Opinione scritta da Anna_Reads

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    26 Luglio, 2015
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Così immaginava Billy...

Mattatoio n°5 o la crociata dei bambini – Kurt Vonnegut – 1969

“Vista a ritroso da Billy, la storia era così:
Gli aerei americani, pieni di fori e di uomini feriti e di cadaveri, ritornavano da un campo d'aviazione inglese. Quando furono sopra la Francia, alcuni caccia tedeschi li raggiunsero e risucchiarono proiettili e schegge di bombe da alcuni degli aerei e degli aviatori. Fecero lo stesso con degli apparecchi americani distrutti che erano al suolo, e questi volarono poi per unirsi alla formazione.
La squadriglia aerea sorvolò una città tedesca in fiamme. I bombardieri aprirono gli sportelli delle bombe, quindi, grazie a un miracoloso magnetismo, risucchiarono le fiamme, le racchiusero nuovamente entro contenitori cilindrici d'acciaio che portarono infine nel ventre degli apparecchi. I contenitori furono sistemati ordinatamente su delle rastrelliere. I tedeschi, là sotto, avevano a loro volta degli strumenti portentosi, costituiti da lunghi tubi d'acciaio. Li usavano per risucchiare altri frammenti dagli aviatori e dagli aerei. Ma c'erano ancora alcuni americani feriti, e alcuni dei bombardieri erano gravemente danneggiati. Arrivati sopra la Francia, comunque, furono raggiunti di nuovo da dei caccia tedeschi che rimisero tutti e tutto a nuovo.
Quando i bombardieri tornarono alla base, i contenitori di acciaio vennero tirati fuori dalle rastrelliere e rimandati negli Stati Uniti, dove c'erano degli stabilimenti impegnati giorno e notte a smantellare i cilindri e a ridurre il pericoloso materiale che contenevano a minerale. Cosa commovente, erano soprattutto donne a fare questo lavoro. I minerali vennero poi spediti a degli specialisti in zone lontane. Era loro compito rimetterli nel terreno, e nasconderli per bene in modo che non potessero mai più far del male a nessuno.
Gli aviatori americani si trasformarono, nelle loro uniformi, ridiventando ragazzi. E Hitler, immaginava Billy, tornava bambino. Questo nel film non c'era, Billy stava estrapolando. Tutti ridiventavano bambini, e tutta l'umanità, senza eccezione, cooperava biologicamente a produrre due individui perfetti di nome Adamo ed Eva; così immaginava Billy.”

Premessa.
Ho letto “Mattatoio n°5”, immediatamente dopo “E Johnny prese il fucile” (Trumbo, 1939) e “Il Giovane Holden” (Salinger, 1951).
Scelta infelice, probabilmente, per quanto casuale.
So che l’opera di Vonnegut è considerata un manifesto del pacifismo e che lo stile, sorprendente, è giustamente diventato quasi leggendario.
Tuttavia.
Devo dire che dal punto di vista “politico” Trumbo è stato assolutamente più toccante e coinvolgente, mentre da quello “stilistico”, Salinger mi è sembrato davvero una svolta importante (e amatissima).
Insomma, probabilmente ero “abbagliata” e non ho colto Vonnegut al suo meglio.
Partendo da queste premesse devo dire che il libro mi è piaciuto, l’ho letto volentieri e leggerò anche “Ghiaccio 9” e “La Colazione dei Campioni”. Perché mi pare che l’autore abbia molto molto da dire.
Però devo ammettere che non mi ha emozionato come pensavo.
L’idea di fondo, di un tempo non lineare, ma circolare, e del rivivere costantemente il proprio percorso in momenti diversi è geniale, così come gli alieni e il protagonista, dolcissimo nel suo essere perennemente “altrove”.
La prosa è lieve e in certi momenti cerca di calcare un immaginario “tono colloquiale”, alcune trovate, come post-porre “così va la vita” ad ogni decesso a mo’ di ripresa del parlato non mi ha convinto (anzi, mi ha un po’ stuccato).
Al di là di questo, il bombardamento di Dresda e l’orrore “ordinario” della guerra sono resi esattamente come devono essere resi e lo sguardo un po’ stralunato del protagonista non fa che aggiungere incredulità all’orrore, senza mai perdere il suo tono delicato, al tempo stesso partecipe e distante.
Ad Maiora, Kurt.

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"Niente di Nuovo sul Fronte Occidentale", "E Johnny prese il fucile"
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    23 Luglio, 2015
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Ascoltare i colori,toccare i suoni,sentire la luce

Tutta la Luce che non Vediamo – Anthony Doerr, 2014

Se non avessi letto la recensione che mi precede, qui, non mi sarei mai avvicinata a questo libro. Colpa del titolo, che me lo aveva fatto immediatamente collocare nel genere “Melò” (genere che – a dir poco – non amo).
Il romanzo narra, attraverso la storia dei due protagonisti, Werner e Marie-Laure gli anni della seconda guerra mondiale (quelli precedenti funzionano a mo’ di introduzione e quelli successivi servono a sciogliere la vicenda e sono – secondo me – quelli riusciti meno).
Marie-Laure vive a Parigi con il padre e a sei anni, in breve tempo, diventa cieca. Il padre, custode al Museo Nazionale, per aiutare la sua bambina, le “insegna” gli altri sensi, in particolare il tatto.
Costruisce per lei un modellino precisissimo, in legno, del loro quartiere e attraverso quello, i rumori, i suoni, gli odori e la memoria cerca di renderla il più autonoma possibile.
Non solo.
Quando la guerra, anni dopo, li costringe a trasferirsi a Saint-Malo, presso il bizzarro zio Etienne, il papà ricrea il modellino in legno dell’intera città corsara.
E questo farà di Marie-Laure un’audace, saggia, piccola partigiana.

Werner e la sorellina Jutta vivono in Germania, in un distretto minerario, ospiti, come tanti figli di minatori morti, in un orfanotrofio gestito da Frau Elena – alsaziana - che fa del suo meglio, con il nulla a sua disposizione, per alleviare le sofferenze dei piccoli.
Werner possiede quell’istinto e quella sapienza che non saprei definire altro che téchne, mentre Jutta e una bambina a cui non si può mentire.
Affamati ed infreddoliti, una notte che passano ad armeggiare con una vecchia radio rotta rimediata fra i rifiuti, Werner e Jutta captano prima una musica. Poi una voce.
Una voce che, in francese (che i fratellini conoscono grazie a Frau Elena), spiega ai bambini i prodigi della scienza.
Tutte le notti si alzano per ascoltarla e il suo messaggio finale: «Aprite gli occhi, e guardate tutto quello che potete prima che si chiudano per sempre.» assume una valenza importante nella vita dei fratellini.
Per Werner la radio è la svolta della vita.
Gli permette di studiare, di sfuggire alla fame e al freddo (quelli materiali, almeno) e di diventare – per le sue competenze tecniche “convertite” in militari – un soldato di una certa rilevanza del Reich.
Seppur di malavoglia.
Non voglio spoilerare, ma è chiaro abbastanza presto che Werner (e Jutta) e Marie-Laure sono destinati ad intrecciare un poco i loro destini. Non è (solo) questa la grandezza del romanzo.
C’è la descrizione di una guerra attraverso gli occhi di molti dei suoi protagonisti (uomini, donne, bambini, adulti, civili, militari, tedeschi, francesi), si spazia dalla Francia alla Russia passando per la Germania; viene descritta la distruzione quasi completa di Saint-Malo dell’agosto del 1944 (e sarà perché è la mia città dell’anima, ma quando arrivi a Saint-Malo e la trovi intatta e poi vai a leggere quello che hanno fatto i suoi cittadini per ricostruirla com’era, non puoi fare a meno di empatizzare, perfino con il granito e l’ardesia).
C’è una tematica importante che rivela la devastazione senza senso della guerra.
Ma quello che davvero mi ha colpito e che ho trovato davvero originale, in questo romanzo, è il suo essere, fondamentalmente, una sinestesia.
La sinestesia è una figura retorica che associa due elementi che appartengono a sue sfere sensoriali diverse. Forse la più famosa è «L’urlo nero” di Quasimodo (“Alle fronde dei salici”) in cui abbiamo “urlo” che appartiene all’udito e “nero” che appartiene alla vista.
Questo libro è una sinestesia continua perché racconta di tatto che diventa colore, di suono che diventa vista. Di mani che creano suoni, di suoni che irrompono nel buio e riescono a riportare alla luce. Di voci che diventano onde e che con le mani si possono afferrare.
Ecco, questa è ciò che ho veramente amato di questo libro: riuscire a ricreare la “sinestesia” della percezione dei colori di una bambina cieca o del suono della radio che arriva a Werner dopo che un’esplosione gli ha danneggiato l’udito.
Anche solo per questo la lettura merita.
Il tema centrale non è certamente originale, alcuni personaggi sono più riusciti di altri e – onestamente – la storia della “gemma maledetta” l’ho trovata un po’ forzata all’interno della trama.
Ma il colore delle persone, il suono dell’oceano, la potenza di una voce… anche solo per questo è valso tutte le sue cinquecento pagine.

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"Notturno" - D'annunzio
"L'urlo e il Furore" - Faulkner
"Fiori per Algernon" - Keyes
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    22 Luglio, 2015
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Osservando Bessy...

Le Osservazioni – Jane Harris

SPOILER

Volevo leggere "I Gillespie", dopo la belle recensioni lette, ma in biblioteca non c'era e ho scelto l'unico disponibile della stessa autrice.
"Le osservazioni" appunto.
Scozia, 1863. La giovane Bessy (da non confondere con "la vecchia Betsy" :D ), irlandese dal torbido passato e con una "famiglia" (leggasi madre che si spaccia per la sorella) decisamente disastrata alle spalle, arriva in una piccola tenuta scozzese e un po' per caso, un po' per desiderio viene assunta come domestica da miss Arabella. La quale miss è piuttosto bizzarra. Sta infatti scrivendo un libro (Le osservazioni, appunto) in cui cerca di dare consigli su come trovare la "perfetta servitù"; per farlo, con molto "positivismo" studia le persone che prendono servizio presso di lei, le invita a scrivere un diario, e prova anche a fare qualche studio sulla loro fisionomia per cercare (e creare) "la serva perfetta".
Bessy, che ha imparato a scrivere e leggere piuttosto bene, entra – apparentemente – nella grazie della signora e le si affeziona molto; subisce anche una sorta di "fascinazione".
Poi, riuscendo, casualmente, a leggere qualche capitolo delle "Osservazioni", invece, scopre che la padrona la sta semplicemente studiando, ha scarsa stima di lei, e rimpiange amaramente Nora, una delle precedenti cameriere, scomparsa misteriosamente.
Bessy decide di vendicarsi e combina uno scherzo alla padrona, facendole credere che la casa sia infestata dal fantasma di Nora. Lo scherzo riesce talmente "bene" che la padrona quasi impazzisce e la stessa Bessy finisce per credere al fantasma.
In tutto questo il Padrone ha mire di carriera politica e fa costruire… una fontana, il pastore locale è in realtà il vecchio depravato che ha messo nei guai Nora e via fino al – più o meno – happy end finale che vede Bessy e Arabella riunite (seppur in una sorta di manicomio, dove Arabella è ospite e Bessy cuoca).
Le 450 e passa pagine del libro si leggono abbastanza bene e molto velocemente e va considerato il fatto che si tratti di un'opera prima. Nonostante questo, non mi ha convinto molto.
In primo luogo, viene scritto in prima persona, attraverso la voce di Bessy che molto spesso si rivolge direttamente ai lettori (spesso apostrofati come "ragazzi"), il ché alla lunga stufa, anche perché appare abbastanza artificioso, un pretesto per dare al testo un tono spontaneo e colloquiale, una sorta di "calco" del parlato. Personalmente trovo questo effetto (che non viene certo inventato dalla Harris) poco realistico e – appunto – alla lunga seccante (a meno che tu non sia Paul Auster, ma qui il discorso è diverso); allo stesso modo mi hanno convinto poco le parole e le espressioni popolari/volgari inserite qui e là (una serva ex prostituta 15enne, nata a metà '800 che scrive pagine e pagine con lessico forbito e sintassi perfetta, e ogni tanto scrive "cacca" giusto per ricordarci il taglio "popolare" del racconto. Non funziona,secondo me).
Altra pecca è che la struttura del romanzo sia troppo "evidente". O meglio, l'effetto che cerca l'autrice è troppo smaccato: qui voglio creare suspence. Allora, prima di tutto accenno a una cosa torbida/misteriosa faccio dire alla voce narrante che non ne vuole parlare perché è troppo torbida/misteriosa e che lo farà dopo se proprio sarà necessario.
50 pagine et voilà, ecco la cosa torbida/misteriosa. Questo stratagemma si ripete diverse volte, tanto che alla fine te lo aspetti. Ovviamente tutti gli autori fanno così, ma qui è proprio evidente e – alla lunga – anche qui, stanca.
Comunque, per essere l'opera prima di un'autrice giovane (nata nel 1961), direi che non mi ha fatto un'impressione pessima e che leggerò il famoso "Gillespie and I".
Poi ci aggiorniamo.
Ad Maiora.

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Non ha trovato i Gillespie :)
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    21 Luglio, 2015
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...and the winner is: E. Morse!

In questa insolita, per me, maratona di "gialli", mi son tenuta per ultimo il bocconcino più prelibato.

Colin Dexter inventa l detective E. (mistero sul nome, che non svelo) Morse. Morse è solitario e un tantino scorbutico, amante dell'enigmistica, della musica e della letteratura.
Qui indaga sull'omicidio di una ragazza e - purtroppo per lui - risolveil caso.
"Ultima corsa per Woodstock" esce nel 1975 potrebbe sembrare datato fra dattilografe, piani di formica e scarpe con la zeppa (ah no, quelle ci sono anche ora, ahimè); anche qui abbiamo uno Watson (Lewis) e un ispettore tormentato, lunatico e geniale, con in sorte una buona dose di scalogna.
MA abbiamo anche un autore che ha fatto sua la fondamentale lezione "SHOW DON'T TELL" ("Mostra non dire") che un po' – secondo me - manca agli altri concorrenti (Nesbo, Manzini, De Giovanni...)
Dexter non "si ferma" per dirti quanto è ganzo Morse, Morse FA cose ganze e Dexter te le mostra.
Come Christie non ti "diceva" che Poirot fosse arguto e Doyle che Holmes fosse geniale.
Facevano cose argute e geniali e tu lettore lo vedevi.
Che fossero arguti e geniali lo deducevi da solo.
E questa caratteristica è talmente fondamentale – per me, almeno – che ti fa passare sopra anche al fatto che il detective non condivida sempre con il lettore tutto quello che scopre.
E poi c'è una sana, british, ironia di fondo e non mi è mai sembrato che Morse si specchiasse nelle vetrine per sbirciare quanto fosse figo.

Oh sarà mica un caso che "il detective" sia nato in Gran Bretagna (sì lo so. Filologia vuole che sia Auguste Dupin, E.A. Poe, 1841, USA. Buon per filologia. Per me è Sherlock Holmes, A.C. Doyle, 1887, UK).

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Cerca un buon equilibrio fra "giallo" e personaggio/detective.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    21 Luglio, 2015
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Schiavone, Ricciardi, Fabio Montale, Harry Hole...

Rocco Schiavone è vicequestore (non commissario, altrimenti si inalbera) ad Aosta ed è il protagonista di "Pista Nera" di Antonio Manzini.
Come altri "detective" italiaci e no, imbastisce indagini su casi a volte interessanti, a volte semplici pretesti per discrivere realtà particolari o personaggi complessi (o presunti tali o che vorrebbero esser tali).
Come altri colleghi non è esente da quella che nella mia mente definisco "La Sindrome di Fabio Montale" (dal primo detective in cui l'ho riscontrata, ma che certamente è molto molto precedente) e che colpisce detective belli e tenebrosi, perseguitati da superiori cretini, devoti alla legge, ma ancor di più al buon senso e al buon cuore (delle piccole "Antigoni"!), con qualche affanno sentimentale piccolo o grande (ma con folle di donne bellissime pronte ad un cenno - ed in genere anche prima), e TUTTI perennemente intenti a sbirciarsi nelle vetrine per confermarsi la loro tetra, ma indiscussa figaggine.

Romano, Rocco Schiavone non fa eccezione: è finito "in esilio" ad Aosta per motivi che non sappiamo, ma che sapremo (immagino).
Decisamente non integerrimo, ma con una sua integrità, anche lui ha uno Watson, mille e uno tormenti e metodi non proprio ortodossi, ma che alla fine funzionano. Anche lui più che volentieri è intento a rimirarsi nelle vetrine e a trovarsi incommensurabilmente figo, però, a tratti ne è consapevole e ci ironizza su.
Come ironizza sui cliché di romanità che spalma allegramente per tutta la storia.
Dalla sua Manzini ha la capacità di caratterizzare con molta freschezza i personaggi attraverso pochi tocchi e di farti sorridere.
L'intreccio "giallo" poteva essere un po' più articolato, ma tutto sommato la lettura è stata piacevole e lieve.

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Ama i detective belli e dannati (e che se "la tirano" un po').
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    20 Luglio, 2015
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Molto Rumore (bianco) per... ?

Rumore Bianco – Don Delillo, 1985

Noi sembriamo ritenere che sia possibile tenere lontana la morte seguendo regole di buon comportamento.

Questo libro va profondamente e lungamente digerito, perché – almeno nel mio caso – la lettura è stata stentata e piuttosto faticosa.
Illuminata qua e là, va detto, da improvvisi squarci e sprazzi financo notevoli.
La storia si articola in tre macro sezioni ed è quella di Jack Gladney che si inventa una carriera accademica studiando ed approfondendo la figura di Hitler. Reduce da un certo numero di matrimoni e con un discreto numero di figli (alcuni propri, altri dell’attuale moglie, Babette), Jack porta avanti una vita tranquilla, descritta dall’autore attraverso conversazioni con i colleghi, spese al supermercato, bizzarre lezioni di tedesco, scambi con la moglie e i figli (particolarmente pregevoli quelli con il figlio Heinrich e con la figlia Bee).
La prima sezione, intitolata “Onde e Radiazioni” scorre via così.
Devo ammettere che ho faticato parecchio a comprendere dove l’autore volesse andare a parare.
Nella seconda sezione (L’evento Tossico Aereo) si comincia a capire qualcosa. Senza voler spoilerare troppo, Jack e la sua famiglia si trovano ad affrontare un pericolo imprevisto e Jack e Babette separatamente e parallelamente – proprio loro che avevano una mirabile sincerità di fondo – cominciano a ragionare con una certa angoscia sulla morte. Propria e dell’altro.
Troveranno – nella terza parte – soluzioni diverse e seguiremo il percorso di riflessione di Jack.

Con questo plot la scrittura di Delillo mena a spasso il lettore fra supermercati ed ospedali, senza mai dirgli molto, ma lasciando a lui “il grosso” del lavoro.
È sorprendente come una visione un po’ più chiara di questo romanzo sia emersa riordinando i pochi commenti e le parti sottolineate (cosa che faccio sempre prima di una recensione).
Attraverso questo “filtro” è venuto fuori uno scheletro piuttosto definito.
E se penso che il titolo è “Rumore Bianco” una lampadina alla fine si accende (per non tediare con la fisica acustica mi limito a copiincollare una definizione informale di wikipedia: “Il rumore bianco, simile a un continuo fruscio o soffio, è considerato distensivo. Alcuni generatori di rumore bianco acustico sono impiegati per coprire il rumore di fondo in ambienti interni o per favorire il rilassamento.”).
Ora, non sono in grado di dire se “Rumore Bianco” sia la paura della morte che sostanzia, senza essere percepita l’esistenza di ognuno o se il “Rumore Bianco” sia la vita negli aspetti più banali e consumistici che va “filtrata” per scoprire il suo vero nucleo; personalmente mi piace di più la seconda ipotesi.
Come accennavo, fra il fruscio di fondo, la scrittura di Delillo a tratti si leva alta e potente, alcuni passi sull’amore, sulla vita e sulla famiglia sono meravigliosi, profondi, ironici e arguti; da soli valgono la faticosa – per me - lettura del libro.
Nel complesso, però, non posso dire di aver completamente apprezzato questo lavoro.
Ho avuto l’impressione di assistere ad un esperimento invece che di leggere una storia.
L’impressione che l’autore avesse un messaggio/tesi e a questo abbia un po’ sacrificato i suoi personaggi (e forse anche un po’ i suoi lettori).

«Tutto ciò di cui abbiamo bisogno, che non sia cibo o amore, lo troviamo nelle rastrelliere dei tabloid. Storie di fatti soprannaturali ed extraterrestri. Vitamine miracolose, le cure per il cancro, i rimedi per l'obesità. Il culto delle star e dei morti.»



Colonna Sonora
And The Radio Plays – CCCP
https://www.youtube.com/watch?v=70rdQA6GPNI

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Luglio, 2015
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Provaci ancora Harry.

Harry Hole, dell'anticrimine di Oslo, è in trasferta in Australia.
Incrocia le armi, in modo inaspettato prima e drammaticamente inaspettato poi, con un serial-killer.
Nesbo è molto godibile ed appassionante per almeno metà romanzo. Poi succedono due cose: tu-lettore capisci chi è il colpevole, e lui-Nesbo probabilmente lo sa; quindi, per mantenere alta la tensione per le successive 150 pagine, cosa fa? Si mette a cercare di rendere più interessante il suo protagonista che nell'ordine si inciucca, si droga e si racconta come se non ci fosse un domani.
Direi che Harry Hole è un caso da manuale di detective che si-sbircia-nelle-vetrine-per-vedere-quanto-è-figo. A cui aggiunge anche lo charme del dannato.
Uff.
Dirò solo questo, ancora: il finale è talmente inverosimile che ho sperato che Harry fosse sotto acido e avesse avuto le allucinazioni. L'ho letto due volte per vedere se magari avevo capito male e ad un certo punto di svegliasse, ma pare proprio di no. È veramente andata così.
Peccato.
Mi dicono che i successivi sono migliori, quindi... vedremo!

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A chi ama Fabio Montale, Giovanni Ricciardi, Rocco Schiavone.
Meno ai culturi del giallo "all'inglese".
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Luglio, 2015
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Quant'è bello Gigino!!

Non sono un'accanita lettrice di "gialli", ma complice una settimana libera da impegni di lettura, ho deciso di leggere 4 famosi giallisti e i primi casi dei loro altrettanto famosi detective.
Gli autori sono Nesbo, De Giovanni, Manzini e Colin Dexter.
I detective sono Hole, Ricciardi, Schiavone e Morse.
Parto con De Giovanni e Ricciardi.

De Giovanni con il suo Commissario Luigi Ricciardi ci porta a Napoli nel 1931. Vicenda gialla ambientata nel mondo dell'opera lirica e quindi ci son andata a nozze.
Ricciardi ha – come da copione – il suo fido Watson (Maione) è giovane, belloccio e tanto tanto tormentato. Cosa manca? Ha gli occhioni verdi, un superiore incapace e un amore segreto. È burbero, ma ha il cuore d'oro. Si trascura e la governante si preoccupa. Passeggia sul lungo mare avvolto nel suo pesante cappotto e rimugina sul fatto che alla base di ogni delitto ci siano o l'amore o la fame.
La vicenda gialla si dipana bene, anche se lo scioglimento finale è un po' macchinoso, secondo me.
Meno molesto e "concentrato" di Hole nel raccontarci i casi suoi, De Giovanni non è comunque immune da quella che definirei "la sindrome di Fabio Montale" (primo protagonista di gialli/noir di quest'anno in cui l'ho riscontrata, l'autore è Izzo) e che è caratterizzata da personaggi che ti tediano (ed a volte ti ammorbano) con i fatti loro mettendo da parte la storia.
Insomma, l'impressione è che anche Ricciardi, di tanto in tanto, si sbirci nelle vetrine per vedere quanto è bello e tenebroso. Poi la trama scorre e la vicenda è ben caratterizzata, ma non so.
Considerando che è il primo capitolo aspetto a sbilanciarmi.
Però diciamo che i gialli che amo sono più "show don't tell" e più centrati sulla trama che sullo charme del detective.

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Nesbo, Manzini e Colin Dexter.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    17 Luglio, 2015
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una bestia da soma con lo svantaggio della parola

La Malora – Beppe Fenoglio, 1954.

Premessa.
Estate di qualche decennio fa, decido di colmare le lacune di “letteratura italiana realista/di guerra”. Quindi me ne vado in vacanza, e fra gli altri porto con me Fenoglio, Pavese e Calvino.
Di Pavese ho letto – per la scuola, alle medie – “La Casa in Collina” e non è un ricordo tale da indurmi ad attaccare “La Luna e i Falò”. Di Calvino – a quattordici anni, al liceo – sono stata costretta a leggere “Il Barone Rampante” ed è uno dei pochi libri di cui ho contato le RIGHE, agognando la fine. Quindi “Il Sentiero dei Nidi di Ragno” può aspettare.
E quindi Fenoglio sia.
Leggo “I ventitré Giorni della Città di Alba”.
Una folgorazione.
Sono in un paesello e quindi non ho librerie sotto mano, leggo, di slancio ma svogliatamente Calvino e Pavese e poi mi faccio condurre nella città più vicina, dove, nell’unica libreria aperta trovo “La Malora”, “La Paga del Sabato”, “Una Questione Privata”.
Faccio razzia di tutto il “Fenogliabile”.
È come con Steinbeck.
Quando so che sarà un grande amore me ne accorgo subito.

Comincio a leggere la Malora, e dalle prime pagine di questa campagna di Langa, e non posso fare a meno di pensare ad un mio “altro amore” cioè Conan Doyle.
E ad Holmes che – ad uno Watson che magnifica la campagna e i cottage isolati – risponde
«Mi incutono sempre un certo orrore. Sono convinto, Watson, e lo sono in seguito alla mia esperienza, che i vicoli più squallidi e malfamati di Londra non presentino un più orrendo primato di colpe di quante ne presenti la dolce e sorridente campagna (…).
Ma guardi queste case solitarie, ciascuna sul proprio terreno, abitate in massima parte da gente ignorante che non conosce la legge. Pensi agli atti di diabolica crudeltà, alla malvagità nascosta, che possono continuare, anno dopo anno, in questi posti, senza che nessuno ne sappia niente.» (Le Avventure di Sherlock Holmes – L’avventura dei Faggi Rossi).
Ed è esattamente quello che succede in questo romanzo.


Agostino Braida.
(Ma potrebbe tranquillamente essere Tom Joad).
«Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra.»
Questo è l’incipit della storia raccontata direttamente da Agostino, in prima persona.
Una storia di fame, di fatica, di abbruttimento.
La famiglia Braida è composta da mamma Melina, papà Giovanni e tre figli, Stefano, Agostino ed Emilio. Contadini e non particolarmente agiati, vivono un periodo di ulteriore crisi che li costringe ad indebitarsi. Questo debito costringe la famiglia a mandare il diciassettenne Agostino a fare il “servitore” presso un altro podere e a spedire Emilio in seminario (l’anziana maestra decide di condonare loro il debito a patto che Emilio si faccia prete e preghi per l’animaccia sua).
Agostino raggiunge il Pavaglione, il podere tenuto a mezzadria da Tobia Rabino.
Per quasi tre anni Agostino lavorerà sotto Tobia.
Trattato da lui come un figlio.
Nel senso che viene trattato male quanto i figli di Tobia.
«Per venire a Tobia, lui m’ha sempre trattato alla pari dei suoi figli: mi faceva lavorare altrettanto e mi dava altrettanto da mangiare. A lavorare sotto Tobia c’era da lasciarci non solo la prima pelle, ma anche un po’ più sotto, bisognava stare al passo di loro tre, e quelli tiravano come tre manzi sotto un solo giogo.
Almeno dopo tutta quella fatica si fosse mangiato in proporzione, ma da Tobia si mangiava di regola come a casa mia nelle giornate più nere. A mezzogiorno come a cena passavano quasi sempre polenta, da insaporire strofinandola a turno contro un’acciuga che pendeva per un filo dalla travata; l’acciuga non aveva più nessuna figura d’acciuga e noi andavamo avanti a strofinare ancora qualche giorno, e chi strofinava più dell’onesto, fosse ben stata Ginotta che doveva sposarsi tra poco, Tobia la picchiava attraverso la tavola, picchiava con una mano mentre con l’altra fermava l’acciuga che ballava al filo.»
Agostino divide la fatica con Tobia e i suoi figli, dorme nella stalla e sente la mancanza della famiglia, della casa, della libertà, ma non è un sentimento cocente. Perché la fatica, la fame e la mancanza di speranze non riescono neanche a lasciarlo indulgere nella disperazione.
«… aspettando che mi si addormentasse la pancia perché potesse addormentarsi anche la testa.»

La grandezza di Fenoglio in questo breve romanzo è riuscire a descrivere condizioni di vita estreme in modo normale.
Non ci sono cattivi e oppressori, non c’è un rio destino.
È così.
Così e basta.
Tobia non è un mostro, come lui stesso dice in un desolato quando inatteso monologo in cui getta per un attimo una minima luce su di sé.
« Qui mi tenete tutti per il vostro aguzzino. Ma lo sapete il perché io tiro e vi faccio tirare e non vi do niente di più del necessario. E se anche fallisco nei miei piani, dovrete sempre ringraziarmi per avervi insegnato a star male oggi per non star peggio domani. E non venite a dirmi che peggio di così non si può stare, perché io ci metto poco a mostrarvi il contrario. Vi contassi d'uno che da bambino gli è morto suo padre e se lo prese in casa un suo zio, dalle parti di Cravanzana. Lo faceva tirare che al paragone voi siete dei signorotti, e a mezzogiorno gli diceva: "Se non mangi pranzo, ti do due soldi", e bisognava pigliare i due soldi, e a cena: "Se vuoi mangiar cena, mi devi dare due soldi". Ero mica io quel bambino là? Voi non avete mai provato niente.»
Non si trova traccia di affetto, speranza e slancio. Ogni tanto ci si stringe, ma semplicemente per “tirare” più forte o per non morire di freddo. Solo in famiglia e - come si è visto – anche lì non sempre, qualche volta, traspare un minimo di calore umano.
Nella “padrona” moglie di Tobia che nel congedarsi dalla figlia, il giorno delle nozze (ovviamente concordate a tavolino e conti alla mano dal padre, senza che i due sposi si fossero mai visti prima dell’altare) le impedisce di sparecchiare dicendole di godere di quello che sarebbe stato «il primo e l’ultimo giorno bello» della sua vita. Nel legame fra Agostino e il fratello Emilio, al quale dirà:
«Io per venire a trovar te lascerei un pranzo di sposa.»
Ossia rinuncerei per una volta, a riempirmi la pancia e a non avere fame per qualche giorno.
E nella narrazione, lucida, asciutta e mai, mai compiaciuta o accomodante impariamo a conoscere Agostino, che lavora come un uomo, ma è un ragazzo, affamato di amicizia ed affetto.
Conosce Mario Bernasca e lo “studia” da lontano per mesi per diventarne amico. Ma quando finalmente parlano un po’capisce di non condividere i suoi sogni di fuga e di essere uno di quelli che crepano sulle langhe solo perché ci sono nati. E proprio nel colloquio con Mario c’è uno dei pochissimi – e per questo ancor più struggenti – slanci affettivi e poetici che Fenoglio si concede:
«Ma non potevo mica dirgli a un originale come Mario che, a parte il coraggio e il naturale, conservare il posto da Tobia era per me una maniera come un’altra di tener la memoria di mio padre che mi ci aveva aggiustato prima di morire, e di salvare il rispetto della mia famiglia, che almeno avrebbe sempre saputo dove ero il giorno e la notte.»
E poi c’è Fede.
Un brevissimo momento in cui sembra quasi che le cose possano mettersi al meglio.
Fede viene assunta da Tobia per fare la “servente” e dare un poco di respiro alla “padrona” ormai allo stremo. Fra Fede ed Agostino nasce una certa simpatia, nonostante le attenzioni dei figli di Tobia e i due fanno qualche timido progetto per il futuro.
Sono giovani, in forze e non temono il lavoro, la fatica e la fame.
Agostino alza la testa e comincia a guardarsi intorno.
Ed ecco quello che la “buona, vecchia società contadina”e il “mos maiorum” tanto caro a certi moralisti hanno in serbo per Fede.
«Io fui l’ultimo a sapere che Fede era stata chiesta in sposa da uno dei fratelli Busca di Castino e i suoi erano volati su a prenderla nella paura di perdere per un’ora l’affare.
(…)
Io ero rimasto come un vitello dopo la prima mazzata. Che m'abbia portato in giro e che abbia voluto solo passare il tempo mentre stava da servente, nessuno me lo farà mai entrare. Piuttosto, presa alla sprovvista, abituata a chinar sempre la testa e senza me vicino che potessi darle la forza di rivoltarsi una volta per tutte, nella paura d'esser legata alla gamba della tavola e cinghiata fino a strapparle il sì, ecco è così che deve aver ceduto, e riguardo a me avrà pensato che ce l'avrei avuta un po' ma poi mi sarebbe passata e me ne sarei cercata un'altra. Adesso m'è quasi passata, ma per un bel po' m'è sembrato d'aver perduto tutta la razza delle donne, perduta Fede.»
Tobia e la padrona vengono invitati al matrimonio e questa è l’amara chiusa della donna:
« - Sai cosa? Ho paura che quei due boia più vecchi abbiano fatto sposar Fede al più giovane, per usarla tutti e tre. Povera figlia.»
Ah i costumi di una volta (neanche tanti anni fa)!
Ma forse...
Stefano viene chiamato a lavorare presso alcuni parenti e Agostino può tornare a San Benedetto e non servire più Tobia. La sua gioia, nel tornare a casa è grande e si concede un'altra, piccola, “caduta” emotiva:
«Arrivato a veder San Benedetto, posai il mio fagotto in mezzo alla strada e feci giuramento di non lamentarmi mai anche se dovevo restarci fino a morto e sotterrato e viverci sempre solo a pane e cipolla, purché senza più un padrone. E poi scesi incontro a mia madre, che anche per lei quello era il primo giorno bello dopo chissà quanto.»
Ma anche questa piccola gioia dura poco. Non solo la casa e la terra – trascurate da Stefano – sono in pessime condizioni, ma Emilio viene rimandato a casa, dal seminario, ormai moribondo a causa della tubercolosi.
E qui prendiamo congedo da Agostino e dalla famiglia Braida, con la desolata e tranquilla preghiera di mamma Melina:
«"Non chiamarmi prima che abbia chiuso gli occhi a mio povero figlio Emilio. Poi dopo son contenta che mi chiami, se sei contento tu. E allora tieni conto di cosa ho fatto per amore e usami indulgenza per cosa ho fatto per forza. E tutti noi che saremo lassù teniamo la mano sulla testa d'Agostino, che è buono e s'è sacrificato per la famiglia e sarà solo al mondo."»

La bellezza straordinaria di questo romanzo breve è la scrittura di Fenoglio, quasi leopardiano (penso alle Operette Morali) negli assunti e così compostamente “piemontese” nei suoi modi.
Non so se riesco a spiegarlo a chi non abbia quarti di “piemontesità” (o di “bugia nen”), ma non diversamente dalla “Bassa” eternata da Guareschi, Fenoglio eterna la Langa, e la sua gente misera, disperata, scaltra di quella scaltrezza che strappa un giorno in più alla volta.
Un giorno a sputare sangue, lavorando come bestie, battendo i figli, chiamando “bagascia” la moglie, maledicendo il padrone, la terra, la vita.
Ma senza urlare e senza fare sfoggi.
Qui Fenoglio non sperimenta linguisticamente come ha fatto ne “I Ventitré Giorni della Città di Alba” si concede solo qualche “calco” dal dialetto nelle costruzioni e nei modi di dire.
E trova, in questa storia piccola, un respiro eterno ed epico.
Non scherzavo quando parlavo di Steinbeck.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    17 Luglio, 2015
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A Perfect Day?

ldous Huxley – Il Mondo Nuovo – 1932

Distopico.

Non si può recensire questo libro se non si dice "distopico".
Ebbene, l'abbiamo detto.
Non pascolo abitualmente i verdi prati della fantascienza – almeno quella libraria – senza motivi reali, a dire la verità. Credo che semplicemente non capiti.
Come non è capitato di leggere questo libro prima.
All'esame di Storia Moderna, primo anno di Lettere, il professore propose la lettura di questo romanzo per il corso monografico. Io poi cambiai piano di studi e diedi Medievale. Non certo per colpa di Huxley o del docente di Moderna. Capitò e basta.
Ci ho ripensato quando Lenina, distratta dalle sue pene "d'amore", commette un errore e 22 anni dopo un povero innocente muore di malattia del sonno.
Parlando di questo libro non posso fare a meno di confrontarlo con 1984 di Orwell.
In entrambe le società immaginate dagli autori si esercita un controllo totale sulle persone, ma, mentre in 1984, esso si basa sulla repressione, nel lavoro di Huxley il controllo si esplica attraverso… la felicità.
La società produce gli individui di cui ha bisogno (intelligenti, mediamente intelligenti, stupidi, molto stupidi) e per ognuno fabbrica una vita "felice"; con un lavoro commisurato alle proprie capacità e necessario alla comunità e divertimenti e svaghi commisurati al valore intellettivo.
Ogni individuo appartiene ad una categoria (definiti dalle lettere dell'alfabeto greco) e ogni cittadino, ama le cose adatte alla propria categoria, ha un lavoro adatto alla propria categoria e svaghi adeguati alla propria categoria.
Ma come si determinano le categorie?
Nella società "distopica" del Mondo Nuovo, ovviamente, non si fanno cose rozze come sesso e bambini, quindi gli individui vengono prodotti in serie alla bisogna.
E vengono prodotti scientemente alcuni molto intelligenti, altri meno, altri per niente, mediante manipolazioni chimiche degli embrioni.
Ma come mai nessuno vuole "passare" di categoria e tutti sono "felici" della propria?
Tramite il "condizionamento".
Fin dalla "nascita" i bambini (stavo per virgolettare anche loro) vengono condizionati ad amare certe cose e ad odiarne altre (gli "alfa" ameranno i divertimenti costosi, le cose nuove ed odieranno aggiustare le cose vecchie e similia).
Tutti vengono condizionati a non temere la morte, ad aborrire il sesso, a considerare "madre" e "padre" insulti etc.
E se, in tutto questo, spunta comunque un po' di tristezza, nessun problema, perché c'è il Soma.
Che è una sorta di sostanza stupefacente che fa stare bene, apparentemente senza effetti collaterali. O meglio, senza gli effetti collaterali che siamo soliti attribuire alle sostanze psicotrope.
Il consumo di Soma, naturalmente è attentamente calibrato e ogni categoria umana ha diritto solo ad una quantità precisa, che viene distribuita gratuitamente e giornalmente.

