Opinione scritta da DanySanny

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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    08 Agosto, 2012
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Povero Umberto!

Farfalle, scorpioni, tarli, formiche si muovono sulla scena di questi frizzanti racconti gialli, piccolissimi e intriganti, insetti insospettabili che, nelle mani (o meglio, nella mente) di Sherlock Holmes o il tenente Colombo, divengono, con incredibile scorrevolezza, una prova schiacciante per la soluzione di vari brevissimi misteri. E se ciò potrebbe anche stupire poco, considerando che l'autore è un entomologo, strabiliante è la sottigliezza della narrazione, gli ammicamenti nemmeno velati a quegli ispettori e detective che hanno reso celebre il giallo-poliziesco.

Certamente, lo spazio che le storie occupano è così esiguo che non si hanno i mezzi per individuare l'assino, ma questo, pur essendo contrario alle norme del giallo, non era lo scopo dell'autore. Questi otto racconti ruotano attorno al modo utilizzato per uccidere e agli indizi per scoprire l'assassino. E' una sorta di sfida allo stupore, ironica, affascinante, in cui il ruolo di Narratore si confonde con sottile intelligenza al ruolo di Lettore e si prova un piacere fine nel seguire le brevi indagini.
Celli scomoda capisaldi della letteratura e del cinema, Holmes e il Tenente Colombra, recupera gli intramontabili temi della camera chiusa e delle manie, in questo caso antiquarie, e raggiunge in alcuni casi una dimensione quasi metafisica, in cui il giallo passa in secondo piano, oppure, a seconda delle interpretazioni, sei tu stesso vittima. Chissà la mente quali tortuosi ragionamenti seguirà per dare una spiegazione..... .

Ma veniamo al caso che dà titolo al romanzo: povero Umberto, trovato morto in una camera irraggiungibile, suicidio o omicidio? Holmes, in vacanza a Cattolica (e già questo è eloquente) indaga. Perchè c'è odore di mandorle amare? Cosa ci fanno delle farfalle morte sul pavimento? Elementi apparentemente illogici, ma Holmes nono è il l'ultima ruota del carro e la sua logica sarà implacabile.

Racconti divertiti, scorrevoli, non sempre di semplicissima comprensione, ricchi di ammicamenti a quei lettori di gialli che ritroveranno lo stile di parlare, il comportamento di personaggi conosciutissimi. Non solo investigatori ma anche Dora Gray (donna alla ricerca del suo ritratto) e Torquato Tasso.
Infatti, il secondo racconto, il più lungo e intenso, dotto e complesso, è in realtà un'indagine a cavallo di secoli, indagine condatta da un ex commissario e da uno studioso. Un omicidio che s'intreccia con la vita di una donna, forse due, la logica del potere e Torquato Tasso, l'autore della Gerusalemme Liberata, ma anche di versi il cui significato darà adito a interpretazioni varie. Ed è proprio in questo racconto che il contenuto del libro raggiunge consistenza: un racconto sul senso di colpa, sul rimorso e sulla sofferenza.

"La caccia all'assassino era finita, e avevamo scoperto che tutti siamo colpevoli, e che tutti desideriamo espiare senza riuscirci."

L'unico difetto è la mancanza di unità tematica, che è così frammentata da poter essere difficilmente ricomponibile. La straordinaria versatilità stilistica, però, è un eccellente compenso alla carenza.
Il mondo degli insetti, alla fine, non è così noioso...

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    07 Agosto, 2012
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Caligola: perversione della libertà

Caligola è il libro della dicotomia: una separazione in due parti, l’involucro vuoto di un Imperatore svuotato dal dolore e l’immagine delirante e terribile di un uomo alla disperata ricerca della libertà. Con Caligola, Camus riporta in scena il tema dell’assurdo, inteso come la condizione dell’uomo che si rifiuta di accettare il proprio destino, imperterrito nella sua febbrile ricerca di un appiglio alla vita. IN questa breve opera teatrale convivono i fantasmi, i dubbi, il dolore della vita, mentre si intrecciano, filate dal grottesco, tenerezza e amore. E’ il libro del delirio non solo del potere, ma anche della razionalità.

Opera di lunga gestazione, il Caligola ha subito numerose modifiche acquisendo, al pari della crisi intellettuale e morale dell’ autore, connotazioni politiche, filosofiche, psicologiche.
L’edizione proposta da Bompiani è quella risalente al 1941, la più complessa, la meno inquadrabile in un’ideologia, quella la cui interpretazione, avulsa da contesti storici o politici, è nelle mani del Lettore che si trova di fronte ad una delle figure più ambigue, Assurde, affascinanti e complesse che la letteratura abbia mai offerto. Nell’Imperatore Caligola si compie la commistione tra il dolore, che provoca una grottesca quanto intelligente alienazione alla realtà, e l’inestinguibile sete di libertà qui mediata dall’orrore e dalla disperazione per la morte della sorella/amante Drusilla. IL lutto non è però la causa, quanto l’occasione per riflettere sulla morte. Caligola è un uomo, ma ancor prima un Imperatore, colui che deve sostenere il peso di una civiltà, del potere.

Alla morte della sorella, il peso opprimente del vuoto, e la presa di coscienza della sofferenza e del dolore, indotti dalla morte, sommergono Caligola in un lago torbido di passioni, di delirio, di perversione e orrore. Caligola vuole vivere. Ma per lui Vita è il contrario di amare e dunque sinonimo di odiare. Ecco come la negazione del destino ineluttabile dell’uomo si trasforma drammaticamente nell’implacabile logica di un Imperatore che, anelando alla libertà, si abbandona alla perversione, all’omicidio, all’adulterio. Caligola rifugge dal nulla, dal vuoto, dalla solitudine. E i vivi, soggiogati dall’ipocrisia e maschere distorte di una classe intellettuale che ha perso la propria identità, e capace soltanto di una deprecabile assertività.

L’unica consolazione è quella del rimorso, la compagnia del senso di colpa per gli uomini uccisi, le vite distrutte. Ma neanche questo è possibile: perché la mente, indipendente, teme il senso di colpa e crea una logica tale da giustificare le azioni. Per Caligola tutti sono colpevoli di essere suoi sudditi, tutti meritano di essere puniti. E in fin dei conti l’unica libertà è quella del condannato a morte. La libertà di non dover più decidere, di abbandonarsi all’oblio. Ecco la più vistosa delle contraddizioni del Caligola di Camus: voler essere un condannato a morte, per essere liberi, ma il voler restare in vita. L’unica soluzione è l’impossibile. Troppo per un uomo che ha rinnegato la sua stessa natura, rinnegando così se stesso. Non potendo avere l’impossibile, Caligola si trova finalmente solo, annebbiato al delirio d’onnipotenza, senza più vincoli con il presente. La sua drammatica dissociazione prende la forma definitiva, la sua perversione si annichilisce e rimane il guscio grottesco di un uomo che comprende l’unica cosa che non può più avere: l’amore e la tenerezza sono le sole cose che riescono a salvarti, nessuno può riuscirci da solo. O l’aiuto o la libertà raggiungibile soltanto contro gli altri uomini. Caligo sceglie il secondo.

Ecco di nuovo l’assurdo. Ecco il delirio: l’infedeltà all’uomo e l’idolatria per se stessi. Ecco l’involucro senza umanità di quello che era un uomo. Un uomo schiacciato dal suo ruolo, dalle responsabilità. Ecco un capolavoro della letteratura.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    05 Agosto, 2012
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La felicità rende ciechi. La ragione cede.

Fiocchi di neve danzano in cielo, candidi ed imperterriti, vorticando impetuosamente su un'amena cittadina tedesca. Odore di stelle di cannella. Profumo dolce e penetrante, avvolgente. Il fuoco scoppietta nella stufa, i vetri si appannano. E' la Vigilia di Natale del 1933, a David, Jutta (la madre) e Jacob (il padre) sembra essere evaporata la libertà. In trecentosessantacinque giorni. Un lampo imprevedibile e cocente, disarmante e terribile.

Tale è stata l'ascesa di Hitler al potere. Un'avanzata implacabile, anticamera di quello che la storia ha definito il più grande dramma di sempre.
C'è, nella nostra società, un interesse quasi insano per gli eventi di cui ebrei e molte altre classi sociali furono vittime, interesse che spesso non è giustificato dal desiderio di mantenere la memoria ma di conoscere fino a che punto si sia spinto l'odio ariano e la sofferenza ebrea. E' il desiderio di rassicurarsi, come per avere la certezza di sentirsi sicuri da un evento simile, è la passione per il dolore degli altri. E ormai la tempesta di video, libri immagini riguardanti la Shoah è così intensa nell'uomo che si è diventati refrattari, a un passo dall'insensibilità. Il motivo? Il non potersi immedesimare in coloro che hanno sofferto, la paura di quel dolore. Il tentativo della ragione di comprendere l'irrazionalità. Semplicemente impossibile.

Helga Schenider cambia prospettiva: distante da guerre, campi di sterminio e crimini contro l'umanità, almeno negli eventi più palesi, coglie, in un'istantanea incisiva ed essenziale, lo sconvolgimento che le leggi razziali hanno causato nella quotidianità.
Attraverso gli occhi di David, un bambino ebreo, si apre la voragine del delirio comune, della folla istintuale, pronta a rinnegare ideali, dignità, ragione, sgretolare la normalità, per divenire mezzi irrazionali nelle mani di un uomo le cui idee hanno raggiunto l'apice della follia. Un parossismo drammatico ed inquietante.
Qual è la colpa di David, a dieci anni, essere nato ebreo? Per Hitler sì, e le leggi razziali saranno spietate. Fritz, l'amico di David, inseparabile compagno di giochi, si trasforma, plagiato dall'ideologia nazista, in un bambino che ha perso il diritto di giocare, in un giovane costretto a crescere troppo in fretta. Senza libertà, avvinghiato all'idea onnipotente di potere che lo porterà a tormentare David.
Il suo è un odio irrazionale, che si riflette con drammaticità, sul gatto nero, Koks, di David, accusato di compromettere Muschi, la gatta ariana di Fritz. Per David e la sua famiglia inizia l'inferno. E anche Lene, sorellastra di David, ariana e sposa di un importante uomo, sarà costretta a scegliere. E l'occhio di Hitler non lascia scampo.

La forza di questo breve romanzo sta nella sua tagliente rappresentazione della realtà. Stile scarno, efficace, abbastanza incisivo, capace di rendere concreto il dramma imminente, in grado di riprodurre l'atmosfera irreale e sconcertante che ha accompagnato gli anni più bui della storia mondiale. E' un libro che parla di odio, dolore, sofferenza. L'immagine forte e pungente del delirio antisemita e la lotta degli ebrei per il futuro.

La propaganda è ideologia.
L'odio è normalità.
La ragione è schiava dell'irrazionalità.

Questo il nazismo. Questo Stelle cannella. Questo ciò che non va dimenticato.

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Meglio non sapere, Titti Marrone, Laterza
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    01 Agosto, 2012
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L'amara rivalsa degli anziani

Al termine di questa lettura, come spesso mi accade, vengo colto dal dubbio: qual è l'elemento che fomenta maggiormente il malcontento popolare, la classe politica che si circonda, con aria spocchiosa di superiorità, da una fitta nube di privilegi, che sembra non potersi mai più diradare, oppure la crisi economica imperante? Dopo tutto la differenza non è poi così tanta, quindi la causa è da ricercarsi altrove.
Nel fatto che l'Italia - la nazione dell' impero Romano, di un fiorentissimo Medioevo e Rinascimento, patria della cultura, dell'arte, terra natia di grandi inventori, navigatori, artisti, soggetto di frammentazioni, ricostruzioni, sconvolta da invasioni e poi Risorta e difesa dai partigiani- sì, la nazione che ha probabilmente più storia al mondo - non sia più nelle mani del popolo.
Anzi, vittima di un gioco politico sfrenato e incosciente che l'ha ridotta sull'orlo del baratro e dell'autodistruzione.

I quattro anziani protagonisti del libro sono proprio questo: il simbolo di un paese che è alla ricerca di una rinnovata identità comune, che desidera riappropriarsi di secoli di storia strumentalizzati e dimenticati, ma nello stesso tempo fagocitata nell'ingannevole e inquietante tranquillità di una serenità che non si vuole abbandonare. Perché la realtà è che di sereno c'è rimasto solo il cielo, quando va bene.

Angelo, Ettore, Osvaldo e Filippo sono uomini che non hanno studiato, ma che sono testimoni viventi del partigianesimo, di quel movimento di liberazione e protesta che ha plasmato l'identità nazionale e spesso sottovalutato. Sono uomini con dei principi, gli unici ormai con un briciolo di fermento, con un gorgoglio di rivalsa che ribolle nel sangue. Perché loro sanno cosa significava portare il tricolore, servire la patria. Combattere per essa. E paradossalmente è questa loro cultura, l'esperienza diretta, un passato la cui memoria si staglia con malinconica vivacità sul presente. I loro valori, maturati per 7 decenni sono la scintilla che dà origine ad un piano assurdo: rapire Silvio Berlusconi per obbligarlo a scusarsi. Per aver preso in giro una nazione. Per aver sacrificato all'utile politico il benessere del popolo. Questo è un gioco a cui quattro vecchietti e molti italiani non vogliono partecipare. Ma le carte in tavola, l'All in, il rischio, è proprio di soli quattro anziani. Salvati dalla cultura. Dalla memoria.

Bartolomei ritrae con stile ironico la condizione dell'Italia moderna, attraverso la vita attiva degli anziani, vittime dimenticate di file interminabili per la pensione, per le TAC, ridotti a vivere con pensioni minime nonostante meriti che trascendono la mera produzione del Pil. Angelo, Filippo, Ettore e Osvaldo non sono però anziani comuni: la noia della vita e il ricordo del passato li assale costantemente e si tengono responsabili dell'ordine, e rimediano al deperimento senile con attività quasi vandaliche o giovanili che fanno sinceramente ridere.
Una risata subito stemperata da un'ironia più sottile, quasi sarcasmo pungente. Anzi, satira implacabile che non risparmi nessuno, tantomeno la mistificazione politica della parola, i giovani svagati e gli stessi anziani.
Un libro per riflettere, nonostante l'apparenza, su come il futuro ci sta sfuggendo di mano.

Da un punto di vista puramente letterario, lo stile si perde un po' nella scansione temporale che mi ha confuso spesse volte in quanto si passa da flashback a sommari, passando per ellissi di precisazioni temporali che lasciano un po' disorientati, ma nulla di grave.

La banda degli invisibili: il titolo è eloquente, ma una volta finito lascia quel sorriso amaro che chiede spiegazioni. E l'unica che riesci a trovare non è molto cortese. Un libro per misurare con l'amaro in bocca i metri che ci separano dal fondo. Una caduta libera la cui fine è calata dall'ombra, invisibile. Quattro vecchietti per cambiare aggrapparsi con le unghie alle pareti della salvezza. Speriamo che la roccia non si sbricioli.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    30 Luglio, 2012
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Amélie

Amélie, sei il mio alter ego o il mio opposto, sei come me o mi completi?
Io e te Amélie siamo fatti della stessa sostanza. Siamo identici nel pensiero. Il tuo è più maturo, ma in realtà seguiamo la stessa logica implacabile.
Io e te Amélie non abbiamo paura della disillusione, dell'incertezza.
Io e te amiamo il dubbio. E non abbiamo paura di conoscerlo.

Non è un personaggio normale, Amèlie. Non so se l'avete mai vista. Spero di sì, perché se vi capiterà di incontrare una persona, per strada, con le sue fattezze, le dovrete correre incontro. Non potrete farne a meno.

Cos'è Acido Solforico, questo libro destabilizzante, questo libro duro e frustrante. Che cos'è questa storia, crudele, schietta, laconica? E' il dubbio. E' la domanda che Amèlie ti suggerisce.
Perché tu Amèlie vuoi esattamente questo: istillare l'incertezza verso il reale. Vuoi dar forma a quella domanda, necessaria e tremenda, capace di ferirti, scottarti, buttarti a terra: "perché?".
Educare, tu vuoi questo Amèlie, insegnarci a dubitare, a non accettare l'omologazione. A reagire, non lasciando che la dignità si annichilisca, che la diversità si trasformi, con inarrestabile incedere, in monotonia.

Cos'è Acido Solforico? Un dubbio, abbiamo detto. Una critica, un pugno aggiungo.
Perché quando dubiti, ti interroghi e quando ti interroghi critichi questa società famelica di violenza, ipocrita, soggiogata dalla televisione, inerme contro i drammi. Dimentica purtroppo di una storia macchiata, offuscata dall'audience.

Amèlie colpisce, con logica spietata e implacabile. Punta al cervello, non al cuore.
Perché Concentramento, il reality show protagonista di questo libro, è non solo un incubo, ma l'estremizzazione di qualcosa che abbiamo di fronte agli occhi. E fa male, perché ne siamo coscienti e perché non ci siamo interrogati abbastanza per impedire che l'Olocausto divenisse uno spettacolo, per impedire che la memoria di uomini, donne, bambini morti fosse offesa.

Amèlie mi ha colpito. Ho barcollato, ma non sono caduto. Perché io non ho paura di quello che ha scritto, lo sospettavo, già in me stesso. Amèlie mi ha scagliato contro una lama affilata e io mi sono protetto con un'altra lama. Perché tutti temiamo il dolore, tutti preferiremmo non soffrire. Tutti vorremmo avere delle certezze, ma bisogna imparare a mettere tutto in discussione.

MI hai lasciato frustrato, Amèlie, con il desiderio di qualche pagine in più. Sono rimasto affamato dei personaggi, che la tua abile mano non ha scolpito interamente. Perché forse anche tu sapevi soltanto questo sui tuoi personaggi, sul coraggio sfrontato (un po' irritante, per me) di Pannonique, sull'insicurezza di Zdena, sull'amore di Epj. Ora i tuoi personaggi vivono di vita propria e il loro destino non è più nelle tue mani, nei nostri occhi. Occhi di spettori che hanno ucciso. O meglio, occhi che hanno visto perché ispirati dall'odio, dalla violenza. Occhi salvati dall'umanità dei kapò e dei prigionieri, e non purtroppo dal dubbio. Soltanto le persone insicure, come te e me, Amélie, riescono a farlo.
Soltanto chi non ha paura di cadere può essere incerto di ciò che i sensi suggeriscono. Acido Solforico colpisce le certezze, e quelli che le hanno. per gli altri, coloro che già dubitano, sarà un film già sospettato, ma un film che lascia senza parole. Ogni volta, per sempre.

Un ultimo avviso per i/le fan della Nothomb: la scrittrice ha pubblicato 20 romanzi in venti anni, ma in realtà, parola sua, ne ha scritti settantacinque, che ne dite???

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    30 Luglio, 2012
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La forza del'equivoco e la freschezza della menta

Tu sei uno struzzo.
Tu sei un maiale, ma in senso buono.
Tu sei una volpe.
Una fattoria, penserete. Invece no, è Suor Speranza che con il suo cipiglio militare gestisce la casa-ospizio in cui alloggia Zia Antonia. E la vita di una superiora può essere così noiosa che non è peccato paragonare ogni persona ad un animale, anche perchè la Suora è cresciuta in campagna.
E si sa, tra malati e anziani, pasti e medicine il profumo dell'ospizio non è sempre desiderabile.
Ma Zia Antonia non ha di questi problemi, protetta da quell'alone di menta che le orbita attorno. Perchè lei magia mentine su mentine. Ogni giorno. E allora perchè, in un luogo in cui l'aglio è bandito perchè indigesto, c'è una puzza d'aglio da tapparti il naso?
Un lavoro per Sherlock Holmes, ma non si può pretendere l'investigatore più famoso di sempre, anche perchè Suor Speranza è decisa a controllare tutto ciò che accade nell'ospizio.
Allora il dottore del paese, il nipote di Zia Antonia, Ernesto, e la Suora stessa indagheranno ascoltando mezze voci, fingendo, ricostruendo e sbagliando, perchè no? Anche perchè entra in gioco Augusta, figlia di salumiere, e si sa, figlia di commerciante (i soldi ce li ha nel sangue), sposa del secondo nipote di Zia Antonia, Antonio (che fantasia i nomi delle famiglie!) e oggetto dei suoi impulsi....ormonali. Augusta infatti è preoccupata, il desiderio coniugale si sta spegnendo (Chissà perchè, roba da arrovellarti il cervello!). Insomma, la storia s'infittisce e i nostri detective sono sempre più disposti all'azione.

