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Ricerca di se’
“ …A volte mi chiedo se le cose erano destinate ad andare come sono andate o se c’è stato un errore, un pasticcio lungo il cammino”…
Un viaggio nel futuro per riacquisire le coordinate del passato e scoprire a cosa e a chi si appartenga realmente. Gli occhi di Salim scrutano l’ orizzonte, un bambino che ancora non sa giudicare e che non capisce esattamente che cosa gli stia accadendo, che è vissuto in una famiglia sgretolata, con un padre debole e solitario che se n’è andato di casa e una madre che si è costruita un’ altra famiglia dando alla luce un figlio.
Le origini di Salim nel racconto di generazioni approdate altrove, voci lontane, incontri e conoscenze, la sua memoria labile non riesce a ricordare distintamente, imbevuta di semplici immagini frammentate e di luoghi persi nel tempo.
L’ indipendenza della propria terra ( Zanzibar ), il viaggio in Inghilterra accolto da uno zio poco amorevole che deve espiare una colpa, mentre il proprio padre rimane un ricordo sempre più scialbo e Salim continua a intrattenere rapporti epistolari con una madre che si è rifatta una vita, gli anni a venire manterranno il mistero famigliare auspicando un ritorno nella terra natia.
La nuova patria, quell’ Inghilterra che da sempre ha vestito i panni del conquistatore, un luogo inospitale così distante da terrorizzare il protagonista rendendolo intimorito e tremante, spegnendone i sogni, un’ educazione scolastica obbligata dalla volontà altrui, uno zio che sembra non apprezzarlo e che pare assolvere un dovere e una promessa.
In questa terra di non appartenenza, anche quando la propria passione e vocazione letteraria esplodono e Salim riesce a laurearsi, continua a ricercare un senso, a non avere un presente e a chiedersi che cosa sarà del futuro, ma non ci saranno senso e futuro se non affidandosi e confrontandosi con un passato nebuloso e irrisolto.
Una vita siffatta, cercando di ricostruire la propria essenza, un cammino tortuoso, fatto di solitudine e trasferimenti, amori non necessari, impossibili, negati, respinti, acuisce il suo senso di solitudine e non gli resta che trovare riparo in se’ stesso, nella lettura, negli scambi epistolari, in rapporti a distanza con una sorella che non ha mai conosciuto, immaginando luoghi, volti, un tempo lontano.
Verrà il giorno in cui il ritorno alle origini non sarà’ più rimandato, per se’ stesso, per quello che è stato, per la memoria, le promesse, cercando risposte su un mistero irrisolto, e allora un lungo monologo svelerà una porzione di storia avvicinabile alla trama di una famosa commedia shakespeariana, ( “ Measure for Measure” ) ridefinendo i ruoli dei protagonisti, cercando di comprendere l’ incomprensibile.
E allora ci sarà un senso rivelato ma non si sentirà la necessità di restare, di ricominciare, anche se altrove non ci sente a casa, perché
..” c’è chi serve a qualcosa, nel mondo, se non altro a ingrandire una folla e a dire sìi’, e c’è chi non serve a niente “…
“ Cuore di ghiaia “ è un romanzo che ricerca le proprie origini inseguendo il percorso della memoria in una terra ricca di contraddizioni e di conflitti irrisolti, Salim è un protagonista che fatica a trovare l’ identità, una dimora, la definizione di se’.
La scrittura di Abdulrazak Gurnah è come sempre riccamente vestita, densa, ammagliante, con richiami a storia e a tradizioni lontane ricche di cultura e significati, anche se, in questo caso, la trama si concede pause, tratti ripetitivi e poca vivacità definente.
La lunga permanenza in Inghilterra rimane un percorso irrisolto, non possiede e non svela l’ essenza del luogo, il viaggio di ritorno nel cuore del passato pare affrettarsi in un epilogo piuttosto sfuggente, come le premesse non lasciavano intendere, con personaggi che non raggiungono la profondità e l’ intensità cui l’ autore ci ha abituati, consegnandoci un’ opera che lascia un quid di sospensione e di insoddisfazione piuttosto evidenti.
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Cambiamento
….”Pensò alla sua vita e alle cose che le succedevano, a come fosse impossibile impedire che succedessero, controllarle. Sembrava di galleggiare in una piscina della grandezza di un oceano insieme a tutte le cose che potrebbero capitarci nella vita, e poterne sfiorare solo alcune, in modo del tutto casuale, e che tutte le cose desiderate fossero sottili e scivolose come pesci”…
Una raccolta di dodici racconti e una connessione che attraversa il quarantennio del loro concepimento, protagonisti di cambiamenti, chi inconsapevolmente, chi con cognizione di causa in una vita che sarà diversa o solo in apparenza la stessa.
Un viaggio relazionale, simbolico, interiore per approdare altrove, abbandonando il passato, i suoi strascichi e l’ immobilismo sentimentale del presente.
Nella quiete di ogni singola narrazione, soffermandosi su particolari significanti, ciascuno è sovrastato da un’ individualità non condivisa e ridefinisce i contorni del proprio io.
Che sia un cane scambiato per la propria amante, un lutto impossibile da digerire, le ceneri di un amore, la ricerca di un angolo di mondo, una solitudine non condivisa, l’ attrazione per un luogo, il desiderio di cambiare, l’ impossibilità di farlo, un terribile taglio di capelli, una fuga improvvisa, la programmazione di un addio, la gratificazione del riconoscimento, di volta in volta ci si dilunga nell’ immobilità di una sospensione evidente, osservando e ripensando a quello che è stato, attraversati da sensazioni diverse. Non rimangono che attimi, desiderii, ricordi, certezze, gesti in divenire.
Ogni racconto è un mondo a parte che attraversa e accarezza unicità per farvi ritorno, una quiete esposta a un’ incomunicabilità acclarata, in cui si vorrebbe essere ascoltati, compresi, amati, condividere sentimenti e ritrattare i contorni di una solitudine inclusa in un’ evidenza poco consolatoria.
Nella essenzialità di descrizioni lievi, solo accennate, di dialoghi brevi, tronchi, nella dolcezza di una malinconica presenza, oggetti spogliati, gesti rarefatti, silenzi necessari, pensieri che ritornano, che cosa si vorrebbe cambiare, sopraffatti da una quotidianità insistente e che cosa non si può raggiungere, prendendo atto della irreversibilità di certi accadimenti?
La solitudine, il silenzio, la riflessione sono significanti, attraversano storie e momenti, li alimentano, li spengono, frammenti di tenerezza riconducono a una realtà di fatto.
Così
…” alla fine tornò di sotto.Walter aveva lasciato la chiave nella porta. Pensò di prenderla per ricordo ma si rese conto che non se ne sarebbe fatta niente. Giro’ la chiave nella toppa è la gettò nella cassetta per il latte, richiuse il coperchio con il piede e si incamminò verso casa “….
…” in camera da letto Helen mette giù il libro e lo osserva mentre si spoglia. Sorride, si sporge in avanti. Se solo Ted riuscisse ad avere idea di che cosa sbaglia lo cambierebbe subito e tutto tornerebbe a posto “…
…” mi sentivo sospeso in aria ma non riuscivo a girare il corpo anche se stavo precipitando in modo pericoloso e a tutta velocità “…
…” e in quel momento avrei dovuto capire che non l’ avrei mai più rivista, che era chiaro, evidente, come fosse arrivata la fine e le nostre strade si separassero “…
…” sono rimasta lì a dondolarmi, con la candela in mano. L’ ho osservata che si consumava, dondolandomi per tutto il tempo “…
Racconti eterogenei all’ interno di un filo conduttore condiviso, la vita e i suoi cambiamenti, istanti inafferrabili che si vorrebbe cogliere e depositare per sempre, sensazioni forti che svaniscono in un gesto, in uno sguardo, nell’ attesa, nell’ ineluttabilità del presente, nessuna ricerca apparente, se non la riflessione e la constatazione del momento, quando tutto sembra già accaduto o inesorabilmente passato e certo.
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Quale personalità?
…”Veniamo tutti misurati, buoni e cattivi, dal male che facciamo agli altri. Io avevo creato un mostro e l’avevo lasciato libero di andare in giro per il mondo, e ammetto che avevo visto tutto con chiarezza e lucidità: Elizabeth R non esisteva più. L’ avevo corrotta irrimediabilmente e in quei freddi occhi che adesso appartenevano solo a Bess adesso avevo letto la mia vanità e la mia arroganza. Dunque alla fine mi svelo: sono un mascalzone per aver creato alla leggera e un malvagio per aver distrutto senza pietà, non ho scusanti”…
Richiamando i noti Jekyll e Frankestein “ Lizzie “ è un romanzo sorprendente per lucidità espositiva nonostante le innumerevoli voci e personalità che ne formano e deformano trama e contenuto.
Elisabeth Richmond, ventitreenne bruttina, silenziosa, poco invadente, impiegata in un museo, senza amici, genitori, conoscenti, sopravvive in attesa della propria dipartita, una maschera malata che potrebbe rivelare altro.
Che cosa nasconde, una certa remissività, una personalità multipla e una famigliarità frammentata, voci in fuga da scatole chiuse in una dimensione estraniante?
È questo che il dottor Wright, un medico della mente piuttosto schivo cerca di focalizzare inducendo in Elisabeth uno stato di ipnosi che sveli gli strani comportamenti da lei negati. Insonnia, cefalee, insolenza, cattiveria, gelosia, vendetta, dolcezza, riconoscenza, chi si nasconde dentro questa strana ragazza, una persona allegra, una giovane abulica, un diavolo narcisista ? Tre personalità distinte, non complementari, un solo corpo, tre visioni del mondo, una storia di sofferenza dopo la morte dell’ adorata madre, la convivenza forzata con una zia dal carattere forte e pratico.
Elisabeth, Betty, Betz, R1, R2, R3, anime diverse, Elisabeth, nervosa, afflitta da dolori lancinanti, torturata dalla paura, oppressa dall’ imbarazzo, modesta, chiusa e riservata fino alla paralisi verbale, Betty, forse una ragazza serena, tutta sorrisi, graziosa e rilassata, Betz, sfrenata, insolente, chiassosa, dozzinale.
Ciascuna rimanda i propri tratti recitativi, tratti unici e frammentari, una miscela di verità e menzogna, microcosmo di ipotesi, intervalli di attesa, presenze invadenti, pause amnesiche, ricordi frammentati, la lotta impari tra bene e male, un’ isteria collettiva e personale che origina da un lutto inevaso in attesa di un’ eredità, ipotesi su cui costruire certezze.
Il dottor Wright, novello Frankestein, il deus ex machina di questa rappresentazione psichica, ha generato l’ impossibile, instaurando una corsia preferenziale con una parte da lui rivelata, un gioco furente che può portare all’ autoannientamento, una condivisione forzata per nascondere il desiderio di fuga, tutto parrebbe sotto controllo per trasformarsi in qualcosa di pericoloso e perverso, una trama dentro la trama che precipita, la comparsa di una quarta personalità, Bess, diversa dalle altre, dominante, forse la più sgradevole.
A un certo punto, nel reiterato trasformismo di un thriller psicologico con deviazioni psichiatriche ogni personalità potrebbe nasconderne altre, rimpiazzarle, eluderle, annientarle, un nemico rinchiuso e vigile dentro di se’, in attesa di una soluzione che mostri una tregua, la pacificazione con il proprio vissuto in una neo dimensione cosciente.
Come il passato ritorna, chi era la propria madre, come e perché è morta, c’è una colpa che ci appartiene, un senso di colpa, quale verità celata?
“ Lizzie “ è un viaggio schizofrenico nella mente di una giovane donna che nasconde il possibile, che ha sofferto immensamente trattenendo la propria sofferenza, inevitabilmente esplosa in segni inequivocabili.
Shirley Jackson richiama una polifonia ingravescente attraverso una certa vivacità espressiva, stabilisce relazioni improbabili all’ interno di porzioni di personalità nascoste che mostrano la propria essenza.
Forse un giorno il recupero alla vita riporterà il sorriso mostrando la propria bellezza, riacquistando il se’ smarrito, il sorriso, in attesa di un nome….
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Amore latente
…” Non è vero che capiamo che cosa succede quando muore una madre. Muore e non sappiamo davvero che non ci sarà più. Muore e basta, chiude gli occhi e la gente intorno ti allontana perché sei piccolo. Ma ci vuole una vita intera a capire che una madre è morta. Se poi muore anche il padre insieme alla madre, ci vorrebbero due vite e non si sa come sbrigarsela questa cosa, perché naturalmente non ci sono due vite e allora si resta così, a chiedersi che cosa è successo e a scappare scappare scappare”…
L’unione di due solitudini affettive percorre il nuovo romanzo di Mariapia Veladiano, il solito timbro silenzioso, scarno, poetico, elegante, parole dosate nel proprio senso più vero.
Il protagonista, un giovane avvocato specializzato in diritto famigliare, contrappasso per chi è scampato a una duplice tragedia famigliare e che ha scelto di dedicarsi agli altri, è pervaso da una sensibilità particolare ritornando ogni volta nella casa di una infanzia rubata.
L’ incontro con Bianca, psicologa a sua volta sopravvissuta a un terribile trauma infantile, dedita con ardore alle sofferenze altrui di cui non fa trapelare nulla, si rivela un colpo di fulmine, di fortuna, uno stato di necessità.
Un legame professionale fondato in modo diverso sul potere persuasivo della parola e sulla capacità di ascolto, scivolato da subito nel personale, due anime connesse, corpi a confronto, un dolore atavico condiviso che si autoalimenta e si incastra sottraendosi alle difficoltà del presente.
Un protagonista fragile, vago, disordinato, con un passato frammentato, solo alla ricerca di conferme, che immette nella professione carenze consolidate, cerca di costruirsi la famiglia perfetta, quella che non ha mai avuto, ascolta e soffre, percosso da storie che gli ricordano una dimensione personale eludendo il respiro anaffettivo, quei genitori che lo hanno considerato un errore di percorso, un giovane uomo che fatica a riconoscere gli occhi dell’ amore.
Come si può essere invisibili, avere una famiglia e non sapere che cosa essa sia, occuparsi esclusivamente di relazioni non normali, sentirsi un sopravvissuto, ricordare tutto, la morte nei propri pensieri, un’ ombra che tiene al riparo dall’ abbaglio dei desideri, ogni volta rivivere l’ incubo dell’ abbandono? Come guardare al presente e al futuro, accogliere una vita matrimoniale, desiderare dei figli?
Le voragini affettive sovente sfociano in disastri famigliari, abbandonati dal pianto, la forza di un amore può guarire, proporre una rinascita sentimentale, corrodere la corazza anaffettiva che ci ha rinchiuso in una casa buia che non offre uno sguardo sul mondo.
La vita con Bianca offre al protagonista l’ intensità di un desiderio che si avvera, lo destituisce dall’ analisi guarendolo, sottraendolo alla paura, al dolore di non valere, riaccostandolo a una parte di se’, ma sarà un incontro inatteso, un bambino indifeso con
…” una felpa grigia, scarpe grigie, capelli ricci nerissimi, sguardo di Dio che brucia a fissarlo “….
a ricondurlo al se’ più profondo, a sembrargli
…” me, mille volte me”…
La forza di un amore può restituire alla vita grazie alla conoscenza del dolore, a uno sguardo affacciato sul mondo, riattivando in un gesto ripetuto la memoria di un legame vissuto solo per un momento.
E allora uno sguardo può salvare, c’è chi è vissuto in una scatola, chi è sopravvissuto in un armadio, chi si è trovato…
“ Quel che ci tiene vivi “ è un romanzo costruito su introspezione, sentimenti, relazioni, solitudine, condivisione, identità, salvezza, il potere magico delle parole nel mistero della vita che ci attraversa. Tratti ripetitivi e attimi di leggerezza, il finale insegue un po’ frettolosamente una nevicata bene augurante, la relazione protagonista-bambino pare dissolversi in un attimo di immaterialità per fare ritorno alla vita, un’ attesa che riconosce e alimenta la forza di un amore latente.
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Un mondo celato
…”Se si guardava Dynmouth in un certo modo la si vedeva bella, se invece la si guardava in un altro modo c’era Timothy Gedge”….
Una corazza di imperturbabilità, quiete, perbenismo che rilascia una vita tranquilla può degenerare in uno stato di incertezza, paura, smarrimento, sovvertendo l’ ordine costituito.
E allora tutto è in discussione, le domande più disparate incombono, la certezze si sgretolano in un senso insensato, la vita cambia colore.
Questo quanto accade nella tranquilla cittadina di Dynmouth, sulla costa del Dorset, una piccola località di mare ben conservata raccolta attorno a un porticciolo di pescatori che si è estesa negli anni all’ entroterra aprendosi a una nuova attività industriale e alberghiera.
Qui vive Timothy Gedge, un ragazzo di 15 anni reso sgraziato dall’ adolescenza, viso spigoloso, guance scavate, spalle larghe e corti capelli di un biondo quasi bianco, con uno sguardo famelico che gli da’ un aspetto avido, uno strano ragazzo sfaccendato incline allo scherzo, prossimo all’ eccentricità, che vive con la madre e con la sorella,
…”uno di quei bambini che, di ritorno da scuola, trovano ad aspettarli solo un appartamento vuoto”….,
che devono badare a se stessi, attraversati da una solitudine che sembra essergli entrata dentro.
Suo padre se ne è’ andato da anni, Timothy non ricorda nulla di lui e con il passare del tempo ha iniziato a non fidarsi più della madre e neppure della sorella perché
…” da loro non riceve mai risposta”…,
abituandosi all’idea che senza di lui in casa si respirerà un certo sollievo.
Timothy vuole partecipare a uno spettacolo nell’ annuale festa Pasquale della parrocchia, “ Scopri il talento “ e per mettere in scena la propria parte è disposto a tutto, ricatti, richieste impossibili, appostamenti, intrusioni, denunce, bugie, artifizi, trasformandosi nel più cinico e crudele nemico degli abitanti di Dynmouth.
Nessuno è perfetto, ciascuno custodisce segreti e malefatte, è disposto a cedere al ricatto per conservare una parvenza di credibilità. Timothy è fuori controllo, sgretola nuclei famigliari, percuote i singoli, popola gli incubi altrui, un ragazzino solo abbandonato dagli affetti più cari, forse vittima del sistema, di un destino avverso, novello Lucifero, cinico egoista, mascalzone impenitente.
Quale il confine tra realtà e finzione, quale verità nelle sue certezze, come considerarle, negazione, incredulità, dolore, riconsiderando una parte di se’ ovattata e rimossa, il peso di una verità ingombrante, l’ inammissibile, un senso di solitudine in un grande vuoto dentro.
Lo strascico delle sue illazioni per alcuni è insopportabile, per altri una semplice costruzione artefatta, chi siamo veramente e come abbiamo potuto vivere non conoscendo? Timothy pare ovunque, la sua voce stridula ci percuote dentro, avvolto da una sottile ironia che rivela autocompiacimento, un “ diavolo “ onnipresente predisposto allo scherzo, vittima e carnefice, illusionista e Machiavellico, una serpe in seno,
…”una verità che punta come un’ erbaccia in un giardino”…,
dentro di se’ senso di smarrimento, rabbia inespressa, sensi di colpa, la voce di una coscienza dimenticata, l’eco di un pazzo.
Difficile dirlo quando la vita ci ha dato così poco, rendendoci quello che siamo, noi stessi attori involontari, ignari di chi abbiamo accanto, di cosa stava accadendo, e chi oggi ci denuncia e ci ricatta è ricoperto di una corazza di necessità. Tante domande, poche risposte, una certezza, quello stato di cecità evidente.
William Trevor, attraverso una prosa fluida e lineare, personaggi ben congeniati
e caratterizzati, costruisce una sottile trama psicologica che origina da una visione politica e sociale per scoperchiare un’ intimità nebulosa e complessa. La tranquilla routine nasconde altro, ciascuno deve fare i conti con se’ stesso, la realtà non è come sembra, la paura ci trattiene e ci sovrasta, vittime e complici, ciascuno impegnato a conservare e a preservare il proprio piccolo angolo di mondo.
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Commedia umana
C’è un cammino definito, flusso emozionale di fragilità esposte, inasprite da periodi di isolamento forzato causa Covid, quando alla gente è rimasto solo il lavoro da remoto e come svago la cena a domicilio, microstorie costruite attorno a Via Marghera e al Cafe’ Royal, un luogo elegante e informale nel cuore di Milano.
Incontri veri e presunti, assenze, fughe, ritorni, inseguimenti, incidenti, dipendenza, un presente poco gratificante, matrimoni falliti, trascinati, obbligati, relazioni nascoste, innamoramenti, figli derubati dei propri sogni, genitori che inscenano una vita social inesistente, ricordi, rimpianti, anziani abbandonati a se stessi, uomini e donne fagocitati dalla velocità del presente, padri impreparati, madri insoddisfatte, mariti egocentrici, donne ancora alla ricerca di se’, sguardi e pensieri altrove, un presente insoddisfacente, solitudini protratte.
I protagonisti delle singole trame soffrono e offrono una porzione di se’ sul palcoscenico di una vita sospesa in quell’ istante, soli, in balia dei fatti, del proprio ego, degli altri, in attesa, altrove, una routine esaurita da tempo, fragilità poco gratificanti, la ricerca di altro, l’ invenzione di una trama per sottrarsi all’ asfissia del presente in uno stato di emergenza sanitaria e sentimentale.
Il Cafe’ Royal è un luogo fisico e della memoria, depositario di voci, silenzio, attesa, sguardi, speranza, e forse chi ci siede di fronte può riconoscerci e consolarci per un istante.
…” mi sono specchiata nella sua faccia e a lui deve essere accaduto lo stesso se, poco dopo, ci siamo messi a parlare”….
…” ho bisogno di vederti e guardarti negli occhi. Non voglio più che ci raccontiamo le cose quando sono già passate”…
…” ma le miserie di questa gente? Quelle di chi ha i soldi, si chiude a chiave nel suo appartamento di sei locali e pensa che il mondo sia tutto come via Marghera?”….
…” la aspetto in Chiesa ogni giorno e ogni giorno penso che tra poco io me ne andrò via da via Marghera e lei, invece, resterà qui “…
…” si sono semplicemente innamorati, una coppia sposata, le dinamiche dell’ amore a volte sono così semplici”….
…” papà è morto da due anni e io sono ancora qui come una scema a pensare sempre le stesse cose, a ricordare sempre gli stessi ricordi, non so lasciarlo andare”…
“Cafe’ Royal “ è una piacevole commedia umana che traccia l’eco di una vita sovente tradita nei sentimenti, l’ incertezza può generare sconforto e rassegnazione, l’ isolamento forzato astio e diffidenza, la lontananza vicinanza, la vicinanza lontananza, la solitudine affettiva può portare a costruzioni artificiose, la tragedia farsi commedia, la tristezza tingersi di satira e autoironia, il dolore sconfinare nella ricerca ossessiva di un anestetico.
Quanto la pandemia ha generato cortocircuiti mentali o semplicemente inasprito una situazione di fatto, quanto nuove possibilità di incontro ridefiniscono una quotidianità morta e sepolta? Ciascuno, come sempre, inscena se’ stesso riconoscendosi in un flusso vitale che svela spigolature diverse, amori, dolori, inciampi, riflessioni, comunanze, speranza, disperazione.
Marco Balzano sa come dare voce a protagonisti che inciampano nel respiro della vita, miscela di riflessione e consapevolezza, paura e confusione, scansando ogni genere di giudizio e pregiudizio, personaggi di età ed estrazione diverse che si incrociano, si sfiorano, si toccano, si incastrano, si ignorano, talvolta si scelgono.
C’è chi cambierà, chi tornerà alla vita di sempre, chi si concederà un nuovo inizio, chi recupererà il tempo perduto, chi non sarà più in grado di farlo.
Il romanzo è un unicuum che riprende e comprende le vicende dei protagonisti, attimi di sofferenza separati e in qualche modo connessi, il palcoscenico di una vita apparentemente guidata da un destino incurante ma ricca di mistero e imprevedibilità a renderla così profondamente umana.
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Quale destino
Sarajevo, 1992, una città assediata sotto il tiro dei cecchini appostati, bambini ospitati in un orfanotrofio in attesa di una madre che non tornerà, un tempo sospeso di cui non si ricorda nulla, orfani alla ricerca di cibo, …” con proiettili in tasca che scambiano come figurine”…, …”immersi in un’ aria da terremoto”…, spari e bombe, che ..” non sono ne’ fantasmi ne’ eroi, solo comparse di una guerra in atto”...
Omar, dieci anni e nessun amico, Senadin, suo fratello, che cerca di consolarlo, Nada, una bambina senza un anulare che continua a disegnare, Danilo, quattordici anni e una promessa fatta per il futuro, vivono una condivisione casuale e necessaria, ciascuno con una storia, un viaggio della speranza che li sottragga a morte certa trasferendoli in un paese, l’ Italia, in grado di salvarli, una fuga da un luogo non luogo dove un giorno forse ritorneranno, assenze condivise e un desiderio che si è fatto legame ..
…” è che non ci siamo scelti, per caso sono stata testimone del suo dolore ed è bastato ad unirci”…
Bambini dentro la guerra che non hanno scelto di venire al mondo, una sospensione tra vita e morte indirizzata da amore, casualità, indifferenza.
Madri e figli, un legame forte e indiscutibile, due volte infranto, madri assenti, altrove, morte ammazzate, suicide, sacrificate, percosse, a loro volta figlie, un amore perduto, svanito, da riallacciare, il desiderio di rientrare nel grembo materno, la certezza di non avere avuto una madre, abbandonati ingiustificatamente, la rabbia e il risentimento nella propria solitudine altrove.
Ciascuno vive e racconta una porzione di storia, quella vita spezzata sul nascere, destino già scritto, percorso diverso, accettando o rifiutando il se’.
Omar sconterà l’ ossessione di riabbracciare una madre svanita nel nulla, Nada non ha mai conosciuto la propria madre, vive in simbiosi con il fratello Ivo che si trova al fronte, Danilo è partito sospinto dal desiderio di una genitrice che ha pensato alla sua salvezza.
In Italia saranno ospitati da un orfanotrofio in attesa che la guerra finisca, sperando in un ritorno più volte rimandato, anche quando saranno deposte le armi, un ritorno che non ci sarà o sarà diverso da come lo si credeva, che non avrà più niente da dare. E allora quella terra lontana sarà la propria terra, il presente e il futuro in una nuova famiglia, la scuola l’ inizio di altro, l’ accettazione della solitudine restituirà un senso perduto.
Che cosa sarà di questi bambini nel corso degli anni, che cosa rimarrà delle macerie della loro infanzia, dei luoghi della memoria, dei legami spezzati, dei sogni, della solitudine condivisa, orfani prematuri, sottratti a una famiglia che non è mai stata, ingoiata dalla crudeltà delle bombe, con padri altrove o semplicemente deposti?
Che cosa li ha resi quello che sono, passato, presente, traumi, ricordi, paura, rabbia, risentimento, emozioni, sentimenti, la dolcezza di uno sguardo, la tenerezza di un incontro, la condivisione di una sofferenza, il rifiuto di una nazione che non si sente propria, una solitudine acclarata, altri giorni e altri legami, una nuova lingua, come sopravvivere alla propria madre e crescere altrove?