Il plot si sviluppa attraverso due/tre "intoppi" al mirabile programma.
Gli intoppi sono Bernardo Marx, Helmholtz Watson e il Selvaggio.
I primi due sono elementi della società "moderna", nati in provetta e condizionati dalla nascita, ma per motivi incerti provano una sorta di inquietudine che in un certo senso li porta a farsi domande e a cercare risposte (probabilmente qualcosa non ha funzionato nel loro condizionamento o nei trattamenti subiti da embrioni).
Il "Selvaggio", invece, è un essere umano nato in una "riserva" (luoghi dove gli umani "evoluti" tengono – in relativa libertà – quelli "primitivi") e che quindi ha una madre, una religione e similia.
Quando Bernardo visita la riserva conosce il Selvaggio e sua madre Linda (lei invece evoluta e pure Alfa o Beta, abbandonata lì molti anni prima) e decide di portarli con sé nella "civiltà".

Mentre Linda riprende serenamente ad "impasticcarsi" di Soma e muore quasi completamente sprofondata nell'oblio, il figlio cerca di integrarsi, ma non ci riesce, fino al tragico epilogo.
Si innamora della povera Lenina, che lo ricambia, ma che – ovviamente – non lo capisce (e i loro dialoghi amorosi, sono fin teneri nel loro essere surreali), perché non può comprendere la gelosia, e le fisime dell'uomo (onestamente in alcuni punti mi è sembrato di capire più lei di lui e questo è un segnale che serbo nel cuore con una certa apprensione).

La parte più notevole e – per me – più faticosa del libro è il colloquio, quasi alla fine, fra il Selvaggio e il capo supremo [fra parentesi è il motivo del "3" allo stile. Huxley, molto spesso, mette da parte la narrazione - che è abbastanza un pretesto - per spiegare la sua "visionaria" (?) società del futuro. Naturalmente ciò è volontario e funzionale al suo obiettivo, che non è quello di scrivere una storia, ma di illustrare una "distopia". Nonostante ciò, queste parti, in cui la vicenda dei personaggi viene un po' "cacciata a forza", personalmente le ho trovate piuttosto faticose da leggere].
Questi risponde a tutte le domande del Selvaggio, e, nel farlo, illustra la nascita e l'evoluzione del "mondo nuovo". Di come sia un errore pensare che una società di sole persone molto intelligenti sarebbe migliore (un esperimento – disastroso - è stato fatto). Di come non sia il caso di riporre troppa fiducia nella scienza. Né, in fondo, nell'essere umano. Che è portato a mettere se stesso davanti alla comunità e che ciò è sbagliato (e chi è Trekkie o Trekker dentro non ha potuto fare a meno di fare un pensierino a Spock).
Forse la cosa più disturbante di tutte, per me, è stata trovarmi a pensare che il tipo di società di "Mondo Nuovo" non è priva di aspetti positivi che si accompagnano a quelli agghiaccianti, va detto.
Di certo è dimostrato che il rinforzo positivo è più efficace della punizione in termini educativi (un essere umano messo di fronte ad un compito qualsiasi lo svolgerà meglio se al termine avrà una ricompensa – tipo cento euro – piuttosto che una punizione – tipo una bastonata in testa) e l'obiettivo del "mondo nuovo" è proprio quello di creare felicità per tutti, eliminando i problemi, lo stress, la fatica, la paura e l'incertezza.
Tutto al "modico" prezzo di una certa eclissi di coscienza, individualità, sentimenti.
Forse una delle cose più tristi della società attuale è far pensare per un attimo, che non sarebbe poi tanto male.
Meno male che Huxley, però, costruisce tutta la teoria sul fatto che l'uomo sia fondamentalmente ed irrimediabilmente malvagio.
E a questo – per fortuna – non riesco proprio a credere.

Colonna Sonora: Perfect Day – Lou Reed.

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"Il Cerchio" di Dave Eggers, "1984" di Orwell, "Fahrenheit 451" di Bradbury e i "dispopici" in genere.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    15 Luglio, 2015
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Solo, dunque, finché morte non mi separi.

"Questo è il prezzo, suppongo, che si deve pagare a questo mondo per aver voluto essere libero. È a caro o a buon prezzo, mi domando?
Dovrei ridere o piangere? Chi lo sa! Ad ogni modo, non me ne sono mai crucciato, finché ero in vita. E ora è troppo tardi per fare i conti. ma forse ci si può domandare se libertà e solitudine non vanno mano nella mano a questo mondo, così come appare, se si vuole rimanere un essere umano."

Antidoto ad alcuni libri letti nell'ultimo periodo (e film visti nell'ultimo anno) per i quali non si poteva dire altro che "carini", cioè scritti con garbo e con un certa cura, magari anche "politically correct" (qualsiasi cosa voglia dire), ma estremamente e drammaticamente carenti di storia e di storie.
O – peggio ancora – a quei libri (e film) in cui ogni momento personaggi/scrittore/sceneggiatore/regista son lì a dirti "attenzione eh! Che adesso arriva il MESSAGGIO!" ossia il cuore pulsante & lo scopo della creazione dell'opera.
L'effetto "stucco" che mi fanno questi libri e film è di difficile descrizione, ma richiama l'idea di riempirsi la bocca con 6-8 bigbabol, masticare, e, contemporaneamente, degustare un bicchiere di buon rosso (sulla bontà del vino rosso di certi libri e film, peraltro, mi permetto di dubitare).

Ma non importa, perché con Long John questo rischio non si corre.
Abbiamo storia e storie.
E personaggi.
E messaggi.
Quanti ne vuoi.

Ma nessuno spiegone, nessun politically correct, nessun "prestami orecchio amico/nemico lettore".
Quasi 500 pagine in un soffio, decine di avventure, e di personaggi raccontati da Long John e Björn Larsson con un vigore e un'attenzione rari, senza una sbavatura. E non era semplice, visto che andava a mettere mano niente meno che a Stevenson e alla sua "Isola del Tesoro".
Chapeau, da leggere assolutamente.
Un inno alla libertà, all'intelligenza e all'umanità, nella sua connotazione più ampia.


PS unica nota "dolente", nell'edizione italiana che ho letto io (Iperborea), ci son alcuni errori di ortografia :(

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... a chi ama le storie e anche quando comincia ad avere sonno ne chiede ancora una.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    14 Luglio, 2015
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Boring.

SPOILER (?)

Premessa.
So che ha riscosso pareri più che entusiasti nella quasi totalità dei miei amici lettori, non di meno il mio giudizio è fortemente negativo. Sempre sul libro, ovviamente, mai sull'autore o i suoi lettori.

Romanzo iniziato e finito in una giornata. In genere, quando un romanzo di circa 200 pagine si legge un in giorno, vuol dire che il lavoro è stato piuttosto blando. Condizioni veramente ottimali.
Ci sono altre due cose che possono spiegare una lettura in un tempo così breve (per i miei standard, si intende):
1. Lettura assolutamente coinvolgente che “ti prende” tanto da impedirti di abbandonarla.
2. Lettura vischiosa ed irritante che ti costringe a finirla quanto prima, scrivere la recensione e non sentirne mai più parlare.
Ahimè (è proprio il caso di dirlo) sono decisamente orientata verso il punto 2.
La storia ci narra di due amici ormai anziani che si rivedono dopo 41 anni. Inseparabili fin dall’infanzia, si sono drammaticamente lasciati 41 anni prima, senza spiegazioni e senza saluti. L’autore adombra che vi siano un “segreto” e una risposta da dare che hanno atteso tutto questo tempo. Viene descritto il punto di vista di uno dei due “amici”, Henrik, che dopo la separazione ha continuato ad essere un soldato dell’Impero Austriaco ed ha sempre vissuto nel natio Castello dei Carpazi.
L’altro amico – Konrad – ha invece vissuto, in tutti questi anni, fra Londra e “i Tropici”.
Si allude anche alla presenza – sia nel segreto che nella domanda – della giovane moglie di Henrik, Krisztina.
Krisztina che è morta (anzi, “ha deciso” di ammalarsi e morire) 8 anni dopo la sparizione di Konrad e che, dalla sparizione in poi, non ha più visto (né ha più parlato) con il marito.
Hum.
Mumble mumble.
Due amici inseparabili, la moglie di uno dei due, brusca separazione, coniugi che non si parlano più, turpe segreto e domandone finale…
Ok, non è necessario fare una scappata a Baker Street, per interpellare Sherlock Holmes sulla faccenda. Lui, lei l’altro. È abbastanza chiaro.
Il triangolo, sì, l’avevo considerato.
E va anche bene.
Il punto non è la geometria; si possono scrivere bellissime storie, partendo dal “banale” triangolo (e da qualsiasi altra figura geometrica).
Basta caratterizzare bene i personaggi e inserirli in una storia che funziona.
Qui partiamo abbastanza bene, descrivendo l’infanzia di Henrik (ho amato particolarmente l’estate in Bretagna, temo per mie derive emotive) ed accennando alla storia d’amore dei suoi genitori.
Si adombra il tema centrale: ci sono persone – come Henrik e suo padre – fatte in un certo modo ed altre – Konrad, la madre di Henrik, Krisztina – che sono “diverse”.
Ma questo essere “diverse” non viene mai raccontato, al lettore. Questo essere “diversi” viene sempre detto e mai raccontato, né tanto meno vissuto.
Anche questo non è necessariamente un difetto. Ci sono scrittori geniali che con un’immagine e una suggestione riescono a rendere la complessità di personaggi e persino di categorie umane.
Marai ci prova.
Descrive l’esecuzione a 4 mani della Fantaisie Polonaise di Chopin (https://www.youtube.com/watch?v=ge1uw3UjoUQ) da parte di Konrad e della madre di Henrik:
“Era come se tutte le cose vecchie ed ammuffite, sepolte da tempo nei cuori umani, ricominciassero a vivere, come se nel cuore di ogni essere si annidasse un ritmo mortale che, ad un certo punto della vita, potrebbe mettersi a pulsare con implacabile violenza. Gli ascoltatori pazienti (sono Henrik suo padre) compresero che la musica rappresentava un pericolo.”
Il “demone” della musica rende diversi ed “inquieti” Konrad, Krisztina e la madre di Henrik.
Chopin era mezzo francese e mezzo polacco. La madre di Henrik è francese. La madre di Konrad era polacca… spiegata la diversità e morto lì il discorso.
Vabbe’.
Siamo speranzosi. Magari Marai non ci descrive i diversi, ma farà un lavoro encomiabile nel descriverci gli “uguali”. Sarebbe anche una scelta insolita e di certo interessante. Sappiamo tutto di Tristano e Isotta, ma qualcosa in più su Re Marco e Isotta dalle Bianche Mani, magari…
Speranze vane.
Gli “uguali” sono nello specifico quelli che si identificano e realizzano nel loro essere soldati dell’Impero (non a caso Henrik e il padre son di solito definiti con il loro grado: generale, il primo, ufficiale di guardia, il secondo) e, più in generale, quelli che aderiscono con precisione e gioia al loro destino (la balia Nini). Fine.
Vabbe’.
Magari me li inserisci in un plot spettacolare.
Anche qui il tentativo c’è.
I due ex-inseparabili si rivedono dopo 41 anni.
Konrad annuncia la sua visita.
Henrik prepara scrupolosamente la scena, mettendo in atto una replica perfetta dell’ultimo incontro avuto – in quello stesso castello – 41 anni prima.
Konrad arriva, i due si danno la mano, cenano.
Konrad – che è stato lontano – ragguaglia velocemente Henrik sulla sua vita ai Tropici. Henrik fa lo stesso con la sua vita.
Viene posta la questione della domanda.
E la domanda viene formulata.
Per circa 100 pagine.
Di monologo.
Di Henrik.
Quando finalmente la domanda viene formulata (“Krisztina sapeva che quella mattina, durante la caccia, avevi voluto uccidermi?”) e Konrad fa tanto di cercare di aprire la bocca e di rispondere, Henrik lo blocca.
Ha formulato male la domanda.
Henrik si prende una decina di pagine e riformula: “Krisztina sapeva che quella mattina nel bosco tu avevi intenzione di uccidermi?” (riformulazione che sarebbe riduttivo definire fondamentale, in effetti).
Konrad si avvale della facoltà di non rispondere.
“Va bene” replica Henrik.
Seconda domanda: “Cosa abbiamo guadagnato con il nostro orgoglio e la nostra presunzione? (…) non credi che non saremo vissuti invano poiché abbiamo provato questa passione?”
“Perché me lo domandi? – replica tranquillamente l’ospite (Konrad) – sai bene che è così.”

Capisco che messa così suoni quanto meno irrispettoso, però il mio primo impulso è stato osservare che potevano anche telefonarsi a casa e non tediare (me) per complessive 170 pagine di nulla (o di molto poco).
Ammetto di non essere una maratoneta della logica astratta, e, specialmente quando sto leggendo un romanzo, non mi vada di incartarmi in speculazioni filosofiche gesuitiche. Ammetto anche di avere una marcata insofferenza per lo psicologismo e tutti i costi e per le descrizione delle microscopiche variazioni cromatiche degli stati d’animo dei personaggi. Preferisco dedurle da sola dalle loro azioni.
Detto questo, però… mi è parso davvero troppo…poco.
Questo romanzo mi ha ricordato in maniera singolare “Lettera di una sconosciuta” di Zweig. A parte il numero 41 ricorrente, l’ambientazione, Vienna a prevalere è proprio questa sensazione vischiosa di incompiutezza e vacuità.
Vischiosa vacuità.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    13 Luglio, 2015
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Una potente rete sotterranea che non si allentava

(Spoiler – Lieve)

Due sorelle vivono, con l'anziano zio invalido, nella vecchia magione di famiglia.
La loro vita tranquilla, passata fra le conserve da preparare, i ninnoli da spolverare e l'orto da coltivare, viene narrata dalla più giovane delle due, Mary Katherine, detta Merricat.
Merricat è una ragazzina che pare vivere in un mondo tutto suo, fatto di riti magici, bizzarre chiacchierate con il gatto Jonas, e i golosi piattini cucinati dall'amatissima sorella Costance.
Tutto quello che appartiene alla casa e al giardino è bello, luminoso e colorato.
Tutto quello che è fuori e grigio, cupo e ostile. A partire dal "masso nero" che segna il confine fra l'interno caldo, solare e colorato e l'esterno, minaccioso e senza colore.
Tutto è minaccioso, a partire dal paese, dove Merricat si reca due volte alla settimana per fare compere.
Le persone, anch'esse grigie, la guardano con insistenza, mormorano alle sue spalle, i bambini la prendono in giro, alludendo a qualcosa di orribile e misterioso, avvenuto sei anni prima.
Piano piano scopriamo che la il madre, il padre, il fratellino e la zia delle sorelle sono morti avvelenati sei anni prima, durante la cena, e che Costance – la sorella maggiore – è stata accusata (ed assolta) dall'accusa di essere la loro avvelenatrice.
L'arsenico, contenuto nello zucchero con cui erano serviti i mirtilli, ha miracolosamente risparmiato Costance (che non ama zuccherare la frutta) e lo zio che ne aveva usato pochissimo.
Merricat, quella sera, era stata mandata a letto senza cena.

Cominciamo con il consueto crescendo da brivido di Jackson. L'immenso amore di Merricat per la sorella, le conversazioni con il gatto Jonas, le fantasie sulla gente morta, i riti per tenere lontani gli estranei (seppellire oggetti, immaginare parole talismano etc) fino a creare un profondo scollamento fra un sorridente mondo infantile e il baratro di orrore che Merricat cela.
Interverrà un elemento estraneo a turbare il magico mondo di Merricat e l'ovattato isolamento di Costance. Questo elemento sarà il cugino Charles.
Non voglio spoilerare troppo, ma la vicenda avrà un crescendo di tensione e per un breve tratto sembrerà profilarsi la possibilità di un ritorno alla "normalità".
Invece non solo Merricat riuscirà a riportare le cose esattamente com'erano, allontanando dalla casa e dalla sorella tutto quello che percepisce come estraneo, ma rivelerà anche la verità sul misterioso delitto di sei anni prima.

Devo dire, in tutta onestà, che nonostante abbia trovato entrambi capolavori, forse ho preferito Hill House a questo romanzo.
Forse perché nella mia mente il mondo dell'infanzia è sempre e comunque inquietante, mentre quello degli adulti tendo a concepirlo come più razionale e prevedibile. Eleanor era l'orrore in una figura per altri versi comprensibile nel suo essere ordinaria e un po' sfortunata, con cui l'autrice ti porta ad empatizzare, mentre Merricat parte già con una certa quota di inquietudine. Bizzarra e infantile, ma sempre inquietante.
Si avverte subito la stranezza di Merricat, la sua fantasia di veder morire le persone che non le vanno a genio, il seppellire gli oggetti, l'immaginare dialoghi fittizi con i genitori morti.
C'è anche molta tenerezza in questa figura di diabolica bambina nei suoi propositi di gentilezza nei confronti dello zio Julian, nelle conversazioni con il gatto Jonas, negli scambi con la sorella Costance.
Non so. Forse ho visto Merricat come l'ennesima bambina diabolica, mentre Eleanor era l'orrore che potrebbe celarsi in ognuno, fatto di bugie, risentimenti e rancori, spesso senza ragione, che alla fine sconfinavano in una follia e che metteva decisamente in secondo piano l'orrore "vero" cioè quello di Hill House.

Nonostante ciò, Jackson rimane autrice davvero di razza, maestra di tensione e di "normalità" dell'orrore.

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Vuole conoscere la "maestra" di Stephen King.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    11 Luglio, 2015
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God Save the...Reader!

"La Sovrana Lettrice" racconta quello che potrebbe succedere se Her Majesty Elisabeth II diventasse improvvisamente una lettrice accanita.
Elisabeth inizia per caso e con un po' di fatica; descrive la sua evoluzione da lettrice facilmente stancabile a infaticabile divoratrice persino di "mattoni".
Di pari passo con la sua crescita di lettrice – e secondo me qui sta la genialità e la levità del tocco di Bennett – la Regina "cresce" anche nella consapevolezza di sé e del suo ruolo.
E comincia a diventarmi quasi subito molto simpatica quando domanda:

"Sono l'unica a voler dare una bella lavata di capo a Henry James?"
(No Maestà).
"Un giorno, all'ora del tè, stava leggendo Henry James quando sbottò: «E muoviti!»

Poi esprime un incontrovertibile pilastro del mio essere lettrice: "Presto la Regina decise che probabilmente era meglio incontrare gli autori dentro le pagine dei romanzi, creature dell'immaginazione del lettore come i personaggi."
Nel proseguire della narrazione, la Regina, riflette anche sul suo ruolo e su quanto le è stato insegnato/imposto ed amaramente osserva che: "aver passato la vita ad essere irreprensibile non ci sembra un gran vanto."
Infine si è fatta voler bene con questa lucida, seppur sempre misurata ed ironica analisi: "Ho teso la mano guantata di bianco a mani grondanti di sangue e conversato amabilmente con uomini che avevano trucidato dei bambini. Mi sono fatta strada fra escrementi e sangue rappreso, e spesso ho pensato che l'equipaggiamento essenziale per una regina è un paio di stivaloni di gomma.
Su richiesta dei miei vari governi sono stata costretta ad acconsentire, seppur passivamente, a decisioni a mio parere avventate e spesso ignobili. A volte mi sono sentita come una candela mangiafumo mandata qua e là a profumare delle dittature: al giorno d'oggi la monarchia è solo un deodorante governativo.
Io sono la Regina d'Inghilterra, ma negli ultimi cinquant'anni me ne sono vergognata spesso."
E si conclude con un piccolo – per quanto prevedibile – colpo di scena.
Che non rivelo, che altrimenti devo mettere lo spoiler alert.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    10 Luglio, 2015
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Ciò che è inaccettabile non fa parte della realtà?

La Perfezione del Male – David Morrell, 2013

«" Incappiamo in una violenza di questa portata e abbiamo la tentazione di reagire affermando che solo un folle può aver commesso simili crimini. Qualcuno d’irrazionale, d’incontrollato, in preda a istinti selvaggi. Ciò che vediamo, tuttavia, smentisce questa ipotesi."
(…)
"Mi rifiuto di seguire il suo ragionamento. È inaccettabile."
"Appunto. Per definizione, ciò che è inaccettabile non fa parte della realtà. Ispettore, le vostre ipotesi su ciò che è possibile v’impediscono d’interpretare correttamente la realtà sotto i vostri occhi" continuò lo scrittore.»

Londra, 1811
A distanza di pochi giorni, due efferati delitti.
Prima una famiglia (padre, madre, bambine, neonato e domestica), poi tutti i presenti in una taverna (oste, cameriere, clienti, un poliziotto). Tutti assassinati, sgozzati.
Viene arrestato un sospetto, John Williams, che si suiciderà in carcere.
I delitti, anni ed anni prima di "Jack the Ripper" (1888), scuotono profondamente la l'Inghilterra anche perché, grazie alle migliorate comunicazioni, in neppure due giorni (!) tutto il paese è a conoscenza dei fatti.
L'impatto sulla società è così forte che genera violente quanto irrazionali cacce all'uomo ("è un marinaio… no è un irlandese… no è un marinaio irlandese… prendetelo ho visto la maglia a righe… uccidetelo, ha i capelli rossi"… non sembrano neppure passati più di duecento anni, vero?).
Ma l'orrore ispira anche altro.
Ad esempio – anche – un controverso "L'assassinio come una delle belle arti" dello scrittore Thomas De Quincey, pubblicato nel 1827.
De Quincey profondamente colpito dalla cura e dalla razionalità dell'organizzazione dell'assassino che ha ucciso una ventina di persone, in una città affollata, senza che nessuna riuscisse a dare l'allarme (anzi, nel secondo caso, assassinando anche un poliziotto di ronda, sulle sue tracce) e senza lasciare nessun indizio utile, analizza il crimine, descrive gli scenari, fa ipotesi, elogia una grande e logica mente.

Londra, 1854
A distanza di pochi giorni, due efferati delitti.
Prima una famiglia (padre, madre, bambine, neonato e domestica), poi tutti i presenti in una taverna…
Non ho sbagliato a scrivere. Vengono rinnovati gli stessi delitti del 1811. Ricreati. Alla perfezione, nei dettagli. E proprio in quei giorni, Thomas De Quincey si trova di nuovo a Londra.
Ormai quasi settantenne, dipendente dall'oppio ed autore di un altro controverso scritto ("Confessioni di un oppiomane"), insieme alla figlia Emily cerca fondi per vendere i suoi libri e tirare avanti; forse per riannodare qualche nodo del passato.
Facilmente viene sospettato di essere l'autore dei nuovi delitti.

L'indagine viene – in parte – condotta dall'Ispettore Ryan (che, essendo irlandese ed avendo i capelli rossi, ha il suo daffare a non essere linciato dalla folla) che cerca un approccio scientifico al crimine (prende calchi in gesso delle impronte, fra l'ilarità generale) e dall'agente Becker che rischia la vita per proteggere le "prove" del suo capo.
Lo so quello che sembra, ma, come Jack the Ripper, anche Sherlock Holmes è ancora da venire.
Entrambi si convincono assai presto dell'estraneità di De Quincey dagli omicidi, ma ne comprendono l'enorme utilità nell'ambito investigativo. Aiutati anche da Emily, i due cercano di risolvere il caso e di mantenere in vita Thomas, cosa non facile, perché l’assassino non solo vuole “incastrarlo”, ma anche ucciderlo.

Non spoilero, ma mi limito a dire che l'intreccio giallo è ben congegnato e che i personaggi sono molto credibili. Spesso – purtroppo – quando si creano ambiziose ricostruzioni storiche (e, per inciso, questa di Morrell dell'Inghilterra vittoriana è una delle migliori che abbia mai letto) si sacrificano trama e personaggi. Non è questo il caso.
Ryan non è il nonno di Holmes, Becker non è Watson e Emily non è una suffragista ante litteram, anche se in alcuni punti costringe gli altri a riflettere sulla condizione femminile, De Quincey non è Coleridge (è De Quincey, come si vedrà).

Londra, buia, nebbiosa e fuligginosa, con i maiali che si aggirano nei cortili (e che rischiano di calpestare le preziose impronte di Ryan e pure di far fuori il povero Becker) non è un pretesto per dare sfoggio di erudizione e i personaggi non sono "veicolo" di messaggi. Tutto concorre al fine di realizzare una "storia" che funziona. E funziona proprio bene.

PS Thomas de Quincey e i suoi scritti sono reali.
Genio di un Morrell!
(Da leggere anche la Postfazione!)

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Sherlock Holmes & Rambo
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    09 Luglio, 2015
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Se capite cosa voglio dire... e compagnia bella!

The Catcher in the Rye (Il Giovane Holden) – Jerome David Salinger, 1951

«Non pareva proprio che stesse per arrivare Natale. Pareva che non stesse per arrivare niente.»

Titolo.
Il “catcher” (ricevitore) è “il giocatore che nel suo turno difensivo occupa la sua posizione direttamente dietro casa base, dove riceve i lanci del lanciatore.”
(https://it.wikipedia.org/wiki/Ricevitore_%28baseball%29).
Rye è la segale.
“Il ricevitore nella segale” (che io, umilmente, facendo un parallelo fra baseball e calcio, tradurrei con “Il portiere nella segale”), è il verso – sbagliato – di una poesia di Robert Burns.
Ed è quello che il nostro protagonista, Holden Caulfield, vuole essere da grande.

Holden Caulfield, sedici anni, è stato espulso da scuola, per i suoi pessimi voti (sufficiente solo in inglese). Stanno per cominciare le vacanze di natale, ma lui decide di tornare a casa, a New York, prima.
E non ha nessuna voglia di affrontare i suoi genitori.
Ha qualche soldo in tasca (la sua famiglia è molto benestante) e vagabonda per la città; gli succedono una piccola serie di cose pazzesche. Decide confusamente di andarsene lontano, ma prima di farlo, vuole salutare la “vecchia Phoebe”, la sua saggia sorellina di dieci anni. Quindi, nottetempo, si intrufola in casa sua e va a svegliare la sorella.
Lei lo rampogna a dovere (“papà ti ammazza”) e poi spara una stoccata niente male:
«“Dimmi che cosa ti piacerebbe essere. Come uno scienziato. O un avvocato o qualche cosa.”»
Holden cincischia… scienziato no, avvocato no…

«“Stavo pensando a un’altra cosa - una cosa pazzesca. - Sai cosa mi piacerebbe fare? - dissi. - Sai cosa mi piacerebbe fare? Se potessi fare quell’accidente che mi gira, voglio dire.
- Cosa? Smettila di bestemmiare.
- Sai quella canzone che fa “Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno”? Io vorrei...
- Dice “Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno”, - disse la vecchia Phoebe. - È una poesia. Di Robert Burns.
- Lo so che è una poesia di Robert Burns.
Però aveva ragione lei. Dice proprio “ Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno”. Ma allora non lo sapevo.
- Credevo che dicesse “E ti prende al volo qualcuno”,- dissi. - Ad ogni modo, mi immagino sempre tutti questi ragazzini che fanno una partita in quell’immenso campo di segale eccetera eccetera. Migliaia di ragazzini, e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere dal dirupo, voglio dire, se corrono senza guardare dove vanno, io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli. Non dovrei fare altro tutto il giorno. Sarei soltanto l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia.
La vecchia Phoebe non disse niente per molto tempo. Poi, quando finalmente si decise a dire qualcosa, tutto quello che disse fu:
- Papà ti ammazza.” »

Cosa vuoi fare da grande?
Il portiere nella segale.
Il verso sbagliato di una poesia.

Come dire.
-Cosa vuoi fare da grande?
-La vecchia che agli irti colli piovigginando sale.
-Guarda che veramente era la nebbia!
-Ops.

E questo era solo il titolo.
(Poi ci sarebbe la questione che “rye” può essere tradotto anche come “whiskey” "e compagnia bella", ma vabbe’).

Holden Caulfield è stata un’altra scoperta alla soglia dei quarant’anni (finalmente fra poco potrò dire “a quarant’anni suonati”) ed è finito direttamente nel ristrettissimo novero dei miei “libri-salvavita”, quelli di cui si va a leggere qualche pagina di tanto in tanto. Non sono “i libri più belli”, assolutamente no, ma sono quelli che – per qualche motivo – ti rimettono “in bolla”.
Libri-bussola.
O libri-bolla, appunto (bello che qualche volta ci siano new entry)
Visto che è ormai passato un mese dalla lettura, ho avuto modo di interrogarmi sul “perché” di questa new entry. La storia, come accennavo è piuttosto semplice.
Le disavventure di questo sedicenne. Non particolarmente epiche, né curiose.
Così come i personaggi. Holden è un sedicenne tenero, goffo e sbruffoncello che si fa volere un sacco di bene e a cui ogni tanto si allungherebbe volentieri una scapaccione, ma niente di più.
Ma per prima cosa c’è la scrittura di Salinger.
Così piena di ridondanze e di modi colloquiali. Colloquiali non nel senso di “sciatti”, ma proprio nel senso di “da colloquio”. Quella con Holden sembra una lunga chiacchierata che lui fa proprio con te. Non c’è nessuna apostrofe al lettore, solo qualche piccola “strizzata d’occhi”:
«Dio, peccato che non c’eravate anche voi.»
(Dici, Holden?).

Ma non solo.
Nella narrazione di Holden io leggo una disperata e (non solo) adolescenziale volontà di “mettere dei punti”, tracciare linee stabili, trovare riferimenti e verità. È palese che il nostro ne sia poco provvisto e li cerchi. Li declami, li strilli pure, qualche volta.
Forte per non far sentire che, insomma, non è che sia proprio così sicuro.

Salinger aveva trentadue anni quando il libro fu pubblicato. Non ha dipinto, secondo me, un giovane disadattato (come ho letto in qualche esegesi), ha raccontato qualcuno in un momento di indecisione, pena, cupezza.
Frustrazione, noia, ansia.
Un non-momento e una non-appartenenza.
Che è tipico dell’adolescenza.
Anche.
Per questo il libro (mi) rimette in bolla.

«Lo so che è morto! Credi che non lo sappia? Ma mi può ancora piacere, no? Non è mica che uno non ti piace più solo perché è morto, Dio santo, specie se è mille volte meglio della gente viva che conosci e compagnia bella.»

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    09 Luglio, 2015
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Il futuro è un premio di consolazione

Mysterious Skin – Scott Heim, 1995 (pubblicato in Italia nel 2006).

SPOILER (lieve, ma presente).

«"Se fossi stato un vero rockettaro nichilista - se avessi creduto davvero nei vestiti neri e nei capelli tinti, nella passione per i teschi, le croci e i cimiteri in rovina, o nella malinconia e nel pessimismo dei testi della canzoni dei miei gruppi preferiti - questo sarebbe stato il momento giusto per impiccarmi. I miei genitori erano tre metri sotto terra. Neil, in un certo senso, era insieme a loro. Presi il mio diario, scarabocchiai una figurina che pendeva da un cappio e meditai dieci minuti sulla metafora più adatta per descrivere cosa mi riservava il futuro.
Alla fine decisi per "Il mio futuro è un premio di consolazione."»

Non avevo mai sentito parlare di questo libro, né di questo autore fino a poco tempo fa. Galeotto, come spesso accade, fu un gruppo di lettura, una recensione ispirata e via.

Ambientato in Kansas, nella piccola cittadina di Hutchinson – luogo natio dell'autore - nel granaio d'America, in un paesaggio piatto ed uniforme.
Come trovo assolutamente disturbante la pianura, allo stesso modo ho trovato disturbante questo libro. Disturbante come certi graffiti sui muri. Come certo slang giovanile. Come certe manifestazioni di abbigliamento, acconciature, fede calcistica o alimentare. Disturbante come molte cose che si conoscono, ma si preferirebbe di no, come ci insegna Bartleby.
Durante la lettura, il libro – e le vicende dei protagonisti – ti appassionano, ma contemporaneamente vorresti metterlo giù, dimenticarlo sul treno e non saperne più niente.
Poi lo finisci, lo lasci decantare per qualche giorno e, alla fine, sei solo contenta di averlo letto.

La trama si articola in tre macro parti, definite mediante un colore e un preciso momento cronologico; i capitoli hanno il nome delle diverse voci narranti e le voci narranti sono quelle dei protagonisti e dei co-protagonisti della vicenda.
Apriamo con il piccolo Brian Lackley, di otto anni, che si ritrova rintanato nella cantina di casa durante un furibondo temporale.
E con cinque ore della sua vita che mancano all'appello.
Cinque ore di cui non ricorda nulla.
Era in panchina, durante la partita di baseball della sua squadra, e si ritrova dolorante, accucciato nella cantina di casa. Si accorge di aver perso del sangue dal naso. Chiama la sorella maggiore e chiede della madre, che non è ancora tornata dal lavoro. C'è il padre, ma Brian non lo vuole ed attende la mamma. La sorella Deborah finisce il suo solitario con le carte.
Al suo ritorno la mamma fa il bagno a Brian e cerca di farsi raccontare cosa sia successo.
Se si sia fatto male durante la partita.
"Forse."
Se la mamma di qualche compagno di squadra lo abbia accompagnato a casa.
"Credo di sì."

Il capitolo successivo si intitola "Neil McCormick".
Ed è Neil a raccontare.
Neil ha l'età di Brian, e gioca nella sua stessa squadra. Ma diversamente da Brian, Neil gioca, non sta in panchina; diversamente da Brian, Neil a baseball è un piccolo campione. Diversamente da Brian, Neil non è vittima dei bulli, ma anzi, sa come farsi rispettare
Neil non ha un papà, ma una mamma un tantino sopra le righe.
E inoltre Neil è innamorato.
Dell'allenatore della squadra di baseball. E anche l'allenatore lo ama.
Così racconta Neil.

E poi c'è Wendy, che diventa amica di Neil e vorrebbe solo andare via da Hutchinson e da tutto quello che conosce e che le è familiare: " Era il settembre del 1983; a dodici anni avevo fatto mio quell'atteggiamento antisociale, del quale non mi sarei mai più liberata. Ciò che piaceva ai miei compagni di Hutchinson, mi sembrava totalmente idiota: braccialetti di gomma fluorescenti, soprannomi stampati sul retro delle T-shirt, o lecca lecca illegali di tequila con dentro un vero verme morto cristallizzato."
Ed infine c'è Erick. Che vive con i nonni perché i genitori sono morti in un incidente stradale. Che ha i capelli tinti, l'eye liner ed è un rockettaro nichilista. Ed è innamorato di Neil. Lui sì, davvero.

Ma per un'importante parte della sua vita, Neil sarà davvero convinto dell'amore dell'allenatore.
Brian, invece, penserà di essere stato rapito dagli alieni, per spiegare le sue cinque ore di black-out.
Neil comincerà a vivere una vita sessuale disordinata, prostituendosi ed Erick, Wendy e sua madre cercheranno di stargli dietro come possono.
Infine, nella maniera più improbabile, Brian scoprirà di non essere stato rapito dagli alieni e sarà proprio Neil ad aiutarlo. Analogamente Brian aiuterà Neil.

Non voglio spoilerare troppo, perché lo scioglimento della trama è molto bello (come il resto del libro) ed è meglio leggerlo. Inoltre "il finale" non aggiunge molto alle riflessioni che si possono fare sulla storia.

La parte "disturbante" e quella più terribile del libro è proprio quella in cui viene descritto come il piccolo Neil vive il rapporto con il l'allenatore. Restituisce esattamente quello che deve provare un bambino così biecamente e subdolamente ingannato da una figura per cui prova ammirazione ed affetto. Lavoro da tanti anni con i bambini e quello che ti colpisce sempre, con loro, è l'essere "nuovi". Tu li vedi senza capelli in un corridoio d'ospedale che cercano di andare in triciclo attaccati alla flebo. Le prime volte maledici dio perché è innaturale che un bambino debba soffrire (e morire) così. Poi a dio smetti di crederci, però continua a sembrare innaturale.
Però è innaturale per te che sei adulto e ci ragioni sopra. In genere il bambino pensa al suo triciclo e a non far cadere la flebo per terra. Non è che non soffra e non pensi. Ma quella realtà conosce e a quella si adegua. In questo senso è "nuovo".
E in questo, secondo me, c'è la straordinaria "forza" dei bambini.
Vivono la realtà in cui sono, e magari sbirciano un adulto di riferimento, per capire quello che succede, quando sono in difficoltà.
È da questo punto di vista che il racconto di Neil è così lacerante.
Perché l'allenatore gli dice che è il suo bambino preferito, che hanno un segreto, che vuole bene solo a lui etc.
E Neil ci crede.
Quella banconota che gli mette in mano quando ha finito di usarlo, è una sorta di pegno, del segreto fra di loro.
Questo gli dice l'allenatore, Neil è "nuovo" e quindi ci crede. E forse inconsciamente comincia a non avere considerazione ed amore per sé esattamente come non ne aveva avuto l'adulto di riferimento. Sarà un altro trauma brutale a permettere a Neil di vedere chiaramente quello che era successo nei pomeriggi prima delle partite della sua infanzia. E ad aprire – forse – ad uno spiraglio di speranza, di amicizia, di relazioni "sane".

