Opinione scritta da Antonella76

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    22 Febbraio, 2018
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Marie...e tutti gli amori ancora possibili




Parigi, anni '30.
Marie è una donna di circa trent'anni, è sposata con Jean...e lo ama molto.

All'inizio del romanzo sembra quasi di rivedere Elisa, la protagonista de "La donna di Gilles", una donna che vive in funzione del suo uomo, esiste solo in quanto "moglie di".
Anche Marie trabocca d'amore per il suo Jean, non lo perde di vista neanche per un attimo, si adopera affinché lui possa godere sempre delle giuste atmosfere, sia in casa, sia fuori, si dona a lui totalmente pur non ricevendo, in cambio, un sentimento della stessa intensità.
Ma il suo è più un ardore cerebrale, tutte le sue amiche invidiano il suo rapporto perfetto, la sua devozione, il legame indissolubile che la unisce al suo uomo.
Apparentemente.
Perché così deve essere.
In realtà Marie vive la sua vita tenendola imbrigliata nelle redini del controllo, incatenata in un'esistenza circoscritta al marito, ripiegata su se stessa, limitata da questo amore che vive (quasi solo) grazie a lei, fino a quando, un giorno, una mattina d'estate, distoglie per un attimo lo sguardo dal suo uomo e decide di mollare queste redini, e di avere le mani libere, libere di cercare...
Cerca una Marie "non assorbita da un amore, ancora ricca di tutti gli amori possibili".
Inizia un processo di liberazione, in cui lei cerca se stessa, l'indipendenza perduta, un desiderio sconosciuto capace di darle nuova forza e fiducia.
Marie non è Elisa, smette di riflettersi nel volto di un'altra persona, e non soccombe sotto il peso del suo stesso amore.
Ci sarà un vero e proprio viaggio interiore che la riporterà ai sapori dell'infanzia, alla libertà della giovinezza, a prendere coscienza della bellezza della vita che le scorre intorno.

La scrittura della Bourdouxhe in questo romanzo è rarefatta, tratteggia con poche pennellate una figura complessa, donandole grazia e forza, eleganza e passione, senza mai definirne bene i contorni...perché la figura di Marie è in divenire, continuerà a crescere e a delinearsi anche dopo di noi.

Un romanzo del 1943, ma apparso in Francia solo negli anni '80.
Non mi sorprende affatto che sia stato "ignorato" per quasi mezzo secolo...troppo alto il rischio che spingesse ad un risveglio femminile collettivo.
Ancora oggi molto attuale.

75 anni portati benissimo.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    22 Febbraio, 2018
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Mi sono informato c'è un treno che parte alle 6.41



Un bellissimo ed intrigante gioco psicologico tra un uomo e una donna.
Un libro interamente fatto di non-detti, di dialogo interiore, di vorrei ma non posso.
Cecile e Philippe si sono amati da ragazzi, una storia breve, intensa e finita malissimo per colpa di lui.
A distanza di 30 anni, ognuno col proprio bagaglio di vita, si ritrovano sul treno per Parigi delle 6:41...lei di ritorno da una visita ai suoi genitori ormai anziani, lui per andare a trovare un suo amico in fin di vita.
Si guardano, si riconoscono all'istante...e si ignorano.
Imbarazzo tangibile, sguardi rubati e subito distolti, ricordi mai sopiti che tornano prepotentemente a galla.
Voglia di riscatto da una parte, voglia di chiedere scusa dall'altra.
Un viaggio di 95 minuti...scandito dai loro flussi di coscienza e dai timidi tentativi di dialogo, miseramente falliti, schiacciati tra il senso di colpa e l'orgoglio.
La bobina della loro vita si riavvolge e ritornano al momento esatto in cui qualcosa è cambiato, in cui hanno deciso di smettere di essere com'erano.
I minuti passano e il tempo per darsi una seconda occasione si riduce, si riduce la possibilità di riappacificarsi col passato, di capire come il tempo li abbia cambiati (e non solo nel fisico).

Un romanzo a due voci, intimo, riflessivo, malinconico...capace di scavare a fondo con pochi tocchi ben calibrati.
Un romanzo sulla capacità di perdonare e perdonarsi, sul coraggio di guardare negli occhi il passato senza aver paura di specchiarcisi dentro e scoprirsi ancora fragili...
Un romanzo sulla forza delle parole taciute e sul rischio di rimanere fermi nei ricordi, aspettando, per il tempo dei bilanci, il prossimo treno...magari fra altri 30 anni.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    18 Febbraio, 2018
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La fame di Pietro...



Rabbia, tanta rabbia.
Potrei racchiudere in questa unica parola quello che ho provato leggendo questo libro.
Ma non sarebbe corretto, sarebbe troppo riduttivo, disonesto...perché il libro affronta una tematica importante, complessa, più che mai attuale...e lo fa con un linguaggio asciutto, efficace, al servizio di una storia drammatica.
Ma partiamo dal titolo...
In realtà non c'è nessun "bambino indaco" (...e qui ci sarebbe da aprire un capitolo a parte su questa figura nata nella cultura New Age), ma solo un bambino vittima di una maternità popolata da demoni.
Una maternità malata.
C'è una donna ossessionata dalla "purezza assoluta", che decide di intraprendere un percorso, per sé e per il figlio che porta dentro, di purificazione, di rigenerazione, di congiunzione con entità universali non ben identificate...col conseguente rifiuto di ogni elemento impuro, inquinato, sporco, quale il cibo.
E quindi al bando tutti i cibi cotti e solidi...e si dà il via ad un progressivo distaccamento dalla realtà, che la porterà ad una forma di anoressia, dove però l'obiettivo non è la magrezza in sé, ma la salvezza da tutto ciò che è contaminato, società compresa.
Passa il tempo, il bambino nasce, e il delirio di questa mamma cresce, cresce a dismisura...l'unico che non riesce a crescere è lui, Pietro...il figlio speciale che avrebbe dovuto salvare il mondo con la sua intelligenza superiore e i suoi poteri salvifici e che invece non riesce neanche ad essere semplicemente "un bambino".
I cetrioli, il succo di fico e l'olio di sesamo non sono assolutamente sufficienti a placare la sua fame, a farlo diventare grande.

Di fronte a tutto questo...c'è Carlo: un marito e un padre che non riesce ad arginare questa escalation di follia...non vuole perdere sua moglie, quella donna innamorata, serena e piena di vita che adesso non riconosce più, ma, allo stesso tempo, non può neanche assistere inerme al progressivo "spegnersi" di suo figlio.
Cerca aiuto nella sua famiglia e nelle istituzioni...ma nulla andrà come previsto.
L'amore diventa guerra.
La Chiesa diventa rifugio dell'amore di una nonna che sfama suo nipote con fette di prosciutto più sacre dell'eucarestia (la scena più bella e più intensa di tutto il romanzo, per me).
E l'orrore s'insinua nel luogo più inaspettato di tutti...il grembo materno.

È un libro che leggi con una certa ansia, con una "fame" pari a quella del bambino che urla nella culla, vorresti intervenire, scuotere lei dalla sua smania di controllo, scuotere lui dall'impasse da cui non riesce ad uscire, senti di avere poco tempo prima che la situazione precipiti.
E vuoi salvare Pietro. Solo questo.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    18 Febbraio, 2018
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Amore e disperazione

CARNE VIVA (Merrit Tierce)

Mentre leggevo questo romanzo mi sono chiesta ripetutamente "perché?"...perché una ragazza giovanissima, apparentemente senza problemi, con una famiglia solida alle spalle e brava negli studi, avesse deciso di prendere la sua vita e calpestarla, sfregiarla, mortificarla, svuotarla di ogni significato per poterla poi riempire di umiliazioni, di droga, di alcol, di rapporti occasionali autodegradanti e di azioni autolesionistiche.
Poi mi sono imbattuta in questa frase:

"Ma non era questione di piacere: era che alcuni tipi di dolore sono il perfetto antidoto per altri."

E ho capito.
Ho capito come, a volte, per riuscire a scacciare qualcosa che fa male, ci si debba procurare altro male, per riuscire a superare un senso di inadeguatezza, ci si voglia sentire irrimediabilmente inadeguati anche con se stessi, e per poter dare un senso ai propri fallimenti, ci si debba punire con qualunque cosa capace di annullare, annientare, disintegrare la propria dignità.
Marie fa tutto questo.
Si butta via, si svende, mortifica il suo corpo per localizzare il dolore.
È un qualcosa che ha a che fare con l'Amore e con la Disperazione.
L'amore verso Ana, sua figlia...e la disperazione di non essere all'altezza del suo ruolo.
Né come madre, né come moglie.
Subentra in lei la volontà di uccidere qualunque parte di se stessa che, inconsapevolmente, possa ancora aspettarsi qualcosa di buono da qualcuno.
O dalla vita.

Tanto degradante è la sua vita privata quanto efficiente quella lavorativa.
Marie fa la cameriera...e solo nelle tacite regole del mondo della ristorazione riesce a trovare una sua dimensione, una sorta di equilibrio.
Marie lucida forsennatamente i tavoli del locale a fine serata come se, così facendo, potesse lucidare anche la sua vita, rimetterla a posto.
E qui il libro apre il sipario su un mondo particolare, quello dei ristoranti e di tutti coloro che li popolano: dai camerieri ai cuochi, dai baristi ai lavapiatti, fino ai clienti con le loro mance con troppi zeri...ognuno con la sua storia, le sue ambizioni, i suoi vizi, il suo degrado...

Un libro spietato, sincero, lucidissimo.
Cronologicamente disordinato come a voler cercare un parallelismo con il caos interiore di Marie.
Un libro in cui la protagonista non cerca alibi per il suo comportamento, niente giustificazioni, niente scusanti.
Semplicemente c'è chi tocca il fondo...e non è mica detto che poi si possa solo risalire...c'è anche chi rimane lì.
Incastrato nelle proprie inadeguatezze.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    29 Gennaio, 2018
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Come prima non si torna...



Questo è un libro per chi ha voglia di stare un po' a contatto con la parte più scura di sé, per chi vuole abbracciare la propria solitudine, per chi sente il bisogno di ritrovarsi al riparo dagli sguardi altrui.
E leccarsi le ferite.
Per chi ha amato tanto e poi perduto tutto.
È un libro per chi ama togliersi le scarpe e i calzini e camminare a piedi nudi in cerca di bellezza.

Il tempo per Andrea si è fermato un giorno di Luglio.
Ora è incassato dentro una stanza d'ospedale, dove nessuno conosce il suo nome, la sua storia...e dove lui custodisce tutti i suoi fallimenti.
Nessuno lo cerca.
Chi lo ama è a casa e non sa. Ma spera.
Andrea ha una gran voglia di fuggire, eppure rimane dov'è.
I piedi scalpitano per tornare al suo "prima", ma la mente lo frena...perché ha paura del mondo là fuori, si vergogna di quel che è diventato, preferisce rimanere incatenato a quello che ha: il ricordo di quello che era, di quello che aveva.
Rivuole le sue labbra capaci di bere alla bottiglia, di ridere, di baciare...rivuole le sue gambe che corrono sulla sabbia.
Rivuole la nuca profumata di sua madre Magnifica, custode della storia di famiglia.
E più di ogni altra cosa rivuole sua figlia Preziosa...perché può anche sopravvivere all'amore finito di sua moglie, ma senza sua figlia no, non può.
Andrea sa e non dice.
Guarisce e finge.
Scrive i suoi ricordi su fogli che poi sbriciola nel brodo e mangia...per non perderli, perché siano sempre con lui, in lui.

"Ma come prima non si torna.
Mai.
Ora lo sa.
Così si ingozza dei suoi ieri"

Maria Rosaria Valentini è una poetessa che ha prestato la sua mano alla letteratura, dando vita a pagine di vera bellezza.
La scrittura è rotonda, pastosa, di quelle che vorresti leggere ad alta voce per assaporarne il suono, per sentirne il sapore.
Io ho sentito quello cedevole, morbido, delle ciliegie molto mature.
E ne vorrei ancora.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    27 Gennaio, 2018
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Morgen früh



A volte il silenzio è una grande forma di rispetto verso qualcosa di più grande di noi.
Per questo avevo deciso di non scrivere nulla su questo libro, su questa lucidissima testimonianza di quell'orrore senza fine che, per quanto ci si possa sforzare di comprendere, non riusciremo mai veramente a capire.
Neanche lontanamente ad immaginare.
Ma poi le parole sono arrivate con prepotenza, non potevo ignorarle.
Anche per rispetto.
Sono troppe le cose che ci mancano per un'adeguata comprensione, troppe...a partire dal senso delle parole.
Ed è esattamente quello su cui vorrei soffermarmi, quello che più mi ha segnato, perché rivoluziona completamente il concetto di "significato".
Noi siamo uomini liberi e siamo abituati ad usare la lingua degli uomini liberi.
Le parole che pronunciamo sono fortemente legate alla nostra condizione.

Pensiamo al concetto di "fame"...
La fame che conosciamo noi è quella legata ad un'abitudine, è quella di chi magari ha saltato un pasto, o addirittura quella autoimposta di chi si mette a dieta.
La fame di chi è libero anche di non mangiare.
Non potremo mai capire la fame di chi aspettava che il vicino di cuccetta morisse, per potergli togliere un misero pezzo di pane dalle mani.
Noi non sappiamo assolutamente che cosa sia...

Pensiamo al "freddo"...
Il freddo di chi stava ore e ore nudo con i piedi nella neve, di chi si ammazzava di fatica sotto la pioggia gelida, con il vento che tagliava in due e sognava un pezzo di stoffa asciutto o un minimo calore che asciugasse, già sapendo di non poterli avere.
Il freddo di chi ha conosciuto "l'inverno dell'anima".
Cosa posso saperne io, di questo freddo, di questo gelo, mentre leggo tutto ciò sotto il mio morbido e caldo piumone?
Come posso permettermi anche solo di scrivere queste righe?

Pensiamo alla "stanchezza"...
Non quella che intendiamo noi, quella che si può spazzare via con qualche buona ora di sonno, no.
Ma quella capace di uccidere, quella che, attraverso il corpo, urlava che era finita, che non ce la si poteva fare più, che il disfacimento era vicino e le forze non sarebbero bastate per superare il prossimo giorno.
Uno dei tanti, tutti uguali.

Pensiamo al "dolore"...
Noi cerchiamo di immaginare qualcosa, qualcosa di spaventoso, di terribile, di insopportabile, ma in realtà si trattava di altro.
Si trattava di qualcosa che dovrebbe avere un altro nome.
Un nome capace di racchiudere l'inimmaginabile.

Ma soprattutto, pensiamo alla "paura"...
Quella che abitava gli occhi di chi sapeva di dover morire...sì perché la paura passa sempre dagli occhi, attraversa il corpo e muore nel cuore.
Quella di chi ha perso completamente l'idea di futuro...tanto che, nel gergo del lager, "mai" si diceva "morgen früh"...ovvero "domani mattina".
Niente di strano, perchè per molti "domani mattina" non sarebbe arrivato mai.

E poi forse la parola più importante: "uomo".
Cos'è un uomo?
Cos'è un uomo a cui viene tolto tutto?
Cos'è un uomo senza i suoi vestiti, le sue scarpe, il cibo, l'acqua...il proprio nome?
Un uomo amputato dei suoi affetti, tutti?
E cosa rimane di un uomo se gli togli anche la dignità?
Se lo privi dei pensieri e della capacità di riconoscere se stesso e gli altri come "uomini"?
Niente. Assolutamente niente.

