Opinione scritta da archeomari

216 risultati - visualizzati 101 - 150 1 2 3 4 5
 
Classici
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    16 Agosto, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Storia di un bellissimo giglio

“Perché chiamiamo illusioni le idee generose, e quelle meschine le chiamiamo verità?”.

Questa è la storia di Lily Bart, un bellissima giovane donna, nata per allietare e decorare i salotti dell’alta società newyorkese di fin de siecle, con la sua intelligenza, i suoi modi, il suo spirito.
Lily: il nome evoca la bellezza e la delicatezza di un giglio che spande il suo profumo tutt’intorno. Bella, delicata e sola. Diseredata dall’unica sua familiare che nel testamento le lascia solo le briciole, abbandonata dalle amicizie ipocrite che prima se la contendevano come un ninnolo prezioso nel proprio salotto, Lily sarà esposta ai pettegolezzi, alle chiacchiere nate dagli equivoci e verrà esclusa da quel mondo, da quel milieu, in cui lei aspira vivere, che aspira frequentare quale suo habitat naturale.
“Quando c’è di mezzo una donna, la verità è la versione più facile a credersi”.

Edith Wharton nel suo quarto romanzo, pubblicato nel 1905, ha toccato un materiale incandescente, scomodo, e lo ha sfruttato per creare un personaggio indimenticabile, anello debole di una catena destinata ad estinguersi, sorretta dalle ipocrisie e dai lustrini delle apparenze. La scrittrice americana con la sua raffinatezza si è sempre distinta nei suoi romanzi per la costante lotta alle ipocrisie del bel mondo newyorkese e per il suo anticonformismo.


“Il cuore del saggio è nella casa del pianto, ma il cuore degli stolti è nella casa della gioia”. Questo versetto dell’Ecclesiaste ispira il titolo dell’opera e la storia di Lily Bart.
Non una casa, ma tante le case che ospitano la nostra eroina nelle varie vicende che abbracciano circa due anni, dalla lussuosa villa dei Trenor a Bellomont, alla country House di pessimo gusto dei Gormer, fino alla spoglia e disadorna cameretta delle ultime pagine. Una parabola discendente con parallelismo di tipo “architettonico”: dal successo mondano all’esclusione del mondo, dalle ville lussuose agli ambienti più umili e desolanti. Tale il percorso di Lily.

Non è possibile vivere nei salotti del bel mondo se mancano i tanto prosaici soldi. Chi li possiede non si dà pensiero di loro, ma essi assillano chi ne è a corto. Serve denaro per procurarsi i vestiti all’ultima moda dalla sarta, cappelli e accessori per mostrarsi sempre “fresche e raffinate e divertenti”, mantenere una carrozza, andare all’opera, provvedere alle proprie necessità ed ai propri lussi e vizi, tra cui giocare a bridge con le proprie amiche e fumare pregiate sigarette. Gli amici che si propongono di ‘aiutarla’ sono pazzi di lei e vogliono ricompense non propriamente economiche; lettere compromettenti , intrighi, ricatti, occhi ed orecchie che spiano, equivoci e la reputazione di Lily è perduta. L’unica persona che può offrirle il proprio cuore in maniera disinteressata è l’avvocato Lawrence Selden, un personaggio outsider, che frequenta il bel mondo, osservandolo dai margini e che possiede un buon gusto proprio, naturale, una filosofia di vita che lascia ammirata Lily “forse, lei lo ammira perché era in grado di trasmettere il netto senso di superiorità che solo i più ricchi sapevano ispirare”.
Selden in un appassionato dibattito con Lily aveva detto che “la mia idea di successo è la libertà personale (...) libertà da tutto: dai soldi, dalla povertà, dalla ricchezza e dall’ansia, da tutti gli ostacoli materiali. Vivere una sorta di repubblica dello spirito: ecco quello che definisco successo”.
Una repubblica dello spirito da cui Lily è esclusa a priori visto le sue ambizioni e le sue ristrettezze, non solo, ma per lei Selden non è un partito adatto ai suoi sogni brillanti di successo mondano.
Questo romanzo mi è piaciuto tantissimo soprattutto per lo stile della scrittrice, per la capacità di analizzare fino alle radici una società in trasformazione, inquinata da un degrado morale tacitamente accettato in maniera ancora più incisiva rispetto al suo romanzo più famoso, “L’età dell’innocenza”. Il personaggio di Lily, dalle prime pagine troppo vanitoso, troppo consapevole della propria bellezza, presa dal desiderio ossessivo di piacere a tutti prende in seguito tutte le simpatie e tutta la solidarietà del lettore. Una penna che rende in maniera originale e cristallina tutte le sfumature di un animo femminile in dissidio e tormentato.
Un libro che si divora. Avvertenza al lettore sensibile: il finale è commovente.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Interessante il confronto con l’eroina de “Il risveglio”della Wharton, per le affinità nonostante la diversità di linguaggio e di ispirazione dei due romanzi
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    14 Agosto, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Sentimenti instabili e forti contraddizioni

Si esce straniati da questa intensa lettura.
Una storia ben scritta, incentrata su quei sentimenti come la paura e la vergogna che ti impediscono di amare, e rischi di non amare nessuno. Credi di essere innamorato, ma la vergogna e la paura o il rimorso ti impediscono di vivere.
È una storia in cui i personaggi principali vivono continuamente tra sentimenti instabili e fortissime contraddizioni.

Scritto in prima persona, la voce narrante è quella di un giovane americano, David, orfano di madre, che vive col padre e la zia nubile. David scopre di essere omosessuale durante una notte passata col suo amico Joey: da quel momento comincia un percorso in cui il giovane, preso dalla forte vergogna per il proprio corpo e i propri istinti, cerca in tutti i modi di redimersi e di fuggire da se stesso e dall’America, lontano dal padre poiché stava succedendo

“quello che inevitabilmente succede alle persone molto giovani con gli adulti: stavo cominciando a giudicarlo. E tutta la durezza di quel giudizio,che mi spezzò il cuore, mi rivelò, sebbene non sarei stato in grado di esprimerlo allora, sia quanto l’avessi amato,sia quanto quell’amore, insieme alla mia innocenza stesse morendo”.

Fuggire alla propria coscienza, mentendo a se stesso sarà il più grave sbaglio della sua vita: recherà dolore a se stesso e a coloro che lo amano.
A Parigi incontra un giovane barman italiano, Giovanni e, nonostante fosse già impegnato con una bella ragazza, Hella, che al momento è in Spagna, comincia una relazione con lui e va a vivere nel suo monolocale, grande quanto una stanza, nei quartieri più poveri della città. Vivono splendidi momenti insieme, David tira a campare coi soldi che gli manda il padre dall’America. Una vita a due, due uomini che si amano, un idillio fino a quando Hella scrive a David per avvisarlo che sta per tornare.
Da quel momento l’atteggiamento del giovane cambia radicalmente. Il pensiero di dover guardare Hella negli occhi lo fa sentire sporco e comincia a provare sensazioni contrastanti, voltastomaco e anche desiderio nei confronti di Giovanni che nel frattempo si è affezionato a lui e lo venera come un dio. David non gli dice subito la verità.
Se dall’America era riuscito a fuggire dalla vergogna di incontrare Joey, in Europa non ha più scampo: quando Hella torna, torna anche la vergogna per se stesso e per quello che aveva fatto a Giovanni.

“Le persone che ritengono di essere decise e padrone del proprio destino possono continuare a crederlo solo diventando maestre dell’auto-inganno”.

Il romanzo è breve e non posso dire troppo, ma posso segnalare: l’interessante personaggio di Hella, fidanzata di David, piena di contraddizioni, che ha paura dei legami e allo stesso tempo desidera sposarsi perch così “si sente donna”: la tematica dell’americano a Parigi, o in generale in Europa, troppo lontana dalla propria realtà per cui è radicata la convinzione, lo stesso Henry James e Hemingway (Fiesta) lo sapevano, “gli americani non dovrebbero mai venire in Europa, significa che non potranno mai essere di nuovo felici”. I richiami a Henri James, a Oscar Wilde, a Conrad sono assicurati, soprattutto per quanto riguarda la tematica del riconoscimento/ rivelazione , sembrare ed essere, la confusione sulla propria identità.

Un libro breve, intenso, da leggere a sorsi.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Per chi ama i libri che scandagliano l'animo, le lotte interiori.
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    10 Agosto, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Yo-ho-ho e una bottiglia di rum!

“Ma una cosa almeno l'ho capita. C'è della gente che neanche sa di vivere. È come se non si rendesse neppure conto che esiste. Forse è proprio qui la differenza. Io ho sempre avuto cara la pelle attaccata a quel poco che mi rimaneva del corpo. Meglio condannati a morte che impiccati con le proprie mani, dico io, se proprio si è costretti a scegliere. Niente di peggio dei nodi scorsoi, a mia conoscenza”.

Questo libro è stata una sorpresa, non credevo che fosse così bello! Volevo un libro intenso e coinvolgente che parlasse di pirateria e di mare, ma ho trovato anche una bella penna di qualità, quella dello svedese Björn Larsson.
Con questo libro il desiderio di avventura va a nozze con la qualità della letteratura nordica. Opera edita nel 1998 da Iperborea, una casa editrice che seguo con piacere e curiosità.

Chi può dimenticare, il famigerato pirata de ‘L’isola del tesoro’ di Stevenson?
Bene, questo è il racconto di tutta la sua vita, dall’infanzia alla fine (57 anni)comprendente avvenimenti accaduti prima e dopo quelli narrati nel celebre romanzo. La storia è narrata in prima persona, proprio dal celeberrimo pirata Long John Silver che decide di scrivere le sue memorie, senza tralasciare o indorare nulla, prima di tirare le cuoia, sperando che vadano nelle mani giuste, affinché la sua fama non muoia.
Durante queste memorie, interrompe ogni tanto il racconto della sua vita per ricordare l’incontro con Daniel Defoe, autore non solo del celeberrimo romanzo ‘Le avventure di Robinson Crusoe’, ma anche di un interessante scritto, ‘Storie di pirati’, in cui, secondo John Silver, il famoso scrittore non aveva ben capito lo spirito profondo, le motivazioni nascoste che stanno dietro alla vita di un pirata, limitando questi “gentiluomini di ventura” a semplici razziatori, sanguinari, bevitori, commercianti di schiavi, terrore di tutti i mari.

“Questa era la vita dei pirati, signor Defoe, (...) Non eravamo come gli altri marinai. Le nostre navi non navigavano per arrivare da qualche parte. Ci chiamavamo fratelli e compagni , ma la famiglia e gli amici erano l’ultimo dei nostri pensieri. I benpensanti ci chiamavano nemici dell’umanità, e in un certo senso, avevano ragione, perché nessuno poteva essere nostro amico, neppure noi stessi. No, avevamo la memoria corta, e così doveva essere, sul piano umano, se volevamo conservare il buon umore. (...) Ne avevamo visti troppi inghiottiti nel mare dell’incertezza, che era quello in cui vagavamo come anime in pena senza lasciare scia né onde di prua”.

In realtà Silver fa una tiratina d’orecchi anche a Jim Hawkins, protagonista del romanzo di Stevenson, ma non vi posso anticipare questa parte, poiché interessa le pagine finali del libro di Larsson e troverete la risoluzione finale geniale e in linea con lo spirito unico di Long John Silver, presa di ferro in mani di velluto...ah quelle mani! poi scoprirete come mai teneva tanto alla morbidezza delle sue mani!
Scoprirete cosa combina ai danni di vari capitani e pirati da lui conosciuti (realmente esistiti), scoprirete di quali slanci è capace e rimarrete anche colpiti per le menzogne che accumula man mano sulla coscienza, conoscerete le sue paure e la sua follia, amerete la sua parlantina simpatica, condita di autocompiacimento qui e là.
Leggerete delle donne che ha conosciuto...poco meno di cinquecento pagine che si leggono velocemente e che hanno il potere di calamitare gli occhi e l’attenzione di chi legge per ore ed ore, senza mai provare noia.
Qualcuno potrebbe obiettare che in questo romanzo gli avvenimenti narrati da John Long Silver non abbiano la stessa dose di avventura del romanzo di Stevenson. È vero solo in parte. La Jolly Roger sventola a tutta forza: ammunitamenti, rivolte, esecuzioni capitali, viaggi, storie di altri pirati (Roberts, Hands, England, Barbanera, Flint...), di capitani, storie di commercio di schiavi (lo stesso Silver -chi l’avrebbe mai detto!- si farà vendere all’asta come schiavo), però bisogna tener conto che si tratta di memorie, quindi il sapore è quello di un bilancio di un uomo unico nel suo genere che, quando ormai sente la fine dei suoi giorni avvicinarsi, decide di mettere ogni fatto per iscritto:

“Chi avrebbe potuto credere che sarebbe finita così? L’avventurosa e veritiera storia di John Long Silver, detto Barbecue dai suoi amici, se mai ne ha avuti, e dai suoi nemici, che invece erano di sicuro tanti. Basta con le buffonate e le invenzioni. Basta con i bluff e le sparate. Scopriamo le carte (...). Solo la verità, da cima a fondo, senza trucchi né secondi fini”.

Quanti passi che ho sottolineato, quante cose che ho imparato (linguaggio dei pirati, usanze, il matelotage...) e quante volte ho sorriso! un libro indimenticabile che colpisce, perché l’idea di fondo è interessante ed è scritto bene. Intrattenimento e profondità garantiti.







Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Si può anche leggere senza conoscere “L’isola del tesoro”.
Consigliato a chi ama biografie di uomini unici, storie di mari e di pirati.
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    03 Agosto, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La genetica in crittogrammi musicali

Finalmente tradotto in italiano dalla bravissima Licia Vighi, già traduttrice di Sussurro del mondo, vincitore del Pulitzer dell’anno scorso, THE GOLD BUG VARIATIONS approda in Italia con ventinove anni di ritardo! E non è mai troppo tardi per i bei libri!

Scienza, musica, arte, informatica e due storie d’amore sovrapposte. Un romanzo-mondo, espressione felice se abbinata a questo voluminoso libro. Niente è messo lì per caso, perché la Natura non fa niente senza un perché ed anche Powers sembra piegarsi a questo assioma. Ogni pagina ha una sua necessità, anche il titolo originale: The Gold Bug Variations infatti si rifà sia a Lo scarabeo d’oro di Poe e sia a Bach tramite un gioco di suoni, The Goldberg Variations. E ...

“Cosa potrebbe esserci di più semplice? Quattro
note scendono dal Sol lungo i gradi della scala.
Quattro siffatte battute sviluppano
quattro frasi, poi si torna al principio”.

Quattro.
Quattro le stagioni, i quattro punti cardinali, quattro le lettere del tetragramma, quattro le basi che formano gli acidi nucleici del DNA. Quattro le note basilari di un componimento musicale di Bach. “Quattro i corpi paralizzati dal desiderio al centro di un mondo brulicante di specie”.

Ecco spiegato anche il perché del titolo in italiano: ogni terza variazione dell’opera di Bach citata è detta canone e il desiderio, visto non solo come spinta sessuale, ma come motore della conoscenza è alla base di ogni ricerca in ambito scientifico, oltre ad essere l’attrazione che spinge due persone ad amarsi. Certamente la scelta editoriale de La Nave di Teseo, così come per l’altro libro di Powers, The Overstory tradotto con Sussurro del mondo, è stata fatta per rendere più accattivante l’opera, (tenuto conto del fatto che il lettore medio sceglie le sue letture in base ai titoli ed alle copertine).

Il quattro è al centro di uno schema magico cui il dottor Stuart Ressler , il personaggio più affascinante dell’intero romanzo, dedica tutte le sue energie per riuscire a codificare il DNA, la trama segreta della vita. Attraverso intuizioni illuminanti riesce, grazie alla donna di cui si innamora, Jeanette Koss, che lo avvicina alla musica, in particolare alle variazioni di Goldberg di Bach, a individuare in quest’opera la metafora più vicina al problema della codifica del DNA, la combinazione polifonica dei numeri, la musica alla base della vita umana, di questa particolare “scala di Giacobbe”, con una struttura molecolare a spirale con “due ringhiere appaiate che si attorcigliano luna all’altra” destinate a non incontrarsi mai.
Anche l’opera di Poe serve a Ressler da stele di Rosetta della genetica per ottenere la chiave di accesso dei codici cifrati, ma non si tratta assolutamente del comune gioco del cruciverba, decisamente no. Bisogna stare attenti a non confondere il messaggio della sequenza delle basi dei nucleotidi, con il meccanismo che serve a decifrare codici segreti.
La vita non è altro che una elaborata permutazione su un originale messaggio di quattro basi: timina, citosina, adenina e guanina. Usando le iniziali si possono ottenere una lunga serie di combinazioni.
Tutto il libro è ben architettato e ben connesso nelle sue parti, proprio come la filosofia alla base degli studi del dottor Ressler che tiene conto di tutte le relazioni e le connessioni possibili tra le cose, perché “ogni cosa è tale grazie a tutto il resto”.

La storia è per gran parte un lungo flashback a più piani temporali sovrapposti: il dottor Ressler è morto e il suo pupillo e collaboratore Franklin Todd e la bibliotecaria Jan O’Deigh, uniti dall’amore reciproco e dalla smisurata stima per il vecchio scienziato, cercheranno di ricostruire la sua straordinaria storia per far conoscere al mondo la melodia che c’era dentro di lui. Ed è così che il lettore conosce la storia d’amore delle due coppie Ressler-Koss e Todd-O’Deigh, narrate in concomitanza dall’inizio, in mezzo alla storia delle genetica molecolare, a importanti nomi della scienza moderna. Il difficile percorso di Ressler, le sue intuizioni magiche campeggiano in tutto il romanzo e la parte più ‘rosa’ - voglio tranquillizzare i lettori- è veramente minoritaria, anche se confesso, densa e coinvolgente.
Aggiungo: necessaria. Sì, necessaria per bilanciare e alleggerire con un pizzico di poesia e di erotismo -non esplicito - tutta l’opera.

Un libro bellissimo, in America è paragonato alle opere dei grandi scrittori del modernismo Don DeLillo e Pynchon. La prosa di Powers è scorrevolissima, così evocativa, così piena di perifrasi, metafore, spesso logorroica come un fiume in piena, ma che conserva sempre una sua delicatezza ed una sua musicalità (in italiano ciò è merito della eccellente traduzione). L’erudizione di Powers è notevole: citazioni e richiami derivanti da ogni ambito della conoscenza esatti e puntuali: arte, letteratura classica greco romana e contemporanea, astronomia, storia di ogni epoca, curiosità, chicche scientifiche. Bisogna immergersi nella lettura e segnare spesso cosa cercare nell’enciclopedia, a meno che non siate dei pozzi di scienza (ciò è quasi impossibile, anche se certamente augurabile).

Il libro è voluminoso e abbastanza impegnativo, è consigliato ai lettori ben motivati.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A chi apprezza l’autore e il modernismo americano ( in particolare Don DeLillo, Pynchon)
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    02 Agosto, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Tragedie senza alternative

Ultimo romanzo di Hardy, per la critica il più importante e rappresentativo dell’autore insieme a Tess dei D’Urberville. Un’opera che fece scalpore all’epoca della pubblicazione (era il 1896) e che un vescovo bruciò appena dato alle stampe, perché contenente idee contrarie alla morale religiosa.
Jude Fawley, orfano, cresciuto dalla zia che non fa altro che ripetergli che sarebbe stato meglio che non fosse mai nato, perché povero e perché sulla sua famiglia sembra incomba una maledizione che fa finire in tragedia ogni matrimonio, si mostra subito un sognatore di grande forza di volontà e puro di cuore, sensibile all’arte e verso la natura.
L’epiteto di ‘oscuro’ potrebbe far pensare ad un uomo fosco, dall’indole inquieta e inquietante, in realtà è oscuro perché troppo umano, per amore rinuncia ai suoi sogni di diventare un uomo colto ed erudito, arrivando a ignorare le convenzioni ipocrite della morale cristiana, all’ombra della quale era cresciuto.
È vero che la povertà gli avrebbe di per sè già impedito di iscriversi all’Università, nonostante il lodevole impegno di dedicare le ore del sonno agli studi da autodidatta, dopo una dura giornata di lavoro manuale, ma fondamentalmente due sono i grandi impedimenti alla realizzazione dei suoi sogni. Due impedimenti, due donne: Arabella, un amore immaturo, convolato frettolosamente a nozze, un passo falso commesso in gioventù , e Sue, un sentimento più forte e maturo, sua cugina, delicata e sensibile.
Gli oscuri natali di Jude rimandano sicuramente alle celebri opere di Charles Dickens e di George Eliot, ma il resto del libro ricorda il libro di Giobbe, più volte citato nel romanzo. Stavolta, rispetto ai primi romanzi di Hardy, che ho letto quasi tutti, manca il gusto gotico per l’ambientazione e storia, tipicamente vittoriano e le continue citazioni bibliche, qui ridotte sensibilmente.
Rimangono alcuni residui però delle tradizioni popolari, ad esempio nella credenza dell’elisir d’amore, come quello che Arabella si procura per riconquistare di nuovo Jude, e l’attenzione per i umili lavori manuali, i mercati, le fiere, i reperti archeologici del Wessex, ora Dorset, l’eterno palcoscenico di quasi tutti i romanzi hardiani.

Interessante, affascinante la storia di Jude, le sue vicissitudini dall’infanzia alla fine. Dinamico il personaggio di Sue, che non riconosce nel matrimonio la legittimazione dell’amore e soprattutto “la sistemazione” di una donna emancipata e teme che il sesso possa far sfiorire l’intensità dell’amore; grottesca la rozza e sensuale Arabella, prima moglie di Jude, che passa da un uomo all’altro.
Un libro che, con qualche taglio - sappiamo che l’autore ne fece già parecchi a causa della pruderie della società del tempo- avrebbe meritato tutte le stelle che un grande classico merita. La storia triste di Jude, della fine delle sue aspirazioni, del suo amore per Sue, è una passeggiata a braccetto con la tragedia. Quasi tutti i libri di Hardy escludono l’idea positiva del progresso e di crescita, di ogni realizzazione personale nonostante gli immani sacrifici di chi nasce sfortunato. A questo punto sembra più che legittima l’affermazione di Tinker Taylor, un avventore di taverne ed ex negoziante di ferramenta per chiese, conosciuto da Jude:

“Siete sempre stato un appassionato dei libri, mi è parso di aver capito. Io ho sempre trovato che c’è da imparare più dalla vita che da un libro; e se non avessi agito in conformi alle mie idee, non sarei certo diventato l’uomo che sono”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Gli altri romanzi di Hardy, in particolare Tess dei D’Urberville
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
3.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    24 Luglio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Spietato cinismo e tanta ironia

La mia modesta recensione non renderà mai merito alla grandiosità di questo intenso libro. Non so neppure da dove cominciare per parlarvene. Ho avuto qualche difficoltà nelle pagine iniziali, poi la lettura è stata più scorrevole.
Il titolo è già evocativo al massimo grado: è veramente un viaggio, un percorso fisico e spirituale attraverso una metaforica notte. Quale notte? Quella del buio morale dentro l’animo delle persone, quella della grande paura della guerra, quella dell’alienazione dell’uomo alla macchina.
La personalità stessa dell’autore ha i suoi chiaroscuri, le sue inquietudini e le sue contraddizioni. Céline era un “medico che sapeva tutto della vita, un uomo di estrema lucidità, disperato, freddo e tuttavia passionale” scrisse di lui l’editore francese Denoël che volle incontrarlo dopo aver letto il voluminoso dattiloscritto, consegnato senza nome.
E il protagonista, l’io narrante dell’opera è uno studente di medicina, Ferdinand Bardamu, che può essere considerato l’alter ego dell’autore stesso, i riferimenti autobiografici sono palesi: la sua partecipazione come volontario alla prima guerra mondiale, l’esperienza in Africa e poi in America, la professione di medico una volta tornato in Francia.

Il libro venne pubblicato nel 1932 e suscitò scandalo ed anche entusiami.
Il “Voyage” è un viaggio reale, nei vari paesaggi umani e fisici e un viaggio simbolico attraverso la degradazione morale dell’uomo, attraverso il buio della morte individuale e sociale. Bardamu conosce la durezza della guerra, si arruola diciottenne come volontario, prova le sofferenze e le privazioni al limite della sopportazione raggiungendo in giovane età un inaudito distacco verso il terribile spettacolo della povertà, della fame, della morte. Fa amicizia con un certo Robinson, che potrebbe essere quasi considerato il suo doppio e che compare sporadicamente nei momenti più difficili della sua vita, miracolosamente.
La prima tappa del viaggio è descritta, per dirla con Giovanni Bogliolo, compianto accademico, come “la grande epopea della paura”, la macchina distruttrice di vite e di civiltà, la prima guerra mondiale

Dalla prigione, ci esci vivo, dalla guerra no. Tutto il resto, sono parole.

Una volta in Africa, al servizio di una modesta società commerciale, Bardamu si scontra contro la crudeltà degli speculatori bianchi verso gli indigeni, che subiscono passivamente sevizie e maltrattamenti. A Tapeta (capoluogo inventato dell’immaginario Stato africano Rio de Rio)Bardamu, agonizzante a causa dei continui malesseri e della febbre che lo tormentano, verrà venduto da un prete come schiavo rematore su un galeone in partenza verso gli Stati Uniti.

“È che non conoscevo ancora gli uomini. Non crederò più a quello che dicono, a quello che pensano. È degli uomini e di loro soltanto che bisogna aver paura, sempre”.

Giunto nel nuovo continente, Bardamu è alla prese con l’isolamento morale, con una una società ostile inebetita dal fordismo, profeticamente, parla di alienazione dell’uomo alla macchina:

“Nessuno mi parlava. Esistevi solo grazie a una specie di esitazione tra l’inebetimento e il delirio. Importava soltanto la continuità fracassona di mille e mille strumenti che comandavano gli uomini. Quando alle sei tutto si ferma ti porti il rumore nella testa, ne avevo ancora per la notte intera di rumore e odore d’olio proprio come se mi avessero messo un naso nuovo, un cervello nuovo per sempre. Allora a forza di rinunciare, poco a poco, sono diventato quasi un altro... Un nuovo Ferdinand”.

