dimensioni, certi episodi avrebbero dovuto dare luogo ad approfondimenti, onde non cadere ancora nello stesso errore. Ci fu il tradimento, o meglio la disobbedienza agli ordini ricevuti da parte del generale Gerolamo Ramorino, che ebbe il suo peso nella sconfitta patita a Novara, e che pagò con la morte mediante fucilazione, ma non si colse, o non si volle cogliere, la necessità di preparare al meglio gli ufficiali di rango superiore, senza che il loro unico merito fosse quello di essere dei nobili piemontesi. Andò un po’ meglio nella seconda guerra di indipendenza, laddove a San Martino fermammo l’avanzante ala destra austriaca, sostenendo così al centro i francesi che colsero una grande e sanguinosa vittoria a Solferino. Le pene più grandi, però, vennero dalla terza guerra di indipendenza, con un’altra sconfitta sul campo a Custoza, con due comandanti in campo che non si intendevano (generali Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini), con la solita impreparazione, particolarmente accentuata dalla mancata conoscenza delle posizioni e della consistenza delle forze avversarie, e con un pressapochismo che avrebbe potuto trasformare una sconfitta in una disastrosa ritirata, visto che non era stato stilato un piano per questa eventualità e che non ci fu il tracollo solo perché gli austriaci, stanchi della giornata, preferirono non insistere nell’attacco. E infine, ciliegina sulla torta, il dramma di Lissa, con la nostra fortissima squadra navale comandata dall’inetto Carlo Pellon di Persano, quasi fatta a pezzi dalla più modesta flotta austriaca ben condotta dall’abile e ardimentoso Wilhelm von Tegetthof. Per fortuna che vinsero i nostri alleati Prussiani, così che l’Austria ci cedette il Veneto, per il tramite della Francia, come era accaduto per la Lombardia nella seconda guerra di indipendenza, insomma un esplicito riconoscimento delle nostre scarse virtù belliche.
Rocca ha eseguito un lavoro molto accurato e così emergono chiare le nostre carenze, che non mancano nemmeno in occasione della spedizione dei Mille, ma che non possono essere imputate a Garibaldi, bensì all’esercito piemontese.
Avanti, Savoia! è un libro di gradevolissima e utile lettura.

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    31 Agosto, 2017
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Non mi ha convinto

Il premio Pulitzer non è un premiettino, bensì il più importante premio americano, una vera e propria onorificenza nazionale per il giornalismo, per la letteratura e per le composizioni musicali. Tanto per dare un’idea, nel suo albo d’oro figurano opere come Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway e più recentemente La strada, di Cormac McCarthy. Quindi, dovrebbe essere considerato come un riconoscimento di garanzia di qualità, tanto è vero che in alcuni anni non è stato assegnato.
Tutto questo preambolo ha uno scopo, cioè non è fine a stesso, perché, avendo letto che il Pulitzer 2015 era stato conferito a Tutta la luce che non vediamo, di Anthony Doerr, mi è sorto subito l’interesse per quest’opera, tanto più che nelle brevi e invitanti notizie si parlava di due personaggi, due adolescenti, nella tempesta della guerra su fronti opposti. Non posso dire quindi di avere affrontato la lettura senza entusiasmo, anzi ho esaminato il testo da subito con grande interesse, ma purtroppo, pagina dopo pagina, l’ardore iniziale è andato scemando e non dico che io sia stato pervaso dalla noia, ma che ho cominciato a considerare il libro come uno di quelli che al più consentono qualche ora di svago e se devo essere sincero di questi così ce ne sono tanti, romanzi che non sono, e non hanno nemmeno la pretesa, di essere opere d’arte. Eppure le premesse non mancavano, nel senso che le figure della bimba cieca Marie-Laure Leblanc e del ragazzo orfano Werner Pfennig, che si trovano su fronti opposti, lei francese, lui tedesco membro della gioventù hitleriana, lei in un certo senso partigiana, lui cacciatore di partigiani che trasmettono con la radio sono una base di partenza notevole per sviluppare l’emblema di due giovani a cui la guerra ha negato la gioventù. Se ci poi ci mettiamo qualche personaggio accattivante, come lo zio di Marie-Laure o l’amico ornitologo di Werner ci sono tutti gli ingredienti per raccontare una storia avvincente e c’è anche lo spazio, indispensabile, per dare un tocco artistico all’opera, magari con una condanna ferma senza se e senza ma di ogni conflitto. Dimenticavo, non manca neppure un risvolto giallo, vale a dire la ricerca di una pietra preziosa che si dice benefica per chi la possiede, ma malefica per i suoi familiari, trovata in verità un po’ ingenua e che secondo me se era uno scopo per impreziosire il romanzo ha finito invece per appesantire la narrazione e, a proposito di questa, c’è da considerare il problema di raccontare di due vite parallele. Doerr l’ha risolto come tanti autori, cioè un capitolo a testa, prima uno e poi l’altro e così via, magari alcuni di così poche pagine che non aggiungono nulla per una migliore conoscenza. Purtroppo, nello scrivere di Marie-Laure e di Wener introduce dei salti temporali: una volta si va avanti con gli anni, un’altra si torna indietro, tecnica che francamente non ho capito e che di certo non agevola la lettura. Si tratta di un romanzo che si sviluppa prevalentemente in corso di guerra e che culmina con il bombardamento di Saint Malò; dovevano essere pagine convulse, dal ritmo incalzante, quasi che il lettore dovesse sentire lo scoppio delle bombe e avere la bocca impastata dalla polvere che si leva dalle macerie, e invece no, si continua con un ritmo non letargico, ma comunque blando.
A differenza di molti che hanno giudicato l’opera un capolavoro io la considero invece modesta, per i motivi che ho esposto sopra; leggibile è leggibile comunque, ma con tutte le riserve, in primis con il sospetto, non del tutto infondato, che il premio Pulitzer conferito sia stato un generoso regalo.


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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    25 Agosto, 2017
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L’unica via di fuga

Due amanti in auto, intenti a un gioco erotico (mentre lui con la sinistra tiene il volante, la destra è serrata fra le cosce di lei), il suono disperato di un clacson, l’auto che procede incontrollata e che solo in extremis il conducente riesce a raddrizzare, un autobus che la sfiora e va a finire contro un muro, prendendo fuoco. Quarantasei saranno i morti, quasi tutti bambini al ritorno da una colonia; l’uomo e la donna, un po’ per la frenesia del gioco erotico, un po’ per paura non si fermano a prestare soccorso, né chiedono aiuto, ma si preoccupano solo di eclissarsi.
Da quel momento, e solo per l’uomo (si tratta di Joseph Lambert, titolare, con il fratello, di una nota ditta di costruzioni edili), comincia un periodo in cui cerca di sviare ogni sospetto, comportandosi come sempre, ma c’è qualche cosa che finisce con il gravare come un macigno, e cioè il rimorso, che rode lentamente e senza rimedi, e con il rimorso la coscienza di essere colpevole, e da questo ad avere la sensazione di essere braccato il passo è breve, mentre cresce la paura di essere scoperto, una paura che diventerà terrore non appena cadrà quell’atmosfera di complicità, non solo sessuale, con l’amante Edmonde. I due, per quanto in apparenza diversi, si assomigliano non poco, con lei, di cui ignoriamo sentimenti e modi di pensare, enigmatica come una sfinge, ma altamente appassionata in un rapporto erotico quasi bestiale; lui è un tipico rappresentante di quella borghesia tanto detestata da Simenon, un uomo che conduce una vita piatta e noiosa e che cela un irrefrenabile e mai soddisfatto desiderio di libertà. Il rapporto con Edmonde poteva lasciar presagire il raggiungimento di una libertà senza limiti, ma nelle battute finali si scoprirà che la donna, in fondo, è inferiore alle aspettative di Joseph e che in effetti non è in grado di assicurare quella complicità indispensabile per il raggiungimento del fine. Ormai braccato, con il cerchio che si stringe intorno a lui, Lambert riuscirà tuttavia a trovare una via di fuga, l’unica ormai possibile a un uomo cinico che, nel fare i conti con la propria vita, non ha trovato nulla di soddisfacente.
I complici è un altro capolavoro di Georges Simenon.



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Romanzi autobiografici
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    24 Agosto, 2017
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Un amore infinito

E’ ben strana la vita: come un narratore del calibro di Tomasi di Lampedusa fu portato a conoscenza dei lettori dall’opera di un altro grande autore, Giorgio Bassani, anche nel caso di Rocco Scotellaro, se non vi fosse stato l’interessamento di un grande artista, Carlo Levi, non avremmo mai potuto apprezzare le sue stupende poesie. Peraltro, quest’uomo, la cui vita fu intensa, ma eccezionalmente breve, essendo nato a Tricarico nel 1923 per poi morire a Portici nel 1953, si rivelò anche un eccellente narratore, con uno stile tutto suo personale, ma di grande efficacia. Così, grazie a Carlo Levi, dopo la scomparsa improvvisa di Scotellaro, fu possibile dare alle stampe L’uva puttanella, un romanzo autobiografico, nonché Contadini del Sud, uno studio sociologico sulla cultura dei contadini meridionali. Entrambe le opere sono proposte da Laterza riunite in un unico volume.
L’uva puttanella è quell’uva dagli acini piccoli costretti, per sopravvivere, a lottare con quelli più grossi, una metafora della condizione di chi lavora la terra in Meridione. Scritto in modo semplice, oserei dire perfino elementare, ricalca un po’ il parlato di quelle genti, con toni colloquiali che non appesantiscono, ma snelliscono il discorso. Ciò che emerge in tutta la sua forza è la grande insoddisfazione dei meridionali che si manifesta in uno spirito di ribellione, più che in una ribellione vera e propria, con uno stato talmente lontano da sembrare – ma in effetti lo è – assente. Non poche sono le pagine dedicate all’esperienza di carcerato dell’autore, richiuso in cella per motivi esclusivamente politici quando era sindaco di Tricarico e poi assolto in appello per non aver commesso il fatto. I compagni di galera, fatta eccezione per i delinquenti incalliti, che nascerebbero a qualsiasi latitudine, è costituita da sfiduciati verso uno stato che tutto toglie senza nulla dare e i reati sono di poco conto, sono infrazioni a norme di quell’autorità così lontana, come per esempio il contrabbando. Ci sono tanti personaggi che restano nel cuore, come Pasquale, l’artigiano pirotecnico, che ridotto in miseria e privato della casa si fa esplodere, o Zia Filomena, la baldracca del paese, un tempo, da giovane, bella, ma ora sfatta, o i braccianti, che hanno occupato la terra dei padroni e sono stati sbattuti in carcere, dove lentamente si consumano. E’ un Italia che si vorrebbe fosse diversa, un paese aperto al progresso e alla giustizia, ma purtroppo non è così e Rocco Scotellaro, innamorato della sua terra, strenuo difensore dei poveri contadini, ci fornisce un quadro che nella sostanza è così anche oggi.
Contadini del Sud è uno studio sociologico di rilevante valore che si estrinseca per lo più nelle interviste ad alcuni contadini, da cui apprendiamo la storia delle loro vite che hanno, come comune denominatore, la sfiducia nei confronti di uno stato o assente, o che pretende solo senza nulla dare. E’ gente umile, ma dignitosa, che parla senza levare un grido di dolore, ma di cui si avverte un senso di disagio per una situazione di cui non hanno colpa, perché l’essere poveri non può né deve costituire una colpa. E per finire un testo di struggente bellezza, scritto da Francesca Armento vedova Scotellaro, la madre di Rocco, che in poche misurate pagine, senza enfasi, senza pianti, racconta la vita del figlio fino a quel giorno del dicembre del 1953 della sua morte improvvisa. Si sa, le mamme sono sempre le mamme, e stravedono per i figli, ma in questa donna, che per tanti anni aveva fatto la levatrice, il ricordo dell’esistenza del figlio è solo l’occasione per imprimere nella mente una serie di immagini, per renderne partecipi gli altri, ma senza imposizioni, con un pudore a cui solo il riacutizzarsi di un’antica sofferenza per quella perdita può consentire di esprimersi liberamente, ma sempre con moderazione.
Da leggere, ci mancherebbe altro.


