Opinione scritta da Bruno Izzo
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Il silenzio è d'oro, i segni di platino
Il silenzio assoluto non esiste; finanche nell’immensità degli spazi siderali o nel profondo delle fosse oceaniche, un suono di fondo persiste sempre; magari a malapena percepibile, se non impossibile da captare senza adeguati strumenti, ma esiste.
Esiste il suono, quindi, sempre e comunque: non può esserci la vita senza acqua, si sa, ma neanche senza suono. Un mondo silente è privo di vita, quindi di configurazione, il silenzio si comporta come un gas, non ha una propria forma, ma si espande occupando tutto lo spazio che lo contiene, assumendone il profilo.
In sintesi, il silenzio è amorfo, è necessario segnarlo, allora lo si incrina delineandolo con il suono.
Lo sanno bene gli insegnanti, tutti i maestri, a partire dai propri genitori: essi segnano il silenzio dei figli e dei discepoli dapprima con suoni, sillabe, lallazioni, poi con parole compiute, esatte, specifiche, infine nozioni, e così facendo traggono il meglio da ciascuno, cioè educano.
Lo fanno subito, dalla nascita, presto e intensivamente, perché è breve il tempo in cui la mente è particolarmente plastica e recettiva al massimo, il cervello è all’apice della forma nell’interpretare, abbinare, archiviare correttamente, infine memorizzare la pletora di input sensoriali di ogni genere che gli arrivano. Non solo, ma sono stimoli che arrivano ad ogni attimo di vita, sempre, non solo in stato di veglia ma finanche nel sonno.
Stimoli tattili, visivi, uditivi, che intrecciandosi realizzano il massimo delle connessioni neuronali, costituendo la rete dei neuroni di base, il substrato iniziale per lo sviluppo delle normali capacità intellettive.
Cosa accade se un qualche stimolo sensoriale, per esempio quello uditivo, un suono qualsiasi, non si riceve e di conseguenza non si imprime, scorre senza lasciare traccia, un segno della sua esistenza?
Non si realizzano adeguate connessioni tra neuroni, come a dire che un maratoneta inizia la corsa della vita con uno svantaggio notevole, un handicap difficile da recuperare, un ostacolo, un fossato da saltare avendo di costituzione un tono muscolare ridotto rispetto agli altri concorrenti, privo di adeguato training, con meno viveri, minori risorse, nessun supporto, quindi inevitabilmente sei destinato a soccombere, a restare indietro, staccato se non doppiato, spesso più volte.
Umiliante, quindi, e deprimente.
Imparare a sentire, e subito dopo a parlare, in estrema sintesi, è il primo passo per la vita, la comunicazione, lo scambio di informazioni tra il sé, gli altri, la corretta interazione con l’ambiente esterno, ed è un processo di imitazione.
Il bambino sente, e ripete, perché è nella sua natura imitare; dapprima mugola, poi balbetta, incespica, e pian piano dice, chiede, indica, chiama.
Il bambino che non sente per qualche ragione, ovviamente non ripete niente, non ha cosa imitare; allora l’istinto lo induce a valersi del canale sensoriale integro, quello visivo-gestuale.
Perciò vede, contempla, poi indica, puntualizza, comprende uso e funzioni, segna cosa indica.
Lo descrive a segni, non lo dice a parole, non si esprime oralmente, però comunque comunica, e bene anche, in maniera esauriente ed esaustiva, malgrado quanto si pensi.
Perché le cose, per essere comprese, vanno definite per nome; per comunicare, serve delineare la realtà con un adatto appellativo, solo così la si può determinare ed esplicitare, e quindi si può interagire con essa.
Un bambino udente delinea la realtà con i suoni, la chiama a voce, la possiede con l’oralismo, un bambino sordo profondo la delinea con i segni, traccia con le dita nell’aria le linee che riconducono alla realtà, la disegna, letteralmente comunica con le immagini.
Si dice che la parola è d’argento ed il silenzio è d’oro, ed è paradossale, ma se è vero, allora i segni sono di platino, dopotutto anche un udente può segnare.
Si badi, più spesso, almeno al giorno d’oggi, la lingua dei segni è solo un primo passo, si parte dai segni per arrivare alla parola. Nel sordo l’apparato fonatorio è integro, l’individuo non è affatto muto: con i segni mantiene inalterato lo sviluppo intellettivo, senza accumulare deficit irrecuperabili; avendo poi acquisito con l’intelligenza anche la consapevolezza dell’esistenza del mondo sonoro, che esiste anche se non ha i mezzi completi per gestirlo, opportunatamente riabilitato con protesi, logopedia ed altro giunge facilmente al bilinguismo, si esprime cioè efficacemente sia a segni con la LIS, la lingua italiana dei segni, sia oralmente come un udente.
Esattamente l’iter che ha compiuto chi scrive, sordo profondo alla nascita per cianosi da parto, oralista e segnante, che quindi un minimo di cognizione di causa di quanto sta dicendo dovrebbe averne.
Questo al giorno d’oggi. Oggi per un bambino sordo la pronta e corretta riabilitazione è un fatto, poi certamente l’efficacia completa risente di diversi parametri individuali, ma c’è da essere comunque più che ottimisti, qualunque sia la scelta riabilitativa utilizzata, l’uso di protesi, l’Impianto Cocleare, la logopedia, l’allenamento acustico, ecc. Questo accade di regola al giorno d’oggi, lo ripetiamo.
Una volta, nemmeno tanto tempo fa, non era affatto così.
Era una realtà assurda, drammatica, semplicemente paradossale.
Questo bel romanzo “La forma del silenzio” di Stefano Corbetta ci parla appunto di questo, racconta una storia il cui inizio risale ad altri tempi, neanche tanto lontani da oggi, quelli degli anni del boom economico in Italia, fino alla riforma della scuola del 1978, un tempo in cui essere un bambino sordo profondo era un problema, talora percepito come una tragedia, spesso per tutti ma incredibilmente non per il diretto interessato. Il quale placidamente segnava, con buona pace di quanti d’intorno.
Corbetta ci offre una storia che trae conseguenza da questo canovaccio iniziale per parlarci di ben altro che la sordità, ci intrattiene di solitudine, di sentimenti affettivi confusi, finanche di disperazione allorché gli udenti, loro sì, diventano sordi; non perché non sentono, ma perchè non sanno ascoltare, rinchiusi su se stessi e crogiolandosi nel loro egoismo di fondo, non prestano attenzione nemmeno ai richiami di un bambino, come dire che non sanno dare ascolto ai sentimenti altrui, distratti dai propri demoni o progetti di vita, comunque da altro, rinchiudono gli occhi ed il cuore ai richiami dell’empatia, e così facendo si condannano al silenzio, che è assenza di vita, non soltanto di suono.
Non comprendono che sentire non significa capire tutto.
Ostinandosi a credersi buoni e saggi, magari perché usi a regalare libri adatti ai propri bambini, per esempio il celebre “Il Piccolo Principe” di Antoine De Saint-Exupery, quello che riporta la famosa frase: “Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.”. Loro però non vedono.
Peggio, non sentono neanche. Il classico non voler sentire, gli udenti sono sordi che sentono e non ascoltano. Corbetta non ci offre quindi un manuale di audiologia, nemmeno un giallo o un thriller, sia chiaro: l’autore propone una bella storia, scritta bene, molto descrittiva, delineando benissimo ambienti ed atmosfere, con stile, con un design tutto suo, efficace, fluido, scorrevole, che solo per caso ha a che fare con il silenzio e la sordità.
Non è un addetto ai lavori, è solo uno scrittore: e però è encomiabile perché si è preparato bene, sa bene di cosa sta scrivendo, si è informato con scrupolo e dedizione, soprattutto si è avvicinato al mondo silenzioso con rispetto, senza pregiudizi, in punta di piedi, e vi assicuro che non è dato a tutti gli udenti farlo altrettanto efficacemente.
Affermerei di più, direi che è un libro benemerito, da leggere e da far leggere a sordi e udenti; intendiamoci bene ancora una volta, non è un romanzo sulla sordità, tant’è che il protagonista della storia, il piccolo Leo, un bambino sordo di otto anni, di famiglia udente, è una presenza quasi sfumata, più che in primo piano.
Oserei direi piuttosto che è un libro sulla cecità: un racconto paradossale dell’ottusità umana, che insiste, si ostina, si impunta talora a pretendere a forza qualcosa da chi con tutta evidenza non ha né mezzi né requisiti per soddisfare la richiesta.
Ricredendosi solo dopo tanto tempo, con un corollario di pentimenti, di sensi di colpa, di scuse e ravvedimenti tardivi che lasciano il tempo che trovano.
Il romanzo inizia al tempo in cui un bambino sordo non poteva frequentare la normale scuola pubblica, la scuola con tanto di insegnante di supporto e con tutti gli ausili pedagogici disponibili oggi per il superamento della barriera alla comunicazione e la corretta integrazione sociale, ma veniva invece destinato alle “scuole dirette ai fini speciali per sordomuti”.
Cosiddette, perché pochi ne uscivano in grado di parlare correttamente la propria lingua, piuttosto si esprimevano con toni di voce gutturali, metallici, stonati, sgraziati, scorretti nella pronuncia e nella sintassi, per cui spesso per sottrarsi al dileggio dei coetanei normodotati si rifugiavano nel silenzio. Da qui muti, e la povertà di linguaggio peggiorava di pari passo alle inevitabili carenze scolastiche e culturali. Poiché la dottrina prevalente era assurdamente improntata all’oralismo, nella convinzione che parlare normalmente avrebbe facilitato l’integrazione del disabile nella società. Sicuramente.
Quello che la maggioranza linguistica dominante scioccamente non considerava minimamente, era che l’acquisizione del linguaggio presuppone l’integrità della ricezione sonora: assurdamente, si pretendeva coattivamente, certamente in buona fede, magari con affetto, cortesia, gentilezza, buone maniere, professionalità, senza abusi o crudeli mezzi coercitivi, che il bambino sordo imparasse ad esprimersi oralmente, se non proprio come un normodotato, quanto più vicino possibile.
Paradossalmente, come chiedere di vedere a chi non ha gli occhi: ugualmente, pretendere da un sordo di parlare solo perché possiede lingua, tonsille e laringe. Poiché l’istinto portava invece i piccoli a segnare, a disegnare con le mani con segni, convenzionali e convenzionati tra loro, la realtà, esprimendosi e comprendendosi efficacemente.
Tale prassi incredibilmente veniva fortemente scoraggiata, era un continuo riprendere il bambino che segnava, magari a fin di bene si arrivava a rimproverarlo per bloccargli le mani perché non segnasse in alcun modo, ma si sforzasse di parlare.
Leo è un bambino sordo di otto anni, la sua esistenza è scandita in famiglia dalle interazioni con il resto della famiglia, tutti udenti, il papà, la mamma, e la sorella maggiore, la quattordicenne Anna.
Il bambino comunica con loro con immagini; con segni, disegni, schizzi, tracce, tratteggi.
Con immagini, quindi con luce, con chiarezza, per poter vedere e quindi essere:
“…capì di esistere solo in funzione della luce. Senza luce, Leo non era niente.”
Quale sia il suo stato d’animo, la sua crescita, il suo percorso di vita in tale realtà lo dimostrano i soggetti dei suoi arabeschi, tratteggiati finanche sulle pareti di casa: fiori.
Leo però è costretto alla frequenza nella scuola per sordi: qui è obbligato alla parola.
“Così non è Leo, questa non è la sua voce.”
Un giorno Leo scompare. A nulla valgono le ricerche di famiglia e autorità, non viene ritrovato né il bambino ma nemmeno le sue spoglie mortali, in caso di infausta conclusione della scomparsa.
Leo è scomparso, inghiottito nel silenzio con il suo silenzio. Con tutte le conseguenze del caso per la sua famiglia, inevitabilmente segnata, e segnata a fondo.
“Il silenzio è buono, Leo. Ma il mondo è cattivo”.
Diciannove anni dopo ritroviamo Anna, a cui la scomparsa dell’adorato fratellino ha segnato l’esistenza, non solo nell’animo ma finanche nel progetto di vita, tant’è che è una psicologa di sostegno esperta nell’uso della LIS, lingua italiana dei segni, e quindi continua ad avere a che fare con sordi e problematiche della sordità, seppure in uno scenario di tempi moderni.
“…la Lingua dei Segni era permessa e i programmi scolastici erano stati adeguati secondo un’ottica più moderna.”
Quasi una rivalsa la sua nei confronti del destino che le ha sottratto il fratello, e con lui la pace e la serenità dell’intera famiglia.
Un giorno nel suo studio si presenta Michele, un giovane sordo che è stato un ex compagno della scuola per sordi di Leo, e rivela di sapere come e con chi Leo si allontanò l’ultima sera che fu visto.
“Era una notte di neve. Io e Leo eravamo davanti alla scuola. Poi arrivò un uomo e lo portò via.”
Da qui tutta una serie di eventi, che portano ad una amara verità: spesso, troppo spesso, gli uomini non mostrano empatia per i propri simili. La vita di ognuno di noi è come un blocco di argilla, da porre su un tornio e dargli forma con segni precisi, amorevoli, accurati, decisi e delicati insieme.
Se poi la forma non è quella giusta o quella desiderata, se una cottura errata incrina l’argilla screziandola, non è giusto, non è umano, non è etico porre una forma altrui sul tornio, e adattarla ai propri desideri. Crea un duplice danno, a sé stessi per non aver avuto fede, onestà e costanza nella propria forma, ed agli altri a cui è sottratto senza colpa il proprio manufatto.
“Non esiste una verità…esiste solo quello che manca. Il resto non lo vediamo.”
Stefano Corbetta tutto quanto lo racconta con discrezione, un sussurro discreto, rispettoso, attento alla sensibilità altrui: ne viene fuori una vera melodia, con una forma precisa, armonica, suadente.
Di gran valore: il silenzio, invece, non ne ha alcuno.
Indicazioni utili
I bambini sanno
Le vittime più innocenti di una guerra, se possibile stilare una simile classifica, e di qualsiasi guerra, in ogni luogo ed in ogni tempo, sono sempre i civili, e tra questi i più deboli, i più fragili, gli ultimi, quelli più teneri e delicati: i bambini, dai più piccoli a quelli nel mezzo dell’adolescenza.
I più piccoli pagano il prezzo più alto, perché non si creda che non capiscano la gravità dei fatti che stanno vivendo, o che ignorino l’esatta portata e le conseguenze anche sulla loro quotidianità dei tragici avvenimenti.
Senza parere, forse, ma i bambini vedono, ascoltano, pensano: in sintesi, sanno.
I bambini sanno: prendiamo a prestito questo titolo di un bel film di Walter Veltroni, persona umanissima in ogni frangente del suo vissuto, con i minori sensibile ed empatico oltre ogni dire, per accostarlo a questo libro altrettanto bello di Manlio Castagna, scrittore ugualmente intenso e partecipe alle vicende dei suoi piccoli protagonisti, per chiarire subito che questo non è un romanzo per bambini o con bambini, è un racconto dei bambini.
Appartiene a loro, è una medaglia al valore per tutti i bambini ai quali gli adulti hanno brutalmente accelerato la crescita.
La regia di Walter Veltroni si rifà al notissimo e benemerito “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry, che affermò senza se e senza ma: "I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spiegargli tutto ogni volta".
Tocca ai bambini anche qui provarci con pazienza a spiegare in questo libro agli adulti che le ombre che costellano l’esistenza non sono fenomeni paranormali, o parti di una mente malata o troppa propensa alle fantasie infantili, tutt’altro: le malombre non sono altro che gli aspetti più deleteri dell’animo umano, per questo si celano nel buio, e sono maligne.
I bambini sanno qualcosa che la maggior parte della gente finge di non vedere.
Un romanzo quindi didattico, pedagogico, un elaborato di Storia con tanto di morale, perché funga da monito e da insegnamento, solo per questo un libro esemplare, che non dovrebbe mancare in nessuna biblioteca scolastica, di più, in nessuna casa, siano presenti bambini o meno
Travolti dalle crudeltà e dalle violenze nel pieno della loro crescita, all’inizio dell’ acquisizione della consapevolezza del loro vivere, senza neanche aver avuto tempo e modo di metabolizzare l’improvviso e tragico cambiamento del proprio progetto di vita appena accennato, comunque i bambini sanno.
Sanno: talora, più degli adulti.
I bambini sono vittime che non rinveniamo in prima linea, nemmeno sono in divisa, e però non sono al sicuro nel ventre della vacca, esclusi dal dolore, patiscono fame, paure, lutti e abbandoni ai margini del conflitto, nelle retrovie, spesso a casa loro, per questo la loro sofferenza è più dolorosa, perché riguarda non i chiamati direttamente in causa nel conflitto, ma gli innocenti, le vittime non belligeranti, che dalla guerra sono investiti indirettamente, senza colpa, in maniera molto più sottile e dolorosa.
La loro agonia non è infatti rapida come quella di chi è colpito a morte da un proiettile, ma è lunga, si trascina nel tempo, tra patemi, paure, è uno stillicidio continuo di sofferenze di vario genere.
Residuando cicatrici nel fisico e conseguenze nell’animo, evidenti poi nell’età adulta.
Sono vittime che degli eventi bellici in sé non ne sono colpiti che in minima parte, in virtù di eccidi, bombardamenti, battaglie. Però più di altri soffrono come nessuno le conseguenze non cruenti degli eventi bellici, la fame, la paura, l’abbandono di giochi, affetti, dei luoghi natali, soprattutto la perdita del loro incanto e della loro innocenza, una recisione necessaria, richiesta tassativamente dalla dura lotta per la sopravvivenza a cui giocoforza devono adattarsi.
La sopravvivenza non è un gioco da bambini, da intraprendersi con ingenuità e candore, è una lotta crudele che non risparmia nessuno, i piccoli coinvolti non si esimono dalla disperata ricerca del minimo per la sopravvivenza, ingegnandosi in mille modi, ad onta della tenera età o dei natali agiati che certo non li ha agevolati ad industriarsi per la semplice conservazione di sé.
Tuttavia, è da notare come i bambini, malgrado la sfiducia nelle loro capacità sempre ben radicata negli adulti, sanno all’occorrenza trarre da sé forza, ingegno, abilità e intelligenza insospettabili per sbrigarsela alla grande, perché i bambini non sono bambolotti, sono piccoli adulti, quando stimolati, e pungolati dall’urgenza, vedono, assimilano e comprendono perfettamente la realtà, intuiscono i pericoli, decidono, trovano coraggio e soluzioni, e soprattutto, e questo li differenzia sempre dagli adulti, agiscono senza perdere di vista i valori di amicizia, solidarietà, mutuo soccorso, che la crudeltà dell’esistenza cancella durante la crescita in favore di un più utilitaristico e sano egoismo.
I bambini sanno: sanno che i mostri esistono realmente, non solo nelle fiabe, hanno concretezza anche se si celano nell’ombra, le malombre sono una realtà tangibile, e che spesso, troppo spesso, sono generate dagli stessi adulti, quando agiscono in maniera oscura, per niente logica.
Proprio l’ambiguità e la malignità dei comportamenti adulti, la mancanza di limpidezza crea prospettive senza luce, poco chiare, ombre.
Ombre che quando frutto di scelte nocive, maldestre, sprovvedute, superficiali, e scellerate, allora divengono malombre, particolarmente sinistre in certe notti disgraziate.
I bambini sanno: sanno che solo la solidarietà, la comunanza, la fratellanza oltre i limiti di sangue sono l’olio necessario ad alimentare la lucerna la cui luce dissolve le malombre, facendole svanire.
Fino alla prossima volta, poiché se manca il sostegno lo stoppino torna a spegnersi, e le malombre rinvengono dagli antri dove si erano acquattate: i bambini sanno anche questo.
Taluni di loro questa sapienza la conserveranno anche crescendo, per fortuna nostra.
Questo romanzo racconta tutto questo, e lo racconta veramente bene, grazie ad una scrittura oserei dire chiara e senza ombre di alcun genere, riporta con grazia, delicatezza e precisione un viaggio in treno, in una di quelle notti particolarmente oscure, in cui le malombre si confondono a loro agio, sono anche loro sinistre passeggere che scortano la corsa del lungo e lugubre treno nella notte.
Manlio Castagna scrive con fluidità e scioltezza, ci offre un testo elegante, con un taglio documentaristico ma affatto pedante, rievoca la nostra recente Storia con una storia che sa di incanto, di innocenza tradita, di realtà cruda e però non priva di dolcezza, di emozione.
Questo romanzo ha tutti i tratti deliziosi di una favola, ma non è una fiaba, è una storia vera, poco conosciuta, forse volutamente celata nell’ombra, che l’autore rinviene, rievoca, ne tratteggia i contorni, l’illumina con lo spot spiovente della sua prosa efficace, riportandone alla luce tutti i particolari tanto struggenti e delicati, quanto talora angosciosi e disperati.
Il lettore desideroso di verità e giustizia, che legge, e inevitabilmente si indigna e si commuove a proposito del tragico destino di un “treno di bambini”, carico di struggente ed indelebile infanzia tormentata, come quello nell’omonimo romanzo di Viola Ardone, e sente di condividere in pieno l’affermazione dell’autore:
“Questo per me è un libro importante”.
Il romanzo è ambientato nei pressi di Salerno, nel pieno dell’ultimo conflitto mondiale; quindi in un’area del Meridione già economicamente disastrata , a prescindere dagli eventi bellici, che ne hanno semplicemente moltiplicato esponenzialmente le difficoltà logistiche di procacciamento alimentare minimo per la sopravvivenza.
Solo che la fame strugge in silenzio, ti calpesta lo stomaco, la guerra si limita ad ammazzarti subito con esplosioni e bombardamenti:
“Gli stivali del diavolo non fanno rumore. E invece la guerra fa un fragore assordante”.
I bambini sono i protagonisti assoluti, i capitoli migliori, quelli meglio riusciti di questo libro: Brando, Rocco, Ditelle. E le bambine, meglio ancora: come Nora.
Soprattutto Nora, che con la sua spiccata sensibilità “vede” le malombre che si addensano nei suoi luoghi abituali, Pontecagnano, Battipaglia, dove la famiglia cerca sia un parere medico specialistico per gli “incubi” che la tormentano, sia un rifugio ed un luogo dove approvvigionarsi per i tempi magri correnti.
Si ritrova così sull’ 8017, un lunghissimo treno merci adattato abusivamente a trasporto passeggeri, data l’urgenza dei tempi, carico rischiosamente fino all’inverosimile dell’umanità disperata in fuga per la sopravvivenza, esattamente come quei convogli che si vedono tutt’ora in India con passeggeri abbrancati alle lamiere finanche sui tetti delle carrozze. Un treno così carico, così lento, deve attraversare scorrendo su un unico binario infinite gallerie senza sfiati, arrampicandosi sui monti Alburni, tirato da una vetusta locomotiva a carbone il cui fumo letteralmente soffoca gli sventurati passeggeri all’aperto, figuriamoci al chiuso, e nessun adulto sembra darsene pensiero o paventare pericoli. È un treno disagevole, disastrato, disgraziato, dove si annidano in agguato le malombre: i bambini sanno.
Sanno, ma sanno anche la bellezza dei sentimenti, ad essi non si sfugge, non a quell’età:
“Nora. Brando si stringe nel cappotto. A riscaldarlo è quel nome. Un fiore è sbocciato dentro di lui. Ha petali giganti che mettono in secondo piano tutto il resto.”
Nora e Brando si incontrano sul treno, diversissimi tra loro, ma si riconoscono, si seguono, ci cercano, si fidano l’uno con l’altro, perché solo insieme potrebbero salvare e salvarsi, loro lo sanno:
“Ci sono gesti che si fanno perché comandati da una verità sotterranea, di cui non si conosce la geografia. Tutt’intorno, in quelle profondità dove la ragione non arriva, il terreno è irto di premonizioni, presentimenti o semplici suggestioni.”
L’8017 non arriverà mai a destinazione, l’ esecranda stupidità umana ha creato ombre che si annidano nella “Galleria delle Armi”. Chi se ne accorge? Macchinisti, ferrovieri, burocrati, militari, faccendieri? Nessuno. Solo i bambini sanno:
“Le sente muoversi nel buio, le ombre malvage.”
Nessuno ascolta i bambini. Nessuno crede che le malombre siano sul treno, dappertutto.
“Ma cosa sono? Anime inquiete. Le anime di chi? Non lo so. So solo che fanno del male”
Le anime, però, non fanno male. Dopotutto, sono spiriti, sono eterei, senza concretezza.
Sono i viventi che fanno danni, spesso tragici, sono la loro superficialità, la stupidità, il profitto, l’egoismo i fattori che portano a commettere errori, e gli errori si pagano cari.
Il treno si ferma in galleria, si blocca, non riesce ad andare oltre o a ritornare indietro, il fumo si accumula, rende l’aria irrespirabile, e:
“Poi aveva visto i corpi ammassati dentro i carri. Uomini, donne e bambini colti all’improvviso dalla morte: un uomo in piedi con la sigaretta ancora tra le dita, un altro con la testa appoggiata ad una mano come a riflettere, una donna nell’atto di accarezzare la testa del proprio piccolo”
Poi tutto quello che segue, diventa routine, una gelida, fredda, cerimonia senz’anima, come sempre succede quando tornano protagonisti gli adulti:
“Sui pianali sono ammassati diversi cadaveri, che vengono scaricati a terra senza troppa cura dei soldati. Fanno il loro lavoro senza compassione, come se svuotassero i veicoli da sacchi di carbone.”
Solo i bambini soffrono, partecipano, si struggono, sanno come nessuno l’enormità della tragedia:
“Si aggrappa ai corpi allacciati dei genitori. Se potesse, scenderebbe nella fossa con loro. Insieme fino al centro della Terra.”
Perché, vedete, nessun bambino ha paura dell’ignoto, nessuno come loro capisce che smette di essere tale nel momento stesso che lo si affronta rendendolo conoscibile, e conosciuto.
I bambini non temono le malombre, i bambini sanno.
Lo sa anche Manlio Castagna, e ce lo scrive, bello e chiaro. Per fortuna nostra.
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Pastorale napoletana
Questo probabilmente è tra i più noti dei testi teatrali del grande commediografo napoletano Eduardo De Filippo, se non la sua commedia più conosciuta in assoluto, anche perché, quasi come fosse una sana abitudine da tramandare agli spettatori, viene puntualmente riproposta in onda dalla televisione nazionale durante le festività natalizie.
Una commedia datata, risale al 1931 addirittura, eppure è un testo incredibilmente attuale, non scade mai, non ha mai perso né la sua verve, né la sua validità, il suo intento ed il suo significato artistico, la freschezza di testo arguto, trovate comiche e di linguaggio verace, il suo messaggio è incredibilmente vitale ancora oggi, a decenni dalla sua scrittura e dalla sua prima messa in scena.
Contrariamente a quanto si possa pensare, non è una recita natalizia, in senso stretto, o almeno non è solo quella, se proprio si vuole, ad onta del titolo e della rappresentazione scenografica classica della nascita di Gesù e della Notte Santa, il Presepe, di cui un esemplare artigianale, un tipico manufatto familiare “fatto in casa”, alla buona e però con cura e maestria, campeggia vistosamente in primo piano in tutti e tre gli atti della commedia.
Nemmeno è la storia sorridente e macchiettistica del degrado di valori di un tempo, la famiglia in primo luogo, in un racconto ambientato tra l’altro in una città e in un contesto dove la famiglia è un’istituzione sacra, letteralmente una Sacra Famiglia, da difendere strenuamente contro tutto e contro tutti, in particolare contro le novità avviate dai tempi nuovi, che hanno introdotto nuove mode e tendenze che ne vogliono deteriorare, in nome di un certo mal sentito modernismo, la sacralità e la rilevanza assoluta. La famiglia è famiglia, il matrimonio sacro è indissolubile, le feste comandate vanne santificate come Dio comanda, e via dicendo.
Questo è il credo di Luca Cupiello, napoletano doc.
Napoli, certo, è una città difficile da vivere e da viverci, ma è anche la città che ti accoglie, ti offre rifugio, perché per indole, per storia, per tradizione, ha più di altri luoghi la venerazione e l’accettazione piena di valori e simboli intangibili da sempre.
Lo dice una certa cultura, lo dipinge il folklore popolare, lo si canta nelle sceneggiate.
La prima in assoluto è la Famiglia, quella dove si nasce, si cresce, ci si distacca per formarne una propria, ma sempre mantenendo i legami con quella di origine, perseguendo il modello della tribù allargata, mantenendo l’ordine e soprattutto l’attribuzione di cariche e ruoli istituzionali, attribuiti nel tempo a ciascuno, così che ognuno a suo tempo è figlio, poi diventa padre, infine nonno, e via così, il ciclo della vita a rotazione immutabile. Dove la Mamma è la Regina della Casa, l’angelo del focolare attorno a cui giostrano tutti gli eventi del microcosmo familiare, i figli sono pezzi di cuore, da glorificare e giustificare sempre davanti a tutti, e riempire di scapaccioni in privato alla minima mancanza, “per il loro bene”, il Capofamiglia è un autentico “Pater familias”, a cui è dovuto solo obbedienza cieca, pronta e assoluta.
Una istituzione intangibile, quindi, dove tutti si ostinano, volenti o nolenti a mantenere in vita lo status quo, perché tutti fanno parte di una famiglia, bene o male, quindi il mantenimento dello stato delle cose garantisce il proseguimento del “quieto viere” ambito come la massima onorificenza che la vita possa conferire all’individuo. La Famiglia protegge, assiste, supporta, verrebbe da dire che “Gesù è nato a Napoli”, e in verità un uomo di pensiero napoletano, Luciano de Crescenzo, ebbe a dirlo per davvero. Porre in discussione ruoli e funzioni della famiglia, significa destabilizzare, significa venir meno di cariche e privilegi, significa non continuare la propria esistenza nella maniera più quieta e meno traumatica possibile, ognuno coltivando il proprio orticello con il proprio egoismo e la propria indolenza di apertura al nuovo, al progresso, all’emancipazione.
Tuttavia, “Natale in casa Cupiello” è tutto questo certamente, ma anche qualcosa di più, ed in questo consiste il suo valore ed il suo mantenersi sempre attuale, direi che è una chiara prova della lungimiranza di Eduardo, che con la sua sensibilità di artista, intuiva in anticipo quello che sarebbe accaduto alla società in un futuro più o meno prossimo, se le cose dell’uomo, i suoi modi di essere e di concepire l’esistenza, non fossero cambiati radicalmente.
La trama è notissima: si approssima il Natale a casa di Luca Cupiello, una dimora povera e miserabile ma che si ostina a mantenere una parvenza di decorosa dignità, come il suo capofamiglia, pensionato.
Completano il quadro di famiglia la moglie Concetta, avanti negli anni, depressa per gli acciacchi dell’età e per le privazioni e le fatiche di un’esistenza con tutta evidenza tribolata e piena di dispiaceri; il figlio Tommaso, detto Nennillo, giovane già in età di marito, per i canoni dell’epoca, ma disoccupato e sfaccendato, o forse semplicemente amareggiato per la costrizione dovuta al suo stato; il vecchio zio scapolo Pasqualino, ospite pagante della casa; la figlia Ninuccia, costretta al matrimonio “di convenienza” con Nicolino, date le floride condizioni economiche del consorte, e che però ama segretamente il giovane Vittorio, con il quale progetta la fuga amorosa.
Tutti i personaggi, per caso o per precisa volontà, vengono ai ferri corti il giorno di Natale, sullo sfondo del Presepe in festa che celebra la Sacra Famiglia assistendo come un monolite al disfacimento della famiglia non tanto sacra di casa Cupiello; si scoprono gli altarini, il rendez-vous di tutti i personaggi porta ad una tragedia familiare, e che scandisce però la fine di un modo ipocrita, cieco e ottuso di essere e forse, chissà, ad un rinnovamento necessario dei rapporti umani, per quanto traumatico. Insomma, assistiamo ad una autentica pastorale napoletana, un antesignano misconosciuto, di molto in anticipo sui tempi, se pensiamo che solo oltre mezzo secolo dopo Philip Roth mieterà allori, conquistando tra l’altro l’ambito Premio Pulitzer per la narrativa con la sua “Pastorale Americana”, l’opera notissima in cui il protagonista cerca in tutti i modi di tenere assieme quel che resta della propria famiglia, cercando finanche di riportare una propria figliola insofferente alle regole nell’ambito familiare.
Il lavoro di Eduardo, in epoca non sospetta, racconta le stesse vicende.
Luca Cupiello malgrado si sforzi di non sapere, sebbene si ostini a negare l’evidenza, anche se non vuole assolutamente accorgersi dello sfibrarsi dei legami che tengono uniti tra loro i vari membri della sua famiglia, si rende conto perfettamente di cosa accade nel suo microcosmo, appunto perchè è il suo mondo, lo ha creato lui. Ma preferisce applicarsi alla creazione di una realtà ideale e fittizia, il Presepe. Luca Cupiello vede perfettamente l’indolenza, il menefreghismo, la strafottenza del suo unico figlio maschio, è a chiunque comprensibile che il giovane, privo di mezzi, senza lavoro, si arrangia come può alla meno peggio, rubacchiando in casa ai propri congiunti per un minimo di spazio personale: avrebbe bisogno di ben altro, di attenzione ed empatia invece della continue e schizofreniche richieste di apprezzare il Presepe, mostra perciò tutta la sua insofferenza negando, non può in alcun modo essergli gradita la rappresentazione di una felicità alla quale egli non è partecipe.
Come insofferente è la moglie Concetta: anni di privazioni e rinunce ne hanno logorato la fibra, ha riposto ogni speranza di un minimo di serenità nei figli, restandone disillusa, e di nessun aiuto le è l’uomo di casa, che, come un bambino, non vuole vedere quanto lo infastidisce, chiede le ragioni del malessere che sente in casa e si accontenta di una risposta “…niente, è niente” che lo autorizza implicitamente a scrollarsi di dosso pesi e responsabilità della gestione familiare.
Dopotutto il nodo centrale della vicenda è Ninuccia, che semplicemente vuole mettere fine ad una unione disgraziata, che non va e non ha mai funzionato, ma i tempi e soprattutto la morale corrente non permettono, è fuori questione, è peccato mortale per Dio, per lo Stato, per gli uomini, e per i genitori. Di cosa tratta allora in definitiva questo libro? Perché è un bel libro, giacché ogni opera d’arte, prima di essere messa in scena su un palcoscenico, è un racconto, un romanzo, una storia scritta.