Tornato a Parigi, sceglie di vivere di espedienti, completa gli studi in medicina e lavora come medico. C’è un grosso problema però: Bardamu si vergogna a farsi pagare. È perciò sempre chiamato dai poveracci e vive in povertà. L’opera, tutta l’opera, ha per protagonisti infatti personaggi poveri ed equivoci, donne facili a scaldare i letti, e facili a tradire per mera sopravvivenza. Un caleidoscopio della malvagità, in cui il rigore morale di Bardamu si scontra contro la degradazione e soffre a doversi adeguare. L’ironia, il grottesco, una sorta di umorismo nero spesso però mi hanno strappato qualche sorriso.

La sua prosa nuova, diversa, fatta di espressioni gergali, dure, oscene, si arricchisce col linguaggio dei reietti, perché Céline vuole adottare il punto di vista dei poveri e degli emarginati, quelli sputati fuori dalla società. Uno stile di rottura con la classicità della lingua francese, un vero e proprio jazz linguistico, con dislocazione delle parole, anticipate o posticipate nella frase per il moltiplicarsi di risonanze nuove, mai udite.

Impressionante ciò che Céline dice di se stesso ad un giornalista
“Io devo entrare nel delirio. Come scrittore mi trovo bene solo in un grottesco ai confini della morte. A tutto il resto sono insensibile”. (“Cèline, ovvero lo scandalo di un secolo”, Ernesto Ferrero, interessante scritto del traduttore, nelle ultime pagine dell’edizione Corbaccio).

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Interessante il confronto con Sartre (nichilismo)
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
2.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    20 Luglio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un ‘armonioso’ triangolo

Quanto mi costa stroncare la Maraini, che ho tanto amato in “La lunga vita di Marianna Ucria”, in “Colomba”, “Buio”! La Maraini è una delle più importanti scrittrici italiane e la mia opinione è umile, ma dettata da una profonda delusione.
Questo breve romanzo (112 pagine) non mi è piaciuto. E probabilmente la mia è una voce fuori dal coro, perché ci sono recensioni positive e articoli che esaltano questa storia di un’amicizia tra due donne, più forte dell’epidemia di peste che le ha separate e dell’amore che provano per lo stesso uomo.
Due le motivazioni della mia delusione: non c’è la ricostruzione storica cui la scrittrice mi aveva abituata in ‘Marianna Ucria’ -forse è comprensibile vista la brevità del libro, quindi di storico c’è solo l’accenno alla peste del 1743 - e ho trovato assolutamente inverosimile il triangolo amoroso Agata-Girolamo-Annuzza.
Girolamo è sposato con Agata con la quale ha avuto una figlia, ma è innamorato ricambiato dalla migliore amica della moglie, Annuzza. Agata conosce tutto ciò, ma non rinuncia né al marito, poiché lo ama ed è il padre della sua bambina, né all’amica con la quale condivide ricordi di infanzia.
Una situazione troppa idealistica, troppo forzata. L’acme del paradosso è alla fine del libro, quando Agata scrive ad Annuzza che nella precedente lettera le aveva chiesto aiuto nel cercare un bravo marito cosicché possa finalmente dimenticarsi del bel Girolamo, marito di Agata:

“Ma cosa succederà a Girolamo se venisse a sapere che ti sei innamorata di un altro? (...) sono qui per pregarti di non smettere di amare mio marito, perché lo faresti soffrire e quindi lui farebbe soffrire me. (...). Ti sembro pazza?ti sembro dissoluta? (..)Annuzza ti chiedo di continuare ad amarlo, perché in questo triangolo si è creata una certa armonia che andrebbe persa se tu smettessi di cercarlo”.

Tutto il libro consta di questo: uno scambio epistolare tra due amiche innamorate dello stesso uomo, bellissimo come un dio, soggiogato dalla sua stessa bellezza. Sullo sfondo, una situazione molto simile a quella che stiamo vivendo ancora adesso: una epidemia con tanto di corpi abbandonati senza il conforto dei familiari, fosse comuni, lazzaretti sovraffollati, clima di incertezza, paura per chi viene dal paese vicino...solo che siamo a Messina, nel 1743.

Se cercate la Maraini dei grandi romanzi resterete delusi come me. Se invece la tematica dell’amicizia spinta agli estremi vi piace, sopporterete il parossismo che mi ha fatto storcere il naso. Una cosa è sicura: di meglio poteva fare!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
  • no
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    17 Luglio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

DONNE NELL’OMBRA

“Onnazaka” in giapponese vuol dire ‘Il percorso delle donne’.
In alcuni templi shintoisti ci sono due diverse scale: quella degli uomini, posta di fronte a chi guarda la costruzione e più veloce da percorrere, e quella delle donne, più lunga e riservata. Dal titolo conosciamo il succo di questa bellissima storia, toccante, intensa e profonda.
“Onnazaka” ha vinto, meritatamente, il più prestigioso premio letterario giapponese, il Noma Literary Prize, appena dopo la pubblicazione nel 1957. L’opera è ambientata in quel periodo ricco di fermenti politici e culturali, l’età Meiji, e la narrazione inizia quando in Giappone non esistono ancora né costituzione e né Parlamento, ma il potere è nelle mani di pochi funzionari imperiali dipendenti da un governo di tipo feudale.
L’opera è stata ispirata alle storie del ramo materno della famiglia della scrittrice Fumiko Enchi, a sua nonna in particolare, e a tutte quelle donne vissute nell’ombra del marito-padrone, schiacciate da una pesantissima etica femminile. Dare una voce a quelle donne vissute nell’ombra e nella sofferenza silenziosa è lo scopo di questo meraviglioso libro, uno dei più importanti della letteratura giapponese.
“Noi siamo donne che vivono nell’ombra, dobbiamo rassegnarci” sono le parole della protagonista, Tomo, moglie dell’importante funzionario Yukitomo Shirakawa, gran donnaiolo da sempre, che, dopo i primi anni di passione con la moglie, comincia a cercare tra giovani vergini piacenti, una inserviente personale per trasformarla poi in sua concubina sotto lo stesso tetto coniugale. Ma è capace di peggio: chiede alla moglie di recarsi in un quartiere di Tokyo a cercare per lui non una geisha, bensì una giovane piacente ancora illibata.
Tomo, il cui “forte temperamento l’aveva indotta a reprimere i suoi impulsi con l’obbligo morale di prendersi cura del marito e della casa” assolveva ai suoi doveri in maniera irreprensibile, quale scopo cui era destinata in quanto donna. “Tutto il suo amore e la sua intelligenza erano profusi nella vita familiare, di cui il marito era al centro”, per questo motivo si rende al tempo stesso vittima e complice di questo sistema patrilineare. Anche se lei è la protagonista indiscussa del romanzo, la prima concubina del marito, Suga, incarna, nella parte centrale del romanzo, la donna nell’ombra, quando il padrone si infatua di un’altra giovinetta che diventerà il suo nuovo diletto. Ragazzine come fiori non ancora sbocciati, vendute ipocritamente dalle famiglie come cameriere personali, nella piena consapevolezza del reale esito di quella disgustosa contrattazione.
Storie di fantasmi, tipiche dei racconti giapponesi, uomini che violentano inconsapevoli adolescenti con il beneplacito delle famiglie, storie di gelosie e solidarietà tra concubine, una moglie preda di terribili dissidi, odio-amore verso il marito, gelosia e orgoglio, senso del dovere e voglia di ribellione.
Lo stridore terribile all’interno dello stesso mondo “dei fiori e dei salici” tra la delicatezza struggente di immagini e pensieri e certi squallori che la storia del Giappone non può dimenticare.
Il pensiero buddhista e neoconfuciano sottendono tutta l’opera insieme ai continui richiami del famoso “Genji Monogatari”, capolavoro e patrimonio della letteratura mondiale.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
“L'edizione Safarà è ben curata, corredata da un glossario e da una bella postfazione di Daniela Moro.Rari refusi.
Consigliato a chi ha letto o voglia leggere della stessa autrice Onnamen e Namamiko Monogatari, entrambi ispirate al Genji Monogatari.
Trovi utile questa opinione? 
200
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    09 Luglio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La vita è dura, prima lo capisci e meglio è

L’acquaiola” di Carla Maria Russo , candidata allo Strega 2019, è un romanzo avvincente, scritto con una prosa lineare e asciutta, fondato sui valori del sacrificio, della lotta alla sopravvivenza e, di quello ormai dimenticato, dello spirito collettivo di solidarietà, tipico delle piccole realtà rurali.
La vita di Maria l’acquaiola, protagonista indiscussa del romanzo, è segnata dal lavoro duro fin dall’adolescenza, quando, per provvedere al mantenimento di se stessa e del padre malato, trasporta acqua presso la casa della famiglia di Don Francesco, un andirivieni continuo e faticoso, di solito affidato agli uomini, dalla sorgente alla ricca famiglia, più volte al giorno e sotto il sole cocente e le intemperie senza chinare mai il capo.

“L’acqua da prendere alla fonte ogni giorno dell’anno, più volte al giorno, con qualunque tempo: il sole di agosto, mentre il sudore scorre a rivoli e la polvere della strada toglie il respiro, la pioggia di ottobre, col fango che appesantisce gli scarponi e lega le gambe, la neve e il gelo dell’inverno, quando l’asino va tenuto con forza perché a ogni passo rischia di scivolare e il freddo spacca le mani fino a farle sanguinare”.

Il carattere volitivo di Maria, il suo spirito di indipendenza, nonché la sua povertà - ma non la sua bellezza- la rendono poco appetibile ai fini del matrimonio. “Gli uomini la ammirano ma temono di non riuscire a dominare una donna così. E che figura ci fa, un uomo, se non riesce a comandare la moglie?”.

Ci sono molti personaggi, il cui nome dà il titolo ad ogni capitoletto del libro: Luigi , che all’epoca dell’ingresso di Maria nella sua casa come acquaiola aveva pochi anni, lo vediamo crescere, innamorarsi di una locandiera, Saveria, affezionarsi a Maria; Ermes, figlio di Luigi e di Saveria; Nella, figlia di Maria e tanti altri personaggi secondari che fanno parte della piccola comunità in cui vive l’acquaiola che si era legata indissolubilmente alla famiglia del suo datore di lavoro.
Maria, amata da tutti, rispettata per la laboriosità, lo spirito di sacrificio, la forza di volontà, degne di un uomo, conserva questa stima presso i suoi vicini nonostante la disgrazia che le capita nelle prime pagine del romanzo, ma che non vi rivelo.
La frase che riassume la lucida consapevolezza della sua condizione è infatti “La vita è dura, prima lo capisci e meglio è”.

Spicca nell’opera la denuncia ai soprusi dei potenti e alla loro doppia morale, quella pubblica diversa ed opposta a quella privata, e, come detto all’inizio, anche quella della solidarietà del vicinato: “Ci si aiuta l’un l’altra, oggi tocca a te domani a me, la vita ha una dimensione collettiva, il privato non esiste quando gli usci sono l’uno accanto all’altro e i matrimoni generano relazioni così fitte e intricate che tutti, per un verso o per l’altro, sono parenti di tutti”.

Uno stile particolare che potrebbe non piacere a chi non ama i salti temporali. All’interno di uno stesso capitolo, infatti, l’autrice ci fa saltare interi anni della storia dei personaggi senza un preavviso, neppure, per così dire, “grafico” (capoverso). Questo all’inizio mi ha un po’ disturbato, anche se i salti temporali sono tutti in avanti e mai all’indietro.

Il romanzo è avvincente, si divora e avrebbe meritato il massimo della valutazione se avesse presentato con più accuratezza e approfondimento lo sfondo storico e l’ambiente in cui si svolge la storia. Sappiamo che siamo nell’Appennino centro meridionale e dagli accenni all’avvio della costruzione delle ferrovie ormai diffuse nel Nord Italia, e dal fenomeno dell’emigrazione verso la “Merica”, intuiamo gli anni in cui si svolgono gli avvenimenti che abbracciano un arco di tempo che tocca abbondantemente il ventennio. La figura di Maria prevale su tutti i personaggi e sullo stesso sfondo. Una donna indimenticabile.
Consigliato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Per chi ama leggere un libro ricco di tematiche: il maggiorascato, la lotta alla sopravvivenza, la forza di certe figure femminili. E per chi ha letto gli altri libri della scrittrice.
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    03 Luglio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

SPETTA ALLA DONNA RIVENDICAR SE STESSA

“Amare e sacrificarsi e soccombere! Questo il destino suo e forse di tutte le donne? (...) tutto era vano, la gioia e il dolore, lo sforzo e la ribellione: unica nobiltà la rassegnazione”.

Scritto tra il 1901 e il 1904, “Una donna” è un’opera che definire autobiografica è riduttivo. È una analisi spietata dell’animo di una donna che scopre progressivamente la propria dignità sotto i colpi del dolore e della sofferenza.
Scritto in prima persona, l’opera presenta due fili che, prima lontani, si avvicinano profondamente e si intrecciano: la storia dell’autrice e quella di sua madre.
Un romanzo doloroso, scritto alla luce del disincanto del mondo e della consapevolezza della necessità di essere una donna libera dalle ipocrisie e dalle paure, una donna consapevole della propria dignità e della propria femminilità anche se sposa e madre.

Nelle prime pagine la Aleramo ricorda se stessa come una bambina amata e coccolata soprattutto dal padre, della madre ricorda la dolcezza e la remissività, e sin da allora avvertiva disarmonia nel matrimonio dei genitori :

“Cogli occhi meno ansiosi, distinguo anche ne’miei primissimi anni qualche ombra vaga e sento che già da bimba non dovetti mai credermi di essere interamente felice”.

Dal ricordo dell’infanzia all’arida vita coniugale con l’uomo che l’aveva sedotta quindicenne, dal quale avrà un bambino, il libro è un susseguirsi di pensieri, di pochi avvenimenti importanti nella sua giovane vita: la sua frigidità negli abbracci del marito, il non sentirsi amata e compresa, il tentativo di suicidio e poi primi scritti, le prime collaborazioni con riviste femminili, la gelosia del marito, i pochi intimi amici.
Fa impressione leggere i lucidi ed aspri giudizi sul matrimonio “un feticcio a cui si sacrificano le creature umane” e pensare che vengono dalla coscienza di una ventenne!
“Dicevo che quasi tutti i poeti nostri hanno finora cantato una donna ideale, Beatrice è un simbolo e Laura un geroglifico, e che se qualche donna ottenne il canto dei poeti nostri è quella ch’essi non potettero avere: quella ch’ebbero e che diede loro dei figli non fu neanche da essi nominata. Perché continuare ora a contemplar in versi una donna metafisica e praticare in prosa con una fantesca anche se avuta in matrimonio legittimo? (...) Un’altra contraddizione, tutta italiana, era il sentimento quasi mistico che gli uomini hanno verso la propria madre, mentre così poco stimano le altre donne”.

“Spetta alla donna rivendicar se stessa” e liberarsi dall’atavica schiavitù maschile. Un libro che contiene anche i primi fermenti femministi. Purtroppo la mia edizione (Aliberti) non è ben curata, non ho trovato indicazioni sui luoghi e sulle persone che hanno influito sulla nostra scrittrice (Saffi, la Negri) ed ho trovato moltissimi refusi.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    26 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Tra desideri ed indolenza

Il titolo mi ha tratto in inganno, l’ho capito dopo aver letto la prefazione dello stesso Soseki, indiscusso maestro di Tanizaki, Kawabata e Mishima:

“In realtà Fino a dopo l’equinozio è un titolo privo di senso che ho scelto solo perché ho messo mano al lavoro il primo giorno del nuovo anno, con l’intenzione di terminarlo poco dopo l’equinozio di primavera”.

Dalle prime pagine si assapora immediatamente una scrittura elegante e sofisticata e non potevo certo lasciarmi scoraggiare da questa prefazione. Ho trovato infatti incantevoli descrizioni naturalistiche di un Paese del Sol Levante ante-occidentalizzazione, descrizioni di stati d’animo magistrali. C’è una profonda consapevolezza della qualità della propria scrittura al punto che l’autore, pur dichiarandosi al di là di ogni etichetta naturalistica, ha veramente lasciato che i diversi racconti del romanzo procedessero, entro certi aspetti, autonomi, poiché un romanzo è diverso dal disegno di un architetto, possiede una propria vitalità e una propria necessità evolutiva rispetto al progetto iniziale (cfr. prefazione dell’autore) .
Come ho appena anticipato, il romanzo si compone di più racconti che, all’inizio, mi avevano lasciata perplessa, poiché non ne avevo subito colto il collegamento, inoltre la lettura faticava a decollare poiché la prima parte non mi aveva particolarmente coinvolta.
Se prendiamo insieme le due “macrostorie” dei due giovani laureati nullafacenti, quella del giovane Keitaro all’inizio che, terminati gli studi è tormentato dalla necessità di trovare una degna occupazione e Sunega, che tale tormento non lo tange, perché preso totalmente dall’analisi del proprio carattere indolente e incontentabile, vi si trova alla fine un fil rouge, quello della ricerca di una propria identità nel mondo.
La tecnica di Soseki è quella del punto di vista multi focale : ogni racconto è narrato da personaggi diversi e manca il narratore onnisciente, tutto questo rimanda sicuramente alla volontà dell’autore di riflettere la disgregazione degli antichi valori nel mondo giapponese moderno. Discorso quanto mai attuale per un libro scritto nel lontano 1912.

“La mente umana è molto più resistente di quanto pensassi. Ti confesso che dopo la nostra conversazione ero spaventato a morte. Eppure, malgrado tutto, la mia mente non è ancora andata in pezzi. Credo proprio che potrò usarla ancora a lungo!“.


Non c’è molta azione in questo libro e la trama è essenziale, lo consiglio dunque a tutti quei lettori appassionati di letteratura, interessati alle descrizioni di stati d’animo contrastanti che desiderano scoprire il grande padre del romanzo giapponese moderno.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Le altre opere dell’autore
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Avventura
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    18 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Non sono fatto per stare al chiuso

“Credetemi è per pigrizia che la maggior parte delle persone non trova il paradiso, per paura, per meschinità, per svogliatezza o perché si accontenta subito di ciò che ottiene”.

Dite un po’ la verità...avete mai sentito parlare di Jungle Rudy?

Quando si prende tra le mani un qualsiasi libro dell’olandese Jan Brokken, il lettore può esser certo che arricchirà il proprio bagaglio culturale apprendendo di vite straordinarie e ricorderà con piacere quelle pagine scritte con uno stile piano, ma che infonde alle biografie la magia narrativa tipica del romanzo.
Mi aveva profondamente toccata “Nella casa del pianista “ dedicata al giovane Youri Egorov, al punto da andare a cercare le foto e soprattutto i video delle sue esibizioni così ho deciso di continuare la conoscenza di Brokken leggendo Jungle Rudy e sono rimasta soddisfatta della lettura.
Lo scrittore olandese è un grande viaggiatore e per la stesura di questo libro è andato in Venezuela, per conoscere di persona un un uomo leggendario, Rudolph Truffino, che ha abbandonato l’Olanda, le comodità della vita civilizzata , per vivere a stretto contatto con la natura, tra i pericoli della Gran Sabana e le acque della stratosferica (andate a vedere le foto! ) cascata di Auyan Tepui.
Jungle Rudy, è così che questo pioniere viene ricordato.
Ma Brokken incontra proprio Rudy?
Diciamolo subito. No.
Per quasi metà del libro sentiamo parlare di Rudy, di come è arrivato in Venezuela e delle sue peripezie , da un indio, Joseph, che accoglie lo scrittore a Canaima e che per giorni non gli rivela che il leggendario Jungle Rudy in realtà è morto già da un anno.
Così anche il lettore comincia ad affascinarsi alla storia e spera quasi di “vedere” l’incontro tra lo scrittore e Rudy, perché le prime pagine caricano il lettore di attesa e di trepidazione. Ma la delusione comunque dura poco. Tutto il libro è una ricostruzione interessante della vita mirabolante e quasi picaresca di un uomo che, figlio di un facoltoso banchiere, sente sin da subito che la vita comoda della città, anzi di tutto il vecchio continente gli sta stretta, avverte il richiamo di qualcosa di fuori dal comune, di una vita fatta di scoperte, di esperienze mozzafiato a contatto con la natura. Dotato di un carattere aperto e forte, sicuro di sé e innegabilmente coraggioso, Rudy Truffino approda in Venezuela negli anni Cinquanta, quando “la Gran Sabana era un territorio pressoché ignoto; dal punto di vista scientifico era ancora inesplorato quanto la luna”. Da pioniere Rudy diventerà guida esperta di esploratori, reporter, scienziati, celebrità, tutti alla scoperta del Venezuela selvaggio e sconosciuto “arrivavano da tutta Europa e dagli Stati Uniti. Tra i primi avventurieri accademici ci furono Galfrid Dunsterville, l’esperto di orchidee, il biologo Otto Huber e Julian Steyermark, un botanico del Missouri (...) alla ricerca degli ingredienti natura del chinino, le cui scorte erano agli sgoccioli in Asia”. Brokken arricchisce il libro di fotografie tratte dall’archivio di famiglia di Truffino, ovviamente quelle che si sono salvate dai morsi del tapiro “domestico” : Rudy con la moglie Gerti, le tre figlie e tante foto scattate durante le escursioni con troupe televisive e scienziati.
Un carattere aperto quanto inquieto che si mostra in più occasioni, anche nelle vicende amorose, Rudy ha l’indole del dongiovanni, per metà olandese per metà italiano, è un sognatore, si lascia condurre dalle emozioni, si lascia commuovere dalla musica e dalle belle letture (negli accampamenti ha tanti libri e tantissimi dischi di musica classica). Tra i suoi libri Brokken trova sottolineate queste righe tratte dal diario di H. D.Thoreau (1856)
“Vano è il sogno di terre selvagge distanti da noi stessi. Non v’è nulla di simile. È la palude nel nostro cervello e nelle nostre viscere, il primitivo vigore della Natura dentro di noi, che ispira quel sogno. (...) I. I nostri arti hanno spazio a sufficienza, sono le nostre anime che arrugginiscono dimenticate in un angolo”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
I libri di viaggio di Bruce Chatwin
Altri libri di Jan Brokken
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    15 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

SFIATANTE CON CODA ORIZZONTALE

Rileggo questo libro a molti anni di distanza. È stato uno dei miei primi libri letti senza imposizioni scolastiche, scelto per il genuino interesse che ho sempre coltivato per il mare, la navigazione e la biologia marina. E ovviamente, perché i libri di avventura sono stati quelli che mi hanno avvicinato alla lettura! Mi era piaciuto così tanto che ricordo di averlo letto e riletto, a dispetto della lunghezza e della complessità. Ricordo che la traduzione di Alessandro Ceni, che ho avuto modo di apprezzare in seguito per altri autori (Conrad, Coleridge, Stevenson, Wilde...)mi era molto piaciuta, ma ho trovato altrettanto pregevole quella di Pavese, pur con qualche imprecisione (soprattutto sulla nomenclatura delle focene del capitolo “Cetologia”) secondo me, anzi secondo la critica che sembra unanime, queste sono le due migliori traduzioni per resa e fedeltà al testo originale di Melville.
Il desiderio di rileggere l’opera e gli spunti offerti dagli amici lettori di questo canale, mi hanno spinta ad intraprenderne la lettura. Sì una nuova lettura, con una nuova consapevolezza alla luce dei nuovi gusti che ho acquisito negli anni.
Moby Dick si riconferma un grande e complesso romanzo e, come tutti i grandi romanzi, si presta a più livelli di lettura: non è adatto a tutti, pena il risultato di una lettura insoddisfacente, per cui avviso subito che il libro oltre ad essere corposo, non contiene pura esotica e/o romantica narrazione di marinai mezzo pirati, su una vascello a caccia di una fantomatica e mostruosa balena bianca (che altro non è che uno sfortunato capodoglio) in viaggio per i sette mari.
La prosa di Melville è meravigliosa, affabulatrice, ricca di similitudini, di citazioni bibliche e mitologiche, a volte molto ardite, condita a sprazzi di un po’ di vanteria soprattutto quando si tratta di evidenziare le proprie esperienze in ambito dei profili di immersione di alcune specie, le abitudini e le caratteristiche anatomiche di balene e capodogli. Melville, si sa, aveva esperienza di caccia alle balene e di navigazione, si imbarcava piuttosto spesso ed è facile vedere in Ismaele ( “Chiamatemi Ismaele” famosissimo incipit), che è la voce narrante di tutto il libro, l’alter ego dello scrittore:

“Perché quasi ogni ragazzo sano e robusto, che abbia dentro di sé uno spirito sano e robusto, prima o poi ammattisce dalla voglia di mettersi in mare? Perché, al tempo del vostro primo viaggio come passeggero, avete sentito in voi un tal brivido mistico, non appena vi hanno detto che la nave e voi stesso eravate fuori vista da terra? Perché gli antichi Persiani tenevano il mare per sacro? Perché i Greci gli fissarono un dio a parte, e fratello di Giove? Certamente tutto ciò non è senza significato. (...)
Io dico che ho l’abitudine di mettermi in mare tutte le volte che comincio a vedermi una nebbia innanzi agli occhi e a sentir troppo i miei polmoni, non intendo inferire ch’io mi metta in mare come passeggero.”

Per quanto riguarda il contenuto è un libro strano, bulimico, monumentale per ricchezza e varietà di registri: narrativo e tecnico-didascalico, ma sempre molto ricco di termini colti e richiami letterari. Ci sono dei capitoli che rallentano la narrazione e se aspettate di vedere subito la lotta con la Balena Bianca a forte tasso di spannung resterete stanchi e delusi. Moby Dick non si legge con questo intento, vi consiglio allora uno di quei tanti libri che definirei cinematografici sugli squali e i megalodonti preistorici (che ho anche letto anni fa ) così da avere la sicurezza di restare più soddisfatti della lettura.
Ma se desiderate conoscere un libro speciale, unico nella sua complessità e ricchezza, consapevoli di cosa andrete a leggere, allora credo che Moby Dick vi lascerà sicuramente una positiva traccia indelebile nel vostro scrigno di letture.