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Tutte le poesie 1940 - 1953, di Rocco Scotellaro; Versi di lotta e di passione, di Vincenzo D'Alessio
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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    22 Agosto, 2017
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Il testimone scomodo

Angelo del Boca, nato nel 1925, è stato, a volte suo malgrado, un testimone e anche un protagonista del XX secolo e così, con l’intento di scrivere la propria autobiografia ha fatto anche di più, ci ha dato la sua personale visione dei molti eventi, spesso tragici, che hanno caratterizzato quell’epoca, spingendosi anche fino ai primi anni del 2000, per la precisione fino al 15 aprile 2008, che definisce giornata infame con l’ufficializzazione dei risultati delle elezioni politiche vinte dalla coalizione di centro-destra e, proseguo con le sue parole "impossibile da cancellare. Fra dieci giorni è il 25 aprile, una festività nazionale che Berlusconi non ha mai onorato. Sessantatré anni fa, in un mattino livido e piovoso, componevo nella cassa la salma di Nino Botti, un partigiano ventenne assassinato dai fascisti alle porte di Piacenza". Non è un caso se al ricordo del partigiano ucciso dai fascisti si contrappone la commemorazione della ricorrenza della liberazione che l’ex presidente del consiglio non ha mai ritenuto di onorare, e non tanto perché di destra, in quanto il significato di una lotta tragica e cruenta è pure avvertito da chi è per conservatore per sua indole e natura, ma perché evidentemente per lui la destra ha un significato ben diverso, non dissimile da quella che ha tiranneggiato il paese per un ventennio, portandolo all’orrore di un conflitto mondiale e alla tragedia di una guerra civile.
Del Boca avverte chiaramente che quella libertà e quella democrazia per cui tanti si sono immolati stanno svaporando in un rigurgito di una pseudo ideologia cassata definitivamente, ma che si tende a far resuscitare. Del resto, in questo suo splendido libro, l’autore, nel ripercorrere le tappe della sua vita, offre forse maggior spazio agli eventi successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, proprio perché è lì che si può vedere se con il bagno di sangue c’è stata una rigenerazione dell’umanità, una svolta decisiva verso un mondo diverso e migliore. Non è stato così, anche se il secolo scorso deve annoverare la caduta del colonialismo in Africa, senza che tuttavia gli abitanti di quel disgraziato continente abbiano potuto ritrarre benefici, e ciò perché si è verificato l’avvento del neocolonialismo con la sistematica spogliazione delle ricchezze naturali da parte delle grandi multinazionali. Fra interviste a capi di stato, ma anche a umili protagonisti della storia, fra l’analisi di un’evoluzione italiana ben presto trasformatasi in involuzione, Del Boca procede sicuro, ci racconta del suo lungo periodo come inviato speciale, di quell’amore per il continente africano che lo portò poi a diventare il più grande storico del nostro colonialismo. E’ stato un testimone scomodo, pronto a smitizzare quanto artefatto a uso e consumo delle masse, e non è quindi un caso se ha scritto Italiani brava gente?, sì, con il punto di domanda, perché se è vero che molti furono brave persone in guerra, è pure incontrovertibile che tanti, troppi praticarono l’eccidio per diletto, senza essere perseguiti, per una ragion di stato che, per quanto ineccepibile, è stata anteposta al senso dell’onore, al legittimo diritto delle vittime di ottenere giustizia. Del Boca è stato un socialista, uno di quei socialisti con la S maiuscola, come Nenni, Pertini, De Martino, autorevoli esponenti di un partito storico e rispettato, ma poi disgregato da un avventuriero che risponde al nome di Bettino Craxi. Ma se tanti sono i protagonisti in negativo di quel secolo, c’è spazio anche per quelli positivi, per uomini come il Dr. Schweitzer, o come Don Milani, o per donne come Madre Teresa di Calcutta (il servizio su di lei è semplicemente stupendo, mai retorico, intenso nella sua semplicità, in pratica un autentico capolavoro). Questo novecento svelato con i ricordi personali, con gli articoli, perfino con racconti, è un secolo che pare ancora vivo, di cui si avverte il respiro mai leggero, cento anni di grandi speranze e altrettante grandi delusioni, un lasso di tempo di cui Del Boca ci porta la sua personale testimonianza, fatta anche di partecipazione, come nel caso del periodo della Resistenza.
In 592 pagine, stampate peraltro in un corpo un po’ più piccolo del normale, c’è tanto e di conseguenza la lettura richiede un tempo superiore alla media, ma non c’è da spaventarsi, poiché il vantaggio di mettere bene in evidenza ciò che di veramente importante c’è stato in un’epoca, con uno stile semplice e immediato, è tale da appagare anche il più esigente; e credo che non pochi si accorgeranno al termine che il novecento di Del Boca è stato anche il loro novecento.
Bellissimo e imperdibile.

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Politica e attualità
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    18 Agosto, 2017
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E ogni giorno che passa è sempre peggio

Da buon giornalista e acuto osservatore del mondo che ci circonda Massimo Fini ha scritto numerosi articoli pubblicati su quotidiani e su periodici e in questo volume (Senz’anima) riporta quelli che hanno visto la luce fra il 1980 e il 2010, lasso di tempo in cui finisce la prima repubblica e nasce la seconda. A onor del vero non mi sono accorto di questa cessazione e di quest’inizio, perché nella tormentata storia italiana è una continua involuzione che vede uno stato divorare se stesso. Ha ragione Massimo Fini quando parlando dell’Italia scrive che è un paese privo di princìpi, votato solo al Dio denaro, senza dignità e senza onore, appestato dalla mafia, corrotto, con le sue arcinote bellezze naturali che corrono il rischio di diventare un ricordo. Un punto di vista drastico, assolutistico? No, condivisibile senz’altro ove si tenga conto che le parole che i politici spendono sono solo bla bla bla, intrise di una retorica da avanspettacolo e senza peso, se non quello del fastidio alle orecchie di chi ascolta, sempre che sia abbastanza disincantato per prenderle per quello che sono: delle puttanate. Le conclusioni che ho tratto da questa interessantissima lettura sono motivo anche di grande dispiacere, ma non posso, né devo ignorarle e, soprattutto, credo sia giusto che altri possano venirne a conoscenza.
La storica dicotomia destra e sinistra è sparita, con la sinistra che vuole assomigliare alla destra, e viceversa, con il risultato che le idee non esistono più. Non bastasse tutto questo, abbiamo avuto all’incirca un altro ventennio con Silvio Berlusconi, il Cavaliere dello sfascio, con la sua corte di nani, leccaculi e puttane. Credevamo che si fosse toccato il fondo, ma per il peggio c’è sempre spazio. E poi, dopo gli anni di piombo, i risvolti delle logge massoniche, gli intrecci con le mafie fanno dire che si è perso il senso della stato, ma lo stato non c’è mai stato, è sempre stata un’entità incorporea dietro cui si trinceravano i potenti di turno e quindi lo stato non siamo noi, sono loro, i pochi, fortunati imbroglioni. Va bene che qualcuno potrebbe obiettare che sono le opinioni di un anarchico, e Massimo Fini lo è, ma esulando da questo preconcetto a guardar bene le cose ci si accorge che è anche colpa nostra, colpa della nostra incapacità a considerarci a tutti gli effetti un unico popolo, come se cento anni di unità d’Italia fossero trascorsi invano, e quella nazionalità diventata Stato fosse un’imposizione a cui non eravamo interessati. Forse è stato così, ma in ogni caso oggi siamo una Nazione e come tale dobbiamo cercare di farla andare per il meglio, con qualsiasi mezzo, togliendo anche forza a chi ostinatamente da anni rema contro.
Imperdibile.


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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    14 Agosto, 2017
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Guai ai vinti

Credo che ben pochi non abbiano mai ascoltato un brano di musica celtica e che sempre pochi non l’abbiano apprezzato, non siano rimasti impressionati da uno stile melodico che, pur espressione della musicalità di poche identità nazionali, tuttavia trova larghi consensi un po’ in tutto il mondo. Dei Celti, di questo grande popolo, resta al giorno d’oggi ben poco, uno sparuto numero di discendenti concentrato soprattutto all’estremo dell’Europa occidentale, prevalentemente in Irlanda e Scozia. E’ naturale pertanto chiedersi chi erano i Celti che, divisi in tribù, sovente nemiche, occuparono fra il V e il III secolo avanti Cristo larga parte del nostro continente, dalle rive dell’Oceano Atlantico all’Anatolia e che ovviamente furono presenti anche in Italia, dove diedero del filo da torcere a Roma repubblicana. Chi non ha mai sentito parlare dei Galli alzi la mano, perché la figura imponente di questi guerrieri, che usavano come copricapo un elmo con ai lati due corna di toro, sono entrati nell’immaginario collettivo, complici anche i fumetti e le pellicole con protagonista Asterix. Benché i Romani amassero definire gli stranieri come barbari, termine che in epoca odierna ha un significato spregiativo, i Celti erano colti, evoluti, in possesso di tecniche di coltivazione particolarmente efficienti, erano capaci di costruire città, come l’attuale Milano, di coniare monete, di realizzare armi e gioielli di pregevole fattura. I Celti in Italia, che sarebbe improprio definire un libro scritto a quattro mani – e più avanti spiegherò il perché – ha il pregio di fare abbastanza luce sull’insediamento di queste popolazioni nella nostra penisola, che a volte avvenne senza traumi nell’incontro con i popoli che vi dimoravano, in primis gli etruschi, e altre invece furono il risultato di guerre aspre e feroci. Al riguardo memorabili furono gli scontri con Roma che venne addirittura conquistata, evento ricordato negli insegnamenti scolastici con la famosa frase di Brenno, il condottiero dei Galli, che a fronte delle rimostranze dei senatori che pagavano in oro la libertà e che si erano accorti che la bilancia su cui veniva pesato era stata volontariamente starata a loro sfavore, sbottò con un “Guai ai vinti”, buttando la sua spada sul piatto di contrappeso e aumentando così lo sbilanciamento. Poi, dopo numerose guerre, che non si protrassero solo per alcuni anni, ma addirittura per dei secoli, Roma la spuntò e i Galli vennero assoggettati. La particolarità di questo saggio e che i due autori hanno scritto “a solo” ognuno alcune parti dello stesso, e così Venceslas Kruta ha stilato l’Introduzione, il capitolo I, parte del capitolo III (dalla pagina 130 alla 143) parte del IV e del V (rispettivamente, dalla pagina 163 alla 166,e dalla pagina 194 alla 202), nonché l’intera Bibliografia; Valerio Massimo Manfredi, invece, ha scritto il capitolo II e parte dei capitoli III (dalla pagina 101 alla pagina 130), del capitolo IV (dalla pagina 145 alla 163, dalla pagina 166 alla 168) e del capitolo V (dalla pagina 169 alla pagina 194). Si potrebbe pensare che questo modo di procedere abbia avuto influssi negativi sull’opera, ma non è cosi: a fronte di un Kruta che procede con la nota prudenza dello storico esperto e che, pur fornendo notizie assai interessanti, mostra tendenzialmente uno stile accademico che a volte può risultare un po’ greve, c’è l’esposizione più fluente e anche più coinvolgente di Manfredi, storico probabilmente più noto per i suoi romanzi storici.
Il libro, comunque, si legge con piacere ed è anche per questo che lo consiglio.