In fondo io, qui, al sicuro della mia libertà e arrogandomi un diritto che non possiedo, sto parlando di cose che non so.
Ma lui, Primo Levi, le sa bene...ed ha scelto di tramandarcele, ha speso una vita per farci comprendere l'incomprensibile, per narrarci l'immane sofferenza che ha vissuto e far sì che noi non permettessimo più, mai più, un orrore simile.
Il rispetto per lui, per la sua storia e quella di tutti coloro che sono morti e hanno subito tale orrore, passa dalla lettura di questo libro.
Dal silenzio che ne consegue o dalle parole che non possono essere trattenute.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    20 Gennaio, 2018
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C'era una volta un dolore...



C'era una volta Andrea Bajani...
che, con grande delicatezza e poesia, scrisse una storia.
Una storia di crescita.
Una fiaba bellissima e tristissima che racconta di un bambino e del suo dolore, un dolore che lo accompagna ovunque come un fedele amico a quattro zampe, e di una bambina sottile che gli fa battere il cuore.
Ci sono anche gli adulti con le loro ferite e le loro inadeguatezze, gli sguardi vuoti, i cibi senza sapore, e i loro dolori aggressivi, invadenti...oppure morti.
Sì perché i dolori vanno accuditi, altrimenti possono diventare pericolosi.
C'è un paesino con le sue case, la piazza, l'asilo, la chiesa, il cimitero, il bosco e una ferrovia...una ferrovia che porta lontano, dove l'infanzia finisce.

Una storia talmente semplice da risultare complicatissima.
"Semplice" perché la narrazione lo è, nelle favole deve essere così...
Il linguaggio è basico, le parole sono usate per rappresentare le cose nella loro essenza.
Tutto trasuda purezza...
Eppure è tutto metafora, un mezzo per portarci altrove, in quell'altrove che esiste in ognuno di noi e che troppo spesso abbiamo paura di affrontare.
"Difficile" perché affronta un tema tale nella sua essenza: la vita...la vita e la nostra capacità di accettare il dolore, coccolarlo, allevarlo, nutrirlo, non avere timore di mostrarlo al mondo, né di lasciarlo andare quando sarà il momento.
O di lasciare la porta aperta, per quando vorrà tornare. 

Bajani è bravissimo a farci cadere completamente in questa dimensione fiabesca, facendoci dimenticare il confine tra il reale e l'astratto, tra il concreto e l'allucinatorio, non riuscendo più a scindere il concetto di dolore da quello di cane (anche se la parola "cane" non è mai menzionata).

Ma, esattamente, di cosa parla questo libro?
Io non lo so.
Non so dirlo a parole, perché le parole giuste per spiegarlo le ha usate tutte lui.
Ma so che leggendolo scoprireste anche voi quello che ho scoperto io:
...ho scoperto che a volte le parole, quando cadono a terra, si rompono.
...ho scoperto che un dolore senza padrone è come un pensiero che non pensa nessuno, come una bicicletta legata a un palo per sempre.
...ho scoperto che chiunque va via lascia sempre a chi resta un altro identico a sé.
...ho scoperto che, per un bambino, il pianto del padre è il punto in cui il mondo si spezza.
...ho scoperto che le virgole sono come il battito delle ciglia, fanno riposare un istante le cose dall'essere sempre guardate.
Ma soprattutto... ho scoperto che l'amore prende la forma che noi gli diamo da bambini, e poi, per tutta la vita, cercheremo la persona capace di rientrare esattamente in quella formina, tipo quelle che si usano d'estate, sulla sabbia.  

Un libro sorprendentemente bello.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    10 Gennaio, 2018
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Sorrisi e lacrime...



Anni '60, Bagnago, Romagna.
Gigi, 10 anni, ha solo tre grandi sogni: la bicicletta blu con le cromature dorate, lo scudetto al Bologna...e fidanzarsi con Allegra.
Baldini ci fa entrare nella sua vita, e per oltre due terzi del romanzo ci tiene lì, incollati alle parole di questo ragazzino, alla sua voglia di racimolare qualche soldo, di stare ad ascoltare le storie dei vecchi al bar, di vivere i turbamenti della prima "mano nella mano"...
Vita di provincia color seppia...quella dei festival di Sanremo guardati alla Casa del popolo perché le televisioni erano ancora appannaggio di pochi, quella dei roghi di San Giuseppe che trasferiscono il cielo stellato sulla terra, quella dei ragazzini che giocano a pallone, corrono su bici sgangherate e rubano le angurie dai campi.
La vita di chi ha poco, pochissimo, ma che, in questo microcosmo fatto di piccole cose e personaggi singolari, riesce comunque a tirare avanti...ed essere anche felice.
Fino a quando, all'improvviso, l'infanzia finisce...e non anagraficamente.
Qui inizia l'ultimo terzo del romanzo...quello in cui Baldini fa ciò che gli riesce meglio in assoluto: ti sbriciola, ti spezza in due, ti prende e ti taglia a pezzettini.
Perché puoi essere grande e corazzato quanto vuoi, ma di fronte alle storie in cui arriva l'Uomo nero, sarai sempre disarmato come un bambino, incapace di comprendere il Male, in balia di un malessere a cui non riesci mai a dare un nome e un volto.
È stato inevitabile, per me, tornare con la mente a Brondolo, da Ettore e Narciso, nella storia de "L'estate del cane bambino" (Pistacchio/Toffanello)...e proprio come allora mi ritrovo a lasciare, su queste pagine, lacrime e pezzi di cuore...

Conobbi questo autore con "Mal'aria"...e dopo avermi letteralmente tramortito con un finale di quelli che ti gelano il sangue, giurai che non mi avrebbe più colto impreparata, che ormai sapevo...
Illusa io.
E bravo Baldini, sei riuscito a farmi piangere di nuovo.
Ma quante emozioni...

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    26 Dicembre, 2017
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Una sola Clare, tanti Henry...



Come si fa a parlare di questo romanzo? Da dove si inizia?
Complicato entrarci, difficile poi uscirci.
Leggere questo libro è un po' come vivere un'esperienza sensoriale, un vivere al di fuori dei vincoli spazio-temporali...e la piacevolezza o meno di tale esperienza dipenderà totalmente dalla voglia (e capacità) di lasciarsi andare, di perdere contatto con la realtà, di farsi coinvolgere da questo continuo andirivieni senza cercare di razionalizzare a tutti i costi, accettando l'idea di assistere ad una storia d'amore tra le più belle mai raccontate, una storia d'amore capace di vivere nel presente, nel passato e nel futuro...contemporaneamente.
Io, che posso essere pietra e carta velina, a seconda dei momenti, mi sono lasciata completamente sbrindellare da questa storia, da questo amore.
Voglia di romanticismo...
Voglia di favola...
L'elemento fantastico, che normalmente mi disturba, qui è stato fondamentale per sorreggere tutta la malinconia, la tristezza e la drammaticità di cui sono pregne le pagine.
E mi ha permesso di essere in un altrove coinvolgente, affascinante...e di emozionarmi.

Clare conosce Henry quando ha 6 anni e lui 36, poi si incontreranno "davvero", per la prima volta, rispettivamrnte a 20 e 28 anni...ma si amavano già nel passato di lei e nel futuro di lui.
Spiazzante eh.
Lui è affetto da una cronoalterazione genetica che lo porta a viaggiare nel tempo, ma non sa mai quando il viaggio avrà inizio, né dove andrà, né quanto tempo resterà via...
Questo gli consente di vivere situazioni che in realtà non ha mai vissuto, di raggiungere le persone amate in momenti importanti, quando ormai non ci sono più o addirittura prima ancora che nascano, di ritrovare "se stesso", di rivivere dolori mai superati, di amare in maniera totale nonostante le sue continue mancanze. 
Ma vivere in un tempo diverso dal presente è anche terribile, perché lo rende prigioniero di ciò che già sa, di ciò che ha già vissuto...o consapevole di quello che verrà senza alcun potere di cambiarlo.
Perché il continuum spazio/temporale non può essere alterato in nessun modo...mai.
Non sapere rende liberi, ed Henry non lo è.

Una narrazione a due voci, un amore totale visto da due diverse prospettive, quella di chi c'è sempre e rimane in attesa, un'attesa che indipendentemente dalla sua durata è sempre un'eternità...e quella di chi va e viene, ma vorrebbe stare...o comunque non andare mai dove l'altro non ci sia.
Una sola Clare, tanti Henry...
Un mucchio di vestiti per terra da una parte...e un uomo nudo, inerme e alla mercé di un tempo ignoto da qualsiasi altra.

Amore, attesa, assenza, solitudini, amicizia, sesso, maternità, malattia, morte...tutto incastrato tra le righe, travestito da racconto fantastico.

Il tempo è tutto e non è nulla.
È capace di creare, unire, dividere, fortificare o distruggere qualsiasi cosa.
L'amore si nutre di tempo, tutto quello che trova...quello vissuto, quello perso, quello sognato e, per qualcuno, anche quello che non ci sarà mai.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    23 Dicembre, 2017
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Una sola vita, una sola storia...



Un romanzo pieno di non detti, di parole sospese, congelate dal tempo, che una madre e una figlia cercano di riprendersi, di donarsi reciprocamente.
Cercano, appunto.
Tra loro anni di silenzio, un passato fatto di privazioni, di miseria, di vergogna.
Tra loro un garage troppo freddo, pane con la melassa e un furgone dove piangere di paura e disperazione.
Tra loro la mancanza di un affetto tangibile, quello fatto di contatto, di attenzioni, di cure, di parole.
Tra loro il racconto di storie, storie qualsiasi, storie altrui, storie senza importanza in grado di riavvicinarle un po' senza però farle toccare, senza rischiare di far dire loro cose troppo intime.
Parlano di altri per non parlare di se stesse...o forse il contrario, parlano di altri per poter trasmettere quelle parti di sé che non riescono a trovare la strada che va dal cuore alla bocca.
Tra loro 5 giorni, solo 5 giorni, per trovare il coraggio di volersi bene...e di dirselo.
Imparare a dirselo, non soltanto quando si hanno gli occhi chiusi.
Questo romanzo è pieno di sfumature: di rapporti mancati, spezzati, di matrimoni falliti, di figli arrabbiati, di dolori che non si possono dimenticare...ma con i quali, alla fine, si può far pace.
Sfumature che la Strout riesce a creare con poche semplici frasi, essenziali, apparentemente lievi, ma che smuovono rocce.

"Quello della solitudine era il primo sapore che avevo assaggiato nella vita e non se ne andava più, nascosto nelle pieghe della bocca, a ricordarmi."

Questa è la storia di una donna, madre, moglie, figlia...soprattutto figlia, ma è anche la storia della nascita di una scrittrice.
"Ciascuno ha soltanto una storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state mai a preoccuparvi. Tanto ne avete una sola".
E se è vero che un romanzo si può riscrivere tante volte, è vero anche che la nostra vita non si può ripetere, è quella...e quella diventerà il nostro romanzo.
L'unico possibile.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    23 Dicembre, 2017
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L'amore, come il dolore, è una livella...



La cronaca di un amore nato e morto in soli quattro mesi, un amore breve, ma soprattutto "sbilanciato", un amore che ha lasciato a terra, sanguinante, una sola vittima.
Un amore come ce ne sono tanti, eppure convinto di essere unico, l'unico degno di essere chiamato tale.
Un amore imperfetto.
Imperfetto l'amore ed imperfetto pure il dolore della sua fine.
Ma ne esiste forse di altro tipo?
La disperazione dell'abbandono percepito come perdita di parte di sé, in senso proprio fisico, quando l'assenza, la mancanza, diventa incapacità di vivere.
Luca e Maurizio...
Luca ama, ama di un amore senza remore, quel tipo di amore disposto a tutto pur di compiacere l'altro, anche annullarsi, umiliarsi...
Maurizio ama (meno)...e poi non ama più.
Perché a volte il sentimento finisce, semplicemente. 
Si logora, si perde, prende altre direzioni...
E la fine di un amore non guarda in faccia a niente, non conosce alcuna differenza...né di età, né di cultura, né di razza, né di religione, né tantomeno di genere.
L'amore, come il dolore, è una livella...ci rende tutti dannatamente uguali.

Pur essendomi piaciuto il tema trattato e la struttura del romanzo, con le sue istantanee del dolore e i suoi salti temporali, il libro non mi ha convinto fino in fondo...a tratti troppo zuccheroso per i miei gusti.
Avrei preferito che Cotroneo avesse dato un taglio meno romantico e più incisivo, avrei voluto meno cuore e amore e più graffi.
Ho di gran lunga preferito "Un bacio" che, pur presentando anch'esso uno stile narrativo piuttosto esile, riesce a far arrivare un messaggio forte, e lo fa facendoti esplodere una bomba fra le mani.
Qui non succede, si rimane in attesa di qualcosa che non arriva...e quello che resta, o almeno che è restato a me, è la sensazione di un'accasione perduta.
Peccato, perché lui è bravo, mi piace.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    23 Dicembre, 2017
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Sapore di casa...



Forse non dovrei più scrivere i commenti ai libri di Carofiglio.
Perché alla fine per me non è più importante la storia che mi racconta, lui mi fa stare bene a prescindere...è il mio porto sicuro, è consolazione, è il rassicurante odore di qualcosa di familiare.
Nei suoi libri mi sento comoda come nella vecchia tuta che uso in casa.
So già che troverò determinate cose, e sono ben felice di trovarle: Bari e le sue strade di notte, i suoi quartieri, un sacco da boxe appeso in salotto, citazioni letterarie, riferimenti musicali...
E poi l'avvocato Guido Guerrieri è un mio vecchio amore letterario, di volta in volta lo ritrovo sempre più maturo, più stropicciato dalla vita, con quella sua vena ironica e un po' malinconica che lo rende maledettamente affascinante.
Un uomo pieno di dubbi, un uomo che si è scottato tante volte e adesso preferisce stare sempre un passo indietro.
Cauto, riflessivo...ma ancora vivo, pieno d'amore e d'energia.
Sempre in perfetto equilibrio tra tecnicismo e sentimento, sottilmente ironico, elegante...Carofiglio è, per me, una garanzia: so di trovare in lui pensieri che mi appartengono, questioni etiche e morali che portano a riflettere senza appesantire.
Carofiglio parla di ciò che sa, di quello che conosce bene...la giurisprudenza, ma lo fa in un modo così bello, così naturale, da coinvolgere anche chi, come me, dell'universo giudiziario non sa niente di niente.
Ma lui conosce bene anche un'altra cosa...le parole: sa dare loro il giusto significato, il giusto peso, sa usarle, collocarle esattamente al loro posto.
E questo sapiente uso delle parole ti accompagna dolcemente verso ragionamenti, concetti, idee...ideali, che poi sono i veri protagonisti dei suoi libri.

L'eterno duello fra giusto e ingiusto...
Alla fine la regola dell'equilibrio, quello "morale", risiede unicamente nella percezione dei propri errori, della propria fallibilità: riconoscere di sbagliare, cadere e rialzarsi, o comunque cadere...e sapere di trovarsi a terra, averne la consapevolezza.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    23 Dicembre, 2017
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In un turbine di follia...



Chi è davvero Viviane Elisabeth Fauville?
Una pazza? Un'assassina? Una madre disperata? Una donna tradita?
Viviane Elisabeth Fauville è una bella donna di 42 anni, con un lavoro importante e una bambina di pochi mesi.
Suo marito, Julien, l'ha lasciata, mettendo fine ad un inferno coniugale, dicendole: "ti lascio, non c'è altra soluzione, tanto lo sai che ti tradisco, e non lo faccio nemmeno per amore, ma per disperazione".
Da qui la discesa nella follia..