Tutto e’ cambiato e in parte sopravvissuto a se’ stesso, alcuni traumi rimangono, c’è chi ancora attende e ha smesso di vivere, sopraffatto dalla rabbia ( Omar ), chi si è sottratto al passato, coltivando le proprie passioni e aprendosi a orizzonti diversi ( Nada ), chi ha accettato una nuova famiglia ( Senadin ), chi si rende conto tardivamente di quanto poco conosca di una vita infarcita di errori, indifferenza, banalità, estraneo ai sentimenti, ai sogni, alle sofferenze altrui (Danilo ).
Rimane quel sentimento condiviso, anche se oggi non è come prima, in primis dentro di se’, persone che appartengono a categorie diverse,…” separate da questa cesura”…, un affetto germogliato da bambini che permetterà di vivere insieme ma che non terra’ uniti. Contemporaneamente c’è una nuova madre che non è mai stata figlia, che lo è diventata quasi per caso, e un infante che non possiede tracce di memoria ma un presente e un futuro da scrivere….
“ Mi limitavo ad amare te “ è un romanzo stratificato che nasce da una guerra insorta in periodo di pace a tratti descritta in tutta la propria crudezza, un conflitto che genera altro, l’ affannoso protrarsi della sopravvivenza nel senso di una vita, scoppiata, persa, da ricostruire, capire, infrangere, metabolizzare.
L’ esistere, la condivisione, l’ amore, per una madre, per un figlio, per la famiglia, per gli affetti più cari, per se’ stessi, è destituito agli albori della vita medesima inseguendo i giovani protagonisti in un viaggio della disperazione e della speranza, un percorso del tutto personale, monco, ondivago, anche autodistruttivo, rigettando la vita medesima, o semplicemente non riconoscendola e non legittimandola, immersi nella fragilità di una mancanza definitiva, privati delle sue coordinate primarie.
È allora che diventa fondamentale la semplice testimonianza di un dolore condiviso, un legame che nasce e si mantiene in un percorso di sofferenza.
Il romanzo di Rosella Postorino non eccelle per picchi poetici e letterari, a volte la trama è spezzettata in eccesso e perde fluidità, ma è un testo che richiede attenzione, pazienza, attesa, pause, riflessione, un racconto di relazioni e archetipi relazionali, che privilegia microstorie e soggettività cangianti all’ interno di un’ unica voce e dei significati di un’ unica storia….
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Astensione obbligata
Irie Fuyuko è una donna con indosso un abito crepuscolare, tre anni nel silenzio del proprio lavoro di redattrice in una piccola casa editrice, lunghe ore tra errori ortografici, parole improprie, incongruenze di contenuto.
Sin da bambina una scarsa fiducia in se’ stessa, incapace di intrattenere una normale conversazione, di costruire amicizie e stare in compagnia, nessun posto dove andare, nessun piacere da vivere e condividere, completamente sola, un cammino di ovvietà in un percorso definito, serate che odorano di dimenticanza tra il sonno e il nulla, anestetizzata dal vuoto che la circonda.
Una nuovo lavoro in una grossa casa editrice e l’ incontro con Hijiri, una coetanea baciata da tutte quelle risorse e qualità a lei negate, una donna brillante con la quale instaurare un rapporto singolare, momenti di intimità e un ruolo di redattrice editoriale freelance.
In un immobilismo dislocato nell’ appartamento di Tokyo dove si era trasferita dopo gli studi, nessuna uscita mondana se non il giorno del suo compleanno, zero amicizie e frequentazioni, Fuyuko è scossa da un’ immagine inaspettata riflessa nel vetro di una finestra
…”una donna misera con una misera faccia e una massa di capelli in disordine, spalle strette spioventi, occhi infossati, gambe e braccia corte, il collo lungo e gracile, guance cadenti “ ….
una figura squallida e del tutto incapace di godersi la vita.
In lei si innesca una riflessione sul proprio senso di vuoto e di estraniazione, l’ abbandono all’ analgesia dell’ alcool per non soccombere alla disperazione.
È il momento di spezzare il suo digiuno dal mondo, di divertirsi, di affrontare la vita con leggerezza e ottimismo tralasciando il domani, estraniandosi dal proprio rigore lavorativo, l’ incontro con Mitsusuko, un uomo misterioso e sfuggente di cui non conosce nome, età, residenza, una relazione ridotta a pochi elementi confusi.
Un modo di accedere a una neo dimensione cosciente, ma ecco un inevitabile senso di disperazione che incombe, tutte le volte che
…’” inseguivo e cercavo di afferrare qualcosa un’angoscia indefinibile affondava dentro di me risuonando dolorosamente”….
Un mondo estraneo, diverso, inaccessibile, frammenti dispersi di un passato dimenticato. Fuyuko pensa a Mitsusuko e ai loro sporadici incontri, alle poche parole che si sono detti, al giorno in cui si rivedranno, il dubbio che sia stato solo un grande imbroglio.
E così si rinnova quella solitudine ingravescente, un’ apatia incollata addosso, quali le cause, che cosa le sta succedendo, perché sta così male? Nuovamente sola e triste, sopraffatta dai sentimenti, dorme e sogna, nessuno a cui affidarsi, che si fermi a parlarle e la degni di attenzione. Ha mai amato, quando ha smesso di farlo, che cos’è l’amore, e tutti gli accadimenti che la sorprendono, le parole che la investono, e il proprio grado di coinvolgimento ? Una riflessione e una constatazione incombono:
….”Che cosa avevo fatto nella vita fino a quel momento, avevo mai scelto qualcosa? Il lavoro, l’appartamento in cui abitavo, la solitudine, nessuno con cui parlare, erano il risultato di una mia precisa scelta? No, non avevo mai scelto niente nella vita, niente era il frutto di una mia precisa decisione, avevo scelto che le cose capitassero. Ecco perché mi trovavo così, sola e triste.
Per paura di fallire e restare ferita per sempre, avevo evitato di scegliere, di essere, a conti fatti non avevo mai agito autonomamente in tutta la mia vita”….
Il dolore l’ha sottratta alla vita per paura di viverla, l’ invisibilità l’ ha allontanata da se’ consegnandola alle decisioni altrui, alla vulnerabilità, il non scegliere una precisa scelta, l’ astensione dal reale per scansare ferite e fallimenti, paura e solitudine sostegni imprescindibili, corazza di appartenenza, le sole strade percorribili per riconoscersi e legittimarsi.
Ricordi, dolore, oblio, ansia, parole, una frase solo accennata…
… “ Gli amanti della notte”…
parole senza un senso apparente, che restano e la accompagnano in attesa del nuovo giorno mentre
…” abbassa piano piano le palpebre”….
“ Gli amanti della notte “ è un bel romanzo che affronta le difficoltà di un’ esistenza di solitudine e la complessità sentimentale di una trentenne immersa in un senso di dispersione.
È una rincorsa vana, un percorso complicato da un’ insensatezza che ogni volta ritorna, accarezzando e abbandonando una vita sfuggente, caratterizzata dall’osservazione e dalla distillazione dei comportamenti e dei sentimenti altrui, dalla negazione dei propri, un cammino che diluisce e miscela attesa, silenzio, parole, relazioni duali, sogni, realtà, immaginario.
La scrittura di Mieko Kawakami sa esprimere intensità, grazia e una certa dose di sarcasmo, dolcezza e levita’ in una profondità nascosta, in parte ricorda Aki Shimazaki pur non raggiungendone la grandezza poetica.
Frasi frammentate e lucidamente esposte, un ritmo lento e sincopato che alterna stupore, attesa, sonno, sogno nell’ inquietudine del presente, una protagonista che fatica a esprimere l’ inespresso, che dialoga con la propria coscienza in un costante flusso temporale, momenti ripetuti in cui ogni volta pare concedersi per sottrarsi immediatamente.
Ondivaga eccentricità
Una giovane donna in cerca dell’amore in un’ epoca sospesa tra le due guerre, una famiglia numerosa di possidenti, i Redlett,
…..”emozioni inespresse su un campo ordinario”…,…” all’ apice della felicità e sommersi nelle nere acque della disperazione”….
La vita di Linda nelle parole della voce narrante, la cugina Fanny, accolta sin dall’ infanzia nella grande dimora di Alconleigh
…” un luogo agitato e di emozioni violente, una costruzione da cui stare fuori tutto il giorno a uccidere nemici e animali”….
Fanny ha genitori altrove considerati depravati, forse è questo a renderla interessante agli occhi dei Redlett, per il resto è considerata molto noiosa.
Lei e Linda condividono una simbiosi sentimentale e l’ unicità di un amore, pensieri e passioni adolescenziali dolorosamente deliziose soppiantate un giorno da persone reali.
Linda vive un romanticismo disilluso e ramingo attraverso un destino inafferrabile e monco, un matrimonio fallimentare e un marito,Tony, noioso e pedante, un borghese che vede con gli occhi del denaro, che utilizza termini particolari, che insegue potere e gloria, lei figlia di una generazione di solidi proprietari terrieri, di investimenti sicuri e una figlia, Moira da tenere a distanza, ancora giovane e immatura.
La ricerca dell’amore la destituirà dall’amore, inseguendo un comunista (Christian ) squattrinato che la farà sentire ancora più sola, lontana da casa.
Nel bilancio della sua giovane vita ha sprecato la giovinezza, anni frivoli in cui avrebbe potuto ricevere una buona istruzione, dedicarsi allo studio e alla lettura, sospinta da un unico desiderio, l’amore, personale e particolare, concentrato su di se’, nel presente
…”condannata all’ esistenza solitaria e braccata di una donna bella senza legami”…
.
Eccola sola, triste, ferita, disillusa dalla vita, in preda a un’ eco frustrante, quella stessa vita che si manifesta improvvisa in una strana, incontrollabile, sconosciuta felicità, mostrandole per la prima volta il vero volto dell’ amore in un estraneo, Fabrice, un sentimento indescrivibile, una travolgente attrazione fisica, la certezza inspiegabilmente ovvia di come finirà.
Un sentimento che aveva creduto altrove, che solo ora riconosce per una serie di circostanze fortuite, cercando di ricordare le sensazioni vissute negli amori che furono.
Un legame intenso e fugace, che vivrà un esilio forzato, un rapporto fisico, scherzoso, poche parole in un tempo e in una città, Parigi, che sembra fatta per questo.
Fabrice è un Don Giovanni con un’ essenza di cui Linda non farà parte mentre si entra nella barbarie di una guerra che lei vive con una certa indifferenza, immersa nel presente, precaria e sempre più sola, lontana da casa.
Il tragico cambiamento le farà credere e realizzare la sola dimensione del ricordo, travolta da una nuova consapevolezza, il respiro bellico, a vivere una lontananza obbligata in attesa di uno squillo, di una voce, di una vita da condividere, di una famiglia allargata, e allora il ritorno ai luoghi dell’ infanzia profuma di casa e di legami fidati.
Nancy Mitford ( 1904-1973 ), la maggiore delle sei bellissime ed eccentriche figlie del barone Redesdale, scrive un romanzo che celebra l’ amore più importante della sua vita ( Gaston Palewski, comandante delle forze armate della Francia libera ) sotto le spoglie del seduttore Fabrice.
Un testo piacevole, irriverente, umoristico e con tratti malinconici, ingredienti tipicamente femminili, amicizia, condivisione, ideali, passione, desiderio, sogno ma anche gelosia, eccentricità, fragilità, invidia all’ interno di un mondo di tradizioni consolidate che stenta a riconoscere e a legittimare la neo realtà borghese.
L’ uso di una prosa scorrevole, precisa, ordinata, stride con il carattere e le eccentriche inclinazioni della protagonista, impegnata in una legittimazione di se’ e in una ricerca della felicità che si oppone al reale.
Ecco la minuziosa rappresentazione di un mondo a se’, spiccatamente inglese, tradizionale, conservatore, auto celebrativo, dal quale affrancarsi per farvi ritorno.
Linda è una donna naturalmente svagata, ondivaga, bizzarra, passivamente attiva, dolce, maldestra, che abbandona una figlia perché non sa cosa farsene, che ricerca certezze all’ interno di una fragilità manifesta, che vive l’ idea di un amore e la speranza di amare in una vita sul filo del rasoio.
Fabrice-Palewski sembra volerne approfittare ma si accorge di amarla, che sia troppo tardi?
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Rovinosa caduta
Continua Il viaggio di Tove nel cuore della giovinezza, una vita che sembra ben indirizzata, l’amata scrittura nella quale perdersi, sentirsi felice, dimenticare, la stesura del primo romanzo, il matrimonio con Viggo F, editore quarantenne.
Eppure l’ amore ancora non le appartiene, forse il matrimonio aiuterà la sua carriera letteraria, di certo il marito non le restituisce affetto, tenerezza, vicinanza, abbandonata a se’ stessa e ai luoghi dell’ infanzia, a una solitudine obbligata, la lettura e la scrittura i soli momenti in cui riconoscersi.
Una pesante quotidianità non può che sfociare nel desiderio di altro, passioni fugaci in cui perdersi, il divorzio fuga e accesso a un futuro diverso.
La solitudine si riveste di fragilità, il desiderio affettivo cede a ricatti emotivi, la dipendenza dall’amore la incatena a relazioni tossiche, nel recente passato una certa inquietudine rivolta al futuro, l’ insicurezza di
…”non essere più una donna sposata che andava a fare la spesa e preparava la cena ogni giorno”….
E allora Tove rivisita quella bambina dall’esistenza incerta e transitoria, l’unione con Ebbe potrebbe restituirle serenità e una vera famiglia allargata, un marito e una figlia, ciò che desidera sin da bambina, una normalità a cui aspirare, la certezza di essere, oltre il talento per la scrittura, una persona piuttosto ordinaria, che sogna
…’ un giovanotto ordinario con un debole per le ragazze dai capelli biondi e lunghi”….
Ebbe è infedele, inconcludente, beve come una spugna, un uomo da mantenere, a Tove, indipendente e famosa, non resta che scrivere, un’astensione dal reale in un stato di comfort per dimenticare.
Nella solitudine dei giorni incontrerà Carl, una vicinanza malata che si insinuerà nelle sue debolezze riducendola a uno stato di dipendenza fisica e mentale. Quando il dolore si fa insopportabile l’ analgesia del presente impone la fuga da un male ormai cronico e onnipresente, unica strada per tollerare la vita con il rischio della dipendenza e allora…
…”nello specchio un volto segnato, invecchiato, estraneo, dalla pelle grigia desquamata con gli occhi rossi, sembro una settantenne”…
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Il disagio psichico e la richiesta di anestetici trasformano Tove in una tossicodipendente, bugie, furti, torpore, estasi, la separazione da chi ama, dai propri figli, da se’ stessa, dalla scrittura.
Cure, ricoveri, forza di volontà, un vortice di precarietà in una sospensione apparente, l’ incubo di una ricaduta, un nuovo amore, Victor, forse per sempre, l’ adattamento alla vita per sopravvivere al flusso dell’ esistenza.
…” Ero stata salvata dalla mia annosa tossicomania ma ancora oggi si desta in me quell’antica brama, non appena mi capita di farmi fare un prelievo di sangue o di passare davanti alla vetrina di una farmacia non morirà mai del tutto, finché vivo”….
L’ ultimo capitolo della “ Trilogia di Copenaghen “ svela l’ essenza più tragica della protagonista, quella dipendenza psichica e fisica che sembra innescarsi improvvisa ma che ha origini lontane..
Fama e gloria sospese, l’ ispirazione letteraria dissolta, Tove, sopraffatta da un desiderio imprescindibile di amore e di vita, precipita in un vuoto autodistruttivo, sospensione da un reale invivibile in attesa di un quid inafferrabile.
È una dipendenza da combattere, con cui convivere, nella quale perdersi, mai del tutto sopita, un male di vivere che può segnare per sempre.
A conclusione della trilogia riconosciamo un’ anima profonda, malinconica, arguta, dotata di dolcezza e sensibilità smisurate, che sfoglia e racconta gli angoli più spigolosi e fragili della propria esistenza, di bambina, di adolescente, di donna, di scrittrice, di moglie e di mamma.
Una donna che ha desiderato intensamente il riconoscimento e la realizzazione della propria dimensione artistica in un contesto storico-socio-culturale avverso e poco amorevole riuscendovi faticosamente, che ha cercato una versione personale dell’amore per cedere a uno stato di non amore, schiava di sentimenti non ricambiati, un’ anima fragile esiliata nel proprio desiderio di normalità.
La scrittura limpida, diretta, a tratti poetica di Tove Ditlevsen coglie nel segno, l’ autrice poco ci parla della propria versione e visione letteraria, di quella musa ispiratrice che l’ha accompagnata e preservata ma, probabilmente, lo scopo dell’ opera era un altro, trasmettere se’ stessa all’ interno di una quotidianità così difficile da affrontare e da tollerare.
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Quale verità?
…” c’è qualcosa nelle parole che di per sé porta un rischio, una minaccia, e non è vero che il vento se la porta via, gli echi di quelle parole rimangono per molti anni in letargo, rimangono a palpitare in un angolo della memoria per poi tornare al presente”…
C’è un desiderio incombente, una festa da organizzare per gli ottant’anni della madre, un momento pacificatorio in cui Gabriel vorrebbe riunire tutta la famiglia, le due sorelle Sonia e Andrea in primis, riconducendole a se’.
C’è una donna, Aurora, moglie di Gabriel, che da sempre ascolta in modo dolce e compassionevole, tutti le si rivolgono, si sfogano e si confessano ringraziandola senza diritto di replica, lei tace e acconsente, trascinata in un vortice complesso e pericoloso, l’ ascolto e’ un dono che possiede da sempre, insieme a un’ aria placida e malinconica e a un certo modo di sorridere e di guardare.
Il gioco della memoria ricostruisce un’ infanzia soggettivata, ciascuno rimanda desideri inespressi, momenti vissuti e presunti, dolori e traumi inevasi, percosso da un rancore silente e da un’ interiorità monca, spicchio di verità dal proprio angolo di mondo.
E così Sonia e Andrea ricordano gli anni paterni come un periodo felice, fantasioso, spensierato, la sua morte l’ inizio della paura, la casa un luogo intristito dal fatalismo materno, una donna pessimista, acida, dominante, il solo Gabriel la vede diversamente, una madre che ha dovuto rimboccarsi le maniche.
Parole incalzanti svuotate della propria innocenza, abissi di lontananza, il male in esse contenuto prorompe in un cortocircuito familiare che può allontanare per sempre.
E allora questa festa non sa da fare, chi la vuole realmente, e per quale motivo, contrapposizioni, ipotesi, accuse infamanti, vite spezzate, sogni infranti, violenza domestica, una fiction dai toni e dai contenuti diversi, a chi credere, chi ascoltare, ciascuno impegnato a plasmare gli eventi in un giuoco al massacro auto celebrativo, tralasciando il proprio senso di colpa per scaricarlo sugli altri.
Prosegue lo stillicidio di una trama familiare stratificata In cui vigeva lo spirito della laboriosità e del profitto, Andrea e Sonia ridotte a piccole donne laboriose, Gabriel il cocco di mamma, pochi soldi, niente giochi, un’ infanzia rubata, un talento artistico negato, studi mai concessi, un presente in cui c’è chi sostiene di avere una vita piena e chi di essere rimasta bambina, per contro c’è chi ha potuto dedicarsi alla ragione e allo studio della filosofia.
Aurora prosegue nell’ ascolto, soffre e rimugina, quale l’ origine di tanta acrimonia, l’impossibilità di essere amati, il sentirsi poco amati, vorrebbe imporre una tregua, rimandare la festa, annullarla, mentre una voce interiore introduce un nuovo racconto, l’ incertezza di un matrimonio che svela un’ identità diversa e una figlia nata con una malattia.
Progetti declinati, silenzi obbligati, nessuna voglia di ascoltare, sotterfugi, sospetti, crisi, paura, pericolo, rabbia, risentimento, pentimento, un rinnovato patto matrimoniale…
…” Le persone non smettono mai di raccontare, anche se non gli succede nulla, e anche se un inferno esiste, anche lì continueranno a raccontare, cercando di capire qualcosa del mondo, ricaricando costantemente il giocattolo delle parole”,,,.
Un romanzo famigliare di relazioni psicologiche, sentimenti repressi e inespressi all’ interno di un nucleo ristretto pervaso da rabbia e risentimento. Un monologo di voci singole, moto perpetuo con una vittima sacrificale per lo più silente, costruzione architettonica che scade nell’ isteria e nel patologico, tra vero e presunto, certezze svanite in una rappresentazione artefatta, convincimenti difficili da sgretolare, ipotesi sulle quali ogni volta ricostruire una porzione di storia, tutt’altra storia, ridefinendo la verità, un uragano di parole che paiono svuotate legittimando lo stato di infelicita’.
Quante verità e menzogne oltre l’ apparenza, la reiterazione un boomerang di vuoto e di staticità con una frammentazione evidente, aggressività impotente, la quiete non sempre si accompagna alla profondità, ma lascia una nostalgica assenza e una rassegnata presenza, restituendo al lettore un costrutto che si fa ossessivo, poco godibile e solo a tratti gratificante.
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Solitudini incrociate
Reykjavik, nella meravigliosa e misteriosa terra d’ Islanda si vive l’ attesa che qualcosa si smuova da un’ immobilità apparente.
Quattro protagonisti, vite sospese in un’ assenza definitiva, nell’ ansia dell’ adolescenza, nella rassegnazione di chi è giunto a un tempo in cui non si sente più protagonista, nello sguardo di un bambino lasciato alla cura di se’ in un mondo che non concede sconti.
Hanna è una ragazzina che sa di essere troppo magra per la sua età, ma è proprio questa la sua aspirazione, rimandare la vita cercando di sopravvivere sotto la superficie.
Arni si è congedato dall’ufficio tecnico di comunicazione in cui lavorava e ha deciso di prendere l’invalidità, vive solo con il suo cane, infatuato di una donna irraggiungibile, con una testa grande piena di pensieri.
Borghildur e’ sola, quanto ha faticato a credere nell’ amore e, dopo l’ inaspettata morte del compagno Steinn, con il quale avrebbe condiviso la vecchiaia, si sente come un sacco pieno di schegge di vetro, affaticata da ogni parola e da ogni passo ….” in una vita che ti sbrana e intanto ti guarda negli occhi con compassione”….
Aron è un bambino che suscita diffidenza e indifferenza, macchiato dall’ eco di una colpa, con una mamma sempre in ospedale che non riesce a prendersi cura di lui e un padre che non può tenerlo.
Solitudini separate, tronche, abbandonate, diverse e complementari, inciamperanno l’ una nell’ altra, poco da dirsi, ciascuno agganciato al proprio stato di inerzia, a un rimuginio che origina da paura, diffidenza, disamore, mancanza di amore.
Semplici relazioni di vicinanza, incontri casuali, stato di necessità, persone in cui imbattersi quando non se ne sapeva niente, circostanze convergenti in un’ inspiegabile unione di intenti, donandosi alla prospettiva dell’ altro, ridefinendo porzioni di se’, una soggettività rinchiusa in un non senso sollecitata da un soffio rigenerante, una relazione stratificata che abbandona l’ insensatezza.
Ecco una condivisione che ridefinisce i contorni del mondo, risvegliando sentimenti che nei giovani assumono il gusto della condivisione e dell’ esperire, negli adulti la capacità di donarsi restituendo un senso di utilità.
Ecco che i traumi personali rispecchiano e convergono negli bisogni altrui, mentre il dolore ineguagliabile di una perdita concede una pausa e ci si accorge …” che tutti siamo a un capello dalla morte”…, e …” si sta in attesa seduti lì tra il mormorio del fiume e i canti degli uccelli, tra i ruvidi arbusti d’erica e i fiori che appassiscono”…,
Anche la placida terra d’ Islanda può rivelarsi un luogo inospitale, nessuno al riparo dal mondo, la vita soffia impetuosa in una trama inaspettata e rovente che assume forme diverse, condivisa per pochi istanti, un film horror che sa di reale con un epilogo che sarebbe meglio non conoscere fino in fondo.
E in quel momento…
“ Aron e io ci scambiammo una occhiata e per un attimo non fummo quello che eravamo, ma immobili e infiniti come il fondo del mare, o una galassia. Sul tavolo di fronte a noi c’era una tazza piena per metà di caffè nero. Ci versai il latte fino all’ orlo e bevvi un senso di acqua tiepida. L’unico sapore che sentivo era quello delle lacrime che mi si erano piantate in gola”….
Gudrun Eva Minervudottir, una delle più note scrittrici e poetesse islandesi contemporanee, scrive un romanzo dai toni reali con una certa dose di leggerezza, vivacità descrittiva e sottile sarcasmo per riflettere sul senso relazionale, sulla durezza di una vita sospesa e sulle difficoltà di viverla, spingendosi oltre i significati apparenti.
E allora insorgono momenti inaspettati di intimità e di condivisione, il senso si copre di altro, si riesce a indagare con occhi diversi, anche se personali, malinconici, sofferenti, senza speranza, corrosi da assenze ingiustificate, è allora che ci si rende conto di appartenere al mistero di una vita complicata e complessa che non può bastare a se’ stessa.
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Desiderio d’ amore
Casa, amore, famiglia, un luogo cui appartenere dove sopravvive un senso di non appartenenza, una trama lineare che è la perfetta sceneggiatura di un film .
Henry ha tredici anni e sta con la madre Adele, bella e triste, frequenta poco il padre che si è rifatto una famiglia altrove, vivono in una cittadina in cui tutti si conoscono e nessuno va a trovarli, lei e’ disillusa dall’ amore, senza un lavoro fisso, rimpiange un passato in cui aveva ceduto al sogno di un matrimonio perfetto e al desiderio di una maternità più volte sottrattale.
Henry è solo, incapace, inopportuno, senza amici, negato per il baseball, vorrebbe che Adele fosse felice, vive un’ età in cui comincia a interrogarsi sul sesso e sulle ragazze.
Frank e’ un galeotto con un torbido passato relazionale, ha scontato quasi tutta la sua pena ma decide di evadere tormentato da un senso di libertà e di riscatto che non lo ha mai abbandonato.
Un incrocio pericoloso quanto scontato e necessario, nulla da perdere, poco da chiedere, tanto da desiderare.
La disillusione della speranza, l’ esclusione dal respiro della vita, un angolo di mondo defilato, una terra di mezzo che profuma di attesa e di rassegnazione, normale illegalità, improbabile possibilità.
Frank entrerà con naturalezza nelle grazie della famiglia ristretta, ciascuno pervaso da una fragilità emozionale che apre a un possibile scambio, cancellando gli indizi che riguardano un individuo pericoloso ricoperto di sangue, considerandolo un semplice essere umano spogliato di tutto cui dare riparo e a cui concedere una possibilità.
La quotidianità esprime una progressiva comunanza, gesti, sguardi, dialoghi, piccole cose, la propria storia assume contorni diversi.
In breve le aspettative confluiranno nel desiderio e nella possibilità di una nuova famiglia, ciascuno con motivazioni proprie, chi per recuperare la figura paterna, chi nella speranza di essere amato, chi attraverso un’ idea di riscatto.
Cosa può succedere quando passato e presente incombono, c’è una taglia pendente su un pericoloso assassino, gli intrecci soccombono all’ ombra di chi si sente rivale in amore, quando si è attraversati da pensieri indecenti ed egoistici, con l’ incubo di essere sottratti e sostituiti nel proprio amore, una madre che immaginiamo lontana con un altro figlio e una nuova famiglia?
