Opinione scritta da kafka62
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EROS E THANATOS
“Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti un enorme turbamento, cosa del tutto giustificata, ci basterà ricordare che non si riscontrava notizia nei quaranta volumi della storia universale, sia pur che si trattasse di un solo caso per campione, che fosse mai occorso un fenomeno simile, che trascorresse un giorno intero, con tutte le sue prodighe ventiquattr’ore, fra diurne e notturne, mattutine e vespertine, senza che fosse intervenuto un decesso per malattia, una caduta mortale, un suicidio condotto a buon fine, niente di niente, zero spaccato.”
Con “Le intermittenze della morte” Saramago realizza un arguto apologo, tra il romantico, il surreale e il grottesco, del rapporto tra eros e thanatos. Qui la morte è rappresentata come nella tradizionale iconografia medioevale, uno scheletro con tanto di falce e cappuccio (anche se poi usa la corrispondenza vergata a mano per recapitare ai morituri le sue fatali sentenze e la televisione di Stato per rendere pubblici i suoi messaggi), una forza potente a cui non è possibile far resistenza (ma che sbriga il suo millenario lavoro come un qualsiasi travet d’ufficio), la quale morte decide un giorno di travestirsi da giovane donna per avvicinare l’unico essere umano, un violoncellista cinquantenne che vive solo con il suo cane, che inconsapevolmente rifiuta di morire quando è giunta la sua ora. Entrata nella sfera privata della sua vittima, peraltro abbastanza grigia e routinaria (come del resto quella di quasi tutti gli “eroi” saramaghiani, esemplari di una solitudine feroce sopportata con estrema dignità e decoro), per la prima volta rimane coinvolta, complice anche la musica di Bach, dalle emozioni dell’umanità e, da fredda dispensatrice dell’estremo viatico qual era, decide di bruciare la ferale missiva e di rimanere al fianco dell’uomo nelle sue femminee fattezze (un po’ come accadeva agli angeli de “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders).
Il romanzo, che inizia e si conclude con un’identica frase (“Il giorno seguente non morì nessuno”), è scorrevole e divertente, ma sconta il peccato di far entrare in scena i suoi personaggi principali dopo ben più di cento pagine. Prima infatti Saramago si esercita a simulare gli effetti (politici, economici, sociali, psicologici e perfino religiosi) di un’ipotesi assurda: la scomparsa della morte in un Paese immaginario. Quella che sembra un’ipotesi da paradiso terrestre si rivela, nell’implacabile logica dello scrittore portoghese, una sciagura di proporzioni inimmaginabili. Se la Chiesa ha bisogno della morte, perché senza la resurrezione e l’aldilà la sua presenza diventa superflua, il Governo da parte sua si preoccupa del pagamento delle pensioni e dell’inevitabile incremento demografico, gli ospedali dell’impossibilità di garantire le cure mediche a una pletora di malati terminali destinati a non perire mai, le imprese di pompe funebri del chiudersi dei rubinetti che portavano loro profitti apparentemente a prova di qualsiasi crisi e recessione economica, e così via. Con il suo inconfondibile humour, Saramago immagina come l’umanità riesca a reagire con opportunismo, praticità e un pizzico di cinismo anche a questa situazione d’emergenza: le compagnie di assicurazione modificano le clausole delle polizze vita inventando la “morte virtuale” a 80 anni, la mafia si getta a capofitto in un nuovo business, l’organizzazione del trasporto a pagamento dei moribondi al di là dei confini nazionali (dove si continua a morire regolarmente), lo Stato chiude un occhio su questi traffici e anzi (dal momento che gli toglie non poche castagne dal fuoco) fornisce alla mafia anche una sorta di supporto logistico. Tutto questo è descritto in maniera estremamente abile e ingegnosa (del resto Saramago è il re dei paradossi, di cui è disseminata l’intera sua letteratura), ma anche un po’ distante, come se la vicenda fosse vista con gli occhi di uno scienziato che stesse conducendo un esperimento in laboratorio. E’ solo quando viene ristabilito il naturale ordine delle cose, vale a dire quando la gente torna a morire come prima (con la sola variante che la morte consegna una settimana prima ai predestinati una lettera viola che annuncia loro l’imminente dipartita), ed entra in scena il violoncellista restio a morire, che il racconto acquista – per così dire – anima e corpo, mettendo da parte l’umanità nel suo complesso per scendere al livello – come è maggiormente nelle corde del nostro autore – delle singole esistenze individuali (umane e non, vedi la bella figura del cane che riecheggia quella del suo simile de “La caverna”). Ma ormai, come già accennato, sono già trascorsi i due terzi del libro e, nonostante l’intensità delle pagine finali, non è più possibile togliersi di dosso l’impressione che “Le intermittenze della morte” sia più che altro un esercizio di stile, una prova tutto sommato minore nella ragguardevole bibliografia saramaghiana.
ESSERE LA COPIA DI QUALCUN ALTRO
Leggere un romanzo di Saramago è un po’ come incontrare un vecchio amico: si sa già quello che ci aspetta, ma il piacere della antica conoscenza, della reciproca confidenza e dell’affabilità cameratesca supera comunque il limite costituito dalla prevedibilità. Tertuliano Maximo Afonso, il protagonista de “L’uomo duplicato”, è infatti un po’ come il fratello maggiore di tanti personaggi che hanno popolato i precedenti romanzi di Saramago, e non è un caso che lo scrittore portoghese, nelle prime pagine, paragoni la sua pignola solitudine a quella “di quel medico generico che tornò dall’esilio per morire fra le braccia dell’amata patria, quel recensore di bozze che esautorò una verità per impiantare al suo posto una menzogna, quell’impiegato subalterno dell’anagrafe che faceva sparire certificati di morte”. E come ne “L’anno della morte di Ricardo Reis”, “Storia dell’assedio di Lisbona” e “Tutti i nomi” (oltre che di “Cecità”, “La zattera di pietra” e dei più recenti “Saggio sulla lucidità” e “Le intermittenze della morte”), anche “L’uomo duplicato” parte da uno spunto paradossale - l’esistenza di due uomini uguali in tutto – per svilupparlo poi nei termini di una implacabile, fors’anche un po’ prolissa, lucidità. L’essenza della prosa di Saramago la si trova infatti soprattutto nelle sue frequenti digressioni, laddove egli sospende la narrazione per ragionare su svariati argomenti (come la funzione dei sottogesti o la necessità di descrivere o meno i pensieri del protagonista durante gli spazi vuoti della storia). Da questa predisposizione loica si dipana una vicenda che sfida l’intelligenza del lettore a seguirlo attraverso le impervie strade dell’improbabile. Tertuliano, dopo aver casualmente scoperto in una videocassetta l’esistenza di un sosia, si mette infatti alla sua ricerca, completamente destabilizzato dalla sconvolgente rivelazione di essere la copia di qualcun altro. Dopo avere faticosamente scoperto il nome dell’attore e il posto dove abita, riesce a incontrarlo ma, nonostante gli ammonimenti di una saggia madre-Cassandra, non è in grado di evitare che il cavallo di Troia astutamente preparato dal suo alter ego (o, per rimanere in campo mitologico, il vaso di Pandora da lui stesso incautamente aperto) distrugga la sua vita, consegnandolo a un futuro senza identità, o con un’identità che ormai non è più la sua. Non ci possono essere due copie della stessa persona, o – il che è lo stesso – non si possono omologare la persone fino a farle confondere in tutto e per tutto le une con le altre. Ogni essere umano porta nel mondo una propria inconfondibile unicità, un suo marchio personalissimo, e tentare di negarlo porta sempre a nefaste conseguenze. Il Tertuliano che, dopo il boccaccesco scambio delle coppie e l’imprevedibile morte del suo sosia e della fidanzata, si ritrova a non poter più vivere con le proprie generalità, a esercitare il proprio mestiere, ad abitare nella propria casa, perché è ufficialmente morto, sembra proprio uscito da un romanzo di Pirandello o da un racconto di Auster. A differenza di Pirandello, Saramago è meno pessimista (in fondo lui non nega mai un finale di speranza ai suoi personaggi, e così anche Tertuliano potrà ricominciare una nuova vita a fianco della vedova del sosia defunto), ma anche più beffardo e pronto a portare ancora più innanzi i propri paradossi. Di fronte alla prospettiva dell’esistenza di un terzo duplicato, Tertuliano non ha dubbi: al mondo non c’è posto per i cloni, la pistola (che il sosia aveva portato scarica al primo incontro con Tertuliano) questa volta, forse, sparerà.
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NON PER SOLDI MA PER DENARO
«[La tua insegnante] ti ha mai spiegato che cos’è il denaro?»
«Be’, questo lo sanno tutti, cioè, un momento, ecco, questo quarto di dollaro è…»
«Proprio quello che credono quasi tutti i fessi, maledizione, la prossima volta dille solo che il denaro è il credito, capito? […] Quando ti dirà che i tuoi soldi dovrebbero lavorare per te, dille che il trucco sta nel far lavorare per te i soldi degli altri, capito?»
Quello del self made man, dell’uomo che si è fatto da solo, è uno dei miti più solidi e importanti della cultura americana. Da John Rockefeller, l’uomo d’affari che, partendo dal nulla, è arrivato a possedere l’1,5% dell’intero prodotto interno lordo degli Stati Uniti, a zio Paperone, il quale sul suo primo “decino” (la moneta da dieci centesimi di dollaro) ha costruito una fortuna stratosferica simboleggiata dal deposito zeppo di fantastiliardi che troneggia su una collina di Paperopoli, tante sono le figure, reali o immaginarie, che stanno a testimoniare la forza e la pervasività del sogno americano, vale a dire che chiunque, con la propria determinazione e il proprio talento, può diventare ricco e raggiungere fama e successo. William Gaddis ha portato alle estreme conseguenze questo concetto, facendo di un ragazzino undicenne il protagonista della sua amara satira sul mondo degli affari e sul capitalismo. JR non è un brillante studente di Harvard, ma al contrario un moccioso come tanti, che dice parolacce in continuazione, si scaccola il naso in pubblico e parla in modo sgrammaticato, senza cultura e senza educazione (i suoi genitori sono delle figure totalmente assenti). Egli però possiede un innato, istintivo, quasi rabdomantico senso degli affari e, prendendo alla lettera il cinico insegnamento impartitogli da un losco manager nei gabinetti di una società di Wall Street, dove si è recato in gita scolastica con la sua classe, riesce in breve tempo a costruire un vero e proprio impero finanziario: utilizza ad esempio l’azione comprata dalla sua scuola al fine di dimostrare agli studenti come funziona l’economia americana per intentare una causa alla società, ricavandone un ingente indennizzo in via transattiva, acquista per posta una partita di posate da picnic di cui la Marina intende disfarsi per rivenderla subito dopo all’Esercito, coi soldi ottenuti compra azioni di società decotte per poter sfruttare fiscalmente le perdite pregresse ed ottenere altri prestiti dalle banche, e destreggiandosi come un prestigiatore tra agevolazioni tributarie e speculazioni immobiliari, prestiti obbligazionari e paradisi fiscali, futures e stock options, diventa un magnate dell’alta finanza, senz’altra giustificazione alle sue compulsive e spericolate speculazioni se non quella che “è così che si fa”. Considerato che il romanzo è stato pubblicato nel 1975, le pagine di Gaddis assumono una valenza quasi profetica, dal momento che l’economia rappresentata in “JR”, il cui scopo non è quello di produrre beni e fare utili con un rapporto equilibrato tra costi e ricavi, bensì di creare una ricchezza illusoria tramite elusioni fiscali, prestiti garantiti da altri prestiti e strumenti derivati, ricorda molto da vicino quella che ha portato al fallimento della Lehman Brothers e alla crisi mondiale del 2008. La genialità di Gaddis consiste nell’aver condensato in poche pagine (si fa per dire, perché il romanzo sfiora le mille pagine) un intero ciclo economico meglio di un trattato di macroeconomia: dallo sviluppo inarrestabile dell’inizio l’impero di JR raggiunge ben presto una dimensione critica, che precede l’implosione e la rovinosa crisi, giacché quanto messo in piedi dal ragazzo si rivela alla fine nient’altro che un miserando castello di carte. Quello di “JR” è un mondo sconsolatamente desolante, dove gli individui sono mossi esclusivamente da motivazioni legate all’interesse e al profitto, dove la religione è assente e l’unico dio è il dollaro, dove la beneficenza si fa solo perché è possibile portarla in deduzione e non pagare così le imposte sul reddito, dove i legami familiari sono inesistenti (non solo il genitori di JR sono assenti, ma anche il padre di Amy, il ricco finanziere Monty Moncrieff, tutto preso dal suo importante lavoro, trascura colpevolmente i figli) e le famiglie si disgregano, dove la scuola è gestita come un’azienda e non si preoccupa di educare, istruire ed elevare spiritualmente i giovani, ma solo di prepararli ad essere dei futuri consumatori, e dove persino l’arte (già messa alla berlina nel precedente romanzo di Gaddis, “Le perizie”) si rivela inutile e impotente, come dimostrano i personaggi degli scrittori Thomas Eigen e Jack Gibbs (forse degli alter ego dello stesso autore), del pittore Schepperman e soprattutto del musicista Edward Bast, perennemente alla prese con opere lasciate incompiute e con problemi finanziari, dimessi e scalcagnati, costretti per poter sopravvivere a svendere il loro talento in occupazioni mediocri e demotivanti, e destinati non a caso a finire quasi tutti nell’orbita di JR, a fargli da segretari e galoppini. La sottomissione dell’arte allo spregiudicato mondo degli affari è il lascito pessimistico di “JR”, e non basta a redimerlo il disperato tentativo di Bast di far ascoltare al piccolo protagonista una cantata di Bach per dimostrargli che esiste qualcos’altro oltre all’angusto e riduttivo mondo della finanza. La felicità non appartiene al mondo di Gaddis, così come, nel nostro mondo odierno, non è contemplata da indicatori come il PIL, il cui aumento ad ogni costo, pur millantato come l’unica garanzia di prosperità e di benessere, trascura elementi fondamentali come la salute dei cittadini, l’istruzione o la ricchezza dei rapporti sociali.
Nonostante questo sottofondo pessimistico, e a tratti tragico (nel libro vi sono addirittura tre suicidi e la morte di un ragazzo drogato in un incidente stradale), il tono del romanzo è apertamente comico, scanzonato e quasi clownesco. “JR” è un hellzapoppin’ costruito sotto il segno dell’iperbole e del grottesco. I personaggi sono costantemente vittime di malintesi, di fraintendimenti e di qui pro quo (Bast ad esempio brucia con l’accendino la mano di Amy credendo che il cracker che la donna sta portando alla bocca sia una sigaretta, mentre Davidoff scambia il signor Duncan, titolare di una piccola ditta di carta da parati, per il proprietario dell’omonima casa editrice), e non è raro che in un dialogo un personaggio parli di una cosa e il suo interlocutore risponda a sproposito di tutt’altro (come quando a Bast, che vuole sapere da Crawley come funzionano le obbligazioni, questi risponde esponendogli il suo progetto di un film sulle zebre), con un effetto irresistibilmente slapstick. L’apice di questa comicità iperbolica si ritrova a mio avviso nelle scene ambientate nell’appartamento sulla 96a Strada, l’incongruo quartier generale della JR Corp., stracolmo di confezioni e scatole di prodotti di ogni genere, che sembrano aver preso possesso di ogni spazio come la vegetazione di una giungla tropicale, i rubinetti rotti che fanno scrosciare ininterrottamente l’acqua, la porta con i cardini rotti, un orologio con le lancette che girano al contrario, una petulante radiolina sepolta sotto gli scatoloni che si accende a intermittenza, il forno e il frigorifero usati come archivi per i documenti e le lettere che vengono recapitati senza sosta, e l’entropia che inghiotte tutto – cose e personaggi – come nello studio del funzionario Sordini ne “Il castello” di Kafka o nella Centrale dell’energia di “Giles, ragazzo-capra” di Barth. Confesso di essermi molto divertito a leggere la clownesca satira di “JR”, anche se sono perfettamente consapevole che il mio incondizionato apprezzamento rischia di apparire quantomeno paradossale di fronte alla fama a dir poco sinistra che il romanzo si è portato dietro nel corso degli anni. In effetti, “JR” è un libro oggettivamente difficile, in quanto composto al 99% (e la stima è probabilmente arrotondata per difetto) di dialoghi, senza alcuna voce narrante a cui appigliarsi: nelle sue pagine prevale la cacofonia, con una continua alternanza, e persino una sovrapposizione, di voci (colloqui simultanei, voci provenienti da apparecchi radiofonici o schermi televisivi, ecc.), con le telefonate che interrompono continuamente le conversazioni e spesso a loro volta vengono disturbate da interferenze, in modo che alla fine tutto si riduce a un vaniloquio che sembra a prima vista non portare da nessuna parte. Inoltre Gaddis, a differenza per esempio di quanto avviene in un testo teatrale, non dice mai esplicitamente chi sta parlando, per cui il lettore è costretto a un notevole sforzo per attribuire un nome a ciascuna voce, compito a volte per nulla agevole se si tiene conto che spesso nella stessa scena sono presenti numerose persone, che i personaggi del romanzo sono svariate decine, e lo stesso protagonista JR, costretto per la sua età a parlare solo per telefono camuffando la propria voce con un fazzoletto appallottolato sul ricevitore, compare in un numero limitatissimo di pagine. Tale sforzo è però ricompensato in misura più che proporzionale all’impegno profuso. E’ un po’ come se Gaddis avesse voluto selezionare il suo parterre di potenziali lettori, disseminando il suo testo di innumerevoli trappole ed ostacoli, al fine di scremarne il numero e farne rimanere, in spregio di ogni opportunistica logica editoriale, solo una piccola, sparuta e selezionatissima quota, in grado di resistere all’impatto delle prime, osticissime, pagine di dialoghi senza interruzioni e senza riferimenti, dove i personaggi, di cui non conosciamo nulla e che sono delle sagome vuote destinate a definirsi solo con lo scorrere della storia, possono essere riconosciuti solo dal loro inconfondibile modo di parlare (come il dialogare franto e spezzettato di Bast, l’eloquio colto e sarcastico di Gibbs o lo slang sboccato di Rhoda). Ma poi, superata questa sorta di esame di ammissione, Gaddis sa ripagare i fedeli sopravvissuti donando loro quel piacere che solo la grande letteratura è capace di offrire, ossia un sofisticatissimo umorismo, uno stile ineguagliabile e una mole impressionante di citazioni (dallo Shakespeare de “Il mercante di Venezia” all’Elliot de “La terra desolata”, dal Tolstoj di “Redenzione” al Conrad di “Cuore di tenebra”, da John Keats a William Butler Yeats, ecc.). Insomma, “JR” è un’opera nata sotto il segno dell’ossimoro: è cinica e pessimistica ma sa profondere divertimento a piene mani, è tremendamente seria ma anche farsesca e giullaresca, è ostica e difficile ma non si avverte mai il peso delle sue pagine, al punto che la sua fine arriva quasi a sorpresa. Ossimoricamente voglio concludere anche questa recensione, ribadendo che “JR” è uno dei più bei romanzi del ‘900, semanticamente ricco, teoricamente profondo, culturalmente stratificato e genialmente eclettico, ma al contempo mettendo chiunque in guardia dall’affrontarlo a cuor leggero, senza una autentica predisposizione psicologica e intellettuale: lettore avvisato…
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KAFKA A NEW YORK
“New York era un luogo inesauribile, un labirinto di passi senza fine: e per quanto la esplorasse, arrivando a conoscerne a fondo strade e quartieri, la città lo lasciava sempre con la sensazione di essersi perduto. Perduto non solo nella città, ma anche dentro di sé.”
I tre racconti (o romanzi brevi) della “Trilogia di New York”, pur pubblicati separatamente alla loro uscita, fanno parte di un “unicum” difficilmente distinguibile. «In sostanza – afferma lo stesso Auster – le tre storie sono una storia sola, ma ognuna rappresenta un diverso stadio della mia consapevolezza». “Città di vetro”, “Fantasmi” e “La stanza chiusa” – aggiungo io – sono tutti e tre pervasi da una identica tensione speculativa, sono ambientati nella medesima città e prendono persino tutti e tre in prestito lo stesso schema narrativo (vale a dire la detective story, trasfigurata in un geniale meccanismo kafkiano di impronta metafisica). Iniziamo dalla metropoli, la New York del titolo. New York è un’ambientazione che sta appartata, quasi in disparte, ma si fa ugualmente sentire, eccome. E’ una città in cui ci si sente irrimediabilmente fuori da se stessi, simbolo della solitudine e dell’alienazione umane, luogo dove ritrovarsi e perdersi all’infinito. E perdersi è proprio quello che fa Daniel Quinn, che già all’inizio del primo racconto è diviso tra tre personalità: la sua, quella di William Wilson (nome emblematico, che rimanda all’omonimo racconto di Poe), il nome con cui firma i suoi romanzi, e infine quella di Max Work, il detective privato protagonista dei romanzi (“Nella triade di sé che Quinn era diventato, Wilson fungeva da ventriloquo, Quinn stesso era il pupazzo, e Work la voce animata che garantiva uno scopo all’impresa”). Quando decide di assumere addirittura una quarta personalità (l’investigatore Paul Auster), e si cala anima e corpo nell’indagine poliziesca commissionatagli da Virginia Stillman (rintracciare e pedinare il suocero che, uscito di prigione, cercherà probabilmente di uccidere il figlio), finisce per smarrire definitivamente il proprio io in preda a una strana forma di follia e trasformarsi progressivamente in uno di quei tanti barboni che aveva visto innumerevoli volte nelle sue peripatetiche escursioni per la città, senza più casa, soldi, identità (guardandosi allo specchio non si riconosce più) e nessun altro scopo nella vita se non quello di scrivere sul taccuino rosso che – unica cosa rimastagli (persino i vestiti alla fine getta via) – continua a portarsi appresso (“Cosa succederà quando non vi saranno più pagine nel taccuino rosso?”). Qui le strade di New York, lungo le quali Quinn pedina Peter Stillman, sono citate una per una, con ossessiva pedanteria, in una topografia la cui massima oggettività contrasta curiosamente con l’assurdità quasi surreale della vicenda.
Il secondo racconto prende spunto da un’altra inchiesta investigativa, per molti versi simile alla precedente, se non altro perché dalla registrazione oggettiva e fedele dei movimenti di un’altra persona ci si sposta gradualmente su un piano psicanalitico e metaforico: il protagonista Blue, ingaggiato da White, si cala infatti talmente in profondità nei panni dell’individuo che spia dalla finestra (tale Black) e di cui segue i rari spostamenti da identificarsi totalmente in lui e, come in uno specchio, vi vede alla fine riflessa la propria vita sprecata (Blue ha rinunciato a tutto, persino alla fidanzata, per dedicarsi anima e corpo al caso affidatogli) e si accorge per di più di essere stato per tutto il tempo tenuto a sua volta sotto sorveglianza. In questa condizione di deprivazione dell’io che vive un’esistenza riflessa si può leggere – kafkianamente – l’assoggettamento dell’uomo a un fato misterioso e inspiegabile. Anche in questo racconto, come nel primo, a un massimo di descrizione realistica corrisponde un minimo di verità e l’assenza di una qualsivoglia comprensibilità del senso ultimo della storia.
Nel terzo racconto si assiste a un ulteriore salto di qualità. Va da sé che il protagonista si improvvisa anche lui detective per rintracciare Fanshawe, l’amico scrittore misteriosamente scomparso, dato per morto ma che lui sa con certezza essere vivo da qualche parte. Se Daniel Quinn faceva dell’uomo da pedinare la sua ragione di vita e Blue arrivava a vedere in lui lo specchio di se stesso, il protagonista de “La stanza chiusa” finisce addirittura per sostituirsi a Fanshawe, pubblicando i suoi libri, sposandone la moglie e adottando il suo figlio. Qui la perdita del concetto si sé raggiunge il suo massimo livello: l’io si dissolve, e al suo posto non rimane nulla a cui appigliarsi. Curiosamente, la stessa sensazione la prova il lettore, al quale non è mai concessa la soddisfazione di trovare un senso alle storie che legge. Tutti i tre racconti infatti non portano ad alcuno svelamento dei misteri che nelle loro pagine hanno contribuito a creare: Quinn “sparisce” nella stanza dove si era rinchiuso (e dove era misteriosamente nutrito da una presenza ignota), Blue uccide Black senza riuscire a comprendere perché gli è stato commissionato il lavoro di sorvegliare il suo uomo (che rapporto c’è tra Black e White? e perché Black ha sulla sua scrivania i rapporti che ogni settimana Blue inviava a White?), di Fanshawe ascoltiamo solo una voce sussurrata attraverso la fessura di una porta ma non veniamo mai a sapere cosa c’è scritto nelle pagine del taccuino rosso in cui egli ha esposto le ragioni della sua scomparsa. L’effetto è disorientante, ma, se si riflette bene, è perfettamente calzante con una filosofia in cui nulla ha senso, in cui cose e persone sono entità sostituibili (non è un caso che nel libro ricorrano più volte i nomi di Quinn, Peter Stillman, Henry Dark e oggetti come il taccuino rosso) e le parole non sono in grado di produrre alcun significato.
Quest’ultima considerazione ci porta a quello che è l’aspetto più propriamente meta-letterario della “Trilogia”. Il romanzo di Auster è, a ben guardarlo, una amara riflessione sul ruolo alienante della scrittura e sul posto che lo scrittore ha nel mondo. Sia Quinn che Blue e Fanshawe fanno della scrittura la loro ragione di vita e nella scrittura (anche solo di banali rapporti da investigatore privato) si dannano irreparabilmente. Auster sembra dirci che lo scrittore è l’alienato per eccellenza, che vive un’esistenza riflessa, staccata dalla realtà (si pensi al dialogo tra Black e Blue travestito da mendicante intorno a Whitman, Thoreau e Hawthorne e alla definizione dello scrittore come colui che “non ha una vita propria. Anche quando lo hai di fronte non c’è veramente”), colui che non ha più scopo (come Fanshawe) non appena la sua opera è terminata. Persi tutti i punti di riferimento (anche quello sul ruolo salvifico dell’arte), messi di fronte a un destino incomprensibile e inconoscibile, negata loro ogni catarsi spirituale, ai personaggi di Auster, come tanti Joseph K., non rimane altro che consegnarsi alla morte come all’unica, estrema possibilità di salvezza: non un autentico afflato di redenzione, ma solo una ansia febbrile e irrazionale di dileguarsi nel nulla.
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LA VERITA' E' SEGRETA
“C’è qualcosa di affascinante in ciò che la sofferenza morale può fare a una persona che, nella maniera più evidente, non è debole o irresoluta. E’ ancora più insidioso di quello che può fare un malanno fisico, perché non c’è iniezione di morfina, anestesia spinale o radicale intervento chirurgico capace di alleviarla. Una volta che sei nella sua morsa, è come se, per liberartene, le dovessi permettere di ucciderti. Il suo crudo realismo non assomiglia a nessun’altra cosa.”
“Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui.”
Dopo “Pastorale americana” l’alter ego di Philip Roth, Nathan Zuckerman, ritorna in un romanzo per molti versi simile, che non a caso chiude idealmente la trilogia sulla storia americana contemporanea comprendente anche “Ho sposato un comunista”. Ne “La macchia umana” Roth-Zuckerman si dedica a rievocare la vicenda umana del professor Coleman Silk, mettendo ancora una volta in evidenza come l’immagine pubblica di un uomo ben raramente corrisponde alla sua più autentica, intima e segreta verità, inaccessibile agli occhi degli altri (attenti solo a captare in maniera superficiale e necessariamente erronea i segnali “sociali” che provengono dall’individuo); inaccessibile agli occhi degli altri, ma non a quelli della letteratura più illuminata, la quale per Roth assurge a un ruolo quasi medianico (è emblematica la scena notturna di Zuckerman al cimitero dove è sepolto Coleman) di tramite per ristabilire la corretta e il più possibile oggettiva versione delle vicende umane (lo scrittore in questo senso sarebbe una sorta di storico delle esistenze individuali). Non è un caso che ho parlato di “segreta verità”, perché il protagonista (come già lo Svedese di “Pastorale americana”) si porta addosso da decenni un segreto pesantissimo, che lo ha tagliato radicalmente fuori dalle proprie origini, dalle proprie tradizioni e dalla propria famiglia: da quando ha deciso, lui nato di colore ma dalla pelle insolitamente chiara, di passare “dall’altra parte” e diventare un bianco, senza che nessuno, neppure sua moglie e i suoi figli, lo sappiano, Coleman Silk vive con una sorta di doppia identità, quasi un novello Mattia Pascal che non per caso, ma con lucida e volontaria determinazione (per poter avere, in una rivendicazione di orgoglioso e sfrenato individualismo, tutte le opportunità in grado di portarlo al successo che un “semplice negro” nei primi anni ‘50 in America non poteva ancora permettersi), sceglie di cancellare completamente il passato per costruirsi senza condizionamenti il proprio futuro.
La parabola umana di Coleman Silk è venata di una beffarda ironia, in quanto il professore, al culmine del suo successo professionale, subisce un’infamante (e ingiusta) accusa di razzismo, avendo apostrofato come “spettri” (che nell’inglese gergale è anche un modo spregiativo di dire “negri”) due studenti assenteisti che non conosceva e che, casualmente, erano di colore. Tale accusa, e l’inchiesta interna che viene sollecitamente aperta, costringe Silk a dimettersi dall’università in cui lavora e a esiliarsi polemicamente dal mondo accademico in cui aveva vissuto e mietuto allori per decenni. Crudele nemesi del destino per chi aveva abiurato la sua razza in un’epoca in cui mai uno studente nero avrebbe potuto far valere i propri diritti contro le discriminazioni (vere, figuriamoci quelle pretestuosamente infondate) di un professore bianco, e tanto più crudele e beffarda in quanto viene a sconvolgere e ribaltare l’audace e spregiudicato progetto di vita che Coleman Silk aveva con tanto scrupoloso raziocinio messo in piedi. Pochi romanzi come “La macchia umana” hanno descritto in maniera così stringente e incisiva l’incontrollabile imprevedibilità del destino, che irride gli sforzi degli uomini (soprattutto in America, la patria del self made man, dove il diritto alla felicità individuale e all’autorealizzazione è perfino rivelato dal modo di scrivere il primo pronome singolare con la lettera maiuscola) di forgiarsi autonomamente, in spregio ad ogni condizionamento di censo, razza e religione, la propria esistenza.
“La macchia umana” è anche un potente romanzo di critica sociale, che mette alla berlina tutta l’ipocrisia, il perbenismo e il bigottismo di cui è permeata la società americana, e che si manifesta periodicamente in vere e proprie epidemie di maldicenza capaci di annientare, per biechi e ottusi motivi ammantati dalla falsa esigenza di salvaguardare la morale pubblica, la dignità di una persona. Non è un caso che la storia di Coleman Silk venga collegata a quella, per molti versi analoga, dello scandalo a sfondo sessuale che ha portato il presidente americano Clinton a un passo dalla destituzione. Il messaggio “politico” di Roth è chiaro, e va contro quell’odioso puritanesimo che fa sì che magari si perdoni a un presidente una guerra crudele e sanguinosa (e nel 2000 non c’erano ancora stati i conflitti con l’Afghanistan e l’Iraq dell’era Bush!) ma non una banalissima relazione extra-coniugale. I suoi strali sono tutti per Delphine Roux, la giovane e brillante insegnante che si sente investita della maniacale missione di punire Coleman Silk per tutti i peccati che la sua paranoica immaginazione di novella Giovanna d’Arco è disposta ad attribuirgli (salvo poi usare cinicamente la sua morte per salvarsi la poltrona), e per tutti quei “gretti frequentatori della chiesa locale, attaccati alle convenienze, retrogradi di ogni genere ansiosi di smascherare e punire le persone” che infestano il mondo come una pestilenza. E’ però ingiusto ridurre il romanzo di Roth a un’invettiva, tanto equilibrato e controllato è il suo stile, rispettosissimo nell’assumere il punto di vista psicologico di ciascun personaggio, sia esso proletario o borghese, erudito o analfabeta, senza mai sbilanciarsi in giudizi morali netti e trancianti. Allo scrittore interessa solo la verità, e la verità non risiede mai nel demonizzare i “cattivi” (Les e Delphine sono in fondo solo degli infelici, dei frustrati, dei poveri diavoli, pericolosi sì – e anche assassini, come nel caso del primo - ma non due mostri, soprattutto non in grado di comprendere tutto il male che stanno facendo), perché altrimenti si ricadrebbe in un manicheismo altrettanto deteriore di quello che si vorrebbe combattere. «Ogni giorno che passa le parole che sento pronunciare mi sembrano una descrizione sempre meno convincente di come stanno realmente le cose», afferma Ernestine, la sorella di Coleman, alla fine del romanzo. Ecco, questa è la vera missione dell’intellettuale, quella di “lavorare” le parole per farle finalmente aderire alla realtà, in un’instancabile sforzo di palingenesi e di rigenerazione, perché le parole possono fare male e distruggere vite umane non meno delle armi, e insegnare a usarle con umiltà, esattezza e discernimento è il solo modo per fare un po’ di luce su quell’immenso e insondabile mistero che è l’essere umano.
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TUTTO E' COLLEGATO
“La civiltà non era nata e fiorita tra uomini che scolpivano scene di caccia su portali di bronzo e parlavano di filosofia sotto le stelle, mentre l’immondizia non era che un fetido derivato, spazzato via e dimenticato. No, era stata la spazzatura a svilupparsi per prima, spingendo la gente a costruire una civiltà per reazione, per autodifesa. Eravamo stati costretti a trovare il modo di liberarci dei nostri rifiuti, di usare quello che non potevamo gettare, di riciclare quello che non potevamo usare. La spazzatura aveva reagito alla spinta crescendo ed espandendosi. E così ci aveva costretti a sviluppare la logica e il rigore che avrebbero condotto all’analisi sistematica della realtà, alla scienza, all’arte, alla musica e alla matematica.”
Cosa c’entra la spazzatura con la bomba atomica? E Lenny Bruce con Edgar J. Hoover? E un killer seriale che sceglie le sue vittime sulle autostrade del Texas con John Fitzgerald Kennedy? E il successo di una artista d’avanguardia con la scomparsa di un padre di famiglia o la storia di un ragazzo che dipinge graffiti sui vagoni della metropolitana? Apparentemente niente, si sarebbe tentati di dire. Ma in un mondo in cui “tout se tient”, De Lillo si erge ad artefice di un’opera titanica: quella di descrivere la storia americana del XX secolo attraverso l’accostamento di decine di micro-storie apparentemente slegate le une dalle altre, ma che in realtà risultano essere, nell’ambizioso piano dello scrittore, altrettante tessere di un puzzle gigantesco, la cui immagine complessiva vuole essere nientemeno che quella, poliedrica e composita, dell’America del secondo dopoguerra. “Perché alla fine tutto è collegato”, afferma Matt, uno dei tanti personaggi del libro a pag. 496. E Edgar J. Hoover, a pag. 615, gli fa eco con parole quasi identiche. Se “tutto è collegato”, la chiave di lettura di “Underworld” è allora quella di rintracciare i leit motiv, a partire da quello della palla da baseball che, dallo stadio dove si disputa la memorabile finale tra Giants e Dodgers, passa di mano in mano nel corso degli anni, per arrivare infine in possesso di Nick Shay, che la conserva come un simbolo tangibile del fallimento e della sconfitta, l’ambigua ipostasi di un’infanzia difficile e anche di un quartiere, il Bronx (raccontato in pagine di straordinario fascino evocativo, che tradiscono l’origine italo-americana dell’autore), a cui si è indissolubilmente legati da un equivoco rapporto di odio-amore, e che non lascia altra scelta se non rimanervi pervicacemente attaccati come un mollusco a uno scoglio per cercare di sopravvivere ai propri ricordi (come fa Albert Bronzini, con masochistica fedeltà alle proprie tradizioni) o fuggire invece verso altri lidi per inseguire un successo altrimenti impossibile (Nick, Klara) o semplicemente per liberarsi dal fardello del proprio insopportabile presente (il padre di Nick).
Ho detto della palla da baseball, il McGuffin di cui si serve De Lillo per scorrazzare avanti e indietro attraverso i decenni, del Bronx, vero cuore pulsante del romanzo, e di Nick Shay, non a caso l’unico personaggio a parlare in prima persona. Partendo da questi capisaldi e usando il procedimento della ramificazione o del domino, De Lillo introduce una dozzina di personaggi, alcuni reali (Hoover, Bruce, Sinatra), i più immaginari, seguendoli a ritroso nel tempo (questa è una delle più notevoli invenzioni del romanzo, dal momento che personaggi e avvenimenti acquistano senso solo retrospettivamente, man mano che si risale al contrario la corrente degli anni) e divertendosi a far intrecciare le loro traiettorie esistenziali. E’ così che ad esempio, nella seconda parte (“Elegia per sola mano sinistra”), da Marian, la moglie di Nick, si passa a Brian, suo collega, quindi a Marvin, il possessore della palla, e via via, successivamente, allo stesso Nick, a suo fratello Matt, ad Albert Bronzini (insegnante di Matt in pensione) e a suor Edgar (insegnante di religione nella stessa scuola). E i personaggi che non sono collegati direttamente, vengono da De Lillo associati per mezzo di una sofisticata tecnica di riferimenti pseudo-storici o culturali (ad esempio, la nave cisterna che trasporta da anni un carico misterioso di cui si favoleggia nell’ambiente di lavoro di Nick è la stessa che casualmente vede Marvin al porto mentre attende invano lo sbarco del presunto possessore della palla, l’aereo che Klara Sax sta dipingendo è lo stesso bombardiere in viaggio verso la Corea su cui vola il figlio dell’uomo che molti anni prima ha acquistato la palla, il quale a sua volta è l’autore della pubblicità del succo d’arancia sul cui cartellone appare miracolosamente il viso di una ragazzina morta davanti agli occhi di una folla di curiosi, tra cui c’è anche Ismael, l’ex Moonman graffitaro dei treni, e via così, in un gioco di continui, affascinanti e complessi rimandi intertestuali). Su tutto si stende l’ombra della guerra fredda (la partita tra Giants e Dodgers coincide con il primo esperimento atomico dei sovietici), della corsa agli armamenti (gli esperimenti segreti cui collabora il giovane laureato Matt e le dicerie sui tremendi effetti delle radiazioni sulla popolazione locale) e della paranoia (ben rappresentata dal “moriremo tutti quanti” di Lenny Bruce, ma anche dalle farneticazioni di un predicatore da strada che legge la fine del mondo nei simboli massonici presenti nei dollari americani o di Marvin, il quale avanza inquietanti sospetti sulla natura della macchia sulla testa di Gorbaciov o sulla reale esistenza della Groenlandia). Col passare degli anni la guerra fredda lascia il posto a un clima non meno inquietante, dominato dal potere pervasivo delle immagini (l’assassinio di Kennedy proiettato su una moltitudine di schermi televisivi, così come le imprese omicide del Texas Highway Killer) e soprattutto dall’avvento dell’era della spazzatura, delle scorie radioattive e dei rifiuti tossici, il quale chiude il cerchio con una simmetria impressionante (il viaggio di Nick nel Kazakistan, dove i russi distruggono con esplosioni atomiche le sostanze radioattive provenienti da tutto il globo: l’atomica diventata un business come gli altri!) e sancisce il passaggio dal “trionfo della morte” scampata al trionfo del capitalismo globale.
In uno dei capitoli iniziali del romanzo, Nick Shay e due suoi amici sono a Los Angeles per assistere a una partita di baseball seduti dietro al vetro di un ristorante interno allo stadio, e uno dei due si lamenta di non riuscire a sentire il rumore della folla, e quindi di vivere quell’esperienza in maniera asettica, quasi virtuale. Ecco, De Lillo in “Underworld”, da narratore di razza qual è (un narratore postmodernista, certamente, ma anche, per certi versi, ottocentesco, tolstojano, e comunque ben distante dal minimalismo così di moda in questi anni), vuole farci sempre avvertire la presenza della folla, e attraverso di essa lo spirito stesso della Storia (“sono i desideri su vasta scala a fare la storia”): anche se i personaggi che possono essere definiti principali sono all’incirca una dozzina, tutto intorno a loro, all’interno della vasta mole del libro, si agita un’intera umanità con i suoi sogni, le sue ossessioni, le sue paure, le sue miserie, le sue vittorie e le sue sconfitte, umanità simboleggiata dagli spettatori dell’evento sportivo posto in apertura (così come dagli altri avvenimenti “pubblici” tratteggiati più avanti, come la repressione delle proteste antirazziali negli anni cinquanta o la contestazione giovanile degli anni sessanta), e che funziona in qualche modo come il coro in una tragedia greca, sempre presente anche quando sta in silenzio, dietro le quinte.
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PORTARE IL FUOCO, AD OGNI COSTO
C’è una sequenza molto bella di un vecchio film di Andrei Tarkovskij, “L’infanzia di Ivan”, che mi fa pensare all’universo descritto da Cormac McCarthy ne “La strada”. E’ quella in cui il piccolo protagonista sogna, in un tripudio di immagini di beatitudine e di serenità infantile, la figura della madre, bella e sorridente, ma, proprio nel momento in cui sta per afferrare una stella in fondo a un pozzo, viene improvvisamente svegliato dagli atroci rumori della guerra, e dalle serene immagini oniriche viene brutalmente catapultato in un paesaggio devastato e sconvolto. E’ probabile che in un modo altrettanto traumatico si siano svegliati spesso i due protagonisti del romanzo di McCarthy, un padre e un figlio senza nome, di ritorno da sogni ingannevolmente seducenti per riaffacciarsi in un mondo freddo, scheletrico e ostile, distrutto anni prima da una misteriosa catastrofe (una esplosione nucleare?) e ridotto a una arida distesa di cenere, di rovine e di cadaveri, in cui tutto (il cielo, il sole, il mare, la neve) è grigio e incolore, e lo stesso Dio, pregato, invocato o maledetto, latita al pari degli esseri umani. In questo scenario apocalittico, che non si può immaginare se non in uno sporco bianco e nero, la coppia si sposta incessantemente, raramente concedendosi un po’ di riposo, spingendo attraverso le interminabili strade che portano verso sud e verso il mare (quelle highways viste in tanti road movies americani, laddove erano simboli di libertà e di spazi aperti, mentre qui sono piuttosto l’immagine di un destino che si è condannati a seguire pur senza intravederne il significato e lo scopo) un carrello contenente le poche cose rimaste loro (alcune coperte, un po’ di benzina, qualche attrezzo, un accendino e una pistola con due soli proiettili nel caricatore), alla disperata ricerca di calore e di cibo, e in impari lotta contro le avversità della natura e le insidie dei feroci predoni disposti a tutto, anche al cannibalismo, pur di sopravvivere. L’uomo e il bambino non hanno né identità né passato (solo qualche sporadico e poco esplicativo ricordo si affaccia alla mente del primo), e parimenti viene difficile immaginare per loro un futuro plausibile, eppure i due si muovono stoicamente, senza mai arrendersi alla fatica, alle difficoltà, alle malattie e alla sfortuna, pur di non spegnere quella flebile speranza rappresentata dalla loro fragile e precaria esistenza. “Noi portiamo il fuoco” dice spesso il padre al figlio per motivare quel viaggio insensato, ed il fuoco di cui parla è, metaforicamente, quel patrimonio di umanità che, nonostante la spietata lotta per la sopravvivenza, alberga ancora in loro, soprattutto nel bambino. La pietas dimostrata da quest’ultimo negli incontri con l’uomo bruciato dal fulmine, con il bambino intravisto nella città e soprattutto con il vecchio, al quale cedono contro il loro interesse una parte delle loro preziose cibarie, dimostra con commovente intensità che più importante di ogni cosa è conservare dentro di sé un residuo di senso morale, senza il quale viene meno la spinta e il desiderio stesso di rimanere al mondo. Il fuoco quindi altro non è che il bambino stesso, prezioso residuo di giovinezza in un mondo mummificato, che il padre difende e custodisce con tutte le energie e che porta eroicamente in fondo al suo cammino umano, consegnandolo come un emblematico testimone a una piccola comunità di sopravvissuti “buoni” disposti a continuare a lottare giorno per giorno per dare un senso alla vita.
“La strada” è un romanzo bellissimo, impregnato com’è di una dostojevskijana ricerca di imperativi morali all’agire degli uomini, un romanzo metafisico pur senza essere dichiaratamente religioso (aleggia sotterraneamente nelle sue pagine la domanda “perché Dio ha permesso tutto questo?”), un romanzo profetico in cui ogni frase si configura come un segno destinato a riecheggiare per secoli. Il linguaggio spoglio e secco di McCarthy, fatto di poche parole e molti, lunghi silenzi, brevi domande a cui seguono sintetiche e icastiche risposte, è di una densità impressionante. Sembra quasi che lo scrittore americano abbia lasciato prosciugare, disseccare le sue frasi per distillarne solo l’essenziale, senza una sola riga superflua, senza un solo vocabolo fuori posto, con ciò adattandolo miracolosamente all’apocalittico scenario descritto. Pur non intervenendo mai come “autore”, cioè non andando mai al di là degli scarni dialoghi e della oggettiva registrazione di ciò che fanno e vedono i personaggi, McCarthy è riuscito a mettere in scena una lucidissima riflessione sull’inevitabilità del male e sull’altrettanto evidente necessità del bene e la più potente metafora della vita che mai mi sia stato dato di leggere in uno scrittore contemporaneo, in una visione del mondo che, se pure è manichea, trasuda un’autentica fede nell’uomo e possiede la forza etica e la carica pedagogica dei più ispirati profeti.
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NEL CIMITERO DEI LIBRI DIMENTICATI
“«In questa storia c’entrano i libri.»
«I libri?»
«Libri maledetti, l’uomo che li ha scritti, un misterioso personaggio fuggito dalle pagine di un romanzo per poterlo bruciare, un tradimento e un’amicizia perduta. E’ una storia d’amore, di odio e di sogni vissuti all’ombra del vento.»
«Sembra il risvolto di copertina di un romanzetto, Daniel»
«Non per niente lavoro in una libreria. Ma questa è una storia vera. […] E come tutte le storie vere comincia e finisce in un cimitero, anche se molto particolare.»”
Confesso di essermi approcciato alla lettura de “L’ombra del vento”, uno dei maggiori best-sellers degli ultimi vent’anni, secondo forse solo ai romanzi di Dan Brown e di J.K. Rowling, con un misto di desiderio (quello di concedermi, durante le assolate vacanze estive passate in spiaggia sotto l’ombrellone, una lettura scorrevole e disimpegnata), paura (di scontrarmi una volta di più con la legge non scritta ma ineluttabile in base alla quale molto raramente la quantità – di copie vendute – si associa con la qualità) e perfino senso di colpa (per essere passato dagli amati Faulkner e Nabokov a uno scrittore forse irreparabilmente compromesso con le più bieche e opportunistiche leggi del mercato). Per fugare subito ogni dubbio vorrei iniziare questa recensione con l’ammissione, per nulla scontata, che il romanzo d’esordio di Carlos Ruiz Zafon è un’opera che supera brillantemente le aspettative del lettore, purché egli non abbia, per partito preso, “la puzza sotto il naso”. L’autore spagnolo dimostra certamente una notevole astuzia nel momento in cui, nel prologo, introduce quel luogo suggestivo e fantastico che è il Cimitero dei Libri Dimenticati, una labirintica biblioteca segreta “dalle geometrie impossibili”, percorsa com’è da tunnel, ballatoi, scale e piattaforme, nella quale vengono conservati tutti quei libri che per i motivi più diversi rischierebbero di scomparire per sempre, in attesa che ad essi possa venire concessa, tornando nelle mani di un nuovo lettore, una seconda vita. Si tratta di una vera e propria “captatio benevolentiae” del lettore, dal momento che Zafon, parlando di libri, e dell’amore e del rispetto che bisognerebbe nutrire per essi (“Ogni libro possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza”), si accaparra aprioristicamente il suo rispetto e la sua ammirazione. Creando questa sorta di “orfanotrofio” dei libri, in cui gli adepti come il giovane protagonista Daniel “adottano” un libro, Zafon fa un’operazione simile a quella di Ray Bradbury in “Fahreneit 451”, nel quale – come si ricorderà – ogni membro della comunità degli uomini-libro che custodisce il patrimonio letterario dell’umanità, tramanda oralmente un’opera per preservarla dai roghi del regime autoritario e simil-nazista che ha proibito la lettura (e non a caso ne “L’ombra del vento” c’è un misterioso personaggio, Lain Coubert, che si aggira per le strade di Barcellona bruciando i libri). In realtà il romanzo di Zafon fa sfoggio solo superficialmente di una coscienza “bibliofila” (a differenza di Bradbury non c’è qui nessuna riflessione meta-narrativa sui rischi che la letteratura corre nella società contemporanea, ad esempio per l’avvento di nuove e pervasive forme di media) e ben presto rivela la sua natura di feuilleton, con tanto di storie d’amore tragicamente romantiche, case abbandonate che custodiscono innominabili segreti, personaggi enigmatici dalla dubbia identità, rivelazioni inattese che emergono dal passato, agguati notturni, colpi di scena e sorprendenti agnizioni. Contrariamente alla moltitudine degli scrittori che si sono cimentati e continuano a cimentarsi con la narrativa popolare, Zafon mostra però, fin dalle prime pagine, anche una precisa consapevolezza critica della natura della sua opera, citando Dumas (il sorriso enigmatico del padre di Daniel “che doveva aver preso in prestito da un romanzo di Dumas), Verne (“Sembra un’invenzione uscita dai libri di Jules Verne”, esclama Daniel, riferendosi alla serratura che chiude il portone del Cimitero dei Libri Dimenticati) e la letteratura d’appendice in genere (quando fa dire a Isaac, il vecchio custode del Cimitero, “Quel tipo sembra uscito dalle pagine di un romanzo d’appendice” e “Le piacciono i romanzi d’appendice”). “L’ombra del vento” risulta pertanto un’originale, intelligente, e financo colta, operazione di rivisitazione dei canoni e dei luoghi comuni di un certo tipo di letteratura ottocentesca, quella di Dumas e di Hugo, con sconfinamenti nel romanzo gotico (penso soprattutto a “Il fantasma dell’Opera” di Gaston Leroux). Con i dovuti distinguo, Zafon fa in fondo una cosa non dissimile da quella messa in atto venti anni prima da Umberto Eco ne “Il nome della rosa”, libro che, dietro alla sua trama “gialla”, nascondeva la sua natura di erudito pastiche, con rimandi al romanzo storico, al saggio filosofico e alla letteratura didattica e morale. Col capolavoro di Eco vi sono diversi punti in comune, oltre all’intreccio thrilling: la biblioteca come epicentro di tutti i misteri e la coppia di improvvisati detective (Daniel e il suo mentore Fermin sembrano occhieggiare l’Adso da Melk e il Guglielmo da Baskerville de “Il nome della rosa”). Oltre a questa consapevolezza, che potremmo quasi definire post-modernista, Zafon possiede anche una considerevole capacità narrativa. La sua storia (anzi le sue storie, dal momento che il romanzo ne sviluppa parallelamente due, quella di Daniel e quella di Julian Carax, le quali si intrecciano e addirittura si sovrappongono, con esiti molto interessanti che fanno sì che il primo diventa, con il trascorrere del tempo, quasi un doppio del secondo, a cui lo legano non solo analoghe esperienze di vita – l’amore di Daniel per Bea che rimanda a quello di Julian per Penelope, la comune passione per i libri – ma anche singolari coincidenze – il possesso della penna appartenuta un secolo prima a Victor Hugo), la sua storia – dicevo – è ottimamente architettata, e ancor meglio sviluppata nell’arco delle sue quattrocento pagine, con i momenti di suspense che si alternano sapientemente a quelli romantici, le sequenze drammatiche a quelle più leggere e ironiche. Lo scrittore spagnolo è bravo anche a creare personaggi che, seppur manicheisticamente dicotomizzati, sono capaci di imprimersi indelebilmente nella memoria del lettore, dal picaresco Fermin Romero de Torres (un logorroico e donchisciottesco personaggio, dotato di smisurati appetititi – anche sessuali -, che nondimeno si dimostrerà nel corso del romanzo munito di insospettate doti di profondità filosofica, di coraggio e di fedeltà) al perfido Francisco Javier Fumero (il sadico e spietato ispettore della polizia criminale, che uccide e tortura senza pietà per vendicarsi della sua vergognosa infanzia), dal misterioso Julian Carax (l’autore di introvabili romanzi, sulle cui labili e inconsistenti tracce si metterà Daniel per ricostruire la sua storia di passione e dannazione) fino alle tante femmes fatales (figure affascinanti e autenticamente romantiche, spesso costrette a pagare con un tragico destino la loro dedizione all’essere amato). Certo, non tutto è perfetto ne “L’ombra del vento”. Le coincidenze (che un personaggio del romanzo definisce “le cicatrici del destino”) proliferano in maniera francamente inverosimile (basti pensare che Julian Carax, Fumero, Jorge Aldaya – il fratello della ragazza amata da Julian – e Miquel Moliner – il marito di Nouria, per un certo tempo a sua volta compagna di Julian – erano stati tutti allievi dello stesso collegio), e certi flashback (in cui peraltro Zafon dà sfoggio di una fantasia che richiama il realismo magico di Garcia Marquez, come nel caso dei sogni profetici della domestica Jacinta e della rievocazione del Tenebrarium) hanno un po’ la funzione di pedanti spiegoni. Questi difetti appaiono però emendabili e veniali, soprattutto perché, in un’opera che si legge tutta d’un fiato, vengono più che compensati da un’appassionata rivisitazione degli anni della guerra civile e del franchismo, e soprattutto dalla originale e suggestiva descrizione di una Barcellona lontanissima dai cliché turistici, una città magica, “che ti entra nel sangue e ti ruba l’anima”, fredda e piovosa, ambigua e misteriosa, in cui negli stretti vicoli del Barrio Gotico e del Raval o nelle solitarie strade del Tibidabo la nebbia può nascondere ad ogni angolo sorprese e incontri inaspettati.