Molto descrittiva, più di un romanzo non teatrale, ricco di dialoghi, e le emozioni sono insite nella mimica e nelle parole, non vengono spiegate, quindi la resa sulla carta è ottima se chi scrive, prima ancora di essere un drammaturgo, è un bravo scrittore. E Eduardo lo è, e semplicemente, come lui stesso ebbe modo di affermare, egli riporta e recita tutto quanto l’uomo comune realmente compie, dice, pensa ogni giorno nella vita reale. Ed una cosa che gli uomini fanno spesso è illudersi, a dispetto di tutto. Il tema centrale di questa commedia non è il Natale, non il Presepio, non la famiglia, ma è ben altro: è l’illusione. Il non voler vedere per quieto vivere, il volgere lo sguardo da un’altra parte, il non rendersi conto che l’esistenza di qualsiasi individuo necessita di libero arbitrio, di crescita individuale, di cadere e rialzarsi, di cambiare, di mutare, di adattarsi alla realtà senza pretendere che la realtà si adatti a noi. La nostra vita non è un Presepe, dove le donne vanno alla fontana a prendere l’acqua, accudiscono la casa e badano ai bambini, e gli uomini lavorano nei campi o pascolano le pecore; anche l’uomo può crescersi i figli e accudire la casa, e la donna lavorare fuori casa.
Il Bambino Gesù non resterà serafico nella mangiatoia venendo riscaldato dal fiato degli animali da stalla, ma crescerà divenendo un uomo che lascerà un segno nella storia.
La cometa non brillerà per sempre sulla capanna, ma riprenderà il suo corso celeste.
Invece Luca Cupiello si illude, compie l’errore che troppi gli uomini compiono: pretendono che le cose non cambino, o se cambino, lo facciano come dicono loro. Insiste nel fare il Presepe, si illude che tutto vada bene, resti cristallizzato come desidera lui nel suo personale presepe di famiglia.
Certi uomini non se ne rendono conto che, per cambiare le cose, serve cambiare sé stessi, il che significa evolvere, crescere, svilupparsi, maturare, affrontare gli eventi: un Presepe statico è un simbolo, un ricordo, che deve farci da monito e sprone, non altro.
Dopotutto, questo lo dice anche Gesù: aiutati, che Dio ti aiuta.
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Cuori invisibili
“Quando tornerò” di Marco Balzano è un romanzo familiare a tre voci, quello di una giovane madre della Romania, Daniela, che vive e lavora come badante a Milano, e i suoi due figli, una ragazza ed un ragazzo, rimasti nel paese natale; la prima, Angelica, appena alle soglie della maggiore età, il secondo è Manuel, un ragazzino che sta appena affacciandosi sull’adolescenza.
Si parlano, si raccontano, si dicono: prima il ragazzo, poi la madre, infine Angelica.
Questo, perciò, è un testo sonoro, non è un audiolibro e però è un libro da sentire, di poche parole all’inizio, ma poi quasi subito progressivamente ingravescente di dialoghi e discorsi, un romanzo di cui porsi in ascolto in religioso silenzio, da orecchiare tenendo fissi gli occhi sulla pagina come fossimo assorti sul labiale.
Marco Balzano, già autore dell’intenso e fortunato “Resto qui”, stavolta fa da fonico, registra suoni e dialoghi, li modula, ce li porge e ce li fa ascoltare con decisione senza omettere alcuna nota, anche le più stridule: il suono è invisibile ma concreto, come certe persone che nessuno nota eppure esistono, vivono con noi e intorno a noi, ci badano e si prendono cura di noi, dei nostri nonni, dei nostri cari anziani e malati. Sono cuori invisibili, ma cuori vivi, che battono, che palpitano, che stentano.
Cuori invisibili, resistenti e resilienti.
Balzano raccoglie le loro pulsazioni, il ritmo, gli sbalzi pressori, più spesso le fibrillazioni o le aritmie, e lo fa con intensa e diretta partecipazione empatica, è evidente dal modo, la gentilezza, la delicatezza con cui sistema i microfoni a portata di voce dei suoi protagonisti, ma allo stesso tempo dosando perfettamente il bilanciamento e trascrivendo con cura quanto registrato.
Una scrittura asciutta, dialogata, che estrinseca nel parlato azione e pensiero, condotta ed emozioni, eventi e sensazioni, direi davvero un ottimo elaborato, più sentito e maturo del precedente libro.
Come dire, risaltano qui solo le voci essenziali della famiglia protagonista e narrante, poiché la figura paterna, che pure c’è e che a tratti fa sentire la sua voce, per quanto flebile, non conta, è ininfluente, semmai un impiccio più che altro, nel racconto non ha la stessa incisività degli altri componenti, madre e figli. Non può averla, almeno questo genitore, una sorta di arcaico e anacronistico padre padrone, benché giovane d’età, figura che ancora sopravvive e non è una eccezione per i luoghi di cui si parla, l’entroterra rurale dei paesi dell’est europeo dopo la caduta dell’impero sovietico.
Evento storico e politico disastroso, che ha trasformato la forza motrice dei paradisi socialisti del lavoro in un esercito di badanti. Due terzi dei quali sono donne.
Perciò l’ uomo di casa, il capofamiglia, brusco, rude, lavoratore poco specializzato e poco scolarizzato, dedito facilmente all’alcol come requisito indispensabile per la patente di “uomo e maschio”, ha poca voce in capitolo in questo libro che parla di forza, ma di quella vera, quella di certe donne come Daniela, la forza d’animo indispensabile per tollerare esistenze estenuanti, sfibranti, deprimenti. Talora il padre sembra un estraneo ai suoi stessi congiunti, più che un fantasma, una persona assente anche quando è in presenza, può ammaliare la figlia e il figlio, forse, data la loro età, salvo non rendersi mai conto della realtà delle cose, posticipa qualsiasi scelta e decisione, è inconsapevole ed irresponsabile ad un tempo. Ha un vissuto fuggevole ed estraniante dalle vicende e dai pensieri del resto del gruppo, questi ultimi tre legati invece da un intreccio complesso in cui coesistono sentimenti di abbandono, di nostalgia, di solitudine, di lotta per la sopravvivenza, e cocciuta disperazione. E sogni, desideri, ambizioni comuni ed usuali.
Un romanzo familiare, e sarebbe da dire meglio un dramma familiare, se non fosse che quanto descritto non viene vissuto come un dramma, ma quasi come un destino ineluttabile.
Per quella famiglia, e per tante come loro, il penoso trascinarsi dell’esistenza rincorrendo i bisogni primari è la norma, è nell’ordine delle cose. Questo è un libro, asciutto, duro, ma estremamente reale.
Si racconta qui della fatica dell’esistenza, del logorio di certe esistenze per vivere, è infatti una storia di migranti, di moderna schiavitù travestita da migrazione, di esodo forzato.
Una normale famiglia romena, di estrazione rurale, si ritrova quasi da un giorno all’altro sul baratro del fallimento. Il capofamiglia perde il lavoro, unico sostentamento del nucleo familiare, non riesce a trovarne un altro, e come tipico di quelle popolazioni dell’entroterra arretrato, risolve con l’alcool la sua depressione ed incapacità di agire. Tocca alla madre, Daniela, come tante altre, se non tutte, le donne della regione, trovare un’attività che permette al resto della famiglia di sopravvivere, al marito disoccupato di procurarsi i materiali edilizi necessari per sistemare l’abitazione, soprattutto per permettere ai figli di continuare a studiare. Fuori dal paese, naturalmente. In Italia, a Milano.
Un giorno all’improvviso. Partendo di nascosto dagli stessi familiari, di notte come un ladro.
Perché è inutile restare a fare la guardia ad un mondo che muore.
Un viaggio su un autobus, certo non su un barcone alla deriva nel mare a rischio della vita, ma non meno inammissibile, per giungere in un’altra nazione, in un’altra città con lingua diversa, usi e costumi insoliti e discordi.
Per esercitare la professione di badante.
“…questo è il lavoro che si trova, questo è il paese dove siamo nati, e questo è il tempo in cui ci tocca vivere, non l’ho scelto io…”
Un lavoro duro, difficile, estenuante, deprimente per chi magari ha altri titoli e qualifiche più elevate, per di più svenduto a prezzo irrisorio: la maggioranza della popolazione del mondo occidentale benestante, gode di alimentazione, cure mediche e conforti tali da allungare l’esistenza, pertanto è anziana. Gli anziani necessitano di cure, le cure per definizioni sono prerogativa delle donne, le donne dell’est sono in condizioni disperate, al punto di accettare una modesta retribuzione, che nessun occidentale accetterebbe, per prestare queste cure, e si prestano.
A caro prezzo, ma un prezzo in capo a loro, non ai datori di lavoro.
“Le prime parole che ho imparato in Italia sono stati i nomi delle malattie, i principi attivi dei farmaci, le parti inferme del corpo. Quando me ne rendevo conto impietrivo.”
Vengono per prendersi cura, ma sono cuori invisibili, nessuno si prende cura di loro, nemmeno quelli rimasti a casa e che dai proventi dei loro sforzi traggono soldi, sostentamento, mantenimento agli studi, videogiochi, gadget tecnologici, ricariche telefoniche e tutto quanto serve.
Solo che per gli uni e gli altri si perde di vista cosa effettivamente serve.
Daniela lavora instancabilmente perché la famiglia abbia cose, e si perde non nella fatica che costa procurare cose ma nella tristezza della solitudine, che a sua volta le restituisce solo una cosa, la depressione:
“…la mia vita, finche non ritornerò a Radeni, sarà sempre veder morire dei vecchi, pensavo.”
”Quando tornerò” non è solo il titolo del libro, o un auspicio di tempi migliori, è una chimera, è una nenia che Daniela si ripete come un karma per trovare in sé forze residue e motivazioni sufficienti per continuare in un’esistenza, infine, di mero sfruttamento, che inevitabilmente si tramuta in un “mal d’Italia”, il limite ultimo dei muli da soma sfruttati fino all’inverosimile.
Per vivere non basta una retribuzione per quanto modesta e irregolare: serve altro, serve affetto, tenerezza, calore, attenzione, cura reciproca, supporto, conforto, vicinanza.
Tutte cose che la famiglia, gli affetti, ti assicurano: vale per Daniela “reclusa” a Milano come per Angelica e Manuel bloccati in Romania e pervasi di nostalgia struggente per la madre e consunti per il desiderio spasmodico di un corso diverso della loro esistenza.
Dovrà però tornare a forza, Daniela, a seguito di un evento straziante: Manuel ha un incidente con il motorino, giace in coma. Così la donna ritorna al suo paese in Romania, Redeni, giace per mesi al capezzale del figlio, e gli parla, gli bada, lo assiste, si prende cura di lui, questa volta non è una badante, ma solo una madre, gli sta vicino con cocciutaggine ed amore senza fine.
La sua retribuzione stavolta non sarà irrisoria e in nero, come un’elemosina per vivere, ma inestimabile è il riprendersi parte delle esistenze dei figli che si era persa, e che loro di lei avevano perso. Termina la storia infine come è giusta che finisca, con le esistenze di ciascuno che si separano, ancora una volta, ma con un appuntamento, un “quando tornerò” meglio delineato, dopo un percorso che è come il tragitto di un boomerang lanciato in aria.
Sfreccia in alto, raggiunge un culmine, poi vira e torna indietro: in quell’attimo devi essere pronto a saltare per riafferrarlo mentre torna e ricade, devi raccogliere il testimone.
Un bel libro, consiglio di leggerlo e farlo leggere; perché è ben scritto, perché Marco Balzano dà voce a chi non l’ha, rende noti i cuori invisibili che non sono fantasmi ma sono concreti, umili, silenziosi, non badanti ma non badati che permettono ai visibili fortunati di vivere la loro concretezza agiata disinteressandosi della vil materia del vivere; infine, perché il messaggio racchiuso in un libro talora si comporta esattamente come un boomerang, sfreccia nell’aria, curva e torna indietro, e qualcuno salta per prendere il testimone. Deve saltare, ha un senso solo così.
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American graffiti technology
Quando si dice: la classe non è acqua.
Magari non molti ne sono a conoscenza, ma la scrittrice americana Patricia Cornwell, autrice di fortunati best seller del genere dei medical-thriller, è una figlia d’arte, in un certo senso, o per meglio dire una pronipote d’arte.
Discende infatti direttamente da Harriet Beecher Stowe, l'autrice del famosissimo “La capanna dello zio Tom”, un testo miliare per il riconoscimento dei diritti umani e dell’abolizione della schiavitù ai tempi della guerra di secessione americana.
La Stowe, nel romanzo che le diede la fama ma anche in altri suoi scritti, descriveva le nefandezze e le atrocità perpetrate all’epoca, e chissà, forse ancora oggi, su esseri umani di altro colore, per i motivi più abietti, economici in primo luogo, e mascherati da una ipocrita parvenza di paternalismo e perbenismo.
La Cornwell non le è stata da meno, è anche lei una osservatrice attenta della parte più infida della società americana del suo tempo, ed una critica severa dei guasti brutali e sanguinosi che questa, carente di etica e propinatrice di esempi e figure deleterie per una sana crescita morale dell’individuo, provoca nelle persone più deboli, disagiate e disagevoli: siano queste le vittime innocenti di omicidi e fatti delittuosi, ma anche gli stessi colpevoli.
Per questo, e non a caso, il suo personaggio più noto è il medico legale Kay Scarpetta, che conta milioni di affezionati lettori in tutto il mondo.
Un medico legale addetto principalmente alle autopsie su vittime di omicidi, che seziona i cadaveri per reperire tutti gli elementi utili che chiariscono le cause di morte violenta.
Talora suggeriscono, per chi possiede innati la scienza e la sensibilità necessaria, finanche i motivi reconditi che portano un assassino ad accanirsi sulle sue vittime, fino a decretarne la morte.
La dottoressa Scarpetta indaga quindi indirettamente su vittima e responsabile, quasi fossero le due facce della stessa medaglia: l’omicidio.
La maggiore efferatezza che un essere umano può perpetrare ai danni di un suo simile.
Non si limita quindi a svolgere esclusivamente il suo compito di medico legale in indispensabile supporto all’ingrato lavoro della squadra omicidi della polizia locale.
Oltre ad esaminare le vittime sul tavolo delle autopsie, rilevando cause ed indizi di primaria importanza per l’identificazione dell’autore dei delitti, Kay Scarpetta incide più a fondo con il suo bisturi, partecipa in primo piano direttamente o indirettamente alle indagini giudiziarie, per il tramite dei suoi sodali, l’amico poliziotto Pete Marino, il marito Benton Wesley dell’FBI e la propria nipote Lucy, anche lei in servizio all’FBI come esperta informatica.
Patricia Cornwell, come molti scrittori, ma raramente in maniera tanto evidente come nel suo caso, ha immesso tanto di sé in questo personaggio della dottoressa Scarpetta, ed è questo uno dei motivi del successo dei suoi romanzi, quelli che vedono protagonista il medico legale: la scrittrice americana descrive semplicemente sé stessa, lo fa bene, con stile, accuratezza e precisione, non potrebbe farlo meglio, è come guardarsi allo specchio, senza troppo sforzo.
La Cornwell, infatti, è una donna eccezionale, una gran signora colta, affascinante, intelligente, sensibile e sopra le righe, non perché eccessiva, ma perché ha fatto tesoro del suo intenso vissuto personale, è stata infatti una donna che ha avuto e superato con sacrificio, tenacia e perseveranza problemi medici di natura non indifferente.
Per di più non è nata nel benessere e nella tranquillità finanziaria, ha dovuto affrontare una vita difficile carente di risorse economiche, nel bisogno e nelle rinunce.
Ha allora sfruttato il suo talento naturale per lo sport, è stata infatti una valente tennista che ha lambito il professionismo, assicurandosi in tal modo l’accesso alle borse di studio nell’università americana e conseguendo brillantemente una laurea in inglese.
Si è poi impiegata con fortuna a vario titolo nei servizi tecnici sia nel campo della medicina anatomo patologica che nelle scienze informatiche, da qui la sua padronanza delle materie nei suoi lavori.
Soprattutto, come Kay Scarpetta, Patricia Cornwell è una donna che da sempre mostra empatia per i suoi simili, perché ha vissuto sulla sua pelle quanta possa essere terribile e nociva la meschinità umana, pronta a ferire stupidamente e impietosamente la sensibilità dei propri simili, spesso solo per il gusto di farlo, inducendo i più fragili e deboli a compiere quegli atti delittuosi di cui sia lei che il suo personaggio ne hanno avuto evidenza fisica nelle sale autoptiche.
Basti in ultimo ricordare che Patricia Cornwell, con semplicità e determinazione, ha avuto il coraggio in epoca non sospetta, nella società americana ancora pervasa di bigottismo e cecità di vedute, di rivendicare apertamente le proprie scelte personali di vita, è stata una dei primi personaggi noti e conosciuti dall’opinione pubblica a rivelarsi in un coming out, esponendo senza problemi ma anche senza alcuna vanteria i propri orientamenti sessuali, che la porteranno in seguito anche a contrarre regolare matrimonio con una persona dello stesso sesso.
I libri con Kay Scarpetta, per concludere, specialmente i romanzi cronologicamente editi per prima, sono testi originali, sorprendenti, diversi da altri, sono una bella rivelazione anche per i non appassionati. Certamente, va considerato che sono thriller di genere, ma risultano comunque ben scritti, gradevoli, anche interessanti ed avvincenti, insomma una discreta se non ottima lettura.
Ma non tutte le ciambelle riescono con il buco.
Successivamente infatti la scrittrice ha ritenuto, giustamente, di dover crescere e staccarsi dalla inevitabile ripetitività dei racconti con il personaggio che le ha regalato popolarità, e si è cimentata in altri generi letterari, creando altri eroi di carta: ma non con uguale successo di critica e di lettori, anzi.
Dopo una serie quindi di libri con poca o nessuna fortuna, la Cornwell pare essersi ripresa con l’ultima sua creatura, Callisto “Calli” Chase, una giovane agente dei servizi di sicurezza della NASA, l’ente spaziale americano, che ha fatto il suo esordio nel romanzo precedente a questo, “Quantum”. Malgrado la giovane età, Calli è una donna affascinante per molti versi, nel fisico, nei modi, nell’intelligenza, sapiente e scientificamente multi-abile: è infatti una pilota, una scienziata, una esperta della più raffinata e avveniristica tecnologia informatica, una specie di agente segreto addestrata pertanto all’uso delle armi, di tattiche e strategie di vigilanza e sicurezza, un agente specialissimo quindi, un cyberninja come lei stessa si definisce:
“Gli agenti speciali, i cyberninja come me, devono avere una laurea. Alcuni hanno anche un dottorato e una formazione in diverse discipline che spaziano da scienze e ingegneria a psicologia e arte…ma sono anche ingegnere aerospaziale, fisica quantistica, pilota collaudatore e astronauta in fieri”.
Un altro particolare che la caratterizza è che Calli ha una sorella gemella, un vero e proprio clone perfettamente identico ed interscambiabile, Carme, come lei agente dei servizi di sicurezza della NASA. Con tale premessa, data la sua preparazione il minimo da aspettarsi è che Calli sia coinvolta in intrighi, azioni, avventure galattiche che hanno a che fare con la salvezza del pianeta, che contemplano pertanto dimestichezza con un’informatica altamente specialistica, l’Intelligenza Artificiale elevata alla massima potenza, il cybercrimine, i voli spaziali e quanto altro di avveniristico si possa ipotizzare: oserei dire che si tratti di autentici romanzi di fantascienza, ambientati ai nostri giorni e portati al parossismo.
Per spiegarmi meglio, tutti conosciamo almeno tramite la pubblicità quei moderni Smart TV che permettono di fare a meno del telecomando, offrendoci la possibilità di cambiare canale o regolare il volume con un cenno, semplicemente facendo sventolare una mano nell’aria: ebbene, tramite particolari sottilissimi e microscopici dispositivi impiantati in lei, per mezzo di mega sofisticati computer, algoritmi inestricabili e tecnologie segretissime, Calli va oltre, sventolando le dita apre porte e mette in moto l’auto a distanza, telefona senza cellulare e senza auricolare, riceve in un batter d’occhio direttamente in testa miriadi di informazioni su qualsiasi cosa richieda, vede o sente.
Va in giro con un’auto, un grandioso SUV del tutto futuristico, che a momenti non soltanto ti conduce da solo, ma è dotato di computer, schermi, touchscreen che in pratica ti collegano con tutto e tutti, è corazzato e armato di lanciafiamme, cannone sparacqua ad alta pressione in grado di bucare i pneumatici avversari, rampa di lancio per droni, pannelli solari, fucili mitragliatori che sparano infallibilmente dal retro senza neanche mirare, in grado di perforare un blindato, la stessa autovettura con un semplice tocco cambia in corsa colore della carrozzeria e targa, la forma dell’auto non ancora, ma insomma ci stanno lavorando: al confronto, la mitica Austin Martin di James Bond è una reliquia preistorica. Come le sue avventure salva mondo.
Insomma, il romanzo è questo: un cyberromanzo. Un testo specialistico, assolutamente di genere.
Può piacere, certo, ma ha anche qualche punto debole, diciamo così.
La trama è complicata, un sequel del romanzo precedente, un prequel del prossimo, un pochino troppo intricata e piena zeppa di sigle, di acronimi, di termini scientifici, di rimandi alla fisica quantistica e all’ingegneria che, per quanto interessanti, alla lunga stancano.
Probabilmente sarà un mio limite se non riesco ad apprezzare in pieno, è vero che chi non ama la matematica e la fisica quantistica è perché non la capisce; purtroppo, però a non capirla sono in parecchi. Inoltre, manca di suspense, di thrilling, di attesa, di paura.
Anche lo stile di scrittura è particolare, ridondante, Patricia Cornwell indubbiamente sa scrivere, scrive bene, ci mancherebbe, ne ha data ampia prova, e però proprio per le caratteristiche della storia e della protagonista stavolta effettua in un certo senso uno “spin”, una rotazione sull’asse della sua scrittura, che appare più elaborata, forse più elegante, ma a mio parere anche più involuta, appesantisce la lettura. Per esempio:
“Avanzo attraverso il parcheggio infido e fangoso con gli alberi spogli che schioccano con un rumore di ossa e i vecchi cespugli sempreverdi che frusciano come rigide sottogonne sferzati dalle raffiche di vento.”
Ecco, mi appare pesante e anacronistica come descrizione, sepolcrale, per di più detta da una moderna cybereroina. Tutto il romanzo, quindi, appare come una celebrazione dell’american way of the life, un excursus onorifico del patriottismo e della capacità tecnico scientifica americana all’avanguardia nella ricerca e nelle scienze, specie quelle aereo spaziali, tale che i posteri possano un giorno apprezzare l’American graffiti technology e rilevarne quanto abbia inciso nel progredire dell’umanità.
Ci sta pure, ma è il modo che non va, è troppo, troppa carne al fuoco.
Non riesci a voltarla per una giusta cottura, ti sfugge, finisce che si brucia, o peggio si carbonizza.
Servirebbe, più che uno spin, un differente step.
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La commedia dell’arte
Per chi non lo sapesse, la “bomba di Maradona” poco ha a che fare con il gioco del pallone, come il riferimento al campione argentino potrebbe far pensare.
Non è quindi una “botta” di piede, particolarmente violenta e precisa, tirata imparabilmente verso la porta avversaria durante una partita di calcio.
Affatto, si tratta invece di una deprecabile forma di folclore, per fortuna oggi in disuso, che esalta la consacrazione di feste comandate, per lo più il Capodanno, la ricorrenza del Santo Patrono locale, ma anche eventi privati come matrimoni, compleanni ecc., con il divampare di suoni, luci e colori di petardi e fuochi di artificio, che rappresentano, almeno nelle intenzioni, il finale pittoresco e pirotecnico della solennità.
Nulla da eccepire, se non fosse che in certi luoghi e per certe persone è pericolosamente gradito più un artifizio sonoramente deflagrante che un innocente e divertente turbinio di luce e colori traccianti nel cielo, per cui si fanno esplodere delle vere e proprie bombe carta, un grande contenitore di polvere pirica, proibito sia nella vendita che nell’utilizzo.
Tale è “la bomba di Maradona” del titolo, un ordigno costituito dall’equivalente di un quantitativo di polvere da sparo, quello che presumibilmente sarebbe possibile comprimere in un pallone da calcio, quindi all’incirca un paio di chili di materiale esplosivo, fatto rumorosamente detonare a rischio di chi lo innesca, che spesso e volentieri nell’incosciente accensione della miccia può stupidamente rimetterci una mano, se non peggio.
Le cronache specialmente napoletane dei “botti” di Capodanno sembrano perciò dei veri e propri bollettini di guerra.
Nello specifico, “la bomba di Maradona” rappresenta in questo romanzo uno strumento criminale all’ennesima potenza, poiché è utilizzato come innesco per una vera e propria autobomba che fa vigliaccamente saltare in aria il giudice Peppino Picone, uno dei magistrati napoletani più esposti nella guerra contro le organizzazioni criminali camorristiche, e sua moglie Rosa, che era casualmente quel giorno con lui in auto in quel momento; la donna, incinta a prossima al parto, riesce comunque a dare alla luce il figlioletto Andrea, orfano già alla nascita, che verrà affidato in adozione al miglior amico dei congiunti, il dottor Reale, magistrato anch’egli.
Insomma, uno di quegli attentati tanto vili e cruenti effettuati dalla malavita organizzata con esplosivi nei confronti dei maggiori esponenti dello Stato di diritto, in prima fila nell’eroica lotta di mantenimento dell’ordine e della legalità, che restano monito esemplare di giustizia e rettitudine nella memoria civile di un Paese, come quanto valso il sacrificio dei magistrati Falcone e Borsellino.
Il mandante dell’assassinio del giudice Picone è il boss della camorra Cardella, ben presto assicurato alla giustizia e condannato per questo all’ergastolo, che rivendica pure da reo confesso con malevola boria e insolente tracotaggine la responsabilità del barbaro eccidio.
Data l’importanza etica dell’episodio, a dieci anni di distanza a Napoli si decide di trarre una fiction in memoria della strage, e a tal scopo viene incaricato il regista Gualtiero Maggio, un veterano della tv di stato. Maggio, in sede di scrupolosa analisi, ricognizione e ricerca di testimoni per la preparazione della trama, si rende conto man mano che procede nella ricostruzione dei fatti che la vicenda presenta parecchi punti oscuri: per esempio, l’attentato è stato compiuto nel pomeriggio, quando la mattina un piano molto più elaborato ed efficace era stato appena sventato dalla fidatissima scorta del magistrato e dalle forze dell’ordine, per cui l’attentato poi realizzato rappresenta una specie di piano B, un progetto di riserva approntato per di più in fretta e furia dal boss Cardella, uomo notoriamente sanguigno ed impulsivo di cui non era affatto nota tanta scrupolosità di disegno e programmazione. Inoltre, la bomba sarebbe esplosa solo alla messa in moto dell’autovettura, e solo per caso il magistrato Picone, che non si poneva mai personalmente alla guida dell’autovettura di servizio, condotta invece dall’autista, proprio quel giorno era per tragica fatalità ai comandi; e ancora, appena un attimo prima della deflagrazione, la signora Rosa, forse per una istintiva sensazione di pericolo, aveva disperatamente provato ad aprire invano la portiera bloccata dell’auto.
Maggio, quindi, non è che indaga a tutto campo, non è il suo ruolo, non è un poliziotto o un investigatore, ma invece dubita, è scettico, cerca il dettaglio che non lo convince prima di dare il “buono” ad una ripresa, e ne trova più di uno.
Come regista abituato a inquadrare le scene da varie prospettive, nonché per personale vissuto ed esperienza di vita, sa che la fiction non è altro che una pallida copia della realtà dell’esistenza, che le cose non sono mai come appaiono perché la vita, quella vera, presenta innumerevoli sfaccettature, una, nessuna, centomila:
“…La vita vera porta sempre in seno qualcosa che nessun manuale o libro o codice di comportamento è in grado di prevedere.”
Gualtiero Maggio fiuta quindi un decorso differente dei fatti come sono stati riportati, e rielabora correttamente la vicenda, supportato in questo da suoi compagni di lavoro, il giornalista Cosimo, e soprattutto la stagista Grazia, e Gloria, l’attrice protagonista:
“…Ah, le donne! Hanno una marcia in più…Si, perché i maschi hanno sempre e soltanto l’idea delle cose, vivono la realtà usando l’immaginazione: le donne invece immaginano i pensieri usando la realtà.”
Se la vita è una commedia, talora un dramma o una tragedia, è comunque una forma d’arte molto più veritiera di qualsiasi finzione sceneggiata, ciascun uomo in fondo recita, fa ogni giorno arte della propria commedia di esistere, e lo fa perché l’arte della commedia:
“…ci costringe a fingere tutti i giorni di essere quello che non siamo, fingere di essere più forti o più deboli di quello che siamo, per spaventare o compiacere a seconda delle convenienze.”
Infine, Gualtiero scopre la verità, lo fa perché capisce che erano:
“Troppe le domande a cui non era stata data risposta”.
Semplicemente, perché il nostro è:
“…un Paese che aveva sempre bisogno di esempi per rimettere a posto una scala di valori che troppo spesso perdeva qualche piolo.”
Questo è un libro veramente bello, una storia costruita benissimo e scritta ancora meglio, un piccolo capolavoro del genere.
Un discorso fluido, scorrevole, efficace, dei dialoghi semplici e profondi insieme, un gioiello del discorrere, del parlare, del confrontarsi.
Enuncia fatti, espone teorie, soprattutto descrive con chiarezza visiva luoghi, eventi, persone e sentimenti, azioni ed emozioni.
Scruta nell’animo umano, percorre una città stupenda, Napoli, in presa diretta e contemporanea, indicandone percorsi storici e gastronomici, il tutto con una struggente malinconia ammantata da ironia ed un fine umorismo, tipico di un cultore della commedia dell’arte o dell’arte della commedia.
Si, perché il valore aggiunto, il particolare stupefacente e mirabile insieme, non è la storia, ma colui che la racconta, l’autore, e che autore: Vincenzo Salemme.
Una scoperta, una piacevole sorpresa, assai più gradita perché inaspettata, e lo dico chiaro, io per primo ero scettico sulla validità della lettura, confuso da sciocchi stereotipi in cui ero scivolato.
Il romanzo, edito nel 2018, è sfuggito a molti, ma vale la pena sicuramente di leggerlo, perché merita come pochi altri del genere.
Vincenzo Salemme, autore, regista e attore teatrale non ha bisogno di molte presentazioni.
Cresciuto alla scuola di drammaturgia napoletana, allievo del grande Eduardo de Filippo, nella cui compagnia ha esordito giovanissimo, ha scritto egli stesso commedie ambientate nella sua Napoli, testi dal taglio moderno e dal tocco in apparenza leggero ma assai più profondo, sentimentalmente struggenti ed emotivamente coinvolgenti, che suscitano un riso amaro ma mai carente di ottimismo e speranza nell’uomo in quanto tale.
Si è poi dedicato al cinema, in pellicole in verità dal solo intento commerciale, e proprio questo mi aveva sviato, pensavo fosse la solita manovra editoriale di un artista che si cimenta in altro al solo intento di incuriosire e procacciare acquirenti.
Invece, ho dovuto ricredermi, e sono stato felice di farlo.
Il cimentarsi di Salemme nella narrativa, in una nicchia della narrativa, quella di genere che trova molti autori ma pochi davvero efficaci, capaci di andare in rete come il campione argentino, tanto per restare in tema con il titolo, è stato un esperimento felice, ed è un peccato che non abbia avuto seguito, Ne è venuto fuori un ottimo romanzo, che merita forse più di una lettura; ed è la dimostrazione che l’arte, infine, altro non è che un sentimento: se è valido, buono, positivo, l’artista riesce sempre a trasmetterlo, con qualsiasi mezzo. Perché non è il mezzo, è il contenuto che conta.
Come per Maradona, non è il pallone, ma il talento argentino che indirizza la palla all’angolino giusto.
Ed è gol.
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Sogni e bisogni
Questo titolo segna il ritorno di Teresa Battaglia, un personaggio molto amato dai fan dei thriller della oramai nota scrittrice friulana, un commissario di polizia “montanaro”, se così possiamo definirla, dato il contesto in cui prioritariamente si muove nelle sue storie.
Una donna oltre la mezz’età quieta, pacifica, una comune piccolo borghese, quasi un travet del lavoro di polizia, almeno all’apparenza, afflitta da più di un acciacco, ma che nasconde testa e soprattutto cuore di altra statura. Un livello fine, gentile e delicato di intraprendere un’indagine poliziesca.
Una poliziotta fortemente empatica non solo nei confronti delle vittime dei delitti su cui indaga, ma spesso, se non sempre, altrettanto sensibile e recettiva dei tormenti che avviluppano l’animo dei colpevoli, al punto da indurli a delinquere.
Non è una persona compassionevole, tutt’altro, è una donna invece altamente consapevole delle difficoltà, talora ostiche, crudeli, insensate e insormontabili che generano incolpevolmente certi mostri sociopatici, in verità vere aberrazioni sociali, che sono quindi in realtà storture da raddrizzare, se possibile, da redimere e recuperare in qualche modo, ma non da distruggere.
Proprio perché senza colpa.
Una prolifer dell’animo dei colpevoli di certi misteri delittuosi, al fine di porre fine ai reati, dunque, questo è in effetti il suo lavoro, in cui eccelle; ma direi di più, Teresa Battaglia è l’emblema delle donne toste e consapevoli della durezza che talora affligge l’esistenza, conscia appieno pertanto di come le cose spesso appaiono assai diverse da come sembrano a prima vista.
Teresa è una commissaria, come a voler dire come fanno tanti che lei è una donna che svolge il lavoro di un uomo; la Battaglia però è troppo intelligente per credere di dover dimostrare che lo fa meglio, si limita ad essere sé stessa, e lo fa diversamente, non reperta prove di accusa contro i colpevoli, compie uno step successivo, rinviene le accuse che portano il colpevole a dare prova di sé.
Lei stessa è la personificazione di quanto pensa, dà da subito, finanche ad un nuovo sottoposto, l’idea di una persona goffa che curiosa sulla scena di un crimine, quando invece è acuta ed osservatrice; restituisce dopo un poco che la si conosce l’immagine di una donna tosta e cocciuta, quando è invece fragilissima ed atterrita dal diabete ed altri malevoli infermità che l’affliggono.