È un romanzo-mondo, un’opera ibrida che unisce tragedia, allegoria, avventura, un libro che unisce due tradizioni epiche, quella laica, ascritta alle metafore del viaggi, dell’avventura, dell’eroismo, a quella trascendentale e spirituale, che vede l’uomo in eterna lotta con la natura.
Ma è un libro che si è ispirato anche a fatti di cronaca, sicuramente al resoconto di Reynolds “Mocha Dick” (1839)in cui si narra della storia di abbattimento di un grosso capodoglio maschio nel Pacifico sopravvissuto a trent’anni di assalto di balenieri e al naufragio della baleniera Essex (1821) nell’opera di Owen Chase. La caccia alle balene è stata una delle attività produttive principali del Nord America per ottenere l’olio per illuminazione prima della scoperta del petrolio, senza dimenticare gli ossi per ombrelli, sottogonne e altri usi.
Essendo un libro complesso, moltissimi scrittori e critici si sono lanciati in molteplici letture: secondo D.H.Lawrence (1924, saggio “Moby Dick” di Herman Melville) nel libro si legge il simbolo del meltin pot americano, essendoci a bordo del Pequod, la famosa nave baleniera del romanzo, uomini di tutte le razze che sottostanno agli ordini del capitano Achab, figura alquanto tirannica su cui si detto di tutto, addirittura che è assimilabile all’eroe elisabettiano (vedere Otto Matthiessen). Certamente, perché in questo libro c’è anche tantissima teatralità, basti già pensare al lungo monologo dell’io narrante Ismaele e anche la descrizione degli spazi all’inizio di alcuni capitoli (esempio “Achab e il maestro d’ascia”), che rendono proprio l’idea di un atto teatrale.
Le tematiche sono tante, dal desiderio di avventura, all’ossessione monomaniaca dell’uomo che combatte contro forze avverse, dal progetto divulgativo con tutte le sue incompletezze scientifiche sulla cetologia, alla ricerca dell’ineffabile ( incarnato dalla bianchezza della balena), all’amicizia fino ad argomenti meno visibili, ma, non per questo, non rilevanti, come l’omosessualità. A questo proposito, pensiamo a Ismaele e Queequeg che probabilmente erano legati da una relazione e ai tanti passi più o meno espliciti dove tra giochi di parole e appellativi affettuosi, viene fuori che il nostro autore non si è fatto mancare proprio niente nel suo libro-mondo! Anzi, sappiamo che egli stesso fu intimamente legato ad un giovane, colto e affermato scrittore: Nathaniel Hawthorne. (Approfitto per segnalare una recente chicca letteraria, un carteggio tra Melville e Hawthorne, pubblicato di recente e curato da Giuseppe Nori).

Leggere Moby Dick è decisamente un andare per mare immensi, ma consiglio di tenere sempre tra le mani la bussola della contestualizzazione e una buona dose di consapevolezza riguardo alla complessità del grande romanzo.

Faccio fatica a togliere a qualche stella, per me il libro è un capolavoro, ma devo essere onesta sulla piacevolezza...

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Per apprezzare al meglio questo libro bisogna avere un minimo di interesse per l’argomento baleneria, cetologia, in quanto non è un semplice libro di avventura.
Si consiglia la traduzione di Ceni o di Pavese (rispettivamente edizione Feltrinelli e Adelphi), si sconsiglia come prima lettura l’edizione Einaudi con traduzione di Ottavio Fatica, dal linguaggio piuttosto anticheggiante.

Per chi è appassionato e vuole approfondire, nel libro di Franco Moretti, “Il romanzo di formazione” troverete altri spunti interessanti per una lettura di Moby Dick, compresi altri grandi capolavori dell’età moderna.
Trovi utile questa opinione? 
220
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    12 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Una lucida e disincantata testimonianza

Lo svedese Stig Dagerman fa parte di quella ristretta schiera di autori che hanno saputo ritrarre con lucidità e senza pregiudizi la realtà della Germania postbellica.
Aveva solo ventitré anni, quando venne inviato dal giornale Expressen nel 1946 a realizzare un dossier-testimonianza della situazione del Reich dopo la sconfitta. Quelle pagine vennero raccolte in un volume, “Autunno tedesco” che, per la qualità della scrittura, l’acutezza e la lucidità delle analisi e delle riflessioni , venne subito considerato uno dei più importanti lavori di giornalismo letterario svedese, e non solo.
La letteratura tedesca, appesantita e zittita dal forte senso di colpa per il suo passato nazista, non è stata capace di narrarare l’orrore, la povertà, le condizioni di vita“indescrivibili” di intere famiglie con bambini nelle cantine, nei bunker e nei vecchi edifici allagati, umidi e malsani. Non ha saputo parlare dei treni merci carichi di disperati, di abbandonati sui binari morti che non avevano neppure la speranza di approfittare di sistemarsi in qualche maceria, non ha parlato del degrado, del furto e del mercato nero diventati la vera “scuola”dei bambini tedeschi dopo la guerra.
Perché non c’è limite alla disperazione quando ci si porta sulle spalle il peso dell’infamia nazista, perché i tedeschi hanno imparato presto “l’arte di cadere in basso”.
Lo sguardo di Dagerman così lucido, privo di pregiudizi arricchito da uno stile che sa rendere con poche parole essenziali potenti immagini di miseria e sofferenza, è sostenuto dalle sue profonde idee anarchiche che lo hanno nutrito dall’infanzia. Non incolpa nessuno, non può. Perciò, anziché leggere giornali tedeschi e abbracciare idee più comode, questo giovane scrittore va a “guardare le abitazioni e ad annusare le pentole”, va tra la gente, tra i reietti e scopre “l’indescrivibile”, reso però senza indugiare e compiacersi in morbose immagini di miseria. È necessario fornire “un quadro sufficientemente incisivo dell’ambiente” per poter analizzare le posizioni ideologiche del popolo tedesco.
Ma quali posizioni ideologiche può avere un popolo annientato, che muore di fame? La fame impedisce qualsiasi forma di ideologia e di idealismo.

“La fame è una forma di deficienza, una condizione fisica, ma anche psichica che non lascia molto spazio a lunghe riflessioni”. Il vero giornalista deve “essere più umile di fronte al dolore, per quanto meritato esso fosse, poiché la sofferenza meritata non è meno difficile da sopportare di quella immeritata, la si sente ugualmente nello stomaco, nel petto e nei piedi (...)”.

Indimenticabili, per forza poetica e lucida analisi, le pagine del capitoletto “Rovine”, in cui Dagerman descrive in poche righe le città fantasma di Berlino, Hannover, Colonia, Amburgo, dove è “perfettamente inutile cercare perfino ricordi di vita umana” e i resti dei più importanti e gloriosi monumenti si stagliano nostalgicamente contro un cielo piovoso e grigio che rimane indifferente come tutto il mondo, straziato dalla ferocia e dalla disumanità della guerra.

Mi ha colpito anche il capitoletto intitolato “Letteratura e sofferenza”, un vero manifesto di lavoro e di poetica, che evidenzia un’acutezza di visione del mondo e della sofferenza, impressionanti per uno scrittore così giovane.
Consigliato vivamente.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi ama la storia del Novecento
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    07 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

In amore si rimane coinvolti completamente

Si può talvolta storcere il naso di fronte a titoli che odorano di facile retorica e mieloso sentimentalismo. Però è vero -e bisogna ammetterlo- che:

“Tutte le storie parlano d’amore (...). Le grandi e le piccole, le belle e quelle meno belle, quelle che ci rendono tristi e quelle che ci dovrebbero consolare. (...).
Sia che le storie siano state inventate secoli o millenni fa in terre lontane e straniere, spiegò lui, o ieri sera in una piccola capanna sull’altra sponda del fiume, tutti i grandi racconti conoscono un unico argomento: lo struggimento del cuore per amore”.

Sono le parole dello zio U Ba rivolte al nipote dodicenne Bo Bo, nell’incipit del romanzo, già una dichiarazione di intenti da parte dello scrittore tedesco Jan Philipp Sendker che con questo ultimo lavoro chiude una trilogia iniziata con “L’arte di ascoltare i battiti del cuore” (Neri Pozza, 2009] e proseguita con “Gli accordi del cuore” (Neri Pozza, 2012).
Dico subito che non ho trovato necessario leggere i libri precedenti in quanto i fatti salienti riguardanti le vicende di Julia e dell’incontro con quello che diventerà suo marito, Thar Thar, vengono riportati sinteticamente e sapientemente amalgamati nel nuovo libro.
“La memoria del cuore” è la tormentata e toccante storia di un dodicenne, Bo Bo, che cerca di capire la ragione per cui non vive con i suoi genitori, come in una famiglia normale, ma con lo zio U Ba. Una volta all’anno viene a trovarlo per poco tempo suo padre, Thar Thar, mentre della madre, di cui sa che è afflitta da una strana malattia, non ha che ricordi lampo di “un sorriso che scalda il cuore” e una “voce cristallina”.
Bo Bo è dotato di un dono particolare, quello di capire le emozioni della gente:
“Per me gli occhi possono luccicare, scintillare o essere incandescenti come le braci ardenti nel fuoco. Possono brillare, fremere, essere ombrosi e un attimo dopo quasi trasparenti. Negli uomini possono essere vacui come quelli di un uccellino morto o scoppiare quasi di paura come quelli di un pollo al macello. Gli occhi possono essere torbidi come l’acqua di una pozzanghera fangosa o abbaglianti come la luce del sole. Ogni espressione ha infinite sfumature, e tutte hanno sempre un loro significato preciso”.

Questa dote lo aiuta a percepire quando dietro ad una bugia c’è un grande bisogno, quando le persone fanno finta di star bene, ma dentro soffrono. Un giorno costringerà lo zio a farsi raccontare la storia d’amore dei suoi genitori e da lì l’azione narrativa inizierà un lungo flashback interrotto da pochi ritorni al presente. Tutto il romanzo si svolge tra Stati Uniti, dove Julia Win, sua madre e sorella di U Ba, è nata e vissuta per ventotto anni, e la Birmania, dove invece Thar Thar, suo padre, manda avanti un monastero dove si prende cura di ragazzini disabili e deformi, rifiutati dalle loro famiglie.
Stati Uniti e Birmania, Occidente e Oriente, due luoghi che Sendker dimostra di conoscere molto bene dalle strade alla cultura culinaria: l’autore ha vissuto diversi anni in America e ha viaggiato come inviato in Birmania per oltre venticinque anni.
Mentalità diverse, ritmi di vita diversi che si riflettono sulla velocità dell’azione narrativa. Il romanzo si divide in tre parti: la prima parte è ambientata nella capanna dello zio U Ba a Kalaw, con le poche amicizie di Bo Bo e i tanti libri ammassati negli angoli; la seconda riporta il lungo racconto di U Ba sull’amore tormentato e infuocato tra Julia e Thar Thar, suoi genitori e si sposta a Manhattan; nella terza parte si torna al presente e l’azione si svolge di nuovo in Birmania, ma...non posso più dire altro, a voi la scoperta. Qual è la malattia di affligge Julia? Perché in tutti questi anni non ha fatto nulla per vedere il figlio? Come mai Bo Bo ha una cicatrice che parte dalla bocca ed arriva quasi all’orecchio?

Si tratta di un romanzo toccante, che si legge con grande piacere e regala momenti di tenerezza. La scrittura di Sendker è capace di notevole forza espressiva, sa caricare bene le immagini e le descrizioni dei pensieri dei personaggi al punto tale da toccare le corde del cuore di chi legge e far passare le emozioni direttamente su di lui. Sendker ti fa provare quelle emozioni, si fa ponte di empatia.
Una storia indimenticabile, che rimane.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A tutti, anche a chi NON ha letto i primi due libri della trilogia, nello specifico
“L’arte di ascoltare i battiti del cuore”
“Gli accordi del cuore”
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    06 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Una fiaba classica sulla perseveranza umana

Vi propongo una brevissima lettura che sembrerà fuori stagione a quei lettori che spesso si lasciano ispirare dai romanzi che in qualche modo sono in linea col clima, vuoi per la tematica vuoi per l’ambientazione. Ma la vera letteratura, così come i sentimenti e gli ideali più autentici, non segue le mode, è nel suo carattere, è nella sua sostanza.

Seguitemi, dunque, lettori andiamo, è tempo di spostarci in Islanda!

Ci recheremo dapprima in un villaggio da dove il pastore Benedikt, ormai maturo cinquantaquattrenne, sta per iniziare il suo viaggio su per le asperità delle cime innevate alla ricerca delle pecore che si sono allontanate e che rischiano di diventare preda di qualche animale selvatico oppure di soffocare e gelare tra le tormente di neve.
Benedikt compie questa missione ogni anno, da ben ventisette anni, e sempre durante il periodo dell’Avvento, quelle settimane che precedono il Natale. Si prepara con i suoi due fidati animali, intelligenti e sensibili quanto esseri umani, il cane Leó e il montone Roccia, facendo tappa dapprima nella casa di amici che vivono più in prossimità della cima e poi nel rifugio più in alto, lontano dall’umano consorzio. Alcuni abitanti approfittano dalla bontà di Benedikt e lo convincono ad aiutarli a cercare anche i loro cavalli e il proprio bestiame, causando un pericoloso ritardo nella missione di salvataggio delle pecore che ha intenzione di recuperare.

Gli ingredienti per una lettura religiosa ci sono tutti: il buon pastore che cerca la pecorella smarrita, la trinità Benedikt-Leó-Roccia, l’altruismo. Ma sarebbe riduttivo, anche se corretto, considerare il racconto di Gunnarsson come la novella del buon pastore in salsa montana .

Come ci fa giustamente notare il curatore dell’edizione Iperborea, Alessandro Zironi, in una sorta di postfazione italiana (nell’edizione c’è anche quella dello scrittore Stefánsson) , l’autore si è lasciato ispirare dalle fiabe nordiche, dai racconti popolari, in particolare dalla piccola Gerda della fiaba di Andersen La regina delle Nevi, che si affida ad una preghiera per resistere alla tormenta di neve.
Benedikt, con ammirabile tenacia, riesce a prendersi cura di sé e dei suoi due animali, veri e propri compagni di viaggio intelligenti, vince la tormenta di neve, contrastando il ritardo in cui lo hanno costretto la sua bontà e il suo altruismo per cercare anche i cavalli dei suoi vicini. È un uomo che non si perde nei dettagli, ma mira direttamente al nocciolo della cruda realtà.
Un uomo ormai maturo che tra il silenzio della neve, sul filo del rasoio tra la vita e la morte si interroga sulla solitudine, sull’importanza del silenzio, sullo scopo d che ogni anno si prefigge di salvare le pecore che si smarriscono.

Un viaggio tra le montagne islandesi, con le sue terribili e formidabili bufere di neve che avvolgono in una morsa gelida e invitano ad un sonno profondo ed eterno, dimenticati dal resto del mondo. Pastore d’Islanda è una fiaba antica, ma sempre attuale sulla perseveranza e la tenacia dell’uomo che sfida eternamente la natura per salvare la civiltà.

L’opera è stata scritta in tedesco, aveva come titolo Advent, ed è apparsa a Lipsia nel 1936. Gunnarsson è, per la narrativa nordica, uno dei più autorevoli scrittori, amato anche in Danimarca oltre che in Islanda. Lo scrittore era figlio di poveri contadini islandesi che vivevano nei pressi di un ghiacciaio, per gli studi passó gran parte della propria vita in Danimarca dove scrisse tutte le su opere in lingua danese, tradotte poi da altri, oppure da lui stesso in età matura, ormai rimpatriato.

Nelle sue opere, in particolare in Pastore d’Islanda, viene fuori la sua potente verve onirica e realistica, “una combinazione di clima e di luce- lunghi inverni bui e notti così chiare da non concedere riposo” ricorda Stefánsson (p.107) , ci sono pagine capaci di farti sentire il silenzio di una natura quieta e la potenza racchiusa nell’urlo sordo di Münch.

“Ma la tempesta non accennava a diminuire, non aveva la minima considerazione per Benedikt, per i suoi presentimenti e desideri. Sembrava impossibile che avesse tanto fiato da ruggire con tale forza per un giorno intero, in quella stagione dell’anno, eppure era così. La poca luce che i mulinelli di neve trituravano senza sosta diventava sempre più fioca, ridotta a puro nulla, a una tenebra dai vaghi riflessi di luna, tenebra di neve, tenebra vorticosa.
E sempre la stessa furia, un muggire affannoso come di giganti in lotta, scontro di forze invisibili, eterno e sconfinato, una notte urlante e indemoniata”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A tutti
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    01 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un piccolo, piccolo scrittore

Mi ha sempre colpito la sua scrittura intima, fluida e piana, con un inconsapevole senso musicale, lei che diceva di non capire niente di musica. Ho conosciuto Natalia Ginzburg con “Lessico famigliare” e per me leggere questa interessante raccolta di suoi scritti è stata consequenzialità naturale.
Si tratta di dieci saggi e scritti autobiografici usciti su giornali e riviste varie a partire dal 1944 fino al 1960, raccolti e sistemati presso la casa editrice Einaudi nel 1983.
Il primo scritto, intitolato “Inverno in Abruzzo”( 1944) costitusce un primo nucleo di pagine scritte immediatamente dopo la morte del marito, Leone Ginzburg, intellettuale di origine ebraica - come la famiglia di Natalia (Levi, era il cognome da nubile)- attivista antifascista che trovò la morte nel carcere romano di Regina Coeli in seguito alle torture inflittegli dalle guardie naziste.
Sono pagine di dolore, di malinconia scritte al passato remoto, come se la scrittrice volesse con la penna allontanare quei momenti terribili che le hanno cambiato l’esistenza in pochi mesi per analizzare meglio il dolore e le paure, perché non esiste la scrittura consolatoria. Il mestiere di scrittore, e Natalia userà sempre questo termine e mai il corrispondente femminile, è tirannico, non è mai consolatorio.
Lei si sentiva un “piccolo, piccolo scrittore”circondata da uomini più famosi: Pavese, il marito Leone Ginzburg, persino il figlio Carlo (Ginzburg) osava criticare la sua scrittura.

“Uno non può illudersi di farsi accarezzare e cullare dal suo proprio mestiere. Ci sono state nella mia vita delle interminabili domeniche desolate e deserte, in cui desideravo ardentemente scrivere qualche cosa per consolarmi della solitudine e della noia, per essere blandita e cullata da frasi e parole. Ma non c’è stato verso che mi riuscisse di scrivere un rigo. Il mio mestiere allora m’ha sempre respinta, non ha voluto saperne di me. Perché questo mestiere non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia. Questo mestiere è un padrone, un padrone capace di frustarci a sangue, un padrone che grida e condanna”.

Segnalo anche il commovente scritto dedicato a Pavese, mai nominato, ma prepotente e vivido nel ricordo; mi sono piaciute molto anche le pagine intitolate ‘Lui e io’, dove tra i contrasti caratteriali, le diversità nei piaceri, la Ginzburg ricorda il suo secondo marito, Gabriele Baldini.


Chiude la raccolta lo scritto “Le piccole virtù “, titolo che trasse in inganno lo stesso Calvino che curò l’edizione di questa raccolta ed evidentemente non colse l’ironia della scrittrice che voleva porre l’accento sulle grandi virtù, quelle che vale la pena insegnare ai propri figli.
Con mentalità aperta e moderna, la Ginzburg ammonisce i genitori che caricano i propri figli di aspettative, sostenendo che bisogna assecondare le loro inclinazioni, che talvolta il ragazzino più disattento ha nella testa fermenti di idee che metterà in pratica da grande. Ed anche il valore del denaro va insegnato al momento giusto, sia che si è ricchi e sia che si è poveri.

“Ma non troppo presto e non troppo tardi: e il segreto dell’educazione sta nell’indovinare i tempi. Essere sobri con se stessi e generosi con gli altri: questo vuol dire avere un rapporto giusto col denaro, essere liberi di fronte al denaro.”

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Tutte le opere di Natalia Ginzburg
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    01 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Tutto avvenne in una sola estate...

Edith Wharton è la mia scrittrice preferita, adesso posso dirlo senza alcun dubbio.
Famosa per il romanzo “L’età dell’innocenza”, come spesso succede, tutti gli altri suoi libri, considerati minori - a torto- sono sconosciuti ai più.
Le sue opere sono un concentrato di storie coinvolgenti e di stile letterario impeccabile. Una scrittura cristallina, lineare senza grossi salti temporali, che sa farsi delicata e poetica, ma anche acuta dai pesanti affondi nella psiche, soprattutto quella delle protagoniste femminili che rispecchiano l’animo ribelle ed anticonformista dell’autrice stessa. E, come ne “L’età dell’innocenza”, la protagonista di questo breve romanzo, Charity Royall, emana tutto quello spirito appassionatamente ribelle alle convenzioni, profondamente anticonformista che la porta a scontrarsi con la dura realtà, bigotta e ipocrita, della società dei suoi tempi. Chi non è ipocrita e non vuole sottostare alle leggi della società falsa e ipocrita è esiliato in qualche luogo dimenticato da Dio, la Montagna. Esattamente così, la Montagna, scritta con la maiuscola proprio ad identificare un toponimo, un luogo fisico abitato dagli esuli e dai reietti, dai banditi dall’umano consorzio.
Charity viene proprio dalla Montagna, salvata dalla povertà e dalla miseria della dall’avvocato Royall che la ospita in casa sua nel villaggio di North Dormer. La fanciulla disprezza in cuor suo il tutore e desidera un futuro indipendente al punto da farsi assumere come bibliotecaria nel modesto villaggio in cui vive. L’incontro casuale con il giovane architetto Lucius Harney le permette non solo di uscire dalla solitudine e dalla mediocrità della sua modesta esistenza, ma anche di riflettere ed indagare sulle proprie origini.
La sfrontatezza con cui Charity si mostra in pubblico insieme al giovane per accompagnarlo nelle sue ricerche sugli edifici di North Dormer, la passione che sboccia tra i due al di fuori delle convenzioni scandalizzò la società americana quando il libro venne pubblico nel 1917.

“C’erano altri casi di cui il villaggio era al corrente che avevano avuto conclusioni peggiori, meschine, miserabili, inconfessate. C’erano altre vite che si trascinavano stancamente, senza mutamenti visibili, prigioniere dell’ipocrisia. Ma non erano queste ragioni a trattenerla. Dal giorno prima sapeva con certezza cosa sarebbe accaduto se Harney l’avesse presa tra le braccia: il fondersi delle mani e delle bocche e la lunga fiamma che l’avrebbe divorata dalla testa ai piedi. Ma a questa sensazione se ne mescolavano altre: l’orgoglio un po’ stupito di piacergli, la tenerezza perplessa che il suo interesse aveva risvegliato in lei”.

Tuttavia la ragazza non vuole pensare alle ipocrisie e, nonostante qualche timore di venire additata come “una di quelle”, decide di vivere appieno la sua storia d’amore, dimostrando una ribellione, un modo di imporsi che denotano la diversità delle sue origini. Un libro che è una piccola perla, tiene incollata alle pagine fino al finale. Non rivelo altro, solo che, nonostante l’amarezza che connota sempre le storie d’amore, - questa, tra l’altro, durata una sola estate- della Wharton c’è una luce che scalda, e anche tanto.

Assaggino naturalistico, chi mi conosce sa quanto ami le descrizioni naturalistiche. Trovo che la Wharton con la sua penna non solo suggerisca la visione, ma anche la sensazione: della calda estate il lettore non solo vede le manifestazioni di luce, ma ne sente anche il calore:

“Davanti a lei un ramo di rovo si stagliava contro il cielo, coperto di fragili fiori bianchi e di foglie verde azzurro. spiccava tra i teneri germogli dell’erba e, al di sopra di esso, una farfallina gialla vibrava come una macchia di sole. E tuttavia, oltre a quello che vedeva, Charity percepiva anche il crescere vigoroso dei faggi che coprivano la cima della collina, l’arrotondarsi delle pigne verde pallido su innumerevoli rami d’abete, lo spuntare di migliaia di nuove foglie di felce nelle fenditure del pendio roccioso sotto al bosco e, più in basso ancora, l’infittirsi dei germogli di spirea e di acoro falso nei pascoli. Tutto questo gorgogliare di linfe, rivestirsi di foglie e sbocciare di calici, giungeva fino a lei portato da fragranze diverse. Ogni foglia, gemma e filo d’erba contribuiva con il suo effluvio alla dolcezza dell’aria, in cui l’odore pungente della resina prevaleva sull’aroma speziato del timo e sul profumo sottile della felce, per fondersi poi in un umore terroso simile al respiro di un enorme animale scaldato dal sole”.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
L’età dell’innocenza , Wharton
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    27 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Nessuno ama la vita quanto non vedente che la odi

Questo libro contiene due racconti, uno più lungo che gli dà il titolo ed uno molto breve, “Pasodoble”. Entrambi uniti dall’ambientazione - Ortakos, Barbagia, in Sardegna- e dalla condizione di cecità che accomuna i protagonisti, uno cieco dalla nascita e l’altro che perde la vista da adulto.
Salvatore Niffoi ha pubblicato numerosi romanzi presso Adelphi, Feltrinelli, Giunti, tradotti in numerose lingue e ha vinto il Campiello nel 2006 con “La vedova scalza”.
La sua scrittura è un fluire musicale di italiano e sardo (citando anche versi di poeti sardi), ricca di onomatopee come se lo scrittore volesse suggerire suoni, voci della sua terra, una Barbagia ancestrale dove si impara presto che i dolori non guardano in faccia a nessuno e colpiscono ricchi e poveri in uguale misura.
I due racconti sono entrambi in prima persona, tranne l’ultimo paragrafo de “Il cieco di Ortakos”, dove la parola passa ad un altro personaggio che non vi rivelo.