E' un libro dominato da tre elementi: la monotonia della vita di provincia,l'equivoco, che genera attraverso false piste l'azione del romanzo, e, come in ogni caso che si ripetta, un bel malloppo, Anche perchè quando interviene il sistema decimale, il confine tra nemico/amico scompare. Soprattutto con qualche zero .......... . Un giallo simpatico, senza forti pretese, ambientato nei classici paesini che intorno alla mia città resitono all'inurbazione, con il rispetto reverenziale per i dottori, le anziane altezzose che vogliono assolutamente provevdere a se stesse, il forte senso religioso e le chiacchiere neanche soffocate tra vicini di casa. Insomma, la classica vita di un paesino, che se posso azzardarmi, avrebebe meritato qualche pagina in più. Ma non si può avere tutto, e i personaggi lo sanno bene.

Cara Zia Antonia, che ventata d'aria nuova! Rigenerante dopo letture pesanti o alla fine di una giornata. Un pizzico d'ironia, a volte persino sarcasmo, fa addormentare con un sorriso. Simpatico, irriverente, stuzzicante: il profumo di Zia Antonia si aggira per la città svelando le dinamiche di un mondo che vive ancora intorno a noi. E sì, le banche creano sempre probemi.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    28 Luglio, 2012
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Il tempo tra le cuciture

La vita è come una sarta: ci cuce addosso un abito di avvenimenti, situazioni, ed emozioni.
A volte l'abito ha una cucitura sbaglita, è troppo pomposo, oppure il taglio non è di nostro gradimento. Insomma, spesso si vorrebbe cambiare tutto, voltare pagina, ma il vestito della vita si può soltanto rammendare, pezzo per pezzo, parte per parte. Perchè se lo cambiassimo rimarremmo per un attimo nudi. E sulla pelle nuda i colpi fanno più male.

L'abito di Sira era dritto, senza fronzoli, scendeva con una linearità disarmante, un idillio di semplicità e perfezione. Un vestito comodo, ma che lascia indifferenti.
Poi c'è una macchina da scrivere, un'Olivetti, la migliore nel periodo prebellico. Dalla macchina da scrivere, come da quella da cucito, nascono cose nuove, testi o capi d'abbigliamento, nascono nuove vite, o alcune, cambiano nettamente. Perchè Sira, un lavoro tranquillo, un futro sposo, Ignacio, magro e gentile, aspirazioni irraggiungibile e solo desideri comuni, incontra Ramiro, la trasgressione da una vita monotona. La sua mano e quella di Ignacio si separano e lei cade nella braccia di Ramiro.

Ora l'abito di Sira ha preso una piega diversa, ha raccolto uno strascico di droga, alcol, divertimenti sfrenati ed è diventato tropo pesante da portare. Perchè Sira è caduta in un mondo più grande di lei, povera aspirante sarta che aveva conosciuto soltanto la via di casa sua e un uomo pacato. Ramiro la ingannerà per poi abbandonarla. Sira non perde solo lo strascico, ma quasi tutto il suo vestito.

Costretta a ricucire i brandelli della sua vita, in un luogo sconosciuto, il Marocco, da sola e senza denaro, nuda sotto i colpi della vita, Sira decide di reagire. E allora conoscerà le strade speziate di Tangeri, la vivacità e l'allegria dei cittadini, i rumori delle grida dei bambini che riempono le strade. Conoscerà tanti personaggi, l'altruismo, l'amicizia, la disperazione, il dolore. Insomma, inizia a sanguinare. E con il rosso del sangue, si crea un nuovo abito, temprato dalle avventure e destinato, ormai, solotanto a scalfirsi. E con un nuovo vestito aprirà un atelier di moda, frequentato dalle mogli dei politici e dei militari che all'alba della guerra detengono il potere, entrando così in un gioco più grande di lei.

E' un libro affascinante, avvincente, capace di inchiodarti alle pagine con uno stile scorrevole, che perde un po' in alcuni capitoli centrali, e la descrizione vivace della vita tra Spagna e Africa, negli ambienti alti, durante la seconda guerra mondiale. E' un libro dallo sfondo storico ben delineato, portavoce di una gamma di emozioni incredibili e descrittore di un mondo altolocato dove l'ipocrisia domina imperante, dove i valori si arrendono all'utile. Dove il potere è l'unica logica.
UN velo di malinconia si frappone tra me e questo libro, un ricordo offuscato dal desiderio di rileggerlo, magari in una giornata d'Ottobre, mentre fuori piove, e non sotto l'ombrellone, come ho fatto io.

Perchè in fondo la lettura è un brandello di stoffa che si cuce con il nostro abito, rendendolo sempre più ricco e sorprendente. Perchè ogni libro, anche il più brutto, ci regala una vita. E quella di Sira sorprenderà e arricchirà ciò che siamo.
Perchè in fondo, una cosa l'ho imparata da questo libro: non è il destino a cucire il nostro abito, ma le nostre azioni, e questa grande libertà è la causa di ogni sofferenza. Ma anche, inevitabilmente, di ogni soddisfazione. Leggete questo libro, e arricchite il vostro abito. La vostra vita. Arricchite voi stessi. Questa è una grande Opportunità.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    25 Luglio, 2012
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Il fascino del Cinema e dell'immaginazione!!

C'è un proiettore in una sala buia, in fondo alla parete. Un rumore e il Cinematografo viene perquisito da un fascio di luce alla ricerca dello schermo. Granelli di polvere galleggiano nell'aria. Nessuno ci fa caso. Perché di fronte compaiono immagini, suoni, colori. Compaiono vite, mentre l'immaginazione si fonde con lo sguardo per ammirare il film.

I fotogrammi scorrono veloci, uno dopo l'altro, inesorabilmente, mentre il responsabile del proiettore dorme ubriaco e l'inizio del film si confonde con la fine. Tra il pubblico c'è una bambina, una bambina speciale. Due M il suo nome, un marchio di fabbrica come Marilyn Monroe. Maria Margarita non è semplicemente una bambina, ma è una raccontatrice di film. Il suo compito è quello di raccontare ciò che ha visto a quelli che non sono potuti andare al cinema. Perché i biglietti costano troppo, troppo per un'Officina della pampa Argentina in cui c'è solo deserto brullo.
Maria ha vinto una sfida tra i suoi quattro fratelli: è lei quella che riesce a raccontare i film con più vivacità, è lei, a soli undici anni e una famiglia distrutta. La madre se ne è andata dopo che il padre è rimasto ferito in un incidente in miniera. Cinque figli, e una pensione.
E' una società in cui la "disperanza" sconfina, in cui sogni e aspirazioni vengono oscurati dalla cruda realtà.

Allora, soltanto quel fascio si luce, sottile, quei fotogrammi, rappresentano la fuga dal mondo, il luogo in cui la fantasia si compie, in cui l'immagine astratta si concretizza in lacrime, avventure, vite. Perché noi siamo fatti della stessa sostanza dei film. Della stesa sostanza dei sogni. Ecco: un film è un sogno che si avvera. Maria Margarita guarda e racconta, fa vivere la parola in tutta la sua forza, in tutta la sua consistenza. Perché la bambina non s'immedesima soltanto, vive il film. Vive la sua fantasia, per fuggire dalla realtà. Tutti l'applaudono, tutti vogliono che Fata Delcine (il nome che prenderà poi) racconti loro un film. Ma la televisione sta dilagando, anche nel cuore della pampa Argentina. I sogni sfumano, la fantasia è realizzata ogni giorno. Maria Margarita resta con la sua abilità da sola, ad affrontare la vita che le pone di fronte gli ostacoli più insormontabili che si possano immaginare. Ma nonostante tutto lei si salva, si salva dalla moda televisiva imperante, perché lei è in grado di immaginare, di usare la fantasia per viaggiare. Perché l'immaginazione rende accettabile anche il più orribile dei destini.

E' una storia brevissima, descritta con l'ingenuità di una bambina costretta a crescere troppo in fretta. E' un testo veloce, ma affascinante, filigranato dal sorriso e dalla speranza. Sei sospeso nella storia,. Una bolla che fluttua e che, trasparente, prende ora i colori dell'innocenza, ora della violenza, ora del deserto. Sempre però della vita, questo sogno che i film tentano di raccontare, che i libri tentano di raccontare, ma che soltanto l'immaginazione ingenua di una bambina ha saputo cogliere.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    23 Luglio, 2012
Top 50 Opinionisti  -  

La logica del soldato

88 pagine. Poche per un romanzo. Troppe per un racconto. Abbastanza per una storia.
Impegnata, intensa, profonda. Capace di penetrare in te e di consolidarsi in immagini e riflessioni. In grado di pesare là, nella mente.

E' sbagliato leggere questi testi come se fossero un consueto romanzo, aspettandosi il picaresco.
Bisogna abbandonare ogni difesa, lasciarsi cullare dalle parole, dalle pagine. Dalla poesia che la penna di De Luca sprigiona, dall'anima che scoppietta in queste frasi, mentre ti ritrovi circondato dall'indefinito, e ti chiedi quale sia il punto. Quale sia il messaggio finale.

Prima mossa sbagliata. A volte non serve ricercare il simbolismo, a volte non serve appesantirsi la mente con ricerche febbrili di significati secondi.
A volte è necessario abbandonarsi e seguire la storia, mentre la realtà si frantuma in immagini delicate. Incredibili. A volte la penna esprime la realtà con una sublimità tale da superarla.
Allora pensi che il libro sia solo immagini, belle ma inconsistenti.

Seconda mossa sbagliata. Perché Il torto del soldato è un testo impegnato, una raccolta di pagine che porta umanità sul genocidio ebraico. Già, una raccolta di pagine, perché in fondo tutte possono essere lette autonomamente. Continui a pensare che nonostante tutte le qualità, il libro non sia memorabile.

Terza mossa sbagliata. Perché De Luca indaga la vita dei carnefici sfuggiti alla pena.
Il senso di colpa, famelico, che ti attanaglia, i sensi continuamente allarmati per non cadere nell'arresto. Ma tu, vecchio criminale, macchiato di alcune delle colpe più atroci immaginabili, o meglio, inimmaginabili, non temi la prigione. Temi il processo civile. Perché sei un militare e obbedisci solo agli ordini. Il tuo torto non è aver obbedito, ma aver perso.
Pensi così perché l'ideologia della perfezione ti ha plasmato, perché hai bisogno di un nemico, la sconfitta, contro cui riversare la tua frustrazione. Ma in realtà il tuo più grande torto è l'aver provato soddisfazione nella sofferenza degli altri. Perché c'è un limite dopo cui l'obbedienza è crimine contro gli altri e contro la propria dignità.
E ora c'è tua figlia, in bilico su un solo pensiero: conoscere i tuoi crimini e probabilmente aborrirli, o rimanerne all'oscuro e continuare ad accudirti. Tua figlia sente il peso della storia e ha solo un desiderio: sentirsi leggera. E solo il tatto può riuscirsi, solo Erri seduto ad un tavolo in montagna mentre sfoglia fogli in yiddish. Non è solo carta. E' il peso del passato, di se stessi.

Erri de Luca scrive poesia, un po' come Baricco, ma il suo stile è più incisivo, meno leggero.
Il mio più grande torto è aver commesso tutti e tre gli errori da cui vi ho messo in guardia.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    22 Luglio, 2012
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"La morte è chiusa per ferie"

La morte è un'ombra silenziosa che ci pedina fin dalla nascita. Spesso ce ne dimentichiamo perchè come tutte le ombre è un riflesso, la cui vividità dipende dal sole. Quando l'astro è luminoso, quando la felicità ci pervade, la morte si dissolve, ma soltanto nella mente.
Si teme questa compagna di vita, si cerca di sfuggirle, ma ad un certo punto, prima o poi, si arriva faccia a faccia con essa e a quel punto tutte le certezze cadono, tutta la vita, nelle sue convinzioni, si sgretola. Tutti torniamo polvere, polvere di stelle, polvere di vita.

Il libro di Saramago parte da uno dei desideri più frequenti e pressanti nell'uomo, un desiderio che è insito nella natura umana: vivere per sempre. E allora immaginate che la morte decida di affiggere il cartello "chiuso per ferie" davanti alla sua spelonca e il libro è iniziato. Un romanzo dominato non dall'assurdo, ma dal paradossale. Il paradosso, giocando con sottigliezza nell'ambiente sfumato dell'ambiguo, diviene, con mirabile abilità, un elemento fondamentale per cogliere le contraddizioni della realtà, un mezzo che grazie alla sua ampia gamma di interpretazioni è lo strumento di una ilare critica alla società.
Perchè la vita dell'uomo è connaturata alla morte: ospedali, assicurazioni, ospizi e becchini si basano, senza che nessuno se ne accorga, su quel ciclico cambio di vite che l'uomo aborrisce. Per non parlare delle religioni che in perenne contrasto tra di loro si uniscono per fronteggiare la scomparsa della morte. Perchè in fondo le religioni si basano sul concetto di Giudizio Universale, dopo la morte. E senza di essa tutto crolla.
Il paradosso è spietato, ironico, sarcastico e non risparmia il potere, i mezzi d'informazioni, che si lanciano su una notizia cercando più della notizia, il titolo più affascinante. IL paradosso della morte in vacanza non risparmi i filosofi che si lanciano in dispute infinite su tutte le questioni che ne concernono.
Poi la morte ritorna. Implacabile. La falce miete vittime una dopo l'altra (certo, in sette mesi di ferie, o meglio, sciopero, ce n'è di lavoro arretrato), ma anche lei si rende conto che le sue ossa gelide, la sua falce arrugginita dal lavoro di secoli, devono qualcosa agli uomini, non solo sofferenze. Così partono le lettere, viola scuro, annuncianti la morte dopo una settimana. Figuratevi il caos.
E mentre la morte è indecisa se continuare a scrivere la posta per mano, o sulla "hotmail" (sì, anche la morte di modernizza), una lettera torn sempre indietro, quella di un violincellista, come se la morte fosse cacciata dalla musica, dall'arte. Allora la morte prenderà provvedimenti e..... .

E' un liro unico sotto molteplici aspetti. Lo stile è fuori dal comune: ci sono frasi lunghe intere pagine, a volte anche 2, senza punti, due punti, punti e virgola, soltanto virgole. Anche le virgolette e i trattini scompaiono. IL disorientamento è inevitabile. Ma tutto si accorda con l'indefinito del romanzo, con i luoghi e i nomi celati. Perchè la grammatica è una sottigliezza, la storia è universale.
Perchè in fondo Le intermittenze della morte non è una riflessione sul senso della vita o quello della morte, ma semplicemente uno studio dell'animo umano, delle dinamiche sociail, una critica alla società. L'unica riflesisone sulla vita e la morte è che tutto finirà, anche la morte stessa sarà vittima di una Morte, più grande e definitiva. Alla fine del romanzo la vita non vince la morte, anche se così può sembrare: la vita e la morte si uniscono, perchè senza l'una l'altra scomparirebbe, perchè sonole due facce di una stessa medaglia, una medaglia che racchiude in sè le aspirazioni, le emozioni e i sentimenti di tutta la società.

Forse è meglio che la morte esista, perchè senza la vita erompe, e la bassezza dell'animo umano, senza i freni del peccato, si espande in tutta la sua controversa natura. E in fondo, anche quando la malignità si manifesta in tutta se stessa, quando l'illegalità e la corruzione dilagano, quando i valori si annichiliscono per l'utile, in fondo, rimane sempre la speranza, quel filo sottilissimo che ci si avvinghia alla vita e che conduce verso il futuro. A volte si strappa, a volte, invece, è il più bel gesto di vita.

In realtà la morte è il motore della vita, e non può essere altrimenti. Quando morirà la morte, non non esisteremo più.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    19 Luglio, 2012
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La disperanza

La fortuna è una delle costanti della vita dell'uomo. Si è sempre disposti a vederla in ogni situazione che ci rende soddisfatti e felici. Ma non sempre quella che può apparire buona sorte lo è, anzi, spesso può nascondere oscuri segreti.

Kumail è il figlio di un paese, il Caucaso (so che non è uno Stato, ma non siate troppo pignoli) e soprattuto figlio di una guerra drammatica che ha coinvolto la regione nella seconda metà del Novecento. Kumail ha perso i genitori in un incidente ferroviario, o almeno così gli ha sempre ripetuto Galya, la donna che si prende cura di lui. Il ragazzo è in realtà francese, per la precisione "cittadino della repubblica di Francia", come ripete in continuazione col sorriso stampato sul viso.
Già, il sorriso: un gesto che frantuma l'aspetto drammatico della guerra per tramutarla in eventi visti da un bambino. Con il sorriso, e un pizzico di malinconia, Kumail (il cui vero nome è Blais, come dice il suo passaporto) giudica e racconta la guerra, la distruzione che lo circonda, osservando l'infelicità crescente senza esserne toccato, con quell'indifferenza che nei bambini non è crudeltà, ma ingenuità. Kumail soffre poco, protetto tra le braccia calde di Galya, sempre pronta a rincuorarlo e infondergli speranza. Perchè Galya sa che la "disperanza" è la vera nemica dell'uomo, che è l'unica vera incurabile malattia, capace di far piombare tutti nello sconforto. E allora Kumail cerca di fuggire dalla realtà, con la sua fantasia di bambinoo, con la sua ingenuità: soffrirà la fame, le amicizie perse, la sporcizia e tante altre cose, ma sempre mantenendo la speranza di raggiungere la Francia, il paese dei diritti umani " e della libertà". Viaggiando sulle pagine del suo atlante verde percorrerà il mondo in lungo e in largo, scoprendo famosi monumenti e desiderando arrivare in quei luoghi. E così, dopo tanti anni, quando la guerra è un ricordo offuscato dalla libertà della Francia, le ombre del passato riemergono e condurrano il personaggio ad una drammatica verità (in parte prevedibile).

Un libro per ragazzi, scritto con uno stile semplice che cerca in varie occasioni di non precipitare nella banalità, ma soltanto sfiorandola (talora). IL libro può apparire simile al Cacciatore di Aquiloni, ma non ne ha nè l'ambizione nè lo stile. Lo sguardo da fanciullo si protrae fino alla fine, senza murtare nemmeno quando il protagonista cresce. Un po' statico, ma non irritante. Il messaggio del testo, quello di non lasciarsi abbattere dalla "disperanza" è oggi di vitale importanza per molti, ma al di là di questo il testo cade nel già visto, nel già detto. UNa lettura breve, e discreta, ma non imprescindibile.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    15 Luglio, 2012
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Shantaram

L'uomo ha sempre una scelta. Basta osare, sbilanciarsi, fare un passo avanti.

Un matrimonio distrutto, una figlia che probabilmente non rivedrai. Droga. Rapine. Sei in carcere, 19 anni di pena. Troppi. Decidi di fuggire, in pieno giorno. Ormai hai scelto, hai voltato definitivamente pagina. Ora cerchi di non strapparla. Di là del muro c'è la libertà.
Ora sei fuori, in India. Puoi ricostruire la tua vita, la tua identità.
Respiri l'aria di Bombay, ti muovi tra mendicanti, povertà, violenza e solidarietà. Là, tra le strade ti senti libero, protetto dal mandato di cattura sulle tue spalle, pronto per ripartire. Lì ti senti libero.
Ma il senso di colpa è dietro l'angolo, famelico, pronto a reclamare il suo tributo. Perché sai di aver fatto del male. Sai di aver tradito la fiducia delle persone che amavi. Sai che le hai perse per sempre. Non hai mai ucciso, no, molto peggio: hai tradito gli altri. E perdonare se stessi, è la cosa più difficile.

Shantaram non è un semplice romanzo. E' il resoconto della vita di un uomo, una vita avventurosa, pervasa dalla ricerca di libertà, di cui il carcere ti ha privato. Di cui i tuoi gesti ti hanno privato. Ma presto capirai che la libertà non è soltanto quella fisica. E' semplice averla: un passaporto falso, un posto sicuro all'interno della mafia di Bombay, denaro e amici. Ma la vera libertà è quella morale, capace di liberarti da un fardello che ti opprime. Hai bisogno di redenzione. Altrimenti rischi di soccombere, di cedere allo sconforto. Al suicidio. Solo una cosa può salvarti: l'amore.