Sono pochi, pochissimi i romanzi che utilizzano la seconda persona singolare...e questo è uno di quelli.
Il narratore esterno dà del tu alla protagonista, la osserva da vicino, la segue, la analizza...ma improvvisamente passa alla terza persona e poi alla prima senza nessuna motivazione apparente, se non quella di creare nel lettore una confusione pari a quella che alberga nella mente di Viviane.
Come un voler riproporre la sua perdita d'identità, di direzione, di appartenenza al mondo circostante e farla diventare anche nostra, farci partecipi del suo delirio allucinatorio.

Un noir psicoanalitico, decisamente originale, spesso difficile da decifrare, che gioca sui diversi piani di percezione della mente.
Ciò che lega il lettore non è la trama (di per sé debole), ma il percorso psicologico di questa donna allo sbando, alla ricerca del proprio senso.
Anche la Parigi sullo sfondo rispecchia lo stato d'animo di chi ha perso tutto, anche se stessa, e appare confusa, buia, triste.
Fondamentalmente, per me, un libro sulla solitudine.

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Romanzi
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    20 Novembre, 2017
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"Una razza di infelici e di randagi..."



Leggere questo libro è un po' come andare ad aprire un vecchio baule, di quelli antichi che si trovano solitamente nelle soffitte, quelli che hanno le chiusure in metallo ormai arrugginito e che devi forzare un po' per aprire...
Quei bauli che, una volta aperti, rilasciano quel classico odore di "chiuso", di muffa e ruggine...odore del tempo che è andato.
Al loro interno trovi di tutto...fotografie in bianco e nero ormai ingiallite, consumate e corrose dall'umidità, vecchi utensili in disuso, una coperta lisa che sa di naftalina, lettere dall'inchiostro sbiadito, quasi illegibili...frammenti di storie, di vite passate.
Storie di famiglia, storie di famiglie...
In questo baule ci sono loro, i Girosa: "una razza di infelici e di randagi".
Una villa immensa, vuota di bambini e piena di malasorte, sarà palcoscenico di vite difficili e stravaganti, di uomini che non sanno amare e donne tanto fragili quanto resistenti, di fughe e di ritorni, di genitori inadeguati e di figli segnati dal senso di abbandono.
Una storia di ferri portafortuna, di chiodi nelle scarpe, di bambine fulminate, di erbe che guariscono, di saltimbanchi, di legami di sangue, di soffi all'orecchio, occhi pigri e identità rubate.
Una saga familiare a metà strada tra il magico e il tragico...in cui danzano una molteplicità di anime tanto surreali quanto disperatamente vere.

Questo è un libro che "chiede", chiede un'attenzione non indifferente, pretende impegno, concentrazione, dedizione alla storia...ma ripaga.
Ripaga con un linguaggio bellissimo, denso, che trasuda poesia, ricco di metafore, ricercatezza ed eleganza.
Un'eleganza che però non riesce a celare tutta la disperazione umana dei protagonisti, e s'impone con la sua amarezza.
Ma comunque sempre aperta alla speranza.

"...CHE QUALUNQUE BENE ESISTA A QUESTO MONDO (e in tutti gli altri possibili), CI PROTEGGA TUTTI. OVUNQUE."

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    02 Novembre, 2017
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Che i bastardi non ti schiaccino...



"Che i bastardi non ti schiaccino..."

Se davvero esistesse un momento storico perfetto per poter (dover) leggere questo libro, beh...quel momento sarebbe ora!
Proprio adesso che...dopo secoli e secoli di lotte, emancipazione, studi, cultura, cortei in piazza e reggiseni bruciati, sentiamo ancora pronunciare frasi del tipo: "se l'è cercata", "ha provocato", "l'ha voluto lei".
Donne picchiate, stuprate, deturpate, uccise...in nome di un amore che non c'è, di un possesso malato, di un potere maschile detenuto abusivamente, in nome di un retaggio difficile da debellare, che torna e ritorna...indigesto.

La Atwood, nel 1985, immaginava un futuro in cui la donna sarebbe diventata mero strumento per la procreazione, sottomessa e ridotta al silenzio, al servizio di un regime totalitario teocratico (di stampo biblico).
Ancelle, Marte, Mogli, Zie, Nondonne...ognuna con caratteristiche precise, precisi doveri...e zero diritti.
Donne umiliate nella loro incapacità di procreare (le mogli), costrette a condividere il letto e il marito con altre donne (le ancelle), considerate poco più che contenitori vuoti in attesa di essere riempiti dal seme "benedetto" (spesso sterile) dei Comandanti, costrette a guardare solo quella porzione di mondo consentita dalle loro alette bianche, i loro paraocchi, e private del loro stesso nome oltre che degli affetti precedenti (figli compresi).
Se non sei moglie, non sei feconda, non sei serva o guardiana della "morale" femminile...non sei nulla, e quindi destinata alle Colonie, a spalare materiale radioattivo aspettando la morte.
Chiunque trasgredisca le regole, indipendentemente se uomo o donna, finisce appeso "al muro", secondo la procedura della Rigenerazione.

Ma in questo contesto repressivo, dove i sentimenti non sono contemplati, dove i ricordi di "quel che era" consumano la mente terrorizzata all'idea di perderli, di sentirli sfumare come i lineamenti di chi si è amato e non c'è più,   in tutta questa anaffettività imposta dal terrore, da una morale castrante e bigotta...c'è sempre una piccola possibilità, uno spiraglio da cui far passare l'amore, la speranza, la voglia di sentirsi ancora vivi.
Perché se è vero che alla fine ci si abitua a tutto...è vero anche che nessun regime dittatoriale potrà mai annullare il bisogno d'amore e la ricerca della luce, anche quando intorno non c'è altro che il buio.

Un distopico quantomai realistico, coerente, plausibile.
Ciò che è davvero agghiacciante è il fatto che la Atwood non ha dovuto lavorare con la fantasia per descrivere questo "futuro" immaginario, anzi, le è bastato rivolgere lo sguardo all'indietro, attingendo dal passato, da comportamenti perpetrati per secoli, osannati anche dalle sacre scritture.
La Atwood è ipnotica, precisa, ti rapisce dalla prima pagina e ti lascia andare solo alla fine, dopo averti scosso, rattristato, angosciato, fatto adirare, commuovere, inorridire...
Un libro bellissimo, forte, illuminante...necessario.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    28 Ottobre, 2017
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Il sindaco nel fosso...



Koch ci ha abituato alla sua penna cinica, priva di ipocrisia, spietata verso tutto e tutti, attraverso cui ci presenta un'Olanda non proprio idilliaca...
Un'Olanda piena di pregiudizi sociali e razziali, ben mascherati ma comunque presenti.
Un'Olanda sporchissima in cui la raccolta differenziata non funziona...dove si condanna uno scandalo a sfondo sessuale, ma si accetta di buon grado la ristrutturazione di una fontana per mano di schiavi cinesi sottopagati...
Un'Olanda molto più provinciale dell'immagine che vuole dare al mondo con le sue vetrine e le sue finestre sempre aperte "perché tanto non c'è nulla da nascondere".
In questo nuovo romanzo è Robert, il sindaco di Amsterdam, a parlarci: un uomo di successo, un sessantenne ricco e piacente all'apice della carriera, con una bella moglie straniera, di cui si guarda bene dal dirci di quale nazionalità sia, proprio in virtù di quei pregiudizi da cui neanche lui è esente.
Tutto il libro si basa su delle suggestioni, sulle rimuginazioni infinite di Robert dopo aver visto sua moglie, ad una festa, ridere di gusto "buttando la testa all'indietro" con un suo assessore insignificante ed ambientalista.
Eccolo lì...il sospetto del tradimento.
Da quel momento verrà risucchiato nelle spire di una gelosia (molto poco "nordica") che lo porterà a studiare ogni minimo dettaglio, espressione, movimento, respiro e sospiro di sua moglie, atteggiamenti che, logorandolo, lo porteranno ad un repentino declino sia personale che politico.
Si strangolerà con i fili delle proprie paure, decretando il proprio fallimento.
Intorno a lui vedremo ruotare tematiche importanti, quali l'eutanasia, la paura del decadimento fisico e psichico, la malattia, il suicidio, l'infinita immensità dell'universo e la "piccolezza" dell'uomo...tutte però spogliate della loro drammaticità e filtrate dallo sguardo tagliente tipico dell'autore.

Un romanzo ricco di spunti, di riflessioni sul mondo moderno, sul concetto di democrazia...eppure, a parer mio, molto lontano dalla forza dirompente de "La cena" e dalla cattiveria spiazzante di "Villetta con piscina".
A tratti prolisso e ripetitivo.
Un Koch un po' in sordina, un Koch che avrebbe potuto osare di più.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    25 Ottobre, 2017
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Non c'è più lotta, solo punizione


Una storia dura, dolorosa e tutta al maschile.
La voce delle donne in queste pagine non si sente, è soffocata, è zittita da un mondo fatto di competizione, onore e codici tutti rigorosamente messi in atto da uomini.
I codici della malavita, quelli per cui un'offesa è un'offesa e non può rimanere impunita.
All'interno di queste pagine troviamo in primo piano il rapporto padre/figlio...anzi, una doppia coppia di "padre e figlio": il Moro e il suo Angelo e Don Ciccio e il suo Salvo.
Nord e Sud.
Contrabbandieri e mafiosi.
Genitorialità di fatto e genitorialità di sangue.
Il Moro non è un buon padre, ma ama suo figlio...seppur di un amore muto, inespresso, che troverà voce fuori tempo massimo.
Due rapporti così simili eppure così diversi, entrambi basati su un amore mai manifestato apertamente e su un gioco di emulazione al rilancio...non solo voglio essere come te, io voglio essere più di te!
E questa voglia di superare, di strafare, porterà Angelo allo "spregio"...che non è solo una mancanza di rispetto, uno sgarro, è di più...è come sputare sopra un qualcosa di sacro e calpestarlo sotto i piedi.
Sacro come può essere il fanatismo religioso, quello tipico della criminalità, che non ha niente a che fare con la fede, con Dio e tutto quello che vi ruota intorno.
Solo facciata, ma una facciata intoccabile...oltre la quale c'è il demonio da loro tanto temuto, come uno specchio riflesso.
E dopo lo spregio niente è più salvabile, "non c'è più lotta, solo punizione".

Una narrazione che taglia.
Non c'è una parola di troppo, tutto è asciutto, lucido, sobrio ...come se non fosse necessario usare troppe parole per spiegare, a volte basta un aggettivo, un dettaglio, a dire tutto.
Non so bene come spiegarlo a parole, ma la forza di questo racconto va ben oltre quello che c'è scritto...

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    25 Ottobre, 2017
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Tutto vero e tutto falso...



Se avessi dovuto scrivere un commento su questo libro prima di arrivare ad un certo capitolo (che per me è stato illuminante), probabilmente avrei scritto che questo non è il Roth che io conosco e che mi piace.
Troppo confuso, frammentato, slegato.
Alla fine invece, sento di poter dire che questo è un esperimento letterario che arriva proprio là dove voleva arrivare, ovvero a sottolineare quanto labile sia il confine tra realtà e finzione.
E quanto tutte le vite possano essere "rubate" per farne letteratura...
Abbiamo 166 pagine di soli dialoghi...e all'inizio tu non sai chi è che parla, né con chi, né perché, né dove, come, quando...
Poi realizzi di essere al cospetto di due amanti adulterini, due personaggi in pieno "stile Roth": lui professore/scrittore cinquantenne, americano ed ebreo (ma va???), lei inglese, trentenne, donna spigliata e intelligente, ma decisamente irrisolta.
Sembra di essere fra loro appena prima o subito dopo l'amplesso, quando la tensione è rallentata e loro necessitano di nutrirsi delle loro rispettive parole, delle loro storie.
Ma ad un certo punto ti perdi...
Entrano in scena donne ceche, polacche, amici profughi, mogli che scappano con uomini di colore, e sei tentato di lasciar perdere, di buttare il libro dalla finestra e non pensarci più...ma non lo fai.
Arriva quindi il capitolo in cui entra in scena la moglie dello scrittore che farà da snodo a tutto e questo ti porterà a dover ammettere che lui è proprio un geniaccio bastardo che destreggia realtà e immaginazione a suo piacimento per farci capire quanto tutto possa essere maledettamente vero e maledettamente falso allo stesso tempo, sulla carta, nei libri...ma anche nella vita.

Non è il Roth che prediligo (finora "Indignazione" regna indisturbato sul podio)...troppo autocelebrativo, troppo per "affezionati"...ecco, se questo libricino capitasse in mani vergini al "Roth pensiero" probabilmente non riuscirebbe a dire tutto quel che ha da dire e genererebbe solo una gran confusione.

Quindi bene, ma non benissimo. ????

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Consigliato a chi ha letto...
Solo per chi è già un "affezionato" di Roth
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    15 Ottobre, 2017
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Uomo in mutazione



Lo dico subito: mi è piaciuto tanto.
La Bucciarelli tira i fili dei personaggi di questo libro in modo egregio, dando vita ad una rappresentazione ad incastri originale e coraggiosa su un nuovo modo di essere "maschi".
Uno sguardo sul maschile e femminile che si studiano, si incontrano, si scontrano, si prendono le misure...cercando nuove geometrie.
Abbiamo un "maschile" in mutazione, alla ricerca di una nuova dimensione di sé che non lo vuole "imbrigliato" nello schema di protezione/procreazione/accudimento desiderato dalle donne (non tutte, ma molte).
Un maschio che resiste, che si sottrae al ruolo di padre, che cerca di mettere ordine...e lo fa dilatando lo spazio ed il tempo intorno a sé, negandosi per darsi sotto altra forma, più eterea, meno fisica, ma forse non meno vera.
C'è l'Uomo che non vuole dipendere da nessuno e nessuno che "dipenda" da lui, una Moglie che desidera sopra ogni cosa proprio ciò che lui non vuole...poi c'è Effe che va a schiantarsi contro un palo davanti ai suoi occhi, e con la stessa violenza s'insinua nella testa di lui.
Inizia una relazione che esiste nella sua assenza, in uno spazio misurabile in vuoti, che si alimenta di ogni contatto mancato.
Un desiderio che si accende e si spegne nella testa.
Lui, che è abituato a calcolare ogni cosa, rimane spiazzato da ciò che non ha potuto misurare...l'incidente, la sua traiettoria, la sua forza, la sua incognita.
E poi ci sono tre donne che si incontrano, parlano, si confessano...in una sala d'attesa...luogo non casuale, perché in fondo questo fanno: "attendono".
Attendono tutte qualcosa, chi un figlio, chi un "caffè", chi un uomo che non sia solo un'iniziale, ignare della loro condizione sospesa, ignare del filo che le lega a doppio nodo.

Non sono sicura di aver compreso in pieno il messaggio dell'autrice.
Di questa rappresentazione dell'uomo che sta cambiando, che resiste e si ribella, mi sfugge sicuramente qualcosa...ma di base mi piace l'idea di uno sguardo differente sull'uomo, sul suo sottrarsi non per mancanza di responsabilità, non per egoismo (o forse sì?), ma per una questione di libero arbitrio, di voler sfumare i contorni dei ruoli,  reagire alla quadratura del cerchio...
Alla fine però assistiamo ad una sconfitta da ambo le parti: donne infelici, sempre combattenti ma stanche, in cerca di un uomo che non esiste...e uomini che, nel tentativo di uscire fuori dalla gabbia, se ne costruiscono un'altra, magari virtuale, ma non meno soffocante.
Chi vince davvero, alla fine, è la solitudine.

