Opinione scritta da cesare giardini
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I portieri sanno sempre tutto di tutti.
Giuseppina Torregrossa, medico ginecologo e scrittrice, ha appena dato alle stampe il suo ultimo romanzo, un’altra vicenda di uno dei suoi personaggi più amati, l’ispettore Mario Fagioli: stanco della solita routine, vorrebbe lasciare, ma ci sono sempre casi che lo impegnano e che caparbiamente vuole a tutti costi risolvere. Qui è coinvolto in due casi: una morte sospetta e un agguato ad una nota star televisiva, con qualche trauma di non grave entità. Il nostro ispettore, sempre con quell’atteggiamento un po’ annoiato che lo contraddistingue, convive con una giovane spigliata, Lidia, proprietaria di un negozio di frutta e verdura: i due sembrano andare d’accordo, lui si illude di vivere una seconda giovinezza , lei ha trovato un porto sicuro dove medicare le ferite di una vita travagliata. Ed ecco che la routine di una vita tranquilla viene turbata dal primo caso: una donna del quartiere, Eleonora Piazzesi, denuncia una morte sospetta, quella della madre, a suo dire avvelenata lentamente dal marito, un individuo dall’aspetto ripugnante, assetato di soldi. Il secondo caso piomba subito dopo: una stagionata giornalista e star della TV, Albina Santalmassi, di ritorno a casa a tarda ora viene assalita alle spalle, buttata a terra e pesantemente insultata. Lei riceve l’ispettore, non desidera risolvere il caso in breve tempo, dato che la sua trasmissione televisiva verte anche su quello e fa grande audience: anche l’ispettore la tira in lungo, frastornato e piacevolmente interessato alla corte che gli fa con infantile insistenza una giovanissima assistente della star, Samantha, una tipa tutto pepe, mossette e tatuaggi. Naturalmente i casi si risolvono. Troppe sono le prove a carico del marito avvelenatore, compresi il ricovero finale della moglie in una clinica privata compiacente diretta da un medico incapace, amico del marito, e la scoperta in casa di foglie secche di elleboro, un potente veleno. Le telecamere del condominio inchiodano, nell’altro caso, le colpevoli dell’agguato, un gruppo di vecchiette maldicenti e gelose delle fortune altrui, guidate da una esagitata malata di mente: ma, ahimè, l’ausilio delle telecamere non era stato preventivamente richiesto e autorizzato dal pubblico ministero, risultando quindi privo di valore probatorio, con grande disappunto del precipitoso e malaccorto ispettore.
Ed i portieri dei due condominii che c’entrano? C’entrano eccome, perché come quasi tutti i portinai sanno tutto, vedono tutto, riportano quello che devono e non devono: hanno simpatie, antipatie, sembra che collaborino con l’ispettore, ma, su ordinazione, fanno anche sparire la posta… I condominii dove si svolgono le vicende sono i protagonisti muti, con le voci, i pettegolezzi, i litigi e qualche rancore mai sopito. L’autrice conosce bene quegli ambienti tipici di Roma, la loro storia, gli abitanti ed i loro abituali comportamenti: con il suo caratteristico stile ironico e garbato racconta vicende di tutti i giorni, gioie e dolori, amori e illusioni. Un lieto fine è comunque sempre d’obbligo: passata infatti l’infatuazione per la bella Samantha, l’ispettore Fagioli ritrova Lidia, che l’aveva temporaneamente lasciato, cercando di dimenticare tra le sue braccia le amarezze di una vita passata ad indagare nelle vite assai poco rassicuranti di famiglie apparentemente felici.
Il romanzo è leggero, brioso, scritto da chi conosce molto bene certi ambienti della capitale, stigmatizzandone i vizi e mettendone in luce le virtù: assicura al lettore qualche ora di piacevole svago.
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La Fondazione Osiride promette l'immortalità.
Dei tre romanzi della serie, questo se non erro è il secondo: il protagonista è Colter Shaw, di professione cacciatore di ricompense che si merita principalmente ritrovando persone scomparse. Nella prima parte del thriller (“La donna del precipizio”) è incaricato da due famiglie di rintracciare i figli, Adam ed Erik, spariti nel nulla dopo aver bruciato una croce e sparato ad alcune persone (si saprà poi per difendersi). Siamo nel nord dello Stato di Washington, nelle zone impervie delle Montagne Rocciose, ove è facile perdersi o nascondersi: i giovani, dopo peripezie varie, verranno rintracciati, Erik sarà riportato in famiglia, Adam si suiciderà, gettandosi da un dirupo senza un apparente motivo e col sorriso sulle labbra. La polizia del posto, intervenuta, non farà nulla; si dispererà invece una misteriosa donna (quella del titolo), arrivata con altri su una jeep e trascinata via dai compagni di viaggio. Tutto questo per introdurre la ben più corposa seconda parte del libro (“Il meglio deve ancora venire”), tutta dedicata ad una misteriosa “Fondazione di Osiride”alla quale si stava recando Adam e dalla quale proveniva la jeep della donna china sul precipizio. Colter vuole vederci chiaro, e decide di raggiungere la sede della Fondazione, nascosta tra le montagne, chiedere l’affiliazione e indagare sotto falso nome sulle attività di quella che è una vera e propria Setta, che promette a depressi e disperati di risolvere tutti i loro problemi: è diretta da una specie di guru, Maestro Eli, che, dopo un “percorso” di tre settimane, assicura un radioso futuro e addirittura l’immortalità. Naturalmente il Maestro è un sadico imbroglione, capace di straordinarie arti seduttive: intasca lauti compensi, ha beni immobiliari sparsi un po’ dappertutto, approfitta senza scrupoli delle partecipanti più giovani e, pagando sostanziose bustarelle, ha la connivenza dei poliziotti del posto. In sintesi, Colter riesce ad entrare furbescamente nelle grazie del Maestro, indaga sui segreti della Setta trovando documenti riservati anche con l’inatteso aiuto di alcuni adepti, sventa un tentativo di avvelenamento collettivo e, infine, smaschera il Maestro davanti a tutti. Parapiglia finale, fuga di Eli con alcuni fedeli irriducibili: verrà alla fine rintracciato, mentre Colter tornerà a casa con Victoria (la donna del precipizio), rivelatasi nel corso del tempo, una compagna fedele ed un valido aiuto.
Che dire delle peripezie di Colter durante la permanenza alla Fondazione? A mio giudizio, nonostante i numerosi colpi di scena (prevedibili!), l’autore non riesce ad essere convincente: troppi i momenti poco credibili della vicenda, scarsamente coerenti rispetto all’ambiente misterioso ed isolato dal mondo ed al clima di terrore generato dal comportamento del Maestro. Colter si muove nella Fondazione con eccessiva sicurezza, la vera tensione emotiva scarseggia, tutto sembra artefatto, prevedibile, i momenti di autentico pericolo sono pochi e si risolvono in fretta, con l’intervento di personaggi che compaiono inaspettatamente, senza un motivo giustificato. Eppure le premesse per un thriller mozzafiato c’erano tutte, corroborate anche dalla minuziosa ricerca bibliografica di Deaver, esposta alla fine del romanzo, con importanti articoli e testi sulla genesi delle Sette, in primis quella sul “Progetto del Tempio del Popolo” del 1978 (il famoso suicidio di massa di Jonestown) e quella sanguinaria di Charles Manson.
Un cenno infine alla terza parte del romanzo (“EchoRidge”): alcuni capitoli dedicati alla ricerca di una misteriosa scatola, nascosta dal padre (deceduto) di Colter, contenente i segreti di una associazione che inondava di droga aree abitate ed eliminava investigatori troppo curiosi. Ci sono forse le premesse per altre avventure del protagonista della serie.
Lo stile narrativo di Deaver non è come sempre fluido ed essenziale. Per lunghi tratti della seconda parte, appare piuttosto piatto e convenzionale senza suscitare emozioni . Ci mancano, in conclusione, veri protagonisti come, ad esempio, Lincoln Rhime e Amelia Sachs, personaggi di ben altro spessore!
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Il sogno realizzato di una giovane star.
Dolly Parton, oggi ultrasettantenne, è stata una figura leggendaria della musica country americana. Nata in Tennessee, notissima anche come attrice, oltre che musicista (la”Regina del Country”), ha dalla sua una quarantina di album pubblicati, prevalentemente di musica pop, ha vinto 10 Grammy Award e non ha neppure trascurato partecipazioni a film e apparizioni in spettacoli televisivi. Ci voleva proprio per dare una scossa alla produzione letteraria pattersoniana, e contribuire alla scrittura di un romanzo piacevole, interessante, incentrato sull’enigmatica figura di una stella nascente della musica popolare, una ragazza la cui storia è narrata iniziando dagli anni oscuri di una fanciullezza tormentata e dai periodi difficili di una carriera piena di ostacoli e imprevisti per arrivare ad un finale consolatorio, sempre confidando con caparbietà nella speranza di un radioso futuro. La ragazza si fa chiamare AnnieLee, ma non è il suo vero nome: è in fuga dal Texas, da un passato oscuro, da una vita in cui è costretta a subire soprusi e violenze. La sua passione è la musica, la sua meta Nashville, la culla dei ritmi country. Le difficoltà appaiono insuperabili: dorme in un sacco a pelo, si ciba di quello che trova, finchè riesce ad esibirsi nei bar e in qualche saloon, cantando le canzoni che compone e suscitando consensi sempre più estesi e convinti. Ha una voce calda e graffiante, sincera e convincente: le sue canzoni a poco a poco si fanno notare, sino a giungere all’orecchio di una famosa stella del country, la favolosa Rhutanna Ryder, che vuole conoscerla, farla conoscere, e proteggerla in un mondo, quello della musica, che pullula di profittatori e personaggi poco corretti. Ma, e qui il romanzo entra nelle fasi più drammatiche, il passato torna ad incombere: il clan che in gioventù la teneva segregata, vuole riappropriarsi della preda sfuggita, la rintraccia, lei scappa e, dopo varie peripezie, decide di abbandonare tutto, rientrare in Texas e sbarazzarsi dei persecutori. Per sua fortuna, la segue di nascosto un caro amico di Rhutanna: riesce a rintracciarla ed a salvarla in extremis, riportandola a Nashville. Ora finalmente il futuro si tinge di rosa: la nostra Rose (questo il suo vero nome) è attesa nientemeno che a Las Vegas per un concerto che ne decreterà la grandezza e la popolarità.
Come dicevo all’inizio, gran merito nella stesura del romanzo spetta a Dolly Parton, che conosce alla perfezione il complicato mondo che ruota attorno alla musica ed ai suoi protagonisti: la figura di Rose (alias AnnieLee) ne esce ingigantita, soprattutto nella parte centrale del romanzo, quando la giovane cantante si batte con ostinazione per conquistare quel successo che è convinta di meritare. E sono ben descritti i due aspetti del carattere dell’aspirante star: è volitiva, cocciuta, ben determinata a raggiungere il traguardo sognato, e, d’altro canto, le sue canzoni appaiono velate di malinconia, una malinconia che sottende un passato di sofferenze.
Gli ultimi capitoli del romanzo sono incalzanti, con numerosi colpi di scena ben orchestrati, si sente insomma l’apporto di James Patterson, un maestro del thriller.
Alla fine, si apprezzano i testi in inglese delle numerose canzoni citate nel romanzo. Sono dodici in tutto, introdotte da quella che appare la più significativa (“Run”) di Rose, in cui sono condensate tutte le sofferenze e le speranze della protagonista. Un piccolo appunto: manca la traduzione in italiano delle canzoni, ma è solo un neo che non diminuisce la bella costruzione di un romanzo a suo modo avvincente.
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Un trafficante di droga con la passione dei libri.
E’ uscito in libreria (maggio 2022) nella collana “Crimini di carta” (Ed. Time Crime) questo breve romanzo (o lungo racconto, poco più di 100 pagine) di Jeffery Deaver, un racconto ambientato in Messico che narra la caccia di due poliziotti, uno americano, Evans, l’altro messicano, Diaz, a un pericoloso boss della droga, detto “el Cuchillo”, il coltello, non tanto per il suo gusto e la sua indifferenza nell’ammazzare rivali e agenti, quanto per l’acume del suo cervello. Il personaggio è singolare: oltre a trafficare droga (è capo del cartello di Hermosillo), è un esperto bibliofilo, ed ha nella sua tenuta fortificata una vastissima libreria, migliaia di volumi, tra i quali numerosissime opere antiche, prime edizioni di inestimabile valore. I due investigatori sono al corrente che il boss sta progettando l’assalto ad una corriera piena di viaggiatori, una strage a scopo dimostrativo e vendicativo, ed architettano un piano ingegnoso per contattare l’inavvicinabile “Cuchillo”. Diaz si fingerà un rappresentante del libraio presso cui si fornisce il boss, preparando, oltre alla vera e propria bomba da collocare nello studio, un diversivo con un’altra bomba camuffata e di scarso impatto, mentre Evans, dall’esterno, utilizzerà un altro diversivo per catturare l’attenzione del boss. Morale del racconto: la corriera, destinata alla distruzione in un rogo incendiario che dovrebbe uccidere tutti, donne e bambini compresi, scamperà al pericolo, mentre il “Cuchillo” morirà bruciato per l’esplosione della bomba, quella vera, nel suo studio. Questa, in estrema sintesi, la storia narrata da Jeffery Deaver. Leggendola, si apprezzeranno molti particolari dell’ambiente, dei personaggi coinvolti, dei momenti di estremo pericolo in cui dovranno agire i due agenti, sempre sul filo del rasoio, sempre con la prospettiva di vedere fallire il loro piano ingegnoso. Lo stile narrativo di Deaver è quello consueto dei suoi romanzi più noti, scarno, coinvolgente, ricco di momenti di suspence. Con un tocco ironico nel finale: i due agenti, dopo aver eliminato il boss amante dei libri soprattutto nelle loro edizioni più rare, confesseranno a vicenda di essere anche loro amanti della lettura, sì, ma solo delle rubriche sportive dei giornali.
Amante dei libri è invece una nota libraia di “la Feltrinelli” di Salerno, Carmen Recupito, che in un lungo articolo introduttivo al libro ci parla della sua passione per la lettura, perché “leggere è vivere mille vite, ed è anche condividere, leggere ci fa viaggiare nello spazio e nel tempo,… ci fa piangere, ridere, emozionare, e magari sognare… di poter scrivere un libro”. Un’introduzione molto bella, che descrive con ricchezza di esempi i vari tipi di libri “crime” , il giallo, il noir e il thriller, generi letterari che non dovrebbero mai essere sottovalutati.
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Babbo Natale e il salvataggio di un bosco.
Andrea Vitali, circa una decina di anni fa, ha scritto questa bella favola, una favola che promuove la speranza, sempre gradita ed auspicabile, che tutto sia possibile soprattutto quando ci si preoccupa per cercare di vivere in un mondo migliore, preservando quello che di buono e utile c’è già. Nel mondo delle favole, leggendo il libro, sembra appunto che tutto sia possibile, grazie all’intervento di tanti ben conosciuti personaggi della tradizione, personaggi che animano i trentatre capitoli del racconto, tutti preceduti da belle illustrazioni dovute all’abilità ed alla grazia di Fabiana Bocchi, collaboratrice di importanti case editrici. I personaggi che Vitali ci presenta sono ormai anziani, vivono nell’Ospizio Vistalago e sono tutti ben noti a grandi e piccini (come si diceva una volta): sotto il benevolo controllo di Suor Suprema e di tre consorelle ( le suore Sordina, Vedetta e Cuccetta), ci sono come ospiti Babbo Natale e le sue Renne, alloggiate in una specie di stalla e custodite da Ercole, e poi la vecchia Befana, Santa Klaus e Santa Lucia, il Topolino dei Denti, la Cicogna che Porta i Bambini, e ancora i Re Magi con i relativi Cammelli, Geppetto, i dottori Asclepio e Kildare… Tutto pare tranquillo quando, portata dalla Cicogna, arriva all’Ospizio la lettera di un bambino, Gelso, che chiede a Babbo Natale un aiuto urgente per salvare un bosco destinato alla distruzione per dar posto a costruzioni di vario tipo. Perplessità, dubbi, incertezze turbano la serafica pace del luogo di riposo dei nostri personaggi, finchè viene presa, pur ostacolata dalla vecchia Befana, una decisione storica: si parte tutti al salvataggio del bosco, aiutati anche dai Sette Nani, già sul posto. Il bosco viene salvato in un modo originale, cambiando la posizione degli alberi e creando stupore e confusione negli addetti (caposquadra, geometra, boscaioli) al taglio degli alberi: il verde è salvo, la cementificazione è una volta tanto sconfitta.
La bella favola può insegnare molto, soprattutto ai grandi. Andrea Vitali, servendosi abilmente dei più noti e popolari personaggi della tradizione, li fa rivivere in un ambiente da favola e riesce a metterli d’accordo per tentare l’impossibile: e l’impossibile diventa possibile, grazie alla collaborazione decisa e convinta di tutti, anche della tentennante Befana.
Per concludere, dopo aver espresso un giudizio nettamente positivo al libro di Vitali, ecco una frase illuminante di Gilbert Keith Chesterton di più di un secolo fa (1909) , ma ancora attuale: “Le favole non dicono ai bambini che i draghi esistono. Perché i bambini lo sanno già. Le favole dicono ai bambini che i draghi possono essere sconfitti.” Magari riuscissero a convincere anche gli adulti!
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La ferramenta, la mia vita!
Una vita come quella di tanti. Tutto casa e lavoro, anzi molto più lavoro che casa, ecco la vita di questo solido artigiano lombardo, padrone di un affermato negozio di ferramenta, messo in piedi con anni di fatica e sacrifici, partendo da viti, chiodi, fil di ferro e bulloni, fino a mettere insieme dopo anni e anni di attività un ampio campionario di merce, abeti e trattorini compresi. Certo, il lavoro è duro, da mattina a sera, pochi o niente svaghi, e sempre la speranza, quasi diventata negli anni certezza, di aver costruito qualcosa di bello e appagante, da trasmettere un domani ai figli. Siamo negli anni Ottanta del secolo scorso, e Vitali, mettendo da parte le amene vicende dei suoi compaesani bellanesi e del maresciallo Maccadò, ci presenta questa figura integerrima di lavoratore, senza grilli per la testa, sempre in bottega a trattare con clienti di ogni tipo ed a raggranellare soldi per un futuro migliore, per sé e per la famiglia. Ecco, la famiglia. Siccome, come quasi sempre accade, non c’è rosa senza spine, il nostro protagonista, che racconta tutto d’un fiato le sue vicende, ha, ahinoi!, una famiglia che sembra faccia di tutto per complicargli la vita, seminando zizzania e intralciando in mille modi lo scorrere della routine quotidiana. Il pover’uomo infatti ha una moglie apprensiva, impicciona, sempre pronta a intervenire quando non serve ed a starsene zitta quando occorrerebbe un suo parere. Per non parlare dei figli: l’Alberto, una frana a scuola con conseguenti bocciature, l’Alice, diplomata alle magistrali, facile all’innamoramento, sposa infelice dell’Anselmo, un ladruncolo invischiato in compagnie poco raccomandabili, e l’Ercolino, magro come un chiodo ma dall’appetito formidabile, sempre chino sui libri, l’unico a laurearsi, in filosofia, ed a partire per l’estero onde approfondire gli studi su un fantomatico filosofo greco. Nel libro, il protagonista ripercorre la sua vita ed i rapporti con i figli: resterà alla fine amareggiato dal loro comportamento, soprattutto quando l’Alberto, messa finalmente la testa a posto e diventato un suo valido aiuto nella gestione del negozio, sposerà una stangona, figlia di un ricco concessionario di auto, e, sia pure a malincuore, lascerà la ferramenta per una ben più redditizia attività di venditore di auto di lusso. Il mondo sembra crollare addosso al nostro artigiano, ormai anziano, svanisce la speranza di tramandare la ferramenta ai figli, tutto sembra inesorabilmente perduto: ci sarebbe l’Anselmo, il poco di buono forse rinsavito, a dare un aiuto nella ferramenta… Mai e poi mai, vorrebbe ribattere il nostro protagonista, ma la voce non gli esce, sente un dolore al petto e… “Sono mancato all’affetto dei miei cari”: così termina il lungo racconto, è la confessione di un rapporto lacerato, di speranze non realizzate, di un sogno fallito.
Andrea Vitali, con il suo stile garbato e ironico, narra attraverso un lungo racconto del protagonista in prima persona, le vicissitudini di un bravo artigiano d’una volta, vittima dei contrasti e dell’indifferenza di una famiglia come tante: lo spaccato di un contesto sociale assai frequente nell’Italia di ieri e di oggi. L’affetto reciproco di fondo c’è, ma resta quasi nascosto da superficialità e incomprensioni. Il linguaggio del narrante è ricco di esclamazioni popolari e di voci dialettali, sgorga spontaneo dalla mente fervida e dal cuore di un uomo buono, mai sostenuto e capito appieno dai familiari a lui più vicini. L’unico neo che posso evidenziare nel testo è la mancata suddivisione in capitoli, il raccopnto fila via senza interruzioni, quasi che il narrante volesse tirar fuori in fretta e senza indugi tutto quello che non gli andava bene, quasi un rimprovero per quelli che non lo avevano seguito e capito. Una “stranezza” dal punto di vista letterario, ma, nel caso specifico, può essere un pregio singolare e raffinato di un grande scrittore.
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Guerra tra bande per la conquista della città.
Inizia con questo romanzo una nuova trilogia di Don Winslow. La precedente, incentrata sul traffico di droga tra Stati Uniti e Messico (2009, 2015, 2019), aveva come protagonista Art Keller, epico combattente contro crimini e connivenze politiche e finanziarie. In questo romanzo, l’autore si ispira all’Iliade omerica: il protagonista è Danny Ryan, lavoratore portuale e novello Enea, il luogo è il piccolo stato del Rhode Island, l’epoca dei fatti riguarda gli anni ’80 del secolo scorso, quando nella zona i traffici illeciti erano gestiti da gang irlandesi (sul posto dai tempi della guerra civile americana) e dalla mafia italiana, più numerosa e potente, affermatasi con l’arrivo degli immigrati ai primi del Novecento. Gli interessi sono diversi, gli accordi reggono: gli irlandesi (hanno anche legami con l’IRA) gestiscono gli affari sui moli di sbarco, l’azzardo, tangenti dagli esercizi commerciali, gli italiani sono infiltrati nei locali notturni, gestiscono la prostituzione e le attività di bar e ristoranti, con l’appoggio di vari sindacati e la connivenza di poliziotti, federali e politici. Tutto fila abbastanza liscio quando, su una spiaggia, emerge dal mare una creatura da sogno, Pamela, che, novella Elena di Troia, rompe gli equilibri e segna la fine della tregua e l’inizio delle sciagure.
John Murphy è il capo degli irlandesi (poi cederà il comando a Danny Ryan, che sposerà Terri, figlia di John), Pasco Ferri è il boss italiano (cederà poi il comando alla famiglia Moretti) ed è proprio nella sua tenuta che si organizza una grigliata per tutti (“ Grigliata di mare da Pasco Ferri”, agosto 1986, è la prima parte del romanzo), la pace sembra regnare ma accade un imprevisto: un figlio Moretti, Paulie, si innamora della bella Pamela, un fratello di Terri, Liam, la importuna e viene massacrato di botte dagli italiani. Pam va a trovare il povero Liam, se ne innamora, lascia Paulie e, appena può, riesce a sposare il nuovo amante a Las Vegas. La guerra è dichiarata, una riunione pacificatrice non ha buon esito, qualcuno spara alle gambe di Paulie, i Moretti ammazzano tre italiani. Peter Moretti, il capo, tenta un accordo con Ryan, senza esito.
Nella seconda parte del romanzo (”Città in fiamme”, ottobre 1986), Moretti tenta di accordarsi con Danny per far fuori Liam, Danny finge di stare al gioco: scoperto, viene gravemente ferito e, durante il ricovero in Ospedale, ritrova la madre che l’aveva abbandonato e che, divenuta in vari modi ricchissima e influente, tenterà di proteggerlo da mille pericoli incombenti. La rivalità tra le due bande non si placa, i morti ammazzati non si contano più, si scatenerà una guerra che spingerà irlandesi e italiani a uccidersi a vicenda, distruggendo definitivamente una vecchia alleanza e mettendo a ferro e fuoco un’intera città: lo stesso Danny, terminata la terapia riabilitativa, verrà attirato in un tranello, ma riuscirà a salvarsi nascondendosi tra gli scogli di una spiaggia.
Nella terza parte (“ Ultimi giorni a Dogtown”, Providence, 1987), sembra in atto una tregua tra le due parti. A Danny nasce un figlio, Ian Patrick, ma si consuma lentamente un altro dramma: la moglie Terri ha un tumore al seno, le resta poco da vivere. Nel frattempo la tregua vacilla, i Moretti invadono attività non di loro pertinenza, Danny tenta un’alleanza con una gang di neri ma il loro capo viene ucciso dai Moretti. Il finale è ricco di colpi di scena: Moretti attira in un tranello Danny, rivelando l’arrivo di un grosso carico di droga, ma quando gli irlandesi si impadroniscono del carico, scatta l’agguato, organizzato in combutta con un agente dell’FBI. Danny riesce a nascondersi con alcuni chili di droga (che in seguito getterà in mare), poi un ultimo bacio alla moglie morente, un’ultima commovente preghiera nella cappella dell’Ospedale, una corsa dal figlioletto e dal vecchio padre: è in fuga dalla mafia e dalla legge, “non ha soldi, né risorse, né contatti. Non ha idea di dove andare… ma si sente pulito per la prima volta da molto tempo”.