L'amore di un sorriso che abbraccia il mondo, quello di Prabeker. L'amore dell'amicizia: quella di Didier, quella di Abdullah. L'amore di un padre, quello di Khader. L'amore per una donna, quello di Karla. Due occhi verdi che ti lasciano senza fiato. Occhi enigmatici che ti scrutano nel profondo dell'anima.

Il romanzo è la storia di Greg, Lin o Shantaram. Chiamatelo come volete, è sempre lui. Una storia epica, intensa, coinvolgente, capace di fermare il tempo intorno a te e di dilatare quello della lettura. E' un testo capace di sostituire il tuo universo con il suo. 1177 pagine, quante ne merita una vita?

Seguendo la picaresca vita di Lin, vi districherete fra trame, sotto trame, amori, amicizie, tradimenti, gesti di solidarietà, discussioni filosofiche, guerre, torture, omicidi e droga. Speranza e sconforto. Odio e perdono. E' un libro sulla vita, sui desideri e sulle emozioni dell'uomo. Tutti i personaggi, in maniera diversa, costituiscono tanti tipi di persone, descritte nel profondo. Ciascuna ha un compito, ciascuna lotta contro i fantasmi del passato. Tutti hanno bisogno di aiuto, tutti vogliono essere salvati.

E' un testo da leggere, per riflettere su come ci comportiamo, su come agiamo, UN libro per pensare su temi svariati, dall'intelligenza alla perseveranza, dall'odio al perdono, dalla vita alla morte. E molto altro. Se non altro questo è un grande merito. Perché si può anche non essere d'accordo su quello che dicono i personaggi, si può controbattere. Ma ci si crea sempre un'idea personale e solo questo basta a fornire un motivo sufficiente per intraprendere questa lettura. Forse lo stile non è dei migliori, un po' contraffatto, soprattutto all'inizio, coinvolgente ma non sempre incisivo. Forse un po' neutro. L'unico vero difetto è in realtà uno: la luce. E' tutto troppo chiaro, troppo palese. Non mi riferisco alle vicende, ma alle interpretazioni. L'autore sembra garantirsi che il lettore interpreti bene il racconto e si sente in dovere di spiegare. Ecco l'unico difetto: la mancanza di ombre, di nebbia, d’interpretazione. Il resto si può perdonare.
Ruberete minuti alla notte per leggerlo, lo afferrerete appena alzati e vi dispiacerà distaccarvene. Perché forse in realtà, oltre che di Lin, Shantaram è un percorso interno a tutti noi. Perché in questo romanzo rivivono le nostre esperienze. Perché forse, alcuni dei nostri perché si disvelano. Perché forse, in qualche modo, questo romanzo parla di NOI, delle nostre vite.
"Ad ogni battito del cuore si apre un universo sconfinato di possibilità”.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    09 Luglio, 2012
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Baudolino alias d'Artagnan

Scrivendo questa recensione rischio di mancare d'obiettività, per il semplice fatto che io adoro questo scrittore. Ogni volta che leggo un suo saggio o un suo romanzo mi chiedo continuamente come faccia a ideare storie così avvincenti, ad esplorare argomenti così sconosciuti a modellare la cultura senza tradirne, ideando una trama, il senso originario.

Prima di iniziare la vera e propria recensione, vorrei puntualizzare alcuni punti.
Nell'immaginario collettivo il nome di Eco si collega, come per un rapporto atavico ed immutabile, ad un genere letterario che s'identifica con il romanzo dotto; identificazione, questa, legata al primo romanzo dello scrittore che lo ha classificato in un modello rigido da cui non è semplice uscire.
Baudolino è appunto questo: il tentativo di uscire da uno schema, di dimostrare la propria versatilità, di creare una storia capace di affascinare e di stupire il lettore.

Quella di Baudolino, è per l'appunto una storia inusuale per Eco: leggera, coinvolgente, di facile approccio. Senza rinunciare a consueto sfoggio di cultura (qui molto ridotto e indispensabile per creare uno sfondo storico tangibile), Eco idea una galleria di personaggi indimenticabile, ora caricature, ora esseri scavati fin nel profondo dell’anima, tutti legati indissolubilmente e ironicamente a quello che è uno dei protagonisti letterari più godibili di sempre: Baudolino.

Per chi ha letto I tre moschettieri, è inevitabile il paragone con d'Artagnan: entrambi mentono, entrambi sono attaccati al denaro, entrambi contribuiscono a creare gli eventi storici della propria epoca e tutti e due possiedono un ingegno straordinario. La penna di Eco, mai così semplice e appassionata, conduce in una storia fantastica, tra assedi, corti, cattedrali, intrighi, notti brave e città favolose. Perché Baudolino ha bisogno di uno scopo. Tutti gli uomini ne necessitano. Lo scopo di Baudolino è quello di raggiungere il Prete Giovanni, il suo tormento fin dalla giovinezza, il governatore di un regno idilliaco ai confini del mondo, un regno alimentato dalle fantasie giovanili, da un miele che provoca visioni e dal disperato tentativo di seguire uno scopo, quanto più prezioso possibile. Inizia dunque un viaggio, non solo concreto, ma anche interiore, che rispettando la più grande tradizione letteraria, conduce il protagonista a riflettere, in un clima di costante ilarità, sulla guerra, sull'amore, sulla morte, sulla verità e sulla menzogna, indispensabile per raggiungere il regno del Prete Giovanni. Per adempire il proprio onore. Quello di Baudolino è in realtà un nostos, un ritorno verso le sue origini, attraverso la sua storia, un viaggio alla ricerca della verità, quest'illusione capace di completare la vita.

Una storia avvincente, ambientata in un medioevo splendidamente rievocato, ricca di ammiccamenti storici facilmente individuabili: il contrasto tra latino e volgare dopo la caduta dell'impero Romano, il conflitto tra Impero e i primi Comuni, la falsificazione delle reliquie, il peso della fede e il nascere delle prime scuole, delle prime università. Non è il solito Eco. No, questo è un grandissimo scrittore che tenta con tutto se stesso di svincolarsi dalle opinioni comuni. E con Baudolino c'è riuscito.

Grazie Umberto, grazie della tua storia, grazie per avermi cullato con le tue pagine, con la tua voce, come un nonno che porta il nipote sulle ginocchia e lo accompagna nel sonno, con leggerezza, semplicità e quell'ironia che vivacizza l'insieme. Grazie per essere stato quel nonno che non ho mai avuto. E sì, qualcuno più bugiardo di te che ha recensito questa storia c'è (io e te ci siamo capiti ;-) .)

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    07 Luglio, 2012
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Per me è lo stesso

Non è un libro semplice.
E' il libro dell'assurdo, dell'alienazione, dello straniamento.
L'assurdo di Camus è, parafrasando Nicola Chiaromonte, uno stato d'animo: quello dell'uomo che pur consapevole della propria mortalità non accetta il rispetto incondizionato della vita, volta alla ricerca dell'unica felicità, quella naturale. Lo so non è semplice da capire. Ma questo è lo Straniero. Questo è Camus.

E' un testo tragico, dominato dal silenzio. Un silenzio pesante, opprimente. Carico di tensione.
Un silenzio destinato ad esplodere a causa della pressione, condannato a liberarsi drammaticamente in quattro spari. Quattro colpi di pistola che squarciano l'armonia. Rompono l'equilibrio. Colpi che riempiono il vuoto lasciato dalla quiete ormai infranta.
Proiettili di morte che trapassano la bidimensionalità della pagina per ferire il lettore, più che la vittima del romanzo. Quattro colpi secchi "che battono contro la porta della sventura".

Finisce la prima parte del romanzo e resti lì a chiederti perché Meurasult abbia sparato. Senza volontà. Come guidato dalle forze della natura, immutabile, che sembrano mandare impulsi nervosi alle sue mani. Alle sue dita. E i colpi partono. Si uccide un uomo. Si uccide la libertà. Ecco l'assurdo.

Per me è lo stesso. Meursault risponde così. Per tutto il racconto. Risponde così a Maria, la donna con cui ha un rapporto. Un sentimento che chiama amore per inerzia, soltanto se Maria lo desidera. Per lui è lo stesso.
Gli è indifferenti la morte della madre. "Oggi è morta mia madre. O forse ieri, non so". Non piange, non ama, non apre se stesso al mondo. E' lo straniero. L'estraneo. L'uomo che si aliena dal mondo.
L'uomo che si abbandona all'indifferenza, alla noia. L'uomo che sembra svuotato della volontà, ma che nello stesso tempo non puoi condannare, o forse sì.

D'altra parte la Corte lo giudica, lo condanna. Lo straniero deve essere ucciso. Deve perire l'estraneo che sembra disumano. Ecco di nuovo l'assurdo. Meursault, processato più per il non aver pianto per la morte materna che per l'aver ucciso, è destinato alla ghigliottina. Basterebbe un pentimento. Un pianto. Una dimostrazione di umanità. Ma Meursault non vuole difendersi. Non vuole fingere. Non vuole annichilire se stesso, sfumarsi, cancellarsi, per una grazia. Vuole rimanere se stesso. E allora non si difende. Non è necessario.

Seguendo questa logica implacabile, obbedendo ad una ragione che eleva l'indifferenza e l'estraneità a stile di vita, logica che aborrisce la noia soltanto, Meursault rifiuta anche Dio, la fede. E respingendo un prete erompe in un grido disperato, da animale ferito, un grido drammatico che non vuole risposta. Uno sfogo che rompe per la seconda volta il silenzio e che è la più grande affermazione della vita, seppur rassegata. E dopo lo sfogo torna il silenzio, la quiete.

Lo straniero è uno di quei libri da leggere e rileggere, capace di dominare i pensieri anche dopo la fine della lettura. Un libro in cui il non detto deve essere interpretato e che pesa sulla coscienza. Sull'essere. Con frasi brevissime, che muoiono presto per risorgere appena dopo il punto, così come l'accettazione di Meursault, Camus porta in scena l'assurdo, drammatico, sconcertante.

Per me è lo stesso. Ecco l'assurdo. Ecco lo straniero. Ecco la condanna dell'uomo.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    02 Luglio, 2012
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Chi legge si salva

Chi scrive muore è un'opera necessaria.
Un romanzo che riempie il vuoto di questi anni.
Un libro che denuncia la società odierna, la quale si crogiola serena in un'apparente sensazione di essere a posto con se stessi. Una denuncia verso gli uomini, che per annichilire il loro famelico senso di colpa, tentano di identificarsi con quelle figure che hanno avuto il coraggio di combattere la Camorra, la Mafia o qualsiasi altra società criminosa.

Governi scrive un'opera riflettuta, distillata a lungo, convulsa. Parole che esprimono l'inquietudine di una società che si serve, in ottica utilitaristica, di figure eroiche, come Saviano, così da farle diventare il loro alibi per sentirsi migliori.
Chi scrive muore è un grido straziante, che tenta di colmare il silenzio, il vuoto, il nulla di questi anni; un urlo accorato e drammatico che trascende la dimensione cartacea di pagina per raggiungere, con mirabile capacità stilistica, l'apetto, la nausea e il dolore di un colpo in pieno stomaco.

E' uno di quei libri che disturbano, che ti fanno stare male dopo la lettura. E' uno di quei testi che agguantano la tua mente, il tuo cuore, il tuo corpo e vi riversano un'inquietudine opprimente, insostenibile, destabilizzante, come l'inchiostro di una piovra che ti stringe tra i tentacoli. L'ultimo gesto per difendersi o per attaccare.

Sullo sfondo onirico e metafisicamente sopeso del sonno, intrecciata inevitabilmente tra deflagrazioni, attentati, sirene, portiere che sbattono, Bazuka e scorte, anconde e giaguari, la trama, forte di pagine in cui astratto e concreto si fondono nel segno di una costante ansietà, si dipana alternando mirabilmente le storie di Angelo, capo scorta e uno scrittore, autore di un testo sulla mafia e dunque perseguitato.

E' un libro in cui la dimensione onirica è necessaria per trasmettere simbolicamente al lettore, le durissime condizioni di vita di questi uomini alle prese con le incombenze della vita. Esplosioni roboanti che scuotono le interiora e il corpo, ormai involucro, guscio senza vita di uomini prostrati dalla sofferenza. Ombre di se stessi.

E' tutto molto rapido. Neanche due ore per finirlo, ma è intenso. Sconvolgente. Provoca un disagio non solo psicologico, ma anche fisico. Lo senti, là nello stomaco in subbuglio. Come un monito che ti costringe a riflettere. Allora pensi. Chi scrive muore. No, chi muore scrive. No, chi legge si salva.

In fondo Chi scrive muore è anche questo: un elogio alla scrittura, alla lettura, che può salvare dalla perdizione e che può condurre ad una salvezza anelata, ma spesso negata. Leggere questo libro è traumatico, provoca disturbo, ma ti fa vivere un'esperienza così, sospesa metafisicamente tra vita e morte, nel segno di scorte, dolore, esplosioni. Nel segno della sofferenza familiare. Nel segno di tre killer mafiosi che si abbandonano a sesso, droga e divertimenti sfrenati. Forse i personaggi più memorabili e meglio riusciti. Che strano, i killer.

Chi non legge muore.
Chi scrive muore.
Chi muore scrive.

Chi legge si salva.

(Il punteggio è in eraltà 4-4-4)

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    01 Luglio, 2012
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Che bugiardo Signor Dumas!

Nell'immaginario colletivo I tre moschettieri godono di una posizione privilegiata: non solo si crogiolano nella fama dell'albo dei classici, ma coinvolgono intere generazioni, grazie ad una forza espressiva che è cifra inconfondibile di Dumas stesso. Quella della trilogia dei moschettieri, di cui questo tomo è la prima parte, è un'ascesa imperante ed imperitura, che trova forza nell'appassionante vicenda, e quindi, nella menzogna.
Sì, perchè Dumas è il mentitore perfetto e e nello stesso tempo il più intelligente menzognere. Diciamolo subito.
Questo non è un libro corretto, ti prende in giro per oltre seicento pagine. E' tuttp falso a partire dal titolo. I tre moschettieri, Athos, Porthos e Aramis. In realtà si parla soprattutto del querto, D'Artagnan, e già il lettore rimane interdetto.
Dumas non è leale. Tradisce la tua fiducia muovendo i personaggi come marionette cosicché compiono gesti che poche pagine prima aborrivano. E il lettore, che tenta di affidarsi ad un personaggio, diviene sospettose e dietro ogni frase si aspetta la sorpresa, un fatto che illumini il passato dei protagonisti.
Troppo facile. Dumas ti ricatta: domina la curiosità, altrimenti farai una brutta fine. Certo, non lo dice apertamente, ma leggendo ci si accorge che tutti i personaggi che cercano di accaparrarsi nuove informazioni, cadono in una fittissima rete d'intrighi, una rete appiccicosa, che sobbalza all'arrivo di un enorme ragno pronto per divorarti. Allora sei immobile, e cerchi di districarti. Ti agiti tra tele d'amore, di coraggio, di odio, di amicizia, di denaro, di tradimenti, di lealtà, di guerra, di dolore, di distruzione, di vendetta e di poca compassione. C'è una cosa che manca: la verità. E' sempre nascosta, celata, criptata tra lettere e segnali segreti. Forse completamente assente. E' una verità che forse non esiste, anzi, si fa desiderare. Ma d'altra parte cosa ci si aspetta da un furfante del calibro di Dumas. Certamente, e questo è un merito, non è ipocrita. Come mentono i personaggi, mente lui stesso. così, va il mondo, E non ci possiamo opporre. Forze più grandi ci obbligano a mentire.
Ed ecco che irrompono prepotentemente in scena le due forze che regolano la società francese del seicento: il potere di Luigi XIII, il cui potere sembra quasi esautorato, e il cardinale Richelieu, vero detentore dell'autorità. Si ripresenta dunque il tradizionale conflitto tra realisti e cardinalisti, una disputa accessa e infiammabile, ardente, che sembra alimentarsi dei sotterfugi di uomini potenti che tramano dietro la facciata apparente. Fuoco che sembra dover divampare inevitabilmente, infiammato da una sorta di cospirazione ancestrale che esige la sofferenza di alcuni, la vittoria di altri.
Ed è in ciò che s'identifica l'amara riflessione di Dumas, consapevole dell'impossibilità di raggiungere la verità, del necessario dolore di alcuni per la felicità degli altri.

Mai sai caro Dumas, a me non m'inganni perchè io ero preparato ai tuoi intrighi, ai tuoi sotterfugi, alle tue menzogne e sono stato all'erta come i moschettieri di notte, ho cercato di interpretare gli sguardi come la crudele Milady per la quale, lo ammeto, ho provato compassione, ho intuito come il cardinale e ho soppesato l'oro, come tutti i tuoi personaggi. E anche se scrivi bene, caro Dumas, non mi abbindoli e mi sono accorto delle tue incoerenze, dei tuoi errori, e forse non li avrò scoperti tutti, ma con me non l'hai avuta vinta. Ma ti pare che un marito per accorgersi che la moglie ha un marchio infamante sulla spalla debba aspettare che ella cada da cavallo? Ma perpiacere.
Suvvia, ti perodno questo e molto altro, perchè il tuo romanzo è stato più avvincente di un thriller, più entusiasmante ed intricato di un giallo, più vivido di una biografia. Ma più falso della storia. La tua è anacronistica, ma non te ne è importato nulla, ti sei affidato allo stile e sui dettagli d'altra parte chi si sofferma quando è costantemente in gioco la vita dei tuoi paladini? Con me sei cascato male, ma mi hai ugualmente intrigato ed emozionato. Mi hai fatto sorridere e rattristare, scandendo le emozioni con tipici sobbalzi al cuore. E per questo ti ringrazio.

Il tuo romanzo ha raggiunto l'albo dei classici perchè mente spudoratamente ed è questo che, andando oltre la trama, di per sè straordinaria ed avvincente, mi è rimasto: la menzogna, unita ad uno stile semplice ma efficace, conduce un libro alla vetta della popolarità. Ciò può sembrare inquietante. Vero, ma è la realtà.

Alla fin fine ti rimprovero solo una cosa: percchè i tuoi personaggi sono tutti topoi, perchè non ci spieghi il perchè di come sono diventati assassini, uomini potenti o altro? Forse non t'interessava, forse hai scritto solo per divertirti. E probabilmente,se non fosse così, il tuo romanzo, al confronto di altri classici, impallidirebbe. Invece, grazie alle tue menzogne, alle tue odiose agnizioni, si gonfia, tronfio e altezzoso. Così come D'Artagnan al cospetto dei potenti.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    27 Giugno, 2012
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Gioco di nebbie...

C'è nebbia in questo thriller. Una nebbia fitta che occulta e sfuma gli oggetti. Una nebbia quasi demoniaca che avvolge inesorabilmente tutto. Sotto a questa coltre dalla densità variabile si muovono, inavvertiti e insospettabili passi silenziosi. Uno strusciare di sandali, un fruscio misterioso.
C'è la nebbia fisica, ma non solo: c'è l'annebbiamento mentale. Un groviglio di fatti, indizi che la nebbia cerca di occultare. Nebbia fisica e nebbia psichica. Poi ci sono Lisa, Silvio e Angelo che si ritrovano coinvolti in un gioco arcano e che tentano di svincolarsi dalle tradizioni, dalle leggende, dall'occulto. Cercano di districarsi in questo mare di nebbia che ondeggia e s'infiltra nel corpo, nella mente. Un fruscio di sandali. Un custode.
Un'avventura nelle selve di Lucedio, a cavallo di secoli, un ping pong misurato tra Medioevo e presente. Un rapporto avvolto dalla nebbia, misterioso, un indefinito che atterrisce, ma nello stesso tempo attrae. Nell'incertezza si muovono personaggi di altri secoli, di altri mondi, forse. Niente è chiaro, tutto è sfumato. Note misteriose si odono tra due epoche Uno spartito demoniaco, luciferino; un coccio forgiato con parole misteriose; una stoffa fatta scomparire. Occultare, Nascondere. Lasciare segreto. Difendere la Chiesa e lasciare decantare tutto nel sottosuolo. Non deve essere tutto svelato. Servono segreti. E vanno mantenuti. Aqua Bona e Nebbia.