Il romanzo è bello, attuale, la scrittura è intelligente e originale, capace di svecchiare un argomento antico come il mondo e rivestirlo di nuova luce.
Molto poetico, ma in maniera moderna.
È un libro pieno di arte, di architettura, di musica e di cinema.
(Menzione speciale per la citazione di "Ferro 3 - La casa vuota"...inaspettata e sorprendente.)

Bucciarelli, una bella scoperta.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    12 Ottobre, 2017
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Fame, fame, sempre fame...



Sapete chi sono i "cariolanti"?
Avete sempre mangiato tutto quello che c'era nel piatto da bambini?
Bastiano sa bene che deve farlo, altrimenti...arrivano loro, con le braccia secche e lunghe fino alle ginocchia, il carretto sgangherato con il lenzuolo tutto sporco da cui spuntano due piccoli piedini...e lo portano via.
I cariolanti hanno sempre fame, sempre.

Attenzione, questo non è un horror, non è un thriller, assolutamente...
Questo è solo un romanzo feroce il cui protagonista ti uccide con la sua brutalità e ti commuove per l'ingenuità.
Un romanzo che, quando lo chiudi, ti ritrovi con le mani sporche di terra, i vestiti luridi che puzzano di marcio, le orecchie piene dei latrati dei cani e un sapore dolcemente metallico in bocca...
Un romanzo circolare che nasce e muore in un buco, sottoterra.

Questa è la storia di Bastiano, nato di traverso e cresciuto nella profondità della terra, in un buco scavato nel bosco, nella miseria, con un burrone nella pancia e una fame appiccicata addosso da sempre.
Quella fame nera che non ti dà pace, che te la sogni di notte, che ti fa mangiare anche un pezzettino della mamma...
Fame, fame, sempre fame...che è anche fame d'amore, di vita, di libertà.
Una vita da bestia, nel senso letterale della parola...dove bestiale diventa la necessità di sopravvivere, a discapito di tutto e tutti.
Bastiano lavora, si spacca la schiena, ama, odia, paga colpe non sue, fa la guerra, patisce, ferisce, uccide, mangia per non essere mangiato.
Bastiano è come un animale, gli è stata sottratta la possibilità di relazionarsi col prossimo, non sa gestire la rabbia, non sa uniformarsi, non conosce l'empatia, la compassione, non comprende gli uomini e non trova un posto nel mondo e nella società civile.
Vorrebbe l'amore, ma le donne che avvicina sono tutte destinate a soccombere sotto la ferocia dei suoi istinti animaleschi, lui è capace solo di un amore randagio, affamato anch'esso, che possa riempirgli la voragine che ha nella pancia.
Naspini ci presenta un "mostro"...che è tale non per nascita, né per scelta, ma per necessità.
Una cattiveria inconsapevole nata dalla privazione, cresciuta nella disperazione e destinata a morire nella solitudine.

Straordinario.
Sacha Naspini è, nel panorama della letteratura italiana, una voce strepitosa.
La scrittura è viscerale, cruda, ma anche naif.
Mi è sembrato di leggere un giovane Holden deformato da una vita molto, molto, molto, ma molto più "schifa" di quella che è toccata a lui.
Sincera e "sgrammaticata", innocente nella sua ferocia.
Un libro forte per stomaci forti, di una bellezza agghiacciante.

Non mi è piaciuto moltissimo, di più!!!

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    12 Ottobre, 2017
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Gelosia retroattiva...



Quando il passato si aggrappa al presente e lo tira per la giacchetta...

In questo romanzo ci sono le elucubrazioni di un uomo che si ritrova perso tra le spire di una gelosia retrospettiva, la gelosia verso chi c'è stato prima di lui...ed il malessere verso colei che non ha risparmiato nulla, neanche un briciolo di cuore (e di corpo) da mantenere "immacolato" per il giorno in cui lo avrebbe incontrato.
Graham ha 38 anni, è un tranquillo docente di storia all'università di Londra, sposato, una figlia di 12 anni, un mutuo da pagare, impermeabile alle avances delle sue studentesse, senza grilli per la testa, senza slanci affettivi e la vaga sensazione di vivere già come un pensionato.
Poi, inaspettato, arriva il salto, il coraggio d'innamorarsi di nuovo...di Ann, giovane e bella, con un passato da attrice di film di serie B.
Si amano, si sposano.
Tutto va bene...fino al giorno in cui metterà piede in un cinema di periferia.
Proprio lui, lui che si era sempre considerato un uomo "di lettere", uno che ha sempre subito il fascino e le emozioni delle parole,  lui che credeva di essere insensibile alle immagini, alla fine è stato sopraffatto proprio da quelle...alcune immagini (di un film) lo hanno condannato ad una sorta di malattia, ad una follia insensata e retroattiva che lentamente lo ha consumato.
È stato come se il cervello, che fino a quel momento era stato al suo servizio, pronto per essere usato, avesse deciso di prendere il comando, di avere vita propria e, soprattutto, di trasformarsi nel suo nemico.

Barnes affronta il tema della gelosia del passato di chi amiamo, di chi ci ha preceduto nel sentiero dell'amore fisico, una gelosia che non ha nulla a che fare con noi, con il nostro presente, con quello che proviamo e con quello che l'altra persona ci dà.
È un concetto astratto che esiste solo nella testa di chi ne è affetto, distorcendo tutto, confondendo i contorni che separano realtà, fantasia, supposizioni e incubi.
Il "prima" diventa "ora", l'immaginazione diventa reale, ogni cosa si veste di sospetto e alimenta la fame di dettaglio, possibilmente torbido.
L'autore riesce a mantenere in perfetto equilibrio la vena ironica con quella tragica, dando origine ad una commedia acutissima sulla "paranoia".
Il modo in cui affronta argomenti come il sesso, l'amore, l'infedeltà, è disarmante nella sua lucidità, con una scrittura bella, elegante, ironica e spregiudicata.

Per il mio primo Barnes ho scelto di iniziare dalla fine, e adesso ho da percorrere tutto a ritroso, con grande piacere.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    05 Ottobre, 2017
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Il calore del freddo...



La storia la conosciamo tutti...è cronaca, nera.
Il 16 Novembre del 1959, ad Holcomb, in Kansas, la famiglia Cuttler (padre, madre e due dei loro quattro figli) viene brutalmente uccisa, nella loro casa, apparentemente senza motivo...per soli 40$.
Questo il valore delle loro vite...10 miserabili dollari a testa.
Dick Hickock e Perry Smith sono due balordi appena usciti di galera, dediti principalmente ai furti e alle truffe...due animali feriti in cerca di una vendetta, di un riscatto sulla vita, di un qualcosa che li porta a diventare due criminali spietati, privi di coscienza, rimorsi...completamente estranei al pentimento.
Il percorso di due ragazzi fondamentalmente infelici, che trasformano la sofferenza in violenza, che si trasformano da ladri in assassini.
Ma in fondo "anche uccidere è rubare...rubare la vita".
Un percorso che, inevitabilmente, li metterà "all'Angolo", per sempre.

Ho chiuso il libro con una grande angoscia, un peso enorme sul petto, perché quello che ho trovato dentro queste pagine è di una ferocia agghiacciante, da qualunque angolazione si guardi.
E il primo pensiero è stato...ma se io, solo per averlo letto, provo questo forte senso di svuotamento, cosa ha provato Capote nello scrivere?
Quanto gli sarà costato in termini di coinvolgimento emotivo, di energia mentale, di "umanità"?
Sei lunghissimi anni perennemente dentro questa storia, nei suoi dettagli, a frugare nella testa degli assassini, nella loro vita, nel loro passato...
E nonostante questo riuscire a rimanerne "fuori"...Capote c'è ma non si vede, non si schiera, non giudica...fa parlare la storia.
Lui è con le vittime, ma anche con gli assassini...ce li mostra, ci obbliga a guardare dove non siamo abituati a posare lo sguardo.
Non c'è giustificazione per loro, ma volontà di capire, di sapere cosa c'è dietro, cosa c'è stato prima, cosa li ha "guastati" e perché.
Inutile negare che la figura di Perry sia predominante, più complessa, piena di sfaccettature, contraddizioni, dolore...quasi Capote abbia rivisto in lui parte di se stesso, della sua infanzia, delle sue privazioni affettive.
E con occhio tremendamente lucido penetra nelle menti disturbate di chi è capace di farsi una grassa risata pochi minuti dopo essere stato condannato a morte.
Una risata, l'ultima.
La forza di questo libro sta, forse, nel metterci tutti sullo stesso piano...innocenti, colpevoli, morti, assassini...perché potremmo essere noi, ora in una veste ora in un'altra, a seconda di quanto la vita abbia deciso di darci o di toglierci.
Amiamo i Cuttler, ma non troppo...troppo "perfetti" per amarli.
Odiamo gli assassini, ma non troppo...troppo "imperfetti" per odiarli.
Capote, insomma, ci destabilizza, ci toglie le nostre tanto amate certezze.

A metà strada tra reportage giornalistico e romanzo: ha la lucidità e il distacco del primo, ma la narrazione, il ritmo e i dialoghi del secondo.
Perfettamente in equilibrio nelle sue parti.
Perfettamente in equilibrio.
Perfettamente.

P.s.: Le pagine dedicate alle "celle della morte" e all'esecuzione per impiccagione sono state, per me, le più dure, le più difficili...mi hanno riportato alla mente "Il miglio verde", ed oggi ho compreso anche (probabilmente) l'omaggio di King a Capote...con il detenuto e il topolino (qui scoiattolo).
Bellissime contaminazioni letterarie.

















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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    05 Ottobre, 2017
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Uomo di parola, anche senza indirizzo...



Una delle tante perle che ancora mancavano nel mio percorso di lettrice...

Ogni tassello della storia perfettamente congegnato ed incastrato al successivo, dove ogni occasione, promessa, vizio e contrattempo vanno a disegnare il quadro di un uomo, un clochard, che ha perduto la sua aderenza alla realtà, si è liberato da ogni tipo di responsabilità nei confronti della società e di se stesso.
Il protagonista Andreas Kartak e Joseph Roth si somigliano, entrambi consumati dall'alcool, ma sempre ancorati ad un certo tipo di dignità, derelitti sí, ma con onore.
"Uomo di parola, anche senza indirizzo..."
Entrambi provenienti da un paese che hanno dovuto lasciare, per ritrovarsi a morire in un altro.
La dicotomia tra debolezza e senso del dovere pervade tutta la narrazione.
Ma poi i bisogni del corpo prendono il sopravvento sullo spirito, immancabilmente.
La sensazione è quella di assistere alla disfatta di un uomo che desidera ardentemente di rientrare "nel mondo", ma si ritrova sempre ai margini, fuori dalla porta, sulla soglia ma mai dentro...e sempre e soltanto per colpa sua, solo sua.
Ma in fondo è proprio questa debolezza, questo suo cadere sempre in tentazione a renderlo vicino, vero, moderno.
E la fine...è la fine che Roth auspicava per se stesso, quasi volesse lasciare un testamento ("Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte tanto lieve e bella")...ma, noi lo sappiamo, le cose non sono andate così per lui.

Inevitabilmente, leggendo questa piccola fiaba novecentesca, il mio pensiero è andato al romanzo "Il sole dei morenti", che ad essa si sarà certamente ispirato...ma, non me ne voglia nessuno, le emozioni, le vibrazioni e il coinvolgimento che ho provato leggendo Izzo, viaggiano in un'altra dimensione, più vicina al mio sentire.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    28 Settembre, 2017
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...sorridi, Samia!


Samia corre, corre, corre, alza la polvere bianca delle strade, si lascia spingere dal vento...
È la piccola guerriera di Mogadiscio...con le sue gambe magrissime, le scarpe bucate, consumate da almeno altri tre piedi prima di lei, corre per sentirsi viva, vera, libera in una terra che libera non è.
Quelle piccole gambe, quelle scarpe rotte saranno il simbolo della liberazione di tutte le donne somale. 
La guerra le ha portato via il mare, ma non la voglia di andare...
Poi un giorno tutto precipita...gli integralisti prendono sempre piu potere, niente più musica, niente più cinema, niente più niente che possa alimentare i sogni.
Niente più colori negli hijab...solo nero, il nero del burqua che lascia vedere solo il nero degli occhi.
Niente più luce.
Lampioni spenti di sera per spegnere anche tutte le speranze di un popolo già in ginocchio.
Basta anche "correre"...ma non per Samia.
Lei non si ferma, anche a costo della vita.
Samia non ha paura, sa che non può averne...altrimenti tutte le cose che spaventano "si credono grandi e pensano di poterti vincere".

Arrivano le prime vittorie, le prime gare importanti...arriva Pechino e le sue Olimpiadi!
Ultima...ma anche prima.
Prima ragazza somala che sfida tutto e tutti, che corre senza avere un allenatore, senza avere muscoli adeguati, senza avere cibo a sufficienza...solo un sogno, un sogno più grande di lei, un sogno che ha il dolce sapore della libertà.
Ma l'unica vera libertà passa attraverso il "Viaggio", creatura mitologica che può portare salvezza o morte.
E il viaggio la trasforma, la distorce, la sfilaccia...le toglie tutto: la ragione, la dignità, l'aria per respirare, ma soprattutto per sognare.
Però ritrova il suo mare...

Ed ora Samia, che si fa?...tu corri, corri, corri sempre...
"E sorridi! Quando arrivi al traguardo sorridi Samia!"

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    24 Settembre, 2017
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La ferocia del branco...



La ferocia del branco.
Il branco che usa il suo potere contro chi non ha strumenti per difendersi, ma nonostante questo non chiede, non supplica, non implora...
Sopporta l'umiliazione, trascina in silenzio la sua croce.
E gli adulti dove sono? Non ci sono...e se ci sono non guardano...e se guardano non capiscono...e se capiscono ignorano.
Ciechi..."ciechi che, pur vedendo, non vedono".
Oppure semplicemente scelgono di non parlare, di non fare, di non agire.
..."bambinate", dicono...
Bambinate che possono distruggere una vita, più vite, procurare ferite che non guariranno mai.
Ma per qualcuno il passato non vuole proprio saperne di passare.
E quindi torna.
Torna dove tutto è cominciato.
Passato e presente si sovrappongono in una via crucis che rivive, a distanza di cinquant'anni, la crocefissione di chi aveva solo lampi di paura negli occhi, e sgomento, e rabbia, e impotenza, e umiliazione, e rassegnazione...e neanche una madre a piangere ai piedi della croce.
Il Golgota dell'innocenza.
Ma questa volta, dopo cinque decenni, colui che si comportò come Ponzio Pilato sceglie di non lavarsene le mani.
Partecipa a quell'ultima cena, ma c'è un grande assente: quel Gesù che, dimenticato, ha scelto di dimenticare lui stesso, sempre più intelligente di tutti, ma sempre solo...
Quelli che erano stati i persecutori sono diventati degli adulti infelici, rancorosi, insoddisfatti, fintamente inconsapevoli del male perpetrato.
Si sono autoassolti all'interno di quella maledetta parola...bambinate.

Pasolini diceva che i bambini sanno "raffinatamente" far soffrire i loro coetanei, perché la loro volontà di far del male è gratuita, è una violenza allo stato puro.
Paterlini ha avuto il coraggio di togliere tutto lo strato zuccherino che riveste l'infanzia nell'immaginario collettivo e di restituire ad ognuno il giusto ruolo e ad ogni cosa il termine esatto.

