Opinione scritta da silvia71
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Colpa e libertà
Andrea Molesini esordisce nel 2010 con “Non tutti i bastardi sono di Vienna”.
Da qualche settimana è stato pubblicato un nuovo romanzo che sembra voler percorrere ancora una volta il sentiero della Storia utilizzando un pretesto narrativo per affrontare un viaggio a ritroso nel tempo e nella coscienza di un uomo che alle soglie degli ottant'anni tira le somme di una vita.
Quando le pagine scorrono e manca il definirsi di un costrutto narrativo solido, sorge il dubbio di una carenza di base oppure si evidenzia la fretta di mandare in stampa un lavoro che non nasce da una vena genuina e ben congegnata.
La narrazione parte lentamente e fatica a decollare, la figura del maturo protagonista cela un segreto ed un passato complicato, cela una storia da raccontare e da comprendere.
In questo romanzo si avverte l'intento dell'autore di sondare in maniera più decisa l'aspetto psicologico rispetto a quello storico.
L'approfondimento storico è totalmente assente, ma ciò non costituirebbe un pecca se il fulcro fosse sostenuto da una narrazione corposa , definita e viva.
Il romanzo si propone inoltre di intrecciare due piani temporali e due anime, una di ieri ed una di oggi, un uomo protagonista di un'intervista ed uno scrittore che vuole conoscere un uomo e scrivere di lui. Da qui nascono due storie, due sentieri di vita, o meglio di tutto ciò leggiamo solamente un timido abbozzo.
Se “La solititudiine dell'assassino” vuole essere un romanzo sulla colpa, uno sentimenti più affilati e amari, possiamo dire che non riesce a farla vivere e toccare al lettore.
Se vuole cantare la libertà, le sue forme ed il suo agognato raggiungimento, non riesce a darne la misura.
La storia del protagonista, l'anziano Carlo, porta con sé ombre e misteri, un uomo che ha scontato per decenni una pena chiuso tra quattro pareti spoglie di una cella; eppoi in piena senilità arriva la libertà, arriva una persona che vuole ascoltarlo e capire chi sia.
Consapevoli che non tutte le opere possiedono le stesse caratteristiche e lo stesso vigore narrativo, ci auguriamo di tornare a leggere un prossimo romanzo dell'autore.
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Cemento ovunque
Il giardino di cemento costituisce di per sé una visione algida e grigia per un luogo che dovrebbe essere il trionfo dei colori e della vita.
Il titolo rappresenta alla perfezione tutto ciò che McEwan ha voluto infondere alla storia narrata in un pugno di pagine; impossibile per il lettore non trovarsi invischiato in un dedalo di immagini e di vicissitudini dal sapore amaro, al limite della follia e della immoralità.
McEwan si dimostra ancora una volta un autore capace di mettere in scena le sfumature più velate e borderline dell'animo umano, utilizzando la sua penna nitida e affilata per andare sotto la superficie, per portare alla luce dinamiche personali e familiari malate.
Una famiglia disgregata, figli divenuti frutto di deviazioni e ossessioni radicate, infanzia e adolescenza minate da un clima familiare opprimente e contorto.
Tutti argomenti spinosi che confluiscono in un'apoteosi di dolore, in un rincorrersi di immagini sempre più nere e scariche di speranza.
Il grigiore del cemento non si è fermato a coprire gli esili fili d'erba del giardino, ma ha soffocato le stanze della casa ed i loro abitanti.
Una storia triste, dai tratti crudi, orchestrata da un mano ferma che non concede sconti alle ipocrisie di certi ambienti sociali.
Lettura avvolgente senza spazi per prendere fiato; unica pecca una velocità eccessiva nella conclusione, quasi una mozzatura che lascia in sospensione con un pizzico di amaro in bocca.
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Scendere in campo
L'esperienza di Orwell sul fronte spagnolo durante la guerra civile è ottimamente documentata dallo scritto “Omaggio alla Catalogna” edito nel 1938.
Orwell si trova in Spagna in veste di corrispondente per la stampa britannica, ma nel '36 decide di abbracciare la causa del fronte popolare, si spoglia degli abiti di giornalista e scende in trincea per ben sei mesi, finchè una pallottola lo trafigge e si trova costretto ad abbandonare i compagni.
L'autore inglese riesce a fondere una narrazione dai toni lirici elevati ad una più saggistica che analizza lo sfondo politico o meglio il sottobosco di intrigo e interesse di cui riesce a captare i fili che lo governano.
La prima metà dell'opera gode di una forte carica di pathos perchè le descrizioni della vita misera e dura di trincea sono palpabili; George sceglie di spogliare le proprie parole dalla retorica, fa parlare le immagini, il freddo che stritola le ossa, i parassiti che mangiano la carne, il cibo avariato, il terrore dei cecchini del fronte avversario.
Insomma la morte toccata con mano, vissuta quando i compagni cadono sotto il fuoco nemico, quando il sangue scorre sul corpo del giovane che ti è stato accanto per settimane.
Orwell ha cercato volontariamente questa esperienza e ciò che traspare dallo scritto sembra solidarietà e convinzione, non desiderio di brillare come reporter impavido.
Gli ultimi capitoli del libro sono prettamente di analisi politica, minuziosa e cavillosa, tanto da far percepire al lettore una vera cesura rispetto al corpo narrativo precedente.
Sezione interessante e dedicata in prevalenza ai cultori della disamina storica, perchè svela retroscena scarsamente noti facendo emergere ombre e diversi punti di osservazione.
La piacevolezza di queste pagine perde terreno ma il valore della testimonianza è indubbio.
In definitiva un testo che chi ama la penna di Orwell deve conoscere.
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La casa del sonno
Un impianto narrativo elaborato che incrocia due piani temporali è il contenitore di una galleria di personaggi problematici e fuori dagli schemi di una vita scandita da ritmi regolari.
“La casa del sonno” non brilla per digeribilità contenutistica, richiede un pizzico di fatica e concentrazione per non perdersi tra le pagine, per non deragliare dai tanti filoni narrativi che si avvolgono e si svolgono prima di confluire nella creazione di un unico gomitolo.
É banale affermare che tutto ruota attorno al concetto di sonno e veglia, gli spunti sottesi sono numerosi, i temi toccano la vita e la morte, il reale ed il sogno, le diverse maniere di percepire tutto ciò che è esterno a noi.
L'impegno profuso da Coe nel cogliere in maniera originale le sfumature del pianeta uomo è percepibile, unitamente ad un registro narrativo graffiante; tuttavia alcuni snodi soffrono di una certa lentezza e vacuità, rendendo la storia a tratti un po' paludosa.
In sostanza si tratta di un romanzo che necessita di essere digerito lentamente, non può essere affrontato di petto da un lettore che esiga nitidezza subito e comunque.
Il messaggio affidato da Coe alla sua storia non è unidirezionale, non è monocromatico, non mostra pretesa di dover dare verità e certezze assolute; rispecchia la vita, seppur con quel pizzico di fantasia letteraria, dove non sempre le tessere del mosaico trovano il proprio posto, dove l'amore si mescola a dolore, la sofferenza alla speranza, la comprensione alla disperazione.
Un testo amaro, dalle tinte fosche, a cavallo tra follia e normalità.
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Il tempo perduto e ritrovato
E' davvero edificante trovarsi tra le mani un pezzo di ottima letteratura come “Child in Time”, tradotto in italiano come “Bambini nel tempo” di Ian McEwan.
Si tratta di un romanzo complesso e denso di argomenti, elaborato attraverso una stratificazione di immagini, personaggi, concetti e riflessioni che inchiodano il lettore alle pagine, scatenando un effetto non solo di calamita, ma un percorso vorticoso attraverso il tempo.
L'autore esordisce con un evento forte e doloroso nelle primissime pagine, che il lettore fatica a togliersi dagli occhi e dal cuore, per le immagini nitide create e per la profondità psicologica con cui si dettaglia la perdita più inaccettabile per un genitore, ossia il rapimento di un figlio.
La sparizione diviene elemento di un mosaico avvincente che solo una penna come quella dell'inglese poteva disegnare.
L'elaborazione del lutto da parte di una coppia di giovani genitori è il punto di partenza narrativo con cui sviscerare il concetto di tempo, dando la stura ad un rincorrersi di storie e di volti che marciano tra presente, passato e futuro.
Il tempo crea e distrugge, addolcisce e inasprisce, cura le ferite o esaspera le mancanze.
McEawn non fa sconti, non edulcora i sentimenti, regala momenti di tenerezza a momenti di desolazione, ritrae uomini sinceri che vogliono vivere senza maschere il loro tempo e uomini avvezzi al potere, al conformismo, all'arrivismo.
Un romanzo che contiene elementi forti di satira sociale e politica, che si fondono a tutte le altre tematiche, generando un lavoro ottimale dove ogni tessera incontrata durante la lettura assume un significato e diviene parte integrante del tutto.
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Amore e follia
Enduring love, tradotto in “L'amore fatale” è un romanzo in cui McEwan esplora in maniera superba non solo i risultati di una mente segnata da una patologia psichiatrica, ma anche l'incontro-scontro tra razionale e spirituale.
Lo spunto narrativo è sottile come un filo di seta, esile, a tratti inconsistente e al limite del credibile, eppure le pagine costruite dall'autore inglese calamitano l'attenzione e l'interesse del lettore fino all'epilogo, caricandosi di pathos, di tinte oscure e di zone nebulose.
Un pic-nic finito male dà la stura ad un intreccio di volti e di storie, ad una galleria di umanità che sotto la patina di una placida normalità cela problematiche irrisolte, insoddisfazioni e stati d'animo contrastanti.
La costruzione psicologica ricamata dall'autore sui suoi protagonisti, calza come un vestito su misura, mescolando psichiatria, psicologia, spiritualità e scienza; un mix dosato con maestria assoluta, con sapienza e perspicacia, per sfociare in una storia che ingloba tante storie.
Il volto della malattia si interfaccia con quello del raziocinio, gli schemi della logica deragliano contro quelli della religione o dell'immaginazione.
McEwan ha la capacità di forgiare trame narrative talmente dense da condurre chi legge all'interno di vortici emotivi, psicologici, razionali ed irrazionali.
Questo romanzo si tinge di tante sfumature, si compone un po' con lo schema delle scatole cinesi in quanto il contenuto assume vesti multiformi.
Ottima lettura, da affrontare lentamente perchè ciò che conta è il viaggio proposto dalla penna dell'inglese e non semplicemente la meta.
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Il declino
La lettura di questo datato romanzo storico costituisce un vero viaggio nel tempo per chi ami immergersi in atmosfere passate.
Dato alle stampe nel 1932, il romanzo immortala gli ultimi decenni che segnarono il decadimento del grande impero austro-ungarico, guidato da Francesco Giuseppe.
E' innegabile il valore che assume un'opera simile ancora oggi, approdati in una società talmente distante dai costumi descritti da provarne una sensazion di incredulità.
Eppure tra le pagine del romanzo di Roth è narrata una fetta di Storia, vengono rappresentati uomini e ideali, la realtà del tempo domina su ogni altro aspetto.
L'autore si propone di descrivere una parabola, dai fasti del vittorioso impero alla caduta inesorabile, analizzando ascesa e discesa dell'aristocrazia, passando attraverso gli onori della carriera militare, vissuta con dedizione e orgoglio.
Il romanzo nella fase iniziale possiede un buon ritmo narrativo, piuttosto nella fase successiva e finale sembra perdere un po'di smalto, divenendo un quid cavilloso su alcuni particolari.
Il linguaggio, seppur valutato in traduzione, risulta moderno e appetibile, così da non limitarne il grado di piacevolezza.
Nell'insieme va reso merito a Joseph Roth per aver tramandato una società ed i valori cui era ancorata, per aver colto i tratti salienti di un'epoca di trapasso, per aver raccontato pregi e difetti, vittorie e sconfitte, ponendo la sua osservazione sull'uomo, sui suoi sogni, affetti e speranze.
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Una creatura di legno
Carlo Lorenzini, alias Carlo Collodi è il padre del burattino più noto al mondo.