Per queste sue peculiari caratteristiche, il personaggio Teresa Battaglia con solo un paio di titoli ha conquistato numerosi fan del genere thriller, consacrando la sua creatrice.
Anche se, come dimostrato di recente anche nel suo penultimo lavoro, Ilaria Tuti non la definirei come una scrittrice di thriller, sarebbe riduttivo, la Tuti è un’artista sensibile che nelle sue storie, scritte bene, con un linguaggio semplice e forbito insieme, come se cesellasse parole su un ordito di seta, riesce a rendere mirabilmente un vissuto che rispecchia, direi con assoluta fedeltà la tempra, la magia e l’incanto delle sue montagne e dei suoi luoghi natali.
Dove convivono felicemente i colori, la delicatezza, la regalità e allo stesso tempo la tenue fragilità delle stelle alpine, che resistono tenacemente ad ogni avversità, specie di origine umana, strettamente avvinte sulla roccia dell’esistenza, come efficacemente reso al meglio nel suo più recente successo “Fiore di roccia”.
“Luce della notte” è come quello un racconto lirico, poetico, dolcissimo e struggente, con un sottofondo doloroso.
Perché parla di sogni, e di quelli più teneri, fragili e delicati, quelli di una bambina, per di più una bambina afflitta da una rara malattia, di quelle patologie sconosciute e sconcertanti, una sindrome che le impedisce di vivere alla luce del sole.
La piccola Chiara è perciò condannata, non tanto dalla bistratta deviazione genetica di una Natura matrigna, ma dalla stupidità dei precettori umani, a trascorrere la sua esistenza al calare delle tenebre, rischiarando il suo visetto solo con la luce della notte.
Per questo gli istitutori più crudeli, i pari età, l’etichettano come fantasma, o vampiro, o quanto altro la fantasia infantile sa escogitare per bollare il diverso.
Quando in realtà il segnare la “collega” compagna di giochi è avvertita dai sodali più come una doverosa esigenza, come tale trasmessa dalla crudele smania degli adulti maestri e educatori, fini pedagoghi al punto di rendersi stupidamente dimentichi di quanto i bambini siano attenti e scrupolosi ad imitarli, specie nel segnare a rosso ogni tratto fuori da una presunta logica tranquillizzante.
I bambini imitano gli adulti, sempre, nel bene e nel male:
“…i bambini sono spugne. Ascoltano sempre, anche quando sembrano assorti in altro, e ripropongono a distanza di tempo quanto appreso, spesso in modi rielaborati e fantasiosi, senza ben sapere perché lo facciano o dove abbiano attinto l’informazione.”
Poiché ad una bambina l’essenza vitale viene fornita proprio dai coetanei, i soli che permettono il regolare fluire della crescita, ecco che Chiara viene privata dei suoi bisogni, i bisogni di affetto, di luce, di calore, di compagnia, ed anche di confronto, di scontro, di competizione con i propri simili, proprio nel periodo delicato della crescita in cui non bastano più l’amore e l’attenzione solo genitoriale, serve la presenza dei coetanei, null’altro può riempire la solitudine del crescere.
Ad un bambino servono sogni e bisogni; privata dei secondi, a Chiara restano solo i primi.
Poiché sono gli unici che le restano e la caratterizzano, sono di estrema importanza, soprattutto per una mamma. Se il sogno si fa inquietante, se soprattutto riguarda un altro bambino, ed un presunto fatto delittuoso, una mamma, solo perché tale, si rivolge a chi sui delitti indaga per mestiere.
Che indaga, che raccoglie la denuncia, che si attiva, e lo fa contro il parere di tutti, anche se tutti gli indizi hanno solo e soltanto una base onirica, un riferito senza riscontro.
Teresa Battaglia indaga incredibilmente ma con serietà su un sogno: la bambina che sogna, e riferisce il sogno, è certo bellissima, ma anche inquietante, ma il commissario, che è donna, ed è donna con qualche diversità, non indugia, sa che quello che turba non è il sogno, quello ha una base logica, ma è altro:
“…è la diversità. Turba e allontana. Non permettere che lo faccia anche con te.”.
Perciò la Battaglia crede al sogno riferito: nel sogno la bambina canta…e conta.
“L’inconscio non sa contare…Ecco perché nei sogni non siamo capaci di digitare un numero di telefono che conosciamo a memoria, o di scriverne uno banale.”
Indaga il commissario, e lo fa a modo suo con scrupolo, con testardaggine, con acume, malgrado il suo stesso fisico malandato la ostacoli; ricorre allora al supporto di Marini, un giovane poliziotto, quasi un suo discepolo e figlioccio, e scopre una realtà che viene dai vicini confini, una realtà dove:
“…le donne restano nei paesi di origine a occuparsi degli anziani. Preferiscono affidare i figli alla sorte, che consegnarli a un destino di miseria…I bambini cercano una guida, qualcuno che si occupi di loro, e si fidano…”
Serve fare chiarezza, la chiarezza è una delle strade che porta alla giustizia…e chiarisce i sogni.
Li rivela per quello che sono, la verità a proposito di una nefandezza umana:
“…vendita di un capretto da latte…” .
Il romanzo ha un lieto fine, che però forse scontenta i lettori: una conclusione troppo semplice, troppo banale, finanche troppo buonista, in un certo senso.
Tuttavia, è comprensibile, a mio parere, e condivisibile, direi addirittura logico, non poteva terminare diversamente: dicevamo che Ilaria Tuti non scrive thriller, ed infatti questo è un romanzo di sentimenti, non un enigma. E le emozioni sono presenti, rese evidenti.
Lo scopo dei sentimenti, tra l’altro, è anche quello di rielaborare una sensazione dolorosa.
Ilaria Tuti ha scritto questo romanzo tre volte, perciò il libro possiede una triplice valenza: una volta prima di tutto per sé stessa, come ogni brava scrittrice deve saper fare, poi in memoria per una bambina che conosce e infine in onore della bambina che reca in sé, e che ogni tanto fa capolino e le racconta i suoi sogni, solo a lei, che poi giusto lei riversa abilmente su carta, per noi.
In definitiva, lo ha scritto per i bambini, perché gli siano garantiti sogni e bisogni: fa questo, ci mette del suo, ed è tanto, e non è da tutti.
Credo non esista un sentimento più nobile, di triplice valenza.
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Un male grande quanto una balena bianca
Ermanno D’Amore, protagonista del romanzo d’esordio di Roberto Cimpanelli, è un uomo dall’esistenza posata, serena, bonaria.
Laureato in lettere e filosofia, maturo ma ancora giovane, pare aver già trovato il suo posto definitivo nel mondo, e non è cosa da poco, diciamolo.
Si è costruito una propria nicchia vitale, scandita dai tempi che dedica al suo lavoro, quello di proprietario di una piccola ma caratteristica libreria specializzata in titoli thriller, gialli e noir in via del Pellegrino, a Roma.
Oppure accudendo alla sua barca, ormeggiata in secca a Fiumicino, o ancora interagendo con i sodali del suo microcosmo, la vicina di casa Giulia Maffei, ex insegnante di lettere in pensione, o Francesca Salsa, la trentenne appassionata di cinema che lo aiuta a condurre la libreria.
Appagando infine il suo lato sentimentale, in spirito e in corpo, accompagnandosi con alterna fortuna con piacenti partner, sebbene occasionali, dopotutto è un bel figliolo, di spirito e di corpo.
Il tutto in apparenza: perché Ermanno è, in fin dei conti, Herman, come lui stesso si prende la briga di rimarcare alle partner occasionali con cui si accompagna.
Sua madre infatti era americana, non solo, ma nativa di Nantucket, la cittadina statunitense da cui il famoso scrittore Herman Melville fa partire la baleniera “Pequod” al comando del Capitano Achab alla caccia dell’inafferrabile, temibile e pericolosa balena bianca Moby Dick, nell’omonimo romanzo di fama mondiale.
E se non proprio romanzo di fama mondiale, “Moby Dick, la balena bianca” è almeno un testo di vasta notorietà, anche se qualcuno che ignora titoli e personaggi ancora sopravvive su questa terra, come Ermanno può talora sconsolatamente constatare di persona.
La libreria di Ermanno, non a caso, si chiama perciò “Melville & Co.”; dopotutto, è un doveroso omaggio; le sue origini, con i nonni americani, gli hanno permesso un’esistenza agiata ed un avvenire senza patemi economici.
Dietro Ermanno, però, e oltre Herman, c’è ben altro: c’è un uomo che ha visto da vicino le più sordide miserie umane, quelle della pedofilia, per esempio.
E da quegli orrori è stato annichilito: da anni Ermanno va alla deriva capitanando una personale baleniera, le cui stive non contengono barili di olio di balena, ma contenitori di incubi tremendi. Recipienti che sono veri vasi di Pandora in cui sono racchiusi gli orrori, e gli errori, di cui è costellato il recente passato di Ermanno, e che il giovane tiene ben chiusi per non farsene travolgere, facendosi sostenere allo scopo da una apposita terapia psichiatrica con il criminologo Bruno Fracassi.
Perché Ermanno, prima di essere un libraio, è stato un poliziotto.
Un poliziotto, sebbene con laurea in lettere e filosofia non proprio consona all’impiego, impegnato con il collega Walter Canzio in prima linea contro la piaga della pedofilia e orrori similari.
Un poliziotto bravo, preparato, capace, che univa alle innate capacità investigative anche la logica stringente e riflessiva derivatagli dagli studi insoliti per quel tipo di attività professionale, alquanto prosaico e poco letterario.
Un poliziotto con un valido curriculum di successi professionali, fin quando una tragedia nell’esercizio delle sue funzioni non ne aveva pericolosamente minato l’equilibrio mentale, sopraffatto dal rimorso di aver compiuto magari inavvertitamente gravi errori professionali.
Quello che tormenta l’ex ispettore di polizia Ermanno D’Amore è che si ritrova sulle spalle un grave errore che non ha mai smesso di tormentarlo, che lo ha schiacciato spingendolo a forza a vagare nelle brume nere della disperazione, una tragedia avvenuta tempo prima nella basilica dell’Angelo di Dio. Inducendolo pertanto a cambiare vita, lavoro, abitudini, cercando in tutti i modi di lasciarsi il passato alle spalle.
Quello di Ermanno è stato un autentico viatico, dapprima una discesa nell’inferno della pedofilia, poi negli abissi dei complessi di colpa per propria incuria, e la sua mente non ha retto a quegli orrori sommati tra loro; se ne stacca quindi e cerca faticosamente di rientrare in un porto sicuro.
Senonché, allorché la cronaca cittadina riporta le gesta di un serial killer dalla figura alquanto inquietante, con il volto celato da una pellicola biancastra e che uccide barbaramente le sue vittime fiocinandole con un fucile da sub, ecco che Ermanno viene richiamato in campo dal suo ex collega in polizia Walter Sanzio, con cui faceva coppia fissa quando militava nelle forze dell’ordine.
Sebbene all’inizio riluttante a confrontarsi di nuovo con vicende e persone malefiche e nefaste, Ermanno comprende come esiste un momento nella vita in cui, per quanto veleggi al largo con le vele al vento, non troverai mai un porto sicuro in cui rifugiare te stesso, e nemmeno ripristinare il proprio perduto equilibrio mentale.
Certi eventi, per quanto traumatici, vanno affrontati, devi farci i conti una volta per tutte.
Puoi soccombere all’urto, certo, ma almeno sai contro che cosa vai a sbattere.
Come il capitano Achab, Herman va alla ricerca della propria personale balena bianca, il proprio male, la personificazione del proprio incubo; questa volta Moby Dick ha un cappello, una pellicola a celarne i lineamenti, imbraccia lei una fiocina, ma resta sempre un mostro perfido, violento, malvagio, così appare agli occhi di Herman, come una volta appariva al capitano Achab.
Le scialuppe vanno calate in acqua, ad onta delle tempeste, giunge un momento in cui ciascuno di noi deve misurarsi con il Male, qualsiasi forma esso assume.
Non c’è altra via per ripristinare il Bene che sconfiggere l’incubo.
Questo di Roberto Cimpanelli è un bel libro, fluente e discorsivo, scivola via in prima persona, diretto e subito coinvolgente.
Una bella storia, ben narrata, più che un thriller lo definirei una storia di un percorso, di una rievocazione, di una rinascita. Come per Achab, non è tanto un libro che parla di un viaggio con una meta e con una destinazione finale di scontro, di una vendetta da perseguire contro chi ti ha gravemente offeso in una gamba o peggio, sia esso un capodoglio o il diavolo in persona, ma un testo, un elaborato di rievocazione, di crescita, di consapevolezza di sé da acquisire necessariamente prima del passaggio ad uno step successivo, come in tutte le cose della vita.
Specie le più tremende, non c’è altra via.
Ci presenta persone, sentimenti, emozioni, in sintesi come nel capolavoro di Melville contiene anche qui un Ismaele, un Queequeg, uno Starbuck, uno Stubb, un Flask, la storia non è la ricerca del colpevole o del Male, fine a sé stesso.
Il romanzo è un racconto di crescita dei sentimenti, di elaborazione di errore per sconfiggere gli sbagli. Solo chi non veleggia sui mari dell’esistenza, non sbaglia mai.
Serve affrontare il diavolo, conscio che è pericoloso, perché il maligno come tutto ciò che è nefasto dura a lungo, ha pazienza, sa attendere.
L’unico modo per porre rimedio è affrontare la vita, riappropriarsi del proprio destino, il che significa riprendere il largo, senza ancore, tempeste o bonacce a frenarti.
Tutto si affronta, e forse si supera e forse no.
Non lo saprai mai se non salpi incontro al tuo destino, vele al vento.
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Dolce stil novo
L’autore di “Mariniello”, questo insolito ed interessante romanzo, o meglio un intenso e tenero racconto breve, il fiorentino Stefano Prizio, è un noto giornalista sportivo.
Direi di più, è un intenditore appassionato e competente della squadra di calcio della sua città, di cui da sempre segue le gesta con le sue cronache precise e incisive, che delineano ben oltre i soli profili agonistici della partita domenicale, spesso sono solo un pretesto per discutere e dissertare di Firenze e della fiorentinità in tutti i suoi aspetti, anche per radio, in televisione, sui siti online.
Finché un giorno, all’apice del suo excursus umano e professionale, a Prizio accade un fatto che lasciamo definire a lui stesso.
Un evento che l’autore riporta subito, già nelle righe iniziali del suo libro, con una frase semplice ma quanto mai forte e struggente, efficace ed esaustiva, che racchiude in poche parole l’origine e l’idea di derivazione di questo suo romanzo:
“Neppur quarantenne, divenni portatore di handicap”.
Sic et simpliciter, Stefano Prizio, costretto d’improvviso a fare i conti con il lato duro e invalidante dell’esistenza, nonché con tutto quanto questo stato comporta e consegue a livello dei rapporti affettivi e professionali, non se ne lascia però fuorviare.
Lo rielabora alla luce della sua sensibilità di artista, e ne trae spunto per parlare di un altro handicap.
Dopo i primi, comprensibili e allucinanti momenti di sconforto, lo scrittore gradualmente prova a venirne fuori, a modo suo, avvalendosi soprattutto di quello che sa fare meglio nella vita, scrivere.
E lo sa fare davvero bene, con competenza e passione.
“Mariniello” ne è il fortunato risultato, proprio lo stato di impedimento fisico conduce l’autore a riconsiderare suo malgrado, tutta la sua esistenza trascorsa, le sue origini, le sue radici.
Ricostruisce, avendone tempo e modo durante la lunga, dura e dolorosa riabilitazione, un vero e proprio viaggio a ritroso nella propria esistenza, avvisando in questa un crociano corso e ricorso storico delle proprie vicende familiari.
Lo fa con il rigore del cronista, si informa, compie ricerche, scava negli archivi, si affida alla memoria e alle reminiscenze di parenti e amici, poi il tutto è la sua sensibilità a renderla sulle pagine.
Ne viene fuori un libro che non si ascolta, ma si vede, rende per immagini, e l’immagine è resa bene.
Perché Prizio non è, in un certo qual senso, nuovo all’incontro con l’handicap, prima che una sorta di ostacolo fisico lo limitasse personalmente soprattutto nell’interazione sociale, la stessa cosa era avvenuta prima di lui ad una persona a lui cara e vicina, il giovane Marino, di origine irpine, che era stato compromesso appena bimbetto da un handicap sensoriale, limitante ed esclusivo quanto non mai. Prizio mette al servizio della storia del piccolo Marino, “Mariniello” appunto, tutta la sua passione e competenza stilistica di scrittura, questa volta non decanta vicende calcistiche, e però l’incanto, l’emozione, la capacità di suscitare partecipazione ed interesse nella lettura della vita prima del bambino, poi del giovane e infine dell’adulto “Mariniello” , è la stessa che ne hanno fatto un cantore mirabile delle dispute viola.
L’autore ha scritto un romanzo curato nei fatti, nella cronologia, nella verità storica, a tratti anche puntuale e rigoroso nelle date, nei nomi, negli eventi occorsi, ma fa di più, narra luci e colori, note e suoni, pensieri ed emozioni, usa l’Amore come inteso nel fiorentino dolce stil novo per scrivere dell’Amore tra un padre e un suo figliolo, un amore unico ed inimitabile, stupendo ed impareggiabile, a prescindere dalla presenza di un handicap.
Un amore che si rinnoverà uguale, identico e speciale, e proprio perché tanto particolare, tra il figlio divenuto a sua volta padre, e poi ancora via così, una generazione dopo l’altra.
“Mariniello” infatti, narra Prizio, “…come se non bastasse la vita da sola a render dura la vita”, è uno degli otto figlioli di una modesta coppia di contadini dell’alta Irpinia, e quindi già nelle intenzioni destinato ad una vita semplice e certamente non completamente avara di gioie, ma infallibilmente dura, difficile, faticosa.
Sono posti quelli del Sud del primo dopoguerra arretrati, depressi, una natura affascinante ma spigolosa nella produzione di beni, per tanti motivi sociali anche avara per il sostentamento dei locali, per essi perciò è destino usuale stentare la vita e l’esistenza, scandita da sacrifici, rinunce, sofferenze, già alla nascita il loro duro destino è già prestabilito dagli dèi, dagli uomini e dalle circostanze.
Come se non bastasse, però, il piccolo Marino è colpito da una forte febbre maligna, proprio appena bimbetto, e perde l’udito.
Ciò ne compromette, a quell’età iniziale, anche la parola, e diviene quello che all’epoca, gli anni ’50, si definiva crudamente e crudelmente un sordomuto.
Tagliato fuori dal suono, dalla parola, ed in sintesi dal consorzio civile, condannato ad un’esistenza limitata e limitante per causa di una delle più gravi patologie invalidante l’interazione sociale.
Solo che…Pane e companatico mancavano alla sua famiglia, ma non l’amore, il coraggio, l’unione.
La stirpe di contadini di quell’epoca e di quei luoghi non era solita piangersi addosso per le sventure del vivere quotidiano, spesso frequenti per i motivi più svariati, guerre, fame, tribolazioni economiche, devastanti terremoti e calamità naturali.
Piuttosto la famiglia, non solo quella di origine, ma coinvolgendo anche quanti annessi e connessi fino ai rami più remoti degli intrecci familiari, suole far fronte comune in queste circostanze attorno al fuoco scoppiettante del focolare.
“…diverse generazioni condividono i pasti, il lavoro, gli svaghi.”
E le sventure.
Mai come nelle disgrazie, il senso della solidarietà tra sodali nella fatica del vivere è quanto mai sviluppato, vivo e condiviso.
L’ultima parola sul destino futuro del bambino sordo spetta al vero protagonista del romanzo, la figura principe nell’esistenza di Mariniello, il suo papà Antonio, detto Tata Antonio, o meglio l’Amore senza limiti che questo papà prova per il suo figliolo meno fortunato.
Ogni papà nutre un debole per il suo figlio più fragile, e Tata Antonio ama Mariniello in misura speciale ed intensa, inversamente proporzionale alla sua cultura e stato sociale, e dopo lunghe riflessioni e tentennamenti decide in amore e per amore, il corso dell’esistenza del suo figliolo, tanto più amato proprio perché colpito dalla malattia che lo renderà un disabile.
Per evitare al proprio figliolo limitato nella comunicazione di divenire altro che non sia un mulo da soma rozzo, incolto e inselvatichito nel suo microcosmo silenzioso, Tata Antonio accetta di separarsene sebbene con il cuore straziato.
Non vede il proprio tornaconto affettivo come qualsiasi genitore, ma solo un auspicabile futuro quanto più possibile analogo alla norma per il ragazzo, e lo accompagna pertanto personalmente all’istituto per la riabilitazione dei sordomuti di Firenze, certo lontanissimo dal luogo natio, ma di quanto più adatto ed efficace per la riabilitazione sociale e un minimo di educazione per i casi simili.
In sintesi, non lo affida ma lo cede agli altri questo figliolo adorato, e sa di farlo, perché lo educhino al meglio, anche se preferirebbe privarsi di un arto se non due, ma è uomo concreto ed efficace, come lo sono naturalmente sempre i lavoratori della terra. Non esiste Amore più grande.
A Firenze il piccolo, certamente anche lui con dolore e malinconia per il distacco forzato da luoghi e affetti, crescerà e diverrà un giovane adulto, apprenderà una proficua attività artigianale, imparerà a comunicare con i suoi simili attraverso l’apposita lingua per i sordomuti, una lingua visiva e non verbale, che segna anziché dire, che appunto sfrutta il canale visivo segnante integro nella persona sorda. Una comunicazione per immagini, e perciò efficace.
Un modo che serve per comunicare con i suoi simili, e con gli altri: ma non serve con Tata Antonio, più che con chiunque altro al mondo, tra il papà ed il suo figliolo non esiste invece alcun ostacolo a conoscersi, comprendersi, includersi, contenersi. Non è mai esistito, handicap o meno.
Non servono segni tra quel padre e quel figlio, ed è tutta qui la poesia del testo.
Antonio ed il suo Mariniello non sono divisi dal silenzio, ma da quello sono uniti: ed è un silenzio assordante il loro, pieno di riflessioni e considerazioni, di progetti ed intenzioni, di pareri e convincimenti. Non è una comunicazione la loro basata sull’empatia, su intesa mentale, unione istintiva, attrazione naturale, o finanche su una risonanza telepatica, è molto di più.
La loro simbiosi è la stessa che lega i funghi al sottobosco, che ne determina la crescita all’ombra dei grandi alberi, sono uno humus dell’altro, ambedue bisognano l’uno dell’altro.
Ciascuno dei due stimola la crescita dell’altro, finanche a distanza, sono nello stesso rapporto che sussiste tra una terra che dona cibo, calore e rifugio ed un seme che cresce e fruttifica.
L’handicap non limita, non li limita, fa da collante molto più di quanto potrebbe fare il semplice amore tra un papà ed il suo figliolo, un padre disposto a privarsi del proprio figliolo perché abbia non una parvenza ma un’autentica esperienza di vita, forse non esauriente ma certamente esaustiva.
Sarà anche grazie a questo amore ed esempio paterno che Mariniello, il “povero muto” come indicato a dito nella sua terra di origine, diverrà un uomo, un fiorentino più che se ci fosse nato, tifoso appassionato della Viola, supererà finanche la sua inconfessata inesperienza e timidezza nell’estrinsecare i propri sentimenti, dichiarandosi alla sua anima gemella, la graziosa grassottella Maria, anche lei sorda ma assai più spigliata di Mariniello, ed insieme a lei diverrà padre.
Ed il ciclo sembra chiudersi.
Proverà Mariniello la stessa gioia di Tata Antonio, sarà padre e educatore, sarà mentore, guida e protettore di un figliolo come Antonio lo è stato mirabilmente con lui.
Mariniello è quindi compreso tra l’amore del padre e quella del suo figliolo, Mariniello ricoprirà un duplice ruolo, sarà figlio sordo di padre udente e padre sordo di figlio udente.
Ambedue gli estremi della sua esistenza medieranno i suoi rapporti con il mondo dei suoni, compenetreranno il suo silenzio con le note della gentilezza, del garbo, della cortesia, sono i poli attraverso cui si incanala l’energia dell’amabilità, dell’affabilità, della disponibilità che rende ogni persona consapevole della propria dignità umana che nessun handicap potrà mai scalfire.
Mariniello sia con il padre che con il figlio non sarà mai diviso da alcun muro della comunicazione, perché sia il padre che il figlio hanno saputo abbattere questo muro scalzandone con delicatezza e premura mattone su mattone, e con quelle stesse pietre hanno realizzato un ponte, a due corsie, anche meglio di uno di quelli che sovrasta l’Arno, il primo con la manualità artigianale, il secondo con studi e cultura, ambedue con arte e amore oltre ogni limite.
Questa è l’emozione che restituisce il romanzo, la sua bellezza, la sua armonia, stanno in questo, è un racconto che ci narra come fu che il sordomuto Marino, bello, allegro, solare, con i capelli lisci, libero e indipendente, esattamente come si vede ritratto nella copertina del libro, sempre con la sigaretta in bocca ed il sorriso alla Diotifulmini, sarà per sempre per quanti lo conobbero non un povero sordo, non un misero muto, ma semplicemente “Mariniello”, figlio prima e padre poi di udenti di cui amava sentire la voce, recependola incredibilmente in pieno in tutte le loro tonalità e sfumature sonore, le stesse sue. “Mariniello” è il babbo di Stefano Prizio, l’autore di questo libro.
Lo è davvero, non è il parto della fantasia dello scrittore, è un personaggio reale, non un simbolo o una metafora, ed è un signor babbo, che un giorno divenne un portatore di handicap, e ciò malgrado ebbe una vita felice, per niente limitata. Per l’ amore portatogli dal suo, di babbo, Tata Antonio.
Stefano Prizio ne ha ricostruito il suo iter vitale, e poiché è bravo a scrivere di passione, qui si è superato, ha descritto l’amore per il suo babbo Mariniello, e lo ha fatto superando sé stesso, ha scritto di amore vergando la figura del suo babbo in tono gentile, in dolce stil novo, come d’uso a Firenze.
Stefano Prizio, fiorentino doc, che un giorno anche lui divenne un portatore di handicap, e poi a sua volta anche lui è divenuto padre, così che il cerchio non si chiude mai, rende un doveroso omaggio alle proprie origini non fiorentine, non perché necessita di una personale catarsi o redenzione nel ricordo degli avi o per porgere una banale riverenza al suo babbo.
No; Stefano Prizio con “Mariniello”, in sintesi, rammenta con garbo tutto toscano a tutti noi che l’Amore è il nostro babbo, il sentimento a cui tutti, nessuno escluso, dobbiamo il buono che siamo, il meglio che possiamo divenire, non esiste handicap che tenga con questo nostro Babbo che:
“…aveva sempre tenuta diritta la barca in ogni tempesta e tutti si appoggiavano a lui nei marosi della vita.”.
Non esiste silenzio che possa zittirlo, l’Amore del Babbo.
Lo puoi rendere solo con un’immagine, quella di copertina.
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Memento vivi
Il titolo, di proposito, rimanda al conte ed all’isola omonimi del capolavoro di Dumas padre, e indirettamente anche al famoso testo risorgimentale di Silvio Pellico sulle sue prigioni, citato espressamente nel corso del racconto.
Con quei romanzi ha non poco in comune: in questa storia Fabiano Massimi, infatti, ci parla di carceri, di prigioni, di luoghi di reclusione e dell’umanità che suo malgrado ci vive o ci ha soggiornato, a torto o a ragione; direi di più, si accenna qui neanche troppo velatamente a galere che non sono necessariamente fisiche e provviste di sbarre, e dove più spesso di quanto non si creda chi vi è rinchiuso, neanche sa di esserlo, talora vi si è imprigionato volontariamente, spesso non è nemmeno un pregiudicato, un reo confesso, o addirittura colpevole di qualche reato.
Ne consegue che questa non è perciò una storia di errori giudiziari, o una denuncia degli orrori della reclusione disumana tipo “Le ali della libertà”, o di rocambolesche fughe da Alcatraz o dal castello di If. Questo è invece un buon romanzo, affatto banale, una bella storia di riscatto e di redenzione, non solo, ma anche di riconsiderazione degli eventi dell’esistenza con uno sguardo diverso, più pacato e riflessivo. Troppo spesso i fatti della vita, anche quelli più ordinari, appaiono del tutto differenti da quanto sono in realtà, il libro suona allora come un richiamo corale, un invito a valutare meglio, ad approfondire la conoscenza di quanto accade prima di giudicare, un appello rivolto in generale a quanti, spesso troppi e troppo a sproposito, sono chiamati a ricostruire la verità e a giudicare.
Tanti troppo di mezzo, dunque, specialmente troppo in fretta:
“Non siamo qui per indovinare…siamo qui per sapere. La verità è una cosa lenta.”
Questo è un romanzo scritto con tutta evidenza da uno studioso di storia e di filosofia, da un uomo amante dei libri, della lettura, delle biblioteche, che invita alla lettura, alla cultura, alla sapienza, gli artifizi unici per qualificare al meglio la nostra esistenza.
Rinveniamo una trama abilmente intrecciata, che ne comprende al suo interno altre in relazione tra loro, in sintesi, è un bel narrare: preciso, discorsivo, fluente, avvincente proprio perché offre più chiavi di lettura. Date queste premesse, etichettare questo libro come classificabile in un solo genere narrativo, tra l’altro è edito da un campione dell’editoria dei gialli, risultato finanche vincitore di un premio ad hoc per esordienti, mi sembra comunque riduttivo.
Fabiano Massimi non ha scritto un enigma da sciogliere per il tramite dell’investigatore di turno, ha fatto molto di più, serve andare oltre le apparenze per accorgersi che, proposto con un linguaggio semplice e scorrevole, arguto e con un sottile umorismo, ci ha offerto invece con il suo elaborato più di uno spunto di riflessione sulla condizione umana.
Talora una condizione misera e miserrima, al punto che la giustizia ricorre, in mancanza di alternative, ai soli mezzi di reclusione coercitiva per il rispetto delle regole.
Da tale condizione di miseria morale, materiale, educativa e culturale che spinge al delinquere e alle condanne giudiziarie, ci si può certamente redimere e risollevare, per non reiterare i danni collaterali a sé stessi ed agli altri…se solo lo si permetta, e la costrizione, se proprio inevitabile, sia dettata dall’osservanza del dettato costituzionale del fine ultimo della pena, la rieducazione, la riabilitazione e il recupero sociale del reo. Questo spesso, e purtroppo, non avviene: perché se è vero che errare è umano, è altrettanto vero che l’umanità, o almeno gran parte di essa, tende comunque a mantenere inalterate le condizioni esteriori perché il reo venga regolarmente agevolato, se non obbligato, a perseverare nell’errore, spessissimo unica alternativa per la sussistenza al di fuori dell’istituto di reclusione.
“Quando esci di prigione nessuno ti dà da lavorare…chi si fida di uno che fino a poco fa era un ladro o peggio…Così gli ex detenuti hanno pochissime strade aperte, quasi tutte illegali…Si chiama recidiva, ed è una condanna…”
Perché non esiste rieducazione, in definitiva. Chiunque ha o ha posseduto un cane lo sa: se lo si educa con fermezza ma con pari dolcezza, senza picchiarlo o infliggergli dolore e umiliazioni, evitando di strozzarlo al guinzaglio ma permettendogli di muoversi in sicurezza, interagire socialmente, impiegarsi utilmente nel gioco come nel lavoro, gratificarlo, allora obbedisce volentieri, si attiene alle regole, è un compagno ed un amico fedele, rispettoso dei suoi simili e degli umani.
Se lo si tiene invece perennemente alla catena, impedendogli una qualsiasi vita di relazione ed aizzandolo con botte e privazioni, ne risulterà una belva, tanto più feroce ed aggressiva quanto confusa e impaurita, e recuperarlo alla normalità è un’impresa proibitiva.
Sic et simpliciter, lo stesso accade con gli esseri umani, il carcere così com’è rinchiude ma non redime, ti lega ad un palo con una catena a gioco corto, incattivisce ed imbarbarisce, non rieduca, non recupera, nemmeno fa giustizia, persevera diabolicamente per un motivo o per un altro a far sì che chi ha sbagliato una volta torni a delinquere. L’unica soluzione proposta giocoforza per svariati motivi è la reclusione coatta, e non altro, che è una barbaria che finisce per coinvolgere con la stessa depressione nel vivere tanto i reclusi che i loro carcerieri.
Ben lo comprende solo chi ha vissuto la reclusione, l’inferno in terra; e lo comprende per la stessa logica di base nelle comunità per il recupero dalle tossicodipendenze, dove i migliori operatori sono proprio ex ospiti passati efficacemente dall’altra parte della barricata.
Primo, ex carcerato che, con stenti e sacrifici si è rifatto un’esistenza prospera e felice, è uno di quelli che, come si dice, ce l’ha fatta, e una volta libero ha costruito onestamente una fortuna economica. Memore dei suoi dolorosi trascorsi in prigione, si prodiga generosamente per i compagni meno fortunati di lui, ha ideato e presiede “Il Club Montecristo”, una vera e propria associazione pro bono di ex-carcerati che di giorno lavorano onestamente, ma nel tempo libero si prestano volentieri come volontari in una sorta di misericordia, di Caritas pro ex detenuti, un mutuo soccorso per coloro che, una volta usciti dal carcere ed aver pagato il loro debito con la giustizia, decidono risolutamente di cambiare vita e filare diritto. Risolutamente, perché è il carcere è un’esperienza che ferisce a sangue, che non intendi ripetere mai più. Però poi, per quanto esci a pena scontata, la fedina penale macchiata è un deterrente che ti ostacola in qualsiasi attività, rende chiunque diffidente nei tuoi confronti, l’assioma “delinquente una volta delinquente per sempre” è inestricabilmente radicato nel profondo delle coscienze di tanti, e rende impossibile trovare un lavoro onesto e dignitosamente retribuito, e questo prioritariamente, ma non solo, in più sei letteralmente degradato da ogni dignità sociale.
“…Se hai la fedina penale sporca, anche buttare una cicca per terra ti può costare caro”.
Il Club Montecristo allora interviene, cerca e procura un lavoro a chi lo richiede, magari presso la sede ufficiosa del circolo, il Caffè Dantes, vedasi che coincidenza nel nome, supporta e assiste gli ex carcerati a condizione che siano fermamente decisi a cambiare vita.