Io ho sofferto, ho sofferto tanto, ad ogni pagina (soprattutto nella prima metà), una volta finito ho fatto fatica a trovare le parole da scrivere...mi morivano tutte in gola.
Un argomento che "sento" molto...e che Paterlini ha trattato senza mezze misure, con un linguaggio terso, efficace, duro.
Come dura è la realtà di chi questo inferno lo sta attraversando o l'ha già passato...e magari continua silenziosamente a portare la sua croce.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    11 Settembre, 2017
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Demasiada belleza



Quando si dice..."essere un talento vero".
Uno scrittore che riesce a cambiare completamente registro (e quando dico completamente intendo proprio "completamente") rispetto al suo romanzo precedente ("Piccola osteria senza parole"), mantenendo non solo una forte credibilità, ma dimostrando una capacità di reinventarsi che non è affatto comune, né scontata.
È passato dalla chiusa, burbera e silenziosa provincia veneta alla dolce, sensuale e musicale provincia messicana.
Dagli avventori (e bestemmiatori) del "Punto Gilda", pronti a diffidar dello "straniero", agli abitanti di Mérida, aperti e sognatori.
Può uno scrittore italiano riprodurre quell'atmosfera lenta, soffusa, a metà strada tra il reale e il surreale, tra il terreno e il divino, tipico del realismo magico sudamericano?
Sí, può...e si chiama Massimo Cuomo.
Un realismo magico made in Italy che non ha nulla da invidiare ai suoi creatori e che su di me produce un effetto "rallentante": il tempo (anche quello della lettura) diventa sospeso, più lento e palpabile, quasi io possa toccarlo, fermarlo, dilatarlo a mio piacimento.
Forse perché adatta i battiti del cuore al dolce dondolio di un'amaca, forse perché, fondamentalmente, non vorrei uscire da questa atmosfera fatta di polvere e luce, da questa storia che ha tanto il sapore della leggenda.

È la storia di Santiago e Miguel, due fratelli che hanno dovuto fare i conti con la bellezza di uno dei due, tanta bellezza...anzi, "demasiada belleza" (troppa).
Bellezza che separa, allontana, distrugge, ma anche unisce.
Bellezza che si prende tutto, bellezza che toglie...
Quando nasce Miguel tutta la città di Mérida impazzisce per lui, affascinata dalla sua perfezione, attratta da questo bambino così bello da essere considerato quasi "divino".
Mérida femmina, Mérida innamorata...
E Santiago non ce la fa, proprio non ce la fa ad andare alla velocità di questo fratello che si mangia la vita a morsi, che possiede una curiosità e un coraggio che lui non ha, una sfrontatezza che si ciba degli sguardi che tutti, donne, uomini e persino animali, hanno per lui.
Santiago che arranca, Santiago sempre indietro, di lato, fuori dalla scena.

Un romanzo dal titolo molto rischioso, che si può prestare ad un gioco di parole facilissimo e molto scontato ("Bellissimo" è bellissimo) o restare clamorosamente schiacciato dal suo ossimoro ("Bellissimo" è bruttissimo).
In entrambi i casi siamo di fronte a dei superlativi assoluti.
Come Santiago e Miguel.
Cuomo ha rischiato, è stato coraggioso ed ha vinto, puntando tutto sul superlativo giusto.


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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    11 Settembre, 2017
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Contraddizioni e disincanto



Questo non è il racconto di uno stupro, ma solo una storia "che inizia" con uno stupro: il romanzo infatti si apre con una violenza sessuale appena consumata.
Lei, Michèle, è a terra tumefatta, coi vestiti strappati, la guancia graffiata e il corpo violato...lui, passamontagna in testa, è già andato via.
Lei non piange, non si dispera, non si lamenta...si alza, chiude la porta e si fa un bagno caldo.
Il personaggio di Michèle è una figura molto complessa, forte e fragile, sfuggente tanto quanto il suo aggressore e tutti coloro che le ruotano intorno.
Donna sotto la cinquantina, in carriera, con un ex marito frustrato di cui è ancora gelosa, un figlio venticinquenne che vuole riconoscere un bambino non suo, un amante che non desidera più, una madre ritocchino-addicted e un padre che marcisce in galera da trent'anni per un crimine aberrante.
È una donna che ha raggiunto una buona consapevolezza di sé (anche nelle sue contraddizioni), che non si sente in dovere di spiegare ogni cosa, di spiegare se stessa, che non intende fare la guerra a quella parte di sé che non conosce ancora.
La accetta, la lascia vivere...anche a costo di farsi del male.
Perdono negato, amicizia tradita, maternità mancate e maternità per caso, convivenza con i demoni ricevuti in eredità, perversione...non esistono buoni e cattivi, niente giudizi morali, non esiste salvezza in questo romanzo disincantato...e non c'è un solo rigo permeato da facile pietismo, non c'è compassione per nessuno, solo tanta tanta lucidità.

Djian riesce con pochi tratti a caratterizzare benissimo tutti i personaggi (e non sono pochi), a metterli a nudo soprattutto nelle loro debolezze e a mostrarci come ognuno di loro conviva con un suo doppio, con quella parte di sé che, per quanto inaccettabile, esiste.
È un romanzo dinamico, in movimento, non ci sono pause nella narrazione, niente capitoli, niente paragrafi, neanche un'interlinea per respirare un attimo...è un unico fiato che non dà tregua.
E lo leggi così, senza soluzione di continuità.

Mi è piaciuto moltissimo, nonostante si percepisca in modo eclatante che dietro le parole di Michèle, che è l'io narrante, ci sia uno scrittore uomo.
Ma Djian ha dichiarato di non essere interessato alla verosimiglianza, quanto al desiderio di raccontare storie crudeli sostenute da una buona scrittura.
Beh, allora questo romanzo è perfetto così com'è.

E la sorpresa più grande è stata quella di scoprire, solo a lettura ultimata, che da questo romanzo è stato tratto il film "Elle" con Isabelle Huppert.
La visione adesso è obbligatoria.



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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    11 Settembre, 2017
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"Tutto, sempre"



"Ho subìto un danno. Le persone danneggiate sono pericolose.
Sanno di poter sopravvivere."

In questa frase è concentrato tutto il senso, il dolore, la follia e lo struggimento di questo romanzo.
Chi è danneggiato lo sa, sa già che si può sopravvivere a tutto...e non ha più nessuna pietà.
Il senso di pericolo è tangibile già dalla prima pagina, la tragedia incombe come un avvoltoio sulla preda.
Lui, 50 anni e una vita fatta solo di apparenza: una bella moglie, due figli, una professione medica ben avviata, la politica, la ricchezza e il rispetto, ma nessuna vibrazione, niente che lui abbia davvero ardentemente desiderato.
Un abilissimo dissimulatore che ha vissuto fino a quel momento la vita che gli altri si aspettavano vivesse, estraneo anche a se stesso.
Se fosse morto a 50 anni tutti lo avrebbero ricordato come un buon marito, un buon padre, un buon medico...ma non è morto a 50 anni, purtroppo.
Incontra lei, 33 anni e una storia difficile, un passato irrisolto: un fratello suicida, amori sospesi, magnetismo pericoloso ed un desiderio di libertà che trascina con sé una sorta di maledizione.
Ma lei "dovrebbe" essere intoccabile, inaccessibile, vietata...è la donna di suo figlio!
Crash! Ed eccolo lì...il cortocircuito, lo scontro frontale, il deragliamento.
Quello che accadrà con questa donna non sarà esattamente una relazione, ma un qualcosa che lo consuma, che lo divora, una miscela di "lacrime e seme" che colorerà di nero le sue notti.
Possiamo chiamarla passione, fame, dipendenza fisica (e psicologica), malattia, oblio, autodistruzione...la posta in gioco è altissima e il prezzo da pagare sarà tremendo.
Ma ormai si è già oltre, il danno si è insinuato come un acido, bruciando e distruggendo tutti gli anni già vissuti, cancellando ogni traccia di lucidità.
Dall'assenza di caos al delirio.
Un'apparente rinascita che però è già morte annunciata.

La Hart ci offre una finestra sul classico "eros e thanatos", servendosi di un registro elegante e raffinato, mai eccessivo...eppure dirompente.
La perfezione estetica dell'alta borghesia inglese con i suoi rapporti freddi e cortesi va a scontrarsi con il degrado morale che può esservi in essa contenuto...così lo stile sobrio e altero della scrittura s'immerge nelle acque torbide di ciò che racconta.
È un romanzo tossico, che può risultare urticante, ma in cui vuoi scavare, sporcarti le mani per vedere cosa c'è dopo, dopo l'abisso, dopo il danno irreversibile.

(P.s.: Eh no, non ho ancora visto il film, ma se mantiene lo stesso livello del libro, sarà sicuramente bellissimo e sconvolgente.)

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    09 Settembre, 2017
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Ombre che vanno, ombre che vengono...



"Quindi anche tu non ti fidi di me?"
"No, te l'ho detto. Io di Rocco mi fido e lo farò sempre. Ma sei pure il vicequestore Schiavone, e questo non lo puoi cancellare."

Rocco dalle mille sfaccettature.
Rocco uomo, poliziotto, amico, amante...
Rocco che si sente portatore sano di veleno, che teme di distruggere la vita di chiunque gli orbiti intorno: le donne che avvicina, gli amici di sempre...
Rocco che smussa gli angoli e si concede qualche curva, riscoprendosi ancora capace di amare...e pentendosene poco dopo.
Sconfitto, tradito...
Sconfitto ad un tavolo a cui non è stato neanche invitato a giocare, battuto dallo stesso Stato per il quale lavora e costretto a seguire soltanto delle ombre.
Mentre l'unica ombra che lui desidera vedere davvero, non si fa trovare più...

Sempre meglio.
Sempre più intenso, più maturo, più umano.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    13 Agosto, 2017
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Crediamo di conoscere la persona che amiamo



Questa è una storia d'amore, o forse è una storia di guerra.
La guerra combattuta da chi la guerra non l'ha fatta, la guerra dei "vigliacchi", degli imboscati, di chi si è tirato indietro, si è nascosto, si è rifiutato di fare quel fatidico passo avanti, rischiando comunque d'impazzire.
È la storia di due di questi uomini e di una donna.
Ma no, non sarà lei l'oggetto del contendere.
In questo romanzo niente è come sembra.
Doveva essere la storia di un matrimonio, ma poi la guerra, come tutte le guerre, "si è conficcata dappertutto con le sue schegge di dolore"...ed ha cercato di alterare il suo naturale procedere, generando altre storie possibili.
"Si dice che esistano tanti mondi quante sono le nostre scelte".
Ma per la nostra Pearlie Cook, giovane donna di colore, sposata con Holland, madre di un bimbo poliomelitico, esiste un solo mondo, una sola vita, un solo uomo...e sta per perderlo.
Lui, quello dal "sangue cattivo, dal cuore inverso"...l'avevano anche avvisata (attenta, non sposarlo!) ma lei non aveva voluto capire, non aveva neanche ascoltato.
Troppa vita davanti, troppo futuro.
Ma poi, diciamoci la verità, come si può raccontare la storia di un matrimonio?
"...chi guarda una nave dalla costa non può giudicare la sua capacità di tenere il mare, perché la parte importante è sempre immersa sott'acqua: non si vede".
Mai similitudine fu più calzante.

Questa è anche la storia di un'America degli anni '50 profondamente segnata dalle leggi razziali, retrograda e reazionaria, l'America che giustizia i coniugi Rosenberg.
Ma, sopra ogni altra cosa, è la storia dei non detti, delle cose taciute, del silenzio...che genera caos, fraintendimenti.
"Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo".
Crediamo di sapere, di capire, crediamo di volere, persino di scegliere...ma, alla fine, forse forse, basterebbe solo "parlare".

Andrew Sean Greer scrive benissimo, sa come tenerti legata alle pagine, sa "affamarti".
Ha scritto una storia (molto bella) che non si può raccontare, senza rovinarla.
Un po' come un matrimonio.




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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    31 Luglio, 2017
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Spiritualità spicciola...



Difficilmente scrivo commenti "tranchant" sui libri, anche su quelli che non mi son piaciuti...ma con questo faccio davvero fatica a contenermi.
Una delusione su tutti fronti, ma proprio tutti...
Una sorta di diario di viaggio con l'ambizione di assumere le sembianze di un documentario sugli aborigeni australiani, dal taglio nettamente spirituale.
Trattasi però di una spiritualità da due soldi, così banale da far rimpiangere l'alchimista di Coelho.
E ho detto tutto.
Peccato poi scoprire anche che tutto ciò che hai letto è stato inventato dall'autrice.
"Inventato".
Praticamente una truffa.
Aggiungiamoci anche una scrittura banale e un valore letterario non pervenuto...ed ecco che il quadro è completo.
Tutto il libro gira intorno al pronome "io"...io, io, io, io di là, io di qua, io così, io cosà.
Fastidiosissimo.
Ci sono delle parti a dir poco imbarazzanti per quanto risultino ridicole.
Ma che davvero?...
Telepatia?
Fratture ossee curate con la sola imposizione delle mani e "parlando all'osso"? Animali che si offrono spontaneamente per essere uccisi e sfamare la tribù?
Ma la vera chicca, per me, è la lettera finale a nome di un aborigeno della tribù che le avrebbe fatto dono di questa esperienza illuminante, un certo Burnam Burnam, in cui dichiara di aver letto il libro, e la ringrazia per aver reso onore al loro modo di vivere e alla loro filosofia di vita.
Peccato che per tutte le 220 pagine non abbia fatto altro che ripetere che tale tribù era analfabeta...nessuno sapeva né leggere né scrivere.
Le basi proprio...

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    31 Luglio, 2017
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"I bambini amano sempre", ma..



Come si può commentare questo libro senza fare spoiler?
Impossibile, ma ci provo.
Quindi la prendo alla larga e parto dicendo che, per me, il titolo è bruttissimo, di quelli banali che proprio "allontanano", la copertina è orrenda e respingente, la scrittura è piana, lineare, semplice (forse troppo)...ma la storia prende.
Tocca una tematica forte che non ti permette di rimanere indifferente, cerca di farti prendere una posizione netta, mentre tu sei lì che oscilli continuamente.
Vorresti schierarti con decisione dalla parte del "giusto", ma poi non ce la fai, ti lasci trasportare...e alla fine non lo sai neanche più cosa sarebbe davvero "giusto" fare.
Il tema della maternità è difficile da affrontare perché va a toccare la parte più indifesa dell'universo...i bambini.
Alla fine a pagare sono sempre loro.
Sono i bambini che sanano le ferite degli adulti inferte dal loro stesso egoismo smisurato, mentre a loro non rimane che il tempo "gran dottore", quello che aggiusta tutto, che fa dimenticare...
"I bambini amano sempre"...sì è vero, ma a che prezzo?
Io, comunque, la mia decisione l'ho presa, mi sono schierata e, alla luce di questo romanzo, dico "no".
No, la maternità non è un diritto da perseguire a tutti i costi.
Non può essere sorretta da un "mors tua, vita mea".
Non si dovrebbe mai basare la propria felicità sull'infelicità di qualcun altro...perché in questi casi il dolore si moltiplica, si propaga a macchia d'olio, sempre.

Ma questo è anche un romanzo sulla differenza fra solitudine e isolamento, sugli opposti di "luce" e "ombra" generati dal Faro, che poi è anche metafora di amore e colpa, salvezza e pericolo...sulla possibilità di riscattare i propri errori.
È un libro sulla "perdita": tutti perdono qualcosa, nessuno escluso.

La storia è intensa e struggente, credevo di dare fondo alla scatola dei kleenex, ed invece no, niente lacrime...forse a causa di una scrittura troppo lieve, non incisiva, descrittiva, ma non penetrante, senza picchi di pathos, senza affondi.
Peccato, poteva essere un gran libro.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    26 Giugno, 2017
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La fine di un matrimonio che non muore...