Il tema è indubbiamente forte, ma io mi sento di consigliarlo.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    08 Luglio, 2015
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Un Bartleby dark e un po' Straniero

(Spoiler lieve).

Letto di slancio subito dopo aver finito "L'urlo e il Furore", devo dire che questo Faulkner mi ha convinto molto meno.
Ecco l'ho detto.
Via il dente, via il dolore.
Dopo le 200 pagine dell'Urlo non ero pronta ad abbandonare Faulkner e così mi sono impadronita di questo corposo tomo e, rassicurata anche da Vittorini ai dizionari, ho cominciato la lettura fiduciosa. (Va da sé che poi abbia letto che la traduzione di Vittorini sia addirittura accusabile di "scempio". Non mi addentro nel merito della questione perché non ne ho le competenze. Osservo solo che rispetto all'Urlo qui si vede sia uno scrittore che sta traducendo).
L'inizio è piuttosto particolare con questo strano e bizzarro personaggio di Lena Grove, giovinotta con avanzata gravidanza che muove – a piedi – dall'Alabama (siamo in Mississippi) alla ricerca del padre del suo bambino che è andato a cercare fortuna per poi mandarla a chiamare appena sistemato. Ma la "chiamata" ritarda e la nostra Lena decide di mettersi in moto in autonomia.
Ovviamente noi lettori e tutti i personaggi che incontra sappiamo perfettamente che il nostro si sia dato alla macchia, ma Lena no.
La nostra è circonfusa da una sorta di alone mistico o magico di serenità. Scivola sopra le brutture e gli sguardi cattivi della società (è sola, incinta e alla seconda occhiata tutti si accorgono che non sia sposata) e trova sempre qualcuno di buon cuore e generoso che le dia una mano. E sarà così fino alla fine.
(Insopportabile).
Poi, con un complesso gioco di anticipazioni, flashback esplicativi, la vicenda si dipana.
E a lungo ci dimentichiamo di Lena Grove, a vantaggio del protagonista della storia, che è Joe Christmas.
Piccolo orfano, dalla pelle bianca, ma – forse – dal sangue nero. Ripercorriamo la sua vita fin dalla più tenera infanzia in orfanotrofio, la fuga, l'agghiacciante adozione, la nuova fuga, fino al momento in cui lo ritroviamo adulto.
Joe Christmas ricorda, per certi aspetti, il Bartleby di Melville, un personaggio piccolo e oscuro, pacato e solitario, desideroso di nient'altro che della sua pace e delle sue abitudini, ma con una nota feroce ed irresoluta al fondo, che lo porta a commettere qualche brutale delitto.
La nota "irresoluta" di Christmas è il suo mancato senso di appartenenza, che lo costringe a nascondersi, ma anche a rivelarsi (è sempre lui che racconta la "vergogna" della sua origine) e che gli impedisce di accettare la generosità altrui, le poche volte che la incontra (la madre adottiva).
Il sangue nero – che gli hanno insegnato a temere e disprezzare – lo rende indegno di essere accettato. E quando apparentemente ciò accade, in realtà è solo in funzione proprio di questo sangue (l' "amore" esaltato e quasi feroce e fanatico di Joanna).

Quello che ho amato particolarmente, nella narrazione portata avanti da questo personaggio, è l'ineludibilità di quanto accade e gli accade. Christmas racconta le sue azioni e gli eventi come se fossero pre-destinate e come se lui non fosse altro che un occasionale spettatore. Non sappiamo mai che cosa prova, eppure apprendiamo quello che gli accade e ciò che fa dalla sua narrazione.
A volte dalle sue spesse parole.
Ho trovato estremamente "bella" questa parte e solo questa vale l'intera lettura del libro.

Ho invece faticato molto su altri passaggi.
Su tutti quelli relativi a Gail Hightower. Personaggio che entra in scena in quanto confidente dell'uomo che darà ricovero ed assistenza a Lena Grove; con il consueto sistema di anticipazioni e salti indietro apprendiamo di questo personaggio a partire dal nonno paterno ed è proprio lui, in un certo senso a "chiudere" la vicenda di Christmas.
Questa parte che avrebbe potuto essere grandiosa (solo pensando alle figure dei nonni del protagonista, ed in particolare, della nonna e del suo racconto), secondo me, non è sorretta dallo stesso stato di grazia che caratterizza la narrazione di (e su) Christmas. Pur mantenendo la coesione e l'interesse del lettore mi pare decisamente meno felice.
Poco appassionante (almeno secondo me) anche la storia di Joanna Burden.

Forse, sono mancati proprio – almeno secondo me – i personaggi femminili, in questa storia (del resto anche nell'Urlo era stato un po' così) con la mirabile eccezione della nonna di Christmas.
O forse, dopo l'Urlo avrei semplicemente dovuto lasciar passare un po' di tempo prima di tornare su questo autore.
Anyway, una piccola delusione da considerarsi tale solo dopo la grande esaltazione dell'Urlo e il Furore.
Adesso faccio la brava e lascio passare un po' di tempo.
Con Faulkner ci si rivede con Assalonne Assalonne e Mentre Morivo.
Ad Maiora, Will.

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Bartleby lo Scrivano (Melville)
Lo Straniero (Camus).
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    08 Luglio, 2015
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Un male tenero e goffo.

Partiamo con un professore che – dietro alla rispettabile carriera accademica – studia i fenomeni occulti e decide di studiare una misteriosa casa. Per farlo recluta una squadra di persone che hanno avuto in qualche modo a che fare con qualche fenomeno "inspiegabile".
Sbadigli in agguato?
L'ho pensato anch'io, in genere l'horror mi annoia.
Adesso se ne vanno nella casa costruita sull'antico cimitero, poi avranno la geniale idea di separarsi, nessuno accenderà la luce manco a morire etc etc.
Poi arrivano direttamente gli infelici di Supernatural...
Invece no.
La Jackson è scrittrice di razza.
Comincia a descriverti i membri del team. Anzi, ne descrive solo uno.
Eleanor.
Eleanor è tenera, goffa e un po' svampita.
Io sarà che ho lo svampy Alert, che le svampite non le sopporto, quindi ero già sul chi va là. Però viene descritta come quella tanto buona, un po' debole, che cura la madre malata, che subisce un po' la sorella e il cognato.
L'autrice vuole farti empatizzare con lei e ci riesce.
All'inizio, fa anche una cosa buffa, non avendo ottenuto il permesso per prendere l'auto (in comproprietà con la sorella) la "ruba" ed è molto divertita dal suo atto. Per la strada fantastica – in modo un po' morboso, secondo me – sui particolari che coglie, della strada, degli alberi, delle case. Si immagina di essere la proprietaria di una villa che le piace. Immagina la sua vita lì, cosa mangerà e dove, come saranno i suoi domestici, come la piangeranno i vicini dopo che sarà morta.
- tuoni in lontanza.
Come per caso ci viene detto che odiava la madre e odia la sorella.
C'è poi un episodio.
Piccolo, banale, insignificante (?).
Eleanor fa colazione, in un bar, accanto ad una famiglia. Una delle bambine rifiuta di bere il latte perché non ha la sua tazza preferita con le stelle. Poco dopo Eleanor racconterà a Theodora – altro membro del team - della "sua" tazza con le stelle, "rubando" la storia alla bambina.
Niente di male, certo, però...
- tuoni un po' più vicini.
Eleanor cerca di essere buona, amichevole e sorridente. Mostra di affezionarsi subito a Theo(dora), al Professore, a Luke.
Però le incrinature cominciano presto.
Mezze frasi lasciate lì.
«"Buongiorno, ti riempio la vasca." Dice allegramente Theo la mattina dopo l'arrivo.
"Pensa forse che non mi farei il bagno, se non mi riempisse lei la vasca?" Si chiese Eleanor, e poi si vergognò; sono venuta qui per smettere di pensare cose come questa.»
È niente, d'accordo, ma è una fiammata di cattiveria gratuita e di "retro-pensiero" senza nessun motivo.
- Comincia a piovere
Ma non basta. Nella scena in cui "qualcuno" devasta con la vernice rossa la stanza di Theo, Eleanor chiama il Professore e Luke e spiega quello che è successo e commenta così, fra sé: "Bene, non avrei potuto metterla in modo più neutro di così, pensò, girandosi per seguirli. O avrei potuto metterla in modo più neutro? Si chiese, e si accorse che stava sorridendo."
Il crescendo è abbastanza rossiniano - ormai piove in modo violento - solo poche pagine dopo, mentre consola Theo, ancora scioccata, Eleanor ci confida i suoi pensieri:
"Vorrei prenderla a bastonate, pensò Eleanor abbassando gli occhi sulla testa di Theodora accanto alla sua poltrona; vorrei prenderla a sassate (…) La odio, pensò Eleanor, mi fa vomitare; guardala lì tutta pulitina, con addosso il mio maglione rosso (…) Vorrei guardarla morire, pensò Eleanor e ricambiò il suo sorriso dicendo "Non essere sciocca".

Vabbe', ce l'ha con Theodora.
Sarà più giovane e più bella, più emancipata, più ricca… ha una bella casa e magari le piace pure un po' (accenno lesbo, a un certo punto? Forse), veniamo al "duetto d'amore" con Luke.
Duetto talmente sbilanciato che in alcuni punti fa ridere tout court, come quando a lei "venne voglia, in tutta onestà, di dargli una sberla."
Però poi viene fuori l'anima rapace e parassita di Eleanor:
«Io voglio solo qualcuno che mi adori, pensò, e invece sono qua a dire cretinate a un egoista. "Devi essere davvero molto solo."»
Naturalmente nessuno sarà in grado di adorarla come vuole e come merita.
Solo la casa le dà soddisfazione. I momenti in cui Eleanor entra in risonanza con la casa si moltiplicano.
- grandine
La Jackson lo descrive mirabilmente e quasi con noncuranza. Eleanor è in giardino e "avverte" la cenere che "silenziosamente" cade nel camino. Sente sospiri e fruscii che gli altri non avvertono.
E ne è fiera. "Nessuno di loro l'ha sentito, pensò colma di gioia; nessuno l'ha sentito tranne me."
Si sente speciale, sa di esserlo, vuole essere adorata, perché si comporta bene, si è sacrificata e vuole che le venga riconosciuto.
Quando provano a "salvarla" mandandola via (e, sia detto, un po' ingenuotti, 'sti personaggi) dall'unico posto che la fa sentire davvero "speciale" e vincente, Eleanor fa l'unica cosa che può fare. Da sola.
Decide di rimanere.

Cosa c'è di assolutamente sconvolgente in questo romanzo?
C?è che il Male, quello con la lettera maiuscola, quella di Hill House, qualunque esso sia, in fondo sta tranquillo sullo sfondo, osserva e se la gode. Invece il male, quello della Harendt, banale, quotidiano e meschino è dentro.
Non fuori.
Dentro.
Ognuno.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    04 Luglio, 2015
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Ammiccante (e pure furbetto).

Leggere Lolita a Teheran – Azar Nafisi

E devo cominciare dicendo che son partita prevenuta (il libro è stato scelto per una lettura di gruppo. Io ne avevo votato un altro, per la cronaca)
Premessa.
Come sempre le mie "critiche" sono rivolte al libro. In nessun modo all'autore, alla sua moralità e - tanto meno - ai suoi lettori.
Questi romanzi che ti vogliono raccontare quanto è difficile la situazione in una determinata situazione storico-socio-politica mi mettono subito in allarme. Era stato così con Il Cacciatore di Aquiloni di Hosseini.
Vivere una situazione drammatica esige rispetto, attenzione e comprensione.
Sì.
Ma non è che ti fa diventare un narratore.
Non è che ti rende un romanziere.
Già qui il titolo mi aveva messo (ulteriormente) sul chi va là.
Leggere Lolita a Teheran.
Nel romanzo scopriamo che vengono letti diversi testi "occidentali".
Ma, come per caso, il titolo non è "Leggere Gatsby a Teheran" e neppure "Leggere Henry James a
Teheran". La scelta è casualmente caduta su Lolita, secondo me, per solleticare l'ego un po' malato e voyeur del lettore occidentale che così può fantasticare sulle conturbanti cose che succedono sotto i veli nel mentre che si legge Lolita (a Teheran).
Vabbe'.
La lettura mi è stata estremamente ostica. La prima parte (Lolita) noiosa. Le altre irritanti.
La voce narrante, una docente di Letteratura Straniera all'università di Teheran, ci narra – spaciugando poco amabilmente con i tempi – la vita in Iran dopo la rivoluzione islamica, ma anche prima e non in Iran, e durante e anche…
Nella prima parte facciamo la conoscenza di alcune "comprimarie" – le studentesse dell'autrice che continuano a leggere e a discutere di libri "proibiti" in segreto, a casa della loro Professoressa. In questa parte vengono accennati alcuni personaggi, poi facciamo rapide incursioni nel passato studentesco (negli Stati Uniti) della protagonista.
Noiosissima la parte americana, appena meglio quella ambientata nel salotto. Nomi appiccicati lì, qualche immagine ad effetto, storie adombrate.
Seconda parte.
Stacco.
Siamo "durante" la rivoluzione e questo dovrebbe essere il pretesto per narrarci quello che succede.
Invece no.
Abbiamo la trascrizione delle lezioni su Gatsby.
Non solo noiose. Irritanti proprio. Perché ogni tanto ti lascia capire che sta succedendo molto altro. Ma noi discutiamo di Gatsby.
E l'idea sarebbe anche buona. Descrivo un cambiamento politico attraverso la percezione della letteratura. Di certa letteratura.
Ma DEVI essere capace di farlo e/o volerlo fare.
E non è questo il caso.
Qui abbiamo pagine di sbobinature di lezioni (e solo a chi è toccato farle mi può capire) e pagine, se possibile, peggiori in cui la protagonista ci tedia con le sue menate.
Tipo: "Vorrei tornare ad insegnare, ma per farlo dovrei mettermi il velo. E avevo detto che non lo avrei mai fatto. Che penserà la gente? Diranno che sono una banderuola? Che sono un'opportunista egoista? O capiranno che io mi annoio e che poco è meglio che niente? Vado a parlarne con un amico…"
"Amico Mio? Mi assolvi? Posso considerarmi brava anche se mi metto il velo?"
Nel frattempo l'Iran è in guerra con l'Iraq (una guerra che durerà a lungo).
Ci sono i bombardamenti. Ci sono oppositori in galera. Tortutati, uccisi. Ma noi stiamo a pensare al velo della protagonista.
E attenzione.
So che a molti sta venendo in mente Italo Svevo con la sua colazione mentre scoppia la guerra.
No.
La Nafisi è lontana anni luce da Italo Svevo. Lontana da qualunque cosa scritta bene. Con questo materiale poteva tirar fuori un documentario guardabile/leggibile, non di più.
Ci trasciniamo stancamente, fino alla parte su Henry James. Dove, finalmente, ho sottolineato qualche frase e addirittura qualche brano.
Sono i punti in cui vengono riportate parti delle lettere di Henry James.
E ciò è molto sintomatico.
Henry James, che è il distacco fatto uomo, sulle atrocità della guerra tira fuori la rabbia, e dalle sue lettere escono storie, sentimenti, suggestioni, in poche righe.
Noi invece, a Teheran, apprendiamo, en passant, che qualche studentessa è morta e di atrocità varie, ma così, per dovere di cronaca.
Ci tengo molto a dire che non sto dando un giudizio morale sull'autrice, dicendo che non le importi di quello che succede nel paese e ai suoi studenti. Per prima cosa non penso che sia così e secondariamente non mi interesserebbe.
È una critica esclusivamente narrativa.
Io in questa narrazione vedo un "scrivi un po' come ti viene, tanto con la storia straziante delle donne con il velo e Lolita, il libro si vende."
E infatti si è venduto. Credo anche che sia uno di quei libri di cui si deve parlar bene, perché sono una "testimonianza".
Però, secondo me, per testimoniare si va a un processo, per mandare un messaggio si fa un telegramma e per documentare si fa un documentario. Se fai un romanzo io VOGLIO un romanzo.
E questo guazzabuglio furbetto, secondo me, non lo è.


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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    04 Luglio, 2015
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Cala, cala, Fabio!

JEAN-CLAUDE IZZO - CASINO TOTALE 1995

SPOILER (lieve)

Fabio Montale, disincantato poliziotto con un passato da piccolo criminale, è alle prese con una delicata indagine sulla morte dei suoi migliori amici (ed ex complici) Manu e Ugo e di una ragazza, Leila, figlia di un immigrato arabo di cui è diventato amico. I due delitti alla fine appaiono in qualche modo collegati fra loro e alla guerra "mafiosa" in atto a Marsiglia.
L'indagine "gialla" scorre, e, anche se sul finale si ingarbuglia e si sfilaccia un po', giunge comunque dignitosamente fino all'epilogo.
Il vero protagonista, con un'indagine come pretesto, è Fabio Montale.
Superata la quarantina, senza compagna, il nostro vive malinconicamente e ogni tanto dà l'impressione di sbirciarsi nelle vetrine per vedere quanto è figo, con quell'aria malinconica.
Di poche parole, tormentato, solitario, ma con un certo successo con le donne, poco considerato sul posto di lavoro, ma capace di intuizioni notevoli, isolato e scontroso, ma con amici, colleghi e vicini di casa alla fine pronti e solleciti. Amante del mare, delle escursioni in barca in solitaria, dei libri, della musica e del vino.
Manca qualcosa?
No, e infatti – secondo me – il personaggio a tratti appare un po' troppo "caricato", leggendo si ha quasi l'impressione di accorgersi in anticipo di quando arriverà la battuta ad effetto o la frase noir da sottolineare (che io – ovviamente – sottolineo, eh, che questo tipo di personaggio di sicuro mi piace). Niente di male, per carità. Ma a Marlowe/Chandler veniva meglio.

"Le misi un dito sulle labbra prima che potesse dire qualcosa. Un arrivederci. Un a presto. O qualsiasi altra cosa. Non mi piacevano le partenze. E neppure i ritorni. Desideravo solo che le cose succedessero, così come dovevano succedere."
Anacleto, se avesse potuto fare una comparsata, direttamente da "La spada nella roccia" avrebbe detto "Cala, cala, Fabio!"

Comunque, al di là di queste mie idiosincrasie (Fabio Montale non è l'unico detective che si sbircia nelle vetrine) la storia scorre piacevolmente e il protagonista, anche se un po' "caricato" si fa apprezzare.
Ma c'è un motivo per cui vale proprio la pena di leggere questo libro.
Ed è che il protagonista non è Fabio Montale, ma è Marsiglia.
E sarà perché è la città natale di Edmond Dantès, ma la amo particolarmente e mi piace come la fa vivere Izzo. Mettendone proprio in risalto i molti difetti e i pochi pregi.
Una città bellissima e malinconica e che – diversamente dal protagonista – non se la tira e non si compiace.
(Poi, leggendo la – purtroppo – breve biografia dell'autore ho saputo che ha sempre vissuto a Marsiglia, tranne un periodo in cui si è trasferito a Saint-Malo che è la mia città dell'anima.
Non posso ignorare siffatte coincidenze, dal momento che so che l'universo non è pigro).
Quindi certamente finirò la produzione di Izzo, e non solo quella su Fabio Montale.
Infine, una notarella scema, ma che mi è piaciuta parecchio: l'autore dà dei piccoli titoli riassuntivi a ciascun capitolo, ad esempio: "Capitolo Nono. Nel quale l'insicurezza toglie ogni sensualità alle donne."
Lo trovo delizioso.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    03 Luglio, 2015
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Bandini,protagonista di magnifiche uscite di scena

Chiedi alla Polvere (Ask the Dust) – John Fante, 1939

SPOILER

«Ho qualcosa da dirvi sul mio libro. Non sconvolgerà il mondo, non ammazzerà nessuno, non sparerà nemmeno un colpo, ma ve lo ricorderete finché avrete vita e anche quando esalerete l’ultimo respiro, sorriderete ripensandoci.»

Ero un po’ spaventata all’idea di affrontare questo romanzo, pietra miliare della letteratura, amatissimo.
Non temevo la delusione in agguato, perché avendo già assaggiato Bandini (Aspetta la Primavera, Bandini e La Strada per Los Angeles) sapevo che mai avrebbe potuto deludermi.
Quello che temevo era il plot che – confesso – avevo mio malgrado un po’ conosciuto (complice pure Alessandro Baricco a Pickwick nel 1993).
È molto difficile che mi appassioni alle “storie d’amore” e ancor di più che empatizzi con i personaggi femminili. Quel poco che sapevo di questi due elementi, in “Chiedi alla Polvere” mi disturbava già. La cattiva notizia è che la protagonista (?) femminile, Camilla Lopez, è anche più insopportabile di quello che si potrebbe pensare.
La buona è che non ce ne importa niente, che la fanciulla in questione è praticamente un pretesto e che il riflettore – come era prevedibile – è sempre saldamente su Arturo nostro.
Per fortuna.

Ask the Dust (geniale, a partire dal titolo), ci porta a Los Angeles, sempre alle costole di Arturo, che arranca nella sua vita, in una piccola stanza d’albergo, con vicini improbabili, sempre in lotta con la sua macchina da scrivere.
E vince lei.
«Giorni di magra, carichi di determinazione, perché proprio di questo si trattava, determinazione: Arturo Bandini, seduto davanti alla sua macchina da scrivere per due giorni consecutivi, deciso a farcela. Ma non funzionò. Fu l’attacco di testardaggine più lungo e violento di tutta la sua vita, ma non ne uscì neanche un rigo, solo due parole ripetute per tutta la pagina, su e giù, sempre le stesse: la palma, la palma, la palma, una lotta all’ultimo sangue tra me e la palma, e la palma vinse: eccola là che ondeggia nell’aria azzurrina, che scricchiola piano nell’aria azzurra. Vinse dopo due giorni di lotta e io scavalcai il davanzale e mi sedetti ai suoi piedi.»
Sempre volubile, spaccone e un po’ cazzaro, ma con momenti di grande tenerezza, il nostro titano ha pubblicato un raccontino che gli ha fruttato qualche soldino.
Che ovviamente sperpera.
Chiede soldi a casa (Svevo è nel frattempo “risorto”), arranca, pubblica un altro racconto, largheggia nelle spese e – ahilui – conosce Camilla, barista di origini messicane, che si diverte a fare un po’ di tira e molla con lui, pur essendo innamorata del collega Sammy, che – da copione – la tratta malissimo e non la sopporta (non si riesce a biasimarlo).
Camilla non mente ad Arturo, ma ne sfrutta costantemente la generosità [a partire dalla richiesta di leggere il manoscritto di Sammy – aspirante (pessimo) scrittore – a quella di accompagnarla da lui, a chiedergli soldi per comprarsi droga e via discorrendo] e lui la lascia fare, sia quando le regala gli ultimi soldi che ha guadagnato con il racconto, sia quando accetta di correggere il manoscritto di Sammy, sia quando cerca di salvarla da sé stessa.
Ma in realtà Arturo ama il suo amore e l’idea che di esso si è fatto (come Cyrano, mi vien da pensare), il suo amore che non Camilla e che non è Vera. È il suo amore, appunto.
«Per tutta la notte abbiamo bevuto e pianto, e da sbronzo sono riuscito a dirti quello che mi si agitava nel cuore, tutte le parole dolci e le similitudini ingegnose, tanto eri troppo intenta a soffrire per quell’altro per sentire quello che ti dicevo, ma lo sentivo io, e Arturo Bandini era particolarmente in forma quella sera, perché si rivolgeva al suo grande amore, al suo vero grande amore, che non eravate né tu né Vera Rivken. Era semplicemente il suo grande amore.»
In realtà il grande amore di Arturo era e rimane la scrittura. Questa passione che non lo molla, che sostanzia ogni momento della sua esistenza, anche quello più drammatico.
«Dovevo riuscire a tutti i costi a tenere la testa fuori dall’acqua, ma mi sentivo risucchiare sotto dalle onde che si ritraevano. E così questa era la fine, la fine di Camilla e di Arturo Bandini; eppure, anche in quel momento, era come se stessi scrivendo, come se stessi registrando tutto sulla carta. Davanti agli occhi avevo il foglio dattiloscritto, mentre fluttuavo, sbattuto dalle onde, senza riuscire a raggiungere la costa, sicuro che non ne sarei uscito vivo.»
…e non è una metafora. Sta affogando davvero!
In tutto questo, Arturo conosce Vera, una donna di mezza età, molto bella, ma abbandonata dal marito a causa di alcune ustioni che ne hanno deturpato il corpo. Arturo la conosce e decide di raggiungerla e di fare l’amore con lei. Immediatamente dopo un terremoto devasta la città.
Traumatizzato dall’evento a cui assiste, Arturo maledice dio, l’amore e le donne e come sempre torna alla scrittura e decide di scrivere la storia di Vera. Non più racconti, ma un romanzo.
« Il telegramma diceva: romanzo accettato. Invio contratto oggi stesso. Firmato: Hackmuth. Tutto qui. Il foglietto mi sfuggì di mano, ma io non mi chinai a raccoglierlo. Poi mi sedetti per terra e cominciai a baciarlo. Strisciai sotto il letto e rimasi lì sdraiato. Non avevo più bisogno del sole, né della terra o del cielo. A questo punto potevo anche morire. Non mi sarebbe successo mai più niente. La mia vita era giunta al compimento.»
Un po’ come accade a Stoner, è il libro che sostanzia la vita di Arturo Bandini.
E forse anche di John Fante.
Poi il nostro vivrà un certo numero di ulteriori avventure, ma nel prologo (che la mia edizione Einaudi, per motivi imperscrutabili, mette in fondo) torna il tenero e titanico Arturo, velato di malinconia, soprattutto pensando al destino di John Fante.
«Parlo come un pazzo? E sia, ridatemi la pazzia e quei giorni, datemi un romanzo bizzarro su un uomo e sulla sua compassione per il genere umano, su quella gran persona che era Bandini, protagonista di magnifiche uscite di scena, e sulla sua compassione per tutto quanto, per l’assurda città attorno a me, che ha allevato il mio genio, e lassù in cima ad Angel’s Flight, in cima a duecento gradini fino a Bunker Hill nel cuore della città, gradini consacrati, Signore, Bandini li ha percorsi fino all’immortalità!»

Infine.
Questo è in assoluto uno dei romanzi che ho più amato. Quest’anno e in generale.
Fante finisce dritto dritto nei miei personali Campi Elisi, con Steinbeck, Marquez, Salinger, Flaubert, Leopardi e qualche altro.
Di seguito ho letto anche “Sogni di Bunker Hill”, ma ora prenderò una lunga pausa.
Mi capita con pochissimi autori, quelli che amo davvero.
Non leggo tutto quello che hanno scritto.
Perché è triste pensare, “poi”, di doverne rimanere per sempre senza.

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(E pure Rostand)
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    03 Luglio, 2015
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"Risate e applausi calorosi dai cespugli.”

La Strada per Los Angeles – John Fante, 1933-36 (pubblicato, postumo, nel 1985).

SPOILER

"Mi odiavo talmente che mi sedetti sul letto pensando alle cose peggiori che potessi pensare sul mio conto. Alla fine ero talmente esecrabile che non si poteva far altro che dormire."

Se dovessi definire “La Strada per Los Angeles”, secondo capitolo dell’epopea di Arturo Bandini con un aggettivo, non mi verrebbe in mentre altro che “ubriacante”.
Non è un flusso di coscienza, ma tale sembra, questo breve seguito di “Aspetta la primavera, Bandini” (in realtà la cronologia è più complessa. Questo è stato il primo libro ad essere scritto della “tetralogia”, ma l’ultimo ad essere pubblicato – postumo - nel 1985).
Ubriacante è questo diciottenne, ancora molto adolescente, nei modi; e ubriacanti sono i suoi pensieri, le sue azioni, le sue prese di posizione e le sue dichiarazioni di intenti.
Totali, assolute e senza appello.
Amori eterni, guerre totali, addii finali, conversioni definitive.
Puntualmente smentiti il giorno dopo (anzi, in genere prontamente sostituiti da altri analoghi).
Un ego ingombrate, come quello degli adolescenti, un continuo delitto di lesa maestà da parte del globo terracqueo, di cui, ovviamente, ci si vendicherà e – oh sì – sarà vendetta, tremenda vendetta.

Arturo vive con le insopportabili madre e sorella (il padre, Svevo, coprotagonista di “Aspetta la primavera, Bandini” è morto, ma “risorgerà” nel libro successivo), la prima inerte fino alla passività, la seconda pervasa da un fanatismo religioso eletto bersaglio dell’esuberante fratello.

«Non appena toccavo la maniglia della porta mi veniva la depressione. Casa mi ha sempre fatto quest’effetto. Anche quando era vivo mio padre e abitavamo in una casa vera, non mi piaceva lo stesso. Volevo sempre andarmene, o cambiare. Mi domandavo che casa sarebbe stata se fosse stata diversa, però non riuscivo mai a capire che cosa si dovesse fare per renderla diversa.»

Arturo perde un lavoro (unico sostentamento della piccola famiglia) dietro l’altro a causa del suo carattere, delle sue piccole ruberie, dei ritardi; legge tantissimi libri, in genere senza capirli molto, ma abbastanza da crearsi una piccola aura di sapienza che impressiona (poco) qualche sprovveduto (molto).
Immagina di diventare un grandissimo scrittore, mentre rimugina nel suo studio privato (“che poi era lo stanzino dei vestiti”), che poi è anche la sede eletta dove intrattiene le sue donne di carta (ritagliate dai giornali) sulle quali crea storie su storie ed esplica l’unica attività sessuale che gli è permessa (nonostante madre e sorella – che hanno perfettamente capito – bussino incessantemente alla porta).
Ma Arturo si sente un uomo che farà grandi cose, e come tale si atteggia. E si vendicherà di tutte le sofferenze.
«Camminavo lungo la strada insieme con altri. Chiedevano passaggi agitando il pollice. Accattoni dai pollici come arti di marionette e dai sorrisi pietosi, tutti lì a implorare le briciole dei motorizzati. Senza dignità. Ma non io, non Arturo Bandini con le sue gambe possenti. Non fa per lui, lo scrocco. Che mi passino avanti. Che vadano a centocinquanta chilometri all’ora, che mi riempiano pure il naso dei loro scarichi. Un giorno sarà tutto diverso. Pagherete per questo, tutti quanti, ogni automobilista lungo questa strada. Non ci salirò, nelle vostre macchine, neanche se uscite e mi supplicate e mi offrite l’automobile e mi dite che è mia subito, mia e senza alcun impegno. Piuttosto ci muoio, su questa strada. Ma verrà il mio momento, e allora vedrete il mio nome nel cielo. Allora la vedrete, tutti voi! Io non mi sbraccio come gli altri, non mostro il pollice ricurvo, quindi non fermatevi. Mai! Ciò nondimeno la pagherete.»

A volte.
Altre ha percezioni quasi eccessive della propria piccolezza, pur sempre titanica.
“Mattina, è ora di alzarsi, e allora alzati, Arturo, va’ a cercarti un lavoro. Va’ là fuori a cercare ciò che non troverai mai. Sei un ladro, un killer di granchi, un donnaiolo da stanza dei vestiti. Te non lo troverai mai, un lavoro.”

Il tutto condito con le piccole vicende che gli accadono, il lavoro presso l’impianto di conservazione del pesce, l’addio alle “donne di carta” in una momento di improvvisa (quando fugace) conversione religiosa (e parlando di Arturo Bandini, ogni donna ha un nome, una storia e una peculiare relazione con il protagonista e viene personalmente e in modo personalizzato fatta fuori). Il “topesco” principale, il repentino amore per la donna sulla barca con il costume bianco, o quello, assai più articolato e lungo (almeno qualche minuto) per la sconosciuta intravista per strada, che lo porta all’epico epilogo di mangiare il fiammifero che lei ha usato per accendersi una sigaretta. La stesura di un romanzo che fa morire dal ridere la sorella.
Fino alla conclusione. Arturo impegna l’anello nuziale e tutti gli altri piccoli tesori della madre e si compra un biglietto per Los Angeles.
«Con la valigia in mano, scesi allo scalo ferroviario. Mancavano dieci minuti al treno di mezzanotte per Los Angeles. Mi sedetti e cominciai a pensare al nuovo romanzo.»

Ho trovato la scrittura di Fante, in questo romanzo, perfetta. Perfetta per il suo adolescente obiettivo. Perfetta mimesi di Arturo, che è un fuffaro cazzone senza redenzione e che qui e là ti infila locuzioni elevate che probabilmente ha espunto da qualche libro che ha capito poco, come la “trivialità così levantina” di qualche malvagio arcinemico. A cui, a volte solo dai cespugli arrivano “applausi scroscianti” per le sue mattane e che a volte si imbatte in un “Platone raffreddato".
Assolutamente adorabile da quanto è perfetto ed intollerabile.
E che chiude descrivendo la scrittura come qualcuno per cui è davvero la vita:
« La matita grattava la pagina. La pagina si riempiva. Voltavo pagina. La matita procedeva fino alla fine. Un’altra pagina. Da capo a fondo. Le pagine crescevano. Dalla finestra entrò la nebbia fredda e discreta. Ben presto la stanza ne fu piena. Continuavo a scrivere. Pagina undici. Pagina dodici.
Alzai lo sguardo. La luce del giorno. Nebbia da soffocare. Era finito il gas. Avevo i crampi alle mani. Avevo una vescica sul dito che reggeva la matita. Mi bruciavano gli occhi. Mi faceva male la schiena. A malapena mi tolsi dal freddo. Ma non mi ero mai sentito meglio in vita mia.»
Poco contano le risate di Mena.

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Salinger.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    02 Luglio, 2015
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Bella scrittura per storia mediocre.

SPOILER

È un caso un po’particolare, questo, perché, secondo me, è un libro scritto bene, con una storia così-così.
Vi è l’omicidio, con stupro, della moglie di un bancario e un giovane cancelliere del tribunale di Buenos Aires, Benjamin Miguel Chaparro, si trova implicato nel caso oltre le ragioni di competenza professionale. Il piano narrativo è “doppio” perché la storia viene narrata in parte dal sessantenne Chaparro che scrive un libro sulla vicenda, in parte descritta “in tempo reale”.
Sacheri gigioneggia un po’con il lettore, ti piazza le sue belle frasine ad effetto, in alcuni punti anche un po’ smaccatamente (pare che a volte ci sia quasi l’alert prima: “prendila matita che ora c’è da sottolineare” - cosa un tantino fastidiosa).
Comunque, pur nello schema classico, la storia è scritta bene, il Sacheri ci sa fare e ti porta esattamente dove vuole. Quando incontriamo quello che diventerà il mio personaggio preferito (Pablo Sandoval), l’autore lo introduce in modo apparentemente dimesso, ma si capisce che rimarrà con noi a lungo e che sarà centrale (e credo di non fare nessuno spoiler, se dico che alla fine muore. Trattandosi del mio personaggio preferito non poteva mica andare diversamente). E tacerò di Bàez che era il secondo preferito.
Il libro scorre piacevolmente, i personaggi sono ben caratterizzati e finisci anche per affezionarti ad alcuni di essi. La scrittura, appunto, è buona e piacevole, alcune “scene”come quella del controllore del treno o dell’interrogatorio di Gomez, davvero ben riuscite, bella anche la “pausa” in cui il giovane Chaparro osserva gli impiegati della banca e cerca di immaginare quale sarà quello a cui rovineranno l’esistenza con la tragica notizia che portano con sé.
Belle alcune “fotografie” gli uomini duri, freddi con le persone che amano e che evitano “con precisione chirurgica”qualsiasi riferimento troppo personale, o troppo sentimentale, o troppo malinconico. Ed alcune immagini come gli oggetti che ci sopravvivono, e, ingenerale, il tema della memoria.
Divertenti le parti in cui descrive i colleghi inetti (“L’incoscienza e la grinta, quindi, rendono pericoloso il coglione. Lo mettono in condizione di costituire una minaccia,non tanto per sé, ma per gli altri”) splendida galleria di tipi con cui abbiamo a che fare ogni giorno, come Bàez, unico ad essere “di ritorno, in mezzo ad un branco di nullafacenti che fanno sempre e soltanto il viaggio di andata”.
Belle pennellate, dicevo,ma su un quadro che complessivamente alla fine mi ha convinto poco.
La trama “gialla”, ufff.
Il doppio piano narrativo presente/passato molto di maniera, la “love story” stucchevole se mai ve ne furono, con Chaparro sessantenne che diventa adolescente per le grazie di questa Irene, che, povera, poco ci manca che gli salti addosso, alla faccia dei messaggi subliminali.
In alcuni punti, inoltre,ho l’impressione che Sacheri “chiami” proprio l’applauso e che facendolo rovini la sorpresa: che Sandoval riuscirà a far confessare Gomez, secondo me, è evidente dal momento in cui entra in scena ubriaco. Il siparietto rabbioso che gli fa intorno il collega è davvero manierato e volto a chiamare la risata.
Così come l’epilogo, con la scoperta di un Morales crudele e sadico, era decisamente atteso, anche da prima del dialogo in cui lo stesso dichiara che uccidere l’assassino della moglie sarebbe “troppo veloce”.
Il finale in cui pare che il nostro si decida a dichiararsi all’amata… di nuovo, mah?
Non se ne sentiva proprio il bisogno.
Complessivamente lo promuovo, non fosse altro per il tema della memoria che gli autori sudamericani, non so perché, trattano in maniera sempre sorprendente. Un libro scritto bene, con una storia così e così. In genere succede il contrario, ma se devo scegliere preferisco questo caso.

PS. Ovviamente da un libro che – secondo me – è scritto bene e ha una storia così così hanno tratto un film che ha vinto l’Oscar come miglior film straniero nel 2010. Perché io son quasi sibillina nella mia preveggenza, a volte...