La prima pubblicazione de Le avventure di Pinocchio risale al lontanissimo 1881; è trascorsa un'eternità da allora ma la storia del burattino di legno parlante è un sempreverde letterario.
Le vicissitudini di Pinocchio sono note a tutti, le abbiamo ascoltate, le abbiamo lette trasposte in numerose versioni dedicate ai piccini; eppure gli spunti legati alla lettura di queste pagine cambiano in base all'età in cui essa avviene.
Una lettura del testo in versione originale dove assaporare la vera penna del Collodi è un'esperienza imperdibile, per coglierne a fondo le sfumature e riflettere su tutti i significati che l'autore ha volutamente affidato alla storia della sua creatura letteraria.
Una semplice ma grande storia di nascita, evoluzione e rinascita, di presa di coscienza, di ottusità e bontà, di crescita di un essere umano.
Riletto oggi non ha perduto il suo fascino ed il suo significato morale, a tratti amaro e commovente, scivola pagina dopo pagina verso un epilogo pieno di speranza.
Da segnalare l'ottima versione Feltrinelli, curata da Fernando Tempesti, studioso del Lorenzini, che grazie all'inserimento di centinaia di note al testo, regala approfondimenti storici, filologici e letterari di alto livello.
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Rispecchiarsi in un libro
Quale interazione esiste tra un libro ed il suo lettore?
Può un lettore rispecchiarsi in ciò che legge o addirittura trovare una sorta di consolazione e insegnamento?
A questi ardui quesiti prova a rendere risposta Fabio Stassi con il suo ultimo lavoro letterario.
Un romanzo emblematico, dalla struttura accattivante, ricco di spunti di riflessione e anche se non può dirsi esaustivo in rapporto alla carne messa al fuoco, tuttavia una lettura piacevole che tenta un connubio tra il piano dell'intrattenimento e quello psicologico più profondo che cerca di andare oltre alla superficie e alle apparenze della realtà quotidiana.
Fabio Stassi ha una penna che associa alla nitidezza e chiarezza espositiva una vena narrativa calda che scorre nel profondo e mostra un interesse particolare per il lato intimo dei suoi protagonisti.
Questo è un romanzo animato da una nutrita galleria di figure femminili, diverse per stile di vita, per aspettative ed esperienze, ma tutte con un fardello da scaricare, tutte desiderose di depurarsi da una vita troppo stretta o vuota.
Allora l'autore calato nei panni inediti di un biblioterapeuta tenta di conciliare le sofferenze delle sue pazienti-clienti con l'utilizzo di un testo letterario, antidoto universale per viaggiare all'interno della vastità del pensiero e dell'animo umano.
Un testo consapevolmente bizzarro e provocatorio, che tocca con levità temi scottanti come la morte psicologica di una persona, il disperato tentativo di rinascita, la ricerca di se stessi.
Eppure l'umor nero non prende mai sopravvento, ma si cerca fino alla fine la redenzione, si vuole cogliere lo spunto positivo da ciò che il destino propone.
Ancora una volta Stassi va promosso, perchè la narrazione è scandita da un ritmo deciso e rapido, i contenuti sono buoni, lo stile è elegante.
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I mille volti degli italiani
“Cuore di pietra” è un gran bel romanzo all'interno della produzione letteraria di Sebastiano Vassalli, che non deve per nulla restare in second'ordine rispetto al più acclamato “La chimera”.
Il pretesto per raccontare il Novecento italiano è dato dalla costruzione di una casa signorile in un luogo non ben identificato ma di cui percepiamo una location piemontese e dalle piccole e grandi storie degli abitanti dell'immobile. I volti sono tanti, diversi tra loro, pittoreschi, pieni di vita, di sofferenza, di affanni, un microcosmo che vuole essere l'Italia intera, dall'uomo della porta accanto al professionista, dal nobile al popolano, dal soldato allo studente, stretti nel pugno ferreo dello scorrere del tempo, in un paese che nasce da un'unità che spezza la frammentazione e che deve sopportare guerre e distruzioni.
Le immagini schiette, talora crude e senza veli, di quest'Italia che nasce e cresce anno dopo anno, sono indimenticabili, i dolori e le amarezze sono palpabili e fanno male, le nubi basse di un destino avverso sono perennemente all'orizzonte, alimentando un filo costante di pessimismo.
Eppure le storie sembrano scappare dalla mano di un narratore e avvicinarsi a quelle di un documentarista, non per la freddezza della rappresentazione, bensì per il valore storico degli eventi che i protagonisti affrontano, per gli spaccati genuini di quotidianità, per l'accuratezza delle ricostruzioni e dei vocaboli utilizzati.
Vassalli ha fatto suo un modo eccelso di scrivere un romanzo storico e questo lavoro ne rende piena testimonianza, regalandoci un viaggio nel tempo fin nel cuore della Storia, per comprendere cause ed effetti degli eventi, perché il mondo di oggi è il frutto dell'evoluzione del passato.
Il passato non si cancella ma è terreno su cui nasce il presente ed il futuro.
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Claretta
E' sufficiente pronunciare il nome Claretta per riaccendere i ricordi di chiunque su un pezzo di storia italiana.
Eppure chi fu davvero questa donna? Un'abile arrivista e manipolatrice oppure una donna innamorata fino all'estremo sacrificio di immolarsi insieme all'amato?
In tanti hanno tentato di rispondere al quesito, pur nella consapevolezza che la verità rimarrà irraggiungibile.
Gervaso si cimenta nella ricostruzione della vita di Claretta Petacci e di conseguenza del rapporto d'amore con il duce, con l'onestà intellettuale che lo contraddistingue in tutte le sue opere saggistiche-storiche, ponendo sul piatto della bilancia e portando a conoscenza del lettore tutte le fonti disponibili, sondando le ipotesi più disparate, affinché chi legge, giunga in piena autonomia ad elaborare un'opinione sulle persone e sui fatti.
Uno scritto di alto valore oggettivo e di pregio storico, lontano da certe penne che in tutti i tempi hanno cercato fortuna cercando del torbido e del sensazionale nella vita privata dei due protagonisti.
Sono nitide le immagini di Claretta, proveniente da una famiglia agiata, coccolata e viziata dai genitori, eppure caparbia e risoluta, decisa a conquistare quell'uomo noto e più maturo di lei, accettando una vita nell'ombra nelle vesti scomode di amante, ma sicura di essere ricambiata e di essere divenuta padrona di una larga fetta del cuore del suo Benito.
Innumerevoli gli episodi raccontati dal Gervaso, documentati da testi originali di missive e dalle memorie di chi fu testimone del rapporto tra i due amanti.
Si giunge al termine della lettura arricchiti grazie agli interessanti approfondimenti storici e più consapevoli del fatto che tutte le vicende non hanno mai un solo colore ma vanno colte e centellinate tutte le sfumature.
Ancora una volta l'opera di Gervaso si sostanzia in un saggio snello e ben confezionato, appetibile lettura per un vasto pubblico e non solo per gli amanti del genere.
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Tra la vita e la morte
La penna di Cristina Comencini è avvezza a disegnare storie dai colori forti ed intesi, storie che graffiano ed incidono nel profondo.
L'autrice tiene fede al suo stile anche con l'ultimo lavoro “Essere vivi”.
Cominciando da quello che può essere l'effetto ultimo sul lettore, si avverte una scrittura di getto, nata da un bisogno impellente di fissare con inchiostro sensazioni e riflessioni, senza dedicarsi al cesello dei contorni, alla creazione di situazioni più probabili e credibili.
Da ciò potrebbe nascere qualche vaghezza della trama narrativa, come se le rifiniture del romanzo fossero deputate a scendere in secondo piano rispetto al focus sulle persone, sui loro drammi interiori.
Due protagonisti che il destino fa incontrare per condividere uno dei momenti più amari dell'esistenza, ossia la perdita di un genitore; un uomo ed una donna obbligati a conoscersi e ad affrontare un cammino insieme, uniti nei dubbi, nel dolore, nel vuoto interiore.
Al contempo emergono i ricordi sfumati di un'altra coppia, il cui legame è indissolubile oramai e le cui scelte di vita condizioneranno pesantemente i familiari.
La Comencini ha voluto rappresentare non un semplice intreccio di vite, bensì immagini di anime perdute, eppure non vuote, ma arse da una brama irrefrenabile di riemergere dagli inferi, di tornare al sole e alla vita, spinte dalla passione per un nuovo amore, risvegliate dall'energia di un alba o di un tramonto, poste sul limite del precipizio per riflettere.
Una manciata di pagine che galoppano rapide, pur essendo disseminate di buchi neri e sabbie mobili, ma il ritmo è incalzante e spinge il pubblico a non arenarsi ma a giungere al termine dei dilemmi.
La scrittura è affilata, secca e tagliente, il contenuto emerge in tutta la sua gravità senza belletti e maschere nello stile proprio dell'autrice.
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Il prezzo della colpa
“Paura” di Stefan Zweig veste i panni del racconto o novella che dir si voglia, un po' meno quelli del romanzo.
La penna dell'autore austriaco è caratterizzata da un'innata eleganza linguistica e strutturale, tratto comune a tutti i suoi lavori siano essi di natura storica siano di libera fantasia narrativa.
Vista l'esiguità della pagine, in spazi ristretti Zweig deve ritrarre una donna attanagliata dal timore di essere scoperta come fedifraga.
Lei è donna matura, agiata, vita scandita da ritmi sempre uguali a se stessi, clima familiare sereno ma reso indigesto da una monotonia opprimente. Da qui l'evasione, la colpa, il gusto assaporato del proibito che cattura e non molla.
L'autore analizza minuziosamente le sensazioni e gli stati d'animo dell'adultera, seguendone le evoluzioni dei pensieri e trascinando il pubblico in una girandola vorticosa, di supposizioni, di paure, di incubi. Ciò che rimane di una storia di passione è una lacerante sconfitta psicologica per una donna che è scossa ma che non vorrebbe perdere quell'approdo spensierato costituito da un giovane amante.
Si percepisce vigorosa tra le righe l'influenza freudiana e di tante correnti dell'epoca interessate alla psicoanalisi; lo scandagliare l'interiorità dell'essere umano non è frutto di improvvisazione o puro prodotto di un eccelso narratore ma nasce da un interesse coltivato e condiviso in ambienti di “addetti ai lavori”.
I monologhi ed i dialoghi sia della donna sia del consorte legittimo sono mirabili e sembrano nascere appunto dalla fusione di una penna maestra nella scrittura con elementi assorbiti attraverso lo studio della saggistica psicoanalitica.
Un racconto da assaporare con attenzione per non perdere la sfaccettature più nascoste, per comprenderne le emotività e le razionalità.
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Nella lontana K
Interessante perdersi tra i vortici creati ad hoc da Agota Kristof tra le pagine di “Trilogia della città di K”.
Un romanzo duro, amaro, a tratti crudele, dove la tragedia non viene mai edulcorata, ma graffia come una belva furiosa. Da immagini di guerra, bombe, morte, ad immagini di annientamento psichico, di ottenebramento e sdoppiamento.
L'arma vincente è lo schema narrativo adottato, ricco di effetti destabilizzanti per il lettore, condotto attraverso un rincorrersi di sogni e realtà, un gioco degli specchi, di tunnel spazio-temporali in cui perdersi.
Una maniera alternativa per scrivere degli orrori della guerra, senza necessità di focalizzare su città e nomi precisi, perché le tragedie sono multiple e si intrecciano seguendo strade diverse.
Un romanzo sulla memoria, sulla fugacità, sulla solitudine imposta dal destino e non scelta, sull'importanza dei rapporti umani.
Grande e implacabile il senso di vuoto e desolazione che si innalza al termine del lungo viaggio.
Un impianto narrativo ad effetto, studiato dal suo incipit alla sua conclusione, orchestrato con maestria stilistica, punteggiato da istantanee destinate ad imprimersi nella pupilla e nel cuore del lettore.
Un vortice finale di speranza e disperazione avvinghiati e inseparabili.