“Il mio nome è Damianu, Damianu Isperanzosu, su mastru tzecu de Ortakos (...) Vi racconterò tutto della mia vita, senza tralasciare niente. E se sarò bravo, forse riuscirò a farvela sentire e vedere, sì, vedere, proprio io che l’ho vissuta chiuso dentro un bozzolo come una larva di cristiano”.
Suo padre è un ubriacone e un uomo violento con la giovane moglie e l’unico figlio che non ha mai accettato per via del suo handicap, mentre la mamma Paulina rimane l’unico punto di riferimento del povero Damianu. Per fortuna alcuni conoscenti gli permetteranno di studiare come professore a Bologna e di tornare ad Ortakos, riscattandosi e dimostrando che i veri ciechi sono quelli che non sanno vedere l’amore attorno e non quelli che materialmente non vedono con gli occhi. Anche la storia di Paolo detto Pasodoble insegna verità profonde, anche se la sua storia è simile ed opposta a quella di Damianu.

Storie affascinanti, profonde, mitiche come la terra di Barbagia, regione storica della Sardegna, dalla natura ancora selvaggia, dai colori e dai profumi inconfondibili.
NB.
Niffoi si diverte ad usare i nomi antichi dei luoghi, infatti troviamo Karalis anziché Cagliari e Ortakos ... e Ortakos chiedo a qualche QAmico sardo non sono riuscita ad identificare il nuovo toponimo barbaricino.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Altri libri di Niffoi
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Arte e Spettacolo
 
Voto medio 
 
4.6
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    23 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Passione, storie, vite per i libri

Una vera chicca per chi è curioso, per chi è affascinato dal mondo dei libri, indistintamente dai generi. Ecco un viaggio nelle “case” italiane del libro, il luogo dove i libri vengono concepiti, tradotti, a cui vengono affidati per essere resi noti al pubblico. Quel luogo che per i lettori è quasi il sancta sanctorum, la cattedrale che stimola l’immaginazione e suscita quasi religioso rispetto.
La casa editrice.
Perché, in alcuni casi, e scusate il gioco di parole, di “case” si tratta. Lo sapevate, ad esempio, che l’e/o all’inizio aveva sede nella camera da letto dei coniugi fondatori, Sandro Ferri e Sandra Ozzola?
 
“La casa editrice nasce come una sfida nel 1979: lui libraio della Vecchia Talpa, ritrovo alternativo di una certa sinistra romana; lei insegnante laureata in lingue e letterature slave. Non hanno nessun tipo di esperienza editoriale, non hanno fatto ricerche di mercato né calcoli economici. “Puro azzardo”, sintetizza lei (…) . C’era una grande sala: da una parte il letto, dall’altra il tavolo dove si facevano le riunioni, si scriveva, si telefonava, si mandavano i libri”.
 
Questa come tante case editrici piccole dopo il successo di alcuni loro titoli hanno dovuto necessariamente ridimensionarsi, spostarsi in palazzi con più sale, assumere personale e...anche dei veri commercialisti! Non sto qui a nominare gli autori che hanno fatto il successo della casa editrice che ho nominato a titolo di esempio, ma ci sono tanti nomi!
 
Il libro è un vero e proprio viaggio per l’Italia, in cui vengono indicati anche la via e il numero civico di palazzi talvolta prestigiosi, che la giornalista Cristina Taglietti compie per intervistare i fondatori o gli eredi di 14 case editrici italiane, alcune veramente piccole, allo scopo di mostrare al lettore, fargli anche toccare con mano il lavoro di chi progetta i libri, disegna le copertine (interessante la storia che sta dietro alle copertine Sellerio) e li promuove.
Dalla lettura di questo lavoro se ne esce arricchiti, perché troppo spesso leggiamo senza conoscere la passione, il lavoro che sta dietro ad un libro e talune case editrici hanno delle storie appassionanti degne di essere conosciute. Come diceva Italo Calvino “l’editoria libraria è ancora una cosa importante nell’Italia in cui viviamo” : era il 1979 (intervista su “Mondo operaio”), oggi, nonostante la profonda crisi economica da emergenza sanitaria, è vero più che mai. Moltissime case editrici, grandi e piccole, tra mille difficoltà hanno continuato a stare vicino a noi lettori, alcune fornendo gratis libri digitali, alcune, come l’Adelphi, continuando a pubblicare in digitale (collana “Microgrammi”) “gli assaggi”, piccole parti dei futuri nuovi libri cartacei che sarebbero stati pubblicati in un tempo non meglio indicato.
Ma l’Adelphi è una grande casa editrice -tornata di nuovo nelle mani di Calasso – che ha i mezzi per reinventarsi, alcune erano state acquisite già prima dell’emergenza covid da case più grandi (esempio Marsilio e Bompiani). Ci sono però realtà piccolissime, attente alla qualità come Nutrimenti, 66than2nd, La Nuova Frontiera etc.) che rischiano di fallire. Sarebbe una perdita terribile, la perdita di una “famiglia” che unisce “passione, fiuto e buone idee” nella crescita culturale del nostro Paese.
 
 

 

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Per i curiosi e per chi ama conoscere il mondo dell’editoria italiana
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    20 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Matrimoni male assortiti

“The Woodlanders” è stato pubblicato in tre volumi nel marzo 1887 ed ha come tematica i conflitti all’interno di un matrimonio, come lo stesso autore ricorda nella prefazione. È ambientato in un piccolo villaggio immaginario, chiamato Little Hintock, simile a tanti villaggi che era possibile trovare nell’Inghilterra occidentale, circondati da fitti boschi e abitati da gente dedita ad un mestiere divenuto raro già a fine Ottocento e cioè la concia del legname.
Gli abitanti di Little Hintock sono infatti tutti braccianti, produttori di sidro, taglialegna, artigiani del legno e commercianti.
Come per gli altri romanzi di Hardy finora letti, ne confermo lo stile impeccabile: una prosa chiara, sontuosa, lineare senza salti temporali che strizza l’occhio a colte citazioni bibliche e letterarie, ma anche alle ballate popolari, più consone agli ambienti umili che fanno da sfondo alla storia.
Immancabili le descrizioni, essenziali e mai lunghe, degli edifici, dei particolari architettonici (Hardy era un architetto) e, meravigliose, quelle naturalistiche:

“Le foglie erano deformi, mostruosa la curva del tronco, e la crescita atrofizzata; il lichene divorava il fusto un tempo vigoroso, e l’edera strangolava a morte ogni tenero virgulto. Si addentrarono tra i faggi, sotto ai quali nulla era cresciuto: i ramoscelli più giovani ancora trattenevano le foglie tisiche che stormivano metalliche con l’aria, come quelle di lamiera nel bosco incantato di Jarnvid”

Il personaggio femminile principale è, come al solito, una dolce, delicata fanciulla: nella fattispecie Grace Melbury, unica figlia ed orgoglio del commerciante di legname di Hintock, che ha frequentato le prestigiose scuole cittadine. Grace è promessa sin da bambina, per tacito accordo -consuetudine presso le famiglie di questi piccoli villaggi- al giovane bracciante squattrinato Giles Winterborne, di cui è timidamente innamorata da anni, poiché sono cresciuti insieme prima che gli studi di lei li separassero.
Succede però che un giovane dottore, di belle speranze e appassionato di filosofia, Mr Fitzpiers, viene ad abitare in quel borgo e, colpito dalla bellezza e dalla grazia dell’unica ragazza elegante del posto, la chiede frettolosamente in sposa. Con una riluttanza mista ad una strana attrazione che questi esercita su di lei in maniera paurosa, la giovane ed inesperta fanciulla, per compiacere anche il padre che la vorrebbe adesso sistemata come si converrebbe alla sua istruzione, spezza la promessa e sposa il dottore.
Ma la vita a Little Hintock non è mai noiosa. Di lì a pochi mesi si sistemerà nell’antica Villa del borgo una misteriosa, fascinosa maliarda, dall’oscuro passato, tale Lady Charmond, che sconvolgerà quel matrimonio contratto tanto frettolosamente.
Vi ho raccontato solo la metà, proseguite voi nella lettura. Non potrei mai togliervi il gusto di scoprire una serie di imprevisti che porteranno verso un finale piuttosto insolito, che mai mi sarei aspettata da Hardy.
La piacevolezza, secondo la mia modesta opinione, risente di una dilatazione eccessiva della vicenda, che in un paio di capitoli prima del finale mi ha sfiancata e angosciata. Non posso rivelare nient’altro: quei passaggi hanno una certa necessità all’interno dell’economia della storia, ma quest’ultima avrebbe potuto essere accorciata ed alleggerita. Ho trovato inoltre inverosimile la purezza dell’amore tra Giles e di Grace: tale stridore con la realtà in cui viviamo si annulla, è vero, quando il lettore accorto contestualizza i personaggi, ma rimangono comunque poco affascinanti se paragonati a Mr Fitzpiers, vera rivelazione della storia.
Ho detto troppo.
Il finale imprevisto ed imprevedibile ha reso la storia degna di considerazione, per cui vi consiglio il libro.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi ama Thomas Hardy
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    19 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

L’ULTIMA ISPIRAZIONE

“Che perisse ogni sua speranza. Che se ne stesse solo con la sua gloria, a scrivere per i morti. Avrebbe avuto i suoi posteri, sì, il destino non poteva o non voleva impedirlo: li avrebbe avuti, per secoli. Posterità! Una catena che rotola sulla carrucola: ciascun anello appare per pochi istanti alla luce e subito risprofonda nel buio del pozzo. I posteri non sono che una illusione, lampi che si accendono muti nell’oscurità della storia” (p.99-100).

Un racconto lungo su cui Marco Santagata, nome arcinoto tra gli studiosi di Dante e Petrarca, è tornato più volte per apporre modifiche e varianti: nel 2000 e poi nel 2007 questo libro era stato edito dalla casa editrice palermitana Sellerio. Quest’anno “Il copista” è riedito in versione definitiva da Guanda.
Il protagonista è un Petrarca ormai anziano, amareggiato e ferito dai terribili lutti che lo hanno colpito e tormentato dagli acciacchi dell’età, specialmente dall’ulcera allo stomaco (e l’autore indugia, soprattutto nelle prime pagine, nel descrivere con pochi chiari tratti i particolari del decadimento fisico del poeta).
La perdita del caro figlio Giovanni e del nipote Francesco, periti per mano della peste del ‘61, per non parlare di quella dell’amata Laura, morta tempo addietro anch’essa per la pestilenza, nel 1348, hanno segnato per sempre la vita del sommo. L’evento recente che però lo tormenta forse più di tutti è l’abbandono dell’amato copista: Giovanni Malpaghini, detto anche Giovanni da Ravenna.
Sappiamo infatti che, nella realtà, questo giovane aveva copiato per lui numerosi componimenti del celebre Canzoniere e delle epistole Ad familiares, però ad un certo punto si era rifiutato di proseguire nel lavoro ed aveva abbandonato Petrarca che lo aveva amato quanto un figlio suo.
In questo libro Santagata immagina le motivazioni (inventate, lo dice nella postfazione) dell’allontanamento del giovane.
Santagata immagina un venerdì degli ultimi istanti di vita del poeta fiorentino, in una giornata uggiosa nella triste città di Padova, in cui preso dai ricordi e dalle recenti vicissitudini della sua vita, riesce a concludere una canzone che aveva promesso all’amico Giovanni Boccaccio: la canzone numero 323 del De Rerum Vulgarium Fragmenta, ossia il Canzoniere. Tale componimento è un tributo all’amico dal momento che contiene chiari riferimenti al Decameron, in particolare alle novella di Nastagio degli Onesti ( “la repente tempesta oriental...” è la peste del 1348 di origine asiatica, i cani da caccia che inseguono una fiera dal volto di donna).

Il Petrarca che conosciamo in queste pagine è un uomo distrutto, ancora tormentato dal dissidio interiore tra il desiderio di una spiritualità intima e consolatoria e quello della gloria e del suo ricordo presso i posteri.
Anche se all’epoca in cui era morta, Laura era diventata una “botte da vino” (p.59). ingrossata ed invecchiata dalle troppe gravidanze, continuerà ancora ad ispirare Petrarca, perché il ricordo della sua bellezza rimarrà intatto del suo cuore e nella sua memoria.
“Laura era giovane e bella. Non importava che in quell’aprile lontano fosse morta una donna obesa e invecchiata. Era giovane, perché con lei morivano tutti i giovani. Anzi, tutti gli uomini. Anche i vecchi muoiono giovani rispetto all’eternità. Giovani e belli, perché la vita, unico bene che possediamo, è bella” (pag. 111).

Ed ecco la penna del Santagata ritrarre quei tormentati momenti, riprodurre quei nessi “tra biografia ed ispirazione” di un uomo solo ed abbandonato, ormai stanco nel corpo e nello spirito, stanco di credere nell’al di là, che trova ancora dei fulminei barlumi di autentico slancio artistico per terminare la sua canzone dedicata a Laura.




Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Il Canzoniere di Petrarca
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    15 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

LEGGERE È UN VERBO ARCITRANSITIVO

“Leggere non è solo una passione: è una pratica quotidiana, un lavoro, una missione, una militanza, un rituale da burocrate, una terapia, una disciplina, una fede, un’abitudine, un peccato, un debito, un hobby, una droga-tutto nello stesso momento, in ogni momento”.

Alan Pauls è uno scrittore e critico letterario argentino, famoso soprattutto per i suoi studi su Borges. “Trance”, scritto in terza persona, non è altro che la sua autobiografia in quanto lettore, appassionato di Borges, Bolaño, Cortazar, Proust, che sono tra l’altro, gli scrittori da lui più citati e sui quali si diverte a raccontare aneddoti e riflessioni. Presentato come un vocabolario alfabetico/sentimentale , questo libro è di piacevolissima lettura , si divora in poco tempo ed è per i devoti della lettura, i quali si ritroveranno in tantissimi momenti dell’opera di Pauls.
Interessante la similitudine della lettura con il gioco degli scacchi (ajedrez, la voce del glossario) “A parte leggere, è l’unica attività che non considera una frivolezza o uno scandalo. Gli scacchi-con quell’effetto di rapimento, l’autarchia e la splendida solitudine, così simile a quelli che sperimenta quando legge - (...). Gli scacchi sono il proseguimento con altri mezzi di una vocazione letteraria precoce “.
Leggere è giocare, è una sfida con varianti, finale, combinazioni, chiusure eleganti o meno.
È praticamene impossibile scegliere un passo da citare che non sia lungo. La scrittura di Pauls è quasi frenetica, un fluire ininterrotto di idee, talvolta illuminanti, riflessioni con il punto fermo che arriva quando il fiato è ormai esaurito. Concitatissimo. Mi sono ritrovata in tantissimi passi del libro, soprattutto quello dell’interruzione , quello del terribile momento il cui gli occhi devono essere staccati dalla pagina perché qualche incombenza impedisce di proseguire la possessione di un libro, la comunione con la storia, quella bellissima contingenza in cui la lettura aggiunge “mondi al mondo”. Non voglio scrivere troppo su questo libro, è breve (133 pagine), ma solo invitarvi ad una lettura distensiva di qualità.
Vi lascio però terminando il pensiero del titolo del mio commento che è ovviamente una citazione dal libro:
“Leggere, come pensare, è un verbo arcitransitivo, con un orizzonte di oggetti illimitato”. A voi la coniugazione!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
È un libro per chi ama leggere la buona letteratura. Non è impegnativo, ma brillante e piacevole
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    12 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Il carattere è destino

Quanto aveva ragione Novalis con il suo detto “Carattere è destino”! nessuno può saperlo meglio di Micheal Henchard, il protagonista de “Il sindaco di Casterbridge”, bellissimo e tragico romanzo di Thomas Hardy, pubblicato nel 1886, qualche anno prima del più famoso “Tess dei d’Urberville”.
Una vita segnata già dall’età di ventun anni, quando, in cerca di fortuna con la propria famigliola, giunge nella contrada di Weldon-Priors, nel Wessex, in una tenda frequentata da altri avventori, si ubriaca e vende la giovane moglie ad uno sconosciuto, un marinaio di passaggio che era entrato proprio nel momento in cui lui, Micheal Henchard, aveva detto “ebbene...aspetto un’offerta. La donna non mi serve. Chi la vuole?”. Una rapida occhiata alla graziosa donna per capire che l’avrebbe salvata dalla tristezza a cui era condannata e la contrattazione era avvenuta dietro pagamento di contante sonante.
Il pentimento, amaro, giunge troppo tardi, una volta sobrio.
Il giovane, dopo aver cercato la moglie e la bambina portate via del marinaio in quella occasione alquanto bizzarra anche se col suo consenso, scopre che sono emigrati in America e da allora, rassegnato, pensa a costruirsi un nuovo avvenire, ma prima, si reca in una chiesa e con la mano sulla Bibbia giura solennemente di vivere sobrio, di non bere più neanche un goccio di alcool, per i prossimi ventuno anni della sua vita. La storia scorre velocemente, si tratta di una trama dinamica anche se le azioni si svolgono tutte nella cittadina agropastorale di Casterbridge.
Passano diciotto anni da quel fatidico sventurato giorno, Henchard da tagliatore di fieno si è fatto strada e, conquistatosi il rispetto dei rustici cittadini di Casterbridge, ne diventa sindaco. È seduto a discorrere all’aperto davanti ad un bicchiere (d’acqua) dei problemi relativi all’ultimo raccolto con i membri del consiglio comunale, quando nella sua vita entrano i personaggi che lo accompagneranno nelle vicende successive, cambiandogli di nuovo la vita. In peggio.
La sua ancora legittima consorte Susan torna dall’America, “vedova”del marinaio con una ragazza, Elizabeth-Jane e, nella stessa sera, incontra un giovane scozzese dalla bella voce e dal fiuto per gli affari agricoli , di nome Donald Farfrae. Qualche anno dopo giunge a Casterbridge un’altra figura femminile cui Henchard si era legato durante il primo anno di solitudine, ma che non aveva mai sposato. Ci sono tutti gli ingredienti dell’intrigo in questo romanzo che tengono incollati alle pagine.
Della trama non vi svelo nulla, vi anticipo che non tutto è come sembra ad una prima lettura. Il personaggio del sindaco è una delle figure maschili più interessanti della letteratura vittoriana, nel romanzo stesso viene paragonato al Faust “un essere cupo e veemente, che aveva abbandonato le strade degli uomini volgari, senza una luce che lo guidasse su una strada migliore”.
È sempre troppo tardi quando si rende conto che poteva trovare un’alternativa, è sempre troppo tardi quando si accorge che il suo modo di agire gli porta via il rispetto delle persone e la felicità. Ma cos’è la felicità? lo scoprirà alla fine del libro la dolce, timida, Elizabeth Jane -non posso anticipare niente!- “la felicità non era che un episodio fortuito nel dramma universale del dolore”.
Consiglio questo libro per tanti motivi: lo stile di Hardy, piacevolissimo, con i suoi immancabili scenari naturalistici, macchie di colore alla maniera impressionista, strizzatine d’occhio al particolare gotico (cimitero, il circo romano di Casterbridge avvolto nella nebbia), l’analisi più matura e ponderata della psicologia del protagonista, rozzo, ma sincero.
La decadenza di un uomo che ha passato la vita dedito all’ambizione oscurando gli affetti. Scenari, personaggi,visione tragica dell’esistenza che ricordano i “vinti”di Verga.
Per me, il libro di Hardy più bello di sempre.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
“Mastro don Gesualdo” di Verga
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    08 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

GRANDIOSO

Ho letto questo libro grazie all’iniziativa Solidarietà digitale sul sito della Fazi, colpita della nuova copertina e dal prestigio che pare circondi questo romanzo storico vincitore nel 2009 del Booker Prize e del National Book Critics Circle Award. L’iniziativa non poteva sfuggire, era segnalata da ogni testata giornalistica tra fine marzo e inizio aprile, nel bel mezzo del lockdown. Documentandomi, ho scoperto che Walf Hall è il primo di una trilogia, di cui il secondo volume, “Anna Bolena, una questione di famiglia” si è già accaparrato nel 2012 un Booker Prize. Questo autunno dovrebbe uscire il terzo ed ultimo volume.

Walf Hall è comunque già concluso, potrebbe essere letto da solo senza continuarne la trilogia e dico subito che è un libro grandioso, mastodontico e meritevole dei più prestigiosi premi.
Non avevo mai letto finora un romanzo storico così rigoroso, così ben documentato e scritto così bene che il lettore si sente praticamente immerso nella storia, avvolto dalla finzione narrativa (che è realtà storica) e si dimentica della realtà che lo circonda. Questa è vera lettura immersiva e totalizzante e ce n’è per molto tempo: io ho impiegato quasi tre settimane per leggerlo, sono quasi 700 pagine di storia inglese.
Il Focus: gli intrighi, i marchingegni legal-religiosi affinché Enrico VIII ottenga l’annullamento del matrimonio con Caterina d’Aragona, che non gli ha dato eredi maschi (ma solo la sottile e delicata Maria), per sposare l’intraprendente Anna Bolena.
Ma il protagonista non è Enrico VIII, bensì Thomas Cromwell, l’uomo che campeggia della nuova copertina, ritratto da Hans Holbein, presente anch’egli nella storia. I personaggi sono tantissimi e sono tutti rigorosamente esistiti, in quest’opera la finzione è ridotta al minimo.
Questo è uno dei motivi per i quali non mi sento di consigliare a tutti questi libro.
Se cercate il romanzo storico distensivo, non pensate a Wolf Hall; se non vi piace la storia, neppure a parlarne, cercate altri interessanti romanzi di costume, ambientati nel passato. È necessario avere un minimo di conoscenza della storia dei Tudor, altrimenti sarete costretti a ricorrere all’albero genealogico e all’elenco dei personaggi all’inizio della storia ad ogni piè sospinto e non sempre è cosa gradita al lettore.
Un libro abbastanza proibitivo non per la mole, ma per il numero dei personaggi (ci sono tanti Tom, Thomas, Tomaso, facile confondersi quando si usano i diminutivi) e per il contenuto.
Thomas Cromwell, figlio di un fabbro, è un uomo che ha curato prima gli affari del cardinale Wolsey, poi, alla sua morte per avvelenamento, quelli del re. Pur rimanendo sempre affezionato e legato alla memoria del cardinale che non ha voluto riconoscere la nullità del matrimonio del re con la spagnola Caterina, Cromwell si farà comunque strada a corte, diventando il fidato consigliere di Enrico VIII.
“Si dice che conosca a memoria tutto il Nuovo Testamento in latino, e dunque è il servitore giusto (...) pronto con un versetto non appena gli abati si impappinano. (...) Sa redigere un contratto, addestrare un falco, disegnare una mappa, fermare una rissa per strada, arredare una casa, corrompere una giuria. Sa citare un bel passo dai classici, a cominciare da Platone per finire a Plauto e viceversa. Conosce la nuova poesia e sa recitarla in italiano”.
E infatti ci sono molte citazioni in italiano nel testo inglese, l’edizione ne è corredata da un buon apparato. Leggerete dei Frescobaldi, dei Medici, citazioni di Petrarca e Dante, perché Cromwell è cresciuto in Italia e deve molte delle sue arti a questa opportunità che ha avuto, oltre ad un’indole pronta e scaltra che gli permette di eseguire, anche se malvolentieri, gli ordini del re, godere finanche della fiducia della spregiudicata Anna Bolena.
Una parola va spesa per Enrico VIII: dalla storia noi sappiamo che divorziò da Caterina per sposare Anna Bolena e che da lì partì lo scisma della Chiesa anglicana da quella di Roma. Nel libro viene ricostruita questa difficile e travagliata storia durata circa sette anni, tra pruriti e dubbi religiosi da parte di Enrico VIII per avere la possibilità di risposarsi uscendone “pulito”, dimostrando grazie a medici e cardinali condiscendenti, la nullità del precedente matrimonio. Il sovrano che viene fuori dalla storia è magnanimo, simpatico e , strano a dirsi, molto attento alla religione. La stessa Caterina, pur con il rancore di essere scaduta a “principessa vedova del Galles” lo ammetterà :
“Io però so che lui ha bisogno di essere dalla parte della luce. (...)Enrico può sbagliare, ma ha bisogno del perdono”.
Walf Hall, località dell’Inghilterra, dà il titolo all’opera, ma in realtà la troviamo solo alla fine della storia: lì risiede la famiglia Seymour, che, chi conosce i Tudor, sa già che ruolo avrà nei successivi sviluppi della storia inglese.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi ama la storia e i romanzi storici
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    04 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Il primo Hardy

Le cosiddette ‘opere minori’...

