Opinione scritta da Bruno Elpis
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Ci sembrava di aver inghiottito il vuoto cosmico
Gli assalti alle panetterie di Murakami Haruki: un titolo di manzoniana memoria per un racconto di due episodi illustrato da Igort.
Condizione (“In ogni caso avevamo fame. Anzi, per l’esattezza, ci sembrava di aver inghiottito il vuoto cosmico”), causa (“Quanto alla causa di questa situazione, molto probabile che fosse la nostra mancanza di fantasia”) e motivazione (“Non era la fame a spingerci a fare il male, no. Il male si trasformava in bisogno di cibo per istigarci a delinquere”) inducono un giovane e il suo amico a una prima esperienza grottesca nel panificio di un melomane.
A distanza di anni dal primo assalto compiuto in gioventù (“Il fatto che ci fosse un legame tra la fame e il senso di vertigine era una scoperta”) il protagonista confessa alla moglie il ricordo della parodia di un reato (“Se è davvero una maledizione, come dici tu, cosa dovrei fare? Assaltare di nuovo una panetteria”) e il ricordo porta la coppia, in una notte metafisica, a rapinare un McDonald’s. Il bottino? Trenta Big Mac!
Mah. Sono lontani i tempi e i modi della Letteratura con l’iniziale maiuscola…
“Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de' fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d'uno di que' malcapitati ragazzi dov'era un crocchio di gente, fu come il cadere d'un salterello acceso in una polveriera. - Ecco se c'è il pane! - gridarono cento voci insieme. - Sì, per i tiranni, che notano nell'abbondanza, e voglion far morir noi di fame, - dice uno; s'accosta al ragazzetto, avventa la mano all'orlo della gerla, dà una stratta, e dice: - lascia vedere -. Il ragazzetto diventa rosso, pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia, e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. - Giù quella gerla, - si grida intanto. Molte mani l'afferrano a un tempo: è in terra; si butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all'intorno. - Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi…”
Giudizio finale: bulimico, pretestuoso, commerciale come un hamburger di McDonald’s
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- sì
- no
Un ragazzo in odore di Asperger
Del dirsi addio di Marcello Fois ha un protagonista – il commissario Sergio Striggio – che domina la scena con i suoi drammi personali: ha rinnegato un temperamento artistico di critico d’arte, ha mantenuto un rapporto conflittuale con il padre Pietro, ha subito la straziante morte dell’adorata madre, si è legato a Leo, affascinante maestro elementare, ma non ha ancora affrontato il momento di proclamare quell’amore “particolare” a colleghi e familiari…
Con tanta carne a un fuoco che la neve di Bolzano non sopisce, la scomparsa del piccolo Michele (“Michele Ludovisi è un ragazzo particolare, uno in odore di Asperger…”) rimane in secondo piano per gran parte del romanzo, salvo vellicare la curiosità del lettore che punta un occhio alle vicende sentimental-professionali di Sergio, ma mantiene l’altra metà dello sguardo indirizzata su una vicenda che potrebbe essere un incidente, un allontanamento volontario (“Certi adulti non si meritano il compito che gli è stato assegnato e… qualche volta i bambini si nascondono da se stessi proprio per adeguarsi alle aspettative di chi dovrebbe educarli a esprimersi in libertà.” È il pensiero anche del commissario…), un omicidio, un rapimento (“Separazione in corso: o uno o l’altra fanno rapire il bambino”) o forse altro (“Delirio a due. Figlio difficile, madre esaurita e padre sfinito”).
E ancora, cosa ci faceva uno strano prete nella piazzola ove Michele sparisce?
Giudizio finale: Ang-Lee-iano, empedocleo (il romanzo è in quattro parti intitolate: Terra, Fuoco, Acqua, Aria), bolzanino.
Bruno Elpis
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Un sasso era un berio
Vincitore dello Strega giovani 2017 e nella cinquina finalista del medesimo premio con il maggior numero di preferenze, Le otto montagne di Paolo Cognetti è la storia dell’amicizia autentica tra Pietro – ragazzo milanese figlio di genitori che provengono da paesini di montagna – e Bruno, un montanaro di poche parole che esprime nella concretezza dei gesti e delle azioni una filosofia di vita spontanea e verace che riflette la cultura essenziale del luogo (“Come se alla lingua astratta dei libri, io dovessi sostituire la lingua concreta delle cose… Un sasso era un berio ed ero io, Pietro: ero molto affezionato a quel nome. Ogni torrente tagliava una valle e per questo si chiamava valey, e ogni valle possedeva due versanti dal carattere opposto: un adret bene esposto al sole, dove c’erano i paesi e i campi, e un enevrs umido e ombroso, lasciato al bosco e agli animali selvatici”).
Tra flussi e riflussi, partenze e ritorni, la vita di Pietro s’interseca con quella di Bruno e il punto di contatto esistenziale diviene la costruzione di una casupola-rifugio in una località aspra e selvaggia, un terreno impervio lasciato a Bruno in eredità dal padre. Un uomo enigmatico, che ha iniziato – con qualche forzatura - Bruno all’amore per la montagna (“Era sicuro che il mal di montagna mi sarebbe passato crescendo”), un padre la cui assenza il protagonista cerca di penetrare attraverso una ricerca che sani le incomprensioni e i silenzi di un rapporto lasciato in sospeso dalla morte improvvisa di Giovanni.
Quando Pietro intraprende viaggi in Nepal, la montagna si ripresenta sotto nuove, estreme forme che si stagliano su una cultura protesa verso la ricerca (“Fu un vecchio nepalese, tempo dopo, a raccontarmi delle otto montagne”). La virata new-age è in agguato, ma l’autore – con merito – la evita e anche in questo risiede l’originalità del romanzo.
Giudizio finale: jemale, montanaro e acrofobico al tempo stesso, mandalico
Bruno Elpis
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Cosa ci vado a fare io in Congo?
Chi sta male non lo dice e infatti non dicono di star male Yannick e Ifem, due ragazzi dalle origini africane che – come racconta Antonio Dikele Distefano – vivono in modo diverso il disagio dell’immigrato che in terra straniera deve affrontare l’emarginazione e i pregiudizi razziali.
Yannick è schiavo della droga, Ifem si tuffa nell’amore per Yannick e si aggrappa al sentimento per arginare il dolore per la morte improvvisa della madre: l’ha vista uscire in lacrime, poi ha saputo del suo incidente…
Lo sbocco risolutivo per i due ragazzi è diverso: lui passa attraverso la comunità (“Fino a quando non ci si rende conto che se si vuole che accada qualcosa nella nostra vita, quella cosa dobbiamo volerla e farla noi”), lei affronta il suo dolore (“Mentre sparisco tra le braccia di mio padre mi rendo conto che si capiscono così tante cose quando non si è più innamorati. Io come lui oggi aspetto che qualcuno mi salvi”) e il distacco da Yannick con un ritorno alle origini (“Cosa ci vado a fare io in Congo?... Mamma… Vado per tornare diversa, per dimenticarmi che non ci sei e ricordarmi che esisto”).
Giudizio finale: una breve, triste storia che aiuta a calarsi nel punto di vista di chi arriva. Drammatico e costruttivo al tempo stesso.
Bruno Elpis
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Perché mi lavo due volte al giorno
Quello che l’acqua nasconde di Alessandro Perissinotto è titolo che allude alla sindrome di Macbeth (“Lo hai capito perché mi faccio il bagno o la doccia due volte al giorno?”).
Edoardo Rubessi, genetista in odore di Nobel, torna a Torino dagli States con la moglie Susan, fotografa, per un ciclo di convegni. Dovrebbe essere un ritorno trionfale e invece si trasforma in un incubo a causa di un vecchio stalker (“Potresti ammazzarmi questo sì, o farmi ammazzare, ma denunziarmi no, sarebbe troppo rischioso per il tuo personaggio pubblico, per la tua carriera, per i tuoi finanziamenti: non si dà il Nobel a quelli come te”) che assedia la coppia con messaggi strani (“Ho scoperto che villa Azzurra era un ospedale psichiatrico infantile e che oggi è abbandonato…”) e ambigui (“Chi è il dottor Grubesic?”).
Susan è preoccupata (“Non so più chi sia mio marito”) e cerca aiuto nel narratore, amico di gioventù del marito (“Eravamo esaltati, infervorati: recitavamo il Padre Nostro tenendoci per mano, animavamo le novene e, sugli autobus che ci portavano in gita, cantavamo Laudato si’ come altrove si cantavano Battisti o i Beatles. Nessuno di noi si rendeva conto di essere dentro una truffa che durava da migliaia d’anni”) per ricostruirne il passato.
In successione di eventi, infanzia adolescenza e gioventù del brillante medico (“Era sempre così con le malattie genetiche: tutti i genitori… sentivano che all’origine c’era una sorta di antico peccato, c’era la maledizione di un’unione carnale invisa agli dei, di un amore che non avrebbe mai dovuto nascere”) vengono a galla (“Mi fece sentire un 45 giri di Sergio Endrigo: si intitolava 1947”). Edoardo è figlio di esuli istriani, morti alcolizzati, e non soltanto…
Nella Torino post boom economico (“La Torino segreta, silenziosa, dimenticata, nascosta, impresentabile”), mentre le incursioni nei palazzi fatiscenti e abbandonati si alternano ad articoli tratti da La Stampa, Susan penetra i segreti del marito (“Edoardo non era un uomo dalla doppia personalità… era un uomo a strati; strati che si erano depositati l’uno sull’altro: l’infanzia, nel quartiere degli esuli istriani, il manicomio, il collegio dei preti, l’università, il successo negli stati Uniti, il ritorno a Torino”) in una retrospettiva serrata e allucinante sugli anni di piombo e sulla triste realtà degli ospedali psichiatrici prima delle legge Basaglia.
Giudizio finale: avvincente, incalzante, revisionista.
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Povera Sanità!
Bello il titolo “Nostalgia” (“Nostalgia, che poi è il sentimento che domina il protagonista di questa cronaca e ne determina le scelte. La parola nostalgia nasce dall’abbinamento di due vocaboli della lingua greca classica: nóstos, che significa ritorno, àlgos, che vuol dire dolore”), fa riferimento a un sentimento spesso importante, a volte dominante.
Ottimo l’autore, Ermanno Rea, così capace di descrivere Napoli (“Povera Sanità! Strade strette e tortuose, palazzi fatiscenti, alle spalle una lunga storia lunga più di due millenni, testimoniata da ipogei, altari, sepolcri scolpiti, scale che scendono sottoterra come volessero raggiungere le viscere del pianeta”) e le sue peculiarità (“La Sanità è piena di grotte, gallerie, anfratti, androni bui che si aprono su imprevedibili giardini, vie strette inaccessibili alle automobili, bassi fatti apposta per ingoiare fuggiaschi. Se Napoli è un mondo a parte rispetto al resto del pianeta, la Sanità è un mondo a parte rispetto alla stessa Napoli”).
Eppure la storia di Oreste e Felice, un’amicizia pericolosa (“Escluso dal gioco della droga, controlla la macchina del taglieggiamento, dello strozzinaggio, della prostituzione, della ricettazione… e di qualche altra attività minore, non per questo poco lucrativa”) narrata da un terzo soggetto (“All’epoca in cui Felice Lasco esordiva in coppia con Oreste Spasiano nell’arte dello scippo, io mi specializzavo in cardiologia…”) non mi ha catturato. Forse perché mi è sembrata un pretesto per raccontare splendori e miserie di Napoli…
Giudizio finale: partenopeo, illustrativo, monocorde.
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Quel virus chiamato uomo
Sergio – detto il sognatore – vive in una casetta ecologica sulle rive dell’oceano. Ha per amico Chiqui, un volpacchiotto che è una specie di interprete tra l’uomo e gli altri animali.
L’uomo sembra giunto a un punto di non ritorno (“Un giorno, quando sarà troppo tardi per tornare indietro, ci accorgeremo che non possiamo mangiare il denaro, e non possiamo bere il petrolio, e ci estingueremo come è già successo a tante specie prima di noi, perché non avremo lasciato alla terra altra scelta che sbarazzarsi di quel virus chiamato uomo”), ma forse non è ancora troppo tardi...