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La vita di Arturo
Un piccolo grande gioiello della letteratura di casa nostra pubblicato nel lontano 1957 da Elsa Morante.
L'isola di Arturo è la pittoresca Procida, con le sue scogliere, con il mare che si frange sulla riva, con quell'odore salmastro che tutto impregna, con i suoi pescatori che attraccano le piccole barchette al molo, con le sue stradine irte, le poche case illuminate da una debole lucina la sera.
Lui è il piccolo Arturo, voce narrante e guida del lettore, orfano di madre e figlio di un padre assente eppure mitizzato come uno dei grandi eroi raffigurati nei vecchi libri di condottieri con cui egli spezza la sua solitudine tra una passeggiata sulla scogliera e una nuotata alla ricerca di gustosi ricci di mare.
Un romanzo scritto con una maestria narrativa impeccabile, denso di contenuto, di immagini, di pensieri, perchè ciò che si impone la Morante è di creare un dualismo tra la visione del mondo da parte di un bambino prima ed adolescente poi e la rappresentazione del mondo reale e quotidiano del tempo in cui la storia è ambientata, ossia intorno al finire degli anni Trenta del secolo scorso.
L'incontro-scontro tra i due mondi rappresentati sfocia in riflessioni dense, in centratissime raffigurazioni psicologiche che fotografano gli angoli più complessi dell'animo di un bambino.
Arturo osserva e interpreta tutto ciò che ruota intorno a sé, valendosi di tutta la sua esperienza di bimbo maturata da solo, eppure una figura forte e decisa, pronto a reagire senza cedere all'autocommiserazione.
Una storia amarissima come fiele, a tratti lacerante, divisa tra i silenzi della solitudine, le condizioni di una vita aspra ed i colori di numerosi sentimenti, come l'amore, il bisogno disperato d'affetto, la bontà d'animo.
Una narrazione rigogliosa che non patisce cedimenti e cali emozionali, che anzi cresce ed esplode nel canto di liberazione di uomo.
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Un'estate per sempre
Una delle penne dei Wu Ming si è staccata dal collettivo per pubblicare un piccolo romanzo in solitaria.
Il formato ed il titolo del romanzo non possono non ricordare una fiaba, un viaggio nel mondo della fantasia.
Difatti il racconto inizia come una storia di bambini, di avventure estive, di giochi nella casa sull'albero, di esplorazioni in vetusti casali infestati da orchi.
Presto il substrato narrativo si arricchisce, si popola di personaggi adulti, di madri e padri, di reduci di guerra, di famiglie perfette e di famiglie misteriose.
La fiaba svapora in un testo dal sapore amaro, innescando un connubio tra il mondo visto da un manipoli di ragazzini e il mondo degli adulti, di una società a tratti umana a tratti crudele.
Il mondo spensierato dell'infanzia entra in contrasto con forze bieche e malvagie, con segreti custoditi e tramandati, con le sfumature più diverse dell'animo umano.
Un'estate da ricordare come un marchio a caldo sulla pelle, un'estate traumatizzante.
Interessante questa rappresentazione del passaggio dalla stagione della spensieratezza a quella della consapevolezza, dal sogno alla ragione.
Un tema già trattato in letteratura eppure un esperimento narrativo riuscito, che nonostante lo si legga con la leggerezza stilistica di una novella, tuttavia non risulta per nulla scontato e si presta a diversi piani di lettura.
Amaro come solo la vita reale riesce ad essere, dolce come il viso di un bimbo che sgambetta tra prati verdi, misterioso come tanta parte dell'esistenza di uomo.
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Le pieghe della Storia
Sebastiano Vassalli ci ha lasciato in eredità splendidi romanzi, piccole tessere temporali per dare forma e sostanza al nostro passato.
“Un infinito numero” è un romanzo che rifugge da etichette di genere, è un romanzo che vuole esplorare la lontana e stinta epoca etrusca e poi quella romana, camminando sui sentieri erbosi della fantasia per convergere sulle strade tracciate dalla Storia ufficiale.
Un viaggio nel tempo, un salto che catapulta nel mezzo di una civiltà “sepolta” come quella etrusca per innestare riflessioni che hanno come fulcro il valore della scrittura, il valore dell'infinito e del perpetuare nomi, volti e pensieri.
Non serve a nulla snocciolare i passi salienti dell'intreccio narrativo costruito da Vassalli, occorre leggere questo testo, affidarsi alla voce narrante e partire per il viaggio alla scoperta delle origini di Roma con Virgilio, Mecenate ed il fido Timodemo, alternando visioni di fantasia a momenti di valenza storica, predisponendosi all'ascolto e cogliendo le infinite sfumature che il racconto offre.
La scrittura semplice e la suddivisione in capitoli brevi celano in realtà un contenuto complesso e di estremo interesse, donando un valore aggiunto al testo.
Un invito alla lettura per tutti in quanto non parliamo semplicisticamente di un romanzo storico ma di un esempio di buona letteratura.
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Espiare e non solo
Leggendo un romanzo come “Espiazione” dell'inglese Mc Ewan, è possibile affermare che la buona letteratura contemporanea esiste ancora sugli scaffali delle librerie.
Si tratta di un romanzo che sorge tenue per poi caricarsi di una potenza esplosiva, toccando temi che possono essere comune denominatore di tante storie, ma il tocco magistrale è tutto nella profondità dei contenuti e nello stile narrativo.
Il periodo narrato copre decenni, una vita, più vite, inanellando tragedie, sconfitte, menzogne, morte e desolazione, tanto che i tre macro periodi temporali creano delle cesure nette nel flusso narrativo. Eppure la penna di Mc Ewan è abile a cucire con un filo resistente come il ferro tutti gli eventi, creando una galleria di immagini e di emozioni da cui è impossibile staccarsi fino all'ultima pagina.
Si tratta di un romanzo altamente emozionale, denso di riflessioni, di pensieri torbidi, intriso di momenti in cui l'anima viene messa a nudo, spogliata delle maschere sociali. Straordinario il passaggio da una psiche tipica dell'adolescenza a quella dell'età matura, in cui tutto si colora di tonalità completamente diverse.
E' romanzo che scandaglia nell'animo umano e ne mette in risalto la duplicità dei volti, analizza il bene ed il male suggellandoli in una morsa letale ed eterna.
Lontano anni luce da un linguaggio semplicistico e vuoto, l'autore spazia da temi legati alla colpa e al rimorso, ad immagini crude del periodo bellico, a riflessioni sulla creazione letteraria.
Un'opera di forte impatto per il lettore, capace di coniugare la ricerca di una tensione narrativa inarrestabile con un approfondimento psicologico del personaggio magistrale, mai banale o scontato.
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Universo oscuro
“Costellazione familiare” è un romanzo appena edito da Adelphi, firmato da un'autrice che seppur lontana dalle tirature folli dei best sellers, possiede delle qualità letterarie pregevoli.
Lei è Rosa Matteucci e la prova di scrittura resa con questo suo ultimo romanzo ne mette in luce un'ottima caratura.
L'autrice compie un viaggio nelle zone più intime, complesse e inafferrabili dei rapporti familiari, scandagliando la nascita e la cristallizzazione dei rapporti, scavando sotto le croste indurite dal tempo e dagli eventi.
L'originalità narrativa non va cercata nelle tematiche affrontate, ma nella freschezza stilistica che utilizza un linguaggio d'urto pronto a divenire immagine e sensazione. Il ritmo narrativo è rapido come un razzo, esente da momenti di ristagno, ironico ma serio, pungente ed intenso.
Il nodo cruciale del rapporto tra madre e figlia affiora durante uno dei momenti di maggior fragilità dell'essere umano, la malattia, la trasformazione fisica e mentale, la strada verso un percorso denso di insidie, di cadute e di non ritorni.
Un rapporto raccontato dall'autrice in maniera innovativa, allontanandosi dai consueti cliché, sperimentando una narrazione empatica ed efficace che trae linfa dalla quotidianità che ci circonda fino ad astrarre a forme di pensiero meno tangibili.
In questo romanzo la famiglia si compone un po' alla volta, i sentimenti si svelano col tempo, le immagini scorrono come atti di una tragi-commedia da seguire in silenzio e senza pregiudizi.
Il bene ed il male non sono scissi in maniera netta, ma sono vissuti come momenti alterni.
Una lettura che rinfranca, lasciando un sentore forte di buona letteratura, lontana dal circuito commerciale.
Rosa Matteucci, una voce da ascoltare e da premiare per la sperimentazione linguistica adottata.
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Un'India diversa
“I figli della mezzanotte” è un romanzo frutto della penna dell'autore indo-britannico Salman Rushdie, balzato su tutte le cronache del mondo a seguito della pubblicazione del celeberrimo “I versi satanici”, causa scatenante di una condanna a morte e di una serie di persecuzioni ancora in corso a carico dell'autore.
La lettura di un simile testo è complessa e richiede adattamento e conoscenza della cultura da cui trae origine. Per accedere a tale genere di letteratura è necessario spogliarsi da una visione troppo occidentale di scrittura e calarsi senza pregiudizi tra il colore di queste pagine.
Il romanzo in questione è un lavoro che entra a pieno titolo nella letteratura, Rushdie rende una prova di scrittura di alto livello, intrecciando decine di volti e di storie per raccontare un pezzo di Storia indiana.
La narrativa proposta nasce da una miscellanea ben dosata tra realismo e fantasia, utilizzando l'immaginazione e la creatività per animare un mondo magico e parallelo al reale, per sviluppare sogni che si riflettono sul presente, per creare personaggi dai volti umani ma dai poteri straordinari.
Partendo dai costumi radicati nella cultura islamica, l'autore insinua al suo interno germi di stravolgimento, di frattura e di evasione, arrivando a contaminare ed intaccare con visioni ed idee “diverse e folli” i principi cardine di un popolo intero.
La componente politica è il cuore dell'intero romanzo, linfa del costrutto narrativo incentrato sulle sorti dei componenti di una famiglia a partire dalla dichiarazione d'indipendenza indiana nel 1947.
Forti e pulsanti le motivazioni ideologiche, cauterizzate dalla vena ironica e dalla creazione di un'aria magica e frizzante che smussa gli angoli più pericolosi.
Stilisticamente un lavoro curato nel particolare, elaborato con minuzia, dove nessuna frase, immagine e pensiero è lasciato al caso; talora rigoglioso al limite dell'ossessione ma perfettamente in sintonia con una cultura ricca, variegata, colorata, speziata, mai in bianco e nero.
Consigliato ad un lettore che non ama la semplicità, che accetta di evadere dalle consuetudini letterarie prevalenti, che cerca un nuovo panorama e nuovi stimoli.
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Ritratto di Parigi
Pur essendo il terzo dei venti romanzi del ciclo “Rougon-Macquart”, “Il ventre di Parigi” si offre ad una lettura del tutto autonoma ed indipendente dal resto dell'opera.
Una lettura di grande fascino che permette di conoscere dall'interno la scrittura e la prosa di Zola, vivendo la sensazione di essere catapultati nel passato e di percorrere le strade ed i vicoli parigini insieme ai personaggi rappresentati.
Un esempio eccelso di naturalismo letterario, una penna che ritrae volti e animi nella naturalezza della loro quotidianità senza alcun abbellimento, senza frapporre veli e maschere, mettendo in scena una galleria di uomini e donne onesti e opportunisti, biechi e generosi, raccolti nel microcosmo dei quartieri di Parigi.
Non è da ricercare il filo narrativo di una storia tra le pagine, ma occorre solamente ascoltare e osservare il brulichio di figure nelle botteghe, nei mercati del pesce, attorno ai carretti delle ortolane e nell'intimità delle mura domestiche, tutti luoghi dove affiorano tematiche economiche che mettono a nudo gli animi, portando in evidenza lo svolgersi di talune leggi di natura che inevitabilmente trovano radici nella società.
Presenti accenni al clima politico del momento, ma stemperati e non enfatizzati, confluendo anch'essi in un focus analitico sulle persone, sui ruoli rivestiti in società e sulle leggi che ne regolano l'andamento.
