Opinione scritta da Laura V.
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Senza amore e senza pietà
È davvero un mondo senza amore, e anche senza pietà, quello contro cui si trova a scontrarsi fin da giovanissima la protagonista del nuovo romanzo della scrittrice palestinese Susan Abulhawa che, a distanza di cinque anni da “Nel blu tra il cielo e il mare” e di circa un decennio dall’ancor più famoso “Ogni mattina a Jenin”, ritorna ora nelle librerie italiane con una storia intensa e drammatica, al centro della quale non avrebbe potuto non trovare spazio la terra d’origine dell’autrice.
Da lunghi decenni rimpianta e agognata, la Palestina rimane la patria perduta, luogo dove ricomporre radici e identità stravolte dall’esilio forzato a causa di quella che tuttora si chiama “an-nakba”, la Catastrofe per eccellenza del mondo arabo. Un dramma senza fine che ormai non sembra fare nemmeno più notizia. L’Abulhawa lo riporta alla ribalta proprio in un momento alquanto critico nella storia del popolo palestinese, che dal 1948 a oggi non ha conosciuto altro se non il fango e l’umiliazione dei campi profughi e speranze puntualmente deluse.
Nahr ne ha ben poche, di speranze, forse nessuna. Quando la incontriamo è una detenuta ormai ingrigita e spossata che, da lunghi anni di cui ha perso il conto, sta scontando una pena detentiva all’interno di una cella anomala che lei chiama il Cubo, dove il tempo si annulla e la luce e il buio che vi si alternano sono quanto di più innaturale possa esistere. Chiusa in questa manciata di metri quadrati di cemento armato, la donna ci racconta a poco a poco la sua vicenda, partendo dai giorni trascorsi felici sotto il sole del Kuwait, quando per lei la Palestina si riduceva soltanto a vecchie storie di famiglia, fino a quelli bui sopraggiunti dopo l’arresto da parte di Israele con l’accusa di attività terroristica; nel mezzo, disillusioni, amarezze, umiliazioni, violenze, ma anche un inatteso spiraglio d’amore di cui il mondo dimostra di essere per buona parte privo. La penna dell’autrice ritrae una donna di carattere che non si arrende dinnanzi alle brutture vissute e che, a ogni caduta, impara a rialzarsi senza piangersi addosso: una donna dai tre nomi (Nahr, Yaqoot, Almas) che si adattano a momenti e stagioni della sua vita, mentre il bisogno di avere radici e di appartenere finalmente a un luogo diviene con gli anni più impellente. Ovunque, anche là dove sembra che si possa vivere bene, la condizione di profugo presto o tardi acquisisce un sapore amarissimo diventando talvolta il capro espiatorio di situazioni esplosive, come infatti accade persino nel Kuwait all’indomani del ritiro dell’esercito di Saddam Hussein nel 1991; molto interessanti, a tal riguardo, le pagine che raccontano ciò che si è verificato nel piccolo emirato del Golfo sotto il ra’is iracheno, a dispetto della versione americana rivelatasi già in passato non affidabile.
“La gente pensa che l’occupazione irachena del Kuwait sia stata una specie di massacro, ma non è così. Gli orrori veri e propri successero quando l’Iraq se ne andò, […] Per me contava soltanto che quella notte Saddam Hussein mi aveva salvato la vita e che, durante la permanenza irachena in Kuwait, ero una donna libera e felice.”
L’io narrante della protagonista risulta molto coinvolgente e diversi personaggi, oltre a quello della stessa Nahr, si presentano ben caratterizzati; in particolare, colpisce quello della maîtresse iracheno-kuwaitiana Um Buraq che, anzitutto, squarcia il velo dell’ipocrisia sempre vigente nell’ambito delle società islamiche in fatto di prostituzione e la cui promessa di un tempo viene mantenuta nella parte conclusiva del romanzo: “Qualunque cosa accada in questo mondo ingrato, ci rivedremo, sorella mia.”
Nel complesso, dunque, la storia narrata sa catturare il lettore e gli argomenti trattati, da quelli umani a quelli politici in relazione alla causa palestinese, hanno indubbiamente un peso innegabile. Tuttavia, forse si avverte qualcosa di diverso nello stile della Abulhawa rispetto soprattutto a “Ogni mattina a Jenin”, qualcosa che non consente una valutazione del libro a pieni voti. Inoltre, ho riscontrato un paio di inesattezze che, con tutta evidenza, devono essere sfuggite al lavoro di editing: a pagina 161 si parla della città di Haifa situata di fronte all’oceano (le coste del Vicino Oriente non si affacciano sul Mar Mediterraneo?); più di una volta si fa riferimento alla preghiera islamica dell’alba chiamandola, con le parole arabe corrispondenti, “fajr salat”, che però disposte in questo modo (imputabili al testo in lingua inglese?) significano in realtà “alba della preghiera”, mentre l’espressione corretta è “salat al-fajr” (la preghiera dell’alba).
In ogni caso, “Contro un mondo senza amore” è un coinvolgente romanzo meritevole di lettura: nel solco dei precedenti lavori dell’autrice, esso ribadisce la ferma e coraggiosa denuncia della violenta arroganza degli occupanti israeliani, i quali bollano come terrorismo qualsiasi forma di resistenza da parte palestinese e, al tempo stesso, nei Territori praticano impunemente la tortura e ogni forma di abuso. Ciò che Susan Abulhawa scrive non è soltanto fiction (anche le fonti non arabe parlano delle stesse cose) e quello di Nahr, così come quello a suo tempo di Amal in “Ogni mattina a Jenin”, è l’urlo di dolore – vero, straziante, inascoltato – di un popolo intero che attende ancora giustizia e almeno un briciolo d’amore.
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Macerie della Storia tra sentimenti e radici
Siamo tutti portatori d’acqua, sia essa quella con cui si riempie il secchio a una sorgente o la stessa linfa vitale che costituisce per la maggior parte il nostro organismo. Da tale considerazione, in apparenza scontata e banale, è forse possibile prendere le mosse per recensire questo romanzo di Atiq Rahimi che catapulta il lettore in una storia drammatica e affascinante tra Europa e Asia.
In verità, sono due, e ben distinte, le vicende narrate che procedono in parallelo all’indomani dell’11 marzo del 2001, data funesta che resterà marcata a fuoco negli annali della barbarie e dell’oscurantismo più incredibili. Chi non ricorda, infatti, l’abbattimento a suon di dinamite dei due Buddha, giganteschi e millenari, scolpiti nella roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan, a opera del regime talebano all’epoca al potere?
A Kabul, ancor prima dell’aurora, Yussef inizia quella giornata come una delle tante della propria grama esistenza di fatiche. Curvo e ingrigito anzitempo, il pover’uomo fa il portatore d’acqua, mestiere che ha ereditato dal padre, al pari di un bastone di giunco e un otre di pelle di capro. Da quando è esplosa la siccità, e non nevica più nemmeno sulle montagne dell’Hindu Kush, il suo lavoro è stato rivalutato poiché solo lui, assurto a una sorta di ruolo di “salvatore degli assetati”, conosce la via sotterranea di un’antica sorgente avvolta nella leggenda e può così portare l’acqua alla moschea e alle famiglie del quartiere; persino il mullah, che impartisce ordini e sguinzaglia i soldati alla ricerca di fedeli da trascinare a forza alla preghiera dell’alba, dipende da lui per gli approvvigionamenti idrici. Della famiglia non gli resta più nessuno, se non la giovane e silenziosa cognata, Shirin, che suo fratello maggiore ha lasciato a casa partendo tempo addietro alla volta dell’Iran e sulla quale ora il portatore d’acqua ha in teoria diritto di vita e di morte. A una infinità di chilometri di distanza, a Parigi, un altro afghano, Tamim, si appresta ad alzarsi con il proposito di abbandonare moglie e figlia per trasferirsi ad Amsterdam, città dove si reca abitualmente per lavoro e ha una relazione extraconiugale con una misteriosa ragazza, Nuria, accanto alla quale desidera ora vivere. Da lunghi anni è soltanto “un afghano impagliato” che nell’esilio ha sepolto ricordi e nostalgia, pure il suo stesso nome, sostituito dal più occidentale Tom, per travestirsi da cittadino francese che, tuttavia, continua sempre a smarrirsi fra le due culture; la lingua persiana si ostina a dominarne pensieri ed emozioni, sebbene questi vengano poi espressi in quella francese. Una strana sensazione di déjà-vu, inoltre, scandisce la sua vita senza gettarlo però nell’inquietudine, facendolo anzi sentire padrone del tempo e conscio come di una vaga profezia dal sapore del sogno, mentre la propria perenne condizione di esiliato affiora non meno consapevole.
“[…] Scrivendo in persiano si rende però conto che le sue parole francesi, prese in prestito fresche fresche dai dizionari, non hanno mai vissuto dentro di lui. Sono estranee ai suoi pensieri, ai suoi sentimenti… in esilio nella sua anima afghana, che lui vorrebbe tanto travestire da intelletto francese. Invano. […]”
Attraverso una prosa molto bella e di grande profondità, Rahimi, in asilo politico in Francia ben dal 1984, ci parla di sentimenti e radici, porgendo al lettore pagine intense in cui il suo Afghanistan emerge in tutta la miseria (non solo materiale) della propria storia recente, ma anche come luogo di memorie, e in un certo qual modo pure di rimpianti, smarrito in una lontananza ormai satura di macerie dell’anima insanabili e ridotte alla stregua di quelle lasciate dai maestosi Buddha di Bamiyan. L’intreccio delle vicende dei due protagonisti, nell’alternanza ben studiata dei capitoli, offre una lettura interessante da cui non si fa fatica a lasciarsi conquistare; in particolare, della storia di Tamim/Tom colpisce questa continua fuga dalle origini per trovare rifugio in menzogne, le proprie e altrui, alle quali è preferibile credere pur di non affrontare la fragilità del dubbio e d’improvviso viene naturale domandarsi se in questo personaggio tormentato non si debba vedere, magari limitatamente ad alcuni aspetti, un alter ego dello stesso autore, considerato il suo status di naturalizzato francese. Di certo, come portatore d’acqua, l’esiliato in Francia non può essere d’aiuto né a se stesso né agli altri poiché la sorgente della propria linfa vitale si è prosciugata, come infine qualcuno gli sentenzia, mentre in patria Yussef, abbandonatosi alla stanchezza e all’ossessione amorosa, rifiuta con un moto di ribellione di riempire ancora il vecchio otre. Sebbene sfuggenti e quasi invisibili fin dall’inizio del romanzo, entrambi i personaggi femminili di Shirin e Nuria risultano molto ben riusciti, così come anche quello del venditore indù Lala Bahari, suggellando una dimensione doppia, irreale, onirica che nella parte conclusiva disorienterà il lettore fino alle tre scarne notizie di cronaca riportate in chiusura.
Una bella novità editoriale, già pubblicata Oltralpe lo scorso anno, forse priva negli ultimi capitoli dello stesso incanto che caratterizza i primi, ma un’opera comunque più che meritevole di lettura che, oltretutto, ha il merito di riportare l’attenzione occidentale sul dramma, quello afghano, spesso dimenticato e, vista la forte instabilità dell’area, in verità mai concluso.
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L'importanza della memoria
Se è inevitabile che nella grande Storia si perdano le piccole storie degli uomini, è però possibile che queste ultime spesso riescano a emergere in virtù di quell’innato desiderio umano di raccontare di sé, degli altri e per gli altri.
È così che si sono salvate dalle nebbie della dimenticanza anonime storie che altrimenti non avremmo mai conosciuto, per il semplice ma pur straordinario fatto che qualcuno abbia deciso di raccontare le proprie o le altrui vicende. La scrittura, in quanto scrigno di una oralità forte ma pur sempre fragile, resta uno strumento fondamentale per preservare e tramandare storie e memorie. Del resto, nemmeno di Ulisse avremmo avuto notizia, se i poemi omerici non fossero stati fissati per iscritto; così come quello della giovanissima Anna Frank sarebbe stato solo uno fra i tanti milioni di nomi finiti purtroppo nelle liste dello sterminio nazista, se lei stessa non avesse scritto il suo celebre diario. E che dire di Emilio Lussu o di Primo Levi, solo per citare a caso due personaggi che ci hanno trasmesso testimonianze fondamentali che leggiamo ancora oggi?
Anche quella di Tommaso Mondelli è una piccola storia, una delle innumerevoli di cui brulica la Storia italiana del Novecento. Una storia semplice, di ordinaria quotidianità e, a tratti, di altrettanta drammaticità nel bel mezzo di quell’immane delirio che fu il secondo conflitto mondiale. Le pagine di questo libro sono dense di una narrazione particolareggiata che espone la vicenda personale del protagonista senza scinderla dai contesti storico-politici che le fanno da sfondo.
Sono anni non facili quelli nei quali si muove quel giovane uomo, figlio di una Italia contadina e operosa che ascolta alla radio i discorsi di Palazzo Venezia e osserva incuriosita i fasti di un rinnovato impero, sognando di correre anch’essa veloce a bordo di quei treni dalla tanto decantata puntualità. Anni di autarchia, di leggi razziali e del “Taci! Il nemico ti ascolta”, a cui non tarderanno ad aggiungersi le corse ai rifugi antiaerei e il razionamento alimentare, se non la fame più nera. E il conto di una guerra imposta a tutti dalle scellerate decisioni di pochi non si sarebbe di certo esaurito così.
Partito dapprima per l’assolvimento del servizio di leva, Tommaso vedeva nella carriera militare un futuro lavorativo in condizioni di relativa stabilità quale era quella che si respirava nella seconda metà degli anni Trenta; gli eventi però precipitarono nel giro di breve tempo ed egli si ritrovò coinvolto all’improvviso in un gioco più grande di quello inizialmente ipotizzato. Eppure, lui sosteneva di non aver vissuto una vera e propria esperienza bellica, considerati i fronti “tranquilli” ai quali era stato inviato insieme al suo reparto; sembrerebbe così di essere davanti a niente di più di un semplice resoconto di fatti e spostamenti privi d’interesse. Certo, a eccezione del triste spettacolo del giugno 1940 al confine francese, il lettore non troverà descritti in queste pagine cruenti combattimenti fra soldati o massacri di popolazioni inermi; è pur vero, inoltre, che l’autore non ebbe la sventura di marciare sulle gelate steppe in terra di Russia né quella di combattere al sole di El-Alamein dove, si sa, “mancò la fortuna, non il valore”, così come non si trovò a Cefalonia all’indomani di quel fatidico 8 settembre del ’43 che a troppi costò la vita.
Tuttavia, ciò non significa che la storia di Tommaso debba essere considerata poco importante o meno degna di essere raccontata rispetto alle precedenti o a quelle di coloro che furono insigniti di medaglie al valor militare. Si tratta semplicemente di vicende diverse, il cui confronto risulterebbe tanto inutile quanto insensato, accomunate però dal fatto di essere tasselli inseparabili di un unico grande mosaico. C’è tanta drammaticità nella sua vicenda; trovarla non è difficile: basta soffermarsi agli angoli dei toni leggeri e spesso ironici della narrazione che fanno capolino fin dal titolo, riflettendo sulla condizione di soldati mandati allo sbaraglio contro un nemico senza dubbio meglio armato; osservare con occhi attenti le lunghe estenuanti marce consumate tra le strade polverose di stagioni dissestate; ascoltare nel “Va’, pensiero” intonato da un coro di voci in cammino verso ignota destinazione tutta l’incertezza del destino e scorgere la libertà perduta attraverso le sbarre seppur invisibili della prigionia.
Leggendo questo libro, ricco di notizie, aneddoti, citazioni storiche e riflessioni personali sul corso degli eventi, si ha l’impressione di sfogliare un vecchio album fotografico oppure di guardare un lungo filmato d’epoca, proprio come quelli che giravano i cineoperatori militari. Al tempo stesso, neppure i colori sono assenti, dal bianco accecante della neve sui Monti della Luna all’azzurro inebriante del mare di Sicilia, che si accompagnano ai tanti suoni che pervadono il testo, come gli squilli di tromba che scandiscono i ritmi delle giornate in caserma, il verso ribelle dei muli insofferenti al basto o, ancora, il rimbalzare monotono delle palle da tennis sui campi in terra battuta in cima a una collina di Algeri. Anche i giorni del dopoguerra avrebbero avuto i loro suoni e colori, a dispetto del sapore amarissimo del periodo iniziale.
Questa di Tommaso è un’autentica testimonianza di un’epoca, in verità neanche troppo lontana, che contribuisce a sottolineare l’importanza della memoria e il continuo bisogno che di essa abbiamo, soprattutto in una società come la nostra, troppo spesso distratta e sorda agli insegnamenti del tempo. Ricordare non è soltanto importante: è addirittura vitale, poiché senza passato non possiamo guardare al futuro che si costruisce degnamente, giorno per giorno, traendo i giusti insegnamenti alla luce della memoria. Ecco perché, forse, non è sbagliato parlare di un dovere della memoria che ricada specularmente su vecchie e nuove generazioni: le prime devono ricordare, le seconde non dimenticare. È l’unico modo affinché non venga meno la speranza anzitutto in noi stessi, in quanto esseri umani, e nella possibilità di un mondo migliore, dove ciò che d’inumano è stato non accada più.
Classe 1919, Tommaso Mondelli, originario di un piccolo centro del Cilento, in provincia di Salerno, ma residente per decenni in Piemonte, si è spento lo scorso mese di aprile al compimento di ben 101 anni. Uomo di straordinaria cultura e laureatosi tre volte presso l’Ateneo di Torino, ha pubblicato diversi libri a partire dal 2012, in particolare raccolte poetiche. La presente pubblicazione è stata curata dalla sottoscritta che ha avuto il grande piacere e l'onore di conoscere l'autore.
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Poesia tra immagini e versi
Versi che si fanno immagini o immagini che si fanno versi? È questa la domanda che, spontanea, nasce mentre si sfogliano (e si leggono) le pagine di “Haikugrafia”, titolo che già anticipa l'essenza della raccolta che lo porta.
Pubblicata un anno fa dalla casa editrice aquilana Daimon Edizioni, la silloge si presenta in un formato che ricorda forse quello di un catalogo artistico e, proprio con l'arte (di parole e di immagini) il lettore si rende ben presto conto di avere a che fare. L'autrice, Roberta Placida, si rivela, non a caso, non soltanto fine poetessa, ma anche straordinaria fotografa: se i suoi haiku parlano al cuore, non meno eloquenti risultano gli scatti che, uno dopo l'altro, si sussegono in un turbinio di colori ed emozioni intrecciati alla seducente bellezza di versi che si accompagnano perfettamente alle singole fotografie proposte. In verità, la stessa immagine di copertina è un'opera d'arte che ipnotizza lo sguardo evocando, nel contempo, una poesia capace di andare al di là delle parole stesse, così come accade contemplando tutte le altre racchiuse, al pari di tanti gioielli, nello scrigno di questa raccolta.
“Nel vento grigio/ dello sbiadito autunno/ dicesti addio”
“Crepe d'arsura/ attende la terra la/ pioggia di vita”
“Acqua che sale/ nel vento si confonde/ voce del tempo”
Venticinque componimenti, questi della Placida, che, attraverso una manciata di sillabe secondo i canoni dell'antica tradizione poetica giapponese, raccontano un doloroso addio nascosto nei sussurri del vento, nelle carezze di luce del tramonto o tra la vita che, nonostante tutto, germoglia, sullo sfondo di stagioni che si tingono delle sfumature – ora più chiare, ora più scure – dell'anima lungo un viaggio senza luogo né tempo. Non si può che concordare con Ilio Leonio, quando nella sua bella prefazione sottolinea che le immagini “rappresentano una sorta di mappa cromatica del sogno, dell'illusione, della speranza, della gioia, del dolore”, dove la contemplazione meditativa della realtà circostante prevale sulla rappresentazione descrittiva. Del resto, se è vero che la poesia haiku ritrae la realtà come in un dipinto, secondo quanto affermava il grande maestro giapponese Masaoka Shiki (1867-1902), è altrettanto vero che essa, come scriveva Roland Barthes, noto saggista e critico letterario francese del secolo scorso, non descrive, ma si limita a fissare un'apparizione, l'intensità di un attimo d'introspezione; ed è così che l'autrice, nella sua attenta veste di haijin, dimostra di saper cogliere il senso della natura attorno a sé attraverso una profonda riflessione che si traduce, pertanto, in un linguaggio verbale di grande impatto.
Un libro da leggere e rileggere per la bellezza dei suoi versi, nonché da sfogliare più volte per godere di quella dei suoi colori, all'insegna del felice connubio di scrittura e immagine. Una lettura preziosa che, rubando le parole di Antonio Iannucci che ha firmato la postfazione al libro, “arricchisce gli occhi e lo spirito”.