Nuvolone mette in scena un thriller piuttosto coinvolgente, una lettura affascinante, ricca di ammiccamenti storici e realistica. Uno stile che rispetta generalmente l'obiettivo iniziale: quello di lasciare tutto avvolto nella nebbia. Niente è limpido. Nuvolone muove i suoi personaggi su un letto di nebbia, sfumato, circondati da un fruscio di sandali, Inquietante. In questo thriller, già apprezzabile per la storia in sè, si affrontano forze arcane: la razionalità e l'irrazionalità, il disvelamento e il segreto, l'occulto e il palese. Gli angeli e i demoni (in maniera figurata), la scienza e la religione. Si legge una critica al desiderio odierno di conoscere tutto, si denuncia il desiderio sfrenato di palesare tutto, di rendere cangianti le sfumature. E'l'indefinito, l'incerto che genera le varie interpretazioni e questo romanzo ci riesce benissimo. La nebbia sembra diradarsi, ma subito rimbomba, monta e riempe di nuovo il paesaggio, ricopre rabbiosa tutto con un impeto antitetico alla sua leggerezza. Anche essa ha un peso.
C'è solo una cosa che non ho sopportato: alcune descrizioni con i capelli che incorniciano e lo sguardo penetrante. Ma insomma, tutto si può perdonare e complimenti all'autore, merita! Leggetelo.

Sapendo delle difficoltà delle ricerche per averlo, ho cercato su internet a questo indirizzo: http://www.astilibri.it/cultura/dono_acqua.htm

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    25 Giugno, 2012
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Ricordi e menzogne

"Che cos'è l'uomo se non la somma dei propri ricordi?"

Sono i ricordi a definirci. Non ci si pensa spesso, ma sono essi che guidano e influenzano le nostre azioni. Permettono di sopravvivere. Ci appigliamo ai ricordi nelle difficoltà, per rimpiangerli o per trovare uno sprazzo di serenità. I ricordi determinano i nostri ideali, il nostro pensiero. I ricordi, in tale senso, ci rendono liberi. Indipendenti. E allora chiedo, cosa fareste se ogni mattina,a causa di un...incidente, non ricordaste nulla? Cosa fareste se non riconosceste la persona che vi dorme accanto?

Benvenuti, nel mondo di Christine, la protagonista di questo inusuale thriller. Tutti i giorni si ritrova inerme, indifesa, priva di se stessa, costretta a ricostruire la sua vita, tassello dopo tassello, inutilmente. Perchè sa che domani lo scorderà di nuovo. Un giorno è troppo poco. Poco per ricordare tutto. Poco per provare qualsiasi sentimento. Soltanto la frustrazione. Galleggiando in questo reiterato oblio, legata alle catena della "dimenticanza", Christine si abbandona a suo marito, Ben. A ciò che lui le dice. Un appiglio.
Poi Christine trova un diario. C'è scritto "Non fidarti di Ben".
Crollo emotivo.
Christine legge il diario. Legge la sua vita dell'ultimo mese. Legge di se stessa,di un dottore, di un'amica, di un figlio. Nel rileggere sprazzi di ricordi baluginano fulminei davanti a lei, alternandosi in una lotta contro quel verbo terribile: dimenticare. Per non dimenticare, scrive.

Non ti addormentare è un thriller ambizioso. Lontano da simboli occulti, morti cruenti, simboli sconosciuti, il libro porta in scena la quotidianità, una normalità distrutta. Un passato da ricostruire.Christine è l'ombra di sé, il riflesso sfumato di una donna che ha sofferto.
Niente colpi di scena eclatanti, nemmeno nel finale, ma non era questo lo scopo dello scrittore: al centro di tutto ci sono i ricordi, non si legge solo un thriller, ma un dramma interiore.
C'è tuttavia un problema: lo stile, che non riesce ad amalgamare al meglio le scene introspettive a quelle d'azione (ben poche). D'altra parte è il primo romanzo dello scrittore che certamente può crescere. Manca il ritmo, la suspense è talora titubante, e si allunga sino a spezzarsi. Non è un capolavoro del genere, ma merita per la forte innovazione che tenta di portare.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    21 Giugno, 2012
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Prosa Poetica

I libri sono fatti di parole, frasi, capitoli.
Seta invece è inchiostro nero e spazi bianchi. Il bianco del nulla. Dei silenzi della vita.
Perché Seta, prima che sui fatti, si concentra sui vuoti, sul bianco, su quell'incompletezza personale da colmare.
Da colmare in Giappone, al confine del mondo, in un mondo quasi onirico, scarno. Impalpabile.
In Giappone c'è la seta.
Rossa, arancione, gialla.
La Seta di una bellezza unica, silenziosa. La seta di sguardi che balenano incerti ma intensi tra due capi della tavola. La seta di occhi occidentali. Di una ragazza. La seta della passione, della completezza.
Seta verde.
Quella della speranza, del futuro. La seta dell'indefinito e dell'infinito. La seta che abbatte la disperazione e che dilata i confini del mondo.
Seta nera
Quella della guerra. Della distruzione.
Poi c'è la seta bianca.
Quella della purezza di un ragazzo. Una seta che conquista tutti i colori, il rosso, il verde. Infine il nero. E poi si lacera.
E' vero, ci sono vari colori. Ma la seta rimane leggera. La senti appena. Poi scivola via.
Come le parole, le frasi e i capitoli. E i bianchi. Tutto scivola via, con un leggero fruscio. Con una traccia labile. Baricco scrive poesia camuffata da romanzo e come la poesia è necessario fermarsi a riflettere. Fermarsi ad interpretare il bianco. Ma tutto scivola, ti lambisce, ma non ti travolge. Ti muovi su frasi, versi incantati, di bellezza leggera. Per capire bisogna leggere.
Tra me e Baricco c'è un muro, invalicabile. Seta non è il mio genere. Non amo la poesia. Non ne ho compreso appieno il senso. Seta è un romanzo sui silenzi della vita, sulla passione (parola che per intensità è quasi ossimoro del libro stesso) che sconvolge, dall'interno, la monotonia della vita. Ma c'è qualcosa che mi sfugge, come mi sono sfuggite le parole.
Leggetelo, per conoscere Baricco. E' indescrivibile. Si potrebbe dire molto altro sui parallelismi del libro, sui rapporti simbolici tra personaggi e significati altri. Ma rischierei di lacerare la seta. Di appesantirla e farla diventare velluto.
Il velluto è di Helene, la moglie di Hervè, la realtà; la seta, leggera, è di quella ragazza dai tratti occidentali. La seta è del desiderio.
Seta. Un ideogramma delicato, leggero, unico. Un ideogramma di vita.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    14 Giugno, 2012
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La conoscenza del bene

L' avvicinarsi a testi dell'altezza di Anna Karenina incute nel lettore una sorta di timore, o meglio, di reverenziale rispetto. Non solo per la fama di questo libro, ma anche per la paura di non riuscire ad arrivare alla fine. Perché leggere Anna Karenina è come scalare una montagna, e bisogna sudare.
Inizi. Fiducioso ti addentri, muovi i primi passi. Tenti di prendere confidenza con il terreno. Con l'ambientazione dell'opera, una Russia aristocratica che supera le ricostruzioni storiche per la sua vivacità. Inizi a sfogliare le prime pagine: gli occhi si devono abituare all'ambiente nuovo, al passare in rassegna lettere, parole, frasi e capitoli; le mani iniziano a tastare il terreno, a toccare le pagine; la mente, un po' confusa, cerca i primi appigli. E in questa ricerca si trovano i personaggi, alberi che con le loro radici sostengono il terreno e dominano la società; tronchi da cui si diramano intricatissimi rami. Rapporti personali. E ti avvicini, per non essere solo. E osservi le cortecce, plasmate dalla natura, modellate da una forza, ancestrale, che è lo stile netto, lineare e neutro dello scrittore, stile che delinea caratteristiche e inclinazioni di una élite boriosa.
Continui la scalata, sfogli le pagine. E vedi due alberi, possenti, che si stagliano verso l'alto cercando di allontanarsi dai vincoli sociali, dall'apparenza e dalla convenienza dell'aristocrazia. Lo sguardo si perde nel cercare la cima di queste piante, cima che rasenta il cielo. Guardi meglio e scopri che questi alberi sono Anna e Levin. E capisci che non sono poi così diversi.
Prosegui. Ancorato a questi alberi, e tutto il resta sembra contorno. La scalata all'inizio è ripida, ma poi si addolcisce sempre di più. E allora inizi a correre. Corrono gli occhi, corre la mente. Le mani fremono, e si arrampicano, sfogliano, per raggiungere la cima, la fine. Mentre cammini fiducioso, seguendo la via di Levin e Anna, vedi il paesaggio mutare, all'ipocrisia succedono l'amore, il dolore, la tristezza, la gioia, il matrimonio, il divorzio, l'adulterio. Il verde della campagna e il grigio della città. Ti lasci guidare da una forza arcana, lo stile di Tolstoj, che ti manovra senza incertezza. Ti fidi e ti abbandoni, ti culli nei dialoghi, divertenti o eruditi, nella critica feroce e sublime alla società, alla cultura.
Continui. E poi all'improvviso ti fermi. Tutto è nero. E' la morte. Ed è doveroso inchinarsi, fermarsi, riflettere. Ma in questo Nulla c'è una piccola luce, un tarlo minuscolo: la fede. Non sai come finirà, e allora prosegui.
Il grigio e il verde si alternano, la campagna di Levin, il suo matrimonio felice, il suo disprezzo per l'ipocrisia aristocratica; la città di Anna, il disprezzo nei suoi confronti, il suo dolore per una società che l'esclude perché lei ha saputo incarnare ciò che l'aristocrazia teme di più: la verità. Quella di Anna è una denuncia spietata e così diviene il capro espiatorio ideale. E nessuno si cura della sua sofferenza, la compassione si sottomette al giudizio, alle apparenze.
Continui, vedi la vetta, sei quasi in cima. MA all'improvviso uno di quei due alberi che si stagliavano contro il cielo, cade. Era tropo alto e aveva radici troppo deboli. E ti stupisci che l'altro non cada e cerchi il motivo. Allora ti ricordi d quella piccola luce nella morte: la FEDE. Capace di salvare dalla perdizione. Dal suicidio. Sei dispiaciuto, ma manca poco alla vetta. Corri. Sudi. Fatica. Rabbia. Vedi tutto con la coda dell'occhio: sai di perderti molto. MA la vetta è lì, non puoi indugiare.
Arrivi. Stanco. Soddisfatto, cullato dalle parole, dalle frasi. DA Tolstoj. Ti sporgi timidamente e guardi. Nebbia. Ti sforzi. Nebbia. Ti arrabbi. Nebbia. Non puoi far nulla per penetrare nel fondo di questo libro. La scalata, la fatica ti sembra ora inutile. Poi ti concentri e guardi di nuovo. Nebbia rarefatta. E vedi confusamente la vita, la morte, la conoscenza del bene, vai al di là di Anna, di Levin, raggiungi la Fede. Per chi crede e per chi non crede. Vorresti vedere di più. Pensi di meritartelo. Ma c'è sempre la nebbia. Allora capisci che la vera ricchezza l'hai persa mentre correvi e vedevi tutto di sfuggita.
Scendi. Ma ti riprometti di tornare, di scalare di nuovo. Con più attenzione. Senza correre. Ma sai che anche se non correrai la nebbia ci sarà comunque. E' la nebbia che genera interpretazioni.
Forse, alla fine, l'unica cosa sbagliata era il titolo. Anna Karenina. Troppo e troppo poco. Questa scalata e questo romanzo sono molto di più: una parabole straordinaria di vita, la conoscenza del bene.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    08 Giugno, 2012
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Contro la rassegnazione

Il primo scoglio da superare nel leggere questo libro è il titolo: Fontamara. Neutro. Lapidario. Conciso. O almeno così sembra. A torto. Perchè già nel titolo è racchiusa la storia di questo piccolo paese, di tutto il meridione, del mondo di oggi.
La fonte. Acqua. Quell'elemento così indispensabile per i contadini. Per la sopravvivenza. Quella fonte amara, che accoglie nel gioco di parole il destino dei personaggi. Il destino di Fontamara. Perchè se il suo scorrere è sinonimo di vita, la sua privazione è la morte, ma ancora prima la spersonalizzazione. E' un titolo che ha in sè il nome di un paese e il suo futuro. Tragico, già segnato.

E poi c'è quella domanda, "Che fare?", che mi perseguita e mi assilla dalla fine della lettura. Quest'interrogativo a doppia lama. Da una parte il desiderio di regire, un attivismo che è sinonimo di vita. Dello scorrere dell'acqua. Del raccolto. Dall'altra la muta rassegnazione, la scomparsa del dinamismo e l'irrompere drammatico di una stasi oscura, insopportabile. Opprimente. E in tale ottica sembra trasformarsi in "E che cosa possiamo fare, noi cafoni?.

Già, i cafoni ovvero "coloro che sono meno del nulla". Questa massa di lavoratori, non istruita, ridotta a folla insintuale, alla ricerca di una condizione migliore e anestetizzata nel mutismo. O nell' ingenuità. O nella rassegnazione che è diverso da accettazione passiva. Perchè per accettare occore ragionare, riflettere su sè; per rassegnarsi basta il solo stato di inferiorità. La rassegnazione è la rovina di Fontamara.
Perchè assieme all'ignoranza rende malleabili, volubili.
Manipolati da un potere politico che subordina lo stato sociale, la popolazione di cafoni agli interessi. Al Dio Denaro. Al potere.
Manipolati dalla tragica mistificazione della parola, che forte di una cultura d'elite infida, si trasforma in strumento d'oppressione. Secondo le circostanze.
Don Circostanza, l'Amico del popolo, quest'avvocato che ha nel suo nome il riflesso della sua ottica utilitaristica, dettata dagli eventi e non da sentimenti autentici. E' nella macanza di questo tramite, tra popolo e potere politico, e dalla corruzione del Clero, che i cafoni ppiomabano in uno stato di perpetuo abbandono, cullati nel liquido amniotico della loro ristretta realtà contadina, rassegnati e inermi di fronte ai sopprusi, agli intrighi. Immobili in una mentalità che approva ciò che è gratis, che si affida a sogni e messe per scongiurare il pericolo, che vede nel pezzo di terra l'onorabilità.
E quando l'acqua che irriga i campi verrà tolta, i cafoni tentano la violenza, la vendetta, un nuovo soppruso, trasformandosi in una massa delirante che vuole distruggere, cieca di fronte alla reltà e immobile nelle ore senza tempo della sottomissione. Tra questo magma di sconforto, mutismo, instintualità, delirio e rassegnazione, si erge la figura di un uomo, che spinto dall'amore si ribella a questa condizione, infrange i cristalli della rigida gerarchia, anela alla condizione di cittdino e osa. Osa per la libertà. L'onore e il rispetto. A costo della sua stessa vita. In nome di un sacrificio per tutti. Un uomo che decide di crearsi il proprio destino, un futuro che trascenda l'egoismo e che sia il primo passo verso un cambiamento. Un cambiamento di morte, ma un messaggio forte e pungente. Un messaggio di vita, di speranza, capace di affermare se stesso nonostante la repressione fascista, la limitazione della libertà, il disprezzo. Un messaggio d'attivismo che smuove dalla stasi.

Silone ci offre un grande testo, l'affresco della società contadina italiana, il confronto tra interesse sociale e politico. Pagine che tentano di smuovere le coscienze, di apirare ad un dinamismo partecipativo nella realtà. Parole che si scontrano con la rassegnazione, che infondono speranza anche nella morte. Frasi che al di là dello stile, composito, paratattico e non sempre eccellente, feriscono e scuotono. E torna sempre quella domanda ridondante: Che fare?

Già, che fare? Che fare nella società moderna, come affrontare crisi e problemi? Fontamara cerca di rispondere, con le sue pagine, con la sua storia: un inno al dinamismo, alla partecipazione, all'abbatimento del sistema classista. Un monito ad eliminare i pregiudizi, i preconcetti, nel rispetto di tutti gli altri; il monito a non affidarsi (Ahimè) al qualunquismo (come sempre più spesso accade). L'invito accorato a non arrendersi, a non rassegnarsi, a far valere i propri diritti. E non crogiolarsi nelle misere dinamiche quotidiane, nel proprio interesse. Fontamara è il grido che cerca di infrangere il muro dell'egoismo, uno splendido inno alla libertà
E interessa poco dello stile. Qui conta il contenuto.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    05 Giugno, 2012
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Giochi linguistici, ironici, divertiti e ..... Eco

"Salvatore, che è un gran calcolatore, per batter gli altri col calcolatore, ora lavora. Orsù, calcola, Tore, e arrivi primo! Che Calcolatore".

Questo breve componimento rientra nella categoria omofoni, omografi, omonimi, che raccoglie numerosi versi caratterizzati da giochi linguistici basati sugli equivoci della pronuncia e della scrittura. Saror arepo eccetera è essenzialmente questo: una raccolta di giochi linguistici, ideati da Eco stesso, ironici e utili per una maggior padronanza della lingua italiana. Ma lo scopo resta divertire. Grazie alle sue straordinarie conoscenze, Eco è stato in grado di combinare parole, mutarle e metterne in luce i significati più sconosciuti. L'italiano abbandona il lato puramente tecnico dei legami grammaticali e diviene mezzo attraverso cui divertirsi e con cui giocare. Saror arepo eccetera è una piccola sfida, un duello avvincente, ma leggero, con la mente di Eco, alla ricerca dei significati, dei rapporti spesso astrusi che legano le parole ai vari giochi linguistici. Perché anche in questo piccolissimo libro, che si legge in venti minuti, ci sono così tanti riferimenti che è quasi impossibile afferrare alla prima lettura tutte le sottigliezze e i rapporti, ad esempio, tra significante e significato. Ed è a questo punto che provi a rileggere e cogliere il gioco intrinseco, ma talora la chiave di lettura è legata alla conoscenza di personaggi letterari, storici..... . Non mancano giochi puramente legati ai suoni, eccone un esempio:

"Facile Facile
Ma dove sta Zazà?Lei, ragazza sci - sci si balla il cha cha cha con il suo bel Gagà, bellissimo Cecè più dandi che ye ye che non si appaga (eh eh!) nel bere caffè caffè ma vuol whisky a gogò e fa schedine al Toto sperando chiotto chiotto di vincer tomo tomo..."

Non mancano letture stravaganti e ironiche degli acrostici: "B. E. R. L. U. S. C. O. N. I. : Bilanci efferati rapidamente legalizza usando senato camera obbedienti, narcotizza italiani. Non oserete immaginare per cosa stia P. R. E. C. I. P. I. T. E. V. O. L. I. S. S. I. M. E. V. O. L. M. E. N. T. E....... . Non manca l'alfabeto commentato, tutto da scoprire, e la Divina Commedia riscritta con i contrari : "Al margin del ristar di nostra morte mi persi in un deserto illuminato ritrovando le piazza più distorte". Vi sono altri giochi, di cui non parlo altrimenti riscrivo il libro, già di per sé breve. E' come un aperitivo, come tanti stuzzichini, gustosi, che durano troppo poco, ma che nascondono sapori nuovi alla rilettura. Con il libro ci si addentra nella mente di Eco, nei suoi giochi, nel labirinto contorto della sua mente. Se qualcuno lo legge, mi contatti che vorrei avere la spiegazione di alcuni giochi.... .
Vi è anche una parte di consigli grammaticali, scritti in modo particolare. Specifico però che l'edizione non è Bompiani, ma Gransasso, "Nottetempo" (già segnalato a Redazione), perché Sator arepo eccetera è proprio ciò: una compagnia per il dormiveglia, per accompagnarci nel confine con il sonno.
Sono costretto a dare un voto per contenuto e approfondimento, anche se in realtà mancano tutti gli indicatori, così assegno voti per mantenere alta la media del libro. "Sator arepo tenet opera rotas"..... Buon divertimento!

(A pochi giorni dal Venuto al mondo sono riuscito a leggere solo questo, niente romanzi.)