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I RACCONTI DI SALINGER
Due morti aprono e chiudono questa raccolta di racconti: due morti molto diverse tra loro per la dinamica – un suicidio e una “disgrazia” profetizzata – eppure in un certo senso simili, quasi consequenziali, perché le vittime sono, come quasi tutti i personaggi del libro, per così dire “border line”, al limite tra normalità e anormalità, con una vena di follia che li rende parenti del “giovane Holden”. Il reduce del primo racconto e il Teddy dell’ultimo sono caratterizzati da una estrema, acuta sensibilità (l’amore per la poesia dell’uno, il genio precoce dell’altro), che, proustianamente, li rende predestinati al “tedium vitae”, alla sofferenza e all’alienazione. Spesso, nei “Nove racconti”, è la guerra a fare da teatro o da sfondo alle vicende, e allora l’alienazione è quella del reduce o di chi ha perso i propri cari in guerra: il protagonista di “A Esma: con amore e squallore” (che non ha più tutte le sue “facoltà intatte”, come si esprime con odioso eufemismo la ricca ragazzina viziata nell’incontro caritatevole, da aspirante dama dell’Esercito della Salvezza, che gli concede prima della partenza per il fronte), il suicida cui si è già accennato (che ben potrebbe essere, anzi – a pensarci bene – forse è proprio la stessa persona), la Eloise de “Lo zio Wiggily nel Connecticut” (che dietro la sua facciata cinica e sarcastica nasconde il dolore per la perdita dell’unico vero affetto della sua vita). Per essi, la disperazione esistenziale ipostatizza la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, anche se è probabile che per loro non ci sarebbe stata salvezza neppure in un diverso contesto storico. Dietro di loro, a far trapelare una sorta di orrore soffuso e velato, c’è tutta una serie di bambini, ragazzi o adolescenti di buona famiglia, viziati, ipersensibili, impercettibilmente “tarati” fin dalla nascita, che anormali forse sono destinati a diventarlo più avanti (la figlia di Eloise nel secondo episodio, il fratello della tennista snob in “Alla vigilia della guerra contro gli Esquimesi”, il bambino che scappa sempre di casa in “Giù al Dinghy”, il giovane insegnante che millanta un’inesistente amicizia con Pablo Picasso e che si innamora della suora sua allieva per corrispondenza ne “Il periodo blu di De Daumier-Smith”). A fronteggiarli ci sono quei personaggi che, più corazzati psichicamente, alzano barriere di cinismo, di snobismo e di egoismo per sopravvivere alle tragedie della vita e rimanere a galla a scapito dei più deboli (la moglie del suicida, Esma, la tennista, la sorella di Teddy). Ecco, se proprio un leit motiv di può trovare ai nove racconti (con la sola eccezione del mediocre “L’uomo ghignante” e di “Bella bocca e occhi miei verdi”, una “quasi” pochade alla Feydeau) è proprio questa lotta darwiniana tra forti e deboli, ma non in termini di potere, forza fisica o ricchezza, piuttosto di forza psichica e di sanità mentale.
La narrazione breve è congeniale a Salinger per sfoggiare la sua bravura nei dialoghi, nei quali si disimpegna con incredibile disinvoltura e irrisoria facilità per riprodurre alla perfezione, senza mai ricorrere allo slang, la lingua colloquiale di una classe sociale, la “upper class” americana bianca e urbana, giovane e colta, con il suo annoiato understatement, la sua dissimulata crudeltà, i suoi snobistici cliché. L’ambiente rappresentato è lo stesso dei romanzi di Francis Scott Fitzgerald, ma mentre in questi a prevalere è la luccicante superficie mondana, nei racconti di Salinger domina l’inquietante oscurità dei meandri della psiche.
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LA FATICA DI DIVENTARE ADULTI
“L’infanzia, dice la Children’s Encyclopaedia, è un periodo di gioia innocente, da trascorrere nei prati tra ranuncoli e coniglietti oppure accanto al focolare immersi in un libro di fiabe. Questa visione dell’infanzia gli è completamente estranea. Tutto ciò che fa a Worcester, a casa o a scuola, lo porta a credere che l’infanzia non sia nient’altro che un periodo in cui bisogna stringere i denti e resistere.”
“Infanzia” è un romanzo autobiografico, che racconta alcuni anni della vita dell’autore bambino, nella complessa società sudafricana degli anni ’50, fino alla soglia dell’adolescenza (ad esso sono poi seguiti altri due volumi di memorie, “Gioventù” e “Tempo d’estate”). Non è però, a rigor di logica, un classico romanzo di formazione, capace in qualche modo di spiegare i motivi reconditi che hanno portato il protagonista a scegliere da grande la professione dello scrittore (anche se le ultime parole - “Come farà a tenere tutto in testa, tutti i libri, tutte le persone, tutte le storie? E se non si cura lui di ricordare, chi lo farà?” – sembrano accennare proprio a questo). E’ piuttosto un resoconto fedele, crudo, impietoso di un periodo della vita che solo con leggerezza si usa definire “felice”. L’infanzia che leggiamo in queste pagine è piena di vergogna, di sensi di colpa, di segreti inconfessabili, di egoismo, di ingratitudine, di crudeltà repressa. Coetzee ha preso il coraggio a piene mani e ha dipinto il ritratto in chiaroscuro di un essere incompleto, imperfetto, che più volte definisce “guasto” o “anormale”, e che tanto poco somiglia al se stesso adulto che poi è diventato, in tal modo rivelando di quale materia strana, ambigua, oscura è formata ogni persona, quali stretti e difficili passaggi e prove psicologiche – il più delle volte rimosse e dimenticate con gli anni – deve percorrere un uomo prima di diventare tale. Nonostante la terza persona con cui è scritto, che rende la narrazione fredda e per nulla empatica, la sincerità del romanzo è spiazzante (soprattutto nelle pagine in cui è descritto il morboso rapporto di amore-odio con la madre adorante e iperprotettiva), in qualche caso disturbante, perché è in grado di fare a pezzi i ricordi autoconsolatori e idealizzanti con cui normalmente si ammantano i lontani anni del proprio passato, ma proprio per questo è tanto più preziosa, perché permette, al termine dell’esperienza di lettura, una immedesimazione che solo i grandi libri riescono a dare.
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"Le ceneri di Angela" di Frank McCourt
LA GUERRA DELLA GENTE COMUNE
“E’ risaputo che l’essere umano è complesso, molteplice, diviso, misterioso, ma ci vogliono le guerre o i grandi rivolgimenti per constatarlo. E’ lo spettacolo più appassionante e terribile […]; il più terribile perché è il più vero: non ci si può illudere di conoscere il mare senza averlo visto nella tempesta come nella bonaccia. Solo chi ha osservato gli uomini e le donne in un periodo come questo può dire di conoscerli – e di conoscere se stesso.”
Irene Nemirowsky è morta – come è risaputo – nel campo di sterminio di Auschwitz nel 1942, e leggendo “Suite francese” quello che più meraviglia il lettore è una sorta di paradosso temporale, il fatto cioè che la guerra mondiale sia stata da lei raccontata praticamente in presa diretta, proprio mentre gli eventi bellici si stavano svolgendo sotto i suoi occhi, eppure il romanzo sembra essere stato scritto, per l’olimpico distacco critico ed emotivo che esibisce, molti anni dopo la fine del conflitto. La Nemirowsky è riuscita a cogliere appieno il significato e il senso storico di avvenimenti che il caos, la complessità e la frammentarietà di un conflitto bellico di solito non consentono. La visione da lei privilegiata è quella della gente comune: quindi nelle pagine di “Suite francese” non assistiamo a battaglie, incursioni aeree o rappresaglie partigiane, bensì al vivere quotidiano di aristocratici, borghesi e contadini, alle prese con la fuga in massa da Parigi alla vigilia dell’invasione nazista (la prima parte, “Temporale di giugno”) e con l’occupazione dell’esercito tedesco (la seconda parte, “Dolce”). Peccato che “Suite francese” sia rimasto fermo ai suoi primi due capitoli, perché l’intero progetto prevedeva ben cinque racconti, tra loro intimamente collegati, i quali, se portati a termine, avrebbero probabilmente costituito la migliore rappresentazione in forma letteraria dell’intero secondo conflitto mondiale. Ma anche così com’è, “Suite francese” è pur sempre un’opera notevole, perché mette in scena una umanità quanto mai variopinta mediante l’utilizzo di un registro emotivo e linguistico estremamente differenziato, che va dalla compassione e dalla pietas verso i personaggi più provati dal destino (ad esempio, i coniugi Michod, la “sposa di guerra” Lucile e la contadina Madeleine) fino all’irrisione beffarda e grottesca nei confronti delle figure più abiette e meschine (la viscontessa di Montmort, la facoltosa signora Pericand, lo scrittore Gabriel Corte, il collezionista Charles Langelet). Il cuore della Nemirowsky batte evidentemente per le persone semplici e umili, ma il tono dei suoi racconti non scade mai, neppure negli episodi di peggior egoismo, opportunismo o vigliaccheria, nell’invettiva o nel disprezzo. Anzi, nel ritrarre i vezzi, i tic, le manie, i formalismi e le manifestazioni (di arroganza, di superbia, di viltà o di paternalismo) tipiche delle classi sociali più elevate, la Nemirowsky rivela un acume e un’ironia addirittura proustiani (la viscontessa di Montmort, ad esempio, ben potrebbe figurare in qualche pagina della “Recherche”). La prosa della Nemirowsky, in ogni caso, rientra nel genere del “feuilleton” e del romanzo “popolare” (nel senso di letteratura che sa parlare alla gente con immediatezza e semplicità, quella semplicità che non è semplicismo ma capacità di nascondere ogni sofisticatezza ed ogni artificio), genere che la giovane scrittrice francese ha saputo portare ad esiti ragguardevoli e al quale ha aggiunto una personale vena lirica e una predilezione per i toni sfumati e malinconici, oltre che un inedito rispetto per coloro che nella maggior parte dei romanzi di guerra sono trattati in maniera alquanto manichea, ossia i nemici, i tedeschi, i quali vengono descritti in “Dolce” con la stessa sensibilità e la stessa equanimità dei personaggi francesi.
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ANGOSCE ESISTENZIALI DI UNA FAMIGLIA AMERICANA
Le correzioni che danno il titolo al bel romanzo di Jonathan Franzen sono ironicamente disseminate ovunque: sono le correzioni apportate da Chip alla sceneggiatura cinematografica che egli, un po’ velleitariamente, va scrivendo da anni; le correzioni degli indici della borsa in cui Gary, operatore professionale, investe buona parte dei propri risparmi; le correzioni alle abitudini sessuali di Denise, che un bel giorno scopre inopinatamente di essere lesbica; e soprattutto le correzioni di Enid, la quale, pervicacemente e noncurante dell’inanità dei suoi sforzi, cerca per tutta la vita di indirizzare e dirigere la vita dei suoi tre figli. Franzen guarda ai suoi fragili, stressati, disorientati eppur umanissimi personaggi con una sorta di affettuoso disincanto e, con uno stile estremamente libero e sciolto, non esita a metterli di fronte alle situazioni più disparate, che vanno dalla tragedia shakespeariana (la riabilitazione finale dell’”irresponsabile” Chip agli occhi del padre ricorda alla lontana il “Re Lear” del Bardo) alla farsa (Chip che incontra un amico al supermercato con un salmone infilato nei calzoni), passando per il thriller psicologico (quel fucile che Alfred conserva nel seminterrato per un suicidio che non si realizzerà mai), per il vaudeville (Denise va a letto contemporaneamente con Robin e con Brian, marito della ragazza nonché suo datore di lavoro), per il romanzo avventuroso (la fuga di Chip dalla Lituania) e per il dramma familiare. In mezzo a questa congerie di elementi disomogenei, va dato atto al “cuoco” Franzen (mi si passi la metafora culinaria, in quanto uno dei protagonisti è un famoso chef) di essere riuscito nel difficile intento di non fare “impazzire” la maionese. Infatti a tenere insieme il tutto c’è una serie di fili conduttori i quali toccano temi fondamentali della società contemporanea, quali la vecchiaia, la malattia, il rapporto tra genitori e figli, il dissidio tra responsabilità e libertà o quello tra etica e successo. E’ qui che si vede di che tempra è fatto lo scrittore americano, il quale, con un procedimento minuziosamente analitico e nel contempo potentemente allegorico, fa della famiglia Lambert, con uno spirito provocatorio e iconoclasta, lo specchio, la metafora di un’intera civiltà.
Ma procediamo con ordine. Innanzitutto, l’anno in cui si svolgono gli avvenimenti è quello di fine millennio, alla vigilia dello scoppio della “bolla” tecnologica nelle borse mondiali (il quale sta per mettere in discussione, insieme al quasi contemporaneo crollo delle Torri Gemelle, la sicurezza dell’America in una crescita infinita della ricchezza e del tenore di vita e in una totale invulnerabilità da minacce esterne). In questo contesto, Franzen mette inesorabilmente a nudo uno stile di vita senza più freni inibitori ed autentici valori morali. In un mondo in cui tutto deve essere rigorosamente cool, in cui il benessere economico è visto illusoriamente come unica garanzia di felicità, vera e propria religione terrena che ha reso obsoleti e inservibili gli insegnamenti etici della tradizione, in cui il dolore e la malattia sono nascosti e occultati, e in cui la globalizzazione e la diffusione dell’informatica minacciano di portare a una pericolosa confusione su ciò che è vero, attendibile e degno di fiducia e ciò che invece non lo è (la truffa della Lituania.com), gli individui vedono sovvertiti i propri punti di riferimento e perfino la propria individualità. Da qui il desiderio morboso di sfuggire ai connotati di un io debole e disgregato per rifugiarsi nelle insidiose braccia di una scienza che promette la liberazione artificiale da tutte le angosce senza dover far ricorso a doveri, sacrifici e obblighi morali (la droga di Chip, la notizia letta dall’amico Doug sul giornale che è possibile riprogrammare il proprio hardware mentale, la terapia della Axon, le pastiglie prescritte dal medico della nave come ottimizzatori della personalità). Emblematici rappresentanti di questo universo, i cinque componenti della famiglia Lambert si agitano, come grottesche marionette, per sfuggire alla crisi incipiente, ognuno con i propri problemi e le proprie nevrosi: Gary, il figlio maggiore, succube di una moglie che usa spregiudicatamente i figli in una sorta di gioco di potere per la supremazia coniugale, con la sua depressione strisciante, la sua anedonia (ossia la perdita di interesse per le cose che dovrebbero procurare piacere) e la sua insofferenza per il mondo che lo circonda (verso i suoi genitori che hanno bisogno di aiuto e verso cui si sente inconsciamente in colpa, verso le classi subalterne che minacciano col loro cattivo gusto il suo elitario stile di vita, verso l’umanità in genere, così invadente ed opprimente); Chip, l’intellettuale dotato ma votato al fallimento, sempre in fuga dall’assunzione di impegni e responsabilità durature, che soffre della mancanza di punti di riferimento stabili e della precarietà esistenziale in cui versa e che pure irrazionalmente coltiva; Denise, la figlia minore la quale, per sfuggire alle imposizioni familiari, si è messa in situazioni imbarazzanti e indesiderate e che, pur autonoma e benestante, si ritrova senza più niente in mano (senza marito, senza figli, senza lavoro), insoddisfatta e in preda a travolgenti sensi di colpa; il capofamiglia Alfred, in passato padre autoritario e alieno da ogni tenerezza nei confronti di moglie e figli, ed ora tristemente malato di Parkinson, costretto ad assistere al crollo rovinoso del suo fisico e all’inesorabile avanzare di una vecchiaia infernale, fatta di pannoloni, allucinazioni e dipendenza dagli altri per ogni più banale bisogno fisico (quasi una punizione, secondo la legge del contrappasso, per la sua orgogliosa e pervicace indipendenza affettiva e per la sua misantropica difesa dell’intimità); e infine Enid, la classica moglie piccolo-borghese del Midwest, legata a tradizioni e modelli di vita conformistici e stereotipati, la quale ha investito tutta la sua vita sui tre figli, ricavandone però solo delusioni e frustrazioni, alternate irrazionalmente ad accessi di risorgente ottimismo. Il leit-motiv del lunghissimo romanzo (seicento pagine) è l’organizzazione del Natale nella vecchia casa di St. Jude, a cui Enid si dedica con tutte le sue forze per riunire un’ultima volta tutta la famiglia, come se questa ricorrenza potesse essere una miracolosa panacea che risolverà tutti i problemi e restituirà la tranquillità perduta. Il desiderio della donna verrà esaudito, tutti e tre i figli si siederanno infine intorno a un tavolo con i loro anziani genitori, ma le tensioni e i conflitti latenti non potranno fare a meno di deflagrare e di far crollare anche quel precario equilibrio che ancora resisteva. Franzen non intende certo offrire al lettore facili e consolatorie illusioni, ma non è neppure un autore che voglia distruggere per un puro gusto nichilista. Dalle ceneri dell’incendio familiare un nuovo equilibrio verrà faticosamente costruito e, paradossalmente, sarà proprio l’”irresponsabile” Chip a rimboccarsi le maniche e farsi carico della ricostruzione, dalla quale la speranza tornerà faticosamente (e un po’ beffardamente) a riemergere nella forma dell’antiquato, kitsch, eppure inossidabile e inaffondabile ottimismo di Enid.
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OTTO STORIE DI DONNE
Quelle de “Il sogno di mia madre” sono otto storie di donne: donne che rappresentano tutte le generazioni, dalla dodicenne di “Ricca sfondata” alla nonna di “Salvate il mietitore”, e che, nonostante l’apparente eterogeneità dei racconti compresi nella raccolta, sono legate da una sorta di filo rosso che le accomuna in un unico destino, quello di donne per le quali le varie fasi della femminilità (l’innamoramento, la maternità, la vita coniugale) non sono mai acquisizioni istintive e naturali ma conquiste faticose, problematiche, piene di incertezze, tentennamenti e paure. Non sono mai personaggi anomali, quelli della Munro, anzi sono aspiranti musiciste, scrittrici o attrici, hanno una intelligenza precoce o una sensibilità fuori del comune, eppure essi non riescono a mettere la propria vita su quei binari che ogni lettore (soprattutto di sesso maschile) riterrebbe prevedibili e “normali”. Per carità, non c’è nulla di autenticamente sconvolgente, nessun tragico colpo di teatro (tutt’al più esso è sfiorato, come quando la cognata di Jill – nel racconto che dà il titolo al libro – si convince erroneamente che la figlioletta di quest’ultima sia morta soffocata durante la notte), e anche quando si perde il marito in guerra, o si subisce un grave incidente col fuoco (“Ricca sfondata”), o si consuma una irreparabile rottura familiare (“Le bambine restano”), il tono è quello di una prosaica e banale rottura della routine quotidiana. Lo strazio c’è, ma – sembra suggerire la Munro – fa ineluttabilmente parte della vita (almeno di quella del gentil sesso, perché gli uomini sono invece figure sfuocate, mediocri, chiuse nel loro ego, incapaci di grandi slanci e per lo stesso motivo al riparo da altrettanto grandi cadute), è un dolore che si consuma a ciglia asciutte e che viene metabolizzato in un’accettazione fatalistica che sovente è anche una epifanica presa di coscienza, anche se in negativo (come la protagonista di “Ricca sfondata”, la quale dal suo incidente viene fuori più matura e cresciuta, anche se irrimediabilmente sola). Spesso sono i rapporti tra le generazioni o tra genitori e figli a creare attriti (“Prima che tutto cambi”, “Ricca sfondata”), ma mai per vero e proprio antagonismo edipico, al contrario per una sorta di ontologica incomunicabilità (esemplare l’introverso rapporto tra il dottore che pratica gli aborti clandestini e sua figlia, la quale, dopo settimane di selvatica e taciturna convivenza, nel momento in cui accetta finalmente di “aprirsi” al padre non si accorge che, seduto allo stesso tavolo, questi è morto di un colpo apoplettico). Ma anche questi rapporti potenzialmente deflagranti vengono raffreddati dalla Munro in una sorta di volontaria implosione narrativa, così come gli elementi di mistero e i potenziali meccanismi da thriller (la morte del dottor Willens e il ritrovamento del suo corpo in “Una donna di cuore”, l’articolo di giornale letto al signor Gorrie sull’incendio avvenuto a Cortes Island molti decenni prima in “Cortes Island”, la convinzione di Sonje che il marito sia ancora vivo da qualche parte del mondo in “Giacarta”), i quali rimangono ad aleggiare lungo tutto l’arco dei racconti conferendo loro una strana enigmaticità. L’anticlimatica asciuttezza delle pagine della Munro è poi accentuata in alcune di esse (“Le bambine restano”, “Giacarta)” dal trascorrere del tempo, il quale stende un velo di malinconica ma asciutta nostalgia su avvenimenti osservati da un luogo molto, molto distante, e perciò al riparo da ogni residua emotività. Questi spostamenti, questi iati, queste fratture, queste epifanie, impercettibili o drammatiche che siano, sono il terreno in cui la Munro, da molti considerata la più grande scrittrice anglosassone di novelle brevi, si muove con disinvoltura, arricchendo con la sua profonda e vibratile sensibilità quel buco nero, indecifrabile e incomprensibile, che, agli occhi dell’altro sesso, è spesso considerato l’universo femminile.
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FINCHE' C'E' DOLORE C'E' SPERANZA
“In questo sottile momento in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. […] Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dei e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.” (Albert Camus: “Il mito di Sisifo”)
“Spesso il male di vivere ho incontrato”, scriveva Eugenio Montale in “Ossi di seppia”. Di “male di vivere”, di dolore, di sofferenza (malattie terminali, suicidi, disagi mentali) è pieno questo pregevolissimo romanzo d’esordio, e stupisce assai che a raccontarlo sia uno scrittore di soli ventitré anni, un’età in cui di solito – ed erroneamente – si pensa ci sia posto solo per l’amore o l’amicizia o l’avventura. E’ un libro da maneggiare con estrema cautela, “A tua immagine e dissomiglianza”, un libro in apparenza talmente fragile e delicato che si ha paura che, come un fiore raro ed esotico, possa appassirci improvvisamente tra le dita. Daniele Sannipoli ci conduce in recessi remoti e profondi dell’animo umano, in anfratti bui e disagevoli dove la luce scarseggia e dove i personaggi (dei Lui e delle Lei senza nome, quasi a rappresentare metonimicamente l’intero genere umano) rischiano quasi di morire per mancanza di ossigeno. Ma poi, scorrendo una pagina dopo l’altra, ci si accorge che “A tua immagine e dissomiglianza” è un’opera solida e forte, innervata com’è da uno stile raffinato e maturo e da riferimenti culturali (Camus, certo, ma anche Cioran, il Kafka de “La tana” e il Dostojevskij di “Memorie del sottosuolo”) che la puntellano e la alimentano in continuazione. Negli esordi letterari gli autori vogliono comprensibilmente mettere dentro tutto il loro mondo, tutte le loro esperienze, tutte le loro conoscenze, e così spesso finiscono per esagerare, per uscire fuori dagli argini, per peccare di sovrabbondanza. Sannipoli è riuscito invece nell’intento contrario, cioè scrivere un romanzo di grande, estrema condensazione. E’ come se la sua storia fosse stata passata al vaglio di numerosi filtri, che l’avessero via via prosciugata, essenzializzata, lasciando ad ogni livello un concentrato sempre più denso, più ristretto. Per mezzo di un intelligente uso dell’ellissi, che permette di far scorrere in avanti il tempo della storia attraverso i decenni e le generazioni (il Lui bambino dell’inizio diventa nonno al termine del romanzo), e dell’analessi (i ricordi di infanzia che riemergono dal subconscio), e grazie alla scelta contestuale di lasciare il mondo esterno fuori della cornice, alla fine ciò che resta sono pagine di esacerbata perfezione formale, pepite che l’autore, come un cercatore d’oro, ha setacciato con cura dopo aver eliminato acqua, sabbia e impurità, e che il lettore deve interpretare in un non facile ma appassionante lavoro di esegesi.
Al centro di tutto, ad assillare i pensieri dei protagonisti, c’è l’eterno interrogativo sul senso della vita. La percezione della mancanza di uno scopo, dell’inesistenza (o, peggio, del silenzio) di un’entità trascendente, è un fardello talmente gravoso da far vacillare il loro equilibrio mentale e rischiare di gettarli nella disperazione più totale. Se le donne del romanzo si rifugiano nella pratica di un solidarismo, di stampo leopardiano assai più che religioso, che è volontà disperata e faticosa di redimere la sofferenza del creato, a volte soccombendo esauste e inaridite (come la madre di Lui, “incapace di frapporre un diaframma tra se stessa e il mondo”), gli uomini si ripiegano su se stessi, nell’arrovellarsi inesausto del pensiero, in un assillo di perfezionismo e di orgogliosa e solipsistica indipendenza destinato fatalmente a scontrarsi con la dura e crudele realtà. Il fatto è che i personaggi di “A tua immagine e dissomiglianza” non lottano solo con la vita, ma devono fare i conti anche con il proprio passato. Il legame con le generazioni che li hanno preceduti è infatti una pania che ostacola i loro sforzi di autorealizzazione: da una parte c’è la volontà di recidere questo vincolo indesiderato, dall’altra il desiderio opposto di far rivivere chi non c’è più attraverso il ricordo. Entrambi i tentativi sono destinati a fallire miseramente, perché “come non si sfugge alla fede diventando atei, così non si diventa liberi sforzandosi di essere una nemesi”, cercando cioè di essere il contrario dei propri padri (“perché nell’opposto ci sono tante catene quante nel simile”); d’altro canto l’oblio del tempo ricopre ogni cosa, lasciando dietro di sé solo rimpianti e sensi di colpa (come ne “Le braci” di Sandor Marai, i personaggi di Sannipoli si sentono colpevoli per il solo fatto di essere sopravvissuti a un lutto). “A tua immagine e dissomiglianza” è un po’ come una moderna rappresentazione del mito di Edipo, dove “uccidere” il padre e “sposare” la madre conduce a ferali conseguenze. Il fatto è che l’essere umano è il campo di battaglia in cui si sfidano e si affrontano forze opposte e inconciliabili: da una parte il peso insostenibile e condizionante delle generazioni che lo hanno preceduto, dall’altra il desiderio di essere il solo artefice del proprio destino; il determinismo contro il libero arbitrio, l’eredità biologica che Richard Dawkins aveva ben evidenziato nel suo “Il gene egoista”, contro la concezione cristiana della libertà individuale. C’è una soluzione a tutto questo? Sannipoli sembra inizialmente abbandonarsi a un pessimismo autocommiseratorio senza via d’uscita. Quando Lui dice alla moglie malata: “C’è sempre una speranza”, Lei risponde: “Non per me”, e questo scambio di battute mi ha ricordato il dialogo tra Franz Kafka e Gustav Janouch, quando alla domanda del secondo se al di fuori di questo mondo che conosciamo ci fosse ancora speranza, il primo aveva risposto: “Oh certo, molta speranza, infinita speranza, ma non per noi”. In realtà una soluzione esiste, e l’autore la scopre addirittura nel mito del vaso di Pandora tramandato da Esiodo. Quando la donna apre incautamente il coperchio, dal recipiente fuoriescono tutti i mali del mondo, condannando il genere umano alla vecchiaia, alla malattia, al dolore, alla gelosia, alla pazzia e al vizio. Sul fondo del vaso rimane però, ineliminabile, la speranza, pronta a librarsi tra gli uomini alla successiva riapertura del contenitore. Il messaggio di Sannipoli è dunque tutt’altro che negativo e pessimistico, e lo si può leggere tra le righe del meraviglioso prologo, in cui a parlare è un’insignificante cellula in procinto di morire: la soluzione non è né nell’individuo né in un dio, ma è nella vita stessa, che è inesorabilmente destinata a scomparire eppure eternamente si ripresenta in forme sempre nuove e sorprendenti, a dimostrazione del fatto che solo attraverso la morte e il dolore la vita può continuare ad esistere e a cercare senza requie il suo cieco, ostinato e indefesso scopo nel tempo (“non ho più paura della morte, perché in questo istante, eternamente presente, ogni volta risorgo”).
“A tua immagine e dissomiglianza” è un libro che pretende molto dal lettore, che gli chiede di superare i suoi limiti per affrontare gli eterni interrogativi della vita e della morte. E’ un libro che, però, dà anche molto al lettore. E’ raro infatti trovare in un romanzo (ancor di più in un romanzo italiano, scritto poi da un giovanissimo esordiente) una scrittura così sapientemente elegante ed elaborata senza essere estetizzante, sempre preziosa e mai banale persino nelle parti in cui l’ispirazione magari fatica un po’ a reggere il passo delle ambizioni filosofiche dell’opera, una scrittura dall’aggettivazione ricca ma mai ridondante, dal ricorso parco ma efficace a figure retoriche come l’ossimoro (la “lontananza così prossima” che caratterizza la storia d’amore tra Lui e Lei, le “fiamme gelide” dell’inferno interiore di Lui) o la similitudine (i frammenti del biscotto sciolto nel tè che “assomigliano agli uomini in balia della vita, sfibrati e dissolti nell’affanno continuo degli eventi”), e in cui l’alternanza tra terza e prima persona è sempre motivata da esigenze diegetiche (Lui ad esempio è uno scrittore che mette costantemente per iscritto i suoi pensieri). La inusuale maturità di questo stile conduce a delle pagine di grande suggestione. Già ho citato l’incipit (a mio avviso un piccolo, virtuosistico capolavoro, che fa da cornice, insieme al capitolo finale, alla storia vera e propria), ma degni di menzione sono anche gli allucinati incubi del protagonista maschile o l’altra scena onirica del dialogo con il giudice-psicanalista (che a me ha ricordato Kafka, ma un Kafka contaminato con il senso dell’assurdo di una pièce di Pinter), o ancora le liriche scritte da Lei durante la malattia, a dimostrazione di un notevole eclettismo, che sa spaziare dalla filosofia al teatro, dalla mitologia alla poesia. “A tua immagine e dissomiglianza” è un libro il quale, se nella sua relativa brevità risulta pesante, lo è nel senso buono e necessario del termine, perché ogni buon libro deve – come dice Cioran – “avere un peso e presentarsi come una fatalità; quando lo leggiamo deve darci l’impressione che non avrebbe potuto non essere scritto”. Tale è senza ombra di dubbio il romanzo di Daniele Sannipoli, al quale non si può che augurare un radioso futuro letterario: in un panorama così asfittico, depresso e provinciale come quello della narrativa italiana contemporanea, credo che ci sia davvero bisogno di un autore di talento come lui.
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TRA STORIA E FANTASCIENZA
“Così va la vita”: è questa la frase che viene ripetuta, come un mantra pronunciato da chi vede le cose con soprannaturale imperturbabilità e distacco, quasi sub specie aeternitatis, ogni volta che, in “Mattatoio n. 5”, ci si trova davanti all’esperienza della morte. E siccome il romanzo è in gran parte ambientato in Germania durante gli ultimi mesi della Seconda Guerra Mondiale, e il suo protagonista ha modo di assistere al devastante bombardamento di Dresda (che riduce la città, letteralmente, a una superficie lunare), si può facilmente intuire il gran numero di volte in cui questa frase viene pronunciata. “Mattatoio n. 5” è un romanzo antimilitarista, ma nell’esteso universo di libri contro la guerra, occupa un posto del tutto sui generis, in primo luogo perché rifugge intenzionalmente da ogni effetto emotivo, di immedesimazione empatica con le vittime del conflitto (con ciò modellando il suo stile sulla bizzarra figura del suo protagonista, Billy Pilgrim, un uomo abulico, con ridottissime esigenze ed attrattive, scarsamente attaccato alla vita in un’epoca in cui la vita vale davvero poco, e che ciononostante, con keatoniana impassibilità, riesce a sopravvivere miracolosamente non solo alla guerra ma, anni più tardi, addirittura ad un incidente aereo), e in secondo luogo – cosa davvero enorme se ci si pensa – perché è anche un romanzo di fantascienza. Solo quando si finisce di leggere “Mattatoio n. 5” si può tentare di intuire l’intendimento di Vonnegut: per raccontare la sconvolgente esperienza autobiografica della Guerra in Europa senza cadere nella retorica pacifista o nell’antitetica esaltazione eroica dell’esercito americano era necessario un atteggiamento simile a quello di Hasek e del suo soldato Scveik, qualcosa che arrivasse al cuore del lettore attraverso la deformazione comico-grottesca e antieroica dei suoi personaggi. Vonnegut fa tutto questo (il romanzo è pervaso da un umorismo paradossale, Billy Pilgrim e i suoi commilitoni sono delle caricature di soldati), ma in più aggiunge una dimensione di ulteriore distanziazione dal naturale climax del filone bellico, ossia i viaggi temporali del protagonista, il quale si sposta involontariamente avanti e indietro lungo l’intero arco della sua esistenza, rivive più volte la sua nascita e la sua morte, e ad un certo punto viene rapito dagli extraterrestri che lo iniziano a una suggestiva filosofia, secondo cui tutti gli attimi della vita coesistono ineluttabilmente per l’eternità, e passato, presente e futuro sempre sono stati e sempre continueranno a essere (tutto il contrario del “carpe diem” oraziano, qui ogni istante è permanente, e quindi non vale la pena prendersela per le cose brutte perché ci sono tantissimi altri momenti in cui le cose sono decisamente migliori). Questo atteggiamento influenza necessariamente il concetto di libero arbitrio, che secondo gli abitanti di Tralfamadore non esiste, in quanto tutto è mosso da una sorta di rigido determinismo, anche in campo morale. Chi compie una determinata cosa non poteva comportarsi diversamente, persino i piloti che hanno sganciato le bombe su Dresda o i generali che hanno ordinato l’attacco.
Alla luce di quanto sopra, è chiaro che la chiave di lettura del romanzo non è la lettera di ciò che si legge, ma il suo rovesciamento ironico, che chi si appresta a decodificare le tragicomiche avventure di Billy Pilgrim (novello Chance il Giardiniere, per chi ricorda il film “Oltre il giardino” con Peter Sellers) è chiamato a compiere per arrivare al nocciolo del messaggio dell’autore, il quale non è mai così chiaro come in quelle pagine in cui Billy di notte, aspettando di essere rapito dall’astronave tralfamadoriana, vede alla televisione un film di guerra all’incontrario, partendo da scene di distruzione di massa per giungere miracolosamente a una sorta di edenico idillio di pace ed armonia. Questo a mio avviso (oltre al fatto che, di fronte a un massacro, la cosa migliore che la lingua e la penna possono fare – incapaci come sono di riprodurne le più profonde e sconvolgenti ripercussioni sugli uomini e sulle loro coscienze – è tacere) è quanto Vonnegut ci ha voluto trasmettere, anche se rimane, in sottofondo, un retrogusto amaro, dovuto alla inevitabile e ineliminabile sensazione che nessuno potrà mai impedire alle guerre di continuare a scoppiare, devastare e uccidere, che far cessare la guerra è un po’ come far scomparire il mare, vale a dire impossibile.
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"L'arcobaleno della gravità" di Thomas Pynchon
IL FALLIMENTO DEL SOGNO AMERICANO
“Così vivono gli uomini di successo. Sono buoni cittadini. Sono fortunati. Sono riconoscenti. Dio sorride loro. Se ci sono dei problemi, si adattano. E poi tutto cambia e diventa impossibile. Più nulla e nessuno che sorrida loro. E allora chi riesce ad adattarsi? Ecco un uomo che non è stato programmato per avere sfortuna, e ancora meno per l’impossibile. Ma chi è pronto ad affrontare l’impossibile che sta per verificarsi? Chi è pronto ad affrontare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore? Nessuno. La tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti.”
Seymour Levov, detto lo Svedese, è stato durante la Seconda Guerra Mondiale un idolo per la popolazione ebraica di Newark: bello, intelligente, benestante, perfettamente integrato – nonostante le sue origini giudaiche - nella società americana, e in più un autentico fuoriclasse nel baseball e nel football. Nathan Zuckerman, il narratore, lo incontra quasi cinquant’anni dopo i tempi della propria adolescenza, nel corso della quale aveva avuto, come molti suoi coetanei, un’adorante infatuazione per il mitico Svedese, e – a sorpresa – lo trova una persona che, dietro la sua maschera di bonaria affabilità, rivela una superficialità e una banalità che, sbrigativamente, attribuisce alle conseguenze di una vita di agi e di successo, facile, viziata e senza intoppi. Ma quando, poche settimane dopo, nel corso di una riunione di ex compagni del liceo, Nathan incontra il fratello di Seymour e viene a sapere da lui non solo che lo Svedese è nel frattempo morto di cancro, ma che la sua vita apparentemente serena ed equilibrata è stata in realtà distrutta da un’immane tragedia familiare, egli capisce quanto sia stato erroneo il suo giudizio, e quanto poco siamo in grado di comprendere le esistenze degli altri. “Pastorale americana” diventa così una sorta di risarcimento postumo, il commosso e meditato tentativo di ricostruire la vita dello Svedese andando al di là delle apparenze e dei luoghi comuni, scavando nei meandri di una mente che è sempre rimasta un segreto per tutti, una cassaforte di pensieri, di dubbi, di emozioni e di rimorsi di cui Nathan, naturale alter ego di Roth in virtù del comune mestiere di scrittore, cerca pazientemente di trovare la combinazione. E siccome lo Svedese, per il suo ottimismo, la sua intraprendenza, la sua razionalità, la sua tolleranza e il suo autocontrollo ben rappresenta le virtù dell’uomo americano medio, la sua storia ben si presta ad essere letta come una metafora dell’America la quale, nel periodo intercorso tra la Guerra Mondiale e il Vietnam, ha perso progressivamente la propria innocenza e la propria fiducia nel futuro, precipitando in un circolo vizioso di dubbi sul proprio ruolo e di sensi di colpa per i propri misfatti, per quanto perpetrati in buona fede. Come è possibile che dal buono, altruista e pacifico Seymour sia potuta venir fuori, nonostante l’incrollabile dedizione paterna, una astiosa e violenta terrorista come la figlia Merry? In questo incredibile salto generazionale sta tutta l’irrazionale brutalità di un crollo di valori e di ideali che trasforma in pochi anni la “pastorale americana” del titolo nel suo inquietante contrario. Il romanzo è così diviso tra la lacerante nostalgia di una perduta età dell’oro e il tormento di un presente in cui il rimpianto scava voragini di angoscia come un silenzioso ma inguaribile tumore maligno.
La bellezza del romanzo di Roth non risiede solo nella sua valenza metaforica. Anzi, il suo aspetto forse più originale è il ruolo che esso attribuisce all’arte, e alla letteratura in particolare, di riuscire là dove la vita fallisce: nella comprensione degli altri. Se la pretesa di capire il prossimo è (come il narratore intuisce dopo la deludente cena con lo Svedese) “una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci”, allora forse solo la penna di uno scrittore, con la sua fertile sensibilità da rabdomante delle emozioni, può penetrare nei reconditi angoli dell’interiorità di un individuo ed esprimere quel groviglio indecifrabile di pulsioni contraddittorie che è la sua anima. E quella di Roth, il quale sa cogliere benissimo quegli attimi capaci di generare una catena di reazioni incontrollabili, tali da cambiare per sempre un’esistenza, è una penna cui si può affidare con la massima fiducia l’ambiziosa missione di metterci in condizione di vedere gli altri con la stessa, e forse (questo è il miracolo dell’arte) ancora maggiore, nitidezza di quanto siamo in grado di vedere noi stessi.
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IL GRANDE SOGNO DI UN MONDO INCORROTTO
“Io credo che una foglia d'erba non valga affatto meno della quotidiana fatica delle stelle.” (Walt Whitman, “Tutto vale”)
Circa un anno fa, rispondendo a un commento relativo alla mia recensione de “Il tempo di una canzone”, mi sbilanciai scrivendo che, se un autore contemporaneo fosse stato in grado di scrivere il prossimo “Grande Romanzo Americano”, quello sarebbe stato proprio Richard Powers. Ebbene, lo scrittore dell'Illinois, con “Il sussurro del mondo”, è riuscito a superare ogni più ottimistica previsione e a scrivere addirittura quello che, senza esagerazioni, può essere a mio parere definito il “Grande Romanzo del Pianeta”. Le tematiche ecologiche, come ciclicamente accade, sono tornate di estrema attualità, come dimostra il successo mondiale riscosso da una giovane attivista quale Greta Thunberg, e confesso che quando ho preso per la prima volta in mano il ponderoso volume di 650 pagine mi ha sfiorato il sospetto di un astuto paraculismo, di una opportunistica intenzione di cavalcare un argomento di gran moda come la difesa dell'ambiente. Il dubbio si è però rivelato assolutamente infondato nel breve volgere di poche pagine, tanto appariva chiara e trasparente la volontà di comporre un autentico, genuino inno alla natura e alla bellezza incomparabile degli alberi e delle foreste, e solo secondariamente di lanciare un monito alla civiltà che, attraverso uno sviluppo incontrollato e insostenibile e lo sfruttamento sconsiderato delle risorse (“Stiamo per riscuotere un miliardo di anni di buoni di risparmio planetari e sperperarli in gioielli assortiti”), sta distruggendo intere specie che erano sulla Terra ben prima che facesse la sua comparsa l'uomo. Powers, come sua abitudine, non rinuncia a un approccio marcatamente scientifico, e la biologia (così come la musica e la fisica quantistica ne “Il tempo di una canzone”, o la fotografia, l'informatica e la genetica in altre sue opere) viene sviscerata con l'autorevolezza e la competenza di un vero specialista della materia. Ma egli è altresì convinto, come si esprime uno dei personaggi del romanzo, che “le migliori argomentazioni del mondo non faranno cambiare idea alle persone” e “l'unica cosa in grado di farlo è una bella storia”. Così ne “Il sussurro del mondo” non ci viene presentata una sola bella storia, ma, in un profluvio incontenibile di ispirazione, ben otto storie che, nalla prima parte intitolata “Radici”, costituiscono quasi una raccolta di racconti apparentemente autonomi e autosufficienti. I nove personaggi (giacché in un capitolo ad essere protagonista non è un individuo singolo ma una coppia) sono quanto di più diverso per età, provenienza geografica, estrazione sociale e inclinazioni culturali si possa immaginare. C'è il discendente di una famiglia di coloni che nell'Ottocento si erano trasferiti in America dalla Norvegia, la figlia di un profugo di Shanghai in fuga dal comunismo di Mao, un ragazzo autistico interessato a tematiche di psicologia sociale, un veterano del Vietnam, un avvocato esperto di brevetti e copyright con la sua compagna stenotipista e attrice amatoriale, un programmatore informatico ideatore di videogiochi di successo, una studentessa in crisi di identità e una biologa innamorata delle piante al punto da preferirle di gran lunga agli esseri umani. L'unica cosa che in un certo senso accomuna questi personaggi è che le loro esistenze sono, in qualche caso (la biologa Patricia) in modo evidente, in altri casi in maniera assai più indiretta e nascosta, contrassegnate dalla presenza degli alberi: dal castagno che, per una bizzarra consuetudine tramandata di generazione in generazione dagli antenati di Nicholas, viene fotografato lo stesso giorno di ogni mese, fino a ottenere una sorta di zoopraxiscopio, un migliaio di fotografie che cambiano tra loro impercettibilmente e che, viste in rapida successione, mostrano in time-lapse il mistero della vita in divenire, all'anello di giada con un albero di gelso finemente intagliato portato dalla Cina dal padre di Mimi, dagli alberi piantati dal padre di Adam in occasione della nascita di ciascun figlio e che Adam è convinto che creino un collegamento magico con ciascun bambino influenzandone il carattere e il destino, alla famosa foresta del “Macbeth” che Ray e Dorothy recitano all'epoca del loro primo incontro, dal baniano che salva la vita di Douglas nell'Estremo Oriente al leccio da cui invece precipita Neelay condannandolo a un futuro da paraplegico, e così via. I nove protagonisti sono quasi dei predestinati, degli esseri prescelti (con un meccanismo che mi ha ricordato alla lontana “Incontri ravvicinati del terzo tipo”) per portare avanti le istanze di un mondo a rischio di estinzione. E' così che nella seconda parte (“Tronco”) le varie storie convergono, si sfiorano, si incrociano e si intrecciano, fino a procedere all'unisono sullo sfondo dei movimenti ambientalisti di protesta e del radicalismo ecologista a cavallo tra gli anni '80 e '90 negli Stati Uniti dell'Ovest. Ribattezzandosi con nomi di albero come dei partigiani, Olivia, la donna che è spinta ad agire mossa dalle voci di misteriose creature di luce, Nicholas, Mimi, Douglas e Adam partecipano a sit-in di protesta, occupazioni pacifiche e altre plateali manifestazioni, cercando di mettere i bastoni tra le ruote della fiorente industria nordamericana del legname che disbosca a ritmo forsennato intere foreste di alberi secolari e pagando spesso in prima persona con violenze ed arresti il loro giovanile e appassionato idealismo. Sono anni di ideali, di speranze, di visioni perfino (come detto, Powers non esita neppure a flirtare con il paranormale, come aveva già fatto un altro grande romanzo di questi anni, “Canta, spirito, canta” di Jesmyn Ward), destinati a scontrarsi duramente con interessi, economici e politici, molto più grandi e potenti. Olivia e Nicholas trascorrono addirittura un anno in cima a una gigantesca sequoia, per impedire che venga abbattuta, scoprendo che tra i rami del grattacielo verde, a sessanta metri sopra il livello del suolo, vive uno straordinario e inimmaginabile ecosistema (con tanto di piante di mirtilli e laghetti popolati di salamandre). Il dolore causato dalla vista di tanta distruzione e la volontà di ritardare il più possibile ciò che loro considerano una imminente apocalisse finiscono fatalmente per spingere i cinque amici ad intraprendere piccoli gesti di terrorismo, che sfoceranno inevitabilmente in tragedia. Dal canto suo, Patricia, la biologa che vive appartata nei boschi e le cui idee rivoluzionarie (gli alberi sono organismi sociali, che comunicano tra loro, nell'aria e sotto terra, si nutrono vicendevolmente e costruiscono sistemi immunitari condivisi, diffondendo messaggi chimici di allerta quando un pericolo si avvicina), dopo essere state inizialmente respinte dalla comunità scientifica, tornano in auge riabilitandola agli occhi del mondo, scrive un bestseller sugli alberi e ottiene una generosa sovvenzione pubblica per creare una sorta di banca dei semi di specie a rischio di estinzione, cosa che tuttavia non le impedendisce di sentirsi in colpa al pensiero di quante piante abbiano dovuto essere abbattute per poter stampare il suo libro o quanto danno abbiano arrecato all'atmosfera i suoi viaggi in aereo per scopi scientifici.
La struttura del romanzo di Powers è genialmente a immagine e somiglianza di un albero. Alle radici e al tronco delle prime due parti, seguono la chioma e i semi delle altre due sezioni. E come le storie individuali si erano riunite per un certo periodo nell'azione comune, nella solidarietà della lotta e nella complicità affettiva, così lo scorrere del tempo fa tornare a prevalere le spinte centrifughe e distanzianti. Come i rami che si biforcano e si allontanano, i nove protagonisti tornano a vivere le loro vite solitarie e appartate, minate dal rimpianto per ciò che non si è realizzato, dallo scoramento per i fallimenti subiti e dalla paura nei confronti di un passato che sembra farsi vivo solo come eterna minaccia e non come una promessa che si avvera. E' la vecchiaia che segue all'infanzia e alla giovinezza, in un'altra ideale e simbolica ripartizione del libro. La morte, la solitudine e la condanna fanno capolino nel romanzo, diffondendo un'aura di pessimismo e di sconfitta. Ma le molteplici e imprevedibili diramazioni dei rami di un albero richiamano alla mente anche le diramazioni della vita, le esistenze alternative che si sarebbero potute realizzare in un universo parallelo. Come un mago della dimensione temporale, Powers immagina che un suicidio per aver ingerito un veleno da un bicchiere possa trasformarsi in un brindisi al non-suicidio, o che la figlia che i coniugi Brinkman non hanno mai avuto possa rivivere all'indietro, in un poetico time-lapse, mentre i loro occhi sono fissati sul castagno del loro giardino. C'è un personaggio emblematico che ipostatizza alla perfezione questa “fluidità” temporale, ed è Neelay, il guru della realtà virtuale, il quale attravreso i suoi elaborati videogames crea nuove vite e nuovi mondi, talmente realistici da poter essere preferiti da milioni di persone alla realtà vera. Ebbene, Neelay, sconcertato per il fatto che i suoi giocatori riproducono nei suoi universi virtuali tutti i comportamenti negativi del mondo autentico (cieca violenza, accumulazione indiscriminata di ricchezze, distruzione di risorse, espansione illimitata), progetta un nuovo gioco in cui il mondo è una sorta di nuovo paradiso terrestre, ma in cui le risorse sono calmierate come le nostre, i comportamenti non sono senza conseguenze e le vite non sono infinite, bensì solo una, da gestire con oculatezza, non solo risolvendo problemi ma anche prendendosi cura della comunità, dell'ambiente e della natura circostanti. E' una sorta di sogno chimerico, che dimostra comunque come Powers abbia profondamente a cuore la speranza. In un mondo che l'uomo ha sempre pensato fosse fatto esclusivamente a suo uso e consumo, e che i suoi comportamenti dissennati minacciano pericolosamente di distruggere, non è utopistico pensare che la salvezza risieda proprio negli alberi, “i prodotti più spettacolari di quattro miliardi di creazione”. E' una sorpresa per i personaggi del libro scoprire alla fine, dopo aver faticosamente metabolizzato la delusione per non essere riusciti a salvare le foreste dalla furia erinnica del capitalismo selvaggio, che le creature che dovevano essere salvate non erano gli alberi, ma erano proprio loro, gli uomini, e che i salvatori sarebbero invece stati, con la loro silenziosa e paziente tenacia pronta a sfidare i secoli, gli alberi. “La vita ha un modo tutto suo – pensa Neelay – di parlare al futuro. Si chiama memoria”. Gli alberi di Powers possiedono uno straordinario potere, quello di annullare il confine tra passato e futuro, di trasformare i ricordi in predizioni, di far rivivere ciò che non è più: i ricordi di Mimi bambina che in riva al fiume pesca col padre risuscitano al profumo irresistibile di un pino (“una zaffata devastante di duecento milioni di anni prima”), così come gli alberi piantati in gioventù e poi colpevolmente dimenticati riportano in vita la freschezza e la gioiosità dei primi, spensierati anni del matrimonio di Ray e Dorothy, e le fotografie del castagno degli Hoel dissepolte da Nicholas lo riportano vertiginosamente indietro nel tempo, all'inizio del secolo scorso.