Nativa della provincia romana e residente in Abruzzo, Roberta Placida insegna lettere in un liceo e si dedica alla scrittura poetica partecipando a diversi concorsi letterari, nel cui ambito ha già ottenuto importanti riconoscimenti. È altresì appassionata di fotografia e le immagini contenute nella presente pubblicazione danno prova del suo notevole talento artistico. Ad “Haikugrafia” ha fatto seguito la silloge poetica “Animae fragmenta” (Pegasus Edition), edita anch'essa nel 2019.
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Il lato oscuro del cuore umano
Quando “Thérèse Raquin” fece la sua comparsa nelle librerie francesi sul finire del 1867, negli ambienti letterari si gridò subito allo scandalo. Tra i critici, ci fu persino chi, oltre a bollarlo senz’appello come scabroso e indecente, non risparmiò a questo romanzo poco cortesi paragoni con la fogna e la pornografia. Fu lo stesso Émile Zola (1840-1902) a sottolineare una simile accoglienza nella sua prefazione alla seconda edizione del libro, uscita nella primavera dell’anno successivo, puntando il dito contro l’ipocrisia benpensante del tempo e precisando quale fosse stato il suo intento: studiare la natura umana, sotto l’aspetto sia psicologico che fisiologico, senza preoccuparsi di curare eventuali sconcezze. La scelta di personaggi dominati dai nervi e trascinati da una carnalità fatale – come dichiarò l’autore – lo colloca nell’ambito di un naturalismo ribadito con forza dalla stesura di tante altre opere successive a questa. Il suo realismo, con cui sottopone ad accurata osservazione persone e ambienti sociali, risulta tanto schietto quanto impietoso e allarga ferite spesso già purulente.
Quella di “Thérèse Raquin” è la storia di un tradimento; la trama è in apparenza semplice (lei, lui, l’altro), ma dagli sviluppi però complessi e devastanti che danno vita a pagine intense in cui si riconosce la genuina maestria e il fascino della penna dei grandi narratori dell’Ottocento.
Come la più famosa Emma Bovary una decina d’anni prima, anche la Raquin attraverso l’adulterio tenta di sottrarsi a qualcosa, nello specifico a un ambiente familiare simile a una sorta di prigione per lei che ha sempre obbedito senza mai opporsi alle decisioni della zia, la merciaia madame Raquin. A differenza del personaggio di Flaubert, però, quello di Zola non sembra essere mosso dalla brama di lussi né da deliri o capricci romantici in netto stridore con la monotonia della vita di provincia. Cresciuta accanto al sempre malaticcio cugino Camille, a causa dell’educazione che le è stata impartita, Thérèse ha represso un’indole nervosa e una vitalità che ardono sotto la cenere di un silenzio apatico e pesante, troppo pesante per una ragazza dall’agilità felina e in preda a una voglia selvaggia di correre e urlare.
“Sa tante lui avait répété si souvent: «Ne fais pas de bruit, reste tranquille», qu’elle tenait soigneusement cachées, au fond d’elle, toutes les fogues de sa nature. Elle possédait un sang-froid suprême, une apparente tranquillité qui cachait des emportements terribles.” *
Il matrimonio con Camille è stato voluto dalla zia, mossa dalla premura di lasciare un giorno il gracile figliolo alle cure di una fidata moglie-infermiera; pertanto, il tradimento di Thérèse viene commesso sia nei confronti di quel marito insulso e sessualmente poco appetibile, che puzzava di malattia e abbracciava in modo pressoché identico la madre e la cugina, sia verso l’anziana madame Raquin, che da “ses enfants” conta addirittura di avere nipoti. L’adulterio al centro della narrazione ha così per la giovane donna il sapore di una sorta di riscatto dalla vita grama fin lì condotta, mentre la pura casualità le offre come amante il vigoroso Laurent, impiegatuccio e artista fallito, nonché conoscenza di lunga data di Camille. Con le sue aspirazioni da parassita, l’uomo mira a divenire, al tempo stesso, amante della moglie, amico del marito tradito e, cosa non trascurabile per uno scapolo costretto ad accontentarsi d’insufficienti pasti da quattro soldi, quasi un secondo figlio oggetto di amorevoli cure da parte della vecchia madre. Casa Raquin, dunque, come rifugio ideale per evitare la noia di serate altrimenti solitarie e appagare appetiti sessuali senza dover ricorrere ad amanti costose; seppure non bella, come viene percepita all’inizio, Thérese appare inoffensiva e dotata di carattere remissivo. Tuttavia, gli ingenui progetti del seduttore non hanno fatto i conti con l’impeto erotico di una donna che avrebbe finito per renderlo ebbro e dipendente da una carnalità che di colpo sulla scena irrompe inaspettata, potente, destabilizzante. E a quel punto la vedovanza di lei sarebbe stata considerata, da entrambi, di gran lunga preferibile a qualsiasi ripiego clandestino. La sorte di Camille, in verità, risulta segnata fin dal primo brutale contatto tra i due.
“[…] A partir de ce jour, Thérese entra dans sa vie. Il ne l’acceptait pas encore, mais il la subissait. Il avait des heures d’effroi, des moments de prudence, et, en somme, cette liaison le secouait désagréablement; mais ses peurs, ses malaises tombaient devant ses désirs. Les rendez-vous se suivirent, se multiplièrent.
Thérese n’avait pas de ces doutes. Elle se livrait sans ménagements, allant droit où la poussait sa passion. Cette femme, que les circonstances avaient pliée et qui se redressait enfin, mettait à nu son être entier, expliquant sa vie. […]”
Non stupiscono le dettagliate descrizioni per quanto riguarda le reazioni fisiche e mentali dei due amanti, soprattutto quando il tumultuoso orgasmo della loro passione s’è ormai concluso dopo aver raggiunto il culmine con l’assassinio di Camille durante una gita domenicale lungo la Senna. L’annegato, infatti, non li abbandonerà più e, paradossalmente, resterà in mezzo a loro più da morto che da vivo. Da allora, le notti insonni, le crisi di terrore, le allucinazioni, le reciproche recriminazioni, i litigi furibondi con tanto di percosse ai danni di Thérèse rendono il nuovo ménage, un tempo così agognato, soltanto uno squallido inferno dal quale non esiste possibilità di fuga, sotto lo sguardo muto e implacabile della vecchia madame Raquin, divenuta nel frattempo paralitica, e sullo sfondo di una Parigi fin dal principio lugubre e tetra che, ben lontana dai celebrati fasti di Ville Lumière, sembra farsi essa stessa una enorme e ineludibile Morgue che inghiotte tutti.
Quella di Zola si rivela una prosa sapiente e geniale, godibilissima anche in lingua originale, che riesce a catturare il lettore d’ogni tempo. Fin dal primo capitolo, non a caso, essa trasmette un senso di vaga inquietudine che emerge non soltanto dalla minuziosa descrizione di quello che farà da sfondo alla terribile vicenda narrata, il passaggio del Pont-Neuf con le sue “boutiques obscures”, ma anche dall’immagine stessa della protagonista, ferma alla finestra e assorta a fissare in silenzio il grande muro nero sopra la galleria, prima di mettersi a letto nella più sdegnosa e sinistra indifferenza.
Leggendo “Thérèse Raquin”, ci si accorgerà che non si tratta di un romanzo osceno, come qualcuno insinuò all’uscita del romanzo; al di là dell’adulterio e dell’omicidio, la complessità delle sue pagine lo rende anzitutto un viaggio nel male, in quel lato oscuro del cuore umano, al quale il finale inatteso e repentino può concedere forse pietà, ma non redenzione.
* Le citazioni sono tratte da Émile Zola, “Thérese Raquin”, préface de Robert Abirached, Gallimard, 1999.
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Policromie di vita
Titolo particolarmente suggestivo, questo della silloge della poetessa Lucia Centofanti, pubblicata alla fine del 2018 dalla giovane casa editrice Daimon Edizioni. Una raccolta che, fin dai suoi primi testi, sorprende e cattura il lettore che le si accosta, sussurrandogli il puro e misterioso incanto dell’esistenza che, nonostante tutto, vale sempre la pena di vivere fino in fondo.
“E se la vita ti racconta/ sempre qualche bugia/ non darle torto,/ trattala con rispetto: va a finire che si innamora di te./ E per vivere raccomandati all’istinto,/ così mangia sale e bevi zucchero:/ tutto si scioglie e l’amaro s’ingoia./ Tutto poi può trasmutare in oro,/ in questo modo,/ in questo mondo.”
Come viene spiegato in una nota finale, tra queste pagine sono racchiusi sessanta componimenti che si presentano come un omaggio a due importanti rappresentanti di Sulmona, città in cui la poetessa stessa vive: Publio Ovidio Nasone, che non ha certo bisogno di presentazioni e di cui si è ormai celebrato il bimillenario della morte, avvenuta all’età di sessant’anni, e Arturo Faiella, pittore di pop-art scomparso nel novembre del 2017, il quale, al pari di altri artisti, ha tratto ispirazione, non a caso, dall’opera del celebre autore latino (su internet è possibile ammirare diversi suoi lavori).
Attraverso una delicata scrittura che scandaglia le profondità dell’anima, a tratti meravigliosamente sospesa tra l’onirico e una realtà dove il tempo non si stropiccia né appassisce, la Centofanti sa cogliere il silenzio d’una lacrima che scivola sul viso insieme alla malinconia della pioggia, così come l’immensità di una notte di sogni e stelle cadenti, mentre sorridere alla tristezza, al dolore, persino all’orrore che spesso si scorge in questi nostri giorni, “[…] è l’unica medaglia/ al valore della vita […]”. Dall’avvolgente susseguirsi di queste liriche, una più bella dell’altra, affiorano spiagge e deserti dell’anima sotto intensi cieli di cobalto e nuvole biancolatte, il rosso e il giallo di foglie spazzanti via stagioni intrise di un vento che fa vibrare dolcemente rami carichi di ricordi ed emozioni al sole che scalda la pelle e l’intreccio di pensieri che si perdono e ritrovano “[…] nel mare di un giorno migliore”. Amore, sogni, speranze, rimpianti, luci e ombre dell’anima sembrano farsi palpabili in splendide pagine che parlano al cuore con una sensibilità tutta femminile, senza mancare di scandire, più in generale, i battiti di un’esistenza tra i cui ingredienti inevitabili vi è pure, soprattutto, la sofferenza che invade la fragilità del nostro breve tempo poiché se è vero che in assenza di vita non soffriamo, altrettanto innegabile è che“[…] senza dolore/ non siamo mail nati.” È davvero molto brava l’autrice a dipingere i propri arcobaleni di versi, a dilatare con passione ciò che è finito – come sottolinea la poetessa ed editrice Alessandra Prospero nella sua attenta prefazione – trasmutandolo in qualcosa d’infinito e trattenendo “[…] curiosità e stupore/ di una venticinquesima ora.”
“La strada dei colori” è un libro prezioso, uno di quei libri dove, come spesso accade quando si tratta di poesia, si può anche ritrovare inaspettatamente se stessi agli angoli di versi e parole che si finisce per fare propri, nell’ambito di una incessante condivisione poetica che non smette di emozionare, ricordandoci che la poesia – come scriveva il grande poeta siriano Nizar Qabbani – è, in fondo, “la terra delle emozioni”.
“E la notte accendi una sigaretta/ come ultimo rimpianto,/ ingoi quel fumo di delusione./ Metronomo su un pianoforte/ per scandire il tempo/ quelle note amare. E la notte mescoli il sapore/ di una poesia/ che leggi solo per te./ Il cuore gonfio rumoreggia/ tra i pensieri/ di un mare impetuoso./ Annaspi in quelle onde/ e attendi l’alba.”
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Bullismo
È un argomento di forte attualità, quello affrontato da Isabella Liberto nel suo romanzo pubblicato lo scorso anno. Un giallo dalla trama avvincente che cattura il lettore e che conferma il talento di questa giovane scrittrice siciliana da me già molto apprezzata grazie a un libro precedente.
Stavolta, oggetto della sua penna è stato il tema del bullismo, fenomeno in fin dei conti non certo nuovo, ma che in anni recenti ha finito per essere amplificato dalle moderne tecnologie, o meglio dal cattivo uso che di queste ultime viene fatto da alcuni, con conseguenze, come ci ricorda spesso la cronaca, a dir poco devastanti per le vittime. L'autrice è stata molto brava a raccontare l'indagine portata avanti dai detective Fallow e Ford che prende avvio con l'agghiacciante ritrovamento di un ragazzo rapito e tramutato in una sorta di angelo dalle pesanti ali di pietra. Sarà solo il primo di una serie di casi accomunati dal fatto che gli adolescenti coinvolti siano dei “bulli” avvezzi a vessare pesantemente, e non solo a parole, coetanei compagni di scuola o, addirittura, insegnanti. Strada facendo, mentre si procede alla ricerca di colui che subito appare come un non sprovveduto giustiziere, emergono retroscena inquietanti che toccano tristemente altre problematiche sempre legate al mondo giovanile.
In parallelo, però, viene narrata con grande maestria anche un'altra vicenda, antecedente di circa vent'anni rispetto a quella principale ambientata ai giorni nostri. E sarà proprio l'incontro di queste due narrazioni, collocate su piani temporali differenti, a determinare la soluzione del mistero dei cosiddetti angeli di pietra attraverso un colpo di scena finale che farà strabuzzare gli occhi a chi legge, un colpo davvero da maestro per il quale va un meritatissimo plauso alla Liberto!
Una lettura consigliata agli amanti del genere giallo, ma non solo dal momento che l'argomento in questione viene toccato con evidente sensibilità, suscitando profonda amarezza e serie riflessioni.
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L'Egitto (?) delle rivoluzioni incompiute
Una bella e inattesa scoperta, questo romanzo e questa autrice egiziana in cui mi sono imbattuta grazie a un'amica. “La Fila” racconta una storia quasi surreale, ambientata in un Paese che non si tarda a individuare, non a caso, nell'Egitto di quest'ultimo decennio, sullo sfondo di rivoluzioni e manifestazioni di piazza.
La trama, infatti, ruota intorno alla vicenda di Yahya, un trentotenne rimasto ferito durante quelli che vengono chiamati “gli Sciagurati Eventi”, il quale ha assoluta necessità che gli venga rimosso un proiettile conficcatoglisi nel bacino. Tuttavia, essere sottoposti a un intervento chirurgico è tutt'altro che semplice, occorre un'autorizzazione che soltanto la Porta può rilasciare. Ma quest'ultima, chiusa nel suo silenzio assordante ed emblema di un potere dittatoriale (dietro cui può celarsi quello del deposto Mubarak o quello attuale di al-Sisi, poco importa), sembra avere interesse a insabbiare la scomoda faccenda, mentre una fila di persone, ognuna con la propria personale richiesta da presentare, si allunga a dismisura davanti a essa con il passare delle settimane. Oltre a quello di Yahya, compaiono altri personaggi che, a seconda dei casi, si ritrovano nel mezzo della coda, compreso il dottor Tareq che s'interrogherà a lungo su come comportarsi in merito all'intervento di rimozione del proiettile.
Pubblicato in Italia nel 2018 e due anni prima negli Stati Uniti, il romanzo offre una lettura sotto molti aspetti originale; di certo, è una denuncia lucida e impietosa della realtà che attanaglia purtroppo diversi Stati al mondo. Basma Abdel Aziz, l'autrice, classe 1976, è un'attivista per i diritti umani che, come si legge nella sua nota biografica, ha conosciuto in prima persona le carceri del suo Paese; in ciò che lei racconta non si fa fatica a riconoscere quanto accade nell'Egitto contemporaneo, quello delle rivoluzioni incompiute e delle feroci repressioni di cui è rimasto vittima – lo sappiamo bene – anche il nostro Giulio Regeni, così come migliaia di altri giovani che chiedono soltanto di poter avere un futuro. La tensione, in queste pagine, è palpabile e ci si sente inermi di fronte a un regime astuto, subdolo, mistificatore che tiene sotto scacco i cittadini.
Pur avendo apprezzato il libro ed essendo contenta in generale di questa lettura, non riesco ad andare oltre le tre stelle e 1/2: non si è creata empatia sufficiente tra me e i personaggi che animano la storia e, come lettrice, faccio evidentemente fatica a ritrovarmi in narrazioni dove i tempi risultano sfumati e i luoghi anonimi e privi d'anima; la città in cui si svolge la vicenda potrebbe essere Il Cairo, ma essa si riduce a un non-luogo freddo e burocratizzato, senza tratti distintivi che possano persino affascinare. Forse, giusto per restare in ambito egiziano, sono più per le prose franche e “sfacciate” di 'Ala al-Aswani che chiama ogni cosa col suo nome. In ogni caso, un'autrice certamente da tenere presente e della quale approfondire la conoscenza.
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“Siamo stati tutti uccisi.”
Non sarà forse uno dei suoi romanzi migliori, ma la storia narrata ne “Le rondini di Kabul” di Yasmina Khadra merita comunque attenzione.
La vicenda ci conduce per le strade polverose e devastate di una Kabul ormai spettrale e ben lontana dai fasti del passato, quando la sua fama poteva rilvaleggiare con quella di altre grandi città del mondo islamico. Non soltanto la capitale, ma l'intero Afghanistan, dopo un ventennio di guerre, è ridotto a cumuli di macerie, schiacciato dal peso oscurantista di un regime, quello talebano, che genera distruzione e morte a non finire. Le due coppie protagoniste (Atiq e Mussarat, Zunaira e Mohsen), molto diverse per estrazione sociale e tuttavia accomunate dalla diffusa miseria, vedranno incrociarsi inconsapevolmente le loro strade nel momento più tragico, mentre un destino feroce si accanirà in maniera brutale contro fragili esistenze già messe a dura prova.
Incarnate dai quattro personaggi principali, resistenza e rassegnazione a un mondo popolato da tagliagole e donne umiliate dal muto anonimato del burqa s'intrecciano tristemente; soltanto il vecchio Zanish pare conservare il desiderio di sognare ancora e fuggire da una città dannata dove tutti mendicano pietà. Il tutto, in una prosa altamente poetica in cui, già dal prologo, finisce per specchiarsi una natura inaridita quanto il cuore umano.
Come anticipato, il romanzo, dei primi anni Duemila, non sembra all'altezza di altri lavori dello scrittore algerino (al quale riesce forse meglio parlare del disagio delle giovani generazioni maghrebine in Europa o del terrorismo più in generale), ma offre comunque una buona lettura, ricordandoci il dramma di una terra che, considerata la forte instabilità politico-sociale dell'area, in verità non è mai terminato del tutto. Nel 2019, dal libro è stato tratto un film di animazione (Les Hirondelles de Kaboul), in cui, però, la cui trama originale è stata modificata in diversi punti: https://www.youtube.com/watch?v=Qb3AkA-7V0k
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In fuga dall'Albania
Pubblicato nel 2018 dalla casa editrice siciliana Bonfirraro, “Fuori dal nido dell’aquila” è un libro dal contenuto a dir poco drammatico che trascina il lettore in quel “lembo del pianeta Terra, chiamato Albania”, dove sul finire degli anni Novanta del secolo scorso, a seguito di una frode finanziaria che travolse migliaia di risparmiatori e del successivo fallimento economico, si sparse vero e proprio terrore, la cui furia cieca “avrebbe fatto piangere i bambini e gli orfani del futuro dentro il grembo delle madri.” Per non parlare dei danni profondi che erano stati già arrecati al Paese da decenni di dittatura.
L’autore, Shefit Troka, classe 1968, è uno scrittore albanese da tempo residente in Italia, il quale, poco più che ventenne, attraversò l’Adriatico a bordo di una zattera insieme ad altri connazionali. Non a caso, a essere oggetto del racconto è anzitutto la sua stessa esperienza personale, e non solo, come si evince da queste pagine che segnano un più che positivo esordio letterario.
In verità, dopo un prologo che aiuta a comprendere quanto accaduto all’improvviso nel Paese delle aquile, sono due i racconti racchiusi all’interno di questa pubblicazione: “La cameretta di Mary” e “Di là ci sarà una vita migliore”. Il primo, piuttosto breve, narra la terribile vicenda di un’adolescente che mostra come la vita, infine, sia simile a “una stella cadente che brilla una sola volta”, mentre il secondo, ben più corposo e di ampio respiro, custodisce i ricordi di un io narrante alter ego dell’autore, dando voce a una memoria che a poco a poco si fa dolore palpabile, disillusione, umiliazione, crudeltà, se non, a momenti, vero e proprio orrore.