La solidarietà è sempre particolarmente viva tra i derelitti, tra fratelli di sventura, perciò il club Montecristo li aiuta, li soccorre, li sostiene, non li lascia soli…specialmente quando li sa innocenti.
I membri del Club, tutti, da Primo all’ultimo dei suoi uomini, Azzicca, Zero Zero, Oleg, Olaf e tanti altri diffusi come una ragnatela per tutta la città uniscono tutte le loro competenze e si ribellano alle norme non scritte che certificano che chi delinque è irrecuperabile, letteralmente si ammutinano a questo pregiudizio infondato, sono gli ammutinati, coloro che si rifiutano di obbedire ai pregiudizi, dissentono da chi definisce i detenuti indegni finanche di speranza.
Marco Maletti detto Arno è quello che si dice un giovane professionista affermato.
Informatico di alta classe, un geniaccio nel suo campo, una splendida moglie, due bambini stupendi, un uomo di successo economico e professionale, quindi, ma anche realizzato negli affetti.
Questo in apparenza: in realtà Arno, seppure ne sia cosciente solo a livello subliminale, è un uomo rinchiuso, non in un penitenziario, ma in uno spazio di reclusione che si è costruito da sé.
L’uomo realizzato come si mostra è in realtà un giovane partito con ben altre ambizioni, è un lettore appassionato, e come tutti coloro che amano la lettura, è da sempre fortemente attratto dalla scrittura, e dal cimentarsi con quella, fosse pure sotto forma di scritti brevi quanto una poesia.
Le esigenze logistiche del realizzarsi nella professione e l’impegno familiare però lo hanno portato a distoglierlo dal rivolgersi alle sue passioni con la necessaria dedizione di riuscita, e sottilmente tale frustrazione si insinua nel suo rapporto con la moglie Elsie.
Un giorno Arno viene contattato dal suo amico del cuore, il classico fratello ben più di un congiunto di sangue, che non vede da un’eternità perché l’amico, Alan Luis detto Lans Iula, ha trascorso anni in carcere per un reato connesso alla sua professione di valente pittore. Reato commesso non tanto per fini di lucro ma per amore di una donna. Lars è il tipico creativo votato solo alla sua arte, e se delinque lo fa solo perché travolto dall’ arte creativa più grande che esista: l’amore.
“Ti porta dove vuole lui…e se è vero amore, obbedisci e basta, e alla fine ti ritrovi dove ti ritrovi.”
Lans contatta Arno perché necessita delle sue abilità informatiche per scoprire l’autore di un brutale omicidio ai danni di una giovane impiegata di una galleria d’arte, Viviana Ferrante, detta Vivi.
Una donna bellissima e sconcertante insieme, infatti a prima vista una pittrice di evidente talento, con una casa le cui pareti ospitano, oltre che alle sue tele molto più che pregevoli, anche i testi che potrebbe avere in casa solo una donna profondamente intrisa di cultura: libri di Paul Valery, Erri De Luca, Wittgenstein, Seneca, Marco Aurelio e, più di tutti, i versi incorniciati delle poesie di Antonia Pozzi. Viviana è descritta, da tanti che la conoscevano, sempre a tinte diverse, come se fosse una, nessuna o centomila, chi una ragazza dolcissima, timida e pensosa, chi una donna allegra, chi una persona seria e malinconica, versioni diverse e discordanti.
Nonché possiede un computer con tanto di raccolta di foto che la identificano come una attiva e disinibita escort a pagamento di siti dedicati.
Del delitto, è accusato l’ergastolano Danilo Secchi, poiché il modus operandi dell’omicidio è lo stesso con cui Secchi uccise il proprio padre, un ubriacone violento in famiglia e che insidiava la sorella minore; inoltre, le sue impronte digitali sono rinvenute sul luogo del delitto.
Danilo Secchi è innocente, ma non può provarlo, è colpevole soprattutto perchè su di lui pesano i precedenti, ed è il classico capro espiatorio ideale per inquirenti ed opinione pubblica, il necessario mostro da sbattere in prima pagina, stante anche la notorietà del papà di Vivi, Cosimo Ferrante, manco a farlo apposta direttore del carcere dove è recluso Secchi e dove a suo tempo fu internato Lars.
Interviene allora il Club Montecristo, e all’unisono tutti i protagonisti, ognuno nella propria cella, ciascuno invischiato dai propri legacci esistenziali, all’unisono agiscono come Edmondo Dantes, non si rassegnano allo stare rinchiusi, l’esperienza patita gli fa da Abate Faria, insegna e tempra.
Evadono liberandosi dagli orpelli personali, trovano un tesoro nella solidarietà che li unisce, ricostruiscono una realtà diversa, ammantata di nobiltà, ricompongono la realtà dei fatti, ristabiliscono la giustizia. Quella vera, spesso diversa da quanto immaginato, talora amara.
Chi ha ucciso Viviana Ferrante lo ha fatto quasi per caso, o forse no, perché la vita di Viviana è stata un’esistenza dura, tormentata. Quasi l’assassino desiderasse punirla per aver trascorso un’infanzia infelice, chiamando assurdamente “casa” i locali del carcere adibiti ad abitazione del direttore del penitenziario, in definitiva la giovane donna è morta perché ha smarrito il “memento vivi” inciso a mò di firma su alcuni quadri, una variazione sul tema del “memento mori”, la nota frase latina che suona a monito all’umana vanità.
Viviana Ferrante ha “dimenticato di vivere”, questa la sua prigione.
Ed il motivo della sua fine.
Termina così questo romanzo giallo, se davvero vogliamo definirlo così, ma soprattutto un bel romanzo. Un racconto che parla di arte, e rimanda a libri, ad autori, alla poesia: un sunto pubblicitario dello scibile umano come si rinverrebbe in una biblioteca.
Amante dei libri, e dell’arte, finanche bibliotecario, Fabiano Massimi lo è davvero, e dello studioso curioso e attento ne ha tutte le caratteristiche.
Ne è venuto fuori un testo preciso, curato, con i tempi giusti di tensione e aspettativa, ed un rigore da storico, da studioso, nella esposizione e ricostruzione dei fatti che poi ritroveremo nel suo romanzo successivo a questo, “L’angelo di Monaco”, il fortunato thriller storico che lo consegnerà alla meritata notorietà. Ne aspettiamo piacevolmente il sequel, in uscita a breve.
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La banalità della rete
Al centro di questo romanzo, il terzo della serie di racconti seriali che lo vede protagonista principale, è il commissario di Polizia Vincenzo Arcadipane, in servizio presso la questura di Torino.
Un poliziotto singolare, sia nell’aspetto che nel vissuto, diversissimo nella sua normalità piccolo borghese da altri suoi colleghi investigatori romanzati, sparsi per la penisola letteraria italiana. Arcadipane è un piemontese sabaudo e savoiardo, di quelli di una volta, per così dire, di quando cioè la FIAT a Torino e dintorni era letteralmente fiat lux: faro, luce e richiamo per il colto e l’inclita, ma da quando il colosso delle auto, e non solo, si è trasferito altrove, la città pare aver acquisito solo tinte crepuscolari; in realtà Arcadipane che la conosce bene lo sa, i chiaroscuri sono sempre stati insiti sia nella città che nella gente.
In sintesi, trattasi di un romanzo che ricorda, e non poco, nella descrizione di luoghi ed atmosfere, tanto Cesare Pavese con le sue langhe, che i due Fenoglio, lo scrittore Beppe dei gloriosi giorni di Alba, e il maresciallo dei carabinieri Pietro, presente nei romanzi di Gianrico Carofiglio.
Con qualcosa, nello stile di scrittura, che richiama il Simenon prima maniera, d’altra parte è inevitabile l’influenza della vicina Francia, manco a farla apposta le ultime pagine di questo libro di Longo sono ambientate in una malga piemontese per l’alpeggio di bovini, poco distante dal confine.
Insomma, un Montalbano versione piemontese, meno mare e piatti di pesce e più nebbia, agnolotti e tinte esoteriche, e però come quello vero, sanguigno, e radicato nel profondo nel suo territorio.
Arcadipane è un uomo del suo tempo, che il suo tempo, quale che fosse, lo ha vissuto ed impiegato al meglio; ora però il tempo è passato facendo il suo corso, oggi è un ultracinquantenne stanco, infiacchito, fuori forma, spossato da come sta andando la sua esistenza, se non a rotoli, certo in discesa ripida e con l’impianto frenante bisognoso di sostituzione in toto e non più di saltuari rabbocchi del liquido dei freni. Niente di tragico o particolare, come tutti, risente dei colpi che la vita non gli ha risparmiato nella professione, delicata e deprimente insieme quando ci si occupa di delitti e delle relative miserie umane, mestiere esercitato sempre con scrupolo, puntiglio ed applicazione, e una quantità inesauribile di buon senso pratico. Soprattutto, avvalendosi delle sue doti naturali, la tenacia, e un istinto infallibile per imboccare la pista buona, un istinto non da cane di razza, ma da mulatto da strada, che una volta convinti di aver individuato le orme giuste, seguono il sentiero fino in fondo, senza farsi fuorviare, incuranti di qualsivoglia elemento sviante le indagini, casuali o sistemati invece a bella posta per depistare le indagini.
Un uomo normale, che affronta la normalità dell’esistenza, e il male, il delitto, è cosa normale, fa parte della vita. Non dovrebbe, ma è così, e Arcadipane si dispone in campo per affrontarlo al meglio.
Se la vita è una partita di calcio, Arcadipane sa benissimo qual è il suo ruolo e la sua posizione in campo, quella di mediano settepolmoni, in mezzo al campo, in posizione mai statica, su e giù per aree e perimetro azzannando le caviglie degli avversari di maggior classe, senza mai perderli d’occhio, anticipandoli se riesce o asfissiandoli quando in possesso di palla.
Una vita da mediano, perché nato senza i piedi buoni, destinato giocoforza ad un ruolo fuori dai riflettori, e però essenziale e delicato, il centro nevralgico del gioco di squadra: se così lo ha cantato Ligabue, deve essere vero. Solo che, dopo aver calcato con onore l’erba o la terra battuta di tanti campi, ora Arcadipane ha meno entusiasmo, articolazioni meno forti e muscoli sfibrati, vorrebbe stare qualche turno in panchina, se non in tribuna, a riflettere sulla sua esistenza professionale, e di riflesso anche su quella privata: una recente separazione dalla moglie ancora nei suoi interessi sentimentali, e che invece ha già un altro compagno, il rapporto pressoché formale malgrado tutti i suoi sforzi almeno di apparire in presenza nelle loro vite con i due figli, che vede poco, male e di sfuggita, una ragazza di cui dimentica sempre cosa studia all’università ed un ragazzo, che tra l’altro calciatore lo è per davvero, militando nel Carpi in serie C; con tutta quanta la famiglia il solo legame che pare gli sia rimasto è il cane Trepet, un botolo di razza indefinibile. Che lo rappresenta bene, se è vero che un cane finisce per assomigliare al padrone: l’ineffabile Trepet è quieto, paziente, cocciuto, ed ha solo tre zampe. Incompiuto come il suo padrone, quindi. Tutta questo suo essere incompiuto, Arcadipane lo estrinseca in una sua ubbia: è un consumatore smodato di sucai. Le compra in quantità industriale, le distribuisce sfuse nelle tasche, sta sempre a portarsele in bocca senza neanche accorgersene, ne ha una dipendenza compulsiva e ossessiva, e certamente non hanno una funzione sostitutiva di altri vizi, dato che il nostro continua anche ad indulgere nel tabagismo. Per chi non le conoscesse, le sucai sono delle caramelle gommose alla liquirizia ricoperte in superficie da granelli di zucchero, insomma non proprio il massimo di una alimentazione sana e corretta, ma tant’è, il nostro commissario è un essere umano con tutte le manchevolezze della specie, tant’è che si fa aiutare da una specialista in supporto psicologico che egli affettuosamente considera una psicopazza, che insiste perché il commissario ponga fine alle proprie carenze affettive all’origine di tutte le sue mancanze e imperfezioni ed all’uopo si dia da fare ad allacciare interazioni sociali sui siti di incontri.
Davide Longo in questo suo romanzo e nei due precedenti ha il merito di aver creato un personaggio nuovo, simpatico, accattivante, umanissimo, diverso dai soliti investigatori di carta, normale e originale insieme. Un uomo qualunque, all’apparenza, ma è questo suo essere comune che lo rende positivo, gradevole a leggersi, Vincenzo Arcadipane, e le storie in cui agisce, non sono eroi o vicende straordinarie, sono persone e cose di tutti i giorni, ed il loro fascino sta in questo, rappresenta ciò che è noto e che si presenta comunque in modo ogni volta diverso.
La normalità che fa notizia, anche se più spesso la notizia tende a divenire normale.
Il commissario è tanto insolito quanto ordinario, appare banale ma prende, affascina, si fa seguire, ci sembra estremamente fragile ed invulnerabile, ed invece è semplicemente un uomo che non si nasconde, non maschera le proprie debolezze, sconfitte, insoddisfazioni, ma appunto questa consapevolezza ce lo rende gradito, lo rende forte, reale, vincitore.
Il suo acume investigativo sta in questa sua normalità, Arcadipane ha l’efficacia di colui che non da nulla di scontato, non ritiene di essere un genio che tutto risolve, ma ha bisogno di vedere, di soppesare, di andare a fondo alle sue intuizioni ed delle proprie sensazioni, darle un ordine ed un senso, senza lasciare che le cose scorrano in una e in una sola direzione, perché è proprio la sua esistenza che gli comprova che le cose prendono talora vie nuove, impreviste e all’improvviso, e non per questo prive di logica e verità.
Una povera badante straniera è brutalmente attaccata a calci e pugni e ridotta in fin di vita all’uscita della metropolitana; tutta la violenza è ripresa dalle telecamere di sicurezza, ed il ragazzo colpevole facilmente identificato e arrestato, oltretutto anche dato l’eccentrico abbigliamento con il quale si era vistosamente camuffato. Il giovane è uno che:
“Ti piace menare le mani, andare in curva, frequentare posti dove qualche volta si fa rissa e hai anche due arresti per spaccio da minorenne. Per non farti mancare niente la seconda volta hai pure rotto il naso ad uno degli agenti”.
Insomma, un caso plateale, un colpevole senza ombra di dubbio, date le prove televisive.
E però, il ragazzo non lo ammette. Nega di essere il responsabile. Consente solo all’abbigliamento vistoso, a suo dire indossato per tenere fede ad una scommessa, niente più che un gioco.
Ma non ha commesso alcun pestaggio, lo nega con tenacia e convinzione.
Nessuno gli crederebbe, è un caso eclatante, un caso chiuso, il solito balordo che ne ha commessa una più grave del solito. Un ragionamento che vale per tutti, ma non per Arcadipane.
Che dà retta al suo fiuto, manda in giro i suoi uomini con precise direttive, e di verità ne appronta un’altra. Forse altrettanto malevola, altrettanto assurda, incredibilmente mediocre, il male per il male senza altro movente, un male banale, come è sempre banale il male, come lo definì Hanna Arendt.
Questione risolta? Affatto: Arcadipane non desiste neanche da sé stesso, basta un’indecisione nel nuovo sospettato per farlo dubitare ulteriormente anche della sua stessa seconda opzione.
Poiché non è un eroe solitario, poiché sa perfettamente i propri limiti, le proprie imprecisioni, la propria assoluta normalità, e quindi può sbagliare e sbagliarsi come chiunque, Arcadipane che è uomo da sport di squadra la sua squadra ricostruisce, chiede cioè supporto ai fidati compagni di percorso professionale, da cui ora i casi della vita lo hanno separato. Si consulta con i suoi colleghi del cuore, il suo vecchio capo Corso Bramard, ora in lotta con un tumore che lo deteriora lentamente, e con l’agente Isa Mancini, ragazza irruente ora dislocata alla stradale per motivi disciplinari dettati proprio dalla sua aggressività, per quanto giustamente motivata. A loro si aggiunge un ex collega, Luigi Normandia, una figura preoccupante da tratti ossessivi, tormentosi, mistici, direi ascetici, una figura inquieta e inquietante. E grazie a loro, si trovano nuove tracce. E le tracce portano al:
“ Il dark web è tutta un’altra storia. È la parte ultima dell’iceberg, quella profonda, una striscia non troppo grande, dove le acque sono sempre buie e la luce non arriva…un posto dove si sbrigano le faccende che non hanno bisogno di occhi.”
Ecco, qui sta il valore di questo “Una rabbia semplice” di Davide Longo, ed è un bel valore, questa è veramente una bella lettura, non solo deliziosa e rilassante, ben scritta e ben presentata, ma anche in grado di suscitare delle belle riflessioni sull’oggi, sul nostro presente, sul nostro vissuto.
Il che vuol dire sulla tecnologia informatica che in tutto oggi ci pervade e ci invade: che non è una scienza per pochi eletti. Certo, siamo tutti convinti che gli esperti dei computer e dell’informatica sono tutti dei cervelloni, dei geniacci, una specie di scienziati pazzi persi tra numeri ed algoritmi, l’esperto informatico per eccellenza lo immaginiamo come un:
“un uomo tra i trenta e i quaranta, colto, creativo, intelligente, introverso, che sa le lingue e legge molto” In realtà, l’informatica e il web non celano alcun mistero insormontabile, li maneggiano efficacemente soprattutto i ragazzini, figuriamoci, e comunque tutta la tecnologia si riduce al fatto essenziale che ci fornisce solo una cosa banalissima come il web, l’enorme mare che tutti ogni giorno navighiamo con piacere e senza timore, o quasi, che tutti conosciamo o presumiamo di conoscere e padroneggiare, quando invece quasi tutti in effetti di esso non sappiamo che la punta dell’iceberg.
Certo, poi almeno per sentito dire abbiamo un’idea anche del deep web, quello davvero pericoloso che non vediamo facilmente, ma sappiamo che esiste, dove si trovano trafficanti di armi, di droghe, di esseri umani, di cose abominevoli come la pedofilia e la pornografia e altro.
Questo deep web provoca il nostro sdegno, la nostra condanna, il nostro biasimo, la nostra censura.
La rabbia…la rabbia no. Quella è riservata ad altro, al dark web
Il dark web è il fondo assoluto, appena un centimetro sopra la melma del fondo.
Esattamente come sul fondo degli oceani, su questo altro fondale vivono figure e creature di cui non abbiamo conoscenza diretta, pesci dagli occhi enormi che occupano la totalità del muso per cercare di carpire inutilmente una stilla di luce, che a quelle profondità non arriva mai.
Creature cieche, che però sanno muoversi, sono nel loro habitat.
Ci appaiono mostruosi, ma sono semplicemente adattati all’ambiente.
Anche noi appariamo mostri ai loro occhi. Essi sono come noi: se l’ambiente è nocivo, sono nocivi. Se sono grandi, mangiano il piccolo. Se sono bambini, giocano: perché è il gioco che insegna le cose della vita, i bambini giocano alla guerra perché imitano, ma non sono consapevoli di quanto male e quanto dolore arreca la guerra. Ecco, succede questo nel dark web:
“Lo sai che in Siberia si sono formati dei buchi di centinaia di metri nel terreno? Voragini di cui non si vede il fondo. Le chiamano le porte dell’inferno…quei buchi sono dovuti al surriscaldamento. La temperatura si alza, lo strato di permafrost si scioglie, la terra che lo ricopriva non ha più sostegno…lascia perdere il buco…cerca di capire perché la temperatura si alza.”
Vincenzo Arcadipane nella sua normalità, con il banale buon senso lo capisce, non gli interessa il dark web in sé e per sé, comprende nella sua interezza che ciò che accade nel dark web è una semplice conseguenza dei guasti fuori del web.
“…è colpa della noia, della rete, o del fatto che abbiamo buttato tutto?”
Sono queste storture esterne quelle che portano i cacciatori a risalire in superficie per dare prova di sé, mettersi in gioco, accumulare punti che diano un senso al loro ingegno.
Tuttavia, la vita non è un gioco, e Arcadipane sa quello che deve fare, è inutile gettare le reti a strascico per setacciare il fondo, il suo compito, il suo dovere, è dare la caccia e fermare una volta per sempre il gioco nefasto, bloccare i “ surface hunters”, i cacciatori di superficie.
Lo fa con calma, con efficacia, al meglio che gli riesce, assaporando un sucai, ha zucchero in superficie, dolcifica e quindi semplifica un po' le cose, tuttavia lo fa con rabbia, quella è necessaria, sempre le vittime innocenti suscitano rabbia. Una rabbia semplice, anche se è proprio quella più letale, però semplice. Una rabbia semplice, adatta alla banalità del male. E della rete.
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Personaggi in cerca di autore, e viceversa
Il successo di alcuni personaggi di pura invenzione letteraria, almeno quelli più noti e di frequente riscontro in libreria, poiché protagonisti di fortunati romanzi seriali, risiede certamente nell’indubbio valore dei loro autori nell’offrire buone storie, interessanti, ben scritte e gradevoli a leggersi.
La qualità del prodotto offerto determina, un titolo dopo l’altro, un meccanismo di fidelizzazione nei confronti delle figure degli interpreti da parte della maggioranza dei lettori: pertanto, a chi legge riesce particolarmente gradito rincontrarli periodicamente, conoscere gradualmente sempre un po' di più del loro vissuto, i loro trascorsi, come sono, cosa pensano, come vivono quando non sono impegnati al di fuori della storia che si sta leggendo.
Se ne vuole sapere di più, una vera e propria ricerca di un gossip cartaceo, il lettore appassionato è curioso di sapere come mai fanno quello che fanno, cosa è accaduto che determina certe reazioni da parte loro e non altro, e via così, una forte curiosità nei confronti del privato dei loro eroi, di quanto non espressamente o compiutamente rivelato, quantunque sia ben noto che si tratti in fin dei conti di personaggi di fantasia.
Lo scrittore sensibile agli umori del suo pubblico avverte chiaramente questo che altro non è che un indice di gradimento del suo personaggio, pertanto nelle sue storie si premura di centellinare informazioni sul privato dell’interprete principale, un ritratto a tinte lievi appena accennato e però intimo e intrigante, che si intreccia spesso e volentieri nella trama stessa della storia raccontata, e a lungo andare delinea nei libri che si succedono una più o meno completa biografia del personaggio principale.
Ecco quindi che dopo la lettura di un certo numero di romanzi, per esempio, il lettore affezionato dello scrittore Maurizio De Giovanni conosce perfettamente in cosa consiste il “fatto” che segue e caratterizza il Commissario Luigi Alfredo Ricciardi, in servizio presso la squadra omicidi della Regia Questura di Napoli negli anni della dittatura fascista; oppure come mai, nei romanzi di Antonio Manzini, un “romano de’ Roma” purosangue come il vicequestore Rocco Schiavone è costretto suo malgrado ad esercitare le sue funzioni nei commissariati della nevosa Valle d’Aosta; ed infine perché mai in una ridente cittadina balneare della Riviera toscana a risolvere enigmi polizieschi sono dei baldi vecchietti ottuagenari, come accade nei romanzi dello scrittore pisano Marco Malvaldi.
Chi ha letto i libri dei citati, magari sa rispondere; chi ne ha letto uno solo, è curioso di saperne di più.
La scrittrice spagnola Alicia Gimenez Bartlett ha fatto di più, presa magari da un entusiastico fervore letterario, ha deciso di offrire condensato in un solo testo di tutto e di più del personaggio che le ha procurato maggiore fortuna e notorietà, l’ispettrice di Polizia Petra Delicado, in servizio presso la squadra omicidi del commissariato di Barcellona.
L’ “Autobiografia di Petra Delicado” pertanto non è un giallo, non un romanzo, è esattamente quello che dice di essere, una biografia, un ritratto di sé stessa delineato proprio dal personaggio in prima persona. Letteralmente un’autobiografia, il personaggio Petra Delicado lo dice subito nelle pagine iniziali, ha bisogno di uno stacco esistenziale da tutto e tutti, pertanto si ritira per una settimana in un austero convento di religiose, fuori dal mondo, spegne cellulari e tecnologie per meglio isolarsi, e su quaderni di scuola riversa la propria esistenza, niente più di quello che potrebbe definirsi un esercizio spirituale, una forma di catarsi, o anche un modo con cui autore e personaggio ritrovano sé stessi.
Petra Delicado non è un personaggio in cerca d’autore, o che disconosce la sua autrice.
Nemmeno la Gimenez Bartlett ha qui necessità di cercare il suo personaggio, svelarne chissà quale lato oscuro taciuto altrove, nessun mistero questa volta, la sua creatura le è chiara nei minimi particolari, la scrittrice non è alla ricerca del tempo perduto, semplicemente desidera offrire al lettore vecchio e nuovo un ritratto di Petra condensato e però ben estrinsecato nei particolari perché, come spesso accade, se Alicia Gimenez Bartlett ha creato Petra Delicado, poi Petra Delicado è cresciuta e cammina con le proprie gambe, la Bartlet non inventa più niente, è Petra Delicado che le racconta le sue storie, le sue indagini, la sua vita, la Gimenez Bartlett si limita ormai semplicemente a smistarle al lettore come tali. Con questa “Autobiografia” Alicia Gimenez Bartlett rende chiaro che la sua creatura non le appartiene più, è stata ormai adottata dai suoi lettori, a loro la offre in tutti i suoi risvolti privati, e con tutti i particolari, come è giusto che sia.
Nei libri di Alicia Gimenez Bartlett Petra Delicado, sia nella professione che nella vita privata è esattamente quello che il suo nome indica, una donna che è ferma, tenace, ostinata, e contemporaneamente, perché lei è completa, sa che una cosa non esclude l’altra, è anche una donna dall’anima delicata, sa essere quando occorre sensibile, garbata, leggiadra, deliziosa.
Come noi tutti, ha varie sfaccettature, non aderisce ad alcun cliché prestabilito, non a caso svolge una professione che vox populi vorrebbe appannaggio del rude maschilismo, e lo svolge meglio di tanti uomini. Petra Delicado è in sintesi una normalissima donna in gamba, concreta, sia intelligente che di buon senso pratico, e però dolce, amabile, deliziosa all’occorrenza, in sintesi è sé stessa con pari sensibilità e durezza secondo quando serve, e non per stereotipi antiquati.
Non una femminista ante litteram semplicemente una donna comune che da sempre rivendica senza timori il suo essere donna, adulta, autonoma, responsabile intelligente e sensibile.
L’ispettrice è una donna specchio dei suoi tempi, nata in un’epoca difficile per la Spagna, un duro periodo di transizione per il paese, passato dal franchismo e da un regime autoritario e reazionario ad un clima con maggiore libertà in essere, ma con forti resistenze a divenire il nuovo.
Sia Petra che Alicia hanno vissuto di persona la difficoltà di mantenersi donne, padrone di sé stesse e del proprio destino, in un’epoca in cui, malgrado i cambiamenti, ci si ostinava nelle famiglie e nella società a relegare le donne in una posizione stereotipate e antiquate, quanto meno subordinata al genere maschile. Il romanzo tratteggia un profilo preciso, esauriente, esaustivo, di una donna che ha ben chiaro che non intende abdicare alle proprie scelte in nome di principi in cui non crede e non sente suoi, e che giunge a tale consapevolezza attraverso i fatidici passaggi che iniziano dall’infanzia, descrivono la giovinezza, gli studi, l’età matura, gli amori e poi i matrimoni, ben tre!
Sono proprio le sue esperienze di vita a costruire il viatico per cui Petra Delicado è quella che è, una donna che diffida dell’amore imperituro, del matrimonio indissolubile, della famiglia patriarcale e maschilista, anche se si innamora, ama e sa amare, che si è sposata perseverando per ben tre volte ma non ama il matrimonio, e fa scandalo con la sua scelta di non avere figli:
“…La mia infanzia mi ha segnato, come succede a tutti. Non mi va di essere troppo amata, mi accontento del giusto. Non mi piace la famiglia come istituzione. Non ho mai avuto figli.”
Si susseguono le descrizioni, le scuole prima presso istituti di educazione religiosa e poi in quelli laici, la scelta universitaria ed il cambio di rotta nell’indirizzo di studi per influenza del suo compagno.
Ancora, dopo la laurea il matrimonio e l’iniziale excursus professionale come avvocato a ruota del primo marito Hugo, colui che l’aveva condizionata sia nelle scelte di studi che in quelli programmatici dell’esistenza, il suo rendersi conto dell’errore e porvi rimedio prima con il divorzio per poi entrare, quasi per caso, nelle forze di polizia.
Un secondo matrimonio con un originale e assai più giovane ristoratore, Pepe, naufragato dopo ancora meno tempo del primo matrimonio. Senza per questo demordere dalla sua caparbietà e dalla sua dolcezza con la quale continua ad essere lieta per quello che è e per quanto è:
“Se tutti dovessero dare retta alle brutte esperienze del passato, nessuno muoverebbe più un passo e l’umanità sarebbe ferma all’età della Pietra”.
No, Petra Delicado come una pietra sa che stare fermi non funziona, serve evolvere, anche se pietra occorre rotolare, rotolarsi nella vita, ed è questa sua indole, questa sua concretezza, un misto di buon senso, pragmatismo e un tocco di leggerezza che le permettono di affinare il suo intuito come donna e tradurlo in una abile capacità investigativa.
Petra è tosta nel cercare ciò che non quadra, ma è anche empatica nel comprendere perché le cose non quadrano. Inizia una lunga gavetta come archivista, con inevitabili frustrazioni per non essere impiegata in ciò in cui si è preparata, senza però mai demordere o deprimersi, per poi sfruttare una fortuita opportunità per mettersi in luce come investigatrice.
“La vita continua sempre, questo è un grande insegnamento.”
Di là, saranno casi a seguire, successo dopo successo, Petra descrive qui appena un accenno ai suoi primi casi risolti, in cui però il lettore affezionato riconosce le trame dei primi successi della Gimenez Bartlet. Infine, la sua consacrazione ufficiale impiegata in pianta stabile come punto di forza nel lavoro di investigazione nella squadra omicidi, in coppia col fido partner Fermin Garzon.
Ed è storia d’oggi.
In definitiva, non è una cattiva lettura, anche per chi non è proprio un fan della scrittrice spagnola.
Perché ha un bel stile discorsivo accattivante, coinvolgente, si fa leggere con piacere, interessa, a tratti avvince, e non è un giallo, non ci sono misteri da risolvere. Dimostra che certo, costruire un bel personaggio, conduce la storia. Però poi la storia devi saperla scrivere, portarla all’attenzione del lettore; Alicia Gimenez Bartlet ci offre un saggio di abilità, con una biografia della sua eroina, raccontata in prima persona, scrive una storia nella storia, descrive l’iter in divenire di una donna in uno dei periodi più critici nella storia del suo Paese, ma insieme anche il progredire della Donna.
In sintesi, direi che è un libro femminista, un omaggio alle donne, che nella loro semplicità sanno essere pietre e delicate insieme.
L’altro genere, non lo sa fare con pari efficacia, diciamolo, da uomo a uomo.
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Vedere i fiori dalla parte delle radici
Maurizio De Giovanni ha fama di essere autore prolifico e fortunato, e direi a ragione e con diritto, dato che alla base della frequenza con cui rinveniamo in libreria i suoi titoli c’è una verità innegabile: la lettura delle storie dell’autore napoletano rappresentano sempre e comunque una esperienza gradevole, per ogni lettore vecchio e nuovo, ogni volta rinnovata.
De Giovanni non delude mai, non si limita meramente a fidelizzare l’ormai cospicuo capitale di stima e di fiducia accordatogli pressoché a scatola chiusa dai lettori abituali, meno che mai si presta a manovre editoriali mirate al solo profitto delle vendite riscontrate dai suoi titoli, prima ancora che giungano nelle librerie.
Sarebbe un suicidio artistico: l’ideatore dei notissimi commissari Ricciardi, i Bastardi di Pizzofalcone, Mina Settembre e di altri personaggi ancora, ha sì un proprio stile narrativo che lo identifica, oserei dire un fortunato format che si ripete, e però non vive di sola rendita.
Per quanto il suo sia uno stile e un modo di scrivere noto, una firma inconfondibile, è però inimitabile, originale e innovativo ogni volta, e la sua valenza sta appunto in questo, ogni suo racconto è una storia dal decorso conosciuto ma con deviazioni, viottoli e sbocchi ogni volta singolari, perciò imprevedibili ad un tempo.
Maurizio De Giovanni è come la linfa vitale di un albero, in ogni storia che ci racconta la sua sensibilità artistica ne costituisce il liquido tessutale, sempre il solito nei suoi costituenti, e però poi si divide nei rami più grandi, poi in quelli decrescenti, si concretizza infine dando luogo a foglie, poi fiori, infine frutti simili tra loro ma mai completamente uguali, ciascuno a sé stante.
Lo scrittore nato in città di mare, e del mare appassionato, con le sue storie ti invita a navigare in acque conosciute, su rotte collaudate, e nondimeno le onde che cullano l’imbarcazione non sono mai le stesse, né possono esserle, non lo è il loro sciabordio sullo scafo, meno che mai lo sono gli approdi.
Questo effetto l’autore lo ottiene utilizzando punti fermi nella sua narrazione ma ogni volta, con sapienza, professionalità soprattutto con passione, rinnova le sue storie ed i temi trattati.
Perché De Giovanni parla di sentimenti, come gli affetti, gli amori, le passioni, e questi rimangono tali nel loro format ma necessariamente non possono mai essere gli stessi, ne esistono tanti quanti ne sono coloro che li vivono.
I sentimenti sono come i fiori, ciascuno si differenzia dall’altro per colore, odore, taglio dei petali, non solo, ma si differenzia anche per come viene percepito, e i fiori, come i sentimenti, possono essere assemblati in maniera tale da costituire un discorso, un dettato, una dichiarazione.
L’espressione di consuetudine “ditelo con i fiori” non è un modo tanto per dire, ha le sue ragioni.
I fiori come i sentimenti hanno radici più o meno profonde, hanno significati diversi e complessi specie quanto tra loro variamente intrecciati e composti.
De Giovanni quindi, qui e altrove, ci racconta di fiori, e lo fa in maniera esaustiva, andando oltre le apparenze, ci descrive i fiori visti dalla parte delle radici, e quanto si rivela, da tale visione a tutto tondo, è sorpresa, è epilogo, è commozione, è racconto piacevole come da aspettativa ma mai uguale ai precedenti. Di usuale sono solo i suoi testi, sempre ben scritti, curati, deliziosi, coinvolgenti.