Questo romanzo è del tutto paragonabile ad un quadro, ne vanno ammirati i particolari e così facendo si percepiranno gli odori piacevoli o meno, si gusteranno i sapori delle cucine, si osserveranno occhi sinceri e sguardi malevoli, il tutto seguendo le innumerevoli sfumature catturate e apprezzando la mano cesellatrice di Zola.
Un'analisi umana che ben si adatta ancora alla nostra contemporaneità nonostante provenga da un'epoca così lontana.
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C'era una volta la coppia Lincoln-Todd
“L'amore è eterno” fece vergare sulla vera nuziale della sua sposa Abraham Lincoln, da qui il titolo di questa splendida ricostruzione biografica partorita dalla penna del geniale Irving Stone nel lontano 1954.
Lo statunitense Stone ha dedicato tanti scritti a personaggi illustri della politica del suo paese ed il lavoro sulla vita di Lincoln è uno di questi.
Come già ribadito per altre opere dello scrittore, è ostico ingabbiare le sue produzioni letterarie in un filone standard; egli pur non scrivendo biografie intese in senso oggettivo, tuttavia riesce a infondere una profondità ed un dettaglio di ricostruzione, tanto da creare dei volti veri e indelebili per il pubblico, non allontanandosi mai da un rigore storico e dalla correttezza degli eventi.
L'arma vincente dell'autore è l'esteso lavoro di ricerca delle fonti che sostiene tutta la struttura della narrazione, fotografando epoche, costumi, vicissitudini politiche e sociali con minuzia e precisione.
Nulla viene lasciato al caso o alla fantasia del narratore, cesellando dei dialoghi tra i personaggi di un'attinenza storica formidabile.
L'arco storico raccontato in questo scritto, è uno dei più contrastati ed intensi dell'epopea americana, la questione morale ed economica legata all'abolizione della schiavitù, la divisione del paese in fazioni contrapposte, la guerra civile, le manovre occulte della politica; in mezzo a tutto ciò, o meglio in concomitanza, l'ascesa di un uomo venuto dal nulla, dall'aspetto rude e aspro, criticato ed incompreso da tanti.
Un uomo non più giovanissimo, dal carattere complesso, chiuso in un guscio che solamente lei, Mary Todd, riuscirà ad infrangere. Donna dalla fibra spessa, decisionista, impavida e legata alle sorti del suo amato consorte fino alla fine.
Due personaggi splendidi, ritratti tra luci ed ombre, sorridenti e disperati, vincenti e vittime, uniti a filo doppio in una vita dai connotati dolci e amari.
Questa può dirsi un' opera biografica degna di essere letta, mezzo efficace per approfondire la conoscenza di un periodo storico senza dover rinunciare a pagine di ottima prosa.
Purtroppo tomi come questo non sono considerati fonti di guadagno per l'editoria, tanto che la pubblicazione è chiusa da un trentennio, ma fortunatamente è possibile reperirne ancora qualche copia.
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Natura vs Umanità
Dopo essersi fatta conoscere dal grande pubblico con il suo “L'eleganza del riccio”, l'autrice francese Muriel Barbery torna nelle librerie con un titolo particolare che fa volgere il pensiero alla fiaba.
In effetti quello ricostruito e narrato tra queste pagine è l'esemplificazione dell'incontro tra un mondo segreto e fantastico ed il mondo reale, l'unico che sia dato conoscere all'uomo.
Occorre subito dire che, per chi ha avuto modo di apprezzare gli intenti narrativi e l'ottima costruzione dei personaggi nel romanzo precedente, “Vita degli elfi” è una esperienza letteraria di tutt'altra natura, vuoi per i percorsi di fantasia a cui costringe il lettore, vuoi per uno sviluppo della trama fatto di tasselli scissi che tendono a creare una frammentazione visiva e concettuale.
Sono Maria e Clara le protagoniste indiscusse, bambine dal volto umano ma generate da un mondo distinto e parallelo, capaci di comunicare con la natura,di ascoltarne i gridi di allarme e gli avvertimenti.
Bambine dotate di una sensibilità superiore, caratteristica che l'essere umano sembra avere perduto, reso cieco dalle preoccupazioni quotidiane e dall'egoismo.
Una chiusura mentale e di orizzonti che le bambine devono scalfire, rendendosi anello di congiunzione tra due poli contrapposti il bene ed il male.
Appare subito palese quanto il tema sia iper sfruttato da innumerevoli filoni letterari, tanto da chiedersi se rimanga ancora da svelare qualche immagine o concetto dal sapore nuovo; detto ciò, nonostante ci si possa avvicinare al romanzo carichi delle migliori aspettative, purtroppo giunti in fondo al sentiero non rimane che constatare quanto già conosciamo i volti del mondo segreto e naturale e di quello reale.
La nota distintiva dell'autrice si conferma essere l'ottima prosa, studiata nel linguaggio e nel particolare, tesa alla ricerca dell'eleganza, intrisa di concetti filosofici.
Il mondo della filosofia fa parte del percorso formativo e professionale della Barbery ed i suoi romanzi ne diventano specchio; tuttavia mentre ne “L'eleganza del riccio” la cultura filosofica si fonde alla perfezione con l'intreccio narrativo e con i protagonisti, qua è talmente presente da trasmettere una sensazione di soffocamento, rendendo la lettura a tratti faticosa.
Come annunciano le note editoriali e la mancanza di un finale, questo è il primo volume, quindi il lettore viene rimandato a data successiva per conoscere il destino delle vicende rappresentate.
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Il misterioso Lawrence
Tante sono le biografie presenti sul mercato per approfondire la conoscenza della leggendaria figura di Thomas Edward Lawrence, noto come “Lawrence d'Arabia”.
E' stato interessante leggere un piccolo saggio biografico di Cino Boccazzi, alpinista, archeologo e grande viaggiatore che diverso tempo fa pubblicò una ricostruzione della vita del celebre inglese.
Ciò che colpisce del testo , oltre alle notevoli qualità espressive e narrative, oltre alla qualità delle fonti utilizzate, è la passione di chi scrive per i luoghi, per approfondire la conoscenza di un pezzo importante di storia dell'umanità, avvicinando se stesso ed il pubblico ad un mondo socio-culturale differente.
Boccazzi ha ripercorso fisicamente i luoghi teatro delle “avventure” e delle guerriglie affrontate da Lawrence, giungendo a mettere sulla carta immagini, colori, odori dei luoghi, dei deserti assolati, delle vallate, dei letti dei fiumi antichi, dei villaggi, ammantando il saggio di un calore e di una partecipazione pervasiva.
Ottimo il lavoro di ricerca, per documentare in maniera chiara e attendibile, numerosi nodi di politica internazionale non sempre limpidi e che hanno determinato svolte storiche le cui conseguenze si sono protratte fino ai giorni nostri.
Un lavoro di estrema piacevolezza in cui l'autore fonde in maniera esemplare le informazioni inerenti alla vita del protagonista, all'evoluzione dello scenario politico dei primo ventennio del '900 nei territori del Medio Oriente, alla scoperta di culture e terre da conoscere.
Una lettura che porta alla luce uno degli uomini più misteriosi del recente passato, smussando un po' l'aura di mito che lo avvolge e ridefinendone il volto di uomo, di soldato e da ultimo di scrittore-poeta.
Un volto che Boccazzi riesce a fare emergere dalle sue pagine, ricche di pathos, di stupore, di dolore, di silenzi e di grida.
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Costantinopoli sta cadendo
Pubblicato da Neri Pozza, editore che dedica particolare attenzione al romanzo storico, è in libreria da poche settimane un'opera dal titolo “La reliquia di Costantinopoli” di un autore ad oggi scarsamente noto, Paolo Malaguti.
L'autore, attraverso una ricostruzione mirabile dei luoghi, offre immagini realistiche della Costantinopoli al tempo della caduta; volgeva l'anno 1453.
Nonostante il tema dell'assedio e della presa da parte turca sia stato oggetto di tanta letteratura fino ad oggi, il valore dell'impresa narrativa di Malaguti merita di essere riconosciuto.
I vicoli, le piazze, i luoghi di culto, i palazzi della città sono frutto di una documentazione certosina e di approfondimenti storico-archeologici da parte di colui che scrive; i particolari colpiscono per aderenza al vero, così come sono percepibili gli odori speziati dei cibi e dei mercati e gli olezzi mefitici dei vicoli bui e delle dimore più umili. Di particolare intensità le scene di assalti e scontri tra le forze cristiane e gli Ottomani, scene che portano nella narrazione fiumi di sangue, orrori e morte.
Il pretesto narrativo utilizzato per imbastire la trama e mettere in pista due protagonisti di grande empatia, trae vita da un mondo ammantato da sempre di mistero, quello delle cosiddette reliquie, simboli della cristianità, oggetti intrisi di sacralità, come i chiodi della crocifissione o i resti lignei della croce o la corona di spine.
L'autore fonde in un unico excursus, materiali prettamente storici ad altri rielaborati con un pizzico di invenzione.
Il prodotto che viene generato è un romanzo corposo non solo per la mole delle pagine, ma per il contenuto, davvero esauriente e per le vivide scene dei lunghi mesi di assedio di Costantinopoli.
Da ultimo, ma non meno importante di tutto il resto, Paolo Malaguti possiede una scrittura di gran pregio, difficile da riscontrare in tempi odierni; mai un rigo ha un costrutto banale, anzi lo stile è lontano da certe scelte di semplificazione linguistica moderne.
Per un autore che vuole esplorare il mondo del romanzo storico, uno stile linguistico appropriato è il punto di partenza per varcare i cancelli della Storia.
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La Storia continua
Nel 2010 Pennacchi vinse il Premio Strega con il suo “Canale Mussolini” ed ora pubblica un sequel di quel romanzo.
Una vena mista tra scetticismo e curiosità spinge necessariamente alla lettura il pubblico precedente, vuoi per comprendere il taglio dato al nuovo lavoro vuoi per poter affermare che non tutti i sequel sono deludenti per antonomasia.
L’epopea della famiglia Peruzzi tra Veneto e Agro Pontino è stata il fulcro della narrazione pregressa con la sua genealogia pazzesca tanto da far invidia alla miglior mitologia greca; ebbene il prosieguo del racconto parte sempre da quei volti pittoreschi, che l’autore colloca in una zona intermedia tra leggenda e storia, immergendoli in una serie di colori che sfumano nell’indefinito.
La narrazione parte con un ritmo e con uno stile linguistico del tutto similare al precedente romanzo, costringendo a recuperare nella memoria nomi e personaggi, ma all’improvviso e senza nessun tipo di cesura il racconto diventa saggio, mutando completamente pelle.
Ora, per chi ama la Storia raccontata in qualsiasi tipo di versione, da quella più romanzata a quella documentale, la piacevolezza dello scritto è discreta; per coloro che preferiscono i contorni morbidi di un romanzo storico alla spigolosità del resoconto saggistico, la lettura potrebbe assumere connotati aspri.
Questa analisi è doverosa per comprendere la fattura del romanzo, cui l’autore ha volontariamente conferito una veste ibrida, quasi camaleontica, riuscendo a passare da un genere all’altro nello spazio di una pagina.
Sulle parti prettamente documentali che analizzano il periodo dalla caduta del fascismo al primissimo Dopoguerra, Pennacchi alterna notizie ufficiali tramandate dalla Storia a notizie più blande, quasi colte dalla “vox populi” del tempo o desunte da corrispondenze non ufficiali, ricamando su determinati episodi una coltre di indeterminatezza oppure gettando ipotesi per nuove interpretazioni storiche.
Per chi è avvezzo a leggere pagine di storia, può essere l’occasione per ripercorrere gli anni della caduta di Mussolini fino alla fine della guerra, tra immagini note e meno note e tra notizie a metà strada tra ufficialità e cronaca. Interessanti le ricostruzioni di alcuni passaggi politici e nitidi i volti degli uomini che hanno contribuito a scrivere le pagine di storia dell’epoca, da De Gasperi a Togliatti, a tanti altri.