Che stilettata...
Uno di quei romanzi che non fanno sconti, che non edulcorano, e se, per sfortuna,  ti ritrovi anche solo marginalmente in qualcuna delle situazioni analizzate, non hai via d'uscita...rimani imprigionato lì, tra quei lacci invisibili fatti di sensi di colpa, rancore mai sopito, rimorsi, rimpianti e ipocrisia.
Potremmo considerare questo romanzo come il manifesto più rappresentativo e spietato della "disgregazione della famiglia".

"C'è una distanza che conta più dei chilometri e forse degli anni luce, è la distanza dei cambiamenti."

Già, perché alla fine, la chiave di tutto è nella parola "cambiamento".
Le persone cambiano, cambiano i sentimenti, gli sguardi, cambiano i pensieri.
Il cambiamento fa paura a tutti, a chi lo mette in atto e a chi lo subisce.
Fa così tanta paura che spesso, molto spesso, si torna indietro...non si riesce ad andare fino in fondo, a lasciarsi alle spalle scie di dolore o semplicemente il timore di perdere la sicurezza di un ruolo, il tuo, quello che tutti (tu per primo) si aspettano che tu rivesta.
Ed è allora che comincia il valzer dell'ipocrisia, del rigurgito del dolore...perché quello non passa, mai, è sempre lì pronto a venir su, ed è un attimo che un colpo di tosse si trasformi in un conato.
Si impara in fretta che l'unico modo per sopravvivere è la reticenza, il silenzio.

"...abbiamo imparato entrambi che per vivere insieme dobbiamo dirci molto meno di quanto ci taciamo."

Alla fine l'unica cosa che realmente accade è che questi lacci, con i quali un uomo e una donna si sono torturati reciprocamente per una vita intera, hanno strangolato l'unica cosa bella e preziosa a cui avevano dato vita, i figli.
E qui l'amarezza raggiunge vette altissime...

Quattro personaggi (marito, moglie e due figli) illuminati nella loro miseria, nelle loro meschinità e debolezze.
Starnone non salva nessuno, proprio nessuno, neanche il gatto...

La fine di un matrimonio che non muore. O forse sì.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    26 Giugno, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

A.A.A. Malinconico cercasi..



Questo terzo appuntamento con l'avvocato Malinconico non è stato all'altezza dei primi due...per un semplice motivo: Malinconico non c'è, non pervenuto.
Si tratta, a mio avviso, di una raccolta di piccoli saggi, per carità...carini, acuti, interessanti, ma slegati fra loro, non incastonati minimamente in una storia, se pur debole, che veda il nostro avvocato in prima linea.
Lui è sullo sfondo, messo lì quasi di forza per poter inserire questo libro nella serie a lui dedicata.
Una piccola furbata, su.
Appunti sparsi, riflessioni un po' random...bellissime le esegesi delle canzoni di Raffaella Carrà, però però...
La penna di De Silva è sempre piacevolissima...il suo sguardo attento, acuto ed indagatore del nostro modo di vivere, di relazionarci con gli altri (ma anche con noi stessi) è sempre quello, e di buon livello.
Ma io volevo lui, cercavo lui...
In "Mia suocera beve" Malinconico dice:

"Io rimugino tantissimo. Quando cammino. Quando lavoro. Quando mi diverto. Quando mi compiango. Quando faccio l'amore.
Soprattutto quando non lo faccio."

Ecco, in questo libro ci sono solo le sue rimuginazioni, solo quelle.
Ma lo perdono...e continuerò a leggerlo.
 

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...a chi a già letto gli altri libri con Malinconico.
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    23 Giugno, 2017
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Avvocato d'insuccesso



Dopo una lunga pausa dal divertente "Non avevo capito niente" (non chiedetemi perché, visto che mi era pure piaciuto tanto...ma qui, tra tanti libri, è facile perdere la rotta), mi sono decisa a proseguire con le elucubrazioni dell'avvocato Vincenzo Malinconico, un vero "avvocato d'insuccesso", tendenzialmente confuso, moderatamente pigro e indolente, sentimentalmente incasinato, sufficientemente intelligente e dannatamente simpatico.
Malinconico è un uomo consapevole di essere quello che è, un uomo normale.
A volte brillante, a volte pessimo.
Non è un duro, non lo è mai stato.
È uno che quando c'è da prendere una decisione cerca sempre d'imboccare strade alternative, perché per decidere devi essere convinto e lui non è quasi mai convinto di nulla: è più un tipo da opzioni.
È succube dei suoi stessi pensieri, pensieri che vagano liberi nella sua testa, sfuggenti, promiscui, ostinati nel non farsi "catturare".
Un uomo che non riesce mai a trovare la risposta giusta al momento giusto, ma che ogni volta gli viene in mente quando torna a casa, fuori tempo massimo, quando non vale più, quando non serve a niente...
E allora per prendersi la rivincita sulle parole, scrive.
Vincenzo Malinconico è un uomo a cui spesso sfugge l'andazzo della vita, che si percepisce "guasto", ma incapace di "ripararsi", consapevole di perdere pezzi senza neanche cercare di capire dove siano andati a finire...
Fa battute spiritose, ma non scommetterebbe mai su se stesso.
Non sopporta la sua ex-moglie, ma adora sua suocera (quella che beve Jack Daniel's, sì)...e che non è "ex" perché le suocere lo sono già di default.
Sa benissimo di non essere all'altezza di quello che dice, eppure lo dice lo stesso.
Se potesse scegliere chi riportare in vita, richiamerebbe Massimo Troisi, adora De Andrè e piange guardando "L'ultima neve di Primavera".

I libri su Malinconico non hanno una vera e propria trama/storia all'interno, e se ce l'hanno è comunque debole, serve solo a "supportare" i pensieri del protagonista.
Si tratta di "situazioni narrative" in cui ti ci ritrovi, ti specchi...ti ritrovi a dire: "Porca miseria, è vero! È proprio così".
De Silva è uno scrittore a doppio fondo, un po' superficiale e un po' profondo, un po' stupido e un po' geniale, un po' scontato e un po' originale.
Il suo pregio più grande è quello di riuscire a trovare il comico nel tragico!
Quando lo leggo ho sempre la sensazione di parlare con un vecchio amico che sa tutto di me...ed è bello.

Insomma, tutto questo per dire che c'è chi perde la testa per i vari MrDarcy, Heathcliff, Mr Rochester...e poi ci sono io...che impazzisco per Vincenzo Malinconico.
Praticamente una sfigata!

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    11 Giugno, 2017
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La reinvenzione dell'amore



Sono da più di 20 minuti davanti a questo foglio bianco in attesa delle parole giuste per parlarvi del libro, che immaginavo fosse bello sí, ma non così tanto.
Perché vorrei raccontarvi tutto, farvi provare quello che ho provato io, ma, nello stesso tempo, so di non poterlo fare...
I personaggi di questo meraviglioso romanzo-verità non sono propriamente degli sconosciuti...parliamo di Victor Hugo, sua moglie Adèle e il poeta e critico letterario Charles Saint Beuve.
Marito, moglie e amante.
Quella che sarebbe potuta essere un'ennesima, banalissima storia di tradimento, di amore negato, si trasforma attraverso la penna della Humphreys in 238 pagine di altissima qualità, di scrittura elegante e raffinata, di un trascinante, doloroso e decadente spaccato storico e letterario della Francia dell''800.

Facciamo la conoscenza ravvicinata di un grande scrittore che, se sulla carta ha voluto raccontare e farsi portavoce della vita dei miserabili, nella realtà sognava e millantava nobili natali inesistenti, pretendeva amore, rispetto e dedizione come se fossero condizioni di cui dovesse godere di diritto.
Non riusciva ad amare altri se non se stesso...aveva talento, successo ed un ego smisurato che inghiottiva tutti coloro che gli orbitavano intorno.
Un uomo che alimentava il proprio genio bruciando chiunque gli stesse accanto.
"Non c'era modo di salvarsi da Victor".
E lo dimostra il fatto che io, adesso, stia parlando di lui...mentre i veri protagonisti della storia sono Adèle e Charles, e il loro amore.

Una "reinvenzione" dell'amore... (come da titolo originale)...perché Adèle s'innamora di un uomo che non potrà mai amarla in senso fisico, causa una disfunzione sessuale (su cui Eugenides ha scritto un meraviglioso libro), ma che saprà finalmente metterla al centro dell'universo, saprà ascoltarla, renderla vera protagonista dei suoi sentimenti...e non semplice musa usata e dimenticata.
Lo amerà più dei suoi stessi figli, che però non abbandonerà...e forse questa sua scelta, apparentemente encomiabile, sarà la loro vera condanna.
Costretti da Hugo ad un esilio forzato, perderanno tutti qualcosa...chi l'amore, chi la vita, chi gli stimoli per realizzarsi, chi la ragione...
Le pagine dedicate alla figlia Dedè, impazzita d'amore per un ufficiale inglese, e poi rinchiusa in manicomio (da suo padre) per più di 40 anni, sono bellissime, dolorosamente bellissime e struggenti.

Storia vera (e documentata) di un amore trentennale, consumato nell'arco di pochi giorni, ma sopravvissuto a tutto, alle convenzioni sociali del tempo, all'assenza, alla distanza, ai rimpianti...

"Ti affido il nostro amore, Charles.
Ho bisogno di trovare un po' di pace.
Ho bisogno di dimenticare.
Ma vorrei che tu ricordassi.
Che lo facessi per entrambi."

Incantata ?.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    05 Giugno, 2017
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Dietro un grande uomo...



Non si può parlare di questo libro senza riportare il suo incipit meraviglioso, poetico, immagine di quello che, universalmente, rappresenta l'amore, quello vero, che dura per tutta la vita.

"Stai per compiere ottantadue anni. Sei rimpicciolita di sei centimetri, non pesi che quarantacinque chili e sei sempre bella, elegante e desiderabile.
Sono cinquattotto anni che viviamo insieme e ti amo più che mai.
Porto di nuovo in fondo al petto un vuoto divorante che solo il calore del tuo corpo contro il mio riempie."

Che dire...parole stupende.
Eppure questa non è semplicemente una lettera d'amore.
Questa è una lettera di scuse...per non aver riconosciuto prima l'importanza di questa donna, per non averla resa protagonista dei suoi scritti precedenti, quando non era ancora consapevole di amare il suo amore per lei.
È un tentativo, in extremis, di mettere Dorine, la propria donna, al centro di tutto. Ora che sta per perderla.
È come se lui volesse risarcirla di qualcosa che non è stato in grado di darle per 58 anni, un dichiarare pubblicamente che se non ci fosse stata lei, lui non sarebbe stato quello che è stato (scrittore, filosofo, giornalista, intellettuale impegnato politicamente...).
Lei gli ha dato tutta se stessa per tutta la vita...lui, alla scoperta della malattia (di Dorine) decide di andare in pensione e dedicarle tutti gli anni che le restano...e che saranno ventitré.

Il libro si chiude così come è iniziato:

"Hai appena compiuto ottantadue anni....
Ciascuno di noi vorrebbe non dover sopravvivere alla morte dell'altro.
Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo una seconda vita, vorremmo trascorrerla insieme."

Esattamente un anno dopo questa lettera, André Gorz e sua moglie Dorine sono stati trovati uno accanto all'altro, nel loro letto, suicidati con un'iniezione letale.
Non volevano vivere l'uno senza l'altro...se l'erano promesso e hanno mantenuto fede al patto.
Perché l'amore esiste.
A volte finisce...e a volte no.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    01 Giugno, 2017
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Io...fra loro.



Quanta delicatezza, quanto pudore, quanta "vita" c'è in questo memoriale che Ford scrive sui suoi genitori!
Partiamo dal presupposto che scrivere del proprio padre e della propria madre è sempre difficilissimo, perché chi racconta, chi scrive, non è "altro da loro", ma qualcuno che ha vissuto gran parte della vita "tra loro"...e proprio per questo motivo ha più difficoltà a guardarli da una certa distanza, come persone che si rapportano non solo con lui, ma anche con il resto del mondo, che hanno un passato che appartiene solo a loro e una vita interiore che può essere inficiata dal sentimento.

"L'incompleta conoscenza delle vite dei nostri genitori non è una condizione delle loro vite. È una condizione soltanto delle nostre".

Chi sono realmente i nostri genitori?
Chi erano e cosa pensavano prima di noi?
Quali erano i loro sogni, le loro aspirazioni?
Sono stati davvero felici?
Queste sono solo alcune delle domande a cui Ford cerca di dare una risposta, senza inventare, senza romanzare nulla, ma basandosi solo su ciò che ha visto, su quello che gli è stato raccontato, sui suoi ricordi.
E con la consapevolezza che la loro vita è stata sicuramente molto altro (e molto di più) che questo...

Ne viene fuori un ritratto lieve e struggente di un padre commesso viaggiatore, grande e grosso, troppo assente, ma che con la sua assenza è riuscito ad insegnargli che la gente viene e va e che la stabilità è un qualcosa che bisogna crearsi da soli, trovandola dentro se stessi.
Una madre piccola e volitiva che ha dedicato la vita, prima della sua nascita, al marito, seguendolo nel suo lavoro, vivendo praticamente in auto con lui, felici di questo.
Felici.
L'arrivo di un figlio, desiderato e amato, cambia tutto...ma non il loro amore.

Alla fine Ford ci vuole raccontare una storia "vera", né migliore né peggiore di altre, una storia senza eroi, piena di vuoti e densa di pieni.
Una vita filtrata dal tempo, dove tante cose sono andate perdute, tranne l'amore...e "l'amore, come sempre, è causa di bellezza".





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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    26 Mag, 2017
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Un imbucato alla festa del Regno...



Ho volutamente iniziato questo libro senza avere letto l'attacco della Marzano e tutto il gran parlare che se ne è fatto attorno.
Volevo essere libera da condizionamenti.
Ciononostante qualcosa si era comunque insidiato nella mia mente, avevo delle aspettative ed ero pronta ad impattare in determinate situazioni (ed eventuali emozioni).
Ed invece ho trovato altro.
Tutt'altro.
Questo, per me, non è un romanzo sul tema della pedofilia (che fa la sua comparsa dopo la prima metà), su una Chiesa allo sbando e sui risvolti morali che ne conseguono, o perlomeno non è solo questo.
Ho trovato una fotografia spietata ed impietosa della nostra società, della miseria umana, della nostra pochezza di fronte ad una realtà che non siamo assolutamente capaci di affrontare.
Attorno al nostro prete protagonista (che potremmo definire pedofilo non praticante), forse alter ego dello scrittore, forse proiezione dei suoi peggiori incubi, ruotano una serie di personaggi disperati e disperanti, portatori sani del peggio del peggio che il ventre del nostro tempo sia stato in grado di partorire.
Desolazione a profusione.
E poi una dissertazione piuttosto articolata e approfondita sulla fede, sul rapporto tra Dio e Satana, su religione e perversione, sul desiderio (quello distruttivo), su azione ed intenzione, su un Cristianesimo ad alta digeribilità.     
Il personaggio di Don Leo fa da veicolo e dà voce ad una serie di dubbi etici e morali, si mette in discussione nella misura in cui non riesce a comprendere un Dio che lo condanna per i suoi pensieri, ma continua a cercarlo, concedendogli anche una sorta di serenità abusiva, che non merita.
Un sacerdote assolutamente imperfetto, che, paradossalmente, si macchia di "eccesso di morale".
Non è un libro facile, né tantomeno consolatorio.
È sicuramente un libro teologico, scritto da un ateo.
Non so neanche dire se mi sia piaciuto o meno...
Mi ha lasciata turbata, a tratti annoiata, un po' infastidita, spesso ammirata.
E forse già questo mio sentirmi combattuta fra sensazioni contrastanti è da considerarsi effetto collaterale di una lettura che ha smosso qualcosa.
E non è poco.
Eppure qualcosa non mi ha convinto, ma più che nei contenuti direi nella struttura: un continuo confondere le voci, dialoghi confusi e disordinati che si accavallano a dialoghi interiori, personaggi che spuntano dal nulla.
Ecco, la costruzione del romanzo non è stata affatto nelle mie corde, l'ho trovata slegata e disomogenea.
Ma la scrittura è alta e il finale, degno di Lucifero, mi ha lasciato letteralmente stordita, e mi ha in parte ripagata dei momenti no.
La vera colpa di Siti, forse, è stata quella di aver scritto un libro in cui è riuscito a vestire di dignità il mostro (mi viene in mente Humbert Humbert)...e di aver creato personaggi così osceni da mettere in ombra l'oscenità di chi avrebbe dovuto catalizzare tutto il nostro disprezzo.
Alla fine ti senti un po' tradita dalle tue stesse sensazioni, avverti qualcosa di scorretto...