“[…] Non saprei se chiamarla fortuna o guaio, ma il destino mi ha catapultato lungo le vie di questo paese con un nuovo nome sulla carta d’identità: clandestino.
Clandestino è una strana liberta. È come sentire addosso una inspiegabile colpa pur non avendo compiuto nessun errore. Forse il vero peccato che ti colpisce al cuore è il fatto di aver abbandonato l’infanzia, la casa dove sei nato e cresciuto, le risate, le lacrime di gioia e di dolore. Clandestino è vagare in uno spazio che non ti appartiene, presentandoti con una identità sconosciuta e sentirsi sconosciuto è come essere abbandonato. […]”
Approdato in una cittadina dell’Abruzzo, il protagonista inizia un lungo racconto che prende le mosse dalla situazione di estrema povertà della società albanese, dove mancava qualsiasi cosa. Anzitutto, elemento fondamentale per la dignità umana, la libertà.
“[…] Non esistono parole in nessuna lingua sulla terra per descrivere la sensazione di libertà. Solo il cuore di chi prova questa emozione può interpretare il linguaggio segreto e il significato di quella parola. Sentirsi libero? Forse è la stessa cosa che prova un malato terminale che, improvvisamente, guarisce. […]”
Attraverso una scrittura particolarmente apprezzabile che sa rendersi coinvolgente, sconfinando spesso in una prosa poetica intrisa di amaro disincanto, si percorrono lunghe strade polverose dapprima alla volta della frontiera greca, agognato confine che un infinito numero di disperati si propone di oltrepassare, seppure a costi altissimi. È a quel punto che si svelano atrocità inimmaginabili per chi non abbia mai vissuto sulla propria pelle situazioni di tal genere; si rimane sconcertati dinanzi a simili atti di violenza e accanimento estremi commessi dai militari ellenici ai danni di ragazzi e uomini inermi che, nel giro di poco, finiscono per precipitare nell’inferno più atroce che le parole fanno fatica a descrivere. “Perché?” si domanda il protagonista, ma soltanto la voragine del silenzio finisce per rispondergli. La medesima risposta che sembra risuonare nella parte conclusiva del libro, quando, scegliendo la via del mare, si cercherà di nuovo di lasciare l’Albania, separata dall’Italia solo da poche miglia. Su tutto, aleggia il pensiero fisso della morte che, nel tempo di un battito di ciglia, potrebbe spezzare i sogni e le speranze di chi si ostina a voler fuggire da una dittatura che, come noto, aveva privato i cittadini persino del conforto di una fede religiosa. Ma per chi ha fame di futuro, si sa, nemmeno la paura di morire può essere un ostacolo.
Una testimonianza, questa di Troka, molto toccante che merita ascolto. Un’opera prima più che lodevole per contenuto e forma (quest’ultima, oltretutto, sorprende piacevolmente dal momento che si tratta di un autore non madrelingua). Una lettura che fa male, e non poco, ricordandoci una pagina di storia recente in cui l’Italia si ritrovò coinvolta in modo particolare, mentre quello dell’emigrazione continua a essere un tema, come confermano ormai i desolanti scenari di morte di altre rotte del nostro Mediterraneo, di drammatica attualità. Da leggere!
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Ma dove va a finire la vita?
Davvero splendido, per stile e contenuto, questo racconto di Claudio Magris, pubblicato nel 1993 dalla casa editrice Il melangolo e già comparso in precedenza con il titolo “Io, pescatore di anime morte” sul Corriere della Sera. Sebbene il nome dell’autore, tra quelli dei maggiori intellettuali del nostro tempo, evochi il fascino di Trieste e di scenari mitteleuropei, questa manciata di pagine ci catapulta all’improvviso lontano dal corso del Danubio, lungo quello avventuroso del Tâmega o alla foce del Douro al cospetto dell’Atlantico, là dove acque di fiume e di mare si abbracciano e confondono.
“Il Conde” racconta la vicenda di un barcaiolo portoghese che, seguendo la corrente dei ricordi al pari di quella del fiume, ripercorre malinconicamente la propria esistenza, consumatasi a ripescare cadaveri insieme a quello che tutti chiamano il “conte”, signore indiscusso dei fiumi; la fama di quest’ultimo si è sparsa ovunque per terra e per mare, proprio in virtù della sua lugubre e poco invidiabile, ma necessaria, attività di pescatore di morti annegati che col tempo gli ha conferito un fascino misterioso. La conosce a memoria il nostro protagonista, la storia del Conde, di cui parlano persino i giornali; potrebbe essere anche la sua, iniziata per mare da ragazzino. In fin dei conti, le storie intrise d’acqua, quell’acqua così “amara di perdizione”, finiscono per assomigliarsi un po’ tutte. È l’acqua stessa che, in verità, sia essa dolce, salata o magari piovana, è simile dappertutto, facendo divenire le cose sempre più simili tra esse.
“Ma sentite come viene giù tutta questa pioggia, […] cosa volete che a uno importi, con quest’acqua da tutte le parti, sopra e sotto, dentro la finestra e presto dentro la camicia, che non si capisce più dov’è il cielo e dove il fiume e dove il mare, cosa volete che gli importi, non so se mi spiego, se la gente o i giornali chiamano Conde, già, il Conde del fiume, lui o un altro?”
Sembrano ormai ombre loro stessi pescatori di morti, la cui vita si perde nella silenziosa solitudine dell’acqua, da dove riaffiorano cadaveri, ma anche sorrisi enigmatici di polene smarrite da chissà quali antiche navi e innumerevoli ricordi che, continuano a bruciare come ferite sempre aperte. Li si sente tutti, quei silenzi, quelle solitudini, gravidi d’amarezza e rassegnazione dinnanzi alla vita che, impietosa e indifferente, scivola via nell’umido grigiore di giorni sempre uguali, appena scalfiti dalla dolcezza dell’amore, mentre la voce stanca del barcaiolo racconta di sé, del Conde e del loro mestiere misericordioso che dà sempre di che vivere poiché – verità sacrosanta – “[…] chi sceglie come sua specialità la morte non corre il rischio di restare disoccupato”.
“Sì, conosciamo tutti la sua storia, le centinaia che, in più di quarant’anni, ha ripescato un po’ da tutte le parti, nel Douro e negli altri fiumi […] o nel mare, guardandosi intorno come un falco o tastando il fondo con la stanga uncinata, perché qualche volta si impigliano a chissà cosa e restano sotto e lui paziente per ore e ore finché non li scopre e afferra nel modo giusto, attento a non spingerli che non scivolino via per sempre […]. A lui è sempre piaciuto quando galleggiavano gonfi da scoppiare o magari mangiati dai granchi, pronti per essere acciuffati e messi su. […] e allora è una notte buona per il suo, per il nostro lavoro, c’è tanta gente da andare a ripescare per seppellirla in terra benedetta […].”
Un lento monologo che fin dalle prime righe, grazie alla splendida prosa di Magris, conquista e seduce. Una piccola, sorprendente storia che profuma di vento e salsedine, carica di rimpianti e orizzonti che non si è avuto il coraggio di scorgere, nella quale non si fatica a riconoscere il peso di quell’ineludibile dolore che scandisce l’umano vivere. Una grande prova di scrittura, questa dell’autore triestino, che dona una lettura che fa male e resta dentro. Da leggere!
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Ritorno a casa
Pubblicato nel 2016 da Elliot Edizioni, “Dieci prugne ai fascisti” è un romanzo nel quale la scrittrice italo-bosniaca Elvira Mujcic racconta una storia che commuove e diverte allo stesso tempo, nonché ricca di memorie familiari.
Ci si ritrova, infatti, a seguire le vicende della famiglia di Lania, in Italia dagli anni del disastroso conflitto nei Balcani. Quando Nana, la nonna, viene a mancare, si attiva la macchina organizzativa che era stata già prevista tempo addietro per riportare in Bosnia l’anziana donna, che aveva infatti sempre espresso il desiderio di essere sepolta nella propria terra d’origine. Sopravvissuta al dolore per la morte, a causa della guerra, di due figli rimasti privi di sepoltura, è lei, la nonna, nonostante la trama del libro ruoti attorno all’organizzazione del suo funerale, il personaggio più vivo e vivace di tutta la narrazione, vera figura carismatica e colonna portante di una famiglia in cui, come in tutte le altre, si accendono battibecchi e discussioni; il suo strenuo attaccamento alla terra evoca una circolarità dolorosa, ma forse necessaria: “essere sul luogo dove tutto ebbe inizio, accogliendone la fine” diviene essenziale affinché la vita abbia un senso, non sempre comprensibile pienamente da chi è giovane.
“[…] Non sapevo cosa pensare: era meglio andare, correre, non tornare mai indietro, attendere la fine lontano da dove si è venuti alla luce? Oppure faceva bene chiudere il cerchio, ritornando? […]”
Rispettando però l’ultima volontà di Nana, la figlia e i nipoti riescono a organizzare per lei l’estremo viaggio che diventerà, per tutti loro, occasione per un ritorno in patria alquanto movimentato. Riuscirà il feretro, infine, a giungere a destinazione?
Attraverso un io narrante particolarmente spontaneo e coinvolgente, la Mujcic (che avevo già avuto modo di apprezzare nel più recente “Consigli per essere un buon immigrato”, Elliot Edizioni, 2019) ci dona una storia davvero bella, dove realtà e finzione letteraria s’intrecciano com’è giusto che sia, inquadrando temi che, alla luce della stessa vicenda familiare della scrittrice, vanno da quello delle radici a quelli della multiculturalità e dell’immigrazione in un Paese straniero sentito come proprio. Il tutto sostenuto da un’altrettanto bella scrittura, mai piatta né banale, sempre pronta a cogliere, nonostante tutto, quella sottile ironia che la vita ci offre nelle più svariate circostanze. Un romanzo in cui i fascisti (o presunti tali) richiamati dal titolo non sono altro che ragazzotti canterini da nutrire, capitati chissà come tanto tempo fa nel più sperduto villaggio bosniaco, dai quali magari imparare a contare fino a dieci in lingua italiana; un romanzo dove la felicità può consistere nello sventolare all’improvviso la bandiera di uno Stato ormai inesistente o esplodere, incredibilmente, persino alla vista di un carro funebre. Una lettura che consiglio vivamente!
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Giustizia è fatta
Se prima di tre anni fa, quando mi avvicinai timidamente a “Uomini che odiano le donne”, mi avessero detto che avrei finito per innamorarmi di “Millennium”, molto probabilmente sarei scoppiata a ridere liquidando la cosa come impossibile.
In verità, per innamorarmi della trilogia in questione è stato sufficiente il primo volume e ora che ho chiuso anche il terzo so già che della prosa accattivante di Stieg Larsson sentirò una forte mancanza. Una prosa, quella del compianto autore svedese scomparso a soli cinquant'anni nel 2004, che si rivela capace di appassionare anche chi, come la sottoscritta, non legge abitualmente gialli, polizieschi o thriller. Come nel precedente “La ragazza che giocava con il fuoco”, anche ne “La regina dei castelli di carta” continua a essere al centro della narrazione la vicenda di Lisbeth, la giovane hacker che odia gli uomini che odiano le donne, riprendendo il racconto dal punto esatto in cui era stato interrotto nel secondo libro. E se in quest'ultimo niente e nessuno avevano potuto bloccare una Lisbeth braccata dalla polizia dell'intero Paese e non solo, stavolta nemmeno una pallottola in testa riuscirà a fermarla: il complotto ordito ai suoi danni, fin da quando era ragazzina, giunge al capolinea e finalmente le porte delle patrie galere svedesi, anche grazie all'aiuto dello scaltro giornalista Blomkvist, si spalancheranno all'improvviso per i responsabili, i quali hanno giocato il tutto per tutto pur di non soccombere e far calare di nuovo il buio attorno allo spinoso affare Zalachenko. Una trama, pure in queste pagine, tutt'altro che avara di colpi di scena che catturano il lettore sino alle battute finali, mentre la scrittura particolarmente scorrevole, in pieno stile Larsson, induce a “divorare” in tempi piuttosto rapidi un volume ancor più corposo dei precedenti.
Mi è stato raccontato che, da qualche tempo, un altro autore svedese ha aggiunto alcuni titoli alla trilogia, ma per me “Millennium” finisce qui, anche perché la penna di Stieg Larsson, come nel caso di ogni grande scrittore, è unica e irripetibile. Lisbeth, Mikael, Erika e tutti gli altri personaggi mi mancheranno, e non poco.
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Dura vita per i disprezzatori delle donne
Andata in scena per la prima volta a Venezia nel 1753, “La Locandiera” di Carlo Goldoni è una gustosissima commedia in tre atti che continua ancora oggi a conservare una freschezza e una vivacità del tutto invidiabili. All’affascinante Mirandolina, protagonista indiscussa ormai ascesa al pantheon dei personaggi più celebri e, tra quelli femminili, più memorabili della grande letteratura senza tempo, hanno finora dato volto diverse attrici, tra cui persino la grande Eleonora Duse sul finire dell’Ottocento.
Come anticipa lo stesso Carlo Goldoni nella sua nota introduttiva al testo, questa scaltra locandiera, presumibilmente ancor giovane ma non più giovanissima, è donna di fiera e singolare intelligenza che intende mostrare “come s'innamorano gli uomini”. Di coloro che già si professano suoi innamorati e si affannano nel vano tentativo di corteggiarla, il Marchese di Forlipopoli e il Conte d'Albafiorita, due insipidi nobilucci alloggiati nella sua locanda in quel di Firenze, non si cura, se non in veste di padrona di un’attività economica: libera da vincoli e soggezioni di sorta, lei è donna che tratta con tutti, ma che non s'innamora di nessuno e a sposarsi non pensa neanche lontanamente. Nemmeno con quel Cavaliere di Ripafratta, gran “disprezzator delle donne”, anch’egli suo ospite, contro il quale lei dichiara una tacita, personalissima e puntigliosa guerra volta a punire il suo essere nemico dichiarato dell'altra metà del cielo.
“[...] È nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. La troverà. E chi sa che non l'abbia trovata? Con questi per l'appunto mi ci metto di picca. […] e voglio usar tutta l'arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.”
Con grazia e malizia impareggiabili, che si concretizzano in parole e sguardi, gesti e lacrime, la protagonista finisce per conquistare il Cavaliere che ha commesso il fatale errore di permetterle di avvicinarsi a lui; del resto, “[...] chi è quello che possa resistere ad una donna, quando le dà tempo di poter far uso dell'arte sua? Chi fugge non può temer d'esser vinto, ma chi si ferma, chi ascolta, e se ne compiace, deve o presto o tardi a suo dispetto cadere.” Spassosissima la scena in cui la locandiera è impegnata a stirare la biancheria, mentre, a poco a poco, la situazione s'infervora al pari del ferro che deve essere mantenuto caldo!
Come già la Lisistrata di Aristofane e come in seguito, in un certo qual modo, anche la Nora di Ibsen, la Mirandolina di Goldoni pone l'accento sulla propria intelligenza pretendendo, a ragione, di vedersi riconosciuti i dovuti spazi al di fuori di modelli maschilisti e misogini tuttora in auge. La penna del grande commediografo veneziano dipinge così un personaggio davvero delizioso, in netto contrasto con l’immagine della donna sottomessa imposta dalla mentalità dell’epoca che non tollera alcun tentativo di emancipazione dal giogo coniugale e domestico. Quello di Mirandolina incarna un ideale femminile provocatorio nei confronti dell'uomo sic et simpliciter e, al tempo stesso, della società patriarcale, dove le donne trovano la propria naturale e legittima dimensione come mogli e madri. Costei, invece, rompe scandalosamente gli schemi e anche quando decide infine di mutare stato civile, avanzando – lei! – proposta di nozze a un fidato cameriere della sua locanda, si dubita che possa essere disposta a rinunciare oltremisura alla propria libertà (“Finalmente con un tal matrimonio posso sperar di mettere al coperto il mio interesse e la mia riputazione, senza pregiudicare alla mia libertà.”). Inoltre, non sembra nutrire l'ambizione di arricchirsi o bramare titoli aristocratici da acquisire attraverso un matrimonio di convenienza, accontentandosi di ciò che è e che ha, mentre i rappresentanti della nobiltà, spesso senza nemmeno uno zecchino in tasca, hanno boria e mania di grandezza a dir poco ridicole.
In tempi in cui, ahinoi!, dei disprezzatori delle donne ancora non si scorge penuria e la quotidianità femminile risulta sempre rigorosamente in salita, ricordare testi come questo diventa quasi lenitivo. Da leggere e, per ovvi motivi, ancor più da veder rappresentata a teatro, “La Locandiera” è un'opera, dunque, che continua a occupare un posto d'onore nella assai vasta produzione goldoniana e che, dopo oltre due secoli e mezzo, conserva intatto il sempre valido monito – che gli “uomini presuntuosi” (ma persino qualche rappresentante del gentil sesso) non dovrebbero mai prendere alla leggera – a non disprezzar le donne.
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Alla bottega di Ridolfo
Molto bella questa commedia di Carlo Goldoni datata 1750!
Decisamente diversa rispetto a "La Locandiera", portata in scena solo tre anni dopo, ma comunque molto apprezzabile, "La bottega del caffè" è di chiara impronta moralistica e si colora di vari personaggi tra cui spicca senz'altro quello dell'onestissimo e lealissimo Ridolfo, proprietario della bottega del caffè che dà il titolo all'opera, mentre, sullo sfondo di una Venezia popolata da nobili e meno nobili sotto tutti gli aspetti, la maldicenza e il deleterio vizio del gioco impazzano; colpisce, in particolare, proprio quest'ultimo che, attraverso la sciagurata figura del povero Eugenio che sembra fare di tutto per rovinarsi con le sue stesse mani nella vicina bisca, finisce per essere sorprendentemente dipinto - visti i tempi! - come una vera patologia.
Lettura divertente e ricca di notevoli spunti di riflessione che invoglia ad approfondire ulteriormente il teatro goldoniano.
"[...] Al mondo vi è dell'ingratitudine assai."
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Streghe e capri espiatori
Todi, anno Domini 1428. Con l'accusa di stregoneria viene condannata al rogo Matteuccia di Francesco, dedita, secondo i ridicoli e pretestuosi atti del processo, a malefici e pratiche diaboliche di vario genere. Ma chi era costei?
Anzitutto, un personaggio realmente esistito di cui rimane ignota la data di nascita, da collocare con buona probabilità prima del 1400, mentre è certa quella della morte (20 marzo 1428). Il suo è stato un volto tra i tanti di quella infinita moltitudine di donne dimenticate dalla Storia che dell'altra metà del cielo ha conservato traccia – come sottolinea l'autrice nella sua prefazione – preferibilmente nel caso di regine, sante e consorti di uomini potenti. Un originale ed emozionante romanzo, questo di Barbara Cucini, la quale, attraverso pagine basate su un'accurata ricerca storica degna di nota e sorprendenti brandelli di tradizione orale, restituisce voce e dignità a una donna che, come all'epoca tutte quelle a conoscenza delle proprietà delle erbe e di qualche cura di tipo medico, non poteva non essere additata come strega e, di conseguenza, bruciata viva. Tuttavia, nel suo caso vi è qualcosa di più a condannarla al rogo: sullo sfondo della vicenda narrata, infatti, non mancano intrighi e lotte per il potere nell'ambito di un contesto politico piuttosto instabile in cui la stessa Matteuccia, donna acculturata e volutamente al di fuori dei misogini schemi sociali, dava in un certo qual modo fastidio a qualcuno in quanto legata all'entourage di un condottiero del tempo noto come Braccio da Montone, anch'egli realmente vissuto e morto in battaglia circa un paio d'anni prima del processo alla “strega”. Anche lui trova spazio in queste pagine, così come altri personaggi che, seppur di fantasia, traggono credibilità da fatti e circostanze a cui la Storia consente di appigliarsi; tra questi ultimi, molto ben inserita la saggia figura di Maestro Isaac, il medico ebreo cui viene riservata una fine terribile a riprova dell'antisemitismo imperante, e persino quella di Bernardo, l'amante di Matteuccia.
Nel complesso, complice una scrittura coinvolgente e a tratti particolarmente introspettiva, emerge il ritratto di una donna molto affascinante che, nonostante tutto, non piega la propria innocente fierezza nemmeno sul carro del boia, mentre si compie l'atroce e assurdo destino condiviso da chissà quante vittime del loro tempo.