E allora dinamiche inverse, un senso di vuoto e di non appartenenza, la voglia di tradire, di essere altrove, di affidarsi al proprio orgoglio ferito.
Gli eventi precipitano quasi inconsapevolmente, assumendo un indirizzo diverso, svuotando la propria costruzione affettivo-relazionale, inscenando altro.
Vite altrove, forse per sempre, chissà, il tempo lenisce le ferite, in parte si consuma negli anni, la gioventù si affida alla costruzione di una vita, si cambia, si ricorda, si vive, lo sguardo al futuro, e del passato che cosa rimane?
Quel senso di appartenenza durato pochi giorni, una condivisione vissuta a tredici anni, una passione da coltivare, un amore mai scordato, ormai radicato dentro.
….” Tredici anni non erano pochi per capire che il dolore e il rimpianto assumono varie forme”….
L’ epilogo non sarà semplicemente quello che è stato, l’ intensità del tempo vissuto, ma un sentimento radicato che esprime la vera droga della vita, l’ amore, un’ unione di intenti in un mondo perfetto che basti a se stesso, impossibilitati e respinti, un idillio breve e lunghi anni in attesa di un ritorno per sempre….
Un romanzo che, oltre la bellissima copertina, scorre nel respiro di una linearità narrativa con limiti evidenti, una vicenda già letta che non riusciamo ad immaginare diversa. La trama è funzionale alla fragilità del contenuto, personaggi scontati e conosciuti altrove, il ragazzino solo in cerca di una famiglia e di un padre, una bella madre intristita e disillusa dall’ amore, un cattivo-buono trasformato in eroe.
Che poi si ricerchi la profondità sentimentale lasciando un’ aurea di sentimentalismo e di profetica essenza di un amore respirato e vissuto anche nella propria assenza protratta, in una educazione sentimentale che ha lasciato il segno per sempre, in una costruzione di una vita che sia diversa dalla propria affidandosi all’ ottimismo
….” di luci accese e di una porta aperta”…,
non è che lo scontato epilogo di una fiaba di superficie piuttosto edulcorata e poco accattivante.
Indicazioni utili
- sì
- no
Solitudini diversamente estreme
…”Il soccombente è già stato messo al mondo come soccombente, È stato da sempre il soccombente”….
Tre pianisti e un incontro, un corso con Horowitz frequentato ventotto anni prima, per uno di loro, Glenn Gould, il pianista per eccellenza, naturale inizio di altro, per gli altri l’ abbandono di quello che avrebbe potuto essere un percorso brillante e virtuoso.
Da quel momento la caduta con vista sul precipizio, per Wertheimer un viaggio all’ interno della propria follia con un epilogo brutale ma necessario, per il narratore la rassegnata constatazione di un talento musicale non all’ altezza, per entrambi la certezza che non sarebbero mai stati degli artisti..
Due possibili virtuosi e un genio, loro che avevano ascoltato suonare le variazioni Goldberg nella sublime interpretazione di quell’ americano-canadese, una melodia che reca il timbro dell’ immortalità.
Come accettare e raccontare una vita non vita, fallimenti che attraversano la lenta implosione nelle scienze dello spirito e l’ inizio del proprio intristimento, il filosofo e il soccombente.
Di certo i due rinunciano a suonare il pianoforte perché non posseggono la grandezza di Glenn, ma come arrivare all’ auto annientamento dopo una conoscenza intellettuale basata sulle proprie differenze, benché con la medesima concezione dell’ arte?
Il narratore ricostruisce i fatti ricercandone le cause, ricordi, testimonianze, visite, colloqui, incontri, momenti famigliari, porzioni di vita, ipotesi, un senso claustrobico attraversa il racconto e si fa ossessione protratta, la bussola del tempo sostituta da un’ ossessione altra, l’ impossibilità di vivere il proprio fallimento all’ ombra di chi non ha bisogno di dimostrare, di simulare e dissimulare, del pubblico e del suo consenso, non nasconde fragilità, semplicemente e’.
Là genialità di Glenn Gould si auto rappresenta, un uomo con una grande autodisciplina, contrario alle imprecisioni, fanatico dell’ordine, che detesta quasi tutta l’ umanità non pensante come il suo pubblico e da esso si e’ ritratto trovando riparo fino alla morte in una casa americana in compagnia di Bach, che ama profondamente, la sua fine prematura e naturale si tingerà di beffa, sopraffatto dalla propria arte.
Il narratore e Wertheimer continueranno a frequentare la sua ombra, alimentando un rapporto di odio-amore.
L’ affannosa ricerca di se’ insegue spiegazioni improbabili in tempi e luoghi lontani, tra città e campagna, luoghi insalubri e inospitali, una disperazione che sa d’ infanzia, frammenti esistenziali, implicazioni freudiane, egocentriche, famigliari, gesti improbabili e accusatori, angusti spazi della memoria, inospitali stanze affettive ricolme di solitudine e di lontananza da chi si credeva appartenerci e che ci ha abbandonato per sempre.
La rappresentazione di una vita ( quella di Wertheimer) e l’ impossibilità di viverla, l’ onnipresente fantasma di Gould, interrogativi inquietanti, quanto la sua morte sarà la loro morte, un legame spezzato in un senso apparentemente insensato, è poi certo che siano stati annientati dalla sua figura e dalla sua grandezza?
In un crescendo di ripetizioni e di ossessive presenze, in cui il timbro della penna di Thomas Bernhard e la sua impeccabile costruzione scenica risuonano famigliari, nel tentativo di chiarire ciò che è evidente, si fa manifesto, celato da tracce sempre più evidenti, un senso condiviso di infelicita’ e di insensatezza, e ci si chiede quanto ciascuno rappresenti semplicemente la propria solitudine profonda, nell’arte, nella scrittura, in un ambito famigliare, ma forse, come diceva Glenn, …” siamo semplicemente ciò che siamo”…. era così sin dall’ inizio.
Quale l’ intreccio tra arte e vita, come un’ idea di perfezione può convivere con un’ imperfezione evidente, il senso di finitezza aspirare all’ assoluto in anni che hanno conosciuto l’ inconoscibile?
Impossibile fare chiarezza, indagare su timbri così diversi e complementari, una spiegazione possibile in quell’ inizio, l’ ascolto estasiato e silente dell’ inarrivabile interpretazione delle variazioni Goldberg eseguita da Glenn Gould, quando tutto pareva già scritto.
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I molteplici frammenti dell’esistere
….” e in quel momento pensò che non avrebbe mai imparato niente dalla vita e che sarebbe stato così per sempre”….
Il viaggio di una vita in una ricerca definente, anni che indugiano su particolari significanti, volti ingombranti tra sentimenti contrastanti, senso di inadeguatezza, un talento precoce paralizzato da un senso di abbandono e di fallimento.
Roland Baines, il protagonista del romanzo, convive da anni con i fantasmi del proprio passato, tre donne ( Rosalind, Miriam, Alyssa, la madre, l’ insegnante di pianoforte e la moglie ) e un danno, traumi irreversibili per un se’ indefinito e sfuggente, accusando per non accusarsi, quanto rancore nel respiro della sua debolezza, nessun futuro incollato alla medesima storia.
C’è l’ ipotesi che il tempo lo possa plasmare, un tempo che reca la previsione nefasta di un nuovo secolo in balia di disastri ambientali, conflitti armati, collassi finanziari, di un’ epidemia sfociata in un isolamento nocivo quanto necessario.
Un McEwan malinconico, autobiografico, introspettivo ma anche osservatore politico e sociale, costruisce il suo ultimo corposo romanzo tra le coordinate di un protagonista un po’ vittima e un po’ carnefice, immerso in un complicato rapporto tra aspirazione e fallimento, arte e vita, abbandono e appartenenza, egocentrismo e relazioni famigliari, verità e menzogna, lucidità e follia, solitudine e condivisione, potere e denaro, emergenza ambientale e idea di progresso, delirio tecnologico e pensiero critico.
Roland è un uomo poliedrico precocemente abbandonato dal proprio talento, iscritto a un senso rarefatto di ansia e di abbandono, che alimenta un monologo con un se’ insoddisfatto, accusa e si accusa, avvolto in frammenti mnesici e in un reale in cui riversare la propria soggettività fuorviante.
Costruisce e rappresenta una storia all’ interno della propria storia, nato in un’ epoca di pace ( il 1948 ) nel placido Hampshire, con genitori che hanno attraversato la guerra, prematuramente abbandonato a se’ stesso e alla propria educazione in collegio, vissuto nei misteri insoluti della propria famiglia, negli incubi e nelle grida di un bambino di sette anni, nella tristezza materna che diviene legame per scandire il tempo.
Il suo talento per il pianoforte e il rapporto con Miriam Cornell, la propria insegnante, una fragile educazione sentimentale sfociata nel patologico, un amore totalizzante, destabilizzante, morboso, senza futuro, dubbi e fragilità ad accompagnarne la giovinezza, la fuga necessaria dalla musica classica e dalla scuola, un matrimonio, un figlio, una moglie anglotedesca, Alyssa, improvvisamente dissolta inseguendo una gloria letteraria che la riscatti dall’ assenza dell’ amore materno.
Roland e una neo famiglia ristretta, lui e il piccolo Lawrence, Alyssa si è persa nella propria arte, la polizia lo accusa di niente, si sentirà abbandonato, rabbioso, inadeguato, cercherà la moglie nel cuore di una Germania ancora divisa, percosso dai sensi di colpa, esposto a una fragilità che sfocia in occupazioni precarie, tennis, giornalismo, poesia.
Roland non ricorda il se’ bambino se non nella figura totalizzante di Miriam, in quell’ idea di essere il migliore e nella scoperta di non esserlo, perso nelle relazioni, abbandonato alla propria smania di perfezione.
Un quadro psicologico-sentimentale instabile in uno stato di precarietà, volti lacerati e molesti dal passato, famiglie disperse, il precoce isolamento in un’ infanzia itinerante, solitudine affettiva, bisogno di amore, la ricerca di altro.
Passato e presente si intersecano, gli anni scorrono in una storia che si dibatte tra due secoli completamente diversi, dalla rinascita economica post-bellica alla guerra fredda, ai rivolgimenti politici e sociali degli anni’ 80, al thatcherismo, alla guerra delle Isole Falkland e alla caduta del muro, alla svolta liberal, agli attentati alla metropolitana, alla crisi finanziaria del 2008, alla Brexit, alla pandemia con il lockdawn del 2020.
Il romanzo include intrecci di famiglie dissolte, conservate faticosamente, violente, spezzate, appena nate, storie svanite, percorse, percosse, immaginate, lontane.
Ci si domanda quanto e come i grandi eventi plasmino e influenzino il proprio essere e viceversa, una vita lasciata al destino ma che si allontani dai retaggi di un passato irrisolto e da un’ ossessiva idea di rivalsa.
Il fluire del tempo si lega alla fragilità di una memoria distopica, all’ annullamento e all’ assenza, a un’ attesa che si confronta con la dimenticanza, consapevoli che
..”i nostri primi anni ci condizionano e che dobbiamo affrontarli”…
ma anche che
…”passando in rassegna una vita non è consigliabile soffermarsi troppo sulle sconfitte”…
Roland da cinquantacinquenne rivaluta il passato in un mondo diverso, ferite e acciacchi scontano la propria pigrizia, nuove rivelazioni scuotono il senso di solitudine di una famiglia allargata, figli adulti e lontani dalla propria versione dei fatti.
Lungo il viale del tramonto la fragilità fisica si fa evidente, la memoria fragile, la lotta per la sopravvivenza inscena relazioni forti ( bellissimo e toccante il rapporto con Daphne), assenze definitive, alcune strappate da un destino avverso, la vita assume colori diversi, il tempo va centellinato, un se’ non completamente definito che non aspira a essere altro ha salutato un passato dissolto da una memoria fragile,
….” ricordi sospinti a fiotti o sputati fuori da svariati motori del tempo che li riducevano a un solo oggetto”...
.
La vecchiaia include nuovi linguaggi amorosi, si perde nel presente, abbandona intra e retrospezioni, oltre i propri diari letti, riletti e distrutti spunta l’ ipotesi di un nuovo romanzo
…” di un mondo che vacillava sul proprio asse, governato in troppi luoghi da uomini di spudorata ignoranza, mentre la libertà di espressione si andava riducendo e gli spazi pubblici della rete risuonavano delle grida di masse in delirio..”,
Il romanzo di un secolo nebuloso con un futuro assai incerto che solo i nostri nipoti vedranno e vivranno.
Che cosa rimane del testo nella propria interezza? Un’ accurata indagine psicologica e introspettiva che attraversa il senso insensato di una vita nelle sue molteplici forme, ma anche un preciso contenuto politico e sociale che analizza i cambiamenti nella dissolvenza di un mondo malato.
Un’ opera di ampio respiro per un McEwan in grado di affrontare e sintetizzare porzioni del proprio passato letterario, ossessioni scolastiche e adolescenziali, complicate e irrisolte relazioni intrafamigliari, di riflettere sull’arte dello scrivere e sul ruolo dello scrittore tra pubblico e privato assumendo una posizione inversa ( il protagonista ha vissuto con una scrittrice in odore di premio Nobel ), di respirare le difficoltà del presente e una certa ansia per il futuro.
Critica e autocritica non cedono ad alcuna formula assolutoria e autoindulgente, il protagonista si riconsidera attraverso il profilo degli anni, riconosce un certo senso di fallimento e la necessità di eludere e abbandonare quella porzione di storia relazionale e sentimentale già tramontata.
….” Vieni, nonno. Andiamo di qua. E tutta seria gli prese la mano libera e lo guidò fuori dalla stanza”….
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Quale felicità?
Relazioni personali, coppie sposate, scoppiate, dissolte, amori fugaci, imprevedibili, sparsi, uomini, donne, figli, amanti, la malattia, fisica, psichica, il dolore, la perdita, il ricordo, le stagioni della vita, la vecchiaia, la morte, l’ idea di fondo che
….” essere felici è un talento e non puoi essere felice in amore se non hai un talento per la felicità”…
Jasmine Reza scandaglia una realtà borghese incentrata sulle proprie pretese di felicità e su quanto esse vadano centellinate in una vita che possa durare.
Intrecci separati e contigui, attori più o meno intimamente connessi, un’idea da presentare all’ altro e da ripetere a se’ stessi, un puzzle scomposto, momenti difficili da definire.
Il costrutto, che vive di monologhi in diciotto brevi capitoli che portano i nomi dei protagonisti, ruota attorno alla figura di Ernest Blot, leggendario patriarca della finanza che sta per lasciare la vita e si interroga sul destino delle proprie ceneri che vorrebbe sparse nelle acque del fiume Braive per ricongiungersi alla figura paterna.
Una coppia che litiga stupidamente in un supermarket per perdersi in un abbraccio notturno, un oncologo impegnato a prolungare la vita che si porta dentro un segreto d’ infanzia, una donna imbattutasi nel ricordo di un inafferrabile amore giovanile, due genitori consumati dal delirio psichico di un figlio che crede di essere una popstar, un uomo da sempre dedito al giuoco d’azzardo, il sottile filo dell’ esistenza a corredo di ogni singola porzione di storia, una costruzione scenica spoglia, essenziale, teatrale, secondo un copione caro all’ autrice.
Nel cuore di un’accurata indagine psicologica tracce di intimità allargate al ricordo e il tentativo di riportarle a una dimensione cosciente.
Porzioni di vita in un mare di storia, la volontà degli uomini di restituirsi al corso del tempo in una discontinuità temporale, la paura dell’ abbandono, il desiderio di raccontare e di raccontarsi, la ricerca di una felicità multiforme, la fine dell’ immaginazione, la costruzione di castelli incantati, tutto è torpore e fraintendimento.
Ci sono matrimoni in cui non si fa niente e non si è niente, amanti pervasi dalla malinconia, c’è chi si danna per animare l’ amore, chi non riesce a farsi comprendere.
Nel mentre gli uomini continuano a vivere in un immobilismo assoluto, ricercano e si accontentano di un porto sicuro ma basta un soffio a renderli vulnerabili, le donne alimentano l’ amore e ne sono sopraffatte, si donano costruendo una trama dettagliata, soccombono al fascino di uomini mascherati.
Non vi è niente di più impenetrabile di una coppia, coppie allontanate dalla propria immaginazione, da una semplice affermazione, circondate a affrante da un passato che le sovrasta mentre attorno tutto svanisce e un senso di ansia e di abbandono le comprende.
“ Felici i felici “ conferma l’ abilità dell’ autrice nel costruire una trama relazionale stratificata, a tratti piuttosto contorta, di non facile definizione, in cui il lettore rischia di perdersi inseguendo un senso impalpabile incentrato sulle molteplici versioni dell’ esperire.
Non resta che affidarsi al fluire del racconto, ai dettagli, agli istanti, a quelle sensazioni che ci accompagnano in una frammentazione che pare dissolversi.
Una domanda identitaria incombe; esiste la felicità e quale senso attribuirle? Di certo non inseguendo fantasmi dispersi nella memoria e reinterpretando idealizzazioni narcisistiche, ma nella consapevolezza di quello che si è e nell’ accettazione di una limitatezza naturale e necessaria….
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Che sia vera gloria?
“ Ragazze di campagna “ ( 1960), celebre romanzo di Edna O’Brien, considerato un punto di rottura nel mondo letterario irlandese, sembra restituire voce e dignità a un universo femminile da sempre maltrattato e silente.
L’ opera, incentrata sulla educazione sentimentale e sessuale di due quattordicenni, Kate e Baba, paladine di un desiderio di libertà che cerca di evadere da una condizione deprecabile e marginale, al momento della pubblicazione fu aspramente condannata e censurata da Stato e Chiesa per i propri contenuti ritenuti scabrosi.
Kate e Baba sono due quattordicenni immerse in una simbiosi necessaria, ragazze di campagna di estrazione diversa, sociale, economica, culturale, famigliare, personale, con gli stessi sogni, il desiderio di fuga da un mondo rurale ingombrante e riduttivo per cedere alle infinite possibilità di una vita cittadina che prospetta esperienze, conoscenze, libertà sessuale, un futuro possibile.
Kate vive l’ incubo di perdere la madre e l’ amato Hickey, il tuttofare di casa, un ragazzo dal cuore d’oro, è sminuita e osteggiata dalla gelosia di Baba, i suoi successi scolastici stridono con la disinvoltura dell’ amica, il suo desiderio di amore con la spregiudicatezza sessuale dell’ altra.
Un’ educazione sentimentale parzialmente condivisa, osteggiata da divieti e perdite famigliari ( Kate sarà presto orfana di una madre che ama alla follia), invise a un’ opinione pubblica costruita su patriarcato e cattolicesimo, l’ indecenza e l’ immoralità di un padre violento e alcolista, la fragile e artefatta cultura borghese.
Un giorno Kate e Baba verranno educate in convento, un luogo soffocante assimilabile alla galera, assoggettate a regole e a insegnamenti contrari al proprio desiderio di esperire, Baba si circonderà di storielle fugaci, Kate vivrà una passione romantica per il signor Gentleman, un francese affascinante infelicemente sposato.
La fuga a Dublino per gustare la vita nella città dei balocchi, incontri, feste, luci al neon, visi, traffico, gin, un enorme quantità di gente che corre chissà dove ….”l’ amavo più di quanto avessi mai amato un giorno d’ estate in un campo di fieno”…., due ragazze adulte e carine pronte a fare esplodere la città,…” una confusa massa di capelli ramati”… la gente che osserva e distoglie lo sguardo …” come se avessero appena scoperto che eravamo nude o qualcosa del genere”… ma non importa.
Quale futuro oltre la libertà dei propri diciotto anni? Verrà il momento di rimuginare sui visi campagnoli, di pensare all’ unicità e alla dignità di un prato e della luna, di considerare la bellezza della vita nell’ incontro con belle persone, di ritenersi superficiali e sciocche, di chiedersi come una solida amicizia abbia potuto dissolversi, di smaniare per qualcuno che pare un’ ombra.
….” È l’ unico momento in cui ringrazio di essere donna, il momento della serata in cui chiudo le tende, tolgo i vecchi vestiti e mi preparo per uscire. Odio essere donna. Vanitosa, vacua, superficiale. Ma in quel momento della serata sono felice. Mi sento bendisposta verso il mondo”….
Che cosa ha consegnato “ Ragazze di campagna “ a una fama postuma? Si è scritto e si è detto del messaggio sociale e politico dell’ opera, un’ idea di presente e di futuro per una generazione di donne in nome di una libertà espressiva a tutto tondo, una vita di costrizioni che prevedevano violenza, stupri, gravidanze forzate, parti pericolosi, schiavitu’ domestica, il rischio di essere internate perché contrarie a tradizioni conservatrici e obsolete, donne senza condizionamenti finalmente protagoniste del proprio destino.
Da un punto di vista letterario in realtà il romanzo non presenta particolari picchi di profondità, si dibatte in una vita di superficie che trasforma le protagoniste in due eroine del proprio tempo che sperimentano un’ educazione sentimentale e una sessualità piuttosto frivole, confuse, frammentarie, che non sanno bene come muoversi, cosa pensare e provare, irretite da un senso non senso che finisce con l’ essere stucchevole e poco inclusivo.
Quella famosa indipendenza per uscire da uno stato di dipendenza si annienta e si perde in una superficialità dilagante, un’ idea di libertà che esula da un profondo e meditato senso di appartenenza e di conoscenza di se’, la stessa Kate cavalca un doppio se’ auspicando e negando pensieri e desideri, il signor Gentleman, di cui è infatuata, è un personaggio distante e fumoso come Baba, che appare e scompare dalla sua vita inspiegabilmente.
La scrittura è colloquiale, scorrevole, frizzante, diretta, ma niente di stupefacente, di certo non percorre e percuote quel solco dell’ esistenza come ci si poteva attendere viste le premesse e la fama che hanno accompagnato e continuano ad accompagnare la famosa autrice irlandese .
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La perla del mondo
“ La Perla” inscena un rito di passaggio, una parabola che prevede l’ abbandono di un reale magico fondato sul perfetto equilibrio tra uomo e natura per inoltrarsi negli intrighi e nella pericolosa dissolvenza del cosiddetto mondo civile.
È la voce di un silenzio appagante inserito in un tempo qualitativo, personaggi calati nell’ incantesimo del presente in uno stato di essenza naturale e incosciente, una prosa che non prevede, neppure nei dialoghi, il linguaggio proprio dei protagonisti, ma voce e toni conformi alla lingua del narratore.
La poesia traspare nelle parole ritmate da un canto corale che origina da una musicalità insita negli oggetti soggettivati, il paesaggio, il mare, il vento, le foglie, una natura che assume forma e consistenza, conservando nella rappresentazione degli eventi la dimensione del fantastico.
Come in tutte le parabole una morale si cela e si mostra, quell’ idea di ritorno alle origini in un mondo che prevedeva povertà appagante, coscienza libera, equilibrio tra cuore e mente, il silenzio dei giusti.
Kino e Juana sono una coppia di pescatori messicani che vive all’ interno della pura bellezza …” di un paesaggio sospeso tra cielo e mare che ha la nitida lucentezza e l’ improbabilità dei sogni”…. circondati dalla semplicità di un mondo costruito sulle piccole cose in una condizione di povertà, ignari dei beni materiali.
Un giorno decideranno di affrontare le profondità marine in cerca di una perla da vendere per pagare le cure mediche necessarie a salvare la vita del figlio Koyotito, punto da uno scorpione.
La troveranno, e sarà di dimensioni stupefacenti, la perla del mondo, per venderla affronteranno i rischi e i pericoli della città, quella ..” bestia coloniale dove le notizie corrono in fretta e in modo misterioso”… Lì la notizia raggiunge in breve chiunque, il prete, il dottore, i negozianti, gli accattoni, i compratori, e…” l’ essenza della perla si fuse con l’ essenza degli uomini lasciando uno strano precipitato scuro”…
La cupidigia non riguarda Kino e Juana ma un bene così prezioso genera invidia, astio, curiosità, un oggetto agognato attorno al quale costruire i propri sogni, arrivando a considerare Kino l’ ostacolo principale e il nemico comune da estirpare.
La perla si fa archetipo di un riscatto sociale, economico, culturale, grazie al denaro ricavato dalla sua vendita Koyotito guarirà, studiera’, saprà leggere e fare di conto, un sapere che renderà la sua famiglia libera.
La perla si fa dannazione eterna, elemento di discussioni e dissapori intrafamigliari, allontanerà Kino e Juana dalla propria essenza.
La perla si fa oggetto di un delirio inconsapevole, un cammino interiore che allontanerà i protagonisti dalla voce della prudenza, dal ritorno all’ antico, rispondendo ad attacchi molesti, ferendo, persino uccidendo.
La perla segnerà la fine del sogno, circondati dalle fiamme, da un nemico senza volto, un coltello agitato nell’ aria, il suono di uno sparo, un urlo nel silenzio, il grido della morte, sulla sua superficie grigia e ulcerosa le atrocità di un passato recente e ….”la perla era brutta, grigia, come un tumore maligno”…
Ecco allora l’ intensità di uno sguardo, due parole, un rapido gesto, un tonfo lontano e …” la musica della perla si consumò in un sussurro e svanì “…
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Crisi identitaria
…”Forse non mi piacciono più gli uomini”…
Giulia e un’ affermazione improvvisa, imprevista, interpretabile, che sia amore saffico, sarcasmo, misantropia, disamore per il marito Glauco, sette anni condivisi, una figlia di tre, Alice, un matrimonio che, dopo il suo concepimento, ha dato segni di cedimento.
Parrebbe la fine di un rapporto logoro, Glauco ricorda cio’ che è stato interrotto e disatteso, momenti di una vita che ha respirato gli anni ottanta per spingersi nei due decenni successivi.
Una narrazione personale, famigliare, generazionale, un tempo che prometteva grandezza e si è rivelato un fallimento cancellando il futuro, un protagonista all‘ inseguimento di una passione giovanile alimentata dagli insegnamenti paterni, una laurea in filosofia dirottata sulla cucina allineandosi alla nuova dimensione culturale di fine millennio.
Glauco è stato un trentenne misogino annoiato da se stesso, Giulia un colpo di fulmine chiamato amore, il corteggiamento estenuante fino al cedimento, la convivenza, la nascita di Anita, la depressione post partum, l’ inizio della crisi matrimoniale.
C’è un prima e un dopo Anita, la figlia che lo ha cambiato rendendolo padre, la sua bambina, per la quale esserci, vivere i propri giorni, prima di lei Glauco non ricorda la sua convivenza con Giulia, che sia un segno di disamore?
Scurati e una generazione ( la sua 1969 ) vissuta in un’ epoca di pace, un tempo che all’ inizio degli …” anni ‘80 aveva perso ogni speranza di un prospero avvenire e proprio per questo aveva fatto dell’ ottimismo di facciata la propria bandiera”…. Una vita che non autorizza a niente, …” la celebrità alla portata di tutti”…, accompagnati da…” uno sconforto ozioso “…. Il mito della famiglia e del consumismo si abbracceranno, la convinzione che l’ amore per Giulia avrebbe disinnescato la propria fragilità cambiando la visione del mondo, e così la nascita di Agata, rendendoli migliori.