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    02 Giugno, 2012
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Venuto al mondo ovvero La Vita

Ho osato troppo.
Perché a meno di sedici anni cosa posso sapere della vita? Già, la vita. Venuto al mondo è vita. Una storia di gioia, dolore, sofferenza, paura, amore. Terrore e Speranza. C'è tutto questo e molto altro. C'è la vita che si condensa in ritratti, in figure. In ventri. Quello di Gemma, quello di Aska e Sarajevo. Un ventre dilaniato dalla guerra, ferito, teatro drammatico di morte e di nascita. Di passato e futuro.
Ho osato troppo.
Perchè sono uomo, sono nato così. Venuto al mondo è nato donna, è Gemma. Una donna, una moglie, e "un ventre sterile che cammina". Non l'ho sempre capita, ho provato, ma cosa ne posso sapere io di maternità? Cosa posso sapere della disperazione di una non-gravidanza, della rabbia e del dolore? Pietro. Diego. Gemma.
Ho osato troppo.
Perchè non ho saputo affrontare il libro di cuore. L'ho fatto di testa, e ho sbagliato. Ma la Mazzantini ha rimediato per me. Ogni pagina, ogni parola è stata una lama. Un fendente di vita, che ha trafitto e marchiato. Le parole non sono scivolate via. No. Si sono impresse, indelebili. Frasi di vita, di sentimenti, di drammatica verità. Verità. Sì, quella mascherata dalla quotidianetà, dalla mente che si rifugia nel falso per non affrontarla. Dalla follia di una guerra, dalla pazzia umana. Verità, drammatica, sconcertante. Emblema della realtà.
Ho osato troppo, ma non me ne pento.
Non mi pento, perchè leggendo ho vissuto un'altra vita, anzi. Molte vite. Quelle dei Sarajeviti, dei profughi, dei cecchini, dei soldati. Ho respirato la polvere degli edifici distrutti, odorato il profumo del mercato prima dell'esplosione. Ho visto un bambino blu. Morto. Ho visto Amore, affetto, solidarietà. Odio.
Non ero preparato per questo, non per tutta questa sofferenza.
La Mazzantini è grandiosa: ha saputo osservare, immedesimarsi, interpretare. Le frasi mai nette. Immagini evocative. Sfumature. Fotografie riflesse nelle pozzanghere della vita. Le fotografie di Diego. E Pietro.

L'affresco drammtico di una guerra. Imprevedibile come la vita. Un guazzabuglio instabile, come le emozioni. L'abnegazione e lo sconforto. Gemma.
Venuto al mondo lascia il segno, perchè parla di vita, parla di sentimenti. Parla di tutti noi. E di qualcosa più grande di noi. Pagine taglienti, cicatrici non rimarginabili. Odio. Amore. Poesia. Questo è Venuto al mondo. La nostra vita.

Io non l'ho capito fino in fondo, non ci sono riuscito. Ma nonostante tutto, ogni pagina è stata un mattone, un frammento di esistenza. Di cuore. Di mente. Di corpo. Di noi. Questo libro è troppo grande per essere recensito. Sento di non aver scritto niente. Ma ho capito. Ho capito che bisogna ringraziare che ........ sia venuto al mondo. Completate i puntini come meglio credete.
Sotto troverete "Lettura consigliata": Sì-no. Perchè questo non è un libro per tutti. E' per pochi uomini. Per molte donne. Ma non per tutti. Forse sbaglio. Ma la mia mente dice così. Il cuore è rimasto a Sarajevo.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    23 Mag, 2012
Top 50 Opinionisti  -  

L'invito a colorare il bianco

Insomma, mai avrei pensato di ritrovarmi qui a scrivere la recensione di un libro da cui avevo preso le distanze, forse a torto, ma il destino ha rimediato; certo, non sono stato folgorato, ma neanche deluso, anzi.

Apparentemente, il libro può sembrare la descrizione della storia d’amore tra ragazzi, un testo che cerca di capire e di analizzare il mondo giovanile. Tuttavia, appena dietro la scorza di storia romantica, si nascondono tematiche completamente differenti. Il libro è un inno, non solo a cogliere ogni attimo della nostra vita, ma anche a seguire i propri sogni. È grazie ad essi che si nutrono le speranze, le aspirazioni le fondamenta su cui si sviluppa la nostra vita. I sogni non sono pensieri eterei e trascendenti, ma sono (e devono essere) compagni da seguire e raggiungere. Il testo è evidentemente rivolto ai giovani: i capitoli brevi, il lessico colloquiale e a tratti volgare, la sintassi semplice ed estremamente comprensibile riflettono non solo la psicologia dei personaggi descritti nel testo, ma esprimono anche il desiderio dell’autore di fornire ai giovani un romanzo di facile comprensione e riflessione. Ciò è lampante, qualora si considera la semplicità, spesso eccessiva, con cui vengono presentati i ragionamenti del Sognatore e di Leo stesso. Appare dunque, almeno in parte, un buildingsroman destinato a ragazzi digiuni da letture impegnative (ma neanche gli adulti lo disprezzaranno). Ciò non toglie che il romanzo sia abbastanza valido, con contenuti che, se posti in relazione con il panorama sociale attuale, offrono sicuramente spunti di riflessione. Infatti, mentre la grave crisi non solo economica ( ma anche, e soprattutto, ideologica e morale) pone in discussione le certezze, è quanto mai necessario tornare a sperare e confidare nel futuro, senza però trascurare il presente. Il libro, dunque, racchiude un messaggio d’amore e di fede in qualcosa di più grande. Leo è il simbolo di molti ragazzi che presi da musica, sport e chiacchiere non riflettono sul futuro, anzi lo temono. Il messaggio che traspare dal libro è senz’altro condivisibile, anche se la storia creata per sostenere tali tematiche rappresenta un’estremizzazione mendace del mondo giovanile. L’autore, infatti, recupera molti luoghi comuni, spesso non veritieri e li porta al limite. D’altronde resta pur sempre un romanzo ISPIRATO (e non copiato) dalla realtà.

Al di là della trama è interessante notare un passo del libro "L'amore non esiste per renderci felici, ma per dimostrare quanto sia forte la nostra capacità di sopportare il dolore”, frase pronunciata dal Sognatore quasi parallela a quella poco più avanti: “Regalare il proprio dolore agli altri è il più bell'atto di fiducia che si possa fare”. Bene, è questo ciò che differenzia il romanzo da una storia d’amore: una riflessione, tutt’altro che banale, sul dolore e sull’amore, frasi che ci permettono di pensare in un'altra ottica, di aprirci la mente. Tuttavia, probabilmente, “il sugo di tutta la storia” è una frase pronunciata, o meglio, pensata, da Leo: “I sogni guariscono qualsiasi male, qualsiasi dolore. I sogni colorano qualsiasi bianco”.

Bianca come il latte rossa come il sangue è l’invocazione a colorare la nostra vita, a sperare e confidare in qualcosa di più grande, accentando il proprio destino, ma trascorrendo quanto più intensamente possibile ogni attimo della propria esistenza. Il romanzo è una chiave di lettura per vedere con altri occhi la paura perché “è normale avere paura. Come è normale piangere. Non vuol dire essere vigliacchi. Essere vigliacchi è fare finta di nulla, voltarsi dall'altra parte. Fregarsene.”
L’autore ci propone dunque, un libro a sfondo quasi filosofico, nel quale l’amore non è che un espediente per poter raccontare: le vere forze in gioco sono i sentimenti, gli stati d’animo e la maturazione; elementi, questi, che seppur espressi diversamente da personaggio a personaggio, anelano alla vita.

Alla luce di ciò, mi sento di affermare che non tutti i casi editoriali sono pessimi, alcuni nascondono sorprese inaspettate (e pensare che il bianco è il mio "non"colore preferito). (Scusate la lunghezza)

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    20 Mag, 2012
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Divagazioni.....bibliofile

LETTORI, ACCORRETE!!!! SIETE BIBLIOFILI? AMATE I LIBRI ALLA FOLLIA? QUANDO LEGGETE SIETE IN UN ALTRO MONDO E DESIDERERESTE NON SMETTERE MAI? UNA COPERTINA O TRAMA VI ATTRAGONO A TAL PUNTO DA INIBIRE I VOSTRI FRENI INIBITORI E FARE SPESE BIBLIOFILE FOLLI? VI SIETE SENTITI DIRE DI STACCARVI DALLE PAGINE ALTRIMENTI SARESTE DIVENTATI CIECHI? E AVETE PERSO TEMPO A CERCAR DI FAR CAPIRE ALLE PERSONE LA BELLEZZA E IL FASCINO DI UN LIBRO? A VOLTE VI SIETE SENTITI "DIVERSI"? BENE: NON SIETE I SOLI! Eco, da buon bibliofilo, suggerisce, affascina e parla, con inaspettata disinvoltura e ancor più straordinaria semplicità, del meraviglioso ed eterogeneo mondo dei libri, tra divagazioni impegnate e sensazionali.

Bene, si è capito, il saggio mi è piaciuto (ma "piacere" è riduttivo). Per un lettore è straordinario immergersi nella storia della bibliofilia, lasciarsi cullare da storie eterogenee, semi - sconosciute, ma sempre coinvolgenti, vicende curiose che gravitano attorno ad un oggetto unico e prezioso: il libro. A fianco della memoria minerale, quella originaria delle tavolette d'argilla, e quella animale, brevissima e coercizzata dalla fugacità dell'esistenza, si è sviluppata una memoria vegetale, che spazia dagli stracci medioevali alla carta moderna. E' pur vero che anche la carta scompare: bruciata (dai biblioclasti, ai quali è dedicata una parte del libro), ma più speso dimenticata in piccole librerie, ricoperta da polvere e attaccata, inesorabilmente, dai tarli e dall'umidità, così esile da sbriciolarsi tra le mani (e coloro che abbandonano i libri non sono meno bilbioclasti di quelli che li bruciano). Ma l'amore di un lettore supera tutto e lo spinge a girovagare per mercati e fiere, alla ricerca di opere rare, o che, nell'immaginario, attragono come il canto di quelle sirene che popolano i romanzi e i poemi che attraversano il tempo. Eco, da bilbiofilo appassionatissimo, ci conduce tra gli scaffali della propria biblioteca, racconta aneddoti "vari et curiosi", che spaziano dal "ghiaccio eterno" alla "terra concava", alle meravigliose tavole dell' Hanau 1609 fino alle semi - sconosciute opere di Kircher. Trasportati tra i libri eterni della storia, immergendosi nei meandri della bibliofilia, si viene a conoscenza di follie di letterati e letterarie , opere mastodontiche, ma paradossalmente insignificanti, che si crogiolano nella sottile distinzione tra epitesto, peritesto e paratesto. Da questa raccolta di saggi, si emana e si spande, nonché si afferma, l'amore per il libro, questa invenzione che si pone con forza alla base della società civile e che può portare a gesti inaspettati, perché non si collezionano e rubano soltanto gioielli, anzi... . E' pur vero che alcuni saggi sonodi difficile comprensione, non tanto per la complessià stilistica, quanto per i tecnicismi della bibliofilia. Non solo l'Hanau 1609, ma anche Collezioni e Collazioni mettono a dura prova la pazienza del lettore, che però, persistendo, raggiunge un testo di neanche 10 pagine, un brevissimo racconto che ho adorato e letto più volte "Prima dell'estinzione", come i marziani vedrebbero la terra dopo la scomparsa dell'uomo per motivi immaginabili, e come le opere pittoriche e letterarie fornirebbero una visione distorta della società umana (il libro andrebbe acquistato solo per quel saggio). Enormemente interessante è anche il saggio "Monologo interiore di un e-book", per comprendere, con occhi diversi, un fenomeno dilagante. Se si considera poi che i saggi sono stati scritti, per la maggior parte tra il 1998 e il 2002-2003, Eco diviene quasi un veggente, o, più probabilmente, un acuto osservatore. Ma sono i primi due saggi che racchiudono l'essenza stessa della lettura e del collezionismo, e, mentre scrivo, mi sto trattenendo dal riportare i passi più importanti del libro che sono così tanti, da portarmi a violare il copyright, ma uno me lo concedo:

"Naturalmente il bibliofilo è esposto all'insidia dell'imbecille che ti entra in casa, vede tutti quegli scaffali, e pronuncia: "Quanti libri! Li ha letti tutti?" L'esperienza quotidiana ci dice che questa domanda viene fatta anche da persone dal quoziente intellettivo più che soddisfacente. Di fronte a questo oltraggio esistono, a mia scienza, tre risposte standard. La prima blocca il visitatore e interrompe ogni rapporto, ed è: "Non ne ho letto nessuno, altrimenti perché li terrei qui?" Essa però gratifica l'importuno solleticando il suo senso di superiorità e non vedo perché si debba rendergli questo favore. La seconda risposta piomba l'importuno in uno stato d'inferiorità, e suona: "Di più, signore, molti di più!" La terza è una variazione della seconda e la uso quando voglio che il visitatore cada in preda a doloroso stupore. "No, " gli dico, "quelli che ho già letto li tengo all'università, questi sono quelli che debbo leggere entro la settimana prossima. " Visto che la mia biblioteca conta cinquantamila volumi, l'infelice cerca soltanto di anticipare il momento del commiato, adducendo improvvisi impegni. "

Insomma, un libro che tutti i biliofili dovrebbero leggere, per rivivere le emozioni che si provano quando si leggono libri, per ampliare le proprie conoscenze bibliofile e per avere preziosi suggerimenti.
(P.S. : in uno dei saggi Eco distrugge neanche indirettamente, l'apparato su cui si fonda il Codice da Vinci e propone letture dell' Ultima Cena certamente più realistiche) .

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    13 Mag, 2012
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Lo Hobbit, Andata e Ritorno (e Amiciza)

Talora si sente la necessità di abbandonarsi a delle favole, a delle storie che, trascurando riferimenti sociali e politici, trascendono il reale e catapultano in una dimensione fantastica e incredibile. E' per rispondere a questo bisogno che sono ricorso a questo libro, una favola un po' più lunga delle altre, ma con il tipico schema oggetto del desiderio e prove da affrontare per raggiungerlo. Il testo è ambientato nella variopinta e multiforme Terra di Mezzo, successivo teatro del ben più corposo Signore degli Anelli. I luoghi sono un punto forte del testo: sono descritti mirabilmente e con grande efficacia, così da creare una mappa immaginaria ben congegnata. Non ci sono così tanti particolari come nell'opera tolkeniana successiva, cosicchè appare in fase embrionale il progetto futuro dell'autore. Tuttavia la fortuna di questo romanzo non può essere attribuita soltanto alle ambientazioni e alla trama, che in realtà ho trovato a tratti un po' incompiuta o abbozzata, ma è riconducibile alle svariate creature che popolano il romanzo, riprese e riadattate dall'epica antica, medioevale e celtica, per le quali vengono forniti tratti caratteristici e costumi. E' in quest'ottica che va cercata l'indiscussa bravura di Tolkien: non si è limitato a caratterizzazioni accennate o essenzialmente fisiche, ma si è impegnato nel costruire un crogiolo vivace e complesso, condizionato dallo stretto rapporto tra l'aspetto esteriore e le qualità interiori. Nel romanzo intervengono creature note, o meno note, ma nessuna di loro è circoscritta ad un topos rigido, che, seppur evidente, si carica di connotazione quasi psicologica (nonostante si mantenga una semplicità disarmante). La favola (anche se sembra riduttivo chiamare il libro di Tolkien così) scorre velocemente e, in genere, coinvolge; non ci sono cedimenti o eccessive complicazioni, nè si dimentica il classico schema fiabesco, tuttavia Lo Hobbit non mi ha pienamente convinto, pur avendo indiscussi pregi. Probabilmente ha inficiato negativamente nel giudizio, lo stile del testo, ma forse più che di Tolkien, la responsabilità è della traduzione (la mia edizione è Adelphi). Ad esempio, quando un personaggio, parlando, descrive gli eventi, utilizza il passato remoto, in luogo del ben più comune passato prossimo. Può sembrare una sottigliezza, ma la scelta verbale condiziona la capacità del romanzo di coinvolgere nei fatti. Inoltre è secondo me spropositato l'utilizzo di dimostrativi del tipo: "raggiundero la Desolazione di Smog. QUESTA ERA...", la cui ripetizione compromette la scorrevolezza del testo. Altre scene, invece, sono divertentissime e acute, e ricordo, con grande soddisfazione, il dialogo tra Bilbo Baggins e Gollum, memorabile. Come tipico delle favole si lodano i valori dell'amicizia e della lealtà, mentre sono rimasto perplesso del rapporto del testo con la guerra: inizialmente avevo avuto l'impressione che la guerra venisse accettata e non criticata, mentre alla fine appare evidente la posizione contraria dell'autore nei confronti degli eventi bellici. Insomma, nonostante i vari difetti (personalissimi), lo Hobbit rimane un testo necessario per avvicinarsi al Signore degli Anelli, un opera che fornisce un assaggio, certamente semplificato, con la Terra di Mezzo, un mondo che si svelerà in tutta la sua complessità nell'opera successiva; mi chiedo ancora come una mente sia in grado di ideare un Universo di tale complessità. E alla fine forse un riferimento con la società c'é: un rifiuto ai conflitti che si concretizza, drammaticamente, nell'ultima parte del libro, ma sempre con estrema semplicità. Un monito alla solidarietà, al rispetto: un'opera per educare divertendo e ttrasportando in un mondo in cui a molti piacerebbe vivere.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    11 Mag, 2012
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Il tribunale delle anime

Composito e intricato: sono questi gli aggettivi che più si adattano a questo romanzo, un pluristilismo e una serie di fatti così ampia e complessa da disorientare. Al di là della trama, di cui non parlo per il rischio di svelare alcuni passaggi, è interessante notare alcuni livelli stilistici che rendono il testo molto vario. Si spassa dal thriller puro e ricco di suspense, dominato da frequentissimi colpi di scena (forse troppi e troppo vicini ai romanzi di Dan Brown, che a tratti il romanzo mi ha ricordato), al poliziesco e, soprattutto, l'aspetto psicologico dell'opera, la parte migliore del libro. Carrisi non si limita a raccontare la trama, ma indaga le motivazioni che spingono i personaggi a compiere i gesti, porta in luce strane patologie e con esse gioca, le plasma e le inserisce con grande abilità in un quadro generale esageratamente ingarbugliato. Grazie ai suoi studi sulla criminologia, l’autore porta in luce la mente, la psicologia di un assassino. E fin qui, il romanzo appare interessante, ma ci sono delle questioni che spingono ad essere cauti. Certamente, pesa notevolmente (in negativo) l’ampollosità della trama, i dettagli, le minuziosità e le storie minori che vivono e si sviluppano più o meno compiutamente nel romanzo. Forse ci sono troppi distruttori, troppi fatti secondari che, sì sono ben scritti, ma i quali distolgono l’attenzione da un filone centrale che, spesso forzatamente, si allaccia alle altre vicende. Si arriva ad un punto in cui ci si perde (ma forse sono io che ho prestato poca attenzione), tuttavia il ritmo serrato e costante assuefà il lettore, inevitabilmente. Carrisi è bravo, anzi abilissimo, nel depistare, nel creare ipotesi false, e, ammetto, avevo pensato un finale totalmente diverso (e meno avvincente) di quello del libro. Quello che però distingue il romanzo è l’attenta costruzione della trama, sì intricatissima, ma con basi culturali abbastanza solide, sullo splendido sfondo di luoghi semisconosciuti di Roma. Interessante il mondo dei “penitenzieri” , certamente poco conosciuto. I personaggi sono ben delineati, con un notevole spessore psicologico ed è estremamente coinvolgente (o masochista) immergersi nella mente di assassini e di persone sconvolte da drammi interiori. Nessuno viene condannato in termini assoluti, ma si cerca, con grande efficacia, di fornire spiegazioni e di non fermarsi all’apparenza. Una cosa mi è rimasta impressa: la protagonista, Sandra, ha un rapporto particolare con le case e segue tre regole che ora non svelo, ma è incredibile come queste norme si possano applicare ai volti, all’aspetto, perché sì non basta l’esteriorità, ma il corpo porta i segni indelebili delle azioni. Insomma, un bel thriller, molto (troppo) ragionato, ricco di colpi di scena, ma non fine a se stesso, il rischio più grande che si corre nello scrivere questo genere di romanzi. E tutti i difetti del testo, seppur evidenti a livello della disorientante trama, vengono adombrati da sottili riflessioni e indagini psicologiche, che divengono un motivo imprescindibile per la lettura del romanzo. Sarà che la mente umana mi ha sempre affascinato, per la sua impenetrabilità e complessità, e forse, perché, conoscere meglio la psiche è una conoscenza, indiretta di sé. Letteralmente camaleontico.