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    02 Luglio, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Un triste Macondo in salsa toscana

Ugo Riccarelli – Il Dolore Perfetto – 2004

SPOILER

Andavo abbastanza sul sicuro, con questo titolo, consigliatomi dai due dei miei "pusher" più affidabili e invece…
[Ricordo – di passata – che quando parlo male di un testo intendo solo dire che non mi è piaciuto e che non mi sognerei mai di muovere critiche personali all'autore o – tanto meno – ai suoi lettori, perché sarebbe illogico].

In estrema sintesi "Il Dolore Perfetto" mi è parso un tentativo di servire Macondo in salsa toscana con esiti che, però, mi hanno ricordato una versione scialba, triste e scolorita di "La casa degli Spiriti" di Allende (che, secondo me, di Cent'anni di Solitudine non era manco parente, per inciso, ma fa niente).
Abbiamo la storia di due famiglie, raccontata in parallelo, fino al momento dell'unione causata dall'amore fra Cafiero ed Annina. Sullo sfondo la storia d'Italia da poco dopo la sua nascita al periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale.
La narrazione scorre abbastanza facilmente e a tratti felicemente, pur non potendo contare su personaggi "indimenticabili" o con cui sia facile empatizzare (o almeno… per me è stato decisamente impossibile).
Fra donne abbastanza insopportabili che, ad un certo punto – come ci informa l'autore – sono circonfuse d'amore e questo le rende wonder-woman ad uomini tanto carucci che o tirano il calzino in modo prevedibile o danno fuori di matto. Si salvano, in parte, giusto il Maestro (forse per la rimembranza di quello di Auster? Chissà.) e suo figlio Mikhail, giusto perché a questi due personaggi (ed in parte ad Ideale1) l'autore fornisce un qualche tentativo di caratterizzazione.
Il tutto condito con quello che – forse – vorrebbe essere "realismo magico", ma che in realtà sembra un "perché sì e non fare domande".
Abbiamo visioni, apparizioni, sogni premonitori, voli miracolosi, precognizioni, un inopportuno profumo di viole, parti miracolosi, personaggi bislacchi che appaiono dal nulla, nel nulla ritornano e dal nulla riemergono per poi dissolversi nuovamente, magari nel sapone e, infine, la cosa – per me – più irritante, il vezzo di alcuni personaggi di avvolgere perennemente quelli che stanno soffrendo in un lenzuolo/coltre/sudario/trapunta di parole, che giuro che se lo diceva un'altra volta mi mettevo ad urlare.
Al di là delle mie idiosincrasie, trovo che il grosso limite di questo romanzo sia nella resa dei personaggi che vengono descritti nel loro animo, ma mai – o raramente – fatti agire in modo concreto e comprensibile; ad esempio, la Vedova, icona dell'amore, circonfusa d'amore etc… agisce, parla, fa qualcosa?
L'autore ci racconta cosa vede, cosa sogna, cosa pensa, ma mai abbastanza bene da farci "sentire" qualcosa di lei. Rosa non ne parliamo neanche.
Show don't tell.
Qui invece siamo decisamente nel regno del "Tell don't show".
Annina in parte si sottrae a questo fato, ma a questo punto è la vicenda che non la sostiene più; la vicenda familiare dei figli di Annina perde decisamente interesse a vantaggio della "storia reale" del periodo, per tacere delle menate di Natalia e delle sue lettere e del particolare finale dell'esplosione dell'aereo per la "distrazione" di Anis'ia che causa la morte del cugino "ritrovato".
No. Ma proprio NO.
L'idea di dare circolarità al tempo e di collegare le lontananze con le suggestioni e con il logos va bene, ma qui non ha decisamente funzionato.
Infine, secondo me, inserire l'elemento magico in una storia realistica è come infilare un elefante in una stanza e sperare che nessuno lo nomini.
Se sei Marquez ci riesci ed è un capolavoro.
Se sei la Allende ti viene una cosa edulcorata con la protagonista che sposta gli oggetti con il pensiero, sullo sfondo, e – se riesci a costruire un plot interessante – la cosa può funzionare.
In questo caso i personaggi non funzionano, la storia dei personaggi è poco appassionante, del magico non importa a nessuno, mentre quello che si salva sono alcune descrizioni/momenti in cui la Storia impatta sui luoghi e sulle comunità:
"E così atroci furono le parole di quelli che partirono ragazzi e tornarono uomini fatti e sconciati che la fantasia narrativa di tutto il paese si arrese di fronte all'immensità di quell'orrore, e per la prima volta nessuno, dal Colle fino alla Piana, riuscì a raccontare quelle vicende diversamente da come in effetti erano state riferite, rinunciando all'innata capacità di narrare le cose della vita come piaceva a loro, e non alla vita."
Queste parti non sono rare e, in genere, sono molto belle.
Spero di trovarne molte negli altri libri di Riccarelli.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    01 Luglio, 2015
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Un Bambino non è qualcuno che ci rimpiazzerà?

«E, ancor più intollerabile, un “bambino” non è qualcuno che ci rimpiazzerà?»

Siamo a Princeton (New Jersey), nel 1905.
Molte figure illustri animano la vita della città universitaria: il rettore e futuro presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, con la sua famiglia tutta al femminile, l’ex presidente Cleveland e la sua giovanissima moglie, Upton Sinclair, giovane scrittore anarchico di belle speranze, e la prestigiosa famiglia Slade, guidata dall’ormai anziano Winslow, pastore e colonna della comunità e uomo noto per la sua rettitudine, la sua carità e la sua magnanimità.
La “maledizione” che colpirà Princeton, attraverso i suoi cittadini più illustri, comincia – apparentemente – in sordina, la vigilia del mercoledì delle ceneri.
Accade qualcosa di indicibile, qualcosa che non si può riferire alle signore, per non turbarle.
[«Infatti, ci sono cose troppo sgradevoli perché le donne ne sappiano qualcosa. Donne cristiane perbene, almeno. L’uomo ha il dovere di proteggerle. Non può portare a niente di buono che sappiano tutto ciò che dobbiamo sapere noi (= uomini. NdA).»]
Un linciaggio.
Forse.
Un ne(g)ro. Bisbigliano fra di loro gli uomini. Forse due. Un uomo e una donna. Fratello e sorella. Lei incinta.
Colpa dell’emancipazione, ovviamente.
E prima… prima era successo qualcos’altro.
Una bambina, non solo uccisa, ma anche… forse. Ma non si può dire, è troppo orribile.
È indicibile.
È L’Indicibile.
E contemporaneamente arriva in città un nuovo personaggio.
Un giovane molto affascinante, dai modi signorili.
Forse.
O forse no. Un ributtante e viscido vecchio.
O forse un nobile europeo di mezza età e di grande arguzia.
Ma non c’è tempo per occuparsi di queste sciocchezze.
C’è da preparare il matrimonio dell’anno. Annabel Slade si sposa a giugno. L’amata nipote del decano Winslow, la ragazza più bella, dolce e gentile di Princeton.
Arriva il gran giorno. La figlia di Woodrow Wilson è la damigella d’onore di Annabel, che è incantevole, così come lo sono la chiesa, i fiori, l’abito, lo sposo… la comunità partecipa compatta al momento di gioia della famiglia Slade.
Solo che, all’altare, qualche attimo dopo aver pronunciato il “sì”, Annabel pianta in asso lo sposo per lanciarsi fra le braccia del misterioso “straniero” di cui sopra, e fuggire con lui, sparendo nel nulla.
E da quel momento si susseguono sparizioni, omicidi inspiegabili, vampiri, apparizioni di serpenti e fantasmi. La figlioletta morta di Cleveland si mostra al padre, causandogli un grave collasso, il cugino di Annabel, Todd, si trasforma in pietra sulla tomba dell’amata cugina, il figlio di Slade uccide la moglie invalida, uno stimato professore tenta di assassinare la moglie e il figlioletto…
E la maledizione non è circoscritta a Princeton, ma perseguita la famiglia Slade anche alle Bahamas, ad opera di una medusa velenosa.
E questa non è l’unica “citazione” di Conan Doyle, perché Sherlock Holmes in persona – evocato come l’unico in grado di svelare il mistero grazie alla sua razionalità – diventa strumento della Maledizione ed uccide.
Sherlock Holmes strumento del male?
Sembrerebbe.

Non voglio spoilerare troppo, ma poco o niente è come sembra. Dovrà essere giocata una fondamentale partita a dama, fra bene e male e dovrà esserci un finale strepitoso, con il capitolo dedicato a Winslow Slade.

Questo solo per quanto concerne la trama.
Ma la cosa che veramente mi ha appassionato è stata la scrittura della Oates (e non mi soffermo a pensare su come, quanto e per quanto tempo si sia documentata).
La narrazione si snoda per oltre 600 pagine (con, ammetto, qualche passaggio un poco pesante), organizzate come la ricerca di uno storico che, diversi decenni dopo i fatti, indaghi sui misteri del 1905-6.
I capitoli in cui descrive le sue ricerche, critica i colleghi, fa l’inventario dei materiali, elenca fatti ed opinioni, si alternano a quelli in cui la vicenda viene portata avanti dai protagonisti che parlano e narra in terza persona, oppure in prima, attraverso lettere e soprattutto diari.
Quindi conosciamo un Woodrow Wilson perso nelle eterne beghe dell’università e nei suoi – altrettanto eterni – acciacchi, un Jack London falso ed inaffidabile (tale da non voler prolungare di un solo minuto la conoscenza), e pure Mark Twain (di sfuggita). Conosciamo un gran numero di signore che lasciano credere ai loro uomini di accettare di buon grado di essere “protette”…
Io poi ho pure conosciuto Carol Joyce Oates e sono più che certa di voler portare avanti la conversazione a lungo!

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    01 Luglio, 2015
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Settimo Sigillo - Settima Arte.

Charlot, ormai vecchio, riesce a strappare un altro anno di vita alla Morte, venuta a prenderlo, facendola ridere.
Intanto scrive la storia della sua vita al figlio Christopher.
Dall’esordio – fortuito (anche se sarebbe il caso di dire sfortuito, dal momento che sostituisce la madre che resta “bloccata” in scena, primo sintomo della successiva malattia) – agli stenti iniziali, al successo.
Alla storia di Charlot si mescola quella di Arlèquin, uomo di fatica del circo, che, innamoratosi di una bellissima acrobata (Ezster), inventa per lei nientepopodimenoché il cinema.
Prima dei fratelli Lumière.
È molto difficile raccontare questo libro perché scorre via come una bella ballata.
Rassicurante ed accogliente.
Il racconto più di un nonno ad un nipote che quello di un padre al figlio.
Di quella vivacità in “bianco e nero” e un po’ magica che si percepisce proprio nelle narrazioni dei nonni, tanto lontana da sembrare sconosciuta, ma di cui facciamo indissolubilmente parte per il nostro legame con il narratore.
Charlot racconta della desolazione della sua infanzia (il fratello che gli legge Sherlock Holmes per fargli imparare la parte) e i suoi primi successi. Stan Lauren (l’unico più bravo di lui), il viaggio in America. E lui ad occhi chiusi e stretti per non farne entrare neanche un po’
Di quest’America che lo vede venditore di caramelle, pugile, imbalsamatore, tipografo, sceneggiatore, attore.
Sempre solo.
“Mi sentii immerso in una solitudine nuova, piena di promesse.”
Nella sua – iniziale – lotta per sopravvivere Charlot coltiva il sogno di ritrovare Ezster e recuperare la “prova” che non siano stati i fratelli Lumière ad inventare il cinematografo (anzi, ad un certo punto sembra che questo possa avere anche un significato, oltre il riscatto di Arlèquin, ma in realtà non sarà così).
Ma il racconto è una ballata di un nonno ad un nipote, quindi abbandono immediatamente l’idea di andare avanti cronologicamente, tanto sappiamo tutti come va a finire (la Morte vince. Ma va’? Ma anche no). Portare alla luce qualche momento, qualche personaggio e qualche frase.

Ho amato, Willie, il tipografo a cui mancano due, e che, curiosamente, ha dato un nome a quelle che non ci sono più, invece che a quelle che ci sono ancora e che è capace di cose straordinarie.
(“Willie si alzò in piedi e mi abbracciò anche con le dita che gli mancavano”). È un piccolo personaggio, il tipografo, ma ci soffri quando il Vagabondo lo abbandona, anche se sai che deve farlo [specie quando senti molto su di te affermazioni come questa: “(…) ma la mia insofferenza aveva ricominciato a solleticarmi i piedi e una mattina non ce la feci più.”]
Il mio momento preferito del libro è il viaggio in treno.
Un'umanità varia e variamente disperata condivide un pezzetto del suo sgangherato viaggio, in treno, verso non si sa bene dove.
“Peccato, disse Giò, sarebbe stato meglio non scendere mai da questo treno, tanto lo sappiamo quello che ci aspetta.”
Questa umanità un po’ sradicata che per il fatto di essere in un non-luogo riesce a trovare legami e calore. Solo perché sa – come Charlot - che dovrà scendere e andare via. Come sempre.
E come sempre la nostalgia sarà più dolce e il ricordo – oh sì – assai migliore della realtà.
“La nostalgia è sempre un sentimento sleale, si nasconde dietro una scala antincendio e ti sgambetta quando vuole.”
Ma ti rimette anche in piedi perché c’è qualcosa per cui vale la pena.
Ahimè Charlot scende dal treno, trova altre persone straordinarie e ricompone la storia di Ezster. Ritrova le sue lettere per Arlèquin e aggiunge altri metri di pellicola alla storia, altri sentimenti (perché l’unica telepatia che hanno gli esseri umani è la sensibilità), altri addii e un’altra partenza.
“Ci era bastato un giorno per affezionarci e per perderci.”
Il ritorno non soddisfa lo scopo della partenza, ma apre un periodo fulgido nella carriera del Vagabondo. Che però non perde la sua solitudine, la sua malinconia e il suo bisogno di partire.
Nel momento di maggior successo torna in Inghilterra, sulle tracce di Arlèquin.
Che poi scopriamo essere la Morte.
La Morte che ha inventato il cinema per offrire la memoria – e l’eternità - agli uomini.

Come accennavo, forse la cosa che mi è piaciuta di più è l’eterno andare del Vagabondo.
Il suo sentirsi sempre “sull’orlo di un trasloco.”
L’eterno non sentirsi mai a casa che forse – forse – significa solo essere a casa ovunque perché “casa” diventa dove ti trovi, purché ci sia tu e ci siano “le storie”. Charlot va sempre via, dal primo posto accogliente che trova, il negozio di caramelle, dove “non era una brutta vita” e “le storie andavano come caramelle”, e da tutti i successivi, fino a decidere di andare via dalla vita.
Ma ponendo l’accento sull’andare e non sulla vita.
Sul viaggio piuttosto che sul punto di partenza o sulla meta.
In questa chiave vedo anche il viaggio con Arléquin (volutamente non metto né “ultimo” né “finale”, vicino a “viaggio”).
E allora, forse, pensi che il signor Nicolò Ugo Foscolo, aveva ragione quando scrisse quella cosa meravigliosa che sono I Sepolcri, dove dice che l’unica immortalità che ci è concessa sia la memoria.
E, per come l’ha interpretata Charlot, la memoria e l’eternità sono il cinema.
E che quindi, alla fine, il nonno Charlot ha vinto.

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I Sepolcri di Ugo Foscolo
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    30 Giugno, 2015
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There is a elephant, in my room...

(SPOILER)
Conoscendo Auster per “Le follie di Brooklyn”, romanzo che ho molto amato e con un finale – davvero – geniale, ho approcciato “Mr Vertigo” con grande entusiasmo.
Il tratto comune, fra le due opere, è sempre la scrittura di Auster – che io trovo veramente efficace – e che senza impaludarsi in virgolette e punteggiature eccessive “mima” un perfetto parlato, con tanto di locuzioni, ammiccamenti ed alzate di sopracciglia.
Non sono quasi mai i dialoghi fra i personaggi quelli che restano nella mente, anche perché i dialoghi sono pochi. In genere Walt, il protagonista, non parla agli altri personaggi e neppure si lancia in monologhi interiori.
Walt parla con te.
Anche nel cinema, l’effetto dell’attore che “guarda in camera” e si rivolge al pubblico è assai pericoloso (e infatti vi si ricorre con una certa parsimonia). Però se si pensa al Riccardo III di Richard Loncraine (quello con Ian McKellen), ci si rende anche conto che se si è capaci ad usarlo, l’effetto paga.
Di certo Auster “è capace”.
“Il suo vero nome era Bucoprofondo, un fiorire di sbadigli in un campo di noia (…) Quel posto era un buco, capitale onoraria della noia, e mi bastò un giorno per non volerne più sapere.”
Wichita, la “scoppiettante prontezza” di Fritz, il suo essere “onesto senza scampo”, Walt che descrive sé stesso come una “ineguagliabile, preziosa persona”… sono tutti guizzi linguistici di un autore che disegna un personaggio che con il lettore ci parla (gli urla, anche, ogni tanto).
L’effetto potrebbe venire a noia, o essere forzato.
Nel fatto che ciò non avvenga mai, io trovo la grandezza di Auster e di questo romanzo.
Una storia narrata in modo incantevole.
La storia in sé mi ha convinto meno.
Intanto, siamo in pieno paradosso da “Elephant in the room” nel senso che c’è un enorme problema, in questa storia di cui nessuno parla e naturalmente il lettore si fa complice dell’autore in questo gioco.
Io da umile recensore dovrei fare lo stesso.
Ma al di là di avere un bambino che vola come protagonista (non avrei mai pituto evitare di dire “Un elefante, un elefante!!”) in un romanzo che per il resto è estremamente realistico e ben calato nel suo periodo storico…
La storia in sé non mi ha particolarmente emozionato.
Ho amato Maestro Yehudi più o meno come ha fatto Walt. Il suo essere razionale, emotivo, assurdo e crudele. Non ho fatto in tempo ad affezionarmi a Mamma Siuox e ad Esopo come avrei voluto.
La “protagonista” femminile, cioè miss Witherspoon mi ha detto davvero poco (e niente), probabilmente per la mia ben nota idiosincrasia per le svampite, vere o fasulle che siano.
Il suo ritorno tardivo mi ha anche un po’ infastidito (sì lo so, era l’unica rimasta viva e giusto lei poteva tornare, però…). L’ho trovata un personaggio cacciato a forza al centro della scena, perché amata dal Maestro, ma poi poco interessante e tutto sommato mediocre. Anche il Maestro, quando ha a che fare con lei, mi piace meno (o sarà che con l’aspettativa che crea Walt chissà che mi aspettavo che il Maestro le avesse regalato per il suo matrimonio).
Va anche detto che ho perso interesse nella vicenda con la morte del Maestro.
Soprattutto perché la sua morte è splendida e mi ha lasciato completamente sfinita.
Perché uno come lui così deve morire.
E basta.

Potremmo forse dire che l’amore non ne esce benissimo in questo romanzo, se non fosse che, a bocce ferme, parlando di un personaggio che non vedremo mai, Auster infili una delle più belle dichiarazioni d’amore che mi sia capitato di leggere:
“Ma dentro aveva qualcosa, Molly, e in un suo modo tranquillo e cauto, era in gamba come poche persone che mi sia capitato di conoscere. Era gentile; non serbava rancore; mi sosteneva, e non cercò mai di trasformarmi in qualcuno che non ero. Forse come donna di casa era un po’ distratta e come cuoca non era granché, ma non importa. Dopo tutto una moglie non è una cameriera. E comunque fu la mia prima vera amica dai tempi di Kansas City con Esopo e Mamma Sioux, la prima donna che io abbia amato davvero.”
E non ho potuto fare a meno di notare che si chiami “Molly” esattamente come quella di “Viaggio al Termine della Notte” e dal momento che anche lei riceve una dichiarazione niente male, io prendo congedo da voi con questa (appuntandomi di fare in modo di chiamarmi Molly, in un’altra vita ;) ):
"Buona, ammirevole Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un posto che non conosco, che lei sapesse che non sono cambiato per lei, che l'amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo.
Se lei non è più bella, ebbene tanto peggio! Ci arrangeremo!
Ho conservato tanto della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora per tutti e due e per me almeno vent'anni ancora, il tempo di arrivare alla fine.
Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese d'America".

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Le Follie di Brooklyn
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    30 Giugno, 2015
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Vero, Verosimile, Qui.

Questo libro è stata una folgorazione. Per l’ambientazione, la scelta narrativa, lo stile, i personaggi.
Quasi 800 pagine che scorrono via veloci, con l’unica angoscia del crescente assottigliarsi dello “spettacolo” che rimane ancora da godere.
Va detto – senza togliere nulla alla bellezza di questo libro – che penso che parte di questa fascinazione così forte, dipenda dall’immediata eco che mi è suonata in testa con “Il ‘93” di Victor Hugo; ambientato nello stesso periodo e riguardante, in parte, i medesimi eventi (anche se nell’opera dei Wu Ming, la Vandea viene solo nominata, mentre in “ ’93” è quanto meno co-protagonista).
La lettura di “ ’93”, avvenuta (la prima volta) alla fine del liceo è stata talmente coinvolgente da tenere il libro – stabilmente – nella mia top ten e da indurmi usare tuttora espressioni espunte da esso (“accompagnamo Marat alla Convenzione!” per definire qualcosa di particolarmente noioso). Quindi un libro che promettesse di farmi rivivere quella magia partiva già avvantaggiato. Per tacere della fascinazione che – tout court – esercita la Rivoluzione Francese, specie in tempi come quelli odierni.
Quando però le aspettative sono alte, il rischio di tonfo sonoro lo è altrettanto.
Qui assolutamente non si corre tale rischio.
La narrazione – articolata come un’opera teatrale - segue le vicende di diversi protagonisti: una rivoluzionaria del foborgo sant’Antonio, un medico magnetista, un cospiratore monarchico, un attore italiano trapiantato a Parigi, un ciabattino/sceriffo rivoluzionario, un piccolo Gavroche e molti altri, figure che sfavillano per un momento in questo tumultuoso palco; sullo sfondo gli anni della Rivoluzione Francese.
Apriamo con l’esecuzione di Luigi XVI (il cittadino Capeto) e chiudiamo con la ghigliottina sull’ultima tricoteuse.
Parigi e i suoi ponti (e sotto-ponti), la Convenzione e i suoi banchi, l’ospedale di Bicetre e la sua Corte dei Miracoli, e un’Alvernia da vero film horror, i luoghi di queste storie.
Molto difficile narrare la vicenda (e non tenterò di farlo) perché è quella che si definisce una storia corale.
Chissà perché quando penso alle storie “corali” mi vengono in mente storie sommesse, sottovoce, da ciclo dei Vinti, in cui nessuno emerge, ma tutti vivono confusi in un magma omogeneo di comunità (in genere derelitta).
No, questo coro somiglia assai di più a questo qui:

https://www.youtube.com/watch?v=KkssNMI_niE
(Chi non lo conoscesse si metta le cuffie, alzi il volume al massimo – che Verdi non è roba da fighetti - e si goda questo. Chi lo conosce può fare lo stesso – come sto facendo io – che fa sempre bene).

Gli autori raccontano storie verosimili di cui la Storia (con la maiuscola) non si è occupata, inseriscono i loro personaggi in “buchi” della trama che così vengono riempiti. Nell’ultima parte mostrano come – in effetti – alcune delle storie narrate potrebbero anche essere “vere”. Ma non è la filologia quello che conta. E neppure la Verità.
Questa sarta rivoluzionaria che lotta, per sé e per la libertà, in bilico fra tenerezza e brutalità è vera.
Quest’uomo probo che sente il male e cerca il bene è vero.
Questo eroe cazzone, cencioso e spiantato è vero.
Questo agghiacciante principe della banalità del male è vero.

Questo popolo francese che parla emiliano è vero, verosimile, qui.

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"Il '93" di Victor Hugo
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    29 Giugno, 2015
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Di Alex, ultraviolenza e mielestrazio.

Un'arancia a Orologeria – Anthony Burgess, 1962

L I E VE S P O I L E R

"Un bel mondo di luridi criminali quello che state cercando di costruire, tutti quanti.
(…)
E io pensavo tra me, che l'Inferno v'inghiottisca tutti quanti, se voi bastardi siete dalla parte del Bene allora sono contento d'essere d'altra sponda."

Questo è stato il secondo libro distopico dell'anno, dopo "Il Mondo Nuovo" di Huxley.
Già il titolo è leggermente pazzesco, dal momento che non si sa bene perché Burgess l'abbia scelto (slang, dialetto giavanese, pavlov…).
La spiegazione pavloviana è particolarmente affascinante perché Alex, il quindicenne protagonista della vicenda, sembra agire non per volontà propria, ma per una serie di archi riflessi.
E l'effetto è straniante.
Abbiamo un protagonista che compie azioni orrende, senza alcuna motivazione.
Non solo come se non potesse comportarsi diversamente, ma proprio come se non gli fosse dato porsi la questione; come sobbalzare per un rumore improvviso, o chiudere gli occhi quando si starnutisce.
Riflessi, appunto.
Peraltro Alex è l'unico personaggio a vivere questa mancanza di arbitrio. Gli altri hanno motivazioni o desideri. Lui no. L'unico momento in cui appare coinvolto in quello che fa è durante l'ascolto dell'amato Ludovico Van (Beethoven).
Alex commette le azioni più turpi, ma mantiene un qualcosa per cui non si può fare a meno di empatizzare con lui (o almeno. A me è successo questo).
Si potrebbe pensare che sia per gli occhioni sgranati (è proprio il caso di dirlo) di Malcolm McDowell, ma no. Il film non lo avevo ancora visto (però azzarderei che anche Kubrick possa aver preso in considerazione questo punto di vista).
E non è neppure l'effetto Holden (anche se più di qualche tratto comune, nel linguaggio che scelgono per i loro protagonisti Salinger e Burgess, io lo vedo).

Il linguaggio è indubbiamente l'aspetto che mi ha maggiormente intrigato del romanzo, perché la storia è narrata da Alex, in prima persona, con un linguaggio a prima vista difficilmente comprensibile (pieno di neologismi, assonanze, onomatopee, crasi e non so che altro), ma con sintassi e lessico sopraffino.
Con il protagonista che si rivolge al lettore direttamente, lo guarda negli occhi, gli chiede amicizia e comprensione, ammicca, dà di gomito, proprio mentre racconta del suo essere completamente privo di arbitrio, empatia, partecipazione.
In questo straniamento, secondo me, la "fortuna" del personaggio e del romanzo (e del film).
Alex ha qualcosa dell'automa, ed insieme qualcosa di perniciosamente umano; racconta la sua storia, la banda, le efferatezze, la musica, il carcere, la "cura Ludovico", la "bontà", il rientro a "casa", lo scioglimento finale, rivolgendosi all'amico lettore, sapendo di trovare in lui partecipazione.

Attraverso il suo personaggio, Burgess (che ha vissuto esperienze in cui è stato vittima di simil-Alex) "vede" una società che persegue il bene annullando il libero arbitrio, ma con la consapevolezza che "Un uomo che non può scegliere cessa di essere un uomo".
O come spiega Alex: "No, non proprio come un animale ma come uno di quei migni giocattoli che vendono per le strade, tipo dei piccoli martini fatti di latta e con una molla dentro e una chiavetta fuori e tu lo carichi trrr trrr trrr e quello pistona via, tipo camminando, O fratelli miei. Ma cammina in linea retta e va a sbattere contro le cose, sbam, e non può farne a meno. Essere giovani è come essere una di queste migne macchinette (…)Avrei spiegato tutto questo a mio figlio quando fosse stato abbastanza bigio da capire. Ma d’altra parte sapevo che non avrebbe capito o non avrebbe voluto capire e avrebbe fatto tutte le trucche che avevo fatto io, sì, forse avrebbe perfino ammazzato qualche povera pulcella bigia circondata da ràttoli e ràttole miagolanti, e io non sarei stato capace di fermarlo. Né lui sarebbe stato capace di fermare il figlio suo, fratelli. E sarebbe andata avanti così fino alla fine del mondo, gira e rigira, come un tamagno martino gigantesco tipo Zio in Persona (per gentile concessione del Korova Milkbar) che girava e rigirava tra le granfie gigantesche una lezzosa arancia saloppa."

E Burgess porta ad empatizzare con questi "migni martini" e poi lascia il lettore a fare i conti con questa sensazione, che non è mica bella.
Alex è l'orrore incomprensibile, che però in qualche modo si comprende.
Perché quando non riesce più ad ascoltare l'amato Ludovico Van si soffre per lui, quando la mamma e il papà lo mandano via perché lo hanno sostituito con un "figlio" più amorevole ed hanno dato via i suoi amati dischi è per lui che si sta in pena, così come quando viene malmenato e perseguitato (o almeno…così è stato per me. E penso anche Burgess e Kubrick).
E al momento di prendere congedo si fatica un po' a separarsi da questo personaggio incomprensibile.
Senza voler indulgere nel "mielestrazio", beninteso.


Curiosità.
Nella traduzione italiana di "Il Mondo Nuovo" e di "Un'Arancia a Orologeria", ricorre la parola "soma"; non nel senso di insieme di cellule, o di carico da portare sulla groppa (da cui "somaro"), ma come neologismo. Nel primo caso "soma" è una droga che dà felicità ed appagamento, nel secondo il termine significa "amico"/"compagno".

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    29 Giugno, 2015
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La beffa più grande che il diavolo abbia mai fatto

L'Esorcista – William Peter Blatty, 1970

SPOILER

"Karras smise di leggere. Scosse la testa. Qui non c'era di mezzo nessuna manifestazione di fenomeni paranormali: era soltanto la prova delle illimitate capacità della mente umana."

Un amore di bambina di 12 anni, tutta cuoricini e dolcezza, comincia a manifestare segni di squilibrio.
In sordina; rumori sordi, giochi bizzarri, stranezze, amici immaginari.
Poi turpiloquio.
Accenni sessuali molto espliciti.
Manifestazioni di una forza fisica fuori dal comune.
Una morte misteriosa e doti di "preveggenza" e di "lettura del pensiero".
Infine le voci.
La bambina (Regan) comincia a parlare con voci diverse dalla sua. Più di una.
Ma una in particolare asserisce di essere un demone.
Parla in latino, conosce molti (troppi) particolari della vita delle persone che ha intorno, ruota completamente la testa sul collo e simili.
La madre di Regan, l'attrice Chris McNeil, si rivolge alla medicina ufficiale e poi, pur essendo atea ad un prete, il gesuita (e psichiatra) Padre Karras.
Costui, che per motivi personali vive una profonda crisi religiosa, tenta in ogni modo di aiutare la bambina e cerca una spiegazione razionale a tutto quello che vede.
Ha molti dubbi perché ritiene la possessione demoniaca un retaggio medievale e perché alcuni particolari del comportamento di Regan non tornano e fanno pensare più ad una fortissima suggestione patita dalla bambina che ad una "vera" possessione.
La situazione di Regan si fa sempre più difficile, finché Karras non rompe gli indugi e decide di richiedere un esorcismo per la bambina.
Viene inviato padre Merrin, che ha già compiuto un esorcismo, e con l'aiuto di Karras il rito ha inizio. Per tre giorni Merrin lotta contro il "demone", che ha già incontrato in passato, ma alla fine ha la peggio e muore per attacco cardiaco.
Karras, che ormai dispera di salvare Regan, induce il demone ad abbandonare la bambina e ad "impossessarsi" di lui. Poi per sconfiggerlo del tutto, si lancia da una finestra, ferendosi a morte.
Ma.
Un confratello di Karras raccoglie le sue ultime parole e l'espressione che rimane sul volto del gesuita è di profondo sollievo.
Perché ha sconfitto il demone o perché lo stesso ha trovato un nuovo ospite?

Il libro si chiude con l'amicizia che nasce fra l'amico di padre Karrad e Kinderman, il poliziotto che ha indagato sulla morte provocata da Regan, mentre madre e figlia, di nuovo serene, lasciano Washington.

La cosa che ho amato di più, in questo libro, è la duplice serie di dubbi che si lascia dietro: si tratta di possessione o di isteria? E da quello che pensa Karras sembrerebbe più isteria, anche se poi decide di optare per l'esorcismo.
E poi.
Ammesso che di possessione si trattasse…
Solo a me viene in mente Al Pacino alla fine dell'Avvocato del Diavolo (non a caso)?
E anche Kevin Spacey alla fine de "I soliti sospetti"?

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    26 Giugno, 2015
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Il Vecchio, il Giusto e l'Esclusa

Il Figlio – Philipp Meyer – 2013

«Pete, sapessi quante cose avrei voluto salvare: gli indiani, i bisonti, le praterie dove allungavi lo sguardo per venti miglia senza incontrare uno steccato. Ma ormai sono cose superate.»

SPOILER

Lettura iniziata impulsivamente dopo la recensione atomica di un amico; devo dire non solo di non essere delusa, ma, anzi, di aver cercato altro di questo autore, quasi mio coetaneo.
La storia è di quelle che piacciono a me. Molto evocativa e molto “show don’t tell”.
Viene narrata attraverso la voce di tre personaggi appartenenti alla stessa famiglia, quella dei McCullough ed è ambientata in Texas.
Le tre voci sono quelle di Eli/Tiehteti McCullough, nato nel 1836, suo figlio Peter (nato nel 1870) e della sua bisnipote Jeanne Anne (detta Jeannie), nata nel 1926.

Eli, ragazzino che diverrà centenario, assiste all’assalto degli indiani Comanche della sua casa, allo stupro e all’uccisione della madre e della sorella e poco dopo a quella del fratello Martin (a causa della sua mancanza di volontà di adattamento alla vita della tribù che li aveva rapiti).
Eli invece si adatta. Con fatica e sofferenza all’inizio, ma con crescente senso di ammirazione ed infine di appartenenza. Osserva ed assorbe la filosofia dei Comanche e contemporaneamente ne scorge gli elementi che ne porteranno la rovina. È prima un ragazzo, poi un uomo che vorrebbe salvare tutto, ma non salverà niente, se non sé stesso e la sua indipendenza.
La grandezza di questo personaggio (che sarà anche quella della bisnipote Jeannie) è quella di avere uno sguardo “oltre”.
Oltre le contingenze e oltre la vita, anche.
Eli sa di essere un ospite negli abbacinanti paesaggi texani.
Sa di essere di passaggio fra i bianchi, fra i Comanche, di nuovo fra i bianchi, fra i coloni, fra i cacciatori, fra gli allevatori e persino fra i petrolieri.
Forse, come Jeannie, sa anche di essere solo, in fondo.
Ma sa anche che a stare soli si muore.
«Aveva ragione Toshaway: dovevi amare gli altri più di quanto amavi il tuo corpo, se no finivi distrutto, dall’interno o dall’esterno, non c’era differenza. Potevi massacrare, saccheggiare, ma finché lo facevi per le persone che amavi non contava. I Comanche non avevano mai secondi fini – non c’era niente di quello che facevano che non fosse per proteggere gli amici, la famiglia, la banda. Il morbo della guerra affliggeva solo l’uomo bianco, che combatteva negli eserciti, lontano da casa, per gente che non conosceva, e c’è un mito a proposito dell’Ovest, dicono che venne fondato e governato da uomini solitari, ma la verità è un’altra: il solitario è un malato di mente, e come tale era visto, e trattato con sospetto. Non campavi a lungo senza qualcuno che ti guardava le spalle, ed erano davvero pochi, sia fra i bianchi sia fra gli indiani, quelli che vedevano uno sconosciuto di notte e non lo invitavano davanti al fuoco.»
Come dirà molto felicemente proprio il figlio Peter, Eli è un uomo che non ha mai una scelta.
È così immerso nel fluire della vita e delle cose che non ha mai scelta, se non nell’assecondare quanto accade. Senza opporre un’inutile resistenza, ma anche senza raccontarsi storie.
Sa benissimo che, prima o poi, questo fluire che ha travolto prima gli Indiani e poi i Messicani travolgerà anche la sua famiglia:
« Fatto sta che è successo. È così che i Garcia hanno avuto la terra, spazzando via gli indiani, e così dovevamo averla noi. E così un giorno ce la toglieranno. E ti invito a non dimenticartelo.»
È un personaggi quasi ferino nella sua asciuttezza e lucidità. Ma non è mai crudele. Quello lo si può essere solo per scelta.
E questo lo fa ricordare.

Profondamente diverso dal padre, è Peter.
Come lo zio Martin, ucciso dagli indiani poco dopo il rapimento, anche Peter incarna una tipologia di uomo molto diversa da quella di Eli.
Amante dei libri, della lettura, profondamente giusto e retto, Peter è un personaggio che cerca sempre di scegliere il bene e non si adatta mai.
È quello con cui si dovrebbe empatizzare perché incarna la giustizia, la razionalità e la riflessione. È l’uomo perennemente fuori dal coro, l’unico che vede le cose come stanno e che cerca di opporsi.
Senza riuscirci mai.
Profondamente segnato da un episodio (l’uccisione e relativo saccheggio della tenuta della famiglia Garcia, vicini da generazioni, stimati e considerati fino a pochissimo tempo prima) a cui è costretto a prendere parte, per pagine e pagine è l’unico a manifestare memoria e compassione. A ricordare i morti e lo squallore dei vivi.
Il fallimento di Peter (di cui non spiego la natura e la modalità per non spoilerare troppo) è una presa di coscienza molto dolorosa, una piccola frase scritta nel suo diario, attraverso il quale viene narrata la sua vicenda.
« Bisogna impedire a questa famiglia di continuare.»
Quasi un’ineludibilità del male che porta con sé l’atto stesso di sopravvivere.