Richard Powers non è uno scrittore che indulge in virtuosismi inutili, in acrobatici tour-de-force verbali, non è un Nabokov o un Faulkner per intenderci. Il suo stile è fatto di periodi brevi, essenziali, precisi, apparentemente neutri e cronachistici, eppure capaci di aperture straordinariamente liriche ed evocative, come un fiume carsico che esce in superficie quando meno lo si aspetta. Se dovessi avvicinarlo a un altro autore contemporaneo, il nome che farei sarebbe senz'altro quello di Cormac McCarthy. Ne “Il sussurro del mondo” questa scrittura appare quanto mai congeniale, perché è come se l'autore si fosse messo alla stessa altezza degli alberi, e osservasse, con il loro stesso metro temporale, le vicende umane. Le tragedie e gli altri momenti topici, per esempio, capitano all'improvviso, quasi senza preparazione, in maniera del tutto anti-emotiva e anti-spettacolare, proprio come se fossero viste “sub specie aeternitatis” (o sarebbe meglio dire “sub specie arboribus”). Sono infatti gli alberi, più che i personaggi umani, i veri protagonisti del romanzo. Le loro esistenze ieratiche e solenni sono, benché misconosciute, sommamente più interessanti di quelle umane. Gli alberi fanno riprodurre gli uccelli, assorbono carbonio, purificano l'acqua, filtrano veleni dal suolo, formano il clima e costruiscono l'atmosfera, riparano, nutrono e proteggono tutti gli esseri viventi, offrendo persino l'ombra ai boscaioli che li distruggeranno. Powers li guarda con un senso di reverente meraviglia, di stupefatto incanto, e dedica loro pagine ispiratissime, magari per descrivere una semplice venatura lignea sulla superficie di un tavolo o la forma unica e inconfondibile di una foglia. Quando scrive il suo libro “La foresta segreta”, Patricia ricerca nel suo scritto tre qualità: speranza, verità e utilità. “Il sussurro del mondo” le possiede indubbiamente tutte quante: in primis la speranza che la civiltà umana, che è ormai ridotta come “un vitello cui vengono somministrati gli ormoni della crescita”, possa finalmente imparare non solo a convivere pacificamente con i suoi vicini vegetali, a cui è legata da tantissime affinità (in fondo, viene fatto notare nel romanzo, tutti quanti proveniamo dallo stesso seme e, pur avendo intrapreso strade opposte, ancora adesso condividiamo il 25% del DNA), ma anche a comprenderli per l'interesse della propria specie (“Se sapessimo cosa vuole il verde, non dovremmo scegliere tra gli interessi della Terra e i nostri. Sarebbero gli stessi!”); la verità, poi, supportata da inoppugnabili anche se sorprendenti (per un profano) affermazioni scientifiche, come la messa in discussione della visione antropocentrica del mondo (in fondo, se riduciamo la vita dell'universo in una sola giornata, l'uomo sarebbe apparso solo pochi secondi prima della mezzanotte); infine l'utilità di trasmettere al lettore una visione inedita del mondo vegetale, dal momento che, dopo aver letto “Il sussurro del mondo”, non credo che si possa più fare jogging in un parco o una passeggiata in un bosco senza guardare i faggi, gli aceri o le betulle con occhi nuovi e pieni di gratitudine, meravigliandosi di averli trattati fino ad oggi con così poca considerazione e degnati di così scarsa attenzione. Ma oltre a speranza, verità e utilità, nell'opera di Powers c'è – soprattutto – bellezza, la bellezza di un libro che ci avvince con le sue straordinarie storie di amore, di amicizia, di dedizione, di tradimento e di perdono, capace di farci attraversare il corso dei secoli, magari in un unico momento di estatica visione (Adam che dal suo appartamento vede improvvisamente Manhattan come doveva essere prima della comparsa dell'uomo, con le sequoie al posto dei grattacieli e gli animali preistorici al posto dei newyorkesi), di farci assaporare la libertà dei nostri limiti e il potere dei nostri sogni (foss'anche solo quello di trasformare il giardino di casa in una piccola foresta, a dispetto di tutte le leggi e le ordinanze comunali), e persino di inviare messaggi a un lontano futuro (come Nicholas che con i tronchi caduti nella foresta compone una gigantesca scritta - “TUTTAVIA” - che può essere letta dallo spazio), la bellezza di un libro eccezionalmente denso, stratificato e complesso, che le mie parole non sono forse in grado di restituire appieno, ma che sono sicuro un giorno sarà considerato un imprescindibile caposaldo della narrativa del XXI secolo. Se anche gli alberi non dovessero riuscire a salvare il mondo, sicuramente, con “Il sussurro del mondo”, avranno in piccola parte contribuito a salvare la letteratura contemporanea.
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L'ALTRA FACCIA DI CUBA
“L’arte è utile solo se è irriverente, tormentata, carica di angoscia e disperazione. Solo un’arte risentita, indecente, violenta, volgare può mostrarci l’altra faccia della realtà, quella che non vediamo mai o che, per evitare fastidi alla nostra coscienza, preferiamo non vedere. Ecco. Altro che pace e tranquillità. Chi dorme sonni tranquilli è troppo vicino a Dio per essere un artista.”
Il protagonista di questo romanzo autobiografico, strutturato in brevi episodi autosufficienti che – come tasselli di un mosaico - compongono alla fine una sorta di inquietante e sordido ritratto di una città e di una umanità in irreversibile degrado (urbanistico, sociale e morale) e perennemente in lotta per non scomparire (anche letteralmente: vedi i vecchi palazzi del Malecon dalla austera facciata ma le cui pareti minacciano di crollare sotto i colpi del prossimo uragano tropicale), il protagonista – dicevo - è un quarantenne disilluso, spiantato e senza fissa dimora, che vive di espedienti e intanto, tra un’avventura di sesso e l’altra (descritte sempre in maniera cruda e triviale, con profusione di riferimenti ai genitali e ai dettagli più prosaici delle copule), registra, crudamente e senza abbellimenti di sorta, una realtà occultata o travisata dalla propaganda del regime. Propaganda che cerca di far credere al mondo che a Cuba tutto funziona benissimo, mentre invece miseria, disperazione, abitazioni fatiscenti e sovraffollate, mercato nero e fughe verso la Florida a bordo di imbarcazioni improvvisate sono il panorama che quotidianamente si dispiega di fronte agli occhi di questo reporter cinico e individualista, quindi immune da tentazioni moralistiche o di protesta politica. La Cuba di Gutierrez è l’altra faccia della medaglia dell’isola caraibica che vediamo nei depliant delle agenzie di viaggio, meta di innumerevoli vacanze turistiche (anche, purtroppo, a sfondo sessuale: e infatti nel romanzo pullulano le prostitute che sognano di potersi comprare vestiti e profumi con i dollari generosamente elargiti da americani ed europei).
L’interesse della “Trilogia sporca dell’Avana” risiede in questa sua valenza sociologica piuttosto che nella sua iconoclastia o nei suoi valori letterari. E’ vero che Gutierrez è un nichilista che sovverte continuamente le regole ufficiali della società in cui vive, ma – ammettiamolo – Céline era di ben altra (e superiore) statura; ed è altresì vero che “se non succedono cose belle intorno a noi è impossibile produrre testi raffinati“, ma il suo periodare breve, la sua sintassi elementare, la sua prosaica ripetitività alla lunga fanno pensare che forse Gutierrez come scrittore sia stato un po’ sopravvalutato. Resta l’innegabile freschezza e sincerità di un libro che a tratti ha l’effetto scioccante di un pugno nello stomaco ed i cui meriti risiedono principalmente nell’avere portato a conoscenza del grande pubblico occidentale una realtà, quella cubana, del tutto ignorata e misconosciuta prima d’allora. Per fare un paragone con la settima arte, la “Trilogia” può essere accostata a un film del 1993 di Tomas Gutierrez Alea e Juan Carlos Tabio, “Fragola e cioccolato”, il quale per primo aveva osato parlare nella Cuba di Castro di omosessualità e di libertà ideologica (e a questo va ascritto principalmente il merito della vittoria dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino di quell’anno), ma che, cinematograficamente parlando, non è nulla più di un’operina originale e dignitosa.
LA GRANDE MINACCIA
“La paura domina questi ricordi, un’eterna paura. Certo, nessuna infanzia è priva di terrori, eppure mi domando se da ragazzo avrei avuto meno paura se Lindbergh non fosse diventato presidente o se io stesso non fossi stato di origine ebraica.”
Ne “Il complotto contro l’America” Philip Roth indossa a sorpresa l’abito inusuale del narratore fanta-politico e borgesianamente immagina cosa sarebbe successo nel 1940 se a vincere le elezioni presidenziali, al posto di Roosevelt, fosse stato l’isolazionista Charles A. Lindbergh, il famoso aviatore che anni prima aveva con il suo aeroplano attraversato da solo l’Oceano Atlantico da costa a costa. Il bello dell’esperimento di Roth è che l’ipotesi non è del tutto implausibile: Lindbergh era stato davvero in Germania, dove nel 1936 gli era stata attribuita da Hitler una onorificenza per i suoi meriti aeronautici, e in patria aveva realmente espresso posizioni fortemente isolazioniste e antisemite, pur scegliendo di non scendere mai direttamente nell’agone politico. Quello che fa Roth è invece immaginare che Lindbergh, forte del suo carisma personale, si sia candidato alle elezioni del 1940 e le abbia vinte con largo margine, sfruttando la popolarità delle sue tesi demagogiche. Quello che accade da quel momento, nei due anni della sua drammatica presidenza, ci fa capire come nessuna democrazia sia davvero al sicuro se i valori sui quali essa è fondata non vengono difesi quotidianamente dagli attacchi dell’ignoranza, della xenofobia e del fanatismo. La comunità ebraica americana, che si sente immediatamente minacciata dalla nuova presidenza, non viene infatti direttamente colpita da provvedimenti discriminatori, ma quello che avviene è l’esemplificazione classica del piano inclinato: all’inizio è una questione di semplici sfumature, di atteggiamenti (una stanza d’albergo prenotata con settimane di anticipo dalla famiglia ebrea del protagonista che all’arrivo viene trovata già occupata, un poliziotto ostile e per nulla disposto a prendere in considerazione le legittime lamentele della parte lesa), più avanti subentrano delle misure governative apparentemente messe in atto per favorire meglio l’integrazione della comunità ebraica, in realtà aventi il subdolo scopo di disgregare la sua proverbiale coesione etnica (il campo di lavoro volontario nel Kentucky al quale partecipa Sandy, il fratello maggiore del protagonista, il trasferimento forzato della famiglia in uno Stato lontano e a bassissima densità israelita), e alla fine si arriva ai veri e propri pogrom antisemiti (dei quali rimane vittima la povera mamma di Seldon). C’è una sola parola per definire tutto questo: agghiacciante. Agghiacciante proprio perché assolutamente naturale e credibile, anche senza voler sostenere l’ipotesi (che giustamente Roth lascia nel vago) di un presidente ricattato dai nazisti che gli hanno segretamente rapito il figlio. Bisognerebbe abbandonare la posizione apodittica che nella nostra civilissima società occidentale non potrebbero più ripetersi episodi di dittatura, di sospensione dei diritti civili, di persecuzioni razziali, per riflettere che in fondo (anche se non so se questa sia stata l’intenzione dell’autore) negli anni di stesura del libro siamo andati vicini proprio a questo (ci siamo già dimenticati di un’elezione presidenziale contestatissima, vinta da Bush grazie a un conteggio dei voti da repubblica sudamericana? e di una guerra dichiarata in base a prove che si sono poi rivelate false e inventate di sana pianta? e di Guantanamo?). No, quella di Roth, a ripensarci, non è fanta-politica, ma una versione alternativa della Storia che – per fortuna – alla fine, dopo il fallimento del golpe ordito da Wheeler dopo la scomparsa di Lindbergh, si ricongiunge con quella riportata dai libri di testo scolastici: la riconquista della presidenza da parte di Roosevelt, l’attacco di Pearl Harbour e l’intervento statunitense nella Seconda Guerra Mondiale. Con un’unica, importantissima differenza: che al termine di tutte le peregrinazioni la situazione di equilibrio ripristinata non è più la stessa di quella di partenza, perché negli animi dei protagonisti ebrei, ma presumibilmente anche di gran parte della popolazione americana, si è depositata, dopo quella che Roth chiama l’”eterna paura”, una consapevolezza nuova, quella di non poter più credersi al riparo, neppure nella più grande democrazia del mondo, tutelata da costituzioni, emendamenti, leggi ed organismi deputati ad applicarli, dal risorgere dell’odio atavico e della violenza dell’uomo contro il suo simile.
“Il complotto contro l’America” non sarebbe quel bel libro che è se si limitasse al suo versante fanta-storico. In realtà esso è anche, e soprattutto, un romanzo di formazione (sulla falsariga di tanti capolavori della letteratura americana e non come “Le avventure di Augie March”, “Chiamalo sonno” e “Le ceneri di Angela”) in cui Phil, un bambino ebreo che nel primo capitolo ha sette anni e nell’ultimo nove, assiste con il suo sguardo infantilmente candido alle peripezie della sua famiglia, fervidamente patriottica, filo-rooseveltiana e interventista e destinata con lo scorrere dei mesi a non riconoscersi più in un’America sempre più intollerante e pericolosamente incline a svendere le proprie tradizioni liberali e democratiche per sposare l’ideologia fascista trionfante in Europa. La scelta di un bambino come protagonista fa sì che le tragedie della Storia si mescolino alle piccole tragedie infantili e la salvaguardia della sicurezza familiare si sovrapponga a quella della propria collezione di francobolli, dando in tal modo alla narrazione un tono lieve e fiabesco, anche se non spensierato, perché l’acuta sensibilità di Roth sa benissimo che l’infanzia è popolata di sogni, fantasie e desideri, ma anche naturalmente piena di terrori, soprattutto se si è un bambino ebreo nell’epoca dei campi di concentramento di Hitler. Phil appartiene a una classica famiglia ebraica americana del XX secolo, né povera né benestante (padre venditore di polizze e madre casalinga), atavicamente portata ad abitare in un ghetto ebraico e sospettosa nei confronti dei goyim, ma per il resto pienamente integrata nelle tradizioni e nello stile di vita americani (non è un caso che per la loro prima vacanza fuori dello Stato del New Jersey il padre di Phil porti la famiglia a visitare la Casa Bianca di Washington). E’ con profondo stupore e inquietudine che Phil assiste al progressivo deflagrare delle tensioni nella sua famiglia e nel suo quartiere: dapprima è lo zio Alvin che, partito volontario con l’esercito canadese per la guerra europea e tornato senza una gamba, porta nella loro casa la presenza fisica e tangibile (il moncherino a cui è intitolato un capitolo del romanzo) della tragedia che si sta consumando fuori della porta di casa; poi è la volta della zia Evelyn, moglie di un influente rabbino che occupa un posto di riguardo nell’Amministrazione e che per questo subisce l’astiosa ostilità del capo-famiglia, ad allontanare gradualmente dall’influenza paterna il fratello maggiore di Phil facendone uno stolido sostenitore di Lindbergh insofferente delle proprie origine ebraiche; infine è il trasferimento nel lontano Kentucky imposto al padre dalla compagnia assicurativa per cui lavora a mettere a repentaglio quel poco di tranquillità familiare che rimane e a costringerlo a licenziarsi per andare a lavorare - di notte e sottopagato – al mercato ortofrutticolo con lo zio Marty. Se a ciò si aggiungono inquietanti interrogatori dell’FBI, amici di famiglia che prudenzialmente si trasferiscono in Canada e ronde ebraiche che si sostituiscono alla polizia per proteggere il quartiere da assalti stile “notte dei cristalli”, è inevitabile che la paura e le tensioni siano destinate a esplodere fragorosamente. E’ in queste pagine indimenticabili, in cui un bambino si trova ad assistere senza più il filtro e le protezioni garantitegli dai genitori a cose troppo più grandi di lui, che si rivela la bravura di Roth: nel descrivere il bestiale litigio tra Alvin e il padre di Phil (“fu così che la grande minaccia ci distrusse – commenta l’io narrante – e l’abominio della violenza entrò nella nostra casa, e io vidi come l’amarezza acceca un uomo”), nel rappresentare l’impotente smarrimento del genitore non più capace di assicurare la sicurezza dei suoi familiari, e soprattutto nel tratteggiare la straordinaria figura della madre di Phil, una madre come tante altre, che proprio per questa sua replicabile e insopprimibile natura materna assurge a connotazioni di epica grandezza (“come un ufficiale di combattimento”, annota Roth) quando aiuta per telefono il piccolo Seldon - il coetaneo di Phil rimasto da solo in casa, con la madre presumibilmente vittima delle violenze antisemite, a settecento miglia di distanza – a mettersi in salvo, Roth dimostra di possedere quella vena drammatica, tolstojana mi verrebbe voglia di dire, che gronda emozioni e sentimenti forti e che il pur pregevole “Lamento di Portnoy”, trentacinque anni prima, non lasciava certo presagire.
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UN'ODISSEA MISERABILE E GROTTESCA
Alla fine degli anni ’20 William Faulkner lavorò, per poter guadagnarsi da vivere, come fuochista in una centrale elettrica, scrivendo – si racconta – nelle ore notturne con una carriola rovesciata a mo’ di tavolino. In quei sonnambolici mesi vennero alla luce opere imprescindibili per la letteratura del Novecento, come “L’urlo e il furore” e “Mentre morivo”. Rispetto al suo primo capolavoro, che ancora oggi stupisce per l’uso spregiudicato e innovativo del linguaggio (uno stream of consciousness per certi versi ancora più ardito di quello di Joyce), “Mentre morivo” risulta da una parte più accessibile sotto il profilo cronologico (dal momento che la storia si sviluppa in maniera abbastanza lineare in un breve lasso di tempo), mentre dall’altra la struttura polifonica viene ampliata e portata fino agli esiti più estremi (sono ben quindici infatti le voci narranti che si passano il testimone per raccontare il grottesco viaggio che i sei membri della famiglia Bundren intraprendono per trasportare la salma della moglie e madre appena defunta fino alla lontana cittadina natale dove, quando era in vita, aveva chiesto di essere seppellita). Va detto per correttezza che, nonostante la brevità del romanzo, la lettura, trattandosi di un’opera di Faulkner, non è affatto facile e rilassante, ma la fatica sostenuta per portare a termine il libro viene alla fine ricompensata con pagine di sublime letteratura, tra le più belle che mi sia mai capitato di leggere. Faulkner possiede una rara e virtuosistica capacità, quella di saper variare i registri stilistici, adattandoli alla perfezione a ciascun personaggio. Ogni monologo ha un suo stile peculiare: quelli di Darl, il fratello “strano” (che alla fine verrà non a caso fatto rinchiudere dai suoi stessi familiari in un manicomio per aver cercato di dar fuoco alla bara della madre), sono lirici e pieni di arzigogolati sillogismi (del resto Darl, avendo combattuto nella Grande Guerra e quindi conosciuto un po’ il mondo, è l’unico ad essersi parzialmente emancipato dalla gretta ignoranza contadina degli altri membri della famiglia Bundren), quelli di Dewey Dell (l’unica femmina della casa, che porta in grembo un vergognoso segreto di cui vuole a tutti i costi disfarsi durante il viaggio) sono invece istintivi e prosaici, così come quelli del piccolo Vardaman sono infantilmente sconnessi (come quando si ostina a sostenere che “mia madre è un pesce”), e così via. C’è poi la folla di vicini, medici, locandieri e negozianti che osservano da distante la vicenda e che funzionano un po’ come il coro di una tragedia greca. Della tragedia “Mentre morivo” ha molte caratteristiche, anche se deformate da una sottile, quasi impercettibile, vena cialtronesca. Il viaggio dei Bundren (una famiglia che oggi si definirebbe disfunzionale, percorsa com'è da molteplici tensioni irrisolte e conflitti latenti), con un carro sgangherato trainato da una pariglia di muli macilenti, deve infatti affrontare, come in una moderna Odissea, un crescendo impressionante di avversità: l'alluvione che mette fuori uso tutti i ponti della zona e li costringe a un guado azzardato e pericoloso, la morte degli animali, la gamba rotta di Cash, con il cadavere in putrefazione della donna che, giorno dopo giorno, emana un fetore sempre più insopportabile. Nonostante ciò, con stolida e irragionevole ostinazione, l'assurdo pellegrinaggio per le strade del Mississippi continua a tutti i costi, tra le atroci sofferenze del povero Cash (a cui tra l'altro viene applicata un'improvvisata e ben poco ortopedica ingessatura di cemento), il sacrificio dell'amato cavallo da parte di Jewel e la diffidenza della gente incontrata lungo il cammino, fino a quando il voto dell'inumazione non viene finalmente adempiuto. La storia si dipana e prende forma all'interno di una caotica successione di pensieri, impressioni e ricordi che si affacciano spontanei e incontrollati nella mente di ciascun narratore. Spetta al lettore fare pazientemente ordine in questo coacervo apparentemente incoerente e disorganico per dipanare il filo labile, sempre sul punto di spezzarsi, di una trama la quale, pur rimanendo costantemente dentro alle psicologie dei personaggi, sa restituire anche una impareggiabile rappresentazione del Deep South, arretrato, povero, ignorante e bigotto. La scrittura di Faulkner è complessa, criptica e reticente (quanti segreti allignano all'interno della famiglia, tra la paternità illegittima di Jewel e la gravidanza di Dewey Dell!), ma è nondimeno capace di dar vita a indimenticabili ritratti umani, icastici come se fossero scolpiti nel legno, come quelli di Cash (uomo completamente dedito al lavoro, come quando costruisce meticolosamente la bara proprio davanti agli occhi della madre agonizzante, eppure dotato di una insospettabile sensibilità che si esprime nel suo desiderio di possedere un grammofono), di Jewel (dall'espressione perennemente torva e malmostosa, che si scioglie soltanto nel rapporto quasi amoroso con il suo puledro selvaggio) e soprattutto di Anse, il patriarca (che ama farsi compatire e crogiolarsi nel vittimismo - “s'è mai visto uno più scalognato?” è la sua ricorrente lamentela -, non guarda mai nessuno dritto negli occhi, ma alla fine è l'unico, beffardamente, a tornare a casa arricchito, con una nuova dentiera e addirittura una nuova moglie). A proposito di occhi, mi piace sottolineare l'importanza che gli sguardi assumono all'interno del romanzo e la perizia con cui Faulkner descrive metaforicamente gli occhi dei personaggi (“gli occhi come due candele quando le guardi sciogliersi nello scodellino di un candeliere di ferro” di Addie, “gli occhi pallidi come legno piantati nel viso legnoso” o che “sembrano dei pezzettini di un piatto rotto” di Jewel, “gli occhi addosso come due cani da caccia nello spiazzo davanti a un fienile che non conoscono” di Anse, per fare solo alcuni esempi). Del resto le metafore e le analogie col mondo naturale abbondano in “Mentre morivo” (Anse tiene il corpo chino “come quando il mazzuolo ha appena colpito il vitello, e non è più vivo e ancora non sa di essere morto”, mentre Dewey Dell si sente “come un seme umido e selvaggio nella calda terra cieca”), così come le simbologie nascoste (“la madre di Jewel è un cavallo” dice Darl, alludendo alla circostanza che il fratello è il frutto di una passionale esperienza adulterina). E' probabile che, come nell'”Ulisse” di Joyce, ci siano moltissime altre cose non percepibili a una prima lettura (del resto Faulkner è uno scrittore straordinariamente erudito, come si può evincere – limitandoci ai titoli delle sue opere – dalle citazioni tratte da Shakespeare de “L'urlo e il furore”, da Omero di “Mentre morivo” e dall'Antico Testamento di “Assalonne, Assalonne!”). E' una caratteristica dei grandi capolavori quella di possedere una ricchezza semantica che va molto al di là della mera “fabula”, e “Mentre morivo” è entrato con pieno diritto in questa categoria, assurgendo nel tempo a riferimento ineludibile per tutti coloro che da allora si sono cimentati (il caso più recente è quello di Jesmyn Ward, l'autrice della “Trilogia di Bois Sauvage”, la quale non ha mai nascosto di aver trovato in Faulkner una delle sue principali fonti di ispirazione) con il ritratto di quella enigmatica terra di mais e di cotone, di decadenza e di razzismo, di ambiguo fascino e di mistero, di magia e di ancestrali superstizioni, di uragani e di torride estati, che è il profondo Sud degli Stati Uniti.
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"Salvare le ossa" di Jesmyn Ward
IL SOSIA TURCO
Quello del doppio è da sempre uno dei temi più sfruttati dalla letteratura mondiale, soprattutto dell’Ottocento: limitandoci ai classici più famosi, si possono citare “Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde” di Stevenson, “Il sosia” di Dostojevskij e “William Wilson” di Poe. Orhan Pamuk, ne “Il castello bianco”, oltre ai normali ingredienti insiti nel genere (lo sdoppiamento della personalità, la labilità dell’io), vi aggiunge una prospettiva insolita, quella del rapporto tra Oriente e Occidente. Nel rapporto tra il giovane veneziano catturato dai Turchi e il notabile ottomano di cui è divenuto schiavo viene infatti adombrato l’incontro-scontro tra due civiltà, ognuna con la sua cultura, la sua scienza e le sue tradizioni. Più che l’antagonismo tra i due (che pure esiste, nelle varie sfumature dell’invidia, della gelosia, della diffidenza e dell’avversione vera e propria), emerge dalla pluridecennale convivenza tra i due uomini, coetanei e simili nell’aspetto tanto da sembrare gemelli, una reciproca curiosità, che diventa ben presto morbosa ossessione di conoscere quello che è contenuto nella mente dell’altro. Il Maestro e il narratore (intercambiabili anche nella vita pubblica, astrologo di corte il primo e apprezzato consigliere del Sultano il secondo) condividono fortune e fallimenti, passioni scientifiche e filosofiche, e perfino i minuti fatti del loro passato, in una sorta di transfert psicanalitico che li porta ad essere una “strana” coppia dai confini individuali sempre più sfumati, non solo nei confronti degli estranei, ma anche di loro stessi. La fuga del narratore in un’isola solitaria durante la peste che affligge la capitale è l’anticipo di quella sostituzione, tacitamente concordata durante la fallimentare spedizione militare in Polonia, per mezzo della quale il Maestro fugge dall’accampamento per raggiungere l’Italia nelle vesti del narratore, e quest’ultimo prende il posto del Maestro, ognuno dei due calandosi definitivamente nell’esistenza dell’altro e realizzando in tal modo una completa simbiosi.
Lo stile di Pamuk è volutamente datato (sulla falsariga di un Potocki, tanto per fare un esempio) e assai poco moderno. Ciò crea un effetto sicuramente straniante: ambientazione seicentesca, stile ottocentesco, tematica contemporanea. A ciò si aggiunge un andamento del romanzo che, attraverso i molteplici mutamenti reciproci che avvengono nel rapporto tra i due protagonisti e tra questi e il Padiscià (prima è il Maestro ad essere nelle sue grazie, successivamente è il suo schiavo ad essere chiamato a corte in virtù del suo sapere, e così via in una sorta di monotono andirivieni con destinazione il palazzo del Sultano, a cui seguono lunghi e snervanti periodi di tediosa attesa), diventa col tempo sempre più ambiguo e psicologicamente aggrovigliato (le domande “perché io sono io” o “chi è chi?” sono il leit motiv dominante). Alla fine ci accorgiamo che, non avendo mai messo in dubbio le affermazioni del narratore (come sarebbe del resto avvenuto con qualsiasi romanzo dell’Ottocento), ci siamo dimenticati della figura dell’autore. E siccome “Il castello bianco” si propone dichiaratamente come un racconto partorito da una mente incline alle divagazioni fantastiche (si vedano i racconti pieni di sogni o di animali immaginari allestiti per il Sultano), nelle ultime pagine sorge il dubbio, e l’espressione di Evliya Celebi (il primo fantomatico lettore del manoscritto) ce ne dà un’ulteriore riprova, che tutto quanto abbiamo letto fino ad allora non sia mai avvenuto ma sia solo una fantasia. Più di ogni altra cosa, è proprio questa vertigine (in cui si adombra il senso ultimo di ogni creazione artistica) che il lettore si porta dietro al termine di questo elegante, fascinoso ma, ad essere sinceri, anche un po’ ostico gioco di scatole cinesi.
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IL CANTO DEI VIVI E DEI MORTI
“A casa, a casa”, le ultime parole di “Canta, spirito, canta”, ricordano curiosamente l’invocazione “A Mosca, a Mosca” con cui si chiude il secondo atto de “Le tre sorelle di Anton Cechov. Non è però a Cechov che bisogna rivolgersi per cercare i numi tutelari di Jesmyn Ward, bensì a due mostri sacri della letteratura americana del Novecento, Toni Morrison e William Faulkner. Dalla Morrison la Ward, anche lei afroamericana, riprende certe soluzioni narrative (come non pensare al fantasma della bambina di “Amatissima”?), ma soprattutto il tema razziale, l’accorato ritratto della condizione delle persone di colore nelle varie, dolorose fasi della storia degli Stati Uniti d’America. A Faulkner l’accomuna invece non solo la stessa area geografica d’appartenenza (il Mississippi), ma anche una spiccata affinità tematica, già emersa in “Salvare le ossa”. Nel folgorante primo capitolo della trilogia di Bois Sauvage la Ward omaggiava il celebre autore di “Assalonne, Assalonne!” in più di un’occasione: la ragazza incinta in una famiglia di soli maschi e l’uragano in arrivo possono essere considerati delle vere e proprie citazioni di “Mentre morivo”. In “Canta, spirito, canta” la somiglianza tra i due scrittori va ancora oltre e si fa addirittura stilistica. Come ne “L’urlo e il furore” e in “Mentre morivo” la storia viene infatti raccontata da una pluralità di narratori. Il primo – e più importante – è Jojo, un ragazzino tredicenne costretto a vivere senza l’affetto dei genitori e ad entrare prima del tempo nel mondo dei grandi (diventando persino un surrogato materno per la piccola sorellina Kayla, che gli è sempre avvinghiata al collo, un po' come Junior con il fratello maggiore Randall nel romanzo precedente). La seconda voce narrante è proprio quella di Leonie, la madre assente, che vorrebbe prendersi cura dei propri figli ma è assolutamente priva di istinto materno, chiusa com’è nella sua egoistica e autodistruttiva sfera personale, gelosa addirittura del ruolo assunto da Jojo nei confronti di Kayla che la mette crudelmente di fronte al suo fallimento genitoriale. Il terzo narratore è il più sorprendente, quello che porta Jesmyn Ward alle soglie di un inaspettato realismo magico: Richie infatti è un fantasma, lo spettro tormentato di un ragazzino morto di morte violenta più di mezzo secolo prima, che vaga da allora alla disperata ricerca di una problematica pacificazione. Richie non è comunque l’unico spirito che si aggira tra le pagine del romanzo, anzi a tratti al lettore sembra di trovarsi immerso nell’universo fantasmatico e soprannaturale di “Pedro Paramo” o di “Spoon River”. Il mondo descritto dalla Ward è infatti pervaso da forze ed energie che trascendono ad ogni istante la prosaica quotidianità: Mama, la nonna di Jojo, confinata nel suo letto da un male incurabile, recita preghiere hoodoo, mentre Pop, il nonno, vagheggia una filosofia dell’equilibrio cosmico secondo la quale è possibile acquisire un po’ della forza del cinghiale o dell’abilità del picchio portandosi appresso un pezzo di zanna dell’uno o una piuma dell’altro (“non più di quella che posso usare, però. Il cinghiale non può spartirne più di tanta con me, e io più di tanta non ne prendo. […] Il troppo, da una parte o dall’altra, rompe l’equilibrio”). Quello di “Canta, spirito, canta” è un universo magico, animistico, in cui lo spirito pervade ogni cosa e la saggezza risiede nella capacità di vedere i morti, di sentire le cose o più semplicemente di costruire amuleti per scacciare la cattiva sorte od usare le erbe selvatiche per curare le malattie. Non sorprende più di tanto quindi che i personaggi del romanzo vivano in una sorta di costante sospensione dell’incredulità, che fa loro accettare le apparizioni (un po' alla stregua di quanto accadeva ne “La casa degli spiriti di Isabel Allende) come un qualsiasi altro aspetto dell’esistenza. Esistenza che, peraltro, non si rivela affatto facile e tranquilla, impregnata com’è dalla presenza costante e opprimente della morte. “Io lo so cos’è la morte, almeno credo”, afferma Jojo all’inizio del libro, e la scena truculenta dell’uccisione della capra (che fa il pari con la sequenza del parto della cagna di Skeetah in “Salvare le ossa”) fissa fin da subito le coordinate su cui si svilupperà la storia. Il mondo di “Canta, spirito, canta” è connotato da violenza, razzismo, povertà, droga, fatica di vivere. Frasi come “Non c’è felicità qui”, “Il mondo non ti dà quello che ti serve, non importa quanto lo cerchi”, “E’ un mondo che si prende gioco dei vivi”, punteggiano tutto il romanzo, e perfino il clima e la natura risultano opprimenti (“Il gelo ristagna come acqua in una vasca otturata”; il cielo è “basso come un colabrodo di ferro troppo pieno”). L’unica possibilità è imparare a lasciarsi trasportare dalla corrente, senza cercare di opporsi ad essa, come insegna al nipote il vecchio Pop, una delle figure più belle ed icastiche del romanzo, con la sua schiena dritta come una tavola, le spalle larghe come un attaccapanni e le mani che sembrano le radici di un albero, simbolo della fierezza e dell’integrità morale, ma anche portatore di un terribile, inconfessabile segreto proveniente dal passato.
La prosa di Jesmyn Ward si adatta alla perfezione a questa densa e complessa atmosfera narrativa: le sue parole sono materiche, carnali, in esse si può percepire agevolmente la fatica, il malessere, il sudore perfino, di un'umanità alle prese con la quotidiana lotta per la sopravvivenza. Rispetto a “Salvare le ossa” la scrittrice di DeLisle sacrifica un po' della straordinaria tensione, dell'irresistibile suspense garantita dall'avvicinarsi dell'uragano Katrina. In compenso con “Canta, spirito, canta” la Ward alza notevolmente il tiro delle sue ambizioni, per affrontare in maniera originale e problematica il tema a lei caro del razzismo. Anche se il romanzo è ambientato ai nostri giorni (il padre di Jojo e Kayla ha perfino lavorato, prima di finire in carcere, sulla Deepwater Horizon, la piattaforma petrolifera passata tristemente alla storia per essere stata distrutta da un catastrofico incidente nel 2010), il razzismo ha segnato duramente la famiglia di Jojo, giacché lo zio Given è stato ucciso a sangue freddo con un fucile in quello che è stato frettolosamente derubricato dalle autorità come un semplice incidente di caccia, e il nonno Pop ha trascorso in gioventù alcuni anni nella prigione di Parchman, dove se si era di colore si poteva venire imprigionati a dodici anni per aver rubato un po' di carne salata e dove i lavori forzati erano una forma aggiornata e legale di schiavitù. Linciaggi, stupri e violenze, l'odiosa, secolare oppressione dei bianchi nei confronti dei neri, costellano il romanzo con una frequenza sconvolgente. La scelta della Ward di fare di Richie uno dei protagonisti del romanzo appare quindi come una sorta di risarcimento, un modo per restituire la voce a coloro che la storia ha costretto al silenzio e a una vergognosa, ingiustificabile rimozione collettiva. Non solo, con il suo stile inconfondibilmente lirico e visionario la Ward è riuscita a fare delle vicende individuali di Jojo, di Kayla e di Pop una potente metafora della questione razziale in America. Richie, Given e gli altri spettri che, come degli stalker, assillano i vivi con la loro silenziosa e impalpabile presenza, non sono in grado di trovare la pace neppure dopo la fine delle loro sofferenze terrene, in quanto hanno bisogno di qualcuno che racconti la loro storia e che riporti in superficie quel nucleo di tremenda disperazione vergognosamente seppellito e condannato all'oblio insieme alle loro misere spoglie mortali. L'atto di raccontare diventa così centrale nell'economia del romanzo (“Quando racconta – dice Jojo riferendosi a Pop – la sua voce è come una mano tesa che mi accarezza la schiena”): è per i personaggi del libro una sorta di catarsi, di comunione d'anima, di disinteressata manifestazione di affetto, e a un secondo livello – metanarrativo si potrebbe dire – simboleggia quella che è l'autentica missione dello scrittore, ossia far emergere a tutti i costi la verità storica, per quanto scomoda e imbarazzante possa essere, sottraendola alla dimenticanza e alla rimozione. In questo senso Jojo e Kayla sono i veri e propri alter ego dell'autrice, capaci – pur non avendo vissuto gli eventi narrati (così come la Ward, nata nel 1977, non ha vissuto gli anni bui della schiavitù e della segregazione) – di farsi garanti, con la loro rabdomantica sensibilità e la loro innocenza, della memoria delle sofferenze di un popolo. Il romanzo, crudo, sconvolgente, tragico, ma anche punteggiato di momenti di grazia e di tenerezza (Kayla che, coi suoi cinque anni avidi di affetto, stropiccia le orecchie di Jojo, mentre lui la tiene per le braccia “come se volesse avvolgersi intorno a lei, fare del proprio scheletro e della propria carne un edificio per proteggerla dagli adulti”; ancora Jojo che abbraccia Pop, affranto dal dolore e dal rimorso per aver finalmente tirato fuori dai recessi della memoria ciò che per tanti anni non aveva mai avuto il coraggio di raccontare), non vuole del tutto chiudere ogni spiraglio alla speranza. Se è vero che, citando Kafka, “abbiamo bisogno di libri che abbiano su di noi l'effetto di una sventura, che ci diano molto dolore” e che “un libro deve essere come una scure piantata nel mare di ghiaccio che è dentro di noi” - ed indiscutibilmente “Canta, spirito, canta” è uno di quei libri – è altrettanto vero che Jesmyn Ward non rinuncia a lanciare, anche a dispetto di ogni evidenza contraria, un messaggio di fede in valori come la solidarietà e la famiglia. All'inizio del romanzo, assaggiando una torta scadente comprata a poco prezzo per il compleanno del figlio, Leonie trova che è tanto dolce da sembrare amara. Ebbene, “Canta, spirito, canta” è esattamente il contrario: è tanto amaro che, alla fine, risulta quasi dolce.
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"Mentre morivo" di William Faulkner
SATURDAY, BLOODY SATURDAY
Una delle controversie più interessanti della filosofia politica è quella tra liberali e liberisti. I primi sostengono che ogni individuo dovrebbe affrontare la vita disponendo di una quota uguale di risorse (cosa che costituirebbe un attacco esplicito alle radicate divisioni di classe, razza e sesso della nostra società); in particolare, nella teoria di Rawls le persone dotate di talenti naturali potrebbero beneficiarne solo se questi arrecano un beneficio anche agli svantaggiati, mentre secondo Dworkin le persone dotate dovrebbero elargire agli svantaggiati una sorta di premio assicurativo (sotto forma ad esempio di una tassazione redistributiva). Secondo i liberisti invece gli individui naturalmente svantaggiati non possono avanzare nessuna pretesa legittima sui talenti dei più dotati, e da ciò deriva un netto rifiuto di qualsiasi intervento coercitivo negli scambi del libero mercato. Nozick, in particolare, sostiene che gli uomini hanno il diritto, inviolabile da parte dello Stato, di disporre liberamente dei propri beni, in virtù di un titolo valido di proprietà che permetta di trasferire liberamente ciò che legittimamente si possiede. Ma, replicano i liberali, se la validità dei diritti di proprietà di ciascuno dipende dalla validità dei diritti di proprietà precedenti, allora per determinare la validità del titolo di proprietà attuale occorrerebbe risalire la catena dei trasferimenti fino all’inizio. Ma qual è l’inizio? L’inizio della serie dei trasferimenti coincide evidentemente con la prima appropriazione del bene da parte di un individuo che ne ha fatto la propria proprietà privata, e la storia insegna (si pensi alla spoliazione delle terre abitate dagli Indiani d’America) che l’acquisizione iniziale è spesso viziata dall’uso della forza e dell’inganno.
Cosa c’entra la filosofia politica con “Sabato” di Ian McEwan? C’entra, eccome, se si pensa che lo stato d’animo più frequente in Henry Perowne, il protagonista del romanzo, è una sottile, impalpabile eppur profonda inquietudine mescolata ad un altrettanto subliminale senso di colpa. La paura di veder crollare il proprio universo di agi e di raffinatezze va di pari passo con un sentimento di colpevolezza nei confronti di tutti coloro che da tale benessere sono forzatamente tenuti fuori. E siccome il confronto non è solo tra il suo personale stile di vita e quello di altri individui a lui vicini, ma tra il sistema capitalistico occidentale e lo stato di indigenza in cui versa il resto del mondo, il discorso si amplia fino ad assurgere a una connotazione planetaria. Del resto, è frequente in McEwan la commistione tra privato e sociale, tra individuale e generale, tra storia e Storia (si pensi alla Seconda Guerra Mondiale che fa da sfondo alla tragedia dei protagonisti di “Espiazione”). Qui è la situazione generatasi dopo l’attentato alle Torri Gemelle a fare da cornice storica agli eventi narrati, e la manifestazione pacifista di Hyde Park, i notiziari che scandiscono metronomicamente la giornata, e perfino un incidente aereo senza conseguenze cui Perowne assiste casualmente dalla finestra della sua camera da letto, riportano ogni istante alla mente del protagonista – un affermato neurochirurgo – la ontologica fragilità del proprio mondo (non è un caso che nella sua mente scaturisca il parallelismo con il declinante Impero Romano minacciato dai barbari) e, quel che è peggio, i dubbi – inconsci, certo, ma non per questo meno tormentosi – sulla legittimità del privilegiato stile di vita che conduce con la propria famiglia (moglie professionista, figlia poetessa, figlio musicista, villa a tre piani nel centro di Londra, automobile di grossa cilindrata), quasi un emblema dell’”homo economicus” di successo del terzo millennio. E siccome, kafkianamente, l’uomo è colpevole per definizione, è quasi naturale e scontata la nemesi che il destino gli riserva. Quella minaccia terroristica che pende come una spada di Damocle sulle città americane ed europee dopo quello sciagurato 11 settembre 2001 e che incrina quotidianamente, come un tumore latente, l’ostentato ottimismo di pochi milioni di persone assediate, invidiate e odiate dai miliardi di diseredati del resto del pianeta, si materializza nella vita di Perowne nella figura di Baxter, un giovane teppista da strada, affetto da una malattia degenerativa incurabile, il quale, dopo un banale incidente automobilistico, lo pedina per poi fare irruzione nella sua abitazione e terrorizzare l’intera famiglia riunita per la cena del sabato sera armato di un coltello e di una pericolosa, psicopatica ansia di vendetta. Volendo seguire la logica del simbolismo esposto in precedenza, l’aggressione subita da Perowne potrebbe rappresentare in scala gli attentati suicidi organizzati da Al Qaeda, e la ribellione di Henry e del figlio Theo che disarmano il malvivente facendolo cadere dalle scale la reazione militare dell’America di Bush. Con una differenza, però, una importante differenza che è soprattutto un messaggio di pace e di speranza. Perowne, chiamato d’urgenza in ospedale per operare proprio Baxter, il quale ha una brutta frattura alla scatola cranica, rinuncia alla sua serata di riposo e si prodiga per salvare la vita al suo aggressore, scoprendo di non provare per lui né odio né desiderio di vendetta, bensì una pietà che, lungi dall’aver connotazioni religiose (Henry è un convinto materialista), è la risposta radicale, ricca di umiltà e di pratico buon senso, per riequilibrare una intollerabile situazione di ingiustizia sociale. Non è quindi la logica dell’occhio per occhio dente per dente, bensì la comprensione e l’aiuto fattivo e solidale a chi è più sfortunato di noi, il messaggio non propriamente conformista lanciato da McEwan in questo confuso e turbolento inizio di millennio.
Con questo rassicurante happy end si concludono le densissime ventiquattro ore di Henry Perowne. Sorge quasi spontaneo il paragone con un’altra memorabile giornata letteraria, quella della Mrs. Dalloway di Virginia Woolf, la scrittrice che ritengo sia il grande nume tutelare di McEwan. Già in “Espiazione” c’era infatti un riferimento tutt’altro che casuale allo stream of consciousness de “Le onde”, al cui stile la Briony diciottenne si ispirava nei suoi racconti. In “Sabato” Perowne e Baxter richiamano invece alla mente la coppia, destinata nel romanzo della Woolf solo a sfiorarsi, della signora Dalloway e di Septimus (del cui suicidio Clarissa si sentiva oscuramente responsabile, e che ella sublima proprio grazie a una profonda compassione). Mi spiace di avere in questa recensione privilegiato troppo il versante simbolico e psicanalitico della storia, in quanto “Sabato”, pur con qualche artificiosità di troppo nella trama, è un romanzo ricchissimo di tematiche, alcune, come quella della morte, soltanto sfiorate, eppure decisive per la sua riuscita. Una cosa vorrei però sottolineare prima di concludere, ed è una virtù che McEwan possiede e che è invece raro riscontrare negli scrittori di oggi: la capacità di affrontare tutti gli argomenti di cui parla, anche quelli estremamente specialistici e complessi, con una grandissima competenza e professionalità, dalle quali si intuisce uno scrupoloso e indefesso sforzo di documentazione che gli permette di trattare della ritirata di Dunquerque, di una operazione al cervello oppure dell’esecuzione di un pezzo blues proprio come lo farebbero uno storico, un neurochirurgo o un musicofilo.
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UN GENE SOLITARIO SULLE MONTAGNE RUSSE DEL TEMPO
“La vita più che nel futuro ti proietta nel passato, indietro fino all’infanzia e a prima della nascita, fino a dove si comunica con i defunti”
Quello del romanzo di Jeffrey Eugenides è un titolo sottilmente ambiguo. Middlesex è infatti il quartiere di Grosse Pointe dove la famiglia Stephanides si trasferisce da Detroit alla fine degli anni ’60, ma allude altresì alla condizione del protagonista, un ermafrodito dalla sessualità indefinita, metà femmina e metà maschio, “middlesex” appunto. L’incipit è eccezionalmente iconico: “Sono nato due volte: bambina, la prima, un giorno di gennaio del 1960 in una Detroit straordinariamente priva di smog, e maschio adolescente, la seconda, nell’agosto del 1974, al pronto soccorso di Petoskey, nel Michigan”. Calliope/Cal, il narratore, nasce infatti con una rara malformazione: pur essendo geneticamente maschio, possiede, sia pure incomplete, le gonadi di entrambi i sessi. Siccome però nessuno alla nascita si accorge della cosa, egli viene allevato come una bambina. In modo simmetricamente opposto a quanto avveniva nei due romanzi di Tahar Ben Jelloun, “Creatura di sabbia” e “Notte fatale”, le influenze imposte (qui peraltro involontariamente, in buona fede se così si può dire) dall’ambiente si scontrano e prevalgono su quelle determinate dalla struttura cromosomica. Come si può ben capire, quello di “Middlesex” è un materiale narrativo incredibilmente forte, gravido di implicazioni psicologiche, antropologiche, mediche e sociali. Eppure Eugenides fa una scelta per molti versi spiazzante: toglie Calliope/Cal dalla scena per quasi metà del romanzo (fatta eccezione per alcuni brevi e fuggevoli accenni alla sua vita attuale) e, con una mossa genialmente azzardata, decide di andare cronologicamente a ritroso, di risalire la corrente del tempo, srotolando all’incontrario il sottile e impalpabile filo delle memorie familiari per raccontare la storia di due generazioni di Stephanides, alla ricerca di quel “peccato originale” che è la causa segreta della presenza nel corredo genetico del narratore di un cromosoma difettoso. “Io sono la proposizione conclusiva di una frase periodica, – dichiara eloquentemente all’inizio del romanzo - e quella frase comincia molto tempo fa, in un'altra lingua, e bisogna leggerla dall'inizio alla fine, che poi corrisponde al mio arrivo.” La cornice diventa così, imprevedibilmente, il centro di interesse del quadro, e scopriamo così che Desdemona e Lefty, i due nonni del narratore, sono in realtà fratelli di sangue, che hanno approfittato del viaggio dalla Turchia in America per coronare all’insaputa di tutti la loro incestuosa storia d’amore; e che Milton, il loro figlio, a sua volta ha sposato una sua cugina prima, permettendo al gene recessivo che probabilmente, in maniera innocua, veniva tramandato da centinaia di anni, di uscire improvvidamente allo scoperto. Questo retrocedere nel passato alla ricerca di una causa prima ricorda un po’ “Il signor Mani” di Abraham Yehoshua: ma se nel romanzo dello scrittore israeliano il “riavvolgere la pellicola all’indietro” faceva emergere un atavismo che è la metafora di un intero popolo, qui esso è l’occasione per raccontare una saga familiare, e indirettamente un’epoca storica, con un’operazione letteraria molto più “facile” e popolare. Con le parole di Cal, narratore inesplicabilmente onnisciente (quasi che i propri geni in attesa di nascere gli abbiano lasciato in eredità, oltre alle tare fisiche, anche la capacità di vedere retrospettivamente il passato), si dipanano così drammi personali (la “strana” morte di Zizmo) e tragedie collettive (l’incendio di Smirne, la Grande Depressione), stemperati però in un racconto ampio, arioso, fluente, con un ritratto vivace e colorito della comunità greca in America (con le sue cerimonie religiose, i suoi rituali quotidiani, le sue credenze e le sue superstizioni) che è forse la parte migliore del libro. Su tutti i personaggi emerge quello, umanissimo, di Desdemona, la nonna del protagonista, che vive in America come una perenne esule, con omerici accessi di disperazione e una costante aria di disapprovazione dipinta in volto o espressa attraverso il tempestoso agitare del suo ventaglio; legatissima alla tradizione e alla religione natia, con il suo inseparabile ritratto del patriarca Atenagora appeso sopra il letto, gira sempre con una scatola di legno dove un tempo conservava i bachi da seta e ora tiene un cucchiaio che utilizza per indovinare il sesso dei nascituri; dopo la vedovanza, infine, si ritira definitivamente nel suo letto dove “trascorre un decennio cercando con grande vitalità di morire”, organizzando nei minimi dettagli il proprio funerale e sfogliando il catalogo di bare “con l’eccitazione di chi esamina i depliant di un’agenzia di viaggi”. Nella mente rimane impresso anche l’anziano marito Lefty il quale, dopo un colpo apoplettico, inizia a perdere la memoria, dapprima le informazioni più recenti e poi, via via, quelle più vecchie, così che, mentre tutti si muovono avanti nel tempo, lui lo percorre all’indietro (un po’ come il romanzo, del resto), tornando con la mente il ragazzo greco che era cinquant’anni prima. Anche quando, dopo avere attraversato l’ascesa e il declino dell’industria automobilistica di Detroit, i murales di Diego Rivera e lo swing di Artie Shaw, la seconda Guerra Mondiale e la caccia alle streghe, nasce finalmente Calliope, il tema “bollente” dell’ermafroditismo continua a rimanere sullo sfondo, perché nessuno, nemmeno il vecchio medico di famiglia, si rende conto della sua anomalia. Così Calliope cresce come una bambina normalissima, e la sua infanzia è raccontata con toni di aneddotica leggerezza (come quando, nel pieno dei disordini razziali scoppiati a Detroit nel 1967, la piccola pedala in piena notte dietro un carro armato per andare a salvare l’amato papà accorso in città per cercare di salvare dalla distruzione il suo ristorante). E’ solo con l’arrivo della pubertà che il romanzo affronta la fase più problematica, quella in cui la ragazza inizia a percepire che c’è qualcosa che non va nel suo corpo (il seno non si sviluppa, le mestruazioni tardano ad arrivare), ma queste preoccupazioni si mescolano e si confondono con i normali dubbi di ogni adolescente alle prese con un corpo in continua, imprevedibile, trasformazione e con un’identità sessuale ancora incerta e non ben definita. Eugenides è bravissimo sia ad evitare una eccessiva “pruderie” sia a non solleticare morbosità voyeuristiche da buco della serratura: l’anomalia dei genitali di Calliope è descritta in termini delicati ed allusivi (il piccolo pene nascosto che viene paragonato, con una garbata metafora floreale, a un croco), mentre la sua ambiguità sessuale (già emersa inconsciamente nella scelta di interpretare l’indovino Tiresia – che nel mito aveva vissuto sette anni da donna – nella recita scolastica di fine anno) viene rivelata in una scena surreale e psichedelica, quando, strafatto dalla marijuana fumata con gli amici, esce sciamanicamente dal suo corpo per entrare in quello di Rex che sta pomiciando con l’Oscuro Oggetto (ovverossia l’amica del cuore), e così facendo riesce a “fare l’amore” con l’ambita meta del suo inconfessato desiderio per – se così si può dire – interposta persona. Si capisce come siamo lontani dai toni tragici di opere analoghe (penso per esempio a film come “XXY” di Lucia Puenzo o il più recente “Girl” di Lukas Dhont): la vicenda di Calliope precipita nel dramma solo con la visita al dottor Luce e, soprattutto, con la scena nella biblioteca pubblica in cui la (ancora per poco) ragazza cerca in un voluminoso vocabolario il significato di “ipospadia”, che la rimanda al termine “eunuco”, che a sua volta la rinvia a “ermafrodito” e infine all’inquietante parola “mostro”, che mette per la prima volta il narratore di fronte alla sua reale condizione, quella di un personaggio percepito dagli altri come un Minotauro dei nostri giorni, uno scherzo di natura, una creatura da rifuggire con un moto di ribrezzo. E’ un peccato che Eugenides, fino a quel momento splendido equilibrista della parola, rischi di rovinare tutto con una repentina e immotivata svolta dickensiana, quando il protagonista, scoperto dalla relazione del dottore dimenticata inavvertitamente sulla sua scrivania di essere geneticamente un maschio e spaventato all’idea di una probabile operazione chirurgica, scappa via dai genitori e si mette a peregrinare in California come un homeless. Confesso che certe sequenze, che si allontanano dalla miracolosa leggerezza mantenuta fino ad allora, mi hanno lasciato un po’ interdetto (come quando Calliope, ormai diventato a tutti gli effetti Cal, finisce per esibirsi in un equivoco peep show di San Francisco come uno dei “freaks” di Tod Browning), così come ho trovato discutibile la “captatio benevolentiae” del lettore quando gli si rivolge con espressioni del tipo “Paziente lettore, può darsi che tu ti sia chiesto…”. Al di là di queste piccole sbavature (tra le quali includo anche la deludente ed affrettata descrizione della vita di Cal adulto), che non sono comunque tali da inficiare il più che lusinghiero giudizio sul romanzo, Eugenides si rivela un narratore di razza, dalla prosa prodigiosamente sciolta, elegante e raffinata. Forse perché in parte riecheggia reali esperienze familiari dell’autore (il padre di Eugenides era anch’egli figlio di immigrati greci, e l’autore è nato e cresciuto a Detroit proprio come Cal), “Middlesex” risulta, se non magari il suo romanzo artisticamente più riuscito (molti gli preferiscono “Le vergini suicide”), sicuramente la sua opera più autentica, sentita e personale.