Nel complesso appare un lavoro che non riesce a portare quel quid aggiunto al resoconto di una delle epoche di cui si è detto e scritto di più in assoluto, di cui la saggistica di destra di sinistra e di centro ha oramai esaurito gli argomenti. Si avverte una vaga sensazione di voler continuare a calpestare un sentiero vecchio e conosciuto su cui oramai non sopravvive più uno stelo d’erba.
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New York
Un'impresa ambiziosa quella dello scrittore inglese Rutherfurd di raccontare la storia della nascita della “grande mela”, costruendo un romanzo che percorre oltre cinque secoli di Storia.
Il romanzo storico proposto dall'autore si snoda attraverso le diverse epoche utilizzando un perfetto mix di personaggi di fantasia e di personaggi reali, inanellando immagini, eventi e volti di grande impatto e suggestione.
Inquadrare un periodo storico attraverso il vissuto di un nucleo familiare è un'arma vincente che incolla il lettore alla narrazione e si presta all'osservazione del tessuto sociale, politico ed economico, ammantando di calore e pathos lo scorrere del tempo.
Dalla terra strappata ai nativi a metropoli cosmopolita del ventesimo secolo, passando dal dominio olandese a quello inglese, dalle lotte per ottenere l'indipendenza ai grandi flussi migratori, dalle numerose contraddizioni interne al decollo di un mondo economico senza rivali.
Una narrazione grandiosa che tocca i tanti volti di un paese cresciuto in fretta e tutte le fasi evolutive sia di costume sia di economia.
La mole del tomo è notevole e l'autore ha vinto una grande sfida, quella di non cadere in buchi neri e cali di tensione; da bravo burattinaio riesce a dominare perfettamente le storie di vita che si alternano e si intrecciano creando nodi che dal passato gettano riflessi sulle generazioni posteriori, creando una concatenazione narrativa ben riuscita, interessante e funzionale.
Non manca nulla a questo romanzo storico, anzi è un piacere tuffarsi tra pagine che ricostruiscono eventi passati fornendo notizie fondate e dati oggettivi scanditi in un flusso cronologico semplice da seguire ma rigoroso.
Se costretti a trovare un limite al romanzo, si potrebbe evidenziare quanto la penna di Rutherfurd sia minimalista nel costrutto della frase creando un effetto del tutto contrario alla magnificenza e rigogliosità dei contenuti. Vista la carenza sul fronte del buon romanzo storico, lo stile asciutto e senza fronzoli dell'inglese è perdonabile, anche perchè in un contesto narrativo che ammalia e rapisce, non è un elemento di disturbo.
Consigliato a chi avesse voglia di imbarcarsi per un lungo viaggio a ritroso nei secoli, per chi ama la Storia e non solo.
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Alla ricerca di Livingstone
Sfogliando un datato catalogo Garzanti, colpisce il nome di un autore a dir poco sconosciuto e attrae il titolo del suo romanzo “Le balene del lago Tanganica”.
Curiosando tra le poche notizie disponibili in rete sul signor Lennart Hagerfors si apprende che egli sia figlio di missionari svedesi in terra africana, nello specifico in Congo e che abbia scritto romanzi colà ambientati.
Poiché i giudizi sull'autore sono pressoché inesistenti, non rimane altro che sperimentare la vena narrativa dello svedese, fiduciosi nel tema trattato, ossia in una ricostruzione accattivante e storicamente valida delle vicissitudini degli esploratori britannici Stanley e Livingstone.
Il taglio narrativo proposto dall'autore parte dalla preparazione della spedizione ad opera di Stanley una volta giunto a Zanzibar per dirigersi nel cuore del continente africano alla ricerca del disperso David Livingstone.
Fin qua tutto coerente e grandi le aspettative del lettore che si prepara ad affrontare un notevole viaggio in mezzo a terre complicate e insidiose da attraversare.
Poi, pagina dopo pagina, la narrazione dal ritmo lento si inchioda in un pantano di immagini sbiadite, vacuità di eventi, fino a cadere nel non senso più totale.
Stranissima la scelta di affidare il ruolo primario del racconto a colui che venne scelto da Stanley come guida esperta dei territori, facendo precipitare il contenuto in riflessioni vacue e del tutto non attinenti con lo spirito ed il fine cui avrebbe dovuto tendere l'intera ricostruzione.
Il costrutto del romanzo non è congeniale alla ricchezza di un simile tema; sembrerebbe che l'autore non sia stato in grado di entrare nelle vicende di quelli che dovevano essere i protagonisti del romanzo e che invece sono divenuti solo figurine lontane e scialbe ritratti in pochissime immagini.
Un vero peccato e un'occasione persa per creare un romanzo storico che potesse raccontare l'incredibile storia di vita di David Livingstone e della ricerca altrettanto difficile ad opera del connazionale Stanley.
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Il cappotto blu
L'ultima proposta letteraria di Anna Maria Balzano racchiude in sé il dolce e l'amaro dell'esistenza, il calore dei rapporti umani ed il gelo della crudeltà esplicata dall'uomo.
L'incipit della narrazione getta un alone di mistero che calamita l'attenzione del lettore, partendo per un viaggio nei ricordi, un viaggio che si arricchisce di volti e situazioni, di incontri e di svolte, di cadute e riscatti, di perdite e di ritrovamenti.
C'è un piccolo grande mondo tra le pagine di questo romanzo, dalla complessità delle dinamiche familiari ai tanti volti degli affetti, dalle ferite inferte dalle brutalità della Storia del Novecento alla ricerca di equilibri interiori. Si percepisce quanto cari siano i temi alla mano che scrive, dalla nitidezza dei contorni psicologici tracciati, dall'intento di andare oltre agli accadimenti in sé, di analizzare le scie tracciate nei cuori di tutti i protagonisti.
Il ritmo narrativo è intenso e rapido, mai un calo di tensione nel dipanarsi della storia, anzi un' accelerazione continua e costante, fino a concedere al lettore di entrare in una simbiosi netta con i personaggi.
Interessante lo sfondo storico che funge da cornice, riportandoci agli occhi il percorso sociale, politico e culturale affrontato dal nostro paese nel corso dell'ultimo cinquantennio, garantendo alla narrazione una contestualizzazione verace e oggettiva.
C'è tutta l'Italia del Dopoguerra con un fardello pesante di ferite, c'è l'evoluzione del ruolo della donna, ci sono i sacrifici, ci sono le nuove generazioni da crescere. Eppoi a fianco all'Italia che cresce e muta, ci sono le persone e le famiglie che cambiano pelle e che devono proiettarsi al futuro.
Un'ottima prova di scrittura, un'autrice che sa cosa vuole esprimere e riesce appieno a condividerlo con il suo lettore, un romanzo che sancisce una crescita stilistica rispetto alla prova precedente.
“Il cappotto blu” alterna al nero del dolore il colore della speranza, alle lacrime alterna la forza di un sorriso, senza tralasciare una componente biografica di cui si avverte la presenza viva tra le pagine.
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L'altra faccia della guerra
Per tutti gli affezionati del collettivo bolognese Wu MIng, è disponibile da pochi giorni l'ultimo lavoro intitolato “L'invisibile ovunque”.
La forza del collettivo sta nel raccontare le zone d'ombra della Storia, nella ricerca degli angoli grigi, delle vicende scomode, degli eventi insabbiati; sono mossi da un interesse per il particolare affinché assurga a idea generale, affinché sfoci in pensiero.
L'esigua mole del nuovo romanzo di primo acchito stupisce, memori dei precedenti volumi corposi e straripanti; tuttavia a fine percorso, il contenuto denso di questa manciata di pagine risulta più sostanzioso che mai.
Il romanzo è frutto di una sperimentazione stilistica differente che vede le quattro penne viaggiare in piena autonomia per confluire in un unico capolinea.
Quattro narrazioni dal tessuto differente si susseguono, facendo assaporare al lettore consistenze e prospettive molteplici su un tema pesante e pluri trattato come la Grande Guerra.
La grandezza dei Wu Ming è la totale assenza di banalità, di immagini trite e convenzionali, di pensieri standardizzati; con la solita tecnica narrativa che mescola reale a surreale, storia ad immaginazione, la visione proposta in lettura si arricchisce di notizie poco conosciute, estrapolate da fonti scarsamente citate e di punti di vista nuovi e alternativi, perché le strade polverose della Storia sono fatte anche di piccole ramificazioni che il tempo e certi opportunismi hanno cancellato.
Il controcanto dei Wu Ming ci presenta una guerra da cui scappare, un male da evitare con qualsiasi mezzo pur di far salva la pelle. Gli uomini che percorrono le pagine non sono pervasi da senso dell'onore e da amore cieco per la patria; sono uomini che vogliono sperimentare una via per svicolare dalla morte certa in trincea, non codardi ma attaccati alla vita, avversi alle follie dei potenti.
Ottimo pertanto il lavoro documentaristico per riportare alla luce i carteggi che conservano memoria di alcune compagnie di genieri “camaleonti” che studiavano tutti i mezzi possibili per camuffare soldati e trincee, per salvare vite sotto una pioggia infinita di morte.
Una Grande Guerra che vede l'uomo alla ricerca dell'invisibilità, per trovare un'evasione lecita alla distruzione, in uno scenario imposto, fatto di cannoni, di freddo, di sangue e di straniamento.
Il romanzo storico italiano deve tanto a Wu Ming, ci auguriamo quindi di poter leggere molto altro ancora.
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Dietro le quinte con MIneko
Quanta parte di noi occidentali può dirsi certa di conoscere il vero significato del termine geisha o meglio di sapere quali siano le vere attività svolte e lo stile di vita dalle ragazze che abbracciano questo mestiere?
Per quanti avessero acquisite solamente conoscenze stereotipate o maturato convinzioni mutuate sulla scia di passaparola e pensieri standardizzati, allora è senza dubbio da consigliare la lettura del diario di memorie della nipponica Mineko Iwasaki.
Mineko, classe 1949, giunse ad un elevatissimo livello di celebrità nel Giappone degli anni '60-'70, conducendo sì una vita sontuosa fatta di incontri con personaggi illustri, di costumi splendidi, ma anche di sacrifici e rinunce pesanti, di rigore e disciplina, unitamente ad una passione per le forme artistiche della danza, del canto e della recitazione.
Tra le pagine delle memorie si apre il sipario su uno stile di vita di cui solitamente poco viene tramandato, una galleria di usi e costumi lontani anni luce dal nostro modo di approcciare la vita privata e la vita sociale; ne deriva una lettura il cui contenuto trabocca per intensità, per immagini suggestive, per sentimenti veri, facendo lievitare nel pubblico una sensazione di stupore misto a incredulità.
Il grosso neo del saggio sta nella scarsezza stilistica e nel labile lavoro di traduzione, tanto da inficiarne in numerosi tratti, la pregevolezza del contenuto.
Ci sono lavori che leggiamo per assaporare il gusto di un tema ricercato, unico, raro, tuttavia alcuni editori dovrebbero spendere qualche spicciolo in più per confezionare un lavoro appetibile, il cui ricordo non sia segnato da un retrogusto amaro.
Nel complesso è una lettura che offre un viaggio variopinto in una delle dimensioni più intime della terra giapponese.
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Il presente del futuro è l'attesa
Con la sua ultima pubblicazione Carmine Abate propone ai lettori una storia che parla di emigrazione, di partenze e ritorni, di legami familiari e di strappi.
E' una storia del secolo scorso, è l'epoca in cui dal suolo italiano si partiva alla ricerca di un pizzico di fortuna, con la morte nel cuore ma con scintille di speranza per un futuro migliore non solo per se stessi ma per tutta la famiglia.
Tanta parte della letteratura ha dedicato attenzione al tema, tanto da farlo divenire piuttosto sfruttato, motivo per cui è arduo riuscire a proporre qualcosa di nuovo al lettore, svicolando da gallerie di immagini note.
Il sapore rilasciato dalla pagine di Abate è dolce e amaro, nasce da una mescolanza di storie che vogliono mostrare sempre il volto chiaro e scuro del destino, camminando sul filo dell'ottimismo.