Finisce qui il riferimento all’Iliade. L’Eneide virgiliana di Danny Ryan/Enea, inizierà nel prosieguo della trilogia: e sarà, come ha affermato Don Winslow in una intervista al Corriere della Sera (2022), “la storia di un uomo che conduce una guerra per lealtà verso la sua famiglia e i suoi amici, che perde quella guerra e deve fuggire dal suo paese e trovare un posto dove lui e la sua gente possano rimanere”, che è anche un po’ la storia dell’autore, ramingo per il mondo già a 17 anni e in cerca di un posto dove stabilirsi. Da sottolineare che versi dei poemi sono posti dall’autore anche all’inizio del romanzo e dopo i titoli delle tre parti che lo compongono.
La sintesi del romanzo esposta all’inizio tralascia tutta una serie di personaggi secondari, i loro rapporti con i protagonisti, i tradimenti, i vizi segreti, le vicende familiari, le vendette incrociate: emerge comunque sempre la figura di Danny Ryan, un protagonista che, pur nelle vicende più burrascose e tormentate, raffigura un “eroe” a suo modo positivo: non uccide se non per difesa personale, rinuncia alla ricchezza rifiutando un redditizio spaccio di droga, crede nella sacralità della famiglia e della vera amicizia, ha fede, a modo suo, in un Dio di misericordia e di perdono.
Il romanzo si legge restandone emotivamente coinvolti: lo stile può non piacere, ma è quello consueto di Winslow, molto originale, conciso, tagliente, senza fronzoli o inutili divagazioni, le frasi sono brevi, essenziali, il linguaggio esplicito, crudo, come ci si aspetta da uomini duri, sempre in lotta per sopravvivere.
Aggiungo che l’autore sembra più benevolo nei confronti degli irlandesi, mostrando un malcelato disprezzo nei confronti dei mafiosi di origine italiana, “mangiaspaghetti”, “unti” e con “corpi e cibi puzzolenti”. In conclusione, pur accreditando la precedente trilogia di un respiro più ampio, questo primo romanzo della “trilogia sul crimine” raffigura con rara potenza descrittiva le lotte per il potere della criminalità organizzata e le sue illecite connivenze con chi ha il compito di combatterla. La scrittura di Winslow è poi, a mio modo di vedere, unica nel panorama dei romanzi d’azione, e riesce sempre, capitolo dopo capitolo, a coinvolgere il lettore emotivamente.
Attendiamo ora la storia delle peregrinazioni di Danny Ryan in fuga dal suo mondo e dal suo passato, raccontata nei due prossimi romanzi della trilogia, “Città di sogni” e “Città in cenere”.
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Intrighi inconfessabili di due famiglie genovesi.
Sapevo poco di questo scrittore, e poco si trova anche in rete: libero professionista, vive a Genova, accanito lettore, autore di alcuni thriller ambientati nel genovese (tra i quali “Tre cadaveri” e “Sei sospetti per un delitto”) e di quest’ultimo giallo, uscito poche settimane fa (marzo 2022). Il volume è corposo, più di cinquecento pagine (un bel “mattone” si sarebbe detto di un testo scolastico), e rivela leggendolo un ottimo scrittore, capace di dipanare le vicende trattate con uno stile narrativo coinvolgente, attento, preciso. E’ una sorpresa, nel mondo degli autori del genere, pur con alcuni limiti che esporrò in seguito. La storia è abbastanza complessa, e prende spunto dal ritrovamento, in un frutteto dell’entroterra genovese nei pressi del paesino di Sparzi, del cadavere mummificato di un’anziana maestra: vicino al cadavere un gioco per bambini, all’interno alcuni fogli poco leggibili di un vecchio tema scolastico. Bisogna sapere che nella zona dal 1945 al 1975 erano già stati commessi ben undici efferati delitti, attribuiti ad un misterioso personaggio detto “il Barbiere”. Non solo, ma nel 1945, in una zona detta Piano Imperatore, era stato sottratto, con un audace colpo di mano da parte di un commando partigiano, un ingente tesoro a una colonna tedesca in fuga. Dove è finito il prezioso bottino sottratto? Chi è il famigerato Barbiere? Che relazione corre tra i vecchi delitti, l’uccisione dell’insegnante, un altro omicidio (la messa in scena di un finto suicidio di chi forse sapeva troppo) e soprattutto il contenuto quasi illeggibile del vecchio tema scolastico? Il giallo entra qui nel vivo: da una parte le indagini della polizia, condotte da una affiatata squadra di agenti diretta dall’ispettore Manzi aiutato da un ex poliziotto, Goffredo Red Spada, e da un’attivissima e brava giornalista locale, Orietta Costa, dall’altra la rivalità storica delle due famiglie più potenti ed influenti della zona, i Pareto, di matrice fascista, e gli Oneto, discendenti da vecchie famiglie partigiane. Le verità nascoste sono parecchie, i sospetti turbano rapporti consolidati, i colpi di scena mettono a repentaglio le indagini che brancolano tra incertezze e depistaggi, lo stesso ispettore Manzi corre il serio pericolo di essere assassinato: alla fine verrà a galla la verità, il furto di quel tesoro di tanti anni prima è servito ad arricchire personaggi importanti e chi sapeva o sospettava è stato via via ucciso da un insospettabile assassino, eliminato a sua volta perché non potesse divulgare intrighi segreti. Nell’Epilogo, poi, dopo ben centocinque capitoli, si materializza un vero spiazzante colpo di genio dell’autore: una sorta di nemesi, una liberazione, un atto finale di giustizia e di vendetta insieme, messo in atto dall’autrice del famoso componimento scolastico quasi illeggibile ritrovato vicino al cadavere dell’insegnante assassinata.
I personaggi sono tanti, come numerose sono le storie che corrono parallele alla trama principale: i rapporti conflittuali tra l’ex poliziotto Goffredo e il figlio Lorenzo, che si concluderanno con una commovente riappacificazione, l’amore contrastato tra Enrica Pareto e un rampollo della famiglia Oneto, la rivale di sempre, le simpatie corrisposte dell’ispettore Manzi per la bella giornalista, le manovre sotterranee di alcune associazioni apparentemente benefiche, e, soprattutto, la rivalità di antica data dei due nuclei familiari, i Pareto e gli Oneto. Rivalità che le pone su due opposti versanti politici e che, nel corso del romanzo, fa emergere in primo piano la figura maestosa ed imponente di un vecchio partigiano, il “Generale” Michele Oneto, centenario rispettato e temuto, depositario di segreti scottanti e vittima di oscuri ricatti.
La scrittura di Malavasi è scorrevole, elegante, essenziale, ricca di riflessioni ironiche e senza divagazioni banali: personaggi ed ambienti della sua Genova sono descritti con cura, direi quasi con affetto, mettendo in risalto il fascino di una ammaliante città, con il suo dialetto inconfondibile e la bellezza delle sue chiese e dei suoi vicoli. Si capisce che l’autore è figlio di quei posti e li conosce alla perfezione. Se posso fare un’osservazione, ho qualche perplessità sulla lunghezza del thriller, genere cui in effetti il romanzo appartiene: troppi personaggi, nel caso specifico, possono far perdere l’orientamento al lettore e incidere sulla comprensione della storia, di per sé già abbastanza complessa. Cinquecento e passa pagine sono più da romanzo storico che da giallo, solitamente più stringato e concentrato su fatti e con minor caratterizzazione dei protagonisti. Detto questo, il giudizio è senz’altro positivo, il romanzo è interessante e coinvolgente, la scrittura brillante. Vorrei permettermi infine di dare un consiglio all’autore, da accanito lettore ad accanito lettore: quello di cimentarsi in un vero romanzo storico, ad ampio respiro, sul tipo della famosa trilogia di Bacchelli (“Il mulino del Po”), o dei capolavori di Elsa Morante (“La storia”) eTomasi di Lampedusa (“Il gattopardo”). Non è poi detto che in un romanzo cosiddetto “storico” non si possa inserire una trama con risvolti da thriller: forse Raffaele Malavasi sta già pensando di allargare i suoi orizzonti!
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Un rancore che si trasforma in odio profondo.
Ritorna Penelope Spada, l’ex pubblico ministero, in un nuovo giallo di Gianrico Carofiglio. Ecco in sintesi la storia. Un potente primario chirurgo ospedaliero, Vittorio Leonardi, notissimo per bravura e arroganza, viene trovato morto nel suo letto, colpito secondo l’amico e collega dottor Loporto da infarto miocardico. Il defunto, divorziato da anni, si era risposato con una giovane e affascinante star televisiva, Lisa Sensini, e Marina, l’unica figlia, vuole vederci chiaro: teme infatti che il padre sia stato ucciso, date le sue intenzioni di cambiare testamento maggiormente in favore della prima moglie. Penelope è pregata dalla figlia di indagare sulla morte del genitore, dietro congruo compenso, ed inizia contattando e interrogando alcuni personaggi, cominciando dal notaio estensore dell’atto testamentario e sentendo poi la badante, l’amico medico intervenuto dopo la morte, la prima moglie e, infine, la seconda, avvicinata, dopo pedinamenti e peripezie varie, in una palestra. Qui Penelope, pur senza rivelarsi, intreccia un rapporto amichevole con la principale sospettata, con tanto di incontri successivi e inviti a cena. Nel racconto, Carofiglio riporta saltuariamente antefatti accaduti cinque anni prima, quando Penelope era ancora nelle sue funzioni di pubblico ministero, ed era venuta a conoscenza, da una lettera anonima, di misteriose riunioni massoniche in un condominio milanese: riunioni dove personaggi altolocati e potenti della sanità, della magistratura e della politica influivano illegalmente su importanti nomine ai vertici amministrativi. Penelope viene a sapere che anche il professor Leonardi faceva parte della combriccola, anzi ne era uno dei membri più influenti: fa rintracciare il factotum del primario, un infermiere ospedaliero, che prima nega ogni rapporto, poi improvvisamente, messo alle strette durante l’interrogatorio, accusa un malore, cade a terra e muore. Penelope, colta di sorpresa, anche perché il fermo e l’interrogatorio non erano autorizzati, teme un’accusa di omicidio colposo e si dimette dalla magistratura. La narrazione dell’antefatto e delle dimissioni Penelope si sente di confidarle cinque anni dopo ad un caro amico, Alessandro, conosciuto al parco: un’amicizia sincera, incondizionata, anche per l’affinità dei due, accomunati dalla passione per la lettura e da reciproche confidenze.
Sapremo alla fine, colpo di scena magistrale, che il potente barone ospedaliero era stato deliberatamente ucciso da un personaggio fino alla fine insospettabile, che da anni covava un autentico progressivo rancore nei suoi confronti, rancore la cui natura lascio al lettore scoprire.
Tutta la storia è narrata dall’autore con la consueta maestria e precisione, con tempi espositivi perfetti, alternati a digressioni in antefatti esplicativi ed utili per capire la successione degli eventi: proprio dagli antefatti possiamo finalmente comprendere i motivi per i quali Penelope Spada non è più magistrato, una decisione coraggiosa e sofferta che ha inciso e incide sul carattere della protagonista rendendola a volte fragile e rassegnata. Anche se la vicenda narrata coinvolge emotivamente il lettore e lo induce a sospettare del possibile delitto vari personaggi, devo confessare che a volte ho trovato il ritmo narrativo lento, soprattutto nella parte centrale: in certe pagine emerge prepotente il Carofiglio esperto saggista, quando, ad esempio disserta sui vantaggi di una dieta vegana, oppure sulle varie astuzie da mettere in atto durante pedinamenti di soggetti sospettati, o ancora sulle modalità di esecuzione di alcuni complicati esercizi fisici in palestra. Tutte divagazioni legate ovviamente agli incontri di Penelope con altri personaggi della storia, ma esposte con un certo compiacimento professorale, da esperto autore di saggi ed anche, non dimentichiamolo, da consumato opinionista televisivo. Sia ben chiaro: non vuole essere una critica, solo una constatazione che non scalfisce la bellezza della storia e la bravura dell’autore.
Bravura attinta dalla sua attività di magistrato, come afferma in una recente intervista lo stesso Carofiglio: “ Non c’è dubbio che tutto quello che ho imparato sull’umanità e la disumanità sia confluito nei miei libri. Ciascuno di noi è il risultato di ciò che ha fatto, delle esperienze vissute. Penelope ha lasciato la magistratura per un evento tragico, cosa che a me non è capitata, ma la nostalgia di Penelope è anche la mia”. E noi ricorderemo con nostalgia Penelope, una protagonista che forse, come ha affermato lo stesso Carofiglio nell’intervista, non apparirà più in altri prossimi romanzi (speriamo che l’autore ci ripensi).
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Nel bosco una scoperta agghiacciante.
Il protagonista è il vicequestore Rocco Schiavone, ben noto ai lettori che seguono da anni le vicende del personaggio, scorbutico e leale, apparentemente stanco della vita e del lavoro che fa ma sempre determinato a condurre le indagini cui è preposto con abnegazione, sagacia e profonda determinazione, anche litigando con i superiori e non di rado infischiandosene dei regolamenti. E’ un solitario il nostro Schiavone, ha perso la moglie per colpa di una banda armata guidata da un dirigente di polizia, Mastrodomenico, dedito al traffico di droga, ed ha come unica fedele compagna un’ affettuosa cagnona, Lupa, incinta e prossima al parto. Ed ecco il fatto che sconvolge le attività di Rocco e dei suoi: in un bosco dell’aostano vengono alla luce alcune ossa, ossa di un bimbo sepolto anni prima dopo essere stato ucciso (si saprà poi) per strangolamento. Si mette in moto la macchina investigativa, si cerca in zona, si interrogano (dopo aver accertato l’identità della vittima) parenti, maestri, negozianti della zona, si visionano i filmati delle telecamere prossime alla scuola, si controllano i percorsi di auto sospette, senza tralasciare esplorazioni nelle aree più nascoste della rete, dark e deep web. Emergono messaggi e immagini agghiaccianti, il cerchio si stringe su un gruppo di pedofili, se ne scoprono le relazioni ed i soprannomi. Sulle povere ossa lavorano intanto l’anatomopatologo, coadiuvato da un antropologo, un archeologo forense ed una botanica, di grande aiuto per scoprire, dall’esame degli arbusti trovati nella fossa, l’anno del seppellimento. Le indagini proseguono per poco più di una settimana, alacremente e quasi ininterrottamente, giungendo, tra delusioni, depistaggi e speranze, ad un’amara conclusione: si scopre un insospettabile colpevole, vicinissimo alla madre del bimbo, un vero e proprio colpo di scena.
La storia coinvolge emotivamente, per l’argomento trattato e per l’infaticabile azione investigativa condotta dal vicequestore Schiavone e dai suoi collaboratori. Proprio il vicequestore è magistralmente pennellato dall’autore: un personaggio abituato per il lavoro che svolge ad agire in collaborazione con altri poliziotti, ma che, di natura sua, è un solitario, introverso e scorbutico, forse timido, incapace dopo la tragica morte della moglie di coltivare altri rapporti amorosi, nonostante una giornalista amica cerchi di dimostrargli attenzioni e affetto. Ma il ricordo di Marina, la moglie adorata, non l’abbandona mai: nei sogni e nei soliloqui, la rivede vicino, le chiede consigli, la rimpiange, rivelandosi ancora perdutamente innamorato. E rivelando la sua profonda umanità. Memorabili sono alcune frasi che Manzini fa pronunciare a Schiavone, ad esempio sui figli (“ i figli ti trasformano in una persona che implora l’amore”), sull’esistenza (“ i binari dell’esistenza si incontrano e si dividono, senza lasciare traccia del loro coincidere”), sulla fede (“…credere nella natura. Ma quella ha regole troppo dure per gli esseri umani, ecco perché dobbiamo dare la colpa a qualcuno di averla creata”).
Pure sui cosiddetti “social media”, Schiavone esprime un parere lapidario, che condivido appieno: “..nessuno ascolta i pareri delle persone colte. C’è Facebook per le opinioni”. Quanta saggezza!
Lo stile narrativo di Manzini è, anche in questo diciottesimo episodio della serie di Rocco Schiavone, semplice, stringato, colloquiale, caratterizzato da due punti cruciali: all’inizio, quando viene scoperta la fossa con i resti del bimbo ucciso, e alla fine quando inaspettatamente viene individuato il colpevole, non particolarmente sospettato. Nel mezzo, la trama delle indagini, complesse e ben guidate dal vicequestore, aiutato dai suoi storici collaboratori, ognuno ben descritto con i suoi punti di forza ed i suoi limiti: colpi di scena e sospettati ad ogni capitolo, con pause di riflessione su vita, rimpianti e nostalgie del protagonista.
E infine c’è Lupa, la consolazione di quell’anima tormentata di Rocco: i suoi tre cuccioli, che nascono alla fine del romanzo, saranno subito adottati dai seguaci del vicequestore.
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Un sogno d'amore infranto.
E’ il nono romanzo della serie “Carlo Monterossi”, il manager televisivo con l’hobby dell’investigatore, anche questa volta associato al duo Falcone – Cirrielli, della Società di Investigazioni “Sistemi integrati”. Si rivolge a loro un ragazzo, Stefano Dessi, ricco rampollo di una famiglia agiata, chiedendo disperato di cercare una donna scomparsa, Ana Petrescu, di cui è perdutamente innamorato. Lei ha una catena di centri estetici ed è dotata di un fascino particolare pur non essendo più giovanissima: frequenta importanti personaggi, cui è legata da favori reciproci, boss della finanza, imprenditori facoltosi intrallazzati con politici di grido senza disdegnare oscuri legami con la mafia calabrese, tutto un mondo ove si sprecano soldi a palate, ville da sogno e barche lussuose. Ma Ana fa uno sgarro ad uno di questi potenti, Mino Sanfilippo, che giura vendetta e ne firma la condanna, facendola cercare dappertutto da alcuni sicari. Monterossi e i suoi iniziano le indagini per conto di Stefano, i colpi di scena si susseguono, riescono a rintracciare la donna, facendo temporaneamente felice il giovane amante e combinando successivamente un incontro di chiarimento tra Ana e Sanfilippo. Tutto sembra a posto quando un altro ricchissimo industriale, Federico Bastiani, viene trovato assassinato ( e fatto d’eroina) in un appartamentino di un quartiere popolare della periferia milanese. Monterossi e soci, qui coadiuvati da altri due ben noti poliziotti, Ghezzi e Carella, scoprono da alcune foto che Ana era stata anche l’amante di Bastiani. Per farla breve, Ana si sbarazza rocambolescamente di entrambi i ricconi, Sanfilippo e Bastiani, vuole finirla con il suo passato burrascoso e vivere finalmente un amore vero e disinteressato con il suo giovane spasimante. Ma, purtroppo, non sarà così: un tragico finale chiude la vicenda, lasciando un triste e pensieroso Monterossi a meditare sulla “annosa questione dell’amore”, rileggendo Shakespeare (Romeo and Juliet): “ … mai vi fu storia più dolorosa di questa di Giulietta e del suo Romeo”.
La vicenda è molto più complessa e articolata di quanto sinteticamente accennato. Lo stile di Robecchi la rende, come sempre nei suoi romanzi, coinvolgente: è come se raccontasse la storia solo a te, cercando consenso e approvazione. Sembra quasi di essere presenti ai fatti narrati, di partecipare alle indagini, di vivere negli ambienti descritti. Robecchi conosce bene i suoi lettori, sembra non preoccuparsi troppo di quanto avviene: tanto, sembra suggerirci, tutto finisce come deve finire, perché così vanno le cose e così è la vita. Leggendo, mi è venuto per caso alla mente un libro di Antonio Manzini (“Ah l’amore, l’amore!”), il cui titolo avrebbe reso bene e con una certa efficacia il contenuto del romanzo di Robecchi. E’ infatti l’amore, in tutte le sue sfaccettature, che pervade il racconto, dalle burrascose relazioni di Ana con i due personaggi facoltosi al surreale rapporto tra il Monterossi e la sua amica Bianca, dal bonario ed abitudinario ménage familiare dell’agente Ghezzi con la placida e solerte signora Rosa e dai preparativi per il matrimonio di un altro poliziotto, Sannucci, con la sua futura sposa alla folgorante passione, poi tragicamente spezzata, di Stefano per la sua affascinante Ana, un nascente incontaminato amore che stava finalmente per inaugurare una vita nuova, di redenzione e di speranza. Tutto questo è narrato con grande maestria da Robecchi, è la vita che scorre implacabile in una città che pulsa ininterrottamente, sorniona e vivace, dal centro dei negozi di lusso fino ai casermoni della periferia, in cui improvvisati affittacamere lucrano su rifugi temporanei, famiglie bisognose, spaccio di droga. Uno sfondo da cartolina quello descritto all’inizio del capitolo venticinque, una Milano capace di incantare, quando, alle nove del mattino, “il Castello diventa rosso perché il sole del nuovo giorno lo colpisce in pieno, ed è la stessa ora in cui il Duomo sembra più rosa, cioè brilla come un’astronave e tutto, intorno, sembra così piccolo, terrestre”.
Milano e la sua gente: tante piccole (grandi) questioni di cuore.
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Nell'attesa di un attentato.
E’ il ventesimo giallo della fortunata serie “Le donne del Club Omicidi”, scritto come quasi tutti (meno i primi tre) con la collaborazione dell’esperta Maxine Paetro, saggista e molto nota nel campo delle agenzie pubblicitarie. La protagonista è il sergente della polizia di San Francisco Lindsay Boxer, una delle quattro del Club (le altre, l’avvocato Juri Castellano, la giornalista Cindy Thomas ed il medico legale Claire Washburn, si ritrovano solo in riunioni conviviali) : in città c’è calma apparente, i crimini sono in calo, siamo quasi alla vigilia di Natale, ma proprio quando sembra di poter finalmente rilassarsi approfittando di una tregua nella vita concitata e pericolosa della città, ecco che l’inseguimento di un finto ladruncolo ed il suo arresto porta alla luce una ben diversa eventualità. Viene rivelata la possibilità di un attentato epocale nel giorno di Natale da parte di un misterioso individuo di cui si sa solo vagamente il nome. Qui inizia il vero thriller, tra notizie false e depistaggi, che portano via via ad obiettivi diversi: da un famoso Museo, alla Zecca di San Francisco, da una notissima gioielleria ad un attentato al Sindaco fino a concentrare l’attenzione del Dipartimento di Polizia sull’aeroporto, dove viene inscenata una sparatoria. Le indagini si perdono in un’intricata rete di notizie false, tra colpi di scena e qualche vittima innocente, seminando il terrore nell’attesa di un evento che dovrebbe sconvolgere la città e permettere allo sconosciuto attentatore di fuggire in paesi lontani, al sicuro con un grosso malloppo. Naturalmente neppure l’aeroporto sarà preso di mira, c’è un altro obiettivo e qui si scoprirà l’identità del folle. La storia finisce in modo un po’ rocambolesco, la tensione cala e sembra tornare la normalità. Non manca lo zuccherino finale: la famiglia di Lindsay ritrova una figlia allontanatasi da casa da anni: abbraccio finale e serenità familiare assicurata.
Che dire? Il magico team Patterson ha sfornato un ennesimo thriller sulla falsariga di tanti: importante è vendere e soddisfare i milioni di lettori in attesa di racconti polizieschi, intrighi e colpi di scena. Non certo di grande letteratura o di significati profondi: i gialli di Patterson si vendono a milioni di copie, suscitando curiosità e facili emozioni, senza andar troppo per il sottile. Ottimi per rilassarsi, magari durante una vacanza, quando il lettore non chiede di più.
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Renée Ballard contro gli "Uomini della mezzanotte"
E’ il quarto thriller in cui la detective Renée Ballard dà convincenti prove della sua abilità investigativa, questa volta in collaborazione con l’ex detective Harry Bosch, ora in pensione e protagonista di più di venti romanzi di Michael Connelly. Tutto inizia la notte del 31 dicembre del 2020. La pandemia da Covid-19 ed i disordini e le proteste che hanno portato al movimento Black Lives Matter hanno cambiato Los Angeles e reso la vita di tutti più agitata ed incerta. La Ballard è di servizio su un’auto del Dipartimento di Polizia di Los Angeles con una collega quando, durante le sparatorie ed i fuochi artificiali della mezzanotte, un certo Javier Raffa, che festeggia con amici, già noto come ex affiliato alla gang Las Palmas ad alla mafia messicana, viene ucciso non accidentalmente ma con un colpo quasi a bruciapelo. Le indagini sul bossolo, fortunatamente ritrovato, lo identificano come simile al bossolo di un altro proiettile che, circa vent’anni prima, aveva colpito mortalmente tale Albert Lee, caso rimasto irrisolto. Ballard scopre che titolare della vecchia indagine era Harry Bosch, riesce a contattarlo dando inizio ad una tormentata collaborazione, lunga e laboriosa, osteggiata dai vertici del Dipartimento in quanto non di competenza della Ballard ma della Sezione Omicidi. Ci sono analogie tra i due omicidi: le vittime, titolari di attività rilevate da un pool di professionisti in cambio di protezione, venivano poi assassinate per intascare polizze milionarie. Ma c’è una seconda indagine che impegna la Ballard, quella dei cosiddetti “Uomini della mezzanotte”, un duo di stupratori seriali, che si introducono in case di donne sole violentandole a turno. Sono già tre i casi segnalati, ma la detective va a fondo nelle indagini e riesce a prevenire un quarto stupro in modo rocambolesco, mettendo a repentaglio la propria vita ed annientando i criminali. E’ in questa seconda indagine che la Ballard dà il meglio di sé, anche se la sua professionalità incontra ostacoli e incomprensioni in un ambiente, quello del Dipartimento di Polizia, difficile e con molte magagne da nascondere: rivalità, depistaggi, tentativi di insabbiare indagini scottanti rallentano importanti procedure investigative, tanto da indurre una pur indomita Ballard a rassegnare le dimissioni. Il finale del thriller è emozionante e denso di colpi di scena, anche per i disordini e le accuse di inerzia alla polizia durante i giorni turbolenti del gennaio 2021, quando il Campidoglio viene assalito e devastato da una folla di dimostranti.