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    14 Agosto, 2017
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Il rivoluzionario

Riemerge dal passato, dagli studi del latino, una frase che all’epoca mi colpì non poco, tanto risulta impregnata da un’acredine non disgiunta da un tono di sufficienza. A pronunciarla fu Cicerone, sulle cui qualità di avvocato non si discute, mentre quelle di uomo lasciano non poco a desiderare. Orbene, il grande oratore si rivolge a Catilina dagli scranni del senato, e par di vederlo ergersi, cercare di superare la sua dimensione, tronfio e sicuro che la sua stoccata sarà quella vincente. “Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” “Fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?” Con l’incipit delle prime delle orazioni che poi verranno chiamate Catilinarie Marco Tullio Cicerone, con la necessaria protezione dei legionari romani, di fronte al Senato denuncia Catilina che la stessa mattina (corre l’8 novembre del 63 a.C. ) aveva inviato dei sicari a casa sua per sopprimerlo, ma la vittima designata, avvisata per tempo del complotto, si era rinserrata fra le sue mura e aveva vanificato l’opera dei taglia gole. La congiura di Catilina, volta a sovvertire la Repubblica romana con una vera e propria rivoluzione tesa a eliminare l’asfissiante oligarchia esistente, era pertanto abortita sul nascere. Il capo dei congiurati era un personaggio controverso, descritto poi come un malvagio dagli storici dell’epoca e da non pochi di quelli che seguirono, e forse buono effettivamente non era, ma non si deve dimenticare che venire considerati nemici di Roma era una consuetudine quando si intaccavano immutabili prerogative di una classe nobile che esercitava sulla plebe un sistema oppressivo, magari allietandola con spettacoli circensi, ma anche torchiandola ben bene, secondo il noto metodo del “bastone e della carota”. Un personaggio come Catilina, un vero e proprio rivoluzionario, non poteva non destare l’interesse di Massimo Fini, quasi sempre contro corrente, in forza soprattutto delle sue idee anarchiche. Ed ecco che allora con questa biografia fornisce una chiave di lettura diversa del personaggio Catilina, utilizzando le stesse fonti storiche che invece lo hanno fatto oggetto di una “damnatio memoriae”. Il risultato di questo lavoro è un libro di interessante e gradevole lettura, tanto più che l’autore, per supportare le sue tesi, ha provveduto anche a una specie di biografia di Cicerone, giusto per far vedere chi fossero i contendenti. Al riguardo, sul grande oratore esprime un giudizio per niente positivo, alle pagine 31 e 32: Ma quelle che sono le sue doti di avvocato sono anche il suo deficit di uomo: la mancanza di convinzioni, il cinismo, l’opportunismo, l’ambiguità. Per il carattere ameboide, incerto, molle, svirilizzato Cicerone assomiglia ad Aldo Moro, è una specie di protodemocristiano. Per vanità e trombonaggine ricorda invece Spadolini, ma uno Spadolini disonesto e moralmente corrotto. E’ un’opinione tranciante che, a onor del vero, non mi sento di condividere in toto, perché di personaggi come Cicerone ce ne sono a bizzeffe e sono quasi tutti i politici. Quanto a Catilina avrà avuto dei difetti, ma di certo era un uomo, di quelli con la U al maiuscolo, coerente e deciso, tanto che ebbe il coraggio di portare avanti il suo tentativo insurrezionale fino a uno scontro diretto, avvenuto nei pressi di Pistoia, in cui cadde alla testa delle truppe che gli erano fedeli. Cicerone, invece, pur non partecipando alla congiura contro Cesare, appoggiò decisamente Bruto, e opponendosi a Marco Antonio, contro il quale pronunciò le famose Filippiche, finì nelle liste di proscrizione. Cercò di evitare la morte fuggendo in modo ignominioso, ma fu tutto inutile, e infine si rassegnò al suo destino.
Direi che l’intento, riuscito, di Massimo Fini è di provare una contemporaneità nelle vite di Catilina e di Cicerone, con il primo che può essere considerato, soprattutto oggi, merce rara e con il secondo che è il classico esempio del politico, falso, incoerente e vanitoso.
A ben guardare sono trascorsi più di duemila anni dalla vicenda di questi due uomini ed è amaro constatare che è cambiato ben poco.
Da leggere, senz’altro.

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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    05 Agosto, 2017
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Aquile insanguinate

Delle tre forze armate, l’Aeronautica è indubbiamente la più recente, visto che fu istituita con Regio Decreto del 1923, per volontà di Benito Mussolini che intese avere un’armata fascista. Infatti, furono profusi cospicui investimenti che, per la loro entità, avrebbero dovuto fornire al paese strumenti operativi, se non al massimo livello, comunque tali da consentire la difesa dello spazio aereo nazionale. Non fu invece così e di questo e di altro parla questo bel saggio di Gianni Rocca che, pur in una doverosa e necessaria analisi critica, nulla toglie all’impegno, al senso dell’onore e all’eroismo che furono propri dei nostri aviatori durante la seconda guerra mondiale. Nel ventennio la nostra aviazione parve un preciso punto di riferimento, grazie alle vittorie nella coppa Schneider, ai record di velocità e di durata conquistati, alle famose trasvolate atlantiche, chiaro esempio di un organizzazione curata nel migliore dei modi; questi successi, più di immagine che di sostanza, non ebbero però positivi riflessi sulla struttura e sulle dotazioni di un’aeronautica militare che, almeno nelle intenzioni del duce, avrebbe dovuto costituire uno spauracchio per tutti.
Già all’origine non furono ben definiti gli scopi della nuova arma, anche se per le diatribe subito intercorse con la Marina, si rinunciò alla costruzione di navi portaerei, ritenendo che la nostra penisola, protesa nel Mediterraneo, potesse essere considerata una portaerei naturale. Allora però si sarebbero dovuti mettere in cantiere aerei da bombardamento a lungo raggio e avviare una programma di stretta collaborazione con la Regia Marina. Nell’incertezza degli scopi, era quindi difficile avere idee chiare su che tipologie di aerei avere in dotazione, così finimmo con avere bombardieri medi, nessun bombardiere in picchiata e nemmeno un bombardiere tattico. In cambio, di modelli di aeromobili ne furono prodotti a iosa, invece di progettarne e realizzarne uno basilare, valido e competitivo, da cui far derivare delle varianti. Un’altra debolezza era data dalla scarsa potenza dei motori, a cui poi si ovviò fabbricando su licenza motori tedeschi, il che non evitò comunque una scarsa affidabilità, dovute alle componenti autarchiche. Anche la scelta di motori stellari anziché in linea non fu delle più felici, ma in ogni caso ciò che più appariva deleterio, oltre allo scarso armamento, era la mancanza di sicurezze, di serbatoi auto stagnanti, di radio di bordo, di cupolini anti proiettili, di cui invece erano dotati gli apparecchi tedeschi e inglesi. La disorganizzazione poi era cronica e quel che è peggio, già in tempo di pace, i pochi nuovi modelli non venivano sufficientemente collaudati, al punto che non di rado capitò che su cinquanta consegnati, tutti, dico tutti, furono respinti per gravissime lacune (già allora, ed è un sospetto più che fondato, circolavano numerose e veloci le “bustarelle”). Inferiori in velocità, in quota di tangenza, in sicurezza, in armamento, tuttavia i nostri piloti si batterono con grande coraggio, meritando anche il rispetto degli avversari, e quando finalmente ebbero in dotazione non gli obsoleti caccia biplano Fiat CR 42, ma i Macchi C202 Folgore o Fiat G55, divennero altamente competitivi, ma ormai era troppo tardi.
Combatterono sempre, con la forza della disperazione, uomini che con il loro sacrificio tentarono inutilmente di sovvertire i risultati di una guerra che in fin dei conti, almeno per noi, erano già conosciuti in partenza.
Il saggio di Rocca è veramente ben scritto e non tralascia nulla, in una sorta di cavalcata che dai toni trionfalistici delle grandi trasvolate si sposta gradualmente a quelli drammatici del grande conflitto, con uno stile conciso, ma avvincente, un’opera che certamente non delude le aspettative e che quindi merita di essere letta.

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Poesia italiana
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    05 Agosto, 2017
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Policromia poetica

E tre, nel senso che con questa sono tre le raccolte poetiche di Carla De Angelis che ho avuto il piacere di leggere: da quella con titolo di fantascienza, anche se non lo è (A dieci minuti da Urano) a questa Mi fido del mare, passando per I giorni e le strade. Con l’esperienza la scrittura si fa più raffinata, più precisa, ma quella che è la sostanza e che potremmo così chiamare il succo dei versi non è mutata: dall’esplosione magmatica senza clamore di A dieci minuti da Urano al valore della parola di I giorni e le strade, per giungere a un caleidoscopio di immagini e sensazioni colorate di Mi fido del mare, una raccolta policroma in tutti i sensi (…/ I colori mi sommergono: / il bianco, il nero e il verde del bosco che apre / la folle corsa per ritrovare il cielo / Nell’azzurro nuotano i sogni di chi deve / migrare /... ) e non si tratta solo di rossi, di verdi o di bianchi, ma è un rimando continuo a una realtà trasognata dominata da una natura amica (I merli danzano lontano dall’uva / sanno che i tempi non sono maturi / nessuna traccia di succo dolce / …). In questo ricorrente abbandono all’estasi di una natura primitiva c’è un ritorno a immagini antiche - non obsolete però – e che altri ci hanno tramandato quando il mondo non era come ora disperato, e mi riferisco soprattutto a Publio Vergilius Maro che con le sue Bucoliche ha saputo descrivere magnificamente quel tesoro che andiamo distruggendo. Però, non si creda che nei versi di Carla ci sia solo un futile richiamo agli animali, anzi, come nel caso del favolista Fedro, sono emblematici di comportamenti umani come si vorrebbe che fossero. E lo spazio per invenzioni poetiche così diventa ampio (- Il grano maturo sembra mare / ma profuma di pane /…; Per accordare il suono al respiro / bisogna ricercare quel frammento di musica / che vive nella mente /…; …/ la corsa dell’auto prende il buio / il vento soffia il sapore del ritorno /…; Le mie parole sono come le pulci / quando sto per scriverle saltano via / e se le scrivo di fretta non so rileggerle /…; La candela finiva in silenzio / restava un poco di fumo con il suo odore acre / bisognava deporre un bacio con le dita / sul picciolo per darle pace).
E’ un susseguirsi di immagini, di suoni, di colori, di metafore, ma in tutti questi emblemi non c’è disaccordo, non ci sono stridii o peggio annichilenti cacofonie, ma, sempre ben lungi da qualsiasi retorica, è un fluire armonico, è un pacato romantico ruscello a cui è piacevole abbeverarsi. E il mare del titolo? Pur con tutto quanto di bello c’è da leggere, avverto la necessità, quasi impellente, di dare una risposta a questo immancabile quesito: perché mi fido del mare? Perché magari non fidarsi della montagna, della collina o della pianura? Innanzitutto si tratta di un amore viscerale, considerati i versi che seguono: Amo così tanto il mare / che vedrei azzurra anche la morte / se mi cogliesse mentre nuoto / verso l’altra sponda. E poi, in una raccolta dove la natura, nelle sue manifestazioni, è così privilegiata c’è sempre una parte di essa che preferiamo, che avvertiamo essere in contatto con noi, con cui comunicare in un linguaggio muto di sensazioni, e per Carla De Angelis questa parte è il mare.
Da leggere, senz’altro.