Terzo e ultimo personaggio e, per certi versi il più innovativo e “fresco”, è Jeanne Anne McCullough; sicuramente del ceppo del bisnonno Eli, piuttosto che di quello del nonno Peter, fin da bambina è un’eterna fuori sintonia; una per cui non c’è posto.
Annoiata dalle femmine e rifiutata dai maschi, impara, proprio dal bisnonno lo “sguardo oltre”.
La incontriamo anziana, in una situazione molto particolare (non spoilero) e ripercorriamo la sua vita e la sua sostanziale solitudine. Molto precocemente la nonna paterna (Sally, l’odiata moglie di Peter) la mette di fronte alla scelta che ogni donna di quel tempo (?) doveva fare:
« Sua nonna posò coltello e forchetta, li sistemò con cura e lisciò la tovaglia, prese un sorso di sherry. – L’ho sempre saputo che mi trovi noiosa, – disse. – Pensi che io sia così per natura, per indole, o probabilmente non ci hai nemmeno pensato. Ma quando ho deciso di trasferirmi qui, ho scoperto che potevo scegliere se essere benvoluta oppure avere voce in capitolo. La stessa scelta che dovrai fare tu. Sarai amata ma non ti rispetteranno, oppure ti rispetteranno ma non sarai amata.
– Le cose stanno cambiando.
– È un’impressione, ma finita la guerra gli uomini torneranno, e tutto riprenderà come prima.
– Vedremo, – ripeté lei.
– Questo posto, – disse la nonna. Agitò la mano, insofferente non solo a Jeannie ma a tutto: la casa, la terra, il loro buon nome. – Appartengo alla famiglia più ricca di quattro contee, eppure quando vado a votare mi guardano storto.»
Jeannie è un Eli nata 90 anni dopo e, per somma disgrazia, pure femmina.
Come il bisnonno condannata alla sostanziale solitudine non perde occasione per demolire i grandi miti dell’educazione femminile (maternità, famiglia, matrimonio, religione) con quella che definisce la sua più grande dote: «vedere la realtà senza raccontarsi storie.»
E sarà che è una dote che ammiro, anche lei si è fatta volere bene.
Per lo stesso motivo, dal momento che anche Meyer sembra avere la stessa caratteristica, il
romanzo è potente e scorre senza noia attraverso pagine, paesaggi e situazioni spesso indimenticabili.
Su tutte, giusto per un assaggio, io consiglio il capitolo XXVIII, l’epidemia di vaiolo nell’accampamento dei Comanche (racconta Eli).
Da leggere (tutto, obviously).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    26 Giugno, 2015
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(Scrivere) la guerra e non l'amore.

Spoiler

Frederic Henry, americano, si trova sul fronte italiano nel periodo intorno alla battaglia di Caporetto. (24/10/1917); figlio di un diplomatico, si è arruolato volontariamente e guida le ambulanze. Si innamora di un'infermiera inglese, Catherine, resta ferito, viene curato, l'amata aspetta un bambino, lui torna al fronte, rischia di essere fucilato (per errore), fugge, si ritrova con Catherine a Stresa. La coppia, braccata dalla polizia, ripara in Svizzera dopo una fortunosa traversata del Lago Maggiore. Qui la gravidanza procede, ma Catherine muore per emorragia, a Losanna, dopo aver dato alla luce un bambino morto.

La mia idiosincrasia per (certe) storie d'amore è ben nota, e – ahimè – questa non fa eccezione.
Ma ridurre "Addio alle Armi" ad una storia d'amore è davvero un grosso errore di prospettiva, secondo me. "Addio alle Armi" è un romanzo di guerra, con una storia d'amore incidentalmente dentro (per riferimenti: Fenoglio, Crane, etc).
Pazienza.
Pazienza che Catherine sia stucchevole e che con lei lo diventi pure Frederic.
Pazienza anche per alcuni dialoghi smielati e onestamente noiosi, perché sono veramente poca cosa.
Perché Hemingway, di che pasta è fatto, lo tira fuori già nell'introduzione (1948):
"(…) C'erano sempre persone pronte a domandarsi perché costui (l'autore NdA) si preoccupa tanto e ha l'incubo della guerra, ma, dal 1933, forse è visibile che uno scrittore deve interessarsi di quel perpetuo e oppressivo, sporco delitto che è la guerra. Avendone fatte troppe di guerre, ho certamente dei pregiudizi in materia e spero averne molti. Ma è ragionata convinzione dell'autore di questo libro che le guerre vengono combattute dalla miglior gente che c'è, in un paese, o diciamo da una media dei suoi abitanti (quantunque avvicinandosi ai luoghi dove si combatte la gente che si incontra è sempre più quella migliore); le dirigono invece, le hanno provocate e iniziate rivalità economiche precise e un certo numero di porci che ne approfittano.
Sono convinto che tutta questa genia pronta ad approfittare della guerra dopo aver contribuito alla sua nascita, dovrebbe venir fucilata il giorno stesso che essa incomincia a farlo, da rappresentanti legali della brava gente candidata a combattere.
L'autore del libro, si incaricherebbe molto volentieri di queste fucilazioni se legalmente ne avesse la delega, dai candidati a combattere; si impegnerebbe a farle eseguire con tutta la possibile umanità e correttezza e a far sì che tutti i corpi ricevano degna sepoltura. Si potrebbe anche pensare a seppellirli con un rivestimento di cellofan, o di qualcuno tra i più moderni materiali plastici. Verso la fine della giornata, se ci fossero prove che ho contribuito anch'io a provocare la nuova guerra o non ho debitamente eseguito il mio incarico, accetterei benché malvolentieri che il medesimo plotone d'esecuzione fucilasse anche me, e di venir seppellito con o senza cellofan o di essere lasciato nudo su una collina.
Ecco il libro, dunque, poco meno di vent'anni dopo e questa è l'introduzione."

La guerra, la morte, l'umanità, la società sono al centro della riflessione dell'autore.
È la "generazione perduta" senza ideali, sogni, speranze e fede.
È un individuo "ripiegato" quello che emerge da questo romanzo, che solo nella chiusura in sé e nei pochi affetti superstiti trova uno spiraglio per sopravvivere. Non ci sono neppure il titanismo e il "furore" di Tom Joad.
Emblema di questa "generazione perduta" è Rinaldi, ufficiale medico ed amico di Frederic. Rinaldi con il progredire della guerra e della – parallela - riflessione sull'inutilità della medesima, perde le sue caratteristiche di buon umore e vivacità e come Frederic si chiude. Ma, invece che nell'amore, si rifugia nel lavoro, nell'alcol, nel sesso:
"- No. Mi piacciono due cose sole oltre il lavoro, una è cattiva per il lavoro e l'altra dura mezz'ora, o un quarto d'ora, qualche volta di meno. -
(…)
- No, non viene mai nulla di nuovo per noi. Con quel che abbiamo ci siamo nati, e non impariamo niente. Non viene niente di nuovo per noi. Partiamo completi."

Solo l'umanità, dolente e annichilita, resta anche se per poco, in balia della vita e della morte.
Le parole che Hemingway, attraverso Frederic, spende sulla guerra (e sui nostri italici vezzi) sarebbero da mandare a memoria e da ripetersi, almeno una volta al giorno:
"(…) rimanevo sempre imbarazzato dalle parole “sacro, glorioso, sacrificio” e dall'espressione “invano”. Le avevo udite anche in piedi sotto la pioggia e quasi fuori di portata dalle mie orecchie, quando solo le parole strillate forte riuscivano ad arrivare, e le avevo lette in proclami incollati ai muri sopra altri proclami, molte volte oramai, e non avevo trovato niente di sacro e le cose gloriose non portavano nessuna gloria, e i sacrifici in realtà avvenivano come nei mattatoi di Chicago: con la differenza che qui la carne andava in sepoltura. Erano molte le parole che non sopportavo più di sentire, e solo i nomi dei paesi avevano ancora dignità, e certi numeri, certe date. Rappresentavano tutto quanto aveva ancora un significato. Le parole astratte: gloria, onore, coraggio o santità sonavano come oscene rispetto ai nomi dei paesi, di numeri delle strade e ai nomi dei fiumi, ai numeri dei reggimenti, alle date."

Non di meno, la riflessione, lucidissima, mai commossa, né compiaciuta di Hemingway sulla vita non è la cosa che ho amato di più di questo romanzo.
La cosa straordinaria non è solo "quello" che è scritto, ma "come" viene scritto.
Generalmente sono una grande amante dei dialoghi. Mi piace come un autore, attraverso i modi di parlare e i gesti del linguaggio parlato riesca a far vivere i personaggi. Mi sembra sempre che sia dando voce che si crei un personaggio credibile (dev'essere uno dei motivi per cui non apprezzo Tolkien, e, peraltro, faccio la logopedista. Riflessione estemporanea).
Hemingway tutto questo lo fa con le descrizioni.
Spesso molto brevi, a regalare un senso particolare solo con una tranquilla sinestesia ("Il locale odorava di primo mattino, di polvere sollevata dalla scope, di cucchiaini nei bicchieri e di cerchi lasciati dai bicchieri"), altre volte sono lunghe.
E con una di queste "lunghe" prendo congedo.
È la descrizione del ferimento di Frederic. Credo che sia uno dei brani più belli che abbia mai letto e che – senza ulteriori noiose aggiunte da parte mia – illustra perché questo romanzo vada letto.

"Finii il mio formaggio e bevvi un altro sorso di vino; tra i diversi scoppi avvertii altri colpi di tosse e uno sciù-sciù-sciù, e poi una vampata come se si spalancasse lo sportello d'un altoforno dentro uno strepito che cominciò bianco continuò rosso e via e via corse in una grande tempesta, cercai di respirare ma il respiro non voleva venire, e mi sentii scagliato a tutta forza fuori di me stesso, ancora fuori e ancora fuori, a tutta forza, nel vento. E tutto il mio essere usciva rapidamente da me e sentivo d'essere morto, e insieme che era uno sbaglio credere d'essere morto. Poi un tornare a galla, ma invece di risalire mi sentivo sdrucciolare all'indietro. Respirai, e mi trovai disteso sulla schiena, su un terreno sconvolto. Davanti alla mia testa stava una trave schiantata. Tra lo stordimento sentivo piangere qualcuno. Mi parve che gridassero. Cercai di muovermi ma non potevo muovermi. Udivo le mitragliatrici e i fucili sulle due rive e lontano lungo il fiume. C'era melma intorno a me, e le stelle dei proiettili salivano e scoppiavano e galleggiavano in cielo con una luce bianca, e vedevo salire razzi, udivo le bombe. E poi udii appena in fondo al mio corpo:
- Mamma mia! Oh mamma mia! - Mi stirai, mi contorsi, e finalmente riuscii a liberare le gambe, a girarmi e arrivai a toccare quello che si lamentava. Era Passini, quando lo toccai urlò. Teneva le gambe rivolte verso me e negli squarci luminosi le vidi sfracellate sopra il ginocchio. Una era già staccata. L'altra era trattenuta solo dai tendini e dai brandelli dell'uniforme, e il moncone strappava per conto suo, vibrava come un corpo a sè. Passini si mordeva il braccio e gemeva.
- “Oh mamma mia, mamma mia” - poi - “Dio ti salvi, Maria, Dio ti salvi, Maria” - , - Oh Gesù fammi morire, “Mamma mia, mamma mia”, oh purissima adorata Vergine Maria, fammi morire. Basta. Basta. Oh Gesù, Vergine cara, basta. Oh, oh, oh - poi rantolando - “Mamma, mamma mia.”
E poi tacque, col braccio tra i denti, mentre il moncone vibrava ancora.
- Portaferiti! - gridai dentro le mani a portavoce. - Portaferiti! -
Tentai d'avvicinarmi ancora a Passini, per cercare di tamponargli le gambe, ma non riuscivo a muovermi. Tentai ancora e le gambe si spostarono un poco. Riuscii ad avanzare a ritroso, puntando sulle braccia e sui gomiti. Passini era tranquillo adesso. Mi tirai su a sedere vicino a lui, gli aprii la giubba e cercai di strappare un pezzo della mia camicia ma non voleva venire e diedi un morso alla tela, verso l'orlo, per lacerarla; poi ricordai le sue fasce. Io avevo i calzettoni ma Passini portava le fasce. Tutti i conducenti portavano fasce. Ma a Passini restava solo una gamba. Sciolsi la fascia, ma durante l'operazione vidi che non c'era più bisogno di tamponare nulla; era morto. Mi accertai che era morto.
Volevo sapere degli altri tre. Cercavo di tener su la schiena, e sentii, allora, nella mia testa qualcosa che si agitava rigidamente, come il meccanismo degli occhi d'una bambola, e un gran dolore all'interno dietro le pupille. Le gambe erano tepide e bagnate e le scarpe erano bagnate e tepide anche loro, all'interno. Capii che ero ferito, mi piegai in avanti e misi una mano sul ginocchio, ma il ginocchio non c'era più. Scesi ancora con la mano e trovai il ginocchio. Era andato a finire sulla tibia.
Mi asciugai la mano nella camicia. Una luce nuova galleggiava intanto nell'aria, scendeva molto lentamente su me guardai alla gamba ferita ed ebbi paura.
- Oh Dio - dissi, - fammi uscire di qui. - Ma non mi dimenticavo degli altri. I meccanici erano quattro. Passini era morto.
Ne restavano altri tre. Mi sentii sollevare per le ascelle e per le gambe.
- Ce ne sono altri tre - dissi. - Uno è morto. -
- Sono Manera - udii. - Siamo andati a cercare una barella, ma non abbiamo trovato niente. Come sta, Tenente? -
- Gordini e Gavuzzi dove sono? -
- Gordini è a farsi medicare. Gavuzzi è quello che la tiene per le gambe. Si attacchi bene al mio collo, Tenente. E' grave la ferita? -
- Alla gamba. Come sta Gordini? -
- Una cosa da nulla. Ma è stato un bel colpo di mortaio! -
- Passini è morto. -
- Lo so. -
Arrivò un proiettile vicino a noi, tutti e due si buttarono a terra lasciandomi cadere.
- Ci scusi Tenente - disse Manera. - Si tenga bene al collo. -
- Se mi lasciate andare un'altra volta... -
- E' stata la fifa. -
- Voi due non siete feriti? -
- Roba da poco. -
- Gordini potrà guidare? -
- Credo di no. -
Prima di arrivare, mi lasciarono cadere di nuovo.
- Figli di puttana - dissi.
- Ci scusi Tenente - ripetè Manera. - Ora non succederà più."

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    25 Giugno, 2015
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CONTRO IL REGOLAMENTO.

E Johnny Prese il Fucile – Dalton Trumbo, 1939

SPOILER (?)

Premessa
Ho finito questo libro – meraviglioso – un paio di settimane fa ed è stato una botta talmente forte che solo oggi ho preso il coraggio di "riaprirlo" (ormai da mesi leggo quasi esclusivamente sul reader), dare una riletta veloce ai (molti) passi sottolineati e mettermi nell'ordine di idee di scrivere un tentativo di recensione.
(Due ore dopo).
Ipotesi di lavoro abbandonata assai presto.
E Johnny rese il Fucile è un libro impossibile da recensire, almeno per me.
È un libro che posso provare a commentare, pezzo per pezzo, punto per punto, strazio per strazio.
Quindi, più che una recensione, sono "note a margine" al testo di Trumbo.

La trama penso che sia nota alla maggior parte dei lettori.
Comunque eccola qui.
Johnny (Joe) Bonham, giovane soldato americano, rimane ferito da un colpo di cannone, l'ultimo giorno di guerra, nel 1918.
Al suo risveglio, lentamente, si rende conto dell'entità delle ferite subite.

Parte I – I Morti
Lui pensava eppure era soltanto una cosa.

La prima parte del libri "I Morti", comincia con la lenta presa di coscienza di Johnny. Ricorda e ricostruisce di essere stato un "problema interessante" per i medici. A poco a poco si rende conto di essere diventato sordo. Poi di non avere più le braccia. Né le gambe. Né di potersi alimentare autonomamente, né di poter respirare di propria volontà.

"Oh no. No no no.
Non poteva vivere così gli avrebbe dato di volta il cervello. Ma non poteva neanche morire perché non poteva uccidersi. Se solo fosse stato in grado di respirare sarebbe morto. Era strano ma era così. Avrebbe potuto trattenere il fiato e suicidarsi. Era l'unico mezzo che aveva a disposizione. Solo che lui non respirava. I suoi polmoni pompavano l'aria e lui non poteva intervenire per farli smettere. Non poteva vivere e non poteva morire.
No no no non può essere così.
No no.
Mamma.
Mamma dove sei?
Corri mamma corri corri corri e svegliami. Ho un incubo mamma dove sei? Presto mamma. Sono quaggiù. Qua mamma. Qua al buio. Prendimi in braccio. Cantami la ninna nanna. Adesso mi metto giù a dormire. Oh mamma corri perché io non riesco a svegliarmi. Qui mamma qui. Quando soffia il vento dondola la culla. Tienimi in braccio alto alto.
Mamma te ne sei andata e ti sei dimenticata di me. Sono qui. Non riesco a svegliarmi mamma. Svegliami tu. Non posso muovermi. Tienimi stretto. Ho paura. Oh mamma mamma cantami qualcosa e strofinami e fammi il bagno e pettinami i capelli e lavami le orecchie e gioca coi miei alluci e fammi battere le manine e soffiami il naso e baciami sugli occhi e sulla bocca come ho visto che facevi con Elizabeth come devi aver fatto con me. Allora mi sveglierò e sarò vicino a te e non ti lascerò più altrimenti avrò paura e farò altri brutti sogni.
Oh no.
Non posso. Non posso sopportarlo. Urla. Muoviti. Fai qualcosa. Fai un rumore un rumore qualsiasi. Non ci resisto. Oh no no no.
Vi prego non resisto. Vi prego no. Venga qualcuno. Aiutatemi. Non posso star sempre qui a letto in queste condizioni magari per anni prima che venga il momento di morire. Non posso. Nessuno potrebbe. Non è possibile.
Non posso respirare eppure sto respirando. Sono terrorizzato non posso pensare eppure sto pensando. Oh vi prego vi prego no. No no. Non sono io. Aiutatemi. Non posso essere io. Non io. No no no.
Oh vi prego oh oh vi prego. No no no vi prego no. Vi prego.
Non io."

La presa di coscienza di Johnny è molto lunga e dolorosa. Intervalla momenti del tempo presente (un letto d'ospedale di non sa dove) con momenti in cui ricorda il passato. Le persone e i momenti più importanti: la sua fidanzata Kareen e suo padre che permette loro di "dormire insieme" prima che lui parta per il fronte, la madre, la sorella, il padre e la sua morte.
"Ciao Joe."
"Ciao Kareen."
"Joe caro mio caro tienimi stretta. Metti a terra il sacco prendimi con tutte e due le braccia e tienimi stretta stretta. Prendimi con tutte e due le braccia. Tutte e due."
Tu nelle mie braccia le mie due braccia Kareen addio. Tutte e due le braccia. Kareen nelle mie braccia. Tutte e due. Le braccia le braccia le braccia. Continuo a svenire Kareen e non riesco a riprendermi. Tu fra le mie braccia Kareen. Tu fra tutte e due le mie braccia. Tutte e due le mie braccia. Tutte e due. Due
Io non ho più braccia Kareen.
Ho perduto le mie braccia.
Tutte e due le mie braccia le ho perdute Kareen tutte e due.
Le ho perdute.
Kareen Kareen Kareen.
Mi hanno amputato tutte e due le braccia.
Oh Cristo mamma dio Kareen Kareen Kareen tutte e due.
Oh Cristo mamma dio Kareen Kareen Kareen le mie braccia."

Il tempo di Johnny non è completamente cosciente. Si sente mordere da un topo e dopo lunghi momenti di dolore, paura e strazio comprende che si tratti di un incubo.
Incubi in cui immagina di essere morso da un topo. Di non potersi muovere mentre il topo lo divora, morso dopo morso. Incubi seguiti da risvegli in cui ha consapevolezza di aver sognato. E si trova a fare i conti con la difficoltà di distinguere sonno da veglia, privo com'è della maggior parte della sensibilità.
Trumbo magistralmente ci descrive il flusso di pensieri disarticolati di questa mente che non ha altro appiglio e punto di riferimento che sé stessa (non pensiamoci troppo, perché credo sia una delle cose più tremende a cui pensare).
"Sapeva che il topo era un sogno. Ne era sicuro. Tutto quel che doveva fare era di trovare un modo per scuotersi di dosso il sogno quando sarebbe venuto. Ricordava che da bambino aveva spesso degli incubi. Lo strano era che non erano poi particolarmente brutti. Il più brutto era quello in cui credeva di essere una formica che attraversava un marciapiede e il marciapiede era così grande e lui era così piccolo che si svegliava urlando tanto aveva paura. Era quello il sistema per interrompere un incubo di urlare così forte da svegliarsi. Ma ormai per lui non funzionava più accidenti. In primo luogo non poteva gridare e in secondo luogo era così sordo che non sentiva rumori di sorta. No non andava. Doveva trovare qualche altro sistema.
Ricordava che quando era un po' più grande e aveva degli incubi diversi era capace di pensare a se stesso al di fuori dell'incubo. Proprio nel momento in cui quella cosa spaventosa che lo inseguiva stava per afferrarlo egli riusciva a pensare nel sonno dai Joe non è altro che un sogno. Soltanto un sogno Joe hai capito? E poi di lì a poco avrebbe riaperto gli occhi e scrutato l'oscurità tutt'intorno e il sogno era svanito. Quel sistema avrebbe dovuto funzionare col topo. Invece di vedere se stesso che correva e chiamava aiuto la prossima volta che il topo fosse arrivato non aveva da far altro che dire a se stesso è soltanto un sogno. E allora avrebbe riaperto.
Ma neanche quello funzionava. Lui non poteva riaprire gli occhi. Nel sonno nel bel mezzo del sogno col topo poteva anche pensare a se stesso al di fuori del sogno ma come poteva dimostrare che era sveglio se non poteva aprire gli occhi e scrutare l'oscurità tutt'intorno?
Pensò cristo Joe ci deve essere un altro sistema. Pensò dopo tutto non chiedo molto se desidero semplicemente dimostrare che sono sveglio. Pensò forza Joe questo è l'unico sistema che hai per sconfiggere il topo e devi assolutamente sconfiggerlo perciò sarà meglio che ti sbrighi a trovare un modo per dimostrare se sei sveglio oppure no.
Forse era meglio cominciare dal principio. Adesso era sveglio. Ne era sicuro. Aveva appena sentito le mani dell'infermiera e le mani dell'infermiera erano reali. Perciò quando le sentiva era sveglio. Sebbene l'infermiera se ne fosse andata ormai era sempre sveglio perché stava pensando al sogno del topo. Se tu pensi a un sogno vuol dire che sei sveglio. Questo è abbastanza chiaro Joe. Sei sveglio. E stai cercando di liberarti di un sogno che farai appena ti addormenti. Non puoi cacciare un urlo per svegliarti perché non puoi gridare. Non puoi pensare a te stesso fuori dal sogno e poi dimostrare che il sogno è svanito riaprendo gli occhi perché non hai occhi. Meglio cominciare a pensarlo subito Joe ecco cosa devi fare comincia subito.
Nell'istante in cui senti che stai per addormentarti che ti senti come vacillare ti irrigidisci e dici a te stesso che non farai più sogni sui topi. Allora forse sarai così preparato che il sogno non verrà. Perché una volta che il sogno è venuto ci sarai dentro finché non ti svegli e non puoi essere sicuro di essere sveglio finché non senti le mani dell'infermiera. Non potrai essere assolutamente sicuro fino a quel momento. Così quando senti che stai per addormentarti pensa con tutte le tue forze che non farai quel sogno sui…
Un momento. Come fai a sapere che stai per addormentarti Joe? Che cosa ti dice che ad un certo punto hai sonno? Come si sente un uomo prima di cadere addormentato? Bé è stanco morto dal lavoro e si stende sul letto per riposarsi e si addormenta senza accorgersene. Ma questo non vale per te Joe perché tu non sei mai stanco tu stai a letto tutto il giorno. No non va bene. Bé forse gli bruciano gli occhi e sbadiglia e si stira e alla fine si sente chiudere gli occhi. Ma neanche questo va bene. I tuoi occhi non bruceranno mai più e tu non puoi sbadigliare non puoi stirarti e non hai palpebre per chiudere gli occhi. Tu non sarai mai stanco Joe. Tu non hai bisogno di dormire perché praticamente dormi tutto il tempo. Perciò come fai ad aver sonno? Se non puoi aver sonno non saprai mai quando stai per addormentarti. E se non sai quando stai per addormentarti non puoi prepararti in anticipo contro il topo.
Cristo che pasticcio. Era davvero in un bel pasticcio se non poteva nemmeno dire quando era sveglio e quando dormiva. E non vedeva nessuna soluzione.
(…)
Forse non c'era una soluzione. Forse era destinato a passare il resto della sua vita a cercar di indovinare se era sveglio o se dormiva. Come poteva dire bah credo che adesso mi metto a dormire oppure mi sono appena svegliato? Come faceva a saperlo? E un uomo ha bisogno di sapere. Era importante. Era la cosa più importante che gli fosse rimasta. L'unica cosa che aveva era una mente e gli sarebbe piaciuto sentire che sapeva ragionare con chiarezza. Ma come è possibile che una mente ragioni solo con un'infermiera accanto o con un topo addosso?"

Ma lentamente e con enorme fatica, Johnny riesce a prendere le misure.
Al topo, al sonno e alla veglia.
Trova punti di riferimento. Nel sole che ad orari precisi entra nella sua stanza e colpisce un piccolo lembo di pelle del suo collo. Nelle vibrazioni dei passi delle infermiere (sempre gli stessi per quella di giorno, diversi per quelle di notte).
Johnny ha il terrore di addormentarsi e di "perdere il conto" del tempo, ma alla fine riesce anche a "comunicare" – dimenandosi – all'infermiera di giorno che è "contento" della sua presenza.
Parallelamente a questo accenno di comunicazione, Johnny riflette su di sé e sulla sua condizione.
Non può fare altro e lo fa con grande lucidità.
Pensa.
Pensa alla guerra.
"Pensava eccoti qui Joe Bonham steso come un quarto di manzo appena macellato per tutto il resto della tua vita e per cosa? Ti hanno battuto una mano sulla spalla e ti hanno detto su ragazzo vieni andiamo alla guerra. E tu sei andato. Ma perché? In qualsiasi altro contratto quando compri una macchina o lavori sotto padrone hai il diritto di chiedere qual'è il mio guadagno?
(…)
Ci sono un sacco di leggi che proteggono il denaro di un uomo anche in tempo di guerra ma non c'è un libro che dica che la vita di un uomo gli appartiene.
Stavano sempre combattendo per qualcosa i bastardi e se uno osava dire al diavolo la guerra è sempre la stessa solfa tutte le guerre sono uguali e nessuno ce ne cava niente di buono allora ti gridano in faccia che sei un vigliacco. Se non combattevano per la libertà combattevano per l'indipendenza o la democrazia o la liberazione o la dignità o l'onore o la patria o per qualsiasi altra cosa che non significa niente. La guerra si faceva per salvare la democrazia nel mondo nei piccoli paesi in tutti gli uomini. Se la guerra fosse finita in quel momento allora la democrazia nel mondo sarebbe stata salva. Ma lo era davvero? E quale tipo di democrazia? E quanta? E di chi?
C'era poi questa liberazione per la quale la povera gente si faceva sempre ammazzare. Era la liberazione da un altro paese? Era la liberazione dal lavoro o dalla malattia o dalla morte? La liberazione dalla propria suocera? Caro signore lei ci deve fare il favore di prepararci una lista di tutte queste liberazioni prima che noi partiamo per andare a farci ammazzare. Lei ci deve stilare un bel contratto scritto in chiare lettere così che noi sappiamo in anticipo perché ci facciamo ammazzare e ci dia anche una qualche forma di garanzia per essere sicuri che quando avremo finalmente vinto la sua guerra otterremo proprio quel tipo di liberazione che c'era scritto nel contratto.
Prendiamo la dignità. Tutti dicevano che l'America stava facendo una guerra per il trionfo della dignità umana. Ma quell'idea di dignità di chi era? E per chi era? Ci dica ci spieghi bene signore di che dignità si tratta. Ci dica come mai un degno uomo morto si debba sentir molto meglio di un indegno uomo vivo. Faccia un confronto con dei fatti precisi come la casa e il tavolo. Ce lo spieghi con parole che possiamo capire. E non ci parli dell'onore. L'onore di un cinese o di un inglese oppure di un negro dell'Africa o di un americano o di un messicano? Io prego tutti coloro che vogliono combattere per salvare il nostro onore di farci capire cosa diavolo sia l'onore. Stiamo forse combattendo perché l'onore americano sia salvo in tutto il mondo? Ma forse al mondo non piace l'onore americano. Forse gli abitanti delle isole dei mari dei Sud preferiscono il proprio tipo di onore.
(…)
E quelli dicono ma come i principi sono più importanti della vita. E tu ah no forse saranno più importanti della tua vita ma non della mia.
(…)
Di gente che muore dalla voglia di sacrificare la vita degli altri ce n'è sempre e parlano parlano a voce alta parlano sempre. Li trovi nelle chiese nelle scuole sui giornali nei tribunali al parlamento. È il loro mestiere. Fanno discorsi fantastici. La morte ma non il disonore. Questa terra santificata dal sangue. Questi uomini che morirono così gloriosamente. Non saranno morti invano. I nostri nobili morti.
Uhmmm.
Ma i morti cosa dicono?
hmmm.
Ne è mai tornato indietro uno uno solo dei milioni che sono stati uccisi ne è mai tornato indietro uno a dire perdio sono contento di esser morto perché la morte è sempre meglio del disonore? Hanno detto sono contento di esser morto per salvare la democrazia nel mondo? Hanno detto preferisco la morte piuttosto che perdere la libertà? Uno di loro ha mai detto mi fa piacere pensare che mi hanno fatto scoppiare le budella per l'onore del mio paese? Uno di loro ha mai detto guardatemi sono morto ma sono morto in nome della dignità il che è molto meglio che essere vivo? Uno di loro ha mai detto eccomi qua che da due anni marcisco in una tomba straniera ma è meraviglioso morire per la madrepatria? Uno di loro ha mai detto urrà sono morto per amore delle donne e sono felice non sentite come canto anche se ho la bocca piena di vermi?
Solo i morti sanno se vale la pena o no di morire per tutte quelle cose di cui la gente parla. E i morti non possono parlare."

Neanche Johnny può parlare, ma è la cosa più vicina ad un morto che esista sulla Terra.
"Lui era un uomo morto con una mente che sapeva ancora pensare. Lui sapeva tutte le risposte che sapevano i morti ma loro non potevano più pensarle. Lui poteva parlare per i morti perché era uno di loro. Lui era il primo soldato fra tutti quelli morti dall'inizio dei tempi che avesse ancora una mente con la quale pensare. Nessuno poteva avere qualcosa da ribattere. Nessuno poteva dimostrare che si sbagliava. Perché nessuno sapeva tranne lui.

Lui poteva dire a tutti quei magniloquenti figlidiputtana assetati di sangue quale fosse esattamente il loro sbaglio. Lui poteva dire caro signore non c'è niente per cui valga la pena di morire io lo so perché io sono morto."

II – I Vivi.
La mente era l'unica cosa che gli era rimasta e doveva trovare il modo per servirsene.

Johnny riesce a misurare il tempo attraverso il calore del sole e i turni delle infermiere, ma non può fare altro. Ha una mente che funziona, ma non sa come usarla.
Cerca di ricordare libri, storie, nozioni apprese a scuola, ma ben presto tutto si rivela inutile.
Fino a che non ricorda qualcosa che può essergli utile.
Ricorda di conoscere il codice Morse e di avere un modo, una piccola possibilità, per usarlo.
Non ha braccia, non ha gambe, non ha occhi, orecchie e bocca, ma ha ancora una testa.
Può batterla sul cuscino per produrre punti e linee.
Lo fa.
"Nel suo cervello c'era un uomo normale con braccia gambe e tutto il resto. Era lui Joe Bonham intrappolato nell'oscurità del suo proprio cervello che correva freneticamente da una cavità auricolare all'altra dovunque ci fosse un buco nel cranio dal quale evadere. Come un animale inferocito cercava di farsi strada a martellate per scappare nel mondo al di là delle sbarre. Era intrappolato dentro la sua propria mente invischiato nei tessuti dalla sua materia grigia e scalciava si dibatteva gridava di farlo uscire."
Ma la sua amata infermiera di giorno, quella che risponde con carezze gentili ai suoi piccoli movimenti di entusiasmo, non capisce. Non capisce quei colpi ritmici e ripetuti sul cuscino.
Peggio.
Si spaventa.
Pensa che quei movimenti siano manifestazioni di dolore.
Ed avvisa un dottore che non trova di meglio da fare che sedare Johnny.
Il nostro perde di nuovo la nozione del tempo e tutti i progressi enormi che sentiva di aver fatto.

La frustrazione e la disperazione di Johnny sono enormi e – anche qui – penso che siano solo lontanamente immaginabili. Non di meno, pare che per una volta, il destino non si accanisca troppo contro di lui.
Arriva un'infermiera nuova.
"La nuova infermiera era l'ultimo appello che gli veniva concesso l'unica piccola occasione di tutte le ore i mesi e gli anni della sua vita.
Irrigidì i muscoli del collo e si preparò ancora una volta a battere la testa contro il cuscino. Ma accadde un'altra cosa strana che lo costrinse a fermarsi. Lei gli aveva slacciato la camicia da notte e gliela aveva aperta sul petto. Poi aveva cominciato a muovere la punta del dito sulla pelle del suo petto. Per un momento rimase sconcertato incapace di capire che cosa lei stesse facendo. Poi concentrandosi con tutte le sue forze cominciò a capire che il dito dell'infermiera non si muoveva qua e là senza scopo. Stava bensì facendo un disegno sulla sua pelle. Continuava a ripetere sempre lo stesso disegno più e più volte. Capì che c'era un intendimento dietro quella ripetizione e si protese tutto nel cercare di scoprirlo. Come un cane volonteroso che ascolta la voce del padrone e si sforza di star buono e di capire lui si tese tutto per cercare di capire il disegno che l'infermiera stava facendo.
La prima cosa che notò fu che il disegno aveva due curve. Poi individuò anche una linea retta. Anzi cominciava con una linea retta dal basso in alto e poi si muoveva verso destra disegnando una specie di cerchio o meglio un semicerchio e immediatamente sotto di nuovo un altro semicerchio e poi si fermava. L'infermiera ripete il disegno più e più volte ora lentamente ora rapidamente e poi ancora una volta rapidamente. Di tanto in tanto si fermava alla fine di un disegno e per quella strana forma di comprensione che si era stabilita tra loro due lui sapeva che quelle pause erano punti di domanda che lei lo stava guardando e gli chiedeva se avesse capito e aspettava la risposta.
Tutte le volte che lei si fermava lui scuoteva la testa e allora lei ripeteva il disegno un'altra volta e nel bel mezzo di questa paziente ripetizione improvvisamente la barriera che li separava si ruppe. In un lampo di intelligenza a un tratto capì cosa lei stesse facendo. Stava tracciando sul suo petto la lettera B. Annui subito con la testa per dirle che aveva capito e lei gli diede dei colpetti con la mano sulla fronte come per incoraggiarlo come per dirgli bravo sei in gamba ce l'hai messa tutta e hai capito come impari presto. Poi riprese a tracciare altre lettere.
Le altre lettere furono più facili da individuare perché ormai lui aveva capito di cosa si trattava. Inarcò il petto per tendere la pelle e ricevere meglio l'impronta del dito di lei. Per certe lettere non ci fu bisogno di ripetere il disegno tanto lui era svelto ad afferrarle. Capi la lettera U e fece cenno di sì con la testa la lettera O e annuì e infine la N annuì e poi ci fu una lunga pausa. Il resto delle lettere gli si stampò nella mente con l'irruenza di un torrente.
C'era ancora la N e poi la A e la T e la A e la L e la E e tutto insieme voleva dire buon natale.
Buon natale buon natale buon natale.
Adesso capiva. La vecchia infermiera era andata via a passare le vacanze di natale e la nuova infermiera questa giovane simpatica bella comprensiva nuova infermiera gli augurava buon natale. Annuì in risposta freneticamente e il suo annuire diceva buon natale a te buon natale oh un felice felice natale.
Pensava tra sé in una sorta di isterica felicità quattro anni forse cinque forse sei anni non so bene quanti ma sono stato solo per tutti questi anni. Pensava tutta la mia fatica è perduta tutto il mio lavoro per tener conto del tempo è andato perso ma non mi importa perché non sono più solo. Tutti quegli anni anni e anni che era stato solo e adesso per la prima volta qualcuno rompeva il silenzio qualcuno gli parlava gli diceva buon natale. Era come una bianca luce accecante nel mezzo delle tenebre. Era come un grande magnifico suono nel mezzo del silenzio. Era come un'enorme risata nel mezzo della morte. Era natale e qualcuno aveva rotto il silenzio e gli augurava buon natale.(…)
ERA STATO RIPORTATO NEL MONDO."