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ALLA RICERCA DELL'INFANZIA PERDUTA
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
“Ripness is all”, la maturità è tutto, scrive Pavese in esergo a “La luna e i falò”, citando il “Re Lear” di Shakespeare: citazione ambigua quanto mai se si pensa che Anguilla, il protagonista del romanzo, venti anni prima è partito, anzi “scappato” dal paese, per fare fortuna in America, e ora, quarantenne – e quindi nel pieno della “maturità” – ritorna e ricorda con nostalgia i tempi della sua infanzia. In questo doppio movimento – partenza e “nostos”, ritorno – si concentra il senso del romanzo, che è soprattutto ossimorico: da una parte c’è la denuncia della povertà, dell’ignoranza e delle condizioni sociali arretrate e ingiuste (la mezzadria) in cui versa la maggior parte della gente delle campagne, dall’altra la nostalgia elegiaca e affettuosa (“Cos’avrei dato per vedere ancora il mondo con gli occhi di Cinto, ricominciare in Gaminella come lui, con quello stesso padre, magari con quella gamba…”) con cui Anguilla risuscita e sublima i ricordi di una campagna “mitica” che la trasferta in America gli aveva fatto dimenticare. In questo rapporto dialettico rientra l’alter ego del protagonista, quel Nuto che non si è mai spostato dal Belbo, non ha viaggiato ed è rimasto a lottare nel suo piccolo pezzo di terra per cambiare le cose. Anguilla e Nuto rappresentano le due facce della stessa medaglia, due proiezioni dello scrittore, quella per cui il mondo è più grande di Gaminella, del Salto e della Mora e bisogna andare al di là di Canelli (e di Alessandria e di Genova…) per conoscere la vita, e quella invece di chi è radicato nella terra come una pianta o un sasso, di chi ha bisogno di una casa, di un pezzo di terra, di un paese per riconoscersi e dire “ecco chi sono”. Emblematico a questo proposito è il confronto con l’America, terra di alienazione e solitudine, priva di passato (“Di dove uno venisse, chi fosse suo padre o suo nonno, non succedeva mai di chiederlo a nessuno”). Persino i falò del titolo sono caratterizzati da questa dualità, essendo al contempo forza rigeneratrice della terra e simbolo di morte e distruzione (l’incendio della casa del Valino, la morte di Santina). Ed è proprio questa dicotomia che impedisce ad Anguilla di portare a buon fine la sua ricerca del tempo perduto: se un suono, una faccia o un sapore sono in grado di riportargli alla mente gli episodi dimenticati di un’infanzia mitica, l’impatto rude e non sublimato con la prosaica realtà contadina (la tragica fine della casa in cui è cresciuto, la morte delle persone che conosceva un tempo, e in particolare le tre sorelle della Mora) lo restituiscono alla sua triste condizione di individuo scisso ed esiliato. La maturità di cui si parlava all’inizio, quindi, è una maturità in negativo, ovverossia la sottomissione al proprio destino, sia esso quello di Anguilla o di Nuto.
La prosa spoglia e diretta di Pavese possiede, soprattutto nella prima parte del romanzo – quella in cui Anguilla impara a riconoscere posti e sensazioni di una volta – un notevole afflato poetico, in cui l’uso sapiente del dialetto e un realismo di stampo verghiano si allargano alle suggestioni del mito tipiche di certa letteratura americana. L’impianto narrativo è semplice e lineare, quasi schematico nei personaggi e nella successione dei capitoli, pur con intelligenti scarti temporali (come nel XXX e nel XXXI capitolo, in cui la rovina di Irene e Silvia precede, pur essendogli cronologicamente posteriore, il felice ricordo di una festa trascorsa dal protagonista con le due sorelle) e qualche sporadica accensione onirico-simbolica (l’episodio notturno nel deserto americano). A mio avviso la seconda parte soffre di qualche squilibrio, sbilanciato com’è nella rievocazione della storia degli abitanti della Mora, e la chiusa è un po’ drastica (dando all’uccisione di Santina ad opera dei partigiani un rilievo che avrebbe richiesto forse una preparazione più meditata, una maggiore suspense), ma nel complesso “La luna e i falò” è un romanzo potente e suggestivo, sicuramente uno dei migliori della letteratura italiana del Novecento.
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CHI E' HOLDEN CAULFIELD?
"Un supplente di una scuola di Long Island fu licenziato per una lite con uno studente. Dopo una settimana, è tornato in quella classe. Ha sparato allo studente, senza ucciderlo. Ha preso la classe in ostaggio e alla fine si è sparato, uccidendosi. Una cosa mi ha incuriosito, una frase scritta dal Times. Un vicino ha descritto l’insegnante come una brava persona, che leggeva sempre Il giovane Holden. Quel povero Chapman, che uccise John Lennon, lo aveva fatto solo per attirare l’attenzione del mondo sul giovane Holden. E disse che quella lettura sarebbe stata la sua difesa. Il giovane Hinckley, quello che sparò a Reagan e al suo addetto stampa, disse: “Se volete la mia difesa, non dovete far altro che leggere Il giovane Holden…” Beh, lo chiesi in prestito a una mia amica per vedere che cosa avesse sottolineato e lo rilessi perché volevo cercare di capire perché questo romanzo bellissimo, toccante, intenso, pubblicato nel luglio del ‘51 si sia trasformato in un manifesto dell’odio. Ho cominciato a leggerlo. È esattamente come me lo ricordavo. Tutti quanti sono fasulli. Pagina 2: “Mio fratello vive a Hollywood, fa la prostituta.” Pagina 3: “Che razza di fasullo era suo padre.” Pagina 9: “La gente non si accorge mai di nulla.” Poi, a pagina 22, mi si sono drizzati i capelli. Beh, ve lo ricordate Holden Caulfield il classico ragazzo sensibile col suo berretto rosso da caccia al cervo? Da caccia al cervo? Un accidente. Ci ha chiuso un occhio come per prendere la mira. È un berretto per sparare alla gente. Ci spara alle persone con quel berretto. Eh, questo libro prepara la gente a momenti di grandezza mai immaginati prima. Poi a pagina 89: “Preferirei buttare qualcuno dalla finestra o staccargli la testa con un’accetta che dargli un pugno in faccia. Odio le scazzottate, quello che mi fa più paura è la faccia dell’altro.” Ho finito il libro, è una storia toccante. È comico perché lui vuole fare tante cose ma non riesce a fare niente, odia le falsità e sa solo mentire agli altri, vuol essere voluto da tutti ma è solo pieno d’odio e completamente egocentrico. In altre parole il ritratto piuttosto fedele di un adolescente maschio. […] Beh, l’alone che circonda questo libro che forse dovrebbe essere letto da tutti tranne che dai ragazzi è questo. Il libro deforma come in uno specchio e distorce come in un altoparlante rotto una delle grandi tragedie del nostro tempo, la morte dell’immaginazione. […]” (dal monologo di Paul, il protagonista del film “Sei gradi di separazione”, di Fred Schepisi).
Chi è Holden Caulfield? L’alfiere ante-litteram di una generazione ribelle, anti-capitalista e anti-borghese, che nel rifiuto dei miti dei padri ricorda un po’ quella del ’68; oppure il rappresentante border line di un disagio esistenziale e di un male di vivere talmente profondi da farsi patologia nichilista e autodistruttiva (anche qui preconizzando la generazione X delle droghe, dell’anedonia, delle derive neo-naziste)? A propendere per la prima ipotesi ci sono milioni di lettori, soprattutto adolescenti, che, forse catturati dalla sua sincerità, dalla sua fragilità, dal suo offrirsi senza pudori e senza difese, lo hanno in qualche modo visto come un loro simile, quasi un fratello maggiore, un modello a cui ispirarsi, se non proprio da imitare. I fautori della seconda tesi sono invece coloro che, come il protagonista di “Sei gradi di separazione” (il film di Fred Schepisi del 1993), lo giudicano il simbolo di un’America malata, immatura e pericolosamente incline all’odio, al razzismo e alla violenza. Chi è dunque Holden Caulfield? Personalmente propendo per la seconda linea di pensiero, forse perché i miei anni sono vicini alla sessantina e pur riconoscendo il fascino istintivo di un personaggio che sfrutta – non dimentichiamolo – una delle trappole più comuni della letteratura moderna, ossia l’istintiva e preconcetta identificazione del lettore con l’io narrante. Ad una analisi approfondita non possono comunque sfuggire alcuni tratti essenziali, direi quasi costitutivi, della personalità del protagonista. Holden ha sì innegabili slanci di generosità o di cavalleria, ma quanta autentica bontà, quanto altruismo c’è in questi comportamenti, e quanto invece disinteresse per le proprie cose o paura della solitudine? I suoi atteggiamenti apparentemente morali non danno mai veramente l’impressione di essere “normali”: la sua spontaneità è piuttosto avventatezza, la sua generosità è dissennatezza (pensiamo alla sproporzionata offerta fatta precipitosamente alle due suore – che peraltro neppure sollecitano un atto di carità – quando è chiaro che le sue disponibilità si stanno prosciugando, al punto che qualche pagina dopo è costretto a chiedere in prestito alla sorellina i suoi risparmi per i regali di Natale), i suoi attaccamenti e le sue infatuazioni (per la sorella in primis, ma anche per le sue amiche, che un momento vorrebbe sposare e il momento dopo lo annoiano al punto da desiderare di rimanere solo) hanno qualcosa di esagerato, di morboso. Holden alterna vitalismo e depressione, allegria e tristezza, cameratismo e misantropia. Odia i film, ma poi in una scena immagina di essere il protagonista di una scena melodrammatica in cui si trascina stoicamente per le strade con una ferita mortale al ventre. Odia lo snobismo e l’ostentazione degli status symbol della upper class cui in realtà appartiene, ma poi si trova altrettanto a disagio negli ambienti sordidi che si trova a frequentare nel corso del suo compulsivo vagabondare. In realtà Holden ce l’ha con tutto e con tutti, perché non c’è niente che in fondo lo interessi veramente (come gli fa giustamente notare la sorella Phoebe quando gli dice: «A te non ti piace niente di quello che ti succede») e nell’umanità che lo circonda vede solo bastardi o cafoni o barbosi o palloni gonfiati o finocchi e pervertiti. In quest’ottica, siamo poi sicuri che il professor Antolini che lo ospita e da cui nottetempo fugge spaventato sia un omosessuale e abbia voluto approfittare di lui, o sono solo le paranoie di chi vede intorno a se un mondo torbido e malsano? Holden è un disadattato, un asociale, forse un psicopatico in prospettiva, nel migliore dei casi un marziano, una brutta copia del Piccolo Principe (curioso questo accostamento, che ho scovato navigando in Internet, secondo cui “Il giovane Holden” sarebbe una sorta di trasposizione realistica del romanzo di Saint-Exupery, in cui Phoebe rappresenterebbe la rosa del principe e i personaggi incontrati da Holden gli strampalati abitanti dei pianeti visitati dallo stesso principe nel suo metaforico viaggio). Quando in certi momenti ha un comportamento eticamente encomiabile (come quando rinuncia al suo proposito di scappare perché Phoebe gli dice che verrà con lui, e non vuole che la sorella butti via la propria vita), in realtà lo fa – a parte la concreta irrealizzabilità dei suoi velleitari e infantili propositi – soltanto per motivi patologici (perché vuole un bene smisurato alla sorella). Holden è in fondo un perfetto soggetto di studio per uno psichiatra, e difatti è proprio da una clinica psichiatrica che egli alcuni mesi dopo racconta la sua bizzarra odissea. Se davvero dovessi sbilanciarmi a immaginare il futuro adulto di Holden, non credo che sarebbe quello di un padre di famiglia o di un libero professionista come il padre, e nemmeno quello di uno scrittore (nonostante che i componimenti siano l’unica cosa che gli riescano bene a scuola e nonostante i vaghi paralleli con la vita dell’autore, misantropo leggendario – ricordo che Holden sogna di ritirarsi a vivere in una campagna solitaria, ai margini di un bosco -, e inoltre cattivo studente in gioventù): al contrario, scommetterei sulle uniche due alternative a mio parere plausibili per una personalità così disfunzionale e squilibrata, ossia il manicomio o il suicidio. Oppure magari mi sbaglio, e Holden è solo un normalissimo adolescente che, dopo gli anni di ingenuo e confuso anticonformismo, entrerà in banca pure lui, come il “Compagno di scuola” di Antonello Venditti.
N.B. Non mi sono soffermato in questo breve commento sul valore letterario del romanzo, perché ritengo che “Il giovane Holden” sia ormai entrato a pieno titolo (oltreché a pieno merito) nel novero dei classici, e sia perciò già stato abbondantemente e adeguatamente compulsato e sviscerato in tutti i suoi aspetti critico-estetici. Voglio solo far presente che il suo linguaggio, uno slang estremamente libero e disinvolto, se oggi, dopo aver letto tanti romanzi americani contemporanei, può sembrare abbastanza normale, al momento della sua uscita, il 1951, deve essere apparso davvero innovativo e in anticipo sui tempi, se è vero che è stato capace di provocare molteplici accuse di scandalo e aperte crisi di rigetto da parte di tanti benpensanti e critici. In ogni caso, il capolavoro di Salinger è ancora estremamente attuale e sembra avere molti anni in meno dei suoi sessantotto effettivi, al punto da attirare ancora moltitudini di lettori, attratti, oltre che dalla sfaccettata ed enigmatica personalità del protagonista, anche dal ritmo incalzante della vicenda (che dura in tutto meno di 72 ore) e dal godibilissimo umorismo che la sottende.
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EROI DEL SOGNO, VITTIME DEL DESTINO
Il presente saggio analizza, oltre a “Castelli di rabbia”, anche il secondo romanzo di Alessandro Baricco, “Oceano mare”.
Cosa può accomunare due autori così diversi tra loro come Krzysztof Kieslowski e Alessandro Baricco? Questa domanda mi è sorta ragionando se fosse in qualche modo più tragico credere che la vita dell’uomo sia in balia del caso oppure, al contrario, governata rigidamente dal destino. In un’epoca in cui la terza opzione, quella della provvidenza divina, sembra essere caduta in disuso, questa questione non è affatto oziosa, anzi serve a sgombrare il campo da tanti equivoci e luoghi comuni. Il primo è quello che fa sì che caso e destino vengano usati sempre più spesso come termini di comodo, dal momento che dire acriticamente che tutto è dovuto al caso o che così è andata perché era destino sono formule che si equivalgono nella sostanza, e che riflettono tutt’al più la minore o maggiore paura che in fondo a tutto non vi sia un fine alle azioni dell’uomo. Il secondo è quello per cui si pensa che entrambi – caso e destino – azzerino il ruolo dell’uomo nell’autodeterminazione della propria vita.
Persino in un film così fatalista e borgesiano come “Destino cieco”, in cui il regista fa accadere al protagonista Witek un evento fortuito (lo scontro con un ubriaco nella stazione ferroviaria), il quale però segna profondamente la sua esistenza fino a configurarla in maniera diversa, e perfino radicalmente opposta, a seconda dell’impercettibile modularsi dell’evento stesso, persino in un film come questo – dicevo – Kieslowski non è disposto ad accettare queste semplicistiche conclusioni. Anche se tutte e tre le opzioni esistenziali che egli concede al protagonista portano paradossalmente ad un identico esito (egli non riesce in nessun caso a partire per Parigi, anzi, nell’ultimo episodio, quando sembra avercela fatta, l’aereo esplode in aria), Kieslowski sembra suggerire che Witek è vittima della sua incapacità di agire autonomamente e della sua mancanza di consapevolezza politica piuttosto che delle bizzarrie della sorte. Ciò dimostra che il caso fa sì, per citare un famoso aneddoto, che il battito d’ali di una farfalla in Brasile provochi un tornado in Texas, ma poi, accettato questo, esso può essere interpretato a discrezione di ciascuno come negazione totale di ogni aspirazione dell’uomo all’autodeterminazione oppure inteso, come fa Kieslowski, come infinito e inesauribile prodursi di virtualità, in sé né buone né cattive.
Allo stesso modo, il destino può essere visto come agente trascendente che annulla il ruolo dell’individuo come artefice del proprio futuro, ma anche concedere all’uomo – come ha fatto in tempi lontani, per fare un esempio, la tragedia greca – un’aura di eroica dignità, ancorché votata alla sconfitta. Ecco, se devo trovare un minimo comune denominatore tra Kieslowski e Baricco, lo cercherei proprio in questo rifiuto di qualsiasi filosofia del fatalismo, del nichilismo e della rassegnazione, che accomuna entrambi. Perché dietro a personaggi così favolistici e irreali come quelli di “Castelli di rabbia” e di “Oceano mare”, dietro a storie talmente bizzarre e fantastiche da sembrare uscite da altrettanti quadri di Chagall, c’è sempre la sfida dell’uomo al proprio destino. E se anche Kieslowski è un autore unanimemente definito pessimista, è proprio Baricco – per tornare alla questione di partenza – a sembrarmi veramente tragico, a dispetto delle conclusioni alle quali potrebbe condurre una lettura affrettata e semplicistica delle sue opere.
I romanzi di Baricco sono indubbiamente intrisi di un umorismo che a tratti sfiora la pura comicità, eppure i personaggi che li popolano possono essere avvicinati nientemeno che al Sisifo intorno al quale Albert Camus ha costruito una delle più belle metafore sulla condizione dell’uomo moderno. Sisifo che, dopo essere morto, ottenne da Plutone il permesso di tornare sulla terra ma che, visto di nuovo l’aspetto del mondo, non volle più ritornare negli inferi sfidando gli ammonimenti degli dei, è l’eroe tragico per eccellenza. Costretto per l’eternità a pagare il disprezzo per gli dei, l’odio nei confronti della morte e la passione per la vita con un supplizio feroce (far rotolare all’infinito un enorme masso su e giù per una montagna), Sisifo è, secondo Camus, tragico perché è consapevole del proprio destino. Eppure, proprio grazie a questa tragicità, Camus attribuisce al suo eroe una connotazione positiva, in quanto la sua orgogliosa e sprezzante alterità lo fa essere superiore al proprio destino.
Come Sisifo, anche i personaggi di Baricco si portano letteralmente appresso il loro destino: per Pehnt esso si materializza in una giacca da uomo nera, esageratamente grande per un bambino, ma destinata a diventare della misura giusta quando sarà giunto il momento di abbandonare Quinnipak per trasferirsi nella capitale; per Jun è un libro misterioso, che prima o poi la condurrà in America lontano dal suo sposo; per Kuppert è la roncola che si è ritrovato in mano quando in una fiera ha incontrato la donna che lo aveva lasciato (“ora dimmi cosa c’entra il caso… era tutto studiato, a tavolino… io con la roncola in mano e Mary, dopo anni, che mi sbuca lì… magari se c’avevo dei fiori, in mano, per dire, magari si sarebbe tornati insieme quel giorno, io e Mary… ma era una roncola quella… più chiaro di così… rotaie come quelle le vedrebbe anche un cieco… erano le mie rotaie”).
“Il destino – scrive Baricco – dà appuntamenti strani”. E i personaggi di “Castelli di rabbia” e di “Oceano mare” si consegnano ad esso senza dilemmi, con dignità e con la consapevolezza – tragica appunto – che “non si bara con il destino”. E’ proprio questa coscienza a rendere il signor Rail la figura più simile all’eroe di Camus. Egli appartiene a quella schiera di persone che l’autore definisce “in tutto e per tutto assolutamente geniali ma anche, in tutto e per tutto, assolutamente fallimentari”, pronte a mettere in gioco l’intera loro esistenza, fino alle estreme conseguenze, per inseguire i propri desideri, come i bambini corrono dietro ai loro aquiloni nel cielo. “E’ un po’ come fare tante bocce di cristallo… - gli confida, in punto di morte il vecchio Andersson – prima o poi te ne scoppia qualcuna… e a te chissà quante te ne sono già scoppiate, e quante te ne scoppieranno”.
Elisabeth è la folle boccia di cristallo che il signor Rail, contro il ferreo buon senso di coloro che girano con le loro tristi biglie infrangibili in tasca, si sforza testardamente di costruire, senz’altro scopo che quello di poter vedere il mondo correre davanti ai suoi occhi a una velocità mai vista prima d’allora. Guardare il mondo, le cose, la realtà, da una prospettiva diversa da quella degli uomini normali, allontanarsi definitivamente da ogni forma di conformismo e di chiusura al nuovo, non lasciarsi condizionare da schemi mentali precostituiti ed omologanti: è solo per questo che vale la pena di rischiare la propria tranquilla ed agiata esistenza borghese, per conservare e difendere la propria capacità di sognare, a dispetto di tutti gli ingegneri Bonetti di questa terra. Sbagliando a volte, ma sempre vivendo intensamente la vita (“tutte le bocce di cristallo che avrai rotto erano solo vita… non sono quelli gli errori… la vita vera magari è proprio quella che si spacca”), fallendo alla fine, ma senza rimpianti, soltanto con la consapevolezza – questo è importante – della follia di tutto ciò, ma anche della inderogabile necessità di questa follia. Non è per caso che l’alter ego del signor Rail, Hector Horeau, l’architetto del Crystal Palace, pensa che se un giorno dovesse avere un figlio questi nascerebbe sicuramente pazzo.
Quando il signor Rail incontra per la prima volta Jun e decide di portarla con sé a Quinnipak, egli sa che non sarà per sempre, che un giorno lei se ne andrà per portare il suo libro a destinazione. Ma proprio qui risiede la sfida dell’uomo al proprio destino: nel cercare di fermarlo, di fargli trattenere il fiato, di incantarlo, non per sempre – questo è impossibile – ma soltanto per un po’. Il compito dell’uomo – afferma l’incipit di “Oceano mare” – è proprio quello di essere un baluardo, insignificante ma indispensabile, contro il meccanismo inesorabilmente perfetto del mondo. Ed è proprio in quel piccolo spazio vuoto, in quell’esiguo intervallo, in quella dilazione strappata al destino – così come il cavaliere Block nel bergmaniano “Settimo sigillo” riesce a strappare qualche giorno alla Morte – che si realizza la vittoria dell’uomo. Non una vittoria definitiva – certo – ma pur sempre un frammento di vita che permette di poter vivere il proprio sogno. Allora, solo allora, come dice Elisewin, “il destino non è più una catena ma un volo”, e il gesto di consegnarsi al destino “una sensazione meravigliosa… un’emozione”. (“Senza più dilemmi, senza più menzogne. Sapere dove. E raggiungerlo. Qualunque sia, il destino”). Perché, se è vero che alla fine di tutto c’è la sconfitta, quello che conta è il percorso intermedio che si è compiuto, non il punto d’arrivo. Al termine del romanzo, il signor Rail rimane completamente solo ed è costretto a mettere all’asta i propri beni per pagare i creditori, ma intanto ha potuto assaporare qualche attimo di perfezione, come l’amore appassionato di Jun o l’arrivo di Elisabeth a Quinnipak.
La vita per Baricco ha senso proprio in questi interstizi, in questi frammenti di eternità. Come il concerto di San Lorenzo che Pekisch organizza per dare l’addio a Pehnt: “un milione di suoni che scappano impazziti in un’unica musica… non c’è inizio non c’è fine… la commozione dentro il terrore dentro la pace dentro la nostalgia dentro il furore dentro la stanchezza dentro la voglia dentro la fine – aiuto – dov’è finito il tempo? – dov’è sparito il mondo?”. Magari, una volta tornati a casa, i cittadini di Quinnipak non saranno in grado di raccontare ciò a cui hanno assistito, ma in quegli attimi in cui le due bande provenienti dagli estremi opposti del paese si fondono reciprocamente, mescolando la loro strana musica, in quegli attimi si realizza la magia, il miracolo. Il tempo si ferma e l’uomo ha di fronte a sé solo l’infinito: c’è chi gioisce e chi piange, chi perde le sue illusioni e chi addirittura muore. Ma non importa, dal momento che il futuro non esiste, e solo il presente è eterno in quanto destinato a diventare ricordo, memoria, nostalgia anche (come per Pekisch che al senso di irripetibilità dell’evento aggiunge la malinconia del commiato).
L’importante è viverla forte questa vita, ora e per sempre, a costo di bruciarsi con essa. Emblematico è il personaggio di Elisewin, la ragazzina divorata da una terribile malattia, che poi altro non è che una sensibilità d’animo talmente forte da renderla del tutto indifesa e vulnerabile di fronte alla realtà. Ebbene, Elisewin accetta coscientemente il rischio di morire pur di riuscire a guarire e quindi, finalmente, vivere. Davanti al dottor Atterdel la ragazza innalza uno dei più belli inni alla vita che mai ci sia stato dato di ascoltare: “La vita, farei qualsiasi cosa per poter averla, tutta quella che c’è, tanta da impazzirne, non importa, posso anche impazzire ma la vita non voglio perdermela, io la voglio, davvero, dovesse anche fare un male da morire, è vivere che voglio”.
Non c’è in “Oceano mare” quell’aura di struggente malinconia presente in “Castelli di rabbia”, forse perché “Oceano mare” è, se così si può dire, un romanzo di formazione, e alla fine della storia ognuno dei sei personaggi riesce a realizzare un processo di apprendimento che lo rende in qualche modo migliore di prima. Eppure la filosofia che lo sottende è la stessa. La notte d’amore tra Elisewin e Adams (“e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore – tristezza, forse – persino tristezza – desiderio”) è infatti anch’essa la realizzazione di un sogno, al tempo stesso immortale e destinato a svanire subito.
Ma, come ho già detto, ciò che veramente ha importanza è rincorrerlo, questo sogno, accarezzarlo per qualche istante d’eternità, affacciarsi con infantile disponibilità al cospetto dell’infinito. E com’è? Il mare, com’è?” – chiede Padre Pluche a Elisewin -. “Bellissimo”. “E poi?”. “A un certo punto finisce”. Analogamente, in un ideale quanto anacronistico rimando, Hector Horeau afferma: “Penso che quando sarà tutto costruito e l’ultimo operaio avrà finito l’ultimo ritocco… lì, quel giorno, io sarò arrivato alla fine del mio cammino. Dopo… tutto quello che accadrà dopo… non conterà più niente. Ecco, in Elisewin, in Horeau, in Pekisch si realizza luminosamente l’unica, grande aspirazione della piccola umanità baricchiana: la perfezione dell’attimo.
Questi miseri Ulissi che cercano di varcare le loro personalissime colonne d’Ercole, questi bizzarri Prometei che si prodigano in sfide troppo più grandi di loro, questi Baroni di Munchausen alfieri di una pseudo-scienza da bric-à-brac, vivono tutti, a modo loro, lucrezianamente, all’insegna del carpe diem. Anche se nel loro mondo (che è poi, superato lo scarto fantastico dovuto all’invenzione letteraria, il nostro mondo) i valori non sono più così definiti e decifrabili. Baricco infatti rovescia l’ordine razionale e scientifico dell’universo: come nel caso del concerto di Pekisch, l’adesso e l’infinito sono fusi indissolubilmente insieme, l’infinitesimale e l’incommensurabile appartengono allo stesso ordine di grandezza. Con una sola, fondamentale, provocatoria differenza: se l’oceano (la natura, l’universo) ad un certo punto finisce, come sembra voler dimostrare Bartleboom con la sua curiosa “Enciclopedia dei limiti”, è nell’uomo, “il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo” del mondo, che si cela il vero infinito. Nell’uomo e nei suoi desideri. “Uno si aspetta che siano altre cose a salvare la gente – dice Ann Deverià a Elisewin -: il dovere, l’onestà, essere buoni, essere giusti. No. Sono i desideri che salvano. Sono l’unica cosa vera”. E i desideri sono infiniti, inesauribili, tanto che “la vita stessa non è abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce a immaginarsi il desiderio”.
Dice ancora Pekisch a Pehnt: “I desideri sono le cose più importanti che abbiamo e non si può prenderli in giro più di tanto. Così, alle volte, vale la pena di non dormire pur di star dietro a un proprio desiderio. Si fa la schifezza e poi la si paga. E solo questo è davvero importante: che quando arriva il momento di pagare uno non pensi a scappare e stia lì, dignitosamente, a pagare”. E i personaggi di Baricco non scappano mai di fronte al destino e dignitosamente, come veri eroi tragici, pagano il loro tributo alla vita: Hector Horeau impazzisce e finisce rinchiuso in un manicomio, Pekisch naufraga nella tempesta di note che scoppia un giorno dentro la sua testa, Elisewin perde per sempre Adams, Adams perde per sempre Elisewin. Alla fine il destino riesce comunque ad avere il sopravvento. Dopo un breve deragliamento, la vita prosegue imperterrita sui suoi binari prestabiliti fin dalla notte dei tempi. Neppure l’amore per la propria donna riesce ad avere la meglio, perché “ognuno ha il suo viaggio, da fare”, e non esiste la salvezza definitiva, anche quando si vorrebbe più di ogni altra cosa al mondo proprio salvarsi.
C’è, a dire il vero, un’altra strada che l’uomo può percorrere: quella di prendere, alla fine di tutto, commiato da sé stessi, consegnare la propria vita al ricordo, ed entrare in un tempo immobile, che non è ancora morte, e al tempo stesso non è più vita. “Quello che sei ti scivola addosso, a poco a poco… Il presente sparisce e tu diventi memoria. Sgusci via da tutto, paure, sentimenti, desideri: li custodisci, come abiti smessi, nell’armadio di una sconosciuta saggezza, e di un’insperata pace… Quel che io sono, è ormai successo: e qui, e ora, vive in me come un passo in un’orma, come un suono in un’eco, e come un enigma nella sua risposta. Non muore, questo no. Scivola dall’altra parte della vita. Con una leggerezza che sembra una danza. E’ un modo di perdere tutto, per tutto trovare”. E’ il destino di Ann Deverià, e della stessa Elisewin, è il rovescio della medaglia dei tanti roghi esistenziali che hanno bruciato i vari Pekisch, Hector Horeau, signor Rail, Adams. E’ il destino, ancora, di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, il quale, di fronte a un mondo troppo bello ma anche troppo grande e smisurato da affrontare per un povero musicista (“Se quella tastiera è infinita, allora / Su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Ti sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio”), decide di scendere, gradino dopo gradino, dalla propria vita, di spogliarsi gradualmente dei propri desideri, incantandoli, immobilizzandoli, per riuscire a disarmare l’infelicità.
La morale, alla fine, è però sempre la stessa: messi di fronte al destino, tutti i personaggi di Baricco si trovano a sperimentare l’infantile capacità di meravigliarsi, come se il loro sguardo, ritornato vergine, si posasse per la prima volta sulle cose. E’ “uno sguardo per cui guardare già è una parola troppo forte – sguardo meraviglioso che è vedere senza chiedersi nulla, vedere e basta – qualcosa come due cose che si toccano – gli occhi e l’immagine – uno sguardo che non prende ma riceve, nel silenzio più assoluto della mente, l’unico sguardo che davvero ci potrebbe salvare – vergine di qualsiasi domanda, ancora non sfregiato dal vizio del sapere – sola innocenza che potrebbe prevenire le ferite delle cose quando da fuori entrano nel cerchio del nostro sentire – vedere – sentire – perché sarebbe nulla di più che un meraviglioso stare davanti, noi e le cose, e negli occhi ricevere il mondo tutto – ricevere – senza domande, perfino senza meraviglia – ricevere – solo – ricevere – negli occhi – il mondo. Così, solamente, sanno vedere gli occhi delle madonne, sotto le arcate delle chiese, l’angelo sceso da cieli d’oro, nell’ora dell’Annunciazione”. Così, alla fine del loro viaggio fluviale, Elisewin e Padre Pluche, guardano l’oceano che si apre davanti ai loro occhi: “Come un incantesimo. Senza neanche un pensiero in testa, un pensiero vero, solo stupore. Meraviglia".
Di questa meraviglia sono depositari i cinque bambini della locanda, provvidenziali genii loci che prendono in custodia le goffe ed incerte vite degli adulti. Essi insegnano loro ad aprire gli occhi sul mondo (Dira che veglia Elisewin nella sua prima notte alla locanda), a guardare là dove sembra non ci sia nulla da guardare (“Cosa ci fai tutto il tempo seduto qua sopra?”. “Guardo”. “Non c’è molto da guardare…”. “Scherzate?”), perfino ad esprimere l’inesprimibile (Plasson che si propone di dipingere il mare). Il campione di questo atteggiamento è Mormy, il ragazzo che ha la rara virtù di riconoscere la vita in quei momenti misconosciuti e trascurati, i quali invece, pur senza darlo a vedere, segnano irrevocabilmente l’animo delle persone, e da questi momenti, in cui la vita “vive più forte del normale”, si fa catturare e ipnotizzare, preda di uno stupore assoluto e senza difese. Proprio a causa di questa meraviglia, in virtù della quale le cose diventano per lui prodigi, incantesimi e visioni, Mormy muore, al contrario di Pehnt che invece le stesse cose impara a catalogare e classificare, rendendole comprensibili e innocue. Pehnt rappresenta la piatta normalità, e difatti Baricco gli assegna una vita tranquilla da assicuratore e buon padre di famiglia, senza tragedie né sorprese di sorta.
Appare evidente che Baricco non nutra per il Pehnt adulto una grande simpatia. Egli sta con coloro che invece hanno scelto di “vivere allo scoperto, sempre sporti sul cornicione delle cose, a cercare l’impossibile, a spiare tutte le scappatoie per sgusciare via dalla realtà”, e che, come Bartleboom, senza comportarsi da eroi, pure “tengono su la baracca”. Ad essi è riservata spesso una fine tristissima: Andersson ed Hector Horeau muoiono tra rantoli ed imprecazioni, Adams finisce impiccato sulla pubblica piazza. Ma Baricco non si commuove mai e narra tutto ciò con una prosa anti-romantica e anti-sentimentale. A lui interessano veramente solo gli attimi di vita che ardono come fiaccole lungo le esistenze dei suoi personaggi. Il resto non conta, perché “dove la vita brucia davvero la morte è un niente”. E come i suonatori della banda sfilano senza fermarsi accanto al cadavere di Ort, così Baricco passa oltre la morte dei suoi eroi, quasi che essa fosse del tutto irrilevante nell’economia del romanzo.
Il fatto è che in Baricco non c’è alcuna idea di trascendenza. Così come il treno per il signor Rail simboleggia il destino (“un proiettile che corre e non sa se ammazzerà qualcuno o finirà nel nulla, ma intanto corre e nella sua corsa è già scritto se finirà a spappolare il cuore di un uomo o a scheggiare un muro qualunque”), allo stesso modo la zattera dell’episodio “Il ventre del mare”, abbandonata al suo destino dalle lance di salvataggio, rappresenta la migliore metafora di un’umanità orfana di Dio e lasciata in balia di se stessa in un universo (l’oceano) praticamente privo di senso. Il vero Dio dei personaggi, l’unico demiurgo che dall’alto della sua onniscienza, governa consapevolmente la loro sorte, è lo stesso scrittore. E non sembri, questa, un’affermazione lapalissiana (ogni libro ha evidentemente il suo autore), dal momento che nei romanzi di Baricco c’è sempre una finzione – se così si può dire – di secondo grado, e al termine della narrazione viene sempre svelato il trucco, ossia il meccanismo della creazione letteraria.
Così come il giudice del “Film rosso” di Kieslowski (ancora lui!) tira i fili dell’intreccio, muove tutte le azioni e i sentimenti, fa incontrare tra loro Auguste e Valentine, allo stesso modo l’uomo della settima stanza e la donna che attraversa l’oceano alla volta dell’America sono gli dei ex machina, gli artefici di quella che si rivela essere semplicemente una invenzione, una storia di pura fantasia. La locanda Almayer e Quinnipak non esistono, e così i vari Charlus Abegg, Marius Jobbard, Pekisch il maestro di musica, Pehnt l’assicuratore, il vecchio Andersson, i treni che portano fino al mare, il palazzo di vetro che finisce incendiato: tutti pretesti che la prosaica realtà fornisce affinché lo scrittore-illusionista compia il miracolo, reinventandoli grazie alla fantasia. In queste favole si realizza l’autentica funzione della letteratura, che è quella di aiutare a vivere meglio, facendo sognare la gente, smussando le asprezze della vita, addolcendo le bestemmie, romanticizzando gli addii, rendendo nobili gli ideali, eterni gli amori e ineluttabili le morti. E soprattutto creando una vera e propria teodicea del destino cui aggrapparsi per vincere lo schifo e la stanchezza di stare al mondo. In questo senso, lo scrittore è una sorta di messia laico, che di fronte all’inesorabilità di ciò che è innalza a mo’ di baluardo l’infinito repertorio di ciò che potrebbe essere. Ovverossia, la fantasia e i sogni contro la realtà.
“Quanto sarebbe bello se, per ogni mare che ci aspetta, ci fosse un fiume, per noi. E qualcuno – un padre, un amore, qualcuno – capace di prenderci per mano e di trovare quel fiume – immaginarlo, inventarlo – e nella sua corrente posarci… Sarebbe dolce, la vita, qualunque vita. E le cose non farebbero male”. Il mare rappresenta evidentemente, per Baricco, la salvezza, il fiume i racconti e le storie. Così come Langlais, che riceve da Elisewin, come un dono, le storie che lei stessa ha assorbito da Adams, parimenti gli uomini hanno un disperato bisogno dell’immaginazione e della fantasia di un narratore per suturare le dolorose ferite dell’esistenza, o semplicemente per prendere un attimo di respiro prima di rituffarsi nel caos del mondo, oppure – perché no? – per sentirsi dire, affettuosamente, che vale la pena vivere, sempre e comunque, magari anche solo per “esserci, quando in quella luce irripetibile che è la luce della sera, inopinatamente, piove. Almeno una volta, esserci”. Perché il miracolo possa compiersi, almeno una volta, anche per noi.
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IO, VAGABONDO CHE SON IO
“Fluidità, mobilità e illusione: questo vuol dire essere civilizzati. I barbari non viaggiano, loro si spostano soltanto con uno scopo o compiono razzie.”
Marc Augé coniò alla fine del secolo scorso un bizzarro neologismo, il “nonluogo”, per designare quegli spazi, come i centri commerciali, le sale d’aspetto e soprattutto gli aeroporti, i quali hanno in comune la prerogativa di non creare relazioni tra la moltitudine di persone che in essi quotidianamente si incrociano. Tali luoghi per l’antropologo francese possiedono una connotazione eminentemente negativa, in quanto sono caratterizzati dall’individualismo, dall’anonimato e dalla provvisorietà. Leggendo “I vagabondi” non sono così sicuro che Olga Tokarczuk condivida fino in fondo la critica della “surmodernità” insita negli studi di Augé. Molte pagine del suo libro sono infatti ambientate proprio negli aeroporti o nelle stazioni della metropolitana, e in questi luoghi, simboli del fascino, per non dire addirittura dell’ossessione, per gli spostamenti e i viaggi, così come nelle impersonali camere d’albergo delle città straniere, la scrittrice polacca si trova perfettamente a proprio agio. Quello della Tokarczuk è una sorta di atipico “invito al viaggio”, inteso non nel senso turistico del termine, bensì in una connotazione esistenziale, wendersiana (mi riferisco a film come “Alice nelle città” o “Nel corso del tempo”), come necessità di muoversi, spostarsi, non mettere radici in nessun posto, in una coazione che non ha come oggetto una meta particolare, una destinazione specifica, ma il movimento stesso, il passaggio cioè da uno stato di inerzia, di stasi a uno stato di continuo cambiamento, gravido di opportunità latenti. In uno dei capitoli più paradigmatici del libro, una adepta di una fantomatica setta di nomadi espone con queste parole la sua filosofia di vita: “Dondola, continua, muoviti. E’ l’unico modo che hai di sfuggirgli. Colui che governa il mondo non ha potere sul movimento e sa che il nostro corpo in movimento è sacro, solo allora potrai sfuggirgli, una volta che sarai partita. Lui regna su ciò che è immobile e congelato, su ciò che è passivo e inerte. […] Perché tutto ciò che ha un posto fisso su questa terra, ogni nazione, chiesa, governo umano, tutto ciò che ha conservato una forma in questo inferno si mette al suo servizio. Come tutto ciò che è definito, che va da qui a là, che rientra in uno schema, che è inscritto in un registro, numerato, evidenziato, sottoposto a giuramento; tutto ciò che è raccolto, messo in vista, etichettato. Tutto ciò che blocca: case, poltrone, letti, famiglie […] Cresci i tuoi figli, dal momento che li hai partoriti inavvertitamente, e poi parti; seppellisci i genitori, che ti hanno imprudentemente chiamato a esistere, e vai. […] Beato è colui che parte.” La narratrice ricorda un episodio della sua infanzia, quando si era trovata per la prima volta davanti al fiume Oder e, di fronte allo spettacolo di questo gigantesco nastro mobile che scorreva oltre la cornice, fuori del mondo, aveva desiderato di trasformarsi da grande in una delle barche che vedeva navigare sotto i suoi occhi affascinati. Consequenzialmente alla sua fantasia infantile, la Tokarczuk ha scritto un libro che celebra in ogni sua pagina l’instabilità, la precarietà, l’imprevedibilità, fedele all’idea che “è sempre meglio ciò che è in movimento rispetto a ciò che sta fermo”, che “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”. Si snoda così in caotica successione una serie di frenetici e irrequieti spostamenti della protagonista alla volta di luoghi di cui a volte non viene citato neppure il nome. Non sono affatto reportage di viaggio, niente che possa un giorno rientrare in una guida turistica, dal momento che “descrivere significa distruggere”. Le stesse mappe che fanno capolino di quando in quando tra le pagine del libro sembrano piuttosto degli enigmi che degli strumenti per raccapezzarsi, sembrano costruite più per perdersi che per orientarsi, nella convinzione che la salvezza è forse quella di non riconoscere mai il posto in cui ci si trova, per non affezionarsi e scoraggiare così la tentazione di fermarsi e mettere radici.
Anche i racconti che interrompono le riflessioni e gli aneddoti della voce narrante sono caratterizzati da una simile irrequietezza. La moglie che sparisce misteriosamente col figlioletto nell’isola croata dove è in vacanza col marito (in una sorta di versione contemporanea e prosaica di “Picnic a Hanging Rock”), la madre di famiglia che fugge per qualche giorno dalle responsabilità domestiche per sperimentare l’inusuale e inaspettatamente consolante condizione di senza tetto, la figlia del famoso anatomista olandese del Settecento Frederik Ruysch la quale, dopo la vendita della collezione anatomica del padre allo zar di Russia (con quei feti conservati nei barattoli che erano diventati per lei come dei figli), sogna di travestirsi da uomo per imbarcarsi come marinaio e partire alla volta di mari lontani, la sorella di Chopin che porta da Parigi, nascosto sotto la gonna, il cuore del fratello per seppellirlo nella natia Polonia, sono tutti personaggi che, nell’arco di poche, memorabili pagine, esprimono un sottile e misterioso male di vivere, una sorta di degenerazione, di disintegrazione dell’io che forse solo la partenza verso l’ignoto, il precario, il transitorio può aiutare a guarire.
I viaggi raccontati da Olga Tokarczuk non sono solo quelli fisici, da un luogo a un altro, ma sono anche quelli nella memoria (“con l’età la memoria comincia piano piano ad aprire i propri precipizi olografici, tirandone fuori ogni giorno, uno dopo l’altro come nodi su una corda, e poi ogni ora e ogni minuto […] - è come l’estrazione di scheletri antichi dalla sabbia: all’inizio si vede solo un osso, ma il pennello presto ne scoprirà altri, finché verrà portata alla luce un’intera struttura complessa: giunture e articolazioni che sorreggono il corpo del tempo”) e nella mente (le conferenze sulla psicologia di viaggio organizzate negli aeroporti, che ci fanno conoscere stravaganti e inverosimili specializzazioni come la psicoanalisi topografica e la psicoteologia di viaggio), i viaggi nell’aldilà (quieti e sommessi trapassi, come quello del vecchio professore in crociera nelle isole greche) e, soprattutto, i viaggi all’interno del corpo umano. Quest’ultima è forse la parte più curiosa e avvincente de “I vagabondi”. Partendo dalla similitudine tra il corpo umano e il mondo esterno (“come se si stesse risalendo un fiume alla ricerca della fonte, allo stesso modo con il bisturi si sale lungo i vasi sanguigni per trovarne l’inizio”), l’autrice, affascinata dall’anatomia al punto da preferire i musei scientifici, e addirittura le cosiddette “stanze delle meraviglie” e le collezioni di curiosità, ai musei artistici, ci parla di imbalsamazioni, di plastinazioni, di soluzioni chimiche per conservare i preparati organici, di lezioni anatomiche che sembrano uscite da un quadro di Rembrandt. Personaggi inventati, come il dottor Blau (che sogna la plastinazione di tutti gli uomini, perché ogni corpo umano merita di sopravvivere), e personaggi realmente esistiti, come il già citato Frederik Ruysch o Philip Verheyen, lo scopritore del tendine d’Achille (il quale, ossessionato dal dolore “fantasma” che lo affligge inspiegabilmente là dove una volta c’era la sua gamba, amputatagli anni prima per un’infezione, si ostina fino alla sua morte a dissezionare il suo arto, alla ricerca di una verità che non troverà mai), sono tra le figure meglio tratteggiate del romanzo.
“I vagabondi” è un testo strano, eterogeneo, difficile da classificare. E’ un libro di viaggi senza geografia, una sorta di spazio mentale in cui contano le persone più dei luoghi (“la meta dei miei pellegrinaggi è sempre un pellegrino”), in cui aneddoti, meditazioni, curiosità si affastellano in modo apparentemente caotico e anarchicheggiante (in linea con la personalità dell’autrice, che per natura si definisce attratta dall’imperfetto, dall’incompleto e dal difettoso). Non si capisce bene se sia più un romanzo, un diario, una autobiografia, una raccolta di racconti o un saggio. Sarebbe probabilmente piaciuto molto a Calvino per la prospettiva anticonvenzionale, fantasiosa e straordinariamente “leggera” con cui tratta i suoi svariati, apparentemente inconciliabili argomenti (dai racconti alla “Mille e una notte” alle scritte sugli assorbenti igienici, dai programmi televisivi notturni visti nella camera di un hotel ai pellegrinaggi per visitare le sante reliquie). Non nascondo che l’approccio per il lettore, stordito dall’eterogeneità e dalla dispersività di questo ponderoso volume, può essere respingente. Eppure, se si ha la pazienza di arrivare alla fine, si scopre che tutto possiede un suo ordine rigoroso, che tutto segue un coerente filo logico. E’ un po’ come quel gioco enigmistico in cui nella pagina vediamo all’inizio un incomprensibile guazzabuglio di puntini numerati, ma quando poi uniamo questi puntini tra loro viene fuori finalmente un disegno intelligibile di cui prima non riuscivamo neppure a sospettare l’esistenza. Proteiforme e poliedrico, fluido e instabile, “I vagabondi” è anche un libro a suo modo necessario, soprattutto in un’epoca come la nostra in cui gli spostamenti di milioni di persone da una parte all’altra del pianeta mettono quotidianamente, disperatamente in discussione il concetto stesso di società e di convivenza civile.
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IL FALANGISTA E IL MILIZIANO
“Soldati di Salamina” è un’opera genialmente strabica, incentrata com’è su due personaggi antitetici, il famoso falangista Sánchez Mazas e l’anonimo miliziano Miralles. La prima parte del romanzo è interamente dedicata a un aneddoto (l’episodio realmente vissuto durante la Guerra Civile spagnola dal poeta e ideologo fascista Rafael Sánchez Mazas, il quale scampò miracolosamente alla fucilazione da parte dei miliziani repubblicani), che Cercas ascolta casualmente in un’intervista e che da quel momento lo ossessiona e non lo abbandona più, fino a spingerlo a documentarsi, a rintracciare testimoni e a scrivere un libro su di esso. Non c’è ovviamente alcun intento revisionistico nel fare di un gerarca fascista l’apparente protagonista del romanzo, in quanto la sua storia è raccontata con una prosa fredda e distaccata, Sánchez Mazas è inchiodato alle sue responsabilità politiche e il giudizio sul regime di Franco è netto e senza ambiguità. Quello che interessa a Cercas è di intrecciare la Storia alle storie, spinto dalla convinzione che “alla fine è sempre stato un plotone di uomini a salvare la civiltà”, e non le grandi ideologie. In questo Cercas non appare distante dalla poetica di uno scrittore come Saramago, anche se nelle sue pagine non si ritrova mai la denuncia polemica e implacabile di quest’ultimo nei confronti della Storia con la esse maiuscola. La biografia di Sánchez Mazas non basta però a realizzare il proposito di Cercas, in quanto al puzzle faticosamente ricomposto attraverso una meticolosa indagine retrospettiva manca ancora un tassello: è un piccolo, casuale miracolo a far scoprire a Cercas, con l’involontaria collaborazione dello scrittore cileno Bolaño, l’esistenza in una remota cittadina francese del soldato che visse - dall’altra sponda, quella repubblicana - l’episodio della fucilazione. Il ritrovamento di Miralles in un triste ospizio per anziani sposta il clima del racconto su un piano di maggiore partecipazione emotiva. E’ evidente che la simpatia di Cercas vada al vecchio e malandato, eppure ancor pieno di dignità, Miralles piuttosto che alla figura retorica di Sánchez Mazas, e il fatto che il primo alla fine del colloquio con l’autore neghi di essere stato lui a graziare il prigioniero falangista dopo averlo scoperto mentre si nascondeva nel bosco non toglie nulla alla grandezza del suo personaggio. In fondo ogni vero atto di eroismo è sempre anonimo, è sempre destinato a rimanere misconosciuto tra le pieghe della storia anziché esaltato dalla logora retorica patriottica, e solo la letteratura ha il potere di riportare magicamente allo scoperto e di rendere eterni, come ha fatto – con una abnegazione che ci piace pensare autentica – Javier Cercas, l’umanità, la fratellanza e lo spirito di sacrificio di piccoli uomini che, senza nessuna speranza di ottenere le ricompense e gli allori che saranno appannaggio di politici e generali, fanno silenziosamente ed “eroicamente” progredire le sorti del mondo.
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L'AMORE PIU' FORTE DEL TEMPO
Gabriel Garcia Marquez è un grande inventore di storie, capace con la sua penna – come un prestigiatore con la sua bacchetta magica – di portare a spasso per decine di pagine l’attenzione del lettore dove vuole lui, magari per poi svelargli sotto il naso che il segreto e il fascino promessi con carismatica abilità erano altrove e che la storia finora narrata era solo una falsa pista, un trucco. Come Hitchcock in “Psycho” aveva sviato il pubblico con la storia della giovane donna in fuga con i soldi del principale, per poi sbarazzarsene improvvisamente (e inopinatamente) con la famosa sequenza dell’assassinio sotto la doccia e iniziare un altro film senza più nessuna attinenza con la mezz’ora precedente, così lo scrittore colombiano ci presenta il dottor Juvenal Urbino come se fosse lui il protagonista del romanzo, descrive minuziosamente la sua vita e il suo ambiente, crea persino le premesse di un possibile intreccio (il suicidio dell’amico scacchista, la scoperta nella lettera di addio di una sua storia d’amore segreto con una donna che, seguendo le volontà del defunto, si reca perfino ad incontrare), per poi farlo morire dopo sessanta pagine senza preavviso alcuno. A questo punto la figura della moglie di Juvenal, Fermina Daza, che sembrava destinata a un ruolo del tutto secondario, sale sul proscenio e diventa la protagonista indiscussa, insieme a Florentino Ariza, di una vicenda di cui non sospettavamo neppure, non diciamo l’esistenza, ma neppure la possibilità romanzesca.