“Quante volte dovrò morire di questa morte dolorosa e continua, ogni volta sempre uguale? Ogni volta fa sempre più male, sapete? Mi chiamano strega, questo è il nome che mi danno. Che mi date voi. […] Lo sapete bene che Matteuccia di Francesco non ha fatto male a nessuno. Ma avete ragione, io riesco a togliere via il dolore degli altri. Di chi si merita la pietà di Dio. Prendo il dolore degli altri su di me, degli altri che hanno un'anima speciale che un dolore grande ha spento. Morti che si muovono, perché devono continuare a stare nel mondo. Perché qualcuno qui ha bisogno di loro. Ancora. Io vivo il loro dolore, lo vivo mille volte, lo sento fino in fondo mille volte, finché non li lascia in pace. Finché non nascono di nuovo. Il mio è un amore di madre. […]”
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“A volte basta un filo a cambiare la trama.”
Che nascere donna non sia mai stato facile in qualsiasi tempo e luogo è risaputo. Nemmeno l’Inghilterra ancora dell’epoca imperiale sembra aver risparmiato niente alle suddite di sua maestà britannica, alle quali si è continuato a chiedere di scegliere tra famiglia e lavoro, tra matrimonio e un nubilato maldestramente etichettato come una sprezzante condanna senz’appello.
Giunta alla bella età di trentotto anni, Violet Speedwell è una di quelle donne non sposate a cui la bigotta e ipocrita società inglese degli anni Trenta del secolo scorso richiede unicamente di votarsi alla cura dei genitori e di tenere un comportamento moralmente non riprovevole. Anche lei, al pari di tante, fa parte suo malgrado del poco invidiato club di “donne in eccedenza”, come vengono additate le nubili rimaste tali anzitutto a causa della penuria di giovani uomini imputabile alla grande guerra che si è conclusa da meno di tre lustri; sui campi di battaglia del vecchio continente sono caduti anche un fratello e il fidanzato, perdite incolmabili che bruciano come ferite sempre aperte nella sua esistenza scandita dalla routine familiare e i ritmi del lavoro da dattilografa. L’improvviso trasferimento da Southampton a Winchester da lei richiesto la sottrae, per fortuna, al caratteraccio di una madre che, più che sostenerla, pare annichilirla, mentre la nuova città, dove si accosta al mondo delle ricamatrici legate all’antica Cattedrale, finisce per affrancarla aprendole nuovi, imprevedibili e insperabili orizzonti. Dopo lutti e amarezze varie, la vita sorriderà ancora a Violet? E, soprattutto, Violet saprà sorridere di nuovo alla vita?
Con una storia bellissima e intensa che conquista a poco a poco il lettore, ritorna in libreria Tracy Chevalier, già autrice de “La ragazza con l’orecchino di perla” (Neri Pozza, 2000), nonché di altri grandi successi internazionali. Anche quest’ultimo romanzo, grazie alla trama coinvolgente e alla scrittura resa particolarmente scorrevole dall’abile stile narrativo, ha tutte le carte in regola per diventare un nuovo successo letterario di questa autrice nata nel 1962 negli Stati Uniti, ma trasferitasi in Inghilterra fin dagli anni Ottanta. Tra queste pagine, infatti, emerge una sensibilità tutta femminile che si addentra nell’intimo della protagonista, facendone un ritratto perfetto che mette a nudo sentimenti, emozioni, timori e, nonostante tutto, il desiderio di amare ed essere amata ancora una volta. Violet, però, non è l’unica a testimoniare quanto sia difficile per una donna farsi strada e affrontare una società che, per quanto civile e “moderna”, si arrocca in un umiliante e opprimente maschilismo, spesso alimentato, paradossalmente, dal medesimo gentil sesso.
Se, da un lato, aveva rivendicato un tempo la propria libertà sessuale ripiegando tristemente su quelli che chiama gli uomini dello sherry, la cui compagnia poteva andar bene giusto per una notte, Violet stessa all’inizio si dimostra a disagio di fronte alla scoperta della relazione saffica tra due colleghe ricamatrici su cui gravano maldicenze e riprovazione sociale. Gilda, Dorothy e anche la non più giovane signorina Louisa Pesel emergono nel corso della narrazione come figure molto più intelligenti e autorevoli di qualsiasi uomo, illuminando d’un tratto con una luce nuova il mondo di Violet. Quello dell’emancipazione femminile, che passa attraverso la realizzazione professionale e il coraggio di disporre di se stesse senza condizionamenti né imposizioni, è il tema intorno al quale ruota indiscutibilmente questo romanzo che, oltretutto, rivela un prezioso lavoro di ricerca e documentazione storica, dal momento che la Pesel e i ricami della Cattedrale di Winchester, come si apprende da una nota finale, non sono fantasie della penna della Chevalier. E, non a caso, l’arte del ricamo finisce qui per svestirsi di quella semplicistica parvenza di passatempo da zitelle (per riprendere l’impietosa definizione data dalla madre della protagonista), divenendo ben presto quel qualcosa di cui si ha profondamente bisogno – come afferma invece il campanaro Arthur – per liberarci da noi stessi.
“[…] Violet scoprì che ricamare non era poi così diverso da battere a macchina, però dava più soddisfazione. Una volta che ci avevi preso la mano, diventava perfino rilassante e potevi dimenticare ogni altro pensiero, concentrandoti unicamente su ciò che avevi davanti. La vita allora si riduceva a una sfilza di punti blu che s’intrecciavano sul canovaccio, uno sprazzo di rosso che pian piano diventava un fiore. Invece di redigere documenti per persone che non avrebbe mai conosciuto, Violet vedeva nascere sotto le sue dita figure dai colori vivaci. […]”
Così, fra gli intrecci di quei colori e le meravigliose composizioni dei cuscini della cattedrale, Violet è capace di far proprio quel coraggio che è sempre difficile afferrare se non si è disposti a pagarne il prezzo, scoprendo infine che, talvolta, basta davvero un filo diverso per cambiare del tutto la misteriosa trama dell’esistenza.
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Memoria è sempre, memoria è vita!
Pubblicato nel 1958, “La notte” è uno di quei libri che dovremmo leggere non soltanto nel periodo a ridosso della Giornata della Memoria del 27 gennaio, ma in tutto l'arco dell'anno. Memoria è sempre, si potrebbe dire parafrasando Primo Levi.
Libri come questo di Elie Wiesel (1928-2016), premio Nobel per la Pace nel 1986, sono stati scritti proprio a imperitura memoria della tragedia causata da un male annidato subdolamente tra le pieghe della mediocrità e, come disse qualcuno, della banalità più sconcertanti. Un male che, in verità, non è mai stato debellato e contro il quale il solo antidoto può essere quello di coltivare la memoria poiché – come ha affermato anche di recente Tatiana Bucci, un'altra superstite della Shoah – “memoria è vita”.
Wiesel era adolescente quando, nel corso del secondo conflitto mondiale, quel male piombò addosso a lui e alla sua famiglia, così come a tutti gli ebrei della cittadina transilvana di Sighet. Dapprima fu il ghetto, poi il lungo e difficile viaggio a bordo di un convoglio di carri bestiame verso l'ignoto; infine Auschwitz-Birkenau e Buchenwald. E la notte, pesante, agghiacciante, infinita, calò sulla vita di uomini, donne e bambini, inermi fuscelli in balia d'un vento vigliacco e assassino.
“Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.”
“La notte” non è un testo che si possa raccontare: non esistono parole adeguate né sufficienti, neppure scavando nel profondo del vocabolario del cuore, per descrivere l'orrore di queste pagine. Occorre leggerle, queste pagine, lasciandosi avviluppare da paura, freddo, fame, anche se non riusciremo a comprendere mai fino in fondo il loro significato autentico sullo sfondo di un mattatoio come quello, dove un figlio può arrivare ad abbandonare il proprio padre, o a ucciderlo per una briciola di pane, e Dio assume le sembianze di un bambino agonizzante appeso a una forca.
La scrittura di Wiesel, lucida, coraggiosa, arida ormai di lacrime, non risparmia niente al lettore di ciò che viene raccontato, ma di certo molto ha taciuto. Essere un “eletto di Dio – come lo definisce lo scrittore François Mauriac nella sua prefazione – […] nutrito di Talmud, […] consacrato all'Eterno” non conforta il giovanissimo Elie dinnanzi a una tragedia come quella dell'Olocausto e la millenaria e incrollabile fede dei padri sembra volare via, impotente, al pari delle volute di fumo che escono dai crematori. È la stessa fiducia nell'uomo che sembra svanire.
Viene da domandarsi che cosa la Storia, quella Storia, abbia insegnato alla nostra umanità malata d'onnipotenza se ancora oggi, a distanza di oltre sette decenni dall'arrivo dei sovietici ad Auschwitz, qualcuno osa sbefeggiare quel macabro simbolo con t-shirt che non dovrebbero nemmeno essere mai state pensate o, come ci racconta la fresca cronaca di questi giorni, su alcune porte si scrive Juden vigliaccamente. Nemmeno le comitive in pellegrinaggio a Predappio ci porteranno lontano, né l'intitolare vie nelle nostre città ai firmatari di manifesti della razza di cui si cerca di riabilitare la memoria agli occhi della società attuale, tutti sintomi che, semmai, ci stanno già facendo scivolare negli abissi più truci di quella Storia che avrebbe dovuto esserci maestra. Ma il passato insegna sempre, siamo noi pessimi allievi; noi che, nessuno escluso, tendiamo a ripercorrere strade sbagliate, considerato tutto quel che è accaduto dal '45 a oggi, reiterando genocidi e pulizie etniche in giro per il mondo. Dunque, i Wiesel, i Levi, le Frank e tutti gli altri hanno lasciato invano la propria tragica testimonianza? Soprattutto in tempi come questi in cui, dati alla mano, non solo l'antisemitismo è vivo e vegeto, ma l'intolleranza si estende a macchia d'olio contro diverse categorie a guisa di capri espiatori, la Giornata della Memoria deve per davvero cadere ogni giorno dell'anno affinché si levi sempre la voce a difesa di qualcuno e non si rischi così di assistere a rastrellamenti lenti e silenziosi nei nuovi ghetti del pregiudizio e dell'ignoranza. Altrimenti, un giorno, quando verranno infine a prendere anche noi – per citare un altro testo ben noto – non resterà nessuno a protestare.
*N.B.: le cinque stelle attribuite alla "piacevolezza", ovviamente, non significano che la lettura sia stata piacevole, ma prendono atto di un libro "bello" nella sua altissima drammaticità.
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Caino, un “huomo da bene”
Pubblicato postumo un paio di mesi fa, “Autodifesa di Caino” è un appassionante monologo che il Maestro Andrea Camilleri ha lasciato ai suoi lettori dopo l’improvvisa dipartita dell’estate scorsa. Una piccola preziosa sorpresa che, a distanza di diversi mesi dall’uscita del precedente testo dedicato al personaggio di Tiresia, si contraddistingue anch’essa per l’originalità del soggetto trattato.
Non molti, infatti, darebbero tanto a cuor leggero la parola a Caino, il primo assassino della storia, sul quale pesa sempre come un macigno il racconto biblico che tutti abbiamo imparato a conoscere fin da bambini. Egli si presenta col garbo e l’abilità di un “contastorie”, riproponendo la vicenda che lo vide uccisore di Abele e insinuando riguardo a essa dubbi che non possono non indurre a riflettere meglio sulla questione.
Siamo certi che quello che passa tra i ruoli di vittima e carnefice sia un confine poi così netto? Chi potrà mai essere sicuro fino in fondo del fatto che Abele non abbia avuto a sua volta, e magari per primo, l’intenzione di uccidere suo fratello che, pertanto, potrebbe anche essersi ritrovato ad agire per paura e difesa? Non a caso, esiste una versione diversa da quella da sempre in auge, una variante che, affondando le proprie radici in antiche e misconosciute narrazioni legate per lo più alla tradizione ebraica, racconta una storia in cui il bene e il male finiscono per intrecciarsi e confondersi in maniera inevitabile; una storia secondo la quale Caino, condannato da Dio a vivere sulla terra per l’eternità, divenne addirittura fondatore di città, così come inventore di tecniche utili alla sopravvivenza umana e persino della musica. La consapevolezza “[…] che non sempre dal bene nasce altro bene e che non sempre il male genera altro male” è ben viva in lui che, “huomo da bene” come lo definì Giordano Bruno, continua a vivere in mezzo a noi in quanto simbolo, ma “[…]simbolo necessario, perché senza il male il bene non esisterebbe.”
“Autodifesa di Caino” (Sellerio editore Palermo, 2019) è un libriccino che parla di bene e male, di libero arbitrio, di pentimento, della nefandezza della tortura. Una breve lettura, ma di profonda intensità e ricca di quella sensibilità propria dello straordinario autore che è stato Andrea Camilleri.
“Ho finito davvero. Non voglio che pronunciate il vostro verdetto ora. Riflettete su quanto vi ho raccontato […] e poi decidete da voi. Secondo coscienza.”
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In Marocco tra Tangeri e Fes
Onirico e poetico, "Harrouda" non è proprio un romanzo, ma un libro di pensieri e memorie dove il tempo e la forza della parola s’intrecciano in un racconto surreale che si svolge tra le città di Fes e Tangeri, all’interno di un Marocco antico e moderno al tempo stesso, sulle orme di una sensuale prostituta chiamata appunto Harrouda che popola i sogni dei ragazzini. In verità, una lettura non semplice, ma molto affascinante.
Tra i temi trattati in queste pagine, la circoncisione, l’hammam delle donne e il café degli uomini, i tre mariti della madre dell’autore, l’oblio dell’hashish, l’omosessualità e la prostituzione dei ragazzi con gli stranieri che giungono a Tangeri, città della menzogna e del tradimento, Tariq ibn Ziyad che nel 711 attraversò lo Stretto alla conquista di al Andalus.
Mi piace la scrittura di Ben Jelloun, anche nella versione originale francese, coraggiosa e non ipocrita, in particolare il suo dar voce alle donne: senza dubbio un libro scandaloso all’epoca della sua pubblicazione (1973), specie in una cultura come quella marocchina e araba in generale.
Seppure meno noto e molto diverso rispetto ad altri più apprezzati romanzi di questo scrittore, come per esempio "Partire" e, più recentemente, "La punizione", anche questo offre nel complesso una buona lettura.
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La donna che odia gli uomini che odiano le donne
Leggere il secondo volume di Millennium, a distanza di oltre due anni dalla lettura del primo, è stato come ritrovarmi all'improvviso tra vecchi amici senza che niente, o quasi, fosse cambiato. Mikael Blomkvist, Lisbeth Salander e diversi altri noti personaggi stavano lì, pronti a riprendere da dove li si aveva lasciati.
Non si fa fatica a immergersi di nuovo, seppur dopo tanto tempo, nelle atmosfere nordiche così magistralmente descritte dalla genialissima penna del compianto scrittore svedese Stieg Larsson ed è difficile affermare se sia più bello il primo o questo secondo libro della trilogia, di certo diversi per il tipo di trama, ma accomunati da uno stile narrativo a dir poco magnetico capace di tenere spesso il lettore letteralmente incollato alle pagine.
A differenza di “Uomini che odiano le donne”, “La ragazza che giocava con il fuoco”, arricchito anche dall'entrata in scena via via di nuovi volti, è del tutto incentrato sul personaggio di Lisbeth Salander, la giovane donna che odia gli uomini che odiano le donne. Un'eroina dei nostri tempi che trascina con sé un dolore profondo e una vicenda personale alquanto raccapricciante, segnata da un'ingiustizia che non potrà mai avere fino in fondo giustizia, e non soltanto per gli omicidi di cui lei viene inizialmente accusata. Tra queste pagine si ripercorre un dramma che sa dell'incredibile, mentre si consolida a poco a poco l'immagine di una delle forse meglio riuscite figure della letteratura contemporanea. Nemmeno Mikael Blomkvist, per quanto riuscitissimo anche il suo personaggio, può competere con una Lisbeth forte e tenace che nasconde nella solitudine del cuore le proprie fragilità.
Una corposa lettura che non può prescindere da quella del primo tomo e che, già alla frase di chiusura, reclama impazientemente quella del terzo e ultimo ancor più voluminoso capitolo di Millennium!
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Tra i silenzi delle parole
È poesia di silenzi, di memorie soffuse, di lievi sussurri del cuore, quella racchiusa tra le pagine di “Un ordinato groviglio” dell’autrice isolana Piera Maria Chessa, silloge di cui sorprende anzitutto l’ossimoro espresso dal titolo.
Groviglio di sentimenti, emozioni, sensazioni che, ordinatamente, tracciano versi che spaziano tra presente e passato, tra quotidianità e sprazzi di mondi lontani o nostalgie di passaggio che sanno d’acqua di fiume e affetti perduti. E così, seguendo il filo aggrovigliato dei versi, si sprofonda nella quiete silenziosa della casa, interrotta all’improvviso dallo squillo del telefono cui occorre rispondere per dare avvio al giorno, così come si assapora l’amaro vuoto lasciato da chi è appena partito, subito mestamente annusato da un cane fedele; ci si ritrova in un aeroporto, nel mezzo del frettoloso via vai di arrivi e partenze, in attesa di un viso conosciuto da riabbracciare e “una valigia da ritirare” o, ancora, si entra nelle corsie d’un ospedale, cogliendo la muta solitudine dell’umanità più dolente.
“[…] Si attenua la lenta sofferenza/ rarefatta dal calore degli affetti,/ ma si accentua la certezza del dolore/ supporto amaro alla fragilità dell’uomo.” (da “La certezza del dolore”)
La bellezza di queste liriche consiste nella loro scrittura semplice, lontana da ermetiche acrobazie poetiche, ma non per questo meno preziosa ed emozionante, che traccia volti e paesaggi raccontando tante piccole storie, molte delle quali smarrite nel vortice impietoso del tempo, tra cui scorre anche quella dell’autrice stessa, attenta testimone di giorni che dimostrano di saper ancora cogliere una sommessa carezza d’amore, “il pigolio delle prime rondini” e, nonostante tutto, il palpito arcano delle stelle.
“Le stelle cadono sopra di noi,/ sono occhi luminosi,/ attenti osservatori delle cose del mondo. […] Piccole lucciole celesti,/ sentinelle maliziose in viaggio/ per le strade dell’universo.” (da “San Lorenzo”)
Pubblicata nel 2008 dall’editore Il Filo, la raccolta della Chessa dona al lettore quella buona poesia che s’incammina lungo la propria pacata linearità, ma che spesso, attraverso parole che si fanno fulminee immagini, non gli risparmia improvvisi scossoni né inattesi tremori d’anima, come quando si spalanca d’un tratto una ferita taciuta e ci si ferma a pensare. E allora sì che anche il silenzio riesce a parlare.
“Una moneta cade/ sul palmo aperto, in attesa,/ senza rumore.” (da “Richiesta”)
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“Ma è NATALE!”
È vergognoso ammetterlo, ma prima d'ora non avevo mai letto “Canto di Natale”, pur conoscendone da sempre la vicenda narrata attraverso una vecchia rivisitazione animata della Disney. Sono felice di aver posto rimedio ora a tale mancanza grazie a una bella edizione impreziosita dalle suggestive illustrazioni di William Geldart che permettono al lettore di addentrarsi ancor più tra le emozioni di questa storia scritta da Charles Dickens nell'ormai lontano 1843.
Una storia, dunque, lontana nel tempo, ma probabilmente sempre attuale poiché l'essenza dell'umanità, in fin dei conti, poco è cambiata. Ricco di vivace fantasia e di triste realtà, questo lungo racconto, ambientato sullo sfondo di una Londra in rapida espansione dove s'intrecciano miseria e fasti dell'età vittoriana, venne completato dall'autore nel giro di poche settimane al fine di guadagnare velocemente qualcosa, considerata all'epoca la sua non certo rosea situazione finanziaria. Ad animarne le pagine, intrise della magica atmosfera natalizia, personaggi memorabili, da quello di Ebenezer Scrooge al terzo e ultimo spirito, quello dei Natali futuri, che non potrà che predire al vecchio spilorcio un epilogo davvero miserevole e poco invidiabile.
Adatta a giovani e meno giovani, una piccola storia di grande speranza che resiste al tempo e, nonostante tutto, alle brutture del mondo, insegnandoci che – Natale o non Natale – senza sentimenti non siamo niente e che non è mai troppo tardi per cambiare la rotta della nostra esistenza.
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Storie d’immigrazione
“Quando non sai dove stai andando, ricordati da dove vieni.” (proverbio africano)
Pubblicato alcuni mesi fa da Elliot Edizioni, “Consigli per essere un bravo immigrato” è un breve romanzo che va ben oltre la finzione letteraria. L’autrice, Elvira Mujcic, classe 1980, racconta in queste pagine anche molto di sé e della propria personale vicenda di immigrata bosniaca in fuga dagli orrori della guerra che, più di vent’anni fa, travolse il suo Paese e tutta la ex Jugoslavia.