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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    05 Agosto, 2017
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Non fu una grande Marina

Il 22 maggio 1944 gli ammiragli Inigo Campioni e Luigi Mascherpa furono giudicati a Parma dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato; erano imputati di essersi arresi dopo l’armistizio dell’8 settembre, o addirittura di aver preso le armi contro gli ex camerati germanici. Tutto si svolse nell’udienza di un giorno, al termine del quale furono riconosciuti colpevoli e condannati a morte. C’era tuttavia la speranza, anche in parte dei fascisti, di una grazia da parte di Mussolini, che però si rifiutò di firmare il provvedimento di clemenza, così che all’alba del 24 maggio entrambi vennero fucilati. Perché così tanta ferocia, soprattutto nel Duce? Perché si riteneva che all’infausto procedere del conflitto molto avesse contribuito la Marina e in effetti, come le altre armi, anch’essa ci mise del suo, ma la colpa più grande era di chi, sapendo della nostra impreparazione a una guerra, decise lo stesso di parteciparvi, confidando nella buona sorte e nelle vittorie dei tedeschi. Mussolini aveva bleffato come un giocatore di poker e ora non restavano più carte da giocare; quindi, in una sorta di autodifesa, il duce andò a cercare dei capri espiatori, ben sapendo che le loro colpe erano di molto inferiori alle sue.
Fucilate gli ammiragli è un bel saggio storico di Gianni Rocca, in cui vengono messi in evidenza pregi (pochi) e difetti (molti) di quella che sulla carta pareva una fra le massime Marine al mondo. Avevamo, infatti, un apprezzabile numero di corazzate e di incrociatori e di naviglio minore, nonché la più grossa flotta sottomarina. Non c’erano però portaerei, perché non si erano volute, e anche la collaborazione con l’Arma Aeronautica lasciava alquanto a desiderare; se poi consideriamo che le decisioni strategiche e perfino tattiche spettavano a un organismo centrale (Supermarina) lontano anche più di mille miglia dal luogo dello scontro, lasciando quindi ben poca autonomia al comandante della flotta in mare, si può comprendere quanto faraginoso dovesse diventare un piano di battaglia, con inevitabili ricadute negative. Anche i mezzi erano inadeguati e pochi e in parecchi casi inferiori alle aspettative (i nostri incrociatori, che alle prove, alleggeriti e senza armamento, risultavano velocissimi, in battaglia diventavano lenti); non avevamo il radar, non eravamo addestrati al combattimento notturno, le salve dei nostri cannoni avevano una notevole dispersione e infine anche il mezzo che ci diede maggiori soddisfazioni, il sommergibile, aveva un castello troppo sviluppato, così che era lento a immergersi e i nostri siluri non erano elettrici, ma ad aria compressa, con le bolle che lasciavano una inequivocabile scia che permetteva di localizzare meglio l’arma subacquea. Notevoli risultati invece ottenemmo, per opera di pochi, con i siluri a lenta corsa, detti anche maiali, grazie ai quali furono gravemente danneggiate due corazzate britanniche nel porto di Alessandria.
In ogni caso in nostri marinai non vennero mai meno al senso dell’onore e si impegnarono sempre al massimo delle possibilità. Tuttavia, fra i gerarchi non pochi furono quelli che a fronte di ripetute strane coincidenze arrivarono a pensare all’esistenza di uno o più traditori fra gli alti gradi della Marina; troppi infatti erano i convogli, che allestiti in segretezza, venivano attaccati, con gravi perdite di uomini e di materiali; purtroppo non si era a conoscenza che gli alleati, grazie a una copia di Enigma, la macchina cifratrice e decifratrice tedesca, catturata in modo rocambolesco, potevano mettere in chiaro tutti i messaggi in codice fra i nazisti e anche fra questi e i loro alleati.
Sì, anche la Marina avrà avuto le sue colpe, ma l’unica grande colpa fu quella del capo, di un Mussolini che si illuse che l’Italia fosse una grande potenza, anche se - e questo doveva ben saperlo – non lo era.
Da leggere.

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Romanzi storici
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    04 Agosto, 2017
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Un’occasione persa

Il fatto che questo libro, primo di una trilogia, abbia vinto il premio Bancarella 2017 potrebbe far pensare che ci si trovi di fronte a un’opera di rilevante valore, e invece purtroppo non è così, e quel purtroppo è motivato dalla constatazione che si è persa una grossa occasione per scrivere dei Medici quali essi effettivamente erano. Del resto, giunti all’ultima pagina di questo romanzo, si è più che mai convinti che non sia bastato per farci conoscere un po’ di più questa dinastia che tanta importanza ha avuto nella storia italiana. Erano banchieri, ma come mai erano riusciti a fare una grande fortuna, come poteva essere delineata la loro abilità nell’influire sulle scelte del governo di Firenze senza farne parte, perché, fra alti e bassi, in un’epoca di Signorie Firenze continuava a restare una repubblica? Sono tutte domande che il lettore si pone, sperando di trovare delle risposte che tuttavia non arriveranno. Comprendo che si tratta di un romanzo storico e non di un libro di storia, ma una maggiore caratterizzazione di Cosimo e Lorenzo de Medici non sarebbe guastata di certo, anzi entrambi finiscono con apparire nell’opera quasi come personaggi di secondo piano a fronte di due sicuramente inventati, quali la bella e seducente Laura Ricci, che odia i Medici per un un malinteso e il tenebroso guerriero Schwartz, al soldo di Rinaldo degli Albizzi, il più grande nemico dei Medici stessi. Il rapporto fra questi due soggetti è in pratica il fil rouge dell’opera ed è una relazione tormentata, quasi di amore e odio; peccato però che le caratteristiche della donna e dell’uomo appaiano stereotipate, senza tante preoccupazione di approfondimenti psicologici, quasi sempre con comportamenti all’estremo, come si riscontrano normalmente in certe fiction a puntate. Ben poco curata è pure l’ambientazione, per non parlare dell’atmosfera appena abbozzata e quindi costituisce unico motivo di autentico interesse il dipanarsi della vicenda, con un occhio di particolare attenzione a Laura e Schwartz, quasi che fossero loro i protagonisti e non la famiglia Medici. Certo il libro si legge velocemente, ma alla fine ci si rende conto che, più che far trascorrere un po’ di tempo, null’altro può essere chiesto allo stesso e che, tutto sommato, dei Medici ne sappiamo quanto prima.
Di sicuro non leggerò gli altri due della trilogia.





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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    29 Luglio, 2017
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Una vittima piuttosto odiosa

Oscar Chabut è un grande commerciante di vini, venuto dalla gavetta e che ha raggiunto il successo calpestando più di un concorrente; inoltre, è in preda a uno sfrenato desiderio di possedere quante più donne possibili, vantandosi pubblicamente delle sue conquiste, che non gli importa se siano nubili o sposate, magari mogli di amici. Così quando quattro colpi di pistola di piccolo calibro troncano la sua vita in rue Fortuny, a pochi passi da una palazzina ospitale ritrovo di amanti, le indagini si presentano da subito assai difficili perché di gente motivata a ucciderlo ce n’è parecchia; se poi a questo aggiungiamo che Maigret è in preda a una di quelle influenze che lo stroncano è possibile capire quanto sia difficile avviare un’indagine, a meno che non ci sia il solito colpo di fortuna, in questo caso rappresentato dal colpevole che, pur non essendo pentito del delitto che ha commesso, ha in animo di costituirsi, possibilmente al celebre commissario, a cui invia sibilline missive o con il quale instaura brevi colloqui telefonici. Maigret e il produttore di vino è uno di quei gialli in cui si scopre chi è l’omicida abbastanza per tempo, eppure ha il pregio di mantenere un’apprezzabile tensione fino all’ultima pagina, e ciò nonostante si vada progressivamente instaurando una sorta di simpatia del commissario per il reo, tanto che ancora una volta rifulge la straordinaria umanità di Maigret, tanto propenso ad aiutare, ove possibile, gli umili e i diseredati quanto capace di mostrare il suo disprezzo per certi pesci cani capitalisti avvezzi a offendere l’altrui dignità. Un Simenon al meglio attrae il lettore con un investigatore, come al solito bravo, ma sempre capace di comprendere le ragioni degli altri, nei confronti dei quali dimostra il suo senso di pietà.
Da leggere.


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Romanzi
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    26 Luglio, 2017
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La storia siamo noi

Secondo volume della Trilogia della pianura, Crepuscolo, come per gli altri, è ambientato nel Colorado, a Holt, immaginaria cittadina rurale che, pur tuttavia, appare notevolmente realistica, riassumendo caratteristiche di numerosi analoghi insediamenti americani. Ancora una volta Kent Haruf dimostra le sue straordinarie qualità di narratore, capace di rendere avvincenti fatti che sono per lo più del tutto ordinari. Lo stile asciutto, ma non povero fa sì che il romanzo avvinca il lettore dalla prima all’ultima pagina, grazie a un’ambientazione che si potrebbe definire quasi perfetta e a personaggi, che pur nella loro normalità sono portatori di storie e situazioni di straordinaria umanità. Non c’è un preciso filo conduttore, ma ci sono storie, all’apparenza del tutto autonome, che poi finiscono per l’incrociarsi, una serie di racconti accomunati solo dal luogo, appunto Holt, e dalla volontà dell’autore di farci conoscere personaggi che finiscono con il diventare protagonisti, come è il caso del ragazzino DJ Kephart che vive con l’anziano nonno, unico parente rimastogli, essendo orfano e che ha un disperato bisogno di comunicare con qualcuno della sua età, trovandolo in una coetanea vicina di casa, o i coniugi Luther e Betty Wallace, e i loro due giovani figli, che vivono ai margini della società a carico della pubblica assistenza, o ancora la vicenda dei fratelli anziani e scapoli Harold e Raymond McPheron che un giorno hanno accolto e assistito Victoria Roubideaux, una giovane con la sua bambina piccola. Sono figure che normalmente potrebbero apparire anonime, ma occorre considerare che ognuno di noi ha una sua storia, unica e irripetibile, che molto probabilmente non sarà mai conosciuta. Ecco, Haruf vuol far conoscere le storie per niente straordinarie di gente come noi e che tuttavia rivela qualità insospettabili, sovente non note agli stessi interessati. Per lo più aleggia una certa malinconia, ma l’abilità dell’autore sta nello stemperarla, di lasciarla come un cenno e, soprattutto, di lasciare spazi, magari dopo tanto dolore, alla speranza. E’ questo il caso dei McPheron, che, poco dopo che la ragazza che avevano ospitato li ha lasciati, unitamente alla sua bambina, per seguire i corsi universitari, vanno incontro a quello che avevano sempre temuto, cioè l’assoluta solitudine, assoluta perché Harold muore ucciso da un toro e, benché i vicini e anche Victoria Roubideaux stiano per quanto possibile accanto al superstite Raymond la vita non è più la stessa e l’uomo ha bisogno di ben altro, non di affetto, ma di amore, ed è bello vedere quanto si presti una famiglia amica affinché ciò avvenga. I primi approcci di un uomo anziano, che mai aveva avuto donne, sono di una bellezza incredibile e inevitabilmente emozionano e commuovono.
A Holt, che a prima vista può sembrare un agglomerato urbano in cui regna la monotonia, invece si nasce, si vive, si ama e si muore, certamente come in tutto il mondo, ma ciò che conta è che la storia di ognuno , con suoi pregi e con i suoi difetti, è lo specchio di un’umanità di cui siamo parte. Altri luoghi, certo, altre latitudini, ma non c’è nulla di più bello di accorgersi che la storia non è tanto quella scritta sui libri di scuola, non è quella dei personaggi famosi, perché la storia siamo noi.
Un capolavoro.