Il romanzo è ben costruito, anche se la tensione emotiva legata alle pericolose attività investigative è spesso attenuata da lunghe divagazioni personali o minute descrizioni di ambienti o trasferimenti da un luogo all’altro. Resta comunque ben ferma la denuncia contro la violenza sulle donne, ben espressa anche dal titolo del libro e dalle riflessioni dei protagonisti: le donne colpite sono “sul lato oscuro della luna”, poche ore buie cambiano per sempre tutte le ore che seguiranno.
Da segnalare per i fan di Renée Ballard che la detective ha un nuovo simpaticissimo compagno, un chihuahua preso al canile, di nome Pinto: con lui e l’inseparabile tavola da surf, la nostra detective ritrova sulle onde del Pacifico quella serenità che le insidie del lavoro e le incomprensioni di certi colleghi le hanno spesso negato. Non si esclude, così sembra di percepire negli ultimi capitoli, una futura collaborazione, da pensionata, con il vecchio amico e collega Harry Bosch.
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Il ritorno di Kay Scarpetta in Virginia.
Kay Scarpetta, uno dei miei personaggi preferiti, forse per affinità lavorative, creato da Patricia Cornwell, è tornata in Virginia a guidare l’Istituto di Medicina Legale. La sede è ad Alexandria, Kay si è sistemata con il marito Benton Wesley, psicologo forense, in una tenuta di pregio: nei pressi dimorano l’inossidabile Pete Marino, che ha sposato la bizzarra sorella di Kay, Dorothy, e, in una dépendance, Lucy, la nipote investigatrice privata e pilota di elicotteri. L’ambiente non è più quello di una volta e Kay incontra difficoltà a reinserirsi: l’ex direttore dell’Istituto ha lasciato il posto per fare carriera, corteggia i politici, ha trascurato il lavoro per anni lasciando macerie dietro di sé, mentre l’America è cambiata, corruzione, malavita e disordini rendono la vita meno serena e più densa di pericoli. Tre sono i filoni narrativi nei quali Kay è costretta a destreggiarsi, tra difficoltà di ogni genere e incidenti di percorso. Il romanzo inizia con la scoperta di una giovane donna assassinata brutalmente in una casa vicina e abbandonata poi nei pressi della ferrovia, con le mani amputate: la ragazza era ingegnere biomedico presso un’industria (Thor Laboratories) specializzata in stampa in 3D di organi umani, si comportava stranamente ed era sospettata di spionaggio a favore dei russi. Un secondo filone ci trasporta addirittura alla Casa Bianca, dove il Presidente ha convocato una riunione di importanti autorità militari, politiche e scientifiche (tra cui Kay e il marito) per comunicare in tutta segretezza una sciagura avvenuta nello spazio, a bordo di una Stazione Spaziale: l’uccisione di due astronauti e la fuga di un terzo (sarà il responsabile?) a bordo di una capsula che atterrerà in Kazakistan, in mano ai russi. I due astronauti sono scienziati di Thor Lab.: si sospetta un collegamento tra il fuggitivo e l’assassinata in Virginia, entrambi presunte spie a favore dei russi. E infine un terzo filone narrativo, che riguarda proprio la protagonista, Kay Scarpetta. Durante un soggiorno a Parigi, la segretaria generale dell’Interpol le regala una bottiglia di pregiato vino francese: non avvedendosi di un forellino sul tappo, Kay l’assaggia nel corso di una cena a casa e perde i sensi, avvelenata da quello che, si scoprirà poi, si rivela un nuovo e potente oppiaceo. Le tre storie si concluderanno nei capitoli finali, non privi di colpi di scena, forse in modo un po’ troppo sbrigativo. Sbrigativo, non banale però, perché dalla Cornwell non si possono mai attendere conclusioni banali: le cose sono andate così come sono andate, sembra suggerirci l’autrice (compreso il licenziamento di Kay, poi reintegrata nell’incarico, accusata di nepotismo ed eccesso di zelo nelle indagini), anche se l’abituale lettore di thriller si aspetta un finale più coinvolgente e spettacolare.
Il thriller è comunque interessante e godibile. La Cornwell non tralascia nulla, sia nelle descrizioni ambientali che nei particolari più minuti delle indagini. Memorabili le descrizioni delle perlustrazioni notturne di Kay e Marino in cerca di prove sui luoghi dei delitti, avvolti dalla nebbia e con la paura costante di essere spiati o seguiti. Istruttive le indagini chimiche e tossicologiche condotte da Kay e dalla sua équipe: si impara che il famoso Luminol per scoprire vecchie macchie di sangue è ormai superato da metodi più moderni ed efficienti, e che sul mercato girano droghe sempre più potenti, con effetti rapidamente mortali. C’è un capitolo dedicato ad un evento eccezionale, un’indagine autoptica eseguita a bordo di una Stazione Spaziale da parte di due astronauti sui cadaveri di due colleghi uccisi: sono guidati in video da Kay, che li istruisce sulle modalità operative, rese estremamente difficili dall’assenza di gravità all’interno della navicella.
La Cornwell, abilissima con il suo stile incisivo nel descrivere ambienti e particolari investigativi, eccelle anche nell’approfondimernto psicologico dei personaggi, mettendone in risalto emozioni, paure, disagi, sia nei rapporti familiari (vedi i rapporti burrascosi tra Kay e la invadente sorella Dorothy), sia tra colleghi di lavoro (vedi i dialoghi sferzanti tra Kay Scarpetta, nuovo direttore dell’Istituto, e l’acida segretaria dell’ex caposervizio).
Una considerazione infine sul titolo del romanzo, “Autopsia”: come specificato anche all’inizio del libro, il termine non ha solo il significato di un atto medico del perito settore, ma, come si deduce dall’etimologia greca, vuole sottolineare soprattutto il “vedere e constatare con i propri occhi”, ed è proprio questa l’attività che rende straordinario il lavoro incessante e minuzioso dell’anatomopatologa forense Kay Scarpetta.
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Cross è assolto, ma forse lascerà il servizio.
C’è malessere nei media e tra la gente nei confronti dei poliziotti: da un po’ di tempo si credono al di sopra delle leggi ed hanno il grilletto facile, soprattutto nei confronti dei neri. A farne le spese tocca proprio al protagonista di tanti thriller, l’integerrimo ispettore Alex Cross, accusato di aver ucciso, in un agguato, due malviventi apparentemente disarmati. Ed ecco l’acclamato eroe di tante avventure sul banco degli imputati, un evento inconsueto ed imprevisto, che mette non poco a disagio non solo l’accusato ma anche tutta la sua numerosa famiglia, dalla nonna Nana, nume tutelare del clan, all’adorata moglie Bree, fino ai figli Damon, Jasmine ed Alì, l’ultimo nato. Il fatto contestato è avvenuto dopo la morte del famoso assassino, e rivale di Cross, Gary Soneji, deceduto mentre fuggiva in una galleria per l’esplosione di una cintura di bombe. Fanatici seguaci del defunto vogliono vendicarsi ed attirano Cross in una imboscata: sono disarmati, ma vogliono far credere a Cross di essere armati, con un ingegnoso tranello che il giovanissimo Alì scopre, osservando al computer particolari, sfuggiti ai più, della scena dei delitti (c’entrano complicate leggi della fisica riguardanti raggi luminosi ed ologrammi di pistole, per farla breve). Morale: viene riconosciuta dalla giuria la legittima difesa, con conseguente assoluzione del presunto colpevole. Questa in sintesi buona metà del romanzo, che indugia sulle tensioni processuali, sulle arringhe del pubblico ministero e della difesa, sul comportamento della variegata giuria. Ma c’è un altro filone che si dipana parallelo alle vicende processuali e che occupa gran parte del giallo: il rapimento, in tempi diversi da parte di una banda di malfattori, di alcune ragazze bionde, che vengono sequestrate, maltrattate e torturate per soddisfare le fantasie di maniaci che infestano il dark web. Alex Cross, che durante il processo era stato sospeso dal servizio e si era dedicato alla sua vecchia professione di psicoterapeuta, torna all’opera e, coadiuvato dal suo vecchio abituale partner Sampson, indaga sulla sparizione delle ragazze. Il thriller sale di ritmo, la tensione emotiva è palpabile, i colpi di scena si susseguono: il mondo sotterraneo che nasconde vizi e delitti impensabili rende la ricerca più difficile ed irta di pericoli. Cross si destreggia da par suo e con l’ausilio di alcuni indizi (un cellulare smarrito, un vecchio furgone abbandonato) e la collaborazione di uno stravagante esperto di informatica, riesce ad individuare la prigione delle ragazze ed a liberarle in extremis. Ma il colpo di scena finale vedrà protagonista il giovane Alì che per la seconda volta verrà in soccorso del padre in un modo del tutto inaspettato.
In conclusione, la premiata ditta J.Patterson e C., che sforna thriller in quantità industriale e vende milioni e milioni di copie in tutto il mondo, ha confezionato il solito buon prodotto commerciale che, senza grandi pretese letterarie, piacerà agli appassionati del genere. Alex Cross appare come il consueto bravo poliziotto, amante delle leggi e della giustizia, con saldi principi morali, incessanti “I love you” ricambiati all’amatissima moglie e manifestazioni d’affetto, anche quelle doverosamente ricambiate, per i tre figli. Lo stile narrativo è come al solito scorrevole, con qualche intrusione nella descrizione di complesse leggi della fisica o di particolari informatici con termini ben comprensibili solo agli addetti ai lavori.
“Processo ad Alex Cross”, uscito nel 2017 ed edito da Longanesi nel 2021, è uno degli ultimi romanzi della serie: attualmente siamo a trenta, Cross dà segni di stanchezza ed ha manifestato il proposito di lasciare il servizio attivo per dedicarsi solo a consulenze e magari all’attività di psicologo: vedremo se manterrà la promessa.
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La natura delle cose e il senso della vita
Piergiorgio Odifreddi, il ben noto matematico, docente di logica, collaboratore di varie riviste scientifiche e saggista, non poteva non dare un suo valido contributo alla divulgazione dello splendido e illuminante poema di Tito Lucrezio Caro, il “De rerum natura”, giunto a noi forse come sua unica opera (il poeta morì, si presume, intorno al 50 a.C.) dopo secoli di oblio. Un oblio comprensibile, dati i contenuti del testo, un inno alla libertà della ragione contro ogni fanatismo religioso: dopo i commenti positivi di Cicerone e qualche fortuna nel I e II secolo dopo Cristo, il poema fu dimenticato per tutto il medioevo e avversato dal cristianesimo tanto da finire all’Indice durante il Concilio di Trento per poi essere riportato alla luce e rivalutato nei secoli successivi.
L’autore ha tradotto il poema in una edizione raffinata e originale: le pagine dispari riportano il testo tradotto, le pagine pari il commento di Odifreddi con tavole illustrative e riferimenti alle conoscenze scientifiche attuali.
I Libri in cui si divide l’opera di Lucrezio, come noto, sono sei, raggruppati da Odifreddi due a due: il microcosmo ( I gli atomi, II fisica e chimica), l’uomo (III la psiche, IV fisiologia e psicologia), il macrocosmo ( V la terra, VI meteorologia e geologia). Lucrezio spazia dalle cose più minute alle più macroscopiche, collegandole tra loro tramite la presenza dell’uomo con le sue caratteristiche. Molti potrebbero essere gli spunti di riflessione leggendo la traduzione di Odifreddi. Ne riporterò solo alcuni, illuminanti, che sottolineano la visione moderna di Lucrezio di quanto osservato, senza preconcetti né condizionamenti fuorvianti.
Per esempio, scorrendo i primi due Libri, Lucrezio afferma subito che la natura delle cose e la ragione dissipano paure e tenebre dell’animo, che è bene immaginare di guardare la vita e le persone con distacco, come da una vetta, e che il mondo, pieno di difetti, non può essere opera degli dei. Infiniti sono i mondi, con i loro spazi ed i loro esseri viventi : esistono, sì, gli dei, ma vivono una loro placida vita, disinteressandosi degli uomini e delle loro vicende.
Nei Libri riguardanti l’uomo, Lucrezio afferma che non bisogna avere nessuna paura della morte, poiché il timore di andare sottoterra non è maggiore di quello che si può provare vivendoci sopra. La psiche, così come l’animo, nasce e vive col corpo e con il corpo muore: non esiste né un prima, né un dopo, niente è immortale. Si riceve la vita in uso temporaneo, quindi niente lamenti o pianti: la fine della vita è certa, la morte è inevitabile.
Negli ultimi due Libri, Lucrezio invita a capire realmente le “cose” della natura, altrimenti si continua a credere in dei tirannici e onnipotenti. L’autore tratta anche temi più complessi come la generazione da parte della terra di specie animali solo dopo quelle vegetali e il problema del linguaggio, che è innato. Si sofferma anche, ed una volta di più, sulle religioni, “inventate” per ignoranza delle cause ed incapacità di ragionare: chi non sa comprendere i fenomeni meteorologici, li attribuisce erroneamente agli dei, mentre sono spiegabili con il ragionamento scientifico.
Lucrezio cita più volte il filosofo greco Epicuro, vissuto più di 200 anni prima di lui e presentato come un eroe che ha combattuto il condizionamento della religione e il timore degli dei, per nulla interessati al nostro mondo. Per divulgare la filosofia di Epicuro nel mondo romano, una filosofia estranea fino ai tempi di Lucrezio alle classi dirigenti di allora, il poeta chiede l’aiuto e l’intercessione di Venere, simbolo della bellezza e dell’istinto naturale di fecondazione e generazione: proprio a Venere è dedicato il proemio del “De rerum natura”, alla dea che “ regge la natura delle cose e che voglio come compagna per comporre i versi che provo a scrivere …”. A proposito di citazioni, il saggio di Odifreddi elenca, alla fine, i nomi citati nell’opera e nel suo commento ( ben 366, guidati in ordine quantitativo da Epicuro appunto, seguito da Newton, Platone, Galileo e Virgilio, e poi via via fino a Jovanotti, Bob Dylan e John Lennon); completano il volume, l’indice delle opere letterarie, musicali, pittoriche citate (271), l’indice dell’apparato iconografico (146 opere) e una “bibliografia lucreziana minima” (15 voci).
Si può dissentire dalle posizioni nettamente laiche di Odifreddi, avversario convinto di qualsiasi credo religioso ( sua l’affermazione “la vera religione è la matematica, il resto è superstizione” da “Il Vangelo secondo la scienza” del 1999), ma non si può disconoscere nel suo saggio “Come stanno le cose” un lungo e minuzioso lavoro nel presentarci un Lucrezio idealmente connesso anche alla nostra cultura, umanistica e scientifica, comprensibile anche senza evocare condizionamenti metafisici.
In conclusione, un imponente lavoro quello di Piergiorgio Odifreddi: un libro iconograficamente splendido, una grande opera di divulgazione scientifica, per capire (o chiedersi) “come stanno le cose” e riflettere su quale sia il vero senso della vita: forse, la vita stessa.
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"La mente è più potente della coscienza"
Otto mesi dopo il ritrovamento, nei boschi del Mugello nei pressi di Firenze, di una vecchia Panda abbandonata, utilizzata come rifugio e con una gomma forata, viene scoperto nei pressi, da parte di una anziana donna addestratrice di cavalli, un bambino (si conoscerà in seguito il nome, Nico), adagiato tra i cespugli, in buone condizioni, ben vestito, apparentemente muto e privo di reazioni. La donna lo conduce alla sua cascina, lo rifocilla e lo consegna all’autorità giudiziaria, che, per capirci qualcosa, lo affida ad un esperto psicologo ed ipnotista, Pietro Gerber, il protagonista degli ultimi due romanzi dell’autore. Costui, specialista in psicoterapia dell’infanzia, separato dalla moglie per incompatibilità di carattere, tenta con l’ipnosi di entrare nella mente del ragazzo, che, opportunamente stimolato, si esprime con una voce che non gli appartiene, raccontando fatti che inducono un giudice ad accusarlo di matricidio e successivamente portando alla luce una storia non sua, eventi di circa vent’anni prima, allorquando ad un ragazzo della sua età un misterioso ed inquietante sconosciuto fa credere di essere stato abbandonato dai genitori, scomparsi dopo la sua irruzione in casa. Questi, definito “orco” o “affabulatore”, non solo riesce a entrare nella mente del ragazzo, ma disorienta anche l’ipnotista, con strani messaggi, depistaggi, condizionamenti psicologici. L’ipnosi mette in luce verità nascoste, le certezze dello psicologo sembrano svanire, preda di eventi che sembrano imporre altre verità: il ruolo di carnefice e vittima sembrano alternarsi, in un abisso in cui la mente umana sembra ingannare sé stessa, facendo apparire vero ciò che non lo è e falso ciò di cui si ha certezza.
Seguire l’evolversi della vicenda non è facile, anche perché vi appaiono riferimenti al precedente romanzo della serie di Pietro Gerber (“La casa delle voci” del 2019). Le vicende dell’ipnotista e delle sue sensazioni fanno riflettere sulle potenzialità della mente umana e sulle capacità dell’ipnosi di alterarla, facendo emergere, con opportune metodiche, fatti sepolti nel passato e apparentemente dimenticati. Il romanzo pone inoltre molti interrogativi su fatti non ben comprensibili o irrisolti. Ad esempio: si scoprirà l’identità del famigerato “orco”, le cui iniziali A.D.V. appaiono misteriosamente incise sul muro della cascina dell’addestratrice di cavalli e successivamente sono individuate sulla camicia di un misterioso personaggio con cicatrici da ustione che riapparirà nel finale? Che fine hanno fatto Nico e sua madre? Il dodicenne della storia è o non è un assassino? L’episodio del penultimo capitolo, quello del bambino portoghese scomparso nel parco, totalmente isolato dal contesto del romanzo, avrà un seguito in un eventuale terzo capitolo del ciclo di Pietro Gerber? Anche se lo stile narrativo di Carrisi è sempre affascinante e coinvolgente, la materia trattata ed i suoi risvolti sembrano frenare le emozioni e rendono la lettura non sempre agevole e comprensibile. Un plauso comunque all’autore, che sembra ben padroneggiare gli argomenti esposti, avvalendosi anche del contributo e della disponibilità di due valenti ipnotisti, citati in una nota finale.
Da sfondo, una Firenze con i suoi palazzi rinascimentali, le sue vie ed i suoi ritrovi caratteristici: l’ambientazione quasi sempre notturna del romanzo ed un clima umido e piovoso sembrano quasi renderla complice di misteri ancora irrisolti.
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La Storia non finisce mai di sorprendere.
Paolo Mieli, scrittore, saggista, opinionista, autore di numerose opere tra cui “Le verità nascoste” del 2015 e “Lampi sulla storia” del 2018, si cimenta in questo ultimo libro nel riesame di eventi storici di ogni epoca cercando di evidenziare, anche alla luce di una vastissima bibliografia, errori di interpretazione e verità nascoste. Il volume si divide in tre parti: nella prima (“Sul banco degli imputati”) l’autore si propone di rivedere la storia di alcuni personaggi di cui è stata tramandata un’immagine non positiva, nella seconda ( “Le arringhe dell’accusa”) mette in luce le colpe più o meno giustificate di alcuni protagonisti della Storia, nella terza (“La parola alla difesa”) si propone di evidenziare una verità storica riguardante alcuni fatti o personaggi sui quali il giudizio della Storia non appare suffragato da certezze inoppugnabili.
Numerosi sono i personaggi e gli eventi storici citati, dalla leggenda di Enea in fuga da Troia assediata a vicende più attuali riguardanti personaggi del risorgimento, del fascismo e della lotta partigiana. Alcuni capitoli del libro meritano di essere citati, perché le vicende dei protagonisti, più di altre, sono state e sono oggetto di evidenti interpretazioni errate o addirittura di volute falsificazioni.
Ad esempio, nella prima parte, Mieli sostiene che Fidel Castro non ha solo connotazioni negative: è accertato che frequentò con profitto, da buon cattolico, scuole di gesuiti, e che era ostile, oltre che agli Stati Uniti, anche alla Unione Sovietica ed alla Cina di Mao. Per non citare poi, le sue simpatie per vari Papi, da Wojtila a (addirittura !) Ratzinger, sostenendo che “la politica è una costola della religione”.
Nel capitolo su Napoleone, l’autore ricorda che l’imperatore, esiliato all’isola di Sant’Elena, non fu , come si crede, dimenticato: divenne invece leggenda e punto di riferimento per quanti lottavano per la libertà e l’indipendenza dei popoli.
Anche Caterina II di Russia, autoritaria, contraria all’abolizione della servitù della gleba, ostile alla rivoluzione francese, ebbe i suoi lati positivi, governando con saggezza ed invitando in Russia i filosofi dell’Illuminismo (Voltaire e Diderot), anche se, afferma Mieli, di questo “assolutismo illuminato” di illuminato restò in seguito ben poco.
Un altro esempio di personaggio storicamente mal connotato è quello di Ruggero II, il normanno, che nel 1130 fu nominato dall’antipapa Anacleto II re di Sicilia: qui Mieli ricorda che proprio in quell’anno nacque il Regno dell’Italia meridionale che durò (con Napoli) per ben sette secoli, fino al 1860.
Sempre nella prima parte, interessanti i capitoli riguardanti Gesù , su cui troppe e simili sono le vicende raccontate senza distacco riflessivo e con dubbia obiettività, su Catlina, la cui storia ha subito troppe falsificazioni anche per la demonizzazione che ne fece ai tempi Cicerone, e su Enea, considerato un eroe da Virgilio nel suo poema, ma accusato da Mecenate di Xanto di aver addirittura tradito e consegnato Troia agli Achei.
Molto interessante è anche la seconda parte del saggio, “Le arringhe dell’accusa”, incentrata soprattutto su eventi dei secoli più vicini a noi.
Mieli pone in risalto, in un capitolo, il trattamento che subirono i prigionieri italiani nei campi USA alla fine della seconda guerra mondiale. Accusati di essere oltre che fascisti anche voltagabbana, subirono per lunghi mesi la fame e maltrattamenti, al contrario dei prigionieri tedeschi, giudicati più ordinati e disciplinati.
Un altro capitolo denuncia le incertezze di Vittorio Emanuele III, che, dopo manovre e complotti per eliminare Mussolini, non seppe agire con fermezza e pagò i suoi tentennamenti con l’esilio alla fine della guerra.
Merita di essere citato anche il capitolo sul brigantaggio meridionale: iniziato con lotte di paese e vendette personali, divenne nel corso degli anni una guerra vera e propria contro una potenza straniera (i piemontesi? i Savoia?) che depauperava il Sud. Da notare, scrive Mieli, che nelle file dei briganti confluirono anche molti garibaldini delusi.
Nella terza parte (“Parola alla difesa”) il capitolo più interessante riguarda il leader comunista Palmiro Togliatti. Ideologicamente ben inquadrato, non si creda, afferma Mieli, che fosse esclusivamente agli ordini di Mosca. Simpatizzò più con la Democrazia Cristiana di De Gasperi ( i due erano uniti da stima reciproca) che con i socialisti e fu più vicino agli ambienti cattolici rispetto ad Enrico Berlinguer.
In un altro capitolo, l’autore porta alla ribalta i misconosciuti “partigiani autonomi” di Alfredo Di Dio, che interpretarono la lotta partigiana come esclusiva lotta al nazifascismo, e non come mezzo di rottura dell’ordine sociale. Formarono la banda Osoppo, e, non essendo legati al Partito Comunista, caddero presto nell’oblio.
Mieli prende poi, in un altro capitolo, le difese di Vittorio Emanuele II, che esitò molto senza proprie colpe prima di conquistare Roma: la battaglia ebbe pochissimi morti, anche perché Papa Pio IX volle che si combattesse il minimo possibile. Solo nel 1871 il re occupò il Quirinale, e solamente nel 2010 ci fu la pacificazione definitiva tra Stato e Chiesa, con l’incontro tra il presidente Napolitano e il cardinal Bertone, rappresentante di Benedetto XVI.
Dpo aver difeso, in uno degli ultimi capitoli, il famoso brigante Gasparone, liberato nel 1870 dopo ben 45 anni di prigione e divenuto simbolo dei “tempi nuovi” (ben altre, sottolinea l’autore, erano le magagne ed i vizi romani di quei tempi, con corruzione diffusa e oscuri intrighi), Mieli torna all’antico e, nel penultimo capitolo del libro, prende le difese dei pretoriani, le ben note guardie degli imperatori romani. Furono un po’ tutto, guardaspalle, agenti segreti, spie, sciolti solo nel 300 d.C. da Scipione l’Africano: agivano per lo più nell’ombra, come informatori o addirittura sicari, proteggendo via via nel tempo i vari imperatori e raggiungendo l’apice della loro potenza verso la fine del terzo secolo.