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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    03 Aprile, 2012
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La disperata rincorsa all' "esistere"

Questo non è un romanzo di omicidi, non è la storia di un serial killer, né tantomeno quella di un folle. "Il profumo" è la negazione della vita, la rinuncia obbligata all'esistenza e il disiperato tentativo di essere visti, o meglio, percepiti. Suskind, attraverso il suo indimenticabile personaggio, Grenouille, ci mostra un dramma interiore che, sì può apparire improbabile, ma che in realtà, oggi, è sempre più evidente. Come Grenouille desidera essere visto, ascoltato, amato, così, nella società odierna, si è sempre in cerca di attenzioni, di essere compresi e di sfidare una spersonalizzazione dettata dall'omologazione a modelli mondiali dominanti.

Veniamo al testo. Ambientato in una maleodorante Parigi di fine Settecento, "Il profumo" narra la vita di Grenouille, un uomo che, a differenza di tutti, non possiede alcun odore, è come invisibile. Egli, però, possiede un naso eccezionale attraverso cui vede e di cui si nutre; tuttavia è anaffettivo, non prova alcun sentimento, se non un amore sfrenato per i profumi, ma mai per delle persone. E' da questa inquietante caratteristica che si sviluppa la vicenda: dal desiderio del protagonista di essere amato, di tornare ad essere riconosciuto dagli altri. Inizia così il suo peregrinare tra botteghe, luoghi incontaminati, città dominate dai profumi: il tutto senza essere mai notato, nel tentativo di creare un profumo grazie al quale essere ammirato e tornare a esistere veramente. Per far ciò, per sopperire a questo bisogno, Grenouille inizierà ad uccidere, a sacrificare vite per raggiungere il suo obiettivo, trasformandosi da sventurato a mostro. La sua, tuttavia, non è follia: egli segue un piano ben preciso, spietatamente logico e freddo, quasi disumano; se la sua fosse stata follia avremmo assistito ad una serie di eventi illogici e irrazionali. Il suo è un bisogno che, seppur ci appare ingiustificabile, necessita di comprensione. Cosa fareste se, pur vivendo, foste invisibili? Cosa fareste se foste certi di non poter essere soggetti a qualsiasi emozione? “Il profumo” tenta di rispondere a questi interrogativi, portandoli probabilmente all’estremo, ma mettendoci in guardia dall’impoverimento interiore.

Suskind, portando in scena il mondo degli odori, ne porta in luce la caratteristica fondamentale: quella di essere un indispensabile segno per il riconoscimento, dipingendo il ritratto di un epoca vista da una prospettiva inconsueta, quella degli odori. Uno stile duttile che, dalla semplicità della mera narrazione, diviene complesso e sfarzoso quando si descrive la complessa personalità del personaggio; il tutto senza mai cadere nel torbido, ma anzi, creando l’impressione di assistere ad ogni pagina a gesti d’amore.

Il vero senso del romanzo, però, si comprende alla fine, quando si legge un finale davvero disarmante capace di incrinare le idee del lettore costringendolo a riflettere, a smontare le proprie convinzioni e crearne delle nuove, necessariamente diverse dopo lettura. “Il profumo” non è soltanto la storia di Grenouille, ma è la vita di tanti uomini, che, seppur in termini differenti, non sentono di esistere e si sentono esclusi. Spero che questo romanzo venga letto come monito per non lasciare che la propria personalità, la cosa che veramente decreta la nostra esistenza, si annichilisca e perda importanza. Se siete finora stati trattenuti dal clima noir che si respira in questo romanzo, dagli omicidi e dall’apparente aspetto di thriller, sappiate che questi elementi sono soltanto espedienti per raccontare una verità inquietante ed innegabile. Dimenticate la trama e leggetelo, sarete avvolti in una spirale di profumi e, soprattutto, sarete affascinati e inorriditi da un personaggio geniale e multiforme, emblema della crescente spersonalizzazione dell’uomo moderno.

(La mia è un’interpretazione del tutto personale; ci si scusa per la lunghezza)

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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    31 Marzo, 2012
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Follia

Quando si sente parlare di "follia", si è indotti a pensare a eventi plateali, spesso esagerati o, ancora, drammatici (ad esempio la Follia omicida). Ma la Follia, prima che nelle azioni, va ricercata nel dramma interiore che la provoca, nella scintilla emotiva che fa crollare le mura della razionalità, dell'inibizione e della prudenza; è una forza inarrestabile che domina e annichilisce la ragionevolezza. In questo disarmante romanzo di McGrath, la Follia si concretizza in Stella, una donna che, rasentando il bovarismo, rifiuta la sua condizione di mediocre donna borgese, anelando ad una libertà da ricercare nella storia passionale con Edgar, un uxoricida recluso nel centro psichiatrico dove il marito della donna lavora. Tuttavia "Follia" non è una storia d'amore, né quella di un rapporto extraconiugale, sarebbe scontato; il romanzo è un'acuta indagine psicologica che esamina il dramma interiore di una persona, una tragedia della volontà più o meno consapevole. Lampante in tale prospettiva è la scelta dell'autore di affidare ad un medico psichiatrico la narrazione della vicenda: filtrata da uno sguardo "esperto", la storia si snoda tra pagine d'intensa analisi interiore e altre di gesti che, seppur apparentemente folli, trovano giustificazione nell'esperienza personale della protagonista (accertato che Stella sia tale). Però, paradossalmente, sono l'ambiente stesso della clinica psichiatrica, il sentirsi continuamente indagata come una cavia, l'insoddisfazione della propria condizione, i fattori che spingono Stella a compiere le sue azioni, le quali, pur nella loro irrazionalità, appaiono pienamente giustificate. E mentre prende forma la drammatica vita di Stella, si delineano sullo sfondo le ombre di una società (identificata nel romanzo dalla clinica) che si ferma all'aspetto esteriore, che rifiuta l'indagine psicologica scaricando e sminuendo una tragedia interiore in mera pazzia. Ma attenzione, Stella non è completamente folle: le sue azioni seguono un filo logico, consapevole o no, facendo sì che la mancata comprensione dei suoi gesti sia una denuncia dell'autore contro la superficialità. La Follia è quella che un osservatore non attento vede, ma il dramma della protagonista è fulcro del romanzo; forse, quello di Stella, è il desiderio di essere capita, compresa e soprattutto aiutata. Tuttavia né il marito, nè il narratore, né Edgar la comprendono, cangiano i suoi comportamenti in istinti animaleschi e folli; nemmeno gli appelli taciuti (ma ugualmente chiari) di Stella smuovono dall'inattività una società che antepone l'apparenza a tutto il resto. Senza alcuna ancora di salvezza, l'anelito di Stella alla libertà si trasforma in Ossessione, in una tragica spersonalizzazione destinata a divenire puro odio. E' proprio in questa prospettiva che Stella cede alla staticità, trascendendo i limiti della comprensione ( e di quella che si può chiamare pietà) e assumendo, agli occhi della gente, le sembianze di un mostro. Il tutto in una drammatica circostanza che segna il vero punto d'arrivo del romanzo; il resto del libro ne è la naturale conseguenza.

Si dice che la grandezza di una romanzo non si misuri soltanto nello stile, ma anche nella sua capacità di adattarsi alla società in cui viene letto, alla sua tendenza di avvicinarsi al vero: ebbene, Follia è molto più realistico di tanti altri romanzi che voglionoi essere tali; quella che appare come Follia è tale soltanto in termini assoluti (una contraddizione), ma è logica e spiegabile nell'ottica di una dramma interiore. Stella ha perso il controllo non per una mera passione, ma per un mancato interessamento nei suoi confronti.

Poco tempo fa mi è capitato di visitare un centro di recupero e la prima impressione è stata quella di essere all'interno della clinica di Follia: regnavano sovrani un idillio apparente e una freddezza che, seppur mascherata, traspariva dai volti dei pazienti lì presenti. Inutile specificare che la mia impressione è stata negativa. Bene, se un romanzo è capace di coinvolgere a tal punto un lettore, non si può far altro che riconoscerlo come un grande libro. Soparattutto se aggiungo che, a un gesto drammatico come quello di Stella, ho assistito veramente. Fortunatamente, però, allora, c'era qualcuno pronto a parlare e a scalfire il muro di una grande sofferenza interiore.

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Storia e biografie
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    25 Marzo, 2012
Top 50 Opinionisti  -  

3096 giorni

I libri non si leggono mai per caso: essi rispondono ad una necessità profonda, un desiderio che spazia dallo svago alla riflessione più profonda; in questo caso, per me, questa semi-biografia è stata una sfida, una dura prova che ho cercato di vinecere. Ci sono, spesso, delle circostanze in cui esprimere il proprio dolore, piangere, diviene un imperativo, un mezzo per sentirsi come gli altri, per condividere le sofferenze; tuttavia, quando qualcuno non esplicita i propri sentimenti, viene definito "apatico", parola che spesso viene pronunciata quasi con disprezzo. Ebbene, forse i lettori di questa recensione non hanno capito cosa c'entra questo con il libro e propabilmente sono un po' confusi, ma questa premessa è indispensabile per capire ciò che questo scritto abbia sgnificato per me. Volevo capire se fossi veramente insensibile, distaccato sino a sembrare indifferente: è per questo che ho lettoo il libro, per vedere se fossi stato in grado di capire il dolore e di metabolizzarlo; è stato inevitabile. Perché la Kampusch si è confessata, in uno sfogo per capire e superare il passato. 3096 giorni è una storia dolorosa, dalla quale stracolma sia sofferenza sia liberazione una confessione necessaria e sofferta. Segregata, umiliata, picchiata e abusata, ma mai sconfitta o completamente sottomessa. Natascha non ha mai perso la sua dignità, non si è mai umiliata, a costo di essere quasi uccisa e letteralmente sfigurata. Nel leggere la storia della sua prigionia, qualsiasi distacco, qualsiasi atteggiamento anaffettivo scompare: subentrano rabbia, paura, incredulità e perfino terrore. Questo libro è molto peggiore di un trhiller, nemmeno nella mia più fervida immaginazione avrei potuto concepire scene di tale crudeltà. Ad un certo punto della lettura ho pensato" BASTA!, SMETTI DI RACCONTARE" (come se potessi bloccare le pagine e aver già finito il libro). Ma il male esiste, ci circonda, si concretizza ini un'inquietante normalità. Nonostante l' abbia terminato da poco, la mia mente ha già dimenticato le scene più crude, si è già protetta in un oblio sempre più denso. Durante la lettura mi sono visto estremamente debole, la mia volontà (in confronto a quella di Natascha) appare completamente annichilita. La Kampusch invece ricorda ancora tutto, nei dettagli, perchè il passato si supera, ma non scompare, le sue tracce si marchiano indelebilmente su di noi. Il libro può apparire inorganico in alcuni tratti, ma proprio perché è uno sfogo liberatorio, un flusso di coscienza che rompe gli schemi letterari e ci si pone spietatamente di fronte. Non si deve pensare, però, che il libro parli soltanto dei maltrattamenti: racconta anche le impressioni dell'autrice sulle azioni del rapitore (un'analisi psicologica quasi terrorizzante), i suoi appigli alla vita (i film, i libri, la radio) in un percorso drammatico necessario per non soccombere al rapitore. Poi Natascha racconta la fuga, l'apparente libertà e l'incomprensione della gente nei suoi confronti, senza però dimenticare il rapporto unico, oscillante tra affetto e rabbia, nei confronti del rapitore. Affetto, vi chiederete? Sì, perchè non si può "odiare colui che ti dà da mangiare". 3096 giorni scuote l'anima, la coscienza e ci fa un grande regalo: il dolore dell'autrice. Grazie ad esso possiamo riflettere e confrontarci con la realtà, possiamo aprirci e condividere emozioni e sentimenti. Forse questo commento può apparire un poco sconclusionato, ma anche quasto è uno sfogo, un fiume di riflessioni necessarie a metabolizzare il libro. Forse ciò che mi rimarrà di questa lettura, è il mio volto allibito, quando, dopo averlo terminato, ho sentito qualcuno lamentarsi perchè la cena ritardava di qualche minuto. Natascha è sopravvissuta senza cibo (o con qualche carota) interi giorni.

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Scienze umane
 
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4.0
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    13 Marzo, 2012
Top 50 Opinionisti  -  

Un (as)saggio

"Per tenere i popoli a freno, di nemici bisogna sempre inventarne e dipingerli in modo che suscitino paura e ripugnanza" (Umberto Eco)

Qual è lo scopo di un saggio? Non solo informare e persuadere il lettore, ma anche incuriosirlo e spingerlo a documentarsi ed approfondire un dato argomento; ebbene, quest'ultimo punto è il più difficile. Tuttavia Eco, con la sua ironia, la sua sterminata cultura e l'originalità dei temi trattati, coinvolge, spinge all'analisi critica e, soprattutto, suscitare interesse. Per rendere l'idea: immaginate che il libro sia un banchetto e i saggi (OCCASIONALI) siano le portate, o meglio, degli AS-saggi deliziosi. Si è naturalmente spinti a mangiare i piatti più stravaganti, curiosi, ma attenti, si può fare indigestione. Sì, perchè se si leggono troppe pagine, ci si sente così pesanti che il libro risulta sgradevole e ostico. Dopo che si è acquisito il ritmo, però, e si è capito che il testo va centellinato, le pagine scorrono, talvolta divertendo, altre coinvolgendo in profonde riflessioni. Tra tutti i saggi, certamente, il migliore è il primo: "Costruire il nemico", un excursus che attraversa i secoli, conducendoci in un'indagine immersa in odi ancestrali e remoti. Continuando il filo narrativo de "Il cimitero di Praga", Eco svela come erano visti ebrei, donne e tanti altri personaggi. Vi stupirete di leggere cosa Giovanni Boccaccio pensasse delle donne (almeno per me una vera sorpresa). Si prosegue con una discussione su "Assoluto e relativo", il "fuoco" (avete mai letto un saggio su questo elemento?) per poi parlare della poetica di Hugo e del romanzo ottocentesco ("Io mi chiamo Edmond Dantès"). Saggio molto particolare è riservato all' Ulisse di Joyce, un piccolo colpo di scena. interessante inoltre il saggio "Delizie fermentate": già il titolo è un programma (non adatto ai deboli di stomaco e, soprattutto, non primo/dopo dei pasti). Insomma, c'è di che contentare abche il più esigente tra i lettori grazie ad una raccolta di saggi poliedrici e coinvolgenti. Si ritrova naturalmente lo stile ironico dell'autore che, come sempre, arricchisce il testo citazioni e anche ipotesi sul futuro tutt'altro che fantasiose. Se siete desiderosi di sapere perché Hitler ha sbagliato alcuni lanci missilistici, "perché l'isola non viene mai trovata" e volete "andare per tesori", leggetelo. Darete uno sguardo al su aspetti curiosi e poco conosciuti, ma tutt'altro che insensati. I testi presenti non seguono un tema comune, ma è questo il pregio degli scritti occasionali: contenere una riflessione spontanea dell'autore e non premeditata, indotta da conversazioni o altri saggi. Ci sono splendidi ASsaggi in questa raccolta, ma ribadisco: non esagerate, appesantisce la mente e penalizza la bellezza dei saggi. Leggereste mai più libri differenti nel stesso giorno?

(In alcuni saggi, nel citare alcuni romanzi, viene svelato il finale dei libri, spesso condizione indispensabile per esplicitare il significato del testo. Si raccomanda quindi di approcciarsi alla lettura del saggio "Io sono Edmond Dantès, solo se si conoscono i libri ottocenteschi, in particolare quelli di Dumas, Hugo e Tolstoj)

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Negri, froci, giudei & Co., Gian Antonio Stella
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Storia e biografie
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    22 Febbraio, 2012
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Una storia un po' diversa da quella abituale

"Mai città al mondo ebbe più meravigliosa avventura. La sua storia è talmente grande da far sembrare piccolissimi anche i giganteschi delitti di cui è disseminata. Forse uno dei guai dell'Italia è proprio questo: di avere per capitale una città sproporzionata, come nome e passato, alla modestia di un popolo che quando grida Forza Roma allude soltanto a una squadra di calcio"
(Indro Montanelli, Storia di Roma)

Come si può definire questa affermazione? Ironica? Inquietante? Forse entrambe, ma non sono ancora riuscito a darmi una risposta.

Spesso avevo provato a leggere un saggio puramente storico per approfondire determinati aspetti di società solo apparentemente lontano dalla nostra, ma avevo sempre fatto marcia indietro. Questo perchè la storia veniva presentata come una noiosissima sequenza di fatti, guerre, congiure, tradimenti e date. Poi, finalmente, ho scoperto Montanelli e la prospettiva in cui vedo la storia è radicalmente cambiata. Pur essendo scritto nei "lontani" anni Cinquanta, lo stile è modernissimo: ironico, pungente, mai tedioso. E'la satira che domina questo libro: satira fatta nei confronti della società antica,e che, impercettibilmente (ma spesso anche esplicitamente), si riflette nella società contemporanea. Montanelli diverte, coinvolge, fa riflettere. L'autore ha infatti la capacità di fondere magistralmente i fatti con la vita pubblica e la cultura. Si passa così da capitoli più propriamente storici, ad altri come "I suoi [di Roma] divertimenti" e "Una cena a Roma". Montanelli ci presenta aneddoti, curiosità e aspetti insoliti, non solo della società, ma anche (e soprattutto) di personaggi che noi consideriamo quasi perfetti ed astratti. Ecco allora che vediamo (il grande) Giulio Cesare deriso come "donnaiolo zuccapelata", l'imperatore Claudio considerato alla stregua di una zucca e donne astute che, dietro ai propri mariti/figli, gestivano le fila del più grande impero dell'antichità in veri e propri matriarcati. Sintomo dell'importanza che rivestono i personaggi è testimoniata dal fatto che i capitoli sono intitolati a personaggi "Cicerone, Cesare, Catone, Nerva e Trainao, Diocleziano, Costantino" etc. . Altro aspetto caratteristico dell'opera è la grande (e forse eccessiva) attenzione dell'autore verso gli intrighi di corte, gli omicidi ordinati da amanti, mogli, filgie che hanno raggiunto il vertice imperiale. Forse è questo uno dei pochi difetti del saggio: l'interesse morboso per le passioni più intime degli imperatori, le loro trasgressioni e le loro bizzarrie private (tutti fatti accuratamente riportati da storici classici e non esagerati dalla fantasia dell'autore). Ma forse Montanelli aveva capito che, prima che sul piano politico e sociale, la reputazione e l'appoggio si ottengono tra i "corridoi di palazzo e le camere da letto". Insomma, un mondo molto simile al nostro.
Discorso a parte va riservato all'APPROFONDIMENTO. Fin dalla sua pubblicazione il libro è stato accusato si essere superficiale, leggero e disfattista. Tuttavia, come chiarisce l'autore nell'introduzione del saggio:" Io non ho mai avuto l'ambizione di scrivere una storia completa: so benissimo di aver sacrificato molti particolari al quadro generale. [...] Il libro non pretende di portare rivelazioni [...] Io spero solo di aver raccontato la storia in maniera più semplice e cordiale, attraverso una serie di ritratti che illuminano i protagonisti di una voce più vera". Presa coscienza di ciò, mi sono rapportato al libro di conseguenza: non ho cercato completezza, ma cordialità e ironia e le ho trovate. Tuttavia, devo ammettere, che alcuni passaggi del libro sono fin tropppo sintetici, persino per questo genere di libro. Lo stile e la paicevolezza però, unite ad un'insieme variegato e divertente di curiosità, compensa efficacemente il problema. Utilissimi, infine, le cartine disseminate lungo il testo , l'indice dei nomi e la cronologia essenziale dei fatti raccontati nell'opera. Insomma: Montanelli mi ha colpito e ha raggiunto il suo scopo: "affezionare alla storia di Roma qualche persona fin qui respinta dall'accademismo di chi glil'ha raccontata prima di me". Certamente leggerò altri libri dell'autore; mi manca di già quello stile provocatorio, ironico, irriverente e sarcastico.

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Fantascienza
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    01 Febbraio, 2012
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Fahrenheit 451

Qualche giorno fa, su un noto quotidiano, ho letto dell'invenzione di una televisione talmente sottile da poter essere attaccata alle pareti e ricoprirle, proprio come un quadro. Sotto l'articolo vi era l'immagine di numerosissime persone che la guardavano rapiti. E' stato come un lampo, improvviso e inquietante. Sì, perchè quella foto sembrava la concretizzaione di ciò che succedeva nel libro. Ho pensato "Se solo le persone leggessero Fahrenheit 451...".