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Benedizione, di Kent Haruf
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    25 Luglio, 2017
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Una dominatrice

La provincia francese fa ancora una volta da sfondo a un noir del tutto particolare, atipico nella produzione di Simenon, in cui giganteggia una figura femminile tutta d’un pezzo, dotata di una forte personalità. La vedova Pontreau, che ha sempre condotto una vita in miseria, ma con estrema dignità, anzi con un portamento permanentemente altezzoso, ha l’occasione di dare una svolta alla sua esistenza e a quella delle sue tre figlie, grazie al matrimonio di una di queste con il diafano Jean Nalliers, figlio di un ricco proprietario terriero e che per l’occasione ha ricevuto in dono dal padre una grossa fattoria (La Pré-aux-Boeufs). Il novello sposo purtroppo soffre di una malattia neurologica, un tempo chiamata piccolo male, ma scientificamente conosciuta con il termine di epilessia. Si da il caso che durante la mietitura Jean, arrabbiatosi con un lavorante, avverta l’inizio di una crisi e si trascini fino al granaio, dove cade a terra in stato di incoscienza e dove lo trova la suocera, a cui sorge l’idea di liberarsi del genero onde impadronirsi della terra. Si limita a spingerlo attraverso una finestra così che cada di sotto e si spiaccichi sul selciato. Questo è sostanzialmente l’antefatto su cui Simenon sviluppa un romanzo che è prettamente al femminile, visto che i protagonisti, fatta eccezione per un procuratore, per un medico e per il padre del morto, relegati però a figure di comprimari, sono tutti femminili: le tre ragazze Pontreau, di cui la più giovane e minorenne Viève fuggirà di casa con il suo innamorato per non concludere l’esistenza nel grigiore di ogni giorno, a differenza della sottomessa Hermine e della psico labile Gilberte, vedova di Jean, che prima di consumarsi totalmente nel lutto si toglierà la vita; la serva svampita, per non definire pazza, Naquet, che qualcosa deve aver visto o sapere, circostanze da cui intende trarre profitto, e sopra di tutte un gigante imperscrutabile, ansioso di dominare e di essere obbedito, cioè la vedova Pontreau.
Non c’è che dire, Simenon si barcamena bene fra queste donne, con pochi tocchi di pennello ne delinea i contorni e i caratteri e dimostra ancora una volta la sua straordinaria capacità di sondare l’animo umano, di rivoltarlo come un calzino, di gettare in pasto ai lettori anche gli angoli più nascosti e segreti della psiche. L’omicidio, la ricerca del colpevole sono solo un pretesto per completare un ritratto di donna in cui più d’uno ha creduto di ravvisare la madre dell’autore.
Da leggere, lo merita.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    20 Luglio, 2017
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Delitto perfetto

I gialli di Agatha Christie sono caratterizzati da intarsi che si incontrano perfettamente, da percorsi tortuosi, ma che portano alla meta secondo un programma prefissato e ampiamente collaudato, nonché da delitti che, pur sfidando i limiti della logica, alla fine risultano perfettamente comprensibili nella loro esecuzione, tanto da poterli definire perfetti. Ma perfetti non sono, perché l’investigatore di turno, che potrà essere di volta in volta Poirot o miss Marple, riesce a scovare una piega, anche minuscola, tale comunque da far assicurare il colpevole alla giustizia. Anche Se morisse mio marito non diverge da questa impostazione di massima; se c’è qualcosa di diverso, invece, è l’immagine di un Poirot coinvolto, incolpevolmente, in un omicidio. La vicenda di una moglie che ha necessità di sbarazzarsi del marito non in tribunale con una sentenza di divorzio, ma diventando vedova, di per sé non presenta particolari originalità, tranne nell’inserimento di un personaggio che possiamo chiamare controfigura, senza andare tuttavia oltre, per non anticipare gli sviluppi della trama. Ecco, questa perfezione di incastri tipica della Christie è quella che da giovane apprezzavo e che ora avanti negli anni, considerata la sua impossibilità, avverto stucchevole, e poi quel modo di narrare compassato, flemmatico da old british finisce con il rendermi ancor meno piacevole la lettura. I personaggi sono marionette, mancando di una fine analisi psicologica, tanto che chiuso il libro si dimenticano subito. Quindi quello che poteva sembrare l’occasione per una piacevole evasione sdraiati in spiaggia sotto l’ombrellone, dopo poche pagine, almeno in me, è motivo di stizza, perché tutta questa perfezione irreale finisce con il far diventare un omicidio l’opera di un cesellatore preoccupato solo che tutti i pezzi combacino perfettamente, senza acuti e innalzamenti di toni, ma anche senza particolari meriti.
Da leggere per chi è un sostenitore di Agatha Christie; quanto a me credo che non ne leggerò altri.

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Romanzi
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    10 Luglio, 2017
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Così è la vita

Holt in Colorado, una cittadina rurale che probabilmente non esiste, ma che è in tutto e per tutto simile ad altre piccole realtà degli Stati Uniti; in questo luogo, lontano dai richiami delle grandi città, come Denver, che nel romanzo ogni tanto appare, si consuma l’esistenza dei suoi abitanti, senza scossoni, senza velleità, ma anche senza particolari patemi, assenti per una sorta di innata rassegnazione. Lì si nasce, si cresce, si fa sesso, si invecchia e si muore, nè più né meno come in ogni altro posto del nostro pianeta e in sé le storie dei suoi abitanti non avrebbero nulla di particolare o di interessante se a raccontarle non fosse un artista di grandissimo talento che risponde al nome di Kent Haruf. Giunto al successo piuttosto tardi questo narratore che taluni tendono a paragonare per la sua scrittura asciutta a Hemingway, ma che io credo possa essere meglio comparato per lo stile sì senza fronzoli, ma incalzante, a Faulkner, ha stilato un trittico di opere a cui è stato dato il titolo di Canto della pianura. Certo lì montagne non ce ne sono e forse canto può apparire un po’ pretenzioso, ma se guardiamo la straordinaria umanità con cui Haruf ha disegnato i suoi personaggi, esseri umani normalissimi, ognuno con un suo segreto, devo riconoscere che è riuscito a confezionare un romanzo capace di toccare le corde più sensibili di ognuno di noi, senza enfasi, senza stimoli assidui, ma semplicemente narrando di protagonisti che non sono né eroi, né martiri, sono semplicemente vite che appaiono in strade polverose e scompaiono nelle stesse. A fronte di un soggetto principale, Dad Lewis, non più giovane, anzi anziano, che si appresta al commiato definitivo dalla sua famiglia, perché il male di cui soffre è incurabile, compaiono altri personaggi, nessuno inferiore e nessuno superiore agli altri: la moglie, che non si rassegna alla futura perdita, la figlia, che per l’occasione è tornata alla casa dei genitori e che porta con sé il dolore per la scomparsa della sua bambina investita da un’automobile, le vicine di casa, di cui le dirimpettaie sono una nonna vedova con una nipotina orfana, un’anziana madre, pure vedova, e sua figlia, ormai incamminata verso un sicuro zitellaggio dopo una combattuta storia d’amore con un uomo sposato, il pastore Lyle, esiliato in una parrocchia minore perché, fervido credente, cerca di praticare alla lettera, e invita a farlo anche gli altri, quanto c’è scritto nel Vangelo, attirandosi le ire di non pochi fedeli e, soprattutto, della moglie e del figlio, che lo considerano un buono a niente. Le loro storie si sviluppano, si dilatano, finiscono per venire a contatto e, senza essere travolgenti, riescono ad avvincere al punto che l’immaginazione sembra quasi materializzarsi. Alla fine il povero Dad lascia questo mondo, come era logico, ma non c’è niente di drammaticamente commovente, perché Haruf sembra dire che la vita è così: si nasce, si cresce, si muore, perché non siamo che di passaggio. Dopo verranno altre genti, altre stagioni, in un ciclo senza mai fine.
E’ un romanzo senz’altro stupendo e che lascia alla fine il lettore in uno stato di appagante serenità.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    04 Luglio, 2017
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Indagine nella nebbia

Pubblicato nel 1932 Il porto delle nebbie fu scritto a bordo dell’Ostrogoth, il cutter che Simenon si era fatto costruire e attrezzare a Fécamp, ancorato nel porto di Ouistreham, dove si svolge l’intera vicenda. Avvolta sovente dalle nebbie la località marittima della Bassa Normandia è il teatro di una trama piuttosto intricata, in un’atmosfera di costante e inclemente tensione, in cui accade di tutto, perfino che il celebre commissario Maigret sia costretto a trascorrere una piovosa nottata legato come un salame e disteso sul molo. Ben conoscendo (ormai ne ho letti diversi) i gialli con proagonista l’infallibile detective è uno dei pochi casi in cui prevale l’azione. Beninteso non è che Maigret si metta a effettuare spericolati inseguimenti o sia costretto a sparare, ma la dinamica delle indagini è tale da riservare frequenti colpi di scena in cui addirittura si arriva a un furioso corpo a corpo. C’è un ex capitano di lungo corso, poi in pensione e diventato responsabile del porto di Ouistreham, che viene trovato a Parigi a vagare in stato confusionale, e che soccorso non capisce nulla di quel che gli si chiede e nemmeno parla.
E’ solo un caso fortuito che permette di scoprire chi é e sulle sue condizioni di salute grava una ferita da proiettile al cranio, peraltro operato con notevole perizia. Chi gli ha sparato? Perchè? Proprio per questo Maigret avvia le indagini e accompagna il capitano Joris (così si chiama quello che per un po’ era uno sconosciuto) alla sua casa a Ouistreham, da cui mancava da parecchi giorni. Nel corso della notte tuttavia l’uomo muore, avvelenato dalla stricnina. Il piccolo borgo, umido di nebbia, popolato di marittimi e di pescatori diventa così il teatro dell’indagine, in cui tutti, o comunque quasi tutti i soggetti interessati sanno, ma non intendono parlare, in una sorta di omertà che manda in bestia il commissario. Fra fortunali e ancora nebbie il massiccio investigatore si muove con la massima determinazione e da l’impressione sin dalle prime battute di aver capito molte cose, di cui tuttavia, invano, chiede le conferme. Si arriva così alla fine con il colpevole che non viene assicurato alla giustizia, ma che paga la sua colpa in altro modo, con soddisfazione di Maigret che manifesta la sua grande umanità nei confronti degli altri sospettabili, vittime in altro modo del reo che è un esponente di quella borghesia di provincia che Simenon non solo non ha mai amato, ma che ha dipinto nelle sue opere quasi sempre in modo impietoso.
Il porto delle nebbie, che nulla ha a che fare con il famoso film dall’eguale titolo diretto nel 1938 da Marcel Carné, è un ottimo poliziesco, capace di avvincere il lettore dall’inizio alla fine, ed è pertanto da me più che consigliato.

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Classici
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    01 Luglio, 2017
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Il delitto non paga mai

Probabilmente Teresa Raquin è il romanzo più famoso di Emile Zola e, per certi aspetti, differisce da altri del medesimo autore, in particolare dallo splendido Germinal. La vicenda narrata non è una storia di lotte di classe, ma è un quadro intimistico di insoddisfazioni e lacerazioni latenti a cui i protagonisti si illudono di porre rimedio con un delitto, quello del marito di Teresa, annegato dall’amante Lorenzo. L’opera è caratterizzata da un colore dominante, il grigio, perché grigia è l’esistenza della scialba Teresa come anche quella di Lorenzo, due protagonisti che in apparenza sembrano in antitesi, ma che in realtà, nelle contorte vie delle menti malate, sono la coppia ideale; fra i due però non c’è amore, c’è solo passione bestiale, erotismo sfrenato in un’insaziabile e inconsapevole voglia di autodistruzione. Fra i personaggi di contorno, la vecchia zia di lei e madre del marito Camillo, Camillo stesso e altri minori scorrono come ombre su un palcoscenico dominato in tutti i sensi dagli amanti diabolici. La passione carnale che nasce fra i due, i piani per sopprimere il marito terzo incomodo sono descritti in modo perfetto da Zola, senza mai una caduta di ritmo, così come il periodo di vedovanza, con l’astensione dal manifestare una relazione sempre tenuta accuratamente nascosta, al fine di non destare sospetti nella polizia. Quello che può sembrare un delitto perfetto, e lo sarà perché mai l’autorità giudiziaria supporrà qualcosa di di diverso dalla disgrazia, si rivelerà però un boomerang per i colpevoli, che nel lungo periodo in cui abilmente reciteranno l’una la sofferenza della vedova, l’altro lo sconforto per aver perso un amico, finiranno dapprima per affievolire e poi per far cessare del tutto la passione animalesca che tempo prima li aveva permeati. E anche quando, abilmente, faranno in modo che gli stessi amici e la madre dell’ucciso favoriscano il loro matrimonio, l’unione non sarà che una conseguenza di un patto stabilito nel momento in cui venne loro l’idea di togliere di mezzo il povero Camillo. Il senso di colpa comincerà a rodere, e con lo stesso subentreranno le paure, le notti insonni, gli incubi, le visioni delò morto che li osserva, quasi come un romanzo horror, con il risultato di problemi psichiatrici ben più gravi e se la soluzione sembra essere trovata nell’eliminare il compagno, e a ciò pensano entrambi, in un momento di autentica pietà per se stessi comprenderanno che non ha più senso vivere.
Teresa Raquin é un romanzo a forti tinte, anche se vi domina il grigio, è un’opera in cui un naturalista come Zola è riuscito a dare il meglio di se stesso, con una tensione crescente e angosciante dal momento del delitto e che l’autore mantiene fino quasi alla fine, allorchè la suprema decisione di Teresa e di Lorenzo sembra indicare il modo per regolare gli errori, per indicare a se stessi quella via che avrebbero dovuto prendere molto prima, per uscire dal grigio anche senza trovare il sole.
Il romanzo è un capolavoro.