Quello che l'infermiera "nuova" ha fatto – scrivere lettere sulla pelle di un paziente - si chiama grafestesia e – da umile logopedista – erano pagine e pagine che lo "suggerivo" con crescente rabbia e frustrazione (anch'io come Johnny). Devo ammettere che è stato uno dei momenti più commoventi degli ultimi anni.
Anche per Johnny.
"Era come se tutta la popolazione del mondo tutti quei due miliardi di persone si fossero messi contro di lui premendo sul coperchio della bara calpestando con cura la terra che la ricopriva buttandoci sopra grosse pietre perché stesse per sempre sotto. E tuttavia lui si era alzato. Aveva scoperchiato la bara aveva scosso la terra aveva scaraventato lontano le pietre come fossero palle di neve e adesso era riemerso alla superficie della terra respirava l'aria pura correva per il mondo e ogni salto erano miglia. Nessun altro al mondo era come lui. Aveva fatto così tanto che era diventato simile a dio."
Ma è solo il primo passo.
Johnny riprende il suo battito e l'infermiera nuova capisce che sta cercando di dire qualcosa.
Probabilmente non comprende il codice MORSE, così corre alla ricerca di qualcuno che possa aiutarli. Rapidamente trova questo qualcuno.
"Che cosa vuoi?" batte un dito sulla fronte di Johnny.
Johnny piomba nel panico. Che cosa può volere?
Al panico si assomma ulteriore panico, perché teme che, se non riuscirà a rispondere, perderà quell'unica, preziosissima, faticosissima possibilità di comunicare.
E poi la soluzione arriva.
"Fatemi uscire trasmetteva fatemi uscire di qui fatemi uscire."
Johnny vuole uscire ed essere visto dal maggior numero di persone possibile.
Vuole diventare un monito vivente per gli uomini, vuole mostrare oltre ogni dubbio e retorica, l'orrore della guerra.
"Sarebbe stato uno spettacolo educativo. La gente non avrebbe imparato certo l'anatomia da lui ma avrebbero cominciato a capire qualcosa sulla guerra. Era un'idea grandiosa concentrare la guerra in un unico moncone di uomo e mostrarlo alla gente perché vedesse la differenza che passa tra la guerra come la descrivono nei giornali e nelle campagne di propaganda per i prestiti di guerra e la guerra che viene combattuta nel fango soli contro le bombe. Improvvisamente si infiammò all'idea (…) avrebbe messo un cartello sopra di sé un cartello che diceva ecco la guerra concentrando in una massa di carne ossa e capelli tutto l'orrore della guerra in modo tale che nessuno l'avrebbe mai più scordato finché viveva.
(…)
Chiamate tutti i giovanotti e dite loro ecco vostro fratello ecco il vostro migliore amico eccovi voi stessi. Questo è un caso molto interessante signori miei perché c'è una mente sepolta là dentro. Tecnicamente questa cosa è solo un pezzo di carne viva come quel tessuto che abbiamo tenuto in vita l'estate scorsa in laboratorio. Ma è un tipo di carne diversa perché contiene un cervello. Ora statemi bene a sentire signori. Questo cervello pensa. Forse in questo momento sta pensando alla musica. Magari ha composto tutta una meravigliosa sinfonia o ha elaborato una formula matematica che potrebbe cambiare la faccia della terra o ha in mente un libro che renderebbe gli uomini più buoni o contiene il germe di un'idea che salverebbe milioni di persone dal cancro. È un problema di grande interesse miei giovani signori perché se questo cervello contiene simili segreti come potremo mai scoprirli? In ogni caso guardatelo quest'uomo siete voi quest'uomo che respira e pensa e che è morto come una rana sotto il cloroformio con lo stomaco aperto per controllarne il battito del cuore lento e debole ma sempre vivo. Ecco il vostro futuro e i vostri dolci sogni a occhi aperti questa è la cosa che le vostre ragazze amarono questa è la cosa che i vostri maestri vi spronarono a diventare. (…)
Portatemi davanti ai parlamenti alle assemblee ai congressi e ai consigli di stato. Voglio essere là quando parlano di onore e di giustizia e di salvare la democrazia nel mondo e fanno appello ai diritti dell'uomo e all'autodeterminazione dei popoli. Voglio essere là per ricordare loro che io non posso protestare perché non ho più lingua e non ho più bocca. Ma gli statisti ce l'hanno la lingua. E anche la bocca. Mettete la mia cassa di vetro sul tavolo dell'oratore così che ogni volta che lui ci batte sopra il martelletto io possa sentirne le vibrazioni. Poi lasciateli pure parlare di politica economica di embarghi di nuove colonie e di vecchi rancori. Lasciateli pure discutere della minaccia della razza gialla e delle responsabilità dell'uomo bianco verso la gente di colore e delle sorti dell'impero e del perché bisogna smontare il gioco della Germania adesso o di qualsiasi altra Germania futura. Lasciateli parlare del mercato sudamericano da dove il tal-dei-tali ci vuole estromettere e della nostra marina mercantile che non può competere e che diamine mandiamo una bella nota diplomatica molto seccata. Lasciateli parlare della necessità di aumentare le munizioni gli aeroplani le navi da guerra i carri armati e le riserve di gas perché naturalmente sono tutte cose che bisogna avere non si potrebbe vivere senza come diavolo faremmo a proteggere la pace senza le armi? Lasciateli formulare blocchi e alleanze e patti di mutua assistenza e garanzie di neutralità. Lasciateli scrivere note e ultimatum e proteste e accuse.
Ma prima della votazione prima che diano l'ordine a tutti i piccoli uomini di cominciare a uccidersi l'un l'altro dite all'oratore di battere il martelletto sulla mia cassa e indicandomi a dito pronunci le seguenti parole questo signori è l'unico problema che questo consiglio deve risolvere voi siete per questa cosa o siete contro? E se sono contro bé perdio lasciate che si alzino in piedi da veri uomini e votino. E se sono a favore impiccateli affogateli squartateli e mandateli in giro per le strade tagliati in tanti piccoli pezzi e poi buttateli in mezzo ai campi dove nessun animale decente oserà toccarli e lasciate che i loro resti marciscano là e non lasciateci crescere neanche un filo d'erba.
Portatemi nelle vostre chiese nelle vostre grandi imponenti cattedrali che devono essere ricostruite ogni cinquant'anni perché vengono distrutte dalla guerra. Portatemi dentro la mia cassa di vetro giù per la navata dove re preti spose e bambini da cresimare sono passati tante volte prima di baciare la scheggia di legno di una vera croce sulla quale fu inchiodato il corpo di un uomo che ebbe la fortuna di morire. Mettetemi alto sui vostri altari e invocate dio perché il suo sguardo scenda sui suoi poveri figli assassini i suoi cari adorati figli. Spargete su di me l'incenso che non posso sentire. Fatemi tracannare il vino sacramentale che non posso gustare. Biascicate preghiere che non posso udire. Compite gli antichi riti sacri che io non posso compiere senza braccia e senza gambe. Cantate in coro l'alleluia che io non posso cantare. Cantate cantate forte per me i vostri alleluia tutti i vostri alleluia per me perché io conosco la verità e voi no sciocchi.
Sciocchi sciocchi sciocchi…"

Avrei voluto che finisse qui.
In questa delirante ubriacatura di libertà, comunicazione, vittoria della mente.
Con un messaggio universale, giusto, che arriva attraverso il canale più improbabile e desiderato che si possa immaginare.
E invece, purtroppo, abbiamo anche la risposta.
Di un bravo dottore, sicuramente luminare, che con un dito batte la risposta sulla fronte di Johnny.
La risposta è:

"QUELLO CHE CHIEDI È CONTRO I REGOLAMENTI."

La risposta più stupida, gretta e meschina che si potrebbe dare e che più o meno tutti abbiamo sentito nei momenti meno opportuni. Difficilmente meno opportuni di questo, ma poco importa.
La reazione di Johnny e rabbiosa prima, disperata poi.
Capisce di voler essere dimenticato per il troppo orrore che ispira.
Capisce di aver coltivato una speranza destinata a naufragare.
"Adesso l'aveva fatto. Aveva comunicato con l'esterno e loro l'avevano rifiutato. Prima anche nei momenti più terribili c'era stata una vaga speranza a sostenerlo. Una speranza che gli aveva impedito di diventare pazzo furioso che aveva brillato in lontananza come una luce verso la quale non aveva mai smesso di muoversi. Adesso la luce non c'era più e non era rimasto niente. Era inutile farsi altre illusioni. Questa gente non lo voleva. Oscurità abbandono solitudine silenzio e orrore senza fine - ecco cosa sarebbe stata la sua vita da quel momento in avanti senza un singolo raggio di speranza a illuminare le sue sofferenze. Ecco che cosa lo aspettava. Era per questa vita che sua madre l'aveva generato."

Alla fine, però, Johnny comprende che la verità è un'altra.
Non è che gli uomini non lo vogliano per l'orrore che ispira loro.
Il motivo è un altro.
Un motivo che induce Johnny a ricominciare a battere il suo messaggio con la testa sul cuscino.
Anche mentre viene nuovamente sedato per impedirglielo.
E improvvisamente capì. Ebbe una visione di se stesso come un nuovo tipo di cristo che porta dentro di sé tutti i germi di un ordine nuovo delle cose. Era il nuovo messia dei campi di battaglia che diceva alla gente così come io sono sarete anche voi. Perché lui aveva visto il futuro l'aveva provato e adesso lo stava vivendo. Aveva visto gli aeroplani volare nel cielo aveva visto i cieli del futuro neri di aeroplani e ora vedeva tutto l'orrore che stava al di sotto. Vedeva un mondo di innamorati divisi per sempre di sogni mai consumati di progetti mai realizzati. Vedeva un mondo di padri morti e di fratelli storpi e di figli impazziti e urlanti. Vedeva un mondo di madri senza braccia che si stringevano al petto bambini senza testa cercando di urlare il loro dolore con gole incancrenite dal gas. Vedeva città affamate nere fredde e immobili e in questo terribile mondo le uniche cose che potevano muoversi o fare un suono erano gli aeroplani che annerivano il cielo e lontano all'orizzonte il tuono dei cannoni e il fungo di fumo che si leva dalla sterile terra torturata quando esplode una bomba.
Era così l'aveva capito ormai c'era arrivato lui aveva confidato il suo segreto e quelli rifiutandolo gli avevano rivelato il loro.
Lui era il futuro l'immagine perfetta del futuro e avevano paura che qualcuno vedendolo scoprisse questo futuro. Avevano già cominciato a guardare davanti a sé a prospettarsi gli anni a venire e sapevano che presto ci sarebbe stata un'altra guerra. Per fare la guerra avevano bisogno di uomini e se gli uomini conoscono il futuro non vogliono più combattere. Così mascheravano il futuro lo avevano fatto diventare un tranquillo e dolce segreto. Sapevano che se la povera gente tutti i piccoli uomini avessero letto nel futuro avrebbero cominciato a fare domande. Avrebbero fatto delle domande e avrebbero trovato le risposte e avrebbero detto a quelli che li volevano far combattere voi siete degli ipocriti dei ladri e dei figli di puttana e noi non combatteremo noi non moriremo noi continueremo a vivere siamo noi il mondo siamo noi il futuro e non vi permetteremo di mandarci al macello qualunque cosa diciate qualunque discorso facciate qualunque slogan inventiate. Ricordatevelo bene siamo noi noi noi siamo il mondo siamo noi che lo facciamo andare avanti siamo noi che facciamo il pane e i vestiti e i cannoni siamo noi le ruote del carro e il carro stesso e senza di noi sareste nudi come vermi e noi non moriremo. Noi siamo immortali noi siamo la fonte della vita noi siamo la spregevole brutta povera gente noi siamo i grandi meravigliosi fantastici abitatori di questo mondo e noi ne abbiamo abbastanza non ce la facciamo più noi abbiamo chiuso con questa storia per tutti i secoli futuri perché noi siamo il presente vivo e non ci lasceremo distruggere.
Se voi fate una guerra se ci sono cannoni da puntare se ci sono pallottole da sparare se ci sono uomini da uccidere non saremo noi quegli uomini. Non saremo noi quegli uomini noi che coltiviamo il grano e lo trasformiamo in cibo che facciamo i vestiti e la carta e le case e le tegole che costruiamo le dighe e le centrali elettriche e stendiamo i lunghi frementi fili dell'alta tensione noi che dal petrolio grezzo caviamo una dozzina di prodotti che facciamo le lampadine e le macchine da cucire e i badili e le automobili e gli aeroplani e i carri armati e i cannoni oh no non saremo noi quelli che moriranno. Sarete voi."

Come "Furore".
Da leggere nelle scuole.
Tutte.
(Da sentire anche "One" dei Metallica)

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    25 Giugno, 2015
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Il Gigante Invisibile.

Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo – Ken Kesey, 1962

SPOILER (abbastanza lieve)

La scienza ci insegna che non c'è situazione patologica, a livello mentale, che non sia suscettibile di un miglioramento, pur minimo. Kesey, invece, ci riporta l'eterna lezione di Terenzio:
"Homo sum, humani nihil a me alienum puto." (Sono un uomo. Niente di umano mi è estraneo).

Documentandomi un po' per scrivere questa recensione, ho scoperto che probabilmente siamo rimasti in due, nell'emisfero occidentale a non aver visto "Qualcuno volò sul nido del cuculo". Io e l'autore del libro, Ken Kesey.
Il tutto era per dire che leggo McMurphy e non vedo la faccia di Jack Nicholson.
E forse è stato un bene.
(Nel frattempo ho provveduto. Il film è molto bello e Nicholson è perfetto, ma rispetto al libro perde a peculiarità del punto di vista del narratore, che, a mio avviso, è la genialità del libro).

Il romanzo è ambientato in un ospedale psichiatrico, vi sono pazienti "acuti" e "cronici", e un nuovo arrivo, Patrick McMurphy, che – forse – non è pazzo davvero, ma finge di esserlo per scontare una condanna più lieve. Nell'ospedale ci sono medici, infermiere ed inservienti, ma impera e domina la capoinfermiera Ratched.
L'esperienza quotidiana ci fa spesso incocciare in anonimi "cattivi" (sempre la solita "banalità del male" della Harendt).
Il "tipo" miss Ratched credo che sia uno dei più comuni e pervicaci.
"Ha la faccia sorridente, compassionevole, paziente e al contempo disgustata… un'espressione dovuta al tirocinio." È sorprendentemente vero.
La prima cosa che ti dicono, al tirocinio, è: non guardare in faccia le persone, altrimenti poi ti chiedono cose.
Poi sta a te decidere se dare retta o meno.
Senza grande sforzo mi vengono in mente una dozzina di miss Ratched.
Probabilmente c'è un qualche involontario (?) meccanismo sociale che addestra e sforna a ciclo continuo questi "cattivi". Con poche qualità, scarsa intelligenza, nessuna fantasia, nessuna eccellenza, e un potere piccolo piccolo (bidelli, uscieri, impiegati delle poste, dell'anagrafe, segretari…)
Avrei anche qualche remora linguistica a definirli "cattivi".
Perché i cattivi dovrebbero essere Moriarty, il Cardinale Richelieu, Mordred e Morgana, Jocker, Lecter, Loki, Lucifero, insomma… personaggi intelligenti, scaltri ed astuti. I cattivi tipo la Ratched, secondo me, stanno meglio nella categoria "idioti"; che è immensamente più pericolosa di quella dei cattivi.
Sono imprevedibili perché non hanno una logica.
Per dirne una.
Sono tanti, per dirne un'altra.
Anyway.
Di Miss Ratched ci cale assai poco, perché altrimenti questo sarebbe un banale librotto già visto e già letto in cui ci sono un gruppo di infelici, vessati da un idiota sadico, che ottiene infine la "libertà".
Invece non è così. Il paragone più calzante è forse con "L'Attimo Fuggente" di Peter Weir, dove abbiamo un potere ottuso (rettore/Ratched), un elemento esterno che rompe l'equilibrio (Keating/McMurphy), l'elemento più fragile (Neil/Billy,Cheswick) che si suicida, quello più forte che riesce in qualche modo a trovare la forza di cambiare (Nuanda/Harding) e quello apparentemente più debole e da cui meno te lo aspetti (Tod/ Grande Capo Bromden) che davvero recepisce l'insegnamento e "svolta".
Già visto?
No, perché qui siamo in un manicomio e la voce narrante della storia non è l'elemento esterno, ma una voce interna, piccola e a lungo completamente muta, quella di "Grande Capo" Bromden.
Il protagonista che emerge non è McMurphy, ma Bromden.
Nativo americano, forte e colossale, è una creatura mite e spaventata; da anni in manicomio, si finge sordo e muto, e viene ribattezzato "ramazza" per l'abitudine degli inservienti a dargli una scopa in mano e lasciare che lui svolga il loro lavoro.
Un po' per caso e un po' per desiderio sto incontrando molti tentativi di narrazione attraverso personaggi con malattia o ritardo mentale o che in qualche modo e per cause diverse vivono una percezione alterata della realtà (viene anche citato, in qualche modo il Ben di Faulkner, proprio attraverso miss Ratched "la nostra cara capoinfermiera è una delle poche che hanno il coraggio di difendere la grande e antica tradizione faulkneriana nella terapia dei rifiuti dell'equilibrio mentale: la Bruciatura del Cervello").
Il tema è complesso e rendere in prosa un malato di mente è una sfida che si può approcciare da molteplici punti di vista e con innumerevoli stili.
Dove Faulkner spezzava e ripeteva, Kesey sceglie di unire e di dare un filo continuo alla narrazione del suo personaggio. Di dargli uno stile articolato e fluente. Logico e preciso.
Senza mai fornire, però, il punto di vista "reale" ed oggettivo.
Siamo noi "lettore" a dover capire che cosa sia realtà e cosa allucinazione; cosa mania e cosa concretezza. Se la nebbia che Bromden vede nei corridoi e i pavimenti che si inclinano siano incubo, delirio o realtà, se ci siano davvero cavi nei muri, microfoni sotto la pelle e similia.
La narrazione di Bromden ci porta avanti ed indietro fra reale ed immaginario e fra presente e passato, attraverso le tappe della sua vita che lo hanno portato da una riserva indiana al manicomio.
Emblematico l'episodio in cui "i bianchi" si comportano come se lui, bambino, non esistesse, non parlasse, non fosse lì davanti a loro. Analogamente viene privato anche del suo nome, che non viene quasi mai usato dal personale dell'ospedale, sostituito da "Ramazza".
E privare qualcuno del suo nome non è certo una tecnica di annientamento originale.

Fin da giovane, il nostro protagonista capisce che l'unico modo per salvarsi è diventare invisibile. E scopre presto che essere invisibile, nonostante le sue dimensioni, gli riesce facile.
Finisce all'ospedale psichiatrico, luogo perfetto per l'invisibilità, e finge di essere sordo e muto e viene lasciato in pace.
Per anni.
L'invisibilità è comoda sia per chi sparisce, che per chi non vede.
L'arrivo di McMurphy turba questo equilibrio, perché, di fatto, costringe Bromden, ad uscire dal suo isolamento e dalla sua invisibilità.
E gli altri a "vederlo".
Le riflessioni del nostro narratore, a questo punto, sono molto lucide. Teme che schierandosi dalla parte di McMurphy, gli altri (e la "Cricca") capiranno che in realtà sente e può parlare, nonostante questo decide di farlo.
Decide di farlo (e secondo me è la parte più importante e toccante del libro) perché McMurphy, che non è un eroe, non è un santo e neppure un filantropo, gli restituisce (non so quanto volontariamente) una parvenza di umanità. E soprattutto, gli fa vedere che può esistere qualcosa di più e di meglio che essere invisibile.
La chiave è qui.
Non è McMurphy, non è Miss Ratched.
Bromden si delinea a poco a poco, emergendo dalla nebbia e dal silenzio.
Alza una mano.
Si alza, di notte, per andare a guardare un cane, fuori dalla finestra.
Risponde a McMurphy.
Parla.
E per ricambiare un suo provvidenziale voto, McMurphy gli regala qualcosa di inestimabile:
" Notai vagamente che stavo cominciando a intravedere qualcosa di piacevole nella vita intorno a me. McMurphy mi aveva fatto da maestro."
Una giornata di all'aperto, in barca. Tornare "a casa" stanchi.
E poi, ancora di più, quasi alla fine.
"Mentre seguivo gli altri, mi accadde di pensare, con una sorta di improvviso stupore, che ero ubriaco, effettivamente ubriaco, ubriaco al punto da esultare, da sorridere e barcollare per la prima volta da quando avevo fatto il soldato, ubriaco insieme a una mezza dozzina d'altri amici e a un paio di ragazze - proprio nella corsia della Grande Infermiera! Bevuto, correvo e ridevo e facevo baldoria con donne al centro della più potente fortezza della Cricca! Ripensai a quella notte, a quello che avevamo fatto, e mi fu quasi impossibile crederlo. Dovetti seguitare a rammentare a me stesso che era accaduto davvero, che lo avevamo fatto accadere. Avevamo appena aperto una finestra e fatto entrare le ragazze come si fa entrare aria pura. Forse, tutto sommato, la Cricca non era poi onnipotente. Che cosa avrebbe potuto impedirci di ricominciare daccapo, dopo aver constatato che era possibile? O impedirci di fare altre cose che avessimo voluto? Mi sentii così felice, pensando a questo, che lanciai un urlo, mi precipitai su McMurphy e la ragazza Sandy, i quali mi stavano precedendo, li sollevai entrambi di peso, uno in ciascun braccio, e corsi fino alla sala comune con loro due che strillavano e scalciavano come bimbetti. Fino a questo punto ero felice."
Il punto più commovente è che Bromden, qui, non parla più di "acuti" o "cronici" come ha fatto fino a quel momento. Non parla di pazienti, parla di "amici". Amici con cui a realizzato delle cose.
Belle.
Più belle che essere invisibile.
Certo potremmo dire che non è normale, prendere sottobraccio un uomo e una donna e portarli in giro sgambettanti come bambini. Però forse essere uscito dalla nebbia ed essere tornato visibile costringe ad azioni un tantino "anormali". Riappropriatosi dei propri contorni, della propria umanità e di un linguaggio in cui trovano posto la lealtà, l'amicizia e la libertà, Bromden si avvia ad un finale molto potente in cui dovrà dare l'addio al suo "maestro" nel modo più drammatico e si conquisterà la libertà vera nel modo più eroico, superando lo stesso maestro.
Da leggere.

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Uomini e Topi, Fiori per Algernon, L'urlo e il Furore... ed in genere è interessato ad un punto di vista narrativo "altro" (in questo caso un disabile mentale).
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    24 Giugno, 2015
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Fosse anche solo per Ben (Capitolo I)...

William Faulkner – L'Urlo e il Furore – 1929

Spoiler (lieve)

Scrive W. Faulkner, al suo editore, nel 1946:
"Quando ristamperai L’urlo e il furore, avrò una parte nuova da aggiungere. Quando l’avrai letta, vedrai che è la chiave di tutto il libro".
Nota della (mia) edizione Einaudi:
"Faulkner voleva che l’Appendice fosse la prima parte del libro, e al primo posto essa figurò nelle prime edizioni, ma successivamente fu collocata alla fine. Studiosi e critici l’hanno spesso trattata come una parte integrante del romanzo, anche se molti la considerano separata e distinta da L’urlo e il furore, come entità romanzesche separate e distinte sono gli altri racconti sulla famiglia Compson."

Faulkner dice "mettiamola all'inizio", ma in fondo, perché dargli retta?
Quindi la parte "nuova" una sorta di albero genealogico della famiglia Compson, che – di fatto – ti permette di capire i primi due (su quattro) capitoli dell'opera, l'edizione italiana in mio possesso la mette simpaticamente in fondo, perché dar retta al parere dell'autore, in fondo?
Sfortuna ulteriore, mi è capitata l'edizione vecchia con traduzione di Augusto Dauphiné, sembra letta da Pieraccioni da quanto l'è tutto un toscanismo.

Quindi abbiamo il primo capitolo in cui ho capito che la voce narrante è un personaggio con ritardo mentale, che si chiama Benjamin, che ha fratelli (due o tre?), una sorella, alcune persone che si occupano di lui, madre, padre. C'è anche un personaggio che si chiama Quentin. Che a volte è femmina e a volte è maschio.
Ok.
Avevo letto che non era un libro per tutti e son sul punto di piantar lì, evidentemente non sono all'altezza. Poi per pura combinazione apro il reader alla pagina sbagliata e… ma guarda!
L'appendice.
Ma guarda. I Quentin sono due, un maschio e una femmina. Scema io a non capirlo nel flusso di coscienza di un personaggio con ritardo mentale. E anche Faulkner che aveva pensato di dare una mano ai suoi lettori meno dotati.
Fa niente, basta polemiche.

Rileggo dall'inizio e mi godo appieno un enorme romanzo.
Quattro capitoli, quattro date, quattro narrazioni di quattro personaggi diversi; tre membri della famiglia Compson (Ben, Quentin-maschio, Jason) e la loro governante Dilsey (narrazione in terza persona).
I primi due capitoli, meno organici dal punti di vista narrativo, sono "flusso di coscienza" di Ben e di Quentin (maschio), poi con Jason la narrazione si fa più classica.
Il capitolo, secondo me, più "forte" è proprio il primo. Il flusso di coscienza di Ben.
Qui, in effetti, il punto non è proprio capire tutto quello che succede, ma il tentativo – a mio avviso riuscito e assai raro – di descrivere la percezione della realtà da parte di un disabile mentale. Ben non riesce a filtrare gli stimoli che incontra e a dare loro un ordine, neppure a livello percettivo. Tutto è contemporaneo ed immediato odori e suoni, tatto e gusto, presente e ricordi.
È un tentativo coraggioso, raro e secondo me riuscito.
Altri autori che abbiano tentato questo difficile percorso con pari intensità… mi viene in mente solo (spero per ignoranza mia) Daniel Keyes in "Fiori per Algernon" (e se qualcuno non l'ha letto, corra immediatamente a porre rimedio!), ma con approccio completamente diverso. Poi ci sono alcuni pezzi di McEwan (L'inventore dei sogni, quando viene descritta la difficoltà del gatto e del bimbo piccolo a focalizzare l'attenzione), Bill James (in Protezione alcuni capitoli sono resi dal punto di vista di un ragazzino con ritardo mentale), Haddon (Il caso del cane ucciso a mezzanotte, ma qui abbiamo una Sindrome di Asperger e non un ritardo mentale).
Però questo primo capitolo di Faulkner è davvero straordinario.
Una sorta di arazzo proustiano, però strappato e smagliato in più punti, tenuto insieme solo da una prosa involuta, ripetitiva che procede e ritorna, sbanda e si arresta.
Bon, non meniamo il can per l'aia.
Nel 1949 Faulkner ha vinto il premio Nobel per la letteratura.
Avesse scritto "solo" il primo capitolo di "L'Urlo e il Furore" se lo sarebbe meritato ugualmente, secondo me.

Nel secondo capitolo abbiamo lo stream of consciousness di Quentin (maschio); che… mah sarà che venivamo dal capitolo precedente, che è stato sublime, sarà che non mi ha appassionato né il personaggio di Quentin né quello del suo amore, mi ha lasciato abbastanza indifferente.
Il terzo è molto più "classico", come impianto, e ci riporta la narrazione di Jason.
Il cinico, sarcastico e brutale Jason.
Che fra una madre lagnosa ("sono un tale peso per te, per fortuna fra un po' morirò…"), un padre alcolizzato, uno zio spiantato e con manie di grandezza, una sorella ninfomane, un fratello incestuoso e l'altro ritardato, una nipote di facili costumi & ladra, la vecchia governante che pretende di comandare in casa sua e la coorte dei di lei figli e nipoti… insomma qualche motivo per essere cinico, sarcastico e brutale forse forse ce l'aveva pure lui.
Ma può essere semplicemente la mia ben nota stima per i personaggi del fare e l'idiosincrasia per quelli più "donferranteschi". Osservo di passata che – anche qui – i personaggi femminili son veramente notevoli.
In negativo.
Soprattutto il perno della vicenda, l'ineffabile Candance (Caddy); è interessante come il personaggio di declina e si definisce nel passare dalla narrazione di Ben, a quella di Quentin e a quella di Jason.
Ho invece letto che nel film (tratto dal romanzo dal regista Martin Ritt, nel 1959, che non ho ancora visto), l'io narrante è Quentin-femmina (la figlia di Candance). Ciò mi incuriosisce assai e mi sa che presto colmerò la lacuna.
Adesso leggo "Luce d'Agosto".
Sì, colmare questa lacuna è stato doveroso.
E piacevole.

Prendo congedo con parte del discorso di Faulkner in occasione della consegna del Nobel:
"I decline to accept the end of man. It is easy enough to say that man is immortal simply because he will endure: that when the last dingdong of doom has clanged and faded from the last worthless rock hanging tideless in the last red and dying evening, that even then there will still be one more sound: that of his puny inexhaustible voice, still talking.
I refuse to accept this. I believe that man will not merely endure: he will prevail. He is immortal, not because he alone among creatures has an inexhaustible voice, but because he has a soul, a spirit capable of compassion and sacrifice and endurance. The poet’s, the writer’s, duty is to write about these things. It is his privilege to help man endure by lifting his heart, by reminding him of the courage and honor and hope and pride and compassion and pity and sacrifice which have been the glory of his past. The poet’s voice need not merely be the record of man, it can be one of the props, the pillars to help him endure and prevail."
Vero che l'aveva detto anche Foscolo, ma non dispiace risentirlo.

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Tutti. Ma leggendo PRIMA la prefazione.
Come voleva Faulkner.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    24 Giugno, 2015
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Non siamo i primi.

SPOILER

The Grapes of Wrath - più o meno "le vigne della rabbia" tradotto in italiano con "Furore" - esce nel 1939 (fra parentesi, fino al 2013, l'unica traduzione italiana disponibile è stata quella di Carlo Coardi datata 1940, densa di toscanismi e soggetta alla "revisione" del regime fascista. Pare impossibile, ma per 73 anni è andata bene quella).
Steinbeck narra la storia di una famiglia di agricoltori – i Joad – rovinati da intemperie varie e – soprattutto – dalla crisi economica e della loro migrazione dall'Oklahoma alla California.
Questa storia, pur scolpendo personaggi che ti rimangono dentro la mente quasi "a forza" (la mamma, Tom, il nonno, Zio John, Noè, Sairy Wilson, Casy…), diventa quasi subito una tragedia universale dell'umanità.
Una tragedia greca calata in un esodo biblico.
Il tutto scritto da Steinbeck.
Con le sue frasi brevi. Virgola - punto e virgola - punto. Mai una parola di troppo, mai l'effetto facile. Mai la lacrima in tasca (anche quando – oh sì – ne avresti proprio bisogno), mai un sospiro di sollievo. Steinbeck si "concede" molto in questo romanzo, appare, qua e là (a volte si prende interi capitoli, in mezzo alla narrazione) e fa il coro della tragedia greca. Ti mette una mano sotto il mento e ti costringe ad alzare la testa.
A guardare.
Non è la famiglia Joad quello che stai leggendo. È l'umanità. Sei tu.
Qui hai i bambini che muoiono di fame, dall'altra parte del recinto stanno bruciando le arance per tenere alti i prezzi. Se qualcuno si avvicina per prenderle gli sparano. Se non le bruciano le cospargono di petrolio, in modo che, se anche qualcuno riesce a "rubarle" senza farsi sparare, non le possa mangiare.
Non è in Africa, non è lontano. È il cortile di casa tua. E potresti essere indifferentemente quello che brucia, quello che spara, quello che "ruba". Vedi tu. E scegli bene.

Il "protagonista" è il giovane Tom Joad, che ritorna a casa dopo alcuni anni trascorsi in prigione (coinvolto in una rissa, aveva ucciso con un badile l'uomo che lo aveva accoltellato). Solo che a casa sua non trova nessuno. Un ex-predicatore, Casy, incontrato per strada, gli spiega che l'avvento delle "trattrici" e dell'agricoltura "meccanizzata" sta spazzando via intere famiglie di contadini, che migrano in massa verso la California. Opuscoli colorati, inneggianti ad un'incredibile prosperità e ricchezza, esortano gli agricoltori a mettersi in viaggio. Un altro incontro fortuito, con Muley, un vicino, informa Tom che la sua famiglia si è recata presso lo zio John (fratello del padre) quando la banca ha deciso di esigere i soldi dell'ipoteca senza aspettare un buon raccolto.

"Vi ripeto che la banca è qualcosa di più di un essere umano. È il mostro. L'hanno fatta degli uomini, questo sì, ma gli uomini non la possono tenere sotto controllo."
(Suona familiare anche questo, no?)

A casa dello zio, Tom ritrova il babbo e la mamma, i fratelli Noè e Al (già adulti), la sorella Rosa Tea e suo marito Connie, e i piccoli Ruth e Winfield, il nonno e la nonna.
La famiglia è sbalestrata dalle brutte novità che sta vivendo, ma appare unita e solidale. Felice del ritorno di Tom e in fondo speranzosa verso il futuro. Mentre gli uomini appaiono confusi ed incerti, la mamma è – e lo sarà per tutto il romanzo – la vera colonna di forza della famiglia.
La prima parte del libro – l'addio all'Oklahoma e il viaggio verso la California è un lento e continuo pianto trattenuto. Dai vari venditori che approfittano della disperazione e della fretta di partire dei Joad, al dolore di lasciare la propria casa, la propria terra, la propria vita.
"Come è possibile vivere senza le cose che sono la nostra vita? Spogli del nostro passato non ci riconosciamo. Fa niente, non c'è posto, bisogna lasciarlo, bruciarlo." Qui è nuovamente "Steinbeck" a parlare, non un personaggio. Ma è con gli occhi della mamma che viviamo il primo struggente addio.
"Da una delle cassette che serviva anche da sgabello, trasse una cartella, di quelle che servono alla corrispondenza; decrepita, sudicia, sdrucita agli angoli. Si sedette e l'aprì. Conteneva vecchie lettere, fotografie, cartoline illustrate, un paio di orecchini, un sigillo d'oro e una catenina d'orologio. Palpò leggermente le lettere ad una ad una, e lisciò un ritaglio di giornale che dava il resoconto del processo di Tom. Per vari minuti continuò a toccare quelle reliquie, mordicchiandosi il labbri inferiore, immersa nei ricordi. Alla fine si scosse, prese il sigillo, la catenella e gli orecchini, e frugò fra le carte finché non trovò un gemello da polsini. Mise questi oggetti un una busta, la piegò e la ripose in una tasca del vestito. Poi chiuse la cartella e la lisciò ancora una volta con tenerezza. Finalmente s'alzò, prese la lanterna e tornò in cucina. Aprì lo sportello della stufa e posò dolcemente la cartella sui tizzoni ardenti. Subito il calore annerì la carta e una fiamma si sprigionò per lambirla."
Gli altri addii si susseguiranno molto velocemente: appena dopo la partenza toccherà al cane di casa investito da un'auto, e pochissimo dopo al nonno, che non avrebbe voluto partire. Seppellito lungo la strada, unico atto d'amore concesso: un pezzetto di carta con sopra scritto il suo nome. Poi toccherà alla nonna, poco prima di arrivare in California, anche lei sepolta in fretta e furia.
Poi perderemo Noè, che non muore, ma semplicemente, forse, prevede quello che accadrà e decide di rimanere a vivere accanto a un fiume "come un selvaggio". Poi scapperà anche Connie, lasciando Rosa Tea incinta e disperata.
Poi perderemo anche l'ex-predicatore, Casy, ucciso da un poliziotto, mentre guida uno sciopero di contadini. Prontamente vendicato da Tom, l'atto costringerà anche lui a lasciare la famiglia.
E il libro si conclude di fatto con il bambino di Rosa Tea, nato morto, ed affidato da Zio John alle acque di un fiume in piena che si è portato via le ultime speranze dei Joad.
"Va', naviga e vendicaci! Raccontalo a tutti. Marcisci! Solo così riuscirai a farti sentire."

Al viaggio segue la disperazione di scoprire una realtà molto diversa da quella descritta dai volantini: una terra indubbiamente ricca e fertile (diversamente dall'Oklahoma), ma assoggettata alle regole del mercato e non a quelle del buon senso. Terreni incolti, raccolti distrutti per tenere i prezzi alti, una manodopera così sovrabbondante da permettere di mantenere salari bassissimi e condizioni di vita penose. Perché tanto ci sarà sempre qualcuno "più affamato" disposto a lavorare a meno. I soprusi, le violenze, le angherie non si contano né dai padroni, né dalla polizia, né dallo stato. L'unica solidarietà esistente e possibile (e di fatto l'unico messaggio positivo del romanzo) è quella fra disperati. E non solo per i "legami di sangue" ma per la solidarietà umana che in qualche modo riesce ad emergere sempre e di cui sono un mirabile esempio i coniugi Wilson all'inizio, la famiglia Wainwright dopo e il padre e figlio senza nome, all'ultimo capitolo.
Infine.
Questo libro andrebbe fatto leggere nelle scuole.
Dell'obbligo.
Non fosse altro che per il capitolo XIV (uno degli "author's corner" di Steinbeck), non fosse altro che per uscire da quell'orribile sensazione di "short time" senza memoria in cui i giornali tendono a farci credere che viviamo.
[Mi prendo anch'io un "author's corner" sperando che il fulmine di Steinbeck non mi colga (anche se me lo meriterei tutto, per l'ardire).
Qualche anno fa ci fu l'assassinio di Gheddafi e la televisione mandò in onda le immagini del cadavere straziato. Caso volle che la sera fossi a cena da una collega insieme ai suoi figli adolescenti. I ragazzi erano molto impressionati dalla scena che avevano visto. Mi ricordo che il ragazzo, sui sedici anni, ripeteva che non si era mai vista una cosa del genere, mi ricordo proprio che disse che "non era mai successa". La ragazza, invece, sui diciannove, disse "Non è vero che non si è mai visto. Pensa ad Achille che trascina il cadavere di Ettore intorno alle mura."
Ecco.
È precisamente questo il motivo per cui leggere serve. Non solo è bello, piacevole etc.
Serve.
Non per il nozionismo idiota che fa passare i concorsi (a volte).
Ma per capire che molte cose le abbiamo già viste. Sono già successe, le conosciamo già.
Non siamo i primi a cui viene detto che ci stanno invadendo delle persone "diverse da noi", in genere "brutte e sporche". Che "ci portano via il lavoro". Non siamo i primi a cui hanno detto "l'ultimo chiuda la porta" in nome della "sicurezza". Non siamo i primi a vedere le decisioni prese dalle banche, lo stato assente (o colluso), i poliziotti violenti.
Non sono una novità dell'ultima ora.
Non siamo i primi a cui chiedono un lavoro in nero o di tralasciarne la cura e la sicurezza, sfruttando il bisogno.
Per dire le prime cose che mi vengono in mente].

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    23 Giugno, 2015
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Una storia d'altri tempi, di prima della fotocopia

Bartleby lo Scrivano – Herman Melville, 1953

SPOILER

"Per il momento preferirei non essere un po' ragionevole."