Con questo azzardato salto mortale, in grado di sovvertire le più elementari e canoniche regole narrative, Garcia Marquez getta il lettore in medias res, nel bel mezzo di un melodramma che, raccontato in estrema sintesi con le parole dell’autore, “è la storia di un uomo e di una donna che si amano disperatamente ma non possono sposarsi a venti anni perché sono troppo giovani, e non possono farlo a ottanta perché sono troppo vecchi”. Dalla platonica passione adolescenziale di Fermina Daza e Florentino Ariza, fatta di sguardi furtivi alla messa della Cattedrale, di serenate notturne e di bigliettini nascosti nei posti più disparati della città, e troncata, piuttosto che dalla feroce ostilità del padre della ragazza, dall’improvvisa scoperta di lei che non di amore si trattava ma di una sorta di compassione sublimata fino all’autoinganno, per giungere al sospirato coronamento senile di un sentimento portato avanti dal protagonista con stoica e persino masochistica ostinazione, e mai lasciato sopire nonostante le scarse probabilità di successo, il lettore deve percorrere più di mezzo secolo in cui le vite parallele di Fermina e Florentino, sposata con un medico ricco e famoso la prima, single per vocazione con uno sterminato numero di amanti il secondo, si sfiorano, talvolta si incrociano per brevi attimi, altre volte rischiano di perdersi, ma sempre ritornano a viaggiare, sia pure quasi l’una all’insaputa dell’altra, come i due binari di un treno. Questo lunghissimo (anche in termini di pagine) tragitto romanzesco comportava il rischio di smarrire per strada la straordinaria forza di concentrazione insita nella maniacale e quasi religiosa devozione pluridecennale di Florentino per la sua dama, oltre a quello di cadere facilmente nel feuilleton. Ma la grande sapienza narrativa di Garcia Marquez riesce sempre a districarsi tra le numerose insidie di questa storia da romanzo rosa. Persino la descrizione apparentemente indifferenziata delle numerose amanti di Florentino Ariza (che poteva trasformare buona parte del romanzo in una serie di episodi e di aneddoti a se stanti) viene trattata con una inesauribile fantasia che non porta mai lo scrittore colombiano a ripetersi (un po’ come il Truffaut de “L’uomo che amava le donne”), e anzi risulta funzionale a mettere in ancor maggiore evidenza la persistenza nel tempo, a dispetto di ogni altra attrattiva della vita, del sublime sentimento del protagonista, oltre a rivelare al lettore la sorprendente varietà in cui si declina l’amore nella vita degli uomini. Ma nonostante che “L’amore al tempo del colera” sia a tutti gli effetti un romanzo sull’amore, esso non può essere definito un libro romantico, al contrario. Pur nelle infinite sfaccettature con cui Garcia Marquez descrive l’amore carnale da cacciatore notturno di Florentino, l’amore coniugale da borghese soddisfatta di Fermina o quello segreto e platonico di lui per lei, non appare mai in nessuna delle pagine del romanzo l’amore perfetto, capace di resistere all’eternità, giacché anche la realizzazione tardiva del sogno d’amore di Florentino Ariza, dopo oltre cinquanta anni di attesa, ha più a che vedere con una volontà ed una caparbietà di ferro piuttosto che con un sentimento moralmente sublime. Infatti “nulla a questo mondo era più difficile dell’amore”, e litigi, incomprensioni, delusioni, tradimenti e rotture abbondano nel romanzo, pur lasciando sostanzialmente inalterato il giudizio positivo, ancorché realisticamente critico, della vita a due. Se a questo si aggiunge il gusto di Garcia Marquez di demistificare i momenti più “alti” della vicenda con la comica inopportunità di defecazioni di uccelli, attacchi di diarrea e impotenze virili, si può agevolmente capire come quello di cui “L’amore al tempo del colera” tratta è quanto di più vicino all’amore della porta accanto - quello prosaico di ogni giorno con cui praticamente tutti noi abbiamo a che fare nella vita - si possa pensare. Del resto, i due protagonisti non sono certo delle creature idealizzate create per provocare nel lettore delle facili identificazioni. Fermina Daza infatti è sì una donna affascinante e sensuale, ma è altresì altera, orgogliosa, volubile, facilmente preda della rabbia e perfino razzista (quando scopre che il marito la tradisce, ciò che le fa più male è che lo abbia fatto con una donna di colore). Dal canto suo, Florentino Ariza è un uomo antiquato, maniacalmente dedito alla forma e all’esteriorità (vedi i patetici tentativi di contrastare l’alopecia), affamato d’amore ma restio a concederlo, e in ultimo addirittura pedofilo (il rapporto erotico con la sua pupilla quindicenne). Quando poi l’amore tra i due viene infine consumato, lo scrittore non sorvola affatto sui più minuti particolari della decadenza fisica dei loro corpi, quasi a togliere anche l’ultima parvenza di sublimazione erotica. Ciononostante “L’amore ai tempi del colera” resta una delle più credibili, appassionate e affettuose trattazioni sulla fenomenologia amorosa che mi sia mai capitato di leggere, e credo che in questo giudizio non sia estranea la stupenda cornice ambientale (la pigra, sonnacchiosa e decadente città di Cartagena, soprattutto) creata da quel grande scrittore che è Garcia Marquez, cui non è neppure necessario il ricorso al realismo magico di “Cent’anni di solitudine” per fare sognare ad occhi aperti il lettore.
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TRE LETTURE DI UN PICCOLO CAPOLAVORO
Attenzione: Questa non è una vera e propria recensione, bensì una sorta di saggio con cui ho provato a spiegare i tanti misteri della storia, analizzando la trama, un po' come un detective, fin nei minimi dettagli. Ne consiglio pertanto la lettura solo a chi già conosce il racconto.
“Ci sono degli abissi, degli abissi!.. Non so più che cosa non vedo, che cosa non mi fa paura!”
“Nessuno finora, all’infuori di me, ne ha mai udito nulla. E’ semplicemente troppo orribile. E’ al di là di ogni immaginazione”. Con queste parole, rivolte a un piccolo gruppo di ascoltatori riuniti attorno al focolare di una vecchia casa, ovviamente di notte come nella miglior tradizione delle ghost stories, il personaggio cui James dà il nome di Douglas si accinge a raccontare la vicenda racchiusa nel manoscritto di una donna morta vent’anni addietro. La cosa che salta subito agli occhi è il gran numero di piani di narrazione stratificati nel racconto: c’è Henry James, lo scrittore, c’è l’anonimo personaggio che dice “io” e che fa parte del ristretto uditorio della storia, c’è Douglas, il narratore, e c’è la donna autrice del manoscritto, che ha vissuto in prima persona gli avvenimenti descritti. E’ difficile rimuovere l’impressione che questi differenti livelli di enunciazione siano altrettante cortine fumogene che James innalza per rendere più fitto il mistero di questo agghiacciante racconto e impenetrabile il suo autentico messaggio. Non è questo l’unico motivo che mi fa propendere per la tesi di una ambiguità consapevole e metodicamente voluta: nel “Giro di vite”, infatti, gli avvenimenti rimangono quasi sempre sospesi, non definiti, incapaci di connotarsi con gli attributi della quotidianità e di svelare fino in fondo il proprio significato. L’astrazione prevale sulla concretezza, l’illusione sulla realtà, e le stesse parole di James, nella loro ridondanza stilistica, sembrano portare non già ad una rivelazione bensì ad un ispessimento del mistero. La presenza costante di questi filtri mistificatori, se da una parte contribuisce indubbiamente ad aumentare in maniera irresistibile il fascino del racconto, dall’altra ne ingigantisce le difficoltà di lettura, rendendolo, pur nella sua brevità, un’opera ostica e impegnativa da affrontare. “Il giro di vite” è, in altre parole, uno di quei libri che richiedono, quasi obbligatoriamente, più di una lettura per poter andare al di là di una prima impressione riduttiva e insoddisfacente.
LA PRIMA LETTURA, OVVERO LA LETTURA INGENUA
L’autrice del manoscritto era stata in vita una stimata istitutrice, “piena di fascino, ricca di acume e di simpatia”, come la ricorda Douglas, che ha avuto modo di conoscerla molti anni avanti. Nel corso del prologo, Douglas racconta come, all’inizio della sua carriera di insegnante, la giovane istitutrice avesse risposto all’annuncio di un affascinante gentiluomo, il quale le aveva offerto di curare, in una piccola dimora di campagna, l’educazione dei suoi piccoli nipoti, Miles e Flora, rimasti orfani di entrambi i genitori. Nonostante la stranezza della proposta (lo zio aveva posto come condizione imprescindibile che l’istitutrice non lo avrebbe mai, per nessun motivo, dovuto disturbare), la ragazza aveva accettato, probabilmente ammaliata da quell’attraente e gentile scapolo, che le aveva presentato tutto come una specie di favore, una grazia per la quale le sarebbe stato per sempre obbligato.
E’ a questo punto, con il viaggio verso la tenuta di Bly, che si apre lo sbiadito manoscritto e la parola passa definitivamente alla governante. Ella si presenta subito in preda ad uno stato d’animo di angosciosa inquietudine, come se si rendesse conto di avere commesso un errore fatale o temesse di andare incontro a qualcosa di insicuro. L’impatto con Bly è comunque tale da dissipare ogni incertezza: lo splendido scenario della villa e del giardino, l’amabilità e la schiettezza della responsabile della casa, la signora Grose, e soprattutto l’incantevole fascino della piccola Flora trasformano in men che non si dica l’abbattimento iniziale dell’istitutrice in euforica esaltazione. La seconda sera avviene però, del tutto inatteso, il primo di una lunga serie di avvenimenti che, in capo a poche settimane, trasformeranno il soggiorno a Bly dell’istitutrice in un incubo terrificante: l’arrivo di una lettera con la quale il direttore del collegio in cui da tre mesi è ospitato Miles comunica, senza fornire alcuna spiegazione, la volontà di rimandare il bambino a casa. E’ questo un fatto che si rivelerà fondamentale nell’economia del racconto, al di là del comprensibile sconcerto che la notizia getta istantaneamente nella casa: Miles infatti si rivela un bambino tenero, delicato, affettuoso, permeato della stessa luminosa purezza che contraddistingue la sorellina. Come può una così angelica creatura essere stata espulsa ignominiosamente da scuola? Cosa può aver mai fatto di male un essere che è l’emblema stesso dell’innocenza? La prima reazione dell’istitutrice è quella di ribellarsi, indignata, alla crudele e misteriosa accusa, trovandola assurda e persino grottesca. Ma un tarlo si è intanto subdolamente insinuato nella sua mente, un dubbio che con il passare dei giorni aumenta sempre più fino a diventare un’ossessione: ella sente che qualcosa le è stato nascosto, che un enigma si cela nell’apparentemente idilliaco universo di Bly, e con l’ostinazione e l’aggressività proprie di un investigatore si mette alla ricerca di un qualsiasi indizio che possa confermarla nella propria impressione. La traccia viene scoperta nei silenzi e nei sottintesi della signora Grose, l’unica possibile interlocutrice della governante a Bly.
“Per tutto il resto di quel giorno, andai nondimeno in cerca di altre occasioni per avvicinare la mia collega, specialmente quando, verso sera, cominciai a sospettare che volesse evitarmi. La raggiunsi, ricordo, sulla scala, scendemmo insieme i gradini e giunte in fondo la trattenni, prendendola per un braccio: «Da quello che mi avete detto questa mattina, devo concludere che voi non l’avete mai visto comportarsi male».
Gettò indietro la testa; era chiaro che nel frattempo e con molta lealtà, aveva deciso l’atteggiamento da prendere. «Oh, mai visto!.. Non voglio dir questo!».
Ero turbata, di nuovo: «Allora lo avete visto…».
«Ma sì, signorina, grazie al cielo!».
Dovetti riflettere su quella risposta prima di accettarla: «Volete dire che un ragazzo che non è mai …».
«Non è un ragazzo, per me».”
Il giorno dopo, l’istitutrice torna alla carica, affrontando l’argomento della precedente governante di Bly.
“«Che tipo era la signorina che stava qui prima?».
«L’ultima istitutrice? Era anche lei giovane e carina… giovane e graziosa quasi quanto voi, signorina».
«Ah, allora spero che la giovinezza e la bellezza le siano state d’aiuto! – ricordo d’aver detto con impeto. – Sembra che ci preferisca giovani e belle!».
«Oh, è proprio così! – confermò la signora Grose. – Era quello che cercava in tutte!». Aveva appena pronunciato queste parole che volle correggersi: «Dico che questo è il suo gusto, il gusto del padrone».
Rimasi di stucco: «Ma di chi parlavate prima?».
Si sforzò di apparire disinvolta, ma arrossì: «Di chi, dunque?! Di lui».
«Del padrone?».
«E di chi altro?».”
Quando poi la conversazione scivola sulla misteriosa morte dell’istitutrice che l’ha preceduta, la signora Grose si dimostra stranamente concisa, fuggendo alla fine frettolosamente verso le sue faccende domestiche. Non deve però sembrare che questi imbarazzi e queste reticenze scalfiscano la buona fede della signora Grose: è comprensibile che, di fronte a un nuovo arrivato, ella cerchi di nascondere, magari del tutto inconsciamente, i segreti più vergognosi o compromettenti del passato. Il suo codice morale e la sua posizione le impongono infatti di adoperarsi in tutti i modi per evitare scandali o pettegolezzi, e questo atteggiamento ella adotta, senza malizia o mistificazioni, anche nei confronti dell’istitutrice.
In questo singolare frangente psicologico, nel quale tutto sommato la seduzione esercitata dai due meravigliosi piccoli allievi prevale nettamente su ogni altra considerazione, irrompe la prima apparizione. Nel tardo pomeriggio, nel corso di una delle sue consuete passeggiate nel parco, l’istitutrice vede improvvisamente di fronte a se, sulla cima della vecchia torre merlata della casa, una figura di uomo che la osserva con aria insolente e sfrontata. Il terrore provocato dalla visione, tanto più grande in quanto non le riesce di spiegarla razionalmente se non attraverso il ricorso a un’improbabile intrusione di un estraneo, induce l’istitutrice a risparmiare la signora Grose, tacendole l’accaduto. Ma quando, qualche giorno dopo, la stessa persona riappare nell’atto di guardare, dalla parte esterna della finestra, dentro la sala da pranzo, questi scrupoli scompaiono completamente e la governante, sconvolta, decide di confidarsi con l’anziana compagna. Nel lungo dialogo tra le due donne, la giovane descrive con abbondanza di particolari la figura apparsale, ricevendone in cambio la più sorprendente delle risposte.
“«Allora lo conoscete davvero?»
Esitò, ma soltanto un attimo. «Quint!» esclamò.
«Quint?».
«Peter Quint… il suo domestico personale, il suo cameriere quando lui stava qui!». (…)
«E che ne è stato di lui?».
Tardò tanto a rispondermi, che mi sentii ancor più avviluppata. «Se n’è andato anche lui» sbottò alla fine.
«Andato dove?».
Un’espressione indicibile, a questa mia domanda, le si dipinse sul viso. «Dio sa dove! E’ morto».
«Morto?» quasi gridai.
La signora Grose sembrò chiamare a raccolta tutte le sue forze, piantandosi più saldamente al suolo per esprimere l’arcano di quel fatto: «Sì. Il signor Quint è morto»”
L’angosciante scoperta che l’uomo intravisto sulla torre prima e affacciato alla finestra poi sia nientemeno che un fantasma si accompagna alla precisa sensazione che esso sia venuto per cercare il piccolo Miles. Questa impressione è antecedente al colloquio con la signora Grose, ma è indubbio che la conoscenza dei particolari della vita di Quint, sinistra figura di domestico che “si prendeva troppe libertà” con i bambini, rafforza l’istitutrice nella sua orribile convinzione. La necessità di salvaguardare i bambini dalle malefiche influenze di un corrotto abitante del regno dei morti diventa in breve lo scopo stesso della vita dell’istitutrice. In questa dimostrazione di eroismo e di spirito di sacrificio (“Io ero uno schermo… e dovevo stare davanti a loro. Quanto più avessi veduto io, tanto meno avrebbero visto loro”), la giovane riesce a provare persino brividi di autentica felicità: ella si sente investita di una santa missione, come un paladino chiamato a proteggere e a difendere le forze del Bene dall’attacco congiunto degli spiriti del Male.
E’ impressionante la capacità di James di far progredire lentamente l’orrore fino a livelli di autentico parossismo, aggiungendo sempre nuovi e inquietanti elementi allo spaventoso quadro fino a quel momento realizzato. L’ulteriore giro di vite della storia è costituito dalla spettrale apparizione della precedente governante, la signorina Jessel, sulla sponda opposta dello stagno dove l’istitutrice si è recata insieme a Flora. La cosa più mostruosa di questa inattesa apparizione non è data tanto dalla comparsa del secondo fantasma (questa volta a rivelare la sua identità non è la signora Grose, ma è la stessa istitutrice a pervenire autonomamente a questa conclusione) quanto dalla presa di coscienza che i bambini “sanno”, pur senza volerlo dare a vedere.
“Era un peccato che dovessi di nuovo farfugliare le ragioni per cui non avevo dubitato neppure per un attimo, e con mia grande delusione, che la bambina vedesse la nostra visitatrice proprio come io in quel momento vedevo la signora Grose, e che la bambina desiderasse, pur avendo una visione di quel genere, farmi credere che non vedeva nulla, ed allo stesso tempo, senza scoprirsi, cercare d’indovinare se io avessi veduto qualcosa! Era un peccato che dovessi descrivere ancora una volta le piccole, portentose astuzie con le quali aveva cercato di distogliere la mia attenzione… il percettibilissimo accrescersi della sua vivacità, il maggior fervore nel gioco, il canto, il chiacchiericcio senza senso e l’invito a ruzzare”.
I due bambini appaiono per la prima volta non più come candidi angeli ma come astutissimi demoni, in grado di dissimulare alla perfezione le proprie emozioni. Ciò che fa rabbrividire di più in questa constatazione è la percezione del pericolo che l’infanzia corre nel trovarsi esposta, senza difese, di fronte al male e alla corruzione di cui il mondo adulto è impregnato. In questo senso, Miles e Flora non sono solo i simboli astratti del conflitto tra Bene e Male, ma i rappresentanti di una condizione umana immacolata e innocente, minacciata dal contagio della perversione morale. Aver detto che i bambini del “Giro di vite” sono creature diaboliche non significa pertanto sancire la natura perversa del fanciullo, come potrebbe sembrare ad una prima frettolosa analisi, ma solo riconoscere che essi, nella fattispecie narrata, sono stati costretti ad abbassare le armi di fronte al potere della depravazione e dell’immoralità (“Non li posso né salvare né proteggere! E’ assai peggio di quanto immaginassi… sono perduti!”).
Venuta finalmente a conoscenza dalla signora Grose dei retroscena del torbido rapporto tra Peter Quint e la signorina Jessel e dei particolari (sempre molto sfumati, per la verità) del morboso legame esistito tra Quint e Miles (le lunghe ore trascorse insieme, le bugie del bambino, la sensazione che questi coprisse la relazione tra il domestico e la precettrice), l’istitutrice moltiplica le energie dedicate alla sorveglianza dei bambini. Ma quanto più aumenta l’attenzione loro riservata, tanto più ella intuisce (o crede di intuire) in ogni loro gesto e parola la traccia di qualche complotto ordito ai suoi danni. Ad onta del fatto che questi oscuri segnali, al pari delle apparizioni spettrali, si susseguono senza tregua, la vita a Bly procede in maniera apparentemente tranquilla. Improvvisamente, però, la governante riesce ad acquisire la raccapricciante certezza che i bimbi non sono solo al corrente della presenza dei fantasmi, ma si incontrano regolarmente con essi. Svegliatasi nel cuore della notte, ella si accorge che Flora è uscita dal suo letto e, rannicchiata dietro la tenda della finestra, è assorta a guardare nel giardino. Sicura che la piccola sia faccia a faccia con la stessa apparizione del lago, l’istitutrice esce senza far rumore dalla stanza e si affaccia a un’altra finestra della casa, intenzionata a smascherare quella silenziosa conversazione, ma qui scopre con sgomento che la figura sul prato non è la signorina Jessel, bensì il fratello Miles, il quale a sua volta sta immobile sul prato con lo sguardo fisso sulla cima della torre. Anziché riuscire a far loro ammettere la complice relazione coi due perversi servitori defunti, l’istitutrice è costretta a riconoscere di essere tenuta in pugno dai bambini: la storia dei fantasmi non è cosa di cui poter parlare apertamente senza correre il terribile rischio di venire accusata di instillare colpevolmente nei giovani superstizioni e paure infondate. Di fronte al falso candore di Miles, la governante è costretta a “subire” la disinvolta scusa del ragazzo, addirittura “con un formale riconoscimento da parte mia di tutte le riserve di bontà che aveva dovuto impiegare per permettersi un simile scherzo”. Le conclusioni che l’istitutrice comunica il giorno dopo alla signora Grose non ammettono repliche: la prova evidente che i bambini sono in intima complicità con le due orrende presenze è proprio il loro ostinato silenzio sulla faccenda. La loro dolcezza e bontà non sono altro che ostentazione e inganno. Miles e Flora sono in realtà impregnati di sentimenti cattivi (risuona ancora nelle orecchie della governante la ricattatoria frase di Miles: “Pensate un po’ a quello che potrei fare!”), posseduti come sono da demoni tentatori che, attirandoli negli strani luoghi in cui appaiono, forse vogliono addirittura la loro morte.
Al termine dell’estate, mentre l’istitutrice è incapace di allontanare da sè l’idea crudele che, qualsiasi cosa ella possa vedere (e da molte settimane non vede ormai più nulla), Miles e Flora vedono di più, che cioè gli intrusi siano insistentemente tra loro, percepiti dai due conniventi bambini, scoppia la “rivoluzione”. Una domenica, col suo abituale amabile candore, Miles domanda: “Per favore, mia cara, sapreste dirmi quando mai tornerò in collegio?”, lasciando intendere, dietro a questa innocente frase, di volersi svincolare dalla ferrea tutela della donna. Sconvolta dalla consapevolezza di essere in balia di Miles (e, in particolare, di avergli fatto credere di non voler affrontare la questione dei motivi della sua espulsione dal collegio, a cui si riallacciano in un modo o nell’altro tutti gli altri orrori), l’istitutrice decide di lasciare di nascosto la casa. Ma l’ennesima, e questa volta inaspettata, apparizione dell’orrenda signorina Jessel seduta al tavolo del suo studio, convince la giovane a non rinunciare alla propria missione.
Un paio di capitoli prima, l’istitutrice rivela a quale livello sia giunta ormai la sua ossessione.
“In quei momenti, se non fossi stata trattenuta dalla sola possibilità che il rimedio potesse essere peggiore del male, la mia esaltazione sarebbe liberamente esplosa. «Loro due sono qui, sono qui, piccoli disgraziati, - avrei urlato,- e non potete negarlo ora!».”
La crescente difficoltà dell’istitutrice di trattenersi emerge pericolosamente durante una lunga schermaglia psicologica con Miles, nella stanza da letto di quest’ultimo. Credendo di avvertire qualche segno di cedimento nel suo interlocutore e oscillando tra ansia di sapere e commozione, l’istitutrice va troppo oltre, lasciandosi scappare di bocca l’invocazione: “Voglio soltanto che tu mi aiuti a salvarti!”. In risposta a questo appello “proibito”, la candela si spegne, un soffio di aria gelida entra nella stanza (ma la finestra è rimasta chiusa) e il bambino lancia un urlo acutissimo di terrore, prima di ritornare perfettamente padrone delle proprie emozioni.
Il giorno dopo, mentre la governante, stregata dal fascino miracolosamente intatto di Miles, è assorta nell’ascolto del suo piccolo allievo seduto al pianoforte, Flora scompare. La donna non ha alcun dubbio: l’invito del bambino a suonare per lui era un trucco per tenerla occupata e permettere nel frattempo alla bambina di recarsi al laghetto con la signorina Jessel. Trascinandosi dietro la sempre più confusa signora Grose, l’istitutrice si precipita laggiù, in tempo per avere la conferma dei propri sospetti: Flora è in piedi, sorridente, sull’erba, come se la sua impresa fosse ormai compiuta. L’equilibrio nervoso dell’istitutrice a questa vista crolla di colpo e la coppa, che ella da molte settimane teneva colma sino all’orlo e che aveva rischiato di traboccare la sera prima con Miles, si rovescia con la violenza di un uragano alla domanda: “Dov’è, carina, la signorina Jessel?”. La smorfia di sofferenza che si dipinge sul viso di Flora, l’urlo di terrore della signora Grose e il gemito della governante si susseguono nel giro di pochi secondi e si accavallano alla comparsa, sulla sponda opposta dello stagno, del demone evocato. Lo sguardo attonito della signora Grose, rivolto al punto indicato dall’istitutrice, sembra a tutta prima la prova suprema che anche lei, finalmente, vede. Ma la situazione si capovolge in un istante: gli occhi della signora Grose sono purtroppo sigillati senza speranza e quelli di Flora non si turbano davanti alla visione, ma fissano l’istitutrice con un’espressione terribile di accusa. Il possibile trionfo si tramuta in rovina: Flora e la signora Grose sono ora dolorosamente unite contro di lei, e mentre la vecchia collega trascina via la bambina, il cui viso sembra di colpo orribilmente invecchiato, la governante si lascia andare, riversa a terra, ad una selvaggia disperazione.
La tragedia sta per consumarsi ma, prima del suo ultimo atto, si ha la sorpresa di assistere a un’inattesa manifestazione di solidarietà da parte della signora Grose. Dopo aver udito Flora pronunciare, nel delirio della febbre, orrende parole nei confronti della sua insegnante, la signora Grose si dice favorevole a portare al più presto la bambina lontano da quei malefici influssi.
“«Allora, a dispetto di quanto è accaduto ieri, voi credete…».
«A quelle cose? – La sua semplice descrizione, alla luce dell’espressione dipinta sul suo viso, non richiedeva ulteriori spiegazioni, e lei aprì il suo cuore come non aveva fatto mai – Ci credo».”
Mentre la signora Grose e Flora lasciano precipitosamente la casa, l’istitutrice cerca di salvare Miles, tentando l’ultimo assalto alla sua reticente volontà. Resasi conto che Miles è indeciso, esitante e nervoso, l’istitutrice ad un tratto capisce che il bambino si sente escluso dal suo canale privilegiato con Quint. Di fronte allo scacco di Miles, l’istitutrice prova un brivido di trionfo e prepara con cura il momento della verità, capendo di avere ormai partita vinta. Ora ella può avere il coraggio di sfidare il sinistro fantasma di Quint, che ricompare per qualche attimo alla finestra, forte della sicurezza che ormai al bambino è definitivamente preclusa qualsiasi visione. La scomparsa dello spettro è il segno del definitivo trionfo dell’istitutrice. Accecata dalla vittoria conseguita, come ubriaca di piacere, la donna imperversa sull’animo esacerbato e sconvolto del bambino, costringendolo impietosamente a rievocare i terribili momenti della sua cacciata da scuola. Ma al culmine di questa tortura, Peter Quint compare ancora: il pericolo di veder crollare la vittoria e il riaccendersi della battaglia scatenano l’irruenza dell’istitutrice.
“«Mai più, mai più!» gridai con voce stridula al mio visitatore, mentre cercavo di stringere il bambino al petto.
«Lei è qui?» domandò Miles con ansia mentre seguiva con i suoi occhi sigillati la direzione delle mie parole. Poi, mentre quello strano “lei” mi sconvolgeva, ed io lo ripetevo con un fil di voce, come un’eco, «la signorina Jessel, la signorina Jessel!» mi gridò con furia improvvisa.
Stupefatta, compresi, ad un tratto, la sua supposizione… come un seguito di quello che avevamo fatto con Flora, ma ciò mi fece soltanto desiderare di mostrargli che si trattava di meglio: «Non è la signorina Jessel! Ma è alla finestra… dritto davanti a noi. E’ là… quel vile orrore, là per l’ultima volta!».
A queste parole, dopo un momento in cui la sua testa imitò il movimento del cane deluso che ha smarrito una traccia, ebbe un moto convulso, quasi cercasse aria e luce; si voltò verso di me in preda ad una rabbia muta, disorientato, guardando invano dappertutto, senza però trovare un segno (sebbene a me la stanza sembrasse impregnata come delle esalazioni d’un veleno) di quella grande, dominatrice presenza. «E’ lui?».
Ero ormai così decisa ad ottenere la prova voluta che, per sfidarlo, mi resi di ghiaccio: «Che vuoi dire con quel “lui”?».
«Peter Quint… demonio maledetto!» - il suo viso rivolgeva ancora, a tutta la stanza, la supplica convulsa. «Dov’è?».
Ho ancora nelle orecchie la resa suprema del nome e il suo omaggio alla mia devozione. «Che cosa t’importa di lui ormai, tesoro?.. che importanza potrà più avere? Io ti ho, - gridai rivolta all’essere immondo, - mentre lui ti ha perduto per sempre!». Poi, per dimostrare che la mia opera era compiuta: «Là, là!» dissi a Miles.”
Ma Miles, gli occhi sbarrati dalla paura, non regge ulteriormente lo spavento e, con l’urlo di una creatura scagliata oltre un abisso, muore tra le braccia della governante.
Mentre il dramma sta avviandosi febbrilmente verso la conclusione, raggiungendo punte quasi insopportabili di tensione, è avvenuto un inaspettato cambiamento di prospettiva: tutt’a un tratto non siamo più così sicuri che i fantasmi di Bly siano effettivamente reali, che i bambini siano creature astute e corrotte, che l’istitutrice sia il valoroso e disinteressato paladino delle forze del Bene. L’ombra di dubbio che ci aveva sfiorato nel corso della isterica scena del lago è diventata un ingombrante e ineludibile sospetto, che mi ha spinto a spiegare la morte di Miles non già in termini soprannaturali (il piccolo cuore del bambino che non regge al fatto di essere “liberato” dal Male, in quanto ormai troppo corrotto per vivere senza di esso), ma come naturale effetto dello spavento. Per la prima volta dall’inizio del racconto, ci si accorge che tutta la storia di fantasmi si basava su una semplice ragione: che l’istitutrice racconta la storia con una convinzione tale da trascinare se stessa ed il lettore nell’orribile incubo. Non si può negare che la narrazione dell’istitutrice proceda sempre in modo chiaro e lineare, e sia sorretta da una logica ferrea e implacabile anche nei momenti in cui ella affronta i fenomeni più strani e anormali. Se a ciò si aggiunge il fatto che il lettore non ha nessun altro elemento su cui fare affidamento che la parola dell’istitutrice, è comprensibile che questi abbia potuto prendere un clamoroso abbaglio, spinto a ciò, non va dimenticato, dalla sovrumana abilità di uno scrittore che usa il sistema della “mistificazione” in maniera sopraffina. Se dunque si cessa di concepire i fantasmi di Bly come spiriti ma li si considera come proiezioni, creazioni di una mente turbata, tutto quanto detto finora finisce per non avere più valore. La prima lettura si è rivelata troppo semplicistica, in quanto ci ha fatto vedere le cose in una prospettiva manifestamente fasulla. Ci troviamo perciò costretti a prendere nuovamente in mano il libro, per tentare di rintracciare, senza ovviamente far violenza al testo, gli elementi nascosti in grado di suffragare le nuove teorie.
LA SECONDA LETTURA, OVVERO LA LETTURA INIZIATICA
La prima questione da affrontare consiste nello stabilire se la governante sia una testimone credibile oppure no, se cioè ella creda a quanto va raccontando oppure sia solo una volgare bugiarda. Il problema, a mio avviso, va risolto in questi termini: i fantasmi sono inconfutabilmente reali per l’istitutrice, la quale quindi crede, o si sforza di credere, alle esperienze soprannaturali vissute a Bly. Una risposta recisamente negativa devo dare invece alla seconda, fondamentale domanda, che solo apparentemente è simile alla prima: è l’istitutrice una testimone attendibile? Vi sono numerosi elementi, psicologici prima ancora che testuali, che depongono a favore di questo mio convincimento. Anzitutto, non bisogna dimenticare che il racconto si svolge, sia pure al di là dell’Atlantico, in piena epoca vittoriana: la giovane protagonista è figlia di un curato di campagna, è appena uscita da un vicariato dell’Hampshire e ha quindi una visione del mondo da parrocchia, con un forte senso del peccato e un rigido atteggiamento moralista. Per lei, educata in maniera presumibilmente repressiva, il soggiorno a Bly coincide con un allentamento delle proprie rigide e puritane regole di vita (“Imparai qualcosa che non avevo appreso nella mia vita modesta e limitata… Era la prima volta, in un certo senso, che mi accorgevo dello spazio e dell’aria e della libertà…”). Fin dalle prime pagine ella si rivela inoltre romantica e sognatrice, con la tendenza a ricamare sulle cose e a romanzarle (“…Bly mi sembrò un castello romantico abitato da un folletto rosa, un luogo che in qualche modo, per piacere a una mente infantile, avesse assunto forma e colori dei libri di racconti e delle fiabe. Non era forse un libro di favole quello su cui mi ero appisolata per sognare? No: era una casa grande, brutta e vecchia, ma confortevole,… in cui fantasticavo che ci fossimo smarriti come un pugno di passeggeri su un grande vascello alla deriva”). Se si aggiungono poi la tendenza a mutare d’animo in maniera alquanto repentina (un alternarsi di turbamenti, sollievi, oppressioni ed euforie caratterizzano, ad esempio, i suoi primi giorni a Bly) e una capacità di immaginazione “terribile”, come lei stessa ammette più volte nel corso del racconto, si può facilmente arrivare alla conclusione che l’istitutrice è costituzionalmente predisposta a caricare fatti, gesti e parole, anche del tutto trascurabili o secondari, di una valenza che supera di gran lunga la loro reale importanza oggettiva. Così, quando fa la conoscenza con la signora Grose, l’istitutrice nota con un pizzico di inquietudine l’evidente sollievo di costei nel vederla (“Mi ero accorta che per quasi mezz’ora la sua felicità nell’incontrarmi… era decisamente controllata perché non trasparisse troppo vistosamente”).
Nel prologo veniamo a conoscenza di un particolare che eserciterà un’influenza determinante nel prosieguo di questa rivisitazione del “Giro di vite”: l’istitutrice si era segretamente innamorata dello zio dei bambini. “Sì, era innamorata – ammette il narratore Douglas – Cioè, lo era stata. Ciò venne fuori… non poteva raccontare la storia senza che venisse fuori”. Sebbene la governante non lo ammetta mai esplicitamente, l’attrazione erotico-sentimentale esercitata su di lei dall’affascinante Master viene effettivamente rivelata in almeno due occasioni, quando confida alla signora Grose di essere stata conquistata a Londra e quando sogna di dimostrare “alla persona giusta” di essere in grado di riuscire là dove molte altre giovani avrebbero fallito. Chiaramente, con la rigida educazione puritana ricevuta in gioventù, è inevitabile che questa innocente passione venga nel subconscio connotata con un senso di peccaminosità. Si ha così una situazione che, caratterizzata da un amore inconsciamente vissuto come “impuro”, prelude a uno stato di vera e propria repressione sessuale.
A questo punto, forti di una conoscenza non più superficiale della protagonista, siamo in grado di interpretare i tragici avvenimenti del racconto in un’ottica completamente diversa. Quando a Bly giunge la lettera proveniente dal direttore del collegio, la fantasia dell’istitutrice si mette subito a lavorare. L’espulsione da scuola di Miles, i lapsus e gli imbarazzi della signora Grose, il mistero della morte della governante che l’ha preceduta, vengono caricati dalla protagonista di connotazioni esageratamente sinistre, cosicché nella sua mente si sviluppa in maniera informe l’idea che a Bly vi sia un orrendo mistero da svelare. Lo scontro tra la repressione degli istinti sessuali da una parte e le morbose inclinazioni dell’immaginazione dall’altra fa sì che il precario equilibrio psichico dell’istitutrice sia destinato a saltare alla prima occasione. L’occasione arriva nella famosa scena della prima apparizione, durante la passeggiata serale nel parco.
“Uno dei pensieri… che erano soliti accompagnarmi in quel mio vagabondare era che sarebbe stato incantevole, degno d’un romanzo affascinante, incontrare improvvisamente qualcuno. Qualcuno che mi apparisse laggiù, alla svolta del sentiero e che – fermo davanti a me – mi sorridesse con l’aria di approvarmi. Non chiedevo niente di più… chiedevo soltanto che sapesse, e il solo modo per esser certa che sapeva, sarebbe stato di leggerlo sul suo bel viso, rischiarato dalla luce di quella consapevolezza. Tutto ciò – intendo dire soprattutto quel volto – era esattamente presente al mio spirito…”.
E’ evidente che in queste fantasticherie l’istitutrice ad altri non pensi se non allo zio di Miles e Flora, oggetto di un silenzioso amore senza speranza. Il fantasma sulla torre merlata sembra quindi essere la materializzazione di una fantasia romantico-sentimentale con sottile piacere evocata. Ma a questo punto, secondo i meccanismi di una personalità contorta, scatta il complesso di colpa. Il senso di peccaminosità di un tale desiderio (con sottile ironia, James fa notare che “c’era una punta d’insolenza nella strana familiarità che dimostrava nel restare senza cappello”) non provoca il dissolvimento dell’apparizione, al contrario la fissa in una posizione antagonistica. Il lungo, reciproco e sfrontato fissarsi della governante e dell’uomo riflette il conflitto interiore tra purezza e perversione. Quest’ultima, inammissibile in una giovane coscienziosa e timorata di Dio, viene, se così si può dire, espulsa, oggettivata in una visione che, da quel momento in poi, vivrà di vita propria.
Che le apparizioni di Bly siano solamente proiezioni allucinatorie dell’istitutrice mi sembra di poter inferire anche da una sorta di insistita autoidentificazione con esse che ricorre più volte nel corso del racconto. Così, quando si verifica la seconda apparizione, l’istitutrice si ritrova affacciata alla stessa finestra attraverso la quale, poco prima, le era comparsa davanti la sinistra figura d’uomo. Ma (questo è molto strano) l’istitutrice non è in grado di precisare la durata degli avvenimenti, come se avesse perduto la nozione del tempo o se una frattura temporale (non saprei come altrimenti definirla) avesse separato i due momenti. Qualche capitolo più avanti troviamo un episodio significativamente analogo.
“Ricordo che nell’atrio, tormentata dalle difficoltà e dagli ostacoli che mi restavano da superare, mi lasciai cadere ai piedi della scala… improvvisamente sfinita, mi sedetti sul gradino più basso; poi con una violenta reazione rammentai che esattamente in quel punto, più di un mese prima, nella tenebra notturna, avevo visto lo spettro della più orribile delle donne, curva sotto il peso della sua malvagità”.
Nella scena immediatamente successiva, con uno speculare ribaltamento delle parti, l’istitutrice trova la signorina Jessel seduta al suo scrittoio, con un’espressione tale da lasciar capire che “il suo diritto di sedersi al mio tavolo valeva il mio di sedersi al suo”. Tornando ancora alla seconda apparizione, non è poi di poco conto il fatto che essa faccia venire alla mente della protagonista il seguente pensiero: “… fu come se lo avessi guardato per anni e lo conoscessi da sempre”.
Uno degli argomenti principali a favore della mia teoria è che nessuno, all’infuori dell’istitutrice, vede mai i fantasmi. Ciò che ci traeva in inganno nella prima lettura era la sicurezza che la governante mostrava, e trasmetteva in seconda battuta al lettore, nel credere che anche i bambini fossero a conoscenza delle apparizioni. In realtà, una più attenta analisi dei fatti evidenzia che non esiste alcuna prova che l’istitutrice abbia ragione. Ma di questo parlerò più avanti. L’ulteriore circostanza che la signora Grose crede fino alla fine a ciò che la giovane protagonista le racconta può essere poi spiegata mediante il ricorso a una semplice considerazione: la vecchia domestica è sì una donna dalle qualità umane eccezionali, ma è anche una sempliciotta, scarsamente istruita e, ciò che più conta, molto superstiziosa; niente di più facile, perciò, che sia stata suggestionata, fino a rimanerne plagiata, dalla sfrenata immaginazione dell’istitutrice. Ben altra capacità di resistenza ad essere piegate in termini psicanalitici offrono, invece, altre parti del racconto, prima fra tutte la scena in cui l’uomo apparso alla governante prende la fisionomia del defunto Peter Quint. Ad effettuare con sicurezza l’identificazione è, come ho già detto, la signora Grose, durante un lungo e sovreccitato scambio di battute con l’istitutrice. A prima vista, il fatto che una pura e semplice allucinazione della protagonista, risultato della sua mente turbata, venga a coincidere con una persona realmente esistita e di cui, per di più, la protagonista stessa non era nemmeno a conoscenza, sembra del tutto inspiegabile. La cosa, in realtà, non si presenta proprio in questi termini: nella prima parte, infatti, ho citato la scena, apparentemente secondaria, in cui l’istitutrice ha l’impressione che la signora Grose parli di altri che non il padrone quando le dice: “Era quello che cercava in tutte!”, correggendosi poi: “Dico che questo è il suo gusto, il gusto del padrone”. Nella memoria dell’istitutrice è probabilmente rimasta una traccia di questa originaria sensazione, inconsciamente legata a qualcosa di sordido e sinistro avente per protagonista un uomo. Dal canto suo, la signora Grose ricorda Peter Quint come una presenza inquietante, se non addirittura persecutoria. E’ logico che ella pensi involontariamente a lui quando, dopo averle confermato che non si tratta di nessuno del posto, l’istitutrice dice del misterioso uomo: “E’ un orrore”. Difatti, l’istitutrice stessa registra, qualche attimo dopo, l’apparire sul volto della compagna, di “un remoto, debole lampo di consapevolezza,… il tardivo spuntare di un’idea che io non le avevo suggerito e mi era completamente oscura”. Quando poi l’istitutrice rivela un particolare assolutamente insignificante, come quello che l’uomo non porta il cappello, è facile accorgersi che il meccanismo dell’identificazione è già scattato. Da quel momento in avanti, si può dire che la signora Grose sia psicologicamente predisposta a riconoscere in qualsiasi descrizione le venga prospettata la figura di Peter Quint. I dettagliati particolari fisici rivelati dall’istitutrice vanno quindi a posarsi sui contorni di una immagine mentalmente già delineata. Non è necessario che la descrizione sia fedele al ritratto, perché la signora Grose ha già deciso dentro di sè che quell’uomo è Peter Quint. Che i dettagli fisici siano superflui lo dimostra il fatto che gli eloquenti barlumi di consapevolezza della signora Grose non compaiono quando l’istitutrice descrive l’apparizione, ma solo dopo che ella rivela particolari non propriamente distintivi, l’ultimo dei quali (l’uomo indossa vestiti eleganti, ma non suoi), mentalmente unito a un altrettanto trascurabile ricordo (Quint aveva rubato alcuni panciotti del signore), dimostra che la signora Grose sta seguendo un suo corso di pensieri ed associazioni. La scena tra l’istitutrice e l’anziana donna assomiglia vagamente a quella in cui una chiromante, basandosi su una insignificante base di verità, ricostruisce la vita della persona che le sta di fronte, la quale, con la predisposizione a immedesimarsi in ciò che le viene detto, aiuta inconsapevolmente l’altra a svelare i propri segreti.
Quando più tardi entra in scena la seconda apparizione, l’istitutrice non ha più bisogno della signora Grose per stabilire che si tratta della signorina Jessel, perché ormai il disegno è chiarissimo nella sua mente. L’ultimo particolare di cui ella ha bisogno per perfezionare la sovrapposizione tra la coppia dei servitori defunti e le proiezioni allucinatorie dei propri complessi di colpa è sapere se Quint e la signorina Jessel erano malvagi. “Allora mi assicurate, è una cosa molto importante, che egli era assolutamente e notoriamente cattivo?”, domanda l’istitutrice nel capitolo successivo alla scena dell’identificazione. La risposta che ella riceve non lascia adito a dubbi: Peter Quint e la signorina Jessel erano “infami”. L’istitutrice non ha bisogno di altre prove; ella vede tutto “con prodigiosa chiarezza”. I due individui, che fin da quando erano in vita avevano cominciato a contaminare Miles e Flora con i loro malefici influssi, sono ritornati ora dal regno dei morti per completare quell’opera di corruzione e riprendersi le loro piccole vittime. Quale “magnifica occasione” per cercare di salvare eroicamente i due bambini dall’attacco delle forze del Male! Nei due piccoli fratelli l’istitutrice riversa evidentemente le proprie ansie di innocenza, traducendo nella lotta contro i due fantasmi il tentativo di recuperare la propria purezza perduta. L’illusione è completa e rifiuta qualsiasi spiegazione logica. Quando la signora Grose, all’istitutrice che le espone le proprie convinzioni, domanda: “Ma come lo sapete?”, ella risponde con un elusivo: “Lo so, lo so, lo so!”, che rifiuta qualsiasi controprova.
L’identificazione dei due bambini con la propria innocenza da difendere è necessariamente gravida di conseguenze. Infatti, l’istitutrice ha inconsciamente provocato la scissione delle due parti della propria personalità, quella “buona” e quella “cattiva”, proiettandole rispettivamente nei bambini e nei servitori perversi. Ma se questi ultimi sono mere allucinazioni dell’istitutrice, i bambini sono invece creature che vivono in maniera autonoma nella realtà e che, ovviamente, non hanno bisogno di essere salvate da alcunché. Come tali, essi continuano a comportarsi in maniera “naturale”, “normale”. Ma la mente irrimediabilmente paranoica della governante percepisce tali comportamenti come “inadeguati” e reagisce ad essi da una parte con un esasperato atteggiamento possessivo (al quale non mi sembra estraneo, soprattutto nei frequenti e insistiti abbracci, un rigurgito di istinti materni repressi) e dall’altra con manifestazioni molto simili alla gelosia più morbosa (la paura dell’insuccesso nella “missione” di salvare i bambini viene vista nell’ottica del tradimento). Questa situazione degenera nel sospetto prima e nella convinzione poi che i bambini sono in relazione con i diabolici fantasmi.
Le argomentazioni avanzate per supportare questa conclusione sono la prova più evidente che l’istitutrice è irretita in una inestricabile trama di allucinazioni. Nei comportamenti più normali dei bambini ella vede ora ipocrisia e dissimulazione, ora astuzia e ironica consapevolezza. Un esempio per tutti: nella scena della prima apparizione della signorina Jessel al lago, ciò che persuade definitivamente l’istitutrice che Flora ha visto tutto e voglia tenerlo nascosto non è altro, come abbiamo già visto, che “il percettibilissimo accrescersi della sua vivacità, il maggior fervore nel gioco, il canto, il chiacchiericcio senza senso e l’invito a ruzzare”, qualcosa cioè che ci meraviglieremmo di non riscontrare in una vivace bambina di otto anni. L’analisi circostanziata del comportamento dei due bambini nell’arco di tutto il racconto non può che definirli assolutamente “normali”, anche in quelle manifestazioni (la curiosità di Miles sul suo futuro scolastico, la fuga in barca di Flora) che per l’istitutrice sono i segni più evidenti di quanto essi siano ormai corrotti. E’ l’istitutrice a far sì che il loro modo di fare sembri sinistro quando invece è l’estrinsecazione di naturalissimi impulsi infantili. Dal canto loro, i bambini tentano in continuazione di adattarsi all’ottica della loro insegnante, secondandola in ogni sua fisima, anche quando non capiscono che cosa ella pretende da loro. L’istitutrice, infatti, non rivela mai i suoi sospetti e, quando lo fa, si comporta in modo così isterico da oltrepassare i limiti della loro comprensione. In questo senso deve sicuramente intendersi la scena del lago in cui l’istitutrice crede di sorprendere Flora in compagnia della signorina Jessel, ma provoca solo la comprensibile crisi di nervi della bambina.
La follia della governante, alla luce di queste considerazioni, è inoppugnabile. Ciò che nella prima lettura ci aveva indotti in errore era il fatto che la storia del “Giro di vite” ci è raccontata in prima persona da colei che di questa follia è la protagonista e che, in quanto tale, non può vederla coi propri occhi, ma solo riflessa, attraverso sentimenti come paura, perplessità e disagio, negli occhi degli altri personaggi. Ad esempio, al termine della scena, più volte richiamata, in cui l’istitutrice ripete alla finestra la spettrale apparizione di qualche minuto prima, facendo spaventare la signora Grose, ella si domanda candidamente: “Mi chiesi perché anche lei si fosse spaventata”. Nel corso del racconto si susseguono poi espressioni del tipo: “sul mio viso si stavano inseguendo prodigiose espressioni, perché le vedevo man mano riflesse sul volto della mia compagna”, “sbatté coraggiosamente le palpebre al significato delle mie parole”, “la signora Grose mi guardò sgomenta”, per non parlare degli intimi turbamenti e dei cenni di imbarazzo di Miles al cospetto della sua insegnante. Solo la semplicioneria dell’anziana signora e l’ingenuità, nient’affatto perversa, dei due bambini fanno sì che queste reazioni si manifestino esclusivamente a livello emozionale, consentendo pertanto all’istitutrice di conservare la propria credibilità fino al termine del racconto.
Un ultimo elemento che ritengo opportuno sottolineare è il seguente: dopo la famosa scena in cui Miles viene trovato in piena notte nel giardino della casa, l’istitutrice si convince di essere tenuta in pugno dei due bambini; ma la scoperta nei bambini degli “inequivocabili” segni della loro subdola scaltrezza è, guarda caso, immediatamente successiva agli ansiosi pensieri che l’istitutrice fa circa la propria delicata posizione di educatrice, esposta al rischio di possibili accuse di superstizione e di oscurantismo. Allo stesso modo, qualche pagina più avanti, l’”insubordinazione” di Miles avviene proprio mentre l’istitutrice si sta domandando come, nel caso in cui il bambino avesse preteso la sua libertà, ella avrebbe potuto tenergli testa: l’istitutrice è cioè portata psicologicamente ad interpretare ogni parola ed ogni gesto dei suoi allievi come un possibile segno di ribellione, quasi aspettandosela con affanno. Ciò che a noi, leggendo il racconto, appare a tutta prima come il progredire di un diabolico complotto, è in realtà il lento e graduale tracollo nervoso della protagonista, la quale, al termine della seconda scena del lago, si abbandona addirittura, senza neppure sapere quello che sta facendo, ad una incontrollabile crisi di isterismo.
Arriviamo così alla tragedia finale, quella che oserei definire una catastrofe annunciata. Gli istinti sessuali dell’istitutrice, per lungo tempo repressi, esplodono con inaudita violenza, e la vittima predestinata è il piccolo Miles.
“…ora sentivo di nuovo… quanto il mio equilibrio dipendesse dalla vittoria della mia ferma volontà, la volontà, cioè, di chiudere gli occhi il più possibile sul fatto che ciò che dovevo affrontare era rivoltante, contro natura. Non potevo resistere se non entrando, per così dire, in confidenza con la “natura” e tenendone conto, e considerando la mia prova mostruosa come una spinta verso una direzione insolita, ovviamente, e sgradevole, ma che dopo tutto non richiedeva, per farvi fronte serenamente, che un altro giro di vite alla comune virtù umana”.
L’istitutrice si convince che, per vincere il Male, deve mettersi sul suo stesso piano, liberandosi per “necessità” di ogni inibizione e remora morale: è una sorta di forzata legittimazione, di anticipata assoluzione dei propri impulsi “oscuri”, dei propri desideri più inconfessabili. Ora che, presa nelle spire di una irreversibile follia, si crede consacrata alla “mistica” impresa di salvare un’anima dal demonio, l’istitutrice è pronta a far violenza all’indifeso bambino. Ciò che segue è un lungo e feroce gioco al massacro, di una inaudita e parossistica crudeltà psicologica. L’istitutrice, che si immagina, insieme a Miles, "come una giovane coppia in viaggio di nozze", abbraccia il bambino con gemiti di felicità, lo bacia sulla fronte, lo stringe fortemente al suo seno. Ora lei è Quint e fa a Miles le stesse cose di cui prima rabbrividiva al pensiero che quest’ultimo le potesse fare a sua insaputa al bambino: ma ormai ella ha dato il giro di vite, e tutto è giustificato. La confessione di Miles non fa che acuire il perverso piacere del proibito, che ella assapora con intensa voluttà, fino ad ubriacarsi di un incestuoso trionfo. L’ultima apparizione di Quint è l’estremo barlume di un senso di colpa che, fin dall’inizio del racconto, l’istitutrice aveva inconsciamente cercato di estraniare, trasformandolo in un elemento conflittuale, capace, per contrasto, di far risaltare la propria personale purezza e l’indispensabilità della propria missione. Ora, nel delirio erotico-sessuale, essa si rivela come un’irresistibile attrazione verso il peccato e la depravazione, non disgiunta da un ossessivo desiderio di possesso. La lotta finale non è che il dissidio interiore tra la colpevolizzazione della purezza e la purificazione dei sensi di colpa. Col grido selvaggio rivolto all’essere immondo: “Io ti ho, mentre lui ti ha perduto per sempre!”, l’istitutrice vampirizza il bambino, lo “possiede” finalmente. Quando Miles pronuncia il nome della signorina Jessel, anziché quello di Peter Quint, ogni possibile ombra di dubbio cade: Miles non ha mai visto nulla, e se pronuncia il nome della antica governante lo fa solo perché lo ha sentito proferire dalla sorella il giorno innanzi. La sua mente sigilla, direi quasi inevitabilmente, la cupa e feroce tragedia della follia: all’orrore dell’infanzia insidiata dai fantasmi corrotti si è sostituito, non meno terrificante, l’orrore dell’infanzia esposta, senza difese, a una immaginazione malvagia.