Partendo dalla storia di Ismail, giovane gambiano richiedente asilo in Italia, il libro invita a riflettere su un fenomeno estremamente complesso e drammatico come quello dell’immigrazione, gestito – come qui si evidenzia per bene – da una macchina burocratica “totalmente priva di senso” che macina a ritmo variabile i sogni e le speranze di tanti giovani rifugiati. Infatti, seppur le tristi realtà dell’Africa siano lontane, in Italia, a cui si approda dopo viaggi nel Mediterraneo per noi ormai di ordinaria cronaca, occorre fare i conti con pregiudizi, razzismo e ansia nell’attesa di un sì o un no (capricciosi?), da parte dell’apposita commissione cui spetta il compito di ascoltare e valutare ogni singola storia ai fini del rilascio del permesso di soggiorno con relativa protezione internazionale.
Non stupisce l’attenzione particolare riservata alle parole: chi scrive, del resto, anche in virtù della propria esperienza, è ben consapevole di come si attribuiscano “[…] nomi ingannevoli alle cose, nomi che ammantano di significati altri e illusori la realtà dei fatti.”
“Usiamo parole come clandestino o immigrazione illegale in maniera distorta, attribuendo la colpa a chi arriva qui e si trova a vivere la condizione di clandestinità e non a chi ha creato un sistema per rendere le persone illegali.”
E mentre si rovista dolorosamente nella memoria e si affronta anche il tema della sparizione che crea un triste parallelismo tra la Bosnia ed Erzegovina della stessa Mujcic e il Gambia del suo personaggio Ismail (dove numerosi detenuti politici, caduto il dittatore Jammeh pochi anni fa, non sono più stati ritrovati all’interno delle prigioni), si cerca di comprendere se esistano o meno, per chi subisce lo status di straniero, consigli per diventare buoni immigrati, al fine di evitare di essere bruscamente respinti da una società di accoglienza che impone rigidi e ottusi stereotipi ai quali occorre aderire: l’immigrato privo d’istruzione e in costante bisogno economico, il profugo in fuga da guerre dichiarate ed eclatanti, il rifugiato stuprato e mutilato.
“Quello che ci si aspetta di ascoltare da un rifugiato è una storia devastante, più morti e torture ci sono, meglio è. […] Un’altra indicazione da tenere a mente è che una volta che si è scivolati giù per la scala della miseria e della sciagura è auspicabile non risalirla mai più. Oppure risalirla un poco, il giusto affinché tu sia sempre riconoscibile e non pretenda mai di arrivare a un livello pari agli abitanti del paese che ti ospita.”
Nemmeno conoscere la realtà dei fatti sembra aiuti a comprendere. Quando, dunque, saremo disposti a riconoscere che esistono anche guerre latenti e silenziose, che ciò che succede in Africa dal periodo postcoloniale a oggi è radicato nell’antico dramma della schiavitù e nelle scellerate politiche predatorie dell’Occidente, che non esiste come lingua comune – giusto per rasentare il ridicolo – l’africano, tout court, ma una miriade di parlate dall’arabo e berbero del Nord agli idiomi delle popolazioni più australi?
Attraverso una scrittura coinvolgente, bellissima nella forma e nella sostanza, Elvira Mujcic con questi suoi “Consigli per essere un bravo immigrato” dona al lettore una piccola storia di grande impatto, mettendo al bando la banalità e l’ipocrisia dei luoghi comuni a favore della consapevolezza di quanto sia essenziale creare solide e concrete relazioni umane. Da leggere!
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La nevicata del '56 in Sardegna
È una Sardegna algida e cupa, a tratti dura e accigliata, dai grandi spazi e al tempo stesso angusta quella che accoglie il lettore nel romanzo di Marco Casula.
Sembra quasi che il sole faccia fatica a infiltrarsi tra le pieghe dell’oscura vicenda familiare che, pagina dopo pagina, si svela tra un capo e l’altro dell’isola; soltanto l’epilogo renderà possibile un nuovo inizio, luminoso come “l’alba di una mattina di primavera scintillante”.
Sullo sfondo la memorabile nevicata del 1956. Non a caso, accanto al giovane Josto, la neve è l’altra grande protagonista indiscussa, anzitutto complesso stato interiore prima ancora che semplice fenomeno meteorologico.
Attraverso uno stile narrativo maturo ed elegante, l’autore ci conduce tra paesaggi dell’anima che percorrono intrichi di viuzze innevate, languono in palazzi ombrosi e decadenti o affiorano da macerie di conflitti in verità mai sopiti.
Una storia d’altri tempi che ci propone, tuttavia, un tema sempre attuale: il rapporto tra genitori e figli, nonché quello tra fratelli. Un romanzo intenso e appassionante dove il presente si intreccia al passato, in attesa che quest’ultimo possa diventare “una ragione di scelta per l’avvenire”.
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Luce e ombra
Sembra ci sia un sottile, accurato gioco col tempo alla base di questo romanzo ormai quasi centenario: un intenso presente che si volta abbondantemente al passato, seppur proteso in modo dirompente (e inevitabile) verso il futuro. Clarissa Dalloway, al centro di una storia che si sviluppa nel corso di un'unica lunghissima giornata, ma anche di una vita intera, è la protagonista da cui prende il titolo l'opera; tuttavia, attorno a lei gravitano tanti altri personaggi, ognuno con la propria personale vicenda, che “invadono” gran parte della scena.
Queste pagine, ben presto, si rivelano dense di un flusso di coscienza incessante che travolge senza tregua il lettore attraverso pensieri, sentimenti, emozioni quasi trasmessi da una figura all'altra, mentre la solarità e la leggerezza di Mrs. Dalloway finiscono per contrapporsi alla tenebrosa gravità di Septimus Warren Smith, il quale, già nel nome, dà l'impressione di trascinare con sé gli echi mai spenti del primo conflitto mondiale che stridono con l'ordinaria e frenetica quotidianità delle strade londinesi. Personaggio visibilmente tormentato, egli deciderà di porre fine alla propria esistenza schiacciata dal peso dei ricordi degli orrori bellici, passo fatale che, nonostante la diversa modalità, avrebbe compiuto la stessa scrittrice poco meno di vent'anni dopo.
Purtroppo, non sono riuscita ad apprezzare fino in fondo questo romanzo, eppure era da tempo che desideravo leggere di nuovo qualcosa di Virginia Woolf, di cui in passato mi erano piaciute altre due opere (“Orlando” e “Una stanza tutta per sé”). Non me ne vogliano gli entusiasti lettori de “La signora Dalloway”, so che il libro in questione viene da molti considerato un capolavoro: in generale, ho trovato la lettura pesante e fatto fatica, a momenti, a portarla avanti; inoltre, con tutti quei ricordi e pensieri che si affastellano il testo rischia di creare un po' di confusione. Sicuramente, si tratta di un mio limite. Fra tutti, e più che la protagonista femminile, chi cattura maggiormente l'attenzione è in definitiva proprio Septimus, “quel relitto disperso ai confini del mondo, quel reietto, che volgeva lo sguardo lontano dalle regioni abitate, e giaceva, come un marinaio annegato, sulla riva del mondo”: luce e ombra che procedono in parallelo, per poi incontrarsi d'improvviso sul finire di quell'intensa giornata.
Mi riservo, comunque, di leggere in futuro altri titoli della Woolf. Eventuali suggerimenti sono ben accetti, grazie!
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L’insonnia uccide
Non è certo il miglior Tahar Ben Jelloun quello che è tornato di recente in libreria, ancora una volta accompagnato dalla casa editrice “La nave di Teseo”, a circa un anno di distanza dalla pubblicazione de “La punizione”. Stavolta, la vicenda narrata si presenta del tutto diversa rispetto a quella autobiografica del romanzo dello scorso anno che ci aveva reso partecipi di quanto accaduto allo stesso autore quando era studente e a tanti altri giovani come lui nel Marocco della metà degli anni Sessanta, sotto il regno di Hassan II.
Anche “Insonnia” ci riconduce nel Paese maghrebino, dove uno sceneggiatore di Tangeri combatte, stremato, una lotta ormai quotidiana contro il suo cronico stato di veglia. Trama, per certi aspetti, non priva di originalità né di ingredienti mirati ad alimentare la curiosità del lettore, dal momento che l’anonimo io narrante protagonista, per riuscire a dormire, inizia a uccidere periodicamente, cosa che sembra concedere requie alle sue notti. Pur non essendo un delinquente, e tutt’altro che un uomo malvagio, cinico o insensibile, si ritrova all’improvviso dentro una spirale di morte (violenza, in questo caso, non risulta il termine più appropriato) che sembra creargli dipendenza ai fini del sonno. Per riposare ha bisogno di uccidere, anche se lui stesso non si definisce un assassino, ma un “acceleratore di morte” poiché le sue vittime, uomini e donne, sono per lo più persone di età avanzata, già moribonde con un piede nella fossa, al cui capezzale fa di tutto per trovarsi al momento cruciale dell’ultimo respiro; dà persino prova di sapersi fermare in tempo quando dubita che l’ora fatale sia giunta per l’apparente morituro di turno. Inoltre, come si accorge ben presto, più sono alti il livello sociale e il prestigio della persona di cui lui accelera il decesso, più i suoi PCS (punti credito di sonno) aumentano a dismisura garantendogli mesi, se non anni, di soddisfacente riposo notturno.
Attraverso una serie di bizzarre avventure, spesso al limite dell’improbabilità, Tahar Ben Jelloun ci racconta una storia di cui – secondo il parere della sottoscritta che pur adora questo grande scrittore – si sarebbe potuto fare tranquillamente a meno e che, alla fine, non lascia profonda traccia di sé. Siamo lontani dal livello qualitativo di romanzi come “Partire”, “Au pays” e il già citato “La punizione”, per non parlare del noto “Creatura di sabbia”, giusto per restare nell’ambito della sola narrativa. Non sono per niente d’accordo con la critica francese (France Inter) che ha definito questo nuovo lavoro dell’autore in questione “sorprendente e incalzante”, presentandolo addirittura come romanzo rivelazione dell’anno: il ritmo, tutt’altro che incalzante, si perde in una narrazione non sporadicamente piuttosto lenta, carica di riflessioni, ricordi e, a tratti, persino farneticazioni dovute all’insonnia. Del resto, chi ne soffre, in genere, non è proprio scattante. Anche del Marocco in sé, al contrario di quanto avviene in altri suoi libri, Ben Jelloun ci consegna poco o niente, semplicemente uno sfondo incolore che, fatta eccezione per qualche nome arabo e chiari riferimenti islamici, avrebbe potuto essere quello offerto da qualsiasi altro luogo. No, Tahar Ben Jelloun, che ho imparato ad apprezzare ormai da tempo, questa volta non entusiasma né convince appieno, capace com’è di ben altre prove.
Nel complesso, dunque, una lettura senza troppe pretese, di mero intrattenimento, buona magari a riempire, perché no, la notte di chi soffre d’insonnia.
“[…] La notte è così. Non abdica mai, piena di risorse e di tormenti. E io non sono in grado di trattare con lei. In fondo, nessuno ne è capace. Non è assumendo forti sonniferi che si vince la partita.”
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Melodie e laghi d'oblio
Pubblicato lo scorso anno dalla Casa Editrice Lettere Animate, “The Ancient Melody – The Oblivion Lake” è un romanzo di genere fantasy che l’autrice campana Maria Rosaria Scala, laureata in Medicina e Chirurgia e specializzanda in Neurochirurgia, scrisse quando aveva diciassette anni, la stessa età di Marah, la giovane protagonista di queste pagine.
La storia prende avvio con un sogno, che forse sogno non è, nel quale, sullo sfondo di una strada buia e un cielo illuminato a intermittenza da fulmini improvvisi, fa la sua comparsa un ragazzo dai lunghi capelli d’argento e gli occhi dal colore d’ametista: una creatura che fin da subito si palesa come elemento estraneo e misterioso rispetto a una quotidianità fino ad allora mai scossa da niente di anomalo. “Qualunque cosa fosse, non poteva essere umana”: con tale consapevolezza, Marah inizia così ad affrontare a poco a poco un percorso pericolosamente in bilico tra la dimensione terrena e quella sovrannaturale, prendendo coscienza del fatto che in lei si stia risvegliando un lato oscuro e sconosciuto che avrebbe finito per stravolgere la sua vita di ragazza.
«Tutto era già scritto ancora prima che nascessi: a quanto pare la mia vita è stata solo un errore. Sono qui, ho potuto conoscere la Terra, mescolarmi tra gli umani, credere di essere una di loro, solo perché mi hanno portato qui. Come hanno potuto i miei genitori, le persone a me più care, tenermi nascosta la mia natura?»
Tra passaggi interdimensionali, leggiadre melodie, laghi d’oblio e Creature Pure, si animano un dualismo e una disperata e sofferta lotta interiore ai confini del tempo e dello spazio che la talentuosa penna dell’autrice ha saputo fissare in un romanzo dalla trama appassionante capace di mantenere vive la curiosità e l’attenzione di chi legge fino all’epilogo, in verità, non previsto. Colpisce, col procedere della narrazione, la vivace fantasia della Scala che si fonde con una scrittura di buona qualità, così come non passa inosservata la profonda introspezione psicologica riservata al personaggio principale, Marah, moderna eroina che lotta per rivendicare a tutti i costi la sua acquisita umanità; discreta anche la caratterizzazione delle altre figure che ruotano attorno a lei, in particolare quella di Cletus, l’angelo/demone dagli occhi d’ametista, la cui natura affascina e incute timore al tempo stesso. Probabilmente, come in genere accade nel fantasy, diversi sono i significati nascosti tra le righe di questa storia solo in apparenza slegata dalla realtà: a ciascun lettore, sulla base della propria personale sensibilità, il compito di coglierli. Nel complesso, dunque, una bella lettura che di certo non potranno non apprezzare gli amanti del genere in questione.
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La voce del vento
“Siamo solo persone/ di passaggio/ nelle vite altrui/ e nelle nostre./ Per sollevare dubbi./ Per agitar tormenti” esordisce Katia Debora Melis nella sua nuova silloge intitolata “Se non mi confonde il vento”, pubblicata lo scorso anno da Mario Vallone Editore.
Una nuova raccolta poetica che, secondo il consueto stile dell'autrice che avevo già avuto occasione di conoscere e apprezzare attraverso precedenti pubblicazioni, regala al lettore un viaggio tra sentimenti ed emozioni che parlano all'anima, poiché la poetessa – per riprendere le espressioni della bella prefazione firmata dalla scrittrice Emma Fenu – si fa “Dea e Demiurga”, così come “Madre di parole, di bambini e di antenati”.
E, al pari del vento che riecheggia suggestivo fin dal titolo dell'opera, la poesia corre libera, senza catene di sorta, accomunando da sempre sogni, speranze, illusioni e l'unico suo limite rimane la parola. Così, si attende il ritorno de “gli amati versi” che consolano la notte, quando i rumori del mondo si trasformano in “fragile sussulto”. Ma la poesia può persino diventare fardello e pena, specie se si scrive d'amore scavando nei ricordi, e si fa allora fatica “a squarciare l'aria con un libero canto.”
“[...] E sarebbe certo meglio/ non scriverne mai più/ perché scrivere anche una sola vera poesia d'amore/ è difficile almeno quanto l'amare.” (da “Almeno un centinaio”)
Una scrittura coraggiosa, quella della Melis, che sembra aprire varchi nel tempo, meravigliosamente sospesa tra un passato di dolore e un oggi d'incerta speranza che non si atterrisce dinanzi ai solchi sulla pelle perché, in fondo, chi è poeta conserva “un cuore ancora giovane/ su cui poggiano/ lanterne infuocate”; il futuro aleggia nell'invocazione di un'alba dai colori pastello, mentre il tramonto non sempre sancisce una conclusione irrevocabile, diventando talvolta sinonimo di naturale e auspicato cambiamento.
Attento e ponderato, il verso sperimenta la solitudine di parole e concetti in testi che sanno ben amalgamare forma e contenuto. Una lettura che, a tratti, rapisce e incanta, proprio come la voce del vento, protagonista, in particolare, di una delle liriche più belle dell'intera silloge. Già, il vento che, imperterrito e forse indifferente all'umano vivere e soffrire, prosegue il suo cammino“lungo le strade infinite del mondo”; gli si presti ascolto ché soltanto esso “conosce molte cose/ e molte te ne dirà.”
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L'innocenza perduta
È bello imbattersi ogni tanto in un giallo dalla trama avvincente che tenga letteralmente incollati alle pagine del libro! In “Morte di un angioletto” di Daniela Di Benedetto si trova non soltanto un intreccio narrativo solido e appassionante, ma anche una scrittura di ottima qualità e ben curata che non può non renderne ancora più piacevole la lettura.
L'autrice è stata molto brava a raccontare una piccola storia dei nostri giorni, toccando anzitutto un tema particolarmente delicato come quello dell'infanzia: in verità, una storia terribile, una di quelle che non si vorrebbero mai sentire, ma che, purtroppo, possono accadere anche a poca distanza dalla quotidianità di chiunque. L'angioletto cui fa riferimento il titolo è una bambina di undici anni, bella e brava a scuola, un angelo di nome e, apparentemente, di fatto, il cui assassinio sconvolge all'improvviso una cittadina di provincia. L'indagine che ne segue inizia però a scoperchiare un mondo non così angelico come si poteva credere, svelando vari retroscena che giungono, uno dopo l'altro, come stoccate impreviste e scivolando così verso un epilogo poco edificante sia per gli adulti che per i bambini in generale.
Molto buona la caratterizzazione dei personaggi che ruotano attorno alla vicenda, a partire da quello dell'ispettore di polizia Nestore Sardo, che si ritrova a vivere nel contempo il suo personale dramma familiare, o quello dell'affascinante Matilde Mogavero prigioniera di un matrimonio ridotto a una tomba e di una relazione extraconiugale senza futuro; persino i personaggi minori risultano ben studiati e convincenti, come quelli dello zingaro, del gelataio e di altri che s'incastrano benissimo e in modo appropriato in una storia dove non mancano i colpi di scena. Un gran bel romanzo che suscita riflessioni di non poco conto, con un finale, per più di un motivo, dal sapore amarissimo.
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Tradimento
Quella del tradimento coniugale, si sa, è storia vecchia quanto il mondo, pertanto non è certo tema inedito in letteratura.
Nuovo e originale è però il modo di raccontare tale storia di antichi patimenti, paure e inganni, da parte dell’autore in questione che, incredibilmente, riesce a unire introspezione psicologica e concisione descrittiva.
Abilissimo a ribaltare un finale che sembra ormai prospettarsi alla “Madame Bovary”, Zweig ci conduce in un viaggio tra le strade borghesi di una città mitteleuropea e, in un'alternanza di ritmi ora incalzanti ora più distesi, anche tra quelle più recondite dell’animo umano che, chissà perché, conosciamo sempre così poco.
Quattro stelle piene per questo breve romanzo che, in verità, ho più apprezzato rispetto a "Bruciante segreto". Un autore da approfondire!
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Eros e Thanatos
"L'amore è la più grande fra le tristezze umane perché è il supremo sforzo che l'uomo tenta per uscire dalla solitudine."
Terzo e ultimo dei cosiddetti “romanzi della rosa”, l’opera è incentrata sulla storia d'amore che vivono Giorgio Aurispa e Ippolita Sanzio. Si tratta di un rapporto alquanto tormentato che ha inizio a Roma, tra il profumo dell'incenso e delle violette, e ha fine in modo tragico in una località marina di quell'Abruzzo sempre tanto caro a Gabriele d’Annunzio.
Non privo di elementi autobiografici, il romanzo presenta una componente molto importante, forse ancor più dell'eros, che aleggia nel corso della narrazione: la morte, “l'invincibile”, come non a caso s'intitola il libro sesto. Questa, infatti, non si svela soltanto nella parte conclusiva, al momento del gesto folle dell'Aurispa, ma nel procedere della storia si possono scorgere diversi elementi che l’annunciano, rendendola così onnipresente: la chiazza nerastra lasciata dal suicida sulla strada, a Roma; Ippolita che cala il velo nero sull'ultimo bacio prima che Giorgio si rechi a Guardiagrele; il funerale del parroco del paese; il ragazzetto con la stampella del corteo funebre; il figlio della sorella Cristina, quel bimbo dalla grossa testa sempre china sul petto; il viso cadaverico dell'ingorda zia Gioconda; il violino dello zio Demetrio che sta chiuso nella custodia come un cadavere nella bara; il bambino annegato nelle acque di San Vito; le masse pellegrinanti a Casalbordino. Suonano tutti come presagi di morte, per non parlare del ricordo, sempre vivo nella memoria del protagonista, dello stesso Demetrio, lo zio suicida, l'uomo dolce e meditativo nel quale spiccava “una ciocca bianca tra i capelli oscuri che gli si partiva di sul mezzo della fronte”.