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Poesia italiana
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    29 Giugno, 2017
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La dignità, nient’altro che la dignità

Non è un caso se questa raccolta poetica riporta, dopo la dedica ai figli, gli ultimi quattro versi di Pozzanghera nera il 18 aprile (Noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti), poesia in cui il grande Rocco Scotellaro riassume in modo encomiabile il profondo disagio delle genti meridionali e, per estensione, di tutti coloro che, schiacciati dalla prepotenza dei padroni, sono gli ultimi, benché non secondi a nessuno. Carlo Levi coniò per questo grandissimo autore lucano l’appellativo di poeta della “libertà contadina”; purtroppo lasciò questo mondo che aveva appena trentanni, ma se la morte lo colse troppo presto i semi della sua passione hanno attecchito, pochi forse, ma sufficienti a perpetuare un ideale che sempre esisterà fino a quando uomini prevarranno sistematicamente su altri uomini. Uno di questi semi ha il nome di Vincenzo D’Alessio, un meridionale pure lui, che ha nel cuore la sofferenza di tanti, troppi oppressi. Non si tratta di una scelta politica in senso stretto, ma di un fuoco sempre vivo che lo ispira, lo porta a scrivere versi come questi: Il dolore dei poveri / fa sorridere il mondo / La morte fa notizia /dal telegiornale/…; oppure Attenti al sistro del vento / al ventaglio dei politici / alla falsa materia. Cristo / viene ucciso su questa terra / in ogni momento e non si / chiama Roma!. Certo la realtà di un meridione dagli eterni e stridenti contrasti fra bene e male, fra ricchezza e miseria, fra la tanta gente onesta che subisce e la malavita che soffoca, che condiziona, che toglie ogni speranza, influiscono notevolmente sulla produzione letteraria di D’Alessio, ma si sbaglierebbe a considerarlo solo il cantore del sogno del Sud, di un mondo più giusto, di una dignità totale e non effimera, perché i Sud del mondo sono tanti, sono le favelas del Brasile, le baraccopoli dell’Africa, la rassegnazione di tanti giovani, in meridione come in settentrione, che non trovano lavoro. No, D’Alessio è di più, è la voce di un impegno civile che sgorga dal petto e che non si rassegna mai, non demorde, continua in una lotta a oltranza, sorretto dalla passione propria di chi non può restare indifferente. Il suo è un grido pacato, ma è un grido, una luce che brilla, un faro per una torma di naviganti cenciosi che anelano a un mondo migliore. Non c’è astio, non c’è violenza in questa lotta verbale, ma forse sono proprio le parole che, restando, feriscono più di una spada, sono i silenzi attoniti a rimbombare all’intorno, è un canto che ha la levità di una preghiera e la forza di un pugno che colpisce allo stomaco.
Questo e altro è Versi di lotta e di passione e credo che se Rocco Scotellaro potesse leggere questa silloge ne sarebbe contento e direbbe: “Non ho seminato invano.”.

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Immagine convessa e La valigia del meridionale e altri viaggi, entrambi di Vincenzo D'Alessio
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    28 Giugno, 2017
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Prove di scrittura

Nessuno nasce con un bagaglio di nozioni e di competenze, e questo appunto vale per tutti, Georges Simenon compreso. Infatti, non è logico pensare che romanzi come I fantasmi del cappellaio o La scala di ferro siano state le prime opere del narratore belga, che pur in possesso di un notevole talento ha dovuto, come gli altri, studiare e provare per poterlo mettere a frutto. In questo senso L’uomo di Londra scritto nel 1934 e quindi una delle primissime opere di Simenon rappresenta una tappa del percorso intrapreso e che porterà a romanzi di grande interesse e di livello elevatissimo. Già si scorge la particolare attenzione per la descrizione del paesaggio, Dieppe e il suo porto sovente avvolti da una fitta nebbia, e per l’ambientazione, in un tentativo non completamente riuscito di ricreare particolari atmosfere. Pure l’analisi psicologica dei protagonisti è già presente, ma è appena abbozzata, così che i personaggi, pur sufficientemente caratterizzati, non riescono ad avvincere il lettore. La trama, poi, è alquanto esile e il tutto è al servizio di di una finalità tendente a dimostrare che un mediocre resterà sempre tale, in ogni circostanza, anche quella a lui più favorevole, insomma che l’abito non fa il monaco. La nota veramente positiva e originale è che i due protagonisti principali presentano le stesse caratteristiche, entrambi prigionieri di una mediocrità a cui tentano di ribellarsi, ma che nel complesso pare loro non dare fastidio più di tanto.
In tutta sincerità e pur tenendo conto di questo esercizio di scrittura L’uomo di Londra mi è solo moderatamente piaciuto; il giudizio è influenzato più che altro dalla trama evanescente e pronto a perdonare all’autore la mancanza di quelle così rilevanti caratteristiche che dimostrerà di avere in seguito, tuttavia non posso esimermi dal considerare che la vicenda mi è parsa ben poco interessante, tanto che sono arrivato stancamente alla fine, a una fine inaspettata e per questo poco logica.

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E' un Sì più del cuore che della mente.
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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    23 Giugno, 2017
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Il macellaio

Non credo che le conclusioni che si ritraggono da questo libro possano infangare l’onore di un uomo, perché non si tratta di illazioni, bensì di fatti, di circostanze ampiamente documentate da cui emerge che, al di là degli errori di un comandante in capo, il suo comportamento verso i sottoposti era tipico di chi, illudendosi di essere un superuomo, considera gli altri delle totali nullità, dei numeri, una massa indistinta buona solo da mandare al macello.
In buona sostanza, non è tanto la disfatta di Caporetto che può essere considerata una macchia indelebile nella carriera di questo militare, ma è soprattutto quel suo cinismo, quella sua mancanza di umanità che lo portava a non considerare gli altri, i subordinati.
Se avesse avuto un minimo di cuore, avrebbe almeno provato a cambiare tattica nelle sanguinose battaglie dell’Isonzo, a evitare morti del tutto inutili per difendere un fazzoletto di terra indifendibile. Qualora, poi, non avessero provveduto il fuoco nemico o le malattie a far strage dei nostri soldati, un errato concetto di disciplina di questo macellaio gli faceva credere che si dovessero temere più i propri superiori che l’avversario austriaco, e così anche semplici, spontanee e giustificate proteste sfociavano nell’aberrante pratica della decimazione. Era il fronte interno, erano i socialisti a fomentare la truppa, secondo Cadorna, che non si chiese mai in che reali condizioni combattessero i nostri fanti, immersi nel fango, quasi sempre all’addiaccio, un rancio poco stimolante e povero di calorie, nessun periodo lontano dalla prima linea, se non sovente dopo mesi, insomma l’inferno in terra. Per il comandante in capo era diverso, lontano dal fronte, al sicuro, in un comodo alloggio e con cibo squisito e abbondante. Questo è il Cadorna peggiore dal lato umano, ma non è che anche come militare fosse una cima; lui credeva di esserlo, non aveva autocritica e in cambio guai a esprimere pareri in contrasto con le sue idee, perché era l’immediato trasferimento di un generale a un incarico minore, magari in prossimità o nel bel mezzo di una battaglia. E a proposito di tecnica militare, se forse come tattico era passabile, come stratega era una nullità; non si spiegherebbero così le 11 battaglie dell’Isonzo che sono ognuna la fotocopia della prima o come lo stesso disastro di Caporetto dovuto quasi esclusivamente non solo alla sua incompetenza, ma alla ben poca fiducia nel nostro Ufficio informazioni. D’altra parte, non si poteva pretendere di più da uno che soffriva di manie di persecuzione, che vedeva il governo come un covo di nemici e di massoni, un governo che non riconosceva pubblicamente la sua genialità nominandolo “generalissimo”. Tutti questi elementi emersero dall’inchiesta effettuata subito dopo i fatti di Caporetto e le conclusioni della commissione furono unanimi sulla sua responsabilità di quel disastro. Lui, rimosso dall’incarico, ovviamente non fu d’accordo e scrisse memoriali su memoriali per difendere la sua posizione. Sarà il fascismo a riabilitarlo, ma non perché convinto della sua estraneità alle accuse mossegli, bensì perché all’epoca conveniva così.
Questo saggio storico di Gianni Rocca è estremamente interessante, perché l’autore, pur non parteggiando per la colpevolezza o l’innocenza, riesce a fornire un quadro preciso e completo delle caratteristiche psicologiche e militari di Cadorna, non solo un macellaio, ma anche un vigliacco, al punto che a ritirata ancora in corso in un comunicato dichiarò che unici responsabili del disastro erano i soldati che non avevano combattuto. Non era vero che si erano arresi giulivamente, tranne qualche caso isolato, era vero invece che pur considerati dei sotto uomini per non pochi anni questi militari dimostrarono in quelle giornate di essere migliori dei loro capi e diedero poi prova del loro coraggio e del loro eroismo difendendo, con le unghie e con i denti, il Piave.
Cadorna, il Generalissimo di Caporetto è un libro senz’altro da leggere.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    23 Giugno, 2017
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Giallo scialbo

Roberto Brunelli è conosciuto, soprattutto, come autore di libri d’arte e di storia, ricomprendendo in quest’ultima alcune biografie di personaggi non solo religiosi. Inoltre scrive anche narrativa gialla, con un protagonista un commissario, Adelchi Martini, e con ambientazione nel mondo del clero. Verrebbe da dire che ci si trova di fronte a un autore eclettico, e in parte lo è, ma mentre le opere di carattere storico, biografico e artistico sono di apprezzabile livello, il filone poliziesco, in cui preponderante è la creatività, lascia alquanto a desiderare. Ho appena finito di leggere Requiem in rosso, due racconti caratterizzati da un omicidio e dalla brillante soluzione dei relativi casi da parte del commissario Martini. Come trame gialle sono estremamente esili e non credo riescano a interessare più di tanto, anche perché si arriva alle ultime pagine in cui si rivela il nome dell’assassino, che è un po’ una sorpresa, perché è al di fuori di ogni impianto logico, tanto da restare perplessi. Se le trame non convincono lo stile si presenta estremamente semplice e tale da non riuscire ad avvincere il lettore: mancano una descrizione attenta dell’ambiente, l’atmosfera è del tutto carente e persino i personaggi appaiono superficiali, compreso il commissario Martini, la cui figura è ben poco delineata, se non per degli accenni al fatto che è sposato e che è appassionato di pittura. In ogni giallo che si rispetti deve essere presente una tensione emotiva, altrimenti si riduce a un semplice rapporto o verbale, oppure, come nel caso specifico, a un temino, stilato diligentemente, ma privo di corpo e sostanza. Quindi gli aspetti negativi (esilità della trama, mancati approfondimenti, superficialità di descrizione dell’ambiente, incapacità di creare la giusta atmosfera) sono talmente preponderanti che, per quanti sforzi abbia fatto, non ne ho trovato di positivi.
In relazione a ciò la lettura è da me senz’altro sconsigliata.