Niente di ciò se non una coppia scoppiata subito dopo essere stata famiglia, incomprensione, delusione, colpa, il desiderio improbabile di essere a tutti i costi felici, ….” immensamente delusi l’ uno dell’ altra ed entrambi da loro stessi”…. eppure Glauco continua ad amare Giulia.
Stress, fallimento, fragilità, un uomo senza identità, frequentazioni notturne compulsive, sensi di colpa nei confronti della figlia in un decennio, agli albori del ventunesimo secolo, segnato da un evento politico-religioso devastante e da una crisi economica senza precedenti.
Una generazione e una vita affetta da una …” sindrome da passato recente”…, che sembrava migliorare ma che ha subito un’inversione di rotta.
Ai posteri l’ ardua sentenza, cosa ricorderà Agata di Giulio, un uomo inconciliabile nella propria appartenenza di padre e nella propria fedeltà a se’ stesso?
Forse questo ma forse…
….”quando si girerà a guardare il passato troverà il ricordo di un uomo gentile e della sua bambina che siedono fianco a fianco sullo stesso muretto basso, a osservare con la sua presenza un’ opera di demolizione nell’ incantevole spettacolo del mondo. Il resto è strepito sciocco, vanità di vanità, il resto non ci riguarda”….
Scurati scrive un romanzo con richiami autobiografici, piuttosto tortuoso, una lingua che sovente perde di originalità e di essenzialità e si fa contorta, non propriamente poetico anche se aspira a tratti di intimismo nel cuore di un’ epoca edonista, precaria, individualista, la stagione della disillusione in un tempo ansiogeno e senza futuro, dando vita a una crisi famigliare e identitaria in anni in cui fare figli è divenuta un’ eccezione, la scalata sociale una necessità, l’ immaturità un marchio di fabbrica, la disperazione incollata addosso.
Il protagonista galleggia in un limbo di caos fragile, augurandosi di essere un buon padre, naufraga in autolesionistici e infantili flussi erotico-sentimentali figli del fallimento dei propri ideali romantici, corroso dal reale, auspicando, un giorno, la stagione della maturità, più semplicemente una versione di se’ che lasci ai posteri una scia di presenza.
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Quale amore?
…..”Dalla terra, una alla volta, le braccia di Bianca si alzano. Vanno a stringere Pietro. Due corpi piegati sull’ asfalto. Così stretti da sembrarne uno. Dritta, accanto a loro, una sentinella a vegliare sull’ altrove. Jacopo. Restano così. La pioggia li lava”…
Un lungo viaggio, Pietro e Jacopo, padre e figlio, sprazzi di ricordi di una giovinezza perduta in occhi innamorati, ora …” un cinquantenne dalla barba ingrigita, smunto, con la fronte alta, i capelli più radi”…, accanto all’ uomo un ragazzo …” un corpo vuoto, alto, slanciato, bello, con un leggero dondolamento mentre cammina, l’andatura da sonnambulo”….
Un viaggio da condividere in attesa di Bianca ( la madre ), interrotto da un guasto meccanico, una sosta obbligata per qualche giorno a S.Anna del Sannio, …”uno dei tanti paesi di pietra bianca strappata a blocchi dalla terra, una manciata di abitazioni perlopiu’ chiuse, un residuato destinato a sparire per sempre”…, ospiti improvvisati nel bar pensione di Agata, …” i cui occhi sono una specie di lente d’ ingrandimento”…, e dell’ aiutante Gaia, …”un bellissimo sorriso che rivela denti bianchissimi”….
È qui che, spogliato di tutto se non della propria memoria, in un presente che ha bisogno di tempo, circondato da sguardi posati su Jacopo e …. “ la sua presenza vuota”…, Pietro vorrebbe restare in silenzio, rifiutare il dialogo, volgere lo sguardo altrove, inseguito dal proprio dolore, svanita la speranza in un miracolo che non c’è mai stato, annientato dalla rabbia, dai debiti, da una povertà sempre più vera, dall’ assenza di tempo, da anni inserito in una routine che prevede i soliti gesti, i soliti mugugni ( di Jacopo ), una presenza vuota da accudire.
Jacopo è un diciottenne affetto da autismo a basso funzionamento, è afasico e perlopiù dondolante, completamente dipendente, …” è un angelo caduto, non è niente, è come un sasso o un orsacchiotto a grandezza umana, asseconda tutto, capisce niente, vive tutto, ogni volta, come fosse la prima volta”….
Jacopo è un figlio da accudire come un infante, ma come farlo se si considera la propria vita come un film dell’ orrore, visto e rivisto, se non si prova più nulla, odio e rabbia hanno soppiantato dolore e repulsione, una rabbia pronta ad esplodere, se ci si sente vittima di una maledizione, violentati dal destino, regrediti a una vita senza bellezza, giorni e gesti sempre uguale a se’ stessi.
Pietro non sogna più, vorrebbe piangere, sparire, imbrattato di una povertà che gli è implosa dentro, attorcigliato al proprio dolore, …” un bambino invecchiato precocemente”… e a volte…’ il figlio sembra il padre e il padre il figlio”….
Le ore segnano un immobilismo rivolto al passato, scalfiti da attenzioni dimenticate, da un senso di vicinanza, da una sofferenza condivisa, da desideri rinati, da una quotidianità che genera sprazzi di attesa, il presente incollato addosso, quell’ imprevedibile prevedibilità, Jacopo ha bisogno di vicinanza, di attenzioni, di cure, di stabilità, di conservare la propria routine.
Quale versione di Pietro, un uomo precocemente invecchiato e stanco, un padre attento e amorevole custode della fragilità del figlio, un individuo irascibile e rabbioso che ha oltrepassato la soglia, il fantasma di se’ alimentato dalla propria solitudine, una persona fragile e depressa che lancia un grido disperato e rigetta ogni aiuto?
Di tutto un po’, una scelta già definita, la vicinanza di Agata e di Gaia a insinuare dubbi, scalfire certezze, restituire un briciolo di umanità perduta, anche se non pare abbastanza…
Il romanzo di Daniele Mencarelli percuote l’ abisso di un uomo solo ingabbiato in una vita non vita che non ha scelto, se non nel proprio desiderio di paternità, ogni goccia di quotidianità assorbita dalla presenza-assenza di Jacopo.
Un giudizio sommario ci restituisce una scrittura diretta, essenziale, cruda, dialoghi intensi, tratti descrittivi ben delineati, personaggi piuttosto credibili, ma il romanzo rincorre le difficoltà e la rabbia inevasa di un padre solo ad affrontare l’ autismo del figlio.
Una convivenza trasformata nella ferocia di un uomo che si sente abbandonato, dalla famiglia e dalle istituzioni, sopraffatto da se’, da …” una povertà che ti rimane attaccata addosso, che ti perseguita e non se ne va”… , immerso in un incubo, quella che definisce la cosiddetta “ malattia “ del figlio.
Perché è di questo che Pietro ci parla …” sembra un malato, come il figlio ”…, …” la madre ha saputo ricostruire il suo amore attorno alla malattia del figlio, il padre no”… ….“ altre malattie sono battaglie, questa è una specie di maledizione”… …. “ chiedergli quale è la spiegazione della malattia di mio figlio”… ….” prima della malattia, quando la vita era ancora vita”…. e l’ autismo, ahimè, è più volte così definito. Forse si sarebbe potuta restituire maggiore centralità e soggettività alla figura di Jacopo, al suo essere autistico, a una umanità e sofferenza per lo più oggettivate e sottratte, mostrando un’ assenza-presenza e non viceversa, interpretando silenzi, mugugni, sguardi, sussulti, fobie, debolezze, paura, ansia, invece di ribadire continuamente abisso, vuoto, maledizione, assenza, niente, ma sarebbe stata un’ altra storia.
Fermo restando l’ inesauribile carico di responsabilità e l’ impegno, fisico, emozionale, affettivo, economico che assorbe la parte genitoriale oltre a un senso di solitudine, sfinitezza, abbandono, sconforto pienamente condivisibili, di certo tutte queste componenti si defilano al cospetto dell’ inesauribile dono ( parole di Gaia ) e bisogno di amore di un figlio in difficoltà.
Indicazioni utili
- sì
- no
Dimensione capovolta
…”Un mattino Anders, un uomo bianco, si svegliò e scopri’ di essere diventato di un innegabile colore scuro “…
Un risveglio traumatico, inspiegabile, imbarazzante, una solitudine non più sola in compagnia di quell’ altro, un uomo che lo segue come un’ ombra, che vorrebbe ammazzare, auspicando l’ annullamento di quel sortilegio, un crimine che gli ha negato se’ stesso.
Novello Gregor Samsa, sopraffatto da inquietudine e ansia, nessuna via di fuga, Anders si nasconde, si sottrae, aggira gli ostacoli, cerca di mimetizzarsi.
Decide di rivelarsi a Oona, un’ amica insegnante di Yoga in un primo momento colpita dal suo aspetto e che successivamente si inchina alla sua inquietudine e sofferenza, le persone che lo conoscevano non lo riconoscono, la gente di colore lo guarda diversamente, con sospetto, come se per un attimo riuscisse a vederlo.
Un se’ non se’ e una convivenza forzata, l’ impossibilità di essere lo induce a imitare gli altri, ma la sua metamorfosi non è esclusiva, tutti cambiano, le persone dalla pelle bianca andranno progressivamente scomparendo, una nuova condizione nella quale vedersi.
Quando la gente ti osserva diversamente tu stesso ti convinci di essere diverso, Oona la sola a considerare l’ unicità del loro rapporto, un rinnovato modo di avvicinarsi, di vedersi, di leggersi dentro, …”il fatto che Anders fosse Anders indipendentemente dal cambiamento del suo aspetto le consentiva di vedere più chiaramente l’ Anders in lui “…
Così nasce una coppia, in fondo l’ essenza di lui e’ la stessa, denudata della propria presenza, attorno una situazione fuori controllo, uno tsunami destinato a travolgere tutto, quartieri, cittadini, città, ogni giorno sempre meno uomini bianchi e nessuno che possa farci niente, una guerra intestina all’ interno di uno squilibrio evidente.
Non resta che sentirsi stranieri nella propria terra in attesa di eventi, giornate solitarie all’ interno del nuovo se’, testando e sperando nell’ affetto dei propri cari per non soccombere a una solitudine manifesta, un cambiamento che non risparmia nessuno, una cecità onnipresente, una sorta di annientamento, la scoperta di comportamenti che ci riguardano e che sono appartenuti ad altri, alla gente di colore, eppure oltre il colore della pelle si conserva lo stesso aspetto di sempre.
In un contesto ormai definitivo, quando tutto progressivamente ritorna alla normalità, Oona riflette su un fatto nuovo, che ….” lei era cambiata anche prima di essere cambiata, era cambiata ogni decennio, e ogni anno e ogni giorno”… e allora ..” pensò che non c’era motivo per cui dovesse perdere i suoi ricordi, quelli che voleva conservare”….
Una opportunità si presenta, ….” la sua vita sembrava prendere una nuova forma, cambiare pelle, e avrebbe potuto abbandonare la reclusione del passato e, affrancata, riprendere a crescere”….
Temi rilevanti, identità, diversità, cambiamento, il confronto con la dimensione altrui, una umanità intima oltre il colore della pelle, una cecità evidente, una neo dimensione relazionale, l’ opportunità di crescere, la capacità di leggersi dentro.
Un romanzo breve che scompone con una certa dose di sarcasmo un io frantumato e frastornato che fatica a muoversi in un mondo inconsistente, tra perplessità, annientamento, ridefinizione di se’ e di una vita intera.
Quello che la prima parte pare esprimere con forza e profondità va smarrendosi progressivamente in una metamorfosi fisica e strutturale corroborata da una certa levita’ narrativa costruendo una parabola edulcorata sul senso dell’ amore e di un amore, smarrendo atmosfera e dimensione imbevute di indifferenza, inquietudine e non senso di Kafkiana memoria e la cruda durezza della “ Cecità’ ” di Saramago per assolversi in una speranza di vita costruita su una neo dimensione famigliare e figliale che ne banalizza e sottrae i contenuti primari.
…” la immagino’ da vecchia, quando lui e Oona non ci sarebbero stati più, e senti’ che lo colpiva, quell’ immagine della figlia da lì a molti anni, e posò la sua mano marrone su quel viso marrone, rassicurandola, quella figlia scura, sua figlia, e lei miracolosamente lo lasciò fare “…
La vita non intima…..
Premessa. Il commento contempla una prima parte che include la sintesi del romanzo cercando di non spoilerare, una seconda ne individua i temi dominanti, una terza che è un parere complessivo sull’ opera. Le tre parti non sono connesse ne’ consequenziali anche se trattano il medesimo testo e la lettura della prima potrebbe lasciare intendere una valutazione diversa. Ma qui ci troviamo di fronte a un dilemma, e soprattutto a un parere personale, quindi fallace, cercando di comprendere perché il romanzo è stato accolto con entusiasmo e viceversa perché potrebbe non piacere.
….”Le storie, quelle importanti, quelle che cambiano i destini, sono fiumi impetuosi, difficili da imbrigliare. E a ma piace che questa storia inizi così, con un urlo di dolore”….
Il ritorno di Niccolò Ammaniti attraversa una settimana della vita di Maria Cristina Palma, detta Maria Tristina, con incursioni in un futuro prossimo, ex atleta, ex modella di lingerie, vedova di uno scrittore famoso, raffinata ed elegante quarantaduenne con un corpo eccezionale, attualmente moglie del presidente del consiglio Domenico Mascagni, considerata da uno studio di un’università americana la donna più bella del mondo.
Una protagonista esposta quotidianamente all’ ondivago flusso mediatico della popolarità, il privato prigioniero del pubblico, una netta separazione tra ciò che è ciò che avrebbe voluto essere, inzuppata di verosimiglianza, vestita di niente, sovente poco vestita, trasformata e frastornata da un mondo che vive di pancia, superficie, pettegolezzi, ipercriticita’, esposta a un’ onda mediatica realmente irreale.
Il solito dilemma, essere o apparire, traumi infantili trascinati e tralasciati, tuttora vividi ( la prematura e dolorosissima scomparsa dell ‘ amato fratello Alessio in un incidente subacqueo in Grecia, il precoce sgretolamento famigliare dopo la morte per malattia della madre quando Maria Cristina era dodicenne ), un’ infanzia trascorsa con i nonni, la feroce e ansiogena ricerca di un riscatto personale e sociale, un amore, forse l’ unico, precocemente spezzato, il matrimonio perfetto con il Mascagni, potere e denaro, una vita divisa tra privilegio e tragedia, corredata da un’ infinita lista di sciagure.
Chi è realmente Maria Cristina, un semplice oggetto dei desideri, la bellissima e silente moglie del premier, una donna frivola disposta a tutto pur di arrivare, un orpello senza talento da esibire o una persona fragile e irrisolta, che ha sofferto sin da bambina, che nasconde profondità, che vorrebbe essere amata e vivere intensamente i propri giorni?
Difficile dirlo quando le circostanze inducono a una vita di apparenza e di stereotipi, siamo quello che gli altri vogliono, credono, desiderano, invidiano, recitiamo una parte che ben ci si adatta, c’è qualcuno che pensa per noi, ci dosa le parole, ci sceglie gli abiti, ci ha sottratto la speranza, ci siamo arresi alle circostanze, siamo soli.
Quando uno spezzone di passato improvvisamente ritorna per assumere le sembianze di un incubo, inconsapevole, casuale, disinteressato, viceversa architettato ad arte o con secondi fini, il nostro mondo rischia di spezzarsi e perdere i pochi affetti reali, anche se c’è qualcuno che continua ad amarci.
E’ allora che costruiamo tutt’ altra storia, una trama terribile, impossibile, ugualmente fragile, sospettando l’ inverosimile, imbrigliati in un labirinto di non senso, congetture e ipotesi da verificare.
È allora che si risveglia una coscienza dormiente, soverchiati dai sensi di colpa, dai traumi irrisolti, scoperchiando il vero senso del vivere, nudi di fronte a uno specchio di menzogne e paura.
È allora che possiamo decidere, continuare la recita o riappropriarci di noi, aspirare al quieto vivere o alla vita vera, sacrificare una parte di se’, riabbracciare il passato per un presente e un futuro diversi.
Una trama che pare colmarsi di significati e di profondità, essere e apparire, pubblico e privato, verità e menzogna, immoralità e coscienza, egocentrismo e senso famigliare, opportunismo e senso dell’ amicizia, amore e indifferenza, uno spaccato torbido della contemporaneità nelle misteriose assenze-presenze di una donna sola nel cuore di una società mutevole e mutante, pochi gli affetti sinceri, esposta alla cinica e algoritmica formula di potere e denaro, alla violenza dei social, alla patinata società della Roma bene.
Una vita sterile indirizzata a un nulla di fatto ma ancora pervasa da un senso di onestà intellettuale , dal risveglio della coscienza, dal desiderio di sentirsi donna, essere umano, non un semplice e freddo oggetto da esposizione.
Purtroppo l’ essenza irrisolvibile del romanzo esplode in tutta la sua pochezza, profondità solo accennate, una totale assenza di forma e contenuti, quasi che l’ autore che ricordavamo si fosse perso e scordato di se’. Il linguaggio è banalmente scorrevole perché naviga sempre in superficie, inzuppato di cliché, ripetizioni, stereotipi, volgarità, poche invenzioni, scarsa ironia, citazioni sterili e pressappochismo, uno sgradevole miscuglio di ingredienti scadenti e male assortiti.
….Maria Cristina è ruzzolata giù per la scala evolutiva ben oltre i vertebrati e i molluschi, lì dove il pensiero latita e si è trasformata in una spugna pregna di alcool…
…Il passato te lo puoi pure scordare ma lui non si scorda di te…
…Mi ero preso una cotta esagerata, ho faticato a dimenticarti. Ti avevo puntato dal primo giorno….
… A te ti spezzano come un grissino, a me mi muoiono dentro...
…È giunta a un’ età in cui senza trucco si sente disarmata...
..Tutto la fa vibrare come una ragazzina al primo appuntamento...
…Devo riconoscere che negli anni sei diventata più intensa….
..Il dolore dell’ esistenza di Maria Cristina è ciclico, scompare per consunzione e si rinnova come un bulbo a primavera…
….Un righello che al posto dei centimetri ha i defunti...
…La perseguita un malessere toppo banale e troppo complesso da esprimere...
…Tu sei pazza, sei uno schianto, fai palestra tutti i giorni, sei una figa spaziale….
I personaggi paiono la parodia di una parodia tanto sono inverosimili, la protagonista include mille forme di se’, nessuna credibile e vera.
La trama è una fiaba un po’ horror e nauseante a lieto fine, con tutti i connotati della commediola romantica, quando cerca di spingersi oltre si copre di sgradevolezza, invischiata nel proprio articolato non essere, abbandonando il lettore a un senso di vuoto e di indifferenza. Rarissimi gli spunti di interesse ( qualche sprazzo descrittivo), assente l’ ironia, l’ intimismo auspicato mai pervenuto.
Difficile districarsi tra le pagine, spingersi oltre, ricercare significati, un’ inversione di rotta, laddove il deludente sconfina nell’ imbarazzante, di certo il titolo andrebbe riformulato in “ La vita non intima “….
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Dolore inevaso
… “ La nostra è un’epoca essenzialmente tragica, per questo ci rifiutiamo di prenderla tragicamente. Il cataclisma si è ormai abbattuto su di noi, siamo circondati dalle rovine; cominciamo a creare nuovi piccoli centri di vita, a nutrire nuove piccole speranze. È un lavoro molto difficile; la strada verso il futuro è tutt’altro che piana, ma noi aggiriamo gli ostacoli e li scavalchiamo. Dobbiamo sopravvivere, per quanti cieli ci siano crollati addosso”..
( D.H.Lawrence “ L’ amante di Lady Chatterley “ )
Sprofondati nell’ abisso di un’ assenza definitiva, affranti da chi continua a popolare il nostro dolore, prima o poi quel qualcuno va lasciato andare, liberandoci da un giogo di solitudine, riabbracciando la vita, affidando al cuore i ricordi.
La dimensione famigliare di Miriam Toews, una ciclopica dose di sarcasmo, umorismo, sensibilità intellettiva, leggerezza, protagonisti logorroici, stravaganti, dei tarati fuori di senno, allineati in una dimensione altra, figli di una rigida educazione mennonita, contrari a cliché precostituiti, risuona magistralmente in questo romanzo dai toni aspri e dolenti, tanto veloce e leggero quanto profondo e struggente. È un ritmo gradito, situazioni turbolente che scoperchiano anime, una vivace essenzialità che penetra temi importanti, etica, eutanasia, solitudine, suicidio assistito, depressione, diritto alla vita, ma anche famiglia, relazioni, senso del vivere.
La storia di Elf e di Yoli, sorelle unite nella propria diversità, sin da bambine contrarie alla omologazione da parte di una comunità giudicante, percosse da tragedie famigliari ( il suicidio paterno ) e da un gusto differente per la vita.
Se Elf, baciata da bellezza e talento, una pianista di fama chiamata a tenere concerti in tutto il mondo, ricca, ammirata, con un uomo adorante, è stritolata dalle ombre di una depressione autolesionista, Yoli è nata in un cono d’ ombra, priva di fascino e talento, due bambini avuti da due uomini diversi, una cattiva madre e una moglie terribile, una scrittrice mancata che non sa più cosa scrivere, una certezza, la voglia di vivere.
Il loro è stato un tempo condiviso, le scale di pianoforte la colonna sonora dell’ infanzia, giochi, libri, amori, affinità, litigi, incomprensioni, fino al giorno della partenza di Elf inseguendo un talento artistico in giro per il mondo, adulata e circondata da schiere di ammiratori mentre Yoli continuera’ a barcamenarsi in una vita di insuccessi, sbattendosi per guadagnare qualcosa, per studiare e imparare ( fallendo ) l’ arte di essere adulti.
Oggi Elf è sommersa dal peso dei giorni e del proprio talento, svuotata, fragile, dentro di se’ un pianoforte di vetro e il terrore che si rompa, Yoli e’ costantemente al suo fianco in un letto di ospedale, cerca di capirla domandandosi che cosa le sia successo, come si è disamorata della vita, ma non sa darsi una risposta, il presente sovrano, combattere e condividere, farle sentire la propria vicinanza, restituirle gioia, i sapori dell’ infanzia, una vita da sorelle siamesi.
E allora cerca di proteggerne la fragilità allestendo una cerchia di badanti, sottraendola alla solitudine, inscenando un inno alla vita, ma così facendo ne percuote l’ essenza del dolore, ne calpesta la dignità, ignorando che cosa ne ha reso invivibili i giorni.
Elf vorrebbe essere compresa, amata, aiutata, ma la vita prevede altro, protocollata da un desiderio di collaborazione impossibile, da assenze ingiustificate, da un’ incomprensione di fondo, condizioni invivibili e intollerabili per il proprio dolore. Lei è diversa, unica, altro, Yoli la ama per questo, ma non può seguirla in un desiderio irrealizzabile e senza ritorno, una solitudine viscerale senza meta.
Ecco che l’ equilibrio e’ sottratto, domande senza risposta, che Elf abbia davvero una malattia terminale, che sia geneticamente condannata a voler morire fin dal primo giorno, e le pastiglie che prende le danno l’ impressione che la vita abbia un senso, la fiaccano a tal punto che non le importa di niente, o rafforzano quello che ha già in testa?
È allora che si ridefiniscono i ruoli all’ interno della famiglia, si ripensa e si ridiscute di se’, si studiano soluzioni improbabili, cercando di
….” sottrarsi a tutto in un colpo solo, non sapendo da che cosa scappiamo. Forse siamo solo della gente irrequieta. Forse siamo degli avventurieri. Forse siamo terrorizzati. Forse siamo pazzi”….
Inquietudine, ansia, tenerezza, dolore, paura, preoccupazione, sfinimento, il senso di colpa per non essere stati all’ altezza, l’ impotenza per un desiderio inevaso. Chi realmente è sopravvissuto, quale vita ad attenderci e come viverla?
Allora…
…”sopra il nostro letto c’era un lucernario e potevamo vedere le stelle. Elfi e mi prendeva la mano. Se la metteva sul cuore e io sentivo il suo battito, forte e regolare. La mattina dopo avevamo un appuntamento di buon’ ora. Elf diceva che era come sposarsi o dare un esame. È una tortura dover passare la giornata ad aspettare, diceva. Dai, alziamoci, facciamo la doccia e andiamo”…
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Vite sospese
Belfast,1975, un paese dilaniato da una guerra intestina, una terra contesa da cattolici repubblicani e protestanti lealisti, l’ esercito inglese schierato, gli elicotteri che sorvolano le case come in un’ invasione aliena, bombe per strada, nei luoghi pubblici, ovunque, amici e nemici vicini di casa, perquisizioni, attentati, rivendicazioni, una vita costruita su ansia e precarietà.
Dentro un simile inferno un amore pericoloso, controverso, impossibile, lei, Cushla, giovane insegnate cattolica con una madre devastata dall’ alcool di cui dovrebbe prendersi cura, lui, Michael, avvocato protestante che si batte per i diritti civili, un pub come luogo di incontro, tra volti famigliari e sguardi intimidatori, un senso di appartenenza in un oceano di dissolvenza.
Il romanzo d’ esordio di Louise Kennedy si sviluppa nel cuore dell’ Irlanda del Nord, ed è come trovarsi dentro un bollettino di guerra.
In una vita che va vissuta e di fronte alla quale non ci si può arrendere, Cushla è una giovane donna reduce da un passato di sofferenza, con la paura di amare, il futuro un’ incognita, una classe di bambini da educare, un allievo speciale da preservare, una famiglia da soccorrere, una madre complicata da assecondare, un fratello da aiutare nella gestione del pub.
Come tollerare chi continua a odiarci, cosa essere quando non ci si ama abbastanza e non si è certi di niente, si respira costantemente morte e violenza, come confortare e proteggere chi non ha scelto di essere solo, è diverso, emarginato, deriso, vite sospese, certezze svanite, tenui speranze, la paura come compagna, ovunque l’ odore del sangue.
Oggi Cushla respira un senso di emarginazione, si è allontanata, trattata come una turista, lei che al liceo era circondata da ragazze cattoliche, l’ unica a vivere al di fuori di Belfast.
Michael e’ entrato nella sua vita quasi per caso, una sera al pub, quando lei si trovava in una sorta di stasi, depressa dopo la morte del padre. È un uomo sposato, forte, affascinante, brillante, con un debole per il gentil sesso e soprattutto protestante, Cushla è troppo giovane, poco sofisticata, troppo cattolica.
Sognandosi altrove, trascinati dalla forza e dall’ incoscienza di una passione incontrollata, il proprio senso di appartenenza scompare, ci si rafforza l’ uno nell’ altro, una comunanza di sentimenti e un senso condiviso di giustizia sociale, una coppia di fatto, ma rimane una distanza incolmabile rafforzata dalle circostanze, dalla lotta armata, da una diversità inconciliabile, da una doppia vita che concede solo attimi di intimità, da un amico-nemico imbrattato di odio e di amore negato, da un destino contrario.
È allora che tutto può svanire in una scia di dolore, rabbia, desolazione, indirizzando vite altrove, spezzandone altre, ma un giorno, al cospetto di una statua in resina su un piedistallo gessoso, un busto che esprime intimità e accuratezza, riemergerà una storia da poter condividere con qualcuno che si è accudito, difeso, preservato, probabilmente tradito, cresciuto altrove e fattosi uomo.