Una storia molto intensa, al pari dei suoi protagonisti: Giorgio, che “non poteva sottrarsi al bisogno di cercare la felicità nel possesso di un'altra creatura”, rappresenta forse la parte più tormentata, quella che più soffre all'interno della coppia; il suo è anzitutto un dolore spirituale che si acuisce ogni volta in cui viene meno il controllo su Ippolita. E non si tratta di un possesso puramente fisico quello al quale lui aspira. Lei, che è donna sensuale, anzi la voluttà in persona, finisce per rappresentare invece la parte più materiale poiché ostenta un terribile attaccamento alla vita, al suo corpo, a quello dell'amante e al sesso. Tanti sono gli aspetti sotto i quali d’Annunzio la presenta, al punto che la donna diventa via via quasi irriconoscibile rispetto alla creatura calma e dotata di singolare dolcezza quale era inizialmente apparsa. A tratti crudelmente puerile, come quando con un fermaglio infilza per le ali una farfalla crepuscolare, Ippolita finisce per diventare la “Nemica”, come più volte la definisce Giorgio. Particolarmente incisiva una delle sue ultime immagini: quando, durante la sera fatale, da novella Eva offre una pesca da lei morsa al compagno. Sempre durante quell’ultima sera, in Ippolita la trasformazione si porta a compimento e lei diventa ormai un essere voluttuoso e terrificante al tempo stesso, soprattutto quando le sue risa rompono il silenzio della notte: “Ed ella a un tratto fu presa da un riso nervoso, frenetico, incoercibile – lugubre come il riso d’una demente”.
Un romanzo che non gode della fama del ben più famoso "Il piacere", ma che merita non di meno una lettura.
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La tendre indifférence du monde
“Aujourd’hui, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sais pas. J’ai reçu un télégramme de l’asile : « Mère décédée. Enterrement demain. Sentiments distingués. » Cela ne veut rien dire. C’était peut-être hier.”
Uno degli incipit più celebri della letteratura del Novecento, questo con il quale prende avvio “L'étranger” del Premio Nobel Albert Camus. Pubblicato nel 1942, il romanzo è interamente ambientato in Algeria, terra natale dell'autore, la cui penna, non a caso, offre un ritratto semplice e perfetto della società coloniale francese dell'epoca nell'Africa mediterranea. Meursault, il protagonista, ne è parte, trascinando una vita anonima, stanca, povera di sentimenti ed emozioni; tutto ciò che sente è soltanto stanchezza, noia, fastidio. Nemmeno la morte della madre, ricoverata in un ospizio, riesce a scalfire la sua apatia; nemmeno l'omicidio di cui in seguito, sulla spiaggia, si rende colpevole e che finisce per segnare fatalmente la sua sorte.
Attraverso una prosa semplice e scarna, a tratti minuziosa e dal ritmo piuttosto lento, ma carica di vera potenza drammatica, Camus narra la vicenda di un piccolo impiegato di Algeri, un uomo qualunque che, senza ambizioni né passioni, sembra incarnare la più assurda rassegnazione all'indifferenza del mondo e a un destino a cui è sufficiente soltanto un istante di sole abbagliante per negare una minima possibilità di salvezza. “[...] c'était à cause du soleil”, si limita a giustificarsi maldestramente Meursault durante il processo, dove ben presto apparirà sotto accusa più per il fatto di aver seppellito l'anziana madre senza versare una lacrima che per quello di aver ucciso un uomo “par hasard”, per caso. Particolarmente intense risultano le pagine in cui la voce narrante dello stesso protagonista si perde negli infiniti rivoli dei propri pensieri, rischiarati spesso dalla luce delle stelle che filtra nella solitudine della cella, mentre i giorni, le settimane, i mesi scivolano impietosi verso un tragico, inevitabile epilogo che solo per un attimo, in occasione dell'incontro forzato con il prete, lo scuoterà dalla sua cronica apatia.
“Ainsi, avec les heures de sommeil, les souvenirs, la lecture de mon fait divers et l'alternance de la lumière et de l'ombre, le temps a passé. J'avais bien lu qu'on finissait par perdre la notion du temps en prison. Mais cela n'avait pas beaucoup de sens pour moi. Je n'avais pas compris à quel point les jours pouvaient être à la fois longs et courts. Longs à vivre sans doute, mais tellement distendus qu'ils finissaient par déborder les uns sur les autres. Ils y perdaient leur nom. Les mots hier ou demain étaient les seuls qui gardaient un sens pour moi.
Lorsqu'un jour, le gardien m'a dit que j'étais là depuis cinq mois, je l'ai cru, mais je ne l'ai pas compris. Pour moi, c'était sans cesse le même jour qui déferlait dans ma cellule et la même tâche que je poursuivais. […] Le jour finissait et c'était l'heure dont je ne veux pas parler, l'heure sans nom, où les bruits du soir montaient de tous les étages de la prison dans un cortège de silence. […] Non, il n'y avait pas d'issue et personne ne peut imaginer ce que sont les soirs dans les prisons.”
Un grandissimo romanzo dal quale, nel 1967, il regista Luchino Visconti trasse un film dall'omonimo titolo e molto fedele al testo, con un impareggiabile Marcello Mastroianni nel ruolo di Meursault ( https://www.youtube.com/watch?v=OkjGt... ). Pur nella sua drammaticità, una bellissima lettura che, a chi può, consiglio in lingua originale: il francese di Camus si rivela fin da subito molto scorrevole e per niente complicato, accessibile anche a chi ne abbia una conoscenza meramente scolastica.
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Tra passato e futuro
Chi ha detto che durante le sere d’inverno, quando una morbida coltre di neve ricopre le fronde degli alberi e i rumori del giorno, davanti al piacevole crepitare del fuoco nel camino possano trovare spazio soltanto storie e leggende del passato? Chi pensa che non possano avere la stessa magia di queste ultime anche le storie dell’oggi o, addirittura, quelle ambientate in un fantascientifico futuro? Se qualcuno avesse ancora simili convinzioni, dovrebbe leggere “I racconti del focolare”, splendida opera prima di Silvio Coccaro, pubblicata dalla Casa Editrice L’ArgoLibro.
E sottolineo splendida per due motivi: lo stile narrativo che procede attraverso una scrittura ineccepibile sotto ogni aspetto, semplice, lineare, priva di inutili fronzoli, mai prolissa né pomposa, neppure là dove ricorrono termini irrimediabilmente scientifici; l’incanto che suscita ogni singola storia di questa raccolta.
Sono storie dei giorni nostri, di ieri e del domani, storie reali e, per ora, irreali, ma non improbabili, dalla cui lettura si apprende, non senza stupore, che l’autore è anzitutto un uomo di scienza. Ecco, dunque, la narrativa come utile strumento di divulgazione scientifica, rivolto tanto ai più giovani quanto agli adulti. Ma la scrittura del dottor Coccaro non è solo questo: è anche scrittura di profonda delicatezza che sa parlare di sentimenti, che si volta rispettosamente indietro riconoscendo la grandezza della cultura classica (a partire dal “conosci te stesso” di socratica o più antica memoria) e che a tratti s’intinge di malinconica poesia.
Come già evidenziato da Milena Esposito nella sua brillante prefazione al libro, “I racconti del focolare” regalano al lettore tanti viaggi diversi: tra gli infiniti e inimmaginabili spazi siderali a bordo di una navicella cosmica in compagnia del capitano Luskhas Harowicki, così come lungo i non meno misteriosi sentieri del pensiero, perché, se è vero che uno sconfinato universo circonda l’uomo, la mente umana rappresenta tuttavia un universo ben più vasto di tutti i possibili universi esistenti e, come tale, richiede esplorazione; ancora, in giro per il mondo seguendo l’inarrestabile percorso di una gocciolina d’acqua o al chiuso di un ospedale, dove a una bimba appena venuta alla luce la vita già impone di affrontare una prova durissima.
Il viaggio che però colpisce ed emoziona in modo particolare, al di là di ogni tempo e appartenenza geografica del lettore, che resta inoltre affascinato dalle espressioni dialettali riecheggianti tra queste pagine, è forse quello tra i ricordi e gli affetti più cari sullo sfondo di un “mondo semplice trascorso per sempre”, quale è il Cilento della fanciullezza dell’autore. Un mondo, più o meno come ovunque, per buona parte scomparso e velato di nebbia, proprio come quella che, nell’ultimo racconto, scende sui passi di padre e figlio di ritorno verso casa, mentre il sole s’accinge a tramontare su un’altra giornata di speranza e lavoro:
“La nebbia risale a falangi lungo l’erta collinare che dall’Alento porta alla vetta della Rupe ra Noce. Tra le sue schiere si insinuano, come fendenti, luminosi raggi di sole. L’aria intrisa di umidità scorre fredda sul mio viso. […] La nebbia progressivamente nasconde ai nostri occhi i terreni coltivati della valle, […] ed adesso è ai piedi della montagna. […] Papà si rinserra nel suo pastrano, i suoi occhi scrutano la valle e si perdono nella nebbia, come i suoi pensieri… La primavera si avvicina, i campi richiedono molto lavoro, il tempo è sfavorevole, i suoi numerosi figli sono a casa che lo aspettano. […] Il buio della sera avvolge la casa con la sua quiete ed il suo silenzio.” (da “Un giorno, un ricordo”)
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“Sì, viaggiare”
Seppure superato sotto diversi aspetti, questo “Manuale dell'imperfetto viaggiatore”, scritto dalla penna arguta del noto giornalista Beppe Severgnini, offre ancora una lettura discreta.
Il libro risale ormai a quasi venti anni fa e, pertanto, tutto ciò che è subentrato successivamente, per ovvi motivi, tra queste pagine non trova posto: in primis, la moneta unica all'interno dell'Unione Europea al posto delle singole valute nazionali e i cellulari di ultima generazione che hanno soppiantato i vecchi telefonini, il cui uso già tra la fine degli anni Novanta e il Duemila ci contraddistingueva a livello internazionale (in peggio, naturalmente). Così, con una attenzione rivolta più ai viaggiatori che al viaggio in sé, la scrittura dell'autore si presenta molto scorrevole, intrisa di fine e garbata ironia, forse troppo incline però a tracciare classificazioni nelle quali si stenta a riconoscersi o non ci si ritrova per niente.
“Il viaggio è una questione secondaria: a me interessano i viaggiatori. Non sono né un antropologo, né un accompagnatore turistico. Sono soltanto un osservatore che, nel corso degli anni, si è convinto di questo: viaggiando, abbassiamo le difese e ci mostriamo per quello che siamo. Il viaggio diventa una lente d'ingrandimento. Ciò che si scopre puntando quella lente su noi italiani non è del tutto rassicurante. Affascinante, sempre.”
Già, sono infatti gli italiani i viaggiatori studiati da Severgnini che, lui stesso buon viaggiatore, non sembra tralasciare l'esame di alcun luogo battuto in genere da chi si trascina dietro una valigia: aeroporti, hotel, pensioni, ristoranti, campeggi, crociere, musei; per non parlare delle situazioni d'obbligo (vigilia del viaggio, con il penoso rito della preparazione dei bagagli, e ritorno a casa) o, addirittura, di suoni e odori del viaggio (“Il viaggio olfattivo, tra tutti, è il più appagante e coraggioso: occorre riconoscere gli odori del mondo, che non sempre sono profumi.”). Da turisti siamo a poco a poco diventati viaggiatori, sia pure imperfetti; e con questa nostra italica imperfezione ce ne andiamo in giro per il mondo, e non sempre a far sfoggio delle nostre migliori virtù; su questo, sono d'accordo con la tesi dell'autore: ricorderò sempre quella volta in cui nel ristorante di un albergo di una città nel nord della Giordania, allora non traboccante di turisti, un italiano facente parte di un gruppetto di connazionali, approdati lassù per chissà quale oscura via e di certo convinti che nessuno li capisse, sbraitò a gran voce durante la colazione che non vi fosse “un c****” (sic!) da mangiare (non c'erano gli spaghetti né il caffè all'italiana, ma posso testimoniare che non si moriva di fame, anzi il buffet offriva una scelta piuttosto ampia!); naturalmente, l'amor patrio non mi colse e continuai a mimetizzarmi tra gli arabi del posto che davano inizio alla giornata a suon di hummus e pane libanese.
Non so... Forse, dopo aver apprezzato Severgnini in altri contesti, mi aspettavo qualcosa di più da questo saggio, ecco perché non riesco ad assegnargli più di tre stelle, anche perché, come detto, alcune cose risultano un po' datate. Resta, comunque, una lettura che induce a riflettere e regala qualche sorriso.
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La forza e la libertà di Alda
È un breve saggio dedicato alla celebre Poetessa dei Navigli il nuovo interessante libro di Ivana Leone, edito all'inizio dell'anno in corso da L'ArgoLibro di Agropoli. La giovane autrice cilentana lascia momentaneamente (ma non del tutto) la scrittura in versi per dedicarsi a quella in prosa e il risultato è una pubblicazione che si distingue subito per originalità e grande profondità di pensiero.
“Ho conosciuto Alda una sera di agosto, così, all'improvviso è entrata nella mia anima e ci è restata”, scrive la Leone iniziando a spiegare la propria passione per la Merini, nata grazie a uno dei suoi libri di poesia e culminata in un legame spirituale che diviene via via palpabile tra le righe di questo saggio, dove si ripercorre la vicenda umana e letteraria della Poetessa mettendo in luce anzitutto la sua forza d'animo e un viscerale desiderio di libertà che nemmeno i lunghi, crudeli, dolorosi anni dell'ospedale psichiatrico potranno mai mettere a tacere: “Nel suo modo di essere, la poetessa vede un'aspirazione alla libertà che la seduce, una sorta di modo anarchico di andare e venire tra la vita e la morte. La libertà estrema di andarsene in silenzio [...]”.
Ecco, dunque, affiorare anche tra queste pagine il suo grande bisogno d'amore, l'internamento presso il Paolo Pini di Milano, la terribile “Terra Santa” che era il manicomio, dove si espiavano le colpe del mondo e ogni cosa si faceva sacra, soprattutto il dolore: “Sì, la Terra Santa. - raccontava lei stessa nel suo struggente “L'altra verità. Diario di una diversa” - ”E noi vi eravamo immersi, in quelle latrine puzzolenti, dalle albe (ma non vedevamo mai un'alba) al tramonto più cieco”; per tacere di quel senso di solitudine che sembrava non avere mai fine e trascinava forse con sé l'amaro ricordo dell'ospedale psichiatrico di cui, al pari di “una lunga pesante catena”, fuori non si riusciva mai a disfarsi.
L'analisi di tutte queste tematiche, alle quali si deve aggiungere quella immancabile della follia, viene sviluppata dall'autrice in modo particolarmente accattivante, attraverso una scrittura ben curata e accessibile a tutti che offre nell'insieme una lettura coinvolgente. “La pazza Alda, nella sua sana lucidità, è riuscita a lasciare la sua impronta eterna nell'olimpo delle divinità poetiche [...]”, una donna e un'artista di grandissimo spessore che si fa emblema di libertà. Così, nella parte conclusiva del saggio, la libertà di Alda Merini è occasione per affrontare anche il tema del ruolo femminile nell'ambito della società attuale, dove, nonostante i diversi traguardi raggiunti rispetto al passato, per le donne la strada da percorrere è ancora lunga in termini di lavoro e realizzazione personale.
Infine, completa l'opera una breve raccolta di componimenti poetici firmati dalla stessa Ivana Leone e dedicati, ovviamente, alla carismatica Poetessa milanese: poesie che impreziosiscono il testo continuando a discorrere con passione di libertà, le cui lacrime “Oggi hanno un altro sapore/ Profumano di orchidee/ Profumano di gioia, profumano di te/ Che con tanta fatica/ Sei rinata in un'altra vita.”
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L'incanto delle parole
“Brunovelata sera dei tuoi occhi,
amor più grande non mi può recare
la vita che si infrange nei suoi specchi
senza cadere al suolo in cento pezzi.”
Finalista nella terna della sezione poesia all'edizione 2019 del prestigioso Premio Napoli, giunto al suo 65° anno, “I passeri di fango” è una corposa raccolta pubblicata nel 2018 dalla casa editrice marchigiana Quodlibet. È il terzo libro dell'autore partenopeo Francesco Nappo, classe 1949: un poeta che, come scrive Emanuele Dattilo nella sua accurata postfazione, non ha “ancora ricevuto l'attenzione che meriterebbe”, pur essendo sulla scena culturale da oltre due decenni e nonostante un interesse da parte della critica che, dalla metà degli anni Novanta in poi, si è susseguito nel tempo.
Di certo, la scrittura in versi di Nappo appare complessa, quasi schiva, e colpisce subito il lettore per una particolare originalità che la rende sfuggente a eventuali letture disattente e poco propense a scavare nel più recondito e intimo significato delle parole. L'affascinante titolo dell'opera, tratto da un episodio dei Vangeli apocrifi dell'infanzia (Pseudo Matteo, XXVII), svela anzitutto la non indifferente forza evocativa che la religiosità cristiana rappresenta in questi componimenti; un sentimento religioso popolare che si tramuta talvolta in immagini drammatiche e solenni (“Ora il Deposto è tra le nostre braccia,/ ora la morte vive la sua morte,/ [...]” da “Resurrezione”), talaltra in considerazioni dal sapore ironico e dissacrante (“Or viene il tempo di Pasqua/ Epifania che mai io so ogni volta/ quando viene, me lo dice il/ parroco ad un tratto mentre che/ ci ammaestra all'omelia./ Veramente, nemmeno lui lo sa,/ gliel'hanno detto: questa è la verità.”, “Pasqua Epifania”).
La natura, non di meno, nella propria eterna giostra delle stagioni, è presente con le sue albèdini, le distese d'amaraschi in fiore, i sentieri di terra bruna, i colli flegrei, i litorali fustigati da “prodighe tempeste balenanti”, le luci d'ombra, le “fiumane di calanchi”, le “azzurrità crepuscolari”, le sere di “madreperla tenebrata”, i monti che “s'abbrunano”, le “labili impronte di stelle erranti”... Paesaggi mediterranei e altri più nordici si trasmutano in versi densi di cromatismi e rimembranze, mentre la lingua, sorprendentemente ricercata, gioca con suggestive aggettivazioni e strutture sintattiche che tracciano architetture poetiche uniche e originali in cui trova espressione anche il dialetto napoletano, in un intreccio continuo e non stridente di registro elevato e popolare.
Nel complesso, uno stile di scrittura che abitua a poco a poco chi legge ai frequenti salti dell'enjambement, ai preziosismi delle parole spesso desuete che incantano e aprono varchi di meraviglia attraverso cui transita, con non meno stupore, il vagare persistente, da parte del poeta, nella caducità dell'esistenza su sfondi temporali trapassati ma anche presenti. Una silloge di notevole pregio, la quale, a mio parere, può ben ambire a vincere l'edizione in corso del medesimo Premio a cui concorre come testo finalista.
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Elvis e altri deliri
Pubblicato negli Stati Uniti nel 2018, l’ultimo libro di Denis Johnson (1949-2017), “La generosità della sirena”, è ora in libreria anche in Italia, sempre edito da Einaudi, dopo quasi un anno dall’uscita del precedente “Jesus’ son”. Pure stavolta si tratta di una raccolta di racconti, per la cui scrittura l’autore viene considerato un maestro e ampiamente acclamato dalle voci letterarie contemporanee più importanti d’America.
Le cinque short stories che compongono l’opera, dal titolo indubbiamente accattivante, sono state completate solo poco tempo prima della scomparsa di Johnson, il quale, per triste ironia della sorte, così profetizzava in chiusura del quarto racconto, dando voce (e inchiostro) a uno dei suoi protagonisti: “[…] Il mondo continua a girare. Per voi è ovvio che, mentre scrivo queste parole, non sono morto. Ma forse lo sarò quando le leggerete.”
In effetti, l’idea della morte aleggia in modo particolare sulle vicende narrate in queste pagine, diventando spesso una presenza fin troppo concreta. Come quelli di “Jesus’ son”, anche i personaggi della nuova raccolta sono persone inquiete alle prese con solitudine, spesso emarginazione, ossessioni e deliri di ogni tipo; tutti, comprese le singole cinque voci narranti, al disperato inseguimento, forse neanche troppo cosciente, di un senso dell’esistenza, oltre che fragile e precario, sempre difficile d’afferrare, sullo sfondo non improbabile di prigioni, ospedali, ranch abbandonati e comunità di recupero per alcolisti.