Chiqui allerta Sergio, ogni volta che un animale è in difficoltà (“Sognatore! Vieni, presto!”), così i due amici salvano un formichiere (“Una lunga testa conica e sottile, poi le zampe anteriori dotate di artigli ricurvi, e poi il corpo ricoperto da una folta pelliccia ispida di un… formichiere”), una tartaruga (“imprigionata in una rete da pesca”), un gabbiano…
Un altro manifesto ecologista dello scrittore-viaggiatore-surfista-sognatore che ha detto addio al mondo degli affari per ingaggiare con le sue opere e testimonianze la lotta a tutela dell’ambiente.
Giudizio finale: favolistico, semplice, allarmante. In pratica, una favola semplicemente allarmante.
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Un fiume, una poesia
Amazzonia madre d'acqua è una silloge dedicata ai fiumi dell’Amazzonia dalla poetessa e antropologa Marcia Theophilo, da sempre impegnata anche con la sua opera poetica nella lotta per la tutela della foresta amazzonica e nella difesa di tutte le creature – appartengano al mondo animale, vegetale o minerale - che la popolano.
Un fiume, una poesia.
Componimenti spesso brevi, folgoranti, cristallini. Come testimoniato nella breve selezione sotto proposta.
In ogni parola del titolo, l’essenza del pensiero ambientalista.
Amazzonia, il polmone della Terra.
Madre, l'origine della vita.
Acqua, il principio cosmogonico al quale anche le radici della proto-filosofia – quella ionica, che rappresenta gli albori del pensiero filosofico classico - riconducono l'essere.
Giudizio finale: vitalistico, equoreo, matriarcale.
Rio Araricuera
Fiori di carne e luce
Respirano e pulsano nel rosso
Esplodendo e infiltrandosi raggi di sole
Suonano un ritmo di vita intenso
Si moltiplicano, risorgono
Si diluiscono
Passione di vermiglio ricomincia
Rio Oiapoque
Tutti danzano vertiginosamente
al ritmo dei piedi battuti sulla terra
foglie di palma sono i loro costumi
ornati di piume e collane variopinte
il pajé intona il canto sacro dei Maquiritares
danzano in tondo all’interno del villaggio
Ti insegnerò i segreti dell’encausto
Jacopo da Pistoia è L’apprendista di Michelangelo di Carlo A. Martigli: sogna di diventare pittore e per questo abbandona la famiglia e si reca a Roma, ove s’imbatte negli artisti che stanno realizzando il Giudizio Universale sotto le direttive del divino Michelangelo (“La storia partiva da lontano, quando vent’anni prima Michelangelo aveva da poco iniziato a dipingere la parete maestra della Cappella detta Capitolina… quei documenti narravano anche la sua storia…”). Un uomo che tuttavia nasconde molti segreti, compreso quello legato a una setta forse dedita ad attività illecite (“Il modo di trasformare il piombo in oro e di creare l’homunculus, il magico lavoratore senza pretese e instancabile…”).
Jacopo è combattuto tra l’ammirazione e il fascino esercitato dal grande pittore-scultore da un lato, e il sospetto per l’ambiguità delle sue attività misteriose (“Come se fossi un messaggero del diavolo”). Anche perché il Maestro scompare con la terribile accusa di aver avvelenato il committente della sua opera (“Lui aveva esaminato con molta cura la candela che aveva trafugato, e vi aveva trovato tracce non solo di arsenico, ma anche di mandragora e di lattice di euforbia”): quel Clemente VII che ha per cerimoniere il losco abate Biagio da Cesena, ritratto nel Giudizio Universale come l’infernale Minosse.
Sfidando mille pericoli, Jacopo conquista la fiducia del Maestro e ne diventa il preferito (“Non permettere che questi appunti cadano in mani ignote. Conservali tu, dopo la mia morte, e fanne buon uso”), realizzando il suo sogno di essere pittore (“Ti insegnerò i segreti dell’encausto… è quella tecnica pittorica che permette di fare aderire la pittura sui muri”).
Il romanzo sarebbe destinato ai ragazzi, ma confesso di esserne stato catturato, forse preda di suggestioni e sogni che covano nella mia… sempreverde interiorità, forse stanco di romanzi noir e di rappresentazioni violente delle quali già ridonda la realtà nostro malgrado.
Giudizio finale: intrigante, avventuroso, affascinante.
Bruno Elpis
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Non è la tigre di Sandokan e neppure Shere Khan
Piccola Tigre e Tigrotto sono due cuccioli di madre siberiana (“Piccola Tigre non è la tigre di Sandokan e neppure Shere Khan, le nebbie vaporose dei tropici le sono sconosciute…”). Mamma tigre li addestra alla caccia (“Tutto ciò che cammina prima o poi ha bisogno di bere”) e li mette in guardia dall’uomo (“No, l’uomo uccide solo per uccidere”), ma presto si accorge che la femminuccia è originale: curiosa, sempre alla ricerca, spesso distratta.
Quando è il momento di lasciare che i figli conquistino il loro regno, mamma tigre si allontana per lasciare alla figlia – che non sembra troppo adatta alla lotta – il proprio territorio. Ma Piccola Tigre si lascia trasportare dalla curiosità e viaggia…
S’imbatte così nell’uomo della capanna, erede di sciamani, che l’accoglie e ne diventa amico.
Ma gli altri uomini sono in agguato, sempre pronti a imporre la loro orrenda, scellerata logica di morte e a rovinare tutto (“Sappiamo che hai una tigre che ti obbedisce come un gatto… Siamo venuti per proporti un affare”).
Piccola Tigre, ormai adulta, conosce la prigionia del circo e sarà proprio un bambino – il piccolo acrobata – a restituirle la libertà…
Carica di metafore, nonostante qualche forzatura, questa fiaba scorre sui ghiacci siberiani e scala i monti per regalare una visione struggente del mondo ultraterreno, ove animali, uomini e natura trovano finalmente l’armonia.
Giudizio finale: allegorico, favolistico, ricompositivo.
Bruno Elpis
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Una donna per amico: voglia di romance
Giulia, dimidiata tra il ruolo di moglie e quello di amante, assiste all’incontro tra le due parti di sé nell’ospedale ove sono contemporaneamente ricoverati il marito Emanuele e il compagno Federico, scrittore che ha catturato la sua attenzione per aver narrato una storia così simile alla sua.
Lì conosce la rivale Flavia.
Lì rievoca la sua storia, partita dai sospetti per un presunto tradimento di Emanuele e sfociata in una storia d‘amore consumata nel rifugio clandestino in riva al mare. Una passione che è anche ribellione a una madre tenace e opprimente (“La mia educazione prevedeva il salvataggio forzato dell’apparenza”), che l’ha costretta ad abbandonare in Inghilterra il figlio di un amore giovanile.
Un romance a tutto tondo (“Quanto è difficile non poter urlare al mondo quello che provi e quello che sei soltanto per non ferire chi hai vicino. Quanto è penoso non saper vivere la vita che ti sei scelto”), che il mio temperamento di lettore onnivoro mi ha suggerito in un periodo nel quale rifuggo la violenza anche solo raccontata.
Nel finale il romanzo ripropone il tema di una vecchia canzone del “secondo” Lucio Battisti: può esistere l’amicizia tra un uomo e una donna?
Giudizio finale: molto romance, astenersi chi non ama il genere: uomo avvisato, mezzo salvato!
Bruno Elpis
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- sì
- no
Bolofeccia, li chiamavano, quelli come lei
Il significato del titolo del nuovo romanzo di Silvia Avallone viene svelato quasi subito, a pagina 28: “Sulla panchina che avevano ribattezzato, lei e la sua migliore amica, «Da dove la vita è perfetta»”.
Ci vogliono tuttavia 376 pagine per narrare – ma non necessariamente svelare - da dove la vita diventa perfetta per due gruppi di personaggi che s’intersecano, salvo sorprese finali, grazie a una natalità.
Da un lato ci sono i disperati (“Bolofeccia, li chiamavano, quelli come lei”) che vivono in una periferia immaginata (“Il romanzo si svolge in una città reale, Bologna. Il Villaggio Labriola è invece un quartiere immaginario, che rappresenta la mia personale geografia dell’esclusione”, confessa l’autrice nella post-fazione): la diciassettenne Adele, che riproduce il destino già toccato alla madre Rosaria rimanendo incinta di Manuel, giovane bellissimo e intelligente che intraprende la carriera delinquenziale – sino al parricidio - con il mito di Eminem.
Ma anche nella desolazione delle periferie e dei Lombriconi (“Quei mostri laggiù, li vede? Quelle torri? Ecco, alcune sono in parte occupate illegalmente. E anche quei due abomini più bassi e lunghi un chilometro…”) – così recitano canzoni e luoghi comuni – possono sbocciare fiori. Come Zeno (“Era un narratore, non un protagonista”), liceale-modello che ama Dostoevskij di amore letterario e Adele di amore adolescenziale.
Dall’altro lato c’è la borghesia: l’architetto Fabio (“Ci sperava sul serio ce un nuovo polo tecnologico, e il suo auditorium a forma di anima, avrebbero portato lavoro, occasioni e fama, e trasformato quella periferia in un posto migliore”), che ha sposato Dora, una letterata appassionata di Dostoevskij (anche lei!) e vive molti drammi (“Per la sua malformazione, per la sua sterilità, per la sua sofferenza”), anziché la bellissima Emma, con la quale in gioventù Fabio aveva formato una coppia perfetta.
Il raccordo – possibile, impossibile? - è rappresentato dalla neonata Bianca, mentre il diaframma tra i due mondi è il difficile tema dell’adozione (“lo ribadisco: il nostro compito non è trovare a voi un figlio. Ma a un minore in stato di abbandono una famiglia. Perché lui ne ha diritto, mentre voi no”) in una narrazione che scompagina le vicende sul piano temporale.
Giudizio finale: a tratti crudele, sornione, in fondo in fondo nazionalpopolare almeno quanto la sigla di Beautiful trasmessa dai televisori della periferia.
Bruno Elpis
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Una percentuale di vita sconosciuta
Se è vero che “Ognuno ha una percentuale di vita sconosciuta alla propria compagna”, è altrettanto vero che la percentuale di Ernesto è vicina all’unità: tradisce la moglie in “lupanari a cielo aperto”, in relazioni clandestine e mercenarie con altri uomini.
Di ritorno da una di queste evasioni torbide, Ernesto trova la moglie Agata senza vita nel loro appartamento. È l’inizio di un dolore alterno e contradditorio (“La sua tragica fine prematura ha spezzato per sempre la possibilità di un perdono, di un armistizio capace di riallineare il passato e bonificarlo”), fatto di solitudine, di rimorsi e, talvolta, di pensieri scellerati (“Persuaso che un parossismo di abiezione fosse il solo antidoto efficace per neutralizzare quella piccola esplosione di dolore”).
In “quei primi mesi di vedovanza” Ernesto ripercorre il proprio “passato barricadiero”, quando ha conosciuto Agata (“Io figlio di un operaio milanese della Breda e lei figlia di un operaio siciliano del Petrolchimico di Gela”) nelle frange del terrorismo degli anni settanta ai quali riconduce il proprio fallimento sociale, esistenziale e sessuale, come emerge nell’incontro finale al cimitero con Ventura, uno dei capi della lotta armata…
Un periodo conclusosi con il fallito attentato all’inerme Doria, giornalista de L’Unità. Un doppio segreto inenarrabile, sia dal punto di vista della cronaca, sia per il rapporto personale con il leader Faenza.
Giudizio finale: retrospettivo, funereo, a tratti doloroso (“Il dolore non è sempre un grumo nero che il tempo riesce a diluire. Può restare intatto e semmai lievitare, occupare sempre più spazio e irrompere improvviso proprio quando ci si illude di averlo tenuto a bada”).
Bruno Elpis
I libri veri sono scritti solo per essere letti
La frantumaglia è una raccolta di lettere, saggi e interviste che “si rivolge a chi ha letto, amato, discusso L’amore molesto (1992) e I giorni dell’abbandono (2002)”, i primi due romanzi di Elena Ferrante”.
Molte riflessioni attengono alla decisione di non apparire in pubblico e ruotano intorno a un concetto essenziale: una cosa è il libro, altra cosa è l’autore. “Desidero poter pensare che, se il mio libro entra nel circuito delle merci, niente sia in grado di obbligarmi di fare il suo percorso”.