Lo scrittore napoletano in definitiva si serve di un format che comprende delitti, poliziotti, assistenti sociali per raccontare principalmente di emozioni, tra le più svariate, comprendono infatti commozione, meraviglia, stupore, sorpresa, e poi ancora dubbi, sospetti, malignità, ed ogni volta sa riportarli bene, è un delinearli, tratteggiarli, raffigurarli con tratti leggeri o decisi, con tinte tenui o marcate, sfumature diversamente tracciate, ma sempre incisive, che rilevano nel lettore.
L’autore di “Fiori” incentra la sua storia sulle vicende a tinte gialle, l’efferato e brutale assassinio di un comune, a prima vista banale ed insignificante, venditore di boccioli, di corolle, di composizioni floreali, Savio Niola, un fioraio ormai tanto avanti negli anni, solo e da tutti benvoluto, un’istituzione nel quartiere in cui viveva.
Una persona brava, buona, generosa, altruista, un signore, un gentiluomo dei vecchi tempi, senza un nemico al mondo, che dei fiori sapeva tutto, tanto da essere considerato una vera “biblioteca vegetale”, colpito a morte tra le sue “creature”, la viola, la rosa, il tulipano, l’aconito, la potentilla…fiori tanti e diversi quanti se ne ritrovano in un chiosco di fioraio, uno dei quei chioschi antichi e un po' liberty, di vetrate e ferro battute , un reperto storico più che un negozio, carico di suggestioni dei tempi andati, un tripudio di fiori ognuno a se stante, con i propri colori, e per chi ne sa, con il loro significato.
Un fatto delittuoso che vede vittima innocente un uomo che è, oltretutto, un indigeno per nascita e vissuto della città natale dello scrittore.
Volete che De Giovanni, osservatore acuto, uomo sensibile e strettamente partecipe della sua città, Napoli, di cui è innamorato perso, e dei suoi abitanti, di cui conosce storie, tradizioni, umori e modi di essere e di concepire l’esistenza, non ne tragga spunto per una due, dieci, tante storie?
Quale il sentimento predominante, in tale città e in tanta umanità, la stessa in cui l’essenza dell’esistenza è racchiusa nell’enunciato: “ una voce, una chitarra, il chiaro di luna” ?
L’amore, naturalmente. Che altro? Amore…e quindi fiori.
“…Si potrebbe dire che i fiori si regalano sempre per amore.”
L’amore per esempio: quello tra un vecchio, bravo e capace poliziotto ed il suo figlioccio, pure lui poliziotto ma impacciato e macchiettistico.
L’amore tra un padre impegnato come magistrato in prima linea contro la più crudele criminalità organizzata e la sua bambina prodigio, una ragazzina incantevole e misconosciuta nella paternità. L’amore tra un agente di polizia ed una dirigente della polizia scientifica.
L’amore di coppia, l’amore tra amici, tra colleghi, tra parenti, l’amore vecchio e nuovo, antico e mai sopito, vigoroso e mai spentosi, come deve essere il vero amore.
Quante specie di amori esistono? Tanti quanti ne sono i fiori esistenti.
“…Che in effetti è amore anche la stima, è amore quello di una madre o quello per un padre, è amore partecipare ad una festa. Certo, non vuoi male a chi decidi di regalare un fiore. Ma l’amore, l’amore vero, quello è un’altra cosa…”
Per questo Maurizio De Giovanni è uno scrittore prolifico, è la metropoli stessa che ha un’infinità di storie da sussurrare all’ascoltatore attento e incantato, per questo è uno scrittore che ogni volta si rinnova, ogni racconto ha una provenienza diversa e differenti conseguenze, è merito della sua umanità se sono storie fortunate che vendono, lo scrittore s’immedesima completamente, partecipa di cuore e con il cuore alle sorti dei suoi personaggi. Ne scrive, li riporta bene, fatti e persone.
Che altro chiedergli?
I lettori lo sanno, lo sentono, lo seguono, lo amano. Ritornano a sentirlo.
Maurizio de Giovanni è un cantastorie, un formidabile affabulatore che incanta innanzitutto sé stesso nel raccontare, e poi trasfonde questa sua passione sulla carta.
Le storie di De Giovanni come questa, in cui agiscono in prima persona tutte le forze in organico di un commissariato di polizia in un quartiere nel centro della città, riportando quindi più racconti nella stessa storia, non sono romanzi gialli, o almeno non sono solo racconti neri.
Il sangue scorre, certo, anche in maniera raccapricciante, come sempre quando il sangue è conseguenza di violenze, in aggiunta però si riscontrano anche le vampe altrettanto violente e brucianti di amori, di passioni, di sentimenti, di emozioni.
Un falò, o nei casi più estesi, un incendio, infine è pur sempre un fuoco, di diverso ha solo l’estensione e la virulenza, e questo dipende da cosa brucia, quanto è limitato e contenuto, oppure se si effonde velocemente, in definitiva se riscalda dal freddo o distrugge con furia.
Una fiamma che arde ha sempre gli stessi connotati e l’identico vigore, ma le lingue si ergono diversamente, nessun fuoco è uguale ad un altro, una rosa non è un tulipano, anche se ambedue sono fiori. Una rosa è particolare, perché:
“…per dire amore devi prendere una rosa. Rossa”
Più che uno scrittore, Maurizio de Giovanni almeno qui è, anche lui, un fioraio.
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Apapà
Protagonista unico di questo romanzo non è tanto un personaggio in sé, quanto un sentimento, il sentimento per eccellenza, inteso nel senso più completo del termine.
Questo sentimento è l’ amore, qui non quello usuale in un rapporto di coppia, bensì un tipo particolare di affetto e attaccamento, talora più intenso e profondo, forse quello più tenero, immediato, spesso difficile e a tratti controverso nell’esistenza di ognuno: il bene che si instaura tra un padre e la propria figlia.
La napoletana Anna, partenopea doc originaria dei Quartieri Spagnoli, un angolo tanto antico quanto caratteristico, un vero pezzo di storia della città, è una ragazza d’oggi molto legata al proprio genitore, tant’è che come d’uso tra la sua gente viene chiamata dal proprio padre con il proprio nome seguito immancabilmente dall’accattivante termine dialettale “apapà”.
Una espressione affettuosa comprensibile solo ai locali, che va ben oltre, è rivestito da più intensa tenerezza del solo significato letterale, cosa questa assai comune nei modi di dire del dialetto napoletano.
Non significa, come si potrebbe pensare di primo acchito: “a papà”, nel senso di “vai dal papà” oppure “appartieni a questo papà, a lui sei figlia”.
“Anna apapà” va inteso invece più estensivamente come Anna figlia di questo papà orgoglioso di cotanta figlia, significa Anna fai qualcosa o prendi qualcosa nel nome dell’amore che ti porta il tuo papà, indica Anna sei la ragione di vita del tuo papà, evidenzia la cosa più bella che mai gli sia riuscita nella vita, notifica all’universo che sei il solo tesoro, tanto più prezioso proprio perché sei l’unico, inestimabile bene del tuo papà.
Un amore così profondo è, in questo caso, parimenti ricambiato, e non è poi una cosa così scontata e naturale, tutt’altro.
Un rapporto affettuoso padre/figlia non è mai un rapporto scontato e prevedibile.
In questo testo, è un rapporto idilliaco, sono "due pupi mossi dalla stessa coppia di aste di metallo", si muovono all’unisono, in sincronia, senza scontri ma inchini a oltranza, nel nome del rispetto e della riverenza reciproca.
Un affetto cementato da innumerevoli ricordi a due, e solo a loro due soltanto, per esempio le lunghe passeggiate serali in spiaggia durante il consueto soggiorno estivo in Procida, luogo elettivo della villeggiatura della famiglia, in cui padre e figlia declamano a vicenda poesie dei classici.
Un rapporto particolare, sentito, esclusivo, quindi, profondo ed intenso, tenero e delicato, nulla di insolito, che lascia ai margini la figura della madre e degli altri familiari, senza nulla togliere a loro, ma riservandosi un’aura di affetto senza uguale.
Si tratta di un vincolo forte, simbiotico, al di là del legame di sangue, fatto di complicità, dialoghi lunghi e omnicomprensivi, confidenze, compartecipazione, quanto di meglio serve e non si potrebbe chiedere di più per la sana e normale crescita e sviluppo emozionale della giovane, giunta così appena oltre la maggiore età.
Per cui, quanto il papà scompare a seguito dell’insorgere fulminante di un brutto male, la giovane si ritrova sola, disperatamente smarrita, persa nel dolore senza la sua guida ed il suo mentore principe, il suo affetto e la sua educazione, si sente magari un po' tradita, acquisisce in fretta che l’espressione “apapà” può anche svelarsi come un etimo privativo a-papà, priva del papà.
Un vero e proprio trauma, non solo, anche un terremoto logistico, a seguito delle rovine economiche in cui precipita l’intera famiglia, in quanto il padre era un professionista unica fonte di reddito, stante per sovraprezzo l’incapacità materna di far fronte sia alla vedovanza che alle successive complicanze economiche.
All’improvviso, la ragazza giovane e inesperta viene un po' troppo bruscamente invitata a sbrogliarsela da sola anche per le comuni quotidiane incombenze di sopravvivenza. Priva del papà, del suo faro guida, del suo mentore e protettore.
Al seguito di un giovane assistente universitario con cui ha una relazione, tra l’altro mai ben accettata dal defunto genitore, dopotutto qualche diversità di vedute deve pur esserci, non fosse altro che un fatto generazionale, Anna si reca a Roma.
Nella capitale vi si reca decisa sia a coltivare i sogni artistici, che condivideva con il papà, di lavorare come attrice, sia per continuare i suoi studi universitari, sia appunto per colmare la sua carenza affettiva accompagnandosi con il partner, disposta a ossequiarlo in ogni modo le venga richiesto.
Da brava figlia obbediente, senza rendersi neppure ben conto che, quantunque sofferente affettivamente, un qualsiasi partner non è esattamente il proprio padre, e non è tenuta perciò a prestazioni non dico paterne, ma nemmeno nella norma in un rapporto di coppia. O forse, Anna ne è conscia ma non riesce a puntellarsi da sola senza una figura pseudopaterna al fianco.
A Roma si ritrova in sintesi davvero sola, per la prima volta nella sua giovane vita, e deve scontrarsi presto con la dura realtà pratica: sia i sogni di recitazione, sia gli studi universitari, anche il soddisfacimento dei bisogni primari di vitto, alloggio, logistica, richiedono un reddito che la giovane non possiede, e nemmeno può riuscire a trovare a breve un lavoro.
Forte della sua fede cattolica, si rivolge fiduciosamente ad un prete locale, che in maniera perfida e ambigua, per niente consona al suo abito talare, la indirizza negli ambienti di dubbia moralità dei locali notturni di strip e lap dance, dove guadagnarsi la vita sfruttando la sua innegabile bellezza, freschezza di modi e ingenuità di intenti.
Anna accetta, per sopravvivere in qualche modo, e in qualche modo prova a tenersi nei margini in un’attività oscena ma vergognosamente proficua, che inevitabilmente mina nel profondo le sue certezze, i suoi capisaldi di etica e morale, la sua autostima.
Ancora una volta la giovane si trova davanti un etimo: da a-papà, priva di papà, passa in una dimensione di a-mors, che non è amore, ma senza morte.
Sarà però proprio il ricordo del defunto genitore e quelli della sua vita permeata dagli eventi e dagli affetti indistruttibili del suo iter familiare a ricostruire il termine in Amore, da senza morto a pieno di vita.
Perché la vita pretende amore, e Anna riscopre l’importanza di tornare ad essere “Anna apapà”, una donna compiuta, viva e solo per questo degna di Amore.
Questo romanzo d’esordio di Carmen Barbieri, che ha un vissuto di attrice, è davvero un bel libro, elaborato per scene e immagini cinematografiche, scritto con prosa chiara, diretta, a tratti rude, un romanzo scorbutico, direi osceno, ma sono le circostanze a richiederlo. È un libro di crescita, di riscoperta, un testo che gioca intorno ad un etimo di duplice significato, oserei dire, giostra con le parole e le espressioni dialettali, è il racconto di un viaggio, infine, la ricerca di un nome.
Un libro di luce e ombre, ma soprattutto di parole che compongono nomi corretti.
Perché sono i nomi che definiscono i concetti, anche Amore ha bisogno di un termine preciso, senza particelle alfa privative, del tutto ingannevoli.
Senza se e senza ma.
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Scritto a mano
Uno di quei libri, purtroppo rari, che per impulso naturale fa esclamare: tutti in piedi, giù il cappello! e poi a seguire ci si innalza in una unanime e spontanea standing ovation.
Sono trascorsi 40 anni dalla sua prima pubblicazione, ma tuttora ne abbiamo ennesima conferma.
Non è un libro qualsiasi, nemmeno un capolavoro, ma è il Romanzo, è il Libro, è il Capolavoro.
Direi di più: è la Cultura, è l’Istruzione, è un Patrimonio di conoscenze.
In una sola parola, “Il nome della rosa” è la Civiltà Letteraria.
Non è un’ opera solo da commentare, da recensire, da esporne la trama, individuarne la morale.
Questo è un testo che prima di ogni altra cosa si deve leggere, che si deve avere, al limite lo si può condividere, consigliare spassionatamente, discuterne per apprezzarne altri aspetti non ancora avvertiti, e che il confronto a più voci rivela.
Soprattutto, più di ogni cosa, è da leggere, è il romanzo che conferisce un nome, il più appropriato, all’arte di scrivere, accessibile a pochi, e a quello di leggere, accessibile a molti, ma non a tutti.
Non è per tutti, non piacerà a tutti quelli che lo avranno tra le mani, non è un testo per il lettore, per chi sfoglia libri, per chi i libri li deve scorrere, è dato e destinato al Lettore con la maiuscola.
A chi i libri li ama, ci si sprofonda nelle pagine, li possiede in ogni senso, con loro si inebria, si incanta, si estranea, se ne fa dipendente, vive mille vite e mille volte mille leggendo e rileggendo.
Redatto dalla penna di uno dei più grandi intellettuali nostrani, un uomo colto, distinto, uno studioso sapiente, erudito ed eruditosi attraverso l’attenta osservazione dei tempi, degli usi e dei costumi di popoli e linguaggi, un semiotico insigne, un illustre accademico, specialista eccelso dei fenomeni di significazione e di comunicazione.
Più di tutto, un cultore della conoscenza intima dell’animo umano, così come progredita nel corso dei tempi, apprezzando la metamorfosi e l’evoluzione dell’uomo, mai tanto variegata, in verità, così come traspare attraverso le opere della letteratura negli anni.
Pervenendo alla conclusione ineluttabile che l’uomo è uomo, uguale e fedele a sé stesso, costante nei modi e nelle reazioni, quali che siano i tempi in cui vive, con i suoi slanci formidabili di genio e le sue miserie stucchevoli, noiose e moleste, foriere di invidie e litigi.
Unico elemento salvifico, la Cultura, anche questa una costante, lo sola che non porta all’Ideale, che per essere tale deve essere pure imperfetto, ma a questo si avvicina più di tutti, assai più delle religioni e delle filosofie, della morale e dell’etica.
Solo la Cultura conduce al riso, al sorriso, alla lievità dell’esistenza così come dovrebbe essere, perché è con il Sorriso che si ottiene efficacemente e indissolubilmente tutto quanto succedaneo alla Cultura: l’educazione, l’erudizione, il sapere, la formazione intellettuale, le esperienze spirituali e le espressioni artistiche, in una parola la Gioia.
Non c’è chi non intende quanta sia efficace per il docente trasmettere il sapere divertendo i discenti, la gratificazione insigne di vedere chi apprende divenire convinto alla sapienza con riso e gioia.
Il sapere, che comprende la scienza e la morale, portano al bene, alla giustizia, all’onestà, alla rettitudine, e ne discendono da queste tutto quanto di positivo è insito naturalmente nell’animo umano: la gentilezza, l’amabilità, la solidarietà.
Il sapere concilia scienza e religione, fede e logica, credenza e fanatismo, scioglie i nodi, affina la dialettica, amplia e condivide il numero di nomi, vocaboli, fenomeni noti, costruisce il dialogo costruttivo e non l’insulsa logorrea, supera gli ostacoli e le differenze.
Il paradiso in terra.
Poiché però la maggioranza degli uomini anelano al potere per il potere, e intende esercitarlo senza sapienza ma con sordido egoismo, ecco che sorge l’ignoranza, e questa per definizione stessa esprime il bieco possesso a prescindere, il fare senza chiedere conto e permesso, l’agire senza rispetto e con protervia, la prepotenza nell’affermare e la violenza nel fare rispettare le iniquità imposte a forza, ad esso si accompagnano sempre la malvagità, la perfidia, la meschinità, la bassezza.
L’inferno in terra.
C’è dunque anche tra i presunti savi chi ciecamente, e facilmente per millantato credito, giunge al massimo dell’empietà, appunto il diffondere e perpetuare volutamente l’ assenza della Cultura, e da qui fa discendere di proposito e diffusamente l’ignoranza, il nascondimento, il celare, l’inganno, la mistificazione e via via sempre più in basso nella scala degradante verso le tenebre più fitte con cui è più facile tenere soggetti i privi di cultura, arrivando alla messa all’indice dei testi proibiti o alle veline dei ministeri di cultura popolare.
La Storia insegna, è monito di ripetizione, dai tempi dei tempi.
Il potere è bieco, in definitiva, e non ama il riso, il sorriso, la leggerezza: da Aristotele in poi questi caratteri sono sempre stati osteggiati, il potere vuole certezze e dettami rigidi e inscalfibili, vuole obbedienza e non discussioni, sempre, e nel suo nome è lecita ogni aberrazione.
In estrema sintesi, questo è “Il nome della rosa”, di Umberto Eco, un viaggio nel Medioevo, e non solo, un percorso diretto ma con vari rivoli, un fiume che scorre in un alveo potente, e intanto effonde nei canali e irrora le terre fertili.
Un libro che è un inno al novellare, e le buone storie quando sono buone davvero concimano, lo scrittore si fa acqua, ma la sua abilità non è preservata in una cisterna, la cultura come la bellezza e la gioia vanno condivise perché abbiano un senso, la storia è immessa invece nei canali a disposizione dei lettori, perché la usino, la riciclino, la effondano, perché la leggano, la diffondano, la discutano, soprattutto la critichino, per forgiarla, arricchirla, migliorarla.
Come si dovrebbe fare con l’umana esistenza.
“Il nome della rosa” è un romanzo appagante, ottimista, brillante e radioso come il suo titolo, affatto casuale; è infatti una storia serena, molto ben costruita, documentata, placida nel suo scorrere, avvincente e articolata, con molte spine, così che può apparire ardua da apprezzare, ma è invece prediletta dai Lettori, poiché il racconto contempla, si svolge e comprende tutto quanto concerne l’edificazione del maniero favorito dai cultori delle lettere: una biblioteca.
E che biblioteca: un monastero medievale che vede all’opera schiere di copisti e scrivani, monaci incisori e amanuensi, un deposito immenso di un patrimonio librario tra i più importanti, antichi e preziosi del tempo, che contiene migliaia di volumi, quasi tutti quelli conosciuti e che abbraccia l’editoria mondiale allora conosciuta, dalle colonne d’Ercole al finis Africae.
Questo è un romanzo che sembra letteralmente scritto a mano su pergamena, con tanto di piuma d’oca e inchiostro tratto dal carbon fossile, comprende tutto, ed il contrario di tutto, con svariate chiavi di lettura, tutte quelle che si possono richiedere ad un romanzo, giacché giustamente è il Romanzo.
Non la Bibbia, o un qualsiasi testo sacro, è un signor Romanzo, un racconto dove un qualsiasi Lettore ritrova facilmente tutti i generi che predilige, dal romanzo epistolare a quello giallo, dal thriller al racconto di viaggi e peregrinazioni varie, tutti i temi del narrare, misfatti e misteri, pozioni e veleni, cibo e digiuno, ricchezza e miseria.
Rinviene i temi del grand guignol e della lussuria, la violenza e le torture, il sesso e l’astinenza, rievoca i misfatti dell’Inquisizione, vi compare finanche la tecnologia, vale a dire le prime applicazioni pratiche degli studi scientifici, manco a farlo apposta perché parliamo di libri e di chi sui libri gli occhi li consuma, ecco protagonisti un paio di grossolani, stupefacenti occhiali da lettura, manufatto misterioso per l’epoca, se non un sortilegio o un maleficio, poco ci manca.
È un romanzo storico, ambientato in anni bui, tanto bui che furono contraddistinti dalle costruzioni delle grandi cattedrali, dal sorgere delle prime scuole e delle prime grandi università, tanto oscuri come possono essere i tempi illuminati vividamente dalla Cultura, anni contraddistinti dal sorgere di ordini religiosi antichi e modernissimi ancora oggi, i Francescani, per esempio.
O meglio ancora, i Benedettini, che con la loro regola e con la loro operosità, il loro mantra “ora et labora” conducono il mondo intero a lasciarsi alle spalle quanto prima le devastazioni barbariche.
La barbaria, ancora oggi, si supera con la Cultura, con i libri: e da qui, l’opera degli amanuensi non è casuale, salva l’umanità impegnandosi a custodire e trascrivere a mano quanto resta, quanto salvato dell'antichità classica.
È un romanzo sul potere, detenuto più da ecclesiastici, che da Re e regine e Cavalieri, ma il potere corrode anche gli ecclesiastici, di qui l’ insorgere delle eresie, e non solo.
Ma “Il nome della rosa” è anche un romanzo divertente, perché è volutamente fuorviante.
In apparenza ha una patina di antico, come se l’autore fosse un contemporaneo dell’epoca di cui scrive o poco più, come era Manzoni con gli sposi promessi e contrastati, o padre Dante con la sua Commedia.
Invece, Eco è un autore che scrive alla perfezione di millenni prima, ma è moderno e attuale, lo rivela in pieno, con tutta la sua arguzia e la sua facezia, tramite la ricchezza di rimandi intertestuali, il continuo ricorrere a colte citazioni, dai classici latini alla letteratura medievale, dai romanzi ottocenteschi alla cultura dei mass-media, non è un caso che il nome del protagonista principale, il monaco colto, logico, scientifico, credente e però non immune da libertà di pensiero e di giudizio, l’arguto alter ego dello scrittore, è Guglielmo da Baskerville.
Richiama in maniera sfacciata il titolo del noto romanzo di sir Arthur Conan Doyle, “Il mastino dei Baskerville”, una delle più famose indagini di Sherlock Holmes.
E come Holmes, Guglielmo ha una spalla un po' imbranata, che non è il dottor Watson ma il novizio Adzo, non un medico e però Eco lo nobilita innalzandolo a livello di voce narrante.: dopotutto, il giovane sprovveduto è la giusta e necessaria spalla, colui che permette al docente di esporre il metodo deduttivo, che un po' una sapienza omnicomprensiva, che concilia scienza e religione, il visibile con l’imponderabile.
È un romanzo che è un sunto di generi, quindi, e proprio per questo soddisfa tutti, induce emozioni e riflessione in ogni specie di lettore, ha un nome per tutto e a tutto dà un nome, non so cos’altro dovrebbe fare un romanzo per riuscire gradito a chiunque.
Il suo stesso titolo è esemplificativo, esauriente, esaustivo, dichiarativo dell’amore dell’autore per la pagina scritta.
La pagina scritta altro non è che un foglio che riporta concetti, e i concetti si esprimono con nomi.
Alla fine del libro, sta l’origine della specie, una frase darwiniana, oserei dire:
“Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”
Tradotto: "la rosa primigenia esiste solo come nome, noi possediamo nomi nudi".
Come dire…tutto passa. Alla fine della nostra esistenza, restano solo i nomi.
Serve preservarli, magari precipitandosi a salvare i libri in fiamme in una biblioteca.
A mani nude. Libri scritti a mano, con caratteri belli e brutti: rose con le spine.
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Terra emersa
Questo è un testo datato, breve per i canoni odierni ma non per quelli dell’epoca della sua prima pubblicazione, redatto in un parlato, uno stile di scrittura adatto ai suoi tempi, ma che conserva ancora adesso una compiuta piacevolezza, comprensibilità e fluidità di lettura.
È un testo semplice, agevole, accessibile ad ogni lettore, un vero pezzo di bravura per la scorrevolezza delle pagine, ed insieme un caposaldo di cultura, una perla del neorealismo.
Tratta di un argomento ancora oggi drammaticamente attuale: la disparità economica, politica e sociale dannosa a tutti, la miseria e l’arretratezza prima culturale, e poi anche materiale, di ben precisa realtà territoriali: Napoli, nello specifico, e tutto il nostro sud con lei, ma il discorso è profetico e lungimirante, si applica benissimo oggi a tutti i sud del mondo, con le problematiche annesse a arretratezza economica e culturale, e quindi migranti e profughi a forza.
La prima, e subito fortunata, edizione, risale ad oltre mezzo secolo or sono, mantiene tuttora il proprio segno distintivo, è un testo intenso e dolente, lancinante e vigoroso, eppure fortemente suggestivo e ammaliante, oserei dire un’icona amara della serie “vedi Napoli e poi muori”.
Scritto da una autrice notissima, con all’attivo importanti premi letterari, che napoletana non è, anche se con Napoli ha intessuto e mantenuto fino alla fine affetto, vincoli e legami, ma ciò malgrado ha saputo descrivere, come pochi altri, nei singoli racconti che compongono l’opera, la città e la sua essenza.
Soprattutto ha espresso minuziosamente l’orrido ed il bello, l’inferno ed il paradiso, il substrato esistenziale intimo di quella particolare specie umana, eterea e corporea insieme, rappresentata dal suo popolo, si badi il suo popolo, non i suoi abitanti, è una realtà ben diversa con caratteristiche peculiari quella di coloro che vi nascono e la vivono con piena napoletanità.
Quello che l’autrice descrive, è la miseria e la povertà di Napoli nell’immediato secondo dopoguerra, il degrado dei quartieri, e la ristrettezza del vivere dei suoi abitanti, costretti in spazi angusti che non sono solo fisici e di ambienti, ma carenti di civiltà, cultura, modernità, prospettive e sviluppi, mai per propria colpa, anche se la consuetudine sofferta muta presto in noncuranza, che è qui una forma di difesa più che di rassegnazione.
Un libro che è anche, se non soprattutto, un preciso atto di accusa, non a caso il racconto iniziale parla di miopia, anzi peggio, di cecità, perché ciechi, o meglio ancora indolenti, pronti a volgere altrove lo sguardo sono in tanti, pubbliche istituzioni in primis, fino via via a scendere per coinvolgere colpevolmente anche gli stessi abitanti e gli intellettuali che dovrebbero invece educare e stimolare il popolo a scrollarsi di dosso una volta per sempre stereotipi, false credenze e depauperamenti di ogni genere.
Un libro amaro e di denuncia alla Eduardo, solo che il grande commediografo napoletano esternava il malessere e l’iniquità dei suoi natali con un riso amaro, la Ortese offre solo un vissuto reale quanto amaro, senza alcun riso.
Serve indossare un paio di lenti, di quelle buone, che non solo ingrandiscono, ma restituiscono una visione accurata nei particolari, senza ombre, opacità, sfumature, per captare la sofferenza e il disagio sociale, una realtà ben diversa da come tanta iconografia l’ha sempre riportata, quella con il sole, il mare la pizza e i mandolini, e chi ha avuto bene, gli altri si arrangiano benissimo: una menzogna colossale.
Tutto il libro riporta l’effettivo stato della città, un’esistenza vissuta con difficoltà e dolore, una condizione indecorosa inaccettabile in un qualsiasi moderno contesto civile.
Anna Maria Ortese si specchia nella città, non è la sua ma senza difficoltà si rivede in essa, lo specchio rimanda specularmente la propria anima lacerata da lutti e tragedie personali, ma non solo, come quella la scrittrice come farebbe chiunque altro prova a riprendersi, a rialzarsi, a far buon viso a cattivo gioco, ma invano, sono tanti, troppi, quasi perenni i giochi che non vanno a buon fine, anche se con forza d’animo encomiabile si ostina non per cieco ottimismo ma per logica, benché sofferta, e costruttiva accettazione, a rivedere le cose con “occhiali nuovi”.
Anche se gli stessi, semplici e di poco prezzo, sono ricevuti in dono, perché inaccessibili a chi non ne ha i mezzi, ma un dono forzato, fatto calare dall’alto da chi può, che costretto giocoforza a concederlo lo fa pesare al destinatario, umiliando e instillando insicurezza e sensi di colpa, e perciò presto inconsapevolmente bistrattati, malridotti e tenuti insieme da nastro adesivo.
Comunque, apprezzati e ben accetti, a capo chino e vergognoso rossore in volto, ma con sincera riconoscenza, sempre gli ultimi e gli umili di cuore provano gratitudine imperitura anche per un minimo di attenzione, e incredibilmente ritrovano il sorriso.
Non covano acredine, ma si sentono in obbligo, non si macerano nel livore del beneficiato, non criticano l’alterigia altrui, ma ne ravvisano cocciutamente pregi pur se inesistenti, sentendosi invece essi stessi immeritevoli di tanta dedizione.
Un simile atteggiamento, un farsi bastare una lieve brezza per intendere primavera, è spesso scambiata per ignoranza e relativa supponenza, inoperosità, indolenza, sembra che basti una giornata di sole o il mare azzurrissimo che abbraccia la città, perché sia tutto a posto, un lieto vivere che non necessita d’altro.
Meno che mai di strutture pedagogiche, sociali, laboriose e produttive, ritenute superflue.
Niente di più errato: Anna Maria Ortese sa che ben altra è la realtà, il mare non bagna Napoli, non l’ha mai lambita, è un falso storico e geografico. Diffuso ad arte.
Vedere il mare da Posillipo con un paio di occhiali non permette di vedere solo il bello che appare, ma anche quello che prima non appariva, e che troppo spesso soverchia il bello.
La verità ha spesso molte facce e visioni distorte, ma esistono lenti progressive, bifocali, accomodanti che ricompongono l’immagine nella sua interezza, senza omettere alcun pixel.
Quella città e la sua umanità sono piuttosto una terra emersa da un pelago, un’acqua profonda di sopraffazione, di ingiustizie e angherie, di vessazioni e soverchierie.
Partenope e i partenopei quelle acque provano a scrollarsi di dosso quotidianamente, a fatica, sempre restano le vesti impregnate dall’umido, ma non desistono, si ostinano ad asciugarsi al sole, in mancanza di altro, anche quando il sole non c’è, al limite se lo inventano, se lo disegnano con tratti lievi, accettano con leggerezza anche macigni pesanti, perché la loro indole è questa, ciò che ferisce insegna, magari insegna solo ad accelerare la cicatrizzazione delle ferite per passare ad altro, ma è già tanto, spesso è tutto.
Sono un esempio mirabile e cristallino di resilenza, resistono da sempre agli urti violenti, prepotenti, iniqui, derivanti da secoli di invasioni, occupazioni, usurpazioni, dominazioni e sfruttamento delle genti e del territorio. Anche da colori che stranieri e forestieri non sono, anche dai nativi, paradossalmente finanche dai nativi detentori e gestori della cultura locale, pertanto insigniti di una specifica opportunità di diffusione e crescita morale indispensabile requisito propedeutico a quella materiale, che invece ricadono anche loro nello scetticismo dei luoghi comuni.
Tutto quanto appena detto è platealmente edotto da subito già nel primo dei racconti del volume, appunto "Un paio di occhiali", protesi indispensabili per la vita della piccola protagonista, eppure un ostacolo tanto semplice quanto a prima vista insormontabile che si frappone al normale processo di crescita e maturazione della bambina, quasi fosse una piccola aliena al comune vivere civile.
Sulla stessa falsariga, i difficili rapporti interpersonali allorché mediati da assurde difficoltà solo in apparenza insormontabili sono l’argomento di "Interno familiare".
Seguono poi "Oro a Forcella": dove può un diseredato procurarsi una somma per quanto misera, se la sua unica ricchezza sono i ricordi? Poiché per un senza mezzi, i pochi miseri gioielli, le uniche ricchezze possedute altro non sono che ricordi, non gingilli di ostentazioni ma straordinario memento degli unici, memorabili momenti di quiete dell’esistenza, una nascita, un battesimo, ecc.
Sono solo miseri ricordi, per quanto ori di bassa lega, e questi, e solo questi, si può solo immaginare con quale strazio, si possono portare, per soddisfare bisogni primari, necessità elementari, ad impegnare presso il Monte dei Pegni del “Banco di Napoli” in via San Biagio dei Librai, una nota via del centro storico.
Talora, ci si sistema in fila anche senza ricordi, ma con presunti tali: la disperazione ha molte storie da proporre, se non reali, significative. Consuetudinarie per tanto tempo.
Ancora, la scrittrice si divulga nel "La città involontaria" fra i senzatetto, divenuti tali a seguito delle disastrose conseguenze belliche, e non solo, la città infatti per sua sfortuna era un obiettivo militare strategico proprio a causa della sua dislocazione geografica e del suo mare tanto decantato, e quindi bersaglio dedicato di lutti e distruzioni belliche, della serie ”il cane morde sempre il povero disgraziato”. Anche nell’approntare i piani urbanistici con esclusione dei miseri.
Infine, nell’ultimo racconto, "Il silenzio della ragione", a sua volta ripartito in tre capitoli («Storia del funzionario Luigi»; «Chiaia morta e inquieta»; «Il ragazzo di Monte di Dio») Anna Maria Ortese sembra chiedersi, date che le uniche armi adatte alla rivalutazione del sociale sono la scuola e l’educazione, volti a debellare l’ignoranza e proporre alternative qualitative di vita, quale sia il ruolo e la responsabilità della cultura e dell’intellighenzia locale.
La chiama specificamente in causa con tanto di nome e cognome, perché in qualche modo possa intervenire a risollevare i destini della città e dei suoi abitanti, citando espressamente sé stessa e i suoi più noti colleghi dell’epoca.
Artisti e scrittori nativi campani o comunque coinvolti ed interessati, quali ricordiamo ad esempio Luigi Compagnone, Domenico Rea, Raffaele La Capria, anche Vasco Pratolini, quest'ultimo non napoletano ma a quel tempo residente a Napoli.
Mal gliene incolse, però: “Nemo profeta in patria”; ne seguirono polemiche, discussioni, critiche ferocissime, quasi che i chiamati in causa fossero stati colpevolizzati, tacciati di inservibilità pratica, se non di ignavia, indolenza, noncuranza che costrinsero la Ortese ad un volontario esilio dalla città tanto amata. Anche qui, in un certo senso, accostabile a Eduardo.