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    24 Mag, 2017
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Grande donna...


150 pagine in cui, apparentemente, non accade nulla...eppure in questo "nulla" c'è una vita intera.
La vita di Gina, detta "Ruggine".
Una vita infelice, che anno dopo anno l'ha incurvata, le ha piegato la schiena, le ha tolto un marito (forse mai amato veramente), poi un figlio mostro (che ha odiato veramente), ma anche la rispettabilità (in un paese "vecchio" e crudele come tutti coloro che lo popolano), senza però mai riuscire a spezzarla.
Tenace Gina...non s'arrende.
Tutti la vogliono morta, o quantomeno lontana, perché macchiata di una colpa che in realtà non ha commesso, anzi...che ha subito.
Ma quanto è facile puntare il dito su chi già sta soffrendo, su chi non ha piu niente, proprio niente, se non i suoi dolori, un vecchio corpo e piccole briciole di dignità tenute insieme da un bicchiere di vino, una misera pensione e un gatto.
Come è facile condannare chi, per sopravvivere al più atroce dei tradimenti, si è chiuso nel suo guscio, riuscendo perfino a "non ricordare" ciò che una donna/madre non può accettare senza diventare pazza.
Ma la cattiveria del mondo riuscirà a lacerare la corazza, a penetrare nella sua roccaforte e ad illuminare quelle stanze del cuore che erano volutamente rimaste chiuse, al buio.
Ma Gina nel mondo vuole credere ancora, le basta un gesto di umanità da chi è "straniero" come lei, non importa se nascosto dietro una tonaca senza fede o dietro la musica del violino di uno zingaro.
A Gina basta un mozzicone di rossetto, un cartoncino e due cassette di frutta capovolte per credere di poter ricominciare.
Credere, appunto.
La vita non la risparmia fino all'ultimo, negandole persino la possibilità di lasciare questo mondo che non la vuole...perché la morte, di fronte a tutto il suo coraggio, la sua tenacia, la sua forza interiore, arretra e non la riconosce.
Gina in fondo ha perso tutto, ma ha vinto.
Ed io la amo.
 

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    19 Mag, 2017
Top 50 Opinionisti  -  

...e via discorrendo



"È BUFFO. NON RACCONTATE MAI NIENTE A NESSUNO.
SE LO FATE, FINISCE CHE SENTITE LA MANCANZA DI TUTTI"

Prendete un tipo come Holden Caulfield, con la sua infanzia schifa, il suo berretto rosso da cacciatore con la visiera girata, tutti i suoi "vattelappesca" e compagnia bella.
Prendete la sua dannata voglia di fuggire da tutto e tutti, il suo mettere in discussione chiunque, le sue contraddizioni, il suo rimanere secco di fronte ai libri che gli piacciono e alle donne, sì perché le donne lo fanno proprio ammattire.
Prendete la sua smania di sapere dove diavolo vanno le dannate anatre di Central Park quando arriva l'inverno...
Prendete questo ragazzino di 16 anni che alla domanda "Che cosa vuoi fare? Che cosa vuoi fare veramente?"...lui risponde che vuole fare "l'acchiappatore nella segale".
Vuole essere un verso sbagliato di una poesia!
Vuole salvare i bambini prima che cadano in un burrone mentre giocano...vuole salvare i bambini dal mondo adulto con tutto il suo dannato conformismo, con la sua maledetta ipocrisia e via discorrendo.
Prendete il suo bisogno di parlare col fratellino che non c'è più quando si sente giù di morale, l'amore per la "vecchia Phoebe" (la sorellina di 10 anni)...il suo essere un po' sbruffone, un po' vigliacco, un po' ateo, un po' vergine.

Prendete Holden e tutte queste cose...e ditemi se non vi viene una gran voglia di abbracciarlo...perché dietro tutti i suoi discorsi apparentemente strampalati, il suo linguaggio adolescenziale, le sue continue fughe, si cela una grande, enorme solitudine, e una protesta.
Un grido disperato contro tutto ciò che lui non vuole diventare.

E accidenti se m'è piaciuto questo dannato libro, m'è piaciuto tanto da lasciarmi senza fiato.
E se c'è una cosa che mi lascia senza fiato sono proprio i libri così, con questa scrittura colloquiale che mi manda "in sollucchero", che sembra andare sempre "fuori tema" ed invece è più in tema che mai.

Avrei voluto scrivere questo commento molto meglio, fare riflessioni profonde, usare un linguaggio alto, ma "queste sono cose che per farle bene bisogna essere in vena".
E non lo so mica se a quarant'anni suonati io abbia davvero trovato "la taglia giusta della mia mente", o sono ancora qui a provare idee che non mi si addicono, che non sono adatte a me, o che so io.
Però sono certa che Holden, in qualche modo, la sua dannata taglia l'abbia trovata, eccome!


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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    13 Mag, 2017
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...perché l'amore finisce.



I protagonisti di questa storia sono due uomini: un giovane e benestante pittore madrileno trasferitosi a Parigi, e Michel, maturo operaio parigino di quasi trent'anni più grande senza grandi mezzi, le camicie a quadretti e le unghia nere.
È il giovane artista che ci parla, in una sorta di confessione in cui ci racconta del loro amore, esploso in una notte in cui lui non aveva neanche un posto in cui dormire, quando si è lasciato aiutare e sedurre da quest'uomo forte come una roccia e dal passato triste, fatto di povertà, della mancanza di un padre e di una madre debole, troppo debole per evitargli la presenza di un patrigno indigesto.
Ci racconta della casa di Michel, che poi è diventata anche la sua, umile e buia, delle serate passate nei bar a bere pastis e poi a far l'amore, che nell'idillio della passione rappresentava tutto ciò di cui aveva bisogno, ma ci racconta anche...cercando in qualche modo quasi di giustificarsi...di come tutto questo col tempo è diventato soffocante, pesante, di come l'amore possa finire.
E mentre Michel non desiderava nient'altro che lui, sapeva cosa fosse l'amore e sapeva che ciò che provava era proprio quel tipo di sentimento...eterno e indistruttibile, come l'amore dovrebbe essere, lui sentiva il rumore del "tarlo", la presenza di un sassolino nella scarpa, un fastidio che pian piano si tramuta in dolore insopportabile.
E neanche la malattia che colpirà Michel, quella malattia da loro tanto temuta, potrà riportare in vita il sentimento iniziale...anzi, quando l'accudimento non è sorretto dall'amore scivola facilmente nella pena, nella compassione, anche nel rancore...perché specchio di ciò che potrebbe succedere anche a lui.

Un romanzo pieno di contrasti: crudo, ma che trabocca di sensibilità.
Potente, ma delicatissimo.
C'è chi muore con l'amore ancora conficcato nelle pieghe, e in questo caso nelle piaghe, della pelle e chi se lo vede sfuggire dalle mani.
C'è chi muore sussurrando fra le labbra "portami con te"...e chi è già andato via da un pezzo.
Un libro che non ha paura di mostrare il lato più egoista dell'amore, quella parabola discendente che va dall'attrazione folle alla muta separazione, dalla vita alla morte...senza riuscire a dare spiegazioni plausibili.
Perché spesso non ce ne sono...semplicemente l'amore finisce.
Come la vita.

(Libro postumo dell'autore spagnolo, venuto a mancare all'età di 66 anni, dopo una breve e fulminante malattia.
Questo viene considerato una sorta di suo testamento.)

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    12 Mag, 2017
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Niente è come sembra...



"Mia moglie si è sparata ieri pomeriggio.
O almeno questo è quanto ritiene la polizia, e io interpreto la parte del vedovo affranto con entusiasmo e con successo.
Vivere con Sarah mi ha insegnato a ingannare me stesso, e l'ho trovato anch'io, come lei, un eccellente modo per imparare a ingannare gli altri.
Naturalmente io so che lei non ha fatto niente del genere."

Inizia così, con un incipit bellissimo, questo romanzo che altro non è che un viaggio nella memoria.
Dopo oltre 50 anni un uomo si ritrova a dover comunicare con il se stesso ventenne, a togliere la polvere sotto cui ha seppellito fatti e immagini che avrebbe voluto dimenticare per sempre, a cercare di capire quale sia stato il momento esatto in cui le cose hanno preso la piega che poi ha portato alle conseguenze a lui così ben note.
Qual è stato il momento esatto in cui ha smesso di essere "innocente"?
La sincerità è l'unica cosa che gli resta per riparare alla sua colpa...e intraprendere questo viaggio nelle parti oscure del suo passato diventa imprescindibile.
Quanto, cosa, e soprattutto chi, si è disposti a sacrificare sull'altare del proprio amore?
Quanto può essere calda e rasserenante la coperta dell'inganno?
E quanto atroce una vendetta?

Ripercorrere col pensiero tutta la propria vita, gli errori, i sensi di colpa, le condanne autoinflitte, le debolezze, ci permette di imparare a conoscerci meglio.
Ci permette di piangere ciò che siamo stati, ancor più di quello che siamo poi diventati.
Ovviamente osservare tutto con la consapevolezza di chi "già sa" ci pone in una posizione comoda, privilegiata...da cui risulta facile riconoscere "quanto avremmo potuto essere felici se...".
Questo è ciò che fa James.
Smette di ingannare e di ingannarsi. Si guarda indietro senza fare sconti a nessuno, prima di tutto a se stesso.

"Le bugie sono le sbarre di una prigione, col tempo si solidificano; e una volta che le hai costruite e te ne sei circondato, tutto è perduto."

Mason fa un'operazione di scavo psicologico notevole, e ti spalanca le porte dell'autoanalisi, della riflessione personale sui grandi temi della vita: l'amore (quello puro e quello colpevole), il peccato, la colpa e la sua espiazione, il perdono, la giustizia, la capacità di manipolazione, il coraggio della verità e le sue conseguenze.

Questo romanzo inizia con una buona dose di spietato cinismo e finisce col farti provare grande struggimento...passando per un arcobaleno di emozioni e sensazioni.
Giri l'ultima pagina e ti senti davvero alla deriva...

Unico neo, secondo me, è la collocazione temporale...ha tutte le caratteristiche del romanzo ottocentesco, che stridono un po' con gli anni '90, rendendo poco plausibili alcune cose, ma dopotutto Mason aveva solo 21 anni quando l'ha scritto.
Quindi...chapeau.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    09 Mag, 2017
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Un grido disperato...



Afghanistan, forse...ma anche altrove.
In una stanza c'è un uomo su un letto rosso, immobile, vivo, con un proiettile conficcato nella nuca.
Accanto a lui una donna con un rosario in mano che prega, prega, prega...ininterrottamente prega da sedici giorni tutti i nomi di Allah.
Prega al ritmo dei respiri di lui, che ormai ha imparato a memoria.
Fuori dalla stanza, nel corridoio, ci sono due bambine piccole...
E fuori dalla casa...spari di kalashnikov, bombe, esplosioni, grida, paura.
Fuori c'è la guerra.
La donna è stanca, arrabbiata, disperata...tanto da riuscire a trovare, di fronte a quel marito inerme, incapace di reagire, la forza e l'audacia di parlare fuori dai denti, di dire cose proibite che mai avrebbe osato dire...su di lui, sulla loro vita insieme, sulla famiglia di lui, ma anche sulla propria.
E di fare cose che mai le sarebbe stato consentito fare...
Gli urla contro parole ribelli, tutta la sua insoddisfazione, il suo disprezzo.
Urla con la voce di tutte le donne della sua terra, voci sepolte da migliaia di anni di abusi, di ingiustizie, di sottomissione.
Lo accusa di aver preferito le armi a lei, alle sue figlie, d'altronde..."chi non sa fare l'amore, fa la guerra".
Ebbene sí, gli rimprovera anche questo: di averla sempre posseduta con violenza, di fretta, senza curarsi del suo corpo e del suo piacere.
Lo riempie di parole, di rivelazioni, di segreti inconfessabili...perché solo liberandosi di tutte le parole taciute potrà sentirsi veramente libera.

Piano piano lui diventa per lei la sua "Pietra di Pazienza", quella pietra preziosa che ascolta, assorbe tutte le parole, i segreti, le sofferenze, fino a quando non va in frantumi...e sgretolandosi libera da tutti i dolori.
"È una pietra per tutti gli infelici della Terra".

Straordinariamente affascinante.
Questo romanzo ti rapisce e ti tiene in ostaggio fino al suo epilogo, ammaliandoti con la sua scrittura asciuttissima, così asciutta da seccarti la gola, accompagnandoti con il suo incedere lento, ma interrotto da improvvise impennate di rabbia e disperazione, facendoti trattenere il fiato di fronte al riscatto feroce di una donna che rivedica il suo diritto all'amore, alla felicità, ma soprattutto all'ascolto...in un posto dove l'importanza delle sue parole è tragicamente vicina allo zero.

Confesso di aver letto il libro convinta di avere sotto gli occhi un romanzo scritto da una donna, tanto la rabbia della protagonista si fa tangibile, pulsante, disperatamente intima...solo alla fine scopro, con non poco stupore, che l'autore è un uomo, afgano.
E che ha scritto questo libro non nella sua lingua, ma direttamente in francese...per non sentire il peso dell'autocensura che la sua lingua madre, sacra, gli avrebbe inevitabilmente imposto.
E lì ho capito che tanto liberi, in fondo, non sono neanche gli uomini...


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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    05 Mag, 2017
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Calcoli renali o mal d'amore?...



Questa è la storia di una donna, di cui non sapremo mai il nome, raccontata da sua nipote.
È la storia della Sardegna ai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
È la storia di come la sensibilità, l'immaginazione, l'arte e la poesia...possano essere stati motivo di vergogna in un tempo e in una terra dove non c'era spazio per i sogni, e chiamata "pazzia".
È la storia di come si possa vivere un'intera vita accanto ad un uomo che non hai mai amato e che non ti ha amato, ma non per questo aver rinunciato all'amore, anche se solo nella propria testa.
L'amore...quella "cosa principale che rende tutto bello"...che permette di mettere al mondo i figli, che fa sopportare tutto, anche il "mal di pietre".
Calcoli renali o mal d'amore?...
Attraverso un quaderno nero dai bordi rossi siamo riusciti ad entrare nella vita segreta di una donna, una moglie, una madre, una nonna...
Una donna odiata dalla sua stessa madre perché "abitava il paese della luna"...perché scriveva lettere infuocate ai pretendenti, perché disegnava greche sul muro, si tagliava i capelli a zero, si buttava nel pozzo, si feriva le braccia.
Perché faceva scappare l'amore...
Ma "lei non era matta, era una creatura fatta in un momento in cui Dio semplicemente non aveva voglia delle solite donne in serie e gli era venuta la vena poetica e l'aveva creata".
E se la vita le ha riservato un uomo che l'ha chiesta in sposa solo per dovere, per sdebitarsi...allora lei l'amore l'ha cercato e trovato altrove, grazie al Reduce, malato del suo stesso male.
Si sono riconosciuti attraverso le pietre che portavano dentro...lei con i suoi bambini che non volevano nascere, lui con la sua guerra da dimenticare.
Ma il Reduce è stato un attimo...e la sua vita vera era altrove.