Rincarando la dose, “I libri veri sono scritti solo per essere letti. L’attivismo promozionale degli autori tende sempre più a cancellare le opere e la necessità di leggerle. In molti casi il nome di chi ha scritto, la sua immagine, le sue opinioni ci sono ben più noti dei suoi testi…”
Non fosse che – come nei paradossi che ricorrono nella filosofia (tipo Achille pié veloce e la tartaruga) o nelle scienze (il paradosso dei gemelli, quello del nonno e dei vari diavoletti, quello del gatto di Schrodinger…) – la Ferrante, nascondendosi e negandosi, ottiene esattamente il contrario, molto di più di scrittori attivissimi nelle loro promozioni…
Senza contare che tale scelta è garanzia di creatività (“I vecchi miti sull’ispirazione forse dicevano almeno una verità: quando si fa un lavoro creativo si è abitati da altro, in qualche misura si diventa altro”), oltre che ovvia tutela – quasi psicanalizzata (“In Totem e tabù Freud racconta di una donna che si era imposta di non scrivere più il proprio nome. Temeva che qualcuno se ne servisse per impadronirsi della sua personalità… e poi, per estensione, smise del tutto di scrivere) – della sfera privata.
L’opera contiene anche:
- un racconto su Berlusconi, anticipato da una premessa che passa in rassegna le sue principali qualità (“Si può diventare grande statista facendo il grande imprenditore di una cattiva televisione, capace di rendere volgari tutte le altre televisioni e, per simpatia trasversale, anche il cinema, i giornali, i rotocalchi, la pubblicità, la letteratura stessa di supporto, l’Italia dell’Auditel?”);
- l’enunciazione del concetto di frantumaglia: “Mia madre mi ha lasciato un vocabolo del suo dialetto che usava per dire come si sentiva quando era tirata di qua e di là da impressioni contradditorie che la laceravano…”
Giudizio finale: frantumaglioso (neologismo ispirato a petaloso); concepito come digesto; celebrativo nei fatti senza esserlo nelle intenzioni.
Bruno Elpis
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La morte spesso è impudica
Dunque.
Markus è dell’ordine dei penitenzieri.
È un prete, ehm, ma ama Sandra Vega (la incontra in dark room!!! Boh).
Si risveglia in una situazione quantomeno anomala (“Perché si era ritrovato nudo e ammanettato in fondo al Tullianum”). E deve occuparsi dell’imbarazzante morte di un alto prelato (“La gogna del piacere. Pare sia una pratica di autoerotismo bondage”). Tant’è. “Ma la morte spesso è impudica e si diverte a svergognarci”.
Intanto Roma – forse condizionata dall’oscura profezia di Leone X - si accinge ad affrontare un black out senza precedenti. Le forze dell’ordine sono allertate perché “ogni psicopatico della città si stava già armando per consumare la propria vendetta o, semplicemente, per dare sfogo a in istinto sopito per anni”. Uomo avvisato, mezzo salvato. O no?
Nossignori. In questo cataclisma Markus cerca di svolgere la propria missione come meglio può (“L’appunto che si era ritrovato un tasca al Tullianum: Trova Tobia Frai”).
A questo punto, la mia povera mente smarrita e impressionata richiede un rapido riepilogo della vicenda: “Un bambino scomparso da nove anni, scarpe bianche di tela, il Tullianum, un vescovo morto in circostanze assurde, la tua breve amnesia…”
Ovvio che in quest’atmosfera disastrosa un’incursione a casa del giocattolaio (“Al Giocattolaio piacevano i balocchi del passato”) non è certamente né ricreativa (“Al Giocattolaio era toccata in sorte la peggiore delle torture antiche. La bambola di cera”), né una passeggiata. Anche perché uno sciagurato burattinaio muove la trama in crescendo horror (“Dopo aver predisposto il bagno di mosche per il Giocattolaio, l’assassino era sceso di sotto e aveva atteso davanti al computer che il vescovo Gorda attivasse la gogna”) con una gerarchia – quella della chiesa dell’eclissi – degna del più organizzato dei poteri temporali (“Li chiamiamo il Vescovo, il Giocattolaio e l’Alchimista…. Sopra ognuno di noi c’è il Maestro delle ombre”).
Si capisce che non mi è piaciuto?
Giudizio finale: non pervenuto.
Bruno Elpis
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Sentì che il peggio era passato
Matteo Zevi. Per riassumere la sua storia, che non è comica, bensì drammatica, il titolo di un film: quattro matrimoni e un funerale.
Ne ha combinate di cotte e di crude, è fuggito in America e ora ritorna (“Sentì che il peggio era passato e il meglio non aveva più motivo di farsi attendere”). Dopo tanti anni sperimenta le emozioni (“Quante volte nella vita i desideri coincidono con le possibilità?”) di re-incontrare – ciascuno con atteggiamento diverso nei suoi confronti - una delle ex mogli, Federica, l’amico Tati, il figlio Giorgio, che ha conosciuto il successo con il suo locale trendy Orient Express, e la figlia Martina, impegnata in un elaborato ménage coniugale anche a causa della cognata Benedetta.
Pipermo ama ambientare i suoi romanzi nelle feste della borghesia (ma esiste ancora? Ha ancora un senso questo termine?) romana (“Un ambiente che un tempo si sarebbe chiamato buona società, ma che ora non aveva più nome, né prestigio, né distinzione, solo stock option, avvisi di garanzia, qualche brutto presentimento di casta”) d’origine ebraica, mettendone a nudo vulnerabilità (“Martina aveva imparato che l’alcol è il giusto compromesso tra necessità fisiologica e rimedio filosofico”) e difetti (“Quello che Lorenzo non capiva era che i pettegolezzi non avevano niente di ozioso e di riprovevole… su questo prosperavano la maggior parte delle unioni felici”).
Tra i vari personaggi la più amabile è forse Federica (“Signora, il suo problema è che odia i conflitti”): altruista, pacificatrice (“Signora, negando agli altri il diritto di avercela con lei, li fa arrabbiare ancora di più”), forse per questo condannata.
Il romanzo scorre tra atmosfere ricorrenti (“Meglio amare l’uomo sbagliato per tutta la vita che non amare nessuno") e sfocia nella festa di Natale all’Orient Express…
Giudizio finale: post-diasporico, post-indifferenti, post-saga dei Pontecorvo.
Bruno Elpis
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Come se la laguna fosse un essere senziente
Secondo una leggenda Il respiro della laguna invia segnali e premonizioni di eventi (“Come se la laguna fosse un essere senziente, dotato di qualità divinatorie!”).
In quest’atmosfera Alberto Ongaro muove il personaggio di Damiano Zaguri, capo dell’anticrimine veneziana, che con un antenato (“Gerolamo Zaguri, che lungo il secolo diciassettesimo aveva fatto parte dei misteriosi e segreti Signori di Notte, uno dei corpi di polizia della Repubblica di San Marco”) vive in stretta simbiosi (“E si insinuava che tra i due Zaguri, quello vivo e quello morto, si fosse creato con il tempo un rapporto, diciamo, medianico…” “E che lo spirito dell’antenato…. Non si limitasse ad assistere passivamente alle investigazioni del lontano nipote ma che addirittura le guidasse”) e in costante dialettica (“Parlare con il ritratto non era certo una novità”).
Sempre dagli avi, Damiano ha ereditato fascino (“Fra i suoi antenati, oltre al tenebroso Gerolamo figurava anche Pietro Zaguri – affascinante libertino amico di Casanova…”) e abilità poliziesche che da un indizio (“Un amuleto… dove lo hai trovato?”) conducono a ritrovare il neonato rapito, smascherando i retroscena della città e dei suoi potenti.
“Io… disprezzo uomini come lei. Ve ne state qui nelle vostre case milionarie e manovrate da lontano piccoli teppisti falliti, drogati, psicopatici, criminale, assassini di professione. Siete voi la Baia del Re, i veri produttori del male in questa città…”
Giudizio finale: mesmerico nelle premesse, lagunare nell’ambientazione, raziocinante nella trama.
Indicazioni utili
Nol na disgrazia ke no sie inca na grazia
Dove porta la neve?
Nel racconto di Matteo Righetto, porta a provare sentimenti. Attraverso tre personaggi.
Dove porta la neve?
Porta Nora (“Ho amato la neve fino al 1951”) – la mamma di Carlo – a sfoderare la sua forza di “montanara” in una sfida per l’affermazione di un sogno. E a rievocare questa sfida sul letto di morte.
Dove porta la neve?
Porta Carlo – quarantottenne rimasto bambino (“Io ho una terza copia del cromosoma 21. Non te n’eri accorto?”) – al viaggio verso una Lapponia immaginaria, per conquistare un regalo per la mamma.
Dove porta la neve?
Porta Nicola – anziano indigente e dalla vita incompleta – a un incontro decisivo (“Capì che era proprio lui la persona giusta, l’anima candida, la vita alla quale dedicare finalmente qualcosa lasciando il segno di un gesto d’amore, un gesto riparatore”).
Giudizio finale: fiabesco, commovente, riparatore (“Nol na disgrazia ke no sie inca na grazia. Sai cosa vuol dire in lingua ladina?... Dietro ogni disgrazia si nasconde anche una grazia”).
Bruno Elpis
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Stare nel momento al punto d'essere il momento
“Nel momento” Andrea De Carlo scatta la radiografia del fallimento di un rapporto: epilogo che sembrerebbe inevitabile se non si tenta una via di fuga. Come uscirne?
La presa d’atto
L’io narrante gestisce un maneggio con la compagna Anna. Un evento casuale – un incidente a cavallo – è l’occasione per elaborare la consapevolezza che il rapporto è fallito (“Ho provato a pensare a prima di Anna e a prima dei cavalli, e mi sono reso conto che non ero mai stato felice”) in modo forse irreparabile (“Non mi veniva in mente nessuna gioia non interrotta dal dovere, nessuna sorpresa non diluita dall’abitudine, nessuna allegria non velata dalla noia, nessuna fantasia non inchiodata a terra dal peso stolido della realtà”).
Da quel momento il protagonista si abbandona alla casualità degli eventi: come se il libero flusso degli incontri fosse l’unica possibilità per vincere la sclerosi relazionale (“Pensavo ai ruoli, e a come sono più forti delle persone: a come bloccano i punti di vista e stabilizzano i toni di voce, fabbricano ragioni e definiscono strategie permanenti di attacco e di difesa, fanno diventare sordi e insensibili”) ed evitare la condanna (“Ognuno dei due pensa talmente di sapere come è fatto l’altro da non lasciarlo libero di essere in nessun altro modo”).
Come uscirne?
“Secondo te è sempre dal dopo che si legge una storia tra due persone? Da come è diventata, a ritroso verso l’inizio?”
Ma forse una possibilità esiste. Consiste nel vivere il momento (“Non avevo pensato di poter stare dentro il momento al punto di essere il momento”). Cogliere l’attimo. Un carpe diem riveduto e corretto?
Giudizio finale: stralunato, anatomico, post-oraziano.
Bruno Elpis
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È un superdotato! Un precoce! Un genio!
Amélie Nothomb ripropone Riccardin dal ciuffo, la fiaba di Perrault che tratta il tema della metamorfosi che l’amore può produrre, trasformando il brutto in bello e il mediocre in intelligente.
Deodato è figlio di Enide e Onorato e fin dalla nascita è brutto da far paura (“Sembrerebbe che la natura abbia deciso di rifornirmi di ogni orrore”). Brutto e sgraziato sì, ma intelligente (“È un superdotato! Un precoce! Un genio!”), e di un’intelligenza particolare (“L’intelligenza è anche una capacità di adattamento”)…
Altea, ha il nome di una rosa!; nasce da Rosa e Gelsomino (Amélie sembra attribuire ai nomi un significato che disegna storie nella storia): è bellissima, ma non propriamente acuta.
I due – per motivi opposti – patiscono gli scherzi spesso atroci dei coetanei e, tra mille sofferenze e malversazioni, nonostante la crudele regola sociale per la quale “Il molto brutto a volte suscita un po’ di compassione; il molto bello irrita senza pietà. La chiave del successo sembra essere in una vaga piacevolezza che non possa dare fastidio a nessuno”, individuano il loro percorso professionale: lui nella scienza ornitologica, lei nella moda di alto bordo.