Bartleby lo Scrivano, racconto di Herman Melville, letto subito dopo "Moby Dick".
La genialità di Melville, oltre al resto, sta nella sua capacità di descrivere "tipi". Che sia in ritratti lunghi ed articolati, che in quadretti appena sbozzati poco importa.
L'ho visto in Moby Dick e l'ho ritrovato qui, dove l'estro creativo di Melville si cimenta con una storia apparentemente piccola, ambientata prima dell'avvento della fotocopiatrice.
Pare un'osservazione oziosa – e probabilmente lo è - però l'attività di "copiare" in genere si attribuisce ai monaci negli scriptoria medievali, invece, fino a tempi relativamente recenti una fetta di umanità mediamente colta e numericamente non trascurabile si è guadagnata da vivere "copiando" documenti. Tonnellate di carta, fiumi di inchiostro, chilometri di parole, migliaia di mani, penne e pennini.
Certi romanzi non si comprendono se non si realizza che gli autori non abbiamo mai viaggiato in treno. Bartleby lo Scrivano non ci appartiene se non si fa i conti con un'umanità che copia (che responsabilità – che noia).
Dicevo.
Un avvocato, il suo studio, i suoi due impiegati (Pince-Nez e Tacchino), descritti in modo ironico (l'uno affidabile e preciso solo la mattina, l'altro solo il pomeriggio), un giovanissimo fattorino (Zenzero). Ed infine l'arrivo di un terzo impiegato, pallido, sciapo e scialbo in modo singolare, Bartleby.
"Rivedo ancora quella figura: pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida! Era Bartleby."( I can see that figure now — pallidly neat, pitiably respectable, incurably forlorn! It was Bartleby).
Bartleby si presenta come un impiegato modello: il primo ad arrivare e l'ultimo ad andare via (apparentemente), ligio al dovere, praticamente alieno ad ogni sorta di distrazione: copia gli atti legali. Sembra non fare altro. Sembra non volere fare altro. Sembra non amare fare altro.
Forse non sa fare altro?
Bartleby è "un'eterna sentinella nel suo angolo".
Le cose scorrono lisce e piacevoli, fino a che l'avvocato (e voce narrante) non chiede a Bartleby di fare una cosa solo leggermente diversa. Controllare che gli atti copiati da un altro impiegato siano corretti. Una banale revisione, insomma. Quanto di più routinario e banale possa avvenire in un ufficio. Sembra quasi di vedere l'avvocato che porge il plico all'impiegato, senza neppure alzare la testa per guardarlo.
"Era con me, credo, da tre giorni (…) quando, dovendo completare in gran premura una faccenduola, di punto in bianco chiamai Bartleby. Nella fretta e nella naturale aspettativa di un'immediata obbedienza, me ne stavo seduto con la testa china sull'originale posato sulla mia scrivania, la mano destra di lato, nervosamente tesa nel porgere la copia, in modo che, emergendo dal suo cantuccio, Bartleby potesse afferrarla e procedere all'esame senza il minimo indugio.
In questo atteggiamento sedevo dunque quando lo chiamai, spiegando rapidamente quello che volevo da lui, cioè esaminare insieme a me un breve documento.
Figuratevi la mia sorpresa, anzi la mia costernazione, quando, senza muoversi dal suo angolino, con voce singolarmente soave, ma ferma, Bartleby rispose:
"Preferirei di no." "

“I would prefer not to.”

L'avvocato strabilia. E cerca nel volto del suo impiegato tracce di sfida, di rabbia, di impertinenza.
Ma non le trova.
Bartleby "preferisce di no" e ricomincia il lavoro che stava facendo.
Lo stupore è tutto del suo datore di lavoro. Che a lungo si interroga sul da farsi.
E interroga Bartleby.
E interroga gli altri impiegati.
Infine interroga pure il fattorino.
"Penso, signore, che sia un po' sfasato." È quello che riesce ad ottenere.
Osservando il fattorino, però, l'avvocato vede che è quest'ultimo a provvedere ai pasti di Bartleby.
Ogni giorno gli porta alcune focaccine di zenzero. L'impiegato non sembra mangiare altro. Non sembra uscire mai dall'ufficio, non sembra fare nulla, se non lavorare.
L'avvocato ha la tentazione di licenziarlo, ma si fa molti scrupoli.
E una brava persona e Bartleby, a parte le sue idiosincrasie, è un buon impiegato. Affidabile ed instancabile se non gli si chiede di fare cose diverse dal copiare. Decide quindi di mantenerlo alle sue dipendenze e di continuare ad osservarlo e a cercare di capirlo.
"Era, infatti, oltremodo difficile tenere sempre a mente quelle strane abitudini, quei privilegi, quegli inauditi esoneri, che costituivano il tacito patto in base al quale Bartleby rimaneva nel mio ufficio. Di tanto in tanto, nella fretta di sbrigare un affare urgente, senza pensarci chiamavo Bartleby in tono secco e spiccio a mettere un dito su un pezzo di nastro rosso che ero in procinto di annodare per tenere insieme certi documenti. Superfluo dire, naturalmente, che da dietro il paravento veniva la consueta risposta: Preferirei di no."
La situazione si complica quando, per puro caso, l'avvocato si accorge che Bartleby non è "il primo ad arrivare e l'ultimo ad andare via", ma che, di fatto, VIVE nell'ufficio.
Dapprima commosso dalla completa solitudine ed infelicità dell'uomo, poi ulteriormente perplesso dalla sua stranezza (Bartleby non parla, se non gli si rivolge la parola, non legge, se non le pratiche legali che deve copiare, non mangia se non le focaccine di zenzero etc), l'avvocato non sa che fare.
Ha pietà di Bartleby, ma in qualche modo sa di non comprenderlo e desidera allontanarlo da sé.
Per un essere sensibile la pietà non di rado è sofferenza. E quando alla fine si intuisce che tale pietà non si traduce in un efficace soccorso, il senso comune impone all'animo di sbarazzarsene.
Quanto vidi quella mattina mi convinse che lo scrivano era vittima di un disordine innato ed incurabile. Avrei forse potuto soccorrere il corpo, ma non era il corpo a dolergli; era la sua anima che soffriva, e non potevo raggiungere la sua anima.

Infine, l'avvocato decide di licenziare Bartleby.
Lo fa da brava persona quale è, con un preavviso e una certa "liquidazione".
Ovviamente Bartleby "preferisce di no" ("preferirei non lasciarla", dice, in realtà) e il giorno successivo al suo programmato "sgombero" è come sempre in ufficio. Altri tentativi vanno completamente vuoto.
Preso quasi dal panico, l'avvocato decide di traslocare in un altro ufficio.
Sinceramente addolorato, al momento di lasciare l'ufficio e il suo ex impiegato.
"Addio Bartleby, me ne vado… Addio e dio la protegga in qualche modo. Prenda.", facendogli scivolare qualcosa in mano. Ma fin a terra e allora – strano a dirsi – dovetti fare uno sforzo e strapparmi da lui, e sì che avevo tanto desiderato sbarazzarmene.
La cosa funziona, e finalmente il principale si libera del suo bizzarro ex-dipendente.
Ma non dalla sua ossessione.
Viene a sapere che l'ex-impiegato continua a vivere nel palazzo, e il proprietario si rivolge a lui in un estremo tentativo di far ragionare lo scrivano.
L'avvocato corre al suo ex ufficio e trova subito l'ex dipendente
"Cosa fa qui, Bartleby?"
"Sto seduto sulla ringhiera."

L'avvocato cerca di aiutarlo, si offre persino di ospitarlo a casa proprio, ma Bartleby risponde:
"No, preferirei non fare cambiamenti."
"No, per il momento preferirei non cambiare nulla."

Non tutti si fanno gli scrupoli dell'avvocato e l'epilogo è che il nostro scrivano finisca in prigione per vagabondaggio. Informato della cosa, l'avvocato si precipita a trovarlo e corrompe un secondino affinché il suo ex impiegato abbia un trattamento di riguardo e vitto adeguato.
Ma Bartleby preferisce "non pranzare".
L'uomo che non parla, l'uomo che vive senza mangiare, così lo definiscono i secondini.
Quando l'avvocato lo va nuovamente a trovare lo trova silenziosamente e dolcemente morto nel cortile, del carcere.
«Il faccione rotondo del vivandiere sbucò dietro di me.
"Il suo pranzo è pronto. Neanche oggi vuole mangiare, eh? E che? Vive senza mangiare?"
"Vive senza mangiare." dissi e gli chiusi gli occhi.
"Ehi! Dorme, eh?"
"Con i re e i consiglieri." mormorai.»

Neppure la morte mette a tacere l'ossessione dell'avvocato per il suo scrivano, ma le sue ricerche hanno scarno esito. Tutto quello che riesce a sapere, ma senza certezze, è quale fosse l'impiego precedente di Bartleby.
Bartleby era stato un impiegato subalterno nell'ufficio delle lettere smarrite a Washington.
E come già osservò Alessandro Baricco, nel 1993, a Pickwick, questo non dice molto, ma fa capire tanto.
In realtà si potrebbe osservare che probabilmente Bartleby è uno dei primi casi descritti di Sindrome di Asperger, di cui ha tutti i tratti, ma aggiungerebbe assai poco alla narrazione e niente alla riflessione che invita a fare Melville, nel finale.
(…) a fatica riesco a esprimere le emozioni che mi pervadono. Lettere smarrite, lettere morte! Non suona come uomini morti? Pensate a un uomo, per natura e sventura, incline a una languida disperazione: esiste un lavoro più adatto ad accentuarla che maneggiare continuamente queste lettere morte e metterle in ordine per darle alle fiamme? Ogni anno ne vengono bruciate a carrettate. Qualche volta dal foglio piegato il pallido impiegato estrae un anello – il dito al quale era destinato, forse, imputridisce nella tomba; una banconota inviata in un moto di pronta carità… e colui che ne avrebbe tratto sollievo non mangia più e non soffre più la fame; parole di perdono per coloro che morirono nello sconforto; di speranza per coloro che morirono disperati;buone nuove per coloro che morirono soffocati da sventure inconsolabili. Apportatrici di vita, queste lettere rovinano verso la morte.
O Bartleby! O umanità!

PS. Opera di prima della fotocopiatrice, si diceva, "Bartleby lo Scrivano". In omaggio agli Scrivani, americani, fiorentini e dell'universo mondo, tutte le citazioni di oggi da Melville non son copiincollate, as usual, ma copiate a mano (a tastiera, a dire il vero).
Esercizio salutare, di tanto in tanto (NdAnna).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    23 Giugno, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Una Bibbia Laica.

Moby Dick – Herman Melville, 1851

Mi approccio a Melville, Moby Dick, all'alba dei quarant'anni. Quando la maggior parte dei miei amici lettori lo ha letto al più tardi in adolescenza.
Lo avevo cominciato un paio di volte, in passato, e mi ero precocemente spiaggiata ancor prima dell'arrivo di Ismaele (sì, proprio ad "Etimologia ed Estratti", pag.3).

Non credo che sia il caso di tediare troppo con trame e quant'altro, in primo luogo perché note a tutti, e poi perché hanno poca importanza, dal momento che Melville non scrive la storia di Ismaele e neppure quella di Achab. E neanche quella di Mody Dick.
Melville scrive quella che al momento non (o)so definire meglio che una "Bibbia Laica", una lotta fra Titani moderna, in cui si muovono due schiere di semidei (uomini e leviatani) sotto lo sguardo pigro e negletto della divinità maggiore, generatrice di entrambi, il Mare ("E mi voltai a guardare con meraviglia la magnanimità del mare che non conosce ricordi").
I semidei vengono descritti nelle loro innumerevoli varietà, miserie e trionfi e soprattutto nel momento della loro infinita ed inesauribile lotta.
Le balene forniscono agli uomini la luce (dal grasso sottocutaneo si ricava un olio usato per fabbricare cera per le candele o combustibile per le lampade) e per ottenere questa luce gli uomini sfidano creature enormi, magnifiche, tremende.
Balene e capodogli vengono descritti e celebrati minuziosamente (incantevoli le parti in cui la lancia di Ismaele e dell'amico Queequeg si trova all'interno di un branco enorme e possono osservare) ed altrettanto minuziosamente vengono descritti e celebrati l'arte, la forza e l'ingegno umano impegnati allo spasimo per vincere la sfida contro le balene (che non è solo "ucciderle" - con ramponi a mano - ma anche trascinarle – a remi o a vela - issarle sulla nave – a braccia – ricavarne l'olio – a mano - trarne oggetti e cose così).
La voce narrante, Ismaele, (unico) uomo che ama le balene ci narra con stupore, candore, ammirazione, terrore e slancio (non scevri da una certa logorrea, di tanto in tanto) la lotta fra i campioni delle schiere semicelesti: Moby Dick e Achab.
Achab e la "sua" controparte leviatana, Moby Dick, portano il tema dell'ossessione in quello che era uno scontro epico. Inseriscono un tema "amoroso".
Achab, capitano della baleniera Pequod, per lunghi giorni di navigazione non si fa vedere dall'equipaggio. Quando finalmente si palesa spiega che il suo scopo non è la caccia, ma è Moby Dick, la balena bianca che gli ha strappato la gamba durante l'ultimo viaggio.
Durante quella caccia, Achab è saltato dalla sua lancia sul dorso della balena è ha cercato di colpirla. Armato solo del suo coltello. E lei gli ha strappato una gamba. Ora Achab ha una gamba ricavata da un osso di balena.
Ossessione, si diceva.
Quant'altre mai.
Il primo Ufficiale, Starbuck, il ragionevole, razionale e devoto "sente" la rovina nell'ossessione di Achab e tenta – numerose volte – di farlo ragionare (penserà anche di fermarlo, uccidendolo, e si tratta di un pio quacchero); meraviglioso il loro ultimo colloquio (capitolo CXXXIII - La Sinfonia).
L'equipaggio, invece, si lascia contagiare dall'ossessione di Achab, che, dimentico di ogni logica, virtù e sentimento, segue la "sua" balena.
"Ciò che è osato, l'ho voluto; e ciò che ho voluto lo farò!"
C'è una profezia funesta, sul nostro capitano, che puntualmente si avvererà. E trascinerà nel suo funesto fato il Pequod e tutto il suo equipaggio, tranne il nostro Ismaele, che si salverà aggrappandosi alla bara dell'amico Queequeg (convertita in salvagente quando il ramponiere aveva deciso di rimandare la sua morte).
Vince la balena, naturalmente.
Vincerà su Achab, sull'umanità e su tutti i pescatori che seguiranno, da Santiago a Sampei.
Sarà l'unica vittoria, probabilmente.
Si potrebbe riflettere su come una manciata di decenni fa fosse in atto una lotta così tenace e feroce ed oggi la balena, diversamente dal lupo, non sia rimasta "nemico" neppure a livello simbolico. Oggi ci si preoccupa per la sua estinzione, si studiano i suoi sistemi di comunicazione, si creano i santuari dei cetacei e Disney ha pensato di animare "I pini di Roma" con delle balene (con pessimi esiti secondo me e Respighi si rivolta nella tomba, ma vabbe').
Ma in realtà è più interessante spendere due parole (indegne, venendo da me) su Melville e la sua scrittura.
Leggendo ho collezionato ben 8 pagine di sottolineature e rimandi sul reader.
Come mi accade molto di rado ho sottolineato interi capitoli.
Avevo provato a fare una scelta e postare le parti che ho amato di più, ma non ci sono riuscita.
Mody Dick esiste nel suo essere un continuum.
Nel passare dall'essere un trattato di filosofia, un romanzo d'avventura, un bignami di psicopatologia ed etnologia, una sconnessa poesia, un manuale sulla balena, e sulla caccia alla balena. Una Bibbia Laica ed un compendio dell'umanità.
Analogamente passiamo dallo stream of consciousness, al dialogo serrato, alla descrizione (pagine e pagine, spesso meravigliose), al teatro. Geniale l'idea delle didascalie "teatrali" all'interno dei capitoli. Melville vede il film tratto dal suo libro.
E noi anche.
Sono immensamente contenta di aver colmato questa lacuna.
Non lo consiglio perché lo avrete già letto tutti, ma si può rileggere qualche capitolo.
Io ho amato molto LXXII, LXXVIII, LXXXVII, C e CXXXIII (La Sinfonia).
È vero che Melville è divino esattamente come Ismaele è verbosetto, ma non mi vengono in mente molti libri in cui ho sottolineato capitoli interi.

Dolenti Note.
Si diceva che Melville aveva visto il film del suo libro.
E di certo l'aveva immaginato meglio di quello finora realizzato.
Quel linfatico di Gregory Peck, non pago di aver massacrato Atticus (Il buio oltre la siepe), si accanisce su Achab in compagnia degli sceneggiatori che hanno pensato bene di stravolgere il finale e la profezia dio solo sa perché (fra l'altro… Ray Bradbury. Come hai potuto?).
Qualche mese fa è uscita una pellicola in USA "In the Heart of the Sea" che si ispira al libro.
C'è Ron Howard alla regia (malebene), c'è Thor Hemsworth (malemale) e c'è pure Ben Wisham (benebene) che fa Melville (la storia – realmente accaduta – sarebbe quella che ispirò a Melville "Moby Dick")… vedremo. Peggio del film del 1956 non potrà fare… almeno lo spero.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    22 Giugno, 2015
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Una forza inarrestabile e un oggetto inamovibile.

Primo Sangue – David Morrell – 1972 – 189 pagine

S – P – O – I – L – E – R

Sono in difficoltà.
Io lo sapevo che il film era tratto da un libro. E ovviamente, all'epoca (1982) il film mi era piaciuto tanto (e va anche da sé. Metti un personaggio western tipo Clint Eastwood – che rifiutò il ruolo - in chiave moderna e una bimba di sette anni cresciuta a pane, melodramma e mitologia; il gioco è fatto).
Il libro mi si ripresenta molti anni dopo, quando il vecchio amore pareva sopito.
Mi ci sono accostata pensando – stolidamente – di staccare un po' dopo il doppio Faulkner e il Signore degli Orfani. Me lo immaginavo un bel libro d'azione, pieno di suspence e di non troppe pretese.
Stolta.
Ne è uscita la lettura più potente dell'anno (ed è un pari merito solo perché ho letto anche Furore).
Abbiamo un giovane reduce ("il ragazzo" per quasi tutto il romanzo) che non trova più posto nella società "civile" (nel senso di "non militare").
E uno sceriffo – ex soldato, in fondo un buon diavolo – che non vuole guai nella sua cittadina.
E il solito scontro fra un oggetto inamovibile e una forza inarrestabile.
La storia comincia apparentemente in sordina, con qualche passo di minuetto fra i due protagonisti che muovono i pezzi sulla scacchiera per qualche mossa esplorativa.
Da lì il crescendo (non rossiniano) di un meccanismo che si mette in moto e procede fino all'inevitabile conclusione.
Il rischio di mandare a monte una storia del genere è altissimo.
L'errore più grande, secondo me – puntualmente commesso dal film – è di buttarsi sullo psicologismo. Il reduce in fondo è buono, e ha un disturbo post traumatico da stress a causa delle torture subite; la polizia lo maltratta per pura malvagità, ma lui non vuole fare male a nessuno e chiede ripetutamente di essere lasciato solo e in pace. Fa del male – ma non uccide nessuno - solo perché costretto e viene perseguitato. È solo al mondo perché i commilitoni sono morti e nessuno nella società civile lo "aiuta" e lo accetta. Ma alla fine avremo una figura paterna e salvifica che lo prenderà tra le braccia e lo porterà via, trovandogli un posto dove sarà accettato. E avremo solo un cattivissimo poliziotto morto accidentalmente e qualche ferito.
[PS. Il film è comunque il cult che merita di essere. Non solo per gli occhioni neri e tristi del protagonista, ma per le voci, perché il doppiaggio italiano è straordinario. Ferruccio Amendola e Pino Locchi su tutti!].

Be', Morrell questo errore non lo fa.
La scontro fra il ragazzo e lo sceriffo Teasle non è eroico, anche se forse è epico.
Ma di certo è molto molto titanico.
Gli eventi si innescano e da qual momento in poi i due personaggi agiscono spinti da una sorta di istinto di vita e sopravvivenza che li porta lontanissimi da dove sono partiti. Il ragazzo, che è quasi sempre da solo – ha fitti dialoghi con sé stesso che gli impediscono (ed impediscono al lettore) di raccontarsi storie: non volevo, mi hanno costretto. Sì. Ma mi è anche piaciuto.
Analogamente Teasle vive in poche ore un'evoluzione tale che lo porta dall'odio feroce (il ragazzo stermina la sua squadra, la sua vice figura paterna, incendia la sua città e distrugge il suo commissariato), ad un barlume di comprensione che rasenta l'identificazione e ad un momento finale di affetto e comprensione vera.
In tutto questo abbiamo un altro crescendo. Quello degli elementi. Prima l'acqua, poi la terra ed infine il fuoco, descritti dall'autore senza una sbavatura e senza mai un momento di forzatura o compiacimento. La prima notte in cui il ragazzo si rifugia fra le impervie montagne vicino alla città di Teasle si scatena un temporale che diventa in breve una tempesta.
I poliziotti hanno già cominciato a capire con chi hanno a che fare, dal momento che il ragazzo (altra scena grandiosa) è riuscito a liberarsi dell'elicottero che lo inseguiva.
Questa tremenda notte la viviamo attraverso gli occhi degli inseguitori che lottano contro il freddo, la pioggia e i piccoli ruscelli che improvvisamene diventano fiumi impetuosi e trascinano via tutto quello che trovano.
Nel mentre che son sotto il fuoco preciso ed infallibile del pericolosissimo inseguito.
Che li stermina uno per volta. Senza fretta, senza odio. Per salvarsi la vita.
Prima i cani. Poi gli uomini. Uno per volta.
È qui che assistiamo al ferimento di Osvald, il vice-padre di Teasle, e al disperato tentativo dello sceriffo di salvarlo per poi vederlo scomparire nel fiume in piena.
Il tempo passa e Teasle rimane solo. Come il ragazzo. Entrambi feriti, infreddoliti e stremati.
Teasle viene infine trovato e soccorso, dopo essersi trascinato per un campo di rovi, ma rifiuta di allontanarsi dalla montagna, prima che sia tutto finito.
Sommariamente curato e disteso su un piccolo camion, fa la conoscenza di Trautman, l'istruttore militare del ragazzo. E aggiunge un altro pezzetto alla sua storia.
Intanto il ragazzo per sfuggire agli inseguitori (intanto si sono mobilitati la Guardia Nazionale e tutti i cittadini "a cui piace sparare" dello stato) si rifugia in una miniera abbandonata.
E questa dell'elemento terra è decisamente una sequenza horror. Da leggere. Punto.
Ed infine, l'apocalisse di fuoco che il nostro scatena incendiano alcuni distributori di benzina della città.
Sono pagine che ti fanno sentire freddo, bagnato, sfinito, claustrofobico ed infine abbagliato e bruciacchiato. E lentamente smetti anche di "parteggiare" per i protagonisti, ma finisci per comprenderli davvero, entrambi – come fa Teasle con il ragazzo – proprio al momento finale.
Letto così sembra troppo ed eccessivo. Invece non c'è una parola più del dovuto e la prosa è decisamente "secca" e quasi steinbeckiana (virgola, punto e virgola, punto).
Il finale è meraviglioso e prendo congedo proprio con quello (che si discosta profondamente da quello del film).

Il finale di Teasle e quello di Rambo.

Ah sì.
Il "ragazzo" è John Rambo.
E chissà se fino a questo punto lo abbiamo immaginato con la faccia di Stallone.
Purtroppo il successo del film e la fama della star protagonista ha parzialmente eclissato la bellezza del libro, che io consiglio di leggere nella maniera più perentoria.
Ma con toni del tipo: "Piantate lì quello che state facendo e correte a leggere Primo Sangue!"
Devo ahimè aggiungere qualche dolente nota. La prima è che la traduzione italiana è pessima. Abbiamo perle quali "la moto di Rambo rombò" e pure qualche errore di ortografia.
La seconda che il libro quasi introvabile (se non nelle biblioteche).

Infine, ecco i due finali (ovviamente SPOILER)
Teasle e Rambo.

Teasle.
"Però, pensò Teasle. Però. Si lasciò cadere indietro sulla macchia, meravigliandosi delle stelle, mormorando fra sé ripetutamente che non sapeva cosa l'avesse colpito. Davvero non lo sapeva. Aveva visto lampeggiare il fucile, ed era caduto, ma dolcemente, lentamente; proprio non sapeva cosa l'avesse colpito, non lo sentiva, non provava nessun dolore. Pensò a Anna, e poi smise, non perché lo facesse soffrire, ma perché dopo tutto, non gli pareva più importante.

Senti avanzare qualcuno fra la macchia. È il ragazzo, pensò. Ma si avvicinava piano, molto piano. Ebbè, certo, è ferito gravemente.
Ma era poi solo Trautman, in piedi davanti a lui con la testa che si stagliava contro il cielo, con il viso e l'uniforme luminosi per via delle fiamme, ma gli occhi spenti. "Com'è?" disse Trautman. "È brutto?"
"No," disse. "Veramente è piuttosto piacevole. Se non penso a ciò che porta con sé. Cos'era quell'esplosione che ho sentito? Sembrava un'altra stazione di benzina che saltava."
"Io. Credo di esser stato io. Gli ho spaccato la testa col mio fucile."
"E per lei com'è?"
"È meglio di quando sapevo che stava soffrendo."
"Si."
Trautman scaricò la cartuccia vuota e Teasle seguì con gli occhi l'arco che compiva nell'aria, luccicante. Pensò ancora a Anna, e di nuovo non gliene importò niente.
Pensò alla casa nelle colline che aveva messo a posto, ai gatti che vi teneva, e anche di quello non gliene importò niente. Pensò al ragazzo e si senti travolgere da un'ondata d'amore per lui e un secondo prima che la cartuccia vuota avesse completato l'arco della sua caduta, si lasciò andare, accettò tranquillamente. E morì."

Rambo.

"E Dio?
L'idea lo imbarazzava. Soltanto nei momenti di maggiore paura gli era capitato di pensare a Dio e di pregare, sempre imbarazzato perché non ci credeva e perché gli sembrava troppo ipocrita pregare per paura, come se, malgrado la sua incredulità, Dio potesse esistere dopo tutto, un Dio che avrebbe potuto essere ingannato da un ipocrita. Da bambino ci aveva creduto. Eccome se ci aveva creduto da bambino. Com'era, l'Atto di Dolore che recitava tutte le sere? Le parole gli venivano incerte, inabituali. Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore... di che?
Di tutto ciò che era successo negli ultimi giorni. Pentito che fosse successo. Ma era dovuto succedere. Gli rincresceva, ma sapeva che se fosse stato di nuovo lunedì avrebbe rivissuto i giorni successivi allo stesso modo, e sapeva che l'avrebbe fatto anche Teasle. Non c'era niente che si sarebbe potuto evitare. Se la loro lotta aveva radici nell'orgoglio, era anche stata combattuta per qualcosa di più importante.
Cioè cosa?
Cioè un mare di cazzate, si disse: libertà e diritti. Non era partito con l'idea di dimostrare un principio. Era partito con l'idea di dimostrare che avrebbe lottato contro chiunque avesse cercato di comandarlo ancora e quella era una cosa ben diversa, non una questione di etica, ma personale, emotiva. Aveva ucciso molte persone e poteva fingere che la loro morte fosse necessaria in quanto facevano tutti parte di ciò che lo limitava, che rendeva la vita impossibile ad uno come lui. Ma non ne era del tutto convinto. Gli era piaciuto troppo combattere, piaciuto troppo il rischio e l'eccitazione. Forse era stata la guerra a condizionarlo, pensò. Forse si era abituato talmente a combattere che non poteva farne a meno.
No, nemmeno quello era del tutto vero. Se avesse veramente voluto controllarsi ci sarebbe riuscito. Semplicemente non aveva voluto controllarsi. Aveva deciso una volta per tutte di combattere coloro che interferivano nel modo di vita che si era scelto. E allora d'accordo, in un certo senso aveva combattuto per un principio. Ma non era cosi semplice perché aveva anche agito per orgoglio, tutto contento di poter mostrare quant'era bravo a combattere. Non era un uomo che si lasciava comandare, no di certo e adesso stava morendo e nessuno vuole morire, e tutte queste riflessioni sulle questioni di principio erano un sacco di cazzate per giustificarsi. Quando sosteneva che avrebbe rifatto la stessa cosa, era solo un trucco per convincersi che ciò che succedeva in questo momento era stato inevitabile. Cristo, era davvero in questo momento, e non poteva farci proprio niente e né i principi, né l'orgoglio avevano una minima importanza di fronte a quello che stava per venire. Avrebbe dovuto amare più ragazze sorridenti, bere più acqua ghiacciata, assaporare più meloni estivi. E poi, anche quello era un sacco di balle, e tutte quelle riflessioni su Dio costituivano solo delle complicazioni della decisione che aveva appena preso: se il torpore che si insinuava su per le cosce e gli avambracci avrebbe portato ad una morte facile, era anche una morte povera. Ed inerme. Una sconfitta passiva. L'unica scelta che gli rimaneva era quella del modo in cui sarebbe morto, e questo non sarebbe avvenuto come per un animale ferito e rintanato, con un lento deterioramento silenzioso, patetico, reso gradatamente insensibile. Subito. Con uno slancio di grande emozione."

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A chi vuol capire perché David Morrell sia un'icona oltreoceano e qui, invece, sia pressoché sconosciuto (purtroppo).
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    21 Giugno, 2015
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I sommersi e... i sommersi.

Meridiano di Sangue - Cormac McCarthy

"Andavano avanti come investiti da una missione dalle origini remote, come legatari uniti da un patto di sangue a un ordine implacabile e antico. Perché sebbene fra loro ogni uomo fosse unico e indistinto, la loro unione dava corpo a qualcosa che non era esistito prima, e in quell'anima comune si stendevano plaghe non più esplorabili di quelle regioni bianche sulle vecchie carte geografiche dove davvero vivono mostri e dove non c'è nulla al mondo conosciuto se non venti immaginari."
Anima Lettrice anelante Storia e Storie, dopo la delusione di Butcher's Crossing mi misuro niente meno che con Cormac McCarthy e il suo Meridiano, avendo letto soltanto, in precedenza, "Cavalli Selvaggi".
Basandosi (wikipedia mi informa) su documenti storici, l'autore crea una storia, quasi senza personaggi. O meglio. I personaggi ci sono. Ma del "protagonista" - The Kid - non veniamo mai a conoscere neppure il nome. E più che di un protagonista si tratta di un "filo conduttore", nel senso che, ogni tanto, ci affidiamo al suo punto di vista. Altro filo conduttore (e altro personaggio pressoché senza nome) "Il Giudice" un enorme e glabro individuo, un po' chimico, un po' soldato, un po' naturalista che viaggia con un grosso quaderno in cui riproduce fedelmente tutto quando vede che non conosce. Prima di distruggerlo.
Altri nomi, di tanto in tanto, emergono dallo Stige che il circonda – tipo Iracondi danteschi – Glanton, lo spretato, Brown, Jackson (bianco e nero), Toadvine…
Tutti personaggi dall'esistenza più o meno randagia che vengono assoldati per dare la caccia agli Indiani che, da parte loro, altrettanto crudelmente, danno la caccia ai bianchi. In un crescendo di violenza, morte, sangue, che non risparmia nessuno e colpisce tutti.
Ma non sono i personaggi che contano, in questa storia.
In questa storia abbiamo una natura spietata e a tratti splendida, quasi leopardiana da quanto è "matrigna" e una Storia che muove le sue piccole comparse sulla scena. E qualche volta se le dimentica pure, sulla scena, come la vecchina avvolta nello scialle che The Kid incontra nel "dopo teatro" dell'ultimo grande massacro che incontra.
Diversamente dal solito non ho un commento musicale in testa (ne sto sentendo diversi e in tutti trovo qualcosa che va molto bene e qualcosa che non va per niente), ma ho un'immagine ben precisa da associare a questo romanzo. Si tratta di un bassorilievo di Andrea Pisano e si intitola "La Strage degli Innocenti" (Pulpito di Sant'Andrea – Pistoia). L'associazione non è tanto per il tema degli innocenti uccisi (che nel romanzo si sprecano, letteralmente, come i colpevoli, del resto), ma proprio per la consistenza magmatica della scena, dalla quale si sbalzano fuori, di quando in quanto, figure destinate inesorabilmente a ripiombare nella massa indifferenziata da cui sono per un momento uscite.

"Il suo spirito si esaurisce nel momento stesso in cui raggiunge l'acme. Per lui il meridiano è insieme il crepuscolo e la sera del giorno. Gli piace giocare? Faccia la sua puntata. Ciò che vedete qui, queste rovine che stupiscono le tribù dei selvaggi, non pensate che tutto questo rinascerà? Oh sì. Ancora e ancora. Con altri uomini, con altri figli."

In tutto questo.
La storia la scrive McCarthy.
Con questo materiale e con questi personaggi il rischio di fare un "fumettone" è altissimo. Il rischio con questa crudeltà ovunque, quantunque e comunque è di banalizzare il tutto nello splatter. Invece, secondo me, ciò non accade proprio perché McCharthy non indugia mai e non è mai compiaciuto, tiene sempre "sotto controllo" scrittura e personaggi. Pochissimi dialoghi (qualche monologo) e nessun – a memoria – commento a quanto visto e descritto.
E soprattutto – dopo i pastrocchi di Butcher's Crossing – nessuna ansia di darti un messaggio, di metterci su un'epigrafe e un bel cappellino.
Mi piace pensare che le grandi storie non ne abbiano bisogno.

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Indubitabilmente una lettura "dura", quindi più che consigliarlo, lo sconsiglierei ai lettori che a disagio con la violenza "scritta" e forse anche ai più giovani.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Giugno, 2015
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La Madeleine Ritrovata (forse).

SPOILER - LIEVE

Premessa
A me capita con una certa frequenza e penso che sia nell'esperienza di tutti.
Quando si conosce una persona nuova (o anche quando si passa del tempo con qualcuno con cui non ci si vede da un po') scoprire di aver condiviso luoghi e tempi senza saperlo, senza conoscersi ancora o senza "trovarsi". Ora, forse, con facebook e similia è sempre più difficile, ma qualche volta abbiamo la batteria scarica e capita di "scoprire" – non in tempo reale - di essere stati alla Feltrinelli della stazione a pochi minuti uno dall'altro, di aver trascorso vacanze infantili a poche centinaia di metri, di aver passeggiato sul "Le Sillon" di Saint-Malo, di aver preso lo stesso traghetto per l'Elba, o di aver condiviso mareggiate, librerie, nevicate, cinema, musei, strade e città.
Senza conoscersi e senza essersi incontrati.
Avendo parlato entrambi con le stesse persone e camminato per le stesse strade.
È qualcosa di frequente, ma di strano, a dirlo in parole.

Quello che, forse, è meno frequente, è ricordare che, quando ero piccolissima, tornando a casa, la domenica sera, dalla settimanale visita ai nonni, lungo la strada vedevo sempre una casetta isolata e che c'era sempre una luce accesa.
Per buona parte dell'infanzia mi sono interrogata – e ho fantasticato - su chi abitasse lì e sul fatto che ogni settimana le nostre vite fossero incredibilmente vicine e che – probabilmente – non ci saremmo mai conosciuti. Non sto a dire la gioia quando, una sera, scorsi una signora che rientrava nella casetta insieme al suo cane.
Materiale per un altro quinquennio – minimo – di fantasticherie.
(Bambina inquietante ed infanzia noiosa).

Ma il tutto era per dire - umilmente – che Modiano parte da una riflessione simile e cerca di ripercorrere la storia di Dora Bruder.

Dora Bruder è il nome su un annuncio apparso su Paris-Soir il 31 dicembre 1941.
Una ragazzina di quindici anni, scomparsa la sera del 14 dicembre. Una descrizione sommaria, il nome e l'indirizzo della mamma e del papà.

Il recapito dei genitori di Dora, una strada che l'autore percorreva nell'infanzia, forse dà il via all'"indagine", per cercare di capire che fine abbia fatto questa ragazzina.

Wikipedia definisce "Dora Bruder" un'"indagine memorialistica"; non ho potuto fare a meno di pensare a "A Sangue Freddo" di Capote. Anche lui fa un'indagine; ma i due testi sono lontani anni luce. Modiano cerca i non detti e le "smagliature" della storia, dove Capote cercava facce e passioni.

Più che Dora o l'autore/voce narrante, è la memoria la protagonista del romanzo. La memoria dei luoghi, non quella delle persone. Modiano si muove come una sorta di "post-Atropo", una Moira di riserva che entra in scena dopo che i fili delle storie e delle persone sono stati tagliati, e che cerca di recuperarli e riannodarli insieme. La metafora del filo è usata dallo stesso autore:

" Ho la sensazione di essere il solo a reggere il filo che collega la Parigi di quell’epoca a quella di oggi, il solo che si ricordi di tutti questi particolari. A volte, il filo si assottiglia e rischia di rompersi, altre sere la città di ieri mi appare con riflessi furtivi dietro quella di oggi."

Si scorge quasi un che di ossessivo nel pensiero di percorrere i luoghi e le strade di Dora, la sua fermata della metro, nell'incrociare persone che possano averla incontrata o semplicemente vista.

Forse il padre dell'autore potrebbe averla incontrata, o potrebbe essere stato accanto ad una delle ragazze arrestate con lei. Forse il filo è più lungo di quello che sembra… forse Dora è stata ospite del convento dove Valjean si rifugiò con Cosette.