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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    18 Giugno, 2017
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C’era una volta

C’era una volta, come nelle favole, ma qui di favola non si tratta, una vita imperniata sull’agricoltura, di gente che appena sopravviveva alle quotidiane tempeste di un destino ingrato e classista. I contadini, di cui ha raccolto numerose e variegate testimonianze Nuto Revelli, sono quelli della campagna piemontese, delle prospettive collinari del cuneese specialmente, gente sopravvissuta e che racconta come era un certo mondo nemmeno tanto tempo fa. Se Ferdinando Camon ha descritto mirabilmente nei suoi romanzi la fine della civiltà contadina, a parlarcene in Il popolo che manca sono i diretti interessati, superstiti di un mondo che si stenta a credere possa essere esistito. Sono storie di miseria, di quella nera, dei bambini che non hanno un’infanzia, perché già subito chiamati a un lavoro estremamente disagiato; sono episodi rammentati e che vengono svelati nei tormenti dei ricordi di cui rari sono quelli buoni, quelli che ancora muovono al sorriso chi li ha estratti dai reconditi antri della memoria. Un’umanità dolente popola queste pagine in cui nulla sfugge, nessun aspetto di una vita quasi da inferno viene taciuto. Non c’è enfasi nella narrazione di chi parla di se stesso e del suo passato, non c’è nemmeno un’inclinazione a un vagheggiato eroismo, resta solo la consapevolezza di essere appartenuti a una società atavica, perennemente immobile, poi di colpo cancellata da un progresso dirompente. Come si nasceva, come si viveva, come si moriva, il lavoro bestiale e pure tanto agognato, perché sempre non c’era, l’emigrazione, unica estrema risorsa, le relazioni fra uomini e donne, la fede e la superstizione, le guerre, le solitudini dei montanari, sembrano quasi un film, o meglio un documentario, su una civiltà scomparsa. Le voci sono piemontesi, ma potrebbero essere lombarde, venete, abruzzesi , perché fra questi paria non c’erano differenze e la fame era uguale per tutti.
Eppure, nel tono di chi ricorda c’è una sottile vena di rimpianto per un’età che, se d’oro non è mai stata, però aveva una caratteristica ormai desueta: la solidarietà; e la solidarietà fra poveri vuol dire anche donare quello che non si possiede dalla nascita, ma che la durezza della vita ha fatto sorgere: la pietà per se stessi da cui nasce la disponibilità ad aiutare gli altri.
Il popolo che manca è semplicemente bello, è uno di quei libri che si leggono facilmente e volentieri e che fanno capire quanto la nostra opulenta società sia debitrice di un passato che reclama almeno il ricordo.

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Romanzi
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    14 Giugno, 2017
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Il rimpianto

E’ indubbio che nei romanzi si ritrova anche l’esperienza maturata dall’autore, un po’ della sua vita e in Irene Némirovsky ciò è particolarmente accentuato, esule come aveva dovuto essere e inevitabilmente con una sorta di rimpianto per il paese natio. In questo senso la figura della protagonista di Come le mosche d'autunno, la vecchia njanja Tat’jana Ivanovna, governante di casa Karin, riassume, per quanto spinta all’eccesso, quell’innata nostalgia che doveva aver provato la narratrice russa. In quella casa si ha l’impressione che ci sia sempre stata e il rapporto di lavoro, poco a poco, ha assunto caratteristiche diverse, si è radicato in Tat’jana un affetto per quella famiglia non sua perfino superiore a quello che avrebbe provato se lei stessa ne fosse stata membro dalla nascita. I vecchi padroni, i signorini, insomma i padroni per lei non sono tali, sono quasi dei padri, dei fratelli. Un tempo lì la vita era trascorsa tranquilla, ma poi, con l’avvento del nuovo secolo, si era manifestata in Russia un’agitazione per molti incomprensibile e, fra rivendicazioni di una maggior libertà, si era arrivati allo scoppio della prima guerra mondiale e infine alla rivoluzione, alla fuga dal paese dei nobili e dei ricchi. Questa era stata la sorte della famiglia Karin, esule in Francia, a Parigi, sempre presente la governante Tat’jana. Ambientarsi a una nuova vita non è sempre facile e se ciò non risulta difficile per i giovani rampolli, che non hanno fatto in tempo a fossilizzarsi in un’esistenza sul suolo russo e avendo davanti a sé molti anni per abbracciare un nuovo corso, per i genitori, più anziani, è un vero problema e dapprima trascorrono il tempo camminando da una parete all’altra del loro appartamento, come le mosche in autunno, e infine riescono a dare una svolta, perché l’istinto di sopravvivenza è nei più duro a morire. Non sarà così per Tat’jana, legata visceralmente ai propri ricordi, alla neve che in quella città le manca tanto.
Come le mosche d’autunno, più che un romanzo breve, mi pare un racconto lungo, intenso, drammatico, venato da una dolente nota di malinconia, permeato dal rimpianto per ciò che fu e che poi non sarà più. Le pagine scorrono veloci, avvincono il lettore, l’analisi dei personaggi è approfondita, ma lo stile snello non appesantisce, è in grado di fornire una serie di quadri che restano scolpiti nella mente come memorie non nostre, ma fatte nostre.

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Storia e biografie
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    12 Giugno, 2017
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Il rivale di Mussolini

Quando prendo in mano un libro è talmente il desiderio di scoprirlo che passo direttamente al testo, riservandomi, a lettura ultimata, di affrontare le frequenti introduzioni e/o prefazioni. Nel caso di Balbo ho invece ritenuto di procedere in ordine logico con la Premessa dello stesso autore e direi che è stato provvidenziale, perché Rochat, storico di razza, precisa subito che Italo Balbo, personaggio molto esaltato e altrettanto discusso, fino alla stesura di questa biografia, non era stato studiato seriamente, tranne per quanto concerne la nascita dello squadrismo. Per il resto, abbonda un’agiografia mitizzante in cui non è facile, fra tanta esaltazione, trovare qualcosa di veritiero; di conseguenza, non potendo ancora mettere mano sull’archivio di Balbo, chiuso alla consultazione, si è trattato di fare un lavoro certosino di accostamenti fra i vari scritti su di lui, onde almeno avvicinarsi un po’ alla verità. Che l’uomo sia stato una delle maggiori figure del fascismo è indubbio e non a caso era, pur ancor giovane, uno dei quadrumviri che con la marcia su Roma aveva coronato il suo desiderio di contrapporsi non solo al crescente bolscevismo, ma anche a un concetto liberale, di tipo ottocentesco, dello stato.
Al ritorno dalla Grande Guerra, dove si era distinto per coraggio e capacità organizzativa, trovò largo credito fra gli agrari del ferrarese, timorosi che il marxismo-leninismo prendesse piede fra le migliaia di braccianti della zona. Le sue squadre imperarono a lungo, infestando la Romagna, ma spingendosi anche oltre, fino a Parma. Era diventato amico di Mussolini, che lo stimava per le sue capacità, ma che, già nei panni del futuro dittatore, cominciò a temerlo come possibile rivale. Concretizzato il colpo di stato con quello che più che una marcia è più logico definire una marcetta, cominciarono ad arrivare gli onori. Prima deputato, poi sottosegretario all’Economia (dall’ottobre del 1925 al novembre del 1926), nonostante su di lui cominciassero ad addensarsi delle ombre, a seguito di giochi di potere, quel potere a cui aspirava sommamente, tanto da indurlo nel 1920 a iscriversi alla Massoneria. L’incidente di percorso più eclatante fu l’omicidio di Don Minzoni, reato di cui fu accusato di essere il mandante, ma ormai il fascismo era entrato in ogni apparato e ovviamente finì assolto.
Dopo il periodo rivoluzionario venne quello più tranquillo, in cui, diventato ministro dell’Aeronautica, si rese autore delle celebri trasvolate atlantiche, organizzate in modo perfetto e che colpirono positivamente l’opinione pubblica mondiale, al punto che Balbo, al suo arrivo negli Stati Uniti, fu portato in trionfo. Era un aspetto propagandistico del fascismo di grande effetto, ma la fama dell’aviatore ferrarese rischiava di oscurare la figura del suo capo che preferì condannarlo a una sorta di esilio, indubbiamente dorato, nominandolo nel 1934 governatore della Libia, incarico in cui, occorre dire, ben si comportò, promuovendo un riavvicinamento fra libici e italiani, costruendo strade, acquedotti, insomma dotando la colonia di moderne e indispensabili infrastrutture. Tuttavia, il fascismo era ormai prossimo al punto più alto della parabola e già si avvertiva un diffuso malcontento per i cronici problemi nazionali irrisolti. Al riguardo, una delle motivazione della guerra d’Etiopia fu proprio quella di rinsaldare il legame fra partito e paese e inoltre si sperava di dare una soluzione al problema, sempre presente, della larga disoccupazione, a cui non poco aveva contribuito lo stesso Mussolini con la campagna di natalità. L’Etiopia, conquistata, ma non domata, non fu un rimedio e fu allora Balbo ad avere l’idea di portare coloni italiani in Libia, affinché coltivassero quelle terre, una stretta fascia limitata alla costa. Furono costruite case coloniche, stalle, magazzini, insomma si voleva che una volta arrivati i coloni potessero mettersi subito al lavoro, come in effetti fu. Grandiosa fu la spedizione, organizzata sotto la supervisione di Balbo, con cui, in nave, furono portate in Libia famiglie di contadini di tutta l’Italia. Dal punto di vista propagandistico l’operazione riuscì perfettamente, ma se l’idea assicurava a Balbo dei successi grandi ed effimeri, il privare la popolazione locale delle sue risorse tradizionali non poteva assicurare un futuro alla colonia, un aspetto altamente negativo caratteristico della politica imperialistica dell’Italia fascista, di cui il grande trasvolatore era un protagonista certamente non secondario. Poi venne la guerra, quella guerra con i tedeschi che sembrava fortemente avversata da Balbo, ma che in fondo non gli dispiaceva, perché sperava, grazie alle sue virtù militari, di poter diventare comandante in capo in luogo di Badoglio. Nel conflitto, appena iniziato, non fu un militare da tavolino, ma continuò a manifestare la sua presenza fra le truppe, spostandosi di continuo in volo con il suo SM 79, che pilotava personalmente, e fu in uno di questi voli che, giunto sul cielo di Tobruch dopo un violento bombardamento aereo, fu abbattuto per errore dalla nostra contraerea. Non fu quindi un omicidio istigato da Mussolini per liberarsi del rivale, anche se è certo che al Duce la cosa non dovette dispiacere.
Resta alla fine da chiedersi che personaggio sia stato veramente Italo Balbo. Senza togliere nulla ai suoi meriti di grande organizzatore, era un uomo incapace di vedere lontano, senz’altro ardimentoso, ma ammalato di protagonismo. Nonostante il suo passato di squadrista violento, avrebbe potuto fare molto bene all’Italia, soprattutto evitandole i dolori di una guerra crudele, ma non lo fece e nemmeno tentò di farlo, sembrò aiutare i braccianti della campagna italiana trapiantandoli in Libia, ma a discapito degli arabi e innescando così un conflitto che fu a lungo solo latente, avrebbe potuto sostituirsi al duce, ma con ogni probabilità si sarebbe poi comportato come lui; in tutte queste caratteristiche si rispecchiava pertanto il tipico esemplare del fascista.
Da leggere e rileggere.