...che talvolta sorprendono in maniera sconvolgente, forse perché non ci si aspettava granché.
A me Hardy era piaciuto sin da quando avevo letto “La brughiera”, allora ero molto più giovane, ma mi aveva già piacevolmente colpito sia lui sia una scrittrice conosciuta col nome di George Eliot, entrambi di età vittoriana.
Questo è il suo primo romanzo, datato 1871, che dimostra già il talento dell’autore e quelli che saranno i suoi motivi tipici a cui resterà quasi sempre fedele: l’attenzione al mondo della campagna inglese ed ai suoi protagonisti, la presenza della natura e i particolari paesaggistici.
In “Estremi rimedi”, così come in altre opere di Hardy, il narratore è onnisciente e fa sentire molto spesso la sua voce, tramite massime, riflessioni. Ogni capitolo è costellato di citazioni (molte di più rispetto alle opere successive)tratte dalla Bibbia, dalle Georgiche di Virgilio, da poeti quali Milton, Coleridge, Shelley.
L’eroina, Cytherea (altro nome di Venere, da qui l’amore di Hardy per la mitologia classica) è contesa da due uomini, Manston (polo negativo) e Edward (polo positivo), ma non ha ancora nulla della combattività, dell’intraprendenza delle altre protagoniste femminili dei romanzi successivi, in quanto troppo timida, troppo impacciata.
Un altro personaggio che avrebbe meritato maggiore spessore psicologico è Miss Aldcliff: una donna ambigua, equivoca, dal passato oscuro, che accoglie presso di sé Cytherea come dama di compagnia . Non vi rivelo nient’altro, lascio al lettore la scoperta di una trama che avvince, arricchita da tanti passaggi di gusto gotico che impreziosiscono un nucleo noir/mystery, alla maniera di Wilkie Collins.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A chi ama i classici, in particolare i romanzi dell'epoca vittoriana
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    23 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

I libri sono fatti per legarsi agli uomini

Brevissimo, ma intenso ed emozionante.
Scritto in terza persona, è la storia di un ricordo. Il narratore ci porta in un caffè viennese detto Caffè Gluck, un locale alla buona, frequentato da “gente modesta che consumava più giornali che dolciumi”. Manca in quel caffè da molti anni e, appena si siede ad un tavolino, è sopraffatto dal ricordo di un uomo speciale, fuori dal comune, un bibliomane unico nel suo genere: Jackob Mendel, detto Mendel dei libri.
Sono passati così tanti anni, vent’anni, ma di lui ricorda le fattezze, come se ce lo avesse davanti agli occhi in quel momento: “lo sguardo dietro le lenti incollato in modo ipnotico a un libro”, salmodiando e dondolandosi avanti ed indietro come se fosse in una scuola talmudica, quale quella che aveva frequentato da ragazzo, essendo ebreo.

“Perché lui leggeva come altri pregano, come i giocatori giocano e gli ubriachi tengono lo sguardo fisso nel vuoto, storditi; il suo rapimento quando leggeva era così commovente che, da allora, il modo in cui gli altri leggono mi è sempre parso profano. In Jakob Mendel, in quel piccolo rivendugliolo galiziano con i suoi libri, avevo visto personificato per la prima volta – ero giovane allora – il grande mistero della concentrazione assoluta, che rende tali l’artista e lo studioso, il vero saggio e il perfetto monomane, la tragica ventura e sventura della piena possessione”.

Un uomo talmente preso dalla lettura e dai libri che non riusciva a concepire la vita al di fuori della carta stampata, al punto tale da non conoscere gli eventi e le conseguenze della guerra mondiale in corso mentre lui, seduto al caffè Gluck, memorizzava titoli, prezzi, edizioni...
Anche se Mendel è un personaggio estremo, “più unico che raro”, chi ama i libri troverà qualche pezzo di se stesso nella storia del bibliomane galiziano. Non sarà la sua memoria prodigiosa, non sarà il suo profondo livello di concentrazione, ma la devozione sì. Chi ama i libri non è mai sazio di letture, accumula libri su libri, non ne ha mai abbastanza. Chi ama i libri fa di tutto per trovare spazio nella giornata da consacrare a un libro. Leggere non è un’attività opzionale, leggere è respirare.

Un libro piccolo e denso, che racchiude dentro di sé almeno due lezioni: quella dell’unicità di ognuno di noi, che rimane nonostante gli eventi esterni e quella del ricordo, che unisce le persone e fa rivivere quelle che non ci sono più . In questo senso il libro è uno scrigno e al tempo stesso uno strumento del ricordo:

“i libri si fanno solo per legarsi agli uomini al di là del nostro breve respiro e difendersi così dall’inesorabile avversario di ogni vita: la caducità e l’oblio”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
I libri di Zweig

Per chi ama trovare libri che parlano del piacere della lettura “Trance. Autobiografia di un lettore” di Alan Pauls
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti di viaggio
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    21 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un viaggio imperdibile tra passato e presente

Volevo segnalare questo bellissimo libro letto qualche anno fa insieme ai saggi di Braudel e Abulafia. Non si tratta però di un manuale di storia, ma, come lo stesso sottotitolo suggerisce, una piacevole traversata del Mediterraneo, il mare nostrum attraverso i secoli, i popoli che lo attraversavano, le culture diverse che vi si affacciavano, arrivando a puntuali ed interessanti riflessioni sul presente.
L’autore, storico medievista ed esperto di storia mediterranea, tenendo “uno sguardo alla storia di questo mare e l’altro al suo difficile presente” ci accompagna in questo viaggio sentimentale in quattro navigazioni, partendo dal porto del Pireo di Atene, oggi una delle città più inquinate d’Europa ed approdando a Napoli, dopo essere passati per Instabul, Palermo, Venezia, Cartagine (Tunisi), Genova, la costa spagnola.
Ogni capitoletto è un vero piacere per l’immaginazione e per la memoria storica: di porto in porto, i paesaggi, i monumenti, i personaggi indimenticabili che hanno reso famosa quelle città. In viaggio come novello Ulisse nella consapevolezza che i versi omerici “ci dicono qualcosa di ancora più semplice ed immediato (...): c’è un uomo, in un mare che sembra infinito, sotto una volta immensa di stelle; tutto qui”.
Quando a guidare i marinai non erano le moderne attrezzature ed equipaggiamenti, ma solo e semplicemente le stelle.
Un mare, il nostro Mediterraneo, che non ha mai presentato una sola ed omogenea realtà sulle sue coste. Come ricordava il grande Braudel, la cui lezione è rimasta insuperata: non esiste un solo Mediterraneo, ma più Mediterranei, tante realtà, una diversa dall’altra. Conflitti, lingue diverse, religioni diverse, fanatismi diversi, ma anche fitti ed intensi scambi commerciali e culturali al punto tale da parlare di mondo interconnesso anche nell’antichità. Oggi però, come Vanoli in più parti del libro sottolinea, il Mediterraneo è diventato un mare senza orizzonti e, sembra, senza futuro.

“Pochi anni, ma sono bastati: il Mediterraneo adesso è una parola che fa paura, che ci divide e ci indigna. Non importa più la sua storia millenaria: importano i disperati che vi affogano ogni giorno, importa la crisi economica che da anni lo attraversa come una tempesta, importano i pazzi e gli assassini che ne insanguinano le coste. C’è chi dice che abbiamo fatto le scelte sbagliate (...) . Può essere, io mi limito solo a registrare che una parola ha cambiato di suono: eroso dalla globalizzazione, dalle politiche di un’Europa sempre più settentrionale, da devastanti scelte finanziarie, da una lotta religiosa cieca e fanatica, poco a poco questo Mediterraneo millenario ha cominciato a spegnersi”.

Malinconia per una vivacità ed una specificità economica e culturale perdute, ma anche un invito, perché no, a viaggiare e vedere le nostre bellissime città senza far uso di internet e di asettiche strumentazioni, alla riscoperta delle diverse culture che hanno fatto la storia del nostro mare.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Per chi ama la storia e i racconti di viaggio
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    20 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La leggenda di un amore assoluto

“La canzone di Achille” è il romanzo d’esordio della docente di lettere classiche americana Madeline Miller , è stato pluripremiato e tradotto in ben 25 lingue. In Italia è stato tradotto nel 2013 da Sonzogno.
Ho deciso di leggerlo non per i premi letterari e né per il successo internazionale, -non sono mai stati i miei parametri di elezione- ma solamente e semplicemente perché avevo letto “Circe”, il secondo romanzo della Miller, pubblicato in Italia l’anno scorso ed ero rimasta profondamente colpita e deliziata dallo stile della scrittrice, che in quel caso aveva saputo unire magicamente la rigorosità e l’erudizione del mito ad una scrittura fluida e scorrevole.
“La canzone di Achille “ mi ha tenuta incollata alle pagine, l’ho letta con grande voracità, in due giorni appassionati, perché la Miller sa rendere avvincenti le storie, c’è poco da fare, in questo ha un talento che sicuramente le permetterà di scrivere altri bellissimi romanzi di successo, ma...non mi ha convinta come in “Circe”.
In questo romanzo d’esordio c’è secondo me qualche forzatura del mito e delle sue varianti che non avevo trovato nel più ligio “Circe”, che pur , come in questo, ha riscattato dalle tenebre una figura “minore” dei poemi omerici.
Un certo non so che di libri che oggi vanno tanto di moda, il genere “young adult” (con tutto rispetto per il genere, ribadisco), permea quasi mezzo libro, per la precisione, la prima parte: Achille e Patroclo, un’amicizia nata in tenera età che esplode in passione in adolescenza, contrastata da figure adulte (fortemente dalla terribile e possessiva madre del “divino”, Teti e in maniera più blanda, dal padre di lui, Peleo e il centauro Chirone, che fa da tutore/insegnante ai due giovani sul monte Pelio). Gli ingredienti per quel genere ci sono tutti, unisci la parte più “fantasy” dovuta al mito (il centauro e le erbe magiche, una pallida e insinuante ninfa marina che non risparmia parole amare e sguardi sprezzanti a Patroclo) ed ecco il grande best seller dell’età contemporanea. Delicatissima e sensuale la penna della Miller (le va riconosciuto) quando con pochi tratti magici carica progressivamente le scene di passione.

Questa caratteristica manca in “Circe”, ad esempio, che è un romanzo dalla tematica fortemente femminista e, nonostante le fugaci storie d’amore che la maga ‘dalla voce umana’ vive, manca la passione, il fuoco dell’amore assoluto che lega Patroclo ed Achille, uniti anche nella morte (spoiler, ma si sapeva, è il mito).

“Lo riconoscerei anche solo dal tocco, dal profumo; lo riconoscerei anche se fossi cieco, dal modo in cui respira, da come i suoi piedi sferzano la terra. Lo riconoscerei anche nella morte, anche alla fine del mondo”.

Nella storia raccontata non manca nessun episodio importante del mito dei due protagonisti: dal travestimento di Achille tra le figlie di Licomede, re di Sciro, al figlio di Achille avuto dopo due notti di passione forzata con la principessa Deidamia.
La Miller però per rafforzare il legame tra Achille e Patroclo , rende Achille totalmente refrattario alle dolcezze del corpo femminile, per cui, mentre nel mito qualche scappatella sull’altro “versante” l’eroe se la concede, qui Achille ricorda piuttosto l’erede sumerico Gilgamesh che osa rifiutare l’amore della dea Ishtar, dicendole “cosa potrei darti dopo averti posseduta? Tu sei un forno che non sa sciogliere il ghiaccio”.... (Epopea di Gilgamesh, Adelphi).


La seconda del parte del libro parla della preparazione alla guerra di Troia e una buona parte della guerra, dopo la morte di Patroclo, viene portata a termine in maniera abbastanza snella e veloce. Questo non è il libro della guerra di Troia, nonostante alcuni personaggi siano ben delineati come il fiero ed orgoglioso Agamennone, l’astuto Odisseo, la dolcissima Briseide.
È la canzone dell’amore assoluto, omosessuale -ben accettato presso i Greci, ma fino all’adolescenza, dopo ci si aspettava che l’uomo prendesse moglie (come ci ricorda la Cantarella nel suo bellissimo libro “Secondo natura, bisessualità nel mondo antico”)- tra un mite Patroclo ed un doratissimo, fulgido Achille. Un’altra pecca della storia: la riduzione di Patroclo ad un’appendice del principe di Ftia, Achille. Totalmente inetto al combattimento e portato invece al supporto medico del campo greco, Patroclo ha sempre bisogno della protezione di Achille. Ma....ci sono delle sorprese...ci sono degli escamotages geniali che, a chi come me non sopporta rielaborazioni troppo libere del mito, possono piacevolmente sorprendere.

Narrato in prima persona da Patroclo dalla prima all’ultima pagina , in carne e...anche in spirito.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi ama le storie ispirate alla mitologia. Inutile dire che è necessario conoscere i poemi omerici per una migliore comprensione del libro.
Interessante il parallelismo amicizia/amore Gilgamesh-Enkidu nell’epica sumera, L’epopea di Gilgamesh.
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    16 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Vivere e poi fare musica

Ho scelto di leggere questo libro intrigata dal titolo e perché da tempo desideravo avvicinarmi a Jan Brokken, autore olandese che prima di dedicarsi ai romanzi, è stato giornalista e grande viaggiatore, oltre che musicologo.
“Nella casa del pianista” è un libro che ho letto con voracità, un libro che mi ha emozionata e toccato le corde più profonde del cuore. Una storia vera, personaggi reali, tante tematiche interessanti e di grande valore: la libertà di vivere la propria omosessualità, l’amicizia, la famiglia, il legame con la patria sovietica lontana, ma sempre nel cuore, la dipendenza dalle droghe e la malattia.
La scrittura snella, scorrevole e chiara ed una storia reale e palpitante dalla prima all’ultima pagina.
Il pianista che campeggia nella prima e nella quarta di copertina è Youri Egorov, in una foto che lo scrittore gli ha scattato in uno dei tanti momenti insieme prima della prematura morte dell’artista a soli trentatré anni, per complicanze dell’AIDS.
L’autore è narratore interno ed anche personaggio: la scrittura è lineare con pochi flashback, adatta a chi non ama particolarmente i salti temporali.
Youri è stato un artista russo fuggito, a soli ventidue anni, al regime sovietico, un apolide con passaporto di Nassen (come Stravinskij, Chagall, Aristotele Onassis) prima di ottenere la cittadinanza monegasca. Accolto in Olanda come rifugiato politico, ha incontrato l’autore e un ristretto gruppo di amici che popoleranno la sua casa aperta alle feste, alla musica, alla vita. Un giovane talentuoso che si faceva amare per la sua timidezza, la sua umiltà e il suo fascino. Un perfezionista, un virtuoso del pianoforte. È stato emozionante cercare su YouTube i suoi concerti, vederlo e sentirlo suonare e pensare che grazie a Brokken il mondo può conoscere la storia, fatta di esaltazione e di caparbietà fino alla fine, di un talento che ci ha lasciato troppo presto.
Una vita , come quelle di tante altre celebrità, che come meteore hanno incendiato il cielo della musica spegnendosi a causa di scelte sbagliate.
Il libro è interessante per i contenuti e l’ambientazione, il periodo storico preso in esame: siamo in piena guerra fredda, negli anni della cortina ferro prima e la caduta del muro di Berlino poi, gli anni della beat generation, gli anni delle band storiche.
Soprattutto tanta tanta musica classica. I passaggi che ho sottolineato e che mi hanno emozionata sono veramente tantissimi, ne scelgo giusto qualcuno:
“Da questo punto di vista, (Youri) si sentiva inferiore ai poeti della parola. Una poesia non solo continua a esistere, ma ogni generazione ci legge qualcosa di diverso. Una poesia, diceva, si fa ricordare parola per parola, un concerto solo in modo vago. Ribattevo che lui era il poeta del momento. Poteva trascinare una intera sala e dare a chiunque avesse la sensibilità la sensazione di assistere alla realizzazione qualcosa di insolito, di mai sentito. Se tutto andava bene, reinventava la musica; se tutto andava bene, dava nuova vita a note morte e interagendo con il pubblico crava qualcosa di indimenticabile”.

Ma Youri amava anche vivere. Lontano dall’Unione Sovietica poteva mostrare liberamente la propria omosessualità. Aveva un compagno di vita, ma anche tanti amanti, quando non c’erano gli impegni dei concerti era capace di incontri promiscui. Sapeva reggere bene l’alcool, faceva uso di droghe, amava le feste a base di stupefacenti. Gli servivano, dicevano, per reggere la tensione. Ma saranno la sua rovina.

Le ultime pagine sono piene di poesia, struggenti, mi hanno emozionata.

“Il sole rimase nascosto dietro le nuvole grigio chiaro. La luce era a tratti intensa, altre volte smorzata, e sembrò che Youri vi adeguasse il suo modo di suonare, come se reagisse a ciò che vedeva sulla distesa del mare. (...)
Il paradiso, il paradiso non esiste. Tranne in rari casi, nei momenti magici della musica. Quel pomeriggio il cielo scese sulla terra. Ciò che fece ascoltare non solo fu di una bellezza immortale, fu come se Youri avesse dato corpo all’eternità.”

Invito ad ascoltare

https://youtu.be/X565UtJ3BGQ


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consiglio di leggere tutti i libri di Brokken, nei suoi libri si parla tantissimo di musica e letteratura russa, ne fu grande conoscitore.
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    11 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Ogni cosa è ridicolizzata

“Anche questo è un buon metodo, diceva ieri, mentre oggi, quindi il giorno dopo, io lo osservavo di lato e dietro di lui vedevo. Irrsigler che aveva sbirciato un attimo dentro la Sala Sebastiano senza badare a me, mentre io dunque continuavo a tener d'occhio Reger, il quale continuava a sua volta a osservare l'Uomo dalla barba bianca di Tintoretto, anche questo è un buon metodo, diceva, quello di ridurre tutto a caricatura. Un grande quadro, diceva, un quadro importante, lo sopportiamo soltanto dopo averlo ridotto a caricatura, e un grand'uomo, nonché una cosiddetta personalità importante, non li sopportiamo, l'uno in quanto grand'uomo, l'altro in quanto personalità importante, diceva, e non possiamo fare a meno di ridurli a caricature”.

 L’ impressione che ho avuto nel leggere per la prima volta Bernhard è stato un misto di perplessità e di fastidio: non riuscivo a capire lo stile, il suo particolare modo di scrivere, contraddistinto da una parola o da un concetto che non è mai da solo, ma sempre accompagnato dal suo doppio o dal suo opposto e una ripetizione ossessiva e straniante di parole o intere frasi.
Non è semplice da leggere a cuor leggero. E non è semplice neppure, per carità, accettare che vengano smontati e, talvolta, ridicolizzati i grandi maestri della pittura e della musica di tutti i tempi.
 
E’ solo il primo approccio, basta farci l’abitudine e si riesce ad apprezzare tutto il libro e anche l’autore che conserva, nonostante il verbum tagliente, un certo humor, forse un po' rarefatto, ma che mostra tuttavia una certa efficacia ai fini della piacevolezza di lettura.
 
Un autore misantropo, pessimista, aspro, che odiava tal punto l’Austria e gli Austriaci fino alla morte, che non ha voluto mai che le sue opere venissero pubblicate in quella nazione.
 Il libro è una sorta di lungo monologo, in cui, come in una scatola cinese, noi conosciamo i pensieri di un personaggio attraverso le parole di un altro personaggio, nello specifico è Atzbacher che parla, ma attraverso di lui parla Reger, indimenticabile burbero chiacchierone ottantaduenne, che confessa:

“Sapere meno di quel che so a questo proposito sarebbe comunque stato
meglio, ma con l'età vengono appunto alla luce molte cose non richieste”.

Questo modo di esperimersi a cerchi concentrici, Atzbacher-Reger-autore stesso, è davvero originale. La figura che azzarderei a definire più neutrale è la prima, Reger è l’alter ego di Bernhard, un personaggio solitario e senza speranza, che dopo la morte della moglie fatica a trovare un motivo per andare avanti. La confortante abitudine, coltivata per trent’anni, di andare un giorno sì ed uno no nella sala Bordone del Kunsthistorisches Museum a meditare davanti al quadro di Tintoretto “L’uomo con la barba bianca” torna dopo mesi di totale sconforto.

Bernhard aveva detto di scrivere per avversione, per unire il piacere al fastidio.
“Il cervello ha bisogno di contrasti” aveva scritto in “Tre giorni”, (Aut-Aut, 2005): questo gioco dei contrasti, degli ossimori talvolta, ripercorre tutto il libro fino ad un finale paradossale. Dopo aver ridicolizzato grandi capisaldi della musica come Beethoven “il depresso cronico”, quel “ciccione puzzolente di Bach seduto all’organo di San Tommaso” , pittori come Dürer, i cui quadri valgono meno delle cornici, Tiziano, lo stesso Tintoretto e tanti altri, tutti senza essere risparmiati da affondi al vetriolo, considerati asserviti allo Stato e alla Chiesa, Reger-Bernhard ammette poi, paradossalmente:

“ è dagli Antichi Maestri che io devo andare per poter continuare a esistere, proprio da quei cosiddetti Antichi Maestri che a dire il vero detesto da tempo, da decenni, infatti non c’è niente che io detesti di più di questi cosiddetti Antichi Maestri del Kunsthistorisches Museum (…)”.
 
Le invettive con l’Austria e gli Austriaci si sprecano in questo libro: non si salva nessuno, nessuna categoria sociale, letterati, artisti, governanti, finanche gli insegnanti e ...i gabinetti. I critici d’arte fanno passare il gusto per l’arte, gli insegnanti che accompagnano le scolaresche al Museo distruggono le menti dei ragazzi, privandoli di ogni inventiva, creatività e slancio artistico innato. Queste categorie sociali sono in qualche modo asservite allo Stato che toglie umanità all’uomo. Non a caso dichiara che, insieme a pochi altri quali Pascal e Montaigne, Voltaire è “il mio amatissimo”, l’autore anticlericale per eccellenza, uno dei principali ispiratori del pensiero laico moderno.

Come per l’arte, odiata/amata, anche nei confronti degli esseri umani l’atteggiamento è ossimorico: mentre pochi minuti prima Reger-Bernhard aveva parlato di ottusità umana, di disgusto verso gli esseri umani, dopo confessa di esserne profondamente attratto, irreversibilmente:

“Mi sono sempre dedicato esclusivamente agli esseri umani, di per sé, infatti, la natura non mi ha mai interessato, tutto in me è sempre stato in relazione con gli esseri umani, io sono, per così dire, un fanatico degli esseri umani, diceva, non un fanatico dell'umanità, com'è naturale, ma un fanatico degli esseri umani”.

Come si vede dalle citazioni, la lingua di questo autore è ricercata e segnata dalla ripetizione ossessiva e, per dirla con Emilio Garroni (Laterza , 2003) in Bernhard “ la ricorrenza non è solo ripetizione materiale (…) è piuttosto capacità di far risaltare in un'interpretazione un’ossessione letteraria”.

Devo la scoperta di questo interessante autore a Ioana e al gruppo di lettura per i Qfriends più attivi, a tal proposito rimando alle loro recensioni che precedono la mia.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato ai lettori che apprezzano lo stile di un libro, più che la trama
Trovi utile questa opinione? 
110
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    27 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Undisclosed desires

Questo breve romanzo della scrittrice americana Edith Wharton è stato pubblicato nel 1911 ed è stato ingiustamente oscurato dal ben più noto “L’età dell’innocenza”.
Rispetto a quest’ultimo cambiano i personaggi, la loro estrazione sociale, l’ambientazione, le tematiche, ma rimane la profonda, spietata e negativa visione della vita. Il dolore, i desideri insoddisfatti affliggono tutte le classi sociali e tutti i sessi.
L’amore, il bisogno di sentirsi accesi e vivi, la necessità di stare vicino a chi ci fa provare queste sensazioni al di là delle convenzioni sociali, dei matrimoni infelici contratti frettolosamente solo per necessità o per dovere come nel caso di Ethan Frome, accomunano molte persone su questa terra. Ed è per questo che questo romanzo, breve, ma intenso, è così umano e così vicino.
Un uomo nel vigore degli anni, con pochi mezzi, che si trova sposato ad una donna più anziana di lui di sette anni, che si ammala subito dopo le nozze, di una ipocondria che la invecchia in poco tempo, rendendo infelice e infruttuoso un matrimonio azzardato e contratto solo per gratitudine.
Quando la giovane e fresca Mattie, parente della moglie, arriva per prendersi cura della casa, il cuore di Ethan riprende a battere e si risveglia alla insperata luce di un sole sconosciuto.
È straordinario come la Wharton, così come l’amico scrittore Henri James, che ho potuto conoscere in “Il giro di vite”, sappia rendere in pochi tratti e con una tecnica infallibile, tutte la tensione narrativa e seminare in poche righe la forza, come una tenaglia, dei sospetti non detti, non rivelati, della moglie malata Zeena, ben nascosti dietro i suoi atteggiamenti serafici.
La figura esile, invecchiata della moglie è ossimoricamente sostenuta da un carattere forte, tirannico, che viene da quell’egoismo tipico degli ipocondriaci.

“Tutta la tristezza del suo passato di frustrazioni, di una giovinezza fatta di fallimenti, di sacrifici e sforzi inutili, gli risorse nell’anima con amarezza e sembrò prendere forma dinanzi a lui nella donna che lo aveva sempre ostacolato. Gli aveva portato via tutto quello che aveva, e adesso era intenzionata a togliergli quell’unica cosa che avrebbe potuto compensare tutte le altre”.

Alla fine del libro però il lettore prova compassione per tutti i personaggi, anche per Zeena, perché un destino avverso colpisce tutti in questa vita.


È straordinaria la delicatezza con cui la Wharton descrive lo sbocciare di quest’amore, travolgente, eppur casto che si accontenta di pochi gesti semplici e di semplici parole.
Semplicità è la parola magica che connota Ethan, la sua vita e il suo amore per Mattie, semplicità connota la struttura di questo breve romanzo. E, come si suol dire, i diamanti splendono soprattutto se incastonati su una montatura semplice.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Purché l’edizione sia ben curata, consiglio tutti i libri di Edith Wharton. A cominciare da “L’età dell’innocenza”.
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
3.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    25 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

NON SI PUÒ INGANNARE LA STORIA

“Nonno”, domandai “è qui che hanno sparato agli ebrei o più avanti?”
Il vecchio si fermò, mi squadrò dalla testa ai piedi e disse:
“E di russi quanti ne hanno ammazzati qui, e di ucraini, e di ogni nazione?”

Babij Jar è un burrone, una gola di montagna nei pressi di Kiev, in Ucraina, dove tra il 1941 e il 1942 sono stati compiuti i più efferati, disumani, irrazionali, vergognosi crimini contro l’umanità. Se ti portavano a Babij Jar, eri sicuro che avresti perso la vita. All’inizio venivano fatti cadere giù di fila, a colpi di fucile, solo gli ebrei, ma poi vennero uccisi tutti, russi, ucraini, polacchi, di ogni nazione, perché sospetti di partigianeria o anche per sola noia, per il semplice piacere di uccidere.