Riuscite a immaginare il finale? Il lietofine, nella post-fazione, la stessa Amélie in versione di allibratore-lettore di Balzac lo dà 6 a 100…
Dopo la sonora stroncatura di Michela Murgia (http://www.raiplay.it/video/2017/02/quotRiccardin-dal-ciuffoquot-di-Am233lie-Nothomb-2ab231de-4d77-401d-b32e-dd216faa89b1.html), cosa possiamo dire noi seguaci della Nothomb? Che la amiamo di quell’amore incondizionato e “a prescindere” del quale si parla nel suo ultimo racconto? Ma così daremmo ragione a Michela Murgia!
Bruno Elpis
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Buona giornata delle donne
ANNO. Una serie di 365 delusioni
«Meglio non fidarsi di te.»
Eravamo alle prime battute della conoscenza. E tu esercitavi il sospetto nei miei confronti. Con il sarcasmo che presupponeva una convinzione di fondo. Intuivi la mia complessità dietro un’apparente bonomia che – anziché tranquillizzarti – ti rendeva diffidente.
«Non comprendo questo tuo atteggiamento difensivo», cercavo di persuaderti con le parole e con gli sguardi. Del resto, come rassicurarti sulle mie migliori intenzioni?
«Acqua cheta rompe i ponti», hai replicato con circospezione.
«Guarda che io sono un mite!», insistevo contraccambiando l’ironia, ma affiorava un principio di affanno.
«Mitezza. La straordinaria pazienza esercitata per poter preparare una vendetta degna di questo nome. Ambrose Bierce, Dizionario del diavolo.» L’hai detto d’un fiato, al telefono. Immagino scorrendo l’ordine alfabetico di un vocabolario sui generis. Sul momento ho anche pensato al nome dell'autrice, Ambrosia! Nettare degli dei? Allergia?
Fu così che scoprii questo libro. Un vero e proprio abecedario del disinganno. Un testo da consultare occasionalmente per decodificare linguaggi e comportamenti in modo estemporaneo.
Da allora, ogni tanto lo consulto per ottenere qualche spunto critico, per non fermarmi al significato scontato delle parole.
E noi due? Adesso siamo amici. Ogni tanto ci rinfacciamo qualche derivazione, significati impliciti, e dissacrazioni di apparenze…
Bruno Elpis
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Ha una sua ombra il vento
Recentemente scomparso (1/2/2017), Predrag Matvejevic, accademico a Roma, Zagabria e Parigi, è l’autore del saggio Breviario Mediterraneo (1987) e nella sua vita è stato prima a fianco dei dissidenti del blocco sovietico, poi europeista convinto.
La sua opera più celebre si articola in tre parti.
La I parte, Breviario, è un excursus attraverso il Mediterraneo (“La parte più povera del Mediterraneo – anche questa è una delle contraddizioni del nostro mare – avrà più giovani, e quella più ricca, più vecchi”): isole, penisole, promontori, golfi, correnti, venti (“Ha una sua ombra il vento”), vegetazione, popoli, tesori nascosti (“Il passato del Mediterraneo è pieno di relitti”).
La II parte, è dedicata alle Carte: “Esse non possono farci scoprire il volto del Mediterraneo, ma appena le rughe del suo viso”.
La III parte, Glossario, riconferma l’impostazione colta ed erudita dell’opera: “I greci avevano più termini per il mare: hals è il sale, il mare come materia; pelagos è la distesa, il mare come immagine; pontos è il mare come vastità e viaggio; thalassa è … mare come esperienza o avvenimento; colpos significa insenatura o riparo e indica quella parte di mare che abbraccia la costa… laitma è la profondità marina, cara ai poeti e ai suicidi”.
Giudizio finale: enciclopedico, geo-lirico, da rileggere a trent’anni dalla pubblicazione ripensando a cosa sia, oggi, il Medeiterraneo…
Bruno Elpis
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Staccai lo stemma di famiglia
Un titolo come quello che Carlo A. Martigli ha assegnato alla sua ultima opera, “La follia di Adolfo”, fa pensare al pazzo che ha funestato la storia della prima metà del secolo scorso. E invece no, il romanzo non parla di quell’Adolfo là, parla dello zio dello scrittore, ed è una saga familiare che identifica in quello zio la venatura un po’ folle che scorre anche nel sangue toscano dell’autore.
L’amore per le radici porta Martigli a ricostruire una storia familiare, nella quale lo zio Adolfo si caratterizza come dongiovanni dilapidatore di patrimoni, sempre sopra le righe, ma a modo suo generoso e creativo.
“Eccomi in viaggio, con l’auto paterna, verso Navacchio, dove da cinquecento anni si trovava la villa di famiglia che ormai apparteneva ad altri”.
La genesi del romanzo risale a un atto di ribellione dello scrittore: “Da un chiodo di ferro battuto staccai lo stemma di famiglia. Uno scudo con tre artigli d’argento in campo d’oro. Tre artigli, quelli che aveva usato un certo Paolo, nella metà del Trecento, dando vita al cognome M’artigli, il patronimico”.
Lo stemma, Carlo A. Martigli me l’ha inviato in foto e così l’ho diffuso nel web. Lo potete visualizzare a questo link, con una descrizione che contiene anche qualche spunto etimologico:
http://www.brunoelpis.it/fatti-e-libri/1515-lo-stemma-dei-martigli
Qui invece potete leggere una breve intervista che ho realizzato per l’occasione: http://www.brunoelpis.it/le-interviste/1514-cinque-domande-a-carlo-a-martigli-a-proposito-de-la-follia-di-adolfo
In appendice al romanzo trovate invece le ricette toscane di casa Martigli…
Bruno Elpis
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Cara Elsa ti scrivo
Le lettere che Alberto Moravia scrisse a Elsa Morante, sono state raccolte e sistematizzate nell’opera “Quando verrai sarò quasi felice”.
Si delinea così l’evoluzione di un rapporto piuttosto tormentato, nel quale Moravia mantiene una posizione di affetto, invero mai troppo passionale, nei confronti di una donna della quale tollera anche le attenzioni rivolte ad altri uomini. Luchino Visconti prima, il giovane artista Bill Morrow poi.
“Solda, 7 agosto 1950
Cara Elsa,
la tua lettera finalmente arrivata oggi lunedì 7, mi ha fatto dispiacere, perché vedo che sei infelice e che nulla ti giova, né star con me né stare senza di me… Le ragioni della tua infelicità sono oscure e oscuramente espresse. Ad ogni modo, se ho ben capito, il viaggio a Roma non ha fatto che aggravare la tua situazione. Quale sia poi il misterioso incidente che ha turbato i tuoi rapporti con L.V. non lo capisco, ma immagino che, come sempre, non sia cosa irreparabile…”
“Anacapri, agosto 1951
Carissima Elsa,
… Stanotte poi ho sognato che tu sedevi ad un tavolo di caffè aspettando un appuntamento con L. e io allora mi sono avvicinato a te, in pigiama e portando un cuscino, e ti ho gridato: «Se entro tre giorni non facciamo l’amore, ci divideremo per sempre.» Ma tu non dicevi nulla e io allora sono andato a dormire in una specie di lugubre magazzino tutto nero e vuoto.”
Molti sono gli squarci che possono essere abbinati alle opere di Moravia. Come le lettere inviate da Capri, l’incantevole isola che diverrà teatro del romanzo “Il disprezzo”.
“Anacapri, agosto 1951
Cara Elsa,
La sera è il momento in cui penso a te di più e così ogni volta che penso a te, mi dico che debbo scriverti le cose che penso. Poi invece al mattino queste cose sono sfumate e non mi resta che il ricordo di un sentimento molto forte. Ad ogni modo sappi che sarò molto contento quando ci rivedremo.
Oggi sono stato alla Grotta Verde. Il tempo è bello. La famiglia Valli è al completo. Forse non tornerò mai più a Capri. Tuttavia Anacapri è sempre affascinante. Ti abbraccio
Alberto”
“Anacapri, agosto 1951
Cara Elsa,
Qui sono giorni che fa cattivo tempo e io me ne sto ad Anacapri che è il solo posto dell’isola che mi piace veramente. Ieri sera sono stato a cena da Greenlees insieme con Maria Valli e con gli Alicata. Lampeggiava tutto il tempo.
Il gattino chiamato Alberto è morto ucciso dal padre. Ho paura che sia un cattivo presagio…”
Dopo la separazione da Moravia, avvenuta nel 1962, lo scrittore continua a inviare lettere all’ex coniuge, ma le occasioni di dissidio, scenate e malumori aumentano irrimediabilmente per intensità e frequenza.
Bruno Elpis
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Non mi portare nel bosco di sera
Gaetano Cappelli compone una storia bizzarra e le impartisce un titolo alla Wertmüller: Una medium, due bovary e il mistero di Bocca di Lupo.
Guido Galliano è scrittore di un certo successo, ma è in crisi coniugale e creativa. Viene contattato dal barone Ferdinando Canosa, nobiluomo meridionale che lo scrittura per esaudire le ambizioni letterarie della moglie Finizia. La “morbida giunone murgiana” sta infatti componendo la biografia della medium Eusapia (!), ma è bloccata dal complesso della pagina bianca. Galliano accetta la generosa offerta che implica un cospicuo rimborso spese in denaro, il soggiorno presso l’azienda vinicola Bocca di Lupo (“Una vera emozione poi è stata entrare nella bottaia”) e… la possibilità di fruire ad libitum delle grazie di Finizia, bovary che patisce la rivalità della seconda bovary murgiana, Maddalena Videtti (“Acerrima odiata rivale nella vita, in amore e infine adesso nelle lettere, di Finizia Varola coniugata Canosa”)…
La storia (e il romanzo che maestro e allieva scrivono) procede grazie all’intervento metafisico di Agatha Christie (!!), con intermezzi di cantanti pugliesi molto âgé: Albano e Romina, Rosanna Fratello, la cantante pugliese che i più attempati tra di noi ricordano come interprete dell’ammiccante e maliziosa “Sono una donna, non sono una santa” (!!!)…
Il romanzo irride l’universo delle velleità letterarie e la narrazione è intercalata da frequenti escursioni in linguaggio pseudo-dialettale (Camilleri docet?), boh!, e scusate il climax dei punti esclamativi.
Bruno Elpis
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Adesso che il conflitto non ha più confini
Il nuovo Barnum è una silloge di scritti che Alessandro Baricco ha pubblicato sui quotidiani in veste di giornalista o opinionista.
I temi sono variegati e coinvolgono la cultura (ad esempio, un encomio a Gianni Vattimo e la figura della fotografa Vivian Maier), la storia contemporanea (“La morte di papa Wojtyla… Una - cosa - certamente non la direi: che è stato un rivoluzionario”), la cronaca sportiva, con molto spazio dedicato alla corrida e ai tori di Pamplona (la feria chiama l’Hemingway di Fiesta).
Per esplicita ammissione dell’autore, i suoi articoli preferiti sono il ricordo della storica partita messicana tra Italia Germania (4-3) e le considerazioni svolte a caldo sulla tragedia dell’11 settembre (“Adesso che il conflitto non ha più confini… Tutti a dire siamo in guerra. Sarà. Ma certo è una guerra strana”).
Nella Parte II della raccolta vengono incoronati “i cinque migliori posti al mondo dove pensare e avere idee intelligenti su se stessi e sugli altri”: Mumbai-Bombay, Tangeri, Las Vegas, Hanoi e Boca.
L’opera è naturalmente indicata per coloro che apprezzano Baricco in versione giornalistica.
Bruno Elpis
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La lucertola azzurra dei faraglioni
L’AMBIENTAZIONE: CAPRI
"Il disprezzo" (1954) di Alberto Moravia era inizialmente intitolato "Il fantasma di mezzogiorno": Godard l’ha portato sullo schermo nel 1963, in un film che ha come scenario Capri.
Un’isola alla quale il protagonista narratore del romanzo - lo sceneggiatore Riccardo Molteni - attribuisce un potere miracoloso: la facoltà di cambiare i sentimenti della donna amata, la moglie Emilia, che invece disprezza il coniuge... mentre "il miracolo dell'amore ... per esistere deve non soltanto accendersi nel nostro cuore ma anche in quello altrui".