I luoghi serbano la memoria, ma spesso i luoghi vengono distrutti per la volontà di "far sparire" qualche vergognosa macchia del passato o – più spesso – per semplice incuria o per generico "progresso"; quindi spariscono i luoghi e con essi la memoria delle persone

"I brandelli di carta da parati che, ancora trent’anni fa, avevo visto in rue des Jardins-Saint-Paul, erano le tracce di stanze un tempo abitate... stanze dove vivevano coetanei e coetanee di Dora prelevati dai poliziotti un giorno di luglio del 1942. L’elenco dei loro nominativi è sempre accompagnato dagli stessi nomi di strade. E i numeri delle case e i nomi delle vie non corrispondono più a niente."

Paradossalmente, però, è la ricerca frustrata dell'autore, è l'oblio che, con molta amarezza, costituisce quasi un "riscatto" per i personaggi che non lasciano tracce dietro di sé, come Dora e la sua famiglia

"Ignorerò per sempre come passava le giornate, dove si nascondeva, in compagnia di chi si trovava durante l’inverno della sua prima fuga e nelle poche settimane di quella primavera in cui scappò di nuovo. È il suo segreto. Povero e prezioso segreto che i carnefici, le ordinanze, le autorità cosiddette d’occupazione, il Deposito, le caserme, i campi, la Storia, il tempo - tutto ciò che insozza e distrugge - non sono riusciti a rubarle."


Confesso che prima del Nobel non avevo letto nulla di Modiano.
Dopo Dora Bruder me ne rammarico sinceramente e vedrò di rimediare con altre opere.
È un romanzo che consiglio con moderazione, perché mi rendo conto che alcuni lettori che conosco potrebbe non apprezzare ed essere persino "irritati" dalle nuance di Modiano.
Non bisogna aspettarsi contorni netti, certezze e linee tracciate.

Però l'autore, in più di un'occasione, è riuscito a mettere mirabilmente in parole qualcosa che di solito finisce inesorabilmente in fondo alla tazza del tè e non riesce a diventare madeleine.
Per dire, alla casetta sul bordo della strada era qualcosa a cui non pensavo tipo da trent'anni.

Per chi ha caro il tema della memoria e le sue suggestioni è sicuramente da conoscere.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Cent'anni di Solitudine (G.G. Marquez)
A Sangue Freddo (T. Capote)
L'Aleph (J.L. Borges)
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    17 Giugno, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

... E io dov'ero?

A Sangue Freddo - Truman Capote

SPOILER

Premessa.
Nella mia mente Capote era l'autore di "Colazione da Tiffany". Non amando particolarmente il "tipo" Ollie (conosciuto dall'omonimo film), il libro non è in cima alle mie pile di libri, neanche in questo 2015 dedicato alla letteratura americana.
Se non che...
Per puro caso, sento parlare di "A sangue freddo" da un’amica illuminata. Senza neppure sapere bene perché e sapendo poco o nulla del libro, gli faccio scalare le pile e comincio a leggerlo.
Sì, poi son venuta a sapere che è la più celebre opera di Capote, pilastro della letteratura americana etc etc, ma per qualche motivo a me l'informazione non era arrivata.
E più leggo, meno mi capacito di non aver MAI sentito parlare di questo libro.

È vero che Capote è probabilmente l'autore del primo "Romanzo/Verità" (qualsiasi cosa ciò voglia dire) di cui abbiamo notizia. Che la vicenda al centro della trama sia una crudele storia vera e che l'autore abbia personalmente conosciuto i protagonisti e si sia direttamente documentato su di loro, tanto da rimanerne profondamente scosso. Però…davvero.
Prendo atto di questa "damnatio memoriae" che – nella mia mente – ha subito Capote, ma non me la spiego. Come per "I vicerè" di De Roberto, metterò in atto una campagna di espiazione, affinché tutti perché leggano questo libro.
- fine premessa.

Holcomb, Kansas, 15 novembre 1959.
La famiglia Clutter, padre, madre e due figli adolescenti (Nancy e Kenyon) viene trovata massacrata una domenica mattina. Tutti sono stati legati ed imbavagliati (tranne la sedicenne Nancy, legata, ma non imbavagliata) e tutti sono morti per un colpo di carabina alla testa.
Dalla casa mancano pochi, insignificanti oggetti (una radio, qualche spicciolo, un binocolo).
La famiglia era benestante e benvoluta da tutta la piccola comunità di Holcomb.
Comprensibilmente si diffonde il panico, la polizia indaga con scarso successo, finché un detenuto ricorda vagamente di aver parlato della generosità (e della ricchezza) del signor Clutter ad un suo compagno di cella, uscito da poco di prigione.
La polizia arresta due uomini, Perry Smith e Dick Hickock. Processo, carcere ed infine condanna a morte per impiccagione dei due .
Un tragico fatto di cronaca.

Truman Capote, reduce dal successo di Colazione da Tiffany, si interessa alla vicenda, a partire da un piccolo trafiletto che legge per caso sul giornale, si reca sul posto e comincia ad indagare. Parla con i poliziotti, con i membri della piccola comunità di Holcomb, assiste all'arresto dei due imputati, al processo, li incontra durante la prigionia e, dopo l'esecuzione, termina il suo racconto.
Un romanziere accorto che si documenta.

Dimentichiamo tutto questo.
Perché quello che viene fuori da "A sangue freddo" è molto più di questo.
È molto diverso da questo.
Capote scrive la vicenda alternando la vita di Holcomb (della famiglia Clutter prima, della comunità e della polizia poi) e quella dei due assassini (preparazione del delitto, esecuzione, fuga, cattura, processo, detenzione, memoriali, esecuzione).
Apparentemente mantiene un tono di distacco e racconta i fatti in modo molto oggettivo e quasi distante. Il "sangue freddo" sembrerebbe quasi quello dell'autore più che quello degli assassini.
Ma non è così. Senza forzare MAI i toni, senza cercare mai l'effetto o la lacrima facile, Capote ti porta in mezzo alla scena, ai pensieri dei protagonisti.
Di tutti i protagonisti. Delle vittime, degli assassini, degli amici, dei poliziotti.
E il viaggio peggiore, all'inferno, e senza ritorno, lo fai proprio nelle vite e nei pensieri degli assassini. Di Perry in particolare che per tutta la narrazione è quello con cui "rischi" di empatizzare di più. Perché è quello con la famiglia disgregata, l'infanzia negata, quello che in più di un'occasione frena Dick che pare decisamente più sadico, repellente e bestiale. Perry che sogna ad occhi aperti di diventare un cantante di successo, di scoprire tesori sommersi, che si inventa di aver assassinato un uomo, solo per avere la considerazione di Dick che gli sembra un tipo così "tosto", forte, virile.

E poi scopriamo che è stato Perry, a sparare, tutte e quattro le volte.
È stato Perry a sgozzare il signor Clutter. Non prima di aver cercato di farlo stare un poco più comodo sul pavimento di cemento della cantina.
Ad impedire a Dick di violentare Nancy. Prima di ucciderla lui stesso.
A mettere un cuscino sotto la testa di Kenyon perché non stesse scomodo. Prima di sparargli.
Per un assurda "sfida" con Dick, forse. Ma non importa. Perché sì, alla fine.
Allo stesso modo apprendiamo di come Perry, fino all'ultimo, abbia sperato in un qualche riavvicinamento da parte del padre, pur essendo sempre in collera con lui.
Di come si sia augurato che ci fosse sua sorella (a suo avviso rea di "tradimento" nei suoi confronti) nella casa dei Clutter, per poterla uccidere.
Di come abbia addomesticato uno scoiattolo nei mesi di prigionia a Holcomb, durante il processo.
E alla fine ci sentiamo un po' come la signora Meier che sa che è giusto che Perry Smith venga punito per le atrocità commesse, ma che non può fare a meno di sentirne la mancanza.

Si osservano strane "solidarietà" ed amicizie, in questo romanzo.
Di nuovo fra la signora Meier (la moglie dello sceriffo) e la madre di Dick. Fra compagni di carcere e vecchi commilitoni.
Sembra anche – pare – fra Truman Capote e Perry Smith.
Sembra che ciascuno vedesse nell'altro ciò che sarebbe stato di sé, in circostanze solo leggermente diverse. Un assassino ed uno scrittore di successo.

Per la sua – già citata – durezza, questo romanzo mi ha fatto venire in mente "Meridiano di sangue" di Cormac McCarthy. Però la somiglianza è solo apparente. McCarthy sta bene attento e non si mostra mai. Si sorveglia costantemente. E tiene il guinzaglio corto anche al lettore.
In "Meridiano" non si empatizza mai, con nessuno.
Capote, invece, non è mai avaro di sentimenti e di verità. Li esprime invece costantemente, senza pudore e senza compiacimento. Si empatizza con tutti. Si è quasi "costretti" a farlo. Compostamente e senza ostentare buoni sentimenti.
Il ché non vuol dire che siamo tutti fratelli e che c'è speranza per l'umanità. Tutt'altro.
Esattamente il contrario.
Vite promettenti stroncate senza motivo, vite fregate in partenza, vite menate avanti senza costrutto, vite infelici senza ragione e vite che avrebbe avuto mille ragioni per essere felici. E non lo sono state.
Assassini e scrittori.

Uniti in una chiusa esemplare, mi piace pensare dettata da Perry e scritta da Truman:
«Be', cosa c'è da dire sulla condanna a morte? Io non sono contrario. Si tratta solo di vendetta, ma che c'è di male nella vendetta? E' molto importante. Se io fossi parente dei Clutter, o di uno di quelli che York e Latham hanno fatto fuori, non potrei riposare tranquillo fino a quando il responsabile non avesse fatto quel famoso giretto sulla Grande Altalena. Quella gente che scrive lettere ai giornali. Ce n'erano due sul giornale di Topeka, ieri, una era di un ministro religioso. Dicevano insomma cos'è tutta questa farsa legale, perché quei figli di cane di Smith e Hickock non hanno avuto il fatto loro, come mai questi maledetti assassini stanno ancora mangiando il denaro dei contribuenti. Be', io capisco il loro punto di vista. Sono inviperiti perché non riescono ad avere quello che desiderano, la vendetta. E non l'avranno mai, se io posso evitarlo. Io credo nella forca. Purché non sia io a essere impiccato.»

PS.
Truman Capote era amico di Harper Lee.
Pare che sia stato lui a convincerla a scrivere "Il buio oltre la siepe". E Truman, un po' randagio, un po' spaccone, un po' tenero trova spazio nel romanzo dell'amica. È Dill.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    17 Giugno, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Dove si firma per una vita così?

ATTENZIONE SPOILER !!

A questo libro sono giunta piena di aspettative.
Non vedevo l’ora di leggerlo, tout court. È sempre un pessimo modo di approcciare un libro. La delusione è sempre in agguato. Non di meno non c’è stata delusione alcuna.
Tuttavia mi trovo in una situazione di perplessità, perché, anche nelle critiche più entusiaste che ho letto e sentito, ricorrono spesso elementi e termini quali “uomo senza qualità”, “bello anche se non accade nulla”, “passività” e similia.
Ora, io devo dire che ogni tanto, mentre la lettura progrediva, ho avuto il dubbio di leggere un altro libro.
Riassumo il plot, come mia abitudine.
Il nostro protagonista nasce in una famiglia di contadini – da generazioni – che strappano con fatica, da una terra certamente non generosa, quel poco che gli serve per sopravvivere. Questi genitori, senza volto, quasi senza parole, al prezzo di grandi sacrifici mandano il figlio all’Università.
Per studiare.
Agraria.
Per migliorare la resa della fattoria e – si spera – le condizioni di vita della famiglia.
Il nostro parte per la nuova avventura, peraltro sfruttato dai parenti che dovrebbero aiutarlo, e la affronta come ci abituerà a fare sempre: determinato.
Non “rassegnato”.
Non “ottuso”.
Determinato.
A metà dell’università, folgorato dal professore apparentemente meno folgorante che si possa pensare – Archer Sloane - decide di cambiare tutto.
Non Agraria.
Letteratura.
“… e allora si sentiva fuori dal tempo, proprio come si era sentito quel giorno in cui Archer Sloane gli aveva parlato. Il passato sorgeva dalle tenebre e i morti tornavano in vita di fronte a lui, e insieme fluivano nel presente, in mezzo ai vivi, tanto che per un istante aveva la percezione di stringersi a loro in un’unica, densa realtà, da cui non poteva e non voleva sottrarsi. Tristano e la dolce Isotta gli sfilavano sotto gli occhi, Paolo e Francesca vorticavano nel buio incandescente, Elena e il radioso Paride, amareggiati dalle conseguenze del loro gesto, spuntavano dal buio. E Stoner li sentiva più vicini dei suoi stessi compagni, che si spostavano da una classe all’altra, alloggiando presso una grande università a Colombia, nel Missouri, e che camminavano distratti nell’aria del Midwest.
In un anno imparò il greco e il latino, quanto bastava per leggere i testi più semplici; aveva spesso gli occhi rossi ed irritati per la fatica e la mancanza di sonno. Certe volte rifletteva su com’era pochi anni prima, e il ricordo di quella strana figura, bruna e inerte come la terra da cui proveniva, lo lasciava incredulo. Poi pensava ai suoi genitori, li sentiva estranei quanto il figlio che avevano generato ed avvertiva per loro un misto di pietà ed amore distante.”

E qui Stoner ha trovato la PASSIONE. Quella che sostanzia la vita e quella che ti fa andare avanti, nonostante quello che (ti) succede intorno. Non sopporta, non si fa scivolare addosso, non resiste.
Sta facendo altro. Si sta occupando di altro. Di quello che è importante. Il resto viene dopo.
Capita a molti? Forse a pochi? Non so, ma è una fortuna da saper cogliere.

Ma torniamo all’uomo senza qualità.
Me lo vedo proprio, un uomo passivo e senza qualità che fa tutto questo. Che studia di notte, che impara a prendere le distanze anche da sé stesso, soggiogato da una passione che gli sostanzia la vita; un uomo che va a dire al padre e alla madre – che si son levati il pane di bocca per farlo studiare agraria, per migliorare le loro condizioni – che no, lui ha pensato di diventare professore di letteratura e non per soldi o prestigio, ma per passione.
Tout court.
Nonostante questo, Stoner lo fa.
Come farà sempre tutto il resto, senza modi eclatanti, senza grandi dichiarazioni di intenti, senza titanismo, senza hybris, senza “beau geste”. Quello che va fatto.
Diventato “professorino” fa amicizia con i colleghi Dave e Gordon.
(Dave, che rimane vivo per più o meno dieci pagine, è stato – al solito – il mio personaggio preferito; e mi è piaciuto come il suo ricordo tornasse nei momenti importanti del libro). Lui fotografa mirabilmente Stoner, Finch, l’Università/ospizio e sé stesso, nel monologo migliore di tutto il libro.
Non lo trascrivo tutto, ma nella descrizione di Stoner che vede la felicità e la giustizia “qualche libro più in là” io mi son commossa.
È Voltaire.
E nel suo fallimento c’è quello dell’illuminismo, di Voltaire e di una certa idea della cultura, del sapere e della bellezza.
Finch è tutto sommato un buon diavolo che non vuole darsi troppo da fare, ma in fondo non così malvagio da essere disonesto e Dave di sé dice “Sono troppo intelligente per il mondo e me ne andrei anche in giro a dirlo; è una malattia incurabile, la mia. Per questo devo essere rinchiuso qui, dove posso comportarmi in modo irresponsabile senza alcun pericolo, senza far del male a nessuno.”
Così, in mezza pagina, da un personaggio che va a morire per qualcosa in cui non crede.

Scoppia la prima guerra mondiale, grande entusiasmo “interventista” in America, arruolamenti in massa. Anche degli amici del nostro.
Che non si arruola.
Resta lì.
Scelta impopolare e controcorrente.
Non ci viene neppure spiegato – in un certo senso – perché. Almeno non direttamente da Stoner. Il senso di tradimento e spreco lo avvertiamo nelle parole di Sloane, ma non in quelle del protagonista.
In Sloane che dice “Non si dovrebbe chiedere ad un uomo di lettere di distruggere ciò che ha passato la vita a costruire.” C’è bisogno di un altro motivo per essere uomini di lettere?
E poco dopo “Deve ricordare – dice a Stoner – chi è e chi ha scelto di essere, e il significato di quello che sta facendo. Ci sono guerre, sconfitte e vittorie della razza umana che non sono di natura militare e non vengono registrate negli annali della storia. Se ne ricordi al momento ci fare la sua scelta.”
A pensarci, assai raramente viene fatta esplicitamente luce su quello che Stoner pensa. Abbiamo descrizioni di azioni e (brevi) dialoghi. In perfetta antitesi con Lomax che invece parla, strilla, gesticola ed agisce, Stoner è misurato, apparentemente al limite dell’apatia.
Secondo me è qui l’equivoco sulla passività e “l’uomo senza qualità”.
Stoner fa le cose come se non ci fosse altro da fare. Come se fosse “ovvio” o “naturale”
Rassegnato sarebbe chi subisse passivamente un destino che non si è scelto, ottuso sarebbe chi non sapesse deviare da una strada presa (o imposta).
Stoner non si ribella a forze e situazioni che non può modificare, ma resiste sempre. Non diventa complice e non si abbruttisce. Non può farlo, la sua Passione glielo impedisce.
Poi si infatua di Edith.
Bella, diafana, elfica, figlia di un banchiere.
Fuori portata, per un professorino figlio di contadini.
Non di meno, il nostro è Stoner. Determinato, riesce ad ottenere quello che desidera.
Peccato che non avesse una Morgana qualunque a dirgli di temere quello che desidera, specie nel momento in cui lo ottiene.
La povera Edith si dimostra, almeno all’inizio, una creatura debole e insicura, priva (lei sì) di qualità, come molte generazioni di donne, schiacciate dalla loro condizione cromosomica.
Non è difficile immaginarla a cercare un marito qualsiasi per tirarsi fuori da una situazione claustrofobica e poi incolpare lo stesso marito di non essere il principe azzurro che si era immaginata e accusarlo di averla strappata al suo magico mondo infantile (tra parentesi, avete presente il momento in cui Edith torna a casa dopo la morte del padre e ritorna nella sua stanza? E poi fa tutto meticolosamente a pezzi? Non è una sequenza da film horror? Io ne son stata sconvolta).
Stoner vede l’infelicità della moglie e capisce di esserne la causa, non l’unica, non la più grave e non volontaria, ma comunque causa.
Le resta accanto e cerca di assecondarla, perché le vuole bene e la vede per quello che è: una piccola creatura che soffre. Edith non vive per niente e non ha niente per cui vivere. Non ha qualcosa che la animi e la appassioni e, nei pochi momenti cui è felice, la sua è una felicità “disperata”. Cerca disperatamente qualcosa: prima nei suoi ricami fragili e nei suoi paesaggi delicati, poi nell’unica realizzazione che la società ammetteva, allora (?), per una donna: la maternità.
Ma l’alchimia non riesce. La maternità non la rende felice e neppure la lascia indifferente. Peggiora le cose. Comincia a rifarsi sul marito, perché lui sì che ha qualcosa che lo fa stare bene e lei no.
Stoner si ritaglia piccoli spazi di vita altrove. E può farlo, perché lui ha altro, ha la passione.
Ed arriviamo al momento – per me – più straziante del libro, la morte del mentore, ossia di Archer Sloane.
Lui sì, un titano.
“Ma William Stoner fu sempre convinto che fosse stato proprio Sloane, in un momento di rabbia e disperazione , a decidere che il suo cuore si fermasse, come in un ultimo, muto gesto d’amore e disprezzo verso un mondo che lo aveva tradito così profondamente da essergli diventato insopportabile.”
“E poiché non aveva né familiari né congiunti che lamentassero la sua dipartita, fu Stoner a piangere quando la sua bara venne calata nella fossa, come se il pianto potesse attenuare la desolazione di quella discesa. Se piangesse per sé stesso, per quella parte della sua storia e della sua giovinezza che finiva sotto terra, o per la povera figura smunta appartenuta all’uomo che aveva amato, non lo sapeva.”
E non è un caso che Finch, al momento di congedarsi da Stoner, dopo il funerale, associ le figure di Dave Masters e di Archer Sloane “Non so. Per tutta la funzione ho continuato a pensare a Dave Masters. A lui che moriva in Francia e al vecchio Sloane che è rimasto lì seduto alla sua scrivania, morto, per due giorni.”
Bene.
Persi i due personaggi preferiti e le uniche figure positive che gli siano, per un poco, passate accanto, Stoner è solo con i suoi libri, l’insegnamento, le nevrosi della moglie che diventano francamente patologiche, la sua bambina.
Grace.
Stoner se ne occupa amorevolmente, perché è quello che va fatto e che sente di dover fare, data l’incapacità della moglie. L’affetto vero, per la bambina, io lo vedo in altro. Grace è l’unica a cui Stoner permette di stargli accanto quando vive davvero. La tiene con sé nel suo studio, dove legge, dove scrive. Grace vede il padre essere felice e cerca di uniformarsi a quell’idea di felicità.

E qui apro parentesi.
Siamo sicuri (ma davvero sicuri sicuri) che, fatto salvo il grande amore che Stoner ha per la bimba – incommensurabilmente minore di quello che ha per la letteratura – questa educazione fosse una cosa “sana” per una bambina?
Nessuno si fa venire il dubbio che Edith, “risorta” dopo aver seppellito il padre e la sua parte adolescenziale, abbia davvero cercato di fare qualcosa per sua figlia? Perché non crescesse come una disadattata? Certo lo fa in modo incongruo e brutale, ma le propone un’idea di felicità – cioè l’essere popolare – che è quella che è stata inculcata a lei, alla quale sa – confusamente – che tutte le donne si devono uniformare per ritagliare qualche scampolo di felicità - siamo nel primo dopoguerra, non va dimenticato, secondo me.
Be’ a me il dubbio è venuto.
Io non la vedo, Edith, crudelmente malvagia, qui. Sa che Grace non potrà condividere la passione di Stoner e cerca di aiutarla. Come può e come sa.
Male.
Ma non “contro”, secondo me.
Stoner come reagisce? Come ci ha abituato a fare. Come fa con tutto quello che non lo riguarda troppo da vicino e, soprattutto, non riguarda quello che per lui conta davvero. In una parola quello che conta poco. Si adatta.
Gli portano via la bambina? Sta da solo. Gli smantellano lo studio? Sta all’Università.
Fastidi.
Invece, succede davvero una cosa importante a questo punto.
Arriva Hollis Lomax.
Nuovo professore, geniale, istrionico, volto d’angelo, voce d’angelo. Deforme.
“Gli ci volle un po’ di tempo per capire il motivo per quell’attrazione per Hollis Lomax. Nella sua arroganza, nel suo eloquio fluente e nel suo allegro cinismo, Stoner intravedeva, distorta, ma riconoscibile, l’immagine del suo amico Dave Masters. Avrebbe voluto conversare con lui come faceva con Dave...”
E accade, perché una sera, Hollis alza un po’ il gomito e parla di sé. Parla della sua “Passione” che lo ha liberato dalla schiavitù del suo corpo. Stoner lo ascolta e sente la sua storia. Lui è stato liberato dalla schiavitù della gleba, dalla Passione, Hollis da quella del corpo.
“E quando arrivò alle lunghe giornate e alle serate passate da solo nella sua stanza leggendo libri su libri per sfuggire a limiti che il suo corpo infelice gli aveva imposto, e alla scoperta graduale di un senso di libertà, che si faceva più intenso via via che ne comprendeva la vera natura. Quando raccontò tutto questo, William Stoner sentì un’affinità con lui che non aveva previsto. Capì che Lomax aveva attraversato una sorta di conversione, un’epifania di ciò che le parole possono far conoscere e che però non si può esprimere con le parole: proprio come era accaduto a lui durante la lezione di Archer Sloane. Lomax ci era arrivato prima, e da solo, e dunque quella conoscenza era parte di lui più di quanto non lo fosse di Stoner. Ma in fondo, ed era questa la cosa più importante, lui e Stoner erano uguali, anche se nessuno dei due avrebbe voluto ammetterlo con l’altro, o perfino con sé stesso.”
Stoner tende la mano a Lomax il giorno dopo, ma lui si ritrae, pentito di essersi esposto in quel modo.
E Stoner scrive. Ha perso un’anima affine, ma non ne ha bisogno. Ha sé stesso e il suo amore. Struttura il suo libro e struttura sé stesso “Ogni volta che ripensava a quel libro, e al fatto di esserne l’autore, restava stupito ed incredulo di fronte alla propria temerarietà. E alla responsabilità che si era assunto.”
È il panache di Cirano. È sé stesso, ciò che la passione gli ha permesso di essere. Quello che ha e quello che lascia. E scopre che questa passione riesce a comunicarla non solo attraverso lo scritto, con il libro, ma anche con la voce, insegnando. Scopre il piacere di insegnare, quasi goffamente; e immediatamente si dispiace per i suoi studenti precedenti, che ha “ingannato”.
“A volte veniva così preso dall’entusiasmo che balbettava, gesticolava e ignorava gli appunti, che di solito guidavano le sue spiegazioni. All’inizio quelle esternazioni lo infastidivano, quasi tradissero un’eccessiva familiarità con la materia e quasi se ne scusava con gli allievi. Ma quando quelli cominciarono ad andare da lui dopo le lezioni e a mostrare, nelle esercitazioni scritte, tracce di immaginazione e di crescente entusiasmo, si sentì incoraggiato a fare quello che nessuno gli aveva mai insegnato. L’amore per la letteratura, per il linguaggio per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò ad esprimersi, dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio.”
Parrebbe la felicità perfetta. Ma qualcosa minaccia il piccolo mondo di Stoner. Non sia tratta della guerra, del male, della moglie… ma qualcosa di veramente pericoloso per ciò che lui ama.

Arriva il pupillo di Lomax, Walker. Uno studente senza qualità che in qualche modo fa breccia nell’anima di Lomax, che – complice la deformità – in lui si rivede. E nel piccolo, insulso furbetto senza qualità, Lomax rivede sé stesso. E decide di aiutarlo, favorendolo, laddove non ha merito alcuno.
Il passivo (?) Stoner, che apparentemente non ha fatto una piega di fronte a ben di peggio, si arma fino ai denti e blocca l’invasione.
Da solo.
Si fa tormentare dalla moglie, si fa portar via la figlia, subisce ogni tipo di scelta altrui, ma questa no.
Perché questa era una cosa importante, le altre no.
Perché questo, uno Walker promosso, uno Walker insegnante, avrebbe messo in pericolo quello che davvero conta per Stoner.
Naturalmente nessuno capisce.
Stoner l’apatico si accanisce contro uno studente, pure deforme, pure pupillo di Lomax.
Gordon prova a farlo ragionare.
“Qualsiasi cosa tu faccia rischi di perdere la battaglia. Non possiamo tener fuori i vari Walker.”
“Forse no – disse Stoner – ma ci possiamo provare.”
E io la vedo, la faccia di Gordon, – Dave Masters aveva ragione – in fondo è un buon diavolo e vuole bene a Stoner – diventare un grosso punto interrogativo.
E Dave se lo ricorda anche Stoner, perché un momento dopo dice:
“Gordon, ti ricordi cosa ci disse una volta Dave Masters? (…) Eravamo tutti e tre insieme e lui disse qualcosa, qualcosa sul fatto che l’università è come un ospizio, un rifugio dal mondo, per gli infelici, gli storpi. Ma non alludeva a quelli come Walker. Dave avrebbe considerato Walker come… come il mondo esterno. E noi non possiamo lasciarlo entrare. Perché se lo facciamo diventeremo come il mondo, altrettanto irreali, altrettanto… l’unica speranza che abbiamo è tenerlo fuori.”
E qui Stoner difende quello che per lui è importante. Quello che vale, quello che salva la vita. Ed è inflessibile, apparentemente anche in modo incomprensibile.
Folle e assurdo.
La vendetta di Lomax è terribile. Non può licenziare Stoner, ma gli rende la vita un inferno. Lo tocca dove pensa di ferirlo (la carriera, l’insegnamento), riuscendo solo a indispettire Edith, che Stoner ormai bellamente ignora. Stoner sopravvive amenamente a tutto, perché nulla di quello che Lomax fa, lo tocca davvero.
Ha difeso, preservato e salvato il suo fortino. Come aveva detto Dave. Fine della storia.
Il resto non conta.
In tutto questo, Stoner riesce anche, ormai quarantenne, ad avere una storia d’amore “vera”.
E non a caso si innamora di una come lui.
Katherine.
Una donna animata dalla sua stessa passione. Si innamora di lei “leggendola” attraverso il suo lavoro di scrittrice. Si amano, leggono e scrivono.
Nessuno, almeno per un po’ se ne cura e la stessa Edith se ne buggera piuttosto discretamente (questa donna che poi doveva essere un mostro… non sarebbe stato un perfetto terreno di tortura questo? Invece niente). Alla fine, però, la storia arriva all’orecchio di Lomax che – ovviamente – da bravo Vilain della storia, intriga per separare i due amanti.
Anche qui, apparentemente, Stoner non lotta per il suo amore, come aveva lottato per la sua “passione”.
Invece, secondo me, i due agiscono di comune accordo e il dialogo “finale” che hanno è un bellissimo duetto d’amore.
“Se rinunciassi a tutto, se me ne andassi via così e basta, tu verresti con me, vero?”
“Sì” disse lei.
“Ma sai che non lo farò, vero?”
“Sì, lo so.”
“Perché in quel caso – Stoner spiegò a sé stesso – niente avrebbe più senso, niente di quello che abbiamo fatto, di quello che siamo stati finora. Io non potrei più insegnare, e tu, tu diventeresti qualcos’altro. Entrambi diventeremmo qualcos’altro, qualcosa di diverso da noi. Non saremmo…niente.”
Hanno capito – entrambi – che si amano per quello che sono. Perché son due lettori, scrittori, insegnanti. Perché amano i libri e la letteratura. Sono i libri e la letteratura. In “due cuori e una capanna” non si amerebbero, perché non sarebbero più loro. L’amore che hanno saputo donarsi derivava dalla passione che avevano in comune. Tradendola – lasciando cioè l’insegnamento, la letteratura, l’Università – perderebbero sé stessi e il loro amore.
E quindi, Katherine – da gran donna che è – esce di scena senza pianti e strepiti, ché tutto quello che c’era da dire era già stato detto.
Nel frattempo si prepara un’altra guerra mondiale. Un altro spreco di vite. Un altro attacco a quello che è importante. E ancora una volta, nel momento della disperazione la memoria torna a Dave e ad Archer Sloane e l’aiuto arriva dalla passione. Quella vera.
“Ripensò a Dave Masters e quell’antica perdita gli ritornò alla memoria con rinnovata intensità. Pensò, anche, ad Archer Sloane e ricordò, dopo quasi vent’anni, la lenta angoscia che si era fatta strada sul suo viso ironico, assieme alla disperazione corrosiva che aveva dissolto tutta la sua forza. E penso che adesso, nel suo piccolo, anche lui poteva comprendere quel senso di desolazione. Immaginò gli anni a venire e sentì che il peggio doveva ancora arrivare. Com’era accaduto ad Archer Sloane avvertiva l’inutilità e lo spreco di quelle vite votate interamente a forze irrazionali e oscure che spingevano il mondo verso una fine ignota. Al contrario di Sloane, Stoner conservava un piccolo spazio per la pietà e l’amore, in modo da non farsi travolgere da quel fiume in piena. E come in altri momenti di crisi e disperazione, guardava con timida fiducia al baluardo dell’istruzione universitaria. Si diceva che non era gran che, ma sapeva che era tutto ciò che aveva.
Nell’estate del 1937 sentì riaccendersi la vecchia passione per lo studio e l’apprendimento. Con la curiosità e l’entusiasmo infaticabile dello studente, la cui condizione è sempre senza età, tornò all’unica vita che non lo aveva mai tradito. E scoprì che non se n’era mai allontanato, neppure al culmine della disperazione.”
E questa, secondo me, è la passione “vera”.
Grazie a ciò, Stoner diventa “leggenda” all’università, superando di slancio anche le meschine vendette di Lomax. Insegna, cosa sa e come vuole. Ottiene quello che desidera e “in un certo senso fu un trionfo, al quale tuttavia continuò a guardare con atteggiamento ironico e sprezzante, come una vittoria ottenuta solo con la noia e l’indifferenza.”
Perché aveva già vinto.
Ormai “leggenda” dell’università, Stoner segna i suoi bravi punti anche a casa, dove Edith riprende la sua antica guerra. La povera donna, che ha accanto un uomo felice e sereno, nonostante tutti i suoi sforzi, per un po’ ci prova a tormentarlo, “coglieva ogni pretesto per deriderlo, ma Stoner difficilmente le faceva caso (…) gli gridava contro mille imprecazioni che lui ascoltava sempre con cortese interesse”, ora, fra i due non so chi possa apparire più crudele, a questo punto.
Alla fine pure Edith si arrende ed accetta la sconfitta.
Ci pensa allora Grace, a provare a rovinare la serena vecchiaia del padre, senza però riuscirci davvero. Divenuta “popolare” grazie agli sforzi – secondo me in buona fede – della madre, alla fine rimane incinta di uno di cui le importa meno di nulla. Stoner mette un deciso freno alle isterie di Edith e cerca una soluzione alla faccenda. Con Grace trovano quella meno dolorosa e fastidiosa possibile. Matrimonio, pupo, guerra mondiale, vedovanza.
Qui Grace e Stoner fanno in tempo ad avere un bellissimo colloquio, prima di quello estremo. Grace comprende di essere stata una delusione per il padre, che non lo ammetterà. Ma di fatto vede, nella figlia, quello che sarebbe stato lui senza passione. Senza i libri, senza la letteratura, senza l’università e senza l’insegnamento. Grace è lucida nel descrivere il suo opportunismo e la sua situazione. Si è sposata per fuggire da casa dove la sua natura non poteva trovare la pace a cui anelava, esclusa dai disegni materni e dalla passione paterna. Per farlo ha inguaiato un disgraziato che praticamente è morto per la vergogna. Si trova sulle spalle un moccioso di cui non le importa nulla, ma di cui, per fortuna, si occupano i nonni paterni. Ha la sua dimensione di tranquillità e pace, che era quello a cui anelava. Il conforto di una passione che le sostanzi la vita (probabilmente) non lo avrà.
Io penso che sia questa consapevolezza che fa dire a Stoner che è grato che almeno possa bere. Sa che non potrà essere felice, senza quel fuoco che ha reso felice lui, quindi è almeno grato che possa avere l’oblio.
Questo colloquio d’addio (prima di ammalarsi) con la figlia è il primo di Stoner. Il secondo sarà con l’amore e con Kathrine. Un amore che torna, ancora in forma scritta, attraverso la dedica “A W.S.” che Kathrine appone al suo libro. Amore e passione, fusi per un breve momento. Stoner non distingue fra amore per le persone e per la conoscenza “A una donna o a una poesia il suo amore diceva semplicemente: Guarda! Sono vivo!”
Poi naturalmente il destino si accanisce e Stoner si ammala. Ma di una malattia abbastanza lenta e dolorosa, in modo da poter prendere congedo da tutto. Lui l’affronta quasi con curiosità e con il solito, immenso, olimpico distacco. Perché, in fondo, niente può toccarlo.
Dopo la figlia e l’amore, l’addio tocca agli studenti, Stoner descrive la sua vita dicendo “Ho insegnato… ho insegnato in questa università per quasi quarant’anni. Non so cosa avrei fatto se non fossi stato un insegnante. Se non avessi insegnato, forse… (…) Vorrei ringraziarvi tutti per avermi concesso di insegnare.”
E io qui ho trovata una delle migliori dichiarazioni d’amore e devozione che abbia mai letto.
Ma il tempo stringe e gli addii fervono. Tocca ad Edith. I due si perdonano e – forse – pensano alla vita che avrebbero avuto se le cose fossero andate diversamente. Ma Stoner non indugia nel raccontarsi favole e la scrittura di Williams lo sostiene con la sua pulizia, senza sconti e senza sbavature:
“Se fossi stato più forte, pensava. Se avessi saputo di più. Se avessi potuto comprendere. E alla fine, spietato, pensò: se l’avessi amata di più.” La scrittura non fa sconti, come non se ne fa Stoner.
Non l’ha amata. Non come amava davvero quello che era importante. Al momento di massimo coinvolgimento emotivo, Edith lo ha infastidito. E lui ha fatto altro. A questo punto lo riconoscono entrambi, capiscono che non poteva essere diverso e si perdonano.
E siamo alla fine. E alla fine si ripresentano quelli che contano davvero.
Inaspettato (ma anche no) ricompare Dave, dopo 40 dalla sua morte, Stoner si sveglia e lo chiama, chiede di lui. Il povero Gordon è giustamente sconcertato e Stoner si pente di aver nominato l’amico “il ragazzo insolente a cui entrambi avevano voluto bene e il cui fantasma li aveva uniti, per tutti quegli anni, in un’amicizia più profonda di quanto avessero immaginato.”
E alle battute davvero finali, come Cirano, Stoner prende congedo da sé stesso, da quello che veramente ha contato, nella sua vita, per lui.
Come per Cirano non è Rossana l’ultimo pensiero, così per Stoner non lo è Kathrine, non lo è Grace, non lo è Edith.
Perché come Cirano di Bergerac, neppure Stoner è una storia d’amore.
È una storia di passione.
E come Cirano omaggia il suo panache – il suo pennacchio – come l’emblema del suo essere altro e di più e meglio, Stoner omaggia il suo libro. La sua passione, la sua eredità.
“Era il suo libro, che cercava, e quando la sua mano lo prese, sorrise vedendo la copertina rossa tanto familiare ormai sbiadita e consumata dal tempo.
Poco importava che il libro fosse dimenticato e non servisse più a nulla. Persino il fatto che avesse avuto o meno qualche valore gli sembrava inutile. Non s’illudeva di potersi ritrovare in quel testo, in quei caratteri scoloriti. E tuttavia sapeva che una piccola parte di lui, che non poteva ignorare, era lì, e vi sarebbe rimasta.
Aprì il libro, e mentre lo faceva, il libro smise di essere il suo.”
Dove si firma per una vita così?




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