LA TERZA LETTURA, OVVERO LA LETTURA METAFORICA
Cos’è che mi spinge a tentare una terza lettura del “Giro di vite”? Non certo, lo dico subito, l’intenzione di sconfessare quanto ho sostenuto poc’anzi; piuttosto la sensazione che altri significati, oltre a quello che è emerso nel corso del mio saggio, siano nascosti in questo piccolo libro dall’inesauribile fascino. “Il giro di vite”, nella sua ricchezza di sfumature e nella sua intenzionale ambiguità, è un po’ come un enorme spazio bianco che altro non chiede se non di essere riempito da chi ha la pazienza di soffermarvisi. E’ questa una caratteristica che contraddistingue tutti i grandi capolavori artistici. Ricordo uno stupendo, vecchio film di Ingmar Bergman, intitolato “Il volto”. Il soggetto è una storia, semplice ma non banale, di trucchi e mistificazioni, di scetticismo e ipocrisia. Interpretando i numerosi simboli del film, emerge però, inequivocabilmente, anche il conflitto emblematico tra fantasia e raziocinio, tra spirito e scienza. Ad un terzo livello, infine, esso appare come un’allegoria dell’uomo di spettacolo, esposto alla diffidenza e al sospetto dei “grandi inquisitori” dell’ordine costituito. Qualcosa del genere si riscontra, a mio avviso, anche nel “Giro di vite”. Tutto parte da una considerazione: l’elemento della corruzione si innesta nelle esistenze dei due bambini come un’entità eminentemente verbale, almeno per quanto ci è dato di sapere attraverso gli avvenimenti a disposizione della protagonista: Flora, durante la malattia, dice “cose orrende”, che superano “ogni immaginazione”; Miles è espulso dal collegio per aver “detto certe cose” a quelli che gli piacevano. Per entrambi si tratta quindi di “parole”. Ciò non ci stupisce più di tanto, perché i personaggi di Miles e Flora sembrano appartenere alla magica, eterea e disincarnata sfera dell’arte, la quale è principalmente “parola”. Non credo affatto che siano casuali i numerosi riferimenti, che James dissemina lungo tutto il racconto, alla “teatralità” della vita dei bambini.
“…si divertivano immensamente senza di me: e questo spettacolo, allestito da loro con cura particolare, mi coinvolgeva nella parte di ammiratrice appassionata”.
“Mi spuntavano davanti non soltanto mascherati da tigri o da antichi romani, ma anche da personaggi di Shakespeare, da astronomi e da navigatori”.
“Vivevamo in una nuvola di musica, di amore, di successi e di rappresentazioni teatrali tutte per noi”.
In aggiunta, lo scenario autunnale di Bly appare agli occhi dell’istitutrice “come un teatro dopo lo spettacolo… con i programmi cincischiati sparsi al suolo”. Da questi continui e, ripeto, non casuali rimandi al teatro si può dedurre che i due bambini simboleggiano la condizione dell’artista, il quale, agli occhi della società in cui vive e opera, è innocente e perfido allo stesso tempo. La malsana esposizione di Miles e Flora all’influenza dell’istitutrice è, in quest’ottica, l’esposizione dell’artista e delle sue creazioni all’influsso della critica o ai condizionamenti della censura. Non è difficile trovare nel personaggio dell’istitutrice e in quello del direttore del collegio i rappresentanti, subdolamente condiscendenti o dispoticamente intransigenti, di questa categoria. Se una valenza morale può avere questa identificazione, allora la si può ritrovare, più che in ogni altro luogo, nelle lettere che essi scrivono e che, in un modo o nell’altro, non dicono assolutamente niente. Nel piccolo universo di Bly, la signora Grose rappresenta invece il pubblico, o meglio la parte più ignorante e sprovveduta di esso. Non va dimenticato, infatti, che l’anziana donna “non sa leggere”.
Risalendo al livello di narrazione immediatamente superiore, ricordiamo che nel prologo Douglas racconta la storia a un pubblico che via via si assottiglia, si seleziona. Coloro che rimangono, dopo che le sciocche signore si sono allontanate, rappresentano la cerchia ideale di fruitori dell’opera d’arte, tra i quali si cela il lettore privilegiato, quello intelligente e sofisticato: “Continuò a guardarmi fisso. «Tu lo comprenderai facilmente, - ripeté, - tu lo comprenderai»”. Al livello ancora superiore rimane soltanto lo scrittore, Henry James. Non ci meraviglieremmo più, a questo punto, se scoprissimo che “Il giro di vite”, in fondo, di altro non parla se non di James e della sua arte, e che, attraverso le esche, le trappole e i filtri mistificatori, sparsi un po’ dovunque, l’autore si sia inteso burlare dei suoi critici e di tutti coloro che, come me, si sono appressati o si appresseranno all’esegesi del racconto. Allora è tutto inutile, potrebbe dire, saggiamente, qualcuno, sarebbe stato meglio fermarsi alla prima lettura e, almeno, non rovinare la magia e l’incanto di una storia che, letta ingenuamente, dà ancora i brividi. E se invece tentassimo una quarta lettura? Nell’affascinante e misterioso mondo di Bly potrebbe saltare fuori (perché no?) un delitto e, chi lo sa, alla fine l’assassino potrebbe essere proprio il lettore.
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LA NERA SCHIENA DEL TEMPO
“Domani nella battaglia pensa a me e cada la tua spada senza filo. Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sulla tua anima, che io sia piombo dentro il tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori."
Le citazioni per Javier Marias non sono mai casuali o pretestuose. Quella riportata in apertura, tratta dal “Riccardo III” di Shakespeare (come pure le altre citazioni del libro, dalla scena del film di Laurence Olivier, vista dal protagonista in una notte d'insonnia, in cui i fantasmi visitano il re Riccardo turbandogli il sonno, all'altra pellicola guardata distrattamente senza audio la notte fatale, dall'emblematico titolo di “Ricorda quella notte”), è quintessenziale al tema del romanzo, ovverossia la morte. La morte si presenta, se così si può dire, “in medias res”, fin dalle prime pagine in cui lo sfortunato Victor si vede morire tra le braccia, colta da un improvviso malore, la donna con cui si stava accingendo a trascorrere, approfittando dell'assenza per lavoro del marito, la notte. Di lì in poi è tutto un continuo riflettere del protagonista sull'evento definitivo, da come le morti siano spesso casuali, ridicole e perfino vergognose a come le cose dei morti perdano improvvisamente importanza dopo il loro trapasso, per arrivare infine a quello che è il vero fulcro del romanzo, ossia l'impermanenza. Con la morte “non scompare soltanto chi sono ma anche chi sono stata - pensa Victor, immedesimandosi in Marta, la donna morta -, non soltanto io, ma la mia memoria tutta intera, un tessuto discontinuo e sempre incompiuto e variabile costellato di strappi e allo stesso tempo fabbricato con tanta pazienza e con estrema cura”. Anche se non lo si vuole e si fa di tutto per contrastarlo, tutto tende a sfumare e a dissolversi lentamente, e quel che è peggio è che ciò avviene non soltanto dopo il trapasso, ma addirittura mentre siamo vivi, soggetti all'implacabile, inesorabile opera di distruzione compiuta dal tempo, dai giorni, dalle ore e perfino dai secondi “che sembrano sostenere le cose e in realtà le sopprimono”. Il destino dell'uomo è quello di scomparire, inghiottito dal “rovescio del tempo, la sua nera schiena”, condannato a uno sconfortante senso di irrealtà: “E' intollerabile che le persone che conosciamo si trasformino in passato”. Il pessimismo di Marias è agghiacciante. Se niente rimane, niente dura e niente persiste allora “l'unica soluzione è che tutto finisca e non ci sia niente”. La memoria è come una lapide, in cui alla fine rimangono incisi per sempre soltanto i nomi, le uniche cose che delle persone sono destinate a sopravvivere. E' curioso come Marias compia il tragitto inverso di un altro grande scrittore iberico, José Saramago. Se quest'ultimo, nel romanzo “Tutti i nomi”, riusciva a recuperare l'umanità che si cela dietro ogni anonimo nome, passava cioè dai nomi alle persone, Marias fa l'esatto opposto, passando dalle persone ai nomi.
C'è una qualche soluzione a tutto questo, oppure tutto è destinato a soccombere di fronte al nichilismo più assoluto? Il protagonista Victor, dopo la fatidica notte, non riesce a togliersi dalla mente Marta, nonostante che la conoscesse appena e che fosse riuscito ad eclissarsi dalla sua abitazione senza lasciare tracce della sua visita, libero quindi da ogni colpa e da ogni responsabilità. E' un po' come se fosse caduto vittima di una sorta di impalpabile incantamento (“haunting” lo chiama l'io narrante, quasi ci trovassimo in un “horror movie” pieno di possessioni e di stregonerie). Dopo qualche giorno Victor decide di uscire dall'ombra, partecipa, rimanendo in disparte, ai funerali della donna e inizia a cercare un contatto con i suoi familiari. Non si tratta – si badi bene – di uno scrupolo morale, di un modo per tacitare una coscienza non proprio pulitissima (in fondo ha lasciato nella casa un bimbo di due anni incustodito, senza trovare il coraggio di avvertire qualcuno) e tanto meno di un tentativo di scacciare dalla propria testa l'ossessione che lo perseguita. E' piuttosto un inconscio e tutto sommato improbabile tentativo di contrastare quel processo che ho provato a descrivere più sopra: trasformandosi nel filo segreto che collega la donna morta al suo mondo passato e al suo inespresso futuro, Victor si fa l'involontario medium tra i vivi e i morti, garante della continuità della memoria condannata fatalmente a disgregarsi. Palesandosi di fronte al marito, alla sorella e al padre, raccontando la sua versione della storia, Victor cerca di riempire i buchi neri, di colmare i vuoti e di trasformare in qualche modo una fine assurda e inspiegabile in destino. Questa è l'unica cosa che l'uomo può fare per contrastare il tempo, nella cui morsa “tutto si perde” e che è “sdrucciolevole come la neve compatta”: raccontare e dare il proprio minuscolo, insignificante contributo alla verità, giacché un fatto “ non succede del tutto finché non lo si dice e non lo si sa”. Nella lunga e potente scena conclusiva Victor e Dean (il vedovo), vittime dei loro reciproci incantamenti, non hanno altra soluzione che raccontarsi reciprocamente i loro segreti, nella speranza di rendere più leggero il loro fardello condividendolo con l'altro. Se qualche pagina prima Victor aveva pensato, similmente a Jean-Paul Sartre, che “gli altri non finiscono mai”, nelle frasi conclusive si intravede la flebile possibilità di una condivisione, di una fratellanza nel dolore che forse è l'unica ancora di salvezza contro l'indeterminatezza e la mancanza di senso della vita.
Se raccontare è un'attività così importante (attraverso il racconto un fatto non appartiene più al solo narratore, ma diventa patrimonio comune con l'ascoltatore e con il pubblico in genere), se il linguaggio è in fin dei conti, ben più del contatto fisico, l'unica possibilità per interagire con gli altri e dare una qualche forma di permanenza ai nostri ricordi, si capisce come le parole rivestano un ruolo assolutamente preminente. E' del tutto normale quindi che le parole siano il tratto distintivo di “Domani nella battaglia pensa a me”, sublimate in uno stile del tutto personale e inconfondibile. Se le continue divagazioni, le insistite digressioni possono ricordare Saramago, e l'ambiguità ed enigmaticità della trama (quella Madrid notturna e fantasmatica, dove non è possibile neppure sciogliere il dubbio se la prostituta che si è ingaggiata per un paio d'ore di piacere sia o meno la propria ex moglie Celia) fanno venire in mente il Paul Auster della “Trilogia di New York”, è invece del tutto di Marias il particolarissimo uso delle ripetizioni. Meditazioni e reminiscenze, ma anche frasi di film o drammi teatrali, ritornano ossessivamente in altri momenti del libro, come un refrain, a cucire tra loro eventi diversi, passato e presente, realtà e ricordo, narratore e uditore, per realizzare una potente e sconvolgente riflessione sulla vita e sulla morte, e sugli ineffabili legami che il tempo instaura tra loro. Il linguaggio di Marias è sottilmente simbolico, parla di realtà concrete e circoscritte (un decesso prosaico, una convocazione nella dimora di un importante personaggio, una giornata all'ippodromo), le quali diventano ben presto meri pretesti per parlare di problematiche molto più ampie. Così il mestiere del protagonista, che è un “ghost writer”, rimanda ai fantasmi che assillano la sua esistenza, il dualismo tra la prostituta e la ex moglie al tema pirandelliano dell'indeterminatezza dell'identità (qual è la versione veritiera di ognuno di noi, quale tra le tante spacciate a noi stessi e agli altri nel corso della nostra vita?) e in fin dei conti della verità (solo noi stessi la custodiamo, ma solo fino alla nostra morte, dopodiché non rimane più nulla di veramente attendibile, ammesso che la nostra verità, alterata da segreti, omissioni e bugie, effettivamente lo sia). La stessa trama è ambigua: parte come una specie di giallo, ma diventa strada facendo tutt'altro (romanzo psicologico? romanzo filosofico?). Marias sfugge ad ogni definizione, disattende le normali aspettative del lettore (e per questo può risultare anche abbastanza ostico al primo approccio), ma la sua scrittura colta e problematica sa inoltrarsi come pochi altri fin dentro ai più profondi meandri dell'animo umano, per giungere a raccontare con ineffabile esattezza l'angosciante labilità dell'io.
“E quanto poco rimane di ogni individuo nel tempo inutile come la neve scivolosa, di quanto poco rimane traccia, e di quel poco tanto si tace, e di quello che non si tace si ricorda dopo soltanto una parte minima, e per poco tempo: mentre viaggiamo verso il nostro sfumare lentamente per transitare soltanto alla schiena o al rovescio di quel tempo.”
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COLPA ED ESPIAZIONE
Attenzione: La recensione contiene spoiler
“Come può una scrittrice espiare le proprie colpe quando il suo potere assoluto di decidere dei destini altrui la rende simile a Dio? Non esiste nessuno, nessuna entità superiore a cui possa fare appello, per riconciliarsi, per ottenere il perdono. Non c’è nulla al di fuori di lei. E’ la sua fantasia a sancire i limiti e i termini della storia. Non c’è espiazione per Dio, né per il romanziere, nemmeno se fossero atei. E’ sempre stato un compito impossibile.”
“Espiazione” è un libro-labirinto, una costruzione a scatole cinesi, che si può leggere, in virtù della moltiplicazione dei punti di vista (scrittore reale-McEwan e scrittore immaginario-Briony, personaggi del romanzo del primo e personaggi del fantomatico romanzo del secondo), attraverso vari livelli. Prima di scoprire nell’epilogo che le pagine che abbiamo letto sono la creazione letteraria di Briony Tallis, uno dei personaggi della storia stessa, quest’ultima si sviluppa come un romanzo canonico, sia pur strutturato in tre parti assai diverse l’una dalle altre. Nella prima siamo introdotti in una ammaliante scrittura polifonica, che attraverso le voci dei vari personaggi (Briony appunto, Cecilia, Robbie, Emily) fa procedere la vicenda per cerchi concentrici verso un nucleo di tensioni esplosive e di comportamenti gravidi di conseguenze morali. Questa dinamica è amplificata dalla diversa comprensione che gli attori hanno dei vari accadimenti, che McEwan sfrutta con abilità, mirando “freudianamente” a far emergere l’inconscio sepolto dei personaggi, piuttosto che a sottolineare il ruolo del caso nella loro vita: ad esempio, la scena in cui Cecilia si spoglia per andare a recuperare i due pezzi del vaso rotto finiti nella fontana assume per la piccola Briony che vi ha assistito casualmente dalla finestra una connotazione del tutto diversa; e così il ricordo del giorno in cui Robbie era entrato scalzo a casa dei Tallis è interpretato da Cecilia come una provocazione del ragazzo il quale, tendendo a rimarcare le diverse posizioni sociali, avrebbe inteso mettere a disagio la coetanea, mentre in realtà Robbie si era solo vergognato di avere i calzini bucati. Con questo procedimento teso a cogliere da ogni minimo avvenimento le varie rifrazioni individuali, McEwan è in grado di costruire un piccolo capolavoro di sottigliezza psicologica. Che dire poi della tensione montante, del climax sempre rinviato, della sensazione (amplificata dal caldo asfissiante gravido di inquietudine ma anche di inimmaginabile sensualità) che qualcosa sia lì lì per esplodere, anche se la concatenazione inesorabile degli eventi porta a un esito, nei tempi e nelle modalità, inatteso e sorprendente: l’ingiusta accusa di stupro fatta cadere dalla testimone oculare Briony sulle spalle dell’incolpevole Robbie, che da questo episodio avrà la vita definitivamente cambiata (il carcere e l’ignominia al posto di un radioso futuro da medico)? Tutto quanto converge in questo nucleo drammatico, come il centro di un big bang destinato a fare sentire i suoi effetti nei decenni a venire. McEwan è davvero bravo nel costruire questo thriller psicologico con gli elementi tipici di un dramma borghese, come forse solo Henry James e Virginia Woolf sono stati in grado di fare. Esempio di questo acume e di questa profondità di scrittura è la protagonista Briony, ottimamente caratterizzata fin dalle prime pagine (il suo culto maniacale per l’ordine, la sua passione per i segreti, il suo desiderio di un mondo armonioso e ben organizzato, la sua sensibilità intensa e morbosa, la sua ansia di assumere “un ruolo nel dramma della vita”). La sua testimonianza contro Robbie risponde in effetti a una serie concomitante di fattori caratteristici di una personalità estremamente originale: la volontà di mettere il sigillo a quella che ormai considera la sua storia, la simmetrica e deduttiva evidenza con cui chiude – pur senza riscontri oggettivi – un teorema che lei nella sua testa ha già costruito (ossia che Robbie è un maniaco violento e pericoloso), l’istinto di protezione nei confronti di qualcuno apparentemente più debole di lei (Lola), l’esibizionismo, la voglia di compiacere e non deludere le aspettative degli altri, e – soprattutto – il desiderio prepotente di affermare la propria voglia di maturità.
Nella seconda parte assistiamo a un salto in avanti di cinque anni. Robbie Turner si trova ora in Francia, nel bel mezzo della ritirata dell’esercito britannico verso Dunquerque, ferito e con l’unico scopo di sopravvivere alle incursioni aeree dei tedeschi per raggiungere l’amata Cecilia, l’unica persona che ha creduto alla sua innocenza e che, abbandonando la famiglia e intessendo una paziente e affettuosa relazione epistolare con il protagonista in carcere, ha rappresentato per lui l’unica ragione di vita (anzi “per vivere” come rimarca lei in una lettera). Il clima narrativo è completamente mutato, per le ovvie circostanze ambientali: dalla fine ed elaborata introspezione psicologica della parte precedente si passa a una cruda e oggettiva fenomenologia bellica, in cui c’è a malapena il tempo di registrare gli avvenimenti che si susseguono incalzanti. McEwan ovviamente sfrutta la parentesi bellica per ricostruire gli eventi intercorsi successivamente alla condanna di Robbie per stupro, ma in più sa far trapelare in controluce una profonda riflessione sul concetto di colpa. In uno scenario in cui il male non è più individuale, ma metafisico, ontologico, colpa e innocenza scolorano fin quasi a perdere di senso. Uccidere o lasciar morire annegano in una indifferenza obbligata, resa quasi necessaria per riuscire a sopravvivere all’orrore, e in questo arduo contesto rimanere uomini (risuona qui fatalmente il titolo del famoso romanzo di Primo Levi sui campi di sterminio nazisti) diventa la cosa più ardua.
Nella terza parte del romanzo ritroviamo Briony, ormai diciottenne, anche se inopinatamente ha scelto la carriera di infermiera al posto di quella più ovvia – viste le sue inclinazioni letterarie – di studentessa a Cambridge. Questa scelta, anche se non viene detto esplicitamente, sembra una sorta di punizione che la ragazza si è inflitta per il crimine da lei commesso cinque anni prima. Esso riemerge in continuazione nella sua vita, come dimostra un illuminante episodio occorsole in ospedale: un giovane soldato francese che ha perso la memoria la scambia per una ragazza del suo paese natale, e approfittando di un equivoco linguistico (“sorella” al posto di “caposala”) le chiede se sua sorella è ancora innamorata del ragazzo con cui stava prima della guerra, e alla domanda di come si chiamasse Briony non può fare a meno di rispondere “Robbie”. Anche il romanzo inviato da Briony a una casa editrice verte sull’episodio della fontana da lei intravisto dalla finestra della villa. Nella lettera in cui le viene motivato il rifiuto di pubblicarlo, il redattore – ignorandone l’origine autobiografica, ipotizza che la ragazza del romanzo avrebbe potuto forse intromettersi con conseguenze disastrose nella vita della coppia, e in queste parole, che adombrano senza volerlo una colpevole reticenza, Briony vi legge la propria colpa ingigantita dalla vigliaccheria di non volerla riconoscere esplicitamente come tale. L’espiazione del titolo è perciò il tentativo di ristabilire la verità oggettiva attraverso la ricostruzione meticolosa e fedele, nei fatti, nei tempi e nelle motivazioni psicologiche, di quanto avvenuto nel passato. In questo senso il castigo assomiglia di più a una complessa autoanalisi, a un improbo lavoro di scavo nel subconscio, piuttosto che a una soluzione dostojeskianamente radicale e definitiva.
L’epilogo del romanzo, con un funambolico rovesciamento di prospettive, complica in extremis la comprensione. Innanzitutto veniamo a sapere che l’autore di quanto letto finora è la stessa Briony, ormai alle soglie degli ottanta anni. In secondo luogo che in questo mezzo secolo abbondante Briony ha scritto diverse versioni della stessa storia. In terzo luogo, c’è la sconvolgente ammissione di Briony che Robbie e Cecilia non si sono mai più incontrati (come invece era narrato nella terza parte), ma sono morti nel corso della guerra (Robbie di setticemia, Cecilia vittima dei bombardamenti tedeschi su Londra). Qui si entra in un ambito decisamente meta-letterario, e la conclusione è per più versi sconcertante. L’opera letteraria (che si tratti di romanzo o di diario) può essere sì considerata una forma di ristabilimento della verità, ma non ha la forza di cambiare le cose: Lola e Marshall sopravvivono ricchi e famosi e soprattutto impuniti alle vittime del loro crimine, e il risarcimento concesso a Cecilia e Robbie da Briony (che fa coronare la loro infelice storia d’amore con un commovente happy end) ha il sapore della beffa, soprattutto se si pensa a quanto esso assomiglia, fatte salve le differenze dovute alla maturazione artistica della protagonista nel corso della sua vita, al dolciastro e moraleggiante finale delle “Disavventure di Arabella”, ossia della commedia teatrale scritta dalla tredicenne ragazzina in apertura di romanzo (“Ecco, inizia l’amore, il dolore svanisce”) e allestita a sorpresa sessantaquattro anni dopo dai parenti di Briony accorsi nella vecchia tenuta dei Tallis, adesso trasformata in un hotel di lusso, per festeggiare il suo genetliaco.
Resta in fondo a tutto l’agghiacciante consapevolezza che certi atti possono riverberare i loro effetti per tutto il resto della vita, e che l’intera esistenza non basta neppure per rimediare ai loro guasti. La vita di un uomo allora forse altro non è se non un continuo scandagliare, ricostruire e rielaborare ricordi, in un laborioso e incessante processo di giustificazione che ha come unica sede il tribunale della propria coscienza e come unico obiettivo quello di poter giungere all’appuntamento con la propria morte con un fatidico e liberatorio atto di auto-assoluzione.
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SYMPATHY FOR THE DEVIL
Ricordo che, quando lo lessi per la prima volta – circa venti anni fa – “Il Maestro e Margherita” mi sconcertò e mi irritò non poco. A infastidirmi era la inverosimiglianza di personaggi e situazioni (gatti che parlano, vampiri, streghe che volano nude a cavallo di una scopa), e soprattutto la grottesca e anarcoide cialtroneria (tipo film dei Fratelli Marx, per intenderci) che circonda il personaggio di Satana e del suo entourage. Il fatto è che, imbevuto di letture realistiche, non ero allora preparato a questa fantasmagorica esplosione di surrealismo, e avevo perciò completamente trascurato quello che è forse l’aspetto più importante del libro, e che l’avvicina non poco ai capolavori di un maestro dell’Ottocento come Gogol, vale a dire la satira spietata e senza esclusione di colpi della società russa del secolo scorso, o meglio di quella sua componente privilegiata rappresentata dalla élite di funzionari, intellettuali e soprattutto letterati (qui non escludo che Bulgakov abbia voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa e ripagarsi di torti od umiliazioni subiti da parte dei suoi colleghi) che, nell’asfittico e oppressivo regime comunista dell’epoca, cerca in tutti i modi di garantirsi e di conservare sinecure e privilegi fuori della portata dei comuni cittadini. E così davanti agli occhi del lettore scorrono direttori di teatro, presidenti di commissioni, amministratori di cooperative e altri rappresentanti di un folto e indecifrabile sottobosco di circoli, sezioni e comitati, i quali costituiscono una grottesca umanità, piena di sicumera e di arroganza, avida e pronta a tutto, anche a pratiche illegali come il traffico di valuta estera, pur di assicurarsi un appartamento a Mosca o una dacia a Yalta. L’arrivo di Woland-Satana sovverte e mette a soqquadro questo ambiente, configurandosi quasi come una salutare opera di pulizia e di bonifica di tutto il marcio che alligna sotto la sua superficie apparentemente linda e rispettabile. Il diavolo quindi non sarebbe poi così malvagio bensì, come si legge in esergo, “una parte di quella forza che vuole costantemente il Male e opera costantemente il Bene”. Egli in fondo non fa che titillare le più profonde passioni dell’uomo (in primis, i soldi), quasi rattristato che la grande e tragica malvagità del mondo non alberghi più nei cuori di questi patetici parassiti piccolo borghesi. La citazione del “Faust” riportata più sopra è oltremodo indicativa del fatto che “Il Maestro e Margherita” si pone consapevolmente come una sorta di parodia del poema goethiano, dal quale ricava anche il nome della sua eroina, Margherita.
Il romanzo di Bulgakov si articola in tre côté principali. Il primo, lo si è appena visto, è la narrazione fantastica degli avvenimenti provocati dall’arrivo di Woland a Mosca, del suo spettacolo di magia nera allestito nel teatro cittadino, del suo insediamento nell’appartamento 50 in via Sadovaja, fino al culmine costituito dal Grande Ballo infernale nella notte del plenilunio di primavera. Il secondo è invece la toccante storia d’amore tra Margherita e il Maestro (dietro cui si cela forse l’autore stesso, o comunque una sua proiezione ideale e simbolica utile a riflettere sul ruolo dello scrittore nella società del tempo). Il patto faustiano della giovane donna col diavolo non ha qui nulla della tragicità dell’originale, ma permette al romanzo di librarsi in una dimensione di favola ultraterrena, in cui al diavolo, saggio e benevolo, è consentito assegnare, anziché castighi infernali, una sorta di ricompensa in un sovramondo che non sarà magari il Paradiso (“Non ha meritato la luce, ha meritato il riposo”, si dice del Maestro), ma è pur tuttavia qualcosa di lontanissimo, per fare un esempio, dalla terrificante cosmogonia dantesca. Se il diavolo non è così brutto come lo si dipinge, anche Gesù non è più la figura canonica rappresentata dai vangeli. Bulgakov, nella sua terza parte del romanzo, quella gerosolimitana, sceglie di farne una figura anticonvenzionale, divina sì ma poco carismatica (è un filosofo vagabondo che, lungi dallo smuovere le folle, si limita a ispirare un solitario e preveggente discepolo, Matteo, a trasformarlo nel Cristo risorto della tradizione cristiana), e in ogni caso narrativamente marginale, rispetto a quello splendido personaggio di anima inquieta e sofferente che è Ponzio Pilato. Quest’ultimo è, nonostante il limitato numero di pagine che gli è riservato, il vero fulcro del libro. Il suo romanzo nel romanzo attraversa il racconto-testimonianza di Woland, il sogno del poeta Ivan Bezdomnji e, naturalmente, il libro scritto e poi bruciato dal Maestro, costituendo il contraltare tragico e serio alla farsesca narrazione della sarabanda infernale di Mosca. Pilato è la migliore dimostrazione della grande varietà stilistica dello scrittore russo, capace di passare con disinvoltura dai comici battibecchi tra Korovev, Behemoth e Azazello (i quali costituiscono uno spassoso capolavoro di umorismo) alla modernissima descrizione di uno spirito esulcerato e in crisi (il cui pentimento per esser stato costretto a sacrificare un innocente alla ragione di stato e la cui tormentata nostalgia per quello che avrebbe potuto essere e non è stato gli valgono il perdono finale decretato dal Maestro), in una summa di toni e di registri capaci di abbracciare il sublime ed il triviale, lo spirituale e il boccaccesco.
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VOI CHE SAPETE CHE COSA E' AMOR
Il titolo e l’immagine di copertina mi avevano sempre fatto pensare a “Bella del Signore” come a un romanzetto rosa, stile Collezione Harmony. E’ stato perciò con immensa sorpresa che, accintomi alla sua lettura grazie alle numerosi recensioni positive reperite in rete, ho scoperto che la monumentale opera di Albert Cohen è addirittura quanto di più simile alla “Recherche” di Proust abbia probabilmente mai incontrato in vita mia. Ma non il solo Proust può essere considerato il nume tutelare di “Bella del Signore”, perché lo stesso si potrebbe a buon diritto dire anche di Gogol o di Joyce. Al Gogol de “L'ispettore generale” e de “Le anime morte” mi ha fatto pensare la strepitosa capacità di Cohen di mettere alla berlina il mondo che fa da sfondo alla storia d'amore tra Solal e Ariane. Che si tratti del rigido e inamidato protestantesimo ginevrino rappresentato dalla puritanissima Tantlerie, la zia di Ariane, oppure del folcloristico ambiente ebraico incarnato dal truffaldino e prosopopaico Mangeclous – che cerca insistentemente di ottenere vantaggi millantando conoscenze, titoli e competenze fittizi -, del bizzarramente solenne Saltiel – che si prodiga per trovare una moglie israelita al nipote – e dagli altri “valorosi” parenti di Solal, o ancora del bel mondo alto-borghese e aristocratico insopportabilmente snob e bigotto, dedito solo ai riti mondani e alla spasmodica ricerca di relazioni altolocate, come la spocchiosa suocera di Ariane, l'acuminata satira dello scrittore svizzero affonda come il bisturi di un abile chirurgo nelle purulente piaghe della sua epoca, con esilaranti effetti comici i quali rendono la prima parte del romanzo un pirotecnico dispiegamento di raffinatissimo umorismo. E' però con la irresistibile descrizione della fauna umana che gravita intorno alla Società delle Nazioni che gli arguti sbeffeggi di Cohen, che di tale organismo è stato per anni un funzionario e i cui meccanismi e dinamiche conosceva quindi molto bene, raggiungono il loro culmine. Gli uffici e le sale di questa istituzione, vista come un organismo inutile e parassitario, posto ideale solo per distribuire sinecure ben remunerate, sono popolati, al livello più basso, da mediocri funzionari come Adrien Deume, il quale viene introdotto dall'autore (come un novello Oblomov) mentre si affanna comicamente per evitare di affrontare le fastidiose pratiche che giacciono sulla sua scrivania, utilizzando i più svariati pretesti (dalle verifiche del funzionamento del suo nuovo temperalapis allo studio delle strategie per ingraziarsi i superiori e sperare così in una promozione) pur di non iniziare a lavorare e rimandando alla fine tutto all'indomani, ma sempre nella stolida convinzione di avere adempiuto fino in fondo il proprio dovere; e, al livello più elevato, da ministri, ambasciatori, consoli e diplomatici di varia natura, i quali sono descritti come degli individui limitati, ridicolmente compresi nel proprio snobistico ruolo e che nei loro incontri fanno reciprocamente sfoggio di sorrisi posticci, di piaggerie, di atteggiamenti altezzosi e di trame meschine, a seconda del grado posseduto, dei calcoli elettorali e di altre consimili convenienze. Certe scene sono veri e propri pezzi di puro genio umoristico, come quella del cocktail in cui gli invitati mettono in atto le loro raffinate strategie per procurarsi delle proficue relazioni sociali: così gli ospiti importanti sono costretti a ricevere, con degnazione o malcelato fastidio, le attenzioni dei loro sottoposti, mentre a loro volta cercano di avvicinare e intavolare conversazione con personaggi superimportanti, i quali, mentre si sforzano di evitare di essere catturati da noiosi e improduttivi inferiori, puntano con scaltrezza gli invitati strasuperimportanti, e così via, in un carosello cinico e ipocrita condotto esclusivamente da logiche di tipo gerarchico.
Il riferimento fatto più sopra a Joyce attiene invece più propriamente allo stile del romanzo. Benché in alcune sue parti assomigli a un romanzo classico (la presentazione del protagonista Solal avviene con un linguaggio aulico e paludato, che rimanda addirittura a generi letterari anteriori al XIX secolo), “Bella del Signore” è un'opera fortemente sperimentale, proprio come l'”Ulisse”. Cohen si affida spesso allo stream of consciousness, con capitoli privi di punteggiatura che durano a volte decine di pagine e che, pur di non agevole lettura, rappresentano dei tour de force stilistici di fronte ai quali non si può far altro che rimanere estasiati e che, soprattutto, permettono al lettore di avere un ritratto psicologico dei personaggi del romanzo sorprendentemente vivo, diretto e non inquinato da considerazioni razionali. Si prenda ad esempio il primo monologo interiore di Ariane (che ricorda quello, ben più famoso, di Molly Bloom), nel quale la ragazza rivela a ruota libera il suo originalissimo mondo interiore (il disgusto per gli umilianti doveri coniugali, il rimpianto per il passato familiare, il desiderio di tornare bambina con una nonna come confidente, la natura sognatrice che la porta a immaginare storie con un eremita o un esploratore, la tentazione di fare cose proibite, sadiche e cattive come frustare senza pietà l'impudente Solal o pronunciare invano il nome di Dio, la fiera immedesimazione con le eroine dell'antichità, l'inconfessato lesbismo della sua storia con l'amica russa, e così via). In altre pagine Cohen utilizza invece l'avvicendamento nella stessa pagina dei punti di vista di due diversi personaggi, in una sorta di montaggio alternato in cui, senza alcuna soluzione di continuità i monologhi interiori di ciascuno si succedono l'uno all'altro. Verso la fine del libro, poi, vi è un'altra bellissima sequenza di affascinante virtuosismo stilistico: Ariane e Solal sono seduti nella hall dell'albergo, e alle loro orecchie arrivano, da tre signore che chiacchierano sferruzzando non lontano da loro, brandelli di conversazione, che Cohen riporta con prosa fluviale, senza segni di interpunzione, mischiando le oratrici, riproducendo il flusso caotico e sovrapponibile delle parole che attraversano lo spazio in libertà (ed è bellissimo riuscire a ricomporre da questi frammenti, come in un puzzle, il senso dei dialoghi estranei). Con questi ed altri espedienti retorici, come le sporadiche ma significative ellissi e il mimetismo con cui affronta personaggi appartenenti ai ceti sociali e culturali più diversi (si pensi alla spericolata alternanza dei registri stilistici quando si passa dal linguaggio solenne e letterario di Ariane e quello spontaneo e sgrammaticato della domestica Mariette), Cohen dimostra di essere uno scrittore dal talento purissimo e con pochi eguali nella storia della letteratura.
Se “Bella del Signore” è considerato (almeno in Francia, perché in Italia è stato ingiustamente sottovalutato, se non addirittura colpevolmente ignorato) uno dei capolavori del XX secolo lo si deve alla storia d'amore che è al centro della narrazione. Quella di Ariane e Solal, che il sottotitolo del libro appella come “passione assoluta”, è a mio avviso – so di fare una affermazione quasi blasfema – la storia d'amore “definitiva” della letteratura moderna, con buona pace di tutti i vari “Cyrano di Bergerac”, “Anna Karenina”, “Madame Bovary”, “Il dottor Zivago” e “L'amore al tempo del colera”. Da questo punto di vista, “Bella del Signore” può essere considerata una vera e propria fenomenologia del sentimento amoroso, che la penna cinica ma onesta di Cohen descrive con esattezza psicologica e vibratile sensibilità, attenta a cogliere tutte le più impercettibili sfumature e le più indescrivibili emozioni, ancor più e ancor meglio di quello che Proust, che avevo non a caso citato all'inizio della recensione (e che nel libro è ironicamente criticato dal protagonista come uno dei simboli di tutto ciò che, nelle snobistiche conversazioni dei salotti buoni, è considerato, insieme a Kafka, Bach, Mozart o Picasso, un argomento intellettualmente appropriato, nobile ed elevato), di quello che Proust – dicevo – aveva fatto in “Un amore di Swann”. Certo, quello che leggiamo in “Bella del Signore” è una storia vecchia come il mondo, già scritta milioni di volte nel corso di decine di secoli. Se la si volesse riassumere, la sua trama non si discosta poi così tanto dalle molte che l'hanno preceduta, eppure Cohen riesce a conferirle una tale carica emotiva e una tale impressione di verità che i baci, le carezze, gli amplessi e le gelosie di Solal e di Ariane ci sembrano quelli della prima coppia del mondo. Inoltre Cohen è straordinariamente bravo ad alternare, con pari dignità, i punti di vista maschile e femminile (anche se è facile intuire che la visione pessimistica dell'autore abbia influenzato maggiormente il personaggio di Solal, che può essere definito la coscienza critica del romanzo e difatti nella seconda parte acquista una sorta di predominanza narrativa), oltre che a far trapelare all'interno dell'universo amoroso, che per sua natura è egotistico e autosufficiente, gli echi di un'epoca (siamo nella seconda metà degli anni '30, nel pieno dell'antisemitismo hitleriano) che sembra precipitare sempre più velocemente, in macabra sincronia con la coppia, verso la più immane delle tragedie. La storia d'amore di Ariane e Solal infatti attraversa tutte le fasi della parabola sentimentale, ma si può dire che essa sia segnata fin dall'inizio, cioè da quell'inusuale corteggiamento in cui l'uomo, proprio mentre scommette di sedurre la riluttante ragazza di lì a poche ore, svela quanto siano meschine le dongiovannesche strategie di seduzione, basate su una “gorillesca” esibizione di forza e di potere. L'avere fatto innamorare di sé Ariane, come aveva preventivato, lascia in Solal una sorta di delusione e di disgusto, in quanto egli è consapevole di dovere il suo successo proprio a quelle doti (la bellezza, la salute, la ricchezza) che, nella sua invettiva, aveva appassionatamente denigrato. Questa sensazione è come un'ombra che rimane, mai del tutto rimossa e pronta a riemergere in qualsiasi momento, nel subconscio di Solal, anche quando, nell'estasi degli inizi, il loro amore sembra veleggiare incontrastato verso orizzonti di ineguagliabile felicità. Assistiamo infatti alla dedizione quasi religiosa con cui gli amanti, giovani, belli e innamorati, si concedono, come in una cerimonia sacra, l'uno all'altro, partecipiamo alle dolci delizie delle attese, allo stupore e alla meraviglia di ritrovarsi soli, alla voglia di raccontarsi reciprocamente, al desiderio di apparire perfetti in ogni istante. Ma l'atmosfera idilliaca non dura in eterno e l'autore ce lo ricorda capovolgendo l'innocente spensieratezza di queste pagine in un climax progressivamente più cupo e funereo, con un terribile flashback sull'inizio della persecuzione degli ebrei nella Germania nazista o con repentine e allarmanti considerazioni sul “memento mori”. Quando poi Solal, perso il prestigioso lavoro presso la Società delle Nazioni ed anche la cittadinanza francese (l'antisemitismo non era certo all'epoca una faccenda solo tedesca, come il caso Dreyfuss aveva insegnato), convince Ariane a lasciare il marito e a convivere con lui, il sogno d'amore che entrambi avevano bramato (essere sempre insieme, in una perpetua luna di miele) si rivela meno allettante di quello che sembrava loro quando si scrivevano infuocate lettere d'amore in attesa del prossimo, clandestino appuntamento. La forza dell'abitudine inizia a lavorare subdolamente come l'acqua del fiume che smussa e leviga le acuminate rocce della riva, e l'inconfessata paura di essere imprigionati in una trappola (Cohen usa illuminanti espressioni come “murato vivo nell'amore”, “condannato ai lavori d'amore a vita”) si fa gradualmente, ancorché inconsciamente, strada nell'animo. L'obbligo di essere sempre al massimo, sempre desiderabili, di fare continuamente, come un pavone, “la ruota sessuale” si accompagna all'inconfessato sollievo provato nei rari momenti di temporanea solitudine, quando il partner dorme o fa la toeletta. La passione sublime degli inizi si trasforma gradualmente in rito, in cerimoniale (l'aria de “Le nozze di Figaro” usata da Ariane per convocare l'amante nella propria stanza), e poi degenera in commedia da recitare come meglio si può. I due amanti sono costretti a fingere il desiderio, a simulare il piacere, sottoposti alla subdola e insopportabile tortura di dover ricevere in continuazione attenzioni e tenerezze, con “l'obbligo di vivere in passione, con prove ripetute e inoppugnabili”. La chiusura della coppia al mondo esterno si rivela micidiale, come una campana di vetro calata sui due che fa progressivamente venir meno l'ossigeno vitale. Costretti alla vita a due, sapendo in anticipo cosa avverrà il giorno seguente e tutti i giorni a venire, “non potendo parlare che d'amore, non potendo far altro che l'amore”, con l'altro che di colpo viene percepito come un creditore esigente, Ariane e Solal si trovano trasformati da amanti che si giuravano amore eterno in una sorta di triste surrogato coniugale (Solal si sente addirittura, paradossalmente, “cornificato” dal se stesso, più attraente e più desiderabile, di qualche mese prima). Ed ecco quindi i baci dati ormai solo per riempire il silenzio, il fingere comprensione, interesse e sentimenti elevati per cercare di nascondere uno sbadiglio, di mascherare una noia mortale, la nostalgia dissimulata per una mediocre vita mondana (per combattere la quale bisogna stordirsi in continuazione, cercando sempre nuovi “surrogati del sociale” come il teatro o il cinema, l'equitazione o lo shopping) e i tentativi di rimandare gli obblighi amorosi senza urtare la sensibilità del partner. Arrivare alla fine di ogni giornata è una pena sovrumana, come camminare perennemente su una corda tesa sopra un baratro, e la compassione per ciò cui si è ridotta la loro vita a due affiora sempre più spesso dal loro inconscio, nonostante gli sforzi di confermarsi esteriormente all'altezza dell'amore passionale dei primi giorni, recitando il ruolo fintissimo degli innamorati in adorazione. La storia d'amore tra Solal e Ariane è una lenta agonia, una via crucis di progressiva degradazione in cui si cerca di occultare ogni vergogna sotto una vergogna ancora più grande, di mascherare la commiserazione dietro atti di crudeltà gratuiti (come quando Solal, colto da una immotivata gelosia retrospettiva, rinfaccia alla sua donna di avere avuto un altro amante prima di lui). Eppure non si può negare che Solal e Ariane ce l'abbiano messa davvero tutta, che anche il commovente, tristissimo finale è a suo modo un fatale, estremo tentativo di tener fede alla loro iniziale promessa d'amore. Le parole disperate di Solal (“Maledetto amore dei corpi, maledetta passione”) risuonano come campane a morto nelle orecchie del lettore: quanto più desiderabile sarebbe stato per queste povere anime sofferenti il destino mediocre, anonimo di un amore prosaico e normale! In una sua famosa canzone Ivano Fossati aveva detto che la costruzione di un amore è come un altare in riva al mare. Ebbene, per Solal e Ariane, tragici e imperfetti eroi di una passione che ha osato volare troppo in alto e che, come Icaro, si è bruciata le ali per essersi avvicinata troppo al sole dell'irraggiungibile perfezione, questo altare è stato edificato (imperdonabile hybris) sul bagnasciuga di una spiaggia inesorabilmente spazzata dai marosi del destino.
Post scriptum: Per ironia della sorte ho finito di leggere “Bella del Signore” proprio il giorno di San Valentino. Il dio della letteratura riserva a volte a noi lettori delle coincidenze davvero beffarde!
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I FANTASMI DELLA MEMORIA
“Il passato mi batte dentro come un secondo cuore.”
“Il mare” è un ambizioso romanzo sul tempo e sulla memoria, sul rapporto che il presente instaura con il passato (e con il futuro), e sul ruolo dei ricordi all’interno di questa reciproca relazione. Il pensiero corre ovviamente a Proust e alla sua “Recherche” – è quasi un riflesso condizionato - ma ad essere sinceri il paragone con lo scrittore francese sarebbe del tutto fuorviante. Anzitutto, ciò che in Proust permette di “ritrovare” il passato è la memoria involontaria, innescata da impressioni e accadimenti casuali e imprevedibili, mentre Max Morden, l’io narrante de “Il mare”, cerca invece metodicamente di rievocare il passato, in lui (apparentemente) così ben impresso nella memoria, traendone dal confronto con il presente non tanto una resurrezione miracolosa quanto un impietoso ridimensionamento. Cambia quindi il senso, il rapporto di forze tra le diverse fasi temporali della vita: in Proust è il passato che irrompe nel presente, in Banville è il secondo che forza le porte del primo. Il fatto è che Max Morden non è interessato tanto a recuperare il passato, quanto a cercare in esso delle ragioni per continuare a vivere nel presente. Il passato non è quindi un patrimonio mitico cui attingere per dare un senso “ultimo” alla propria esistenza, ma (mi si perdoni la metafora suggeritami dal titolo) un salvagente per non soccombere al dolore e alla mediocrità del presente, e ancor di più alla mancanza di prospettive del futuro. Anzi, per meglio precisare, il protagonista al passato chiede qualcosa in più: il segreto stesso della propria identità, ossia quel filo rosso che collega l’undicenne ragazzino in vacanza a Ballyless al sessantenne vedovo tornato sui luoghi della propria infanzia. Ma questo tentativo è fatalmente votato all’insuccesso: Max Morden non riuscirà a far collimare i due “io”, così come non riuscirà a sovrapporre i luoghi, le cose e le persone di un tempo (irrimediabilmente deformate da una memoria selettiva e tendente a sublimare i ricordi) ai luoghi, le cose e le persone di oggi. Paradossalmente è proprio la moglie moribonda sul letto d’ospedale a pronunciare quelle parole («Io ho fermato il tempo») che il protagonista cerca invano di mettere in pratica. La sua sconfitta in fondo assomiglia curiosamente a quella del generale de “Le braci” di Sandor Marai (il libro da me letto prima de “Il mare”: quante misteriose coincidenze nel mondo della letteratura!), e similmente a quest’ultimo è destinato a non trovare risposta agli interrogativi portati dentro per tutta la vita.
In questa virtuosistica alternanza di piani temporali Banville non sfugge al rischio di essere in qualche modo artificioso: la sua opera sa in effetti un po’ di fredda e calcolata operazione intellettuale. Egli sa cesellare i ricordi con finezza e preziosismo rari (ad esempio, le lentiggini di una giovane donna ricordano al protagonista le macchioline marroni del guscio rotto di un uovo d’uccello scoperto mezzo secolo prima ai piedi di un nido), ma è come se il protagonista fosse sempre più intento a osservare se stesso che a vivere o a immedesimarsi nel suo io passato. Ciò che Max Morden guadagna in credibilità psicologica (con quella tensione dialettica irrisolta che decreta l’insuccesso della sua ricerca) il lettore perde in tensione narrativa. Infatti non c’è mai una vera fusione tra i due Max, cosa che Banville esplicita più volte, parlando del suo personaggio come di un osservatore esterno, di un fantasma (ad esempio nella rievocazione di una serata in riva al mare con Myles e Chloe si legge: “Ma chi è che indugia sulla riva nel crepuscolo, accanto al mare che si oscura… Quale versione fantasma di me osserva noi, loro – quei tre bambini – mentre si fanno sempre più indistinti nell’aria cinerina…”). Il protagonista appare sempre sdoppiato, è qui e là, è nel presente e nel passato, e questo sdoppiamento crea – ad essere sinceri – un senso di straniamento che rende a tratti disagevole la lettura. Ciò che manca, al di là delle belle descrizioni delle estasi erotiche di quando Max era un ragazzino in vacanza o del calvario vissuto con la morte della moglie, è proprio la voluttà, il desiderio da una parte, e il dolore, la sofferenza dall’altro: tutto è freddo, algido, quasi distaccato e impersonale, come la visione di un astro lontanissimo scrutato col telescopio.
Espresse doverosamente – e forse un po’ troppo severamente - queste perplessità, vorrei comunque rendere giustizia alla impareggiabile maestria stilistica di Banville. Se le figure del romanzo non riescono mai ad entrare nella galleria dei personaggi indimenticabili (fatta forse eccezione per Myles – un omaggio al “Giro di vite” di James? -, l’inquietante gemello autistico di Chloe, a lei legato da un sinistro e morboso rapporto), la prosa di Banville è invece di prim’ordine. Lo scrittore irlandese usa un vocabolario d’altri tempi, erudito ed elegante, facendo soprattutto sfoggio di una aggettivazione sofisticata e a tratti onomatopeica (i passi “sofistici” delle galline, lo sguardo “gnomico” di una bambina, la quiete “fioccosa” di un hotel ne sono solo alcuni esempi). L’assenza di un vero e proprio climax è compensato da un modo molto efficace di organizzare il testo, per mezzo dei salti temporali che si incastonano l’uno nell’altro, e soprattutto della chiusura “ad effetto” dei singoli paragrafi. Ma è soprattutto nell’uso dei riferimenti a una cultura “alta” che eccelle Banville, in ciò identificandosi alla perfezione con l’io narrante il quale, essendo un critico d’arte, infarcisce le sue rievocazioni con riferimenti alquanto calzanti a dipinti e pittori. Se a ciò si aggiunge l’accurata e “analitica” finezza con cui Max Morden esplora la sua vita, si riesce ad avere un quadro abbastanza esauriente della magistrale arte “rétro” di John Banville, raffinato epigono – in questo senso lo si può affermare senza tentennamenti – di Marcel Proust e di quant’altri (da James alla Woolf) hanno saputo anteporre lo stile ai contenuti, la forma alla sostanza, l’arte alla vita.
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UN THRILLER FILOSOFICO
C’è nella lettura de “Le braci” un non so che di avvincente, di ammaliante, e nel contempo un sentimento opposto di frustrazione, di attese insoddisfatte, di promesse non mantenute, quasi come se l’ossimoro fosse il segno distintivo di questo romanzo dallo stile ottocentesco ma scritto nel 1940, dall’impianto teatrale ma in cui dei tre protagonisti uno è defunto ormai da decenni e il secondo rimane in silenzio per tutto il tempo, lasciando al terzo il compito di intessere un finto dialogo che in realtà è un lunghissimo monologo-confessione. E dunque qual è la chiave di lettura di questo libro strano e misterioso, quale il motivo del suo originalissimo fascino? Conviene partire dalla cornice della storia. Due vecchi amici di infanzia e di gioventù, legati in passato da un rapporto così esclusivo e totalizzante da ricordare quello leggendario tra Castore e Polluce, si ritrovano nello sperduto castello del primo per un’ultima serata insieme, ben quarantuno anni dopo che il secondo era sparito senza preavviso e senza spiegazioni per andare a vivere lontanissimo dalla sua patria, ai Tropici. Il primo, un facoltoso generale in pensione di nome Heinrich, aspetta da anni questa occasione per portare a termine una vendetta a lungo meditata (ma senza spargimento di sangue: una rivoltella appare per un istante, ma viene prontamente rinchiusa in un cassetto) e riesumare un segreto il cui solo depositario è l’amico Konrad, anche lui un ex ufficiale ma con aspirazioni più umanistiche che militari. L’intreccio viene sapientemente impostato dall’autore come un thriller: quarantuno anni prima è avvenuto qualcosa che ha determinato una frattura insanabile in una esistenza fino ad allora apparentemente armoniosa e che ha fatto precipitare gli eventi verso esiti imprevedibilmente drammatici. Piano piano, centellinati pagina dopo pagina nel corso di un interminabile faccia a faccia a lume di candela, emergono dal passato i dettagli: c’è una battuta di caccia alle prime luci dell’alba in cui Heinrich ha l’intuizione che l’amico sia sul punto di ucciderlo sparandogli alle spalle, c’è la sconcertante scoperta della improvvisa partenza di Konrad, c’è lo strano comportamento della moglie di Heinrich (Krisztina) che lascia intravedere un rapporto segreto e non propriamente platonico tra lei e Konrad. Intorno a questo nucleo di eventi che si sviluppa in poche ore si dipana una implacabile ricerca di ragioni e di motivazioni, nel presupposto che i fatti non possano esaurire la complessità di quanto è accaduto. Se di thriller si può parlare, quindi, è solo in una accezione meramente psicologica. La verità da scoprire non è infatti il tradimento della moglie o il mancato omicidio dell’amico, che Heinrich dà per scontati, ma le ragioni sottostanti, le cause profonde e sotterranee, le intenzioni mai rivelate.