In questo desiderio, completamente tinto dell'azzurro che impera a Capri, la lucertola azzurra assume i connotati di un talismano vivente, ma non così sarà in questo dramma... “Improvvisamente, ad una svolta, ci apparvero i Faraglioni e fui contento di udire Emilia dare in un grido di sorpresa e di ammirazione. Era la prima volta che veniva a Capri e sinora non aveva aperto bocca. Da quell’altezza le due grandi rupi rosse sorprendevano per la loro stranezza, simili, sulla superficie marina, a due aeroliti caduti dal cielo sopra uno specchio. Dissi ad Emilia, esaltato da quella vista, che sui Faraglioni si trovava una razza di lucertole che non esisteva in nessun altro luogo del mondo: azzurre a forza di vivere tra il cielo azzurro e il mare azzurro… La lucertola azzurra che descrivevo annidata tra gli anfratti delle due rupi diventò ad un tratto il simbolo di quello che avremmo potuto diventare noi stessi, se fossimo rimasti a lungo nell’isola: anche noi azzurri dentro il nostro animo dal quale la serenità del soggiorno marino avrebbe gradualmente scacciato la fuliggine dei tristi pensieri della città; azzurri e illuminati dentro di azzurro, come le lucertole, come il mare, come il cielo e come tutto ciò che è chiaro, allegro e puro.”
La scena finale si svolge nella Grotta Rossa: “La Grotta Rossa si divide in due parti: la prima, simile ad un ingresso, è separata dalla seconda da un abbassamento della volta; al di là di questo abbassamento la grotta piega a gomito e si addentra parecchio fino alla spiaggia che ne occupa il fondo. Questa seconda parte è immersa in un’oscurità quasi completa e bisogna abituare gli occhi alle tenebre prima di intravedere la spiaggetta sotterranea, colorata stranamente della luce rossastra che appunto dà il suo nome alla grotta.”
MORAVIA, I CLASSICI E I CONTEMPORANEI
A Capri si giunge perché il protagonista Riccardo Molteni viene ingaggiato per scrivere la sceneggiatura dell'Odissea. Si apre una discussione tra Molteni, il regista e il produttore su quale sia l'impostazione che il film deve avere.
Molteni vorrebbe prevalesse il rispetto (l'equivalente di quella che in diritto si chiama interpretazione letterale della norma) per lo spirito classico o la poesia implicita nell'opera omerica. Lo sceneggiatore dichiara la sua adesione alla raffigurazione di Ulisse nell'inferno dantesco (canto XXVI, sotto riportato).
Il regista Rheingold vorrebbe invece realizzare un film che privilegi gli aspetti psicologici della relazione tra Ulisse e Penelope. “Un film sui rapporti psicologici tra Ulisse e Penelope… Io intendo fare un film su un uomo che ama sua moglie e non ne è riamato”. Assumendo la teoria freudiana come strumento interpretativo: “è il subcosciente di Ulisse che via via crea ad Ulisse stesso dei buoni pretesti per star qui un anno, lì due anni e così via.”
Il produttore Battista punta invece sulla spettacolarizzazione, in sostanza mira a realizzare un kolossal che amplifichi gli elementi fantastici, mitologici ed erotici dell'Odissea (“Una storia per così dire spettacolare… questo ha voluto fare Omero”).
Nella perfetta architettura del romanzo moraviano, la disputa tripolare riproduce sia il dramma personale e coniugale di Molteni, sia la dialettica servo-padrone (“Battista era il padrone ed io il servitore e… il servitore tutto può fare, salvo disubbidire al padrone”) postulata dal potere del denaro nella società borghese (“Sono io che pago”).
“La qualità distintiva dei poemi omerici e in genere dell’arte classica è di nascondere tali significati e mille altri che possono venire in mente a noialtri moderni, in una forma definitiva che chiamerei profonda… la bellezza dell’Odissea sta proprio in questo credere nella realtà come è e come si presenta oggettivamente… in questa forma, insomma, che non si lascia né analizzare né smontare… il mondo di Omero è un mondo reale… Omero apparteneva ad una civiltà che si era sviluppata in accordo e non in contrasto con la natura… per questo Omero credeva nella realtà del mondo sensibile e lo vedeva realmente come l’ha rappresentato e anche noi dovremmo prenderlo com’è, credendoci come ci credeva Omero, letteralmente, senza andare a cercare riposti significati.”
“Joyce anche lui interpretò l’Odissea alla maniera moderna… e nell’opera di modernizzazione, ossia di avvilimento, di riduzione di profanazione, andò molto più lontano di lei, caro Rheingold… Fece di Ulisse un cornuto, un onanista, un fannullone, un velleitario, un incapace; e di Penelope un’emerita Puttana… e Eolo diventò la redazione di un giornale, la discesa agli inferi il funerale di un compagno di ribotte, Circe la visita ad un bordello, e il ritorno ad Itaca il ritorno a casa, a notte alta, per le vie di Dublino, non senza una sosta per pisciare ad un cantone… ma almeno Joyce ebbe l’avvertenza di lasciare stare il Mediterraneo, il mare, il sole, il cielo, le terre inesplorate dell’antichità… Mise tutto quanto per le strade fango di una città del nord, nelle taverne, nei bordelli, nelle camere da letto, nei cessi… Niente sole, niente mare, niente cielo… tutto moderno, ossia tutto abbassato, avvilito, ridotto alla nostra miserabile statura…”
Bruno Elpis
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Una storia di grandezza e di miseria
Le isole del paradiso di Stanislao Nievo: “È una storia piena di grandezza e di miseria. Cominciò nell’anno 1699, nel mese di marzo”.
La Melanesia è un paradiso naturale (“La natura aveva colori forti, più aggressiva di quella che conoscevano. Sbocciava contorta, avviluppando d’intrecci bruni il suolo da cui spuntavano qua e là artigli di roccia livida”). Ma è anche un luogo maledetto o proibitivo, tamboo in lingua locale.
Nella Nuova Irlanda giungono coloni-emigranti, anche italiani, che subito interpretano il ruolo che l’uomo sa assumere prontamente (“Se c’è acqua a dislivello idrico, vedrai che colpo facciamo con la mia fontana elettrica!”): intervenire sulla natura (“Dall’altra parte c’è la macina di pietra… Devono farla funzionare perfettamente. Altrimenti addio frantoio e segheria!”), dominarla (“Angelo ha in mente di applicare al mulino che costruite un motore elettrico di sua invenzione”), appropriarsene. Salvo poi patirne le reazioni.
Qui Nievo fonde il gusto del romanzo (“Emma Coe, creola di sangue reale venuta da Samoa tre anni prima col marito Farrell a colonizzare la piccola isola di Mioko, da cui si domina la costa della Nuova Britannia e della Nuova Irlanda”) e il proprio naturalismo in una storia che vinse il premio Strega nel 1987.
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La castità di Baudelaire, per esempio, è famosa
Silvio Badeschi crede che L’amore coniugale sia, insieme all’arte, lo sbocco della propria tormentato estetica (“Io ero, prima che incontrassi Leda, quello che si chiama… un esteta”).
Alberto Moravia affronta in quest’opera il tema della correlazione inversa tra l’attività sessuale (“La castità di Baudelaire, per esempio, è famosa”) e la creazione artistica (“Ma D’Annunzio… ho sentito dire che aveva tante amanti… Come faceva lui?”), ipotizzata da Freud nella teoria della sublimazione.
Ma Leda ha caratteristiche (“Quella stana trasformazione del volto in maschera e del corpo in marionetta”) e vita propria (“Ma io accettavo questa buona volontà come una prova del suo amore verso di me e non mi curavo, per allora, di indagare che cosa nascondesse, e quale ne fosse il significato”), e docilmente, e neanche troppo proditoriamente, si ribella al ruolo imposto dall’egocentrismo del marito.
Nell’antica villa toscana (“Ventisette ottobre del mille novecento trenta sette… Intanto eravamo giunti passo passo alla porta della città, di enormi massi etruschi sormontati da un sottile arco medievale”) ove lo scrittore si rifugia con la sposa per scrivere la propria prima opera, Silvio Badeschi si astiene dalla pratica erotica (“In quei venti giorni di lavoro, avevo per così dire sospeso l’espressione del mio amore”) e crea (“Io avevo nella testa una grossa e inesauribile matassa e con quell’atto di scrivere non facevo che tirare e svolgere il filo disponendolo su fogli nei disegni neri ed eleganti della scrittura; … e io sentivo che più svolgevo e più restava da svolgere”), ma la realtà reagisce, sorprende, costringe Silvio a riconsiderare tanto l’opera scritta quanto l’amore coniugale.
Leggendo il romanzo, è possibile ammirare l’architettura di una storia nella quale Moravia teorizza e critica la teoria, posiziona e capovolge, costruisce e distrugge, mascherando anche con una sottile ironia il beffardo svolgimento della relazione coniugale.
Bruno Elpis
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Una volontà di rinunzia e di abdicazione
Dopo Agostino (1943), Alberto Moravia torna a occuparsi dell’adolescenza ne “La disubbidienza” (1948).
Di fronte al giovane protagonista si spalanca il disagio del cambiamento in atto, che egli interpreta attraverso la disubbidienza (“La sua rabbia… Come se avesse avvertito l’inanità della violenza, essa si trasformò improvvisamente in una volontà di rinunzia e di abdicazione”), una reazione al tempo stesso spontanea e ragionata (“Forse, riprendendo a disubbidire su un piano più logico e più alto, egli non faceva che ritrovare un atteggiamento nativo e perduto”). Un processo che investe ogni dimensione vitale: la scuola; i genitori (“E voi perché mi avete fatto pregare tanti anni inginocchiato davanti il vostro denaro?”); il senso della proprietà e del possesso; il denaro, feticcio della società borghese. Infine la stessa vita (“Ora si era attaccato all’ultima parte del piano: la morte fisica”).
“Non mangiare: comprese ad un tratto che questa, fra tutte le disubbidienze, era la più grave, la più radicale, quella che maggiormente intaccava l’autorità familiare.”
All’autodistruzione si oppone tuttavia l’istinto di autoconservazione, un fiume sotterraneo che carsicamente affiora negli impulsi sessuali, indirizzati in un primo tempo verso la governante, poi verso l’infermiera che si occupa della sua malattia.
La scommessa della vita sembra legata alla capacità di normalizzare la trasformazione (“Gli pareva di aver trovato finalmente un modo nuovo e tutto suo di guardare alla realtà fatto di simpatia e di paziente attesa”).
Questo romanzo esalta le capacità analitiche di Moravia, che qui si avventano sia sul protagonista dell’età evolutiva, sia sui manufatti sociali che spesso strangolano l’individuo (“L’idea della morte come di un’operazione magica che gli avrebbe permesso di creare un mondo meno assurdo, più amabile e più intimo, in cui ogni cosa fosse giustificata dall’amore”).
Bruno Elpis
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Volere ci consuma e potere ci distrugge
Guillaume Musso ha ormai detto addio ai drammi psicologici proposti in confezione fantasy e si omologa al poliziesco. La ragazza di Brooklyn ne è la riprova.
La storia è complicatissima (“La foto dei tre cadaveri carbonizzati, la sacca piena zeppa di banconote, i falsi documenti, la doppia vita di Anna”), diciamo soltanto che Raphael, ragazzo-padre e scrittore affermato, in tre-quattro giorni si fa Parigi-New York con bimbo al seguito sulle tracce dell’amata, che è fuggita e poi è stata rapita, ha un orrore nel passato e ha cercato di dissimulare la tragedia cambiando identità…
Per il resto, la formula è ormai la solita: un aforisma introduce il capitolo (“Volere ci consuma e potere ci distrugge – Honoré de Balzac”); la narrazione è policentrica; qualche concetto viene rubato alle scienze umane (“Uno choc biografico, un elemento rimosso, un segreto che ne spiega la personalità, la psicologia, l’interiorità, nonché una buona parte delle azioni”) o alla storia dell’arte (“le modelle torturate dal pittore Egon Schiele”); il finale – un pari e patta con sorpresa nelle ultime pagine - non basta a riscattare una storia bizantina e arzigogolata, che ha anche la pretesa di avventurarsi nei poteri e nei veleni della politica americana (“Lo stato di diritto è una chimera. Fin dalla notte dei tempi l’unico diritto esistente è il diritto del più forte”).
Bye-bye Musso?