I protagonisti sanno attendere l'arrivo della felicità, accettano i colpi inferti dalla sfortuna con animo sereno, senza perdere mai di vista i valori tramandati dalla cultura di appartenenza e dal retaggio socio-familiare.
A tratti emerge uno po' troppo buonismo, a tratti il clima sembra volgere alla favola piuttosto che calzare vesti più aderenti alla realtà dell'epoca.
La prosa di Abate utilizza in larga parte il gergo calabrese, sicuramente con l'intento di caricare di veracità le pagine e di sancire un legame sanguigno con la terra d'origine, a scapito di qualche rallentamento del pubblico nella lettura.
Nel complesso si tratta di un romanzo che ha il pregio di essere “accogliente”, di far entrare da subito il lettore all'interno della narrazione e di spingerlo a seguire le vicende della famiglia Leto; dai nonni ai figli e poi ai nipoti, in una girandola spazio-tempo che mescola immagini del presente, passato e futuro.
Tre tempi di cui Abate vuole mostrare la capacità di fusione; tre tempi che scandiscono la vita.
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Due creature
Ha davvero tanti anni sulle spalle il romanzo di Mary Shelley; pubblicato nel 1818 da una scrittrice poco più che diciottenne.
Frankenstein è un cult della letteratura, un romanzo epistolare che ha dato vita a due creature destinate a cristallizzarsi nell'immaginario di tutti i tempi.
I contenuti sono figli dell'epoca in cui vide la luce il testo; un periodo in cui si incrociano interessi tumultuosi per il mondo oscuro della morte, in cui fioriscono esperimenti di galvanismo, in cui si studia con accanimento accademico e non, la maniera per sconfiggere la morte e tentare una risurrezione dei corpi.
Circolando simili pensieri, non poteva non coglierne l'idea la giovane penna di Mary, trasformando in realtà letteraria le fantasie di chimici e alchimisti.
Il romanzo è esente da qualunque forma di truculenza che ha tramandato il grande schermo; non è infiocchettato da rappresentazioni crude e sanguinarie, ma contiene in prevalenza pensieri e riflessioni, sul rapporto tra la vita e la morte, sui rapporti tra genitore e figlio, sugli affetti e sull'etica.
La narrazione scorre lenta, a tratti sembra arenarsi per poi riprendersi; non è scandita da un ritmo incalzante, non si cerca il sensazionalismo ed il colpo di scena.
La morale della storia è da cercare nell'animo del mostro e del suo creatore, nelle loro lacrime, nelle loro rispettive sofferenze e aspettative.
Brillante l'idea dell'autrice di disegnare il percorso umano dei due personaggi in modo tale che essi giungano ad una fusione: due corpi stessa anima.
Una piccola chicca del nostro passato letterario, da non dimenticare, da continuare a leggere per coglierne i numerosi messaggi.
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L'arrivo della Rossa
L' ultimo romanzo di Ammaniti sicuramente farà parlare, farà riflettere, provocherà una dicotomia di opinioni in merito al contenuto ed al messaggio.
L'autore parte da uno scenario tutt'altro che novello in letteratura, ossia l'annientamento dell'uomo a causa di un virus letale. Il mostro subdolo si chiama “la Rossa” e non dà scampo agli adulti, mentre per un misterioso motivo il male non contagia i bambini.
L' habitat che si presta ad essere terreno di svolgimento degli eventi è la calda Sicilia, con le sue spiagge e il suo mare ma anche il suo variegato entroterra dove il profumo del sole che scalda le distese dei fichi d'india maturi ed il profumo degli aranceti in fiore lasca posto ad ambientazioni di morte e desolazione, pregne di tanfo di migliaia di corpi in putrefazione.
Il mondo immaginato da Ammaniti è silenzio, fame, orrore; al contempo il declino del mondo dei “grandi” mette in pista il nuovo mondo dei “piccoli”, catapultati tra le spire di un universo desolante, dove il quotidiano diventa la lotta per la sopravvivenza.
Dopo un brevissimo esordio di cosiddetta normalità, tra le pagine sfila una schiera di orfani depredati in primo luogo del calore familiare, della fase complessa della crescita, della possibilità di avere una guida ed una spalla per incamminarsi lungo l'arduo sentiero della vita.
I “bambini di Ammaniti” non hanno tempo per le lacrime, hanno forte dentro di loro il ricordo del genitore ma una spinta innata li costringe a combattere per guardare al futuro, perché la tensione per la vita è nettamente più potente di quella della disperazione; sono esseri decisi a vincere la battaglia contro il destino.
Il messaggio dell'autore appare in tutta chiarezza, appare come un'ancora di salvezza dopo una ridda di immagini dolorose e macabre; il focus è sulla speranza e non sulla sconfitta, questo lo percepisce a chiare lettere.
Pur riconoscendo i meriti di chiarezza espositiva, di forte caratterizzazione dei personaggi, dell'ottimo lavoro di ricostruzione della psicologia di protagonisti così piccoli, rimane tuttavia il neo sul deja vu del contesto, dello sfruttare il solito clima post catastrofe per mettere a nudo i sentimenti e le scelte dell'uomo, anche se nel caso specifico si tratta di piccoli uomini e donne.
Il rischio è quello che una tematica così largamente adottata in letteratura crei una sorta di stanchezza o peggio faccia scattare la corsa al paragone.
In tutta sincerità, appena il lettore si sente avvolgere da tanto grigiore e morte, viene facile ripescare tra alcuni momenti de “La strada” di Mc Carthy, seppur con le dovute differenze, ma una volta ingabbiati nel tunnel del confronto si comincia a perdere il contatto con ciò che si sta leggendo.
In conclusione è un testo che non lascia indifferenti, che colpisce per le immagini e per le ipotesi che inevitabilmente spinge a formulare.
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Rinascimento italiano
“Pochi nomi nella storia sono stati più esecrati di quello dei Borgia. Contemporanei e posteri ne hanno fatto dei mostri capaci d'ogni frode e scelleratezza. Su di loro sono stati versati fiumi non d'inchiostro, ma di fiele.”
Con questa avvertenza prende le mosse una delle ricostruzioni più oneste e lucide che la saggistica ci tramanda della famiglia Borgia.
L'autore è Roberto Gervaso, l'anno di pubblicazione è il 1977.
La storia dell'intera dinastia, vita privata, papato e conquiste politiche, di per sé è complessa, ricca di eventi, di intrecci, di vittorie e cadute, da fare arenare la migliore delle penne e gettare nello sconforto anche il lettore storico più impavido.
Eppure Gervaso riesce in un questa operazione biografica, incrociando le vicende personali dei componenti della famiglia Borgia con gli accadimenti politici dell'epoca sul martoriato suolo italico.
Decine di volti passeggiano tra le pagine del saggio, gli Sforza, i Colonna, gli Orsini, gli Este, il Savonarola, eppoi i francesi, gli aragonesi; ma il focus rimane vivido sui visi e sulle faccende private e pubbliche di Rodrigo, di Cesare e di Lucrezia.
Il Rinascimento emerge più nitido che mai tra queste righe, carico delle sue zone d'ombra, dei veleni e delle congiure, ma anche delle consuetudini socio-politiche del tempo.
Il potere della Chiesa, il ruolo politico del detentore della tiara, il braccio di ferro con i signorotti che si dividono l'Italia come pezzi di un mosaico, gli sgambetti politici messi a punto con la stipula di alleanze ad hoc.
E' un'opera che nasce da un intenso lavoro storiografico, come testimoniano numerosi stralci di opinioni di studiosi disseminate lungo la narrazione; l'equilibrio di valutazione ed il bilanciamento dei pareri positivi e negativi, costituisce uno dei punti di forza di Gervaso “storico”, sempre esente dall'arroccarsi su di un'unica posizione, sempre pronto a prendere in considerazione entrambe le facce della medaglia.
Tra gli scritti che ci lascia in eredità Gervaso è senza dubbio quello più tecnico, quello più adatto ad un lettore che ami la Storia italiana e che voglia approfondire il periodo proposto; ma è un titolo da non scartare per tutti i lettori che sono incuriositi dalla eterna fama che avvolge i Borgia.
La penna è in prevalenza asciutta perchè questo richiede il tipo di narrazione, ma fa capolino comunque l'eleganza, l'armonia e la raffinatezza di un eloquio d'altri tempi.
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Casanova
Cagliostro
La monaca di Monza
Nerone
Ultima tappa: Napoli-Roma
La letteratura italiana contemporanea è rimasta orfana di un suo autore: Sebastiano Vassali ci ha lasciato recentemente, riuscendoci a fare un ultimo dono, il racconto di un altro pezzo di Storia del nostro paese.
Ricostruendo la vicenda umana di Giulia Di Marco, etichettata come eretica dai testi redatti dall'Inquisizione, Vassalli si addentra tra le tenebre fitte del Seicento italiano, dominato dal potere di una Chiesa poco spirituale.
La voce dell'autore si fonde con quella della protagonista, dando la stura ad una narrazione in prima persona di suor Partenope, intensa e convincente, esente da cali di tensione anzi calamita vigorosa per l'attenzione del lettore.
La Storia di Giulia è una delle tante storie tramandate fino a noi, scritte da uomini di parte, cristallizzate nella memoria documentale; ripescando tra quei carteggi, il periodo a cavallo tra 1500-1600 appare costellato di eretici e di streghe, di infedeli e sovversivi.
Vassalli utilizza la figura di suor Giulia, depurandola da tutte le etichette poste per convenienza religiosa e politica, azzerandone preconcetti ed esasperazioni, per ricavarne un simbolo.
Giulia, derubata della giovinezza, venduta dalla madre ad un anziano signore, finisce per rifugiarsi a Napoli, dove si avvicina a Dio, venerandolo in una forma del tutto personale che devia dai canoni imposti dalla Chiesa. E' scandalo, la donna va fermata perché si vocifera che gli incontri di preghiera assumano la veste orgiastica.
La lunga mano dell'Inquisizione è pronta a stritolare chiunque possa divenire un ostacolo, chiunque osi contrastare i dogmi ecclesiastici.
Attraverso le sofferenze di Giulia, Vassalli canta la Storia di un'epoca, canta le zone d'ombra del potere religioso, canta la vita del popolo tra le strade di Napoli e di Roma, canta la difficoltà di nascere donna.
Per Vassalli questa suora partenopea è un simbolo di quella modernità che tentava di farsi breccia, nuova forma di vita e di pensiero che minacciava di sovvertire le regole del tempo, destabilizzando una forma di potere assoluto e intransigente.
Ottima performance, una penna essenziale meno raffinata di quella de “La chimera”, ma lucida e diretta, una rappresentazione ben inserita nel contesto storico ed una definizione psicologica dei personaggi suggestiva e piena.
Ultima tappa del viaggio in Italia insieme a Sebastiano Vassalli.
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La penna e la chiave a stella
Ripercorrendo gli annali dei vincitori del Premio Strega, colpisce l'anno 1979.
L'opera si intitola “La chiave a stella”, l'autore è Primo Levi.
Sorge spontaneo associare Levi al ricordo dei campi di concentramento, ma volgendo lo sguardo a qualche decennio più avanti, è possibile incrociare uno scritto che si compone di tanti racconti aventi per protagonista l'operaio piemontese Tino Faussone che ricorda numerosi episodi legati agli anni trascorsi in giro per il mondo, impegnato a svolgere con passione e diligenza il proprio lavoro.
Ogni racconto ha una collocazione geografica diversa, eppure il percorso di vita narrato risulta fluire omogeneo, senza soffrire di cesure appare come un flusso continuo cui il lettore non può staccarsi.
La semplicità di espressioni e di pensieri dell'operaio trovano ad ascoltarlo le orecchie e la penna di uno scrittore raffinato; se gran parte del tempo lo scrittore Levi ascolta in silenzio pronto a catturare l'essenza dell'uomo che ha di fronte, la parte restante è animata da dialoghi e scambi di riflessioni tra i due.