Se si può muovere una critica all’opera di Mieli, i vari capitoli non seguono un ordine cronologico ma sono esposti saltando spesso dall’antico al moderno. Ma non ritengo sia una pecca grave, non trattandosi di un manuale di storia ma di considerazioni personali su argomenti di storia disparati. Argomenti e personaggi assai numerosi quelli trattati via via da Mieli nei capitoli del libro, in tutto 30, distribuiti nelle tre parti in cui il libro stesso si divide. Il lavoro dell’autore è stato, come sempre, imponente, accurato e ben documentato: lo dimostra anche la vasta bibliografia, ben 156 voci. Nelle pagine di conclusione, si riafferma in sostanza quello che è stato lo scopo della certosina ricerca di Mieli: nella Storia nulla è definitivo, nuove scoperte possono mutare i giudizi, annullare o spostare eventuali colpe.
L’opera di Mieli, pur densa di particolari minuziosi e poco noti, si legge con grande interesse, anche perché vengono riportati alla luce, pagina dopo pagina, eventi storici, forse dimenticati, raccontati sotto angoli visuali diversi talora sorprendenti.
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L'assassino che non ti aspetti
Carlo Lucarelli, scrittore, giornalista, saggista, fumettista, noto anche come figlio dell’ematologo Guido e addirittura pronipote del famoso inventore Antonio Meucci, propone con questo nuovo romanzo un’avventura di uno dei suoi personaggi preferiti, l’ispettore bolognese Grazia Nigro. La poliziotta è in una fase difficile e delicata della vita, ha appena partorito due gemelle ed è stata anche responsabile dell’arresto di un feroce serial killer, detto “l’iguana”: lei ha paura per le bimbe e per sé, anche per il non trascurabile motivo che il criminale è riuscito a fuggire dall’ospedale psichiatrico dove era ricoverato e dove vengono trovati due cadaveri in una vasca da bagno, in una pozza di sangue. Queste le premesse. I personaggi sono molti e variegati: Simone, un ragazzo cieco tutto dedito al culturismo, che ha aiutato la Negro, con la quale ha avuto teneri rapporti, a catturare il folle, poi uno psichiatra, altri questurini, tutti all’erta nell’attesa che il “mostro” ( eh, sì, perché Grazia è l’esperta della caccia ai “mostri”) commetta qualche errore o caschi in qualche tranello. Così il romanzo prosegue, con qualche ben studiato colpo di scena: trovato l’Iguana, ecco che compare un altro possibile criminale, fermato grazie all’intraprendenza di un solerte tassista bolognese. C’è una certa difficoltà nel seguire la trama, forse con troppi personaggi che si affollano sulle scene dei crimini e una certa discontinuità nella trama narrativa. Ma è il colpo di scena finale che intriga e sorprende il lettore: c’è un altro “mostro” in circolazione, apparentemente inoffensivo, nessuno lo teme, sembra uno dei “nostri”, ma riesce a mimetizzarsi astutamente, recitando il ruolo di innocente al di sopra di ogni sospetto. Ha i dentini di un topo, le movenze aggraziate e rapide di un astuto roditore, e, nel contempo, cerca disperatamente un “amore” (“amami” sussurra ripetutamene nel romanzo) impossibile da raggiungere. Ed è proprio questo inatteso personaggio il vero “mostro”, che del “mostro”, al contrario dei primi due, non sembra avere nessuna caratteristica.
Il romanzo non è diviso classicamente in capitoli, ma consta di tre parti, tante quanti sono i killer che le caratterizzano. Inframmezzate, poi, vi sono pagine ( non mi va di dire che sono la parte meglio riuscita del racconto, ma quasi quasi…) intitolate “Bologna 5”, dedicate ad un tassista bolognese al quale tocca trasportare gli assassini o presunti tali: vi sono descritte le sue esitazioni, le paure nel far salire i sinistri figuri, il senso di liberazione nel riuscire ad incastrarne uno con l’aiuto di un’auto civetta della polizia. E’ un personaggio speciale, tipico bolognese, innamorato della sua città e dell’aria che vi si respira e che ispira sentimenti di amore e rancore, di rassegnazione e speranza: una figura speciale, che rompe a tratti l’atmosfera tumultuosa e cupa dell’intera storia.
Lo stile narrativo è altalenante, ora colloquiale e diretto, ora più elaborato, con citazioni ripetute da una canzone giapponese di pochi anni fa (“Lost umbrella”), dal significato piuttosto controverso ma che una recente traduzione inglese propone così : “l’ombrello rappresenta i sentimenti di una ragazza, che lo usa per proteggersi quando è in difficoltà per la pioggia: ma appena la pioggia cessa, lo stesso ombrello viene gettato e dimenticato”. I versi della canzone si adattano bene al personaggio che emerge alla fine del romanzo.
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Allegoria dell'eterna lotta tra bene e male.
John Grisham, famoso soprattutto per i suoi legal thriller, rispolvera in questo romanzo la figura di Lacy Stoltz, membro della Commissione Disciplinare Giudiziaria della Florida, già protagonista del giallo “L’impostore” del 2014. E’ un filone narrativo che si discosta dai consueti romanzi dello scrittore, nei quali dibattiti processuali e vicende giudiziarie costituiscono gran parte della narrazione. Qui invece Grisham ci presenta un vero e proprio thriller dal ritmo incalzante: il colpevole questa volta è un giudice, Ross Bannick, nelle vesti di un lucido e freddo serial killer, un uomo apparentemente insospettabile, stimato dai colleghi, che riesce a nascondere un passato tormenrtato. Abusato da ragazzo, incapace di rapporti normali con l’altro sesso, si trasforma anno dopo anno in un soggetto sociopatico, cova sentimenti di vendetta contro chiunque l’abbia sottovalutato o deriso o comunque gli si opponga per i più svariati motivi. Ha una lista di persone da eliminare, e la sua vendetta giunge puntuale e inaspettata anche a distanza di anni, e sempre con le stesse modalità: un cappio di nylon al collo, con nodo particolare, dopo sfondamento del cranio con una sfera di acciaio. Il killer, per altro dal comportamento professionale cristallino e rispettabile, non lascia tracce dei suoi delitti e le indagini cadono dopo anni nel dimenticatoio. Ma c’è una donna, Jeri Crosby, che non dimentica l’assassinio del padre, vittima del killer, della cui identità è certa. Contatta la Stoltz e tenta tra mille difficoltà di coinvolgerla nella ricerca di prove: questa dapprima tentenna, poi, quando diventerà direttrice pro tempore della Commissione Disciplinare, inizierà ad indagare. Il romanzo entra nel vivo, anche il killer, sempre all’erta, inizia ad insospettirsi: intercettazioni, spionaggio informatico sofisticato, lettere anonime, reperti occasionali, tracce di impronte digitali, è tutto un susseguirsi di indagini sia da parte della Stolz che del killer, che si sente braccato e teme di perdere l’invulnerabilità che si era costruito anno dopo anno. Una serie ben congegnata di colpi di scena porta allo scontro fatale tra i due, che prelude ad un finale sorprendente ed inatteso, degno veramente della penna di un grande scrittore.
In conclusione si può affermare che forse è uno dei romanzi più riusciti di Grisham, avvincente, senza pause, ricco di suspence, con personaggi, anche quelli secondari, descritti con grande maestria. Lo scrittore riesce a presentarci con grande verosimiglianza un personaggio, quello del killer, che riesce ad affrontare con lucidità e freddezza il suo comportamento ambiguo, affrontando la professione di giudice con straordinaria tranquillità e sicurezza e nel contempo eliminando con spietata crudeltà e senza alcun rimorso le vittime designate .
Il pensiero corre, per analogia, a quel grande capolavoro senza spazio né tempo di Stevenson, “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” della fine Ottocento, ambientato nella Londra vittoriana, in cui il caso di sdoppiamento della personalità illumina, come nel romanzo di Grisham (si parva licet…), la forza del bene e del male nella natura umana.
Pur con qualche incongruenza e forzatura, il romanzo di Grisham assume un significativo valore allegorico nell’eterna lotta tra i due estremi, che si risolve non di rado senza vinti né vincitori.
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Il lato oscuro del fanatismo religioso.
In una zona collinare dell’Alsazia, ricca di vitigni, vive da secoli la comunità religiosa degli anabattisti, una setta isolata dal mondo esterno che ha la Bibbia come guida, pratica la non violenza e si battezza solo in età adulta. Gli Emissari (così si chiamano gli adepti, alcune centinaia) vestono abiti di stoffa grezza, portano cuffie ottocentesche, coltivano i vitigni del loro territorio servendosi anche di lavoratori esterni, stagionali, ed hanno rapporti esclusivamente tra loro, anche incestuosi: una sorta di “isola etnica”, con lo scopo, sostengono, di migliorare la razza con la consaguineità e “purificare” sempre più negli anni il loro DNA ma con l’inconveniente d’altro canto di generare non pochi neonati con evidenti malformazioni. Tutto sembra procedere quietamente da tempo immemorabile, lavori stagionali, vendemmie, riti e usanze avvolti da un alone misterioso e insondabile, quando, improvvisamente, un delitto viene a incrinare la sacralità della locale chiesa di Saint Ambroise: il vescovo Samuel, un importante adepto, è ritrovato schiacciato dal crollo della cupola, ma con ferite sospette e un pezzo di carbone in bocca. Entra in gioco la gendarmeria del paese vicino con i tre protagonisti del thriller: il commissario Niémans, un omone tutto d’un pezzo, instancabile, tutto dedito alle indagini, notte e giorno, poi la gendarme Stéphane Desnos, più riflessiva, un freno alle iniziative coraggiose del suo capo, infine Ivana, una poliziotta dal passato burrascoso, legata sentimentalmente al capo, infiltrata come stagionale nel territorio della setta per indagare e scoprirne segreti e misfatti. I segreti vengono poco a poco alla luce, gli Emissari praticano riti riconducibili ad affreschi tenuti nascosti, dipinti anni addietro da un famoso pittore, una specie di guru della setta: tali affreschi, tratteggiati con stile di epoca medioevale, alludono a macabri ed allucinanti eventi biblici, quali i rapporti incestuosi tra il vecchio patriarca Lot e le figlie, ed i sacrifici umani a Moloch, una divinità dell’Antico Testamento. Le indagini avanzano tra mille difficoltà, la stessa Ivana corre un pericolo mortale, altri delitti vengono scoperti: vengono alla luce i corpi di Jacob, il marito di una adepta, Rachel, e del medico legale del paese vicino, membro della comunitò, disponibile a falsificare documenti ed a celare misfatti. Infine l’orribile verità viene a galla, si scoprono le uccisioni rituali dei bambini malformati che avvengono alla fine della vendemmia, quando tutto quello che resta viene bruciato in roghi immensi. Il vero colpevole dei delitti viene finalmene alla luce, ha agito solo per vendetta e per salvare il suo piccolo dalla morte: una luce di salvezza e di speranza, che sembra irradiarsi su tanta malvagità.
Inutile dire che la trama è molto più complessa e articolata. Grangé è anche in questo romanzo un grande scrittore, preciso, ben documentato, magistrale nel descrivere ambienti e situazioni. Sembra di rivivere nei particolari le vicende narrate, ambientate in lande umide e piovose, grigie, allietate sì dai riti della vendemmia ma pervase da una permanente sensazione di estraneità al mondo circostante e da miscugli pervasivi di odori strani, odori di putrefazione e di morte. Si sa che l’autore è molto critico nei confronti delle religioni in genere, anche qui, tramite il personaggio del commissario che indaga, non esita a criticare riti assurdi, perversioni, credenze scellerate, sempre celate sotto un velo di apparente purezza e rettitudine.
Ottima anche la divisione del romanzo in tre parti: Il vigneto, Il sangue, Il fuoco, che sintetizzano magistralmente l’andamento degli avvenimenti, dai riti spensierati della raccolta al sangue dei delitti fino al fuoco purificatore dei roghi finali. Un cenno al titolo italiano del thriller: molto più pertinente ed allusivo il titolo originale francese “Le jour des ceindres”, il giorno delle ceneri.
Da un “altare della paura” può nascere solo disperazione, dalle “ceneri”, come insegna l’Araba Fenice, può sorgere la capacità di far fronte in maniera positiva alle avversità, proprio come fa presagire l’ultimo capitolo del romanzo.
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Le vicende di tre famiglie, con finale inconsueto.
Per Andrea Vitali, se non vado errato, dovrebbe essere il settantanovesimo romanzo in trent’anni (secondo Wikipedia), una produzione straordinaria, incentrata soprattutto sulla sua Bellano e sui suoi abitanti, personaggi con caratteristiche ben precise, descritti con ironia ed arguzia: un quadro dell’Italia, via via in varie epoche, dalla prima metà del Novecento ai giorni nostri. C’è sempre l’Ospedale Umberto I con il suo primario e le suore, la caserma dei Carabinieri, meno coinvolta del solito, l’autorità ecclesiastica, trattata di sfuggita. La storia è quella di alcune famiglie, con le loro beghe irrisolte, i litigi e le soeranze, come sempre, in una vita migliore. Si inizia con un povero cristo, tale Annibale Carretta, incapace di un rapporto normale con l’altro sesso ma noto “scrusciatore di donne”, pieno di complessi, aiuto ciabattino del padre. Alla morte del padre sposa una poveretta affetta da mal caduco, che però decede e lo lascia solo, senza mezzi, abbandonato a sé stesso: l’accudirà un’altra povera donna, Rita Cereda, che, alla morte del Carretta, rimarrà in negozio, conteso in seguito dalla famiglia di Rita (detta “la Scionca” per una evidente zoppia) e le Dame di San Vincenzo ingolosite dai locali ove ritengono essere possibile stabilire la sede della loro associazione.
Ed ecco un’altra famiglia, quella di Rita: due sorelle, Vincenza, che studia per diventare maestra, e Lirina, sposata con un giovinastro ubriacone e manesco, denunciato e allontanato dai Carabinieri. La madre ha intanto trasformato in sartoria i locali del Carretta, ed è proprio in sartoria che entra in scena la terza famiglia del romanzo, quella, siciliana, di Assunta Sciacca e Rosvaldo Camminatore, genitori di un bel giovane, Niccolò, laureando in giurisprudenza. Il vestito nuovo del futuro avvocato va sistemato per il fatidico giorno della laurea, le due famiglie fanno conoscenza, Niccolò viene quasi sospinto dalla madre impicciona tra le braccia della bella Vincenza: i due si frequentano, mano nella mano, serate al cinema, un gelato in piazza, confidenze, ma Vincenza sembra aver la testa altrove, mentre il futuro dottore sogna una vita diversa, lontano da Bellano, in una città ove trovare studi legali più affermati e quindi maggiori opportunità.
La gita in barchetta sul lago di Como conclude il romanzo: sarà una ben triste gita, con la caduta accidentale in acqua di Vincenza, il salvataggio ed il successivo ricovero in ospedale. Qui, verrà alla luce un’inattesa novità, che indurrà la ragazza a prendere una decisione che coglierà sicuramente di sorpresa anche i più smaliziati lettori.
Il romanzo si discosta non di poco da altre opere di Vitali, è più articolato, con tantissimi personaggi di contorno. Cito ad esempio le virtù canore di un certo “Sofia”, gay dichiarato, che delizia tutti con le sue interpretazioni dei successi di Morandi, incitato dagli applausi convinti della sua dirimpettaia, e le manovre ed i traffici oscuri delle Dame di San Vincenzo, in combutta con un assessore comunale, per impadronirsi dei locali lasciati liberi dal Carretta.
Ma il romanzo è anche tra i pochissimi che non ha un lieto finale, lasciando un po’ di amaro in bocca per l’inattesa conclusione.
Lo stile di Andrea Vitali è sempre godibile, ironico e diretto. I nomi scelti per i personaggi sono come al solito inconsueti, attinti da un lontano passato o da vecchie lapidi cimiteriali: è difficile oggi incontrare le signore Pericleta, Spinetta, Seminella, Ampella o Stranita, come è altrettanto raro imbattersi nei signori Testarea, Fringio, Cardo e Sario…
Utilissimo, come sempre, l’elenco dei personaggi alla fine del libro.
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Due vite lacerate da rimpianti e ricordi
Francesco Carofiglio, fratello del ben noto Gianrico, ex magistrato e scrittore, ha svolto più attività, da architetto, regista, scenografo, illustratore e, non certo ultima, da scrittore. Numerosi sono i suoi romanzi, tra i quali spicca quest’ultima fatica, “Le nostre vite”, un’opera che fa riflettere sulle vicissitudini che possono segnare una vita, la nostra vita non di rado inasprita o addolcita da ricordi e rimpianti.
Sono due le vite narrate, che si dipanano parallele e che avranno alla fine un accostamento inaspettato. C’è la vita di Anna, detta Nina, ragazzina sedicenne, in vacanza a Martina Franca con la mamma: durante una festa sulla spiaggia con gli amici, incontra un giovane, Lupo, ne è irresistibilmente attratta e, pur timida e riservata, cede alla sua corte. Al ritorno in città, si accorgerà di essere incinta, scriverà lettere appassionate a Lupo, senza risposta. La sua vita sarà segnata per sempre da rimorsi e solitudine. E poi c’è l’altra vita, quella di Stefano Sartor. Ha perso completamente la memoria della sua gioventù, dopo che un grave incidente gli ha annientato la famiglia, causandogli gravi traumi di cui porta ancora le cicatrici. E’ ora, a distanza di anni, professore di filosofia a Parigi, stimato e famoso, autore di un bestseller sulla sua vita, ma ama tornare qualche volta in Puglia, dove è stato amorevolmente allevato da suo nonno Zeno, autodidatta e coltissimo, padrone di una grande azienda agricola. Confida le sue ansie, le sue esperienze ed i suoi sogni, riportati fedelmente nel romanzo, ad una psicoterapeuta, Barbara, che lo aiuta nel tentativo di rientrare in possesso di quella parte di vita spezzata e dimenticata. Ma la vita offre sorprese inimmaginabili: Stefano incontra casualmente a Firenze Anna, che è diventata una celebre fotografa, nasce una forte amicizia che, dopo un successivo incontro a Parigi, si tramuta in una relazione appassionata. In seguito Anna crede di scorgere negli occhi di Stefano lo stesso sguardo di Lupo, ma non è così: Stefano rivela di essere stato un altro frequentatore di quella spiaggia, segretamente innamorato di Anna.
La mamma di Anna sta morendo, la voglia di rivedere Stefano è lacerante, ma Stefano desidera tornare alle origini, alla sua Puglia, a quella terra che l’amatissimo nonno Zeno, che ormai non c’è più, gli ha lasciato.
Due vite perse, lacerate. Anna, una professione appagante ma l’animo inquieto per un amore appassionato, quello per Stefano, di breve durata e forse perduto per sempre. Stefano, una gioventù smarrita per sempre, un’identità cercata disperatamente, ravvivata da lampi di ricordi che svaniscono nei sogni di notti tormentate.
Ecco, due vite che sopravvivono con ricordi e rimpianti. Per Anna il ricordo di un tenero grande amore, vissuto con l’intento di dimenticare il trauma di una giovinezza segnata da un’esperienza traumatica e incancellabile e, nel contempo, il rimpianto per una vita sfuggita nell’attesa di una improbabile felicità. Per Stefano, i ricordi mancati di una gioventù drammaticamente perduta ed il rimpianto per quello che la vita, travagliata e senza approdi dopo la perdita dei genitori e della memoria, avrebbe potuto dargli. Per Anna e Stefano, però, l’autore sembra aprire uno spiraglio di speranza, l’unica fiammella in fondo al tunnel: per Anna la speranza di rivedere Stefano, non si sa come e quando, per Stefano la concreta speranza di ritrovare nella masseria del nonno la pace e la serenità perdute.
Lo stile di Carofiglio è potente, perfetto nella descrizione dei tormenti e delle ansie di due anime alla ricerca di sé stesse. Il lettore si immedesima nelle loro vicende, le rivive con partecipazione e commozione. A proposito di commozione, non si può non immedesimarsi in Stefano quando, entrato di notte in un parco, si trova a tu per tu con un orango, separati solo dalle sbarre di una gabbia: nel buio e nel silenzio, i due si guardano, si sfiorano i polpastrelli, Stefano imita i movimenti delle labbra ed i suoni gutturali dell’animale. Sembrano comunicare, capirsi, e Stefano non riesce a trattenere le lacrime: un attimo, a mio giudizio, sublime, in cui si compendiano due vite, anzi quasi si materializza l’Essenza della vita stessa.
Non mancano, nel romanzo, inportanti riferimenti letterari. Soprattutto Platone, con il famoso “mito della caverna”: lo schiavo incatenato ritiene che le ombre proiettate sulla parete davanti a lui siano soggetti reali, quando in realtà sono illusioni. E ancora Platone, quando afferma che l’anima immortale, che tutto ha visto e sa, ricorda quello che già sapeva: quindi il cercare e l’imparare non sono altro che ricordare.
Da leggere e rileggere: ogni volta si scoprono nuovi aspetti non solo delle vite di Anna e Stefano, ma anche della nostra.
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Allarme a New York per un "fabbro" notturno.
Ecco un muovo personaggio indecifrabile e sconcertante ideato dalla fantasia di Jeffery Deaver. Si fa chiamare “Il Fabbro”, e si aggiunge ai già famosi protagonisti di altri romanzi dell’autore, “Il Collezionista di ossa” e “L’Oeologiaio”. E’ un soggetto speciale, che ama introdursi in modo maniacale nella vita di altre persone, spiandole dalle finestre o addirittura penetrando nottetempo nelle loro abitazioni, spostando oggetti, lasciando tracce ben visibili e, per di più, una pagina di un quotidiano newyorkese, il ”Daily Herald”. L’incursore notturno possiede un’abilità straordinaria nello scassinare le serrature più complicate in tempi brevissimi ed ha una vasta collezione di chiavi e grimaldelli di ogni tipo. Le visite notturne, sempre a donne, seminano ovviamente terrore, anche perché scompaiono dalle case affilati coltelli e diventano ben presto oggetto di articoli giornalistici e commenti massmediatici. Chi sarà il misterioso visitatore? L’autore tiene magistralmente il lettore sul filo dell’incertezza: alcuni indizi fanno pensare ad un ragazzo un po’ svitato e misteriosamente scomparso, Kitt, figlio di un ricco imprenditore, Averell Whittaker, padrone della testata giornalistica incriminata, altri portano ad uno strano giornalista che pedina alcuni poliziotti… Ovviamente sulla vicenda indagano lo scienziato forense Lincoln Rhime e la sua compagna Amelia Sachs, in questo romanzo gran prortagonista e sempre in primo piano, anche perché, per motivi legati ad una precedente indagine, il capo del Dipartimento di Polizia ha vietato a Rhime di occuparsi del caso. Come avviene solitamente nei romanzi di Deaver, alla storia principale si affiancano vicende secondarie che non raramente si intrecciano con la trama del romanzo. Ad esempio, il dramma del vecchio Whittaker, che, preso da rimorsi, decide di disfarsi del suo giornale, prevalentemente ad impronta scandaliastica, e trasformare l’impero editoriale in un ente benefico: grande disappunto della perfida nipote Joanna, già in dissapori con lo zio, che tenta di eliminare, ma non riesce nell’intento grazie alla inaspettata strenua difesa della vittima ed all’intervento del duo Rhime-Sachs. Ed ancora il processo ad un boss, ingiustamente assolto e in seguito inchiodato da Rhime alle sue responsabilità. Non manca neppure la scoperta di una mela marcia all’interno del Dipartimento di Polizia, proprio uno dei capi che aveva causato l’allontanamento di Rhime, reintegrato alla fine nelle sue funzioni di consulente civile.
Alcuni critici hanno sottolineato la possibilità che i vari episodi che si intrecciano generino nel lettore confusione, ed effettivamene può capitare. Occorre una lettura attenta, tenendo conto che il “Visitatore”, che si racconta in prima persona, non è quello che si ritiene tale, ed è in questo disallineamento dalla realtà che l’autore mostra grande abilità: far credere per certo ciò che non è, indurre gli investigatori a battere piste che non portano a nulla, inanellare, soprattutto nel finale, una serie spettacolare di colpi di scena. Fino al più eclatante: lo scontro finale e risolutivo tra il vero “Visitatore” e lo stesso Lincoln Rhime.
Sullo sfondo, una New York frenetica, con il suo traffico senza soste e le sua periferia disadorna: una New York eccitata da blogger di ogni tipo, che postano video leciti e illeciti, e da un’organizzazione parallela e segreta (il cosiddetto “Deep State”) che vuole annientare le istituzioni tradizionali infiltrandosi ovunque.
Lo stile è quello consueto di Jeffery Deaver, incisivo e preciso: non mancano descrizioni accurate delle metodiche di indagine di Rhime, con riferimenti dettagliati alle apparecchiature più sofisicate e moderne del suo laboratorio, dal gascromatografo allo spettrometro di massa.
Per i simpatizzanti del duo Lincoln Rhime – Amelia Sachs, un nuovo capitolo avvincente delle loro indagini avventurose: attenzione a seguire attentamente le varie vicende e a non perdere il filo del racconto.
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In Libia per liberare la figlia.