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- sì
- no
Le case parlano
Marco Buticchi parte dalla “Casa di mare” in Liguria per riprodurre la burrascosa vita di suo padre, Albino Buticchi, del quale narra le gesta che lo condussero dall’originaria condizione di umiltà al successo economico di imprenditore petrolifero e di presidente del Milan calcio.
Il romanzo si apre con il fallito tentativo di suicidio del padre (“Ma il tempo, quando decide di scadere, lo fa senza preavviso”), che – in preda alla ludopatia – distrugge la fortuna economica costruita con anni di lavoro, ma anche grazie a felici intuizioni e scelte azzardate.
Albino ben si presta a indossare le vesti dell’eroe di un romanzo, sia per le avventurose esperienze di gioventù, sia per la frequentazione del “bel mondo” che conseguì al successo economico e sportivo.
Ma l’attenzione del figlio scrittore è soprattutto puntata sull’analisi della patologia che afflisse il padre (“Forse fu Egle a insegnare a mio padre quanto gravoso potesse diventare il peso dell’esistenza”): la smania del gioco d’azzardo (“La cassettina piena di fiches, in particolare, faceva parte della magia che fa dimenticare il valore del denaro”), che condusse l’uomo di successo all’autodistruzione e causò tante sofferenze familiari (“Ma la promessa di ogni giocatore è assai meno fedele di quella del più spergiuro tra i marinai”). Soprattutto su questo si interroga lo scrittore, che sceglie alcuni aforismi di Camus (“Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”) anche per introdurre le fasi giovanili della vita paterna (“Non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare”).
Bruno Elpis
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In tutto simile a un enorme batrace
Agostino è un affresco del passaggio dall’infanzia all’adolescenza ed è paradigma delle capacità analitiche di Alberto Moravia che, nella vicenda estiva del ragazzino di buona famiglia, rappresenta l’affiorare della sessualità, la scoperta dei rapporti sociali nel confronto con una banda di “popolani” e delle insidie nel rapporto con gli adulti.
Le abilità descrittive di Alberto Moravia si lasciano gustare anche nella descrizione dei luoghi (“In fondo alla strada, in un’aria tremolante e remota, il mare scintillava immobile. All’estremità opposta la pineta inclinava i rossi tronchi sotto le masse verdi e afose dei rotondi fogliami”).
La località nella quale Agostino soggiorna con la madre non viene mai nominata nel corso del romanzo. Vengono citati il bagno Speranza, lo stabilimento Vespucci, il Rio (“Apparve loro il fiumicello intero che, con un moto insensibile della compatta e scura acqua di canale, andava a sfociare poco più in giù, tra i sabbioni. A monte, il fiume si inoltrava tra due file di bassi e gonfi cespugli argentei che spandevano sull’acqua specchiante certe loro vaghe ombre…”). Ma il paesaggismo di Moravia identifica i luoghi (“La casa del Tortima sorgeva sulla darsena, al di là del ponte apribile di ferro che scavalcava il canale del porto”), interpretandoli…
Lo stesso dicasi per le capacità di scolpire le fisionomie con le parole (“Il Saro, così si chiamava il bagnino, aveva in ambo le mani non cinque ma sei dita che davano alle mani un aspetto enorme e numeroso e più che dita parevano tozzi tentacoli”).
La caratterizzazione è tangibile e visiva. E il personaggio è un animale esadattilo, anfibio, insidioso (“Gli sguardi che il Saro, accovacciato e immobile, in tutto simile a un enorme batrace abitatore del canneto, avventava su di lui tra gli occhi socchiusi”).
Bruno Elpis
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Non dura… Se ne va
L’imperfetta meraviglia (“Perché la meraviglia è imperfetta?... Perché non dura… Se ne va. Insieme allo stupore, la curiosità, l’attenzione millimetrica, il divertimento, il piacere, la gioia che conteneva”) è una gelateria: da qui (“I frigoriferi vetrati, il pastorizzatore, il mantecatore, i tinidi maturazione, l’abbattitore”) parte Andrea De Carlo per impiantare la love-story tra una rockstar (Nick Cruickshank) e Milena, una donna che fa del gelato una vera e propria arte.
A lui non mancherebbe proprio nulla, neppure il volo a vela (“Nick Cruickshank chiude la capottina, blocca le cinture di sicurezza, controlla i serbatoi del ballast, ancora barra e pedaliera, mette i trim in posizione di decollo, chiude e blocca i diruttori. Verifica gli strumenti… anemometro, variometro, altimetro a due lancette, virosbandometro, bussola magnetica”). Neppure una moglie creativa (“Il pop a colori super-saturati delle creazioni in Anti-pelle di Aileen”). Né gli alpaca nel parco della villa provenzale.
Lei è in procinto di procreare, soprattutto per il volere della volitiva compagna. Ma la relazione saffica sta diventando una prigione di ruoli.
E la casetta nel bosco è lì e aspetta i due, che sembrano calamitati l’uno verso l’altro. E sarà teatro dell’esplosione di un amore a tinte forti (notevole la doppia scena di sesso orale, descritta nello stile angelicato di De Carlo).
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Il palo di supplizio di un innocente
La natura è il sesso che un artista del primo novecento ha rappresentato in un crocefisso nudo ne La natura esposta di Erri De Luca.
“Oggi la Chiesa vuole recuperare l’originale. Si tratta di rimuovere il panneggio”. Il delicato incarico (“Il condannato sta morendo, è agli spasimi che spesso culminano in un’erezione meccanica”) viene assegnato a un artista che ha un passato sulle montagne, ove ha aiutato i profughi a passare la frontiera.
Lo scultore si occupa del restauro immedesimandosi nel ruolo (“Informo il rabbino dell’intenzione di farmi circoncidere. Lo scopo è avvicinarmi”) e frequentando un operaio mussulmano che fornisce la materia prima per il restauro.
Nell’incontro umano tra le tre grandi religioni monoteiste (“Anche l’Islam ha usato atroci pali da supplizio. Parliamo di quanto male la specie umana ha inventato per se stessa. Nessun animale si avvicina al nostro peggio”), il protagonista vive l’esperienza artigianale alla ricerca di significati storici (“Perdonare loro. Queste parole innalzano la morte a sacrificio. Senza di loro la croce resta il palo di supplizio di un innocente”) e personali.
Ho trovato un po’ forzata la cornice della vicenda, che nel suo fulcro rimane interessante anche per il garbo con il quale Erri De Luca svolge il tema storico-religioso.
Bruno Elpis
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Io sì!
Chi ha paura di Virginia Woolf?
Io sì!
Perché Virginia spara a zero sul matrimonio, ossia su uno degli assi portanti delle nostre istituzioni e della nostra società.
Dunque, leggendo l’opera del recentemente scomparso (settembre 2016!) Edward Albee mi sono chiesto: perché mai aver paura di quest’opera e dei suoi protagonisti?
Nell’atto I, “Giochi e divertimento”, Martha e George - la coppia in piena crisi (ricorro a questo termine abusato esclusivamente nell’accezione etimologica greca: dal greco crinein, giudicare. La crisi è una fase in cui si giudica…) - ospitano a casa loro Honey e Nick, due “pivelli” del matrimonio. George e Nick sono professori universitari: l’uno storico, l’altro biologo. Altercano e si fronteggiano. Intanto Martha e George non esitano a imbarazzare gli ospiti, denudando i dissidi (tanti) e i conflitti (insanabili?) del loro matrimonio (“Martha e io ci limitiamo… a calpestare quel tanto di personalità che ci resta”)…
Il vino scorre a fiumi (“E adesso beviamo! Da bere per tutti!”), l’atmosfera si arroventa, intanto le solite rivalità coniugali montano (“George odia Papà… e non perché Papà gli abbia mai fatto qualcosa…”).
Nel II atto, Walpurgisnacht, si gioca sì, ma c’è solo spazio per giochi crudelissimi (“Umiliare il Padrone di casa… Saltare addosso alla Padrona di Casa… Maltrattare gli Ospiti…”)
Nel III atto, L’esorcismo, si compirà il titolo e la catarsi (del plot, e dello spettatore, poveretto lui) potrà realizzarsi come in ogni tragedia che si rispetti?
E torniamo allora alla domanda originaria.
La mia risposta è: ebbene sì, io ho paura di Virginia Woolf. Dei suoi sortilegi-sorpresa (“Appare una mano con un gran mazzo di bocche di leone”) e delle implicanze di una risposta alla più banale delle domande: ma il matrimonio è davvero la tomba dell’amore?
Un dramma impossibile da commentare. Lo si può fare soltanto come Edward Albe suggerisce: meravigliando, imbarazzando, inquietando. Tenendo la mente fissa sulle immagini di una coppia instabile come Liz Taylor e Richard Burton, indimenticabili protagonisti della trasposizione cinematografica…
Bruno Elpis
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Il tempo è una spiaggia
“Un tango sulla Senna e altre piccole gioie di questo mondo”: una raccolta di racconti brevi di Philippe Delerm, un po’ sulla falsariga de “La prima sorsata di birra”.
Le atmosfere di Parigi sono sovrane, in tutte le dimensioni, anche quelle sotterranee (magari create dai pianisti che si alternano nelle stazioni – “Virtuosi del passaggio”) della metropolitana (“Volersi bene in metropolitana”: “Tre o quattro fermate, un tragitto irrisorio e sufficiente a dirsi che ci si vuole bene”).
Gli echi esistenzialisti risuonano (“Il tempo è una spiaggia”: “Andiamo in riva al mare, spesso. Ma la spiaggia è mentale. Può essere la riva di un lago o di un fiume”) con note intense (“Malgrado la futilità delle apparenze, è nel profondo di noi che torniamo”) e vibranti (“Le vacanze… Non cerchiamo sensazioni nuove, ma una libertà perduta, una parte di spensieratezza che si riallaccia ai riti dell’infanzia”).
La menzogna dell’anguria, I rumori di Venezia, Natura morta, Le acque torbide del moijto, Sgranocchiare una rapa: sono titoli che catturano momenti anche apparentemente insignificanti.
Notevole l’umanitarismo de “La memoria dell’oblio” (“Da qualche giorno è nel reparto Alzheimer della casa di riposo”).
Giudizio finale: atomistico, frammentato, lieve.
Bruno Elpis
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Dove vanno a finire le anatre quando il lago gela
Gian Paolo Serino: chi meglio di lui, che affonda le sue radici nella critica letteraria, poteva progettare un’opera che ritrae volti e corpi a raffigurare il disagio e l’infelicità degli interpreti del sogno americano e dello star system?
In “Quando cadono le stelle”, otto icone proclamano la propria identità prima e poi s’incontrano tutte insieme nel finale, in un’installazione di Maurizio Cattelan, a sfidare per sortilegio artistico le leggi dello spazio e del tempo.
Non voglio svelare quali siano i personaggi che rivivono nelle parole e nel creazionismo di Serino, preferisco fornire qualche indizio di alcuni personaggi ai quali viene assegnata la rappresentazione del “male di vivere”. Sarà facile riconoscerli…
Sotto l’eleganza e la bellezza di un attore, si nasconde un bambino che non ha saputo reagire alla sofferenza familiare (“Io sono Archibald Leach… Avevo nove anni quando è morta mia madre. Papà aveva detto che era partita per curarsi e che poi il cancro l’aveva uccisa”) se non con la violenza e l’alcol.
Un aspirante scrittore s’innamora della figlia di un premio Nobel per la letteratura (“Secondo te dove vanno a finire le anatre quando il lago gela, d’inverno?”): quando “il giovane…” si arruola e parte per l’Europa, lei non risponde più alle lettere, lui scoprirà che l’amata, forse affetta dal complesso di Elettra, è divenuta la moglie di Charlie Chaplin.
Il signor K. è un burocrate (“Impiegato all’Istituto di assicurazioni anti infortuni sul lavoro”), parla con l’insetto Gregor, frequenta le ragazze di madame Nediakina (“che scimmiottavano il Burlesque”) e nel postribolo si lascia conquistare da Hansi, vittima della violenza del padre. Ci sono tutte le premesse per fondere vita e letteratura…
Un altro grande scrittore (“Chiamatemi Ernestina”) cerca di esprimere in tutti i modi vitalità e virilità, ma alla fine soccombe schiacciato sotto il peso del passato (il padre suicida) e divorato dalla nevrosi (“Per tutta la vita ho cercato di uccidere Ernestina”).