Questo libro va letto, perchè non è un semplice romanzo, anzi. Fahrenheit 451 è l'affresco più crudo della società attuale, scritto da un genio che ha saputo indagare la società, prevedendola e raccontandocela spietatamente. Vero, il libro inizia lento (ma molto meno di tanti altri), appare surreale, onirico, incredibile. Si pensa "che catastrofista, che esagerazione, non sarà mai realtà". Questo perchè tutti siamo portati a nascondere i difetti dell'umanità, a giustificarli per non sentirci colpevoli. Ma chiudendo gli occhi saremmo irresponsabili, ed è proprio ciò che sta accadendo. Proseguendo con la lettura, infatti, ci si sente disarmati, impotenti, paralizzati dalla triste certezza che la storia del romanzo è già realtà. Fa male continuare, ma è necessario, imprescindibile. Man mano che si procede, il surreale diviene realtà, per poi divenire un' inquietante denuncia. Perchè se scompaiono i libri, scompaiono le basi della nostra società. Diventiamo schiavi, burattini interessati soltanto alla "Famiglia" (estrema degradazione di una delle reltà più solide della nostra società) e privi di qualsiasi capacità di critica. Resta però la speranza, senza la quale non si può né sopravvivere, né cambiare. Bisogna andare avanti verso nuovi orizzonti e non farsi cogliere dalla disperazione. Perchè in fondo l'uomo è consapevole dei suoi errori, e con la volontà li può correggere. Siamo solidali, sempre pronti a ripartire, ma l'obiettivo non DEVE essere ricostruire la società (e la cultura), bensì svilupparla ed accrescerla.
Fahrenheit 451, che temperatura inquietante, la temperatura a cui brucia la carta. Non vorrei mai più osservare, la forza di questi 451°F. Per fortuna l'uomo è capace di porsi domande (è proprio per la domanda "E' vero che in un lontano passato, i pompieri non accendevano il fuoco, ma lo spegnevano?" che Montang inizia ad indigare e leggere nonché dubitare): saranno le domande a salvare la nostra società, non le risposte, perché queste sono pura ingordigia. Faherenheith 451 è il mio primo romanzo distopico, ma certamente non sarà l'ultimo.

(Non mi sono dilungato sulla trama, ma quale importanza hanno la fabula e l'intreccio, quando si parla di un romanzo che trova nei fatti un pretesto per denunciare il progresso imperante e la degradazione morale-culturale?)

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    07 Dicembre, 2011
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L'esagerazione di Verga

"Non è la nausea, la stanchezza, la sazietà ciò che qui produce la catastrofe: è la pienezza, è la forza che non può esercitarsi sul di fuori, e si scioglie, si disorganizza da se stessa con cieco furore". (Luigi Capuana)

Leggendo "Storia di una capinera" non si trova quel Verga esponente del Verismo, bensì ci si imbatte in un opera di palese ispirazione romantica, in cui però si evidenziano gli elementi che caratterizzeranno l'autore siciliano nei suoi romanzi e racconti futuri. La compassione per i deboli, ma nello stesso tempo la triste certezza di una situazione immutabile nel suo pessimismo, caratterizzano il bereve romanzo epistolare in cui la storia si snoda tra pagine intense e profonde. Pagine dominate dall'esagerazione, da un eccesso drammatico dal quale stracolma una disperazione sempre più accentuata; un climax doloroso, che trasforma l'amena situazione iniziale, in un disperato parossismo conclusivo. Storia di una capinera è la storia di Maria, un'educanda che, dopo essere uscita dal convento per sfuggire al colera, conosce le felicità della vita. Ma è una fuga apparente, coercizzata dalla mentalità arcaica di una classe sociale ancorata al passato. Maria è costretta a tornare in convento e si strugge d'amore consumandosi in maniera direttamente proporzionale all'aumentare del suo ardore. Ed ecco che Verga capovolge e disgrega la situazione iniziale, costruita, a ben vedere, su un'originaria negazione della vita e di conseguenza destinata all'esclusione. Il romazo coinvolge, attira nel suo vortice di eccesso e tragico, spinge il lettore ad identificarsi con la protagonista, a riconoscere un'enfasi che non può essere ricondotta a mera fantasia dell'autore. Pertanto ( e inevitabilmente) si è spinti a scorgere tra le righe un'esperienza autobiografica, capace di intrappolare ed ispirare lo stesso Verga. Il romanzo è la testimonianza di un amore cieco e di un furore interno che come dice Capuana "si disorganizza in se stesso", la prova di come una limitazione sconvolga l'animo e spinga gli uomini alla follia. Nello stesso tempo però Verga ci dimostra come spesso non siamo in grado si ribellarci ed abbattere le consuetudini. Certo, qui,tale situazione, è portata all'estremo, alla teatralità, ad una poetica dell'ecceso tipicamente romantica. Ma questo delirio non è raccontato per il puro piacere di esagerare. No, è un delirio che s'identifica in un pessimismo iperbolico.
Consigliato.

"Oh! Marianna! come questa parola [Dio] mi atterrisce!deliro, tu lo vedi... sono fuori di me... non so che cosa abbia... sarà la febbre... saranno i nervi... sarò matta..." (Giovanni Verga, "Storia di una capinera", dalla lettera del 5 Luglio)

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Romanzi storici
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Ottobre, 2011
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Meglio (non) sapere

"Quando le due bambine scesero dal treno e si trovarono di fronte la madre, fu come se la vedessero per la prima volta. Per qualche attimo la madre e le figlie rimasero a guardarsi in silenzio. E si scoprirono estranee e lontane.Lei le aveva aspettate consumando il marciapiede del binario con rapidi passi nervosi, rabbrividendo nel mattino di dicembre che inondava la stazione Termini con il chiarore tagliente del vetro.[...] Allungò la mano per una carezza, ma restò come bloccata a mezz’aria quando vide le bambine stringersi ancora di più a miss Lauer. Allora provò una fitta di dolore nel petto, ma si sforzò lo stesso di sorridere.... "

Definire Meglio non sapere come un libro, è diminutivo, se non coercizzativo. Infatti questo reportage narrativo è una testimonianza cruda, forte e a tratti terribile di un evento che , se pur orribile, assume qui i tratti dell'abominaevole. Meglio non sapere è la stroia VERA di due bambine e della loro famiglia, rinchiusi in uno dei tanti campi di concentramentoe costretti a subire sopprusi e ad essere utilizzati come cavie. Ho avuto la fortuna di incontrare di persona le protagoniste di questo libro e mi hanno colpito. Perchè nonostante quello che hanno subito sono state in grado di costruirsi una vita propria, perchè hanno trovato il coraggio di raccontare e di trovare un pizzico di compassione anche nei loro deportatori, perchè nonostante fossero piccole non hanno mai perso la propria dignità. Infatti i campi di sterminio avevano lo scopo di snaturare la stessa natura umana, convincere i deportati di non essere più uomini. Ma nel libro non c'è soltanto la loro lotta per la sopravvivenza, bensì appare il percorso che hanno fatto dopo essere sopravvissute per ritornare alla normalità. Ed ecco che ci appaiono scene dalla macabra aberranza: bambini che si contendono un semplice cucchiaino (considerato da loro come un mezzo per la sopravvivenza), Andra e Tatiana Bucci che rinnegano la propria famiglia e ragazzi uccisi per non lasciare traccia. Rabbia. Questo è il sentimento che si prova nel leggere il libro: profonda rabbia. Ci si trova a dover leggere di uomini abominevoli che negano le loro atrocità, che giustificano i loro esperimenti in nome di una perversa teratologia. Andra e Tatiana Bucci hanno dovuto subire tutto ciò, ma il loro rimpianto più grande è quello di non aver riconosciuto la propria madre, di non averla abbracciata e ringraziata per non aver permesso loro di dimenticare i propri nomi. Meglio non sapere non si limita al racconto dei campi di sterminio, ma indaga il difficile processo di trasformazione dei sopravvissuti. E in quetso magma storico di eventi e peccati atroci, Sergio resta il simbolo più indelebile di avvenimenti che hanno scosso tutte le coscienze umane e che hanno rivelato la stolta mentalità dell'uomo. Ma ciò che mi rimarrà sempre impresso delle due sorelle, è Andra che piange quando racconta della nascita di suo figlio perchè mai come in quella occasione la vita aveva vinto la morte dei campi di sterminio. Un libro da leggere, che fa riflettere e suscitare emozioni. Un libro che racconta qualcosa che è MEGLIO SAPERE o meglio, non dimenticare. Non è un testo piacevole da leggere (per ovvi motivi), ma imprescindibile.

Assolutamente da leggere (anche se di non facile reperibilità, almeno nella mia città)

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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    14 Settembre, 2011
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La biblioteca dei morti

Il principale motivo che mi ha spinto a comprare il libro è stata la trama, che colpisce ed intriga il Lettore. Geniale l'idea di fondo, una biblioteca dove c'è scritta la data di morte (ma anche di nascita) di tutti quelli nati dopo l'800'. Il libro inizia con un'ambientazione contemporanea in cui viene presentata una caccia (abbastanza noiosa) ad un misterioso serial killer. L'autore inizia a spostare costantemente la scena, tra città americane differenti, periodi storici diversi, che a mio parere smorzano l'interesse del Lettore il quale viene confuso e lasciato indifferente. Si arriva poi alle parti medievali, ambientate in un'abbazia in costruzione, e la descrizione e l'ambientazione attraggono e nello stesso tempo iniziano a suscitare curiosità (il figlio numero 7, di un numero 7, nato il 7/7/dell'anno.....). La storia inizia (veramente) e sembra scorrere più velocemente e si aspetta quel decollo che invece si dimostra quasi interminabile.....finché dopo pagina 250 il ritmo accelera in maniera direttamente proporzionale alla suspense (nonostante qualche colpo di scena sia stato prevedile...l'individuazione del presunto killer), obbliga il Lettore a continuare e lo trascina alla conoscenza di una società segreta all'interno di Vectis, che non è propriamente religiosa. Sorvolando i prevedibili sviluppi tra i responsabili del caso, si arriva ad un governo che uccide per far tacere, ad una caccia tra le vie di Los Angeles, ad espulsioni di materia celebrale e a presunti OLO. In un vortice in cui buoni e cattivi sembrano scambiarsi di ruolo, il Lettore assiste a scene medievale terribili e drammatiche in cui la religione acceca e condanna delle persone ad un unico scopo, al loro scopo...... . Interessante il finale, ingegnosa la storia delle cartoline (sarà il caso di aprire la posta?), geniale il vero segreto dell'aria 51 la base che forse non esiste (o forse sì?). Comunque, male che vada vivrò altri 16 anni (anche se spero che siano molti di più). Insomma, dopo un inizio che lascia molto a desiderare e che smorza l'entusiasmo del lettore, il romanzo si riprende, fornisce spiegazioni paradossali, ma che comunque crediamo possibili. La vera sfida però è superare il noioso baluardo della prima parte del libro, che sinceramente è prevedibile e scontato. Il libro no è nulla di eccezionale, ma pur sempre leggibile.

PS: Attenti alle penne d'oca ............ferisce più la penna che la spada.

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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    11 Settembre, 2011
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Il nome della rosa

La principale difficoltà che trovo nel recensire un libro di Eco la paura di non riuscire a descrivere appieno ciò che penso del libro, forse per mia incompetenza o forse perché i suoi libri sono infinitamente libri. Aprendo il romanzo ho visto quei caratteri minuscoli, ma ho comunque deciso di leggerlo. Da quel giorno non ho potuto far altro che ammirare Eco. Il nome della rosa è uno dei primi romanzi che ho letto e mi ha fatto innamorare alla lettura. Il libro è ricchissimo, colmo di espressioni in latino che si adattano magnificamente al contesto. I due protagonisti dovranno risolvere una serie di omicidi apparentemente inesplicabili che avvengono all'interno di un monastero. Mentre tutti pensano che sia opera del diavolo, la mente analitica (simile a quella di Sherlock Holmes) di Guglielmo da Baskerville indaga sulla vita nel monastero. Tra trasgressioni dei voti religiosi, elementi taciuti, e uno smisurato amore per la cultura, inizia una caccia al misterioso assassino che per uccidere utilizza un misterioso strumento. Non è il solito Thriller, nemmeno un giallo e neanche un mero libro esoterico; il nome della rosa è un genere a parte, che spazia in molti campi della letteratura. Il libro porta il marchio di fabbrica di Eco: l'ironia e l'erudizione. Ammetto che le prime 80 pagine sono pesanti poiché l'autore si diletta nello sfoggiare le sue grandi conoscenze nel campo medievale, ma più in generale la sua cultura. D'altronde non si può biasimare una persona per il fatto che sfoggia ciò che sa. Superata questa prima parte il libro coinvolge, impedisce il distacco critico a conduce all'individuazione dell'assassino (difficilmente individuabile). Nell'abbazia si cela infatti un oggetto unico, per il quale si è disposti perfino ad uccidere. Nel libro di Eco non manca nulla: mai banale né scontato, erudito, ma coinvolgente. Un eccezionale investigatore e il suo volubile aiutante, un'ambientazione realistica e splendidamente descritta. Sullo sfondo delle persecuzioni da parte della Chiesa contro gli "infedeli" e della degradazione spirituale della religiosità, Eco mette in scena (a mio parere) un vero e proprio capolavoro. Leggetelo, centellinatelo, una volta finito vi mancherà profondamente e sentirete il bisogno di rileggerlo per cogliere ogni dettaglio. Se volete un consiglio, durante la lettura, tenete a portata di mano un dizionario (meglio due, uno di latino e l'altro di italiano) per l'enorme ricchezza lessicale del romanzo. Di ambientazione gotica, quasi noir, il nome della rosa vi coinvolgerà in una spirale di degradazione, occulti misteri e abuso di poteri religiosi. Rimarrete stupiti del movente e soprattutto, dell'assassino. Chi di voi non vorrebbe essere in quella biblioteca o nel FINIS.....? Consigliatissimo. (Leggetelo perché come in ogni recensione di Eco, ciò che viene detto è riduttivo)

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A tutti coloro che hanno la pazienza di leggere un libro abbastanza pesante.
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    11 Settembre, 2011
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Il ritratto di Dorian Gray: capolavoro

Il ritratto di Dorian Gray è senza alcuna ombra di dubbio un capolavoro scritto nello stile raffinato, ma nello stesso tempo beffardo di Oscar Wilde. Una mente oscura quella di Dorian, che anela all'immortalità e per questo vende se stesso. Vive nella dissoluzione e nel peccato (dalla lussuria all'omicidio) spinto dall'egoismo e da cattive compagnie. Così il perfetto Dorian dell'inizio romanzo si trasforma in un essere che fugge da se stesso per non vedere la più spietata denuncia di lui stesso: la sua anima. Geniale l'idea dell'autore di utilizzare un dipinto come specchio del proprio "io" interiore, dei gesti che compiamo e che apparentemente non lasciano segni sul corpo, ma al contrario incido profonde cicatrici nella nostra anima. L'autore descrive efficacemente il protagonista attraverso le sue azioni e grazie al continuo confronto tra l'aspetto esteriore e la degradazione dell'anima. Fino a che Dorian capisce di non poter più sfuggire ed affronta la prova più grande: vedere il VERO io, ma la sua mente non riesce a sostenere la sua anima e il protagonista affronterà drammaticamente il suo castigo. Wilde scrive un libro profondo, di indiscutibile bellezza. Ho apprezzato molto la sua critica alla società borghese, una critica quasi spietata, ma nello stesso tempo sublime. Splendidi, inoltre, i riferimenti letterari del libro e i bellissimi aforismi, intensi e talvolta ironici. La visione della società che traspare dal libro, è cinica ma nello stesso tempo ironica (anche se , a mio avviso eccessivamente dura). Unico difetto, forse, alcune parti del libro abbastanza pesanti che descrivono minuziosamente oggetti, fino all'esasperazione. Escludendo queste parti, che comunque forniscono uno splendido ritratto della società vittoriana, il libro è abbastanza scorrevole, con frasi da ricordare, purché siate disposti a sentirvi dire che siete un po' cinici. Il ritratto di Dorian Gray è un romanzo unico, spietato, sublime e beffardo scritto con la splendida grammatica dei raffinati pensieri di Oscar Wilde. Consigliatissimo anche se un po' pesante..

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A tutti, soprattutto a chi ama i classici
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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    11 Settembre, 2011
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Il simbolo perduto

NOIOSO
"Il codice da Vinci", "Angeli e demoni", "Il simbolo perduto", l'unica differenza è il titolo. Simboli da decifrare tra sacro e profano, oggetti misteriosi e come ciliegina sulla torta: rituali massonici. Stile uguale, stessi personaggi, scarso spessore. La storia intriga attraverso il solito sistema di sospensione, ma questa volta il libro è inverosimile. A tratti prolisso, Il simbolo perduto non convince, delude. Ci sono molti altri libri che trattano questi argomenti in maniera migliore, o quantomeno verosimile. Il finale è come al solito deludente, distrugge quel poco di trama che l'autore aveva creato. I libri non sono più fantasiosi e risultano ripetitivi.
Sconsigliato.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    11 Settembre, 2011
Top 50 Opinionisti  -  

Angeli e demoni

Sinceramente ho preferito "Il codice da Vinci" soprattutto per il fatto che questo libro è pesante e meno scorrevole del precedente. Inoltre lo stile dell'autore è monotono, uguale in ogni suo romanzo, il personaggio principale non si evolve e non conosciamo nulla di nuovo su di lui. Tutti i capitoli si concludono con una frase lasciata in sospesa e che inevitabilmente costringe a continuare. I contenuti non cambiano, società segrete, antimateria e un misterioso attentato ai danni del Vaticano. Forse non mi ha convinto perché troppo simile al precedente. Da apprezzare la fantasia dell'autore e la ricostruzione di Roma (se pur incompleta). La storia inizia in maniera intrigante, ma poi la trama comincia a cedere fino ad un finale altamente improbabile, persino per un thriller, che dovrebbe essere, almeno verosimile. Segreti occulti, cospirazioni e tradimenti, i soliti argomenti che attirano le masse. La narrazione coinvolge, ma meno de Il codice da Vinci..... Angeli e Demoni è stato una sorpresa negativa: mi aspettavo qualcosa di diverso dal precedente (o meglio successivo) invece è monotono a causa dello stile che non cambia minimamente. Consigliato soltanto a chi ha letto altri libri di Dan Brown.... non vi aspettate nulla di più dei precedenti.

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Il codice da Vinci
Il simbolo perduto
La verità di ghiaccio
Crypto
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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    11 Settembre, 2011
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Capolavoro o robaccia?

-"Dan Brown è uno dei personaggi del mio romanzo Il pendolo di Foucault, in cui si parla di gente che incomincia a credere nel ciarpame occultista.
-(intervistatore) Ma sembra che lei stesso sia interessato alla cabala, all'alchimia e ad altre pratiche occulte di cui parla nel suo libro.
-No, nel pendolo di Foucault ho rappresentato quel tipo di persone in maniera grottesca. Ecco perché Dan Brown è una delle mie creature."
(Intervista ad Umberto Eco)

Condivido pienamente questa opinione. Dan Brown ha trovato e proposto nel suo romanzo degli argomenti occulti che attirano inevitabilmente il Lettore e che lo spingono a leggere i suoi libri. Sebbene non apprezzo molto il suo stile, devo ammettere che il romanzo mi ha coinvolto ed è stato di piacevole lettura. Grazie a delle frasi lasciate in sospeso alla fine di ogni capitolo, l'autore attira chiunque si appresti a leggere le pagine, inibendo la sua capacità di critica. Ma finito il romanzo e riflettendo su ciò che si è appena letto è palese che tutta la storia è un "ciarpame occultista". Si mescolano arte, storia, società segrete e gruppi religiosi mentre si fanno allusioni al limite del blasfemo. Certo, non bisogna credere a ciò che ci dice il libro, ma tutti si saranno chiesti: è vero ciò che dice?. No. Il codice da Vinci è un romanzo che ha il chiaro scopo di vendere e ci è riuscito benissimo. Devo ammettere che come libro non mi è dispiaciuto anche se ho disprezzato le idee dell'autore sull'arte. Quello che il libro ci dice non va preso per oro colato, bensì va considerato come un espediente che ha la mera funzione di attirare compratori. Messo in chiaro questo punto, va notato che i contenuti del libro sono scarsi (priorato di Sion, Maddalena, Gesù) e anche la trama, inizialmente intrigante, subisce un cedimento a circa metà della storia creando una conclusione prevedibile e scontata. Il codice da Vinci ha però la capacità unica di far credere al Lettore che ciò che vi si dice sia vero e anch'io prima di riuscire a considerare il libro per quello che è (un prodotto di marketing e non un romanzo storico), ho dovuto faticare. Se si riesce a considerare il libro come un testo di fantasia, allora può essere una lettura abbastanza piacevole.....ma certo, il libro NON è affatto un capolavoro.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    11 Settembre, 2011
Top 50 Opinionisti  -  

Tutto può essere perdonato......