La fatica richiesta dal lavoro di montatore, le difficoltà delle condizioni climatiche incontrate in terre straniere, l'incontro con culture differenti, i sacrifici personali e familiari, si incastrano come pezzi di un grande puzzle con la dedizione alla propria mansione, con l'attaccamento fisiologico e spirituale, con l'identificazione con la professione esercitata.
Stilisticamente il lavoro è perfetto, in quanto il linguaggio si adatta al signor Faussone, caricandone di pathos la figura, riportando sulla carta tutta la ruvidità e la schiettezza possibile.
Levi si dimostra ottimo narratore, cesellando riflessioni sulla volontà dell'uomo, sul rapporto uomo-lavoro, facendo emergere se stesso tra le pagine attraverso scambi di opinioni con il protagonista venate di ironia, ma anche di saggezza e di grande trasporto emotivo.
Parlare di un mestiere, significa parlare di scelte di vita, di aspirazioni, di promesse, di delusioni, di morti e rinascite, di un guscio che diventa volto e facciata per il mondo circostante.
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Nella lontana America
Nel romanzo della Chevalier confluiscono due temi corposi di cui tanto si è scritto e che sono pezzi di Storia; il flusso migratorio dall'Europa verso le Americhe e la piaga dello schiavismo.
Cucire una narrazione che si nutra di questi argomenti e che rispecchi le ambientazioni storico, sociali e culturali del tempo, è opera ardua.
Le vicissitudini della giovane inglese Honor iniziano a scorrere lungo le pagine in maniera tenue senza lasciare un segno incisivo nelle immagini riportate sulla carta né nelle vaghe sensazioni trasmesse.
La narrazione subisce dei momenti di stanchezza nell'evoluzione della trama, ma al contempo non giunge in aiuto nemmeno lo spessore storico.
La vaghezza delle descrizioni delle condizioni di vita dell'epoca si arena in alcuni scorci campestri, dove il nucleo familiare è intento a mandare avanti una piccola fattoria, lavorando duramente tutto il giorno per carpire alla terra il sostentamento minimo.
I sogni di ricchezza che foderavano le valigie dei migranti europei si infrangono contro le difficoltà incontrate sul suolo ospite; così le speranze di fuga di alcuni schiavi che partono dalle regioni del Sud e attraversano lo stato dell'Ohio per giungere nella terra della libertà, ossia il Canada.
Valutato nella sua interezza, il romanzo è carente nel contenuto oltre a rimanere troppo in superficie nella definizione emotiva dei protagonisti.
Questa storia avrebbe dovuto trasudare dolore e disperazione, speranza e riscatto; il tema della schiavitù che si intreccia con quello altrettanto complesso dell'immigrazione e dell'inserimento in un nuovo contesto sociale, deve nutrirsi di più forza per ottenere credibilità e insinuarsi nel lettore.
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Per chi volesse approfondire la storia della schiavitù sul suolo americano, è consigliabile dirigersi sulla lettura di Alex Haley con il suo “Radici” e lasciare la Chevalier per una lettura di passatempo senza infamia e senza lode.
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- sì
- no
Recanati 1798
Monaldo e Adelaide sono una coppia appartenente alla nobiltà del piccolo borgo marchigiano di Recanati.
Lui dedito a portare avanti qualche buon affare per mantenere in agio moglie e figli, amante della letteratura e dei tomi; lei schiva e introversa, piuttosto fredda nelle relazioni interpersonali, in primis familiari.
In questo contesto vede la luce e cresce Buccio, un bambino che denota fin da subito un temperamento particolare, a tratti iperattivo, curioso e dinamico, a tratti cupo e malinconico.
Quando la vita scorre tra le mura di un palazzo in un piccolo agglomerato di case, sono pochi i passatempi e gli interessi da coltivare; il giovanissimo Buccio,viene ammaliato da quei polverosi tomi che riempiono le stanze buie e umide della propria casa.
Quello diverrà il suo affaccio sul mondo, la sua maniera di riflettere e di interagire col prossimo, mentre il suo corpo fragile comincia ad essere minato da numerose patologie.
Renato Minore , avvalendosi della lettura di tutte le lettere scambiate tra Giacomo Leopardi ed i suoi familiari e amici, di cui ci rende documento nell'appendice del testo, porta a compimento un pregevolissimo lavoro di ricostruzione della vita, dell'umore, delle passioni dell'esimio poeta.
La veste è quella di un piccolo saggio biografico, depurato dalla minuziosità cronologica e dal parallelo con le opere del poeta.
Nessun dialogo inventato, ma solamente stralci di conversazioni riprese dalla lettere, in cui la voce di Giacomo fa esplodere veracità e commozione pura tra le righe.
Al contrario di altri lavori su Leopardi, Minore ha interesse ad approfondire il lato umano, tralasciando la vasta produzione di scritti e l'analisi critica di questi.
Minore ci porta tra le mura della casa natale, nelle stanze dei giochi prima e dello studio poi, nelle strade di Roma e Napoli dove Giacomo trascorse lunghi periodi, entrando in contatto con realtà sociali differenti, culture e persone, idee e stili di vita da osservare e su cui riflettere.
Testo finalista al Premio Strega nel 1987, poi dimenticato, può essere una gradevole lettura per chi volesse conoscere il volto umano e sicuramente più oscuro del poeta, attraverso una scrittura elegante e sobria.
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Era il 1928
Sarebbe soddisfatta la signora Woolf, nel leggere tante recensioni su “Una stanza tutta per sé”?
Si è scritto di tutto, con la pretesa di sviscerare un testo ostico e criptico in numerosi passaggi.
Addentrarsi nella trama intricatissima e complessa dello scritto, mantenendo lucidità ed equilibrio nella comprensione di tutti i cavilli intellettuali, sociologici, culturali, politici, etici e filosofici messi in campo dalla Woolf, è esercizio duro e stancante.
Il tema da trattare è materia succulenta per l'autrice, ossia le donne ed il romanzo, un binomio che scotta e che elaborato da una mano femminile nel 1928, diviene un'arma pungente per scavare negli ultimi secoli di storia letteraria e leggerne i risultati incrociandoli con l'evoluzione sociale.
Disseminati tra le righe sono tanti gli illustri colleghi citati, uomini e donne, poeti, narratori, pensatori, le cui figure sono riportate alla luce, mentre Virginia accarezza i polverosi volumi di una libreria immaginaria.
E' un viaggio difficile quello intrapreso dall'autrice inglese, condotto con la sua penna indomita e sfuggente, che adotta il flusso di coscienza anche in questa stesura pur non appartenendo al genere romanzo; un flusso che diviene volo pindarico, spingendo il lettore a improvvisi e continui cambi di direzione per arrivare alla metà prefissa.
Se il fulcro vuole essere l'analisi del percorso femminile nel mondo letterario, la Woolf allarga il focus come una ragnatela, entrando nel costume sociale e nell'analisi minuta dello scrivere al maschile e dello scrivere al femminile.
Le riflessioni sono serrate ed il ritmo vorticoso, mal adattandosi a chi prediliga semplicità espressiva e luce sul cammino da percorrere.
Impossibile non riconoscere un eccelso lavoro a livello compositivo, lontano da talune semplicistiche etichette di “lavoro pregno di ironia”.
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L'India secondo Moravia
Stesso viaggio, visioni e sensazioni differenti.
Moravia e Pasolini furono compagni di un'esperienza forte come solo la visita dell'India può esserlo sotto tanti aspetti, vuoi per l'eclatante diversità culturale rispetto all'Occidente vuoi per un territorio di una vastità imponente che riunisce sotto un unico tetto etnie differenti con un proprio bagaglio socio-antropologico e religioso che ne costituisce linfa vitale.
Se il diario lasciatoci da Pier Paolo Pasolini è scritto con cuore e passionalità, quasi un rapimento sentimentale dei luoghi calpestati, quello di Moravia è uno scritto più cerebrale, a tratti tecnico-saggistico.
Pur riportando fervide immagini del paese, vizi e virtù di una terra millenaria, spaccati di vita quotidiana colti ai bordi delle strade, Moravia rimane lucido e composto, dando esiguo spazio ad opinioni personali.
Il lavoro contiene tuttavia riflessioni di ampio respiro culturale e politico, religioso e storico, in cui l'autore si avvale di materiali documentaristici e bibliografici.
Tessendo una valutazione dell'intero contenuto raccolto in “Un'idea dell'India”, questa non può che essere positiva ed interessante nonostante siano trascorsi oltre cinquant'anni dalla stesura; eppure percorrendo queste pagine, fa capolino il pensiero di come il tempo anziché sanare le piaghe, le abbia semplicemente cristallizzate, traghettandole fino ad oggi.
Il tempo sembra non scalfire radici culturali che sono l'humus su cui è nata l'India di ieri e di oggi.
Un libretto che a pieno titolo può ritenersi buona letteratura, che mette in luce l'ottima penna di un Moravia che devia dal genere romanzo per raccontare alla sua maniera un pezzo di umanità.
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Vite naufragate
Narrativa, reportage, saggistica?
Dare una collocazione netta a “Ragazzi di vita” di Pasolini è arduo e forse non esatto.
Un testo documentario che fotografa volti e storie delle borgate romane nell'immediatezza del dopoguerra, dove la vita scorre tra miseria e sottosviluppo.
Il furto, la rapina, la truffa e la prostituzione sono sinonimo di lavoro per gli abitanti delle periferie, luridi tuguri mono-stanza sono usuali e fortunate abitazioni, le strade sono teatro di baruffe, sono i luoghi dell'incontro e del trascorrere la giornata alla ricerca di piccoli espedienti per sbarcare il lunario e mettere un pezzo di pane sotto ai denti.
Vite naufragate, vite corrotte nel cuore e nella mente, vite avulse dal caldo abbraccio familiare, sociale e culturale.
La scrittura è fitta, incalzante, divisa tra descrizioni senza veli dei luoghi e delle situazioni e dialoghi serrati tra i giovani protagonisti.
Il linguaggio che attende il lettore è esclusivamente il gergo romanesco; scelta coraggiosa ma azzeccata per avvolgere di intenso realismo il quadro, per non disperdere la durezza e la disperazione.
Non si tratta di una lettura agevole, non esiste una trama narrativa da seguire, la luce all'orizzonte è spenta e il dolore si leva piano piano dalle pagine fino ad assumere una consistenza quasi materiale.
Denuncia di una società dimenticata dalla società, rappresentazione di piaghe da sanare, scontro tra morale e miseria, questo ed altro è racchiuso tra le righe di questo testo oramai datato, ma ancora maledettamente attuale.
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A Tree
“Un albero cresce a Brooklyn” vide la luce nel lontano 1943 dalla penna di Elisabeth Wehner, alias Betty Smith.
Figlia di immigrati tedeschi in cerca di fortuna sul suolo americano, conobbe in prima persona una vita divisa tra sogni e miserie.
La storia che si snoda attraverso le pagine è uno degli spaccati più intensi che mai sia stato stato scritto sul tema immigrazione, rappresentando uomini, donne e bambini all'interno delle loro abitazioni, mentre camminano per le strade di Brooklyn in cerca di un lavoretto per portare due spiccioli a casa, mentre cenano con una tazza di caffè annacquato ed una noce di burro.
La narrazione copre un arco temporale dal 1901 al 1916, seguendo le vicissitudini di una famiglia rappresentativa dell'epoca, due genitori giovanissimi, due figli da accudire, la ricerca affannosa di un lavoro o più lavori per sopravvivere.
Se nella fase di apertura il romanzo sembra avvolto in una cortina di staticità, successivamente il ritmo narrativo ed emotivo assume una velocità vorticosa, strappando sorrisi e lacrime al lettore, coinvolgendolo in una girandola di situazioni dal realismo estremo, dipingendo volti memorabili, personaggi concreti e profondi.
L'epopea americana è stata spunto per tanta letteratura, ma questo piccolo gioiello non va dimenticato, perché contribuisce a pieno titolo a raccontare un pezzo di storia, a fotografare in bianco e nero una realtà sociale che ha prodotto piaghe, ma che ha visto crescere anche qualche albero su un terreno insidioso.