Giudizio finale: ritrattistico, interpretativo, sincretistico.
Bruno Elpis
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Il mistero non era il buio ma la luce
Il mistero non era il buio ma la luce
Stanislao Nievo immagina l’Aldilà con un’opera che si articola in due parti eterogenee.
Nella prima, Stefano Saint Sixt – spirato agli albori del millennio – compie un viaggio in un paesaggio sempre più metafisico, nel quale sperimenta la luce (“Il mistero non era il buio ma la luce”) e una nuova energia (“L’energia in cui vibrava apparteneva a un ritmo semplice in cui prendere identità, mentre la luce lo divorava”), abbandonando gli schemi umani che ancora lo impregnano della vita appena conclusa (“Si sentiva tornare bambino, bambino dell’eternità”).
Nella seconda parte, Stefano – in vita fu l’unico sopravvissuto in un parto trigemellare – si connette con due omonimi (“Tre persone appartenenti a tempi diversi… piccoli argonauti dall’identico nome…”): “Un contadino, alla fine di maggio dell’anno 1453, lungo le sponde d’Asia” e un ricercatore, che appartiene al futuro…
Forse sulla scia degli entusiasmi che accompagnarono l’avvento della rete, Nievo attribuisce a una Super Rete (“La ricevente della Super Rete che tutto pone in comunicazione”) il potere di connettere realtà temporali parallele o discontinue…
In questa seconda parte l’aldilà assume i tratti filosofici dei grandi interrogativi (“Poi il seme del Nulla svuotò la sua forza e il grembo del Vuoto lo accolse, un getto di speranza cieca nel primo degli abbracci. Le due ondate di desiderio si trasformarono in un solo elemento… una nuova vita formatasi nell’immensità del cosmo…”), ci si imbatte nei vizi e nell’angelo nero del male, in uno zoo di animali prigionieri, nel giardino delle tempeste…
Nel momento cruciale della scelta (“Pensa bene se correre in cielo o in terra”), sembra farsi spazio un’ipotesi soffusa di fede e poesia.
Giudizio finale: etereo, quintessenziale, filosofico.
Bruno Elpis
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Figlio del deserto
Il sorriso degli dei riflette la ricerca condotta da Stanislao Nievo nel tentativo di trovare connessioni storiche tra personaggi ed eventi che hanno segnato la sua vita.
Un ricercatore-viaggiatore, l’alter ego dello scrittore, vive un’esperienza mistica nel deserto tra i rottami di una sciagura aerea e presenze varie: i compagni di viaggio, un anacoreta, i berberi, una iena, un leone, alcuni uccelli. Nell’atmosfera misteriosa e ispirata del deserto (“Sei diventato figlio del deserto, del vuoto, e ciò ti può accadere. Puoi tornare indietro anche tu, tanto indietro”) tre vicende – la sciagura aerea del 1989, il naufragio del 1861 del vascello sul quale era imbarcato l’antenato dello scrittore, Ippolito Nievo (“Da tempo segue le tracce d’un naufragio risorgimentale che ha coperto una tragedia e un colossale furto di stato”), e un agguato teso dal ghibellino Malacappella al capitano guelfo Balzanello dopo una notte di orge (“Saranno fratelli, figli di tre madri e tre padri, legati al nostro patto”) - sembrano riconnettersi tra di loro, unificate tanto dalla disperata ricerca autobiografica e cosmica, quanto da un nominalismo filosofico teso a rintracciare gemellanze e similitudini (“Ma i nomi legano le storie, scelgono le persone che si muovono come linee di un disegno speculare in attesa d’entrare nell’universo delle parole, dei nomi, l’unico che forma la realtà”).
Forse a causa degli sbalzi epocali, l’opera è a tratti ostica, per certi versi ermetica, per altri versi esoterica e simbolistica.
Bruno Elpis
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Diventato un vagabondo per il dolore che provava
Quando incontro un “senzatetto”, spesso mi chiedo cosa l’abbia spinto alla sua scelta di vita.
Una delusione o un dolore?
La miseria?
Un’esigenza parossistica di libertà?
Una protesta contro la società?
O forse una combinazione di fattori…
In “Fiori per un vagabondo” di Gianni Simoni i clochard sono due.
Un uomo alcolizzato, che la ricostruzione dell’ex magistrato Carlo Petri identifica in un architetto bresciano.
Una donna di nome Paola, che ha stretto amicizia con l’ex architetto, senza conoscerne il passato.
Per questo, quando l’uomo viene giustiziato con un colpo di pistola, Paola depone quotidianamente un mazzo di fiori di campo sul luogo del delitto.
Per entrambi la scelta è riconducibile a un dolore antico e, per certi versi, simile (“L’architetto è diventato un vagabondo per il dolore che provava… non per far perdere le sue tracce”).
Giudizio finale: lineare, compassionevole, un giallo estivo con soluzione.
Bruno Elpis
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Un sardo gesuita, praticamente un mostro
Gesuino Némus pare sia uno pseudonimo, “La teologia del cinghiale” è l’opera che si è aggiudicata il premio Campiello 2016 opera prima.
La scena del romanzo è una paesino del nuorese. Corre l’anno 1969. Nell’intorno della notte in cui le duemila – o poco più - anime di Televras sono impegnate ad assistere allo sbarco dell’uomo sulla luna, capita di tutto: un latitante viene ritrovato morto ammazzato, sua moglie s’impicca, il figlioletto Matteo sparisce nel nulla…
Matteo è un dodicenne intelligentissimo: il parroco, don Cossu (“Un sardo gesuita, praticamente un mostro”), l’ha adottato in canonica, forse per lui sogna un futuro degno delle sue abilità intellettuali e musicali. Insieme a lui, ma in ruolo subordinato e recessivo, c'è un altro bambino : Gesuino Némus, uno strano orfanello (“Pensate che fortuna: non avere la nozione di padre e di madre”). Qualcuno dice che sia figlio del matto del villaggio. Vero è che non parla, ma sogna di diventar scrittore. Lo diventerà nella clinica ProSpesSalutis (“Oggi sono un po’ trasgressivo e mi sento come Céline che era lo scrittore preferito del prof. Carlo Schengen, anche se io prima di conoscere lui ero convinto che fosse una donna”). Ma la mente corre sempre là, ai tempi in cui sotto l’occhio paterno di un prete un po’ fuori dalle righe, tra due bambini era scoppiata una complicità più unica che rara (“Dopo che vedemmo quella cosa nella caverna di Monte Corongiu”)…
Tra scene divertenti e una narrazione eccentrica, infarcita di citazioni in dialetto sardo (“Castia su mortu e pentza a su pappongiu – Guarda il morto e pensa al mangiare”), prende corpo un affresco a tratti ironico, a tratti commovente, a tratti nostalgico (“Non devo diventare grande… è l’unica maniera che ho di salvarmi”) di una Sardegna perduta, rappresentata con personaggi ben caratterizzati ai quali ci si affeziona facilmente, nella culla di un folclore che sconfina nella vita e viceversa (“Se non riesci a fare la vita che ti piace, fatti piacere quella che stai facendo”).
Bruno Elpis
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Questa è stata la mia Caporetto
“Le regole del fuoco” (romanzo secondo classificato al premio Campiello 2016), così come le vede Elisabetta Rasy, nel romanzo finalista al Campiello 2016, vengono declinate nell’esperienza della napoletana Maria Rosa Radice e della comasca Eugenia Alferro, entrambe coinvolte da una scelta coraggiosa ai tempi della grande guerra (“Partivo per il Nord, per la guerra, per il fronte come infermiera volontaria”).
Hanno motivazioni differenti: l’una è fuggita all’ambiente annoiato dell’aristocrazia napoletana (“Ero venuta al fronte non per amor di patria ma per odio”), l’altra persegue un sogno professionale ambizioso per una donna d’inizio XX secolo e, anche per questo, sembra più adatta agli orrori e alle mutilazioni della guerra.
Pur essendo così diverse (“Mio padre è morto e il tuo?... Mio padre è socialista e crede a questa guerra”), le due giovani donne s’innamorano e vivono una struggente storia d’amore saffico tra le veglie in corsia, i bombardamenti, la fuga (“Questa è stata la mia Caporetto”)…
La guerra, così come le ha unite, le separa (“Anche tu non avevi più il mio indirizzo”).
Un tenero epistolario le riunisce brevemente (“’O surdato ‘nnammurato. Io invece ero un’infermiera innamorata di un’altra infermiera e nessuno avrebbe cantato il mio amore per te”), pur nella paura che le lettere possano essere lette anche da altri.
“Le regole del fuoco” e la perdita della fotografia dell’amata insegneranno comunque alla narratrice Maria Rosa, ribattezzata Alba Rosa nella consuetudine che gli amanti hanno di chiamarsi in modo personale, a scegliere la propria strada di vita: a Parigi, lontano dalla Napoli dalla quale era fuggita.
Giudizio finale: un romanzo romantico e crudele per celebrare la fierezza di una donna capace di autodeterminarsi.
Bruno Elpis
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Non ci sono molte alternative al cinismo
“La prima verità” (premio Campiello 2016) di Simona Vinci affiora in un romanzo duro, composto da quattro parti che rappresentano un sistema di vasi comunicanti.
Nella prima sezione, Angela e Lina, due giovani donne che ben presto si legano anche sentimentalmente, partecipano al programma “di un gruppo di operatori psichiatrici triestini che avrebbe lavorato alla deistituzionalizzazione dell’ospedale”. L’ospedale è l’orribile manicomio dell’isola di Leros, nel quale il repressivo regime dei colonnelli greci cercò di confinare i malati di mente. Due psichiatri, la dottoressa Lellis e il dottor Moros (“Sono diventato psichiatra per curare la testa della gente e mi ritrovo qui a fare il domatore di leoni”), dirigono la struttura senza porsi troppi problemi etici (“Qui non ci sono molte alternative al cinismo”).
Nella seconda parte si narra la storia del poeta Stefanos, padre di Lina, prigioniero politico che nel 1968 venne rinchiuso nella struttura confinante con il manicomio ove la dittatura ellenica deportava e isolava gli oppositori del regime. Il poeta cerca un contatto con una paziente, Teresa, e un bambino, Nikolaos: la delicatezza di questo rapporto dovrà tuttavia fare i conti con la crudeltà dei carcerieri…
Poi Angela decide di tornare a Leros per azzerare i suoi sospesi con il passato e restituire a Nikolaos un tesoro umano: le poesie di Stefanos. Nel frattempo il manicomio è stato smantellato e quindi occorre risalire a “l’elenco di indirizzi delle case famiglia nelle quali erano alloggiati i pazienti sopravvissuti”.
Nell’ultima sezione la narratrice ricorda la gioventù trascorsa a Budrio, cittadina ove c’erano due ospedali psichiatrici: il periodo evocato è quello successivo alla legge Basaglia (“Nel 1978… l’anno nel quale in Italia ai matti veniva consentito, per così dire legalmente, di ricominciare a circolare per le strade”); poi, per interesse personale, la narratrice affronta un’esperienza dolorosa: “Per… capire… un istituto psichiatrico prima della riforma Basaglia sono dovuta andare… in Africa, Sierra Leone. L’ospitale psichiatrico di Freetown, il Kissy Mental Hospital…”
Viene così a contatto con una realtà terribile (“Ognuno dei pazienti aveva una caviglia incatenata al letto. E alcuni letti erano a loro volta incatenati ai muri”), che le consente di comprendere (e immaginare) la realtà di Leros.
Il romanzo è crudo, descrive le sofferenze e le violenze senza mezzi termini, e preferisce percorrere la via diretta dell’enunciazione esplicita. Il tema, in sé complicato, avrebbe potuto essere affrontato nella forma pura del saggio o con una rappresentazione del tutto artistica. L’autrice ha preferito scegliere una modalità ibrida e romanzesca…
Bruno Elpis
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Tutte le cose partono a razzo
Dai cassetti di mobili vecchi può fuoriuscire il passato.
E nell’appartamento di città ove si è abitato per cinquant’anni, così come nella casa sull’Appennino emiliano ove affondano le radici di una famiglia, continuano a vivere i fantasmi di genitori e parenti (“E il grosso dei fantasmi, pensavo ogni tanto per tirarmi su il morale, è sempre stato a Guzzano”) che ormai se ne sono andati (“6 luglio ’70, con nonno, robusto e svelto di riflessi, settantadue anni… 6 luglio ’71 senza più nonno…”).