Ci si potrebbe chiedere come mai Bill Clinton, uno dei presidenti degli Stati Uniti più amati, con un altissino indice di gradimento, una laurea in legge e ben undici lauree honoris vausa, si sia azzardato a cimentarsi in prima persona come autore di thriller. Devono averlo probabilmente convinto il successo della prima esperienza qualche anno fa in qualità di co-autore del romanzo di James Patterson “Il presidente è scomparso”, e i suggerimenti dello stesso Patterson, un autore con centinaia di milioni di copie vendute, a mettersi in gioco in prima persona. Anche perché, come si suol dire, “pecunia non olet”. Fatto sta che “La figlia del presidente” si lascia leggere con interesse, soprattutto per la trama complessa, avventurosa e densa di sorprese e colpi di scena. Vi si narra di Matt Keating, presidente degli Stati Uniti, battuto al secondo mandato dalla sua vicepresidente, Pamela Barnes, una politicante ambiziosa ed arrivista, che vince denunciando debolezze e presunte indecisioni del suo rivale. Keating, sconfitto, si ritira in una sua tenuta nel New Hampshire quando riceve una sconvolgente notizia: il sequesto di sua figlia, la diciannovenne Melania, da parte di un commando di terroristi islamici, guidato dal sanguinario killer Asim Al-Asheed, deciso a vendicarsi per un precedente attacco americano al quale riesce a sfuggire, perdendo però moglie e tre figlie. Il terrorista chiede, per il riscatto, soldi e la liberazione di alcuni suoi compagni, richiesta alla quale la presidente Barnes oppone un netto rifiuto. I tentativi di liberarla falliscono. La messinscena della decapitazione dell’ostaggio si rivela un falso, non solo, ma riesce a rivelare agli esperti che la ragazza è stata trasportata in Libia. Viste le perplessità della Casa Bianca, Keating decide, con un gruppo di amici fidati, di partire per la Libia e liberare la ragazza, anche con il valido supporto dei servizi segreti israelani e sauditi. Nonostante mille difficoltà, i valorosi riescono nell’impresa, e tornano in patria da vincitori.
Naturalmente nel romanzo c’è molto altro. Nella parte iniziale, tengono banco gli intrighi della Casa Bianca, le rivalità, i colpi bassi, le lotte per il potere, gli interventi dei servizi segreti; non mancano neppure le pesanti interferenze del governo cinese, che tenta di liberare la ragazza per favorire un riavvicinamento Cina-USA, i tentativi di fuga di Melania dalla prigione, gli interventi di Samantha, moglie di Keating, che ricatta la presidente Barnes minacciando di rivelare comportamenti licenziosi del marito… Insomma, una serie di eventi avventurosi che complicano le ricerche per la liberazione di Melania. Con tutto ciò, a mio giudizio il romanzo stenta a decollare: i colpi di scena sono prevedibili, il succedersi degli eventi appare a volte inverosimile, il tutto appare più come un fumettone ben disegnato (buoni contro cattivi) che una vicenda realmente possibile. I compiti degli autori sembrano ben attribuiti: a Clinton tutta la parte, con i relativi segreti, riguardante la Casa Bianca ed i suoi frequentatori, a Patterson il ritmo dell’avventura ed i relativi scontri.
Lo stile è semplicemente narrativo, piatto, privo di impennate (per intenderci, Don Winslow ed anche Jeffery Deaver sono tutt’altra cosa!), con numersi interlocuzioni in corsivo per rivelare (in modo un pò infantile) lo stato d’animo dei personaggi, tipo : “..ancora pochi minuti, Mel!”, “ .. mia figlia è lì, a due passi da me!”, “…vai a prenderla!”, “..Mel, stiamo arrivando!” e simili.
Nonostante tutto, la lettura resta piacevole, anche per l’ambientazione della storia ed il contesto storico politico che fa da sfondo, la lotta al terrorismo e le sue ambiguità.
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1927: a Malavacata arriva il nuovo medico condotto
Giuseppina Torregrossa è una delle scrittrici che apprezzo di più. Non solo per una comunanza di interessi (è infatti medico come me), ma anche per le sue attività in campo sociale e soprattutto per il grande amore per la sua terra, la Sicilia, ed il suo stile ricco di espressioni dialettali. Lei stessa ha recentemente affermato (giugno 2021) in occasione del conferimento di una laurea honoris causa, di aver imparato il dialetto prima dell’italiano, e, citando DeMauro e Pirandello, che “il dialetto rimane la lingua degli affetti” ed “esprime il sentimento di una cosa, mentre la lingua il concetto di quella cosa”. Nel suo nuovo romanzo, l’autrice ci trasporta in un borgo dell’entroterra siciliano, uno spaccato di vita contadina, Montevacata: qui arriva da Palermo, e subito se ne pente, un nuovo medico condotto, il dottor Giustino Salonia, un uomo bizzarro, dal carattere difficile, gran sciupafemmine. Ha lasciato Gilda, la moglie, a Palermo ma sembra che poco gliene importi. Corre l’anno 1927, il dottore cerca casa e comincia ad ambientarsi nel nuovo paese. Conosce qualche paesano, il saggio Mimì, Ignazio un tuttofare infido, adulatore, e soprattutto il federale del posto, don Ettore, che cerca di farselo amico procurandogli abitazioni sempre più confortevoli fino a ricattarlo: se accetterà, pur controvoglia (il dottor ha idee politiche ben lontane dal fascismo) di fare il podesrà del paese, don Ettore gli cederà in affitto addirittura una parte di una residenza nobiliare del posto. Il dottore accetta, ingolosito dall’offerta, di svolgere mansioni non conformi ai suoi principi, come del resto in altre occasioni, ed è in questa caratteristica del personaggio la ragione del titolo del romanzo stesso. Non solo, c’è anche una ragione anatomica: il dottore è anche affetto da una rara malformazione congenita, il “situs viscerum inversus”, cioè la disposizione di alcuni organi (il cuore, ad esempio) al contrario. A poco a poco il nostro spopola nel paesino, riesce a conquistarsi il favore dei potenziali pazienti, pur tra litigi, incomprensioni, colpi bassi, tipici di un ambiente poco aperto al mondo esterno. La moglie lo raggiunge da Palermo, i figli aumentano, gli anni passano: ma ecco la guerra e la chiamata alle armi dei maschi del paese. Il dottore, poco incline alla vita familiare, parte subito volontario. Inizia qui la seconda parte del romanzo. Se il titolo della prima era “Nel tempo degli uomini”, quello della seconda è “Il tempo delle donne”. Si nota una sottile differenza: se il primo titolo evoca soprattutto fatti avvenuti “nel tempo” degli uomini, il secondo titolo mette in primo piano le donne. E sono le donne, rimaste sole, che dopo periodi di gelosie e di ripicchi, prendono in pugno la situazione, si organizzano, dal lavoro nei camoi alla gestione dei beni, e riescono a formare una società al femminile dove tutto sembra funzionare meglio e con rispetto reciproco. La guerra finisce, gli uomini tornano dal fronte, Gilda incontra un amore di gioventù e si leva quelle soddisfazioni che il marito non ha saputo darle. Il dottor Giustino, invece, ritornato pure lui, ha con sé un flacone con una innovativa e miracolosa polverina bianca (penicillina), sottratta a un ospedale da campo americano e capace di cambiare terapia e prognosi di tante malattie a quel rtempo difficilmente curabili.
1927-1945: quasi vent’anni di vicende in un mondo antico, quasi sperduto nell’entroterra siciliano. L’autrice ha saputo cogliere l’autenticità di questo mondo, ne ha esaltato i valori ancestrali, fatti di pazienza, coraggio, speranza. Lo stile, impreziosito da espressioni dialettali, è arguto nel descrivere i rapporti idilliaci o burrascosi tra i vari personaggi, ricco di annotazioni precise nel farci partecipi della bellezza di paesaggi incontaminati in angoli poco conosciuti della terra di Sicilia.
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La trasformazione di Flora de Pisis.
Geniale la trovata di Alessandro Robecchi: mettere al centro della storia, e farne una protagonista, l’ineffabile Flora de Pisis, la star della tv commerciale, un personaggio ben noto ai lettori che seguono le vicende di Carlo Monterosso, manager televisivo e investigatore a tempo perso. Flora è conduttrice del programma “Crazy Love”, ideato da un Monterosso poi amaramente pentitosi, un programma che mette in scena cinismo e finte lacrime: Flora, sfruttando gioie e dolori altrui, è diventata la regina dello spettacolo della Grande TV Commerciale (definita da Robecchi “La Grande Fabbrica della Merda”). Orbene, ecco la trovata: Flora viene rapita e portata in un capannone della periferia milanese, opportunamente attrezzato. I rapitori sono due strani personaggi: uno è Corrado Stranieri, efficiente dirigente d’azienda, colto, curiosamente interessato a tutto ciò che lo circonda, innamorato da giovane di nuovi movimenti letterari (surrealismo francese, prima metà del ‘900), l’altra è Caterina, commessa in un negozio di dischi. Corrado, con trucchi contabili, ha messo da parte un bel gruzzolo, e, una volta pensionato, si dedica al suo piano folle. Un piano che nasce dal suo carattere anticonformista e dall’attrazione che ha su di lui il surrealismo con i suoi esponenti di spicco (Apollinaire, Bréton, Aragon, Rimbaud, Mallarmé, per citarne alcuni, senza dimenticare Freud e Marx…) e soprattutto con il suo preferito, Robert Desnos, poeta raffinato, entusiasta della gioia di vivere e della libertà, fiero oppositore della nascente dittatura nazista e perciò internato in un campo di concentramento, ove morirà proprio nei giorni della liberazione. Quello che chiedono infatti i sequestratori è un’ora di trasmissione a reti unificate, senza interruzioni, tutta per Flora. Cosa dirà è un mistero. Tutto il romanzo è una schermaglia tra sequestratori e investigatori dell’azienda (Monterosso in prima fila), fino all’accettazione: Flora si esibirà, stampa, media e TV sono in fibrillazione, l’attesa per lo spettacolo diventa spasmodica, non si parla d’altro.
Arriva la grande serata, ma la polizia, seguendo un indizio, è già appostata nei pressi del capannone, pronta a intervenire. Flora appare, la sua ora inizia, ma, ecco la sorpresa: la sua è un’appassionata rivisitazione della vita di Robert Desnos, recitata e rivissuta con sincera commozione. I versi del poeta sono bellissimi e coinvolgenti, la didascalia finale è un omaggio alla memoria del poeta e un ringraziamento alla star della TV: “senza Flora tutto questo non sarebbe stato possibile, a lei i nostri ringraziamenti e le nostre scuse”.
Un bacio sulla guancia a Corrado Stranieri, Flora esce dal capannone eludendo la polizia, va in un bar e chiede soccorso. Tutto è finito, i sequestratori riescono a dileguarsi, solo il regista dello spettacolo, temendosi riconosciuto, si suiciderà.
Robecchi è abilissimo nel preparare, capitolo dopo capitolo, il colpo di scena finale, un appassionato ricordo di un grande poeta, ed è altrettanto abile nel descrivere le camaleontiche trasformazioni di Flora, da star della TV spazzatura a grande e coinvolgente interprete della vita di un grande poeta del surrealismo, e successivamente, alla fine del romanzo, il ritorno di Flora a recitare, come se niente fosse, la solita commedia delle lacrime e dei finti sentimenti. Ma Robecchi ci dice che Flora sa essere anche altro: lo dimostra l’inaspettato e commovente bacio d’addio a Corrado Stranieri, l’uomo che ha saputo piano piano, giorno dopo giorno, “sedurla” e trasformarla.
Un romanzo da centellinare capitolo dopo capitolo, anche per gustare le citazioni di brani delle poesie di Robert Desnos, un autore forse poco conosciuto dal grande pubblico ma capace, e non è poco, di sacrificare la vita per difendere fino all’ultimo gli ideali della sua vita: il coraggio, l’amore e la libertà.
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Teresa Battalia, un'eroina da tragedia greca
E’ il quinto romanzo di Ilaria Tuti incentrato sulla figura, unica e straordinaria, di Teresa Battaglia, commissario di polizia che sembra ricordare certe eroine della tragedia greca. Non è un personaggio di facile lettura la nostra protagonista, una donna speciale, coraggiosa e nel contempo fragile, rocciosa e testarda, capace, nonostante un passato lacerante, di momenti insospettati di tenerezza e di abbandono. Nella storia, assai complessa e non semplice da seguire e interpretare, Teresa è contrapposta a Giacomo Mainardi, un sadico serial killer, dal passato tormentato e dalle capacità artistiche (compone mosaici) notevoli: ha avuto un’infanzia difficile, nato con una malformazione della gabbia toracica, il cosiddetto pectus excavatum, una anomalia congenita che ne minerà la salute e dalla quale, trascurato da un padre violento e indifferente, si libererà con un tardivo intervento chirurgico. Le due figure principali vengono in contatto, preda e cacciatore, ma verrà a stabilirsi nel contempo una sorta di complicità. Mainardi è inconsciamente attratto dalla fragilità di Teresa, Teresa vuole capire a fondo le motivazioni che spingono il killer al delitto, leggergli nella mente, sondare la sua complessa personalità, e per questo si attira critiche e incomprensioni da parte del diretto superiore, un uomo duro, insensibile, che ritiene Teresa una bizzarra sognatrice, lontana dalla evidenza dei fatti. Teresa è una donna ferita, trattata con violenza da un marito che la riempie di botte, fin quasi ad ucciderla, accusandola di tradirlo: incinta, perderà anche suo figlio, ma le sofferenze sembrano renderla più forte, capace di comprendere le situazioni più atroci, di ricostruire e interpretare storie aberranti, consapevole che “ anche nel cuore del peggiore assassino c’è qualcosa da salvare”.
Il romanzo corre su tre piani temporali: l’oggi, con la prigionia del killer e la sua fuga dall’ambulatorio del penitenziario, ventisette anni prima con la scoperta dei primi delitti, l’inizio delle indagini e le vicende dolorose di Teresa, e infine un balzo nel IV secolo ad Aquileia, avamposto militare romano a difesa delle incursioni barbariche ed epicentro propulsore del cristianesimo in Europa (qui giunsero i primi cristiani dal lontano Egitto) , sede anche di una vasta e famosa area archeologica e di una altrettanto famosa Basilica patriarcale e dei suoi celebri mosaici. Perché proprio Aquileia? Perché proprio qui il serial killer riesce a manomettere mosaici preziosi, sostituendo alcune tessere con frammenti di ossa prelevati dalle vittime assassinate. Ma la Tuti racconta anche la storia di un condottiero romano, Claudio, alle prese con i barbari, ed i riti esoterici relativi alla dea Iside e la loro connessione con i primi cristiani qui giunti dall’Egitto e da Roma ritenuti eretici.
Non è facile seguire tutta la storia nella sua complessità, anche per i frequenti salti temporali, e la complessità degli eventi narrati, ma l’autrice ne smorza le asperità con stile preciso, immaginifico, sia nella descrizione di crude scene di morte che nel racconto quotidiano della vita e nel soffermarsi più compiutamente sul rapporto tormentato e sofferto tra il killer e Teresa. I riferimenti storici su Aquileia sono preziosi e contribuiscono a rendere interessante la storia, quasi avvolgendola in un alone misterioso.
Il romanzo si lascia leggere con piacere e curiosità ( e qualche perplessità), soprattutto da chi riesce ad immedesimarsi con la protagonista, Teresa Battaglia, una donna alla soglia della pensione, apparentemente distrutta ma che sembra rinascere dalla cenere trasformandosi in fuoco inestinguibile.
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Un uomo solo (ma c'è la lupa),
Ennesima indagine del vicequestore Rocco Schiavone, un personaggio singolare, allergico alle regole, fuori dai consueti schemi del “politicamente corretto”, nemico giurato dell’ipocrisia e delle falsità. Non ha quindi vita facile, anche se dotato di un fiuto eccezionale e di una straordinaria abilità nel risolvere casi difficili e complicati. Siamo ovviamente ad Aosta, e le indagini in cui sono coinvolti i poliziotti locali sono due, la prima apparentemente più semplice, la seconda scottante e pericolosa, dato il coinvolgimento di alte cariche dello Stato in traffici illeciti. Nella prima indagine, si parte dal brutale assassinio di una famosa storica dell’arte, Sofia Martinet, esperta in Leonardo da Vinci e ben nota a livello internazionale. I sospetti puntano sul figlio, un poco di buono, in rotta con la madre e responsabile anche del furto di alcuni testi antichi scomparsi dalla casa materna: ben presto però, il vero autore dell’omicidio, mosso da rancori e gelosie, sarà inchiodato alle sue responsabilità dalla pazienza e dalle minuziose indagini del vicequestore Schiavone. Ben più intrigante l’altra indagine, che impegnerà Rocco Schiavone ed i suoi poliziotti su vari fronti, un’indagine che scoprirà vecchie collusioni tra malavita e personaggi d’alto livello, implicati in un traffico di droga e in vari omicidi. Schiavone mette qui a repentaglio la sua vita, resiste a ricatti d’ogni genere, a testa sempre alta: sembra perdere però la speranza in certi valori per lui sacri (l’amicizia, la fiducia nell’amico di una vita) proprio quando scopre che il suo più caro compagno d’infanzia, da lui aiutato in momenti difficili, era sempre stato schierato con i malavitosi. Ed è commovente la conclusione del romanzo, quando Rocco Schiavone, chiuso in ufficio, “percepisce che un pezzo della vita se ne è andato” ed ai suoi che vanno a cercarlo dice “ … non siamo amici, non lo siamo mai stati. Ma la sapete la cosa strana? Mi siete rimasti solo voi. Per quanto sia dura e difficile ammetterlo, non ho altri che voi…”.
Una volta di più, Manzini sa rendere straordinaria e unica la figura di questo singolare vicequestore, un lupo solitario, un uomo dal passato burrascoso e dalle amicizie discutibili, un poliziotto affaticato dagli anni e da esperienze laceranti, sempre ben fermo nelle sue convinzioni anche contro forze potenti e occulte di un sistema corrotto e corruttibile. Rocco Schiavone è un uomo solo, dopo tentativi falliti con un’amica giornalista che tenta più volte di introdursi nella sua vita cercando approcci che falliscono sul nascere. Una lupa è la sua migliore amica, uno spinello (li tiene nascosti in un cassetto chiuso a chiave) è un’occasionale oasi di serenità. Difende strenuamente i diritti civili, rincuorando un suo poliziotto che si dichiara gay, critica e non comprende certe credenze religiose: insomma, un uomo libero, convinto che ognuno debba vivere la sua vita come meglio gli pare.
Il romanzo, a parte qualche lungaggine investigativa nella seconda indagine, si lascia leggere piacevolmente. Siamo al diciassettesimo episodio della serie, e si capisce bene quanto l’autore si sia affezionato al suo amato protagonista e alle magiche ambientazioni in una Aosta ovattata, dove la neve la fa sempre da padrona.
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Venditore di esche e giustiziere infallibile.
E’ la storia avvincente di un personaggio epico, Frankie Machianno, detto “Machine”, uno di quei personaggi che segnano la storia di un’epoca e che l’autore tratteggia con la consueta rara maestria, in ogni suo aspetto. Fra l’altro, nasce più o meno in quel periodo (2006) un altro emblematico protagonista dei romanzi di Don Winslow, quel Art Keller, cui l’autore dedicherà la famosa trilogia sul traffico di droga tra Messico e Stati Uniti. L’inizio del romanzo (poi tutto cambierà) è per una decina di capitoli il racconto idilliaco della vita di un anziano signore, aspetto imponente e placido, capelli brizzolati, che vive serenamente a San Diego, sulla costa californiana: vende esche ai pescatori, fornisce attrezzi e tovagliato ai ristoranti della zona, amministra piccoli condomini, sa fare un pò tutto, conosce tutti ed è benvoluto. Completano il quadro l’ ex moglie Patty, Donna, la sua compagna, ex ballerina, e Jill, una figlia che Frankie adora, e che sta per iscriversi ad una specializzazione medica all’Università di Los Angeles. Frankie è metodico, apprezza la qualità della vita, ama il buon cibo, un caffè fatto come si deve, un abbigliamento essenziale per chi, come lui, ama la vita di porto e di mare, e non trascura fare surf, ascolta, commuovendosi, la musica lirica, soprattutto Puccini. Ma Frankie, ecco la sorpresa, ha un passato che vuole dimenticare, un passato da boss della malavita e da killer, un passato che improvvisamente ritorna e bussa inatteso alla sua porta. Si riavvolge la bobina della sua vita, il racconto prende slancio, lo stile dell’autore diventa incisivo, crudo, sferzante. Frankie è inaspettatamente invitato da un boss sul suo yacht. E’ un tranello, qualcuno lo vuole morto: riesce a salvarsi uccidendo due malavitosi (uno è un informatore della polizia), ma deve sparire fuggendo lontano non prima di aver chiuso il negozio e messe in salvo in luoghi sicuri Patty e Donna. Qui il romanzo va a ritroso, ripercorrendo la vita tumultuosa di Frankie, da quando, reduce dalla guerra in Vietnam combattuta con onore e un invidiabile curriculum di cecchino, era rientrato a casa invischiandosi in ambigui rapporti con la potente mafia della costa californiana. Una mafia che ha agganci dove è importante averli, boss spregiudicati, limousine da sogno, ville sontuose, fiumi di denaro. I traffici di droga, la prostituzione, il mondo del porno, i locali notturni rendono e consentono di esercitare un potere inimmaginabile: chi non si adegua finisce male, e Frankie lo sa. Sceglie gli amici che gli paiono fidati, sfugge ad attentati, si vendica approfittando della sua mira infallibile, ma è ricercato sia dalla mala che dall’FBI per la sua attività di killeraggio. Rischia più volte la vita, ma alla fine riescono ad incastrarlo con un ricatto: la liberazione della figlia, nel frattempo sequestrata, in cambio di una cassetta sulla quale ha registrato la confessione di un importante senatore, assassino di una prostituta. L’incontro finale è drammatico, la figlia si salva ma Frankie muore (o così pare) in un interminabile scontro a fuoco. Gran funerale, bandiera americana (in fin dei conti è stato un eroe in Vietnam), amici della baia di San Diego in lacrime, brani della Bohème in sottofondo…
Ma c’è un Epilogo dopo ben 91 capitoli: su una spiaggia delle Hawai un simpatico e arzillo signore vende esche e non rivelerà mai nulla del suo straordinario passato…
Il romanzo, come quasi tutti quelli di Don Winslow, affascina e conquista. Lo stile narrativo subisce un brusco cambiamento dopo il decimo capitolo, rivelando la grande abilità dello scrittore nel passaggio da una scrittura minuziosa e descrittiva ad uno stile secco e sferzante, tipico dell’autore, quasi un torrente in piena che tutto travolge. I colpi di scena sono frequenti, in un ambiente in cui l’amico e alleato di oggi diventa il tuo persecutore domani: Don Winslow riesce anche a far aleggiare pur su vicende di estrema violenza un alone romantico, ove trovano posto anche un senso sia pure malinteso dell’onore ed un’esaltazione di taluni valori tipici della mafia italo-americana, quali la sacralità ed inviolabilità della famiglia e certi “patti d’onore”.
Il lettore non dimenticherà facilmente Frankie Machine, killer dalla mira infallibile e pacifico venditore di esche ai pescatori di San Diego.
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Un pericoloso scherzo a lieto fine.
E’ indubbiamente un bello scherzo quello giocato al maestro Crispini Fiorentino, uno dei personaggi bellanesi più miti, ligi al dovere, incapace di far del male neppure ad una mosca. Siamo negli anni ’30 del secolo scorso, a Bellano ci sono il maresciallo dei carabinieri Maccadò, la milizia fascista che controlla tutto e provvede che tutto proceda secondo i dettami del regime, oltre alla consueta fauna variopinta degli abitanti del borgo. Il fatto è presto detto: il Dopolavoro indice un concorso letterario, il Crispini è tentato e dopo qualche esitazione si getta nella mischia e compone un alato “Carme Italico” in endecasillabi , inneggiante alle virtù degli italici lavoratori. Solo che una compagnia di bricconi invia alla giuria a nome del Crispini un componimento infarcito di insulti e minacce. Apriti cielo! Il povero Crispini, inconsapevole, viene arrestato dalla milizia, trasferito a Como e imprigionato. Si allertano i carabinieri, si cercano complici, si teme un attentato. Tutto però è bene quel che finisce bene: l’autentica lettera con il componimento originale viene ritrovata sul fondo di una cassetta postale e fatta pervenire alla giuria del concorso, i carabinieri chiudono un occhio sui veri colpevoli, oppositori del regime ed etichettati come “ignoti”, il Crispini è rilasciato e torna a casa trasformato dalla brutta esperienza passata. Rivede le sue idee politiche, il suo ossequio verso chi comanda al momento perde colpi, si chiude in sé stesso. Al punto tale che, quando riceverà una lettera dal Dopolavoro come probabile vincitore, la rinvierà al mittente affermando che non è indirizzata a lui ( il nominativo infatti è quello dello pseudonimo - Apollinare D’Astici !- da lui stesso indicato all’inizio dell’avventura letteraria).
Il romanzo, come gran parte delle opere di Vitali, si legge d’un fiato, forse anche per i capitoli pur numerosi (95) ma brevi, collegati tra loro come vagoni di un lungo treno e l’autore lo sa fare con rara maestria collegando sapientemente frasi o battute. Lo stile come sempre è scorrevole, con qualche espressione dialettale, i personaggi secondari, con i loro stravaganti nomi e cognomi, sono come al solito ben azzeccati. Peccato che a metà romanzo si intuisca già come andrà a finire la storia, togliendo quel po’ di suspense che suscita un finale inatteso. Ma anche i personaggi di secondo piano con i loro intrallazzi e le loro vicende burlesche rendono tutta la storia sempre piacevole.