Leggere Il cacciatore di aquiloni è come viaggiare in una storia di segreti, tradimenti, guerre, amori, colpe e responsabilità su cui aleggia costantemente un velo di disperazione; è la storia di due ragazzi, legati fino alla morte da un legame taciuto, ma divisi dalla loro condizione..... uniti solo nel gioco degli aquiloni. L'autore ci parla di amicizia, un'amicizia che sembrava indissolubile, ma che alla fine si spezza a causa della viltà e della gelosia, l'amicizia tra Hamir ed Hassan. E dopo la loro divisione, la vita per Amir sembrava continuare: una moglie, il matrimonio, il desiderio di avere bambini, ma il passato non si può cancellare. Perché è proprio quando tutto sembra perfetto che esso riemerge ed è pronto ad afferrarti con i suoi artigli e trascinarti in un mondo che si era cercato di dimenticare. Così Amir dovrà fare i conti con il suo passato, espiare la sua terribile colpa ed affrontare le sue responsabilità. Il tutto sullo sfondo a tinte forti, di un' Afganistan distrutto, martoriato dalla guerra, in cui ci si abbandona alla disperazione e dove, purtroppo, non c'è più spazio per giocare agli aquiloni. Un cammino di redenzione che porterà Amir a correre di nuovo, ad imparare la semplicità di una vita non corrotta e a far volare di nuovo in alto un aquilone. Una storia toccante, che non può lasciare indifferenti, che è come un pugno in pieno stomaco. Questo, è un romanzo crudo, forte, che non lascia scampo al Lettore, lo trascina alla conoscenza di un dramma che noi, non abbiamo mai conosciuto fino in fondo. Il cacciatore d'aquiloni è un romanzo di vita, la testimonianza triste, ma nello stesso tempo vivace di eventi terribili da cui stracolma disperazione. Un libro che dovrebbe far riflettere, una pagina della Storia che non si può e non si deve dimenticare, un testo che rapisce e scuote l'anima con la forza delle parole, semplici, ma efficaci. L'autore traccia un ritratto indimenticabile del suo paese e conduce il Lettore in un viaggio nostalgico, nel quale si contrappongono disperazione e vivacità; Khaled Hosseini indaga i rapporti umani, la loro fragilità e mutabilità, nella speranza del perdono che non può mai essere negato. Nonostante abbia letto il libro qualche mese fa, ogni volta che ripenso ad un labbro leporino, ho un tuffo al cuore. Consigliatissimo.

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A tutti quelli che amano i valori e vogliono capire un paese che pur essendo su tutti i giornali, non si conosce veramente: l'Afganistan.
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Romanzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Settembre, 2011
Top 50 Opinionisti  -  

La paura di ciò che non si conosce

Maturo romanzo sul tema del razzismo, Il buio oltre la siepe è un esempio lampante di come l'uomo (bianco) sia disposto a sopprimere i propri valori quando è costretto a convivere con il diverso. La vicenda prende vita in un piccolo paese americano, dove le strade sono intrise di odio razziale e si giudicano le apparenze. Ma mentre i neri vengono ghettizzati e scarsamente considerati, un uomo, padre della protagonista, si stacca dalla massa informe e senza morale dei razzisti e difende con coraggio un nero accusato ingiustamente. La sua indagine porterà alla luce un oscuro piano, architettato per colpire la fascia più debole (i neri, appunto) considerati come naturale capro espiratorio. E anche quando l'avvocato Finch riuscirà a provarne l'innocenza, sarà ugualmente condannato, dalla cieca ottusità dei cittadini. La giustizia viene vinta dall'odio il quale sfocia in una rabbia incontrollabile che porterà ad un drammatico epilogo in cui, però, rimane la speranza che qualcosa possa cambiare. Un romanzo che vuole lanciare un messaggio contro la discriminazione, una storia avvincente che coinvolge ed intriga fino all'ultima pagina. Uno stile chiaro ed essenziale, che vuole colpire il Lettore e spingerlo a riflettere sulla PAURA DEL DIVERSO. Il razzismo non è ancora scomparso, anzi, pervade ancora ogni ambito della vita comune e si nasconde nell'ipocrisia di persone che crediamo di conoscere e che invece sono bigotte e ignoranti. Perché la vera causa del razzismo è la non-conoscenza, la paura di ciò che è diverso. Nel corso della storia si è sempre discriminato: per le malattie (dalla peste, all'odierno HIV), per la propria sessualità e purtroppo, anche per il colore della pelle. Il buio oltre la siepe, non è un semplice romanzo, bensì è il messaggio di una donna che ha cercato di contribuire attivamente a debellare il razzismo. Questo libro è uno dei mezzi più efficaci che conosco per arginare la discriminazione, dovrebbe essere fatto leggere tutti, se necessario anche imposto, al fine di non dover mai più assistere a veri e propri genocidi. Consigliatissimo

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A tutti senza discriminazioni.
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Settembre, 2011
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La storia infinita

Sono stato costretto a leggere questo libro poiché dovevo farci una recensione, ma siccome amo il genere Fantasy non è stato un grande problema. Devo ammettere però che ho apprezzato più altre storie fantastiche soprattutto per una questione di stile. Infatti la prima metà del libro (fino alla parte del deserto colorato) non mi ha pienamente coinvolto per l'eccessiva sintesi con cui l'autore racconta i fatti. Bastiano ispira intanto le simpatie del Lettore che come lui legge la storia infinita. Si assiste alle avventure del drago della fortuna e di Atreiu alla ricerca di una cura per l'Infanta Imperatrice. S'incontrano così creature immaginarie più o meno conosciute, marchio di fabbrica del genere fantasy. Si susseguono le avventure dei due protagonisti finché Bastiano entra nella storia e ed crea la foresta e il deserto. Protetto e assecondato da AURYN Bastiano si sente più forte che mai, quasi invincibile, ed inizia ad abusare del suo potere finché i suoi veri amici non cercheranno di farlo ragionare scaturendo....... . La seconda metà del libro coinvolge e fa apparire Bastiano anche nei suoi lati negativi, che trasformano l'iniziale simpatia, in pura antipatia.Va apprezzata questa descrizione a tutto tondo del personaggio principale e assistendo al suo percorso di redenzione (se così si può chiamare) il Lettore è trascinato alla fine della storia che risulta piacevole, chiara, scorrevole e ben strutturata. La vera natura di Fantàsia era prevedibile (poiché se pur in altri termini è presente in altri Fantasy), ma la sua individuazione prematura non compromette il piacere della lettura. Bastiano vi trascinerà in un percorso di alti e bassi, in un difficile cammino per ritornare a casa, alla ricerca del'ultimo desiderio, aiutato dall'invincibile e indissolubile forza dell'amicizia. La storia infinita è apparentemente un libro per bambini, scritto in modo semplice e lineare, ma qualche volta anche agli adulti farebbe bene tornare ragazzi per sfuggire, se pur per poco, alle difficoltà della vita matura. Consigliato

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A chi ama il genere fantasy, ma più in generale a chi vuole leggere un buon libro.
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Settembre, 2011
Top 50 Opinionisti  -  

La solitudine dei numeri primi

Su questo libro sono già state spese molte parole, ha diviso, colpito, deluso, ma anche, come nel mio caso, lasciato indifferente. Attratto dall'enorme successo e dai commenti entusiasti e dopo aver vinto un'iniziale diffidenza, ho iniziato a leggerlo. Ammetto che è scorrevole e si procede bene....fin troppo. Si resta in bilico e si percorre una strada fin troppo dritta, che non ha mai una svolta. Si legge e si continua a leggere, ma non c'è mai un fatto eclatante, un colpo di scena che dia quella marcia in più al romanzo. I due protagonisti vivono in modo tormentano, vinti da un fatto traumatico nell'infanzia. L'autore quasi li tortura, gli impedisce di trovare la felicità bloccati da un muro invisibile che li terrà costantemente separati. Mi sembra un libro cattivo nei confronti dei personaggi,una storia che indaga negli angoli più oscuri della psicologia umana. Questo è un libro triste, circondato dal'impossibilità di superare le difficoltà......una narrazione quasi deprimente. Ma la storia non decolla si limita ad avventarsi contro i suoi protagonisti e quella che poteva essere un'idea originale si trasforma nel banale e lascia indifferenti (o meglio ti trasmette tristezza e quasi pietà). Si prova un senso di frustrazione, quasi di pietà, ma non si sente quell'impulso che talvolta spinge a chiudere il libro.. Perché alla fine siamo tutti curiosi di sapere il destino degli altri e vogliamo conoscere le "sventure" altrui. In un vortice di tristezza, frustrazione e quasi depressione, i protagonisti viaggiano inevitabilmente su due linee parallele. Il libro non colpisce né negativamente, né positivamente, lascia semplicemente indifferenti. Non apprezzo lo stile dell'autore, ma sono certo che una storia del genere possa vendere e colpire i lettori, ma come spesso accade...a mio avviso...tanto clamore per nulla (o quasi nulla)...perché in fin dei conti, se ci pensiamo bene, il bello dei libri è questo:ognuno di essi, anche il meno apprezzabile, lascia qualcosa, qualcosa di irremovibile ed indissolubile: un frammento di vita.

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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Settembre, 2011
Top 50 Opinionisti  -  

Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve

Attratto dall' originalità della trama e dal titolo, ho deciso di comprare il libro. All'inizio la storia appare divertente, irriverente e alquanto rocambolesca (se non quasi inverosimile)e si inizia ad apprezzare il protagonista, Allan. Karlsson è l'unico personaggio descritto a tutto tondo e di lui conosciamo la psicologia, l'odio per la politica, la leggerezza con cui considera ed affronta molti eventi storici....per non parlare dei numerosi personaggi storici che incontra . Tra le sue caratteristiche spicca l'innato amore per l'acquavite attraverso la quale lui ritiene di poter risolvere tutti i problemi. Purtroppo però, quello che sembrava un'inizio promettente (prime 100-150 pagine) si trasforma in un'immorale ironia, a tratti perfino macabra. Si assiste a due omicidi che i protagonisti non considerano se non superficialmente("erano criminali"). Si ride così di persone schiacciate da un elefante o congelate in una cella frigorifera a causa degli effetti dell'eccessiva acquavite introdotta nel corpo. In questo frangente si alternano nella storia avvenimenti relativi al filone principale (la valigia e il suo furto) e continui flashback spesso prolisso o eccessivamente lunghi che sviano l'attenzione del lettore poiché se pur la vita di Allan è variegata alla fine lo stile dello scrittore risulta pesante e monotono. Tra digressioni storiche eccessive, idee immorali, verità e bugie indistinguibile l'autore ci conduce in un universo di curiosi personaggi, con scarso spessore, che accompagnano Allan nelle sue avventure. Ciò che mi ha lasciato interdetto è la leggerezza con cui agisce il personaggio principale che compie azioni per ottenere alcool e rivela come se niente fosse segreti militari fondamentali(Sebbene la storia debba essere ironica, il comportamento di Allan è eccessivo e a tratti biasimabile). Si passa da un servizio segreto all'altro e alla fine la storia principale, che era la più interessante, passa in secondo piano. La narrazione si riprende alla fine, molto più scorrevole e divertente (soprattutto la parte della finta confessione al GIP). Una storia leggera e senza troppe pretese, eccessivamente lunga, ma nel complesso leggibile. Forse strapperà qualche sorriso, ma nulla di più.
Leggetelo se volete divertirvi e abbandonarvi ad una storia non impegnativa.

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Narrativa per ragazzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Settembre, 2011
Top 50 Opinionisti  -  

Le cronache di Narnia

Lewis non ha nulla da invidiare al suo collega Tolkien. Di piacevole lettura, Le cronache di Narnia sono scritte in maniere semplice e chiara ed appare evidente che il libro è destinato principalmente ai bambini. Il Lettore viene immerso in un mondo fantastico popolato da creature bizzarre e costantemente diviso tra Bene e Male. I protagonisti dovranno salvare questo mondo incantato facendo affidamento sulla loro forza di volontà e sull'aiuto reciproco. Tutto il romanzo si basa su un'allegoria religiosa che risulterà palesemente evidente nell'ultimo capitolo della saga. Tra avventure incredibile, frustrazioni giovanili,ma anche ingenuità, i protagonisti scopriranno se stessi e la vera natura di Narnia, ma alcuni avranno smesso di credere e per loro non ci sarà redenzione. Le cronache di Narnia trascinano il Lettore in questo fantastico mondo descritto in modo essenziale, ma nello stesso tempo con grande efficacia. Sebbene lo spessore dei protagonisti non sia degno di nota, Lewis ci fornisce un'interpretazione surreale della religione, mantenendo però i valori cristiani. Leggete le cronache di Narnia e scoprirete come una storia apparentemente fantastica, nasconda un significato ben più profondo, che alla fine risulta indistinguibile dalla realtà.
Consigliato

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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    10 Settembre, 2011
Top 50 Opinionisti  -  

Secondo capitolo delle indagini di ERIKA FALCK ?

Fiducioso in un miglioramento della scrittrice dopo "La principessa di ghiaccio", mi sono addentrato nella lettura de "Il predicatore". Ne sono rimasto deluso. Le prime 200 pagine sono indigeste, noiose, senza colpi di scena o suspense. L'autrice dissemina indizi che rivelano chiaramente il colpevole, ma poi cerca di depistare il Lettore con prove fasulle, talvolta al limite dell'impossibile, e vicende familiari intrise di disprezzo reciproco e rapporti interrotti. Intanto Erika è incinta e preoccupata per la sconsideratezza della sorella (che sembra non aver imparato dai suoi errori). Ma in questo libro il suo personaggio è come marginale, non interviene nel caso, non indaga, ma invece litiga con i familiari. E tra avvenimenti alquanto prolissi, si giunge nella parte finale del libro che si legge più velocemente, e si arriva all'identificazione dell'assassino e al chiarimento del suo oscuro movente, il quale, se pur relativo ad una mente malata come quella del colpevole, sembra quasi inverosimile. Per essere un'indagine di Erika Falck la protagonista appare molto poco, e i personaggi approfonditi (i poliziotti della stazione) non colpiscono, bensì lasciano indifferenti. Patrik lavora con il suo solito zelo, ma per reggere il peso di un intero romanzo è un personaggio, a mio parere, troppo scontato. (Vanno apprezzate le parti in cui una delle donne uccise dall'assassino, descrive la sua prigionia). Non lo consiglio né a chi vuole leggere la Lackberg per la prima volta, né a chi vuole leggere il secondo capitolo delle indagini di Erika Falck (?). Il 14 settembre uscirà il terzo libro della scrittrice: "Lo scalpellino", ma non so se lo comprerò (o perlomeno se riuscirò a terminarlo).

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Gialli, Thriller, Horror
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    09 Settembre, 2011
Top 50 Opinionisti  -  

La principessa di ghiaccio

Ho comprato "La principessa di ghiaccio" poiché sulla copertina vi era scritto:"La nuova Agatha Christie della Svezia". Sinceramente, dopo aver iniziato a leggerlo, l' ho trovato un commento esagerato. La scrittrice ambienta la storia in un piccolo paesino svedese, dove ciò che conta sono le apparenze e l'aspetto superficiale delle persone. Il classico pesino dove tutti sanno di tutti. Da apprezzare la descrizione della psicologia degli abitanti e la caratterizzazione del contesto che incide profondamente sul modo di fare dei personaggi. La presunta protagonista, Erika Falck, entra in scena ed indaga sulla sua amica d'infanzia. Qui il romanzo assume caratteristiche noir, distanti dal genere thriller, ma quando la narrazione iniziava a coinvolgermi, è entrato in scene Patrik, che a mio avviso ha soppiantato colei che doveva essere il fulcro del romanzo. A questo punto si assiste ad un incessante alternarsi di indagini, l'una portata avanti da Erika, l'altra dal suo futuro fidanzato. Subito il caso appare più intricato del previsto: i cittadini non collaborano pienamente per difendere la propria reputazione e sfuggire agli incessanti pregiudizi su cui si fonda la vita sociale. E così i poveri vengono oppressi e denigrati, se non quasi umiliati, dai ricchi che abusano del loro potere. Inizia per Erika un doppio percorso: uno la riporterà indietro nel tempo, per conoscere meglio se stesso e l'amica Alexandra, l'altro la condurrà nella mente umana, nel tentativo di individuare il motivo che spinga un essere umano a compiere l'atto più estremo e il più orribile dei peccati: macchiarsi con il sangue di un suo simile. Patrik ed Erika cercano di destreggiarsi in questo intricato puzzle da scomporre e ricomporre per raggiungere il colpevole e punirlo. In questo frangente iniziano per la (ormai) Co-protagonista, i problemi familiari che arricchiscono la trama, nonostante nel successivo capitolo delle indagini, il Predicatore, le vicende familiari diventano quasi un peso. Prevedibile il ruolo della sorella di Alexandra, mentre il colpo di scena finale, apparentemente eclatante, stupisce il lettore poiché nel corso del romanzo non vi è alcun indizio che lo possa aiutare (se non uno poche pagine prima dell'individuazione del colpevole). Insomma, un romanzo d'esordio che potrebbe promettere bene, ammirevole per la profonda indagine psicologica, ma biasimabile per il ruolo di Erika, ancora non ben delineato. "La principessa di ghiaccio" si basa su eventi agghiaccianti, occultamente celati, e pur nei suoi difetti è un romanzo leggibile, anche se non straordinario come i commenti volevano farci credere.

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Narrativa per ragazzi
 
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    08 Settembre, 2011
Top 50 Opinionisti  -  

Harry Potter e i doni della morte

Harry Potter è arrivato alla fine, allo scontro finale. Un inizio sorprendente, avvincente e promettente, Mai come in questo libro risaltano Harry, Ron e Hermoione costretti ad una convivenza forzata che porterà dissapori, ma anche profondi ed indissolubili legami. Si sente la mancanza di Hogwarts, di quella sicurezza che, se pur in quantità minore, era giunta sino al sesto capitolo. Harry è deciso e tenace, Ron titubante, ma poi deciso, Hermione è descritta magistralmente ed è profondamente apprezzabile. Splendidi i colpi di scena . Commovente, avvincente, ricco di suspense. Mai come in questo capitolo Harry è determinato a portare a termine il suo compito, non si tira indietro e...... . Da notare però come la seconda parte sia stata scritta frettolosamente; sintetica, fin troppo essenziale soprattutto negli ultimi due-tre capitoli. A tratti la storia è forzata, ma il pacere della lettura non viene compromesso. Ho ammirato i pensieri finali di Piton, anche se la parte "diciannove anni dopo" mi è sembrata insufficiente a concludere una saga come quella di Harry Potter ( a tal proposito consiglio di leggere alcune interviste della scrittrice in cui lei esprime ciò che è accaduto dopo Voldemort). Nulla però toglie la bellezza dell'ultimo capitolo e devo riconoscere che , forse, la mia opinione è stata compromessa dal dispiacere per la conclusione della saga. Nel complesso ho molto apprezzato la saga di Harry Potter, più di quella di Narnia. Mi sembra inutile consigliare un libro che tutti leggeranno per scoprire la conclusione della storia e leggete lentamente, perché alla fine dell'ultimo libro il dispiacere per la conclusione delle avventure di Harry è grande. Un finale entusiasmante, pur nei suoi piccoli difetti.
LEGGETELO!!!!!!!!

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A tutti quelli che amo Harry Potter.
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