Lo sostiene Ugo Cornia che, nei Buchi del suo romanzo racconta il ciclo della vita attraverso ricordi e divagazioni che si avvicendano in ordine casuale secondo il libero flusso dei pensieri sciolti.
L’intonazione ironica e stranita della narrazione consente di proporre in modo sostenibile i dolori dell’abbandono (“Finito? Boh. Finito dove. Smantellare ancora…”): dei genitori, dei luoghi cari, degli oggetti che sono testimonianze di una vita vissuta anche nell’ordinarietà e nella semplicità (“In uno di questi attacchi di furia… sposta sta famosa angoliera delle Nannini, e sotto, in fondo in fondo, contro il muro ci saranno state ottanta di ste gambe di pollo”).
Alcune annotazioni sono straordinariamente limpide (“Tutte le cose partono a razzo verso il loro destino”), lo stile è volutamente puerile e utilizza anacoluti e infinitive in modo efficace e divertente: un sistema informale per raccontare nostalgie profonde e inestirpabili…
Bruno Elpis
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L’uomo era bruno, silenzioso e soave
Con “Il prato in fondo al mare”, Stanislao Nievo, nipote di Ippolito, vinse il premio Campiello nel 1975.
In questo romanzo Stanislao s’interroga sulla sorte dell’illustre antenato (“L’uomo era bruno, silenzioso e soave”), che perse la vita a soli ventinove anni durante il naufragio dell’Ercole, il vascello che doveva riportare a Genova l’autore delle “Confessioni di un italiano” con gli ultimi garibaldini rimasti in Sicilia dopo la spedizione dei Mille.
L’indagine personale che il nipote conduce (“Ha preso avvio cento anni dopo la scomparsa dell’Ercole, la nuova indagine”) esplora le possibili cause del misterioso inabissarsi del naviglio: “Sette tesi diverse. Non una coincideva con le altre… Una vera idra dalle sette teste, un’altra fatica d’Ercole in questa storia piena di analogie e di abbagli”.
Dopo la ricostruzione immaginata della tempesta nella quale incappò l’Ercole, Stanislao percorre tutte le vie – compresa quella dei sogni - per restituire alla storia una verità che sembra trafugata dagli abissi del Tirreno.
Lo scrittore approfitta di alcune immersioni sperimentali di batiscafi per perlustrare le profondità nelle quali anche i sensitivi indicano il probabile, oscuro destino dell’imbarcazione.
Nell’ultima discesa, la verità sembra a portata di sommergibile… poi un incontro con una creatura degli abissi, il cinto di Venere (“Uno ctenoforo straordinariamente diafano… Incredibile, sembra di plastica, guarda, si vede lo scheletro dentro”. “Lascialo andare, liberalo, urlai”) induce ad abbandonare l’obiettivo, che sembra sgretolarsi con i reperti del relitto, quasi a tutela dell’immensa solitudine dell’artista…
L’opera è composita: è una ricostruzione di fantasia, una descrizione meravigliata e naturalistica, una cavalcata sottomarina nella mitologia classica, un tributo a uno scrittore-poeta prematuramente scomparso.
Bruno Elpis
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Viveva seguendo un tempo proprio
Pierre-Yves Leprince immagina che Noël, un ragazzino che presta servizi di fattorino presso l’albergo di Versailles ove provvisoriamente alloggia Marcel Proust, ritrovi Il taccuino perduto (“Quel taccuino… contiene lo schema del mio articolo”) dall’autore de “La recherche du temps perdu” (“Noi viviamo seguendo il tempo dell’orologio, lui viveva seguendo un tempo proprio, scavava e dilatava le ore…”).
Tra apprendista detective e scrittore si crea un’empatia molto intensa, corroborata da comuni interessi (“Avete studiato musica con Gustave Charpentier… la Luisa”), propensioni naturali (“Il dono più grande che ci sia: preoccuparsi delle proprie azioni e non delle apparenze, della realtà che ci circonda e non di se stessi”) e affinità (“Capite che apparteniamo alla stessa famiglia, quella degli investigatori?”).
L’albergo diviene teatro di indagini condotte dall’insolito binomio (“Caro il mio piccolo Mercurio dai piedi alati, siamo fattorini, messaggeri e osservatori in cerca di misteri da risolvere”): dopo il ritrovamento del taccuino, occupano il campo il caso della borsa smarrita che sfocia in un uxoricidio (“Dramma della gelosia a Versailles, il signor Cornard strangola la moglie”), il caso delle donne inglesi che proclamano “la visione della donna triste” (ndr: Maria Antonietta), la nuova sparizione del taccuino e l’omicidio del cameriere Joseph.
Mentre Marcel P. e discepolo sono impegnati nella loro amicizia e nelle investigazioni, l’autore del romanzo per bocca di Noël indaga sui misteriosi orientamenti sessuali di Proust (“Esistono anche diversi tipi di amicizia, la nostra non sarà fatta di confidenze ma di riflessioni”): la narrazione si nutre del clima ambiguo dell’albergo, ove il personale di servizio non disdegna concessioni a clienti facoltosi, e lambisce pratiche sessuali di ogni gusto – come quelle di Daniel detto Il frusta, la preghiera in ginocchio, l’impiccagione interrotta - per formulare un’ipotesi “innocente” e originale circa la sfera sessuale del grande scrittore. Con uno scopo dichiarato (“Il lettore avrà capito che questo libro è un omaggio travestito da romanzo poliziesco”) e nella consapevolezza che ci “si sforza di assomigliare agli altri, ma assomigliamo sempre e solo a noi stessi”.
Giudizio finale: lepido, dimostrativo, morbosamente indagatore.
Bruno Elpis
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Come colpire dei bersagli a un tiro a segno
“A sangue freddo” di Truman Capote è il progenitore del romanzo non fiction: ripercorre in modo analitico e dettagliato un caso di cronaca dinnanzi al quale il mondo inorridì nel novembre del 1959, quando due balordi sterminarono un’intera famiglia – i Clutter - a Holcomb, Kansas.
Gli ambienti familiari e le atmosfere cittadine vengono radiografati con dovizia di particolari e descrizioni. La strage viene ricostruita attraverso le confessioni dei due omicidi, senza troppo indugiare sui particolari macabri.
La storia vive delle tensioni: tra efferatezza del delitto e fatuità del movente; tra la purezza cristallina delle vittime e l’atrocità malata dei carnefici; tra le differenti fisionomie dei criminali. Perry (“I doni di sua madre erano evidenti; meno lo erano quelli del padre, un irlandese lentigginoso…”) è vittima di un disastro famigliare ed educativo, ha un profilo criminale (“Si convinse che Perry era… un assassino nato… capace… di ammazzare con il massimo sangue freddo”) e distorsioni che non lo esentano da una sensibilità particolare nella quale lo stesso Capote s’identifica; Dick è cinico e superficiale, forse risente di un incidente che ha alterato il suo equilibrio psico-fisico (“La contrazione muscolare del sorriso restituiva quel volto alle giuste proporzioni…”)… vero è che anche il caso agisce da detonatore (“Se non avesse mancato Willy-Jay… non sarebbe stato lì davanti a un ospedale ad aspettare che Dick ne uscisse con un paio di calze nere”).
Nell’ultima sezione del romanzo (L’angolo), quella nella quale i due rei (“L’unica seria discrepanza era che Hickock attribuiva tutte e quattro le uccisioni a Smith”) attendono l’esecuzione della sentenza del giudice Tate, la costruzione narrativa di Truman Capote induce il lettore a interrogarsi su temi estremi: la natura umana può essere malvagia in sé o anche il delitto più atroce ha una causa sociale o psicologica? Siamo proprio sicuri che la pena di morte – una condanna che trova la sua ragione essenzialmente nella vendetta – sia il doveroso contrappasso al quale sottoporre chi ha agito con crudeltà?
Tra l’altro, proprio in questa parte viene sviluppato un interessante affondo sui temi della psicologia criminale (“Tre dei delitti di Smith erano logicamente motivati… ma è opinione del dottor Satten che solo il primo assassinio abbia un’importanza psicologica…”) in un sistema giudiziario sbrigativo, come quello americano, nel quale all’epoca si contrapponevano due principi ispiratori: “La legge M’Naghten… non riconosce alcuna forma d’infermità mentale quando l’imputato ha la capacità di discernere il bene dal male… La Legge Durham, per la quale semplicemente un accusato non è criminalmente responsabile se il suo atto illegale è il prodotto di un difetto o di una malattia mentale… Il giudice… si attenne alla Legge M’Naghten e la giuria concesse all’accusa la pena di morte richiesta.”
Bruno Elpis
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Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio?
“Una donna” è l’alter ego di Sibilla Aleramo, autrice spesso indicata come vessillo del femminismo italiano d’inizio secolo XX. “Una donna” è anche la dolorosa, autobiografica storia di una persona sulla quale si stampano le tristi esperienze dei genitori – un padre forte, ma anche infedele; una madre esaurita (“Oh la voce di mia madre, già diversa, che diceva cose incoerenti!”) e propensa al suicidio - e le ombre inquiete di un matrimonio senza amore.
Il percorso dell’autocoscienza si compie attraverso un’infanzia trascorsa in una città di provincia sul mare, una gioventù passata a Roma, infine una maturità raggiunta a Milano: ogni luogo è teatro dei tradimenti, delle violenze fisiche e degli stereotipi culturali che relegano la donna in ruolo supplice e subordinato. O in posizione di debolezza e svantaggio.
La ribellione di Sibilla, tuttavia, non può attuarsi pienamente (“Rispondere anche a nome dei fratelli: va’, mamma va’!”), perché la legge e la mentalità proteggono il prepotente: la protagonista non riesce ad affrancarsi come vorrebbe perché cede di fronte alla paura che le venga sottratto il figlioletto (“Sembrava un Sigfrido in miniatura”), unica vera ragione di vita (“Egli era il mio solo compagno”) pur in una mutata e più consapevole concezione della maternità (“Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio?”).
“Una donna” è un diario intimo e un documento storico, ma rimane anche oggi una lettura che induce a riflettere su natura (“Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo all’essere noi stessi…”), ruoli e opportunità che troppo spesso vengono incredibilmente, arcaicamente negati.
Bruno Elpis
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Ho vissuto due vite, molto diverse tra loro
Fresco fresco di premio Cesare Pavese 2016, “Essere vivi” di Cristina Comencini ha per protagonista Caterina. Figlia adottiva di Graziella, una donna piena di vita e di esuberanza, Caterina (“Ho questa capacità, mi viene dall’infanzia: vedo qualcuno e associo velocemente delle scene, delle situazioni”) sente di avere due anime (“Io ho vissuto due vite, molto diverse tra loro”), una legata alla vita prima dell’adozione, l’altra cronologicamente successiva (“La mia seconda madre vedeva i primi sei anni lontani da lei”): due essenze distinte e configgenti, che non si sono mai fuse in modo armonico e che emergono con prepotenza quando da Atene giunge la notizia inaspettata del suicidio della madre. Possibile che una donna così volitiva e innamorata della vita abbia deciso di seguire la sorte di Sebastiano, l’artista bipolare per il quale Graziella ha abbandonato il marito?
Caterina ricostruisce la vita greca di Graziella per cercare di comprendere le ragioni del gesto estremo, e lì conosce Daniele, il figlio di Sebastiano, anch’egli (“Un matto, figlio di un pittore squilibrato”) giunto sul luogo del doppio suicidio per i tristi riti del riconoscimento e delle esequie. Si sviluppa così una nuova relazione, per certi versi indefinibile (di fratellanza, di amicizia, di incerta attrazione) sino al finale misterioso e vertiginoso a Capo Sounion, di notte…
La breve storia riecheggia le atmosfere elleniche della tragedia e, sotto gli influssi di “Zorba il greco” (citato nella dedica iniziale e nel corso del romanzo), incontra i gusti di chi ama il dramma (“Del mio intuito fulmineo, alle persone preoccupano le capacità che non sono razionali”) soprattutto a sfondo esistenziale (“La vita è un posto dove c’è tutto quello che serve per goderla”).
Bruno Elpis
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