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L'incendio del Reichstag, il palazzo del potere.
E’ il terzo romanzo di Fabiano Massimi, bibliotecario, traduttore, collaboratore di varie case editrici e curatore di antologie. Dopo “Il club Montecristo” e “L’angelo di Monaco”, ecco “I demoni di Berlino”, thriller storico incentrato sull’inarrestabile ascesa del Partito Nazionalsocialista di Hitler, e culminato nell’incendio doloso del Palazzo del Reichstag, simbolo del potere, che infiammò anche l’opinione pubblica favorendo la vittoria elettorale di Hitler. La storia è imperniata su un personaggio, l’ex commissario Siegfried Sauer, che da Vienna si trasferisce a Berlino per cercare e recuperare la sua amata Rosa, una simpatizzante comunista decisa a compiere un’azione dimostrativa (un attentato?) per frenare la lenta ascesa di Hitler. Sauer ha conoscenze in città, si fa aiutare, dando inizio ad una serie di indagini, anche pericolose per la sua incolumità, alla ricerca di Rosa, di cui nel frattempo si sono perse le tracce. Si teme un assassinio da parte dei servizi segreti, soprattutto quando via via vengono ripescati nei canali alcuni cadaveri di ragazze, molto somiglianti a Rosa, torturate e barbaramente uccise, e quando successivamente ne viene trovata una, massacrata di botte, addirittura nella camera della pensione dove alloggia Sauer. Gli appoggi del nostro commissario a Berlino sono ambigui, non è ben chiaro se appartengono agli organi del partito o se fanno parte della resistenza: fatto sta che tramite essi Sauer riesce a venire a contatto in vari modi con eminenti figure legate a Hitler (Goring, presidente del Reichstag, Heydrich, il temuto capo dei servizi segreti hitleriani, Himmler, capo delle famigerate SS). Alla fine Rosa viene ritrovata, ma quasi subito arrestata dalle SS, che architettano un piano diabolico: far ritrovare il cadavere di Rosa tra le macerie di un attentato (sarà l’incendio del Reichstag), in modo tale da indicarla come colpevole. E l’attentato è nell’aria: l’incendio e la distruzione del Palazzo del Reichstag (la data storica è il 27 febbraio del 1933) avviene infatti puntualmente, organizzato dai nazisti per colpire l’opinione pubblica e favorire la vittoria finale del partito hitleriano. Rosa si salva, fugge con il suo amato su un treno che lascia Berlino, ma il finale è tragico e sembra vanificare tutta l’impresa disperata del protagonista. Così finisce il romanzo: “Un fischio lugubre si levò in quell’istante dalla locomotiva, mentre il treno si gettava nel buio di una galleria, lunga, lunghissima, interminabile. Chissà quando sarebbero tornati a rivedere la luce.”
Il romanzo può essere definito “storico” soprattutto nella prima parte, quando Sauer vaga per Berlino raccogliendo indizi e seguendo tracce. L’ambientazione è perfetta: una Berlino degli anni ’30, con le sue vie maestose, i suoi palazzi storici, il traffico incessante, la voglia di vivere dei suoi abitanti, le birrerie, i locali notturni esclusivi. Si respira l’aria di un famoso film del 1930, “L’angelo azzurro”, protagonista l’affascinante Marlène Dietrich. Facciamo anche la conoscenza di importanti gerarchi nazisti dell’epoca, con i loro vizi e le poche virtù, spinti dall’ideologia ma anche, e non poco, da banali interessi personali.
Nella seconda parte, il romanzo assume le caratteristiche di un vero e proprio thriller: la narrazione è più concitata, il ritmo aumenta, i colpi di scena si susseguono, culminando nella fatidica data dell’incendio del Reichstag e nelle peripezie di Sauer per salvare la sua pelle e quella della sua compagna.
Lo stile a tratti appare un po’ enfatico, nei momenti più tragici, ma ci può stare, dati gli argomenti trattati.
Alla fine del romanzo, l’autore aggiunge note storiche sulla notte dell’incendio del Reichstag e sugli avvenimenti che portarono Hitler, soltanto un mese dopo l’incendio, il 24 marzo, alla guida democratica della Germania. Aggiunge poi, in una lunga nota, altre precisazioni sulle indagini, sul comportamento ed il coinvolgimento dei capi nazisti e sulla ricerca di eventuali colpevoli. Oltre poi ad una lunga bibliografia ed ai doverosi ringraziamenti, l’autore fa un dettagliato elenco dei personaggi del romanzo: per questa lodevolissima iniziativa (dovrebbero farlo tutti gli Autori, soprattutto per riguardo a lettori anziani o un po’… smemorati !), aumento di un punto il voto sul “contenuto”.
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Demoni dell'Apocalisse e rimorsi del passato
Michelle Paver, nata in Africa e trasferitasi prestissimo in Inghilterra, dopo una laurea in biochimica e l’esercizio dell’avvocatura, ha rivelato con i suoi primi due romanzi e ancora di più con quest’ultimo una grande abilità di scrittrice, narrando una esemplare e tenebrosa storia di fine Ottocento e mettendo a nudo recessi oscuri e imprevedibili dell’animo umano. L’ambientazione è tipica dell’epoca. Siamo in Inghilterra, nel Suffolk, ove in una landa desolata con paludi pericolose e melmosi acquitrini s’erge un maniero malandato. Il padrone è un facoltoso proprietario terriero, Edmund Stearne, bibliofilo e storico famoso: ha una moglie che partorisce un figlio dopo l’altro, per lo più morti precocemente, una figlia giovinetta, Maud, apparentemente docile e sottomessa ma incapace di adattarsi alla rigida disciplina paterna. Disciplina che si esercita sulla numerosa servitù, e che ci rivela un uomo di principi antiquati: religiosissimo, non ammette deroghe a certe sue idee preconcette, soprattutto sulla donna, considerata solo come oggetto atto al concepimento o addirittura, come descritta in certa letteratura medievalista, strumento stregonesco del demonio,”subdola, ipocrita e depravata”. Non stupisce che Stearne, da giovinetto, abbia lasciato morire la sorellina, scomparsa affogando nelle acque della palude, e che, dovendo scegliere tra la morte della moglie e la sopravvivenza di un nuovo neonato, preferisca quest’ultima opzione, nella convinzione che il piccolo, con il Battesimo, avrebbe avuto regolare accesso al Paradiso. Da un siffatto personaggio, tra l’altro profondo conoscitore ed esegeta del testo di una mistica del 1500 (ne sono riportati ampi stralci), la figlia Maud, crescendo, prende le distanze, si allontana sempre più cercando di emanciparsi ed intuendo nei comportamenti del genitore, e spiando i suoi taccuini, momenti di lucida follia, soprattutto quando Stearne subisce il misterioso fascino di un dipinto raffigurante angeli e demoni dell’Apocalisse, si sente osservato, perseguitato e sospetta la presenza di creature demoniache in ogni angolo della dimora. Il fattaccio avviene nel 1913, quando il folle uccide con un punteruolo ghiacciato, seguendo uno studiato rituale, un dipendente della casa, fracassandogli poi il cranio a martellate. Manicomio criminale per il padre impazzito, una vita ritirata e solitaria nella dimora degli avi per Maud, che, nel 1967, decide di rendere pubblica tutta la storia, unitamente ai taccuini del padre.
Michelle Paver ha scritto un romanzo che affascina fin dalle prime pagine, e riporta alla memoria i personaggi e le atmosfere di Dracula di Bram Stoker e Frankestein di Mary Shelley, due autori di origine britannica, proprio come la Paver (e non è un caso). Lo stile è accurato, elegante, tagliente e preciso nel sondare i recessi oscuri dell’animo umano, soprattutto nel tratteggiare e poi definire con scrupolo il personaggio principale, uno studioso serio e famoso, apparentemente razionale nei rapporti con i dipendenti e con la figlia, che nasconde nel profondo incertezze e timori, profondi rimorsi e debolezze tali da renderlo vulnerabile a superstizioni e credenze demoniache. La Paver riesce con maestria a rendere tutto ciò credibile, scrivendo più che un giallo, un romanzo storico sull’epoca a cavallo tra Ottocento e Novecento, e facendo presagire nel comportamento della ribelle e anticonformista Maud quelli che saranno i prodromi della lotta per l’emancipazione femminile sfociati in seguito nei movimenti delle Suffragette e nella conquista dell’indipendenza e di certi diritti civili ancora preclusi alle donne.
E ricordiamoci, come scrive la Paver citando Voltaire, che “chi è autorizzato a farvi credere cose assurde, è senz’altro autorizzato a farvi commettere ingiustizie”.
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Investigando il marcio viene a galla
E’ uno strano giallo che si legge piacevolmente, anche se richiede molta attenzione e buona memoria, data la complessità della vicenda. L’ambiente è quello della periferia di Padova, una periferia popolata da malavitosi, spacciatori, trafficanti di vario genere: tra questi, ecco l’io narrante, Marco Buratti, ex detenuto per colpe non sue, per tutti l’alligatore. Naviga abile e silenzioso, ascolta, memorizza, occupato a fornire notizie riservate a studi legali ed a svolgere per gli stessi indagini di ogni tipo. Tutto origina dalla scomparsa, in libertà vigilata, di un detenuto, Alberto Magagnin, accusato dell’ omicidio di una donna probabilmente non commesso. Il suo avvocato lo cerca, incaricando il Buratti di svolgere indagini per tentare di rintracciarlo. Ed ecco il fattaccio: una giudice dalla vita privata non irreprensibile, Piera Belli, viene assassinata durante un festino sadomaso , partecipanti proprio il Magagnin ed un tizio mascherato. Buratti si attiva, indaga con l’aiuto di un amico fidato, Beniamino Rossini, vecchia malavita milanese e rapinatore di professione, scoprendo pian piano sempre nuove relazioni e fatti che mettono addirittura in pericolo la sua vita. Il Magagnin muore per overdose, è considerato l’autore del delitto (che non ha commesso), la vicenda giudiziaria sembra conclusa ma i due soci non si arrendono, continuando le loro indagini private con l’intento di rendere giustizia al malcapitato accusato ingiustamente. Particolare macabro: i due, per non rendere pubblica la morte dello scomparso, ne congelano il cadavere in un frigo, riservandone il ritrovamento alla fine. Allora, chi ha fatto fuori la giudice sporcacciona e quell’altra donna per il cui assassinio era finito in galera Magagnin? Per la giustizia può essere solo il Magagnin, per i nostri due investigatori naturalmente no. Ed ecco che, indagando, emergono personaggi insospettabili: un medico legale famoso, un avvocato maneggione della Padova intrallazzona, ambedue soci dei Cavalieri dell’Ordine di Santa Costanza, un’associazione che raccoglie tutto il marcio di Padova, con affiliati nel mondo politico, finanziario, giudiziario e militare. Ma non basta: ci sono di mezzo anche i rampolli delle altolocate famiglie, emergono rivalità e vendette, confessioni estorte sotto minaccia e registrate. I veri colpevoli tentano di eliminare Buratti e socio, ma i camorristi incaricati della bisogna finiscono male, due metri sotto terra. Riappare, riesumato, il cadavere di Magagnin, con tanto di cassetta con registrazioni compromettenti in pugno. Per i delinquenti altolocati è finita, Magagnin è riabilitato, sia pure post mortem.
Che dire? Il romanzo non ha pause, ti prende comunque, anche se traspaiono qua e là incongruenze e situazioni apparentemente inverosimili. La tensione c’è, anche se allentata da troppo lunghe relazioni mediche e giudiziarie. Lo stile è stringato, essenziale. Il fatto poi che il libro non sia suddiviso in capitoli ma in pochi lunghi blocchi rende la lettura un po’ faticosa. Stona, nel contesto de romanzo e in contrasto con il comportamento dei due investigatori, l’uccisione a freddo dei malavitosi incaricati di farli fuori: il lettore non si aspetta di immaginarli in veste di assassini (forse giustizieri?).
Comunque, accanto alla comune malavita dei poveri cristi, costretti a sbarcare il lunario con traffici più o meno leciti, il giallo squaderna anche un’altra malavita, ben più potente, forse meno evidente ma più sicura della propria impunità, quella dei colletti bianchi, che infiltra i livelli più alti della cosiddetta società civile con un elevato potere corruttivo. E questo il libro di Carlotto lo dimostra benissimo.
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Art Keller sfida i poteri forti.
Con “Il confine” si completa la trilogia dedicata ad Art Keller, il ”patriota” (così lui stesso si definisce) che alla lotta al narcotraffico ha dedicato gran parte della sua vita. Rientrato dal Messico, ora vive a Washington con Marisol, la dottoressa sua compagna scampata per miracolo ad un attentato dei narcos, è diventato capo della DEA (Drug Enforcement Administration) sotto la presidenza Obama e cerca tra mille difficoltà di imporre le sue strategie nella guerra al traffico sempre imponente di eroina introdotta negli Stati Uniti dai cartelli messicani della droga: anziché inasprire le pene ai trafficanti ed accentuare le azioni terroristiche, sceglie di colpire il narcotraffico sul fronte finanziario, bloccando il rientro in Messico dei proventi derivanti dallo smercio della droga (milioni di dollari!) ed impedendo illeciti investimenti tramite il riciclaggio del denaro sporco (banche compiacenti, speculazioni immobiliari, etc.). Questa è l’impostazione del lunghissimo romanzo (siamo sulle novecento pagine!), che con gli altri due della trilogia ha impegnato Winslow per circa vent’anni, costituendo nel complesso un formidabile e coraggioso atto d’accusa nei confronti del narcotraffico, del riciclaggio di denaro sporco e dei relativi appoggi di poteri finanziari e politici. Keller ha carta bianca e libertà di manovra. Riesce ad introdurre nelle fila dei trafficanti e di certi ambienti finanziari informatori muniti di microspie, registrando accordi ed operazioni illecite e scoprendo che la corruzione raggiunge altissimi livelli, addirittura il genero del probabile futuro presidente degli Stati Uniti, il candidato repubblicano. Costui vince le elezioni (il riferimento a Trump è fin troppo palese) ed il genero è nominato consigliere: Keller, che è appena riuscito a smantellare una gigantesca operazione del narcotraffico, viene accusato di azioni illecite quando era agente in Messico e destituito dalla direzione della DEA. Il nostro non cede ed inizia una guerra personale contro i poteri forti, denunciando, con tanto di registrazioni, malefatte, connivenze e delitti, Scoppia il caos ai più alti livelli, il genero del presidente e politici conniventi vengono incriminati, si prospetta l’impeachement del presidente neoeletto. I cartelli della droga, bene istruiti, tentano anche di assassinare Keller: il nostro eroe ne esce gravemente ferito, ma miracolosamente si salva. Alla fine, siamo nel 2018, riesce a trovare un po’ di pace in California, dove si è rifugiato con Marisol, sperando di godersi (forse!) una serena vecchiaia.
Il romanzo è denso di personaggi e affascinante. Gran parte è dedicata alla lotta per il potere dei cartelli della droga in Messico: la morte di Adan Barrera, il fondatore della “Federacion” e capo incontrastato del narcotraffico, ha scatenato rivalità feroci tra gli eredi, guerre fratricide con migliaia di morti, accordi e tradimenti, condanne e finte alleanze, fino alla disgregazione del più importante cartello, quello di Sinaloa, ed il costituirsi di un nuovo potere, quello della famiglia di Tito Ascension, il rozzo e brutale capo del cartello di Jalisco. Si denuncia anche il massacro di numerosi studenti a Tristeza, colpevoli solo di essersi impossessati di un autobus su cui era stato nascosto un carico di eroina: massacro che suscita ovunque sdegno e proteste. Per contro, alcuni capitoli sono dedicati alla commovente storia di due ragazzini, Nico e la sorella Flor, in fuga dal Guatemala perchè minacciati di morte: sul treno di disperati che, attraverso pericoli d’ogni genere, li porterà negli Stati Uniti, viaggia la speranza ed il sogno di una vita migliore.
Lo stile di Winslow è, come di consueto, stringato ed efficace. A volte sa essere tagliente come la lama di un coltello, specialmente nelle narrazioni di stupri e violenze: crudo e furente, mette a nudo l’animo umano, ratteggiandone senza fronzoli malvagità e aberrazioni.
E’ un libro che, scrive Stephen King, tutti dovrebbero leggere, per capire che il “confine” non è solo una linea di demarcazione fra due Stati, il Messico produttore ed esportatore di droga e gli Stati Uniti ricchi consumatori dello stesso veleno, ma può avere diversi significati metaforici.
Art Keller è un personaggio carismatico, ma non è uno stinco di santo. L’autore lo sa bene, quando conclude il romanzo così: “Un confine non è qualcosa che ci divide, ma anche che ci unisce, non può esserci alcun muro, proprio come non c’è un muro che divide l’animo umano tra i suoi impulsi positivi e quelli negativi. Keller lo sa. Lui è stato da entrambe le parti del confine.”.
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Pene d'amore di un neodottore.
Dimenticate l’Andrea Vitali cantastorie di Bellano, accantonate (per poco, naturalmente) il maresciallo Maccadò, i suoi carabinieri, la burbera suora dell’Ospedale, i personaggi che animano la cittadina lacuale: lo scrittore cambia registro e ci propone una languida storia d’amore, la cronaca puntuale e particolareggiata di un vero e proprio colpo di fulmine. Certo, le persone interessate non potevano essere più diverse l’uno dall’altra. Lui, giovanotto di buona famiglia, timido, neolaureato in medicina, qualche supplenza qua e là, sempre a corto di soldi e sempre in cerca di un’auto in prestito, lei, una strana ed eccentrica ragazza, bella e sicura di sè, ma poco acculturata, famiglia di agricoltori e vivaisti di fiori e piante. Anni ’70-’80, gli amori si coltivavano nel cuore e con gli sguardi, il primo bacio era una conquista. Il fatale incontro avviene ad una festa, lui incrocia una sua occhiata, lo colpiscono il vestito ed i malleoli (sic!) di lei: ne esce stracotto, un’infatuazione bella e buona che spinge il nostro baldo e romantico giovane a mettersi alla ricerca di lei attraverso peripezie varie. La trova, iniziano le telefonate ed il corteggiamento. Le uscite serali mettono a dura prova il rapporto tra i due. Capita che lei, alla prima uscita, emani uno sgradevole olezzo di aglio, costringendo l’accompagnatore a tirar giù discretamente il finestrino, e che poi incontri un amico in un locale e si perda in chiacchiere con lui trascurando il suo spasimante. Capita anche che , alla seconda uscita, lei non sopporti, offesa, di essere considerata dalla padrona del ristorante la sua fidanzata: abbandonano il locale, si buca la gomma della macchina ( di bene in meglio!), finiscono la serata in un altro locale ( il “Papillom”, proprio così, si pronuncia come si legge!) che però sta per chiudere. Ma non basta: per far colpo, lui la invita una terza volta in un rinomato ristorante, il “Douce France”, che però ha chiuso i battenti per ferie. Ma il colpo di grazia arriva quando, finalmente, il nostro Romeo rivela il suo amore e le sue intenzioni alla bella scontrosa: la risposta è un netto NO, e qui sembra finire tutto. Disperazione, rassegnazione, silenzi, il tempo passa. Ma l’imprevedibile fanciulla (lui non sa ancora pronunciarne il nome, se Vìvina o Vivìna, questione di accenti: alla fine lei si rivelerà come Vivida) si rifà viva, rimprovera il suo silenzio e gli confessa di averlo messo alla prova. Vai a capire le donne!
Il finale non riserva l’attesa sorpresa che ci si sarebbe potuto attendere, dato l’andazzo degli eventi: anzi, invece di un colpo di scena (che so io, l’apparizione di un vecchio spasimante, un figlio altrui in arrivo, o simili), i due coronano con un bel matrimonio il faticoso e costante corteggiamento del neo dottore.
Ma, ecco la sorpresina finale, che lascio ai lettori il piacere di scoprire. Vivida è ormai la padrona dell’azienda di famiglia (piante e fiori), e lo sposino diventa, suo malgrado…
Come si suol dire, la bella Vivida ha acchiappato due piccioni con una fava.
Il romanzo si legge con curiosità e con piacere. Lo stile è forbito, tipo romanzo fine ottocento, con divagazioni curiose e sospiri amorosi: ogni tanto, qualche imprecazione (e non solo) ci riporta al Vitali della plaga di Bellano e dintorni, così, per farci capire che è sempre lui che scrive e che sa anche deliziare il suo pubblico con altri tipi di storie.
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Denny Malone, un superpoliziotto contro tutti.
“Il miglior crime che sia mai stato scritto”, così ha definito questo romanzo Lee Child. In effetti, dopo il capolavoro “Il cartello” sul narcotraffico messicano, Don Winslow infila un altro capolavoro, un giallo mozzafiato sulla dilagante corruzione che infiltra un considerevole strato della società newyorkese, dai bassifondi delle gang giovanili ai boss indiscussi della droga, fino ad interessare poliziotti di ogni grado, avvocati, giudici, politici. Protagonista della storia è un superpoliziotto, Denny Malone, capo indiscusso di un quartetto della Task Force del Dipartimento di Polizia, figura leggendaria, terrore dei malviventi, amico dei deboli e degli oppressi: è il “re” delle zone di sua competenza, temuto e stimato, pronto a far valere la legge con ogni mezzo sia nella lotta al traffico di eroina e di armi, sia nelle conseguenze di più banali conflitti interpersonali. Malone non è uno stinco di santo: parte della droga sequestrata viene occultata, il denaro sottratto ai boss è ben nascosto e potrà servire per la scuola dei figli, una vita più serena, una pensione senza problemi. Gli scontri con i boss sono frequenti, così come le buste con denaro che servono per addomesticare processi e corrompere alte sfere della polizia e della politica. L’atmosfera è rovente. Malone è sugli scudi quando annienta un pericoloso boss e quando scopre e sequestra un ingente traffico di armi, ma cade in disgrazia quando è costretto a denunciare alcun colleghi ( uno si suiciderà) passando per infame e quando verranno alla luce certi suoi rapporti disinvolti con il malaffare. Lasciato libero per recuperare un compromettente filmato su una rivolta razziale, riuscirà alla fine ad eliminare due pericolosi boss della droga ed a distruggere un grosso carico di eroina. Ma ormai è troppo tardi: la sua carriera è segnata, chi ha voluto toglierlo di mezzo per sporchi interessi personali sembra aver vinto.
“Tutto quello che Malone desiderava era essere un buon poliziotto”.Così finisce il romanzo. La figura di Malone è dominante, un eroe a modo suo, in una città come New York laddove “ in una sola strada senti parlare cinque lingue, avverti i profumi di sei culture, ascolti sette tipi di musica, vedi centinaia di persone con migliaia di storie”, ma anche una città dove crimini e corruzione dilagano e dove occorrono mani pesanti e strategie anche non conformi alla legge per riportare ordine e sicurezza. Malone è il campione di una legge tutta sua, al di fuori dei canoni consueti, ma è anche un tenero amante della sua compagna Claudette, un soccorritore disinteressato di chi è in difficoltà, un padre affettuoso preoccupato dell’avvenire dei figli. Un personaggio unico, contrapposto dall’autore a certe figure rappresentative della legge (capi della polizia, agenti dell’FBI e degli Affari Interni …) coinvolti in affari meschini e preoccupati solo di salvaguardare interessi personali.
Lo stile narrativo è quello consueto di Don Winslow, secco, tagliente, quasi telegrafico: c’è solo una ampia parentesi di grande respiro, quando Malone, inquisito e degradato (siamo quasi alla fine del libro), pronuncia una sferzante requisitoria contro i suoi superiori, accusandoli di essere corrotti, “ il marcio nell’anima della città, disposti a lasciarmi libero per coprire tutto… a fare la guerra alla droga per tenere negri e ispanici al loro posto… a giocare con le cifre per farle diventare ciò che volete voi, in modo da ottenere promozioni, titoli di giornali e carriere in ascesa…”. E termina :”Poliziotti corrotti? Sono i miei fratelli, le mie sorelle. Possono essere corrotti, possono sbagliare, ma sono migliori di voi”.
Don Winslow ama denunciare i mali della nostra epoca. Traffico di droga (“Il cartello”), malversazioni e violenza (“Corruzione”) degradano ambiente e rapporti sociali, e non sempre è facile trovarsi dalla parte giusta, perché, come ammonisce l’autore, Verità e Giustizia non sempre vanno a braccetto: un saluto fugace, “e tutto finisce lì”.
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La guerra del narcotraffico.