"Aveva speso tutte le sue forze per convincersi che quella era la migliore vita possibile, e non quell'altra di cui la nostalgia e il desiderio le toglieva il respiro".

Una donna che in fondo ha pagato per tutti, si è presa tutta la dose di disordine interiore ed ha salvato le persone che amava dal caos, dallo squilibrio...
Perché "in ogni famiglia c'è sempre uno che paga il proprio tributo perché l'equilibrio fra ordine e disordine sia rispettato e il mondo non si fermi".

Il finale è tanto bello quanto inaspettato...e mi ha lasciato un unico pensiero nella testa: non dobbiamo mai rinunciare a sognare, proprio mai...anche a costo di sembrare dei matti.
Perché forse solo rinunciando ai sogni, lo si diventa davvero.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    18 Aprile, 2017
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L'amore non salva e non ripara, ma accoglie.



Forse dovrei smetterla di leggere libri che mi sconquassano...
Ed invece torno sempre qui, in queste letture che mi sbriciolano in mille pezzi.
Daria è figlia di una madre "per caso", una madre tiepida che non brilla certo per istinto materno.
O forse è semplicemente ferita e nasconde dell'irrisolto.

"A mamma importava poco di me. Madre per caso. Madre perché tutte, prima o poi,  hanno figli. Madre purtroppo. Madre nonostante."

Lei, invece, all'età di 25 anni non vuole nient'altro se non un figlio...ma non riesce, non arriva.
È giovane, potrebbe ancora aspettare, provare, crederci...ma il suo desiderio si fa urlo, non riesce ad ignorarlo e quindi, con il marito Andrea, adottano Giada, di appena sei mesi.
("Quando sei venuta a prendermi era perché volevi una bambina o perché mi volevi bene?")
Giada, all'età di 25 anni (la stessa in cui Daria ha sentito forte il bisogno di maternità) ha però un'altra esigenza che le urla dentro: andare alla ricerca delle proprie origini.
Ma s'incaglia, s'inceppa e si arrende ai fantasmi che si nascondono dietro la parola "abbandono".
Chiede scusa e se ne va. Per sempre.
E il mondo di Daria finisce.
Si lascia travolgere, sommergere, inghiottire dal dolore, perché le sembra l'unico modo per restare in contatto con sua figlia, per non perderla davvero.
Quella figlia che l'aveva salvata e che credeva di aver salvato.

Questa è una storia di dolore e di perdita, di morte e della sua elaborazione, ma anche una storia sull'importanza delle origini come fattore fondamentale per poter avere e mantenere una propria identità, per trovare una collocazione nel mondo.
È una storia sull'amore che, per quanto immenso, non ricuce lo strappo di un abbandono.
L'amore non salva e non ripara...ma accetta, accoglie, soccorre.
Ma l'amore è anche necessario, ed è tutto quello che resta, dopo.

La scrittura è asciuttissima, frammentata: capitoli brevi, paragrafi brevi, brevi frasi.
A volte si riavvolge su se stessa, per sottolineare la tragicità di un momento, di un pensiero, di una parola.
Tutto ridotto all'osso, come se l'autrice non volesse mettere troppe parole fra te e il dolore, per fartelo arrivare prima, così...nudo, pulito, al netto di tutto il superfluo.
Per quanto mi riguarda è arrivato a destinazione in tutta la sua potenza.
Ed ora, raccolgo i pezzi e vado avanti...

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    14 Aprile, 2017
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Paroliere, Piedone e Lemonsoda...



Chiudo il libro...e la prima cosa che faccio è cercare "Scovazze" su Google maps, perché vorrei che questo paesino tra il Veneto e il Friuli esistesse davvero, che esistesse davvero "Il Punto Gilda" con tutti i suoi variopinti personaggi: gente semplice, di poche parole (molte delle quali costituite da imprecazioni e bestemmie, rigorosamente in dialetto), apparentemente burbera, un po' razzista, legata alle proprie abitudini, sempre le stesse: il bar, le carte, il vino, le slot machine, le tette della Gilda...
A scombussolare questa quiete arriverà una ritmo decappotabile color amarena (siamo nel 1994!) con alla guida Salvatore Maria Tempesta...segni particolari: terrone.
Tempesta non si trova lì per caso, nessuno "capita" per caso a Scovazze.
Cerca un campanile...
E nel frattempo insegnerà (con il suo amato ed inseparabile Paroliere) l'importanza delle parole pronunciate, infonderà coraggio e intraprendenza in chi non avrebbe mai osato credere in se stesso, sfiderà il loro mondo chiuso e diffidente.
E beve lemonsoda.

"...sente di aver comunque già trovato qualcosa, tutto sommato, in quel posto dimenticato da Dio che si chiama Scovazze.
Storie e paesaggi, sapori e odori, persino degli amici...braci sotto la cenere.
Come le parole nascoste dentro questa gente silenziosa".

Un romanzo intelligente, spassoso, ironico, ma anche di una dolcezza disarmante.
In queste pagine trovi l'amore che non ti aspetti: credo di aver letto una tra le più belle e fiabesche storie d'amore, quella tra Carnera (il gigante che non dorme mai) e Silvana Rasutti (la pazza), descritta con una poesia e una sensibilità commoventi.

"Poi il sonno di mesi, il sonno di tutti gli anni che ha vissuto, affiora come l'acqua dalla cavità nella roccia, travolge, toglie ossigeno, annulla i pensieri e le intenzioni, lo annega di schianto in un mare languido, scuro.
Un mare di sonno profondo quanto la notte che non ha mai dormito."

Cuomo sa essere "profondamente leggero".
Bella l'idea di inserire se stesso, giovane scrittore, come avventore del bar e testimone diretto di tutti i pittoreschi avvenimenti.
Bello anche lo scandire delle vicende narrate con le partite dei Mondiali di calcio del '94 in America.
Quell'anno l'Italia non vinse, ma con questo libro Cuomo ha certamente fatto goal.
Nel mio cuore di sicuro.


 


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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    12 Aprile, 2017
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L'essenziale resta invisibile...



Può un libro che parla di tombe e cimiteri essere così bello???
Sí, può.
Garantito.
Un viaggio tra le tombe di scrittori e poeti che, paradossalmente, invece di rievocare la morte, ti spalanca le porte della vita.
Ti mostra cosa sia l'immortalità.
Dentro la tomba di un poeta non c'è niente, ma in realtà c'e tutto...tutte le sue parole scritte che ti piovono addosso, il suo pensiero e tutto quello che il suo sentire ha lasciato in te.

"La maggior parte dei morti tace. Non dice più niente.
Per i poeti non è così.
I poeti continuano a parlare. A volte si ripetono.
Succede ogni volta che qualcuno legge o recita una poesia per la seconda o per la centesima volta.
Parlano anche ai non nati..."

Nooteboom ci parla delle amicizie profonde e intense tra gli scrittori, ci riporta frammenti della loro vita, aneddoti o semplicemente delle loro poesie, brani di libri...tutto volto a creare un unico percorso, un pellegrinaggio capace di raccontarci la storia della letteratura e del pensiero poetico nascosto sotto lapidi maestose, cripte buie e fredde o semplici croci in legno, marmi seminascosti da foglie e fiori o quelli deturpati da oscene scritte razzista.
Ti ritrovi a ripercorrere l'ultimo viaggio che Julio Cortazar ha fatto con sua moglie prima che lei morisse, a piangere la morte del bambino di von Humboldt portato via da una febbre...a girare tra le stradine di questo labirintico cimitero che Nooteboom ha creato per noi girando tutto il mondo.

Poeti che hanno incominciato a dialogare con la propria morte già da vivi, altri che non sarebbero voluti morire mai, altri ancora che consideravano morire un qualcosa che  "si doveva fare"...
E poi ci sono i morti irrequieti che non vogliono essere trovati, a volte nel cercare qualcuno, si trova qualcun altro...perché in fondo è così, il mondo dei poeti è interconnesso, molto più di quanto immaginiamo...e Nooteboom ci apre il sipario su questa continua contaminazione, nella vita e nella morte.

Io credo di appartenere a coloro che raccolgono una pallina da tennis inesistente e la rilanciano a due giocatori che riprendono la loro partita altrettanto inesistente, perché "l'essenziale resta invisibile" e il lettore vede sulla tomba del suo poeta quel che non vede nessun altro, perché "il segreto si nasconde nelle lettere che nessuno leggerà".

Una cosa, comunque, si evince su tutte...Nooteboom possiede una cultura letteraria immensa, ed uno sconfinato amore per coloro che ne sono stati i protagonisti.
Chapeau.

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    09 Aprile, 2017
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Prospettiva a testa in giù...



Lo dico subito: mi è piaciuto molto!
L'originalità del romanzo si basa totalmente sulla "prospettiva": quella a testa in giù, di un feto quasi a termine di gravidanza, che ascolta, conosce, pensa, elabora...filosofeggia.
Ma non ci troviamo di fronte ad un testo che, riportando i pensieri di un non-nato, utilizzi un linguaggio infantile, asciutto, minimale...tutt'altro.
Il feto in questione è terribilmente snob, colto, ironico, sarcastico...
(Per tutta la durata della lettura mi si è visualizzata davanti agli occhi l'immagine di McEwan che sorride sornione...)
Il nostro piccolo narratore si trova nel ventre di Trudy, bellissima 28enne dalle trecce po' sfatte e gli occhi verdi, suo padre è John, poeta dal grande cuore e di scarso successo...ma ad attenderlo fuori dal suo guscio amniotico non c'è nessuna culla, nessun corredino, nessuno straccio di amorevole attesa sul suo arrivo imminente.
Sua madre è troppo impegnata, tra un'ubriacatura e l'altra e tra un amplesso e l'altro, ad elaborare con il suo amante (nonché zio del nascituro, dalla dubbia intelligenza) un piano diabolico per liberarsi del marito.

"Tra la debolezza di lui e la falsità di lei si è aperta la fetida crepa che ha partorito uno zio-verme"

Ed ecco che il nostro protagonista si trova ad essere spettatore impotente del disfacimento di una famiglia che non ha ancora conosciuto, si trova dilaniato tra l'amore incondizionato che prova per sua madre e la consapevolezza del suo non-amore, che lo porterà a formulare il desiderio di "non nascere, mai".
Ma nello stesso tempo è già innamorato del mondo che lo aspetta fuori, un mondo che non gli presta nessuna attenzione, apparentemente cattivo, indifferente alla vita, alle vite.

"Quello che mi spaventa è perdermi qualcosa. Che si tratti di un sano desiderio o di mera ingordigia, prima voglio la mia vita, quanto mi è dovuto, la mia infinitesimale fettina di eternità e una discreta opportunità di coscienza."

E qui McEwan riesce, senza appesantire la portata di un romanzo fresco e originale, a darci uno spaccato dell'Europa del nostro tempo: la guerra, la povertà, la minaccia dei mutamenti climatici, l'immigrazione...
"La vecchia Europa si gioca a testa o croce i propri sogni, incerta fra paura e compassione, fra accoglienza e rifiuto".

Insomma un romanzo intelligente, arguto, amaramente divertente, scritto come solo un autore di razza può fare.
McEwan riesce a passare da un registro ironico e sarcastico ad uno più intenso e sentimentale (vedi la "lettera" dedicata al padre nel capitolo 9) con una nonchalance fuori dal comune.
Un romanzo molto molto più bello di quanto prometta la copertina alla "Senti chi parla".

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    30 Marzo, 2017
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Nevrosi & Co. made in New York



Il mio rapporto con questo libro è stato strano, un po' combattuto: ho iniziato a leggerlo piena di belle speranze impattando con un primo racconto che mi ha lasciato fredda, indifferente, anche un po' infastidita dal fatto di non essere riuscita a capirlo...
Stringo i denti e vado avanti, leggo il secondo, ma le sensazioni non cambiano.
Percepisco qualcosa di stonato, ma non riesco ad identificare di cosa si tratti, qualcosa mi sfugge...
Lo abbandono.
(Non senza sensi di colpa, perché io sono fatta così...)
Proprio quando ormai non ci pensavo più, leggo una bellissima recensione su questo libro, capace di darmi una visione d'insieme molto vicina a quelli che sono i miei gusti.
Al che mi sono detta "possibile che io mi debba perdere tutto questo? cosa non ho compreso?" e soprattutto "perché?".
Insomma l'ho ripreso, non ho riletto i racconti incriminati e sono andata avanti...
Dal terzo racconto in poi ho incominciato a capire dove mi stesse portando l'autore, quale scenario volesse mostrarmi...uno scenario popolato da persone sconfitte, infelici, sull'orlo del baratro, schiacciate dalla paura del prossimo fallimento e convinte di poterlo sopportare solo a forza di pillole ed alcool, ma ancora capaci di sperare...
Ho finalmente capito quale fosse quella "nota stonata" che percepivo all'inizio e che mi bloccava: i protagonisti di Antrim non sono semplicemente infelici o segnati da esperienze dolorose...sono disturbati, alienati, la cui dipendenza da alcool e psicofarmaci ti sovrasta, va al di là di ciò a cui ci ha solitamente abituato la letteratura americana, non siamo fra gli uomini e le donne di Carver che bevono per scacciare il male di vivere e parlano anche attraverso i loro silenzi.
No, qui ci troviamo di fronte a qualcosa che è andato oltre...clinicamente oltre.
Siamo nella sfera delle nevrosi psichiche, siamo in balia dello spettro del suicidio che incombe perennemente sulla testa dei nostri.
Eppure, alla fine, dal profondo di questa alienazione riesce ad emergere sempre un lampo di lucidità che li mantiene in superficie, che rimanda il tracollo totale.
Ed Antrim fa un'altra cosa che ho trovato spiazzante (piacevolmente spiazzante)...riesce ad inserire in queste storie laceranti e distruttive un tocco di ironia che le rende tragicomiche.

Il racconto che ho preferito è stato "Lui sapeva"...forse perché è stato quello in cui ho maggiormente percepito la consapevolezza della triste condizione di una coppia in difficoltà, che annaspa per mantenersi a galla, che guarda il mondo attraverso gli occhi appannati di chi ha bisogno di bourbon, valium e betabloccanti per non pensare a soluzioni alternative senza possibilità di ritorno.
Un uomo e una donna che sembrano votati unicamente all'autodistruzione, ma che, nonostante tutto, la notte continuano a dormire "a cucchiaio" sognando un figlio, sognando di diventare la famiglia che forse non saranno mai...

Leggere questi racconti alla luce delle esperienze personali dell'autore poi assume tutto un altro senso: figlio di una madre alcolista, lo stesso Antrim è stato a lungo ricoverato in una clinica psichiatrica (proprio dopo aver scritto un memoir sulla morte della madre)  col solo desiderio di morire...

Sono stata felicissima di aver ripreso la lettura di questo libro, mi sarei persa una raccolta di racconti tagliente, affilata e disperata, capace di guardare dentro la cavità del malessere mentale senza però finirci dentro, ma riuscendo a scorgere in lontananza, in fondo in fondo al tunnel, un bagliore di luce...quella luce che, dopo un fortissimo temporale, assume proprio la tonalità del verde smeraldo.

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