Forse, in tutto questo, vi è una dose di un destino che poteva essere altro se solo
….” Davy si fosse ricordato di mettersi la giacca, se Séamie fosse rimasto disoccupato per un altro mese e non si fosse trovato in una strada buia con qualche pinta di birra nella vescica, se Michael non avesse varcato la soglia del pub in una tranquilla serata di febbraio con la sua camicia bianca, se Betty avesse convinto Tommy a rimanere a scuola”…
ma c’ è anche un senso di colpa per quello che la propria presenza ha determinato.
L’ esordio letterario di Louise Kennedy è un’ opera stratificata e ben scritta, scorrevole, grazie a una prosa lucida e a una certa chiarezza espositiva, che sa addentrarsi in un quotidiano gravoso grazie a una trama credibile immersa in una tensione difficile da definire e da rappresentare.
Il principale merito dell’ autrice è proprio questo, la capacità di inserire una vicenda privata e dai contorni tragico-sentimentali nel cuore della storia, una lotta intestina inconcepibile che continua indifferente a restituire cadaveri, seminando terrore e morte.
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Destino ineluttabile
Tove si congeda dall’ infanzia ed entra nel mondo lavorativo, prima come domestica, poi all’ interno di una cucina, luoghi inospitali per la sua creatività letteraria, che vorrebbe abbandonare e che le restituiscono qualche sporadico incontro. Lavora per mantenersi, non ha potuto proseguire gli studi, un praticantato in attesa dei diciott’anni e di un impiego stabile e ben remunerato.
La famiglia le sta stretta, una rotta stabilita, genitori ingabbiati nella reciproca intolleranza, ignari della sua essenza, che la proiettano in un lavoro stabile, auspicando fidanzamento e matrimonio, una madre insoddisfatta e inconsapevole del pensiero altrui, un padre riflessivo in perenne precariato lavorativo.
Tove aspira all’ autonomia e attende la maggiore età per esercitarla, fatica a scrivere poesie, gravata dal peso della quotidianità, vorrebbe condividere il proprio gusto letterario con un’ anima affine, frequenta i coetanei con leggerezza, un cuore che desidera altro.
È cosparsa da una fragilità evidente, acerba della vita e dei sentimenti. un mondo nel quale fatica a riconoscersi, le sole persone di suo interesse paiono vecchie e malate, vive in un ambito famigliare diverso, stanco, invecchiato, consumato dagli anni, in cui sta crescendo, fatica a interessarsi delle parole altrui, i ragazzi che frequenta non la amano e vivono in superficie, l’ infanzia unico spicchio di tenerezza.
Crescere significa pubblicare i propri componimenti così che altri li possano leggere, un percorso oscuro, tortuoso, laborioso, una gioia che la spinge ad alzarsi e a guardare avanti.
Crescere rafforza il desiderio di amare, l’ uomo che sposerà sarà diverso, non necessariamente giovane e bello ma amante della poesia.
Crescere è confrontarsi con …”il volto brutale e maleodorante della morte”… che un tempo considerava un sonno pietoso, stretta alla vita e alla salute della propria giovinezza, per il resto…” giorni fragili, confusi, solitari”….
Crescere sono i suoi diciotto anni, una stanza tutta per se’, scrivere a macchina, un lavoro che la riempie di calma e di speranza, il sogno di un riconoscimento editoriale.
Poi inizieranno i giorni dell’ impiego all’ ufficio valute, Hitler invaderà l’ Austria, l’ oscurità cadrà sul mondo intero...
La pubblicazione del suo primo libro di poesie la allontanerà dall’ anonimato, un nome stampato sulla copertina, soggettività oggettivata, non più la stessa, non più sola, ma c’è …’ una certa pena e fragilità per una ragazza che si guadagna il pane da sola “… e una dose di rabbia verso il modo in cui è cresciuta, la propria ignoranza, la lingua parlata, la mancanza totale di istruzione e di cultura.
…” Non si vede alcuna luce in fondo a questa strada. E vorrei tanto godermi il tempo che ho, anziché dover sempre venderlo. Il mio libro entrerà nelle biblioteche e forse comparirà nelle vetrine dei libri. Alcune persone lo compreranno e lo leggeranno. Magari lo passeranno ai loro famigliari, magari lo presteranno, magari lo presteranno agli amici” ….
….Stasera voglio stare sola con il libro, perché non c’è nessuno che capisca davvero che miracolo sia, per me…
Il secondo volume della trilogia di Copenaghen si congeda dal solco della tradizione e dall’ infanzia per aprirsi alla vita, luci, ombre, realtà, sogno, una commistione tra un microcosmo di banale quotidianità e il desiderio di poetare.
Tove ricerca conferme, respira la propria unicità’ e il cambiamento ma staziona ancora in una terra di mezzo, aspira all’ indipendenza, economica e artistica, sospinta dal sacro fuoco della creatività, lotta contro un mondo maschile ostile e dominante, stereotipi anacronistici e tradizioni obsolete, sullo sfondo ombre belliche e catastrofici rivolgimenti.
Immersa nella definizione di se’ coltiva i desideri di una giovane donna, il matrimonio, i figli, una casa, una poetessa dai tratti molto comuni.
La Ditlevsen, una vita tormentata da dipendenze e fallimenti matrimoniali, definita l’ Ernaux danese del novecento, nelle proprie memorie affronta l’ esperienza empirica e rivela la propria essenza, un linguaggio asciutto con tratti intensi di una poetica del cuore e della mente, un flusso di coscienza fragile che rimarca l’ amore per la vita e l’ emozione incomparabile della scrittura in una solitudine gratificante.
Quando verrà pubblicata la prima raccolta di poesie “ Anima di fanciulla”, oltre a una …”felicità solenne, mai vissuta in precedenza”… sarà sormontata da una sorta di sbalordimento e di ritrosia nel leggere il proprio nome stampato sulla copertina, nel transito da lettrice a scrittrice, ed è come se, per la prima volta, si vedesse con gli occhi di un’ estranea, o semplicemente diversi, quelli di una giovane artista che finalmente ha realizzato il sogno d’ infanzia.
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Ho visto un lupo….
….” ho visto un lupo”….
Una semplice rivelazione scatena una nuova dimensione cosciente, la rielaborazione di una vita improvvisamente misera, vuota, sfuggente, un uomo solo di fronte a se stesso.
Il giorno di Capodanno, dall’ interno della propria roulotte, lo sguardo del settantenne Ulf Norrstig, cacciatore ed ex ispettore forestale, si posa su una sagoma maestosa, robusta, irraggiungibile, la fronte alta, il muso nobile, un lupo solitario dal mantello bianco e grigio, attimi di fissità fino a che il predatore si infila dentro il bosco e scompare.
Da quel momento il protagonista, che convive con la fragilità di un cuore malato, è attraversato da un soliloquio silente che si affida ai ricordi e ai diari di caccia dell’ infanzia, ma sa che c’è una memoria interiore inaccessibile che contiene altro.
Ulf ha vissuto una condizione di normalità destinata a non durare, gli acciacchi condivisi con il vecchio cane Zenta, gli scontri con la moglie Inga, due caratteri forti con opinioni diverse, fino a quando la visione di quel lupo, un essere irrazionale a cui dare un nome, Zampalunga, ha stravolto presente e futuro, accompagnandolo nel desiderio impossibile di confidare a Inga quello che ha visto scoperchiandone solitudine e limitatezza.
Un uomo chiamato a riconsiderare se stesso, a confrontarsi con un lavoro che ritiene fallimentare, immagini sovrapposte, Il bosco e la sua immortale bellezza, il lupo e la sua solitudine maestosa, i sentieri della propria infanzia. Ricorda gli esseri umani di “ Memorie di un cacciatore “, la solitudine di Ismaele, Jack London, il Libro della giungla, gli odori della natura riaffiorano, Ulf si sente un po’ lupo, molte volte lo è stato, di notte ha corso, si è accovacciato sotto gli abeti, ha vissuto cose per le quali non ha parole.
Forse quell’ apparizione è l’ unica certezza in un mondo grigio, bloccato dal proprio silenzio, mentre la moglie gli ricorda che …” tutta la mia vita è piena della tua solitudine “…. e dentro di se’ avverte il peso del proprio vissuto.
Ripensando al passato rifugge le uccisioni del se’ cacciatore, la folle pianificazione dei disboscamenti, la progressiva conquista della terra e la sua trasformazione in un enorme ammasso velenoso e brullo, ma la comunità fatica a comprendere il suo cambiamento acuendone il senso di isolamento.
E allora il generico “ tutto” diventa un umano “tutti” e Ulf è intriso di nuovi limiti, rifiuta gli stereotipi umani, si pone quesiti inquietanti, perché uccidere se non per fame?
Ecco la luce di una nuova forma cosciente, il recupero dell’ io, una dimensione di tenerezza come non era mai stata. Il lupo è parte di se’, istinto, forza, irrazionalità, presente, entità inafferrabile e indecifrabile, il buio che ci attraversa, la paura che ci trattiene, la gioia che ci rimane….
….” Questo era il suo bosco, questa era la sua casa, questa era la sua riserva di caccia. Qui lui viveva la sua vita esattamente come noi viviamo le nostre”…..
Un romanzo reale ed essenziale, dai toni poetici e nitidamente descrittivi, una lettura che purifica dalle tossine accumulate restituendo intimità ed equilibrio.
Il lupo scatena un universo celato, quel luogo oscuro e inafferrabile che è la propria memoria sensibile, ma anche un dialogo con il se’ nella propria sostanza animale, contatto e condivisione a distanza per accedere a una dimensione più vera.
La cecità è sostituita da una luce interiore, archetipo di un equilibrio sottratto, anestetizzati dalla razionalità irrazionale di un reale antropocentrico, distruttivo, condito da cinico utilitarismo, un percorso pacificatorio che si congeda dal vecchio non se’ per restituire ai giorni restanti un’ umanità vivibile e vera.
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Quale dimensione?
America, fine ‘ anni ‘50, Robert Blum, un ebreo di origini Ucraina che insegna storia delle tassazioni al Corbin College, è chiamato dalla propria università ad accogliere e a valutare un ebreo come lui candidato a un possibile ruolo accademico.
Il Dipartimento di Storia …” arruola un ebreo per ottenere aiuto, l’unico che hanno e che conoscono, di cui si fidano almeno in parte”…, …”un ruolo storico, di solito ereditato, l’ ebreo di corte, l’ ebreo protetto, l’ebreo utile da tenere in tasca”….
La trama ricostruisce un episodio rivelato a Joshua Cohen dal celebre critico letterario Harold Bloom, sul quale l’ autore ha costruito un romanzo dai tratti storici, religiosi, politici, sociologici, famigliari, un reale condito di fiction che gli è valso il premio Pulitzer per la letteratura 2022.
Robert Blum è il primo ebreo assunto dal Corbin College, in attesa di una riconferma per un posto a tempo indeterminato, per tutta la vita ha cercato di ignorare le proprie origini, quando non ha potuto negarle, un’ ansia di fondo tipica del maschio ebreo che non si sente accettato, che ricerca consenso in un mondo accademico precluso, l’ incarnazione…” rigonfia, apprensiva, angosciata del maschio ebreo scoordinato ed iperintellettuale, una pentola a pressione fatta di sensi di colpa”…
Il candidato da accogliere e’ Ben Zion Netanyahu, specializzato in storia medievale della penisola iberica e in ebraismo, nel 1959 un cognome sconosciuto, straniero, esoterico, in futuro così rilevante nella Storia di Israele.
La prima parte del romanzo contestualizza le origini del protagonista grazie all’ insegnamento secolare e religioso ricevuto nell’ infanzia, il percorso di studi e la vita privata, la seconda parte rivive l’ arrivo sul suolo americano di Ben Zion Netanyahu, l’ impatto con la nuova realtà, condita da un suo elaborato storico-religioso su ebraismo e stato ebraico, l’ origine medievale delle persecuzioni antisemite, la visione revisionista di cui è accusato e la sua posizione critica nei confronti della versione storica dominante.
Ben Zion è un uomo eccentrico e irascibile, attorniato da un contesto famigliare buffo e controverso ma anche uno studioso intransigente, acuto, sferzante, con una visione storica affrancata da compromessi e un desiderio di inclusione grazie al riconoscimento accademico.
Frequentandolo Blum dovrà rimettersi in discussione, posizioni e atteggiamento, lui un ebreo adattato alla neo realtà americana, vissuto in un contesto culturale e religioso fondato su un’ idea distruttiva, di condanna al massacro, in un conflitto irrisolto tra l’ idea molto americana di potere scegliere e la condizione ebraica di essere scelto.
La fine della guerra e il ritorno dalla stessa lo avevano convinto che non sarebbe stato ciò che era condannato a essere, che in questo paese non sarebbe morto ammazzato, la sua vocazione alla storia avrebbe apportato le correzioni giuste.
Alla fine degli anni ‘ 50, nel cuore della narrazione, Robert Blum vive una dicotomia tra una versione piuttosto irreale e una dimensione completamente diversa. La moglie Edith si annoia, vuole un lavoro vero, lo accusa di essere troppo accomodante, molle, sua figlia Judy è arrabbiata, vorrebbe liberarsi di un naso ingombrante, la loro casa cade a pezzi.
Nella ideologica e turbolenta visione di Ben Zion, una disputa storico-religiosa che ne qualifichi l’ immagine all’ estero in attesa di un ruolo determinante in patria, Robert Blum assiste, ascolta, partecipa, considera i fatti con un certo distacco, sceglie la via da intraprendere e si rivela per quello che è, un ebreo americano che vuole rimanere tale e interessato ad altro.
A questo proposito nel clamore generale risuonano le parole di Edith …” sono stanca di sentire parlare di ebrei, voglio sentire parlare di te e di me “….
Il romanzo di Cohen accarezza il volto dell’ ebraismo, ricostruisce una versione storica e religiosa con origini lontane, contrappone una visione revisionista intransigente a un ebraismo filoamericano, lunghe digressioni teoriche accompagnano la voce di Ben Zion in un testo per il resto piuttosto esile.
I Netanyahu sono un nucleo famigliare caotico e disomogeneo, maschere intrattabili in una gita fuori porto, piuttosto scontati ed evanescenti, la famiglia di Robert Blum ( alias Harold Bloom ) vive di fatto la propria ebraicista’ tiepidamente, la quotidianità e le dinamiche intrafamigliari emergono a sprazzi in pochi dialoghi rilevanti.
Ecco allora che, estraneo a uno spirito ebraico da viversi all’ interno dell’ ebraismo, il racconto si muove piuttosto tiepidamente con un umorismo balbettante e restituisce una vicenda anonima, dinamiche poco reali e inclusive, prive di un’ anima, un costrutto senza infamia e senza lode, ma da un premio Pulitzer era lecito attendersi qualcosa di meglio.
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- sì
- no
Vero o presunto?
….” Eppure come si fa a riconciliarsi con qualcosa o con qualcuno se i propri ricordi sono sfumati, se mutano nell’ atto stesso di formarsi?”… “ Una storia è un concetto ambiguo. Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti”…
“ Niente di vero “ di Veronica Raimo, è un lungo monologo razionale ed emozionale che attraversa una memoria sbiadita, ondivaga, camaleontica, un soffio gelido di una donna irrisolta che parla a se’ di se’, tra incertezza, insoddisfazione, ambiguità.
L’ autrice risale all’ infanzia per riproporre una sofferenza sospesa, sensazioni vivide, assenze protratte, presenze inquietanti, domande inevase, una precoce idea di fuga in un microcosmo gravoso e intollerabile.
Una famiglia da sempre luogo inappropriato, teatro di una recita consolidata, sempre quella, parole, suoni, voci, un cordone ombelicale impietoso e mai spezzato, presenza ossessiva, la protagonista cosparsa di un umorismo gelido e di un sarcasmo che la obbliga a dissimulare.
La vita di Veronica è stata una madre esageratamente apprensiva che le telefonava a tutte le ore e un padre sottilmente paranoico, vissuta all’ ombra di un fratello esageratamente brillante, debilitata da uno specchio che le rimandava spezzoni di vite altrui mentre ignorava la sua, un desiderio di visibilità in una routine domestica rivolta altrove .
Noia, educazione ferrea, poche attenzioni, tanto controllo, come sfuggire a una madre …”perennemente depressa che ascolta continuamente radio 3 “…e a ..”un uomo collerico che costruisce muri dentro casa”…?
Quale educazione sentimentale in un’ infanzia di reclusione e di isolamento, letture noiose, nessun futuro, quali sogni e desideri, laddove tutto è …”dopato dalla noia, persino il proprio corpo”…?
Che cosa generano invisibilità e solitudine affettiva, che cosa rivela la scrittura se non il vissuto dentro?
L’autrice si spinge tra vero e presunto, critica e autocritica, consapevole della propria incompletezza e fragilità, vive uno stato di nausea, la sua scrittura esplora un copione cangiante, parole ricoperte di ambiguità, una versione che agli occhi altrui pare diversa, in uno stato di adattamento, un tentativo fallimentare di evasione dalle mura domestiche per non morire dentro.
Immagini indelebili, il ricordo di una madre a letto con l’ emicrania e la bandana in testa piena di figlie surrogate, un padre collerico che urla in continuazione e continua a disinfettare la figlia dalla testa ai piedi, una bambina con un brutto carattere, secca, taciturna, depressa, una futura donna senza seno, un nonno amabile con cui trascorrere tanto tempo, una nonna piena di omissis per la quale provare un affetto mai nato, la convivenza con un fotografo nella reciproca disabilità visiva.
Gli angoli bui della propria infanzia riveleranno una ragazza e una donna con un brutto carattere in una terra di mezzo, sospesa tra l’ abbandonate e il riprendere, che continua a cambiare casa e vive bene in quelle degli altri, che la notte fatica a dormire, affetta da una collera ancestrale, priva del senso di coppia e del desiderio di maternità, che non chiama per nome i propri amori, con una scarsa autostima, sopraffatta dai sensi di colpa.
L’esito sarà un aborto in età tardiva e la rinuncia a ciò che avrebbe reso diverso il presente: ..” diventare quello che fingeva di essere, accettare”…. …” di allungare la mano e tagliare i ponti con la famiglia”…, …” partire per un posto qualunque, restare sulla strada, sparire”….
“ Niente di vero “ è un romanzo famigliare e personale in un ambito in cui ..” ognuno ha modo di sabotare la famiglia per tornaconto personale”… dove si è sempre manipolata la verità, in cui la scrittura attraversa una rappresentazione poco gratificante, non imprescindibile ed è definita ambigua e frustrante.
Assistiamo a un ritratto spietato e irrisolto in un microcosmo anomalo e delirante, una donna che non è riuscita a evadere e a riscattarsi dal passato, ma non è certo che abbia voluto farlo, che si conosce perfettamente, con una fragilità risoluta dentro la quale nascondersi e rivelarsi.
L’esito è l’ennesimo romanzo italiano che si dibatte tra vero e presunto, privo di solidità narrativa e di forza espressiva, di una narrazione credibile e realmente profonda, insomma di maturità letteraria, oltre quel solco di parole ammalianti e fini a se stesse che nascondono un oceano di fragilità e inconcludenza, una trama che si contorce e si bea di un senso insensato con poco di …ambiguo e frustrante…, se non per il lettore medesimo…
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- sì
- no
Morte umanizzata
Un giorno, all’ interno dei confini di uno stato imprecisato, la morte sospende improvvisamente la propria presenza assentandosi dalla vita e lasciando spazio all’ immortalità. Quale meraviglia e sbalordimento, feste, bandiere esposte, l’ accostamento al divino, l’eternità come ricompensa, tutti i problemi risolti.
Ma come pensare di vivere per sempre, ciascuno è la propria finitezza, nuovi dubbi si pongono, sociali, economici, politici, religiosi, etici, filosofici,.
Un idillio di breve durata, i moribondi rimandano la propria fine, la Chiesa non ha più senso, niente resurrezione e aldilà, le agenzie di pompe funebri inoperose, Ospedali e istituti geriatrici sovraffollati, che farsene di una moltitudine di anziani da accudire, il sistema pensionistico in crisi, e le assicurazioni sulla vita?
Una gioia tramutata in angoscia ed emergenza, lo stato non sa come gestirla, c’è chi porta i propri cari a morire negli stati confinanti, la maphia controllerà e gestirà il nuovo business, c’è chi vorrà morire ed è destinato all’ immortalità, alcuni morti viventi preferiranno il suicidio.
Economisti, filosofi, esperti di ogni genere interrogati su soluzioni possibili, una calamità che riguarda presente e futuro.
Il paese naviga in cattive acque, potere confuso, autorità diluita, valori invertiti, perdita del senso di rispetto civico dilagante, stati vicini insorti, si cerca di ricostituire l’equilibrio socio-politico, ma la vita eterna è un problema irrisolvibile.
Una società divisa tra la speranza di vivere per sempre e il timore di non morire mai, un dibattito filosofico in atto, la morte sarà la stessa per tutti gli esseri viventi, ciascuna morte è personale e particolare, al di sopra ce ne sarà una più grande, quella che si occupa dell’ insieme degli umani, e dove è finito il senso normale di concedersi a essa quando la propria ora è giunta?
Poi, un giorno, la morte ritorna e tutto parrebbe ricomporsi, ma questa volta invia delle lettere viola, otto giorni per lasciare la vita, consegne puntuali come i decessi e nessuno è pronto a morire.
Quale il suo volto, chi si nasconde dietro queste missive, sicuramente una donna, da ricercare, ma in che modo, perizie calligrafiche, ipotesi, identikit, non ha un volto se non la propria essenza, non è selettiva, non ha preferenze, da sempre impegnata nel proprio compito.
Se qualcuno, un giorno, non risponderà alla sua chiamata si sentirà sola, derubata, inascoltata, infelice, una debolezza che ha qualcosa di umano, creando un volto da amare, aprendosi al senso di finitezza e al miracolo della vita, osservando l’ affetto che la circonda ma che non la riguarda, inoltrandosi nella profondità dell’ arte, ascoltando la dolce melodia di un violoncello, respirando il profumo di un sentimento nuovo, con la possibilità di sottrarsi e sottrarre a un destino già scritto.
Il romanzo di Saramago, per buona parte piuttosto monocorde, si apre a un epilogo sorprendente dopo un flusso di ossessioni protratte, di eventi razionali e deliranti, riflettendo su temi riguardanti presente e futuro prossimi ( l’ invecchiamento progressivo della popolazione, una massa di anziani da accudire, i problemi pensionistici ) per affrontare un dato di fatto, il senso di finitezza, l’ inevitabile condanna sancita dalla nascita e il desiderio, poco condivisibile ma sempre più radicato, di immortalità.
La morte, quella vera, un giorno si presenterà, non è dato sapere quando, la vita eterna sarebbe individualmente inaccettabile, socialmente impossibile, economicamente insostenibile, nel frattempo si può rimandare la propria condanna.
In che modo? Respirando i giorni nella propria interezza, concentrandosi sul presente, allontanando le voci di una fine imminente, concedendosi alla forza dell’ amore e dell’ arte, alimentando passione e desideri, disorientando e rimandando il temuto appuntamento prestabilito, consapevoli del tempo nel tempo, in una qualità di vita che allontani il desiderio impossibile e inopportuno di aggiungere giorni infiniti totalmente svuotati di senso.
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Il volto della vita
“ Se vado via “ pare inizialmente sfuggire a uno sguardo definente, due vite lontane ( quella di Lilia Liska e quella di Roland Bouley ) che si sono intrecciate rapidamente per separarsi per sempre, sbalzi temporali, voci difformi, l’ eco di Lilia, la protagonista, una lettura che si svela con pazienza, pagina dopo pagina, quando se ne coglie l’ essenza, una ricostruzione di particolari e sentimenti che genera una versione possibile sul senso del vivere.
All’ interno di una trama poco complessa, la rilettura da parte di Lilia, un’ anziana donna ricoverata in un’ istituto geriatrico, di un libro che raccoglie i diari di Roland Bouley, scrittore canadese incontrato nel 1945, un fugace amore di gioventù da cui nacque Lucy, bella e difficile, morta suicida prematuramente, e il tentativo di ricostruirne la vita destrutturandola, ricomponendola, sintetizzandola. In parallelo la propria storia contaminata, cinquant’anni e tre matrimoni, cinque figli, diciassette nipoti, e quella relazione non matrimoniale alimentata nella memoria della figlia scomparsa.
Corrispondenze epistolari, diari, correzioni, analisi psicologiche e caratteriali, ipotesi, raffronti, nostalgia, memoria, una scultura plasmata e marchiata dalla dura personalità della protagonista, una donna cresciuta in una famiglia di coloni, avvezza al lavoro, laureata nell’ arte della vita, oratrice sopraffina, arguta e cinica, una sana egoista sensibile, segnata per sempre dalla morte inspiegabile di Lucy, dalla propria incapacità di piangerla, da un istinto protettivo e materno, trasferito alla nipote Catherine, figlia di Lucy, e alla pronipote Iola.
Chi è Roland Bouley e quanto realmente ha contato nella vita di Lilia? Di lui mancano pezzi di storia che lei ricostruisce attraverso gli anni e la rilettura dei suoi diari, centinaia di pagine da cui estrapolare notizie, accadimenti, ricostruendo una vita, pensieri e parole trasferite su un quaderno, di sicuro si parla di un eterno fanciullo che ha viaggiato molto, egocentrico, innamorato di se’ e con la paura di annoiarsi, presto orfano di madre. La su vita è passata attraverso due affetti contrastanti e poco affidabili, due donne diverse che lo hanno accompagnato insieme alle proprie manchevolezze, prendendolo per quello che era ( Sidelle e Hetty), molte storie fugaci, Roland ha citato Lilia solo cinque volte nelle proprie memorie ( chiamandola L ), ignorando di avere avuto una figlia da lei.
Egli avrebbe voluto diventare uno scrittore famoso, è sempre stato molto teatrale, misurava il mondo in base a quello che il mondo faceva per lui, impiegato in lavori nei quali non si è mai riconosciuto abbastanza ( fumettista, autore di testi di propaganda, negoziatore per la pace nel mondo, compratore e venditore di libri ), accompagnato da un certo idealismo e da una fragilità emotivo-sentimentale con origini immature.
Lilia ne parla amabilmente e schiettamente, anche con un certo distacco, lo conosce e lo ricorda, ne approfondisce alcuni tratti, si specchia nelle sue relazioni, ipotizza amicizie e incompatibilità con le donne da lui frequentate e forse amate, a legarli per sempre è il ricordo vivido della figlia Lucy, che ne possedeva i tratti caratteriali ma non il salvifico egocentrismo, nel frattempo lei stessa ha attraversato una guerra, tre matrimoni, figli, nipoti, pronipoti.
Lilia e’ una donna poco sentimentale e dalla lingua tagliente, distante e impaziente, piena di segreti, con una certa compostezza, ha poco da lasciare in eredità a figli e nipoti, se non il proprio quaderno, non vuole trasmettere la storia della sua vita, segue le ragioni del cuore di cui non ha mai divulgato il contenuto, possiede una duplice voce, esteriore e interiore, da usare nel mondo e con gli affetti più cari.