Romanzo ponderoso ed imperdibile questo di Don Winslow, non tanto per le ottocento e passa pagine quanto per la natura degli argomenti trattati, le guerre intestine tra i cartelli messicani della droga e lo smercio ai confinanti, e grandi consumatori, Stati Uniti. Le vicende, con personaggi di fantasia ma con storie che rispecchiano la realtà, vanno dal 2004 al 2012, ed hanno come personaggio principale Art Keller, ex agente CIA e DEA, protagonista della trilogia “Il potere del cane”,”Il cartello” e “Il confine”. “Il cartello” è, a mio parere, il romanzo più riuscito dei tre, una specie di “summa” delle criminali attività dei boss del narcotraffico, guidati da Adan Barrera, nemico giurato di Keller e capo indiscusso di “El Federacion”, la più potente rete di cartelli della droga al mondo. Barrera ha messo una taglia di due milioni di dollari su Keller, che, per nascondersi in piena solitudine, si è ritirato in New Mexico, in un convento, dedicandosi con successo all’apicultura. Barrera, nel frattempo arrestato, riesce a fuggire dal carcere approfittando di una rivolta provocata ad arte: Keller è richiamato in servizio ed inviato a Città del Messico ufficialmente come “consigliere” ma in realtà per fare da “esca” al pericoloso boss latitante. Queste le premesse. Quello che succede dopo è una vera e propria guerra tra i cartelli della droga messicani, un giro d’affari, solo per la cocaina, di una trentina di miliardi. La corruzione ovviamente dilaga, i narcotrafficanti dispongono di vere e proprie forze mercenarie addestrate e militarizzate, che mal di distinguono dall’esercito regolare messo in campo, in parte infiltrato da elementi corrotti e pagati dai boss, che riescono a raggiungere anche ufficiali e poliziotti dello stato, per non parlare di strane “valigette” sospette in entrata perfino a “Los Pinos”, residenza ufficiale dei Presidenti del Messico. Le stragi non si contano, l’orrore delle torture inflitte (teste mozzate, sgozzamenti, corpi smembrati, prigionieri bruciati vivi) rende forse inadatto il romanzo a lettori sensibili, ma gli scontri tra i cartelli della droga non hanno tregua. Barrera sfugge ad ogni agguato, Keller si rende conto che il narcotraffico sembra invincibile e accetta un compromesso proposto dalle autorità americane: allearsi con Barrera per eliminare i più feroci “narcos”, gli Zetas, adottando le tecniche dell’antiterrorismo, e cioè eliminando fisicamente, senza remore morali, i capi della delinquenza. Così avviene, la normalità sembra ritornare lentamente, dopo un colpo di scena finale che ha come autore il protagonista, Art Keller, sfuggito per miracolo ad attentati e scontri, ora stanco e desideroso solo di un tranquillo periodo di tregua.
Il romanzo, complesso e affascinante ( è stato paragonato da J.Ellroy al tolstoiano “Guerra e pace” per potenza epica, e addirittura da esegeti più arditi alla “Divina Commedia”), ha una miriade di personaggi, dai capi più brutali e sanguinari del narcotraffico a figure che cercano di opporsi eroicamente ai ricatti. Tra queste, la compagna di Keller, Marisol, medico a Valverde, che non rinuncia alla sua missione, non cede a ricatti e rischia la vita per assistere i suoi pazienti. E poi Erika, un’eroica diciannovenne, propostasi come sindaco e poliziotto in un territorio desolato e pericoloso, fatta fuori dai narcos perché non collaborante. Infine un giornalista, Pablo Mora, fino all’ultimo attivo nel denunciare corruzione e traffici illeciti, sequestrato dai trafficanti, torturato a morte e fatto a pezzi. E proprio a centocinquanta giornalisti, nominati uno per uno, eliminati dai narcos l’autore ha dedicato il suo libro: “giornalisti assassinati o scomparsi in Messico durante il periodo di tempo in cui si svolge il romanzo. Ce ne sono stati altri”.
Un!opera monumentale, l’ha definita il New York Times. Lo stile è quello consueto di Winslow, essenziale, lucido, senza fronzoli o inutili divagazioni: questi sono i fatti, sembra dirci l’autore, il male è fuori e dentro di noi, ogni speranza sembra una chimera.
Anche se, nelle ultime righe, ad uno stanco e apparentemente rassegnato Art Keller, tornano in mente le parole del salmo: “Fermatevi e sappiate che io sono Dio”.
“Non c’è altro da fare che restare calmi”.
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Il teatro dei sogni corona un sogno d'amore.
Un romanzo originale, divertente, ironico, una narrazione incalzante, senza momenti di pausa: l’occasione da cui parte il tutto è un “antico teatro italico” portato alla luce con fatica e con mezzi primitivi da un archeologo, il marchese Guiscardo Guidarini, nella sua tenuta “La Conca”, situata nel territorio di un paesino di seimila anime, Cosmarate di Sotto e di Sopra. La scoperta, divulgata in una trasmissione televisiva del pomeriggio (“Tutto qui”) da una attivissima e petulante inviata, Veronica Del Muciaro, scatena una feroce rivalità tra il sanguigno sindaco del paese, Massimo Bozzolato, che rivendica la territorialità del reperto, e la giunta del capoluogo, Suverso, che con i suoi centomila e passa abitanti, vuole assolutamente la gestione, con tutti i relativi benefici, della scoperta. La vicesindaca di Suverso, Annalisa Sormani, è in primo piano, e comincia ad intavolare trattative con il proprietario, ne subisce il fascino sottile, suggellato da due casti abbracci, che ne condizioneranno il comportamento per tutto il romanzo.
Si scatena una vera e propria guerra tra le due amministrazioni, l’una, quella del capoluogo, governata da un partito sovranista di destra, l’Unione, filorusso e antieuropeista, l’altra retta da un movimento (“Rivolgimento”) più battagliero e deciso. Si susseguono incontri con esperti, trasmissioni televisive, visite alla tenuta nobiliare: volano minacce e insulti, si comincia già a stilare la programmazione di un futuro ricco di soddisfazioni e di visibilità, si immaginano visite guidate, congressi, raduni di vario genere, manifestazioni popolari… Ma chi la spunterà? Ed ecco entrare in scena i big dei due partiti: il grossolano Nicoletti, capo dell’Unione, in favore di Suverso, con relativo codazzo di leccapiedi, impetuoso e determinato, e gli inviati di Gusmondi, il capo di “Rivolgimento”, per Cosmarate, che si propongono. prima di tutto, di cambiare radicalmente il comportamento troppo bellicoso del sindaco Bozzolato e di modificarne il look (pettinatura e abbigliamento), avvalendosi anche del sostegno di una missione di danarosi cinesi, ingolositi da probabili lauti affari. Lo scontro finale avviene proprio sugli spalti dell’antico teatro italico, allorquando il Bozzolato, benché modificato e sgrezzato, non si trattiene dall’azzuffarsi con il Nicoletti, con tanto di calci, morsi e rotolamenti per terra. Ed è qui che avviene il colpo di scena finale, con una dichiarazione scioccante “coram populo” del marchese (che non rivelerò): tutti se ne vanno scornati, con la coda tra le gambe, il sogno dell’antico teatro finisce e, mentre cala il sipario, Guiscardo Guidarini, in alto, sull’ultimo gradino degli spalti, abbraccia e bacia appassionatamente la sua fedele e speranzosa assistente Agnese, coronando un sogno d’amore durato una vita.
Andrea De Carlo, con il suo stile brillante e arguto, prende spunto dal ritrovamento dell’antico (si fa per dire) teatro italico, per mettere impietosamente a nudo vizi (tanti) e virtù (poche) dei politicanti nostrani. Come un moderno Arlecchino, “castigat ridendo mores” mettendo a nudo inveterati difetti, piccinerie e manie di tanti caporioni locali, evidenziando situazioni grottesche e soprattutto la smania di farsi notare e porre in primo piano i propri meschini interessi, con buffi sotterfugi e ridicoli giochi di potere. Basti citare il surreale programma elettorale di “Rivolgimento”, che promette, fra l’altro , l’indennità di disoccupazione preventiva, il condono di laurea che consente di saltare gli ultimi quattro esami e la tesi, l’abolizione dell’esame teorico per la patente, e amenità simili, e, dall’altra parte, la figura di Nicoletti, capo dell’Unione, che non può non rammentare un ben noto personaggio politico del Nord.
Insomma, un romanzo che diverte e fa riflettere su usi e costumi italici, soprattutto sull’insopprimibile volontà di far prevalere meschini interessi personali sul bene comune. L’Autore, con le sue divagazioni, mi rammenta la famosa frase attribuita a Massimo D’Azeglio nel 1861: “ l’Italia è fatta, ora bisognerebbe fare gli italiani”.
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Dopo un viaggio disperato la vita torna a sorrider
Il romanzo di Cameron è molto particolare: dopo poche pagine può suscitare nel lettore atteggiamenti opposti, l’abbandono della lettura oppure la curiosità di capire il perché di una vicenda strana e quasi irreale, immersa nel buio di una perenne notte nordica, ammantata dal gelo e dalla neve. Un treno corre attraverso lande desolate, trasportando tra gli altri due personaggi, i protagonisti, un uomo e una donna dei quali non verrà mai svelato il nome: il loro viaggio (da molto lontano, probabilmente oltreoceano) ha come scopo l’adozione di un bambino, in un orfanotrofio dell’estremo nord. L’atmosfera è irreale, il buio incombe su tutto, la neve trasforma tutto in un paesaggio da favola, quasi sospeso nel tempo. I due, la donna sofferente per un tumore, magra, dal carattere indecifrabile, volubile, l’uomo premuroso nei confronti della compagna ma dal carattere fragile, si fermano al Grand Imperial Hotel, una lussuosa ed imponente struttura che sorge come per incanto in una landa desolata e che ricorda, così, al primo impatto, il Grand Budapest Hotel dell’omonimo film del 2014, con quei due leggendari personaggi, Gustave, il portiere, e Zero Mustafà, il fattorino (per inciso, grande film e due indimenticabili protagonisti!). L’Imperial Hotel del nostro romanzo è semideserto, animato solo da strane figure: una cantante in abito da cerimonia, che si prende a cuore i due nuovi visitatori, uno strano viaggiatore per affari, invadente e grossolano, un cameriere puntuale, quasi un’immagine iconica, immobile in un angolo dietro il bancone del bar. Tutt’attorno, lussuosi salotti, saloni da cerimonia e sale da pranzo riccamente arredate: in queste atmosfere d’altri tempi, i due sopravvivono, fino al giorno della visita all’orfanotrofio: per errore vengono portati in un altro Istituto, dove una specie di santone guaritore promette pace e serenità. Alla fine , la donna affascinata dalle parole di fratello Emmanuel (così si chiama il guaritore) decide di fermarsi per sempre in Istituto (dove serenamente si spegnerà), mentre il compagno, con il bambino prelevato dall’orfanotrofio, riprenderà il treno con il cuore spezzato, portandosi però a casa quella creatura, emblema di speranza, a cui dedicherà tutta la sua vita.
La storia prende alla gola, come una morsa, ha tante sfaccettature e invita a riflettere su tanti aspetti della vita: l’unione tra i due protagonisti sempre sul punto di spezzarsi pur dichiarandosi sempre reciproco amore, la solitudine in un ambiente lussuoso e freddo, animato superficialmente da personaggi inadatti a comprendere la crisi esistenziale dei due viaggiatori, alla ricerca di un figlio e di una miracolosa guarigione, la notte perenne, il buio in cui tutto pare sospeso e che avvolge tutto, quel buio che, alla fine, è il vero protagonista del romanzo, quell’allucinante buio che in varia misura può esserci in ognuno di noi.
Lo stile narrativo non si perde in divagazioni: parti discorsive e riflessioni sono essenziali, stringate, esprimono il tormento interiore dei protagonisti sempre alla ricerca di una soluzione alle loro speranze. Soluzione che forse alla fine trovano, lei nella beatificante visione di una fine serena, lui portandosi via il piccolo adottato che gli aprirà il cuore ad una nuova vita.
Lapidaria ed emblematica la frase che Livia Pinheiro-Rima (la donna di spettacolo conosciuta in Hotel) sussurra alla viaggiatrice: “ Viviamo in un’epoca buia, nessuno riesce a trovare la propria strada. Procediamo a tentoni, come i ciechi. Somigliamo a quegli animaletti sotterranei che scavano la terra fredda e umida nella speranza di trovare una radice commestibile. Noi non siamo migliori… “. E’ un po’ la morale del romanzo. Ma ci sono cose peggiori dell’essere ciechi e del procedere a tentoni nel buio: “Essere morti”, conclude Livia.
Cameron ci fa capire di credere in quella fioca luce che spezza il buio e si accende alla fine del romanzo. Simon (così si chiama il piccolo dell’orfanotrofio) sembra proprio rappresentare la materializzazione della famosa citazione ciceroniana “ finchè c’è vita, c’è speranza”: quando tutto è disperato e soffocato dal buio e dal gelo, anche solo un barlume di speranza e di vita comincia a diventare vera forza.
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La prima indagine privata di Penelope Spada.
L’ultimo romanzo di Carofiglio, forse non allo stesso livello di altri, è un giallo e ci propone un’interessante nuova figura femminile, Penelope Spada. E’ un ex procuratore legale, incappata in una disavventura della quale nel corso della storia non si parlerà mai: la colpa è anche di altri colleghi, ma solo lei pagherà per tutti e verrà allontanata dalla professione. Vive di rendita (ha un secondo appartamento che affitta), si mantiene in forma frequentando assiduamente la palestra e mangiando sano: ha però due punti deboli, indulge all’alcool e fuma un pacchetto di Lucky Strike al giorno, tentando (invano!) di smettere. Non disdegna qualche fuggevole esperienza amorosa, subito dimenticata. E’ una donna riservata, volitiva, molto intelligente, e, come sosteneva sua nonna, proprio le persone con intelligenza spiccata tendono a combinare guai, per l’eccessiva fretta e sicurezza delle proprie azioni. In privato, è una donna fragile, nostalgica del passato, a volte insicura ed incline a chiudersi in sé stessa.
La storia è semplice. Un amico giornalista di nera la contatta pregandola di interessarsi al caso di un tizio, la cui moglie viene trovata assassinata in un parco del milanese. Unico indagato è il marito, assolto per mancanza di prove, ma con “inquietanti” sospetti. L’uomo non ci sta, anche per timore di quello che potrebbe pensare di lui la giovane figlia , e vuole chiarezza: Penelope accetta, dopo titubanze, di indagare sull’omicidio come investigatrice privata e di scoprire l’assassino, avvalendosi anche dei consigli di un vecchio amico poliziotto, Barbagallo, cui è legata da una reciproca stima. Inizia a questo punto l’indagine vera e propria (siamo già a metà del romanzo), ma la trama diventa fragile e la conclusione repentina e prevedibile: solo eventi fortuiti (e fortunati!) abbastanza banali indirizzeranno Penelope alla soluzione del caso, lasciato alla fine nelle mani di Barbagallo e della polizia. La nostra protagonista è cocciuta e testarda, disciplinata nell’attività investigativa, ancora visceralmente legata alla sua passata attività, nostalgica forse, ma non lo dà a vedere, di quel mondo e di certi ambienti (ad esempio il palazzo di giustizia) dai quali è ormai stata estromessa per colpe probabilmente non solo sue. Il personaggio è ben rappresentato, ha un passato non ancora chiarito e ritornerà, ne sono certo, con altre indagini. Il difetto del giallo è la storia in sé, un po’ troppo semplice e priva di emozioni vere. Ma forse a Carofiglio interessava impostare bene un suo nuovo personaggio, caratterizzarlo con cura e descriverne vita ed emozioni, luci ed ombre. Il resto verrà in seguito.
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Il fine giustifica i mezzi
Un romanzo storico, o meglio un periodo storico romanzato, forse troppo: uno squarcio sulla Storia degli ultimi anni del XIII secolo di un’Italia suddivisa, preda di scorrerie straniere e delle ambizioni sfrenate delle famiglie della nobiltà romana. Già lacerata da continue scaramucce tra ghibellini (fedeli all’imperatore di turno) e guelfi (papisti convinti), la nobiltà romana si contende frange di potere: da una parte gli Orsini, alleati dei Colonna e dei Malabranca, dall’altra gli Annibaldi. I più determinati sono gli Orsini, che, alla morte di papa Giovanni XXI, fomentano intrighi di ogni genere (il conclave durerà sei mesi!) per eleggere un cardinale della famiglia, Giovanni Gaetano Orsini, a Papa (Niccolò III). L’anima nera del complotto (e protagonista del romanzo) è Matteo Rubeo Orsini, nipote del nuovo Papa e nominato anni prima cardinale da Papa Urbano IV, nel 1263. Assetato di potere e privo di scrupoli, è convinto che per far trionfare il regno di Cristo occorra il dominio temporale sul territorio: riesce ad annettere ai territori della Chiesa prima la Romagna, in seguito la Tuscia (gran parte del viterbese) e poi Firenze, assegnandone il controllo ai più stretti familiari. In contrasto con il Papa, un francescano più rigoroso ed ascetico, storicamente noto soprattutto per aver ostacolato l’espansione angioina in Italia, lo stimola ad agire, ne rimprovera l’inettitudine, gli confessa i personali intrighi (anche azioni delittuose) e riesce infine a riportarlo a Roma, dopo aver defenestrato dal seggio di senatore Carlo d’Angiò. Ma, ahimè, Niccolò III non regge allo stress e muore: Matteo Rubeo non si dà per vinto, e organizza una spedizione in Sicilia per scacciare i francesi (la famosa rivolta dei Vespri Siciliani del 1282). Gli Orsini dominano, ma il troppo è troppo: le altre famiglie nobiliari ed i francesi riprendono quota, ma, alla fine, dopo complicate vicissitudini e scontri sanguinosi, Orsini e Annibaldi si riuniranno per lottare finalmente uniti contro il comune avversario, i francesi, e riconquistare il Campidoglio: grazie anche a Margherita Colonna, una santona che pare faccia discussi miracoli e che, con un discorso solenne, riuscirà a pacificare gli animi nel nome di Cristo e di una Chiesa rinnovata. Abbracci e pianti tra i contendenti: fine del romanzo. Che dire? Per completare l’estrema sintesi di un racconto molto complesso, dominato da continui scontri per conquistare nuovi territori e spodestare famiglie rivali o stranieri invadenti, non posso non citare due figure femminili di spicco, Perna Orsini e Beatrice (quest’ultima, forse l’unica del romanzo, storicamente non esistita): vivranno due storie d’amore commoventi, lungamente descritte, la prima con un Annibaldi, la seconda con il giovane Orso Orsini, e moriranno in modo tragico, immolandosi per il bene comune,
Frediani racconta in modo convincente un periodo storico turbolento, in cui la Chiesa, convinta della giustezza del potere temporale, badava a conquistare posizioni territoriali sempre più estese, sognando di unificare tutta l’Italia sotto il governo papale, con ogni metodo, lecito o illecito: il motto era “il fine (sacrosanto) giustifica ogni mezzo”. Lo stile narrativo è fluido e scorrevole: prevalgono i colloqui tra i vari personaggi, difetta forse la spiegazione del contesto storico in cui si svolgono i fatti. C’è una lunga postfazione, ma si sente la mancanza, a mio giudizio, di un’introduzione esplicativa sul momento storico dell’Italia di quei tempi e, soprattutto, un elenco alfabetico di tutti i personaggi coinvolti, specificando le complicate relazioni di parentela tra le varie famiglie nobiliari che, unitamente a qualche data in più, renderebbero più agevole la lettura.
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Spionaggio ed agguati nella New York del dopoguerr
Ecco un autore di grande spessore, che relega, devo dirlo a malincuore, i miei tre giallisti preferiti (James Patterson, John Grisham e Jeffery Deaver) in secondo piano. James Patterson, lo stakanovista della produzione letteraria poliziesca, il narratore (lui e la sua équipe) di storie vendute a centinaia di milioni di copie. John Grisham, il signore del legal thriller, sempre preciso e documentato, forse un po’ noioso, certo, ma la colpa, si fa per dire, è degli argomenti che tratta: hanno un certo fascino, ma non promettono quei colpi di scena che solleticano l’emotività del lettore. Jeffery Deaver, infine: basta citare l’impareggiabile coppia investigativa Lincoln Rhime e Amelia, ed è detto tutto. Ma Don Winslow, a mio parere, è di un’altra categoria: oltre che scrittore, è regista, attore, consulente a vario titolo, è stato addirittura investigatore privato e, per qualche anno, guida nei safari africani. Insomma, uomo dai mille mestieri, aperto alle novità, dotato ( ma ne riparlerò) di una scrittura brillante, vivace, ironica, una scrittura che fa sentire il lettore parte dell’azione, immerso nelle situazioni ambientali più svariate (compresi suoni, colori, luci), tanto da renderlo quasi partecipe della narrazione e parte integrante.
Il romanzo è tutto da godere, a cominciare dal periodo in cui si svolge. Siamo nella New York degli anni ’50, una città che, finita la guerra, sta rinascendo, piena di vita e di rinnovati entusiasmi. Protagonista è Walter Withers, ex spia della CIA ed ora investigatore per una compagnia privata la Forbes & Forbes: l’incarico è quello di sorvegliare e proteggere la bella ed affascinante moglie, Madeleine, di un senatore, Joe Keneally, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti. Al bravo Walter ne capitano di tutti i colori: integerrimo nel suo lavoro, uomo dal cuore tenero e dalla mira infallibile, deve destreggiarsi tenendo d’occhio, oltre a Madeleine, che deve occultare una sua precedente passione (con tanto di lettere compromettenti) per un noto poeta ubriacone, M Guire, un tipo underground alla Bukowski per intenderci, anche una strepitosa bionda scandinava, spia sovietica e amante del probabile futuro presidente Accade un imprevisto: la bionda viene assassinata: la polizia di New York indaga sull’incolpevole Walter, l’ultimo, pare, ad averla incontrata. Il romanzo, da qui in poi, si fa avvincente: il nostro è braccato e deve sfuggire a deviati e collusi (con i russi) servizi segreti della CIA, all’FBI ed al suo temibile e infido capo Edgar Hoover, alla polizia di New York ed a scagnozzi vari in un susseguirsi di agguati e colpi di scena, finchè riuscirà a consegnare al vero “Vecchio” della CIA il materiale compromettente che incastra il senatore e che svela i pericolosi e inopportuni rapporti con la bionda spia di Mosca, Marta. Come premio, Walter avrà, forse, un incarico come agente della CIA in Indocina: nell’attesa, si godrà un meritato riposo con la sua bella, una cantante jazz tutta pepe e dai gusti particolari.
La storia, in estrema sintesi è questa, ma sono le atmosfere di una New York rinata che incantano e che Don Winslow descrive con rara maestria. Godetevi ad esempio la frenesia che coglie la città la notte dell’ultimo dell’anno (il 1958), il trambusto del traffico, la corsa agli ultimi regali, oppure la lunga descrizione del Village: suoni, luci, colori, sapori (“…una granita italiana in una giornata calda, spaghetti in salsa marinara, pane imburrato, espresso forte, vino rosso dolce…”) rendono il quartiere unico nel suo genere, un’esplosione di vita e di personaggi (gli italiani sono più volte citati) tale che il lettore sembra quasi farne parte e viverne in prima persona la vivacità e le emozioni. E che dire della minuziosa cronaca di un incontro di football americano, incontro vissuto da Walter in compagnia del già citato McGuire. C’è poi, per non trascurare nulla, una visita di Walter ai genitori. Si discute, tra l’altro, sul comunismo, allora in auge oltreoceano, e sui suoi rapporti con il cattolicesimo: la domanda di Walter da che parte sarebbe stato Gesù se fosse vissuto a quei tempi fa riflettere, e pone interrogativi inquietanti.
Scrittura brillante e coinvolgente: stringata e incisiva nelle azioni concitate, precisa e documentata, con un pizzico di nostalgia, nella descrizione degli ambienti cittadini. Il tutto con piglio ironico, quasi volesse rassicurarci che sembra tutto vero ma forse non lo è. A tal proposito, illuminante è la definizione dello scrittore da parte di Janet Maslin, del “ New York Times”: “Don Winslow nella sua scrittura fonde mirabilmente il grave con il giocoso, l’incubo con la speranza riuscendo ad essere contemporaneamente irriverente ed assolutamente serio”.
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La ragazza dal ciuffo viola e l'uomo delle pulizie
“Io sono l’abisso”, così si definisce il protagonista del romanzo, uno dei personaggi più enigmatici ed inquietanti della letteratura gialla più recente. Non ha nome (è “l’uomo delle pulizie”), appare come figura sfuggente, indefinita, senza apparenti legami familiari: viaggia su un Fiorino e, vestito da netturbino, raccoglie diligentemente rifiuti (alcuni li conserva!) dai cestini sulle rive del lago di Como. Svolge la sua routine giornaliera, ripetitiva, oscura, apparentemente apatico e rassegnato. Scopriremo poi che “l’uomo delle pulizie” nasconde un passato sconvolgente. Frutto di una delle tante relazioni di una madre che si svende nei locali notturni, in tenera età viene lasciato solo ai bordi della piscina melmosa, dove tenta goffamente di imparare a nuotare, di un Grand Hotel chiuso da anni. Non solo, ma un certo Micky (il padre?), dopo avergli inflitto violenze fisiche e morali, finirà per soggiogarlo completamente. L’orfanotrofio ed in seguito una strana famiglia lo accoglieranno, fino a quando, dopo avvenimenti agghiaccianti, raggiungerà l’età adulta: subirà sempre il fascino morboso di un immaginario Micky e, immedesimandosi in lui anche fisicamente con trucchi vari, inizierà, frequentando locali notturni di infimo ordine, una vita di delitti e di malvagità. L’altro personaggio chiave del romanzo è “la ragazza dal ciuffo viola”, tredicenne di famiglia altolocata con lussuosa villa sul lago: tenterà il suicidio gettandosi nel lago, ma verrà inopinatamente salvata e tratta a riva dal nostro netturbino, che fuggirà subito dopo.. I due non si dimenticano e si cercano in ogni modo, con motivazioni diverse: la ragazza per cercare protezione da una famiglia che bada poco a lei e da amici che la perseguitano sfruttandola sessualmente e ricattandola con foto proibite, “l’uomo delle pulizie” forse per eliminarla, avendo lasciato tracce della sua presenza. Alla fine, dopo una serie di vicissitudini in cui entrano altri personaggi (un’assistente sociale, Martina, che sperimenterà la malvagità del protagonista, un ufficiale dei carabinieri con problemi matrimoniali, Pamela, una “cacciatrice di mosche”, accanita e tenace in una continua lotta contro le violenze ed i soprusi nei confronti delle donne), ecco l’incontro tra i due, un incontro surreale ed emozionante, un abbraccio soffocante: un desiderio di annientamento, prodromico di un ulteriore delitto o un goffo tentativo di redenzione? Il finale è concitato, forse un po’ affrettato, con azioni a sorpresa che si susseguono rapidamente. Lo stile narrativo, che indulge per più capitoli del romanzo in un’indagine introspettiva dei comportamenti e del carattere dell’uomo delle pulizie, nelle ultime pagine assume il piglio del romanzo d’azione con colpi di scena a ripetizione ed autentici momenti di suspence.