Questo massacro è il focus del romanzo-documento di Anatolij Kuznecov, oltre 450 pagine di crudeltà e brutalità , edito integralmente, senza censure, da Adelphi nel 2019.
Nell’introduzione l’autore racconta la travagliata storia editoriale del suo documento nell’ex URSS: nel 1965, quando si decise a far conoscere al mondo il massacro di Babij Jar, i redattori di Junost’ gli restituirono il manoscritto “inorriditi”, perché la denuncia antisovietica era palese. Kuznecov fu costretto ad operare una serie di tagli, di modifiche, rimaneggiamenti tali da rendere il libro irriconoscibile. “Ho sempre dovuto lottare per ogni frase, mercanteggiare, aggiungere robaccia ideologica”.
Ha sempre dovuto tenere nascosti i manoscritti originali, sotto terra chiusi in barattoli, le pellicole di Babij Jar chiuse in una valigia di ferro, fino a quando nell’estate del 1969 Kuznecov decise di scappare dall’Unione Sovietica e dare alla stampa occidentale i suoi manoscritti senza timore di censure.

“Tutto in questo libro è verità “,

perché gli orrori vanno denunciati, perché le ceneri che coprono il fondo del burrone, quella sabbia divenuta grigia, “battono sul mio cuore”.

L’ autore non ha romanzato niente, ove non ha potuto testimoniare di persona, in quanto ragazzino di 12 anni, all’epoca dei fatti, ha raccolto ciò che hanno vissuto le persone da lui ritenute attendibili. Ha cominciato a scrivere questa testimonianza da ragazzino

“ in un grosso quaderno messo insieme da me, io che ero allora un ragazzino troppo affamato e irrequieto annotai a casa, da tutto ciò che avevo visto o sentito e che sapevo di Babij Jar. (...) per non dimenticare nulla.”

Man mano che l’opera prendeva forma sotto la sua penna, Kuznecov si rese conto che, se avesse dovuto usare il “realismo socialista” come cifra stilistica e ottenere la verità artistica, la sua opera sarebbe divenuta fasulla, piatta ed ignobile. Il realismo socialista ha contribuito ad uccidere in sostanza la letteratura russa, sostiene l’autore sin dalle prima pagine del romanzo.

Si legge la storia familiare del piccolo Anatolij, Tolija per la madre, con la nonna, altruista e fervente cristiana ortodossa, il nonno che ricorda la vita sotto gli zar e la rivoluzione bolscevica e le vicende, documentate con puntuali articoli di giornale (tutti riportati nelle note) che videro come teatro il burrone di Babij Jar e le retate naziste che costringevano a far uscire di casa povera gente che aveva sempre evitato di mostrarsi al pubblico “mi colpì quanta gente malata e infelice ci fosse al mondo”.
Una Kiev dilaniata nel suo cuore prima dalla rivoluzione bolscevica, poi dall’incubo nazista capace di ogni ferocia primordiale contro uomini, donne, anziani e bambini.

Un lungo e veritiero racconto, crudo e spietato, alternato a brevi considerazioni dell’autore al termine di ogni parte del libro, in tutto tre. Illuminanti ed acute le sue considerazioni sulla civiltà, su quello che lui chiama umanesimo che dovrebbe incarnare i valori più alti dell’uomo, la cultura ridotta al fumo di libri bruciati che non avrebbero saputo dare una risposta alla domanda “perché questo?”:

“Fra le due forme di sadismo non c’è una differenza di principio. Nell’«umanesimo tedesco» di Hitler c’erano più inventiva e crudeltà fanatica, ma nelle camere a gas e nei forni crematori morivano cittadini di altre nazioni e di paesi conquistati. L’«umanesimo socialista» di Stalin non si spinse a immaginare i forni crematori, ma in compenso annientava i propri connazionali. In tali specificità sta tutta la differenza; non si sa che cosa sia peggio”.

Ogni forma di umanesimo ha il suo proprio assassino, afferma Kuznecov, e quando incontra la credulità delle persone trova terreno fertile per ingigantirsi e distruggere intere civiltà. Quando gli eccidi terminarono e si tornò con difficoltà alla normalità, su Babij Jar calò il silenzio per molti decenni, fino a quando qualcuno non decise che era dovere morale far conoscere al mondo di cosa l’uomo è capace in qualunque momento. Anche civiltà evolute sanno tornare alla vita efferata e selvaggia, in quanto “la scienza non è stata un ostacolo alla barbarie”.

Una lettura non facile a causa della crudeltà e della crudezza di tante scene, ma doverosa, perché la memoria è un monito efficace e un alto dovere civico.



Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
per la crudeltà e la violenza del contenuto, devo avvisare che la lettura adatta ad un pubblico poco impressionabile. Tuttavia, per l’importanza e la preziosità della testimonianza dì Kuznecov, questa lettura è un dovere morale, perché la giornata del 27 gennaio ricorre ogni giorno e non un giorno all’anno.
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Arte e Spettacolo
 
Voto medio 
 
3.6
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
3.0
Approfondimento 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    22 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La letteratura che fa male

Comincio subito con due avvisi ai lettori:
1)nonostante il sottotitolo, questo non è un manuale di letteratura con tanto di riferimenti storici, biografie di autori e descrizioni delle loro opere, magari in ordine cronologico. Se state cercando un testo del genere, rivolgetevi altrove, questo libro non fa per voi.
2)Se NON conoscete i principali autori russi, come Tolstoj, Puškin, Dostoevskij, Gogol, Turgenev, questo testo non fa per voi.

Ma se invece avete una buona conoscenza di questi autori e delle loro opere, vi consiglio questo libro fuori dalle righe, curiosissimo e veramente piacevole.
Paolo Nori è uno scrittore e studioso di letteratura russa, conosciuto per aver tradotto, tra gli altri, “Oblomov” di Goncarov, “Chadzi Murat” di Tolstoj.

“I Russi sono matti” può essere considerato una chiacchierata colta, una sorta di bilancio dopo trent’anni di studio, di letture e continue riletture dei grandi classici russi. Un discorso spontaneo, ordinato in base a tre tematiche: il potere, l’amore, il byt. Quest’ultimo termine, come “pochmel’e, che l’autore spiega facendo esempi con passaggi tratti dalle opere russe più famose, non ha un termine corrispondente nella nostra lingua.

L’approccio di Nori è sempre quello di chi “ne sa poco”, ma il lettore si accorge subito che dietro la modestia, il sorriso (amaro, di sicuro) si cela un uomo preparato, uno studioso che , come si suol dire, sa il fatto suo.

Una modestia sincera, perché, l’autore lo precisa subito, la letteratura russa è “inabbracciabile”, non esisterà mai un esperto di Dostoevskij, di Tolstoj , per citare i più famosi. Una passione inspiegabile, a cui cerca di dare una risposta. Le passioni più forti non si spiegano e forse non c’è motivo per chiedersi il perché gli autori russi ci piacciano così tanto.
La spiegazione, Nori, man mano la trova tra le pagine che scorrono lisce com l’olio. Incominciando dal male. A quindici anni, quando lesse per la prima volta “Delitto e castigo” di Dostoevskij, subito avvertì che era speciale, diverso dai libri che aveva letto prima. “E che i libri, penso, quelli belli, e gli scrittori, quelli bravi, fan questo effetto che, non so come dire, ti feriscono. Ti fanno star male. E uno dei pregi della letteratura russa, dal mio punto di vista, è che è la letteratura che mi fa star più male di tutte le altre. (...) E non era come Giulio Verne, a me piaceva (a 15 anni) molto anche Giulio Verne, non era come Fitzgerald, a me piaceva molto anche Fitzgerald, non era come Sciascia, allora mi piaceva moltissimo anche Sciascia, no: faceva più male.
Per quello, credo, ho letto più libri scritti in russo che libri scritti in qualsiasi altra lingua, per il male”.
E non solo per questo. Nelle prime pagine del libro, Nori cita un saggio di Šlovskij sull’arte, sulla sua funzione di “risuscitare la nostra percezione della vita”, i nostri sensi. “Scrivere vuol dire sforzarsi di vedere il mondo come se lo si vedesse per la prima volta”. Ed è e qui che l’autore sottolinea la necessità del lettore, ma anche dello scrittore moderno, di “farsi crescere dentro la pancia una piccola macchina per lo stupore”. Tutto questo lo aveva detto, con parole diverse, lo stesso Tolstoj nei suoi “Diari”. Lo straniamento è togliere l’imballo, dice Nori, che avvolge le cose quotidiane e riscoprirle nella loro piena autenticità. Uno dei pregi della migliore letteratura russa è proprio questa, il byt, una letteratura che non parla mai del domani, no, ma solo del qui e dell’ora, una letteratura del quotidiano, qualcosa di sconosciuto alle altre letterature.
Secondo lo scrittore parmigiano la migliore letteratura russa, quella che sconvolge l’intimo, lo ferisce, lo tormenta, quella letteratura così diversa da quella occidentale, è stata creata soltanto in quel periodo che va dal 1820 (inizia con Puškin) e finisce insieme all’era sovietica, nel 1991, con Venedikt Erofeev e il suo poema “Mosca-Petuski”. Un arco di tempo circoscritto, ma per fortuna “c’è tanta di quella roba che non basta una vita, per studiarla come si deve”.

Alla fine del libro c’è una curiosissima appendice con aneddoti e curiosità sui principali autori russi e, cosa che non guasta mai, anzi che serve ai più, una guida all’accentazione dei nomi russi (scrittori e personaggi di romanzi) citati nel libro. All’inizio dell’opera una puntuale nota sulle pronunce.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A chi conosce già i grandi autori russi
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    14 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Decadenza di una moschea

“C’era una volta una casa, una casa antica, che si chiamava “la casa della moschea”. Era una grande casa, con trentacinque stanze. Lì, per secoli, famiglie dello stesso sangue avevano vissuto al servizio della moschea. Ogni stanza aveva una funzione e un nome corrispondente a quella funzione, come la stanza della cupola, la stanza dell’oppio, la stanza dei racconti, la stanza dei tappeti, la stanza dei malati, la stanza delle nonne, la biblioteca e la stanza del corvo”.

Proprio come un hekayat , l’antico racconto persiano, comincia questo splendido romanzo, considerato uno dei più bei libri in lingua olandese. L’autore, Kader Abdolah, rifugiato politico iraniano, vive in Olanda dal 1988 e ne ha adottato la lingua per scrivere i suoi libri, in cui la magia e la poesia persiane incontrano e si intrecciano con la cultura occidentale.
La storia narra l’epopea della famiglia che abita l’antica casa della moschea di Senjan: i vari imam che si susseguono, le nonne, la moglie del primo imam, Zeynat, il Muezzin muto, Aga Jan e sua moglie Faqri Sadat, i vari figli e figlie considerati prole della casa, nipoti che vanno via e poi tornano, come gli uccelli migratori che vengono a svernare sulle torri della moschea.
Il personaggio principale è Aga Jan, proprietario del bazar della moschea e commerciante dei tappeti più pregiati e apprezzati dell’intera Persia: uomo religioso, saggio, forte e temperante, è custode della casa della moschea, del suo diario, dei suoi tesori segreti. Interessante la dinamicità del personaggio di Zeynat, da figura scialba e silenziosa, ombreggiata dalla ben più brillante ed amata Faqri Sadat, moglie di Aga Jan, diventa poi una donna intraprendente, sarà protagonista di una storia d’amore clandestina dentro la stessa moschea, accecata dal fuoco della passione che scopre quando è ormai vedova, diventerà poi membro attivo dell’ala islamica più estremista della città.
Indimenticabile Shahbal, nipote di Aga Jan, che incarna l’alter ego del giovane Kader Abdolah: giovane misterioso, sveglio, che si lascia moderatamente coinvolgere dalle scoperte tecnologiche che l’America fa conoscere al mondo. Shahbal prima di partire per l’Europa vendicherà le vittime della sua famiglia, cadute per mano dei fondamentalisti di Khomeini.
Attraverso la storia avvincente dei personaggi della casa della moschea, Abdolah ci fa conoscere la storia della Persia dagli anni dello scià simpatizzante della cultura americana, vista con grande sospetto e perplessità dagli stessi abitanti della moschea di Senjan, fino al regime fondamentalista più rigoroso di Khomeini e dell’invasione irachena capeggiata da Saddam Hussein.
Un libro intrigante e ricco di poesia, di umanità, di storia che per certi versi fa pensare a “Cent’anni di solitudine” di Marquez, per il susseguirsi di vicissitudini e di generazioni legate ad un solo luogo, in questo caso alla grande casa/moschea, anche se lo stile di Kader Abdolah è totalmente diverso da quello del grande scrittore colombiano.
Il segreto di questo libro, secondo me, così positivamente accolto da lettori e critici, è nella sua struttura : uno storytelling che unisce l’antico al nuovo, una Persia fiabesca da “Le mille e una notte “ e da “Calila e Dimna” con i suoi odori, i suoi profumi, variopinti affreschi di interni delle abitazioni e dei luoghi religiosi, le sue usanze e il suo erotismo, alla storia moderna e contemporanea di un Paese che a partire dalla fine del Novecento è lacerato da lotte religiose intestine che spianeranno la strada all’invasione irachena.
Nel giro di pochi decenni l’Iran è irriconoscibile, la casa della moschea spenta.

“Tutto era cambiato. Un tempo il bazar occupava un ruolo centrale nella vita della città, ma ormai non più. I tappeti persiani non erano più il fattore determinante dell’economia e della politica del paese. Petrolio e gas naturale li avevano soppiantati. (...) Fino a poco tempo prima, nessuno avrebbe mai comprato un tappeto da pochi soldi, fatto in serie, che puzzava di plastica, mentre adesso era un articolo sempre più reclamizzato”.

È la fine di un’epoca e l’inizio di quella che noi conosciamo molto bene.

Il mio commento non rende onore alla ricchezza dell’opera e dei tanti personaggi che si odiano e si amano della storia, perché ho preferito evidenziare le tematiche principali e perché la trama va gustata prendendo il libro in mano e leggendolo.
È il secondo libro di Kader Abdolah che ho scelto di leggere dopo “Scrittura cuneiforme “ e ne riconfermo la grandezza espressiva, la ricca immaginazione e il grande valore delle tematiche.
In Italia edito da Iperborea, tradotto da Elisabetta Svaluto Moreolo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A tutti
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    13 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La moglie in affitto

“Madame Chrysanthème” titolo originale di “Kuki -San” (Signora Crisantemo, appunto, in giapponese) è apparso in Francia nel 1887, ma Pierre Loti, ufficiale di marina e narratore di storie esotiche, lo aveva scritto durante il suo soggiorno, durato 36 giorni, a Nagasaki, due anni prima.
La storia è autobiografica, un vero diario di viaggio, in cui Loti descrive la sua esperienza giapponese, insieme all’amico fraterno Yves, in quella terra così lontana e così diversa, non solo geograficamente, dall’Europa.
Com’era usanza comune negli paesi del Sol Levante, gli ufficiali europei potevano sposare temporaneamente una ragazza del luogo, con approvazione dei genitori di lei, una musmé (cioè fidanzata). Si trattava di una compravendita vera e propria: una donna di piacere e di compagnia dietro compenso mensile. In termini meno romantici e brutali, che mi sovvengono al di là di ogni diplomazia, gli ufficiali si assicuravano una prostituta esclusiva, ottimizzando la promiscuità. E succedeva molto spesso, non solo nel Paese del Sol Levante.

Certamente il mio giudizio cinico risente sicuramente del fastidio provato in certi passaggi del libro, dal momento che il senso di superiorità e talvolta di disprezzo, verso una civiltà così lontana da quella dell’autore, mi ha urtata non poco.
Ho odiato le righe in cui senza alcun ritegno Pierre Loti, riferendosi agli uomini di rango giapponesi, li ha definiti brutte scimmie, le giovani donne delle bamboline artificiose,

“la sola cosa che amo di questo paese sono i bambini e i modi in cui vengono compresi”

Qualcuno per fortuna si salva, da questo racconto che, oltre ad essere innegabilmente affascinante, è sicuramente testimonianza di una percezione di forte lontananza tra due mondi, Europa e Giappone. Non generalizzo indicando Oriente ed Occidente, dal momento che Pierre Loti ha ricordi molto più piacevoli e nostalgici di Istanbul e della ragazza che frequentava lì.

Il “matrimonio a tempo” con Kuki-San lascia sin dall’inizio l’amaro in bocca, annulla ogni illusione sentimentale: l’incomunicabilità con la giovane, al di là della conoscenza abbastanza sufficiente della lingua da parte dell’autore, è troppo forte e gela ed amareggia il lettore che quasi prova simpatia per la piccola musmé, incompresa.
“Quando non c’è né disgusto fisico, da una parte, né odio dall’altra, l’abitudine finisce, malgrado tutto, con il creare una specie di legame...”

In effetti il legame creato dalle abitudini coinvolge lo stesso lettore, che quasi si affeziona alle pareti della loro casetta in altura, che devono raggiungere ogni sera, dopo essersi divertiti con amici alle case del té. Si ci abitua al pan pan pan che Kiku-San produce mentre sbatte la pipetta usata per fumare, al suo “hu” quando indica a Pierre una falena o un qualsiasi coleottero attirato di notte nella loro stanza illuminata dalle candele attorno al Buddha dorato.
Il Giappone con le sue piogge improvvise che sembrano paradossali in confronto alla fragilità della carta che invade le costruzioni, delle lanterne traforate e decorate con farfalle o pipistrelli, alla delicatezza delle decorazioni, il Giappone coi suoi colori, col suo “bizzarro ad a oltranza” è troppo lontano nel tempo, nello spazio e nelle emozioni di un Europeo di fine Ottocento.

“Dappertutto oggetti sorprendenti che sembrano incomprensibili creazioni di cervelli capovolti, rispetto ai nostri”, avremmo bisogno di -parole dell’autore- “una lingua più sofisticata della nostra; ci vorrebbe inoltre un segno grafico creato appositamente, da mettere a caso in mezzo alle parole, che indicherebbe al lettore dove scoppiare a ridere in modo un po’ forzato, ma tuttavia con freschezza e grazia “.
Il Paese dove l’eccesso di eleganza diventa finzione.
Un libro che consiglio, dallo stile immediato e scorrevole, con descrizioni mirabolanti e una prosa pungente, affascinante ed istruttivo sui costumi del Giappone tradizionale, “stupefacente patria di tutte le stramberie”

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consiglio di leggerlo insieme ad Onnazaka, di Fumiko Enchi.
Segnalo inoltre la casa editrice O barra O che si occupa di narrativa e saggistica sulla tematica rapporti Oriente ed Occidente, con una veste editoriale che non passa inosservata.
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    06 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Dal passato non si fugge mai

Un libro che unisce la magia dei luoghi e delle parole alla realtà storica di alcuni fatti che hanno interessato l’Iran, l’antica Persia, nella storia contemporanea.
Leggerlo vuol dire trovarsi immersi in una storia affascinante, coinvolgente, ma anche molto dolorosa, scritta con uno stile particolarissimo in cui lo spirito orientale si intreccia armoniosamente con quello occidentale.
Kader Abdloah è lo pseudonimo di Hossein Sadjadi Farahani, dal 1988 rifugiato politico iraniano, che ha eletto l’Olanda come seconda patria, adottandone la lingua per i propri libri, molto apprezzati in Olanda e in Europa, in particolare, il libro “La casa della moschea” è stato votato dai lettori olandesi come il secondo libro più bello degli ultimi anni scritto nella loro lingua.

La scelta di scrivere in olandese è molto chiara: secondo l’autore, la sua lingua nativa, per la lunga storia di dittature e sofferenze che l’Iran ha vissuto e ancora vive, non è più in grado di esprimere la libertà. Tuttavia quell’icasticità , quella semplice solennità e poesia tipica di alcuni famosi autori persiani come Hafez e Sa’di, permea profondamente l’opera che si presta anche ad essere ascoltata, non solo letta. Va dunque riconosciuto il merito alla traduttrice, Elisabetta Svaluto Moreolo.

Il libro è diviso in tre parti con focalizzazione alternata: narratore onnisciente in terza persona, Ismail che narra gli eventi in prima persona, narratore onnisciente. Completano l’edizione Iperborea, un glossario delle parole iraniane utilizzate e dei poeti citati e la postfazione della traduttrice.

“Siamo in due, Ismail ed io. Io sono il narratore onnisciente. Ismail è il figlio di Aga Akbar, che era sordomuto. Benché io sia onnisciente, purtroppo non riesco a leggere gli appunti di Aga Akbar. Perciò racconterò la storia fino alla nascita di Ismail. Il resto lascio che lo racconti lui. Ma alla fine tornerò perché Ismail non riesce a decifrare l’ultima parte degli appunti di suo padre”.

La storia di “Scrittura cuneiforme” si apre e si chiude, come un cerchio magico, con il racconto della caverna, passi importanti per la risoluzione di alcuni punti della storia dei due protagonisti che infondono però nel lettore un senso di rispettoso mistero misto a speranza. Aga Akbar, come avete letto nella citazione, era sordomuto, un semplice annodatore di tappeti, analfabeta, figlio illegittimo del principe Aga Hadi Gorasani. Essendo sua madre molto malata, incapace di provvedere a lui, cresce sotto la protezione e la guida dello zio Kazem Gan che resterà a lungo il suo nume tutelare. La storia di Aga Akbar e di suo figlio Ismail si ambienta nel quartiere di Jeria, a Zafferano, “un villaggio che in primavera è coperto di fiori di mandorlo e in autunno di mandorle”, il paese dove si fabbricano i tappeti volanti delle fiabe.
Lì c’è un monte altissimo, il Monte Zafferano, sulla cima del quale era possibile vedere il confine russo, una costruzione e i soldati dell’Esercito Rosso, ma, ciò per cui il monte è importante, è una caverna in cui ci sono iscrizioni che un antico e potente re persiano fece incidere in caratteri cuneiformi. Il piccolo Aga Akbar era solito scalare spesso quell’altissimo monte insieme allo zio che un giorno gli propose di ricopiare l’antico testo su carta. Kazem Gan aveva intuito nel nipote sordomuto ed analfabeta uno “spirito di artista”, uno slancio che aveva bisogno di trovare sfogo, fosse il pezzo di carta o l’annodare i tappeti. E fu così che Aga Akbar cominciò a scrivere i suoi pensieri con caratteri antichi seguendo il proprio istinto in un taccuino che poi arrivò a suo figlio Ismail, ormai adulto.
Quel taccuino e la decifrazione degli appunti rappresenteranno per Ismail, la possibilità di far pace col passato e di superare il senso di colpa per aver abbandonato la famiglia in Iran durante il pesante regime degli Imam, per salvare se stesso e la sua nuova famiglia. Ismail infatti era militante nel partito che si opponeva al regime e, per non essere arrestato o ucciso, si era trovato costretto a scappare e a rifugiarsi in Olanda. È la storia dello stesso scrittore, di Khaled Abdolah, che ha dichiarato di essersi opposto al regime degli ayatollah, di essere stato membro attivo dell’opposizione. Non solo, con Ismail ha in comune anche la condizione di essere figlio di un sordomuto analfabeta.
Un’autobiografia romanzata. Una storia che suscita tenerezza e che commuove, Aga Akbar nella sua semplicità è l’universale padre che conosce la cultura del cuore aperto, degli stenti e dei sacrifici, un uomo che saluta chiunque sul suo cammino, mortificato dal dolore nel corpo e nello spirito, orgoglioso del proprio figlio, Ismail e geloso e premuroso verso le figlie. Con questo romanzo intuiamo la necessità dello stesso di scrittore di riconciliarsi col proprio passato e troviamo i temi ricorrenti anche nel primo romanzo “Il viaggio delle bottiglie vuote”: la condizione di esule, il ricordo dell’amata terra lontana, la perdita degli affetti più cari, il dialogo ininterrotto col padre.
Anche se ben accolto e ben integrato in Olanda, Kader-Ismail sentirà sempre il richiamo della propria terra, perché :
“Non si fugge mai da qualcosa, si torna sempre indietro. Andare via non esiste. Tornare sì. Si vola lontano, si vola in alto, ma si ricade sempre sul luogo dal quale si è partiti”.

Da leggere.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
SuperConsigliato!
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti di viaggio
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    29 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Verde d’Irlanda

“Questa Irlanda esiste: ma chi ci va
E non la trova,
Non può chiedere risarcimenti
All’autore”

Questa è la sorniona epigrafe a “Diario d’Irlanda” pubblicato nel 1957 a Köln (Colonia), dove l’autore bonariamente sembra voler mettere le mani avanti alle eventuali future critiche al suo ritratto dell’Isola. La terra dei santi, la terra dei gran bevitori, la terra verdissima per eccellenza, un paradiso dove vivere nel senso pieno e dove gli arcobaleni sono sottili come bolle di sapone. Il libro “utopia” di Böll , una “pastorale”, così è stato definito dalla critica, perché l’Irlanda sembra un sogno lontano, dove la speranza, la genuinità dominano quasi indisturbati.
Nelle intenzioni di Böll è davvero così: è un racconto di un viaggio fatto realmente insieme a sua moglie e ai tre figli due anni prima, per sfuggire all’aria pesante della corrotta Germania e visitare le tombe dei suoi poeti preferiti, Swift ed Yeats.
Un racconto pieno di immagini, con personaggi e luoghi tangibili che diventano i piccoli protagonisti dei brevi capitoletti che compongono l’opera (in tutto diciassette più il congedo, per poco più di 150 pagine), ben delineati con un magistrale tocco di pennello. Osservazioni psicologiche, di costume, di vita quotidiana, ben lungi da quella prosa anticlericale che caratterizzerà “Opinioni di un clown” e le opere successive. Ogni capitoletto è come un viaggio in treno con le sue fermate, ad ogni tappa piccole grandi storie da gustare : il cavadenti che parla con molto tatto di Hitler mentre estrae un dente malato ad un bevitore tra un boccale di birra e l’altro, il breve racconto dei ferrovieri irlandesi che fanno viaggiare a credito sei stranieri, la giovane moglie del dottore dai piedi bellissimi che partorisce sempre a settembre, la donna di Dublino alla finestra con la “pentola arancione piena di latte”, e le tante bottiglie piene di niveo latte alla finestra in attesa di essere aperte, di sera poi “sverginate, derubate del loro sigillo, le bottiglie di latte se ne stavano ora grigie, vuote e sporche, davanti alle porte e sui davanzali. Aspettavano tristi di essere sostituite, al mattino, dalle loro fresche e scintillanti sorelle; i gabbiani non erano abbastanza bianchi per sostituire l’angelo o splendore delle bottiglie intatte ed innocenti”.
Innocente, tutto in Irlanda è innocente, tutto bianco abbagliante e verde.
Voglio segnalare un altro passo -senza fare troppe rivelazioni però- dove ho pensato a Joyce e, per correlazione, al nostro Italo Svevo quando si parla delle sigarette e del fumo:
“Il fuoco al camino rende superfluo uno degli oggetti più antipatici e più necessari della civile società, il portacenere. Quando l’ospite ha lasciato sul portacenere spezzettato in mozziconi, il tempo che ha trascorso in una casa e la padrona vuota quei piattini puzzolenti, resta sempre quella sporcizia tenace, quasi appiccicosa, nerogrigia. C’è da stupire che psicologi abbiano sondato tanti abissi della psiche umana senza scrutare quello contiguo, dove affondano i mozziconi della sigarette. (...) Eccoli, dunque, i resti di sigarette fumate solo a metà, brutalmente schiacciati da persone che non hanno mai tempo e combattono invano, aiutandosi con le sigarette contro il tempo, per guadagnare tempo”.