Ma è qui che l’originale thriller di Marai vira e prende sorprendentemente un’altra direzione: infatti, dopo che al termine di una lunghissima requisitoria, disincantata e priva di animosità ma ugualmente implacabile, in cui, come in un processo, ha rievocato i fatti principali, rammentato le circostanze accessorie e dettagliato le tesi accusatorie, Heinrich si accinge finalmente, dopo più di cento pagine, a formulare la domanda decisiva che – a detta sua – è stata l’unica ragione che gli ha permesso di sopravvivere, e dopo che ha perfino deciso di distruggere le testimonianze esistenti (il diario di Krisztina gettato nel fuoco del camino) per affidarsi esclusivamente alla confessione di Konrad, questi sceglie di non rispondere e, alle prime luci dell’alba, inopinatamente, si accomiata dall’amico, presumibilmente per l’ultima volta, lasciando intatto il suo segreto. E’ comprensibile lo sconcerto del lettore: alle soglie di una verità a lungo fatta intravedere dall’autore, quasi afferrata con l’apparizione di un diario in cui la moglie defunta aveva affidato ogni pensiero più intimo, quando infine si tratta di ascoltare la voce stessa di chi ha vissuto gli eventi narrati in prima persona, e di cui si possono immaginare le difficoltà con cui ha attraversato una Europa sconvolta dalla seconda guerra mondiale per consegnare all’amico (perché altrimenti sarebbe venuto fino a lì?) la sua interpretazione autentica e definitiva, ecco che tutto implausibilmente svanisce, lasciando un comprensibile senso di amaro in bocca. E’ a questo punto evidente che il senso del libro va cercato altrove, in una direzione più astratta e metafisica. In questione non è più la verità di Heinrich, Konrad e Krisztina, ma la Verità tout court, o meglio la possibilità stessa di accedere a una qualche verità assoluta. L’enigmatico finale de “Le braci” mi sembra che risponda a questo quesito filosofico in maniera estremamente scettica e pessimistica. Se una possibilità esiste che l’uomo riesca ad afferrare la verità nel corso della sua vita, essa si situa proprio nel suo momento estremo e conclusivo, vale a dire la morte (“L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore”). La morte è la risposta definitiva che l’uomo può dare di fronte al tribunale del mondo, l’attestazione di innocenza che lo assolve, ancorché fuori tempo massimo, quando ormai non serve più a nulla, nel processo che la vita ha intentato contro di lui. E’ per questo che “Le braci” si sviluppa nella forma di un lunghissimo monologo (dalla parte introduttiva lo stacca anche un diverso uso dei tempi verbali nelle poche parti in cui è usata la terza persona dello scrittore – il presente anziché il passato remoto): esso non è tanto (o non è solo) un processo intentato da Heinrich all’amico fedifrago e traditore per conoscere una qualche verità (in fondo “tutto accade sempre per il motivo e nel modo esatto in cui è stato possibile che accadesse”, questa è l’unica tautologica verità possibile), bensì un processo intentato principalmente a se stesso, per scoprire la colpa recondita, il peccato originale che lo ha fatto sopravvivere a Krisztina, la quale è stata invece redenta dalla morte (“Chiunque sopravviva a qualcuno commette un tradimento”, afferma il protagonista, e quindi è – kafkianamente – colpevole). Ed è per questo, anche, che Heinrich accoglie il rifiuto di Konrad a rispondergli con indifferenza, anzi quasi con soddisfazione. Se l’eventualità dell’incontro con l’amico era l’unica ragione che lo avesse tenuto in vita, ora che esso si è avverato Heinrich può finalmente morire e, a sua volta, discolparsi per l’eternità. Lo stesso destino di Marai, suicidatosi con un colpo di pistola nel 1989 e solo successivamente riscoperto dalla critica la quale, dopo un immeritato oblio, lo ha gratificato di una solida gloria postuma, sembra beffardamente avallare questa mia tesi.
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UN AMERICANO A PARIGI
Durante la lunga, impervia e faticosa lettura de “Gli ambasciatori” mi è stato di grande utilità tenere presente, quasi come un faro segnalatore, un altro romanzo di James, per quanto apparentemente antitetico per dimensioni, struttura e impianto narrativo. Il Lambert Strether, che dall’America giunge in Europa per “recuperare” alla famiglia e alla carriera il rampollo che a Parigi, incurante delle ingiunzioni materne, si dice stia conducendo una vita dissipata, assomiglia infatti per molti versi al protagonista de “La belva nella giungla”. Come quest’ultimo trascorre tutta la vita cercando di mettersi al riparo dal terribile colpo del destino che fin dall’infanzia è sicuro di essere destinato a subire, senza riuscire, a causa del suo egotismo, a comprendere, se non quando è ormai troppo tardi (cioè dopo la morte dell’amica devota), che questo colpo gli è già stato inferto a sua insaputa, così Strether si destreggia nella sua missione senza mai raccapezzarsi del tutto su quale sia la reale situazione che lo vede coscienzioso o riluttante attore in una parte che non afferra mai del tutto. L’idea geniale di James è quella di fare di Strether l’unico depositario del senso del racconto, e proprio a causa della sua ignoranza rendere il romanzo, che pure verte su una storia quanto mai semplice e prosaica (il giovane Chad è diventato l’amante della matura e raffinata Madame de Vionnet), un concentrato di ambiguità, misteri, doppi sensi e oscurità: insomma, quasi un romanzo giallo a comprensione ritardata. Gli interlocutori di Strether, lasciando sempre le loro rivelazioni a metà, alludendo senza mai pronunciarsi apertamente, riempiendo le loro affermazioni di ulteriori possibili significati, fanno rimanere il protagonista (e con lui il lettore) sempre un passo indietro rispetto alla realtà dei fatti. James prende sottilmente in giro l’educazione perbenista dei borghesi americani che, per rispetto dell’etichetta, buona educazione e pruderie, hanno l’abitudine di vedere le cose in maniera per così dire eufemistica (è esemplare “l’attaccamento virtuoso” che Strether attribuisce alla relazione tra i due amanti, ignaro della sua fin troppo prevedibile natura erotica e sensuale), anziché nella loro cruda e banale verità, e così facendo rimangono desolatamente all’oscuro delle cose stesse, facilmente manipolabili dagli altri, quando invece dovrebbero essere loro, per cultura, età, esperienza e responsabilità, a manovrare, dirigere e convincere. Strether è un uomo di tale fattura, e in più è un uomo che si accorge troppo tardi di non avere vissuto realmente la vita, di averla sprecata malamente. L’impatto con Parigi ha per lui l’effetto devastante di un innamoramento senile, e per giunta un po’ patetico, in quanto la gioventù “bohemienne” che tanto lo affascina lo fa sembrare, per quanti sforzi faccia per adeguarsi alla disinvolta vita della “Ville Lumière”, un paludato e antiquato rappresentante di un mondo ormai sorpassato. Ancora una volta i due poli opposti dell’universo jamesiano – l’America e l’Europa – ingaggiano una battaglia dialetticamente complessa che ha Strether come simbolica posta in palio e i cui alfieri risiedono forse in due personaggi secondari del romanzo: Waymarsh, l’amico di Strether che rifiuta sdegnosamente di venire a patti con la cultura e le abitudini del Vecchio Mondo, da una parte, e la signorina Gostrey, la disinvolta confidente del protagonista, perfettamente a suo agio nella eccitante vita di Parigi, dall’altra.
Maria Gostrey mi offre l’occasione di parlare di un altro aspetto di Strether: la sua disinteressata lealtà, la sua servizievole fedeltà, la sua innocente buona fede. Egli arriva al punto di compromettere il suo futuro e la sua sicurezza economica mandando a monte il suo fidanzamento con la signora Pocock pur di non rinnegare la promessa di aiutare Madame de Vionnet, al cui fascino egli è palesemente sensibile. E sia di fronte a Sarah Pocock, alle cui influenti pressioni rifiuta scandalosamente di sottomettersi, sia di fronte a Chad, che minaccia di maledire se mai dovesse un giorno abbandonare la donna più vecchia di lui che lo ama, Strether si erge a donchisciottesco paladino dell’amore e del “carpe diem”, pur sospettando larvatamente di essere stato più volte ingannato o adescato in una trappola da chi ha approfittato con astuzia della sua anacronistica e idealistica purezza. Sotto un diverso angolo di visuale, bisogna però rilevare che Strether è tutt’altro che l’eroe di questa storia. Con questa considerazione, che passo adesso a motivare, si viene a toccare il punto di massima convergenza con il protagonista de “La belva nella giungla”. Impegnato con tutte le sue forze nella sua complessa missione “diplomatica”, Strether infatti intreccia una delicata amicizia con Maria Gostrey, la “donna di mondo” che prima gli fa da anfitrione e poi da confidente delle sue scoperte. Maria è sempre defilata e in disparte (ad un certo punto, inaspettatamente, si allontana dalla capitale per alcune settimane, ma solo – si scoprirà più tardi – per non condizionare l’amico in occasione del suo incontro con Madame de Vionnet), però – un po’ come l’amica del protagonista de “La belva nella giungla” – è sempre al fianco di Strether quando questi ha bisogno di qualcuno che lo rassicuri, che lo consoli o anche solo che gli faccia un po’ di chiarezza nei suoi dubbi e perplessità. Maria è evidentemente innamorata di Strether, ma il narcisismo e l’egotismo dell’uomo fanno sì che questi si accorga della cosa solo all’ultimo, quando ha già deciso irrevocabilmente di tornare in patria. Di fronte alla decisione di Strether di non voler ricevere (proprio come un “ambasciatore”) alcun vantaggio dalla sua avventura, e quindi di rinunciare alle sincere profferte di Maria, la donna è costretta a rimanere sconsolatamente sola come l’eroina di una tragedia greca. Maria assurge così nelle ultime pagine, imprevedibilmente, a un ruolo deuteragonistico, più di Madame de Vionnet, la quale pure, dopo avere dato tanto a Chad (Strether la ritiene non a torto l’artefice del suo stupefacente miglioramento) vive nella paura di essere lasciata dal più giovane amante. Maria non può neppure aggrapparsi al conforto del ricordo della passione. Essa è malinconicamente condannata a vivere come una vedova senza avere prima gustato le gioie del matrimonio, sconfitta dalla probità morale maschile che mai come in questo caso assume la parvenza di una insopportabile violenza, ammantata com’è di fanatismo, di superbia e di egoistica affermazione del proprio io, anche (o soprattutto) quando vuole apparire come un disinteressato sacrificio. Grazie a questo commovente ritratto, che James cesella con il suo solito penetrante acume psicologico (in una narrazione abilmente dissimulatoria in cui prevalgono i dialoghi a due i quali, anziché aiutare la comprensione - come già affermavo più sopra - la rendono ancor più difficoltosa e ambigua), grazie a questo ritratto – dicevo – Maria entra nella indimenticabile galleria di sfortunate eroine (tra le altre la Daisy Miller dell’omonimo racconto e la Isabel Archer di “Ritratto di signora”) che lo scrittore americano ha condannato, nonostante le loro prodigiose doti di intelligenza, avvenenza e “savoir faire”, a soccombere nella crudele resa dei conti con la vita e con l’universo maschile.
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IL TEMPO RITROVATO DI MRS. DALLOWAY
"Era incredibile che ci fosse la morte! – che deve finire; che nessuno al mondo saprà quanto lei avesse amato ogni cosa; quanto, ogni momento."
Tre sono i numi tutelari di Virginia Woolf: James Joyce, Thomas S. Eliot e Marcel Proust. Al primo rimanda il modo (usato ne “La signora Dalloway” con la tecnica simil-cinematografica del piano-sequenza) con cui la scrittrice interseca le traiettorie dei vari personaggi (dai protagonisti principali – Clarissa Dalloway, Septimus Warren Smith, Peter Walsh – fino a quelli che restano ai margini della storia – la signorina Kilman, lady Bruton, ecc.), seguendo senza alcuno stacco percepibile ora l’uno ora l’altro, in un tempo che oscilla tra l’oggettivo e implacabile scorrere delle ore (il titolo originale del romanzo doveva essere proprio “The hours”) e il soggettivo e frastagliato stream of consciousness; e rimanda altresì la scelta di far svolgere la vicenda nell’arco di una sola giornata, in una estrema concentrazione spazio-temporale. All’autore de “La terra desolata” la accomuna invece la capacità di conferire a momenti banali e insignificanti una valenza quasi cosmica e di trasfigurare in chiave mitica i personaggi secondari incontrati casualmente dai protagonisti nel loro deambulare (la bambinaia che diventa una visione notturna che appare a un viaggiatore in un bosco, la mendicante che assurge ad archetipo di una donna antica di milioni di anni, ecc.).
Il riferimento più importante è comunque quello di Proust, se non altro perché “La signora Dalloway” è prima di ogni altra cosa un romanzo sul tempo, declinato nelle sue coordinate di presente, passato e futuro che coesistono e si sovrappongono a vicenda. E’ a causa di questa continua commistione temporale (il “qui e ora” che si alterna senza soluzione di continuità ai flash back) che nel romanzo è sempre presente un sentimento ambivalente, ossimorico, percepibile fin dall’inizio, in una delle prime espressioni di Clarissa (“Che gioia! Che terrore!”). Sulle impressioni di apertura alla vita, di disponibilità al futuro e a ciò che esso è in grado di riservarci aleggia infatti la presenza della morte, del lutto. Clarissa percepisce la caducità delle cose e trova profondamente ingiusto che il suo mondo interiore debba scomparire senza che nessuno abbia la possibilità di conoscerlo; ma Clarissa – se così si può dire – sa elaborare il lutto, perfino il suicidio di Septimus di cui lei – grazie a un profondo senso di compassione – si sente oscuramente responsabile. Il fatto è che lei – donna tutta sensibilità – vive dell’attimo presente, ma è altresì conscia che la bellezza del momento potrà essere tale solo retrospettivamente, guardando indietro nel passato. E’ per questo che il ricevimento di Clarissa (vero centro focale del libro), pur essendo riuscito al di là di ogni più ottimistica aspettativa, provoca nella protagonista una delusione, come di qualcosa che non abbia potuto realizzarsi: il motivo è che il presente è sempre deludente, in quanto le sue risonanze intime potranno prodursi solo in un tempo successivo, quando lo sguardo della memoria potrà posarsi su quel giorno e scoprirvi con nostalgia la bellezza in esso nascosta e allora – mentre era vissuto – incapace di essere espresso. E’ questo il senso dell’apparizione inattesa di Peter Walsh e di Sally Seton, i vecchi amici di gioventù persi per strada col passare degli anni: essi sembrano venuti apposta lì alla festa – resuscitati dal passato di Bourton – per sancire la supremazia del passato sul presente, o meglio la necessità del tempo per poter comprendere il presente (che non è più presente ma, appunto, ormai passato). Questa doverosa accettazione e sublimazione del passato che contraddistingue Clarissa la distingue nettamente da Septimus, suo doppio negativo, il quale invece dal passato è annientato; ed è distrutto non tanto dalla guerra in sé, bensì dalla sua scoperta – contraria a quella di Clarissa – di non essere più capace di sentire qualcosa. La vera morte è quindi l’insensibilità, mentre la sopravvivenza è garantita dalla certezza che “quello che si sente è l’unica cosa che valeva la pena di dire”, mentre “l’intelligenza [l’erudizione shakespeariana di Septimus] era una sciocchezza”, e quello che si sente è tanto più importante in quanto arricchito dagli echi e dai riverberi del proprio passato riconciliato. Come per Proust, anche in questo caso si può ben parlare di “tempo ritrovato”.
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OMAGGIO IMPERFETTO A VIRGINIA WOOLF
La peculiarità de “Le ore” è costituita dall’intrecciarsi di tre distinte storie, divise tra loro da decenni di distanza e unite da un unico elemento in comune, il romanzo “La signora Dalloway”. “La signora Dalloway” è infatti il libro che Virginia Woolf sta scrivendo e di cui seguiamo le prime fasi della creazione, quello che la casalinga californiana Laura Brown sta leggendo e di cui l’editor newyorkese Clarissa Vaughan sembra quasi essere, fin dal nome di battesimo, la reincarnazione moderna. E’ difficile dire esattamente cosa penso dell’opera di Cunningham. E’ indubbio che lo scrittore di Cincinnati possieda la sensibilità (non certo lo stile!) di Virginia Woolf, ma l’operazione tentata con il suo romanzo ha un che di troppo artificioso, di progettato a tavolino. Intuiamo facilmente che dietro alle sue pagine c’è un ampio studio delle biografie dedicate alla famosa scrittrice e una minuziosa e devota lettura del suo capolavoro del 1925. Trovo anche del tutto pertinenti i dubbi di Virginia Woolf sulla sorte della sua protagonista, nella quale l’autrice inizialmente mette tutta la propria disperazione, enorme e tragica anche se scaturisce da qualcosa di apparentemente insignificante, ma che poi sceglie di “salvare” creando un suo doppio, un alter ego (Septimus) che si sacrificherà inconsciamente per lei, suicidandosi. Vita e finzione, realtà e arte si fronteggiano, si condizionano e si nutrono a vicenda, in un parallelismo che fa scaturire innumerevoli spunti di stimolante riflessione. I due poli della dialettica woolfiana sono quelli della normalità e della follia, declinata quest’ultima in un’accezione in cui è compreso lo stesso genio artistico, la capacità di assorbire tutte le impressioni e le sensazioni della vita anche a scapito della propria salute mentale. Da ciò deriva la contiguità con la morte (“Oh, pensa Virginia, appena prima del tè, ecco la morte”, che è poi la stessa frase pronunciata da Clarissa Dalloway durante il suo party quando viene a conoscenza del suicidio di Septimus), e di qui il sacrificio dell’uomo di genio a favore della mediocre umanità per consentire ad essa di poter godere, per tramite dell’opera d’arte, dell’esistenza. Questo è il significato più profondo de “La signora Dalloway” visto attraverso gli occhi della sua autrice: una profonda nostalgia nei confronti di chi è capace di godere dell’attimo e amare la vita accettando i propri limiti e la propria finitezza, espressa da colei che è vittima invece di una sorta di maledizione, quell’attrazione fatale verso l’al di là (inteso come morte, ma anche come superamento dei limiti insito nella creazione artistica) che toccherà il suo culmine nel suicidio per annegamento.
Quando si passa agli episodi “moderni” di Laura Brown e di Clarissa Vaughan iniziano i problemi, perché se la scelta di creare un doppio “in minore” della scrittrice nella figura della frustrata casalinga è ancora sufficientemente efficace nel mostrare stati d’animo autonomi, sempre sul punto di prendere la via di scelte drastiche ed estreme (la fuga dalle responsabilità domestiche e familiari, il ripudio del fallimento esistenziale per mezzo del suicidio) oppure di rientrare nella routine di tutti i giorni, la riproposizione mimetica della giornata londinese della signora Dalloway nelle 24 ore della sua omologa americana ha troppo l’aria di un ricalco forzato, se non proprio pedissequo. Infatti a Clarissa Vaughan (chiamata Dalloway dal suo amico Richard) vengono fatte vivere da Cunningham le stesse identiche, precise, esperienze che costellano “La signora Dalloway”. A partire dagli episodi della giornata (la passeggiata per comprare i fiori, l’incontro con Walter Hardy alter ego di Hugh Whitbread, la visita di Louis-Peter Walsh, ecc.) fino ai singoli personaggi (Richard-Septimus, Sally-Richard, Julia-Elizabeth, ecc.) tutto è identico, fin nei minimi particolari (anche se non nello spirito) al capolavoro di 70 anni prima. Il fatto è che in questa “signora Dalloway fine XX secolo” tutto subisce un’attualizzazione che, come spesso capita in operazioni del genere, immiserisce non poco il soggetto. Infatti sembra che Cunningham, per attualizzare la storia e distinguerla dall’originale, non abbia saputo far di meglio che cogliere della nostra epoca i cambiamenti più superficiali. Così tutte le coppie, nessuna esclusa, sono gay, Julia è figlia di una “provetta” e l’AIDS sembra che non risparmi nessuno. In questo modo “Le ore” ottiene l’effetto involontario di apparire una parodia de “La signora Dalloway”, con ciò sprecando in parte quelle che erano le sue notevoli ambizioni (l’attualità del pensiero di Virginia Woolf) e svilendo non poco i suoi risultati con uno stile che pare quello di un ventriloquo, pur riconoscendogli un garbo psicologico non comune (quasi femminile, direi, se non fosse che temo che ciò derivi più che altro da una eccessiva immedesimazione dello scrittore nel modello woolfiano) e una discreta abilità nell’intrecciare, arricchendoli con echi che trapassano da un’epoca all’altra, i destini delle sue tre protagoniste.
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UNA DISPERATA FARSA SUDAMERICANA
“Adesso era dentro la trappola e non riusciva a darle un nome, non riusciva a capire che aveva viaggiato, fatto progetti, sorrisi, mosse astute e pazienti, solo per caderci dentro, per trovare la quiete in un ultimo rifugio assurdo e senza speranza”
Larsen, alias Raccattacadaveri, il protagonista de “Il cantiere” e del successivo, omonimo romanzo di Juan Carlos Onetti, mi ricorda vagamente l'eroe di un'altra saga della letteratura sudamericana, quella di Maqroll il Gabbiere. In Larsen e in Maqroll ho ritrovato lo stesso ineluttabile, fatalistico, soffocante senso di sconfitta e di fallimento. Si può anzi affermare che Larsen sia un Maqroll più vecchio, meschino e disincantato: laddove il personaggio di Alvaro Mutis è instancabilmente mosso da un incoercibile ancorché velleitario e donchisciottesco idealismo, da una inesauribile sete di avventure e da una autentica curiosità nei confronti della vita, quello di Onetti è consapevole di essere giunto al termine della corsa, in un crocevia fatale dell'esistenza in cui non si intravede più alcun futuro, ma tutto ha l'aria di essere già stato compiuto e deciso in un lontano e irrevocabile passato. Quando, dopo un'assenza di cinque anni, ritorna a Santa Maria, la “città maledetta” da cui era stato esiliato con disonore per via di una storia di prostituzione, Larsen è chiaramente corroso nel profondo dell'animo, spaurito e “in apparenza domo”, nonostante la sua andatura impettita e dondolante (con i tacchi sbattuti come “per far risuonare la sfida dei suoi passi, deciso a non lasciarsi sconfiggere, senza sapere cosa gli restava da difendere”) cerchi di trasmettere una opposta sensazione di spavalda sicumera. Quando l'anziano Petrus, il signorotto del luogo, gli offre la direzione generale del suo cantiere, Larsen la accetta come se fosse l'ultima, estrema opportunità che la vita gli riserva per prendersi una rivincita sulle sue trascorse sfortune e dare “un senso agli anni morti”. Il cantiere in realtà è da anni in completo stato di abbandono e le vaghe promesse di Petrus circa un'imminente ripresa dell'attività sono poco più che chimere cui non crede ormai più nessuno, nemmeno la coppia di funzionari che, come due fantasmi, continua svogliatamente a presidiare gli uffici deserti, polverosi e pieni di ragnatele, dove il vento entra dalle finestre prive di vetri per scompigliare le vecchie pratiche abbandonate un po' ovunque, e i capannoni in cui strumenti ormai arrugginiti e inservibili giacciono come un anacronistico cimitero industriale. L'atmosfera di sfacelo e di decadenza del cantiere si rivela così ben presto una trappola in cui Larsen viene catturato non come se avesse imprudentemente messo il piede in una tagliola, ma come se stesse sprofondando lentamente, inesorabilmente nelle sabbie mobili. Persino le condizioni atmosferiche sembrano essere impregnate da questo senso di disfacimento e di rovina: la pioggia cade incessantemente, riempiendo di pozzanghere e di fango le strade sconnesse, il gelo invernale penetra pungente fin dentro le ossa, e anche la luce del giorno è “una luce grigia ed estenuante, una luce che arrivava vinta dopo aver attraversato gigantesche nubi d'acqua e freddo”. Con irreprensibile puntiglio e senso del dovere, Larsen si presenta comunque in ufficio tutti i giorni alle nove in punto e passa le otto ore successive a sfogliare vecchi incartamenti che raccontano storie ormai dimenticate di imbarcazioni probabilmente scomparse da tempo immemore. Larsen razionalmente si rende conto che quello che fa è inutile e senza senso, che per il cantiere non ci può essere alcuna possibilità di salvezza, che il suo impiego (per il quale non nutre nemmeno più la speranza di essere pagato) è una farsa grottesca, ma egli nondimeno, contro ogni evidenza pratica, sceglie di recitarla, questa farsa, aggrappandosi all'utopistica illusione che vi sia in serbo, per quanto improbabile, una sorta di palingenesi finale, perché al di fuori di essa c'è solo la disperazione, la solitudine, la sconfitta e la morte. Sembra quasi di assistere a una pièce del teatro dell'assurdo di Pinter o di Ionesco, in cui il cantiere rappresenta un mondo fittizio e autoreferenziale, uno scenario di cartapesta contrapposto al mondo reale di Santa Maria, il quale appare a Larsen, nel corso delle sue sempre più rade visite alla cittadina, alla stregua di una dimensione aliena (e alienante) da cui fuggire per rifugiarsi nell'insensato ma confortevole inganno a cui ha scelto di credere. E' curioso come Larsen e gli altri emblematici personaggi oscillino tra una chiaroveggente consapevolezza del fatto che il loro non è altro che un gioco illusorio e mendace, che nessun deus ex machina interverrà per garantire un qualche salvifico lieto fine, e il bisogno contrapposto di continuare comunque a giocare e a sostenere, costi quel che costi, la parte loro assegnata dal destino in questa rappresentazione. La loro paura è solamente quella che qualcuno decida improvvisamente di smettere di giocare, di scendere per così dire dalla giostra, facendo definitivamente cadere il velo della finzione e rompere in tal modo l'incantesimo (cosa che nel finale si avvererà con un eclatante eppur scontato e prevedibile suicidio). Alle volte capita a Larsen di aprire gli occhi e di sospettare di colpo, con uno stupore infastidito ed eccitato insieme, di essere “l'unico uomo vivo in un mondo popolato di fantasmi”. In questo universo ambiguamente kafkiano (al Kafka del “Castello” mi ha fatto pensare soprattutto il sogno di Larsen di poter entrare un giorno nella villa di Petrus, cui egli si dedica con tenacia e costanza ma che è destinato miseramente a fallire, in quanto l'uomo non andrà mai oltre il bersò nel giardino e la camera da letto della domestica) qualsiasi aspirazione, qualsiasi progetto, perfino la seduzione esercitata, da esperto uomo di mondo quale ritiene di essere, nei confronti delle tre archetipiche donne del romanzo, sono solo riti rassegnati, stanchi e nostalgici, come cose giunte fuori tempo massimo che rimandano alle ambizioni e alle speranze di un passato che è ormai solo un ricordo, così lontano da un presente in cui è ormai ben poco ciò che è rimasto e che si può tentare di salvare. Il destino di Larsen, cui egli si abbandona con spossata arrendevolezza (al punto che dall'unica opportunità di agire veramente che gli si presenta, in occasione delle doglie della moglie di Galvez, egli fugge a gambe levate), è fatalmente quello “di non esistere, di trasformare la propria solitudine in assenza” e – ça va sans dire – nella morte (senza neppure bisogno dell'intervento della rivoltella che Larsen tiene in una fondina sotto l'ascella e che per tutto il romanzo aleggia vanamente come uno spettro, contraddicendo il famoso detto di Cechov che se c'è una pistola in scena prima o poi sparerà).
Questo complesso e suggestivo materiale narrativo è trasferito da Onetti sulla pagina con una scrittura di grande, impareggiabile fascino. Lo stile dello scrittore uruguagio è limpido, meticoloso e dettagliato; ogni gesto, ogni espressione, ogni oggetto viene presentato con una profusione di aggettivi che aiutano a mettere a fuoco, ognuno un po' di più, ognuno un po' meglio, quanto si vuole descrivere (mi piace pensare a Onetti come a un pittore che, dopo due pennellate, si allontani dalla tela per osservarla meglio, e poi decida di aggiungere una terza pennellata per ottenere l’effetto cromatico desiderato), a volte correndo addirittura il rischio, calcolato ovviamente, di contraddirsi ossimoricamente, con esiti sorprendentemente poetici (quando ad esempio si legge che Larsen “avrebbe preferito, per quello che stava per succedere, una data antica, giovane” viene in mente il Pascoli de “L'aquilone”). Pur nella indiscutibile semplicità e nella estrema leggibilità della sua prosa, Onetti inanella frasi avvolgenti, sinuose, riconoscibilissime nel loro voler costantemente proporre un senso nuovo, inedito, trasversale alle cose: così le strade fangose di Puerto Astillero sono “frammentate dalle promesse di luce dei pali nuovi di zecca dei futuri lampioni”; i vecchi mobili del cantiere, “sconfitti dall'uso e dalle tarme”, sono “ansiosi di esibire la loro natura di legna da ardere”; “la sfumatura arcaica della pioggia aveva iniziato a risuonare con buffonesca intransigenza”; e così via. L'effetto è quello di ottenere un paesaggio indubbiamente oggettivo e concreto, ma ricco al tempo stesso di risonanze oniriche e quasi surreali. Dal momento che prima ho accennato alla pittura, confesso che a me il mondo descritto da Onetti ha fatto venire in mente i dipinti di Giorgio De Chirico (dechirichiano è indubbiamente “l'edificio grigio, cubico, eccessivo” del cantiere), in cui le prospettive nette e i volumi ben definiti lasciano trasparire echi di metafisica inquietudine. Così ne “Il cantiere” implacabili lampi di ambiguità squarciano la cortina del reale: basti pensare alle facce che circondano Larsen, descritte minuziosamente (soprattutto le bocche) come se fossero maschere grottesche di una insensata recita che forse solo la morte è destinata a interrompere. L'opera di Onetti, in apparenza così circostanziata e trasparente, raggiunge in tal modo valenze inaspettatamente, potentemente metaforiche, laddove il cantiere assurge a simbolo della vita stessa, dove spesso si finge di trovare un senso anche dove il senso semplicemente non c'è, e si continua a lavorare, ad amarsi, a procreare, per non cedere definitivamente alla esiziale tentazione del nulla; e soprattutto a emblema della fede, vista come un inevitabile ma illusorio punto di approdo, capace di resistere tetragonamente ad ogni dubbio ed evidenza contrari, in cui ci si costringe a chiudere gli occhi non già per la paura di guardare, ma per il terrore di scoprire, aprendoli, che non è rimasto più nulla da vedere.
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DECADENZA DI UNA FAMIGLIA ALTOBORGHESE
“I Buddenbrook” si situa, anche cronologicamente (è stato pubblicato nel 1901), nello spartiacque tra il classico romanzo ottocentesco e il moderno romanzo del Novecento. La saga della famiglia Buddenbrook, raccontata nell’arco di quattro generazioni (dal 1835 al 1877), non ha ancora quella forza allegorica che caratterizzerà più avanti “La montagna incantata”, eppure non c’è dubbio che, seppur muovendosi entro stilemi narrativi consolidati (ampie e dettagliate descrizioni di personaggi e ambienti, rigoroso punto di vista dell’autore, narrazione cronologica degli eventi, dei quali sono privilegiati quelli più rilevanti come nascite, morti e matrimoni), esso lascia intravedere alcuni piccoli, quasi indistinti eppure inequivocabili segnali di crisi e di inquietudine di un mondo destinato a tramontare di lì a pochi anni. Già la scelta di iniziare il romanzo con l’inaugurazione della prestigiosa abitazione nella Mengstrasse non è casuale. La famiglia Buddenbrook è ritratta all’apice della sua fortuna, nel momento di massimo splendore, ed è inevitabile che, sia pure tra alti e bassi (tra i primi, la fortuna politica di Thomas, che fa da parziale contrappeso alle disavventure matrimoniali di Antonie e al fallimento esistenziale di Christian), la sua storia descriva una parabola di lento, impercettibile ma inesorabile declino. In questo itinerario, il mondo dei Buddenbrook è descritto come un gigantesco Monopoli, dove doti coniugali, quote ereditarie e matrimoni di interesse informano le strategie dei personaggi-giocatori e dove ogni nuova generazione è un tiro di dadi che può aumentare o al contrario scompaginare la fortuna accumulata, la quale si sostanzia in case che si costruiscono o che al contrario passano di mano, per segnare, in quanto segni esteriori ma necessari di prestigio sociale, la vittoria e la sconfitta. In questo gioco ci vuole tanta testa e poco cuore, tanto rigore, ragionevolezza e decoro e poca istintività e passione: questa è l’alta borghesia mercantile descritta da Mann, ossessionata dalla sopravvivenza in un mondo spietato, in cui darwinianamente vanno avanti solo i migliori e in cui arte, amore e religiosità rappresentano piuttosto degli ostacoli e degli impacci che dei valori positivi. In questo senso, la caduta dei Buddenbrook può essere spiegata, anziché da cause esteriori, dalle predisposizioni spirituali dei suoi componenti maschili: se il vecchio Johann è un granitico uomo d’affari che non si lascia mai tentare da nulla che non siano i doveri imposti dal suo commercio e dalla vita pubblica, suo nipote Thomas soffoca fin da giovane (e con tardivo rimpianto) le sue inclinazioni meno prosaiche per diventare il logico erede della Ditta, mentre l’ultimo nato, Hanno, è la dimostrazione che una sensibilità esageratamente acuta (come quella di un artista) è incompatibile con il successo nella vita sociale, oltre che – come sempre in Mann – con la vita stessa. A un livello più generale, quello della società nel suo complesso, a una maggiore raffinatezza estetica e intellettuale, non supportata da adeguati valori etici e – soprattutto - dalla incondizionata fiducia nel proprio futuro, corrisponde – sembra dire lo scrittore – un’ineluttabile resa dei conti con la Storia (così è stato, per fare due soli esempi, per la Roma antica e per l’Impero austro-ungarico).
La ragione dell’interesse de “I Buddenbrook” non è difficile da trovare: più che da motivi psicologici (che sono marginali, perché i personaggi non evolvono praticamente mai e fin dal loro apparire si presentano con i tratti i quali, con minime varianti, li accompagneranno per tutta la vita) il romanzo trae il suo senso profondo e la sua morale dal lento lavorio della vita che, come il mare forma nel tempo nuove spiagge e ne distrugge altre, così, con la stessa imperturbabilità e la stessa indifferenza, innalza agli altari o getta nella polvere i suoi protagonisti. Protagonisti che Mann riesce, con la sua impareggiabile perizia letteraria, a rendere figure indimenticabili, da Elizabeth Kroger, che chiude gli occhi di fronte a qualsiasi contrattempo e lo allontana con un elegante “assez”; a Christian, l’irregolare della famiglia, il viveur dal fragile equilibrio nervoso e dalla debole volontà; giù giù fino ai personaggi minori - quali Klothilde, Sesemi Weichbrodt e le Buddenbrook della Via Larga - la cui persistenza negli anni dei rispettivi caratteri, assume quasi una connotazione caricaturale. Su tutti spiccano ovviamente Thomas e Antonie. Il primo, autorevole e oculato difensore del nome della famiglia, nasconde dietro la sua infaticabile attività e il suo rigido senso del dovere una mancanza di veri e propri interessi e una aridità dello spirito che col tempo lo consumeranno come una malattia. Egli, pur apparentemente così sicuro di sé, è sempre cosciente della situazione in cui versa la famiglia, e quando cita il proverbio turco “Quando la casa è finita, arriva la morte” prefigura pessimisticamente (così come aveva già fatto inconsciamente il piccolo Hanno quando “profana” il prezioso libro di famiglia) l’estinzione della casata. Ma è Antonie, la sventurata Tony, il personaggio più toccante del romanzo: una ragazza viziata, orgogliosa e infantile, che però, infantilmente, riesce a sopportare le più crudeli avversità della sorte e che un provvidenziale pianto consolatore di fronte a ogni tragedia familiare sa rimettere in carreggiata per continuare a portare a testa alta (perché “non bisogna dimenticare che il nonno andava in giro con un tiro a quattro”), anche quando è ormai rimasta tristemente sola, l’onore della famiglia.
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UN IMPONENTE ROMANZO METAFORICO
“La montagna incantata” è un libro a più strati. Quello più superficiale ci mostra un romanzo dall’impianto e dallo stile inequivocabilmente realista. Esso racconta la vicenda umana di Hans Castorp il quale, recatosi a visitare per tre settimane il cugino in cura presso un sanatorio svizzero, vi rimane, per un motivo o per l’altro (l’insorgere, sia pure in forma leggera, della malattia prima e l’assuefazione alla vita agiata e protettiva della clinica successivamente), ben sette anni. La descrizione meticolosa – e appunto realistica - della vita al Berghof attraversa tutte le settecento pagine del romanzo, con una leggera vena di umorismo che mira a mettere alla berlina un universo che, chiuso e autosufficiente com’è, è in grado di diventare in breve tempo un vero e proprio surrogato della vita, tale da rendere addirittura inabili a vivere al di fuori di esso (allo stesso modo in cui uno zoo rende inetti alla sopravvivenza autonoma gli animali che esso ospita). Capitolata l’iniziale, stolida presunzione di essere diverso dalle persone che ha intorno (alla stessa stregua del Joseph K. del “Processo” kafkiano), il protagonista è costretto a subire quasi con onta la caduta in quella condizione di malato da cui si sentiva naturalmente esentato, ma, superato il primo inevitabile disorientamento, la immodificabile ritualità delle giornate di cura, fatta di misurazioni della temperatura, riposi in posizione orizzontale, brevi passeggiate all’aperto e lauti pranzi, gli diventa a tal punto congeniale da fargli perdere definitivamente ogni interesse circa la sua guarigione.
Quello della malattia (e della morte) è un tema che si arricchisce di implicazioni via via più profonde: e qui siamo al secondo strato, quello immediatamente sottostante. La malattia è per i pensionanti del Berghof quasi uno speciale segno di nobiltà, che li distingue dalla stupida gente del piano e dà loro diritto a uno stile di vita moralmente libero e disinibito, e in una delle sue lezioni sulla psicanalisi Krokowski vi intravede, sulla scia degli studi freudiani, l’espressione subconscia e liberatoria di passioni amorose e di pulsioni sessuali represse. Andando ancora più in là, Mann, con una invenzione degna del “Faust” di Goethe, promuove la malattia – a cui aveva già dedicato anni prima “Morte a Venezia” - al livello di un passaggio obbligato, non solo verso la salute e la vita, ma verso il sapere e la conoscenza (un atteggiamento simile a quello che un secolo prima Edgar Allan Poe aveva assunto nei confronti della follia). In questo senso la vita di Hans Castorp può essere letta come una storia di weltanschaung iniziatica.
Il terzo strato è costituito dall’originale trattamento riservato dallo scrittore tedesco al concetto del tempo. La scommessa è non solo quella di oggettivare il diverso valore assunto dal tempo, così come percepito dal protagonista, nelle diverse fasi della vicenda (denso e pieno nelle prime settimane di permanenza di Castorp al sanatorio, e sempre più smaterializzato, più privo di significato via via che le giornate iniziano a susseguirsi tutte uguali, con monotona e routinaria uniformità), ma anche quella di far aderire lo stesso stile narrativo a questa progressiva trasformazione, per mezzo di un cambiamento nel registro stilistico così come dell’inserimento di frequenti riflessioni dell’autore sul significato dello scorrere cronologico della vita.
Questa considerazione ci porta a considerare “La montagna incantata” alla stregua di un romanzo filosofico: i personaggi di Thomas Mann sono infatti tutti, chi più chi meno, portatori, anzi per meglio dire vere e proprie incarnazioni, delle posizioni ideologiche del tempo. Settembrini, ad esempio, l’umanista che aspira a liberare l’umanità dalla sofferenza, che ha come eroi Prometeo e Leopardi e che ammonisce Castorp a non lasciarsi vincere dall’inerzia e dallo snobistico vittimismo che impera nel sanatorio, è l’alfiere della ragione illuministica; il suo avversario Naphta è il patrocinatore dello spirito trascendente (in un paradossale connubio di gesuitismo e comunismo); Behrens è il simbolo del darwinismo scientifico e Krokowski della psicanalisi freudiana (con le sue derive irrazionaliste); e infine Mynheer Peeperkorn è l’esteta del sentimento e dei piaceri carnali. Tutti questi (e altri ancora che non ho citati per dovere di sintesi e di brevità) sono altrettanti poli entro la cui orbita viene di volta in volta attirato Castorp, inconsciamente alla ricerca di un sostituto della figura del padre che non ha mai avuto e anche – in quanto espressione dell’uomo borghese, cioè dell’uomo medio senza idee forti e potenzialmente vittima del conformismo o del fanatismo ideologico (sarebbe interessante sapere, se il romanzo non si interrompesse sulla soglia della Grande Guerra, quale posizione avrebbe assunto nei confronti della dittatura nazista) – di un valore per cui valga la pena di vivere (di qui le sue estemporanee passioni per l’anatomia, per lo sci, per la musica o per le sedute spiritiche).
La natura dei personaggi manniani (che comunque – lo ripeto a scanso di equivoci – conservano sempre un notevole spessore psicologico da grandi figure romanzesche) ci porta allo strato più profondo dell’opera, quello più squisitamente simbolico. Il sanatorio è infatti la metafora di un mondo, in specie l’impero austro-ungarico, e di un’epoca in dissoluzione. Per Mann, infatti, lo spirito del tempo, così “privo di speranze e prospettive” determina “un’azione paralizzante la quale, passando attraverso il senso morale psichico, finisce con l’estendersi addirittura alla parte fisica e organica dell’individuo”. Di qui il collegamento con la malattia del protagonista e degli altri ospiti del Berghof, e di qui anche il nesso, attraverso il progressivo deteriorarsi dello spirito dei pazienti (preda dei demoni della stupidità, dell’intolleranza e della violenza), con l’immane tragedia della Prima Guerra Mondiale, di cui gli avvenimenti narrati rappresentano in chiave metaforica gli inquietanti prodromi. E’ per questi motivi che “La montagna incantata” può a buon diritto essere considerata come uno dei più grandi e affascinanti affreschi della storia dell’Europa nel primo scorcio del XX secolo.
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LA BIBBIA SECONDO BARTH
“Il lettore dovrebbe aprire questo libro con un atto di fede, e chiuderlo con un atto di carità.”
Vorrei iniziare questa recensione partendo da una doverosa premessa. “Giles ragazzo-capra” è stato pubblicato in Italia, a sei anni dalla sua uscita americana, nel 1972 da Rizzoli e da allora non ha più avuto né una ristampa né una nuova edizione, al punto da risultare al giorno d’oggi praticamente introvabile. Se non si ha la fortuna di reperirlo in una biblioteca pubblica o presso qualche rivenditore di libri usati oppure (come il sottoscritto) in un sito di streaming online, il romanzo di Barth, pur inserito da diverse pubblicazioni come uno dei libri da leggere almeno una volta nella vita, è destinato al più inglorioso anonimato, come un tesoro sepolto di cui si sia colpevolmente perduta la chiave. La domanda che inevitabilmente mi viene da porre è pertanto la seguente. E’ mai possibile che in quasi cinquant’anni nessuna casa editrice si sia sentita, nell’ambito di un progetto di ampio respiro e non solo nell’ottica del profitto mordi e fuggi, di dare spazio a una proposta di nicchia ma di altissimo profilo intellettuale, in parole povere non si sia sentita di fare – seriamente – cultura? Dove sono finite la voglia di rischiare, l’orgoglio di avere in catalogo opere di qualità, il senso etico di chi non vuole accontentarsi di seguire acriticamente il gusto delle masse, dov’è finito cioè il ruolo di quell’editoria a cui abbiamo sempre guardato con ammirazione come a un baluardo contro l’imbarbarimento e l’ignoranza? E’ un vero peccato che la mia recensione abbia solo il simbolico valore di un messaggio in una bottiglia affidato alla provvidenziale benevolenza del caso, perché “Giles ragazzo-capra” meriterebbe di stare nelle librerie di un numero molto più grande di lettori.
Quasi anticipando beffardamente le possibili reazioni di critica e pubblico nei confronti del suo libro, Barth nella prefazione riporta gli eloquenti pareri di alcuni fantomatici redattori: c’è chi rifiuta categoricamente il romanzo in nome della moralità, della decenza e perfino del realismo (“non è mai esistito un ragazzo-capra!”), chi dichiara che il solo scopo dell’autore è quello di strabiliare, di essere eccentrico a scapito della realtà; chi considera il libro anti-economico, e così via. Barth dimostra fin da subito di aver le idee chiare e di potere (o volere?) fare a meno del pubblico, perché “felice di aver solo una dozzina di lettori, in quanto un tredicesimo potrebbe tradirlo”. Ma cos’è che rende “Giles ragazzo-capra” un’opera così atipica, da doverla leggere solo dopo che il suo autore si è premunito di mettere tutti sull’avviso, similmente al bugiardino di un farmaco, circa i rischi che si possono correre?
In effetti “Giles” è un romanzo che definire bizzarro e stravagante suona quasi come un eufemismo. Perfino “L’arcobaleno della gravità” di Pynchon appare come un libro convenzionale se messo a confronto con questa storia di un ragazzo allevato in un gregge di capre, il quale, solo dopo essere uscito dalla fanciullezza vissuta in una serena selvatichezza, prende coscienza di essere un uomo e, convinto di essere il Gran Tutore (ovvero il Messia) che tutti stanno attendendo, parte alla volta della civiltà con il proposito di “promuovere” l’umanità e, giunto tra i suoi simili, scopre altresì di essere il figlio di un calcolatore e di una vergine! Come se ciò non bastasse il mondo barthiano non è esattamente quello che conosciamo ma, con una ardita similitudine, appare come una gigantesca Università, divisa in Campus concorrenti, con regole, usi, tradizioni e modi di comunicare tipici dell’ambiente accademico. Non si tratta, come si potrebbe a prima vista pensare, di una allegoria (ossia l’Università utilizzata come simbolo per parlare della realtà contemporanea), bensì di una trasposizione analogica in scala – per così dire – 1:1. Come nel mondo parallelo del murakamiano “1Q84” o nell’Anti-Terra del nabokoviano “Ada o ardore”, anche qui il mondo è sostanzialmente riconoscibile, al punto che gli avvenimenti storici, i personaggi, le correnti religiose e filosofiche sono praticamente gli stessi, anche se diversamente denominati. Non si intravede, a essere sinceri, un’autentica necessità narrativa di creare un universo ex-novo (dove tutto funziona praticamente allo stesso modo), se non nella volontà da parte dell’autore di sfoggiare un virtuosismo davvero raro, quello di creare un’infinità di geniali neologismi: così Stati Uniti, Unione Sovietica e Germania diventano i collegi New Tammany, Nikolay e Sigfrido, la Guerra Fredda è la Sommossa Silenziosa, capitalismo e comunismo sono informazionalismo e unionismo, l’energia atomica è l’EAT (Amplificazione e Trasmissione Elettroencefalica, ma il termine in inglese ha anche ovvie assonanze con il verbo mangiare), Dio e il Diavolo sono il Fondatore e il Decano dei Bocciati, Gesù e Buddha sono Enos Enoch e Sakhyan, gli Ebrei sono Moisiani, perfino personaggi antichi della storia o dell’arte come Socrate o Edipo diventano Maios e il Decano Pietorto. In più tutto è declinato in termini di esami e votazioni, promozioni e bocciature, Decani e Gran Tutori, in un gustoso pastiche di stampo sottilmente parodistico.
Il mondo di “Giles” è inequivocabilmente il nostro (perfino nel Cancelliere Lucius Rexford si può riconoscere la figura di JFK), eppure assistiamo a una doppia distorsione di segno opposto. Da una parte l’universo di “Giles” presenta curiosi tratti di arretratezza: gli spostamenti, ad esempio, avvengono esclusivamente per mezzo di motociclette e di sidecar, mentre di automobili e di aerei non c’è stranamente traccia; e più in generale tutto sembra avere una consistenza di cartapesta, oggettiva e concreta come può esserlo la materia di un sogno. Dall’altra parte, per contro, il mondo prefigurato da Barth è per molti versi più avveniristico del nostro. In “Giles” infatti si immagina che a un gigantesco calcolatore, Il Wescac, sia demandata l’intera gestione pratica del Campus Occidentale, dall’approvvigionamento dell’energia elettrica alle misure di difesa militare (comprese le strategie di deterrenza per scongiurare un attacco da parte del Collegio nemico, a sua volta dotato di un analogo calcolatore, l’Eascac). Barth ipotizza che il Wescac sia stato dotato di libero arbitrio e reso capace non solo di funzionare automaticamente, senza richiedere l’intervento di alcuna persona, ma anche di provare passioni, desideri e immaginazione: un incubo che nemmeno l’Orwell più pessimistico era mai giunto a concepire. In pratica, il Wescac, programmato per programmarsi autonomamente e per distruggere tutti coloro che tentino di alterare gli scopi da lui prescelti, è diventato come una sorta di divinità, minacciosa e incontrollabile. Barth, che grazie alle pagine sul Wescac potrebbe a buon diritto essere considerato il padre della letteratura cyberpunk, esprime con una satira amara e pungente la preoccupazione per la stolida pretesa dell’uomo di padroneggiare con i suoi miseri e fallibili mezzi cose troppo più grandi di lui, che rischiano in ogni momento di sfuggire al suo controllo e condurlo alla catastrofe: una preoccupazione che negli anni ’60, in piena Guerra Fredda, era vissuta angosciosamente da milioni di persone, ma che risulta con ogni evidenzia ancora attualissima.
La paranoica distopia dell’universo barthiano trova la sua espressione a mio avviso più compiuta nelle pagine ambientate nella Fornace, governate da una parossistica follia. C’è qualcosa del Kafka di “America”, ma di un Kafka survoltato e ubriaco, in questa sorta di pantomima burattinesca, di “manicomio scatenato”, in cui schiere di operai corrono affannosamente in un perenne stato di emergenza, con carrelli che scendono alla cieca sui binari, argani che si incagliano, cavi che si spezzano e condutture che prendono fuoco, il tutto in un frastuono assordante e in un’atmosfera di massima disorganizzazione. Ci sarebbe da ridere di gusto di fronte a queste scene, se non fosse che ci troviamo all’interno della Centrale dell’energia che fa funzionare il calcolatore, e con esso l’intero Campus. Contraltare della Fornace è la Disciplinare, che rappresenta un secondo tipo di inferno, non più caotico e incontrollabile, bensì organizzato meticolosamente secondo un progetto che ricorda la suddivisione in gironi e bolge dell’Inferno dantesco. Un piano dell’edificio, ad esempio, è riservato a “quei professori che avevano usato il sabbatico come luna di miele o avevano preso parte a certe feste della facoltà in cui ci si scambiava le mogli” o “chi pur leggendo e svolgendo delle ricerche non si decideva mai né a insegnare né a pubblicare, o viceversa dedicava tanta parte del suo tempo alle pubblicazioni e all’insegnamento che non gliene restava più per leggere o per fare ricerche, e infine i professori che intimidivano gli studenti e gli studenti che scrivevano libelli contro i loro professori”. E un blocco di un altro piano è dedicato “a quegli autori di libri di testo che pubblicavano edizioni rivedute o accresciute per boicottare il mercato di libri usati, ai facitori di tesi, proliferatori di note a piè di pagina, e di ricerche inutili, e dispensatori di borse di studio privi di scrupoli”, e così via, in una divertentissima escalation di peccati accademici che mettono in risalto la bravura del Barth più parodistico, capace non tanto di usare, come farebbero i più, l’università per fare l’allegoria della realtà, ma al contrario di usare la realtà, lui che era stato per dodici anni docente alla Pennsylvania State University, per fare l’allegoria dell’università.