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    09 Giugno, 2017
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Una donna determinata

Per questo romanzo, che presenta una caratteristica particolare, oltre al fatto che non è né un giallo né un noir, Simenon ha voluto andare sul sicuro e se la novità è il ritratto di una donna, abile stratega e in possesso anche di notevoli capacità tattiche, il resto è tipico della sua produzione, reso come pressoché sempre nel migliore dei modi. L’ambiente è quello della provincia francese, un paesino di pescatori, dove si vive secondo le maree, con personaggi che sembrano scolpiti nel legno, ma che rivelano insospettabili caratteristiche e per scoprire quali la mano del chirurgo Simenon é ferma, incide sicura e rivolta la carne, scopre il lato più oscuro di ognuno. L’atmosfera grigia, plumbea è già presente nelle prime pagine con il funerale del povero Jules, morto lasciando soli i figli, giacché la moglie era deceduta alcuni anni prima. C’è tutto il paese al funerale, una coralità di altri tempi se raffrontata a oggi, ma che è in grado di dare l’idea della stima di cui godeva il morto, la cui famiglia, composta per lo più da figli piccoli, ormai viene smembrata fra i parenti, fatta eccezione per Odile, la più grande, che si mormora faccia la vita a Cherbourg, e la giovane Marie, che nonostante l’età è un tipo molto determinato; al riguardo, si è prefissa lo scopo non solo di trovare un uomo di suo gradimento, e il compagno di Odile lo è, ma anche che abbia la possibilità di uscire in mare a pesca con un’imbarcazione sua e che voglia vivere nel paesino, aspirazioni queste ultime che l’uomo in questione non ha.
Simenon, procedendo con cautela, ma anche con sicurezza, ci accompagna a vedere l’abile tattica che Marie adotta, una tattica che rivela una notevole intelligenza, perché non è facile irretire un uomo quando non si è una bellezza, anche se lei non è brutta; non è facile soprattutto portarlo quasi all’esasperazione per fargli fare quello che vuole lei, e senza dimostrare disponibilità a concedersi, anzi tenendo le giuste distanze in un raro equilibrio che poco a poco darà i suoi frutti. Stupisce in Simenon l’abilità nel descrivere la psicologia femminile nella seduzione, nel far sorgere il desiderio che diventa un’ossessione e che per concretizzare dapprima rende disponibili a tutto e poi trasforma, quasi che l’uomo in mano a Marie fosse un abbozzo di terra creta che le mani abili della donna vanno plasmando.
E così alla suspense tipica dei gialli e dei noir si sostituisce il desiderio del lettore di vedere se la strategia si dimostrerà valida e di osservare e capire l’importanza della tattica, che si svolge pagina dopo pagina in un crescendo di tensione.
La Marie del porto è certamente meritevole di lettura ed è una ulteriore conferma delle eccelse qualità del suon autore.

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    06 Giugno, 2017
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Una civiltà scomparsa

E’ indubbio che una civiltà plurisecolare come quella contadina sia venuta meno nel volgere di pochi anni seguenti la fine della seconda guerra mondiale. Di questo evento epocale, e francamente straordinario, ha parlato Ferdinando Camon in una serie di romanzi, uno più bello dell’altro. Era però logico aspettarsi che il narratore padovano non dovesse avere il privilegio dell’esclusiva, relativamente a questo grande tema, e così altri hanno avvertito la necessità di parlarci, dal loro punto di vista, della fine di questa civiltà. Fra questi c’è un narratore lucano che ha fatto in tempo a vedere come era il mondo contadino, benché da ragazzo (è nato nel 1935), scrivendo un romanzo in proposito (L’animale a sei zampe). Si tratta della storia di una famiglia lucana nella prima metà del secolo scorso, i cui grandi eventi (La Grande Guerra, l’imporsi del fascismo e la seconda guerra mondiale) sono visti dal basso, cioè da chi li ha subiti. E questa è anche la prospettiva migliore per scoprire i prodromi, i contesti, per avere un’idea abbastanza precisa di come una famiglia dell’epoca, non ricca, ma nemmeno povera, conducesse la sua esistenza. Se i personaggi sono parecchi, i protagonisti principali sono due, il Capitano (è un appellativo) che conduce una piccola azienda agricola di proprietà, e la sua giumenta, la cavalla Ida; entrambi sono complementari l’uno all’altro, in un rapporto di padronanza e sudditanza che non esclude, anzi prevede, una sorta di reciproco affetto. Sono loro il filo conduttore dell’opera che si snoda implacabile, senza liturgie retoriche, nell’arco di mezzo secolo, sconvolgente per i fatti che lo caratterizzarono, ma che non lasciava intravvedere o presupporre che a pace raggiunta un mondo che si credeva eterno sarebbe invece scomparso. Il ritmo è volutamente lento, come certamente non rapide erano le giornate in quell’epoca in campagna, e insieme alla storia di questa famiglia, grazie alle frequenti digressioni, anche altri personaggi hanno modo di mettersi in luce per le loro caratteristiche, finendo con il concorrere a formare un grande affresco con al centro loro, il Capitano e la giumenta, e tutti all’intorno affacciati sul mondo uomini, donne e anche animali, in un’atmosfera rarefatta, un po’ polverosa, tipica delle cose antiche, un bianco e nero virato seppia che infonde una pacata malinconia. Scritto con un italiano eccellente, anche se un po’ inconsueto ai giorni nostri, L’animale a sei zampe, pur non avvincendo in modo particolare per il suo ritmo, riesce ad attrarre per le continue scoperte di una realtà che mai a noi sarà dato di provare e che pare talmente lontana da far pensare a un parto di fantasia. Ci si chiede se si viveva così, se la superstizione s’accompagnava, sovente soverchiandola, alla religione, se erano più felici di adesso, avendo poi poco o quasi nulla. Sotto questo aspetto Celano non si pronuncia e da naturalista, forse inconsapevole, si limita a rappresentare vicende, paesaggi, atmosfere, stati d’animo, il tutto con meticolosa e certosina precisione. E in questa asetticità dell’autore sta un altro dei meriti di questo romanzo, certamente riuscito, anche se lontano dall’essere un capolavoro; bello è bello, è pure interessante e inoltre le pagine scorrono sì lentamente, ma anche gradevolmente, insomma mi sembra che sia più che meritevole di lettura.

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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    31 Mag, 2017
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Tutto, pur di arrivare

Il romanzo, scritto nel lontano 1885, è tuttavia di un’attualità sorprendente. Infatti, la storia di Georges Duroy, conosciuto nella buona società parigina dell’epoca come Bel-Ami non è solo quella di un uomo attraente che si avvale di questa sua qualità per intraprendere una scalata sociale, ma è anche, soprattutto, quella di un personaggio notevolmente contemporaneo, con il suo desiderio esagerato di raggiungere il successo e di ottenere la ricchezza con qualsiasi mezzo. Grazie all’aiuto di un amico, un vecchio compagno d’armi, che poi morirà di tubercolosi e di cui lui sposerà la vedova, entrerà nel mondo del giornalismo e poco a poco, grazie a una frenesia arrembante, che fa leva soprattutto sulle donne, specialmente quelle che contano, in quanto consorti di uomini potenti, raggiungerà il suo scopo. É certamente un seduttore, ma le signore che conquisterà con il suo fascino sono solo le pedine della battaglia che ha intrapreso; verso di loro non prova amore, perché in effetti ama solo se stesso. Nella società intellettuale, economica e finanziaria della fine del XIX secolo, popolata di altrettanti arrivisti, grazie anche alla sua innata astuzia procederà intrepido e con la convinzione che il successo sia a lui dovuto. Personaggio di poche capacità professionali, sa cogliere con precisione le occasioni che via via gli si presentano. Dell’arrivista ha tutte le caratteristiche:
un innato egoismo, la certezza, accompagnata da un intimo compiacimento, che ogni persona può essere usata per il raggiungimento del suo scopo. É un parvenu in quel mondo, ma ben presto diventerà un autentico pescecane, capace di aggirare ogni ostacolo, di galleggiare nel marasma, e ciò malgrado l’odio che raccoglie intorno a sé. Maupassant è fenomenale nel descrivere la mediocrità di Duroy e della società parigina di fine ‘800; il suo stile è snello, ma è preciso come non pochi nel ritrarre un mondo vuoto e privo di ideali. Se ci si ferma un attimo per una breve riflessione, sembrerebbe un romanzo scritto oggi; è trascorso più di un secolo, ma il mondo attuale non è diverso, fatto di tanti che sgomitano per farsi avanti con qualsiasi mezzo pur di raggiungere la ricchezza e il successo. É quindi proprio vero che un “classico” è tale quando è senza tempo, o meglio ancora quando non tramonta mai, perché le situazioni raccontate, i temi trattati hanno il raro dono di essere presenti in ogni epoca.
In queste pagine vengono presentati aspetti che non ci sono sconosciuti, quali
l’influenza del potere mediatico sulla politica e le commistioni di affari pubblici e privati. Da buon naturalista Maupassant, nel rappresentare la realtà, è capace, con sobrietà, di mostrarci una situazione complessa, in cui se non esiste il bene assoluto, non figura tuttavia anche il male assoluto. Il suo personaggio, così teso a rinnegare un passato da travet senza riuscire a cancellarlo, in preda a un egoismo totale finisce con l’essere artefice e vittima della sua vicenda. Il bello di tutta la faccenda è che al lettore Duroy non suscita né simpatia, né antipatia; anche in questo Bel Ami è un mediocre, un vestito che non riuscirà mai a togliersi nonostante le apparenze.
Questo romanzo non è solo un bellissimo, è uno dei grandi capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi.

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Romanzi autobiografici
 
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    24 Mag, 2017
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De senectute

Nella vita, salvo nel malaugurato caso che si debba perderla ancora giovani, o come si è soliti dire “prima del tempo”, inevitabilmente si arriva a una certa età che viene definita vecchiaia. In genere comincia a sessant’anni, ma, proprio perché non ce ne accorgiamo, inizia molto prima, quando si è toccato l’acme della giovinezza. La vecchiaia non è ben vista, perché al di là del fatto che termina con la morte, comporta un radicale mutamento, fisico e mentale, del nostro modus vivendi. Ne ha parlato, con l’originalità che gli è propria, Massimo Fini in questo libro non lungo e di gradevole lettura, in cui si alternano passato e presente, grazie ai ricordi della gioventù, che con l’avanzare dell’età assumono contorni quasi fiabeschi, di un’epoca d’oro in cui non potremo più tornare. La figura del vecchio, termine che gli interessati ben poco amano, accettando meglio la parola “anziano”, è la protagonista indiscussa di un’opera che a tratti può sembrare anche un pamphlet, una smitizzazione di tanti luoghi comuni propri della “terza età”. In questa analisi dei vecchi, con le loro manie, la tirchieria, la presenza ai riti funebri quasi a voler esorcizzare la morte, emergono tuttavia delle perle di saggezza che danno valore a un’opera che altrimenti sarebbe francamente di non rilevante caratura. Al riguardo basti pensare a quanto Fini scrive: “l’aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita” ed è vero, perché non è possibile sognare di realizzare qualcosa in futuro quando si sa che, se non imminente, è assai prossimo quel salto nel buio. Avevano ragioni gli antichi quando parlavano della vecchiaia come qualcosa di orribile e allora non resta altro, per renderla più tollerabile, di abbandonarsi all’ironia, all’autoironia, al sarcasmo, all’humor nero, ma quando non si riesce più a utilizzare questi strumenti è perché la situazione è degenerata, è emersa la demenza senile, l’arteriosclerosi, l’alzheimer, insomma siamo noi senza più esserlo.
La morte, tanto esecrata, non fa paura in sé se non fosse perché ci precipita in un viaggio senza ritorno e di frequente il vecchio, se ci pensa, si sente attanagliato da un’angoscia esistenziale tale da fargli balenare l’idea del suicidio, un sistema autarchico per disporre noi stessi della nostra vita, senza dover attendere che questa ci venga tolta. E’ raro, però, che l’idea si concretizzi, perché il paradosso dei vecchi, è che desiderano morire, ma vogliono vivere.
E un ulteriore paradosso concerne questo libro, che potrebbe costituire un’interessante lettura per un giovane, ma che non potrebbe comprenderlo, e che invece finisce per essere letto dai vecchi, gli unici che possono capire e che, pur non trovandolo avvincente, avranno conferma di quanto rimuginano giorno dopo giorno sulla loro sorte di esseri senza domani.
Da leggere, comunque, perché lo stile è snello e, se ben predisposti, c’è anche da divertirsi.

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