Betty ha raccontato tutto, le condizioni di vita, la povertà, le speranze, l'amore, il lavoro, l'infanzia, la tenacia ed il riscatto.
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Tra i sassi di Alento
“Cade la terra” è il primo romanzo della storica Carmen Pellegrino, classe 1977.
L'interesse dell'autrice per i borghi e gli insediamenti abbandonati dall'uomo, l'hanno portata ad elaborare un racconto che trae respiro e fonte di ispirazione da un piccolo paese inghiottito da un monte che si sbriciola inglobando tutto ciò che sta sul suo cammino.
Il mistero ed il fascino di case abbandonate, fanno riflettere sulle vite accolte da quelle mura cadenti, sui volti e sulle storie che si sono compiute, sui riti quotidiani, sulle voci che risuonavano da mattina a sera.
Il flusso narrativo che la Pellegrino adotta, assume le sembianze di un mosaico, dove si alternano tessere scure come le disgrazie della vita e tessere colorate come sprazzi di sole e squarci di cielo azzurro sulla vegetazione rigogliosa della montagna che spinta da forze inarrestabili scende a valle.
Le storie narrate dall'abile penna cantano vite interrotte, spezzate, piegate dalla volontà di un destino cieco. Si mescolano atmosfere riconducibili ad un mondo permeato di epicità ad atmosfere dense di realismo, con un bagaglio di immagini fotografiche che fanno vibrare nell'aria emozioni prorompenti.
L'autrice dimostra di cercare una strada narrativa personale sia sul fronte stilistico sia per l'elaborazione del contenuto.
La narrazione frastagliata e stratificata potrebbe apparire un neo di questa intensa storia corale, ma diviene un ottimo strumento per raccontare tante vicende personali e familiari che si dividono quel pugno di case frananti, per raccontare il prima e il dopo di ciascuno, per ritrarre vita e morte alternando le voci provenienti dal passato ai silenzi di oggi.
Al termine della lettura, si apprezza la capacità di aver fatto parlare “i silenzi”, di aver colto la vita tra un ammasso di sassi di cui nessuno si cura più.
Carmen Pellegrino concorre al Premio Campiello 2015.
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Fumisteria
Torna ad essere riedita l'opera prima di Fabio Stassi.
Si tratta di un romanzo che vide la luce nel lontano 2006, quando la fama dell'autore non era consolidata come lo è oggi, dopo che i romanzi “L'ultimo ballo di Charlot” e “Come un respiro interrotto” l'hanno fatto apprezzare ad un pubblico più vasto.
“Fumisteria” vuole essere un omaggio alla terra siciliana imbevuta di tradizioni ataviche, crocevia di culture e di usi stratificati e consolidati come rocce.
Stassi parla di singole storie, di violenze, di privazioni, di faide, di ricatti, di amori sinceri e di sentimenti corrotti. Affiorano a pelo di pagina tutte le contraddizioni ed i nei di un territorio lontano, quasi dimenticato e avvolto in una cortina fumosa che rende tutto sfocato.
La vita scorre inesorabile nella polverosa Kalamet, il cui nome di pura fantasia non ne corrompe l'estremo realismo della ricostruzione, dove si incontra e si scontra una galleria di volti esemplare.
Un racconto che alterna il torbido delle pieghe di una terra problematica alla solarità del viso di un uomo dall'animo tenero come un bambino.
Denso ed intenso questo esordio letterario, stilisticamente originale e maturo, capace di mettere in luce una penna carica di potenziale.
Letto oggi, fa apprezzare ancora di più le qualità e la caratura dell'autore, la cui espressività è una nota costante della sua produzione, presente fin dagli albori.
Nell'attuale panorama, Fabio Stassi deve occupare una posizione di riguardo, non resta che sperare che il prossimo romanzo veda presto la luce, catapultandoci in un' altra storia.
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Oriente e Occidente
Come non definirlo “piccolo gioiello” il romanzo che Orwell dedicò al suo soggiorno birmano.
Una penna incredibilmente matura e ben definita fotografa un intreccio di storie ambientate nella Birmania ai tempi del dominio inglese.
Orwell con estrema maestria cattura i volti di culture differenti, partendo da immagini paesaggistiche e locali di una bellezza tangibile, descrivendo luoghi, colori e profumi colmi del sapore d'Oriente, di una terra lontana avvolta in tradizioni millenarie.
Dall'altro lato l'intrusione e la sopraffazione “dell'uomo bianco” tronfio di superiorità, borioso e irrispettoso, non interessato ad approcciare la diversità.
Il romanzo diviene una parabola umana, un racconto che si colora di un realismo deciso, sfociando in un mare di sofferenza, di ingiustizia, di degrado.
I volti degli uomini e delle donne che popolano il romanzo sono scolpiti nei lineamenti, segnati da smorfie di dolore, da mezzi sorrisi che anelano desiderio di amore o accettazione, da lacrime calde che solcano le guance dalla pelle scura o chiara.
E' una vita complicata quella che si vive nella colonia inglese, schiacciata quella degli indigeni da un clan di dominatori, scialba e monotona quella degli inglesi, padroni di una terra che sentono estranea e di cui rifiutano qualsiasi contaminazione socio-culturale.
Incredibilmente toccante e vero questo primo scritto di Orwell, denso di sentimenti, gonfio di lacrime e di interrogativi sulla condizione dell'uomo, sulla sua natura, sulle scelte e sulla capacità di autodeterminazione.
Un libro del 1934 che ancora oggi esprime contenuti preziosi.
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Voci dal Tibet
Testo scritto nel 1987 dal cinese Ma Jian, risultato non gradito al governo tanto da causarne l'esilio e l'imposizione di distruzione di tutte le copie in commercio.
Ma cosa conterranno mai di tanto scabroso questi cinque racconti ambientati in Tibet?
E' sufficiente leggere poche righe per comprendere che il Tibet narrato da Ma Jian è lontano dal clima di serenità, magia, silenzio; lontano dai profumi di una natura incontaminata, dai colori della terra e della vegetazione; lontano dai riti millenari, dalla ricerca di crescita spirituale, dal misticismo assoluto.
I volti e le storie esprimono dolore, ribrezzo, malvagità, mettendo in luce le contraddizioni, le piaghe taciute, le miserie di un'umanità perduta e abbandonata a se stessa, lontana dagli occhi dell'Occidente, relegata ad un isolamento geografico, politico e sociale.
Storie di vita forti, a tal punto cariche di intensità da viaggiare sulla linea sottile tra realtà e leggenda, talora nitide talora avvolte nelle nebbie delle valli tibetane.
Notevole l'effetto lirico di un'ottima penna, capace di catturare sguardi, pensieri, volti emaciati, gesti brutali, ritratti di quiete, di disperazione o di sottomissione.
Uno scritto pubblicato in Italia solamente nel 2008, ma utile per far luce su una terra ammantata da un fascino misterioso, una terra spesso dimenticata o poco conosciuta in tutte le sue molteplici sfumature.
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Professione archeologo
Risale al 1975 la pubblicazione di un corposo e splendido romanzo firmato Irving Stone, si tratta de “Il tesoro greco”.
Leggendo l'opera si comprende presto quanto stia stretto l'appellativo di romanziere a Stone.
Il racconto della vita del signor Heinrich Schliemann, precursore archeologo per passione e vocazione è talmente dettagliato e supportato da ricerche minuziose da evadere dalla definizione di romanzo storico; le licenze che l'autore si concede nella costruzione delle singole giornate e dei dialoghi tra i personaggi, si fondono alla perfezione con il tempo ed i luoghi narrati, facendo scaturire pagine e pagine di vita quotidiana che hanno sapore di Storia e non di finzione.
La vita di Schliemann, scopritore dei primitivi insediamenti della Troia cantata da Omero e di Micene in Grecia, è stupefacente di per sé, ma la mano di Stone ne disegna un ritratto come uomo e come archeologo degno di essere conosciuto, per approfondire gli studi intrapresi dal tedesco, le tecniche di scavo messe in atto, l'organizzazione capillare che funge da motore alle campagne di ricerca archeologica.
L'ambientazione di fine Ottocento è impeccabile, i territori greci e turchi sono palpabili, immersi nei loro odori, colori, usi e costumi oggi desueti, cristallizzati in queste pagine.
La penna di Stone è corposa, arrotondata, rigogliosa, ma non una parola o un'immagine può dirsi superflua.
Purtroppo è una penna che ha terminato di scrivere nel 1989, causando una gran perdita a chi si è affezionato alla sua maniera di raccontarci la vita di alcuni grandi della Storia, trovando la giusta misura tra narrazione e approfondimento storico-biografico.
Attualmente il panorama letterario inerente al genere, non propone nulla che sia all'altezza de “Il tormento e l'estasi”, “Brama di vivere”, “Darwin” e lo stesso “Tesoro greco”.
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Il sosia
"Il sosia" è uno dei romanzi più complessi di Dostoevskij.
Il personaggio si sdoppia portando alla luce un alter ego bisbetico, invadente e maligno che spunta tra le pagine in sordina per poi prendere il sopravvento su ogni concetto di logica e razionalità.
La lettura è una strada in salita, costellata da burroni profondi dove non filtra la luce della ragione.
I pensieri del protagonista si inanellano e si torcono su se stessi fino a divenire un labirinto asfissiante per chi legge.
Dopo il primo tratto narrativo è d'obbligo chiedersi quale fosse l'intento originario dello scrittore e se il risultato rispecchi le aspettative iniziali dello stesso.
Questione ardua da definire, perché si stenta a capire se l'eccessiva natura contorta del costrutto narrativo sia una scelta consapevole o se la rappresentazione dello sdoppiamento di personalità del protagonista sia sfuggito di mano.
L'argomento da trattare non è affatto semplice, come tanta parte di altra letteratura ha dimostrato nei tempi, motivo per cui è comunque interessante avvicinarsi alla lettura del romanzo per capire l'approccio del russo al tema.
Trovo preziosa e degna di nota una chiave di lettura all'opera di Dostoevskij suggerita da Stefan Zweig nel suo saggio sull'autore, in cui mette in luce le affinità degli stati d'animo dell'autore russo, condizionati anche dalla sua patologia neurologica e dalle problematiche personali, con le opere partorite, evidenziando come momenti di lucidità e di annebbiamento potessero riflettersi sugli spunti narrativi.
Sia che si tratti di opera volutamente cervellotica sia che manchi involontariamente di linearità narrativa sia che rispecchi uno stato d'animo tormentato di chi scrive, rimane un romanzo da conoscere.
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Una Cina senza veli
Non capita spesso di trovare un testo che parli di storia di un paese e che avvolga il lettore spronandolo ad avanzare nella lettura rendendolo quasi vorace pagina dopo pagina, senza avvertire il minimo sentore di pesantezza.
Questo significa leggere “La porta proibita”, seguendo la voce di Tiziano Terzani che racconta la “vera” Cina.
Il racconto risale agli anni Ottanta e restituisce una galleria di immagini, scorci, aneddoti incredibili, proprio per la genuinità della penna che li descrive.
Terzani prima che giornalista interessato a confezionare un buon reportage, risulta essere un uomo che ha percorso in lungo ed in largo le regioni dello sterminato territorio cinese, avvicinandosi alle persone, frequentando zone non turistiche, cercando con ogni mezzo di indagare una cultura distante dall'Occidente, osservando un paese in cui le scelte politiche e sociali dell'ultimo secolo hanno creato piaghe difficili da sanare.
Terzani snocciola senza remore le pecche cinesi, gli errori dei burocrati, le ideologie col paraocchi, le politiche sociali abominevoli.
Uno spaccato di grande valore documentaristico, una penna che affonda gli artigli in argomenti di cui non è gradita la divulgazione.
Un libro trascinante, in cui l'autore non riesce a rimanere distaccato da ciò che scrive, coinvolgendo il pubblico in una lettura carica di pathos, lontana dalla freddezza trasmessa da certa saggistica e più corposa nel contenuto.
Contenuto certamente di forte impatto per la validità della ricostruzione storica e per la capacità di instaurare un parallelo passato-presente di un paese dalla cultura millenaria.
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