De Filippo, si racconta, una volta, in un momento di sconforto, si lasciò sfuggire un invito ai giovani: “Da Napoli, fuitavenne”, che vuol dire andatevene da Napoli.
Intendeva però raccomandare di uscire oltre i confini partenopei, certamente, ma per formarsi e prepararsi, e poi ritornare preparati e rilanciare i valori umani natali, unici e mirabili, mortificati dalle avversità materiali.
Un invito ad una fuga dei cervelli ante litteram, però con tanto di biglietto di ritorno.
Anna Maria ortese, però, non ritornò più.
Peccato, conosceva bene città, abitanti, sentimenti. E sapeva scriverne.
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Mille e non più di mille
Direi che è un ottimo romanzo, una lunga e piacevole lettura, collocata ancora una volta negli anni bui del primo Medioevo. Trattasi infatti del prequel temporale della nota e fortunata trilogia delle “costruzioni di cattedrali”, tra i maggiori successi a firma dello scrittore gallese.
Ambientata principalmente sullo sfondo dei tipici paesaggi piovosi e uggiosi, con pochi grandi centri e molti piccoli villaggi, immense foreste e grandi possedimenti terrieri, nell’Inghilterra rozza e grossolana dell’epoca; e in piccola parte con gli scenari più solari, con edifici, città, porti e cittadinanze più progredite nella Normandia, sul finire dell’anno mille.
Un periodo storico questo del primo Medioevo certamente poco illuminato, carente di documentazione, a differenza di quello dell’Impero Romano immediatamente prima, e quello Rinascimentale subito dopo.
Tuttavia, un’età storica molto suggestiva, diremmo anche culturalmente e spiritualmente in “sospeso”, molti erano infatti convinti che fosse prossima la fine del mondo, suggestionati dall’avviso mistico “mille e non più di mille”.
Anni bui, quindi, che poi tanto bui in realtà non furono del tutto.
Perché furono certamente anni oscuri, di paure, superstizioni, ignoranza e palpitazioni, ma appunto erano timori alimentati dalle difficili condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione.
Imperavano infatti la trepidazione per la fine del mondo, ma anche le preoccupazioni più immediate, concrete e prosaiche della miseria, della fame, delle malattie, della lebbra.
Nonché il terrore delle invasioni e delle scorrerie dei bellicosi vicini stranieri, in particolare i vichinghi, che rappresentavano la criminalità organizzata dell’epoca, dediti com’erano a ruberie, saccheggi, violenze, stupri, ricatti e imposizione di vere e proprie tangenti ai governanti per evitare noie, identica ai moderni pagamenti ad un'organizzazione di stampo mafioso per ottenerne la protezione.
Il quotidiano di ciascuno, senza esclusione di nessuno, dal signore locale al taverniere, dal contadino all’artigiano era improntato nel segno di una esistenza difficile e tribolata, imprevedibile, rischiosa, chiunque da un giorno all’altro, per un semplice mutamento climatico poteva perdere i raccolti e finire in miseria, oppure essere ucciso a scopo di rapina durante i difficoltosi e pericolosi spostamenti, magari anche durante una rissa nelle taverne per futili motivi, o ancora tradotto come schiavo o per debiti o perché costrettovi a seguito di rapimento come bottino di guerra da parte dei nemici.
Le condizioni di vita erano quindi miserevoli per tutti e per gli ultimi assai di più, eppure, malgrado tutte queste traversie, quegli anni furono giorni non di sole ombre, ma di chiarore, e neanche a sprazzi, ma di luce piena.
Perché proprio l’effimero dell’ esistenza spesso breve e aleatoria creò i presupposti per la concezione unitaria della vita, riconosciuta come totalmente determinata dall'appartenenza alla Chiesa, e per essa a Dio. A torto o a ragione, nel bene e nel male, tra monaci virtuosi e vescovi scandalosi, laici di sani e santi principi morali accanto ed ecclesiastici dediti invece ai più lerci vizi e peccati capitali che sempre si accompagnano alla gestione del potere e dell’arricchimento personale, il primo millennio del Medioevo era improntato alla Cristianità.
Solo per questo, non fu periodo di sola Ombre, ma anche di Luce, fu Sera e fu Mattina, come sempre succede quando sussiste, a torto o a ragione, una profonda religiosità.
Religiosità vissuta come spiritualità e certo come credo e come conforto, ma anche come mezzo di sostentamento, cura, cultura: mezzo di sostentamento perché spesso erano vescovi gli amministratori di terre, beni e ricchezze; mezzo di cura e sostegno sanitario, perché furono le monache a impegnarsi con dedizione, rinuncia e sacrificio di sé come crocerossine nelle periodiche disastrose epidemie; infine a salvaguardia della cultura perché furono i monaci impegnati a recuperare, conservare e tramandare con cura certosina i testi scritti reperibili frutto dell’ingegno umano.
Tutto quanto espresso significava in sintesi piena appartenenza alla Chiesa, prima ancora che al Re e ai principi locali, quindi tutte le manifestazioni culturali, sociali e politiche ne furono partecipi, e gli archetipi della cultura medievale erano certamente il Re, che amministrava il regno tramite i cavalieri, i feudatari, gli aldremanni, che dir si voglia, ma ancora di più la Chiesa, il Papa, ed i Vescovi per suo conto, e poi via a seguire fino all’ultimo diacono.
Ne consegue, che più che villaggi, castelli, fortezze, i centri di prestigio furono le cattedrali, nei secoli bui del primo millennio la luce fu assicurata dalle costruzioni delle grandi cattedrali, centri di potere, di ricchezza, di sfarzo. Non fu solo sera, fu anche mattina, saranno stati anni oscuri di sottosviluppo,
ma fu allora che iniziò la costruzione delle grandi cattedrali, con la fama che ne conseguì, e la luce riflessa di conseguenza per i mastri costruttori impegnati nelle sfide dell’edificazione di tali magnificenze.
Tutto questo non è sfuggito a Follett, che si è cimentato nello scrivere di cattedrali, di quanti li edificarono e di tutto il contorno umano attorno a queste vicende edificatorie, e poi è stato il suo talento a decretarne la fortuna.
Perciò non a caso l’autore ha intrecciato anche questa storia attorno alle figure guida dell’epoca: Wilwulf, un aldremanno, sarebbe a dire un nobile gestore di un potere locale, in teoria per conto del Sovrano, che si rivela essere un uomo di potere tipico dell’epoca, falso, bugiardo, brutale, e però attraente e sensuale, un guerriero molto rozzo e crudele e assai poco cavaliere; Wynstan, un Vescovo malvagio, corrotto e dissoluto; Aldred, un umile frate dedito allo studio, all’erudizione, alla preghiera e alla povertà, che non comprende però la povertà intellettuale; ed infine Ragna, figlia del conte normanno di Cherbourg, una giovane nobildonna che rappresenta la dolcezza, la delicatezza, la moralità e la rettitudine dell’esistenza, prerogative inscalfibili dell’animo femminile, che risaltano nei momenti più drammatici dell’esistenza di una persona.
Ragna è la figura che si impone maggiormente in questa storia, è detta Debora o la Saggia per la sua intelligenza, pacatezza, onestà e lo spiccato senso della giustizia e dell’equità, è l’emblema della donna innamorata e leale nei suoi sentimenti, e disgraziatamente per lei proprio per questo vittima predestinata delle nefandezze umane. Allo stesso tempo, Ragna rappresenta anche il futuro dei tempi a venire: verrà dalla sua terra, infatti, quel conquistatore deputato a cambiare i destini dell’isola oltremanica. Al centro di queste quattro figure memorabili ciascuno a suo modo, la quinta stella è il maestro artigiano, Edgar, l’emblema dell’uomo d’ingegno, industrioso, laborioso, pronto, intraprendente ed instancabile, geniale nella sua concretezza.
È l’uomo nuovo dei tempi nuovi a venire, colui che non si ferma alla sera, ma va verso il mattino, con coraggio, dedizione, intelligenza. Dapprima costruttore di barche scampato casualmente all’eccidio del suo villaggio da parte dei vichinghi, perché impegnato in una fuga d’amore, che poi da falegname si evolverà in traghettatore, pescatore, cavatore di pietre, costruttore di case, di ponti, di canali, ed infine maestro muratore per la edificazione di una cattedrale, contemporaneamente alla felice conclusione della sua storia d’amore.
Ken Follett con questa sua ultima pubblicazione si conferma unanimemente, per l’ennesima volta dopo quaranta anni dai suoi esordi, quello che in effetti è: un grande narratore.
Non un romanziere, e nemmeno uno scrittore che tout court scrive racconti le cui vicende si evolvono in ben delineato contesto storico, descritto con il rigore dello storico e l’ accuratezza del letterato.
Follett è anche questo, certamente, ma soprattutto è ben altro: appunto un narratore, una voce narrante. Non è un affabulatore, non favoleggia mai o nemmeno slitta nella pura invenzione di fantasia, allo scopo di adornare trama e creature per ingraziarsi il pubblico dei lettori, è invece un descrittore preciso di fatti e vicende reali, dotati della stessa concretezza della realtà temporale in cui si svolgono.
È un costruttore, un cesellatore, un orafo, egli stesso come Edgar un mastro falegname o muratore, un valente artigiano alla pari con quelli che ritroviamo spesso in molti dei suoi libri.
Lo scrittore gallese presenta ai suoi lettori, in uno scenario storico ben delineato, protagonisti che nascono, vivono, pensano, parlano, muoiono, amano, sognano, esattamente come farebbero le persone reali di quell’epoca in cui li ha situati.
Certamente crea intrighi, sviluppi, colpi di scena, intrecci, e però fa agire, pensare, dialogare i suoi personaggi fedelmente come avrebbero reagito le persone di quell’epoca, in quello scenario, con quella cultura e quelle credenze.
Nulla è rivisto con il senno di poi; non si ricostruiscono qui solo i modi di vivere, di costruire dimore, di coltivare campi e di interagire socialmente, Follett letteralmente conduce il lettore dentro la storia e dentro la Historia, compenetra completamente la personalità dell’umanità in quel frangente, la espone tramite il comune dialogare dei protagonisti, le loro credenze, il loro modo di essere e di porsi davanti ai fatti dell’esistenza, in quei luoghi e in quelle date.
Ken Follett è un narratore, è la voce narrante, ma con un timbro di voce personalissimo, unico, la sua maestria sta in questo: non lui, ma è quanto espone che narra e gli presta la voce, è quello che scrive che parla con mille sonorità tutte riconducibili ad una sola voce, la sua, una voce che dice, che indica, che spiega, che avvince, che fa tribolare ed emozionare il lettore, quasi che il lettore in persona fosse vestito con i panni richiesti dalla scena, ed ascolta, ed osserva, e si lega, si unisce e si confonde tra i comprimari, si immedesima e si immerge in quella realtà, e poi una volta tornato al suo presente rievoca l’esperienza vissuta, si ritrova più ricco di nozioni e di particolari, riconsidera la storia appena letta e i fatti storici salienti di quell’epoca, ed è grato all’autore per la piacevole prosperità pervenutagli.
Ne consegue che i fatti perché storici e storicamente attendibili vanno nella direzione in cui volgono, non in quella che si desidererebbe; perciò, abbondano le ingiustizie, le violenze a carico degli innocenti, le meschinerie, trionfa spesso l’arroganza e la protervia dei potenti a discapito dei puri e dei retti: esattamente come più spesso accade nella vita reale, ora come allora.
La giustizia spesso latita o è terribilmente in ritardo, è quasi prassi comune, corsi e ricorsi storici.
Da notare che le cose della vita, l’esistenza delle persone, anche le caratteristiche dei personaggi di una storia, non sono mai semplici e lineari, più spesso gli intrecci sono lunghi, articolati, complicati.
Inoltre, i fatti e i principali protagonisti e comprimari sono molto ben descritti e minuziosamente dettagliati, oserei dire che sono offerti in dimensione tridimensionale: ne consegue che tutto il libro non può assolutamente esaurirsi in un numero contenuto di pagine. È lo stile di Follett, tutta la trilogia delle cattedrali comprende volumi corposi, e per qualcuno le storie possono apparire ripetitive, ridondanti: affatto, è solo una impressione, fatti, eventi, imprevisti e persone sono diversi e differenti, quello che non varia è semplicemente il buon scrivere dell’autore.
La ripetizione che potrebbe avvertirsi, altro non è che il ritrovare la bella consuetudine di una buona lettura. Colui che è considerato lo scrittore d’elezione dei romanzi storici, questa volta sembra indulgere di meno nei particolari storici: anche questa, a mio parere, è una falsa impressione, è la narrazione stessa che fa Storia, sono i fatti, i dialoghi, la struttura dei fatti a delineare il contesto temporale, quello giusto, l’unico.
Per un buon libro, si richiede spesso un lieto fine; ma questa è una narrazione nella storia umana, e in questa, se un lieto fine c’è, giunge, se giunge, proprio alla fine, molto alla fine, ed a caro prezzo. Però giunge, esattamente come al termine della notte deve per forza spuntare il mattino, in certe cose come l’amore oggi come allora, l’amore come la speranza persiste ad essere, ad esistere tutto malgrado, sempre, di sera e di mattina.
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Se scrive il Re
Scrittore prolifico, instancabile, eclettico e appassionato, Stephen King a differenza di altri celebrati romanzieri riesce a offrire il meglio del suo talento anche cimentandosi nella scrittura in forma di racconto, anziché nel più usuale romanzo.
Non è questo un estro appropriato per chiunque; parrà paradossale, dopotutto un breve componimento permette di eccellere con facilità, proprio per il carattere di concisione.
Richiede meno fatica, concentrazione e accuratezza rispetto ad un lavoro più lungo, possono essere sufficienti descrizioni sommarie, personaggi appena accennati e dialoghi ridotti.
Niente di più sbagliato: è vero invece l’inverso, è difficile scrivere, ricreare atmosfere, ambienti e situazioni, imbastire una storia compiuta, suscitare emozioni, avvincere e convincere il lettore con un numero limitato di pagine e parole.
Ancora più ostico è farlo cimentandosi in un genere, l’horror, in cui King è considerato un maestro, un Re in omaggio al suo nome, specie ai giorni nostri.
Un tempo il nostro dove fantastico, mistero, magia non hanno più motivi e supporti per esistere, ormai nessuno più è disponibile a credere a fantasmi, mostri o creature di altre dimensioni.
Chi si ostina a farlo è tacciato di ingenuità, di indulgere in fantasticherie astratte e bizzarre o in romantiche illusioni, peggio ancora di fessaggine.
La nostra epoca è improntata al rigore scientifico, divulgato in ogni campo dello scibile umano dall’informazione automatica in realtime, che non concede zone d’ombra, dubbi o misteri che non possano essere analizzati nel profondo, sviscerati con logica e chiariti nei più minimi particolari, alla luce delle più moderne tecniche di indagine.
Allora, per funzionare, questo tipo di letteratura ha bisogno di realizzare compiutamente il meccanismo della sospensione dell’incredulità, la creazione cioè di una bolla letteraria in cui lo scrittore rinchiude magistralmente “il fedele lettore”, come lo chiama lo stesso King, e lo incanta con il potere delle parole scritte.
Quasi lo ipnotizza rendendolo arrendevole al fascino di una bella storia, a prescindere dal suo contenuto, di qualsiasi cosa tratti, di qualunque genere, anche il più improbabile, a unica condizione che riponga temporaneamente in disparte ogni incredulità, sia disponibile volontariamente, in piena libertà e senza coercizione alcuna a credere a tutto e al contrario di tutto, anche all’assurdo, purché appunto si compia il sortilegio, apprezzi quanto scritto per la sola bellezza insita in forma e contenuto.
Un vero e proprio contratto tra scrittore e lettore, il primo fornisce una bella storia, insolita e curiosa, scritta bene, con cura e con chiarezza, senza trucchi e senza imbrogli, soprattutto senza deus ex machina completamente inspiegabili, che impressiona, scuote, avvince, ti fa riflettere con quello di reale che traspare tra le righe, e il lettore invece legge, accoglie la storia, sospende per un momento il giudizio sulla veridicità dei fatti esposti, firma l’onere della sospensione dell’incredulità in cambio di una lettura avvincente, deliziosa, ammaliante, una piacevole parentesi, un godere intenso.
“Perché esiste davvero una seconda dimensione. Ed esiste proprio perché la gente si rifiuta di credere che ci sia”.
Nel mondo dei giornali, si usa dire che fa più notizia un uomo che morde un cane che viceversa, e nello stesso modo, si vendono più copie per un fatto delittuoso appunto…se scorre il sangue.
Ecco, se una buona storia horror porta la firma di Stephen King, se scrive il Re, allora il lettore ne sarà certamente soddisfatto, proverà sensazioni gradevoli, deliziose, soddisfacenti, a prescindere dal genere. Stephen King, in sintesi, non è uno scrittore dell’horror, è uno scrittore tout court, un grande scrittore a tutto campo, si cimenta con pari bravura nei romanzi come nei racconti, appunto perché è un Re, e come tale non è nuovo a pubblicare raccolte di soli racconti con il successo di critica e di pubblico uguale a quello conferito alle sue storie di maggior spessore e di maggior numero di pagine. Basti pensare alla fortuna arrisa in precedenza a “Stand by me”, “Scheletri”, “Quattro dopo mezzanotte”, “Everything’s eventual” e altri ancora.
In “Se scorre il sangue” il racconto di apertura è “Il telefono del signor Harrigan”: che impressione può provare, quale sorpresa, meraviglia, stupore e sbalordimento possono cogliere un anziano miliardario, il signor Harrigan del titolo, ormai prossimo alla fine dei suoi giorni, ma dalla mente lucida e pronta come e più di un giovanotto, davanti ai prodigi della moderna tecnologia sconosciuta alla sua generazione?
Harrigan è un uomo d’anteguerra, è il classico self made man americano, abile, spregiudicato negli affari, cinico e disincantato, una persona per cui il massimo della tecnologia ai tempi d’oro della sua maturità è stato possedere un televisore a tubo catodico più grande del normale, e un telefono personale a linea fissa in casa, da non condividere con altri utenti della compagnia telefonica.
Un suo giovane, e fresco nativo digitale, il ragazzino vicino di casa, Craig, assunto per leggergli qualche pagina dei romanzi preferiti, tanto si affeziona al vecchio da regalargli uno dei primi modelli di smartphone della Apple, appena immessi sul mercato.
Per il vecchio Harrigan l’equivalente della lampada di Aladino.
Per intenderci, troppo spesso tendiamo a dimenticare che…non siamo stati tutti nativi digitali.
Ormai più nessun nuovo ritrovato informatico ci meraviglia più di tanto, ma per quanto strano, è esistito un tempo nemmeno tanto lontano in cui i telefoni andavano a gettoni, le calcolatrici a manovella, le macchine da scrivere avevano un nastro inchiostrato e senza correttore ortografico.
Uno dei primi pc sul mercato, con connessione modem, sistema operativo Windows 3.1, con processore lumaca, hard disk e RAM di capacità irrisoria, con programmi installati su un ridicolo floppy disk, era già qualcosa di stupefacente e ipertecnologico per un uomo del secolo scorso, come mostrare ad un cavernicolo la differenza tra una clava ed un kalashnikov.
Figuriamoci uno smartphone, che come ultima funzione pratica ha quello di telefonare senza essere collegato ad una presa telefonica, ma quello che lasciava sbigottiti, sconcertati, sbalorditi i nostri antenati era Internet, la rete, il web, il poter leggere i quotidiani in tempo reale o seguire l’andamento della Borsa all’istante, e anche gratis, come d’uso un tempo.
Sarebbe l’equivalente del regalare un mucchio di moderni e strabilianti giocattoli moderni, meccanici moventi, senzienti e auto gestibili, ad un bambino che ha avuto finora solo miserabili balocchi di legno: lo si manda letteralmente in sollucchero.
Così per Harrigan, che si spiace solo per questo per il termine della sua esistenza terrena, comprendendone con la sua mente raffinata, gli effettivi strabilianti sviluppi futuri.
Tanto finisce per affezionarsi al suo smartphone, che il suo giovane pupillo Craig, erede di parte della sua fortuna, pensa bene di lasciarglielo nella tasca interna della giacca al momento della sepoltura, perché gli facesse compagnia nel viaggio nell’al di là.
E come tutti i giovani curiosi e sbarazzini, prova a telefonargli, tempo dopo la sepoltura, un po' per scherzo, per curiosità, proprio perché resta un ragazzo, dopotutto…e se qualcuno risponde?
Oh…ma è solo la segreteria telefonica con la voce del vecchio registrata, per fortuna!
Da sottoterra? Giorni dopo la sepoltura? Ma quanta autonomia poteva avere una batteria di un cell?
Poi…se poi gli lasci un messaggio e…e il vecchio esaudisce il tuo desiderio, e ti risponde pure con un criptico sms? Inverosimile e reale insieme, non sai che credere, e intanto leggi, e ti piace anche.
Credo che con questo racconto King abbia esposto a modo suo uno degli interrogativi più frequenti della nostra epoca: può la moderna tecnologia spiegare, oggi o domani, il mistero della vita, della morte, e dell’esistenza? Il dilemma che da sempre tormenta l’uomo? C’è vita oltre la morte?
King dubita che l’informatica ci sarà di aiuto. E noi con lui.
Il secondo racconto, “La vita di Chuck” è a sua volta suddiviso in tre sotto raccontini, con lo stesso protagonista, Charles Chuck Krantz, visto in…dimensioni diverse.
Non in momenti diversi della sua vita, si badi bene, proprio in diverse dimensioni di vita.
Chi siamo veramente? Ognuno di noi è frutto, se così possiamo dire, non tanto della strada esistenziale rettilinea percorsa per giungere alla maturità, quanto piuttosto il risultato dei continui cambi di direzione, dipendiamo dagli innumerevoli bivi incontrati, dagli incroci contorti a più snodi e più uscite, spesso senza cartelli indicatori, con le rotonde, i viottoli nascosti, siamo il sunto di tutte le direzioni diverse che abbiamo intrapreso durante la nostra corsa terrena.
Ne consegue che abbiamo incontrato persone diverse, letto certi libri e non altri, amato in un certo modo e in una determinata misura, nel bene e nel male le nostre esperienze ci hanno plasmato come siamo. Tuttavia, se avessimo intrapreso direzioni diverse, magari girato a destra e non a sinistra, tornati indietro, soggiornato in un posto abbastanza a lungo e non in un altro, preso quel treno, o quell’aereo, o fossimo andati a piedi, tutto di noi sarebbe cambiato.
Siamo uno, nessuno, centomila, secondo che via abbiamo intrapreso, e con quali scarpe indossate, se comodi scarponcini, o ciabatte scalcagnate, o dolorosi stivali stretti in punta e fautori di dolorose vesciche. Così, tutte diverse sarebbero le persone che abbiamo conosciuto, gli incontri, gli scontri, i dolori, le gioie, tutto il vivere vissuto lo conserviamo qui, nella nostra mente. In menti diverse.
In sintesi, tutto quanto lo disse già il poeta Walt Whitman, e King lo riprende in una frase del protagonista: “Contengo moltitudini”.
Ed è verissimo: ognuno di noi poteva essere e non è, poteva vivere in una società al collasso distopico, per catastrofi climatiche, telluriche, ambientali, oppure trovarsi a ballare con artisti da strada, o ancora essere un bravo padre di famiglia alle prese con un tumore encefalico nel fiore degli anni.
In qualsiasi scenario…potrebbe sempre esserci un cartellone pubblicitario a grandezza naturale a ricordarci che siamo protagonisti unici del film della nostra vita…conteniamo moltitudini, e siamo unici. Dipende dove siamo, e come ci siamo arrivati.
Il racconto più lungo è “Se scorre il sangue”, un omaggio di King ad uno dei suoi personaggi non dico meglio riusciti, ma quello a cui lo scrittore si è più affezionato negli scritti della tarda maturità: la giovane investigatrice, suo malgrado, Holly Gibney, una ragazza psicolabile un po' bruttina, ex anoressica, ex vittima di una madre patologica, ex fallita di turno, una donna piena di idiosincrasie, fobie, avversioni, ripugnanze, eppure tenera, simpaticissima, saggia e affettuosa, già protagonista di precedenti e fortunati romanzi dello scrittore del Maine, tra cui l’ultimo “The outsider”.
Sui luoghi dei disastri più sanguinosi, incidenti drammatici quanto disastrosi e sulle scene di efferati attentati, si radunano sempre folle di curiosi, attratti dal sangue…se scorre il sangue, si vuole vedere.
Non solo, filmarlo con i cell, sentire le testimonianze raccapriccianti, condividerne sui social raccontando la propria testimonianza e partecipazione attiva alla tragedia, una macabra curiosità tutta umana. E se invece qualcuno…si nutrisse di questo dolore?
Se ne avesse davvero la necessità, se fosse un essere misconosciuto ma reale che ha bisogno, la sua fisiologia e costituzione organica e tessutale, il suo metabolismo, il suo fisico, lo richiedono, di aspirare l’orrore, il dolore, la paura degli umani?
Respirarne le emozioni dolenti, le sole nutrienti del suo corpo?
Un mostro certo, dal nostro punto di vista, ma in realtà un essere senziente diverso, un organismo ancestrale differente, un sopravvissuto, non alieno ma un mai estinto, un organismo poliforme e astuto, cattivo per necessità, solo che…sta diventando più che cattivo, sta divenendo attivo.
Tocca ad Holly porre un rimedio. Della serie, ciò che è diverso è mostruoso. Lo è, King non lo nega, ma spesso è nella sua natura esserlo, magari non ne ha neanche colpa, è così, è la sua Natura.
Spesso, la Natura è matrigna con gli umani, è nella norma. Anche Holly lo sa.
L’ultimo racconto, “Ratto”, si riconduce indirettamente al difficile mestiere di scrivere.
Scrivere è un’attività creativa, affascinante, attrae moltissimi, molti ci si provano, pochi ci riescono, pochissimi ne traggono sostentamento, meno ancora eccellono.
L’incubo peggiore di chiunque scriva è il lampeggiare del cursore sulla carta senza trovare le parole per continuare. Il blocco dello scrittore, la paura, il terrore puro di non riuscire a rendere subito, chiaro e bene l’idea che ti è spuntata in testa, la trama, i personaggi, il panico che ti sorprende a che l’attimo fatato della creazione mentale dello scritto evapori inesorabilmente, svanendo come nebbia al vento.
Un fallimento, un handicap insormontabile per chi scrive.
Questo è quanto già accaduto più volte al protagonista di “Ratto”, lo scrittore Drew, che non è mai andato oltre la stesura e la pubblicazione di qualche buon racconto, anche con un certo successo e fortuna, ma non oltre, tant’è che per sbarcare il lunario con moglie e figli esercita come professore di letteratura inglese. Tuttavia, non è felice, non si sente realizzato, in una parola rosica: ogni tentativo precedente di scrivere finalmente un romanzo è sempre abortito ad un certo punto del suo lavoro.
Perché scrivere sa essere un’attività crudele, all’improvviso ti blocchi, non sai più come andare avanti, le parole che fino ad un attimo prima sorgono impetuose, spontaneamente e senza sforzo, soprattutto rendono perfettamente su carta la buona storia che la testa ti detta, ora latitano.
Peggio: scompaiono, sia i termini che le idee. L’intero processo creativo si inaridisce di colpo, e senza rimedio, senza alternativa che non sia alzarsi e sbattere tutto nel cassetto dei rimpianti.
Un giorno però a Drew la fantasia, il fato, la musa, la creatività recano in dono una bella storia, e le parole per dirla. Un’opera diversa e originale, un western, ed il nostro ha tutto chiaro in testa.
Per non perdere il filo, la concentrazione e l’idea, temendo il ripetersi del blocco dello scrittore, lascia moglie e figli e si rintana a scrivere pro tempore, qualche settimana, in una baita di montagna fuori dal mondo. Dove resta poi bloccato da una tormenta di neve, anche febbricitante. Però, come si dice, ha viveri e munizione a sufficienza per resistere, e l’isolamento voluto e forzato insieme non può che essere di giovamento alla scrittura. Tuttavia…il talento non necessita di isolamento.
Non necessariamente almeno. Le parole non giungono, il foglio resta in bianco, Drew è disperato, sconfortato, depresso, febbricitante, solo, malconcio e malridotto.
Nel delirio iperpiretico, ecco gli sembra che un ratto, che aveva soccorso poco prima dalla tormenta, gli conceda per gratitudine di finire il suo libro, in cambio della morte di una persona cara.
Un vero e proprio dialogo faustiano, quindi, che Drew neanche sa quanto reale o onirico, fatto sta che accetta, indicando con astuzia come vittima predestinata il suo migliore amico…che sa già gravemente malato terminale e prossimo alla fine.
Il libro è terminato alla grande, viene pubblicato con successo di critica e di pubblico ma…il diavolo fa le pentole e non i coperchi, e Drew sarà costretto a tornare alla baita per un chiarimento sui termini del contratto.
In questo racconto direi che King fa una disamina spassionata del proprio lavoro, induce ad una attenta riflessione su cosa in effetti significa esercitare la professione di scrittore, un’attività che non è certo idilliaca come qualcuno potrebbe pensare, ma è invece spesso un vero strazio interiore, un tormento, un’ossessione, provoca dubbi, insicurezze, nevrosi e psicosi.
Dietro il successo di un romanzo c’è il talento, certo, con la creatività ed il duro lavoro, e queste hanno un prezzo: è facile, perciò, quando latitano, cercare una scorciatoia artificiale, nell’alcool, nelle droghe e stimoli simili, King lo sa bene, lui stesso ci è passato all’inizio della carriera.
Poi per fortuna non ne ha avuto più bisogno, neanche di un patto con un ratto.
E si vede: se scrive il Re, vale la pena leggerlo.
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Fine pena mai
Antonio Manzini torna in libreria sorprendendoci con una storia che non vede tra i protagonisti il suo personaggio più noto, il vicequestore Rocco Schiavone, da tanti ben conosciuto anche per l’ottima resa scenica che ne ha dato sul piccolo schermo l’attore Marco Giallini.
Schiavone nei romanzi cult di Manzini è un investigatore atipico, potremmo definirlo come un poliziotto sui generis che indaga in romanesco, con acume e ironia, nel mentre cerca disperatamente di restituire un senso alla propria esistenza, sconvolta dall’assassinio dell’adorata moglie Marina, avvenuta in tragiche circostanze per mano di un pregiudicato risentito nei confronti del poliziotto.
Una tragedia personale che restituisce sprazzi di intensa ed insolita tenerezza alle sembianze del poliziotto, di per sé persona intelligente, ricco di umanità, di buon senso pratico, positiva, ma che i fatti della vita, la sua crescita esistenziale nelle difficili e tormentate borgate romane, per quanto talora gravide di incredibili fortissimi legami di fratellanza, amicizia e solidarietà, hanno reso cinico, disincantato, irriverente nella distinzione netta tra bene e male, tra lecito o penalmente perseguibile.
Cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, a mio parere Manzini non è da meno neanche stavolta, anche senza Schiavone ha scritto un bel libro, ci sorprende piacevolmente con un’ ottima storia, attuale e moderna nei temi e nei personaggi, descritti con semplicità e sapienza, resi alla perfezione nella loro essenza, assistiamo attenti ad un raccontare reale e non di fantasia, sintetico, essenziale ma fluido e intenso, forse vigoroso solo a tratti, ma è così che deve essere.
Perché questo è una storia di vite infrante, un racconto disperato e disperante, e la disperazione, quella vera, se pure sorge d’improvviso, evidenzia appieno i suoi nefasti effetti spalmandosi nel tempo, approfondendo le sue spire gradualmente, avvelenando in profondità l’esistenza delle sue vittime; non è vigorosa al suo insorgere, è più subdola e deflagrante solo nel finale. Come questa storia.
Una storia che senza mezzi termini, da subito, dall’inizio, prende il lettore, lo avvince, lo interessa, lo inchioda alle pagine, neanche tante, che si fanno leggere con un misto di piacevolezza ed amarezza insieme. Un romanzo che si legge con piacere, dunque, anche se parla di dolore, di cordoglio, di afflizione, senza però mai scadere nel patetico o nella mestizia fine a sé stessa, e questo risultato lo raggiunge solo chi sa come scriverne. E bene anche. L’autore ha fatto davvero un ottimo lavoro.
Antonio Manzini ci riporta al meglio una storia dissacrante e dissacratoria, un racconto profanante del senso della giustizia, narra del comune buon senso infranto dalle tragedie personali.
Tratta di un assassinio, e di tutte le sue vittime, non tanto colui che è caduto, ma tutti quanti gli sopravvivono, a partire dal reo fino ai familiari dell’ucciso, quasi che un omicidio fosse un corpo pesante gettato a forza, con rabbia cieca ed impulsiva al centro di uno lurido specchio d’acqua, e il turbinoso moto ondoso con le onde concentriche che ne derivano travolgono inesorabilmente te rovinosamente tutti coloro che ne sono in qualche misura coinvolti, colpevoli ed innocenti, carnefici e vittime, un tsunami disastroso e irrimediabile. Per tutti e per chiunque.
Nora e Pasquale sono una comune coppia di mezz’età, gestiscono con buona fortuna una florida attività imprenditoriale a conduzione familiare, sono titolari di una tabaccheria nel centro città.
La loro esistenza si svolge tranquillamente lieta e felice, come quella di tante famiglie, ruota attorno al nucleo fondante della loro vita di coppia, l’unico adorato figliolo Corrado.
Si svolgeva: un triste giorno, per pura fatalità Corrado è da solo in servizio in tabaccheria, un balordo tenta una rapina, e vuoi per il dilettantismo del rapinatore, vuoi per il coincidere degli eventi, la paura e lo stress del dilettante, l’impulsivo reagire del giovane, il fato avverso e la cattiva congiuntura delle stelle e dei pianeti, fatto sta che Corrado muore accoltellato ed il rapinatore arrestato in flagranza.
Una rapina finita male che è non solo una tragedia, ma il prologo della disperazione annunciata.
L’esistenza terrena di Corrado termina, e con essa il suo sorriso e la sua gioia di vivere; e con lui termina anche la vita dei suoi genitori, gli ultimi giorni di quiete, che da quel momento in poi trascineranno le loro esistenze in un susseguirsi di gesti, movimenti, attività stinte, confuse, dissonanti, niente più che tentativi non di dimenticanza, che sarebbe impossibile, ma di annullarsi nell’oscurità e nel silenzio a celare il dolore.