Ho parlato di Kafka e di Dante, ma “Giles” vanta un vero e proprio florilegio di riferimenti, soprattutto mitologici. In primo luogo la già citata nascita straordinaria del protagonista George, il ragazzo-capra, richiama ovviamente il Vangelo. Anzi, l’intero romanzo è un po’ una rivisitazione degradata delle Sacre Scritture: come Gesù George vive appartato, lontano – per così dire – dalla luce dei riflettori, la sua giovinezza, e proprio come Gesù decide di scendere tra gli uomini e rivelarsi come il Messia, affrontando le tentazioni (le scandalose feste a cui viene invitato da Stoker), compiendo i primi miracoli (le “prove” della Grata del Capro Espiatorio e del Cancelletto Girevole, grazie al “prodigioso” superamento delle quali ottiene l’ammissione ai corsi universitari, la discesa nel famigerato e letale “ventre” del Wescac, che funziona un po’ da riconoscimento soprannaturale della sua natura “grantutoria”) e venendo addirittura annunciato da un ambiguo Battista (il trasformistico Harold Bray, che per tutto il romanzo è una specie di Messia concorrente, non si sa se più lestofante o più “graduato” di George); attraverso la sua ingenua e appassionata predicazione è pian piano attorniato dai primi bizzarri discepoli e da una sorta di sensuale e fedelissima Maddalena, viene addirittura messo a morte dalla folla inferocita, “risorgendo” inopinatamente nella seconda parte del romanzo e dando vita a una nuova religione, il “gilianesimo”, con tanto di scismi e divisioni in confessioni parallele. Anche se la parabola religiosa di Barth non è apertamente irrispettosa e canzonatoria, si possono capire le resistenze che il suo libro deve avere creato alla sua uscita nel mondo cattolico, dal momento che George, privo dei freni inibitori inculcati da una normale educazione umana, non disdegna affatto il sesso, e più in generale i comportamenti anticonformistici (quando ad esempio il Rotolo del Fondatore, un corrispettivo del nostro Antico Testamento, viene inavvertitamente ridotto dal catalogatore in striscioline di carta, egli si trova, memore della sua alimentazione caprina, a mangiarne dei pezzi). L’intento di “Giles”, ancorché inevitabilmente scettico, non è comunque quello di essere una parodia alla Monty Python del Libro Sacro del Cristianesimo, tanto è vero che il finale ha delle inaspettate venature tragiche e persino nichiliste, laddove George, ormai invecchiato come il Gesù di Kazantzakis (dopo che a morire sulla Collina del Fondatore è stato il suo mentore Max Spielman, e ad “ascendere” al cielo, sparendo dalla vista degli astanti, è stato il suo antagonista Bray) riflette amaramente sulla deriva della sua dottrina, così lontana dalla purezza e dagli entusiasmi degli esordi. In linea con la sua natura di romanzo postmodernista, il proposito di “Giles ragazzo-capra” nel raccontare la prodigiosa storia di George è invece, più propriamente citazionistico. Prendendo spunto dall’imprescindibile testo di Joseph Campbell, “L’eroe dai mille volti”, Barth scrive infatti una sorta di testo programmatico che contiene tutti i “topoi” della letteratura eroistica: dalla nascita misteriosa (pensiamo, oltre a Gesù, a Mosé e a Romolo e Remo, questi ultimi tra l’altro allevati, similmente a George, da una lupa) alla relazione complicata con il padre (Edipo), dal ritiro dalla società al ritorno in essa attraverso il superamento di prove di vario genere (qui vengono in mente gli eroi di Omero, in particolare Ulisse, espressamente citato nella scena della gola di George – dove il protagonista deve opporsi alla irresistibile visione della nudità di Anastasia – o quando, per accedere alla Torre dell’Orologio in cui “nessuno” può entrare, egli adopera lo stesso stratagemma utilizzato con Polifemo). Naturalmente Barth sottopone questo materiale alle deformazioni e agli stravolgimenti tipici del postmodernismo. Il ragazzo-capra ripercorre così tutti i momenti topici dell’eroe classico-mitologico, ma si comporta più come un velleitario Don Chisciotte che come un astuto Odisseo, e nella sua predicazione ricorda piuttosto il Candido di Voltaire o l’Idiota dostojevskijano che Gesù. Infatti quando, nella sua prima fase “grantutoria”, egli insegna a separare manicheisticamente il bene dal male (il “promosso” dal “bocciato”), George provoca involontariamente, nonostante le sue migliori intenzioni, una montagna di danni, rischiando addirittura di far scoppiare la Terza Sommossa. In questo senso “Giles” si candida a romanzo chiave della letteratura postmoderna, in quanto giunge a teorizzare l’impossibilità di addivenire ad una conoscenza irrefutabile del mondo e ad un’etica condivisa. George, dopo aver constatato che Bene e Male non possono essere tenuti distinti, dapprima arriva a predicare, prendendo alla lettera il detto evangelico che “gli ultimi saranno i primi” (“i bocciati saranno promossi”), che per arrivare al Bene bisogna paradossalmente perseguire il Male, che le distinzioni tra colpa e innocenza, tra vero e falso sono infondate, per giungere infine, attraverso una serie di confuse capriole logiche, ad una sorta di relativismo filosofico vagamente orientale e molto anni ’60, in cui “tout se tient” e dove natura e cultura, istinto e razionalità vanno infine tra loro a braccetto. Nella sua seconda parte “Giles” diventa una sorta di “conte philosophique” (ovviamente molti sui generis), in cui i personaggi sillogizzano in continuazione, perdendosi in lambiccate elucubrazioni dove volta a volta a prevalere è una ferrea logica aristotelica o al contrario una capziosa manipolazione della stessa, con la conseguenza di arrivare a sostenere una cosa per affermare il suo contrario (“Sorrisi, sperando di confonderlo a forza d’inversioni d’inversioni così da poter alla fine chiarire a me stesso quelle giuste. «Quel che tu non sai, quando ti dico che la Bocciatura è Promozione, è se io voglio che tu creda che è così perché non è così o che non è così perché è così.» Anche Stoker sorrise ed aggiunse come en passant «… o che è così perché è così eh? o che non è così perché non è così…»”). L’effetto di questo helzapoppiano teatro delle idee è quello di mettere alla berlina la filosofia contemporanea, nel romanzo rappresentata soprattutto dagli “essisti” (specie di ibridi intellettuali, metà “clerici vagantes” e metà hippies ante litteram), attraverso la cui sterile dialettica sganciata dalla realtà è possibile arrivare a rendere filosoficamente legittima qualsiasi cosa.
“Giles” è postmoderno anche – e soprattutto – per l’utilizzo spregiudicato del linguaggio. Attraverso un uso sapiente del pastiche (che forse solo nell’”Ulisse” di Joyce era stato utilizzato con pari consapevolezza) Barth alterna diversi stili, spaziando dalla tragedia sofoclea (l’”Edipo re” è addirittura riscritto nella sua interezza con il titolo di “Decano Pietorto”, in un titanico sforzo di parodistico citazionismo che occupa decine di pagine) alla religione (è veramente spassoso il “Padre Nostro” declinato in versione studentesca), dalla scienza alla filosofia. Ovviamente il linguaggio è anche visto in chiave critica, laddove Barth mette in evidenza la sostanziale ambiguità della comunicazione. Ad esempio, George, dopo aver assistito di nascosto, nel suo periodo “caprino”, all’accoppiamento di due studenti, usa del tutto fuori contesto con la Signora dai Capelli di Panna le parole udite durante quel corteggiamento e, fraintendendo la risposta della donna, la aggredisce brutalmente facendola fuggire terrorizzata.
Altre caratteristiche tipiche del postmodernismo sono presenti in “Giles ragazzo-capra”, dalla incertezza sulla paternità dell’opera (chi ha scritto in fondo “Giles”: una ragazzo-capra, un uomo o un calcolatore? e il testo è originale oppure un falso storico, passato attraverso astute e interessate manipolazioni?) alla voluta noncuranza per le psicologie dei personaggi. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, si può osservare che, come gli ambienti paiono di cartapesta, anche i personaggi sembrano più delle macchiette e dei cartoni animati che degli individui in carne ed ossa, ognuno estremamente caratterizzato in chiave simbolica (anche se in maniera forzatamente grottesca) e assomiglianti vagamente alle bizzarre figure incontrate dal piccolo Principe di Saint-Exupéry nel corso delle sue peregrinazioni (si pensi, a mo’ di esempio, ad Ira Hector, il Vecchio del Viale, un avaro patetico e “testugginoso” che cerca di vendere a tutti qualsiasi cosa o informazione in suo possesso, persino l’ora esatta). Alcuni dei personaggi di “Giles” sono dotati di una statura artistica che li rende davvero memorabili. Maurice Stoker è l’alter ego del ragazzo-capra, principe dell’intrigo e fomentatore di disordini, sorta di subdolo pirata alla testa di una rissosa e sguaiata banda di teppisti, eppure inopinatamente a capo sia della Centrale dell’Energia sia della Disciplinare; mefistofelico e perverso, secondo lui “il disordine è l’unico vero ordine”, e la contraddizione è l’unica armonia”; Stoker in fondo è come il diavolo dostojevskijano, “il necessario termine negativo, senza il quale (come si legge ne “I fratelli Karamazov”) “non succederebbe niente, e bisogna che succedano le cose”. Sua moglie Anastasia è invece una specie di “puttana santa”, crocerossina del sesso che si concede carnalmente a chiunque la desideri, più per altruismo e spirito di carità che per autentica ninfomania, e non a caso diventerà la più fedele discepola di George rendendolo anche padre. Max Spielman, scienziato “moisiano” e padre putativo di George (praticamente una combinazione dell’evangelico Giuseppe e di Einstein), cerca di allevarlo nella natura e lontano dalla civiltà (critico com’è nei confronti della sua deriva tecnocratica), in una riedizione del mito rousseauiano del buon selvaggio; per un inestirpabile spirito di sacrificio sceglie alla fine del romanzo di farsi impalare, in una cerimonia che ricorda la crocifissione del Cristo, per redimere le colpe ataviche del suo popolo. Stoker, Anastasia, Max e gli altri non meno indimenticabili personaggi (i coniugi Sear, dediti a depravate raffinatezze, Peter Green e Leonid, simboli delle due ideologie politiche contrapposte e destinati non a caso a finire entrambi ciechi, Eblis Eyerkopf e Gracchione, l’uno tutto cervello e l’altro tutto istinto, che si trovano ironicamente condannati a vivere simbioticamente insieme, e molti altri ancora) formano una fauna umana di straripante fantasia e di esemplare icasticità.
Non tutto, a dire il vero, è perfetto in “Giles ragazzo-capra”. Ad esempio, la seconda parte del romanzo gira un po’ a vuoto e risulta abbastanza ripetitiva, dal momento che George, dopo aver fallito le sei prove del compito che il Wescac gli aveva affidato, le ritenta per altre due volte in circostanze praticamente identiche (compresa una triplice discesa nel ventre del calcolatore), Ciò genera un inevitabile senso di ridondanza e di prolissità. Anche se strutturalmente alla fine tutto torna e il cerchio si chiude perfettamente, resta l’impressione che una bella sforbiciata alla mole del romanzo (lungo – è bene ricordarlo – quasi mille pagine) gli avrebbe probabilmente giovato. Anche taluni aspetti molto “politicamente scorretti” (anche se questo termine negli anni ’60 non esisteva ancora) rischiano al giorno d’oggi di risultare disturbanti (il personaggio di Gracchione, un nero frumentiano – ossia, nella terminologia barthiana, un africano – è talmente tutto istinto e niente cervello da apparire un odioso stereotipo; le donne del libro sono quasi tutte manipolate come oggetti sessuali), benché l’intenzione di Barth non era certo quella di scrivere un trattato antropologico né sociologico né tantomeno morale. Restano comunque indelebilmente impresse del romanzo la prodigiosa intelligenza dispiegata a piene mani, una fantasia praticamente inesauribile e, tra le righe, l’allarmante (ed estremamente attuale) disamina dei rischi che corre l’umanità affidando le proprie sorti a una tecnologia invasiva e onnicomprensiva. La satirica rappresentazione della Sommossa Silenziosa è un prezioso ed originalissimo gioiello che da solo rende imperdibile e preziosa la lettura di questa sgangherata, bislacca ma ineguagliabile teodicea.
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"L'arcobaleno della gravità" di Thomas Pynchon
STORIA TRAGICOMICA DI UN'INFANZIA INFELICE
“Ripensando alla mia infanzia, mi chiedo come sono riuscito a sopravvivere. Naturalmente è stata un’infanzia infelice, sennò non ci sarebbe gusto. Ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora.”
Quello che più colpisce di “Le ceneri di Angela” è la riuscitissima compenetrazione dell’elemento comico in quello tragico. Nel romanzo di McCourt, infatti, morti, disgrazie e disavventure varie si susseguono con implacabile sistematicità, senza peraltro che venga mai meno il tono fondamentalmente umoristico della narrazione. Non si ha – si badi bene – una deformazione grottesca della sofferenza, come potrebbe esserci in un Celine. L’effetto è ottenuto soprattutto grazie alla prospettiva con cui è raccontata la storia, che è quella di un bambino per il quale, ad esempio, il dolore per la morte di una sorella è in qualche modo risarcito dai dolci che può avere l’occasione di mangiare dopo il funerale. Quello che in un adulto sarebbe fastidioso cinismo, in un bimbo appare invece naturale, in quanto il mondo reale convive con la fantasia, l’immaginazione (le visite dell’angelo del settimo scalino in occasione della nascita di un fratellino) e la limitata comprensione della realtà - accentuata dal fatto che gli adulti sono evasivi su ogni argomento e non danno mai risposte – che caratterizza l’infanzia. C’è in McCourt, forse per la natura autobiografica del romanzo, quella abilità mimetica di immedesimarsi alla perfezione con il piccolo protagonista che avevamo già ammirata in “Chiamalo sonno” di Henry Roth. Come in “Chiamalo sonno”, “Le ceneri di Angela” riesce a seguire con credibile precisione psicologica e ricchezza di colore ambientale la crescita del narratore, dalla primissima infanzia a New York all’adolescenza irlandese. L’andamento è prevalentemente aneddotico (nascite, morti, malattie, comunioni, cresime, esperienze scolastiche prima e lavorative poi, ecc.), ma l’effetto generale è estremamente unitario, perché a cementare tutto ci sono degli azzeccati leit motiv, il più importante dei quali sono le peregrinazioni di Angela e dei bambini alla ricerca del padre ubriaco nelle sordide bettole di Limerick, dove l’uomo va a bersi i soldi del sussidio di disoccupazione o della paga. La piaga dell’alcolismo affiora nel romanzo con un taglio volutamente non polemico, eppure esso – come altri fenomeni di profondo disagio sociale (la povertà estrema di chi spesso non ha i soldi per mangiare nulla al di là di un pezzo di pane e di una tazza di tè, eppure è meno povero di chi va a scuola senza scarpe e dorme in tuguri fatiscenti e pericolanti; la tisi, la difterite, il tifo e le altre malattie che decimano la popolazione infantile) – fa da sfondo ineludibile alla rappresentazione cruda e impietosa di un mondo essenzialmente tragico, pur se affrontato senza vittimismi di sorta.
Alla luce di quanto detto sopra, non può meravigliare che la parte più bella del romanzo sia la prima, mentre man mano che il protagonista cresce la narrazione diventa, dal punto di vista temporale, più ellittica e diluita (con l’aumento dell’indipendenza del ragazzo che si accompagna alla graduale perdita di importanza delle figure dei familiari), mentre da quello sentimentale, assistiamo a una minore ingenuità e a una minore naïveté del suo punto di vista. Il tono scivola progressivamente dall’umoristico al patetico (si veda ad esempio la scena in cui Frank va a cercare il padre in tutti i pub della città, ma quando lo trova e scorge il suo sguardo perso in un abisso di dolore non se la sente di riportarlo a casa; o quella in cui la madre andata a chiedere l’assistenza sociale viene crudelmente umiliata davanti a tutti; o ancora quella in cui Frank scopre la madre ridotta a mendicare per strada). Per fortuna McCourt è sufficientemente saggio per resistere alla tentazione di sfruttare il coté lacrimevole e dickensiano della storia, limitandosi ad una umanistica adesione alla sorte di tante vittime della vita. Anzi, in una fase apparentemente interlocutoria del libro, egli riesce a disegnare due indiscutibili capolavori di asciutta e per nulla retorica commozione. Il primo è l’ultimo Natale che il padre passa in famiglia, quel povero pranzo silenzioso alla fine del quale l’uomo si congeda per sempre dai suoi, senza saluti o gesti di commiato; il secondo è la cocente umiliazione subita da Frank ad opera del cugino che ospita in casa la famiglia McCourt, di fronte alla quale la madre sottomessa gira la testa per rimestare le ceneri del caminetto. E’ davvero duro raggiungere la maggiore età per il protagonista, con tutti quei bocconi duri da digerire, quell’alone di povertà ineluttabilmente appiccicato addosso e la solidarietà umana più rara di un miracolo. Il finale aperto alla speranza, con la tanto agognata partenza di Frank per l’America, e l’orgoglio (sia pur segnato da rimorsi e sensi di colpa, amplificati dalla repressiva educazione religiosa ricevuta) di essere sopravvissuto a tutte le terribili avversità occorsegli, sembra legittimare la lettura di “Le ceneri di Angela” anche alla stregua di un racconto di formazione sui generis, a cui McCourt quattro anni dopo ha voluto dare un seguito (“Che paese, l’America”), sfruttando il successo commerciale di un libro meritatamente diventato uno dei maggiori successi editoriali a livello mondiale degli anni novanta.
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L'AMORE NONOSTANTE TUTTO
Per tutta la prima metà del romanzo, Bube e Mara, i due personaggi principali, mi hanno ricordato alla lontana le coppie protagoniste di due film americani degli anni ’70, “Gang” di Robert Altman e “La rabbia giovane” di Terrence Malick: adolescenti precocemente cresciuti al cospetto della vita, criminali quasi per caso, stolidamente inconsapevoli delle conseguenze dei propri atti, per nulla crudeli ma anzi in possesso di una sorta di primitiva purezza, vittime più delle circostanze che del loro modo di essere e di pensare, schiacciati da un sistema che in un certo senso è meno innocente di loro. Quando il protagonista maschile, nel penultimo capitolo, viene giudicato colpevole al processo intentato contro di lui per lo sciagurato omicidio commesso a San Donato sono trascorsi soltanto tre anni dall’inizio della storia, ma ne sembrano passati trenta. Bube e Mara hanno nel frattempo attraversato senza saperlo un contesto storico molto particolare: il periodo immediatamente successivo alla Liberazione, quello in cui l’Italia, da nazione belligerante, dilaniata da una feroce guerra intestina, ha dovuto sforzarsi, dimenticando odi e vendette, di tornare ad essere un Paese normale, civile e democratico. Per loro appare certo legittima, e forse anche necessaria, una lettura storico-politica oltre che meramente generazionale. Bube – e con lui Mara – è infatti senz’altro lo specchio di una complessa fase di transizione, in cui la violenza e la logica delle armi hanno stentato a cedere il passo alla convivenza pacifica e alla supremazia del diritto. Ma vedere Bube solo come l’espressione immatura e semplicistica di quanti hanno scioccamente creduto che fosse possibile continuare a risolvere tutti i problemi con la rivoltella, come giocoforza si faceva durante la lotta partigiana, sarebbe operare una valutazione riduttiva del capolavoro di Cassola. “La ragazza di Bube” parla infatti di ben altro. Bube e Mara si sono fugacemente amati, il primo è andato in esilio e poi è stato arrestato e imprigionato; la seconda ha deciso, nonostante l’incontro con un giovane che l’amava, di rimanere accanto a lui costi quel che costi. La ragazzina civettuola, allegra e solare che avevamo incontrato nei primi capitoli si è trasformata gradualmente in una donna fedele, fiera e tenace, che accetta di sacrificare la giovinezza con un incredibile spirito di rassegnazione. L’eroina di Cassola è commovente nella sua infantile semplicità e nella sua cocciuta coerenza. Mentre il padre la spinge a essere fedele a Bube solo perché la sua fede di militante comunista lo richiede, e la madre a lasciarlo e rifarsi una vita perché ha a cuore, come tutti i genitori, il futuro della figlia, Mara decide di aspettare il proprio uomo per quattordici lunghissimi anni (tanto è il periodo che Bube dovrà passare in carcere) per un motivo totalmente disinteressato, ossia perché un giorno (non importa se aveva solo sedici anni, non importa se lo ha fatto con sventata leggerezza di adolescente) ha fatto una promessa e assunto un impegno che ormai non potrà più tradire, a maggior ragione adesso che qualcuno ha bisogno più che mai di lei per sopravvivere alla disperazione e alla solitudine. Nel romanzo si parla poco, o quasi mai, di amore. Siamo nell’Italia semi analfabeta che sta uscendo a fatica dal suo passato contadino, il boom economico è ancora lontano, i personaggi sono manzonianamente sballottati di qua e di là senza capire il senso degli eventi che si trovano a vivere (siano essi il referendum del 1946 o le elezioni politiche del 1948), e tanto meno sono in grado di interpretare le sottigliezze psicologiche del sentimento amoroso. Ma se non è amore quello di Mara, amore autentico e assoluto, Amore con la maiuscola (verrebbe da dire amore cristiano, se non fosse che la ragazza è fondamentalmente agnostica), beh, allora sinceramente, non so cosa si possa definire veramente tale, soprattutto in un’epoca (quella di sei decenni dopo) in cui le statistiche ci dicono che circa metà delle coppie divorzia e si separa dopo pochi anni di matrimonio, scoraggiate dalle difficoltà, neppure lontanamente paragonabili a quelle di Mara e Bube, della vita a due!
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L'ODISSEA DUBLINESE DI JOYCE
Ricordo di avere letto un giorno la dichiarazione, fatta tra il serio e il faceto (credo che l’autore fosse Woody Allen), che per riuscire a leggere l’”Ulisse” di Joyce bisognerebbe essere nientemeno che Dio. L’iperbolica opinione corrisponde alla fama, ampiamente condivisa dal pubblico, dell’”Ulisse” come del libro più difficile mai scritto al mondo. La cosa non è del tutto vera (nella mia esperienza di lettore posso dire di avere trovato più ostiche opere come “La morte di Virgilio” di Broch o “La terra desolata” di Eliot) e dovrebbe essere corretta se non altro perché rischia di allontanare molte persone dalla lettura di un romanzo il quale, oltre a essere un caposaldo dell’arte di tutti i tempi (anche i detrattori di Joyce non possono non convenire sul fatto che, come la pittura con gli impressionisti o la musica con Stravinskij, la letteratura moderna inizia proprio con l’”Ulisse”), è anche un libro capace di dare un notevole piacere estetico. Certo, lo stream of consciousness con cui si esprimono sovente i personaggi è indubbiamente disagevole per chi non è sufficientemente allenato, e i molteplici riferimenti culturali e intertestuali sono difficilmente comprensibili senza un adeguato supporto critico, ma in primo luogo non si può ridurre tutto il romanzo al solo flusso di coscienza (questo è l’”Ulisse” spiegato agli studenti dei nostri licei, anche se è certo la novità stilistica che risalta di più a un primo sguardo), e in secondo luogo la maggior parte delle edizioni odierne sono accompagnate da agili ed esaurienti guide alla lettura che agevolano non poco il lettore. Pertanto il tour de force con cui Joyce racconta in 740 pagine fitte fitte ventiquattr’ore della vita dei due protagonisti (a occhio e croce trenta pagine all’ora, mezza pagina a minuto) deve essere visto con meno pregiudizi, in una ottica più matura, più “umana” verrebbe da dire.
La prima cosa che mi sembra opportuno rimarcare è che l’”Ulisse” è connotato dalla mancanza di avvenimenti importanti. Se si provasse a riassumere l’intero romanzo in poche frasi ci si accorgerebbe che, nonostante la sua mole, ne è sufficiente non più di una manciata, perché, a parte l’incessante deambulare dei protagonisti per le vie di Dublino, il continuo incrociarsi delle loro traiettorie e alcuni sporadici episodi salienti (l’aggressione subita da Bloom ad opera del Cittadino, la rissa tra Stephen ubriaco e i due soldati fuori del bordello di Bella Cohen), non succede in esso nulla di memorabile, e il parallelo con l’”Odissea” omerica, poema denso di eventi e di azione, sembra messo lì apposta per essere ironicamente rovesciato, tanto è labile e risibile (là la vicenda dura venti anni, qui solo ventiquattro ore; là il protagonista è un eroe che passa attraverso mille peripezie e, rientrato in patria, riconquista la sua donna e il suo regno sconfiggendo acerrimi nemici, qui è un uomo medio, prudente e calcolatore, frustrato nelle proprie ambizioni e il cui approdo finale è un letto coniugale dove poche ore prima si è consumato un ignominioso tradimento). In “Ulisse” sull’essenziale domina l’inessenziale, sul materiale il mentale, sull’oggettivo il soggettivo (e, da un punto di vista più specificatamente narrativo, sul climax l’anticlimax). E’ questa la prima delle tante rivoluzionarie novità apportate da Joyce: la realtà esterna scompare quasi di fronte ai pensieri dei personaggi, l’univocità del mondo si dissolve davanti alla visione deformante di un occhio che è sempre meno quello dell’autore e che assomiglia invece al prismatico, caleidoscopico organo della vista di un insetto, in cui le cose si rifrangono in tanti frammenti parziali per ricomporsi faticosamente in una fragile unità fatta della sommatoria di una infinità di addendi. Conseguenza di ciò è la moltiplicazione arbitraria dei punti di vista narrativi, tanto è vero che alcuni episodi (vedi “Il Ciclope” e “Le Simplegadi”) vedono l’alternarsi di narratori del tutto secondari alla vicenda.
Leopold Bloom e Stephen Dedalus sono all’inizio, come i tanti personaggi che incrociano la loro giornata, dei meri fogli bianchi che si riempiono gradualmente di informazioni psicologiche e caratteriali, all’inizio insufficienti e poi via via sempre più esaurienti ed essenziali. Essi – e questa è la seconda grande novità dell’”Ulisse” – si costruiscono da sé, poco alla volta, a differenza dei personaggi di un romanzo tradizionale, che sono già definiti a priori all’inizio del libro e che le storie che essi vivono arricchiscono solo esteriormente, senza intaccare il loro status inalterabile, assegnato loro dall’autore una volta per tutte. L’interesse dei romanzi del passato sta nel vedere come i personaggi interagiscono reciprocamente, in relazione a quello che la storia fa loro succedere, quello dell’”Ulisse” (e dei tanti romanzi che hanno seguito i suoi insegnamenti) nel vedere come ciascun personaggio evolve a partire da un punto x della sua vita, senza che al lettore sia dato conoscere nulla di ciò che lo ha preceduto (è un po’ quello che accade nella vita quando incontriamo per la prima volta qualcuno di cui ci è sconosciuto il passato). Da questo punto di vista, lo stream of consciousness, più che un virtuosismo fine a se stesso, è un elemento fondamentale nell’architettura dell’opera, consentendo un collegamento in tempo reale con l’interiorità del personaggio e permettendo di fare a meno del contributo, spesso insopportabilmente invadente, dell’autore onnisciente e demiurgo. Il “flusso di coscienza” è un susseguirsi quasi indifferenziato di impressioni, di ricordi, di riflessioni, di cui la realtà esteriore è spesso l’origine, ma che in alcuni casi (basti pensare al grandioso monologo notturno di Molly) può fare a meno di qualsiasi contingenza esterna. Di fronte a questo “corpus” imponente, disomogeneo e apparentemente casuale di informazioni, il lettore è chiamato (ed è questa probabilmente la causa prima della scarsa popolarità dell’opera) ad una stimolante, benché faticosa, attività di selezione, filtro, decifrazione e reinterpretazione, per cercare di comporre un quadro il più possibile coerente del personaggio: insomma un comportamento ben poco passivo (se confrontato con quello a cui la vecchia narrativa lo aveva abituato), che fa del lettore quasi un secondo – e non meno determinante – autore.
Nel magma di pensieri che compaiono ondivaghi nella mente dei personaggi, è difficile, ma non impossibile trovare dei leit-motiv, delle tematiche ricorrenti. Il principale è forse quello della paternità: i due personaggi di Bloom e di Dedalus che per tutto il libro vediamo sfiorarsi, e alla fine della giornata incontrarsi e lungamente discorrere, riflettono una parallela ricerca (sia pur sfociante in un parziale insuccesso) del figlio da parte del primo (il quale anni prima aveva perso il primogenito a pochi giorni dalla nascita) e del padre da parte del secondo (in fuga dalla sua famiglia d’origine). Ma accanto a questo, altri motivi percorrono il romanzo: la morte (Bloom partecipa al funerale di un conoscente e ricorda spesso il suicidio del padre, Dedalus ha appena perso la madre), il sesso (il tradimento di Molly, le curiosità sessuali di Bloom, l’episodio di scopofilia sulla spiaggia), la religione (le considerazioni critiche nei confronti delle Chiese anglicana e cattolica da parte dell’ateo Stephen e dell’ebreo Bloom), la condizione dell’artista nella società (l’ambizione di Stephen, intellettuale spigoloso e incapace di scendere a compromessi, di scrivere un’opera memorabile e le delusioni che ne conseguono), l’Irlanda oppressa (i personaggi di Haynes e di Deasy, i ricordi di O’Connell, di Parnell e di altri patrioti irlandesi, l’episodio del “Ciclope”).
Un discorso a parte bisogna poi fare a proposito di Dublino, la città in cui è ambientato “Ulisse”: con i suoi luoghi minuziosamente citati (il libro andrebbe letto con la carta topografica davanti agli occhi per apprezzare meglio le deambulanti peregrinazioni dei suoi personaggi), con i suoi ambienti descritti con impietoso realismo, con i suoi mille personaggi che attraversano la scena magari solo per poche battute (e nel capitolo delle “Simplegadi” questo approccio assume contorni addirittura virtuosistici), la capitale irlandese appare, più ancora di Bloom e di Dedalus, il vero protagonista del romanzo, al punto che “Ulisse”, non certo per lo stile o per l’impianto narrativo ma per il consapevole utilizzo di questa caleidoscopica prospettiva, può essere considerato come un legittimo seguito di “Gente di Dublino”.
Arriviamo infine a parlare della parte più squisitamente letteraria di “Ulisse”. “Ulisse” richiama fin dal titolo l’”Odissea” e Joyce, pur in forma – come si è già visto più sopra - ironica e quasi parodistica, si è costantemente preoccupato di assegnare ad ogni episodio un equivalente omerico (in alcuni casi evidente, come nelle “Sirene” e nel “Ciclope”, in altri invece difficilmente ravvisabile, come nelle “Simplegadi” o in “Scilla e Cariddi”). Ma il parallelismo con l’”Odissea” non è l’unico, perché per esempio nel penultimo capitolo, riepilogando la giornata di Bloom, Joyce la scandisce secondo i rituali del calendario liturgico ebraico (dal sacrificio mattutino dei rognoni all’olocausto dell’alterco con il Cittadino, dal rito di Onan della masturbazione sulla spiaggia all’apocalittica visita al bordello). A queste citazioni per così dire strutturali se ne accompagnano molte altre più estemporanee, ma non meno importanti nell’economia dell’opera. L’”Ulisse” abbonda ad esempio di citazioni (dalla Bibbia e soprattutto da Shakespeare) e di riferimenti storici e letterari. Per mezzo di essi, Joyce mostra di possedere una prodigiosa consapevolezza del retroterra socio-storico-culturale della sua opera, inserendola, sia pure come elemento di rottura, in un continuum che egli fa risalire fino agli albori della letteratura. E’ emblematico a questo proposito il grandioso tour de force con cui, nelle “Mandrie del Sole”, lo scrittore ripercorre tutti gli stili che si sono avvicendati nella letteratura inglese, dal medioevo su su fino al XIX secolo, riproducendoli con virtuosistica capacità mimetica.
Il pastiche è usato con molta abilità da Joyce, che ne intuisce le potenzialità grottesche e dissacratorie. Ad esempio, tutta la prima parte di “Nausicaa” è scritta alla stregua di un romanzetto rosa, svelando impietosamente il velleitario romanticismo di cui è permeato l’adolescenziale animo di Gerty. Il culmine di questa apparentemente anacronistica operazione si ha nel “Ciclope”, in cui i fatti più o meno insignificanti che si succedono vengono contrappuntati da intermezzi dal tono solenne e serioso, di volta in volta epico, biblico, giornalistico, pseudoscientifico o notarile, o ancora facenti il verso a una conversazione galante, a un poemetto alessandrino, a una cronaca sportiva o a un romanzo d’avventure medioevale, con effetti in ogni caso fortemente parodistici. La varietà dei registri stilistici è del resto una costante di “Ulisse”, in cui ogni capitolo è profondamente diverso da tutti gli altri: in un crescendo spregiudicato e strepitoso, Joyce usa ora la narrazione tradizionale (assai poco per la verità), ora i dialoghi, ora il monologo interiore; ora struttura l’episodio alla stregua di una fuga musicale, ora nei termini di un’allucinazione fantasmagorica, ora come se si trattasse di un questionario a domanda e risposta. Il tono cambia in continuazione, ma Joyce è molto bravo a modularlo in conformità alla tipologia di ciascun episodio: in “Eolo”, ambientato nella redazione di un quotidiano, predomina la retorica giornalistica; in “Scilla e Cariddi”, che si svolge all’interno di una biblioteca, è invece la dialettica a farla da padrona; nei “Lestrigoni”, Bloom che pasteggia con il Borgogna si lascia andare a un monologo rilassato e inventivo, dove si intrecciano gola e sensualità. Anche il linguaggio si adatta alla perfezione a queste innovazioni, liberandosi completamente della sintassi ortodossa (dalla punteggiatura alla struttura grammaticale delle frasi) e concedendosi libertà prima inimmaginabili, grazie a un ampio uso di termini onomatopeici, di neologismi, di frasi spezzate, ecc. Partendo da una base tutto sommato tradizionale (i precedenti romanzi, “Dedalus” e “Gente di Dublino”), James Joyce riesce così a far compiere, nel campo della letteratura, un’autentica rivoluzione copernicana, con un’unica, epocale, ineguagliabile opera, che per grandiosità ed importanza può essere paragonata alla “Commedia” di Dante e ai capolavori omerici.
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UN PONTE CROCEVIA DI CULTURE
“Il ponte sulla Drina” è la storia di Visegrad, una piccola cittadina bosniaca situata al confine tra mondo cristiano e mondo musulmano, e quindi crocevia di etnie, fedi e culture molto diverse tra loro; ed è anche, come si evince dal titolo, la storia del suo ponte, costruito nel XVI secolo e fatto assurgere dall’autore a muto e apparentemente inalterabile testimone dell’avvicendarsi di generazioni umane e di avvenimenti storici, sociali e naturali, ora drammaticamente incalzanti ora prosaicamente quotidiani. Proprio come il fiume che passa maestoso sotto il ponte, Ivo Andric nel suo libro osserva il lento scorrere degli anni con lo sguardo imperturbabile e impassibile di chi giudica gli eventi, le persone e le cose “sub specie aeternitatis”. Molte pagine sono cruente, quasi al limite dell’insopportabilità (nei primi capitoli un uomo viene impalato vivo, e il supplizio è descritto nei più minuti dettagli, più avanti un altro è inchiodato a un palo per un orecchio), eppure ciò non turba più di tanto il ritmo pacato e fluente della sua prosa. Allo stesso modo i cambiamenti politici e socio-economici (il passaggio dall’impero ottomano a quello austro-ungarico, i progressi portati dalla modernità) sono narrati con quella saggia e lungimirante filosofia di chi sa che solo il tempo è il vero giudice della storia e perciò guarda con compassione ai patetici tentativi degli uomini di contrastare la sua inesorabile legge. Alluvioni, epidemie e rivolte lasciano così dietro di loro immani strascichi di distruzione e di sofferenza ma pian piano vengono dimenticate e sostituite dall’indifferenziato trascorrere della vita di tutti i giorni, così come presto dimenticati (o per meglio dire trasferiti nella sfera idealizzata della leggenda e del mito) sono i vari Radisav (il serbo impalato per avere boicottato i lavori di costruzione del ponte, che l’immaginario collettivo trasforma in una sorta di invincibile eroe cristiano), Arapin (l’attendente moro rimasto schiacciato da un grosso blocco di pietra, il cui spirito si pensa continui a vivere all’interno del ponte), Ilinka la matta (la povera idiota convinta che i suoi due figli, in realtà nati morti, siano stati rapiti dai turchi per essere murati in un pilastro del ponte), Fata (la bellissima ragazza gettatasi nel fiume il giorno delle sue nozze), Milan Glasincanin (il giocatore d’azzardo che passa un’intera notte a scommettere col diavolo in persona), e ancora Pop Nikola e Mula Ibrahim (i maggiorenti della città, grandi amici pur essendo i capi delle due opposte comunità religiose, quella cristiana e quella islamica), Fedun (il militare suicidatosi per aver fatto passare alla “porta” il brigante Jakov travestito da donna), Lotika (l’affascinante e infaticabile albergatrice che dopo una vita di sacrifici e di abnegazione finisce pazza), Mujaga (l’eterno profugo, perseguitato ad ogni suo spostamento dagli inattesi cambiamenti dei governi e delle dominazioni) e tante altre figure (tra cui quella di Alihodza, presenza ricorrente degli ultimi decenni della narrazione, con la cui morte si chiude il libro), che tutte insieme vengono a comporre un suggestivo mosaico collettivo. Alla luce di tutto ciò, è facile capire come per rintracciare una visione morale nella disincantata e cronachistica scrittura di Andric sia necessario andare a spulciare con pazienza ed attenzione tra le pieghe di considerazioni apparentemente neutre e distaccate: soltanto così è possibile far emergere, dalla semplice successione di aneddoti tragici o divertenti cui “Il ponte sulla Drina” rischia di essere sbrigativamente ridotto, quell’orrore per la “famelica bestia” che di quando in quando, dopo essere rimasta per tanto tempo celata all’interno di leggi, usi e consuetudini civili, fuoriesce incomprimibile sotto forma di intolleranze etniche, di esplosioni di violenza bestiale, di laceranti conflitti che distruggono in pochi giorni le fortune faticosamente costruite in un’intera vita (e la mutilazione finale del ponte, un pilastro del quale viene, dopo essere stato minato, fatto saltare dai soldati austriaci in ritirata, è un eloquente simbolo di quanto ora detto). Andric non è un Saramago, e gli abitanti di Visegrad non hanno lo stesso spessore emotivo di quelli dell’Alentejo, ma “Il ponte sulla Drina” è ugualmente un romanzo intrigante, se non altro perché con mezzi espressivi semplici e lineari, di facile e immediata “leggibilità”, porta alla ribalta una regione del tutto sconosciuta ai più, cui la dizione “di frontiera” si addice perfettamente non solo dal punto di vista geografico ma anche e soprattutto da quello letterario.
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STORIA DI UN LOSER DI SUCCESSO
“Non è colpa tua, ecco cosa pensi; tu sei nato povero, figlio di contadini miserabili, la tua città natale ti ha respinto perché eri povero, speri di scrivere un libro che ti faccia diventare ricco, così quelli che ti odiavano, laggiù nel Colorado, ti ameranno. Sei un vigliacco, Bandini, tradisci la tua anima e menti davanti a Cristo sofferente. Ecco perché scrivi, ecco perché sarebbe meglio che fossi morto.”
“Chiedi alla polvere” è un romanzo fortemente dicotomico. In primo luogo, è il protagonista stesso, Arturo Bandini, a soffrire di una sorta di sdoppiamento della personalità: aspira a diventare uno scrittore, ma, per buona parte del libro, non riesce a scrivere una sola riga dopo il breve racconto pubblicato tanto tempo prima su una rivista; si professa laico, ma è paralizzato dai sensi di colpa derivanti da una educazione rigidamente religiosa; è un idealista fiero della propria integrità morale, ma non sa resistere alle tentazioni, salvo poi squagliarsela pavidamente quando si arriva al dunque; vuole provare tutte le esperienze della vita, ma per lo più si limita a vagabondare oziosamente per le strade di Los Angeles; ha grandi traguardi nella testa, ma è velleitario e inconcludente, quando ha un po’ di soldi li sperpera senza criterio, e quando non li ha passa il tempo con le mani in mano, soffrendo pateticamente la fame e la povertà; oscilla tra momenti di esaltazione (pochi) e periodi di autocommiserazione (ben più numerosi), tra orgoglio e vittimismo. A fare da spartiacque nel romanzo esistenziale di Arturo Bandini (perché in fondo di un vero e proprio bildungsroman si tratta) è la storia d’amore con Camilla. Sì, perché a partire dal primo fortuito incontro con la ragazza messicana, e dalla repentina e violenta infatuazione per lei, si può finalmente parlare di un prima e di un dopo (non solo in relazione alla sua vita sentimentale, fatta precedentemente solo di sporadici incontri mercenari non consumati, ma anche riguardo al passaggio dalla vita grama e stentata degli esordi nella città forestiera al provvidenziale successo letterario, dalle ultime propaggini dell’adolescenza alla definitiva maturità), anche se il dopo è fatto di una continua alternanza di litigi e di rappacificazioni, di umiliazioni e di propositi di ravvedimento, di separazioni e di ricongiungimenti, come se a fronte di una lampante e inesorabile incompatibilità reciproca vi fosse una altrettanto inevitabile comunanza della sorte. Fante non lascia alcuna speranza di futuro ad Arturo e Camilla, e la tristissima decadenza di quest’ultima, che dall’avvenente “principessa maya” che avevamo conosciuta all’inizio, quando correva nuda sulla spiaggia californiana o sembrava che danzasse sulle sue scalcagnate huarachas tra i tavoli del bar dove lavorava, si trasforma in una figura spettrale, drogata e senza più voglia di vivere, è il motivo principale del passaggio del tono del romanzo dal comico al tragico.
Su quest’ultima dicotomia bisogna spendere qualche parola in più. Se il finale è indubbiamente tragico (Camilla che abbandona Arturo scomparendo nel deserto, il protagonista che getta al vento il suo ultimo libro con la dedica alla ragazza, l’incertezza sul futuro segnata dalla perdita della stanza e dalla decisione di lasciare Los Angeles), è tutto da provare che il resto del romanzo sia comico. Certo, lo scarto irresolubile tra la realtà e lo sguardo ingenuo e candido di Arturo Bandini (che narra in prima persona) genera molti momenti di irresistibile comicità, che sfociano addirittura nel grottesco tout-court dell’episodio del terremoto, quando il giovane si convince che il cataclisma non è altro che l’inesorabile castigo che Dio ha mandato per punirlo della sua trasgressione al sesto comandamento. Ma “Chiedi alla polvere” non è, a ben guardare, né comico né allegro, percorso com’è da tante tristi e patetiche figure di cameriere, di prostitute e di altri losers venuti dal Middle West in California per cercare di fare un po’ di soldi (sono gli anni immediatamente successivi alla Grande Depressione, quindi suppergiù gli anni di “Furore”) o per dissipare i sudati risparmi di un’intera vita di lavoro. Il mondo di Los Angeles è terribile e spietato: messicani e italo-americani sono degli emarginati, il sogno di Camilla è di avere un cognome americano come Johnson, e la terra del sole e dell’oro è solo una chimera destinata a svanire e a trasformarsi in un doloroso disinganno, di fronte al quale non resta che la mesta accettazione del declino o il ritorno umiliante a casa. Los Angeles è poi essa stessa il simbolo di una umanità assediata dal deserto (quella tra la città e il deserto, tra la civiltà che cerca di sfuggire alla propria morte e la natura indifferente e crudele, è un’altra fondamentale dicotomia presente nel romanzo), e la sabbia portata dal vento che grava come una coltre soffocante e irrespirabile sulla metropoli è il monito permanente di una condizione umana fatta di precarietà e di desolazione.
Il successo che arride ad Arturo, in un mondo così triste dove nulla sembra andare per il verso giusto, appare irreale, quasi l’happy ending di una favola, ma il finale malinconicamente aperto stempera assai il giovanile ottimismo del protagonista, e dietro l’angolo c’è sì la incontenibile voglia di libertà di un Kerouac, ma anche, come contrappeso, il ricordo della fame di un Hamsun, i pochi spiccioli in tasca che non bastano neppure per una birra, l’invidia per il lusso ostentato nelle vetrine, i maldestri tentativi di rientrare in possesso del danaro prestato ai vicini di camera e i meschini stratagemmi per sopravvivere di cui non resta che vergogna e rimorso.
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UNA FAMIGLIA DIABOLICA
“Questo libro è pieno di passione. Pieno di rabbia, comunque. Se comunica qualcosa è proprio l’odio che io sento per questa gente, è il male che essi incarnano, è la distruzione che hanno portato con sé, facendo uso dei loro interessi acquisiti e della loro influenza, dei loro privilegi e del controllo assoluto e paralizzante su tutti i centri di potere; è come ci hanno messo tutti nella condizione di non nuocere, è come si sono divisi fra loro tutto questo maledetto paese.”
Jonathan Coe è sotto ogni riguardo un autore fazioso, per niente politically correct, e - quel che più importa - ci tiene a farlo sapere a tutti, al punto che non si fa fatica ad interpretare il suo romanzo più famoso, “La famiglia Winshaw”, come un virulento atto di accusa contro l’amministrazione Thatcher, la quale – a suo dire – ha condotto la Gran Bretagna, sia economicamente che socialmente, allo sfascio. Eppure, depurato dalla tara delle ideologie radical, delle polemiche politiche per nulla disinteressate e della facinorosa esagerazione di più di un passaggio, il libro di Coe è apprezzabile perché, come accade anche al cinema con i documentari di Michael Moore, esso ci apre gli occhi su situazioni allarmanti che raramente trovano spazio sui mass media o, se lo fanno, rischiano di trovare, per il modo in cui sono presentate, scarso interesse, se non addirittura insofferenza, nel pubblico. L’idea forte di Coe, quella che costituisce uno dei punti di forza del romanzo, consiste nel creare un plot in cui tutti gli aspetti più “politici” (gli affari sporchi del governo con Saddam Hussein, la riduzione della spesa pubblica in campo sanitario, il ruolo non propriamente imparziale dei mezzi di informazione) si riflettono direttamente sull’esistenza dei protagonisti. Così, tanto per fare due esempi, la morte di Fiona, la sfortunata compagna del protagonista Michael Owen, è dovuta alla innegabile perdita di efficienza del sistema sanitario dopo la decisione di “aziendalizzare” gli ospedali, mettendo al centro delle loro priorità la quadratura del bilancio prima che la tutela della salute dei cittadini; e un altro prematuro decesso, quello del padre di Owen, è più o meno direttamente imputabile alle conseguenze fisiche e psicologiche dovute alle adulterazioni alimentari dell’industria di Dorothy e alle truffe finanziarie coperte dalla banca d’affari di Thomas, il tutto con la scontata connivenza del potere politico.
A simboleggiare l’era thatcheriana Coe mette un’intera famiglia, i Winshaw. I sei membri di essa (il finanziere Thomas, il politico Henry, l’industriale Dorothy, il trafficante d’armi Mark, il mercante d’arte Roderick e la giornalista televisiva Hilary) sono altrettante facce metaforiche di un mostro proteiforme che tutto schiaccia e tutto divora, senza lasciare scampo: esso è, di volta in volta, il cinismo politico, l’arrivismo carrieristico, l’avidità di danaro senza scrupoli, l’ambizione di potere che non si arresta di fronte a nulla, tutte espressioni del regresso (morale prima ancora che economico-sociale) dell’epoca. E come aveva fatto Yehoshua ne “Il signor Mani”, anche Coe risale indietro nel tempo, fino a individuare una sorta di peccato originale nella generazione dei padri (Lawrence Winshaw), con i suoi inconfessabili scheletri negli armadi. Tutti i personaggi della vita di Michael Owen risultano alla fine coinvolti nella saga della famiglia Winshaw: il padre anagrafico e quello biologico, Graham, Phoebe, ecc. Il mondo del protagonista diventa così, con lo steso procedimento retorico visto più sopra (il piccolo utilizzato per esprimere il grande) l’emblema stesso della società inglese (o perlomeno delle sue classi medio-basse), impoverita e depredata dei suoi diritti più elementari da una classe dirigente ipocrita, corrotta e mossa solo dall’ideale del dio denaro. Qualcuno potrebbe muovere all’autore l’accusa di avere esagerato con le coincidenze narrative (tutti quanti i personaggi, per quanto decentrati o marginali essi siano, hanno alla fine in qualche modo un ruolo diretto nella vicenda) e di averle rese oltretutto poco plausibili (certe agnizioni clamorose o certi incontri casuali dopo innumerevoli anni sfidano in fatto di inverosimiglianza le commedie del teatro molieriano). Tale accusa può però essere agevolmente ribaltata, e addirittura portata a merito di Coe, con una interpretazione accorta del romanzo, la quale vede nella famiglia Winshaw la pervasività del Male, la sua diffusione nella società come un inarrestabile tumore maligno che, per aumentare a dismisura il proprio potere, la propria influenza e la propria ricchezza, distrugge implacabilmente le cellule sane del corpo sociale e può essere bloccato solo con una drastica amputazione (la morte violenta dei membri della famiglia).
“La famiglia Winshaw” non è comunque solo un romanzo di denuncia politica e di invettiva sociale: essa è anche un’opera dotata di un’innegabile qualità letteraria, che a tratti raggiunge livelli di autentico virtuosismo. Essa infatti appare come un complesso puzzle in cui tutti gli elementi alla fine si incastrano perfettamente gli uni sugli altri, dando retrospettivamente a ciascun episodio un senso che all’inizio pareva non possedere (ad esempio, l’odore di gelsomino che appare insolitamente in due momenti del prologo a Winshaw Towers, e che dopo circa sei lustri si scopre essere stato involontariamente “emanato” dal detective Findlay Onyx), oppure creando nuovi sbocchi narrativi (la maggior parte dei personaggi vicini a Owen risultano, in una maniera – come abbiamo appena visto – persino implausibile, coinvolti nella storia), o ancora facendo convergere episodi apparentemente autonomi e senza alcun reciproco legame in sorprendenti parallelismi narrativi (la cena in occasione del compleanno di Mortimer, il suicidio del marito di Dorothy ed il tentato omicidio di Graham avvengono tutti in concomitanza di altrettanti momenti topici della vita privata del protagonista). Il culmine di questo procedimento a “incastri” si ha nell’ultima parte del romanzo. In essa gli elementi fino ad allora rimasti “non spiegati” trovano tutti la quadratura del cerchio: il padre naturale di Owen, che aleggiava fino ad allora come un impalpabile spettro nell’esistenza di quest’ultimo, risulta alla fine il vero motivo per cui egli è stato scelto da Tabitha per la redazione del libro sulla famiglia, in quanto era stato il compagno di Godfrey nella spedizione aerea in territorio tedesco finita in tragedia per colpa (ma anche questo lo si scopre in extremis) del tradimento di Lawrence Winshaw; e, soprattutto, i tre enigmatici sogni dell’infanzia di Owen si avverano come in fotocopia (Coe usa addirittura le stesse parole dei sogni per descrivere la realtà), gettando una luce insospettata e quasi medianica sul protagonista.
Arriviamo così a parlare dello stile vero e proprio del romanzo. Se la complicata struttura temporale, con le varie epoche abilmente intrecciate spesso in ordine non cronologico (nei numerosi andirivieni temporali capita di scoprire che Phoebe, protagonista del capitolo dedicato a Roddy, era stata conosciuta da Michael otto anni prima a Sheffield in casa di Joan, e che la stessa Joan era stata due decenni prima la sua compagnia di giochi prediletta), fa venire in mente il Vargas Llosa de “La Casa Verde” o il già citato Yehoshua de “Il signor Mani”, l’approccio pseudo-biografico e finto-documentaristico ricorda vagamente il Böll di “Foto di gruppo con signora”. Infatti le fonti le più varie (diari, interviste, rapporti di lavoro, articoli di giornali e riviste, ecc.) si alternano, spesso con effetti volutamente dissonanti (come nel capitolo di Hillary), con gli episodi in presa diretta, conferendo al tutto un originale effetto di pastiche letterario. Gradualmente, dalla saga familiare o dal libro di memorie quale essa è all’inizio, “La famiglia Winshaw” vira decisamente e sorprendentemente verso il thriller, fino a giungere al parossistico e grandguignolesco capitolo conclusivo. Qualcuno potrebbe, apparentemente a ragione, storcere il naso e lamentarsi di questo inopinato cambio di direzione che assomiglia (come ricorda uno dei personaggi) a un horror di terz’ordine. Ma quello che sembra un difetto è invece una soluzione coerente con lo stile eclettico del romanzo e con la sua struttura a scatole cinesi. Ora, a prescindere dalla sua plausibilità realistica, la tragica notte di Winshaw Towers che Owen si trova a vivere è semplicemente, né più né meno, il film con Connor e la Eaton visto all’età di nove anni che lo ha ossessionato per il resto della sua vita. E la stessa notte d’amore con Phoebe, cui l’ultimo colpo di scena del libro toglie ogni possibilità di futuro, oltre a far parte dello stesso film, è anche uno dei tre sogni fatidici della sua infanzia. Lo stesso vale per la morte di Michael, in cui egli si identifica suo malgrado con il tragico destino del suo idolo Gagarin. Owen, che nel corso di tutto il romanzo subisce costantemente gli eventi, diventa perciò una sorta di medium che ha già predetto – o pre-scritto, vista la sua professione di scrittore - l’esito della storia. Questa considerazione porta a una sorprendente ambiguità: il sogno scivola nella realtà e viceversa e la finzione si intreccia con la vita, fino a creare un’atmosfera in cui non si sa più cosa è vero e cosa no, cosa è reale e cosa invece immaginato o sognato. Come la morte di Fiona è descritta alla stregua di una melodrammatica scena di un film, alla quale assiste un Michael diviso nel duplice ruolo di attore e di spettatore, allo stesso modo gli eventi della fatidica notte conferiscono una fortissima sensazione di irrealtà, che ha l’effetto di acuire allo spasimo la tensione e la suspense narrative e contemporaneamente di frapporre un altro schermo, un’ulteriore diaframma, nel già complesso rapporto autore-lettore. Lo stesso passaggio dalla prima alla terza persona nell’ultima parte del romanzo favorisce questa paradossale sensazione di coinvolgimento-distanziazione, anche in virtù del fatto che l’ultimo capitolo è, come si legge nella prefazione al romanzo incompiuto di Owen, scritto dall’editor, e quest’ultimo non esita ad ammettere di avere assecondato, con la predilezione per le scene più macabre e truculente, i gusti più beceri del pubblico. Alla fine, in questo autentico vortice di pirandelliani capovolgimenti di senso, bisogna ammettere che la scommessa di Coe è stata pienamente vinta. Lo scrittore inglese non si è tirato indietro di fronte agli stereotipi più triviali e grossolani, dando però ad essi una giustificazione narrativa che alla fine non si può non condividere. “La famiglia Winshaw” è sicuramente un romanzo furbo, intrigante come un libro della tetralogia di Malaussene, ma ha una sua incontrovertibile consapevolezza artistica. Coe si comporta cioè come un Dostojevskij il quale parlava sì del Bene e del Male, di Dio e di Satana, e dei problemi della società del suo tempo, ma nel contempo deliziava i suoi lettori con avvincenti trame da letteratura d’appendice, con omicidi, processi e sorprendenti colpi di scena.
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