Un omaggio all’Irlanda, a questo “devoto paese che è cattolico, ma che non fu mai calpestato da mercenari romani: un pezzetto dell’Europa cattolica oltre i confini dell’impero romano”.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
le altre opere di Böll, oppure oppure per avvicinarsi alla sua scrittura
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    29 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Il ventre aperto di Napoli

L’opera del toscano Curzio Malaparte (pseudonimo di Kurt Suckert) è il racconto crudo e di denuncia dei giorni pieni di miseria e, al tempo stesso, di euforia, della città di Napoli liberata dagli Alleati Americani, durante la seconda guerra mondiale.

“L’onore di esser liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano” dopo anni di fame, stenti , epidemie e bombardamenti. Una città che è quasi un ventre aperto, che mostra tutte le bassezze e tutto il suo inferno.
Napoli è una città distrutta, messa in ginocchio, non solo “fisicamente”, esteriormente, ma anche nell’animo. Sono i giorni della peste di Napoli, il battesimo dell’Europa liberata avviene nel segno dell’epidemia. La miseria ha raggiunto il picco e il morbo ha mandato in cancrena anche l’animo dei napoletani diventando una peste morale, un marciume che attecchisce anche presso un popolo che, dice l’autore, è tra i più generosi al mondo. Mai prima di allora Napoli si era abbassata a tanto, il fondo non era stato ancora toccato. Assistiamo attoniti e inorriditi, al pari dei soldati americani accompagnati in città dall’italian liaison officer Malaparte, al mercimonio dei corpi. Di fronte al benessere degli americani, alla libertà finalmente conseguita, i napoletani mettono in vendita tutto e tutti: bambini, mogli, figlie e madri. Che cosa non si fa per un pacchetto di sigarette e una manciata di caramelle?
“La libertà costa caro. Molto più caro della schiavitù. E non si paga né con l’oro né col sangue, né con i più nobili sacrifici: ma con la vigliaccheria, la prostituzione, il tradimento, con tutto il marciume dell’animo umano”.
Di fronte al degrado, alla corruzione della città, all’esercito internazionale degli invertiti, agli orrori dei bombardamenti prima e all’eruzione del Vesuvio poi, l’atteggiamento dell’autore-narratore non è mai chiaro. C’è pietà e comprensione, ma c’è anche denuncia. Malaparte non dà mai un giudizio netto, gli piace contraddire ed essere contraddetto, il gusto della provocazione campeggia anche in questo intenso romanzo. Malaparte è stato sempre una penna scomoda, che scriveva mirabilmente, ma che centrava la realtà al di fuori di ogni ipocrisia.
L’opera venne pubblicata nel 1949 e nelle intenzioni dell’autore, avrebbe dovuto intitolarsi “LA PESTE”, ma proprio nel 1947 Camus lo aveva preceduto e quindi la scelta cadde sulla parola “La pelle”. Mai titolo fu più calzante. Quale profeta, l’autore indica nella salvezza della pelle, dei bisogni primari dell’uomo, lontani da ogni antico ideale, la nuova piramide dei valori umani, una piramide capovolta.

“Voi non immaginate neppure di cosa sia capace un uomo, di quali eroismi e di quali infamie sia capace, per salvar la pelle. Questa, questa schifosa pelle, vedete? (…)Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle (…) Tutto il resto non conta”.

Una Napoli distrutta, ma che conserva sempre la sua teatralità evidenziata ed enfatizzata dal meraviglioso artifizio della scrittura di Malaparte che è fatta di immagini. Una prosa sontuosa e ricca, che echeggia Virgilio , Dante e Boccaccio, ma anche Euripide e Sofocle. Un vero parlare attraverso similitudini classiche, termini presi dagli antichi poemi, dalle grandi opere del passato, descrizioni e paragoni con le opere d’arte di tutti i tempi, a testimonianza della grande cultura dell’autore. Indimenticabili le descrizioni del golfo e del paesaggio intorno, i vicoli con i tabernacoli, le scene di coralità tipica del popolo napoletano, la puntualità dei toponimi anche oltre la penisola sorrentina (Malaparte aveva una casa sull’isola di Capri). Una scrittura che dipinge i colori dai più tenui e delicati a quelli più violenti ed accesi, uno stile che riesce a riprodurre anche gli odori, gradevoli o no. Ed eccoci quindi anche noi nei vicoli a godere del profumi dei taralli appena sfornati, delle ginestre e dei fiori che si unisce spesso all’odore del mare, eccoci affacciati al parapetto ad ammirare l’intero golfo e un cielo troppo azzurro su una città che piange.

Una scrittura che coinvolge i sensi simultaneamente e perciò sinestetica. Lascio al lettore la scoperta di una prosa densa, ma scorrevole, magnifica in alcuni passaggi onirici dalle tinte apocalittiche come nel capitolo “ Il vento nero” e quelli paurosi e grandiosi insieme dedicati all’eruzione del Vesuvio, ne “La pioggia di fuoco”.
Le scene cruente e dolorose sono tante, ma sono necessarie anche se talvolta alcune pagine tradiscono un indulgere esagerato e, probabilmente compiaciuto e provocatorio, nella descrizione di autentici orrori che potrebbero infastidire anche il lettore meno impressionabile e paziente.
Un romanzo indimenticabile dimenticato in Italia, profetico ed attuale per certe tematiche.
Vivamente consigliato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato anche a chi non ha letto “Kaputt” e le altre opere dello stesso autore.
Si avvisano i lettori più sensibili che ci sono molte scene crude, compresa la vivisezione dei cani.
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    21 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

una forza antica e senza tempo

Il nuovo lavoro di Giorgio Montefoschi, critico letterario e Premio Strega nel 1994 è edito da “La nave di Teseo”, collana Oceani.
Un titolo coraggioso, perché potrebbe far pensare ad una storia d’amore melensa e ritrita. Invece è veramente un bel libro, intenso e nostalgico.
“Il desiderio non conosce tempo” leggiamo nella quarta di copertina e nella storia è così. Matteo Gennari, il protagonista, è sempre stato innamorato di Livia Ceriani, da che erano ventenni, studenti all’Università di Roma.
La storia è divisa in tre parti: nella prima parte, la passione che Matteo prova per Livia seppur ancora giovane, impacciato è già struggente desiderio, una fiamma che avvampa forte, da sconquassargli il petto. Nella seconda Matteo è diventato giornalista, è sposato, ha due figli, ma l’improvvisa apparizione di Livia che torna dopo vent’anni di assenza, annulla tutta la vita intercorsa in questi anni, azzera le distanze, il matrimonio con Anna, i figli avuti con lei. Tutto. Al desiderio tutto soggiace. Ma è un desiderio ricambiato solo in parte. Livia, sfuggente giovinetta e poi donna indipendente, lascia ogni volta l’amaro in bocca al protagonista, un uomo nei confronti del quale ho provato sentimenti altalenanti, dalla simpatia alla rabbia.

Uno stile delicato, che sa dipingere immagini di leggerezza e di fuoco, il fuoco del desiderio, una calamita irresistibile, un richiamo che non si può ignorare, quella che fa tornare ogni volta Matteo dalla donna che, ancora a distanza di quarant’anni, entra nei suoi sogni, col suo sorriso da ragazzina, gli occhi scuri, i capelli al vento insieme alle atmosfere di quando nelle estati lontane andavano in vespa.

Roma non è sullo sfondo, Roma è protagonista in questo romanzo, con i nomi delle vie da Viale Bruno Buozzi ai Parioli, a Villa Borghese, d’estate, d’autunno, d’inverno coi suoi colori ed i suoi profumi: la stessa Livia dopo vent’anni in Inghilterra sente il richiamo della sua città e forse anche dell’amore che dice di non provare, “Io non amo nessuno”. Ma...sono solo parole?
Nella storia intervengono vari personaggi, familiari e soprattutto amici di gioventù che si incontrano a distanza di tempo, ognuno cambiato, segnato. Nella vita si cambia, ma il desiderio persiste. Matteo nel cuore sembra sempre lo stesso giovane che si legge all’inizio del libro: sempre smanioso, taciturno, sempre innamorato della stessa donna.

La predominanza della forma dialogata su quella narrativa ha un grande pregio di cui mi sono accorta solo più tardi: entrando nei dialoghi non solo il narratore si eclissa quasi del tutto, ma lo stesso lettore si annulla, diventa egli stesso partecipe di una storia in divenire, è spettatore dei discorsi. Il lettore rischia di dimenticarsi che sta leggendo.

Una lettura che coinvolge, la storia di due amanti, che come sostiene la Sgarbi nella seconda di copertina , si ameranno e si cercheranno anche reincarnati in nuove vite. Un libro struggente, tenero.







Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a chi desidera leggere una storia ben scritta, immersiva e coinvolgente, ma allo stesso piacevole e non impegnativa
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    20 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Una piccola perla imperdibile

Sorelle Bunner" è un racconto lungo di Edith Wharton, scrittrice che ci ha lasciato nel 1937, famosissima perché è stata la prima donna americana a vincere il premio Pulitzer con il romanzo "L'età dell'innocenza".
In Italia l'unica edizione che ho trovato è stata la Flower-ed del 2018, una casa editrice che presenta delle copertine vintage e colorate molto carine.
La scrittura di Edith Wharton lascia sempre piacevolmente sorpresi: c'è uno scavo psicologico dai grandi affondi, permeati di sofisticata sensibilità e delicatezza.
Un ritratto delicato e e insieme spietato dell'animo femminile, che viene scandagliato e questo stile riesce a portare sulla pagina il dolore, la solitudine più profonda, la disperazione, ma anche la gioia di scoprire di essere amati, riuscendo sempre a creare nel lettore la sensazione di smarrimento, di vuoto o di gioia inaspettata. È, dunque, una scrittura ben riuscita. Il libro mi è piaciuto moltissimo, ho cominciato a leggerlo per curiosità o poi sono stata presa dalla lettura e non sono più riuscita a staccarmi dalle pagine.
C'è da segnalare la pregevolezza, la cura con cui la casa editrice ha presentato quest'opera, nonché la traduzione impeccabile.
Un libro che consiglio anche a chi non abbia ancora letto opere di questa grande scrittrice, famosa per l'amicizia con Henry James l'autore de "Il giro di vite".

"Sorelle Bunner" è un racconto narrato in terza persona, quindi con un narratore onnisciente che racconta le vicende di due sorelle ricamatrici, molto povere ma che conducono, nonostante il disagio economico, una vita dignitosa. Ann Eliza, la sorella maggiore ed Evelina, più giovane di qualche anno, vivono da sole e si mantengono eseguendo piccoli lavori di cucito e decorazioni; in particolare, Evelina è specializzata nella creazione di fiori finti in tessuto per decorare e per abbellire cappellini, cuffiette e abiti . L'una è l'unica compagnia dell'altra; le altre figure che girano attorno a loro sono personaggi estremamente secondari. L'azione vera e propria comincerà a partire dalla seconda parte del racconto. Più che azione narrativa e dinamismo, ciò che rende corposo questo racconto è lo scavo psicologico che segue una climax progressiva nell'animo della sorella maggiore, Ann Eliza. Costei non esiterà a rinunciare alla propria felicità per il bene di Evelina: rinuncerà all’occasione più preziosa per una donna sola, povera e non più giovane, il matrimonio con il signor Remy, l’orologiaio tanto colto quanto solo, che aveva cominciato a diventare amico e confidente delle due sorelle.

“Mai prima di allora si era sentita tanto vecchia, disperata ed umile. Sapeva di star svolgendo, con ogni probabilità, un incarico amoroso da parte di Evelina e questa certezza prosciugò l’ultima goccia di sangue giovane dalle sue vene”.

“Per un momento Ann Eliza non riuscì a trovare le parole. Fu solo quando seppe di aver perso la propria occasione che si rese conto di quante speranze avesse nutrito a tal proposito (...) ella era ben allenata all’arte della rinuncia(...)”

Posso lasciare solo un assaggio della sua scrittura, poiché essendo un racconto non mi permetto di anticipare di più, quindi lascio al lettore la curiosità di leggere le vicende di queste due donne e di riflettere su quanto il matrimonio, allora come oggi, spesso è solo un modo per sfuggire dalla solitudine e prescinde dall’amore e dalla passione.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A tutti
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    14 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

la storia di Leni

storia di una donna attraverso i ricordi.
Un romanzo complesso, un po’ corale un po’ inchiesta, che costruisce la storia di una donna vissuta negli anni cruciali del, per dirla insieme al compianto Hobsbawm, “secolo breve”.
Il titolo non delude: un racconto a più voci, un vero ritratto, che ha per fulcro la vita di una donna forte, generosa, affascinante. Questa donna è Leni Pfeiffer, nata Gruyten:

“La protagonista femminile dell’azione (...) è una donna di quarantotto anni, germanica: alta m 1,71, pesa kg 68,8 (in abito da casa), perciò ha solo 300-400 grammi meno del peso ideale. Ha gli occhi cangianti tra il blu cupo e il nero, capelli biondi molto folti e lievemente imbiancati, che le pendono giù sciolti, aderendole al capo, lisci, come un elmetto”.

Ecco l’incipit del libro che manifesta l’inconfondibile scrittura di Heinrich Böll: ironica, tagliente, dall’attenzione maniacale per alcuni particolari. In tutto il romanzo questa cifra compare insieme a picchi di lirismo, a denunce etico-morali, al grottesco e fanno di “Foto di gruppo con signora” quello che quasi all’unanimità è considerato il capolavoro assoluto dello scrittore tedesco, morto nel 1985.
È un libro difficile da commentare, tanto è ricco: di temi, di considerazioni storiche, di ordine morale, di stile. Ci vorrebbero intere giornate per parlare di questo libro che richiede più riletture nel tempo, perché ogni volta che lo si legge si scoprono nuovi aspetti interessanti sia sulla scrittura e sul pensiero di Böll, sia sulla storia di Leni, una donna che non si può non amare.

Come in altri suoi libri, lo sfondo prepotente della seconda guerra mondiale rimbalza in avanti ponendosi in primo piano accanto ai personaggi. La storia di Leni si inserisce in quel cinquantennio di storia tedesca che va dall’età guglielmina al secondo dopoguerra e Böll, attraverso i racconti, le testimonianze, le immagini, le lettere e gli oggetti che raccontano di lei, offre un interessante spaccato di storia contemporanea.
La voce narrante sembra quella di un giornalista curioso di conoscere la vita di questa donna affascinante, da ragazzina vincitrice del riconoscimento di “ragazza più tedesca della scuola”, ma che non è mai riuscita a completare un corso regolare di studi. Un carattere pacifico, ma talvolta irriverente, soprattutto nei confronti della religione e dei suoi ministri. Curiosamente Leni avrà come amici una suora, suor Rahel, vissuta in povertà e castità, ma non allineata ai dogmi dei “preti”, una ex prostituta, Margret e un certo Pelzer, che la farà lavorare come” fiorista” di guerra, impiegandola nella creazione di corone funebri.
Ci sono molti altri personaggi e sono tutti ben delineati, più della stessa Leni, non sempre amata, e tanto invidiata per la bellezza, la temporanea ricchezza, per la forza d’animo . Non tutti hanno capito il carattere di Leni, alla ricostruzione della sua vita, partecipano anche voci malevoli, ma l’autore dà più spazio a personaggi come Lotte, Pelzer, Margret che invece hanno conosciuto meglio Leni ed hanno vissuto con lei i momenti più duri, più terribili della seconda guerra mondiale.
La guerra ha portato via a Leni ogni felicità e gli affetti più cari: i primi amori, il fratello, il primo marito, non veramente amato, e poi lui, Boris, il suo vero grande amore, che può amare di nascosto, perché russo e quindi comunista, e può stare con lui soltanto durante i bombardamenti aerei, quando tutti sono occupati a salvarsi la pelle.
Böll riprende nel romanzo tutti i temi più cari: l’insofferenza, il fastidio verso la bigotteria e la falsità della chiesa dei “preti”, il valore dell’amore sincero e puro senza bisogno del sacramento imposto dalla religione, la denuncia della guerra, dei campi di concentramento, dell’esilio, della censura di libri non graditi al regime... nel libro ci sono documenti e lettere storicamente interessanti che ci forniscono anche dati sull’industria bellica e sul giro d’affari di chi commercia corone di fiori per i funerali.
Ma gli interrogativi che lascia sono graffianti e profondi e sicuramente non hanno ancora trovato risposta:

“Che cosa sono i più alti valori della vita? Chi ci dice per chi un valore è più alto o più basso?Lacune molto spiacevoli nelle enciclopedie, anche in quelle più rinomate.(...) Dove viene registrata l’esperienza psichica del dolore, dov’è quella fisica? (...)a che ci serve la scienza, se ti mandano quegli apparecchi costosissimi a raccogliere polvere lunare o a portarci quelle squallide pietre, mentre nessuno è in grado anche solo di localizzare l’Ufo che potrebbe darci informazioni sulla relatività dei valori della vita? Perché ad esempio certe donne si vedono pagare il diritto di possederle per breve tempo con due ville, sei automobili e un milione e mezzo di marchi in contanti, mentre-cosa statisticamente dimostrabile- in un’antica e santa città che ha una grande tradizione in fatto di prostituzione, (...) ragazze giovanissime si concedevano ed appagavano persino desideri erotici supplementari per una tazza di caffè del valore di diciotto pfennig?”

Questo è solo un piccolo assaggio di un grande libro e di una grande storia. Sconvolge la forza di Leni, una donna sensuale, che dà amore senza risparmio, che si dimostra gran signora sempre, anche nella povertà, riesce ad adattarsi e, con un po’ di fortuna e tanto coraggio, sopravvive nel deserto di morte della guerra.
Ad arricchire ed impreziosire tutto il lavoro c’è lo stile di un grande autore che riesce a scrivere la storia più atroce della Germania contemporanea con quella leggerezza, quell’atteggiamento grottesco e parodistico che è la sola via, come sosteneva Dürrenmatt (trad. italiana “Questioni di teatro. Scritti su letteratura, teatro e cinema”, Torino 1982) che rende più tollerabili il male e la crudeltà più impensabili.




Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Consigliato a tutti, anche a chi non conosce ancora Heinrich Böll
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    03 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Il colore dei segreti e delle paure

Percival Everett, scrittore americano eclettico, prolifico e caratterialmente schivo, non ama parlare di sè nè dei suoi libri. Vanta un passato da musicista jazz e da allevatore di cavalli.
Ecco il suo nuovo lavoro, edito dalla Nave di Teseo, collana Oceani.

Nella seconda di copertina si legge che l’autore ha qui raggiunto il traguardo del romanzo perfetto. Everett è sicuramente uno degli scrittori americani contemporanei più interessanti, mai monotono, sempre alla ricerca di contenuti diversi.
“Quanto blu” è un romanzo che appassiona, ben costruito, e che nonostante i continui salti temporali non stanca, mantiene sempre desta l’attenzione del lettore.
La storia segue tre fili che si intrecciano e vanno a risolversi nel finale, ognuno di essi è riconoscibile grazie al titolo. Come un puzzle, ogni tessera trova man mano il suo posto e ricompone la storia di Kevin Pace, il protagonista che è anche narratore.
Kevin è un artista, un pittore nero, di cinquantasei anni, sposato con Linda, dalla quale ha avuto due figli, April e Will, di 16 e 12 anni.
Il protagonista si presenta nelle prime pagine e ci fa subito immergere nel suo passato: la narrazione è l’alternarsi di due lunghi flashback, uno che si inserisce nel 1979 (il titolo di ogni capitolo contenente questo flashback è infatti “1979”) ambientato nel Salvador a ridosso della guerra civile, ove ha vissuto eventi traumatici che lo hanno segnato per sempre e un altro, intitolato semplicemente “Parigi”, che narra la “sbandata” avuta con una giovanissima acquerellista, Victoire, dieci anni prima, mai confessata alla moglie.
La cornice in cui si inseriscono i due principali flashback si intitola “Casa” e racchiude non solo gli eventi del presente del protagonista, ma anche del passato legati però alla presenza di Linda, dalla richiesta di volerlo sposare agli eventi del finale.

La presentazione editoriale vuole attirare l’attenzione sulla storia di un quadro che Kevin tiene nascosto a tutti, anche al suo miglior amico, alla famiglia, perché racchiude il suo segreto più grande che verrà svelato alla fine. In realtà il quadro è solo lo specchietto delle allodole per attirare il lettore fino alla fine, perché si parla veramente poco della sua realizzazione. Un colore e le sue sfumature per rappresentare tutto l’inconfessabile di una vita intera.

“Lo dicevano spesso, che io evitavo il blu. Ed era vero. Quel colore mi metteva in crisi. Non riuscivo a controllarlo. C’era quasi sempre come una base di calore nella mano di fondo, ma in superficie non si vedeva mai, non era mai più che un’idea in nessun quadro. E sebbene il blu sia tanto piacevole (...) non lo potevo usare. Il colore della fedeltà, della lealtà, l’argomento dei filosofi, il nome di una forma musicale... ma il blu non era mio”.

Ciò che va riconosciuto all’autore è la varietà. Varietà nell’ambientezione, varietà nell’azione (in particolare nei capitoli in cui si narra l’avventura salvadoregna), varietà nei registri linguistici unite ad una certa profondità di scavo psicologico, intimo, che arriva alla confessione finale solo alla fine, in quanto tutta la storia lascia sempre qualcosa di sospeso, di insoddisfatto nella curiosità del lettore.
Everett cerca di distrarre chi legge rivelando man mano dei particolari che possano fargli pensare al finale, ma... non ve lo dico.

Complessivamente un romanzo piacevole, ben costruito, ma che non mi fa pensare certo ad un capolavoro, in quanto il finale, che non posso rivelare, non mi ha convinto, mi ha lasciata perplessa e insoddisfatta.
Ultima osservazione: ho trovato nell’edizione tre refusi, di cui due veramente importanti per la comprensione della storia. Ho segnalato alla casa editrice, sperando che si siano accorti prima di me.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    25 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Una cura contro il dolore della perdita

Stavolta propongo un libro veramente particolare, uno dei più amati tra quelli editi recentemente dalla casa editrice Iperborea, specializzata in letteratura nordica.
“La via del bosco” dell’antropologa di origine malese Long LITT Woon, trapiantata in Norvegia per amore, per seguire il marito Eiolf.
È un libro autobiografico che narra di come l’autrice sia riuscita a riprendersi dalla perdita anzi tempo del marito, che un bel mattino va a lavoro e, colpito da un malore improvviso e letale, non torna più a casa.

“Ci vuole tempo per concludere una vita”, la strada dell’elaborazione del lutto è lunga e faticosa e i risultati non sono sempre scontati, la disperazione è dietro l’angolo.
“Smarrimento e follia si danno il cambio a tale velocità da confondersi in una specie di poltiglia grigia. La valle dello sconforto è arida e brulla. La strada che si apriva davanti a me non conosceva pietà. C’era un punto di arrivo, in fondo? I cartelli erano oscuri. Il sole picchiava a piena forza e il mio fardello pesava come piombo. Il lutto è insostenibile”.

Eppure, ad un certo punto, arriva la salvezza, la cura: un corso di micologia e passeggiate nel bosco alla ricerca di funghi. Nel bosco il rimedio ai mali, nei percorsi nell’andata per funghi i percorsi interiori.