“Portare i fiori sulla tomba di un figlio è contro natura. Piangere sulla tomba di un figlio è contro natura. Vivere al posto di tuo figlio è anche peggio.”
Al dolore si accompagna il rancore, l’astio, il livore per chi ancora respira, quando invece la persona che amavi più di te stesso ha esalato il suo ultimo.
Una reazione assurda e ingiusta ma quasi normale, del tutto logica, difficile a comprendersi se non si è vissuta sulla propria pelle, al rimpianto per l’affetto perduto si accompagna inevitabilmente l’acredine per chi sopravvive, che si reputa sempre immeritevole.
Questo è quanto accade a Nora e Pasquale, e si accentua al massimo grado allorché del tutto casualmente si imbattono nel balordo assassino, Danilo, scarcerato dopo pochi anni di reclusione per sommatoria di benefici di legge.
Una sensazione comune per un evento ricorrente, chiunque sia stato vittima di atti di delinquenza ritiene inadeguata la pena comminata al colpevole, qualunque sia il reato e il danno causato, nemmeno la massima severità, un fine pena mai, placa il personale sentimento di giustizia della parte offesa, figuriamoci per la perdita dell’unico figlio per la cui morte la giustizia ha ritenuto congruo l’estinzione della pena con pochi anni di reclusione.
In Nora e Pasquale scatta allora il meccanismo della rivalsa del borghese piccolo piccolo, un misto di odio, di rabbia, di ricerca della violenza, della vendetta, del sangue e della sofferenza da infliggere personalmente al colpevole, che anni fa fu magistralmente reso sullo schermo da Alberto Sordi in un film di Monicelli, appunto “Un borghese piccolo piccolo” tratto da un bel libro di Vincenzo Cerami.
Solo che la vita non è un film, serve fare i conti con la realtà: Pasquale vuole procurarsi una pistola, per farsi giustizia da solo, non solo per dare un senso ed un significato concreto alla sua scialba esistenza strascicata tra casa, lavoro e manutenzione continua di una vecchia motocicletta, ma anche per interrare una volta per sempre il complesso di colpa che lo tormenta da allora, in quanto avrebbe dovuto trovarsi lui al posto di Corrado quel fatidico giorno, se per una banale casualità non fosse accaduto diversamente.
“Non sono mai stato a favore della pena di morte. Ma della pena sì.”
Ben diverso il piano di Nora, che agisce in maniera più sottile, anche più semplice ed efficace per la sua rivalsa, oserei dire la più logica ed intensamente femminile.
“Una madre non ha più diritto alla vita se suo figlio quel diritto non ce l’ha più…”
Nora sa che quello che l’ha da sempre tormentata non è l’odio che le ha avvelenato l’esistenza, l’odio è solo una conseguenza, un sintomo; ciò che strazia di continuo senza fine è l’ossessione.
L’ossessione di rivedere continuamente la scena, di immaginarla, di creare con la mente alternative e sviluppi diversi, modalità differenti di svolgimento dei fatti, addirittura scenari futuri idilliaci impossibili a crearsi, l’idea fissa che un’immensa ingiustizia è stata commessa, prima da Dio, dal fato o da chi per lui e poi dalla giustizia degli uomini, e questo assillo, questo tormento, questo chiedersi perché Corrado e non altri assai più inutili e immeritevoli del suo figliolo, questa ossessione Nora intende restituire all’assassinio di suo figlio. Pari pari.
Perché si tormenti, accusi il colpo, reagisca, venga punito.
Perciò Nora si trasforma da placida vecchietta in una nemesi che segue Danilo come un’ombra, al lavoro, al bar, al supermercato, a casa, si pone appresso la sua compagna, dovunque vada lo segue, diventa la sua ossessione, perché sa benissimo che questa fa impazzire, basta poco perché questa si trasformi nell’incubo peggiore.
Antonio Manzini ha raccontato una storia di sentimenti, di sensazioni, di emozioni, tutte dolenti, amare, desolanti. Eppure, sono reazioni comunissime, quelle che chiunque proverebbe, davanti a simili tragedie, perchè le sofferenze tratte da tragedie improvvise e inaspettate come solo la vita sa proporre, oltre ogni realtà romanzata, hanno un solo attributo, sono crudeli.
Così crudele è la vita: serve godersi gli ultimi giorni di quiete.
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Origami
“La luce del mattino faceva vorticare la polvere dalle tende pesanti. Gregers Hermansen si sedette in poltrona e osservò la danza del pulviscolo in salotto. Ormai ci metteva talmente tanto tempo a svegliarsi che si chiedeva se ne valesse davvero la pena. Appoggiò le mani sui braccioli levigati, reclinò la testa all’indietro, rilassò la mandibola e chiuse gli occhi per proteggerli dal bagliore, finché non sentì il borbottio della caffettiera.”
L’incipit del romanzo giallo di Katrine Engberg “il guardiano dei coccodrilli” mostra subito tutto il talento caratteristico di questa autrice, il suo imprimatur: l’indole intensamente descrittiva della scrittrice danese, la sua abile propensione a immergere da subito il lettore direttamente nelle pagine da lei vergate.
Il suo estro, il suo ingegno si palesa nella minuziosa descrizione nei minimi particolari di luoghi, fatti e persone che riporta nel testo. In tal modo stimola d’immediato la condizione di estrema attenzione del lettore, avvinto alla scena che scorre davanti ai suoi occhi quasi ne fosse diretto osservatore tramite una camera nascosta. Non solo, ma la descrizione minuziosa sembra trasferirsi anche nel pensiero che consegue alle azioni, pensiero logico, chiaro, evidente, e però descritto in maniera incisiva, che pare proprio il marchio di fabbrica, il brand di questa autrice, come per esempio vediamo qui, nella usuale raffigurazione della scena del delitto:
“Nell’attimo in cui la vita ci abbandona diventiamo un lavoro per qualcuno. La scena di un delitto ricorda per molti versi un’opera teatrale: un intrecciarsi di accordi che, insieme, formano un’unità. Tramite imbeccate e battute d’entrata.”
In poche parole, ha perfettamente descritto la scena di un omicidio, con tanto di vittima, poliziotti intervenuti sul posto, medico legale, esperti della scientifica, tutti gli addetti ai lavori che tutti insieme interagiscono, si supportano, si scambiano informazioni e finanche lazzi e battute come in qualsiasi luoghi di lavoro, tra persone che da tempo si sincronizzano insieme nei loro ruoli in un tutt’unico.
Ecco davanti ai nostri occhi un vecchio pensionato, avanti negli anni e malmesso in salute, solo da anni, è ancora restio a sentirsi impacciato, titubante nei movimenti e confuso nel ragionamento, malgrado sia ben conscio dell’età avanzata. È per lui, perciò, una forma di velata protesta quella di alzarsi alle prime ore del mattino, godersi in pace il primo caffè della giornata, portare fuori i rifiuti del giorno precedente. Non dovrebbe farlo, come gli raccomandano tutti, sarebbe meglio per prudenza, a scanso di incidenti frequenti per le persone anziane sole e nelle sue condizioni, attendere quieto l’arrivo del badante che lo accudisce.
Il vecchio non se ne dà per inteso, queste piccole disobbedienze sono il suo modo di sentirsi ancora attivo in qualche modo, deve dimostrare soprattutto a sé stesso di essere ancora nel novero dei vivi. Ed è proprio durante la sua lentissima operazione di rimessa dei rifiuti nel contenitore esterno, un vero e proprio tartarughesco muoversi irto di pensieri e fittissimi ragionamenti interiori, che l’anziano passa davanti all’ingresso di servizio dell’appartamento del piano sottostante al suo.
Stranamente si accorge che l’uscio è socchiuso, il che gli sembra bizzarro, trattandosi di due studentesse universitarie, ragazze giovani ma che non gli hanno dato l’idea per questo di essere tante svanite e superficiali in tema di sicurezza.
Per cui, ancora in pantofole e vestaglia, l’uomo si avventura oltre l’uscio chiamando, non riceve risposta, si inoltra e finisce per inciampare rovinosamente a terra.
Quando poi si accorge, nel chiaroscuro, quasi a tentoni, di essere inciampato nel cadavere di una giovane, lo shock è talmente violento da procurargli un malore, e per la prima volta, forse da tempo immemorabile se non da sempre, il vecchio rimpiange di non essersi mai pienamente calato nel più consono ruolo di vecchietto tranquillo e obbediente ai richiami di prudenza, come un bravo anziano deve saper fare.
L’intervento successivo della polizia di Copenaghen permette al lettore di far la conoscenza con la coppia di investigatori incaricati del caso, Jeppe Korner e Anette Werner, e anche qui l’autrice mostra il meglio di sé divulgandosi nella descrizione dei due poliziotti, diversissimi tra loro come il giorno e la notte.
Una descrizione accurata, ma per nulla pedante, un ritratto sinuoso dei personaggi che ne rivela l’essenza senza però appesantire la storia, Katrine Engberg narra di un delitto, si cimenta in un enigma, scrive un giallo, ma lo fa in maniera intrigante, coniugando esattezza di resa scenica con levità di lettura.
La stessa descrizione degli agenti incaricati delle indagini è incisiva, e però velata di leggiadria, si legge con scorrevolezza, con facilità, ci presenta due personaggi differenti ma non perché interpretano i ruoli del poliziotto buono e del poliziotto cattivo tanto comune nella letteratura del genere. Tutt’altro: se Jeppe appare come avanti negli anni, carico di esperienza e però stanco, in qualche modo esaurito dalla vista delle continue aberrazioni dell’animo umano, gli fa da contraltare Anette, che non è affatto un suo alter ego, piuttosto un Jeppe più entusiasta, cristallino, con voglia di fare.
I due insieme si completano, e la descrizione del loro interfacciarsi, della loro convivenza professionale con intromissioni nel privato, in qualche modo cementa la loro intesa e ne risulta uno sforzo investigativo doppio, tanto più efficace quanto maggiore è la differenza tra i due tutori dell’ordine, proprio perché la loro diversità copre una visuale maggiore e permette una più ampia raccolta di indizi per la soluzione del caso.
Caso che risulta alquanto complesso da risolvere, anche insolito e per questo più avvincente ed intrigante. Basti pensare che all’ultimo piano del palazzo dove è avvenuto il delitto, vive un’ex insegnante di lettere dell’università di Copenaghen, Esther de Laurenti, una donna che dei libri, dell’arte, della scrittura ha fatto icona di vita.
E che oggi, finalmente in pensione, può dedicarsi ad una sua passione segreta, quella di…scrivere gialli. L’ex professoressa, reclusa o quasi nel suo appartamento, tra l’altro è anche la proprietaria dell’intero palazzo, vive una sua vita da artista, una sorta di bohemien avanti negli anni, nel disordine da salotto culturale della sua abitazione, teatro di feste, incontri, seminari artistici, in compagnia di due ciarlieri carlini ed un giovane assistente che le dà lezioni di canto, e intanto scrive il suo giallo.
Nulla di tanto insolito, dopotutto…sennonché la trama del suo testo ricalca in fotocopia l’omicidio appena avvenuto, con tanto di efferatezze realmente riportate, come le incisioni con arma da taglio sul viso della povera vittima, quasi a delinearne le linee grossolane di un origami sul volto.
Una di quelle stranezze che tutto è, tranne che una coincidenza, e che rende perlomeno sospetta l’ex insegnante.
Personaggi, investigatori, principale indiziata, una storia insolita, con tutto quanto Katrine Engberg imbastisce un lauto pasto, ottimo e abbondante, un po' coriaceo da digerire, ma è un bel metabolizzare, un po' come avviene ad un coccodrillo che sembra ipocritamente piangere nel mentre però si gusta saporitamente una sua vittima.
Si usa dire infatti che il coccodrillo piange a calde lacrime, quasi si spiacesse per le sue vittime, i lettori invece no, credo che sorrideranno invece per il gradimento suscitato dalla lettura di questo giallo a firma di un talento danese.
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Non metteteli alle strette
Nisida è un’isola minuscola, la più piccola delle isole dell’arcipelago campano, vicinissima a Napoli, a cui è fisicamente unita da un lungo pontile.
Questo legame con la terraferma addirittura la fa confondere con una penisola, e invece è isola con tutti i crismi, di origine vulcanica, anche incantevole e affascinante, alla pari delle più note Capri, Ischia, Procida: appare come quelle una piccola perla, incastonata nell’azzurro del golfo partenopeo.
Per bellezza e posizione strategica, è da sempre appetita da molti squali per lucrose speculazioni turistiche, invece lo Stato resiste ad ogni lusinga, almeno finora, e l’ha destinata da essere sede di un carcere minorile. Un signor carcere, in verità, un moderno organismo di recupero e autentica riabilitazione del reo, un complesso di elementi tesi a fornire ai giovani reclusi un minimo di istruzione, di corsi professionali, laboratori e quanto altro, compresi strumenti di supporto psicologico, volti a indurli a costruirsi un futuro prossimo diverso da ciò di disastroso che, in precedenza, li ha precipitati nella realtà di custodia.
In questa struttura, ai minori reclusi per i reati più disparati, viene quindi offerta la possibilità di una rieducazione tesa ad un reinserimento reale nella società non malavitosa, invero impresa alquanto difficile e difficoltosa, malgrado gli sforzi encomiabili di operatori e istituzioni.
In questo percorso irto di ostacoli, non è certo sufficiente, non è garanzia di successo che la struttura per il recupero dei minori abbia una collocazione paradisiaca per sede e strumenti.
Nemmeno possono sopperire, per quanto davvero ammirevoli, gli sforzi di quanti, dal direttore alle guardie, dagli educatori agli operatori professionali e agli insegnanti, ogni giorno si prodigano, con sacrificio e abnegazione personale, a restituire una prospettiva di vivere diversa, fuori dai giri delinquenziali, alle giovani vittime di circostanze avverse, tutti, chi più chi meno, poco più che bambini, malgrado le apparenze.
Perché, diciamolo francamente, i minori privati della libertà personale altro non sono che bambini, se non nel fisico e nell’ingenuità, malizia e furbizia, certamente nell’immaturità, incoscienza, sprovvedutezza e superficialità del loro agire.
Minori finiti loro malgrado, ed esclusivamente per nefasti influssi ambientali, nelle maglie della giustizia penale.
Gli addetti ai lavori, ed è un lavoro assai delicato il loro, provano a plasmare diversamente, per quanto concesso, e ad indirizzare al lecito i loro assistiti, tentano di fornire agli animi fragili e acerbi dei giovani reclusi una parvenza di sicurezza, di conforto, di valori in cui credere e condividere.
Se spesso il successo non arride ai loro sforzi, è semplicemente perchè viene pure il giorno della fine pena, e i ragazzi tornano in libertà:
“…torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui”.
Così, semplicemente, Valeria Parrella presenta lo scenario essenziale del suo “Almarina”.
Un bel libro, un romanzo breve, in cui l’autrice parla di tanti argomenti insieme, ci riporta di Nisida e della casa di reclusione dei minori, delinea con tratti brevi e incisivi i personaggi che lì vivono, sia che ci lavorino o vi siano coattivamente domiciliati, e di questo fa pretesto per narrare di affetti, di famiglia, di figli, in definitiva racconta di sentimenti, di amore.
Lo fa per spunti, non approfondisce mai la tematica a fondo, sembra suggerire, anziché rivelare.
Valeria Parrella si esprime per immagini, e immagini scrive, fornisce uno spunto, fissa un istante, un singolo scatto, poi lascia che sia il lettore a delineare gli sviluppi del discorso, come l’avverte la propria sensibilità. La scrittrice napoletana sussurra, non dice; suggerisce, non declama; propone, non afferma. Il suo dire crea suggestione, e lascia al lettore ogni interpretazione; racconta, ma in silenzio.
Presenta una piccola isola che potremmo considerare l’emblema del vivere a misura normale d’uomo, e che è invece il simbolo dell’assurdità del sistema giudiziario.
Vivere su un’isola più o meno felice, per un breve tempo, può forse servire ai giovani e inesperti naufraghi qui giunti per le burrasche dell’esistenza, a ritemprarsi, imparare a governare meglio le vele, riparare il fasciame degli scafi lesi da condotte di vita sviate, ma ributtare poi di nuovo i derelitti tra i marosi in burrasca, senza offrirgli bussole e sestanti adatti per condurli in altri porti, significa destinarli a schiantarsi ancora sugli scogli, anche più frastagliati e pericolosi.
Nisida non basta, serve che anche quanto lo circondi assuma contorni non diremmo paradisiaci, sarebbe utopistico pensarlo, ma a misura d’uomo.
Serve la famiglia, urge la scuola, occorre il presidio del territorio, necessita rivalutare l’esistenza e ripristinare una scala di valori, ma più di tutto, serve amore.
Quello che manca a questi ragazzi, poco più che bambini, non sono le cose, i cellulari, gli abiti costosi, gli accessori di grido, i paradisi artificiali ed il mito del successo e del facile arricchimento.
A loro così fragili, teneri e violenti insieme, talora brutti, sporchi e cattivi ed in realtà bellissimi, va assicurato prima di ogni altra cosa affetto, calore, dolcezza, attenzione, cure, solo così possono crescere sicuri e fiduciosi in sé stessi e nei loro simili, e non perdersi lungo il tragitto verso l’età adulta e responsabile.
Tutto quanto è ben chiaro, e l’esperienza quotidiana glielo ribadisce puntualmente, alla protagonista, Elisabetta Maiorano, insegnante di matematica presso la struttura per i minori reclusi di Nisida, un insegnante vecchio stampo, di quelli che credono nel loro ruolo e nella loro indispensabile funzione educativa, la “maè”, la maestra, come appellata dai ragazzi, perché davvero la donna almeno ci prova ad essere maestra di vita prima di fornire strumenti di calcolo, e gli alunni lo sentono.
La donna, ancora giovane anche se avanti negli anni, ogni giorno lascia fuori dalle sbarre, in un apposito armadietto nello spogliatoio, tutto quanto non ammesso nel carcere, cellulare ed effetti personali, prima di iniziare la sua giornata lavorativa.
È un gesto simbolico, da intendere come lasciare fuori tutti gli orpelli della propria esistenza, il dolore atroce di essere inaspettatamente vedova da poco, per esempio, oppure l’amarezza di non aver avuto figli propri, o ancora la tristezza, provata insieme all’amato marito, di non aver completato positivamente un iter di adozione, e logica conseguenza a tutto questo l’afflizione e l’angoscia del vuoto e della solitudine che la opprimono.
Elisabetta Maiorano riempie la propria esistenza dedicandosi ai suoi “ragazzi”, stando bene attenta, come tutti gli adulti che lavorano nella struttura, a non affezionarsi, a non legarsi oltre l’umana possibilità, perché appunto, prima o poi, gli eventuali rapporti di empatia instauratosi, per quanto realizzati a fatica, sono destinati a terminare, Nisida è una tappa temporanea, più o meno breve, nel percorso di vita degli ospiti.
Solo che l’esterno non offre spesso, se non mai, alternative valide, latitano la famiglia e le istituzioni preposte, è quel tipo di società stessa, per come è concepita, che inevitabilmente deteriora il giovane, e se pure ne ha le migliori intenzioni, lo distoglie da un cammino diverso, lo indirizza su un percorso negativo. Cominciando dalla famiglia stessa, dai padri con i figli:
“…capisco che si possa odiare un figlio al punto di ucciderlo, non capisco come lo si possa stuprare.”
È quanto è successo ad Almarina, un sedicenne romena, poco più che una bambina, uno scricciolo di donna, distrutta nell’anima e nei sogni, si vede anche da come compita a fatica il foglio con le operazioni aritmetiche indicate dalla professoressa Maiorano:
“…Dentro il foglio c’è dunque questo uomo che la violenta e poi le rompe le costole, suo padre. E un fratello che aveva sei anni quando lei l’ha portato con sé in Italia…Il viaggio l’ha pagato sul camion stesso, a tutti, ogni volta che hanno voluto.”
E le madri? Questo non è un romanzo al femminile, per cui:
“Le madri non sono da meno, mi stia a sentire. L’altro giorno al colloquio una madre ha detto a suo figlio che se avesse tradito la famiglia lo disconosceva, glielo ha detto a segni, ma ora ormai i segni li capiamo.”
Anche Valeria Parrella conosce la lingua dei segni, e con i segni sa esprimersi; questo è un libro segnato, più che scritto, ed espone chiaramente cosa non bisognerebbe mai fare con i giovani reclusi: non metteteli alle strette.
Questa la realtà di Almarina, è messa alle strette malgrado l’orrore da cui è sfuggita e per cui pare quasi l’abbiano voluta punire, rinchiudendola a Nisida prendendo a pretesto il suo aver rubato un cellulare.
Nelle moltiplicazioni, cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia. Almarina però non è brava nelle moltiplicazioni, lo è invece nelle addizioni.
Elisabetta Maiorano, che i numeri li conosce, li insegna e li ha sempre amati, compie allora un gesto rivoluzionario, che non dovrebbe fare in quel contesto, dove serve imparzialità e distacco: si affeziona ad Almarina, se ne prende cura, la prende con sé.
Perché ambedue, la donna e la bambina, sono sole, e vuote, e moltiplicandosi tra loro, il prodotto non cambia, si ottiene l’identica solitudine, lo zero, l’unico numero che moltiplicandosi con il suo doppio resta identico a sé stesso.
Nell’addizione però non funziona così, la somma è un risultato diverso dai membri dell’operazione, da Elisabetta e Almarina insieme può nascere per esempio la ricerca del fratellino di Almarina, sarebbe a dire il concretizzarsi di una speranza di altra vita, l’aggrapparsi ad uno scoglio nel mare.
Più di uno scoglio, un’isola minuscola di roccia vulcanica, stabile e sicura. Come Nisida.
Indicazioni utili
NÉ PENTOLE NÉ COPERCHI
Questo romanzo è latore di un pensiero fiammante, letteralmente; “L’estate che sciolse ogni cosa” di Tiffany McDaniel è una lettura corposa ed avvincente, ma va compresa, recepita, assimilata bene, per apprezzarne in pieno il valore, e soggiacere all’incanto che ne permea le pagine. È tanta roba, proprio.
Lasciatevi trascinare dalla corrente della storia: è una realtà raccontata, potrei definirla una lunga e suggestiva narrazione a voce sola, una rievocazione precisa e avvincente di fatti e avvenimenti.
Ambientato nella torrida estate del 1984, in un paesino della provincia rurale americana, con uno stile che rievoca certe atmosfere de “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee, o anche certi romanzi di Steinbeck, Faulkner, Dos Passos, e finanche Stephen King, da tutti questi se ne distacca, per ammantarsi in un’aura tutta sua, unica e originale, fantastica ma non fiabesca.
Il testo semplicemente altro non è che una esposizione a voce, talora con timbro sonoro cristallino e prepubere, talaltra rauco e cavernoso, una lettura labiale, alla lettera.
Un parlato superbo e suadente insieme, che risuona dallo stesso personaggio principale, Fielding Bliss, voce narrante in prima persona, prima adolescente e poi vecchio homeless su un camper da rottamare. Perciò su due piani temporali lontanissimi tra loro, a volte difficili a distinguersi.
Non è una lettura facile, è un bel tomo di circa 400 pagine, all’inizio parte a razzo, e sorprende, poi sembra perdere tono, per risollevarsi infine in un crescendo inarrestabile come una marcia trionfale, in un turbine di sensazioni tutte struggenti, dolorose, toccanti, vivissime e soprattutto ardenti, letteralmente brucianti, fino alla fine.
Lascia il lettore, almeno con me è successo, con un senso di struggimento, ma anche lieto della storia e grato alla sua autrice. Non è un testo facile, lo ripeto, e non perché non sia ben scritto, tutt’altro, è scritto molto bene, leggibile, scorrevole, rifinito e incisivo nei personaggi e nei luoghi, anche quando redatti con pochi tratti graffianti, e tradotto anche benissimo nella nostra lingua.
Tant’è che risuona in testa come una melodia delicata ma energica, le note non diventano mai stridule nemmeno nei momenti più acuti della storia, e ve ne sono parecchi.
Non è di facile lettura perché è un libro potente, eccezionale, emozionante.
Come tutti i libri con tali caratteristiche, presenta diverse chiavi di lettura: possiamo considerarlo come un testo sull’infanzia perduta, sulla difficile impresa del crescere, sul divenire adulti come Dio comanda, umani, ragionevoli e tolleranti. E ancora altro.
Espone inoltre tematiche delicate come la disabilità ed il rifiuto a priori del diverso, sotto qualunque forma questo appare. Parla senza mezzi termini, giusto per intenderci più nello specifico, di razzismo, di omosessualità, di preconcetti, di manipolazione del gregge, di violenza, di abusi. E oltre.
Esamina il consorzio civile come in effetti è, quindi mai realmente a misura d’umanità, e mai compiutamente rispondente al vero come appare.
La realtà umana è stridente, ricca di contraddizioni e di coupe de theatre, imprevedibile e imponderabile.
Tutto inizia con una apparentemente bislacca iniziativa del padre di Fielding Bliss, il protagonista principale; il suo papà è persona curiosa già nel nome di battesimo: si chiama infatti Autopsy Bliss.
Per storia personale e per intima convinzione propria, consolidata dalla propria esperienza di vita, Autopsy Bliss è un uomo, un avvocato, di più, un pubblico ministero, che si considera il setaccio della giustizia. Fa onore al suo nome di battesimo, che significa “vedere con i propri occhi”, è infatti un magistrato straordinario, che si impegna al meglio delle sue capacità per giudicare in equità e coscienza, si accerta di tutto e valuta con attenzione cose e persone con gli occhi ben aperti, conscio della delicatezza che la sua professione richiede.
Tuttavia, è anche un uomo di rara sensibilità d’animo, e perciò schiacciato nell’intimo dal peso dell’impegno etico e morale che il suo compito richiede, dalla responsabilità di giudizio dei mali degli uomini, che egli ritiene di per sé facoltà sovraumana, e che però gli compete.
Un compito non facile, per un pensatore simile.
Autopsy Bliss non gioisce per ogni vittoria in tribunale, anzi, si macera spesso nel dubbio di non aver giudicato per il meglio, di aver provocato ingiustizie, di aver commesso errori irreparabili ai danni dei suoi simili, di non essere stato all’altezza del suo compito, magari inconsapevolmente, si rende conto che il suo compito in definitiva è di setacciare i fatti della vita, ma che poi quanto rimane sul fondo del setaccio, potrebbero non essere affatto le pepite d’oro della verità.
Autopsy Bliss è un buon padre di famiglia, un uomo buono e generoso, un pilastro della comunità in cui vive. Conosce la vita e legge nel cuore degli uomini, comprende come pochi altri che non esiste assoluta chiarezza e onestà nel vivere quotidiano, ognuno ha sempre uno spicchio di sé celato agli altri, fa parte dell’animo umano serbare un lato oscuro, un lago di pulsioni che talora mai, ma talaltra quanto prima, sotto diversi e svariati impulsi, può eruttare azioni malevoli.
Il concetto di bravo cittadino sempre e comunque ossequioso di Dio e delle leggi è un falso, è più facile invece che sia il male ad essere il seme maggiormente diffuso e che si impianta con relativa facilità, serbandosi con altrettanto agio in chiunque.
Autopsy Bliss quanto detto lo avverte chiaro nella società e nel tempo in cui vive, lo vede con i propri occhi, come il suo nome suggerisce, e si ostina a credere nell’uomo, è certo che un minimo di bene sussista sempre anche nel male assoluto, tutto sta ad alimentarlo perché da brace diventi fiamma.
Il fuoco ed il caldo non sono, né possono essere, prerogativa assoluta dell’inferno.
Soprattutto spinto dall’intenzione benevolmente provocatoria di far assimilare alla comunità in cui vive, chiusa e retrograda, i concetti dell’agire senza pregiudizi e preconcetti nei confronti dei propri simili, con compartecipazione e solidarietà, Autopsy fa pubblicare a proprie spese sul quotidiano locale una insolita inserzione in cui, platealmente, invita personalmente e con tutte le formule d’uso il Diavolo in persona a visitare il suo paese Breathed, in Ohio.
Terra di peccatori sì, e come tali adepti del demonio, ma anche di uomini dotati di libero arbitrio e perciò capaci di perdonare, come Autopsy auspica, e che il diavolo non temono, non esiste nel bene.
Una provocazione, certo, e non altro, uno spunto di riflessione, collettiva e individuale.
Una simile notizia, in quel microcosmo fondamentalmente ignorante e arretrato, becero e meschino, provoca ovviamente ilarità, sarcasmo, anche biasimo e riprovazione per una presunta mancanza di rispetto per le cose religiose, ed è fonte di dileggio.
Senonché, poco dopo, il Diavolo si presenta davvero in paese. In risposta vivente all’annuncio.
Il primo ad accoglierlo è, guarda caso, il figliolo tredicenne di Autopsy, il piccolo Fielding, che da questo momento diventa la voce narrante ed il protagonista assoluto del romanzo.
Il Diavolo arriva…e come arriva?
In pompa magna, con tutti gli onori, tra fuoco e fiamme, forcone, corna, odore di zolfo, piedi a zoccolo? Affatto. Peggio, assai peggio, dati i tempi e i luoghi.
Si presenta come un ragazzino, un pari età di Fielding, un adolescente di colore, con gli occhi verdi, vestito con una lercia salopette di jeans, incrostata di polvere, di sporco, di sudore, e chissà quanto altro, che a malapena ricopre un corpo macilento percorso da cicatrici.
In particolare, sulle scapole, quasi gli fossero state tarpate delle ali…dopotutto, il Diavolo è un Angelo, per quanto decaduto, e gli angeli le ali le hanno.
Un ragazzino di colore che afferma con la massima serietà di chiamarsi Sal, con semplicità, umiltà e nessun sussiego, un nome composto dalle iniziali di Satana e Lucifero, dichiara apertamente di essere il Diavolo, di venire dall’inferno, e di essere stato convocato tramite l’avviso sul quotidiano dal padre di Fielding. Manco a farlo apposta, la prima persona in cui Sal si imbatte, e a cui candidamente e con la massima chiarezza si presenta, è proprio il giovane Fielding, che lo accoglie senza remore e senza pregiudizio come un qualsiasi amichetto di pari età e se lo porta a casa.
Va da sé che il piccolo Sal viene unanimemente considerato un ragazzino fuori di testa, probabilmente scappato di caso, un adolescente problematico e confuso magari maltrattato, o peggio ancora abusato, date le cicatrici, i lividi e gli evidenti segni di percosse, fatto sta che il modo direi profondo e forbito come si esprime e di cosa parla, i continui riferimenti di carattere biblico o pseudoreligioso, che fanno espresso riferimento a Dio, alla caduta dal Paradiso, agli inferi e ai cieli, inducono una suggestione collettiva nell’abitato, anche se il suo aspetto risulta quantomeno inconcepibile rispetto a come viene normalmente immaginato il demone. Per di più, è un ragazzo di colore, e tanto basta agli strati della popolazione dichiaratamente razzista, i più nel sud degli Stati rurali americani, per generare rifiuto, subodorare un inganno, neanche velatamente usarlo come ideale motivo e causa diretta dei guasti del paese, ad iniziare dal coincidente caldo eccezionale sopraggiunto quell’estate e conseguente catastrofica siccità. Niente di meglio che un nero a figurare come il Diavolo, va da sé che Dio, il suo opposto, è bianco. Serve altro? Un vero invito a nozze.
Né le ricerche dello sceriffo e delle forze dell’ordine portano a qualche risultato, nessun bambino corrispondente alla descrizione di Sal risulta mancare all’appello, il ragazzino è letteralmente spuntato dal nulla, sceso rovinosamente giù dal cielo o risalito dagli inferi, che dir si voglia.
Per cui, mancando una struttura sociale di accoglienza di casi simili, Sal viene in pratica adottato dall’intera famiglia di Autopsy Bliss, evidentemente gli unici che hanno conservato non tanto una certa sanità di mente, ma la propria umanità, sempre e comunque malgrado le avversità dell’esistenza.
Diventano quindi in effetti i genitori di Sal Autopsy e sua moglie, diventano suoi fratelli Fielding ed il primogenito di casa, Grand, ed il ragazzino ne è palesemente lieto e felice:
“…Io sono il diavolo. Nessuno mi dice se devo restare o andarmene. Ma è bello essere voluto. …è davvero bello che mi vogliate qui, con voi.”
Non proprio parole di un diavolo, più di un profugo, di un escluso, di un emarginato, di una vittima.
Di un povero diavolo. Chi è davvero Sal? Voltiamo nel paranormale? Affatto.
Perché il Diavolo, per definizione stessa, è incompleto. Non fa le cose per bene, c’è sempre un trucco, un inganno, un’insidia, si usa dire che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, è bugiardo e ingannevole, tende continuamente trappole e trabocchetti per indurti a sbagliare e a peccare, è un re del raggiro e della frode, è menzogna e falsità per partito preso.
Sal non è nulla di tutto questo, non fa né pentole né coperchi, dice di essere il diavolo e da questo termine deriva la sua unica azione, divide.
Dio è il più grande spettatore della sofferenza, pone sulla nostra strada il diavolo perché susciti dolore, e in questo modo separa chi resta a guardare senza porre fine al dolore, da chi invece interviene per porre fine a questo.
Dio ha creato il diavolo come mezzo e non come fine, perché separi, divida, affinché Lui, Lui sì non il setaccio ma la Giustizia, possa scindere il buono dal cattivo, l’empio dal mansueto, il meritevole e colui che richiede castigo. Sal divide, la solidarietà dall’egoismo. Il bianco dal nero.
I cuori buoni e i duri di cuore.
La presenza di Sal separa la seccia dal grano, suscita dolore e sgraditi ricordi, e ognuno reagisce come la sua natura realmente lo obbliga da essere.
Questa divisione si evidenzia per il nano Elohim, tanti aspetti in una sola persona di piccola statura, egli è insieme un vecchio rancoroso per la perdita della sua Helen in un naufragio, un affettuoso secondo padre per Fielding, un uomo dall’animo sottilmente razzista nel profondo, il sacerdote di una congrega di fanatici religiosi fuori di testa e ferocemente ostili a Sal.