Era incinta di Roland, la sua scelta cadde su Gilbert, un poveretto a cui non importava di essere un rimpiazzo.
Alla fine a contare è la propria essenza più vera, siamo quello che non dimentichiamo, la memoria di se’ svanirà dopo la morte, il matrimonio può rivelarsi un’ onta o un tranquillo e noioso ménage, si vive un’ epoca di finzione e di emozioni effimere, ma chi siamo realmente per noi e per gli altri?
Non restano che pochi affetti duraturi, parole dette e non dette, silenzi, ipotesi, trame nascoste, l’ essere se stessi, padroni del proprio destino, e Lilia è stata una buona madre, una buona moglie, una buona nonna. dura come la vita più dura, non ha abusato delle proprie forze, non ha creduto di essere quello che non è, ma questo non è stato sufficiente per salvare Lucy.
Leggere i diari di Roland le ha permesso di prenderlo per quello che era realmente, di comprendere alcuni tratti di Lucy, ma….
…”le persone felici non sanno che farsene delle parole e ora che ho iniziato a scrivere sono diventata una noia” …
Un romanzo denso e riccamente vestito, da assaporare lentamente, appropriandosi delle innumerevoli voci connesse e del continuo rimuginio e rimescolio di situazioni e di sensazioni difformi. Non si parla di una o di più vite, ma del volto della vita nella propria frammentaria identità e complessità, nei misteri irrisolti, nei dolori inspiegabili, nel cambiamento dell’ esperire, nella forza di un’ assenza protratta. Il giudizio complessivo, condito da una prosa essenziale ed elegante, non può che essere lusinghiero, una lettura consigliata a chi osa affrontare le tortuose vie del profondo…
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Occhio sul mondo
Karl Ove Knausgard è un autore norvegese noto per “ La mia battaglia “, opera enciclopedica in sei volumi in cui la propria vita è radiografata e sviscerata in un minuzioso attraversamento della stessa.
“ La stella del mattino “ ci restituisce la sua grande forza narrativa, una prosa fluida e fluente che attraversa i banali accadimenti, una rappresentazione microscopica senza che apparentemente nulla accada, un immobilismo volontario all’ interno di un timbro musicale, spezzoni di storie inserite in una giornata particolare, in cui, all’ improvviso, un’ enorme stella luminosa sale in cielo per sovrastare il paesaggio circostante.
Non sappiamo di che cosa si tratta, prevale uno stato di sbalordimento, ciascuno alle prese con la propria quotidianità, che la stella annunci un lieto evento, un oscuro presagio o sia semplicemente quello che è, e che cosa induce, strani accadimenti, misteriose presenze, quello che ciascuno crede che sia.
In questo spicchio di Norvegia, ..” tra fiordi leggeri e scintillanti, montagne pesanti e silenziose, un paesaggio bluastro avvolto nel silenzio della notte”…, …” la stella sfavilla nitida in un cielo per il resto sgombro”…. E qui la vita scorre lentamente, attimi di un tempo che non esiste, immersi in una storia indifferente, fotogrammi di vita e di morte, ciascuno parte del tutto, terra, cielo, mare, flora, fauna, un universo separato e connesso, nel presente, un grande disegno rivelatosi all’ uomo attraverso la coscienza.
Vediamo ciò che conosciamo e sappiamo, non viceversa, ma se milioni di granchi lasciano il proprio elemento primario per invadere la terra, se una nuova stella si accende in cielo, c’è qualcuno che ci parla dietro tutto, è un segno di qualcosa?
Attraverso spezzoni di storie che capitolo dopo capitolo abbracciano protagonisti diversi, Iselin, Solveig, Kathrine, Gaute, Jostein, Turid, Arne, Tove, Egil, Emil, Vibeke, ciascuno impegnato nella propria lotta, in momenti di vita vissuta, scanditi da una minuziosa radiografia del reale in quell’ istante, l’ autore affronta e penetra temi profondi, dolore, malattia, adolescenza, vecchiaia, solitudine, morte, relazioni, amore, coscienza, senso del tempo, tutto ciò che pare contorno è parte di un puzzle, tutti interpretano il reale e quella medesima presenza luminosa che attraversa il cielo nello stesso istante ma in momenti diversi ( i propri ).
Tante porzioni di vita vissuta, pervase da una voce interiore che attraversa la realtà dei fatti
….Kathrine, pastora della chiesa luterana in crisi matrimoniale che si ritrova a celebrare le esequie di un uomo che ha incrociato in aeroporto, Tove e Arne, una coppia afflitta dal bipolarismo di lei e dall’ ambizione letteraria di lui, Egil, un uomo deluso dalla vita che si interroga sul senso di libertà per riscoprire solitudine e paternità…
…Iselin, una giovane sovrappeso alla ricerca di se’ affranta dalla profonda nostalgia per la propria infanzia, Emil, un maestro d’ asilo pervaso dal senso di colpa, Solveig, una caposala che assiste all’ espianto degli organi di un uomo che non è morto, Jostein, un giornalista ondivago che si trascina ubriaco tra un locale e l’ altro alla ricerca di uno scoop che riguarda lo sterminio di una band heavy metal da parte di un serial killer…
….Turid, infermiera di un ospedale psichiatrico che insegue un paziente scappato durante la notte per ritrovarsi al capezzale della fragilità di un figlio e Vibeke, una giovane donna sposata con un architetto in là con gli anni, un figlio piccolo di cui occuparsi, una festa da organizzare per i sessant’anni del coniuge….
Ciascuno è lì, in quel preciso istante, c’è chi vorrebbe essere altrove, protagonista di una storia diversa, chi è sovrastato da dolore e rimpianti, in contatto con la morte, chi vede l’ impossibile, rimpiange una vita che poteva essere altro, chi cerca di recuperare il rapporto perduto con i figli, chi rischia di averli già persi, chi è deluso dal proprio matrimonio, chi è troppo preso da se’ stesso per comprendere gli accadimenti o è così dedito agli altri da dimenticare se’ stesso, chi ringrazia per la vita che ha avuto e ha voluto, ciascuno con una propria storia inserita in un unicum, e ci si interroga sul motore dei singoli momenti e sul significato di questa stella luminosa, presagio di altro.
Knausgard svela un universo parallelo che ci riguarda, dialoga con la vita e con la morte, ricerca un senso che probabilmente non c’è, ricostruisce nell’ epilogo il proprio rapporto con l’ aldilà attraverso la voce di Egil, un saggio sulla morte e sui morti che è analisi su fede e ragione.
L’istante, un infinito adesso in cui Dio prende forma, l’ indifferenza verso ciò che ci succede come liberazione dal dolore, l’ attuale restringimento del concetto di morte, la consapevolezza della sua esistenza e il suo rimpicciolio, fino alla scomparsa.
Oggi non è permesso pensare a una vita oltre la morte, che i defunti continuino a vivere e possano albergare nei nostri sogni, la consapevolezza della fine ha sottratto quel senso di innocenza propria dei bambini e degli animali.
Quale il significato attribuibile a questa stella?
…”Bastava guardarla, emanava un che di silenzioso e intenso, qualcosa di indomabile che l’ anima poteva contenere ma non cambiare ne’ influenzare. La sensazione che qualcuno ci osservasse “…
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Realtà e fiction
Realtà e finzione raccontano la vita di un uomo il cui destino è improvvisamente mutato, catapultato verso una morte certa, possibile, probabile, forse no, non è dato saperlo.
Charley Barnes, alias Steady Boy, cinque matrimoni e quattro figli, un impostore bello e buono probabilmente destinato all’ eternità, una vita senza compromessi, figlio di quel sogno americano che ne è stato motore e fallimento, mille attività imprenditoriali collassate, truffe, raggiri, debiti, ipoteche, ripartenze, fallimenti, un self made man tramontato nella crisi finanziaria del 2008.
Il presente un’ improvvisa e inaspettata diagnosi di cancro, il peggiore, vita breve, mortalità alta, una sentenza di morte, impossibile sfuggire all’ incubo del reale, quel che resta di una vita sgretolata e dissolta, nella quale non ha neppure preso una laurea ed è rimasto solo un dilettante,
Mogli, ex mogli, figli, figli adottivi, amici, conoscenti, colleghi, ex colleghi, nessuno lo prende sul serio, da sempre affetto da una massiccia dose di ipocondria, la menzogna unica regola, ora tutto è cambiato e lui stesso pensa di esserlo.
Realtà e finzione si specchiano, si incastrano, si assentano per ritornare nel medesimo gioco ad effetto, che cosa resta di Charlie se non un passato percorso e percosso dai propri insuccessi, da un senso di fallimento imprenditoriale, da ondivaghi flussi erotici e capricci sentimentali, dalla smania di eccedere, eccellere, da un rimescolio continuo?
Quando la vita è al capolinea l’ ansia ti stritola dentro e sei trascinato dal desiderio di ricordare, accludere, chiarire, chiamare i tuoi cari, riannodare i giorni.
Charlie decide di affidare la propria biografia al figlio adottivo, Jake, uno scrittore che sappia rappresentare la realtà vera, la memoria istituzionale in una casa di smemorati, ma qualsiasi opera non è che un costrutto personale, omissioni, aggiunte, cambiamenti, un angolo distopico in cui confluiscono vero e falso e la fiction diviene verità assoluta e proposta univoca in cui gli altri stentano a riconoscersi.
È allora che si ricercano i rapporti che furono, assenti, tralasciati, distorti, ma, preceduti dalla propria efferatezza, è difficile risultare credibili e affacciarsi alla verità. Lui stesso fatica a definirsi e ignora la verità vera, esistono vite di cui non conosce lo svolgimento, i figli Jerry e Marcy gli fanno la guerra e gli sono indifferenti, le ex mogli si sono ricostruite altrove, gli amici dissolti, i colleghi non lo ricordano.
Quanti volti e spezzoni di storie hanno attraversato la vita di Charlie Barnes, la morte imminente potrebbe portarlo alla pazzia, indurlo ad abbandonare la vita, ma dentro di se’ ha ancora voglia di vivere.
Il presente è Barbara, l’ ultima moglie, ex infermiera, invisa ai figli, fredda, calcolatrice, anaffettiva, la sola pronta ad accudirlo e il figlio Jake che, nella difficoltà, riscopre l’ ingenua genuinità e la bonarietà del padre adottivo.
Charlie e il suo passato di ipocondria nascondono una verità inappellabile e una condanna, non si è mai amato abbastanza e ha avuto paura di vivere, un incubo da cui non si guarisce, colpito da due condanne, la morte fisica e la paternità.
Oggi può pensare di diventare un uomo migliore, di riallacciare i rapporti con i figli, di amare come non ha mai amato, ma l’ America è piena di bugiardi, di approfittatori, di impostori, un mondo falso in cui non vale la pena vivere, il tempo e’ passato, lui è invecchiato e morirà.
Un romanzo cinico, umoristico, paradossale, un fiume in piena di dialoghi e di accadimenti, una miriade di personaggi e di microstorie, tra vero e presunto, passato e presente, rappresentazione sociale, politica, famigliare, situazioni più o meno credibili, molteplici vite in una medesima vita, visione estremizzata del fallimento del grande sogno americano.
Un costrutto ben scritto ma piuttosto caotico, che non riesce a rappresentare un mondo come vorrebbe e a entrarne in profondità, ripetitivo nelle situazioni e nella definizione dei personaggi, impalpabile nella rappresentazione degli stessi. Durante la lettura ci si confonde, travolti e stritolati da un’onda gigante, si cercano chiarimenti e una possibile via di fuga per finire, paradossalmente, con l’ annoiarsi, mentre la rappresentazione della malattia, da cui tutto ha inizio, non è un fine ma un semplice mezzo.
Il tema di fondo rimane lo stesso e ci si chiede: chi è Charlie Barnes, il protagonista di un romanzo prima e dopo una diagnosi infausta, il simbolo di un’ epoca dove tutto è stato possibile, un uomo alla disperata ricerca di se’ e di un senso, un peccatore che cerca un ultimo colpo di coda riappropriandosi della propria umanità e dell’ amore figliale?
Il dubbio rimane, e ne accompagna l’ intero cammino, tra grandezza presunta e bassezze dimostrate, un dubbio poco credibile che possiede tutti i requisiti della fiction.
Quale Natale?
,,,” Il peggio doveva ancora venire e lo sapeva. Già sentiva un mondo di guai ad attenderlo dietro la porta che si preparava a varcare, ma allo stesso tempo il peggio che avrebbe potuto succedere se lo era già lasciato alle spalle: la cosa che aveva potuto fare e non aveva fatto, e con cui avrebbe dovuto convivere per il resto della sua vita”…
Un racconto di Natale ambientato nel recente passato, che per alcuni temi ( il viaggio della memoria, la ricostruzione di una vita, il cambio di rotta ) e atmosfere ricorda il celeberrimo “ Canto di Natale “ fatte le dovute proporzioni.
L’ atmosfera natalizia non si addice particolarmente a chi, come il quarantenne Bill Furlong, è sempre al lavoro e, in questi giorni in particolare, consegna con il suo camion legna, torba e carbone nelle case, una quotidianità di duro lavoro, denaro da riscuotere, ansia e pensieri sul futuro prossimo, una famiglia numerosa da mantenere ( cinque figlie ).
A lui sogni e desideri sono preclusi, eppure, in questo angolo d’ Irlanda nella metà degli anni ‘ 80 e in questo periodo, riemergono l’eco della memoria, frammenti della propria infanzia, sensazioni vivide di un passato privato del focolare domestico, una madre scomparsa prematuramente, un padre mai conosciuto, la famiglia Wilson che lo ha cresciuto.
E’ l’ avvicinamento a un altro Natale, in cui riflettere sulle cose che accadono, da decenni sempre le stesse, persone, luoghi, relazioni, accadimenti, scavando nel proprio io.
Da bambino Bill per il suo Natale avrebbe desiderato un padre da amare e un puzzle da costruire, non ha avuto nessuno dei due, niente torna una seconda volta.
A bordo del proprio camion si presenta alla porta di un mondo che non ha mai considerato proprio, un istituto frequentato da ragazze, gestito da suore, a proposito del quale circolano voci crudeli e contrastanti. Da questo luogo uscirà spogliato e scosso, con il dubbio se proseguire il quieto vivere nel silenzio di una comunità religiosa benpensante o osare e rischiare rincorrendo la voce della coscienza, rispondendo alla disperata richiesta d’ aiuto di una giovane donna.
Quale vita finora, oltre la moglie Eileen e le sue ragazze, quali le cose importanti, e il senso delle sue giornate?
Una voce interiore risuona continuamente nella propria testa e, quando il presente preclude gioia e benessere , si arriva a considerare una vita altrove o si rigetta l’ idea che essa sia soggetta al caso, fermi davanti a una porta in attesa che si apra, realizzando che le cose più vicine spesso sono le più difficili da vedere.
Una fiaba natalizia ben scritta, leggera e dal gusto un po’ amaro che si concede alla speranza. Temi già noti, il senso di appartenenza, il significato dell’ essere cristiani, il guardarsi e leggersi dentro, il rifiuto di tradizioni obsolete, il senso della vita e della comunanza, la forza di osare.
Anche qui, come nel recente “ Una buona madre “ di Catherine Dunne, si fa riferimento agli istituti di correzione per ragazze madri, agli abusi e alle morti ivi scoperte e a lungo celate, un capitolo buio e riprovevole della storia d’ Irlanda.
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Il respiro acquatico nel dolore della dimenticanza
La vita è il respiro di parole e di gesti essenziali, giorni che si riempiono di ricordi, di nostalgia e rimpianti al cospetto del dolore di una perdita inevitabile, e allora, in questi momenti, non resta che uno sguardo, laddove le parole sono scomparse, e …” quando arriva al tuo viso ti guarda negli occhi con meraviglia. Il suo sguardo ripete più volte questo giro. La fotografia, il tuo nome scritto sotto, il tuo nome sulla targhetta, il tuo viso. E ogni volta, quando arriva al tuo viso, sembra sul punto di parlare”…
Alice, l’ anziana madre dell’ autrice, sta perdendo la memoria, dimentica pezzi del proprio passato, confonde i volti, scambia gli oggetti, non riconosce i luoghi, non ricorda quando ha iniziato a dimenticare, sa solo che sta dimenticando. Una malattia della quale si sono ignorati i sintomi iniziali, che la accompagnerà verso la fine, quando il vuoto della memoria si allargherà e lei inevitabilmente diverrà un foglio bianco.
Allora vivrà nell’ attesa, e la casa di Cura Bellavista sarà il capolinea, un luogo dove spersonalizzarsi e giorno dopo giorno dimenticare sempre più cose, presto completamente spoglia, uno spazio vuoto, per la prima volta libera, nel qui e nell’ ora.
Alice non guarda più dalla finestra, non chiede più di suo marito, a volte i giorni scorrono senza una parola, sua figlia, scrittrice di fama, in tutti gli anni di lontananza, non l’hai mai invitata, ne’ scritto, ne’ chiamata il giorno del suo compleanno, ora che è tornata è troppo tardi, sua madre sta scomparendo.
Il passato e’ un luogo avvolto totalmente nell’ acqua, una piscina nella profondità della terra, qui Alice veniva perché ci è sempre venuta, qui sapeva cosa fare. In piscina si scordano i problemi della terraferma, si ritrova il vecchio spirito giovanile, è un luogo di culto, totalmente proprio, fa stare bene, restituisce un senso di benessere che manca nella propria vita di superficie.
Qui sembra di stare altrove, in un universo parallelo, l’ acqua è vita, scelta, destino, assenza di gravità, fa volare, vi si vive il puro piacere di nuotare, i bisogni si dissolvono, liberi, sospesi, estasiati, euforici, in uno stato di grazia ipnotico, cadono i confini con il mondo, tra il corpo e l’acqua, è il nirvana.
La piscina metafora di un’ interiorità intensamente vissuta, lì senti il suono rilassante del tuo respiro, il ritmo delle bracciate, ascolti i pensieri mentre scivoli nell’ acqua fresca, trasparente.
Nuotare è rito, abitudine, esigenza imprescindibile, vita, secondo regole e convenzioni, nuotare è benessere, equilibrio, oblio. Un giorno si scoprirà una crepa nella profondità della vasca, un fessura inquietante, silente, preoccupante, che, come uno stato di malattia, verrà negata, ignorata, posposta, indagata, con la quale si proverà a convivere e alla quale, alla fine, ci si dovrà arrendere.
Un romanzo ricco nella propria essenzialità, crudo nella rappresentazione di una malattia invalidante, poetico nella descrizione di un preciso stile di vita, dolce nel respiro di una bracciata, sofferto nella constatazione della perdita dei propri giorni, amorevole nella accettazione dell’ impossibile, duro nella ammissione di una colpa pregressa. Una piacevole scoperta, un tema difficile da trattare perché riguarda una dimensione intima e assai dolorosa, la paura di dimenticare e di essere dimenticati, laddove l’ acqua conserva e preserva la vita…
Quale amore?
“Quel tipo di ragazza “ sfoglia la complessità e l’ imprevedibile ovvietà di un matrimonio agiato ritenuto “ perfetto “ servendosi di una prosa accurata ed elegante, misto di forma e contenuto, grazie alla
dosata rappresentazione oggettiva e relazionale della Howard. L’ esito è un romanzo equilibrato, thriller sentimentale e commedia ficcante che si svela oltre l’ apparenza, una ridda di eventi in una riflessione acuta su amore e destino.
Tra le pagine di una vita coniugale con cadenze consolidate, la bella villa in campagna, l’ ottimo lavoro in città, la routine domestica, una passione con approcci standardizzati, dove tutto è sedimentato in un ciclo di appartenenza, Edmund e Anne, coniugi quarantenni, vivono da dieci anni una magnanimità cementata dalle diversità, da parole dette e non dette, desideri inespressi, tralasciato un passato di sofferenza, un ménage che non prevede intrusioni moleste, una linea retta piacevolmente assorta, paghi della propria mediocrità.
Anne assapora un menu costituito dall’ esercizio di semplici doveri quotidiani, nessuna dose di piacere, sottratta da Edmund a una vita di angoscia e di miseria per elevarla a benessere e stabilità, fiera di rimandargli la propria gratitudine con una massiccia dose di devozione e operosità.
Edmund è un agente immobiliare piuttosto prevedibile, ama i compromessi ed evita le decisioni, la loro vita matrimoniale è un’ isola …” con qualche sporadica incursione su quella o questa terraferma per esigenze sociali e domestiche”….
Come riuscirà la giovane Arabella, figlia di Carla, matrigna di Edmund, ad approdare su quest’ isola, come si accaserà nella loro famiglia, destabilizzando una dimensione siffatta, così sola e fragile, bisognosa di affetto e di accudimento, con una madre onnivora, egocentrica e disinibita, una giramondo incurante degli altrui sentimenti?
Al primo sguardo Arabella parrebbe una ragazza senza meta, un ingombro noioso, un’ intrusa da sopportare, una povera ricca con un’ educazione grossolana, che scantona la sincerità e rigetta incontri matrimoniali precostituiti, un’ apolide sormontata dall’ onda del momento.
Eppure la propria fragile essenza scalfisce l’ ovvio e restituisce una figlia da preservare, una amica da frequentare, una confidente da custodire, con un passato di sofferenza, un solo grande affetto negato, in grado di rimuovere la superficie e il senso di perfezione autoimposto per generare emozioni e sussulti erotico-sentimentali, corrodendo l’equilibrio famigliare, restituendo sprazzi di felicità insperata, insinuando dubbi e generando certezze.
Una fragilità forte destinata a scardinare l’ ovvio, a scoperchiare silenzi, bugie, inganni, inconsapevolezza, sogni, desideri, amore, l’ ambiguità di un linguaggio e di un comportamento impregnati di dolcezza e di sensualità, dotata di un fascino misterioso, di sinuose cadenze, di una bellezza inarrivabile, il tocco dell’ unicità.
E allora, in un rimescolio sentimentale e in un giuoco all’ eccesso, si penserà a un ideale di coppia, a un’ altra possibile coppia, a una famiglia allargata, ma come sottrarsi all’ egoismo e alla paura di esporsi alla menzogna, così come il frutto della propria vergogna sarebbe impossibile da accudire.
Quale destino? Un cammino diverso, più consapevole, un ritorno al passato, o semplicemente la difesa della propria indole, il riconoscimento di un inganno, la confessione e l’ espiazione, una bugia eretta ad arte, un’ aria fetida da ripulire.
Ci sono, oltre il triangolo suddetto, frammenti di storie parallele e contrastanti, personaggi di contorno mirabilmente esposti, la vita amorosa di un amico omosessuale di Arabella destinata a perdersi al tramonto della propria bellezza, il rimugino ininterrotto di un uomo solo che non sa superare il dolore della vedovanza, le lunghe giornate affamate e spoglie di una donna, madre di due bambini, vittima consapevole di un marito degenere, oggetto di una vita di stenti, fino all’ inevitabile completamento di un destino già scritto.
“ Quel tipo di ragazza “, a mio avviso, ci restituisce una Elisabeth Jane Howard matura e all’ apice della propria creatività letteraria, che riesce a rappresentare magistralmente un mondo di relazioni e di sentimenti al femminile con una visione allargata e originale, laddove ogni personaggio restituisce una precisa idea di se stesso e di un genere, e la profonda interiorità soverchia una vita precostruita, irrealizzabile o semplicemente modesta.
Ma c’ è di più, quella vivida rappresentazione di un reale e dei suoi oggetti sa dosare, nella minuziosa descrizione degli stessi, un equilibrio perfetto tra forma e contenuto.
La sensazione restituita, nel crogiolo degli accadimenti e nella loro progressiva dissolvenza, è un dolce gusto di imprevedibile sofferenza e di amabile consapevolezza, laddove vita e destino sembrano cozzare definitivamente e ogni traccia… di lei… pare dissolta.
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Scelta e destino
Catherine Dunne ambienta una trama al femminile nel cuore della cattolica Irlanda, ragazze madri abbandonate, condannate all’ isolamento, ripudiate dalle proprie famiglie, trasferite in istituti di correzione, figli strappati a una inadeguatezza presunta, adottati e cresciuti altrove. Vite che attraversano cinquant’anni, un capitolo amaro e deprimente della storia del paese.
Betty, Tess, Maeve, Belle, Eileen, Joanie, donne diversamente uguali, un legame circolare inconsapevole in un tempo sentimentalmente condiviso, hanno vissuto l’ impossibilità di essere madri, ricercato un figlio sottratto, cambiato nome, ricostruito una vita, inseguito gli affetti perduti, sofferto per gli errori dei figli.
La poetica della Dunne, da sempre costruita su relazioni famigliari ristrette e intensi rapporti personali, scandita da una prosa omogenea, lineare, diretta, in questo romanzo riflette il coro di voci di migliaia di madri non madri sconfitte in un esilio forzato, costrette a espatriare nella vicina Inghilterra per ricostruirsi una vita e aggiunge un’ altra voce, la propria, che rivela il dolore della perdita ( personale ) e denuncia le storture e le torture di un periodo storico siffatto.
Ciascuna di loro ha una storia da raccontare, un tempo interiore scandito da una propria trama sentimentale, il flusso di una dolorosa presenza condivisa, quel soffio materno che le spinge a sperare.
Passato, presente e futuro, le situazioni cambiano, non l’ amore e gli occhi imploranti di una madre, la relazione elettiva con i figli, un tempo perduti, oggi lontani, mentre la memoria rivive le violenze subite e il trauma della separazione e della lontananza non può sottrarsi al desiderio.
Alcuni legami rimangono, fili intrecciati di un amore, altri si vorrebbero preservare e cambiare, sperando in un vita diversa.
Una madre che non voleva esserlo (Tess), un’ altra in crisi di coscienza ( Betty), il terrore di perdere una figlia ( Maeve ), la ricerca di un figlio ( Joanie ), una donna in difficoltà ( Belle ), il dolore dell’ affidamento e il desiderio di rimediare ai torti subiti ( Eileen), una giovane violata ( Amy ).
Le spirali della memoria le avvolgono e si intersecano, nessuna separazione tra passato e presente, un tempo che ha messo radici dentro di se’. I torti subiti possiedono precise radici storiche, religiose, famigliari, di stato, rivivono nel presente in una nuova dimensione ristretta, una violenza privata taciuta ma altrettanto grave, che riguarda come allora la violazione della sensibilità femminile.
Un esercito di donne perdute intimamente connesso, una comunione sentimentale, vite vissute, agognate, rincorse, perdute, accomunate dal desiderio di conservare e preservare il proprio nucleo famigliare.
Oggi vi è un incontro inatteso tra due donne invecchiate che non si vedono da tempo, le circostanze sono cambiate ma la violenza è rimasta. Se Tess rimugina sul quello che non ha mai avuto, una vita con obiettivi precisi diversa da quella sembianza di brava figlia che è stata, Maeve ha cambiato nome per sopravvivere. Eileen, Maeve e Belle sono chiamate a condividere la stessa sorte, madri adolescenti con un futuro da scrivere, tre donne e un destino, una sola famiglia.
Ritornando alla propria storia, a tutte quelle che non conosciamo o non vogliamo conoscere, che fingiamo di non sentire, che ci piace credere non abbiano a che fare con noi, si può provare una folle sete di vendetta, così come quarant’anni di dolore improvvisamente scompaiono in un abbraccio e in un ritorno che tutto finalmente placa.