Una lettura nel complesso scorrevole, non priva di uno stile narrativo interessante, ma, per quanto mi riguarda, non abbastanza appassionante. È il secondo libro di Denis Johnson che leggo in meno di un anno: se nel già citato “Jesus’ son” ero rimasta colpita da indiscussi sprazzi di originalità, a tratti addirittura intrisi di poesia che affiorava tra le sconcertanti periferie dell’anima, tanto da lasciare ben volentieri aperta la possibilità di riservare una seconda lettura allo scrittore statunitense in questione, ora, invece, non ho riscontrato quella “scrittura ancor più compiuta e potente” di cui si parla nei risvolti di copertina. In verità, le trame di questi racconti si trascinano con un ritmo lento che finisce per annoiare; persino quella incentrata sulle teorie complottistiche relative alla morte di Elvis Presley, in “Doppelgänger, poltergeist”, non offre infine guizzi notevoli di vivacità. In generale, soltanto ossessioni e deliri che, a mio parere, non lasciano segno nella memoria di un lettore. Evidentemente, quella di Johnson – almeno qui tale si è rivelata – è scrittura per me troppo sfuggente, troppo lontana, troppo… “american”. Non a caso, Don De Lillo, a proposito del collega, ha definito la sua opera “inconfondibilmente americana”. Dunque, continuo a preferire “Jesus son” e il mio voto complessivo in questo caso non va oltre le tre stelle di media, davvero un peccato!
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Per le strade di Milano
Credo che risalga ai tempi in cui andavo al Cairo, quando ero costretta a ricorrere ampiamente al taxi per gli spostamenti nella metropoli, la mia crescente curiosità e simpatia per la categoria dei tassisti, coi quali facevo sempre lunghe e animate chiacchierate. Sarà per questo che appena ho iniziato la lettura de “Il cane che mi guardava e altri racconti del taxista”, libro nel quale mi sono imbattuta in biblioteca per puro caso, mi è subito piaciuta la prosa racchiusa nelle sue pagine. Un raccontare attento, ordinato e pacato che a poco a poco conduce il lettore per le caotiche vie della città di Milano. È lì, infatti, che agisce quotidianamente l'autore della pubblicazione, Giovanni Ubezio, nella sua professionale veste di tassista a cui si è ispirata quella, forse per lui inattesa, di narratore.
Tra chiamate al radiotaxi, attese ai posteggi e ai semafori, ingorghi e altri inconvenienti stradali, prendono vita questi racconti che culminano spesso in personali considerazioni sul proprio mestiere e sui casi della vita caricati a bordo. Giovani e anziani, italiani e stranieri, persone per bene e truffatori, se non addirittura gente appena uscita di galera, liberi professionisti, manager aziendali, impiegati, casalinghe e donne in carriera: risulta ampia e variegata la gamma sociale che il tassista ha occasione di far salire ogni giorno in macchina; ognuno con la propria vicenda, talvolta comune a tante, talaltra unica e irripetibile, storie che si esauriscono nel giro di una corsa, altre che invece si protraggono casualmente nel tempo (come quella del cane dell'architetto o della gattara).
Stando a quanto afferma l'autore stesso, l'abitacolo del taxi finisce per diventare una sorta di confessionale e il conducente si ritrova così a rivestire i laici panni del confidente al quale, proprio in virtù del suo essere sconosciuto, sembra possibile raccontare quasi tutto. Persino “peccati” altrimenti inconfessabili in merito ad attività non certo lecite; in verità, dopo anni di lavoro alla guida di un taxi, ci sarebbe materiale a sufficienza per scrivere forse romanzi più che racconti. Mestiere avventuroso e affascinante, dunque, quello del tassista, depositario di segreti e informazioni riservate, nonché attento osservatore del quasi mai tranquillo mondo della strada? O, più semplicemente e realisticamente, a lungo andare logorante?
Pubblicato nel 2012 dalla casa editrice milanese il Saggiatore, “Il cane che mi guardava e altri racconti del taxista” è un bel libro che dona una lettura molto piacevole, contraddistinta da una buona qualità di scrittura e uno stile narrativo spesso accattivante e coinvolgente che suscita continua curiosità in chi legge. A completare il tutto, qualche più che credibile nota di solitudine metropolitana che la penna di Ubezio ha lasciato inevitabilmente trasparire qua e là nelle storie raccontate, mentre il taxi procede ostinato in mezzo al traffico già in attesa della corsa successiva.
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La rivolta di Pavia
Un breve ma interessante romanzo storico ambientato nella Pavia di fine XVIII secolo sotto dominazione asburgica, dove, il 14 maggio 1796, entrarono le truppe di Napoleone Bonaparte per sedare la rivolta antifrancese, già precedute dalle eclatanti idee rivoluzionarie cariche, per alcuni borghesi e intellettuali, di speranze nuove. L'autore è Mino Milani, pavese doc, oggi più che novantenne, il quale ha da sempre posto la sua città al centro di diversi scritti.
Prendendo le mosse dalla stampa di una celebre incisione (quella di Carle Vernet, “Révolte de Pavie”, 1806) e da un carteggio del 1811 trovato casualmente, l'autore, a distanza di quasi due secoli, riporta alla luce una piccola storia che incrocia la grande Storia dell'epoca: la vicenda della contessina Margherita Cantarana e del dottore in legge Carlo Capsoni, due giovani legati da un sentimento d'amore e da un tragico destino. Ultima superstite di una casata nobiliare d'origine longobarda caduta in rovina, la prima; idealista giacobino, privo di titoli e stemmi, il secondo. Ai loro nomi si legherà quello di un terzo personaggio pavese a sua volta realmente esistito, tale Agosteo, commerciante di professione, che con la prepotenza del proprio denaro pensava di poter comprare tutto. Sarà proprio quest'ultimo, inaspettatamente, a dominare la scena, in modo inquietante e misterioso, nella seconda parte del romanzo, presentandosi come testimone tormentato di un passato mai del tutto sopito.
Con grande bravura, attraverso uno stile narrativo appassionante, Milani cattura il lettore catapultandolo nel passato per poi ricondurlo ai giorni nostri (la prima edizione del libro risale al 1986). Sullo sfondo, ieri come oggi, la piccola città di Pavia con i suoi luoghi e atmosfere affascinanti e questa sua pagina di storia forse non a tutti nota che la vide saccheggiata e umiliata da Napoleone; molto interessante, inoltre, la figura della giovane nobildonna il cui nome dà il titolo al romanzo, conosciuta in Francia come Marguerite Chante-Granouille e caduta, “vittima della barbarie cosacca”, ad Austerlitz nel 1805 al seguito dei soldati francesi che l'avevano adottata come vivandiera. Peccato per i diversi refusi sparsi qua e là nel testo che, tuttavia, offre nel complesso una buona e istruttiva lettura.
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L'inverno dell'anima
Un'opera prima che non può passare inosservata, quella con cui lo scrittore veronese Filippo Tapparelli ha esordito all'inizio dell'anno. Romanzo fortemente introspettivo fin dalle primissime righe, “L'inverno di Giona” narra la storia del giovane protagonista, che già dal titolo impariamo a chiamare appunto Giona, con toni d'intensa drammaticità seguendo sentieri sospesi tra l'onirico e il reale.
Ma si è certi che il nome del personaggio principale, quel ragazzino stretto al suo logoro maglione rosso pieno di rammendi e alla mercé di un nonno a dir poco dispotico, sia esattamente quello di Giona? E il paese che fa d'ambientazione alla vicenda è reale o si rivela invece un luogo dove il tempo s'è fermato e i ricordi, come pensieri sfuggenti e inafferrabili, non esistono?
“È un luogo dove le radici delle case affiorano dalla strada proprio come le rocce che spuntano dai prati più in alto. Guardando attentamente, si ha l’impressione che le montagne siano sprofondate facendo emergere i muri di pietra, e che le persone che lo abitano portino scolpite sul volto le stesse crepe che segnano le abitazioni. […] Il paese respira con i tempi della pietra e non accetta il nuovo. Sembra immobile invece si sposta nella sua stessa ombra.”
Attraverso una prosa particolarmente scorrevole ma anche di grande profondità, la penna dell'autore ha dato vita a una trama che soltanto nella sua parte conclusiva svelerà una realtà dolorosamente diversa da quella percepita in un primo momento, fino a un epilogo sorprendente e del tutto inatteso. Solo allora si comprenderà in quale “inverno” è purtroppo precipitato il cuore del ragazzo protagonista, stagione dell'anima dall'infanzia irrimediabilmente perduta.
“«Sono libero» dice a se stesso e a quella voce che l’ha sempre accompagnato dal giorno in cui la sua infanzia è finita all’improvviso, davanti alla porta di una stanza da letto dove la disperazione aveva travolto ogni speranza di futuro.”
Ho intrapreso questa lettura su appassionato suggerimento di un'amica lettrice , che dunque ringrazio di cuore, e la consiglio a mia volta! Ottima qualità di scrittura e stile narrativo coinvolgente.
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Un grande poeta da riscoprire!
Nel panorama letterario italiano, Giovanni Pascoli (1855-1912) è forse un poeta ancor poco apprezzato, se non intenzionalmente ignorato o addirittura dimenticato e relegato alle vecchie antologie scolastiche dei tempi in cui studiare poesia, al contrario di quanto accade oggi, veniva considerata cosa buona e giusta.
Eppure, quella dell'autore romagnolo resta una delle voci poetiche di maggior rilievo e più rappresentative del periodo a cavallo tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento, come del resto ben anticipava la stessa raccolta “Myricae”, pubblicata per la prima volta nel 1891; l'edizione definitiva, comprendente centocinquanta liriche raggruppate per temi, sarebbe giunta a distanza di una dozzina d'anni.
Tra queste pagine di raro pregio, si susseguono soprattutto brevi testi, piccoli componimenti finemente cesellati e ispirati alla natura, dove trovano spazio l'amore per la terra natale (quella “Romagna solatia, […]/ cui regnarono Guidi e Malatesta” cantata con passione e trasporto non comuni), gli affetti più cari, i ricordi specie dell'infanzia e della prima giovinezza, la solitudine struggente, i tanti lutti che, uno dopo l'altro, si abbatterono sulla famiglia Pascoli, a partire dall'omicidio, peraltro impunito, del padre Ruggiero alla cui memoria l'opera è stata dedicata. La presenza della morte, non a caso, aleggia molto spesso su questi versi, impregnandone l'essenza e condizionando le emozioni e la visione del mondo da parte del poeta; una visione, proprio in virtù di tutto ciò, sempre ammantata di malinconia, se non di cruda tristezza, così come di tacita rassegnazione di fronte alla immanenza del dolore che mette radici profonde e inestirpabili nell'umano vivere. E la felicità, dunque, non ha possibilità alcuna di esistenza? Forse, ma essa si riduce soltanto a qualcosa di sfuggente, vago, ingannevole il cui inseguimento termina ogni volta tra le ombre della sera per annullarsi nell'inevitabilità di un“silenzio infinito”.
Poesia sorprendente e ammaliante, quella che le “Myricae” donano al lettore, il quale si ritrova così a contemplare la lenta e atavica vita nei campi, a perdersi tra i colori dei paesaggi che seguono l'eterno alternarsi delle stagioni, ad ascoltare le cantilene d'amore delle lavandaie o il chiacchierare notturno e sognante delle fanciulle intente a lavorare all'arcolaio alla luce della lanterna. Scrittura, quella pascoliana, attenta altresì al particolare, al quotidiano, alle umili cose della campagna, ma non per questo priva d'eleganza e raffinatezza formali che culminano in una musicalità puntuale e impeccabile.
Riguardo a Pascoli, così Gabriele d'Annunzio scriveva: “Penso che nessun artefice moderno abbia posseduto l'arte sua come Giovanni Pascoli la possedeva. La sua esperienza era infinita, la sua destrezza era infallibile, ogni sua invenzione era un profondo ritrovamento. Nessuno meglio di lui sapeva e dimostrava come l'arte non sia se non una magia pratica.” Parola di Vate!
Tra i componimenti più belli dell'intera silloge, mi piace ricordare quello intitolato “Romagna”, i cui versi, appresi almeno tre decenni fa, sono riaffiorati come per incanto alla mia memoria:
“Romagna”
(a Severino)
Sempre un villaggio, sempre una campagna
mi ride al cuore (o piange), Severino:
il paese ove, andando, ci accompagna
l’azzurra vision di San Marino:
sempre mi torna al cuor il mio paese
cui regnarono Guidi e Malatesta,
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
Là nelle stoppie dove singhiozzando
va la tacchina con l’altrui covata,
presso gli stagni lustreggianti, quando
lenta vi guazza l’anatra iridata,
oh! Fossi io teco; e perderci nel verde,
e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie,
gettarci l’urlo che lungi si perde
dentro il meridiano ozio dell’aie;
mentre il villano pone dalle spalle
gobbe la ronca e afferra la scodella,
e ‘l bue rumina nelle opache stalle
la sua laboriosa lupinella.
Da’ borghi sparsi le campane in tanto
si rincorron coi lor gridi argentini:
chiamano al rezzo, alla quiete, al santo
desco fiorito d’occhi di bambini.
Già m’accoglieva in quelle ore bruciate
sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa;
e s’abbracciava per lo sgretolato
muro un folto rosaio a un gelsomino;
guardava il tutto un pioppo alto e slanciato,
chiassoso a giorni come un birichino.
Era il mio nido: dove immobilmente,
io galoppava con Guidon Selvaggio
e con Astolfo; o mi vedea presente
l’imperatore nell’eremitaggio.
E mentre aereo mi poneva in via
con l’ippogrifo pel sognato alone,
o risonava nella stanza mia
muta il dettare di Napoleone;
udia tra i fieni allor allor falciati
de’ grilli il verso che perpetuo trema,
udiva dalle rane dei fossati
un lungo interminabile poema.
E lunghi, e interinati, erano quelli
ch’io meditai, mirabili a sognare:
stormir di frondi, cinguettio d’uccelli,
risa di donne, strepitio di mare.
Ma da quel nido, rondini tardive,
tutti tutti migrammo un giorno nero;
io, la mia patria or è dove si vive:
gli altri son poco lungi; in cimitero.
Così più non verrò per la calura,
Tra que’ tuoi polverosi biancospini,
ch’io non ritrovi nella mia verzura
del cuculo ozioso i piccolini,
Romagna solatia, dolce paese,
cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
Giovanni Pascoli
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Corsari!
Un gran bel romanzo storico, questo attraverso cui faccio ora conoscenza con la scrittura di Massimo Carlotto, autore padovano che, come avevo già scoperto, ha un rapporto particolare con la mia Sardegna. E, non a caso, i riferimenti diretti anche all'isola sarda non mancano tra le pagine di “Cristiani di Allah”, la cui ambientazione risulta, del resto, profondamente mediterranea.
Lo sfondo cronologico è quello della prima metà del XVI secolo, quando la poderosa flotta del cattolicissimo Carlo V tentò l'assedio di Algeri, tra le roccaforti corsare per eccellenza lungo le coste del Nordafrica, ma con esiti infine disastrosi. Erano loro, i corsari, a reggere di fatto le sorti della città, sebbene anche la terra algerina dipendesse formalmente dal sultano della lontana Costantinopoli che vi inviava a più riprese le proprie guarnigioni di temibili giannizzeri. All'epoca, Algeri era un'autentica città cosmopolita, in rapporto naturalmente al mondo di allora: tra le vie della sua medina si aggiravano musulmani, ebrei, cristiani e quella araba e berbera non erano che due delle tante componenti etniche della popolazione che vi risiedeva. I corsari stessi, per la maggior parte, erano rinnegati europei cristiani, convertiti all'Islam non certo per sincero sentimento religioso, bensì per puro opportunismo e brama di rapina poiché, com'è noto, essi assalivano e depredavano navi e centri abitati anzitutto costieri, facendo sempre un gran numero di schiavi che rendevano ingenti guadagni.
“E così avevamo raggiunto Algeri alla fine di un lunghissimo viaggio ed eravamo diventati corsari e rinnegati. Avevamo affrontato il rasoio del barbitonsore che ci aveva mozzato il prepuzio e rasato il capo […]. Di fronte al muftì avevamo dichiarato che “Non v'è altro Dio che Dio e Maometto è il profeta di Dio”. Eravamo stati rivestiti di abiti sontuosi e portati in giro per la città in sella a cavalli di grande bellezza perché tutti sapessero che altri due cristiani avevano trovato la vera fede.”, racconta Redouane, voce narrante del romanzo, il quale, già mercenario albanese tra le truppe dei lanzichenecchi, aveva preferito mettere la propria spada al servizio della causa corsara pur di poter vivere in libertà la relazione con il suo amante Othmane, ex lanzichenecco a sua volta. Quale destino, se non la morte, avrebbe potuto esserci altrimenti per “due mercenari sodomiti” nell'Europa cristiana ossessionata dai peccati della carne, ma insensibile ai massacri indiscriminati di uomini, donne e bambini? Ad Algeri, seppur terra d'Islam e nonostante l'esplicita condanna coranica, l'omosessualità trovava sorprendentemente ampia tolleranza da parte delle autorità religiose musulmane, ben consapevoli del fatto che quelle in tal senso fossero conversioni solo di comodo.
Ed è proprio questo ciò colpisce il lettore che non conosca quelle pagine di storia: l'inattesa tolleranza verso costumi sessuali che oggi, in quello stesso mondo, a seconda dei Paesi, possono mettere a rischio la vita di una persona, così come nei confronti di altre fedi religiose perfettamente inglobate all'interno delle cornici statuali islamiche. In verità, i grandi “laboratori” storici di convivenza pacifica e accettazione di certe diversità, di cui ora sembra essersi persa memoria, non sono mancati, prima fra tutti la Spagna araba.
La vicenda d'amore di Redouane e Othmane si consumerà tra spedizioni corsare, vendette e intrighi da taverna (già, nell'Algeri del Cinquecento esistevano pure regolari locali dove bere allegramente alcolici!), sino all'epilogo inevitabilmente drammatico che lascerà in bocca un sapore molto amaro, mentre i mercati di schiavi si facevano sempre più affollati e i rapporti fra le due sponde del Mediterraneo sempre più ambigui e incattiviti. Fin dalle prime battute, spicca l'originalità della trama, supportata con tutta evidenza da un'accurata ricerca storica da parte dell'autore. Molto bella e appassionante la scrittura di Carlotto, capace di tenere ben deste, fino all'ultima pagina, l'attenzione e la curiosità di chi legge. Un romanzo che, senza troppe edulcorazioni, ci parla sì di violenza e schiavitù, ma anche di tolleranza e, nonostante tutto, di un senso d'umanità che non può scomparire nemmeno tra le pieghe più buie della Storia.
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"Il Mediterraneo è..."
È difficile, forse impossibile, provare a dare una definizione chiara e concisa di Mediterraneo, questo Mare Nostrum così affollato di Storia e storie, senza rischiare di perdersi in rivoli di pensieri e osservazioni filosofeggianti. Persino uno scrittore del calibro di Georges Simenon resta, come lui stesso confessa, “con la penna a mezz’aria, in seria difficoltà”, cercando per esso una definizione appropriata.
Prende così avvio, con l’assorto tentativo di completare la frase “Il Mediterraneo è…”, questa nuova pubblicazione dell’Adelphi che intende inaugurare una serie di reportage del celebre autore belga; gli articoli racchiusi tra queste pagine risalgono al 1934, quando furono pubblicati su un settimanale francese durante l’estate del medesimo anno, a seguito di una crociera a bordo di una goletta italiana. È dunque un Simenon in un certo qual modo inedito – di certo, non troppo noto al grande pubblico – quello che qui si svela al lettore, sebbene, anche da cronista, egli non rinunci mai del tutto al suo ruolo di narratore.
“[…] vi prometto che d’ora in poi non mi dimenticherò mai più che il mio mestiere, come diceva Stevenson, è quello di «raccontatore di storie».”
E le storie, infatti, non mancano in questo suo affascinante andare per mare, come quella della donna senza cuore o, ancora, quella dei cugini; storie che viaggiano anch’esse attraverso i flutti correndo, spesso, di bocca in bocca tra i marinai; storie che emozionano, stupiscono, atterriscono a seconda dei casi, dipingendo un’umanità variegata, a volte stracciona e vagabonda in cerca di semplice sopravvivenza, a volte più ricca e organizzata a caccia di affari lungo le coste del Mediterraneo, piccolo mare, anzi “piccolissimo”, in cui si finisce per incontrare sempre le stesse imbarcazioni che “nell’incrociarsi, si fanno dei gran gesti di saluto.”