Il libro è curato anche nella veste grafica, come tutti quelli editi da Iperborea, ma stavolta sia nella versione digitale (che ho letto) sia in quella cartacea, sono presenti due colori diversi dei font per caratterizzare due fili narrativi intrecciati: il verde per le parti in cui l’autrice parla del lutto, della sua elaborazione, della sua vita senza il marito Eiolf e il carattere standard nero per i passaggi narrativi relativi all’esperienza nel campo della micologia. All’interno dei vari capitoli vi sono illustrazioni tipiche degli erbari, con la raffigurazione dei vari funghi, la specie e la famiglia di appartenenza.
Un libro dove il romanzo, lineare, con qualche flash back nei caratteri verde, narrato in prima persona, si intreccia con nozioni scientifiche, mai dispensate con spirito accademico, ma con squisita semplicità. Interessante, lo consiglio vivamente, scoprirete un curioso mondo, quello dei funghi, da quelli mangerecci a quelli velenosi, i modi in cui cucinarli (ma non è un ricettario), le regole sociali all’interno dei fungaioli, la loro discrezione, la loro passione che smuove anche le gambe degli anziani artritici.
Ho trovato veramente interessante la parte tossicologica, quella riservata ai veleni ed ai funghetti allucinogeni, in Norvegia (e non solo) alternative ‘salutari’ all’LDS, quella relativa alla denominazione diversa nei vari Stati ed anche e soprattutto la parte in cui si parla del potere dell’olfatto, uno dei sensi più potenti che possediamo e che andrebbe allenato.
Libro che è doveroso consigliarvi!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Arte e Spettacolo
 
Voto medio 
 
4.6
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    24 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

CULTURA, QUEL SUPERFLUO INDISPENSABILE

“Se il patrimonio culturale classico in Italia ha il valore che secoli di studi appassionati, condotti da noi e nel resto del mondo, stanno lì a testimoniare -e che un enorme flusso di turisti annualmente comprova - , bisognerà pure che il nostro paese si impegni a mantenere un livello di memoria culturale adeguato a tanta ricchezza. Una nazione che ha sul proprio territorio i templi di Agrigento, il Colosseo o Pompei, non può permettersi di avere cittadini che si trovino in difficoltà nel decidere se questi monumenti -qualora abbiano l’opportunità di vederli siano stati edificati dai Greci, dai Romani o da Cristoforo Colombo. Dobbiamo rassegnarci all’idea che, dal punto di vista del nostro rapporto con la cultura, e quella classica in particolare, non siamo un paese come un altro”.

L’Italia non è un paese come un altro. È il più ricco dei siti patrimonio UNESCO, dove non solo i monumenti, i centri storici, le opere d’arte sono riconosciute quali tesori dell’umanità, ma anche le lingue.
Un libro che tutti dovremmo leggere, dagli studenti che troppo facilmente sparano un “ma perché si studia storia dell’arte (storia, latino, greco compagnia tutta), a cosa serve?” agli adulti e agli insegnanti affinché abbiano la degna risposta pronta a questa domanda e a tante altre simili.
Molti di noi italiani non si rendono conto dei tesori che possediamo, che antiche civiltà ci hanno donato e che tutto il mondo ci invidia.
L’Italia è luogo prodigiosamente eletto da una favolosa contingenza storica e culturale, in particolare nella classicità e questa grande e ricca eredità culturale richiede responsabilità. Non si tratta di radici, non si tratta di identità culturale, poiché ci stiamo dirigendo verso una società multietnica sempre più lontana dai nostri “antenati”, ma si tratta di memoria culturale.
La memoria culturale richiede la necessità di mantenere vivo l’interesse e lo studio del contesto e del significato dei monumenti, delle opere architettoniche, letterarie, artistiche che possediamo. Se non si studia la civiltà classica greca e romana, si perde il significato degli scavi archeologici di Pompei, ad esempio, e quelle testimonianze non hanno più voce, diventano pietre mute, presenze ingombranti del nostro paesaggio. Senza memoria culturale si perde il significato dei luoghi.

Maurizio Bettini, antropologo, studioso di filologia classica greca e romana all’Università di Siena, sostiene l’importanza di conservare la nostra memoria storica attraverso la scuola e l’insegnamento, ma non chiudendoci nei confronti delle nuove culture che ormai fanno parte del nostro paese.

Si tratta di un libro sottile, che si legge con vero piacere, composto da brevi paragrafi titolati. Bettini nella prima parte spiega il titolo del libro, soffermandosi proprio sull’etimologia, il senso più autentico ed anche pericoloso di “servire, servire a” quando si parla di cultura e allarga poi la lente su altri termini che ormai sono entrati a far parte del parlare comune e che derivano da un campo semantico più prettamente economico e finanziario : “giacimenti culturali”, “mercato culturale” “patrimonio dell’umanità “etc. La cultura dovrebbe essere lontana da queste metafore che indicano non la custodia, ma lo sfruttamento per trarne un rendiconto economico.
La seconda parte del libro è focalizzata sul nostro BelPaese, sulla nostra eredità culturale greco-romana, la nostra memoria storica che diventa poi anche responsabilità.


In una società globalizzata e multietnica, dove l’inglese sta facendo “morire” le lingue minoritarie, come un tempo il latino con l’etrusco e le altre lingue antiche, arriva un accorato appello agli insegnanti, ai nostri politici (forse l’appello è qui poco convinto, sigh) affinché si cambi rotta con l’insegnamento nei licei.
Da un discorso più generalizzato sulla conservazione e lo studio dei monumenti, Bettini passa infatti alla scuola, ai licei, in particolari quelli classici, dove si studiano le lingue cosiddette “morte”. Niente di più sbagliato. Greco e latino campeggiano negli archivi e nella nostra lingua e finché verranno conservati le due lingue non saranno mai propriamente “morte”. Ma cosa bisogna fare per resistere all’estinzione? Adeguarsi ai tempi, rendere interessanti le lezioni, cambiare le prove d’esame per dare la possibilità agli insegnanti ed ai ragazzi di non preoccuparsi solo dell’operazione di traduzione delle versioni, esercizio sterile che rende odiosi certi autori (Cicerone, ad esempio), ma di scegliere stralci che possano dare spunto di dibattito discussione approfondimento di aspetti della letteratura e della civiltà antica. Bettini indica una serie di spunti e buone prassi messe a punto da volenterosi e coraggiosi insegnanti italiani che hanno capito che insistere con i vecchi modelli è come volersi coprire gli occhi e condannare all’estinzione lo studio del latino e del greco e azzerare le iscrizioni al liceo classico e ad alcuni indirizzi del liceo scientifico.

Tra le tante incertezze della nostra società, la scuola rimane ancora un punto fermo (per fortuna) per la formazione di cittadini più consapevoli dell’eredità culturale del nostro BelPaese. Perché la cultura rende una nazione più degna di essere tutelata, rispettata, vissuta.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A tutti coloro che hanno amato/odiato le lingue antiche e non solo a loro!
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    18 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

SORGO ROSSO SANGUE

Dalla Cina, Premio Nobel 2012.
Potenza narrativa, personaggi indimenticabili, una storia epica familiare di tre generazioni.
“Sorgo rosso” è narrato in terza persona: la voce narrante riferisce la storia d’amore tra suo nonno Yu Zhan’ao, comandante e bandito e sua nonna, la bella Dai Fengliang, uniti contro l’invasione giapponese nel Gaomi (villaggio nella regione dello Shandong). Una famiglia particolare, dai legami alquanto liberi, dove le passioni più ardenti e le gelosie più spietate vivacizzano la vita durante le tregue della guerra Cino-Nipponica. La narrazione parte “dall’ottavo mese lunare” del 1939 e arriva al 1972, fino al comunismo in Cina, ma gli eventi non seguono l’ordine cronologico naturale, la storia procede per continui e lunghi flashback con intreccio di più piani narrativi, in cui si inseriscono anche i genitori della “nonna”, Lian’er”la seconda nonna” divenuta amante di Yu Zhan’ao, Zio Liu.
L’azione si svolge in un solo piccolissimo luogo, il Gaomi:
“Un posto che è il più bello e il più orribile del mondo, il più insolito e il più comune, il più puro e il più corrotto, il più eroico e il più vile, il paese dei più grandi bevitori e dei migliori amanti”.
Ora sullo sfondo ora in primo piano, le immense distese di sorgo, delle sfumature calde più disparate a seconda delle stagioni, il fiume Moshui, le sue acque ora limpide ora rosso del sangue degli uomini e degli animali uccisi.

Grazie alla scrittura di Mo Yan, così vivida e così profonda, mi sono immersa nelle passioni che hanno ispirato questa storia magnifica.
Il sorgo è presente quasi in ogni pagina: campi sterminati di sorgo, fusti di sorgo intessuti per ricavarne tappeti e ceste, piante di sorgo pettinate dal vento che hanno una sonorità particolare, il vino di sorgo e le distillerie, il sorgo con le più svariate sfumature di rosso, tra cui spicca il rosso sangue. Non a caso, il rosso sangue.
Bisogna avvisare i lettori che “Sorgo rosso”, così come le altre opere di Mo Yan, non è una rilassante passeggiata nel bosco, ma è un calarsi in situazioni violente e dure, con continuo spargimento di sangue, scene raccapriccianti (come la descrizione dello scuoiamento di zio Liu vivo, scena in cui l’autore ha indugiato particolarmente, rispetto alle altre).
Mo Yan significa “non parlare”, un nome d’arte di per sé provocatorio, in quanto l’autore attraverso la scrittura denuncia tutta la bruttura e la violenza della guerra, quando ci si uccide tra esseri umani e brutalmente anche tra esseri umani ed animali. Un mondo, una realtà, dove il bisogno di mangiare e sentirsi vivi hanno la loro prepotenza sia nella società degli uomini che in quella degli animali più intelligenti. Non solo maiali, capre, galline,si accetta senza troppi scrupoli e cerimonie la carne del cane, di cui si mangia tutto.

Questi “dettagli” inconcepibili per noi occidentali, contemporanei, li ho visti come importanti da segnalare. Se è vero da un lato che, nonostante la violenza e il sangue, il libro di Mo Yan è un capolavoro indimenticabile, che va letto e conosciuto, è anche vero che il lettore va avvisato. Io, ad esempio, mi ero già imbattuta nelle sue tematiche, ma in “Sorgo rosso” le scene sono più crude. Se credete che esista un dovere di conoscenza dei capolavori della letteratura mondiale, bisogna imbattersi in “Sorgo rosso”, leggerlo vale la pena di sopportare qualche passaggio che ferisce la nostra sensibilità e ci impressiona profondamente.
“Sorgo rosso” è un capolavoro indimenticabile.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Cent’anni di solitudine, G.Garcia Marquez
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Scienza e tecnica
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    14 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Nuovi percorsi per la fisica

Un libro che sfugge all’etichetta di saggio scientifico, in quanto Guido Tonelli, professore di Fisica all’Università di Pisa, parla di un’avventura affascinante e straordinaria, vissuta in prima persona: la scoperta del bosone di Higgs, la particella che potrebbe spiegare come si è originato l’universo.
Il libro è stato pubblicato da BUR Scienza nel 2017, quattro anni dopo il Premio Nobel per la Fisica conferito a Peter Higgs e a François Englert per aver avuto, nel lontano 1964, l’intuizione che esistesse una particella con delle caratteristiche “in tutto e per tutto” simili a quelle che si sono rivelate e dimostrate nel bosone scoperto nel 2012, presso il CERN di Ginevra.
Tonelli ha fatto parte della squadra di oltre tremila scienziati che si è impegnata nella progettazione, nella realizzazione e nel monitoraggio continuo di una vera e propria “bestia” sotterranea di magneti superconduttori ed elettronica, il portentoso LHC, Large Handron Collider, una macchina gigantesca, un acceleratore di particelle, piazzato 100mt sotto il Giura, tra Francia e Svizzera , allo scopo di studiare le collisioni tra protoni, accelerati e diretti per un vero e proprio urto “frontale” tra di loro: quando il protone si frantuma, parte dell’energia si trasforma in nuove particelle e in alcuni casi, quando l’energia è massima, si possono produrre particelle massicce, alcune mai viste prima.
Un progetto costato anni di sacrifici, con tante difficoltà, dal budget all’impianto vero e proprio, un progetto pionieristico, coraggioso, portato avanti da giovani menti “vicine” a quelli dei folli e dei sognatori, quando anche il Nobel, allora direttore del CERN, Carlo Rubbia, guardando Tonelli che aveva spiegato il progetto, disse “Non funzionerà mai. Farete un gigantesco buco nell’acqua”.
Per fortuna non è andata così, il sogno è divenuto realtà.

“Siamo una strana pattuglia di moderni esploratori. Il nostro scopo è capire da dove nasce questa meraviglia di universo materiale che ci circonda e di cui facciamo parte. Siamo quelli che la gente chiama scienziati, truppe speciali della conoscenza che l’umanità manda in avanscoperta a capire come funziona la natura. Menti elastiche, curiose, prive di pregiudizi e pronte ad accogliere ogni sorpresa, consapevoli che (...) occorre liberarsi di ogni residuo di senso comune e di avventurarsi in territori ignoti. Ai confini della conoscenza ti ritrovi da solo, in un mondo in cui riecheggiano soltanto le intuizioni dei poeti e le voci dei pazzi”.

Un libro si presenta come un piacevolissimo ed arricchente racconto che insegna non soltanto quanto poco (appena il 5%) sappiamo dell’universo nonostante la tecnologia, ma rende chiari ed accessibili i concetti chiave della fisica delle particelle, come il modello standard, quark, gluoni, neutrini, inflazione cosmica, supersimmetrie, materia ed energia oscura, di cui probabilmente è fatto il 95% dell’universo che non abbiamo ancora compreso! E tanto altro!

Emozionante il racconto di quel fatidico giorno in cui venne individuato il bosone di Higgs, definito la particella di Dio, la particella che ha dato corso all’universo! Uni-verso? Potrebbero esserci anche dei multi-versi...altre dimensioni oltre le quattro che riusciamo a concepire !

Orgoglio europeo, CERN e LHC, giovani scienziati europei infiammati dalla sete di conoscenza che hanno lasciato di stucco gli americani ed il loro super finanziato progetto SSC, miseramente fallito.
Piccolo appunto finale.
Con amarezza Tonelli ricorda che, mentre negli altri Stati tutte le reti televisive trasmettevano la discesa nel cuore dell’acceleratore, evento di portata mondiale, la nostra RAI1 non fu in grado di mandare qualche operatore del tg, perché tutto il personale era impegnato per il festival di Sanremo!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
A tutti i curiosi!
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    13 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Il potere della bugia

“Quanti di coloro che le sfilano davanti hanno già avuto il tempo di mentire oggi, fra il primo caffè e il lavaggio dei denti? Quanti resisteranno fino a mezzogiorno? Bugie piccole grandi grasse strette belle spesse turpi bianche, sempre bianche”.
Bianche, innocenti, “perché non tutte le bugie sono cattive, su certe bugie si costruisce uno Stato”.

Ayelet Gundar-Goshen è una psicologa, sceneggiatrice e giornalista israeliana, vive a Tel Aviv, e questo è il suo terzo romanzo, pubblicato in Italia nel 2019, dalla casa editrice Giuntina, che si occupa di farci conoscere la letteratura ebraica contemporanea.
La protagonista del romanzo è una diciassettenne, Nufar: la classica ragazzina carina, ma non appariscente, formosa, ma non slanciata, proprio quel tipo di fanciulle che passano inosservate tra i coetanei. Nufar soffre anche in casa per il confronto obbligato con la sorella minore, Maya, che, pur avendo i suoi stessi lineamenti, ha il fisico di una modella e la pelle perfetta, senza brufoli.
Una ragazzina anonima, che desidera che ogni tanto qualcuno la consideri, e che oltre ad andare a scuola, lavora in una gelateria.
Proprio in questa gelateria un giorno succede qualcosa che le cambia la vita, ma che rovina la vita di qualcun altro, quella del cantante non più sulla cresta dell’onda, Avishai Milner.
Questi, particolarmente nervoso e frustrato, perché senza contratti discografici, dopo una lunga attesa in fila, si rivolge in maniera molto offensiva a Nufar, che gli sta servendo il gelato, trattandola male e rinfacciandole i suoi difetti fisici. Offesa, Nufar, scappa via dal bancone in lacrime, inseguita da lui che le chiede la banconota di resto.
Le sua urla si sentono per tutto il vicinato, alcune persone accorrono e, nel veder la ragazza in lacrime “braccata” da un ragazzo tirano veloci e quanto mai errate conclusioni: tentato stupro. Nufar non fa in tempo a smentire la notizia, che questa è già partita al galoppo e raggiunge la polizia e i giornalisti. In un battito di ciglia Nufar da insignificante ed anonima ragazzina diventa un fenomeno mediatico, al centro dell’attenzione di tutti. Questa nuova situazione piace così tanto a Nufar che non riesce a dire la verità, ne rimane intrappolata quasi come in una rete. Ogni qualvolta la coscienza le brucia e prova timidamente a confessare la verità, le sue lacrime vengono intese come sfogo, timidezza, vergogna, sofferenza.

“(...)le chiesero: «Ti ha toccato?» e la faccia coperta tremava, insomma confermava, ogni singhiozzo aggiuntivo era un altro sì, e ogni sì era un titolo sul giornale dell’indomani, così d’un tratto, prodigiosamente, da un cortile abbandonato sbucò il nuovo scandalo–un relitto di un talent show accusato del tentato stupro di una minorenne–e tutti guardarono quella storia neonata e videro che era buona. Sia lodato il creatore”.

Viziata, circondata dalle attenzioni di tutti, pure dai proprietari dei negozi di abbigliamento che le donano capi di vestiario affinché li indossi nelle apparizioni in televisione , Nufar proprio non riesce a dire la verità e, da ragazza offesa diventa “bugiarda” , perché non fa nulla per fermare l’equivoco, con conseguenze pesanti sulla vita di Avishai.
Solo due persone sanno la verità: uno è un clochard muto e l’altro è Lavì, un adolescente disadattato come lei, per niente brillante, un outsider come lei, fisicamente non in linea coi canoni di bellezza proposti dalla società . Lavì è affascinato da come la bugia accenda gli occhi di quella ragazza, da quel contrasto tra il dolce viso esposto e il suo segreto. Decide di ricattarla: accettarlo come fidanzato in cambio del silenzio.

Ognuno ha le sue bugie. Nella seconda parte del libro compare un’anziana donna che finge di essere, ad un certo punto, Revka, compagna di ospizio, che ha amato dall’infanzia, ormai defunta, per presenziare ad una conferenza come testimone sopravvissuta ai campi di concentramento. Lavì stesso fa credere al padre di volersi e arruolare, non fa nulla per chiarire l’equivoco creatosi tra di loro e, in questa situazione, lo rende felice ed orgoglioso.

Dalla bugia alla storia d’amore, alla felicità. La bugia che fa bene a tutti (tranne ad Avishai), chi non ricorre alla menzogna per rendere meno brutto il mondo? Questo è il focus del libro: ognuno dei personaggi ha detto o dice una bugia per essere diverso da quello che è.
La scrittrice in una intervista dice “ tutti siamo dei bugiardi. Ogni persona al mondo dice bugie, spesso e più volte al giorno. È come andare di corpo: nessuno ne parla, sembra che la cosa non esista e invece ci riguarda tutti. Volevo scrivere un romanzo proprio su questo, su qualcosa di cui nessuno parla, ma è presente nelle vite di tutti”

( Intervista a Ayelet Gundar-Goshen | Mangialibri)

Un libro molto ironico, piacevole, scorrevole, si legge velocemente. Si ha la sensazione di essere immersi un Israele globalizzato, con le sue tradizioni e le sue ricorrenze ormai (tranne la Shoa) poco sentite dai giovani. Un appunto da segnalare alla casa editrice: sarebbe utile tradurre le parole yiddish che spesso compaiono nei discorsi, perché a volte non ci si arriva col solo intuito.




Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Storia e biografie
 
Voto medio 
 
4.6
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    10 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Una questione storica complessa

Volevo consigliare questo interessante saggio scritto da Brian LEVACK insegnante di storia all’Università del Texas di Austin, specialista in storia della stregoneria in Europa e in Occidente in generale.
L’opera è divisa in nove corposi capitoli seguiti da un”altrettanto corposa bibliografia e note finali. La caccia alle streghe è forse la questione storica dove i disaccordi tra gli studiosi sono i più numerosi ed è un fenomeno solo europeo.
La credenza nella magia e nella stregoneria fa parte di quasi tutte le culture del mondo (Africa, America Latina, etc.), ma il sistema europeo di credenze di stregoneria è unico perché, sottolinea più volte LEVACK, è presente in esso la componente satanica . In altre parole patto col diavolo, infanticidio, volo notturno, anche cannibalismo. Tale sistema è stato definito e costruito da generazioni di teologi cristiani. Diciamolo: la componente della Riforma cattolica ha dato un forte contributo, ma non decisivo secondo lo storico, alla costruzione di tale fenomeno.
Sotto tale impulso la stregoneria da crimine spirituale diventerà secolare, con mobilitazione di tribunali laici, l’ammissione di tortura a scopo di estorcere le confessioni.
Il mago o la strega erano considerati eretici, anche quando i loro scopi, le loro azioni, erano benevole, perché le pratiche magiche davano al Male ciò che era dovuto a Dio. L’eretico era pur sempre un traditore e quindi col tempo divenne meritevole delle più aspre pene.
LEVACK adotterà il “concetto cumulativo di stregoneria” per indicare un sistema dotto di credenze, in cui il patto col diavolo è il fondamento giuridico dei processi, seguito poi dal volo notturno, dalla partecipazione ai sabba (con particolare enfasi sull’aspetto erotico). Lo studioso tra l’altro sostiene che senza la credenza nel sabba la caccia alle streghe sarebbe stato un fenomeno storico di portata molto minore.
Nei vari capitoli verranno indicate le figure più suscettibili di essere accusate di stregoneria, la reazione dei vari stati europei al fenomeno , le varie tipologie di tortura, i vari libri e trattati sulla magia che grazie all’invenzione della stampa divennero di dominio quasi pubblico.
In un’epoca definita da White “l’età dell’ansia”, per i vari processi di cambiamento demografico, politico, religioso il fenomeno della caccia alle streghe ha sicure basi psicologiche, insite nel grande mutamento sociale, dove il diverso, l’emarginato è considerato una figura ribelle e sovversiva.

Un saggio arricchente ed approfondito.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
archeomari Opinione inserita da archeomari    09 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La vita è un palcoscenico

La casa editrice Fazi sta recuperando le opere di Angela Carter, una scrittrice e giornalista britannica poliedrica che ha lasciato libri fantasy/noir, opere teatrali, romanzi. Poco prima che un cancro la stroncasse, stava lavorando ad un sequel di Jane Eyre.
“Figlie sagge” è stato pubblicato in Inghilterra nel 1991, ma in Italia l’opera è apparsa nel 2016 e fa parte della collana “Le strade” della Fazi.

La figlie “sagge” (l’aggettivo è quanto mai lontano dal significato comune) sono Dora e Nora Chance, gemelle settantacinquenni irriverenti, ex ballerine e cantanti dell”avanspettacolo, cresciute dal lato sinistro, quello sbagliato, del Tamigi, “la sponda bastarda”. Sono figlie naturali, mai riconosciute, di Melchior Hazard, il più grande interprete dei personaggi del teatro shakespeariano di tutti i tempi, vissuto quindi nella parte più elevata e splendente della notorietà televisiva.
La voce narrante è Dora:
“Le signorine Dora e Leonora, cioè le vostre affezionatissime, sono, naturalmente, le figlie di Sir Melchior Hazard, sebbene, ehm, di nessuna delle sue mogli. Siamo, come si dice, le figlie naturali, come se soltanto le coppie non sposate lo facessero secondo natura. Le sue figliole mai-da-lui-ufficialmente-riconosciute, e nate, per uno strano caso, nello stesso giorno del suo compleanno”.

Ebbene sì, il romanzo, diviso in cinque capitoli, come gli atti di ogni opera teatrale che si rispetti, si apre con l’invito alla festa compleanno rivolto alle ormai anziane Lucky Chance da parte loro centenario e monumentale padre Melchior: è il 23 aprile.
Melchior e le sue figlie non riconosciute sono nati nello stesso giorno in cui è nato Shakespeare! Gli omaggi e le citazioni del Bardo costellano il libro e, unite alla penna magica della Carter fanno di questo romanzo un’opera divertente e indimenticabile.
I personaggi sono veramente tanti, all’inizio si fa un po’ fatica a non confondersi, ma sono così ben delineati che l’ostacolo iniziale viene subito aggirato. Come si fa a non impazzire per Nonna Chance, la donna che ha assistito la mamma di Dora e Nora mentre le dava alla luce morendo? Questa Nonna, che si è accollata il compito di allevarle e crescerle come figlie sue, dando loro il suo cognome, è una donna forte, che sa il fatto suo, una vegetariana, nudista, naturalista convinta...trasmette loro sicurezza, affetto, forza d’animo. Coglie in loro, ancora bambine, l’innato talento per il ballo e il canto e paga la loro istruzione. Abbiamo poi uno “zio” tutto speciale, a sua volta gemello dell loro padre, e che si chiama Peregrine (Perry per gli amici): quest’uomo enorme, muscoloso, alto, possente si prenderà cura delle gemelle, riconoscendole “ufficiosamente” come proprie e inviando loro ogni sorta di regalo. Ci sono poi gli amori di Dora e Nora, ma sono sempre personaggi di passaggio, che spariscono dopo poche pagine, perché il loro vero amore è...Melchior, il papà che continua imperterrito ad ignorare quasi non esistessero e l’amore tra sorelle che, nonostante le differenze, è il cemento che tiene insieme il loro mondo.
Tantissimi personaggi che non cito per dare a voi il piacere di scoprirli e di affezionarvi a loro. Certamente la Carter era una femminista convinta e nel romanzo i personaggi maschili sono deboli, una debolezza anche nella volontà e negli intenti, alcuni sono addirittura ridicolizzati!
Un romanzo che ho molto amato. Caleidoscopico, avvolgente, esilarante, con uno stile magnetico che tiene incollati alla pagina, lasciandovi spesso il sorriso sulle labbra, nonostante tematiche delicate che, pur portate all’assurdo e al grottesco, sono attuali. Dietro il turbinio delle paillettes e dei lustrini, dei corpi e dei sorrisi perfetti anche oltre la mezza età, c’è la trasposizione della realtà dei nostri giorni, con le sue ipocrisie e le sue amarezze.
Indimenticabile!

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Le notti al circo, Angela Carter
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
216 risultati - visualizzati 101 - 150 1 2 3 4 5

Le recensioni delle più recenti novità editoriali

Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)

Altri contenuti interessanti su QLibri

L'antico amore
Fatal intrusion
Il grande Bob
Orbital
La catastrofica visita allo zoo
Poveri cristi
Se parli muori
Il successore
Le verità spezzate
Noi due ci apparteniamo
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Delitto in cielo
Long Island
Corteo
L'anniversario
La fame del Cigno