Voci parlanti, che continuano a farlo in un paese affetto da un silenzio inutile, che non ha mai perdonato figli illegittimi e donne perdute. E allora come ricominciare, dopo un periodo di isolamento da Coronavirus che ha acuito silenzio, paura, diversità, lontananza, la condivisione parte dall’ ascolto, l’ idea di futuro dal perdono, il vero amore insegue la verità, non dimentica, protegge i deboli, concede e si concede un’ altra possibilità.
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Sopravvivenza dissimulata
…” Leggo dal mio quaderno di poesia, mentre la notte passa davanti alla finestra e senza che io me ne renda conto l’ infanzia cade in silenzio sul fondale della memoria, che è la biblioteca della mente, dalla quale attingerò conoscenza ed esperienza per tutto il resto della vita”…
Danimarca, anni’ 20 del ‘900, la giovane Tove abbandona l’ infanzia in compagnia di un quaderno e dell’ amata scrittura, unica compagna in una nebbia famigliare che l’ha costretta a dissimulare per sopravvivere. Cerca di evadere da un reale deludente, banale, invisa agli occhi altrui, al cospetto di una madre che non ha mai conosciuto, bella e intoccabile, solitaria e piena di segreti, costantemente attraversata dai propri afflati umorali, di un padre che vive di precariato, che l’ha avviata precocemente ai piaceri letterari e che ne ostacola il desiderio di scrivere, di un fratello maggiore bello e talentuoso, il cocco e l’ orgoglio di casa, suo punto di riferimento.
A Tove non resta che circondarsi di solitudine, inascoltata, violata, umiliata nella propria essenza, così per tutta l’ infanzia, decisa a non rivelare mai più i propri sogni.
L’ incupimento di un destino deciso da altri, una stagione della vita che diventa …”una striscia scura “…, da sempre un certo talento per la scrittura, nessuno per i giochi.
E allora quell’ infanzia per molti unica e gioiosa per Tove è…” lunga e stretta come una bara”… impossibile abbandonarla, …” appiccicata alla pelle come un odore”….
Per sfuggire la propria condizione non le resta che indossare una maschera di stupidità, un modo di anestetizzare e combattere quel male che assorbe e patisce dal mondo mentre il suo cuore si riempie di un caos di rabbia, dolore, compassione, un senso di nausea che la prende ogni volta che sua madre, come lei spaventata dal mondo, la pugnala pubblicamente alla schiena.
…” Nessun adulto sopporta il canto del mio cuore e le ghirlande di parole della mia mente, ma sanno che esistono”... anni bui che inevitabilmente ritornano, una sensibilità forgiata da cotanta durezza, una vita che non piace e non serve a nessuno, giorni silenziosi, furtivi, circospetti, costruiti per un’ altra bambina.
Ed eccola affidarsi allla dimensione del sogno, amico prezioso, con l’ idea di qualcuno che possa ascoltarla e capirla, con cui parlare di certe cose, a cui leggere le proprie poesie che sorvolano sul reale, qualcuno che pare esistere solo nei libri.
Tove è attraversata da un prematuro senso di morte, i versi coprono le crepe e custodiscono il segreto della sua infanzia, un irrinunciabile anelito del cuore, anche se non potrà mai essere una scrittrice.
Il giorno della cresima e l’ ingresso nell’ età adulta porteranno a cambiamenti, obiettivi già noti, un mondo inviso, temuto, odiato, filtrato dagli occhi di un’ infanzia rubata conservata all’ interno dei cassetti della propria memoria.
Primo volume autobiografico della trilogia di Copenaghen, “ Infanzia “ ci guida nella sfera autobiografica di Tove Ditlevsen, così vera e cruda nella minuziosa descrizione della propria sofferta quotidianità e strabordante di eleganza e poesia nel trasmetterci l’ essenza della protagonista.
I suoi occhi indagano e riflettono una visione di adulta nella scrittura e di bambina nella propria memoria sensibile, lo stile è limpido, essenziale, lineare nel rendere l’ inquietudine e il senso di solitudine di una voce introversa e ipersensibile.
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,,,Tutto cambia e tutto resta uguale…
…..” Tutto cambia e tutto resta uguale “….
Settant’anni anni di storia inglese filtrati attraverso gli occhi di Mary e della famiglia Lamb, sette tappe che iniziano dalle celebrazioni per il giorno della vittoria ( 8 maggio 1945 ) fino al suo settantacinquesimo anniversario ( 8 maggio 2020 ).
Una nazione che si specchia nella vita e nelle tradizioni della famiglia reale, nei film di James Bond, nei leggendari mondiali di calcio del ‘66, che fatica a ricostruirsi nel periodo post bellico, attraversata da un certo fermento culturale negli anni ‘60, culla di mode e cambiamenti, che vive di ricordi e di nostalgia per la grandezza perduta, si contrappone a Francia e Germania in una guerra economica che abbraccia l’ Europa intera, fiera del proprio pragmatismo, isolata dalla Brexit ( 2016 ), che celebra l’ anniversario della rinascita in pieno lockdown da Coronavirus.
Jonathan Coe ripresenta e rappresenta il cuore di una nazione al declino attraverso quattro generazioni di Lamb, al centro la fabbrica del cioccolato Cadbury e Bournville, una cittadina di classe alle porte di Birmingham, ridefinisce un certo inglesismo, contrappone l’ idea di provincia alla grande metropoli, critica aspramente le politiche di alcuni governi e i loro protagonisti, lo sciagurato Boris Johnson in primis, le contraddizioni del paese, contrappone lo sfarzo delle tradizioni monarchiche alla disperazione di una massa popolare indistinta.
La narrazione fa riferimento a personaggi di altri romanzi, pensiamo a Thomas Foley ( “ Expo ‘58 “ “ La pioggia prima che cada “ “ Io e Mr Wilder “) e alla sua famiglia ma anche al deputato Paul Trotter ( “ La banda dei brocchi “ e “ Circolo chiuso “) e l’ autore evoca la perdita della propria madre durante il lockdown del 2020.
Una caleidoscopica giostra di accadimenti, un distillato di inglesismo, un progetto ambizioso ma difficile da costruire e da rappresentare. Come ridurre settant’anni in quattrocento pagine senza cedere a una sintesi estrema, a superficialismi e banalizzazioni, come trasmetterne l’ essenza conservandone i contenuti? Piuttosto difficile, c’è il rischio di allontanarsi dal cuore del racconto e dalle sue profondità, scindendo semplici fatti di cronaca dalla vita reale, generando una fiction che restituisce di tutto un po’ ma priva della profondità e acutezza da sempre marchio di fabbrica dell’autore, quella forza espressiva che è genuina irriverenza e caustica rappresentazione di una grande nazione.
E allora che cosa rimane oggi di questa Inghilterra? Una monarchia che è tradizione, storia, tutto, una regina simbolo di un destino già scritto, una principessa del popolo, un paese con lo sguardo rivolto al passato, uno snobismo ricoperto di intelligenza, un pragmatismo che non eccelle in inventiva, il progressivo ripiegamento sulle proprie certezze, smarrite nel tempo, una …” combinazione di nazionalismo e di spirito ameno”...
Il romanzo accoglie scarni momenti di intensità in una seconda parte che ne riassume i contenuti, il microcosmo sentimentale di una donna mentre rievoca una vita intera, distillato di pensieri e di fotogrammi nel respiro degli accadimenti.
Ecco una madre e un figlio discorrere di vita e di amore ( Mary e Peter ) liberi di farlo, di quello che avrebbe potuto essere e non è stato, dell’ importanza di sentirsi liberi e se’ stessi. Ed ecco le lacrime di un uomo ( Geoffrey ) che …” settant’anni di storia e di avvenimenti personali e famigliari non gli hanno mai strappato “…, una donna ( Bridget ) invisibile alla famiglia per il colore della propria pelle, tollerata ma mai amata, che si sente un’ estranea da sempre e una giovane ( Susanne ) con velleità artistiche che esce dall’isolazionismo per farvi ritorno e scopre le proprie origini tedesche.
Ciascuno inevitabilmente cede a una dimensione personale, la storia all’ interno della famiglia, immagini di tradizione e solennità che scorrono e si ripetono uguali a se stesse, cos è successo in tutti questi anni, genitori, figli, mariti mogli, nipoti, nonni, una vita che richiede altro, tra ..” tradizioni sconvolte e mantenute”...
Quanto lo scorrere del tempo ha determinato il proprio e viceversa, quanto le riunioni famigliari davanti a un televisore, nei luoghi di culto e nelle pubbliche piazze rimandano un’ essenza o un semplice rito di passaggio, il tentativo di mantenere un cerimoniale, le proprie certezze, uno status quo che nasconde il fallimento, ciò che è visibile, l’ assenza di una reale condivisione e vicinanza?
Oggi la gente non si abbraccia più, si sfiora con i gomiti, il contatto umano ridotto a tabù, …” Il lungo lockdown non e’ nostalgia per il 1945, ma per i primi mesi del 2020, per quei giorni ormai lontani in cui si poteva uscire di casa e stare in compagnia di altre persone “….
Oggi il futuro è fragile, nebuloso, incerto, i nostri nipoti qui e altrove, c’è una donna anziana sola, isolata, al tramonto, che sente la mancanza di qualcuno con cui condividere i propri ricordi, che ritorna nei luoghi della memoria di una vita che fu con la paura di oltrepassare quella porta, di esporsi a un contagio invisibile ma onnipresente, in compagnia di se stessa e dei propri figli ormai sessantenni che non può incontrare….
Jack …” che non prende mai le cose sul serio “…, Martin …” troppo serio ma affidabile”… chiedendosi come ha fatto a crescere due ragazzi tanto diversi.
E poi c’è Peter….
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Il combattimento della vita
Miriam Toews inscena una dimensione femminile ristretta, tre generazioni di combattenti, nonna, madre, figlia, tutto ciò che resta di un nucleo famigliare in cui gli uomini richiamano un passato doloroso e sono assenti.
La voce eccentrica di una ragazzina spigliata, Swiv, cacciata da scuola per la propria irriverenza, reclama un padre scomparso nel nulla, mostra la sgangherata esistenza di una vita difficile da definire e di un passato che confluisce in divertenti e ansiosi giorni di combattimento.
La narrazione profonde un ritmo incalzante, monologhi e dialoghi prolungati, una vivida intelligenza tra risate e malinconia, invenzioni estremizzate e surreali in una profondità dissacrante che si svuota di senso per restituire un senso, un impavido e irridente giuoco all’ eccesso che scorre nel dolore e nelle difficoltà del presente.
C’è una nonna che …” scherza sempre e quando è seria scherza a metà “…, a cui piace ridere e andare veloce, le cui storie sono rapide, rognose e divertenti, come la vita, che possiede il dono dell’ ottimismo, non ha nulla da perdere, restituisce la saggezza della complessità, che ha gioito e sofferto e gusta ogni istante senza piangersi addosso anche se costringe chi le sta accanto a …” un quotidiano menu di transiti intestinali, gotta, nevralgia del trigemino, angina”….
C’è una madre crepuscolare, svuotata di senso, in pieno esaurimento nervoso e in gravidanza geriatrica, che ha tradito per coprire il proprio dolore, che non è stata una buona madre, che si è sempre protetta scappando da se’ e dagli altri e recitando un copione che non le appartiene, specchiandosi nel proprio ruolo di artista, stressata, impaurita, ansiosa, arrabbiata.
La piccola Swiv si intrattiene con la nonna in quotidiane …“ riunioni di redazione”…, scrive alla madre, dialoga con il padre, vorrebbe una famiglia ma deve occuparsi dei cocci della propria, di quella nonna eccessiva e di una madre depressa, varcando la soglia del tempo per vivere l’ incertezza del presente, un viaggio prematuro nella complessità della vita e dei sentimenti, nella piena consapevolezza, nella serietà giocosa di una battaglia senza fine.
In fondo lei non aspira che a un pizzico di comprensione, di amore e di senso di appartenenza, scrutando l’ indefinibile turbinio emozionale circostante, perché ogni bambino ha il terrore di rimanere solo in una vita a tutto e a tutti indifferente.Tre voci, tre donne e un senso di appartenenza, quale il significato se non l’ essenza della vita, un abbraccio alla propria umanità, una sofferenza che è la sofferenza del mondo, combattere significa guardarsi dentro, ripetersi delle cose importanti, comunicare ed essere amici anche delle persone morte.
La vita di fatto è un’ immersione nell’ assurdo, un caos destinato al fallimento, alla pazzia e alla morte, e allora non resta che essere e lasciarsi andare a quello che si è.
La consapevolezza della propria fine risuona nel pianto di una creatura appena sbocciata, l’ eco di se’ nei gesti e nelle parole di chi resta, in quella lotta inafferrabile tuttora in corso.
Un romanzo avvolto nella leggerezza con riflessioni che abbracciano i temi di una vita irrinunciabile, in cui il caso la fa da padrone ma una indiscutibile disorganizzazione emozionale è sovrastata dal calore di un abbraccio e dal lascito degli insegnamenti altrui. I temi e i dialoghi in parte richiamano la freschezza narrativa e la giocosità’ di Fredrik Backman, la prosa acuta e pungente ci restituisce la voce convincente e matura di una scrittrice a tutto tondo.
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Verità e finzione
Il Segreto di Inga è un thriller che assume contorni diversi, indagine su realtà e fantasia, sul potere dalle parole, sul ruolo della dissimulazione, sul significato di verità e libertà in letteratura.
Il lettore si addentra in un puzzle scomposto che abbraccia un gioco diverso, in questo sta la peculiarità e il limite del romanzo, una struttura che perde la propria essenza, che svela una verità sotto traccia per immergersi in un profilo psicologico e in un’ indagine sociologica tra vero e presunto, un labirinto dove inevitabilmente perdersi, confondersi, immaginare, riflettere, cercare risposte.
Inga Andersson è una ricercatrice trentasettenne che si occupa di criminalità e di gruppi terroristici, sette segrete e organizzazioni religiose. E’ una donna sola, trasparente, esiliata dal proprio corpo, con un sacro terrore degli uomini, pervasa dalla razionalità, che riflette e spiega tutto in modo scientifico.
Immersa nel lavoro nasconde altro, un segreto doloroso e inconfessabile che la spinge a cercare una verità complessa, sfuggente, che riguarda il proprio passato e continua a nascondersi, sottraendosi allo stesso tempo al dolore della sofferenza e della perdita.
Il professor Ingesson, alias Bjorn Larsson, è uno scrittore alla ricerca di un soggetto interessante per la trama di un nuovo romanzo, l’ incontro con Inga gli insinuerà un’ idea nella testa, e lei sarà il nucleo del nuovo romanzo. I due si incontrano, si confidano, collaborano a distanza, si scambiano opinioni, materiale, informazioni, idee, abbandonano i ruoli di scrittore e di ricercatore, inscenando una possibile relazione altalenante, necessariamente lontani, scambiandosi i ruoli reciprocamente.
Ingessonn dovrebbe scrivere un romanzo e si trova a redigere una biografia, Inga dovrebbe scrivere un articolo scientifico e si trova a raccontare una specie di storia, non sanno come finirà, su questo punto realtà e letteratura si intersecano, entrambi imprevedibili.
Ecco l’ inizio di una trama parallela, un reale nebuloso e una fiction infarcita di reale, una protagonista e la sua vita tutta da raccontare, un autore che compie delle ricerche ma che a sua volta si rende protagonista di una narrazione parallela, con un ruolo nel proprio romanzo.
E allora ci si domanda dove inizia la verità e dove finisce la fiction, quali le regole del giuoco, dove ci troviamo, nella mente di una donna sola, nei desideri inconfessabili di uno scrittore, di un uomo innamorato, in un incubo ricorrente, nelle elucubrazioni di un impostare, nella vita apparentemente tranquilla di due vecchi amici in una località di provincia, in una cellula interna a una organizzazione segreta che non sa a quale verità affidarsi.
Organizzazioni criminali, sette religiose, truffe, inganni, omicidi, fughe, ritorni, la verità di una donna forte e debole le cui ricerche un giorno hanno perso d’ importanza, che si vergogna di quello che è stata la propria vita, di essere stata così sola, di non avere saputo reagire alla tristezza dello sguardo di suo padre, che a volte ha persino creduto di potere essere felice.
Inga Andersson non è il semplice personaggio di un romanzo, è una donna in carne e ossa che lancia un grido inascoltato e inafferrabile nell’ oscurità di una notte tempestosa, che ha cercato, partendo dalla propria storia, di elaborare una teoria sull’ uomo e sulla sua essenza, o almeno su quello che di umano vi è nell’ uomo.
La bella scrittura di Bjorn Larsson solo in parte compensa una trama balbettante, scarna nella propria essenza di thriller, piuttosto scontata nella conclusione e caotica nella rappresentazione di se’. Inga pare un’ ombra da subito dissolta, Ingessonn uno scrittore alla disperata ricerca di una storia, la natura poco presente, l’ insieme un costrutto di scarsa fluidità e un groviglio poco invitante, di certo non una delle sue migliori creazioni letterarie.
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Ossessione inafferrabile…
Ossessione protratta, omicidio efferato, verità acclarata, ricerca delle cause, tortuoso cammino nella mente di un uomo singolare, profondo e geniale, disturbato e maniacale.
La Fornace e’ un luogo abbandonato, tetro e inospitale, senza futuro, una dimora perfetta per gli intenti di Konrad, il protagonista, per anni ossessionato dall’idea di scrivere un saggio dal titolo “ L’ udito” che non ha mai iniziato, accusato dell’ omicidio della moglie con una carabina la vigilia di Natale.
Un uomo solo percorso e percosso da un sentimento di dedizione assoluta nei confronti della consorte che ritiene ostacolo invalicabile alla composizione di quel saggio da lei sempre osteggiato.
Voci, testimonianze. tesi che corrispondono, perché e come l’ ha fatto, cosa è successo lì dentro, chi è realmente Konrad? La sua lucidità e sensibilità intellettiva paiono evidenti, la sua follia anche, e allora che cosa sottendono la composizione del saggio e il trasferimento alla fornace?
Di lui si parla come di un uomo profondamente schivo, una persona eccentrica e insignificante a cui tutti hanno progressivamente voltato le spalle, inizialmente attratti dal suo denaro, un uomo da sempre fanatico della verità.
Per anni il grande sogno di Konrad e’ stato l’ acquisto della Fornace ma sua moglie e’ sempre stata contraria fino a ridursi al silenzio, accettando uno stato di fatto, imprigionata dalla necessità, dalle ossessioni del coniuge, dall’ avanzare inesorabile di una malattia invalidante.
Konrad si occupa di lei, la riempie di attenzioni e la tiranneggia, un sadico pieno di attenzioni, da lei definito uno psicopatico di intelligenza superiore.
Un luogo trasformato in una fortezza inespugnabile, invisibile dall’ esterno, dove stare in completo isolamento, talmente silente da affinare l’ udito, in cui risiedere in funzione del saggio, nessun imprevisto a ostacolare una sensibilità assoluta, esercizi di ascolto del silenzio, letture ripetute ossessivamente, una dimora svuotata di tutto, la menzogna come sopportazione per non sprofondare nella disperazione.
Di fronte alla possibile scelta, se’ o il saggio, Konrad sceglie il saggio e ricorda un passato di sofferenze tuttora vivido, osteggiato dai genitori, allontanato dai fratelli più piccoli, non assecondato nei suoi progetti, senza la possibilità di studiare.
Lì, alla Fornace, non sarà mai raggiunto dall’ infernale macchina della società dei consumi, ma continua a essere infastidito dalla curiosità della gente vittima, come tutti, di un processo di rimescolamento sociale .
Oggi non ha ancora scritto una singola parola di quel saggio che è solo nella sua testa, non si tratta di un semplice testo medico e filosofico, è molto di più, custodisce il senso di una vita intera.
E allora la Fornace diventa meta di vita e di morte e il saggio cuore pulsante di un desiderio irrealizzabile a cui sacrificarsi, in attesa di quel momento agognato, la scrittura, che mai si compirà, un’ idea che dia senso ai propri giorni.
“ La Fornace “ di Thomas Bernhard ( 1970 ) è uno scritto intenso che, nonostante una scrittura precisa, centellinata, lineare, da subito trasmette un senso di asfissia in una quiete apparente figlio di un’ ossessione protratta, fatti e concetti ripetuti all’ eccesso in un vortice di inquietudine manifesta.
Un luogo silente, rumori inafferrabili, ascolto, denuncia di una società omologante che trasforma l’ individuo in una macchina dai connotati mostruosi, inscenando una vita svuotata e vuota come la Fornace stessa.
Isolamento, incubo, desiderio, dedizione, follia, tirannia, inganno, sopraffazione, amore per la musica, per la lettura, una vita scarna, inafferrabile, intollerabile, interiorizzata, anaffettiva, destinata a una caduta rovinosa, all’ inconcludenza, al delirio di onnipotenza, a quel cortocircuito mentale che sa di egocentrismo delirante.
E allora il saggio, tutte le voci e le testimonianze, il flusso di coscienza, esulano dalla narrazione di una vita e di un omicidio efferato per racchiudere ed esprimere altro, un urlo nel silenzio della solitudine più estrema.
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Rituale consolidato
Una vacanza di due settimane che si ripete da vent’anni, la medesima località di mare, Bognor, lo stesso alloggio, Vistamare, un rituale famigliare consolidato dopo un anno intero di attesa.
Bognor è un luogo che ha saputo stregare e trattenere gli Stevens, due genitori e tre figli, la vigilia prima della partenza sottolineata in rosso, da vivere e immaginare come la serata più bella dell’ anno.
Un elenco di cose da non dimenticare, la possibilità di ritagliarsi uno spazio del tutto personale, un angolo di fuga da e in un microcosmo piccolo borghese, immagini, condivisione, sogno.
Per la verità non tutto è come sembra e, se per il signor Stevens la vacanza è un momento di riscatto sociale, di sfogo emozionale incomprensibile e non analizzabile, concedendogli la possibilità di essere quello che avrebbe potuto e non è stato, per la signora Stevens non sono che due settimane fastidiose e affliggenti, dove fingere di divertirsi, sovrastata dal rimorso per non riuscire a essere come gli altri. Eppure se un membro della famiglia le chiedesse quale parte della vacanza preferisce lei risponderebbe tutta perché …”una vacanza è fatta per piacere “….
Due settimane di intimità a distanza, ciascuno libero di ritagliarsi i propri spazi, una sospensione spazio-temporale in cui riflettere su se stessi e sulla propria vita e, paradossalmente, estraniarsi da tutto e da tutti, osservando con stupore i fotogrammi della propria casa con sguardo privilegiato da un treno in partenza.
La vacanza esprime un ideale di fuga e di permanenza, allontanamento e avvicinamento, l’ amore per il mare nei suoi svariati stati d’ animo, su tutto aleggia uno spirito di gioiosa e sfrenata libertà, qui non ci sono ne’ padroni ne’ servi, ne’ impiegati ne’ dirigenti, solo uomini e donne la cui unica professione condivisa e’ quella di villeggianti.
I primi giorni … “indugiano quasi interminabili” …, ma poco alla volta il tempo acquista velocità, la seconda parte della vacanza è la migliore fino all’ ultimo giorno in cui tenere a bada il dispiacere, con una parte da recitare, come tutti quanti, dimenticando il resto.
Il romanzo di R.C.Sherriff, scrittore, sceneggiatore, drammaturgo inglese trapiantato a Hollywood negli anni trenta, scritto nel 1931, nato dall’ idea di descrivere in modo immaginario la vacanza di una delle tante famiglie che annualmente si recavano nella località balneare di Bognor, restituisce un costrutto basato su una certa fluidità espositiva inserito in una quotidianità ripetuta e noiosamente assorta.
Gli Stevens sono una famiglia come tante, intrappolata nelle proprie dinamiche piccolo borghesi, vestita di normalità, il lettore tra le pagine ripercorre con leggerezza e disincanto istanti di infanzia e giovinezza già visti e vissuti.
Una scrittura semplice e diretta, un’ accuratezza descrittiva in una levita’ di sentimenti che in alcuni tratti non si rivela tale, ripetizione, finzione, noia, gioia condivisa, le stesse persone, gli stessi gesti, i giorni e gli anni fissati nel tempo e nella memoria, un certa pesantezza di sentimenti, un microcosmo di tradizioni consolidate e di piccolezze forse destinato a cadere, ma non importa.
…”Era stupefacente come fosse volato il tempo! In realtà non avevano fatto quasi niente, a parte i bagni e oziare un po’, eppure era stata una vacanza splendida. Quella vacanza aveva fatto un gran bene a tutte cinque. Come si somigliavano le loro vacanze “….
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Estraneo a se stesso
Tre taccuini riassumono il contenuto di una vita privata della propria essenza che vede Yozo, il giovane protagonista, squalificarsi e squalificato dall’ essenza della vita medesima.
Sin dall’ infanzia è posseduto da un senso di abbandono e di inadeguatezza, inviso alla società, impaurito dalla gente, impossibilitato a mostrarsi per quello che è, con un inevaso desiderio di entrare nelle grazie paterne, impotente di fronte alle cadenze dell’esistenza.
Ricerca l’ approvazione in un contesto sociale che rifugge, consapevole che gli uomini non sono né amabili ne’ amorevoli, ma egocentrici e individualisti, e che lui stesso non ha alcuna vocazione per l’ amicizia ne’ senso di appartenenza sociale.
Si nasconde da sguardi indiscreti, attiva una serie di meccanismi e un comportamento giocoso per essere apprezzato e ignorato al medesimo tempo, un depistaggio che tralasci la propria essenza.
C’è chi ha capito di chi si tratta, ma il futuro gli riserverà molteplici relazioni con donne affamate della sua adorabile fragilità, del suo fascino ombroso, donne di cui si prende giuoco e che considera poco attraenti, esposte alla propria costruzione narrativa irrisolta.
La passione per la pittura lo trascinerà in un vicolo cieco, uno scarabocchio piuttosto dozzinale, inabissandolo in un futuro di assoluta incertezza, l’ esercizio politica un fallimento.
Non gli resta che un percorso molesto e modesto votato all’ autoannientamento, tra prostitute, droga, alcool, cercando una redenzione impossibile, puntualmente il passato ritorna e quel non sense che rifugge la banalità del quotidiano e quelle vite semplici che nulla sembrano desiderare se non il piacere individuale.
Sin dall’ infanzia la vita di Yozo si è rivestita di vergogna, inadatta e infelice, la sua unicità non omologata, un giullare che nasconde l’ impossibilità di parlare con gli altri, e di che cosa dovrebbe discorrere, terrorizzato e affetto dalle proprie angosciose presenze?
Affina l’ arte del commediante eccentrico, ma è tutto un inganno, per arrivare a postulare, in un quotidiano di depravazione, l’ idea che una vita in carcere sia più interessante delle notti insonni vissute nel terrore di un reale inaffrontabile.
Lui stesso si descrive come una sorta di scemo incapace di nutrire amicizie, di amare, un apolide senza la capacità di distinguere le pareti domestiche dall’ esterno, senza un luogo dove rifugiarsi.
Trattasi di un egoista o semplicemente di un animo debole all’ eccesso, non sa chi realmente sia, i vizi lo trascinano in una sorte irrecuperabile, quella infelicita’ destinata al tramonto della vita.