Dalla costa francese alla Tunisia, dall’isola d’Elba a quella di Malta, ombelico mediterraneo, senza tralasciare Sicilia e Sardegna, la navigazione di Simenon è occasione per parlare di quei singoli luoghi e, allo stesso tempo, di tanti altri; ed è così che, miglio dopo miglio, porto dopo porto, si delinea ciò che è il Mediterraneo: il maestrale che tarda ad arrivare, un “campo di golfi”, un intreccio di profumi, colori e sapori, l’acqua limpida rischiarata dalla luce della luna, banchi di tonni e sardine inseguiti dai pescatori, l’illusione di un approdo che invece si allontana, isole che spuntano un po’ ovunque, l’amaro ricordo di chi è costretto a emigrare verso altri mari e sconfinati oceani… E tanto altro ancora.
Una più che buona lettura, in particolar modo entusiasmante soprattutto nella prima parte, sostenuta da uno stile “narrativo” di alto livello che tratta con identica enfasi pescatori di murene, esche da pesca e bordelli, mentre la scrittura si colora spesso di fine ironia e si fa colloquiale in un tu per tu con chi legge che non può che renderla più coinvolgente.
Corredato di un gran numero d’immagini che si devono alla Leica di Simenon, il libro testimonia anche la grande passione dell’autore per la fotografia, la quale per lui – come ben sottolinea Matteo Codignola nella sua interessante nota conclusiva – altro non era che “una prosecuzione della scrittura con altri mezzi”. In fin dei conti, il Mediterraneo, bizzarra somma delle più disparate cose, non è pur sempre uno o più scatti da conservare nell’album dei ricordi?
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La solitudine del poeta
È un canto solitario e triste, quello che il poeta Gavino Puggioni intona e libera tra le strade scoscese del mondo e dell’umano vivere. Versi, i suoi, acuti e penetranti, che s’intrecciano in pagine dense di significato ed emozioni.
In questa nuova silloge, così come in altri precedenti lavori, uno dei tratti distintivi della sua scrittura è senza dubbio quello di uscire dai confini, per quanto vasti, della propria interiorità per prestare ascolto alla realtà di cui quella stessa interiorità è parte. La penna dell’autore, non a caso, si sofferma, con addolorata indignazione, agli angoli delle nostre strade, ma anche su quell’altrove soltanto in apparenza lontano, dove masse di disperati vivono una quotidianità di guerre e atrocità impunite, dove “il cielo è tenebra/ […] e la terra germoglia/ di cadaveri”. E s’interroga, pur se tanti sono i perché che rimangono senza risposta, mentre assiste impotente alle brutture di un mondo nel quale, oggi, anche il dolore finisce per essere globalizzato: “Le armi/ ma perché le armi?/ chi devono ammazzare/ ancora?/ Le violenze/ ma perché le violenze?/ i nostri bambini/ le nostre donne/ perché tante vittime?”
Echi di guerre che bussano ormai incessantemente alle nostre porte, dignità umiliate e calpestate, giovani vite brutalmente recise da una terra di cui non s’ode che il pianto: in questo scenario, devastato e devastante, il poeta è solo, smarrito, con una identità che non è più la stessa. Intorno a lui soltanto il vuoto del silenzio, riempito dal fragore dei pensieri e dalla voce inquieta del vento. Ma, per fortuna, esiste anche il mare, quello che bagna la terra natìa e la cui voce scuote l’anima, riconducendo il cuore a ritroso nel tempo, lungo i sentieri perduti degli anni.
Ecco ricomparire allora, come sprazzi di sole, frammenti d’infanzia e altre stagioni felici, quando c’era ancora spazio per i sogni e le voci dei bambini si rincorrevano a perdifiato tra vigne e canneti. Il tempo, però, sommo e sublime inganno, scivola via troppo in fretta, facendo sì che l’esistenza si riduca sconsolata a essere “come un’ombra”, e ciò che resta, alla fine, è soltanto amaro disincanto: “Avevo tempo/ da consumare/ forse per amare/ Lo credevo/ ne ero convinto/ Invece l'ho consumato/ e/ non me ne sono accorto!”
Con uno stile incisivo, metricamente libero, spesso lapidario, Gavino Puggioni dà forma e sostanza a una silloge intensa e appassionata, nella quale la solitudine diventa condizione dell’anima attraverso cui scrutare il mondo, sia interiore che esteriore, mentre passato e futuro già s’intersecano nell’oggi desideroso di altra vita, altro tempo, così come di pace e speranza.
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"Io ho quel che ho donato"
Un libretto molto interessante che raccoglie i motti ripresi o coniati ex novo da Gabriele d'Annunzio, l'artista, il soldato, il patriota.
Una lettura che, tra l'altro, mi ha confermato quanto ambiguo fosse il rapporto del Vate con Mussolini e il fascismo, un rapporto non certo idilliaco né di adesione convinta, tutt'altro; del resto, non risulta che egli avesse la tessera del partito fascista e, sulla base di un'autorevole fonte, pare che fosse pure un sorvegliato speciale del regime. Insomma, non fu d'Annunzio che fece propria l'ideologia di quegli anni, fu semmai il fascismo ad appropriarsi della sua figura carismatica.
Ho scoperto che i famosi "Eja, eja, eja, alalà" e "Me ne frego", che credevo fascisti, sono in realtà motti dannunziani pronunciati già tra la fine della prima guerra mondiale e l'esperienza di Fiume giunta al capolinea al termine del 1920, quando cioè i fasci di combattimento muovevano ancora i primi maldestri passi e il futuro duce rischiava nuovamente di soggiornare nelle patrie galere come ai tempi prima della Grande guerra.
Ma quel che mi ha stupita di più è stato scoprire il d'Annunzio "pubblicitario": non sapevo, infatti, che avesse ricevuto, e accettato in quanto molto ben pagate, offerte di lavoro da parte di famose industrie italiane per l'elaborazione di motti commerciali ad hoc per i più svariati prodotti, passando dal campo dei profumi a quello dei biscotti. E fu proprio d'Annunzio – cosa forse ignota ai più – a battezzare "La Rinascente" i grandi magazzini dei fratelli Bocconi che aprirono pian piano in tante città italiane. Nemmeno per il Vate, dunque, era sempre possibile cantare cose grandi!
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Granello puro di buona terra
"sei un seme nitido/ come granello puro/ di buona terra"
Sono tanti e affascinanti i versi che invitano il lettore a soffermarsi con attenzione tra le pagine di questi “Haiku della buona terra”, la nuova silloge di Dona Amati, poeta ed editora, pubblicata la scorsa primavera da FusibiliaLibri nella collana “essenze”. Come repentini scatti fotografici o variopinti quadri d'autore, i componimenti di genere haiku fissano un istante, ben prestandosi nel contempo, pur nella loro estrema brevità, a trasmettere emozioni che rivelano una forte e intensa compenetrazione tra l'animo del poeta/osservatore e il mondo della natura.
Da attenta e abile haijin, l'autrice ci racconta, attraverso l'efficace concisione delle canoniche diciassette sillabe, vere e proprie stagioni dell'anima che si susseguono e s'intrecciano tra gli sfondi suggestivi rappresentati, come si precisa nella nota introduttiva, dalla campagna viterbese e il mare di Anzio.
“nel labirinto
delle spighe di grano
giorni infuocati”
“rami indifesi
nel furore del vento –
foglie nell'aria”
“spiaggiate a riva
le meduse argentate
seccano al sole”
Ed è lì, tra paesaggi marini e campestri, che fanno capolino tante piccole e piccolissime creature cui viene rivolta un'attenzione tutta particolare dallo sguardo sensibile di chi scrive, nel pieno rispetto, del resto, di una tradizione poetica antichissima molto spesso incline a cogliere ogni forma di vita, seppur minuta e fragile; così, libellule, serpi, bruchi, farfalle, ragni, camaleonti, lucertole e gechi riempiono e colorano versi al pari di gatti e gabbiani, merli e corvi, mentre la natura fa il suo corso e il cuore d'improvviso trema al cospetto d'un temporale o s'incanta alla vista della luna o, ancora, a quella del mare bianco della neve sulle cime delle montagne.
“si finge ramo
tutto fermo sul tronco
l'insetto stecco”
“serra le chele
sulla preda che guizza –
granchio affamato”
Completano la raccolta, infine, una serie di tanka, senryu e renga, componimenti che riprendono la terzina dello haiku con sfumature e aggiunte varie.
Dedicato alla nipotina Cecilia, “granello puro/ di buona terra”, e impreziosito dalle immagini di alcune opere dell'artista Maria Grazia Tata, il libro offre un'ottima lettura sia a chi già ama la poesia haiku sia a chi volesse iniziare ad avvicinarsi a essa, presentandosi oltretutto con la consueta cura editoriale che contraddistingue le pubblicazioni dell'Associazione Fusiblia. Da leggere!
(I testi riportati, compresa la citazione del titolo, sono di proprietà di ©Dona Amati)
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Anime in viaggio
Non passa certo inosservata la scrittura di Attilio Alessandro Ortolano, giovane autore abruzzese già vincitore di diversi premi letterari. Una scrittura, la sua, decisamente affascinante, pervasa d’infinita misteriosa poesia che sembra voler scavare nel profondo dell’anima alla ricerca di quel senso dell’esistenza per noi sempre così difficile da comprendere.
“Il cuore che abito”, suo secondo romanzo, pubblicato anch’esso, come il precedente dal titolo “Bellezza e crudeltà”, dalla casa editrice Edizioni La Gru (2018), ha ottenuto lo scorso anno il Premio internazionale culturale Cartagine di Roma. Protagonista di queste pagine è Ludovico, imprenditore e filantropo italiano, il quale, già all’inizio del libro, muore all’improvviso a seguito di un incidente automobilistico. Da quel momento comincia per lui una seconda vita poiché la sua anima, o massa fotonica, viene catturata da un sistema ipertecnologico americano che subito la riversa in un altro corpo, nient’altro che una sorta di clone; il risveglio del protagonista, privo d’identità e memoria del passato, fatta eccezione per il nome di battesimo e una vaga certezza di nazionalità, avverrà in una metropoli americana “somma di solitudini timorose e schive”, ma la vicenda proseguirà poi ancora in Italia, dove quel filo invisibile che lega gli esseri umani troverà infine la propria ragion d’essere dal momento che gli incontri non sono mai casuali.
Una trama non semplice, non banale, a tratti forse difficile da seguire nel suo evolversi tra infiniti interrogativi e misteri esistenziali, riflesso perfetto della complessità del curatissimo linguaggio e dello stile narrativo adottati dall’autore. Lo scenario temporale in cui si svolge questa storia è quello di un futuro ormai prossimo, decisamente a breve termine, dove il mondo non è poi così in apparenza diverso da come lo stiamo ora vivendo con tutte le sue sfide e spauracchi attuali, come quello del bioterrorismo. Molto ben caratterizzati, i personaggi si muovono in una dimensione dal sapore onirico sospesa tra realtà e irrealtà, portandosi dietro, a partire da quello di Ludovico, il proprio fardello di vita dove il tempo accumula, non senza dolore, ricordi, sentimenti, emozioni.
Un bellissimo romanzo, né distopico né fantascientifico in senso stretto, al centro della cui intensa, profonda narrazione, c’è l’essere umano con la sua estrema fragilità fatta spesso di disincanto e solitudine, del proprio ineludibile limite di fine incombente, ma la cui radice è sempre l’amore nel significato più ampio del termine. Ed è l’amore, infatti, a ricordarci che dopo l’ombra ritorna la luce, dandoci ancora la forza di sognare, nonostante tutto.
“Il sole diviene un riflesso scintillante in milioni di gocce. Anche tra le persone ci si incontra così: uno sguardo scintillante tra milioni di occhi. Poi la vita. Ogni giorno. Emozioni e nuvole. Vittorie e sconfitte. Coraggio e paura. Voglia di sogni.”
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Grazie, Tiziano
Tra pochi giorni, il 28 luglio, ricorrerà il quindicesimo anniversario della morte di Tiziano Terzani, giornalista e scrittore che ammiro tantissimo e del quale, già prima della sua scomparsa, avevo letto e molto apprezzato numerose sue pubblicazioni. Si sente la mancanza della sua scrittura, semplice, appassionata, sincera, come ce ne sono poche, e un doveroso ricordo non è fuori luogo.
In verità, in Italia – intendo a livello ufficiale – le commemorazioni non si sprecano. Ricordo ancora quando, alla fine del luglio del 2004, uno scarno comunicato al telegiornale diede notizia della sua morte; i vip televisivi di turno, in vacanza presso qualche rinomata località estiva, ebbero senz’altro più spazio tra le news di quei giorni. Credo che in Germania, Paese per il quale Terzani lavorò per ben tre decenni come corrispondente dall’Asia di “Der Spiegel”, il suo nome non sia invece finito nel dimenticatoio. Fortuna che, a dispetto dello snobismo nei suoi confronti, un vasto pubblico di affezionati lettori e ammiratori pure qui da noi non gli è mai mancato. Già, perché il grande pregio del nostro giornalista toscano, secondo me, è sempre stato quello di farsi capire da tutti, tanto dall’accademico quanto da chi non può vantare alti titoli di studio, anche se parlava degli uiguri dello Xinjiang o del marxismo-leninismo in salsa cinese fino alla sterzata capitalistica del pur sempre comunistissimo Deng, dell’antica spiritualità indiana o della dissacrante modernità giapponese.
Nemmeno in “Buonanotte, Signor Lenin” il suo modo di raccontare si smentisce, regalandoci, praticamente in diretta, una preziosa testimonianza sul disfacimento dello sconfinato impero sovietico. Partendo dalla Siberia più estrema, dove già si trovava proprio nei giorni del golpe ai danni di Gorbaciov (agosto 1991), Terzani affronta un lungo e improvvisato viaggio attraverso le repubbliche di quella che stava diventando ormai la ex Unione. Chilometri e chilometri di Storia, storie, popoli, culture, religioni, timori, speranze, illusioni, fino a raggiungere Mosca dopo circa un mese e mezzo dall’inizio di quel viaggio. Da una parte all’altra, a cadere non sono soltanto le colossali statue in bronzo di Lenin, padre della Rivoluzione, ma anche le poche certezze che quelle genti avevano da settant’anni, sostituite in quel momento dalla prospettiva di un futuro pieno di incognite. E mentre i comunisti di un tempo si riciclano e con un’abile “operazione cosmetica”, magari ribattezzandosi socialdemocratici, restano un po’ ovunque al potere, in molti iniziano a preoccuparsi di come fare in fretta i tanto agognati dollari, segno evidente del completo fallimento del sistema. Molto interessante, tra l’altro, la parte relativa alle repubbliche dell’Asia Centrale, quelle di tradizione musulmana e non etnicamente russe, che mi ha ricordato varie cose studiate a suo tempo e permesso di scoprirne di nuove; così come ho trovato degno di nota il capitolo dedicato all’Armenia, dove una pesante tristezza finisce per permeare luoghi e persone che ancora oggi portano il peso incancellabile del genocidio a opera dei turchi di un secolo fa.
Per nulla superflue le considerazioni dell’autore sul comunismo e il suo crollo: se è vero che “come sistema di potere, fondato sull’intolleranza e sul terrore, il comunismo doveva finire”, è innegabile tuttavia che “là dove non era al potere, ma restava come un’alternativa d’opposizione – nei paesi dell’Europa Occidentale, per esempio – il comunismo […] ha contribuito al progresso sociale della gente” e che al principio esso “era una grande forza, una ispirazione”. Al di là di tutto questo sistema in dissoluzione ci sono milioni di persone, sovietici che, di colpo, si riscoprono kazaki, tagiki, azeri, uzbeki etc., in un risveglio improvviso di nazionalità che intimorisce non poco. Ecco, la gente… Terzani amava scriverne, forse perché le singole storie di pochi raccontano un intero territorio meglio di tanti discorsi di facciata dei suoi capi di turno (politici o religiosi): dai portieri e le donne di servizio degli hotel per turisti agli operai delle fabbriche, dalle hostess e piloti della disastrata compagnia di bandiera sovietica a coloro ancora perseguitati dal KGB, questo libro è pieno di piccole storie, quelle che più colpiscono e restano impresse.
E allora grazie, Tiziano, grazie per queste bellissime pagine e tutte le altre indimenticabili che hai scritto! Pagine che, negli anni, mi hanno fatto viaggiare, pur restando tra le mura di casa o lungo brevi itinerari consueti a bordo di un treno, fino ai piedi dell’Himalaya oppure tra le strade di Saigon del ’75 come tra quelle di Hong Kong del ’97, poco prima del ritorno della città alla madrepatria cinese; stavolta addirittura tra quelle delle leggendarie Bukhara e Samarcanda, al cospetto di antichi caravanserragli e incantevoli minareti e cupole di moschee. Grazie perché, personalmente, ti devo molto più della semplice buona riuscita di un paio di esami universitari preparati in parte sui tuoi libri. Chissà quante tue nuove opere ci siamo persi nel corso di questi quindici anni, di certo non avresti mancato di pubblicarne. Grazie per il tuo sguardo sul mondo, sempre curioso e mai superficiale, grazie per il cuore che mettevi nello scrivere, pregio di pochi rispetto alla professionale “asetticità” delle cronache di molti fra coloro che svolgono il tuo mestiere. Grazie, perché i tuoi pensieri e le tue parole risuonano come uno splendido inno alla vita e alla pace in un mondo allo sbando che, purtroppo, non ha ancora compreso che la propria bellezza sta nell’altissimo valore della sua diversità.
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“Ce vulesse 'na bomba”
Non è facile, di per sé, affrontare un argomento serio, drammatico e complesso come quello del terrorismo. Impresa a dir poco ardua, poi, se s'intende trattarlo in modo leggero e addirittura ironico! Eppure, Pino Imperatore, autore campano dedito notoriamente alla scrittura umoristica, c'è riuscito alla perfezione e la sua verve creativa ha dato alla luce un romanzo a mio avviso strepitoso!
Ed eccoli gli aspiranti kamikaze evocati fin dal titolo: i siriani Salim e Feisal e l'irachena Amira, tre giovani vite indottrinate e addestrate a puntino nei campi del feroce califfato islamico, incattivite e senza prevedibili ripensamenti sul proprio futuro martirio. Obiettivo da colpire: Napoli, città dannata e viziosa dell'odiato Occidente infedele. I tre vi giungono come turisti qualsiasi, ignari però di quel che essa ha in serbo per loro durante le successive settimane di sopralluoghi mirati a individuare i singoli bersagli dove operare le stragi. Già, perché sarà Napoli, con la sua umanità molto variegata, le sue profonde contraddizioni, infiniti vizi e virtù, senza naturalmente dimenticare l'immancabile san Gennaro, ad avere a poco a poco la meglio sul terroristico terzetto, regalando al lettore una miriade di quadretti esilaranti.
Azzeccatissimi i tre protagonisti (seppure, in verità, spesso si rivelino estremisti musulmani poco credibili), così come sono perfetti tutti gli altri personaggi che s'incontrano nel corso della narrazione, dalla procace signora Rosa al logorroico Arturo 'o Filosofo, dal pacifista professor De Bottis all'economico e commerciale venditore Cammarota Leopoldo; oltre agli uomini, persino le bestie, cui sembra mancare soltanto la parola, diventano memorabili in questo libro: il simpaticissimo gatto Mustafà, l'agguerrito esercito di blatte che alberga nelle case e, dulcis in fundo, 'o Pizzicatore, il temuto gabbiano reale che finisce per incutere molto più terrore di qualunque possibile kamikaze... Il tutto sullo sfondo di una città, quella partenopea, che, così come risulta nella realtà, è caotica e affascinante, nobile e plebea, generosa, ricca di storia e cultura, brutalmente svilita dalla criminalità organizzata; una Napoli ritratta con amore dai vicoli più reconditi alle piazze più famose, la quale avrebbe senz'altro meritato dalla Storia miglior sorte. Dunque, un grande plauso all'autore che, al di là dell'originalità della trama, non si può non apprezzare anche per l'ottima scrittura, una prosa perfetta, priva di quelle sbavature linguistiche a cui oggi sembra che ci si stia purtroppo assuefacendo, nella quale si intrecciano sapientemente parlata popolare e linguaggio più forbito.
Una lettura divertente che, tuttavia, suscita importanti riflessioni. Un epilogo “esplosivo” e in parte inaspettato. Un libro che, secondo l'auspicio dello stesso Imperatore, può essere considerato a pieno titolo un romanzo di pace, contro l'insensatezza di qualsiasi violenza.
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