Donato Carrisi è un maestro nel delineare la figura dell’uomo delle pulizie: dall’inizio, allorquando il protagonista “ nato per sbaglio e gettato via come spazzatura” si chiede quale possa essere lo scopo della sua vita, scoprendo che “perfino i rifiuti avevano un valore”, via via fino all’asservimento ad un’ossessione malvagia, che ottenebra la coscienza e cancella i sentimenti, rendendo il protagonista insensibile e disumano, fino a quell’incontro casuale sul lago, un incontro che poteva essere un’ancora di salvezza ma che gli spezza la vita.
Il lago di Como qui non ha i consueti colori vivaci: le acque sono plumbee, le rive anonime, una cappa ineluttabilmente grigia copre tutto, ambiente e personaggi. C’è da riflettere sull’anima umana e sugli abissi in cui può, consapevolmente o inconsapevolmente, scivolare.
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La difficile impresa di un avvocato difensore.
Torna in campo il brillante avvocato Jack Brigance, uno dei personaggi più amati da John Grisham. Siamo nel profondo sud dell’America, anni ’90, in quel Mississippi ancora turbato da tensioni razziali, dove vige come principio il biblico “occhio per occhio, dente per dente”: la clemenza non è di casa, la giustizia deve attenersi rigidamente alle leggi, senza sbavature pietistiche e senza eccezioni. Il nostro avvocato, sempre a corto di parcelle, ha un suo studio, gestito in collaborazione con Portia, una bravissima praticante nera che promette di laurearsi con la prospettiva di diventare socia, e con vecchi colleghi, amici che lo supportano e con i quali ha rapporti altalenanti. In più, un’adorabile e pazientissima moglie, Carla, insegnante, ed una figlia, Hanna. Siamo a Clanton, una cittadina operosa, sede del delitto di cui tratta il romanzo. Un minorenne, Drew Gamble, dall’aspetto infantile (dimostra meno dei suoi sedici anni), e con precedenti non limpidissimi, esasperato dai continui soprusi e dai ripetuti atti di violenza ingiustificati del vicesceriffo Stuart Kofer che ospita lui, la madre e la sorella quattordicenne, gli spara a freddo uccidendolo, convinto che, in preda ai fumi dell’alcool, abbia ucciso, dopo averla pesantemente insultata, la madre a pugni e calci. Questo l’antefatto. Il delitto sconvolge la vita della città, un uomo di legge, per altro stimato in servizio ( ma con precedenti oscuri e senza freni inibitori se ubriaco), assassinato: la legge prevede la pena capitale, il giudice della contea nomina Brigance avvocato difensore, che accetta temporaneamente e non volentieri l’incarico. Ma la nomina diventerà definitiva: Brigance ha paura, tutti sono contro di lui, teme addirittura per la sua incolumità, ma, alla fine, prevale in lui il senso del dovere, il dovere morale di aiutare un povero ragazzo che ha ucciso per difendere la madre e porre fine a continui atti di violenza e minacce di morte. Il romanzo è la minuziosa storia del processo e relativi accadimenti. Sono più di cinquecento pagine, pochi i colpi di scena da vero thriller, estesa e sviscerata in ogni particolare la parte legale, tanto da rendere la narrazione a volte prolissa e noiosa, ma comunque a suo modo affascinante per gli amanti del genere. Brigance, in altri romanzi convinto assertore della pena capitale, è qui propenso a porre in primo piano le ragioni che hanno condotto il ragazzo al gesto fatale, ne assume coraggiosamente la difesa, cerca in ogni modo di rendere meno insopportabile la sua reclusione in un carcere per adulti, fino a calare l’asso che tiene nella manica, tenuto nascosto al processo: è il vero e unico colpo di scena, allorquando rivela che la sorella di Drew, stuprata dal vicesceriffo, è incinta ed è prossima a partorire. La giuria ascolta l’arringa di Brigance, non emette un giudizio unanime di colpevolezza, appare divisa: il processo si dovrà rifare, Brigance ne esce virtualmente vincitore e prende sempre più a cuore le sorti del ragazzo. Ottiene per lui una sorta di libertà vigilata e la frequenza a scuola, mentre propone alla moglie di adottare ufficialmente il neonato, proposta accettata con entusiasmo. Per il ragazzo, si batterà nel prossimo processo per ottenerne l’assoluzione.
Sempre attento ai grandi temi sociali, John Grisham affronta nel romanzo un grande tema, quello della clemenza, legato in un certo senso alla pietà, non tanto nel senso della “pietas” romana intesa come devozione religiosa, ma interpretata come compassione e misericordia: sentimenti tutt’altro che facili da far comprendere in un ambiente chiuso, retrivo e vendicativo come quello in cui Brigance opera. Ma ha una grande famiglia al suo fianco, un vecchio ed esperto giudice senza pregiudizi che riesce a comprenderlo, un pubblico accusatore che non infierisce pur insistendo per la pena capitale.
Un altro tema che affiora nel romanzo è quello del razzismo: pur in un ambiente in cui i bianchi hanno ancora la supremazia ed i neri hanno ancora aree separate nei cimiteri e nella maggioranza dei ristoranti, il protagonista si batte per avere una socia nera, Portia, una collega abile e fidata, sostenuta ed incoraggiata negli studi e nel conseguimento del diploma.
Per gli appassionati di questioni legali, il romanzo offre una miniera di spunti e riflessioni. Per chi invece predilige il thriller, la narrazione non offre emozioni forti. Consiglio comunque la lettura, perché le vicende familiari e processuali dell’indifeso e fragile Drew Gamble, inserite in un ambiente del tutto particolare, offrono più spunti di riflessione.
Lo stile narrativo: essenziale ed impeccabile. John Grisham non si smentisce mai, anche nei romanzi apparentemente meno popolari.
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La Befana fascista fallisce: Scudiscia se la gode.
Già dal titolo si capisce che siamo negli anni del fascio, e, dal sottotitolo, che una delle figure centrali del romanzo è il burbero maresciallo Ernesto Maccadò, al comando dei carabinieri di Bellano e in trepidante attesa del primogenito che la moglie Maristella sta per mettere alla luce. Corre l’anno 1929. Andrea Vitali ci regala un altro simpatico affresco della cittadina lacuale e dei suoi più o meno noti personaggi di spicco. Storie ce ne sono diverse, e tutte godibili. Intanto, quella di cui fa riferimento il titolo: il segretario del partito fascista di Bellano, Caio Scafandro, pur descritto, alla nomina, di limpida fede fascista, ha un passato poco noto da socialista ribelle, e, temendo che in alto loco vengano alla luce certi suoi trascorsi poco “limpidi”, incarica il postino Fracacci di sottrarre dalla buca delle lettere qualsiasi missiva indirizzata al Federale che possa riferire alle autorità malignità sul suo conto. E poi c’è la signorina Fuscagna, dagli innamoramenti facili, eterno cruccio di una madre rassegnata e di un padre che non vede l’ora di togliersela dai piedi: questa volta è a capo dei locali fasci femminili, e si mette in testa cocciutamente di indire la festa della Befana fascista, sottraendo il ruolo di befana a Scudiscia, la perpetua del prevosto, e cercando di mettere in piedi prima di Natale una specie di concorso onde scegliere, come incarnazione della nuova befana, una bella ragazzona prosperosa segno di svolta e di un futuro più in linea con i tempi. Questi filoni narrativi, si intrecciano con le ambasce del maresciallo, prima in attesa del parto di Maristella, e poi preoccupato per le frignate continue del piccolo Rocco sempre affamato, e ancora con la corte ossessiva del responsabile dell’Ufficio postale alla già citata Fuscagna, suscitando le gelosie delle due impiegate zitelle, e poi ancora con le vicende della perpetua Scudiscia e di quel sant’uomo del prevosto, del postino Fracacci , combattuto tra l’obbedienza al segretario Scafandro e la consapevolezza di essere un ladro di corrispondenza… Storie amene, sempre sul filo dell’ironia, raccontate da Vitali con il solito ritmo narrativo ormai consolidato che, con una battuta, una parola, un’esclamazione, rimanda da capitolo a capitolo e da argomento ad argomento (sempre più brevi i capitoli finali, quasi volesse aver fretta di concludere, chissà perché). Scontate le conclusioni: Scafandro perde il posto di segretario e abbandona Bellano, il piccolo Rpcco mangia con appetito formidabile, la festa della Befana fascista fallisce miseramente con grande soddisfazione di Scudiscia, il capo delle poste impalma la sua bella, finalmente appagata.
E poi, lasciatemelo scrivere ancora una volta, ci sono i nomi, che ci riportano indietro di un secolo o poco meno: nomi straordinariamente abbinati a certe persone, che da soli fanno romanzo. Valgano per tutti le concorrenti al concorso di befana: Minimella, Invrina, Gelina e Veritiera lasciano a bocca aperta, per non parlare di Abito (un medico), Gorgonio, Memerio, Libica, Eusepina, Firma, Tarilla, Birmina, Indina e via spulciando. Ma dove li pesca Andrea Vitali ? Mai un Francesco, un Giovanni, una Maria … C’è però un Alberto, addirittura il re del Belgio che, da bravo scalatore, preannuncia una sua visita in zona allo scopo di scalare le cime della Grigna, con grande agitazione locale: farà la scalata nel 1931, guidato da Giovanni Gandin.
Romanzo divertente, come al solito, piacevole e scorrevole: Andrea Vitali trova sempre nuovi spunti, ed ai suoi personaggi, ormai, ci stiamo affezionando.
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Chi è la vera vittima?
E’ il primo romanzo di Bo Svernstrom, giornalista svedese di cronaca nera dell’Aftonblader, uno dei maggiori quotidiani scandinavi. Si tratta di un thriller, che ha avuto grande successo in Svezia, sia per la trama coinvolgente e ricca di sorprese, sia per la crudezza dei crimini, ricchi di particolari efferati. Anche la protagonista, Alexandra, è nel racconto cronista dello stesso giornale dell’autore, e per tutta la prima parte del giallo, certamente la più movimentata, si dà da fare per fornire articoli su una serie di delitti raccapriccianti che non danno tregua ad un altro personaggio-chiave del romanzo, il compassato e consumato da anni di lavoro in prima linea commissario Carl Edson: delitti apparentemente inspiegabili, accompagnati da torture raffinate, a cominciare dalla prima vittima, trovata appesa e inchiodata, mani mozzate, lingua tagliata.
E la serie continua, le vittime sono gente della malavita, stupratori, trafficanti di droga e armi, personaggi violenti con un passato da brividi. Ma chi sarà mai l’assassino? La polizia brancola nel buio, i vari tasselli non combaciano, i reperti a volte ingannano finchè… Inizia la seconda parte del thriller, ed inizia proprio con una rivelazione scioccante e inattesa: Alexandra, che diventa di colpo l’io narrante, ammette (al lettore, s’intende) di essere l’autrice dei delitti. Un passato familiare confuso e disastrato, violenze e stupri subiti, insomma una vita difficile, culminante nella morte dell’amatissimo figlioletto David, travolto, forse deliberatamente, e ucciso da un’auto pirata, condotta proprio dai loschi personaggi che la madre, decisa a tutto, freddamente sta eliminando uno per uno. Il romanzo perde mordente: numerosi i flash back sul rapporto tra madre e figlio, i ricordi, i piccoli e grandi episodi di una vita insieme, la crescita anno dopo anno di un bambino problematico, con frequenti sbalzi d’umore e comportamenti inspiegabili. Particolari che rallentano il ritmo del thriller e lo rendono a volte noioso e ripetitivo. La polizia ovviamente indaga. È vicinissima alla verità, riesce a mettere Alexandra con le spalle al muro in più occasioni, ma, ecco un altro sorprendente colpo di scena, ai limiti della credibilità: Cecilia, medico legale del commissariato, è nientemeno che la sorella gemella della protagonista, e molto abilmente escogita sistemi per truccare le scene dei crimini e discolpare la sorella.
“Victims”: ma chi sono le “vere” vittime? L’assunto del romanzo, contenuto nel titolo, si presta a duplice interpretazione, ma fa presumere che, in sostanza, la vera vittima sia Alexandra, madre colpita nell’affetto più caro, che ha messo in atto una serie di spaventose vendette facendosi giustizia da sé. Anche perché, sembra sottolineare l’autore, la polizia appare inconcludente, lenta nel reagire, con rallentamenti burocratici e operativi, con un commissario ormai provato e stanco, quasi rassegnato, sia per il lavoro stressante sia per problemi familiari irrisolti.
Il thriller è la prima opera di Bo Svernstrom, e si nota. A tratti confuso e disarticolato, è percorso da una trama narrativa non sempre credibile, che sembra ostentare i particolari crudi ed efferati dei vari delitti. Lo shock che colpisce il lettore all’inizio della seconda parte sembra presagire uno svolgimento più incalzante degli eventi, ma non è così, subentrando invece un certo senso di stanchezza, un rallentamento forse voluto per dare spazio alla descrizione del forte legame madre-figlio, quasi fosse una giustificazione razionale delle azioni delittuose. C’è, è vero, il colpo di scena finale, ma il tutto risulta un po’ traballante, e lascia l’amaro in bocca.
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Alex Cross contro i "giustizieri".
Il romanzo è del 2016, pubblicato da Longanesi nel 2020, e ci ripresenta un personaggio caro a James Patterson, il dottor Alex Cross della polizia di Washington, l’afroamericano esperto “profiler”, insuperabile nella valutazione socio-psicologica dei criminali più incalliti e nel suggerire le strategie più adatte per il loro arresto. Qui siamo al venticinquesimo thriller, e Cross, ben coadiuvato dalla compagna Bree, nuovo comandante della squadra investigativa, non ha vita facile: oltre alla consueta routine, si trova a dover fronteggiare un nemico sfuggente e pericoloso, ben organizzato e deciso. L’argomento è abbastanza nuovo, e porta alla luce una vasta organizzazione criminale decisa a “fare pulizia”, una guerra privata che prende di mira dagli automobilisti incauti ai trafficanti di droga e di uomini. E’ una associazione formata da soggetti che si definiscono “vigilantes” o “ottimizzatori”, reclutati per lo più tra mercenari delle guerre in Afganistan e Iraq, “contractor” che uccidono su commissione, ufficiali a riposo decisi a tutto pur di spazzar via criminalità organizzata e politici corrotti, come si vedrà nell’ultima parte del giallo.
I delitti degli ottimizzatori sono in continuo crescendo. Automobilisti freddati sulle autostrade, poliziotti eliminati perché vicini a scoprire la verità, stragi di camionisti che trasportavano droga e immigrati clandestini, assalto ad una villa fortificata con carneficina di boss della droga, e, addirittura, un tentativo folle di sganciare sulla capitale, da un dirigibile, bombe contenenti
gas nervini letali. Naturalmente i “giustizieri” vengono fermati in un crescendo di scontri emozionanti, nel corso dei quali il nostro eroe per poco non ci rimette la pelle. Ma tutto è bene quello che finisce bene, Alex Cross può tornare ad abbracciare i suoi cari, la nonna Nanà, la figlia Jamie, grande promessa dell’atletica, ed il piccolo e simpatico ribelle Alì. I rientri in famiglia interrompono più volte il corso della narrazione, stemperando emozioni e pericoli.
Tutto sommato, il thriller ha un suo impatto, anche per l’argomento trattato. Lasciano un pò a desiderare l’improbabilità di certe situazioni, poco credibili, e la banalità degli scontri finali, più fantascientifici che reali. Lo stile è il solito, stringato, con poca concessione ad approfondimenti e riflessioni. Un buon prodotto commerciale, anche se Patterson ci aveva anche abituato a romanzi ben più convincenti, quali ad esempio “Il Club di mezzanotte” e “La First Lady è scomparsa”.
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La meccanica quantistica, e non solo.
Ci vuole un certo coraggio ad affrontare da opinionista questo saggio di Carlo Rovelli, soprattutto da parte di chi, come lo scrivente, ha solo vaghi ricordi della Fisica studiata al liceo ed al primo anno d’Università, circa sessant’anni fa, quella Fisica ormai soppiantata da successive illuminanti ricerche sui quanti e sulla loro meccanica. Proprio di meccanica quantistica infatti tratta il saggio di Rovelli, anche se di “quanti”, a me pressoché sconosciuti, non ho trovato da parte sua una definizione. Ho dovuto cercarla su internet, ed ho trovato che un “quanto” è il valore minimo, finito e indivisibile di una grandezza fisica, qualcosa che va oltre le mie conoscenze sulla scolastica struttura dell’atomo, e che porta alla ribalta una nuova realtà, fatta di fotoni (quanti di energia), bosoni W e Z (quanti mediatori dell’energia elettrodebole), e magari gravitoni e gluoni. Un mondo nuovo ed affascinante di particelle (onde?) che vorrebbe spiegare il comportamento di tutto, un mondo che ha caratteristiche quasi magiche (e in parte ancora avvolte nel mistero) e che, fin dalle prime scoperte, ha sempre affascinato scienziati e filosofi. Nel suo saggio, Rovelli ripercorre la storia delle varie scoperte, partendo da Helgoland, una sperduta isola del Mare del Nord, dove un giovanissimo fisico, Werner Heisenberg, nel lontano 1925, cominciò a capire e costruire la “teoria dei quanti”, capace di chiarire tutto, dagli atomi ad altri campi della scienza, una teoria, scrive Rovelli, che è “al centro dell’oscurità della scienza”. Tutta la prima parte del saggio è dedicata ad analizzare la teoria dei quanti, partendo dal concetto degli elettroni che saltano bizzarramente da un’orbita all’altra e poi via via trattando i temi delle “matrici” (intese come tabelle di numeri) di Heisenberg, degli elettroni intesi anche come “onda”, dell’energia che può essere “granulare”, della cosiddetta “sovrapposizione quantistica” (presenza contemporanea di due proprietà contradditorie: qui viene citato il famoso apologo di Schrodinger sull’altrettanto famoso e citatissimo gatto, sveglio e addormentato nello stesso tempo). Il tutto per concludere che la realtà non è come la dipinge la Fisica classica, ma consiste in una rete tutta di relazioni e interazioni: insomma la teoria dei quanti è la teoria di come le cose si influenzano vicendevolmente, questo, afferma Rovelli, è la migliore definizione della natura che abbiamo oggi. Tutto è fluttuante, la visione classica, nitida e solida, del mondo che noi abbiamo è solo un’illusione.
Il tema principale è ovviamente quello di spiegare la meccanica quantistica. Esaurito l’argomento principale, in altre sezioni del saggio Rovelli si cimenta nell’analisi di movimenti storici, filosofici e letterari del Novecento, contemporanei alle grandi scoperte della Fisica: dagli albori della rivoluzione russa citando le opere di Lenin sul materialismo e del suo rivale Bogdanov (pseudonimo di Aleksandr Malinovskij) sull’empiriocriticismo di Ernst Mach, che, guarda caso, fu una delle fonti di ispirazione filosofica per Heisenberg ed Einstein, fino alle pagine immortali di Robert Musil sull’importanza della lettura scientifica del mondo, sia nel romanzo “I turbamenti del giovane Torless” che nel suo capolavoro “L’uomo senza qualità”. Le pagine più ostiche arrivano nell’ultima sezione del saggio. Qui Rovelli affronta il problema di come il mondo in cui viviamo sia tessuto da relazioni e interazioni più che da oggetti e del modo in cui la filosofia occidentale abbia tentato di rispondere alla domanda di cosa sia veramente fondamentale. Una risposta, afferma Rovelli in conclusione, la si può anche trovare in un testo della filosofia indiana del II secolo, ad opera di un saggio del tempo, Nagarjuna, che sostiene non esservi cosa esistente in sé, indipendente da altro: prospettiva affascinante, che ci fa pensare al mondo dei quanti. Le riflessioni di Rovelli assorbono più e più pagine, talora di comprensione non facile e ripetitive, quasi che l’autore volesse convincere non solo i lettori ma sé stesso, soprattutto quando si interroga sulla relazione tra i pensieri e ciò che avviene “fuori” da essi o sul significato vero della parola “significato” (informazione? evoluzione?). Il saggio si conclude con una memorabile citazione dalla “Tempesta” di Shakespeare: “Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno”. E Rovelli aggiunge: “L’interconnessione delle cose, il riflettersi l’una nell’altra, splende di una luce chiara che la freddezza della meccanica settecentesca non riusciva a catturare. Anche se ci lascia esterrefatti. Anche se ci lascia un senso profondo di mistero”.
I ringraziamenti ad una lunghissima serie di collaboratori, ben 135 note esplicative del testo ed un indice analitico interminabile la dicono lunga sulla complessità degli argomenti trattati. Difficoltà e incomprensibilità (ad una prima lettura e per i non addetti ai lavori !) di taluni argomenti non devono essere di ostacolo alla lettura di un testo che, alla fine, può essere gratificante ed offrire una visione affascinante delle cose, del mondo in cui viviamo e di una realtà che inconsapevolmente non percepiamo nella sua vera essenza.
Da leggere quindi, assaporando pagina dopo pagina e riflettendo, magari saltando (come suggerisce lo stesso autore) le pagine più ostiche: qualcosa dentro resterà sempre e ci aiuterà a guardare il mondo con occhi nuovi.
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Caccia ad un killer che odia le donne.
Un nuovo thriller di Michael Connelly, un romanzo emotivamente coinvolgente, che, per una volta, lascia da parte il personaggio forse più amato dall’autore, Harry Bosch, e rispolvera, se non erro per la quarta volta, il reporter di cronaca nera Jack McEvoy, nella veste di collaboratore di una rivista, “FairWarming” ( Giusto Avvertimento: per inciso, è anche il nome di un gruppo musicale rock tedesco), indirizzata alla difesa ed agli interessi dei consumatori. Al protagonista capita di passare una notte con una ragazza, incontrata occasionalmente in un bar, e di scoprire, tempo dopo, che la stessa è stata brutalmente assassinata con una singolare metodica: la dislocazione atlanto-occipitale (detta anche decapitazione interna), ottenuta torcendo alla vittima il capo con conseguente lesione del midollo spinale. Il passato di cronista di nera risveglia in McEvoy la vecchia passione per le indagini, mai sopita, indagini che conduce con l’aiuto di Rachel Walling, ex investigatrice dell’FBI e che lo porteranno a scoprire un mondo oscuro, pieno di pericoli e di personaggi depravati e corrotti. Già, perché di omicidi simili ne vengono scoperti diversi, sempre con le stesse modalità, tanto da chiamare l’assassino “Averla”, dal nome del rapace uso ad uccidere le sue prede spezzando loro il collo a colpi di becco. Altra particolarità: le vittime hanno tutte fornito il loro DNA ad una delle più grandi aziende che lo analizzano, la GT23, che a sua volta lo ha rivenduto ad un’altra industria diretta da un personaggio dal passato oscuro. I segreti del DNA finiscono nel dark web: qui li pesca l’assassino, selezionando solo quei codici genetici con caratteristiche particolari: predisposizione alle droghe ed al sesso. Si vedrà anche che l’assassino è uno stalker, violento con le donne, misogino e inquadrabile nella categoria dei fautori del cosiddetto “celibato involontario” (“incel” nel romanzo), che non sopportano gli uomini che hanno una vita sessuale normale. Insomma, un pericoloso e sfuggente killer , con misteriose protezioni, abilissimo nel prevenire ogni mossa della polizia e del giornalista. Uno spettacolare colpo di scena finale lascerà il lettore con il fiato sospeso, fino alla prevedibile conclusione.
Il ritmo narrativo è serrato, coinvolgente: non un attimo di tregua, ed in questo Connelly è un vero maestro. Il tema principale è quello della violenza sulle donne, servendosi nel caso specifico di argomenti ricchi di tecnicismi come quelli riguardanti il DNA e le sue peculiarità, quel DNA che per più del 90% è uguale per tutti e che solo per l’1-2% ci rende differenti l’uno dall’altro, come precisa l’autore ( aggiungo: l’1% sembra poco, ma su circa 3,3 miliardi di basi di DNA, sono pur sempre quasi 40 milioni di basi!). Se nel romanzo si vuole trovare una pecca, forse la si può evidenziare in alcuni capitoli della prima parte, nella quale l’autore approfondisce certi aspetti peculiari del codice genetico, e come si possano identificare alcune particolarità, ad esempio il gene DRD4 (chiamato in gergo Dirty Four, sporco quattro) responsabile di certi comportamenti a rischio e di varie dipendenze. Poi, il romanzo entra nel vivo dell’azione, ti prende come pochi, non ha pause e ti conduce al finale che, con un crescendo spettacolare, avvicina il protagonista al freddo brivido di una possibile morte imminente.
In conclusione, un thriller emozionante, che evidenzia una volta di più la grande abilità di un maestro del genere.
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