Questa, in verità, è la sua versione dei fatti, cruda, pessimista, rassegnata, rari slanci emotivi e inadeguatezza alle autentiche gioie della vita, ma c’è anche la testimonianza di chi lo ha conosciuto e che di lui dice: …” fu colpa di suo padre… lo Yozo che noi conoscemmo era così bonaccione, così divertente e …. anche se beveva, era un buon figliolo, era un angelo”… Quale la verità vera?
Il romanzo di Dazai (1948), autore morto suicida in giovane età, esula da una certa letteratura giapponese fatta di attesa, silenzio, moderazione, grazia, dolcezza, per restituire il profumo di influssi culturali e letterari occidentali, un senso di smarrimento e di malessere identitario post bellico e la sua scrittura, viva, asciutta, realista, dai tratti marcati, ondivaga nella variazione dei toni umorali del protagonista, in cui si specchia l’autore, ci rimanda un testo piuttosto brioso, che richiama un malinconico pessimismo ma anche una certa dose di humour e profondità mai banalizzate, creando una miscela ben congeniata e di sicuro interesse.
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Verità da riscrivere
“ L’ abbandono “ è un romanzo in parte storico e documentaristico, prevalentemente autobiografico, una saga famigliare che vuole dare un volto all’ ombra che per tutta la vita ha inseguito Katherine, la protagonista, alias Elisabeth Asbrink.
Il testo restituisce un concetto di solitudine che non è malattia ma un sintomo che attraversa un secolo di storia e le vite di Rita, Sally e Katherine, nonna, madre e figlia, accomunate da un unico sentimento condiviso.
L’ autrice ricerca un significato nel proprio destino negato da storia, religione, migrazioni, guerre, persecuzioni, stermini, necessità, paura, sopravvivenza, un desiderio di verità che attraversa tempo e luoghi.
K. si trasformerà in una guerriera della vita, risalirà la corrente per non tollerare la dimenticanza, l’ accettazione di una menzogna, lo stato di oblio che attraversa i propri giorni.
Un viaggio con origini lontane, all’ inizio del’900, quando nonna Rita si innamorò di Vidal, un ebreo spagnolo sefardita, un apolide trapiantato dalla Spagna alla Grecia fino all’ Inghilterra.
A volte Rita pensava che sarebbe stato meglio non averlo mai incontrato, tra loro una menzogna che li avrebbe uniti e separati per anni, ( per evidenti motivi religiosi e di tradizioni famigliari da preservare ), un figlia, Sally, ignara dell’ esistenza del padre che sarebbe diventata un’ insegnante di inglese trapiantata in Svezia.
Un giorno all’ interno della loro famiglia la parola ebreo sarebbe stata invisa, impronunciabile, per Sally sinonimo di abbandono, le proprie origini tedesche negate per preservare il mimetismo della sopravvivenza, cambiando cognome e religione ( abbracciando il cristianesimo).
K. è nata nel 1965, i suoi genitori si incontrarono al consolato britannico di Goeteborg e si innamorarono, due vissuti di paura, di minaccia, due diverse strategie di sopravvivenza, l’abbandono come comune denominatore, quel sentimento pronto ad esplodere che scorre puro nelle vene della loro unica figlia.
K. rimarrà sola con Sally, una mamma amabile e brillante che nasconde una solitudine che sa di pianto, le sorelle altrove con il padre, il mondo sparito, solo lei è rimasta, davanti alla finestra della sua stanza a pensare a come sarebbe bello avere delle persone che le appartengono, un gregge, il suo gregge.
Ha solo undici anni ma è già una centenaria, continua a immagazzinare parole proibite, le rastrella dall’ ambiente circostante, quelle parole che non si possono pronunciare davanti alla mamma-nuvola.
Chi non vuole ricordare finisce con il perdere se stesso e allora non rimane che la menzogna, da sempre in famiglia ci sono due parole negate, ebreo e padre, la parola ebreo conserva un’ oscurità, un filo spinato costeggiato da guardie armate, una vergogna da nascondere e una minaccia incombente, ma c’è anche un desiderio di conoscenza, doveroso, irrinunciabile, è allora che la propria cristianita’ andrà in frantumi.
Un giorno K. si recherà a Salonicco in cerca dei segni del passato, rivedrà Rita a Londra e nonno Vidal nella sua Spagna, dove tutto ebbe inizio nel 1492 quando gli ebrei sefarditi furono cacciati per sempre dalla loro patria.
Lei, guerriera dei ricordi perduti, camminerà per le strade di Salonicco nel viaggio della memoria, attraverserà i cocci di una storia ovattata e dimenticata, calpesterà, come tanti, quelle lapidi bianche estratte da un cimitero violato e distrutto che sono state usate per ricostruire le bellezze artistiche della città.
In lei risuona una voce lontana … “ niente è più intatto di un cuore spezzato “…, un cuore aperto a tutto, che lascia entrare tutto.
..” E l’ imperdonabile? Anche l’ imperdonabile. Il cuore spezzato è grande. Può fare posto a un dirupo di perdono mai concesso, a un massiccio montuoso di no. Si espande attraverso il dolore. Come l’ universo. Come il mio cuore. E il mio cuore batte. Perché io sono K., sono Katherine, sono la Guerriera. Io non perdono “...
Un libro acuto e pensante, romanzato nella prima parte e con precise ricostruzioni storiche nella seconda, che si addentra nel cuore di un sentimento antisemita che ha origini lontane protratte nella modernità in una storia che si ricopre di omissioni e di menzogne.
Origine e identità, collegamento silente di una quotidianità sparsa un giorno destinata ad esplodere e, come sottolinea l’ autrice…
….” Un’ esplosione è collegata all’ altra, tutte portano a me, e io sono nata pronta a fuggire. Per questo scrivo “…
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Solitudini condivise
L’ unione di due solitudini, accomunate da un personale senso di inadeguatezza e dalle imprevedibili circostanze della vita, può generare un rapporto unico, inaspettato, profondo, riflettendo su una vita che avrebbe potuto essere altro.
Arthur Opp, ex professore universitario imprigionato nella propria obesità, da anni incarceratosi nella sua casa di Brooklyn tra montagne di cibo e di rimpianti, attesa, ricordi, una sola certezza, la propria corrispondenza epistolare con una ex allieva, Charlene Keller, come lui anima fragilmente implosa che vorrebbe affidargli le sorti del figlio.
Un rapporto durato solo alcuni mesi e una corrispondenza epistolare di diciotto anni, Arthur e Charlene hanno un legame unico impossibile da spiegare, è stato così sin dall’ inizio, lui si specchia in lei, nella sua solitudine e goffaggine, nel suo essere sempre fuori posto, tanti i sentimenti condivisi.
Entrambi sopravvivono nascosti nelle proprie case, pensando che tutto avrebbe potuto essere diverso, in fondo che cosa li ha uniti se non la certezza di assomigliarsi.
Il peso è una insostenibile menomazione fisica e un fardello, l’ impossibilità di calarsi nel reale, di esporsi a una vita sottratta ai propri affetti più cari, un ripiegamento necessario quando nessuno si è preso cura di noi ne’ viene a cercarci, allora si è invisibili, in primis a se stessi, sentendosi inadeguati.
Tutto crolla per assestarsi in una condizione di normale anormalità, una zona di comfort che nasconde l’ impossibilità di aprirsi, condividere, esporsi, uno status che progressivamente ha cancellato ogni contatto con il reale, una pigrizia dell’ animo che è rifiuto di se’ e rifugio dalla sofferenza.
In fondo Arthur non è che una delle tante persone sole al mondo, negli otto anni di eremitaggio ha trovato consolazione nel cibo e nell’ idea di avere una superanima fatta di solitudine, collegata con tutte le altre persone sole, un che di romantico e nobile che ha trovato uno scopo nella solitudine, indispensabile per non morire.
Come è potuto accadere, prima di tutto quanto, prima che Marta, la sua più cara amica, morisse, quando ancora insegnava, quand’era bambino, quando non era ancora nato, un destino segnato dalla solitudine.
C’è sempre un brandello di vita, qualcuno o qualcosa a scuotere il proprio stato di inerzia, un figlio che si è sempre occupato di una madre depressa e in difficoltà ma che deve pensare anche al proprio futuro, una ragazza che improvvisamente entra nella propria casa accendendone la speranza, la vita non concede sconti, e non tutti trovano la forza di resistere, di reagire, di rimettersi in gioco, di fidarsi e di affidarsi. E allora…
…Che cosa accadrà ora, mi sono chiesto. Ma ero solo e ho scoperto di non avere una risposta….
“ Il peso “ è un romanzo che percorre e sosta in un luogo di fragilità, fisica e psicologica, dando voce a chi solitamente voce non ha, inseguendo un senso o semplicemente una traccia di vite vissute all’ ombra di se’.
Solitudine, termine dalle molteplici sfaccettature, sinonimo di sconfitta, rassegnazione, ripiegamento necessario per tirare avanti e sopportare, ma anche di desiderio, possibilità di scelta, riflessione, senso di appagamento.
C’è’ una solitudine che scruta la profondità e genera unicità, che si nutre di attesa e silenzio, che riscopre e valuta il vero senso dell’ essere, inserita nel proprio io più profondo, somma ed esito di quello che è stato.
C’è, viceversa, una solitudine espressione di dolore e sofferenza, senso di inadeguatezza, fuga dal mondo, che si costruisce un microcosmo di placida sopravvivenza, sconfinando in una patologica rappresentazione, per sprigionare un dolore insopportabile e ormai fuori controllo.
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Paura di amare…
…” Tutt’a un tratto ho sentito la voce dell’ acqua “…
Kawakami Hiromi tratteggia un romanzo intenso dai toni delicati, cadenze malinconiche e sentimenti che si nutrono di ricordi, oggetti, voci, amicizie, condivisioni, assenze, silenzi, spezzoni di vita, lo scorrere del tempo, cinquant’anni anni di storia giapponese.
Una scrittura sussurrata, schiva, semplice, precisa, senza orpelli ne’ invenzioni di sorta, una dolce sinfonia, prolungata carezza dell’ animo.
Un romanzo da leggere per riafferrare il senso smarrito dell’ essere, il piacere delle piccole cose, nel cuore di un linguaggio stringato ma opulento.
Miyaco e Ryo, i due protagonisti, figli di Mami, scomparsa da dieci anni a causa di una malattia, dopo un lungo periodo di lontananza, ciascuno preso da se stesso, tornano a vivere in quella che è stata la casa della loro infanzia, nel quartiere di Suginami, una delle zone più tranquille di Tokyo.
Paiono estranei, invecchiati, senza molto da dirsi, ma all’ interno della loro casa sembra sopravvivere una suggestione, tutto parla di loro, riflettendone la presenza.
Ogni volta che Miyaco tira le zanzariere, chiude le imposte, gira la maniglia di una porta, riemergono Immagini dai contorni sfumati, …”vaghe ombre luminose che attraversano come lampi il suo campo visivo “….
Realtà e sogno si alternano, Mami e’ una presenza costante, il suo amore per la vita, la sua originalità, la sua risata, un archetipo di donna, figura scostante cui volere molto bene.
Passato, presente, futuro, voci della memoria di una guerra che non si è conosciuta direttamente, ciascuno dilaniato da un momento unico di rottura e di sofferenza.
Ryo ha vissuto il trauma dell’ attentato alla metropolitana, quando ha pensato di morire, non ama parlare di se’, Miyaco sogna e sente continuamente la voce materna che la tratta con dolcezza, come mai durante l’ infanzia.
Il profumo del tempo rivive negli oggetti inanimati che paiono incastrarsi perfettamente, non altrettanto si può dire dell’ animo umano che richiama sensazioni confuse, impercettibili, una nebbia dei sensi intrappolata nella memoria.
Gli anni lontano da Ryo hanno lasciato in Miyaco un senso vivo, a fior di pelle, da quando hanno cominciato a vivere insieme l’ immagine invecchiata di lui si sovrappone a quella del passato, …”la memoria si fa confusa, i ricordi si accavallano e i più pesanti sprofondano “..,
La voce della coscienza spinge i due fratelli a chiedersi se la loro è una famiglia, chi il loro vero padre, a rivisitare il rapporto con la madre e tra loro stessi, che cosa si nasconde dietro una dimenticanza, il tempo ha realmente cambiato i sentimenti?
Poi, di colpo, Miyaco non sente quasi più nulla, solo …” suoni senza senso che fluttuano nell’ aria notturna come bolle di sapone “…, fissa i motivi sulla parete che avevano disegnato lei è Ryo da piccoli, un mestolo, dei fiori di prugno, un airone, un paesaggio innevato con la luna, la folgore, una rondine.
In lei vive un’ altra se’ che la caratterizza e un legame molto più forte di quello fraterno, finora ha ignorato il significato autentico della parola amore.
La convivenza con Ryo svela un nuovo rapporto e recupera il precedente, i due si aprono ai propri sentimenti, nel viso del fratello si nascondono i tratti che aveva a trent’anni perché …’ il tempo resta nascosto dentro di noi, si arrotola e si srotola, forma dei nastri che si arrotolano nei nostri corpi “….
Intanto il luogo della giovinezza e della memoria è colpito duramente dalla terra tremante; in quel mentre, costretti a partire controvoglia, tutto si fa certezza e la vera paura incombe,…” la paura di essere felici accanto a chi si ama “...
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Vita contraddittoria
Infondere la vita a un corpo inanimato, il mistero della creazione, un desiderio folle ed egocentrico di spingersi oltre l’ umano che sconfina nella follia e nella solitudine più vera.
Frankenstein , celeberrimo romanzo gotico di Mary Shelley, nato per giuoco, capostipite di una certa letteratura che può definirsi fantascientifica, è un lungo racconto polifonico che riproduce la vita di Viktor Frankenstein e del demonio da lui generato, un’ idea di eternità presto sprofondata in un abisso di finitezza, tra inquietudine, disperazione, sensi di colpa, silenzio, vendetta, ricatto, amore sottratto e negato.
La duplicità creatore-creatura rispecchia un’ alternanza che restituisce caratteri umani e demoniaci sovrapponendo un giuoco di ruoli che sconfina nell’ inverosimile.
Viktor e il mostro da lui generato, intrecciati indissolubilmente dal potere divino della creazione, separati alla nascita, conservano un legame a distanza, quel cordone ombelicale mai spezzato, eco di ripetuti misfatti, si cercano, si temono, si inseguono, ribaltando continuamente il ruolo di vittima e carnefice, in attesa delle mosse altrui, si servono del reale a fini personali, vivono nell’orrore ricoprendosi di vergogna.
L’uno non potrà svelarsi dopo avere annientato le vite dei propri cari in nome della personale sete di conoscenza, l’ altro respira la terribile condizione di chi ricerca l’ amore già sapendo di non essere amato, vittima di un desiderio di vendetta che possa mettere a tacere i torti subiti.
Opposti che si attraggono, accomunati da un attimo di eternità che sconfina in un egocentrismo folle e perverso, un racconto con un epilogo inevitabilmente tragico agli occhi di chi si ritrova spettatore dell’ incredibile narrazione.
Una creatura dal corpo deforme dotata di sentimenti e passioni rigettata dal proprio creatore, un demonio la cui barbarie ha svuotato il cuore per colmarlo del più amaro e inestinguibile rimorso.
Origine condivisa, lo stesso epilogo, strade opposte ma complementari, l’ amaro calice del rimorso nelle proprie ferite finché la morte non le richiuderà per sempre.
Un romanzo con i tratti di un lungo racconto, resoconto crudo, spietato, oggettivo, che tratta di scienza medica per sconfinare in riflessioni postume su una vita guidata da un divino fallimento, priva di senso in nome della vita medesima, inscenando un inseguimento dai ritmi serrati ai confini del mondo, braccati dalla propria ombra, guardandosi le spalle, accecati dalla disperazione e dalla sete di vendetta.
Riflessioni prolungate accompagnano le voci dei protagonisti, restituendo un’ umanità inquieta e corrotta nella propria ambivalenza, cieca nello sguardo, arida nei sentimenti, sottratta a qualsiasi illusoria romantica tenzone a cui vorrebbe donarsi.
“ Frankenstein “ restituisce una duplice valenza, simbolo della contraddizione umana schiava di un ideale da una parte votato al superamento dei confini naturali, sostituendosi al Sommo Creatore, dall’ altro impaurita dall’ orrore di un futuro retto da una progenie demoniaca.
L’ eterna lotta tra Bene e Male popola sogni e incubi, paure e incertezze, quell’ immaginario che pare confondersi e alternarsi nella constatazione della propria ineludibile finitezza fino all’ autoannientamento, unica via di ripartenza.
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Destino già scritto
Adem, maestro dimissionario in fuga da se’ stesso e dal mondo, dopo l’ abbandono del tetto coniugale da parte della moglie Dalal, stanca del loro matrimonio e votata ai piaceri della carne, braccato da rabbia e disperazione, inizia un viaggio tormentato e paradossale in un mondo avverso che per lui ha smesso di esistere.
Siamo nell’ Algeria degli anni ‘60, fresca di indipendenza ma politicamente instabile e acerba, intrisa di corruzione e tradizioni vetuste.
Adem viaggia verso l’ ignoto, tra città e boscaglia, rifugiandosi ogni sera nell’ alcool, calato nell’ abisso di un animo disilluso e scorato, perso l’ amore per cui aveva vissuto e il senso dell’ amicizia, immerso in un buio che lo trascina nelle esperienze più estreme dimentico di ciò che di umano possiede.
Un percorso di autoisolamento all’ interno di un dolore vivido, nessun rimedio e antidoto per chi non sente e non vede, mente disillusa infettata da pensieri orribili, creatura priva di carne e di spirito che si nutre di assenza e silenzio.
Un cammino in cui inciampare in personaggi bizzarri, unici, voci della propria coscienza, che cercano di ricondurlo alla vita, un cieco che canta divinamente, uno psichiatra amante della letteratura russa, un nano filosofo ( Mika ) in cerca di un amico vero, un circo emozionale che gli prospetta un’ idea salvifica inarrivabile per chi respira solitudine rabbiosa, spogliato di sogno, amicizie, dialogo e comunanza, che ha deciso di non parlare di se’, disilluso dalla vita, e dialoga continuamente con quella voce interiore che ha le sembianze del diavolo in una terra che brucia di fame e vendetta.
Adem, completamente estraneo a se’ stesso, muro di pietra, morto vivente, ostaggio dei desideri altrui, un libro, una matita e un quaderno ad accompagnare i suoi giorni, improvvisamente sarà di nuovo pervaso dal fuoco del desiderio che comincerà a bruciargli dentro, un’ ossessione d’ amore che lo trascinerà in un abisso di false apparenze e desideri impossibili per sparire nel nulla.
Se il romanzo possiede una morale questa ci fa riflettere sullo sguardo umano che deforma la perfezione della natura, sull’ inutilità della solitudine quando non si è in pace con se stessi, braccati dalla propria ombra, sul senso della bontà d’ animo e della gentilezza dei cuori, sull’ importanza e sulla vocazione del rendersi utili.
Yasmine Khadra costruisce una trama ben strutturata, intrisa di crudo realismo, della recente storia dell’ Algeria, dei costumi e delle osservanze, ma anche poetica e simbolica nella rappresentazione delle declinazioni umane e delle innumerevoli sfaccettature che le contraddistinguono. Il protagonista si dibatte in una serrata lotta con il proprio io, abbandonandosi a un destino che gli ha sottratto Dalat, rinunciando a qualsiasi pretesa nei suoi confronti, ingabbiato in una solitudine che gli fa perdere il senso del reale e quella libertà che gli permette di vivere. Vizi e virtù, a quel punto, si confondono e il fuoco del desiderio si trasforma in un boomerang che prevede un viaggio della dimenticanza azzerando il passato dissolto.
“…alla fine, quando la notte diede manforte al coprifuoco per spopolare le strade, Adem e Mika ne approfittarono per lasciare la città. Sparirono subito nel nulla, cancellando le loro tracce per non farsi scovare dai loro ricordi. Da quel giorno nessuno sa dove siano andati ne’ che ne sia stato di loro…”
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Doppio viaggio
Una dimensione introspettiva, onirica, che ricorda Virginia Woolf e che sembra attraversare il tempo per catturarlo ed eluderlo, un monologo che abbraccia i temi cari a un’ anima inquieta, estrema, forte e fragile, che accarezza un’ idea di vita specchiandosi nel luogo della memoria, Granja Quieta, dimora spettrale della propria infanzia, depositaria di vuoto, silenzio, ombra.
L’ essenza di Virginia si muove ai confini delle cose, una simbiosi passiva con il fratello Daniel, uniti dal mistero di storie inventate e da una Società Segreta di cui sono gli unici membri, con l’ idea di scappare da quel …”microcosmo di ghiaccio “….
Nessuno fa visita alla loro famiglia, una madre che vive segregata all’ interno della grande casa, una sorella, Esmeralda, che non si è buttata a capofitto nella vita, le redini di Granja Quieta nelle mani del padre e della nonna.
Virginia e Daniel respirano la medesima condizione di libertà ma sono diversi, lei è un suo surrogato, stupida e incapace, lui difficile da comprendere, forte, ingegnoso, spavaldo. Ciò che, sin dall’ infanzia, attanaglia e percuote la protagonista, è un senso di una vita ricca di dettagli ma allo stesso tempo come …”se fosse un tratto abbozzato senza forza e senza fine”…, come …”i resti di un’ altra vita. “…, …” attanagliata da un’ ispirazione breve “….
Pagine e pagine assecondano sensazioni forti, ipotizzando un’ ombra di se’ a cui manca sempre qualcosa, che fluttua tra un reale insopportabile e fatto di piccole cose e una percezione smisurata, quel quid che le permetta di assolvere una vita coperta di niente.
Un flusso di coscienza che attraversa gli anni lontano da Granja in una vita vivibile all’ interno di una neo dimensione cittadina, afferrando un amore con tratti piuttosto sfumati, anche forti, ma dai contorni irrisolti.
Virginia ha la sensazione di avere una vita ma da sempre si sente stanca, estranea e preziosa, volutamente esitante, come se l’ oggi fosse il domani, ignara di se’, attraversa la realtà senza riconoscerla. innocente e distratta come un bambino.
Il suo corpo pare dissolversi, percezioni prive di ragionamento, il suo mondo e quello di Daniel un microcosmo sconosciuto e folle con l’ idea che sopra il cielo fluttuino i suoi desideri materiali, le visioni, i ricordi, le parole, la vita. Vorrebbe essere libera ma non riesce ad afferrare il reale significato del vivere, si guarda allo specchio ma si vede angosciosamente muta e sprofondata nel se’.
La maturità sarà una dimensione di vecchiaia con la cognizione di un passato che non avrebbe più potuto toccare, un tempo che non le appartiene perché già compiuto, ma a cui si aggrappa.
Respira una sensazione di infanzia che non riesce più a cogliere, semplicemente …” la sua disperazione oltrepassava misteriosamente le amarezze della vita e la sua allegria più segreta sfuggiva al piacere del mondo “….
In lei permane l’idea di essere sola al mondo, scoprirà di non avere buonsenso, di non possedere nessun passato, una vita improvvisata e vuota che ha perso l’ incanto infantile.
Il solo modo di ricollegarsi a un passato di smemoratezza sarebbe vivere l’ imperfezione del presente, lasciando un’ infanzia in cui aveva cercato la perfezione.
Un giorno il ritorno agognato a Granja le farà pensare di avere perso il respiro di casa, che quel luogo ha smarrito la propria dimensione antica, percepita da bambina, immersa nel sogno e non nelle lenta superficie delle cose, nel viaggio di ritorno si accorgerà di avere ignorato il vecchio lampadario di casa, perdendolo per sempre, come la propria infanzia, perché
…’ il posto dove si è stati felici non è il posto dove si può vivere ”….
Il secondo romanzo di Clarice Lispector, scritto nel 1946, è un viaggio vorticoso e introspettivo negli abissi inesplorati del proprio se’, una sorta di educazione sentimentale in una vita in parte priva di sentimento. I pensieri e le emozioni della protagonista si spezzano, la realtà si liquefa’, la fuga impregna i propri desideri, il buio rallegra la mente, il tempo pare inseguire la memoria di un luogo, Il profondo non è tragico e neanche comico, è un albero, un pesce, lei stessa.
La lettura genera un viaggio parallelo, inafferrabile, fragile, bellissimo, rapiti dal potere persuasivo e dalla bellezza onirica e visionaria di un linguaggio che sembra ogni volta frantumarsi e rigenerasi restituendo emozioni forti, estreme, vere.
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Madre e figlio
Caro Michele, pubblicato nel 1973, a dieci anni dal famoso “ Lessico famigliare “, è un romanzo prevalentemente epistolare, privo di una struttura narrativa definita, un ‘ alternanza di voci singole, spezzoni di vite frantumate e in qualche modo connesse, esito di una disgregazione famigliare ignara delle cause ma chiara negli esiti, e il tema di fondo, l’ incomprensione madre-figlio, si apre e si chiude in un duplice disfacimento.
I temi trattati affrontano gli esiti di una disgregazione borghese e famigliare, l’ inconcludenza e l’ inaffidabilità di certa gioventù, il trionfo dell’ io, il tema del divorzio, l’ ansiogena ricerca di un proprio angolo di mondo, una certa nostalgia del passato, il rimpianto per ciò che non si è fatto e non si è detto, una rassegnata e ineluttabile percorrenza.
La scrittura è semplice, asciutta, diretta, le voci rimandano a uno stato confusionale individuale ignaro del senso di comunanza insito nella generazione dei Levi di “ Lessico famigliare “, qui spicca l’eco individuale, la frammentarietà, un’ aria di smobilitazione, di lontananza, di vuoto, di non ritorno.
Una madre e un figlio che non si vedono da anni, non si fidano l’ uno dell’ altra, indirizzati altrove, costretti a relazionarsi negli inciampi del presente, con un quesito ricorrente …” Michele cosa farà e dove andrà “…., l’ impossibilità di decidere per lui, l’ ignoranza per ciò che vorrà fare della propria vita. Un’ infanzia segnata dal disfacimento matrimoniale, dall’ affidamento di Michele alle cure paterne, dalla scarsa educazione impartitagli, dall’ accusa di balordaggine.
La colpa è anche degli altri ma soprattutto propria, una madre non simpatica a se’ stessa, sfiduciata nel portare avanti un qualsiasi modello educativo.
Il tempo, gli acciacchi, la malattia, restituiranno un intento rassegnato indirizzato a un senso di pace, riflessioni a posteriori su quella felicità introvabile nel presente.
Oggi l’ amara constatazione che madre e figlio avrebbero potuto sedersi a parlare di cose essenziali, ricordando quei giorni non come felici ma veritieri ed essenziali, destinati ad illuminare se stessa e l’ altro, che invece si sono scambiati sempre …”parole di natura deteriore, non necessarie, ma grigie, bonarie, fluttuanti, inutili”….
Le voci e le porzioni di storie dei protagonisti, un turbinio intrecciato e sconnesso, richiamano una neo dimensione di interiorità, la constatazione di quanto ciascuno sia …” sbandato e balordo in una zona di se’, qualche volta fortemente attratto dal vagabondare e dal respirare nient’ altro che la propria solitudine”… e allora …” in questa zona ognuno di noi può trasferirsi per capirti”…
È inappellabile il fatto che …” ci si abitua a tutto, ci si abitua a tutto quando non rimane più niente”….
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