Sal accentua la divisione finanche nell’animo di Grand, il suo stesso fratello adottivo, che da un lato è il celebrato campione sportivo locale, una sicura promessa del baseball, un ragazzone sano, bello, robusto, l’idolo delle ragazze del paese, dall’altro deve fare i conti con la propria misconosciuta omosessualità, che lo pone all’indice, lo rende un paria ed un infetto, e questo in anni quando ancora era assai ostico e difficile accettare le differenze di orientamento sessuale.
Specialmente in quegli ambienti ancora sottilmente ma ben tenacemente retrivi e conservatori, e per somma di disgrazie nell’anno stesso, il 1984, in cui un micidiale retrovirus inizia a far strage tra certi individui a rischio, scambiato trionfalmente da molti per una sorta di punizione divina per le nefandezze sessuali umani.
Ancora, il diavolo separa l’amore dal peccato, perché anche i diavoli hanno un’anima, e si innamorano. Sal si innamora, ed è ricambiato, di Dresden Delmar, una sorta di Jane Austen, o di Emily Dickinson del luogo, che ha una gamba artificiale.
Il dolore che invade l’animo gentile di Dresden non deriva tanto dalla sua disabilità, ma perché è in ogni senso schiacciata dalla propria madre, che da un lato coltiva una delicata passione per i fiori e le rose in particolare, dall’altra è del tutto fittiziamente inconsapevole di essere l’unica responsabile delle autentiche sofferenze fisiche della propria figlia, chiusa nella sua meschinità e nel suo egoismo.
Sarà Sal a dividere drammaticamente la realtà dalla finzione. A sue spese.
Altro ancora risalta dalla presenza di Sal: oserei dire che grazie al giovane ragazzino di colore si scoprono gli altarini. Quell’estate particolarmente rovente, meteorologicamente caldissima, del 1984 a Breathed, letteralmente spezza il respiro ai suoi abitanti, manda in fiamme quanto di razionalità e umanità è presente nell’animo dei suoi abitanti, carbonizza letteralmente l’infanzia e l’animo del giovane Fielding, che ne sarà marchiato a fuoco a vita.
La presenza vera o presunta del diavolo divide, scinde tra chi resta a guardare la sofferenza altrui, compiacendosene e riconoscendosi in quelle azioni, e chi invece agisce, interviene, si prodiga perché tutto possa accadere diversamente, anche a costo di sbagliare e dannarsi per tutta la vita.
Breathed nell’estate del 1984 è uno scenario di emersione della crudeltà umana, per estensione rappresenta il mondo intero, come già ipotizzato nel 1948 nell’ omonimo romanzo utopico di Orwell. La venuta di Sal non è però la responsabile del caldo, dell’ardore, del fuoco caratterizzante quell’estate che sciolse ogni cosa, in primis le sembianze fittizie di insospettabili.
Sal non scioglie né dissolve, semmai consolida e recupera certi valori: quelli ignifughi.
È ben per questo che esiste il diavolo, come esiste il dubbio anche per il reo confesso, l’avvocato difensore va assicurato anche al diavolo, perchè c’è sempre del buono anche nel male.
Tiffany McDaniel questo ci dice, in estrema sintesi, lei ne sa una più del diavolo.
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Fuori posto, forse pure fuori tempo
Tra i protagonisti dei racconti seriali meglio conosciuti dagli affezionati lettori dello scrittore napoletano Maurizio De Giovanni, Gelsomina Settembre detta Mina, rappresenta un caso a sé.
È una normale giovane e bella ragazza dei quartieri bene della sua città, Napoli, ai giorni nostri, assistente sociale per scelta di vita, una convinta decisione nata da subito, consolidatasi nel tempo, facilitata dall’indole caratteriale della donna, empatica e altruista, sensibile e recettiva delle esigenze altrui, specie di quelli più sfortunati di lei. E sì che la ragazza motivi per lamentarsi personalmente della sorte ria che le è toccata, ne avrebbe più di uno.
In servizio permanente effettivo in organico comunale, di ruolo a tutti gli effetti, benché assolutamente precaria per quanto concerne il rispetto della saltuaria corresponsione dei miseri emolumenti a cui ha diritto, Mina si spende incredibilmente al meglio delle proprie indubbie capacità professionali ed umane presso un fatiscente consultorio, sito in uno dei quartieri più difficili e problematici, nel centro storico della città partenopea.
L’autore la raffigura del tutto diversa dai conosciutissimi, malinconici e tenebrosi loro malgrado, commissari di polizia, tormentati da una forma particolare di sensibilità umana, accentuata dalla professione, in azione nella Napoli del ventennio fascista.
La ritrae discorde anche dai baldi agenti in servizio in un turbolento commissariato della Napoli dei giorni nostri, in tutta apparenza una raffazzonata armata Brancaleone, nei fatti un gruppo di agenti di polizia solidali, coesi, efficienti, onesti e coscienziosi.
E però, tutto quanto detto è solo apparenza: in sintesi, siano poliziotti di ieri e di oggi, o ex agenti dei servizi, tutti i personaggi di De Giovanni sono uniti e indissolubilmente simili a Mina Settembre, una giovane donna insolita e singolare, sfortunata e soccombente nelle diatribe quotidiane, tanto avvenente quanto timida, perseguitata dal succedersi di escatologiche giornate sfortunate.
Qual è dunque il comune denominatore delle storie e dei personaggi di Maurizio de Giovanni?
Sempre e comunque, in sottofondo o in primo piano, la vera unica ed assoluta protagonista dei racconti di De Giovanni è la sua città, Napoli, e le sue mille meraviglie e contraddizioni senza uguali.
Come Ricciardi e come i Bastardi di Pizzofalcone, Mina Settembre non è altro che un osservatorio, un punto di vista sopraelevato, nascosto ma privilegiato, tramite il quale Maurizio de Giovanni, celato ai più, osserva indisturbato tutto quanto di umano, di tenero, di affettuoso e nel contempo di incredibile, assurdo, inverosimile, finanche estremamente duro, spietato, crudele e violento può offrire la città, e i suoi abitanti, a chi sa osservarla davvero, senza scadere in biasimi e giudizi.
La città racconta mille e un episodio, lieto o triste che sia, a chi sa capirla, a chi la conosce per davvero nella storia e nel suo divenire.
A chi ne ascolta con rispetto e devozione le vicende, appena sussurrate a orecchie fidate, trasmesse dal passaparola di vicolo in vicolo, tra gli antichi e incantevoli decumani della città antica, deflagrando infine in tutta la loro possanza in cronaca, in narrazione, in resoconto, straripando come fiume in piena nelle arterie viarie più moderne e recenti, diffondendosi ovunque vi sia chi desidera porsi in ascolto, oserei aggiungere in doveroso silenzio e deferenza.
Maurizio De Giovanni con attenzione e rispetto ascolta e riporta quanto viene esposto, più che uno scrittore, egli è un trascrittore, uno scriba che estrinseca sui fogli quanto la città stessa gli rivela quotidianamente, ne capta i più intimi accordi che riecheggiano dal profondo, dalle pulsioni irregolari e sbalorditive che risalgono dai recessi vulcanici insiti nella struttura stessa di una città che non ha uguali nel mondo. Una città dove accade tutto, ed il contrario di tutto, e nessuno se ne meraviglia.
Dove una giovane donna con un bellissimo decolté ricorre a mille sotterfugi per celarlo alla vista di inopportuni.
Dove un medico dai lineamenti di bel tenebroso del cinema svolge il suo lavoro con correttezza, competenza, rigore e disciplina, ma neanche si accorge che la clientela tanto numerosa quanto sanissima che affolla il suo ambulatorio, è lì richiamata solo dal suo sex appeal più che per le indubbie capacità professionali.
Dove le signore dei quartieri alti, rigide, classiste, algide e chiuse al sicuro nelle loro fortezze di privilegi, non esitano per mero affetto e sentimenti di incrollabile e antica radicata amicizia come mai può esistere tra le persone, a porsi pericolosamente in gioco, a rischio stesso della vita, interagendo fosse pure per celia con persone e ambienti lontani anni luce dal loro quotidiano.
C’ è chi dice che nella serie con Gelsomina Settembre, l’autore abbia voluto cimentarsi, più che nel giallo, nel comico e nell’esilarante, in ciò scadendo di qualità e perdendo molto del suo usuale stile qualitativo o format che dir si voglia.
Nulla di più sbagliato, a mio modesto parere: Maurizio De Giovanni non è un autore di genere, è uno scrittore a cifra tonda, già aveva dato prova in precedenza di saper esibire con maestria momenti di fine umorismo in contesti tutt’altro che ilari, senza per questo perdere di qualità e pathos.
Per esempio, basti ricordare come nella serie dei romanzi con Ricciardi protagonista, che libri lievi e leggiadri certo non sono, sia stato abile nell’infilare tra capitoli struggenti e malinconici, paragrafi con duetti tra il brigadiere Maione e l’informatore Bambinella, spassosissimi in sé; o ancora ricordiamo certe esilaranti gaffe e ridicolaggini dell’agente Aragona, nella serie dei Bastardi, in ultimo finanche nelle passeggiate quotidiane di Davide Pardo e il suo cane Boris nella serie di Sara Morozzi.
Lo scrittore napoletano non da adesso ha dato prova di saper esprimere tutto quanto di emozionante è insito nel trascorrere dell’esistenza umano, e poiché la vita sa far ridere e piangere alternativamente, così nei suoi libri si alternano momenti e sentimenti diversissimi, comici e tormentati.
Il tutto riconduce ad un unico quadro: esistono posti e quartieri della città, dove convivono persone di cuore e persone di disperazione. Le seconde fanno del male, e fanno male.
“…stiamo parlando di gente che fa forniture di patologie a domicilio in quantità industriale…”
Un uomo, un vecchio professore in pensione, un reietto dalla società e dalla propria famiglia, viene ritrovato defunto nella miserabile soffitta in cui trascorreva la notte, apparentemente per un tragico incidente, respirando le micidiali esalazioni provenienti da una vecchia stufa accesa per riscaldarsi, nella gelida notte di un freddissimo gennaio.
Solo che…anni prima il professore aveva denunciato un suo ex alunno, fresco di maturità, come autore di una rapina a mano armata. Cosa poi confermata dagli inquirenti, per cui il ragazzo è condannato a scontare vari anni di carcere. Guarda caso, la morte dell’anziano coincide con la scarcerazione del ragazzo; e poiché il giovane, già orfano di padre caduto durante un regolamento di conti tra malavitosi, e solo per questo già etichettato come predestinato a delinquere, è inoltre il genero, avendone sposato l’unica figlia, e nel contempo il pupillo, il delfino prossimo erede al trono di un potente e crudele boss della malavita organizzata, va da sé che è il primo sospettato.
In certi ambienti, infatti, la vendetta è un piatto che letteralmente si serve freddo, il denunciato attende di essere libero per compiere di persona la rappresaglia nei confronti dell’infame delatore, ritorsione che non può essere delegata a nessun altro, secondo il contorto codice d’onore di certi ambienti.
La madre del giovane, però, con un atto di coraggio e di incoscienza insieme, in certi quartieri rivolgersi alle istituzioni è una vera e propria infamia, un disonore ed una ingiuria grave per l’ordine malavitoso, chiede l’aiuto a Mina Settembre.
E Mina risponde, e quell’infame sorrise.
Gelsomina Settembre crede ancora nell’uomo e ne ricerca il lato buono, fosse pure un barlume, si ostina a credere che le cose possano anche essere profondamente diverse da come appaiono, che un giovane possa davvero crescere, redimersi, maturare, conseguire una laurea in carcere, possa e debba essere aiutato a sfuggire ad un destino delinquenziale che non è, non deve essere, non può essere la sola e unica norma invariabile, solo perché si è nati e cresciuti in certi posti e in certi frangenti.
“Siamo nati fuori posto, forse pure fuori tempo…se dobbiamo fare un sogno, in quel sogno non c’è niente di ciò che ci circonda adesso…non ci stanno soldi facili…Non c’è sangue e non c’è paura.”
La realtà è gelida, l’ambiente è troppo freddo per Settembre, e allora l’assistente sociale provvede ad alzare la temperatura, si lancia a testa bassa, fa fuoco e fiamme con forza e con convinzione: dopotutto, lei ha studiato, certamente avrà letto, che so, “Il conte di Montecristo”.
Magari, chissà, il professore defunto era niente altro che un educatore vecchio stile, un moderno Abate Faria, ed il giovane camorrista un Edmondo Dantes, e Dantes, lo sappiamo, era innocente.
La presunzione d’innocenza fino a prova contraria è un pilastro della società che si dice civile, pertanto è aiutata, supportata, tenuta al caldo, in un gelido mese di gennaio, dall’assistente sociale Gelsomina Settembre.
Come è giusto che sia, e per fortuna.
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Piccole donne
Il rapporto tra due sorelle, in particolare in una famiglia in cui le sorelle sono più di due, è sempre un rapporto un po' speciale, spesso collocato su un gradino più elevato nell'ordine degli affetti familiari.
Un rapporto amorevole, molto più intenso di quello che intercorre normalmente tra i fratelli solo maschi, e tra fratelli e sorelle.
Del tutto diverso dal rapporto che si può avere con l’amica del cuore, spesso è anche più conflittuale, talora polemico e dispettoso, non di rado divergente, ma sempre affezionato, complice, partecipe, quando è davvero forte è energicamente intrigante, coinvolgente come poche relazioni al mondo.
Un po' quanto appare evidente nel celeberrimo “Piccole donne” di Luisa May Alcott, in cui le quattro sorelle March, tutte diversissime tra loro, sono però un’entità unica, indivisa, unite in un rapporto, possibile solo al femminile di amore, amicizia, premura e solidarietà, quasi fossero una sola donna.
Questo è quanto rievoca ne “Il mantello” la scrittrice cilena Marcela Serrano, e l’occasione per parlarne, però, coincide con uno dei momenti più difficili da affrontare nell'esistenza di ognuno, allorché viene meno una persona cara, amatissima, come nello specifico la sorella Margarita.
La perdita di una sorella, in verità, non è mai in un certo senso nell'ordine naturale delle cose. Dopotutto in qualche modo si è inconsapevolmente già preparati alla scomparsa dei propri genitori, avverrà prima o poi, è nella norma, magari anche del partner di vita, sebbene non sia piacevole soffermarsi su questi pensieri, mai però si è veramente preparati alla scomparsa di una sorella, quantunque afflitta da una malattia inesorabile, meno che mai al sopravvivere al proprio figlio.
Tutto quanto la scrittrice lo descrive efficacemente già all’inizio del libro:
“Quando ti muore il marito sei vedova. Quando ti muore il padre sei orfana…Io non sono né l’una né l’altra…Sono qualcosa che non ha nome, perché la mia perdita è orizzontale. Un bel problema: comincio già sapendo che le parole non bastano. Non ne esiste nessuna per definire il mio stato. Non hanno inventato nessuna parola per una sorella rimasta senza sorella. “
Ecco, la scrittrice ha appena enunciato un paradosso importante: ha il cuore a pezzi, è tremendamente affranta per la scomparsa della sorella a cui era legatissima.
È sotto choc, stordita, disorientata, malgrado fosse perfettamente al corrente delle condizioni disperate in cui versava Margarita.
Fin dall'inizio della comparsa del suo male, Marcela Serrano era perfettamente conscia della gravità della malattia contro cui da anni la coraggiosa sorella Margarita combatteva, un tumore al seno.
E però…e però non trova le parole per esplicitare questo dolore, per definirlo e definirsi.
Il che, per una scrittrice, appare il colmo. Mica tanto: l’elaborazione di un lutto prevede la sua metabolizzazione, la sua primaria assimilazione prima della catarsi.
Il dolore va definito per bene prima, vanno rievocati i comuni ricordi, e questo ricordare i momenti condivisi e convissuti, lieti e brutti che siano, avviene anche con irrisoria facilità.
Poi da quei ricordi devi sintetizzare il significato che ti porti a fartene una ragione, e non puoi farlo, non ti riesce, non ti viene perché è il dolore stesso che ti blocca, ti toglie il respiro, inaridisce la fonte dei vocaboli che servono per delineare i motivi di una accettazione.
Marcela Serrano è una delle voci più rappresentative dell’odierna letteratura cilena, e come tutti i buoni scrittori, è stata e continua ad essere una lettrice appassionata.
Ricorre allora alle sue letture, utilizzando brani e scrittori che delineano al meglio il suo stato d’animo attuale, annichilito dal grave lutto, in un certo senso possiamo dire che chiede l’aiuto dei colleghi in questo difficile momento della sua esistenza.
La scrittrice cilena non ci offre qui la lettura di un suo romanzo, meno che mai una autobiografia; in questo bel libro, un piccolo volumetto che si legge con fluidità, malgrado la tristezza di cui è permeato, che però mai ne appesantisce la lettura, si riportano episodi lieti, gentili, teneri, divertenti di un vissuto di una normale famiglia piccola borghese. Di retroterra culturale e di crescita formativa improntata sui principi di antica saggezza di stampo contadino, seguita da studi e appartenenza piena al vivere e alla partecipazione civile di un paese, tanto tipico quanto tormentato politicamente, come il natio Cile. Un libro costituito di tanti paragrafi brevi e brevissimi, talora di una sola pagina e di poche parole: l’autrice preferisce affidarsi più all'immagine suscitata brevemente da qualche riga e captata in misura dipendente dalla sensibilità del lettore, anziché delineare con precisione fatti e persone. Direi perciò che è un libro fortemente evocativo, ma evoca con forza, con energia, è graffiante, pungente, ti inchioda alla lettura certo, ma molto di più alla riflessione ed alla ponderazione.
Questo non è affatto un libro pesante, una raccolta di dolorosi ricordi, è un bel libro, un saggio di tenerezza, è un elogio di sentimenti affettivi, è un viaggio nella memoria per riacquistare il presente, è un giungere ad una inevitabile conclusione: la morte è una costante nell'esistenza di ognuno, non si può negarla. Ma non si vive per i morti e con i morti, il mondo è solo per i vivi.
Quello che ci affratella ai nostri cari scomparsi, molto più dei vincoli di amore e di sangue, è la memoria dei nostri affetti perduti.
I nostri morti sono scomparsi dal numero dei vivi, ma sono sempre ben presenti in noi.
E tanto basta, e ci deve bastare.
Allora, e solo allora, elaboriamo il lutto, e ce ne liberiamo, pur continuando ad avere nei cuori i nostri cari. Così fa Marcela serrano, e riprende a scrivere.
Ma appunto come dicevamo, ripercorre la sua storia con Margarita, scandendone i punti salienti con le sue letture preferite.
La scrittrice trova conforto nella lettura…”la lettura è un’anticipazione della gioia - Jorge Luis Borges”.
Il lutto impigrisce ogni sua azione…”nessuno ha mai parlato della pigrizia del dolore – C.S. Lewis”.
Il dolore della perdita stranamente è un va e vieni di continuo…”Mi fa una paura folle il carattere discontinuo del lutto – Roland Barthes”
Cosa succederà dopo il tempo dal lutto…”Il rispetto della realtà prende il sopravvento – Sigmund Freud”.
La perdita della sorella è una mancanza incredibile…”Un essere solo vi manca, e tutto sembra deserto – Philippe Aries”
L’unico sudario adatto ad una persona estroversa, vitale e sorridente come Margarita? Nessun sudario, qualcosa di più adatto, ecco, un mantello, per esempio, un bel mantello...”Tanti quadrati o rettangoli, uniti tra di loro…scintille di colore…petardi in un giorno di festa, verdi, rossi, bianchi, stampati, marrone, viola, uno nero qui, uno rosa là, stretti gli uni agli altri in un diligente lavoro di patchwork – Il mantello di Clara Sandoval”.
Quello che unisce ancora di più due sorelle, è che inevitabilmente sono state compagne di giochi, hanno condiviso i segreti più intimi dell’infanzia, dell’adolescenza, della giovinezza, compresi gli amori, le infatuazioni, le assurdità tipiche dell’età, non può esistere un legame più forte quando è legato inestricabilmente da emozioni simili, come catene di diamante inscalfibili…”Se la patria è l’infanzia, una sorella è la mia compatriota – Rainer Maria Rilke”.
Si può continuare a scrivere dopo un simile lutto? Non è significativo di un cuore freddo? ...”Nel cuore di ogni scrittore c’è un pezzetto di ghiaccio – Graham Greene”.
Marcela Serrano non è la sola ad aver scritto un libro sulla perdita di un familiare, basti ripensare a Philip Roth ed al suo romanzo “Patrimonio”, in cui ci racconta con certosina diligenza del padre e del declino fisico del genitore fino alla fine, quasi come un’odissea che ogni uomo affronta nel suo divenire adulto.
Tuttavia, l’originalità della Serrano sta nel citare altri scrittori, come detto, per giungere alla conclusione che un lutto, per quanto grave, è un’esperienza comune, ovunque esistono persone che piangono i loro morti. Ma appunto perché è evento comune e condiviso, significa che si supera, si può superare, è uno stato transitorio. Certo, devi transitare.
Se nel transito trovi aiuto e consolazione, meglio ancora, non tutti amano viaggiare da soli.
Se poi viaggi con le tue letture preferite, quelle per te più significative, tanto di guadagnato.
Certo, la perdita rimane. Ma ne hai una qualche consolazione.
Meglio che niente: a qualcuno non è dato neanche quello, talora nemmeno un corpo da piangere.
Piangono i loro figli, vivono tuttora il loro lutto, le piccole donne che mai riusciranno ad elaborare il lutto dei propri figlioli, i desaparecidos cileni. Marcela Serrano lo sa, lo ricorda, lo rievoca:
“Ha ragione Faulkner quando dice che il passato non muore mai. E che non è nemmeno passato.”
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Camera vista fiume
Questo è tra i più belli, o forse solo tra i meglio architettati, romanzi gialli di Agatha Christie, noto anche a chi non gradisce il genere, per le varie e fortunate trasposizioni cinematografiche che ne sono state tratte.
Direi che è un romanzo ben scritto, e soprattutto molto ben descrittivo; il lettore, nel mentre è sedotto dalla trama, gustandosela dopo essersi sistemato per bene nella sua poltrona preferita, ricade con irrisoria facilità nella magia creata ad arte dalla scrittrice, si incanta per la storia, addirittura sembra patire un caldo soffocante durante la pur scorrevole lettura.
Talora senza neppure accorgersene solleva una mano quasi a schermarsi gli occhi dal riverbero accecante del sole sulla sabbia, avverte distrattamente, senza minimamente soffermarsi sulla stranezza, lo sciabordio delle acque del dio Nilo sullo scafo/poltrona, cincischia sopra pensiero tra le mani le pagine del libro che sta leggendo, avvertendo la ruvida consistenza degli antichi papiri vergati dagli scriba con i geroglifici, anziché la più liscia e flessibile carta tipografica, in definitiva resta ammaliato dal fascino delle antiche rovine e delle Piramidi del misterioso Egitto.
Il tutto giusto per intenderci: riuscire ad ottenere un effetto simile, è privilegio di pochi scrittori.
Ci riesce chi sa ben ”sentire” i luoghi e le atmosfere, sa evocarli perfettamente, riportandole fedelmente e con verosimiglianza in una pagina scritta, facendone racconto.
Se poi questo raccontare si tramuta in una storia intrigante e ben costruita, estremamente logica a ragion veduta, il tutto dà conto e ragione della ben meritata abilità della scrittrice e della fama conseguente. Agatha Christie non è una giallista, è una brava scrittrice che racconta di gialli.
La Christie in questo romanzo non si inventa niente, i luoghi e le atmosfere che ha riportati li conosceva, li ha visitati per davvero e ne ha avuto pieno sentore e percezione, sapeva perfettamente di cosa stesse scrivendo.
Aveva per davvero visitato quei paesi, si era concessa un lungo tour nei siti d’eccellenza per l’archeologia dei tempi, tant’è che le sue impressioni del posto non si esaurirono solo in questo libro, ma in una trilogia, di cui questo romanzo è il meglio riuscito.
C’è di più, probabilmente la Christie intraprese questo viaggio di piacere a seguito di una qualche delusione amorosa, insomma desiderava distrarsi, non pensare ai suoi dolori di cuore, ai suoi affetti infranti e alle sue aspettative sentimentali andate deluse, di cui neanche sappiamo molto, in verità.
Era una donna molto riservata, intrisa di pudore e ritrosia ad estrinsecare i suoi sentimenti, che la condussero ad un certo punto della sua vita anche ad una improvvisa, quanto misteriosa, sparizione o fuga, mai completamente chiarita fino in fondo.
Come risultato, questo è forse il più romantico e sentimentale dei libri di Agatha Christie, ogni scrittore infonde sempre parte di sé in quello che scrive.
Certo è un giallo, un mistero, quanto mai appropriato essendo ambientato nella patria della sfinge e dei suoi enigmi, ma è a modo suo anche una storia d’amore, in cui la scrittrice ha dato prova ancora una volta del suo innato talento per creare intrecci affascinanti e complicati insieme, aggiungendovi stavolta una sua personale tristezza interiore.
Ne è venuta fuori una bella e struggente vicenda d’amore, triste per l’esordio, spiacevole nel decorso, tragica nell’epilogo, ma intensa, sofferta, vissuta, disperata.
La disperazione è un maleficio, complotta e intriga ma per quanto si industria devia sempre verso il male, perciò l’epilogo è scontato, e però stavolta il finale a sorpresa lascia ancora di più l’amaro in bocca. Perché l’amore, per definizione, non si può mai accompagnare al male, se lo fa degenera.
Specialmente i più deboli soccombono quando infine cedono, cadono le loro presuntuose certezze, e giunge il momento in cui nemmeno il più forte tra i due di una coppia amorosa può porvi rimedio.
L’amore non è un alibi per giustificare il male, nel suo nome non si sfida impunemente la sorte, convinti di farla franca solo perché è amore, sarebbe come lanciare in aria una moneta fidando che cada sempre dalla parte giusta.
La scelta migliore è invece di non lanciarla affatto la moneta, la probabilità che cada secondo il verso desiderato è aleatoria, effimera, illogica.
Hercule Poirot in virtù della sua logica stringata lo sa perfettamente, e lo afferma chiaramente, c’è sempre una alternativa al male, serve impegnarsi, riconsiderarsi, e scegliere la cosa giusta da fare, la più logica, si può sempre tornare indietro, resettare il tutto, se solo si vuole evitare il male.
Ma bisogna volerlo davvero.
L’amore purtroppo, si sa, per definizione rende ciechi, sordi…anche presuntuosi, convinti di farla franca.
Una storia insolita, quindi, dato il genere in cui la nostra eccelle, normalmente indulge su altri sentimenti dell’animo umano, quelli più abietti, e perciò forieri di caos, di disordine, il che porta il bravo Hercule Poirot ad intervenire per riportare ordine, per rimettere insieme il quadro degli avvenimenti nell’unico modo possibile, ricostruendolo ab initio, nell’esatto corso cronologico di come si sono succeduti i fatti.
Alla fine, rimettendo in situ i singoli quadrati che costituiscono l’arazzo finale, l’immagine risultante è l’unica possibile, ed inchioda il colpevole alle sue responsabilità.
Al principio del romanzo, ma molto di più nella parte finale, abbiamo detto che si legge tra le righe il prevalere di questa novità, questo indulgere sui tormenti d’amore, probabilmente dettati dal vissuto personale dell’autrice, e questo mai più si ripresenterà con pari evidenza in altri lavori della scrittrice.
Tuttavia, la Signora è una Regina del genere, ed il banco di prova degli autori di romanzi polizieschi è il classico “enigma della camera chiusa”, il giallo cioè dove tutti i personaggi sono giocoforza costretti in un ambiente ristretto, una camera appunto, per cui inevitabilmente il colpevole è uno dei rinchiusi, non può essere altrimenti.
Paradossalmente questo rende tutto più difficile.
Quindi, un certo prevalere di sentimentalismo e struggenti sensazioni lo notiamo ma…sempre della Signora del Giallo stiamo parlando.
Agatha Christie sa perfettamente che quello che contraddistingue l’umanità, è la sua diversità.
Ognuno è a sé stante, e talora qualcuno non dice di essere quello che in effetti è.
Ciascuno ha un proprio vissuto, spesso ignoto agli altri, a volte celato, se non riservato, qualcuno ha anche scheletri negli armadi e fantasmi nei cassetti, per cui i capì di vestiario, stole, sciarpe e quanto altro sono riversati fuori in bella vista, è facile dimenticarli in giro. Per altri usi casuali, ma logici.
Detto questo, la nostra è una Regina, non può limitarsi ad una misera stanza angusta, fa le cose in grande, un treno in corsa nelle tormente di neve, per esempio, o addirittura un’intera isola deserta, o ancora, come in questo caso, un battello in tour sul Nilo.
Con tanto di camera vista fiume, che ospita una coppia di neosposi in viaggio di nozze, belli, giovani, ricchi, felici e contenti.
Buon per loro…se non fosse imbarcata sullo stesso battello una novella stalker dell’epoca, comune conoscenza dei due, con il dente avvelenato nei confronti della coppia, per la solita storia da melodramma, il triangolo della gelosia, lui lei l’altra.
Quindi gli spot sono orientati sul trio…ma non è così semplice e banale, qui ricordiamolo è una Regina che scrive. Mentre il battello scorre placido sul Nilo, il Male ordisce e attua i suoi piani: prima ne fa le spese il neosposo, per fortuna solo ferito, poi avviene un omicidio, poi un secondo, poi un terzo, tutti slegati tra di loro, quasi casuali e improvvisi, se non fosse che il male è consequenziale, un delitto tira l’altro.
Il male miete vittime una diversa dall’altra, neanche lontanamente collegate tra di loro, quasi fossero vittime casuali di un folle di turno. Che folle non è, ha una logica distorta, ma ha una logica.
L’indagine quindi si presenta subito difficile: a parte i tre del triangolo amoroso in continuo litigio tra loro, nessuno degli altri passeggeri ha un alibi, e non basta, molti di loro mentono, non sono quelli che asseriscono di essere, o meglio, si sono imbarcati per ben altri motivi che non fossero un giro turistico.
Forse il solo che è davvero a bordo per mero divertimento è il personaggio principe dei romanzi di Agatha Christie, l’ineffabile, trionfo e vanesio Hercule Poirot, investigatore belga.
Un ometto tranquillo, forse anche ridicolo, ma un investigatore in gamba.
Poirot mette all’opera le sue piccole amiche, come chiama le sue capacità intellettive, e con logica, acume, realismo, ricostruisce i fatti, il prequel dello scatenarsi del Male.
L’epilogo credo gli dispiaccia.
Lui si limita a riportare ordine nel caos generato da un delitto, che altro non è che una logica distorta che Poirot raddrizza quasi fosse un quadro sbilenco sulla parete, ma il suo compito termina allora, risana la dissonanza nel vivere civile, ma non interviene nel caos del tragico finale.
E potrebbe farlo anche stavolta, è intelligente e intuitivo, potrebbe intervenire, ma non lo fa.
Perché Poirot è un uomo di legge e giustizia, ma non un giudice.
Lascia che le cose vadano come devono andare, per libero arbitrio, lascia che a giudicare sia il caos stesso. Perché vedete, anche gli investigatori belgi piccoli e vanesi hanno un cuore, sanno quanto l’amore può farti soffrire, e sbagliare.
Lo sanno anche le brave scrittrici inglesi.
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Cioccolata a colazione
Devo dire che è stata una lieta sorpresa, questo romanzo, una gradevole e deliziosa lettura, casuale, molto dolce, a tratti struggente, un libro calorico ed eccitante, gratificante, come una buona tazza di cioccolata calda, specie se fuori imperversa una bufera, magari una rivoluzione, una Rivoluzione d’ottobre.
Questo è un romanzo bipolare, nel senso che è un racconto sospeso tra realtà e fantasia, emozionante, tenero e delicato, che sa tanto di fiaba.
Favola, o favolacce che dir si voglia, di quelle che i bambini magari gustano insieme ad una saporita cioccolata, quella che vi dicevo all’inizio, con lo stesso retrogusto dolce e amaro, così è la saga della famiglia protagonista di questo romanzo, un’epopea che si snoda lungo tutto il corso di un secolo.
Redatto in prima persona dalla giovane, ma già disillusa delle cose della vita, Niza, il cui nome in lingua georgiana significa cielo.
Mai nome fu più azzeccato per un narratore, poiché la storia della sua famiglia è una leggenda, con substrato reale, vasta come il cielo, e come il cielo soggetta ad azzurro sfavillante di luce, come a burrasche e colori plumbei talora viranti decisamente al nero.
Come tutte le cose della vita di chiunque, appunto, ma in più con l’aggravante degli anni in cui si svolge.
Anni lunghi un secolo, non un secolo qualsiasi, ma il secolo rosso per definizione, quello più duro, ostico, sanguinario e sanguinoso, eppure palpitante di vita.
Le origini della famiglia sono in Georgia, dove: “…la gente è così, affettuosa, simpatica, allegra e serena”.
Tutto il racconto va dal 1900 al 1983, quando appunto viene alla luce l’ottava generazione di tale famiglia, la giovane Brilka del titolo, e attorno alle vicissitudini delle generazioni precedenti giostra l’intera narrazione.
Ottava generazione, e mai numero fu più azzeccato, l’otto è il numero che, posto in orizzontale, è il simbolo dell’infinito.
Infinite sono le storie che costituiscono l’intreccio della trama.
Tutta la storia altro non è che come un prezioso, vecchio tappeto, cimelio di famiglia, ed ogni filo rappresenta un membro, ogni nodo rappresenta uno snodo della storia, ogni colore rappresenta tutti i diversi, controversi, conflittuali e coinvolgenti stati d’animo dei protagonisti.
Nel complesso, si costituisce un arazzo, come a dire il pezzo forte della collezione dei beni di famiglia.
Una lettura non facile, un bel tomo poderoso, e però seguibile, sostenibile, con la giusta dose di pathos, anche avvincente e coinvolgente.
Non conoscevo l’autrice, ed ero anche dubbioso che mi sarebbe riuscita gradita la lettura.
Vi dirò, non è un capolavoro, non mi ha fulminato, ma mi è piaciuto, non sono pentito della lettura, la consiglio volentieri.
Dopotutto, a chi non piace la cioccolata?
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Delitti, poliziotti, investigatori, tribunali
Questo è il romanzo poliziesco forse più noto della celebre Regina del giallo, anche per merito di fortunate trasposizioni cinematografiche, e di valenti interpretazioni della figura di Hercule Poirot, il piccolo investigatore belga, protagonista assoluto, insieme a miss Marple, della stragrande maggioranza degli enigmi della scrittrice inglese.
Direi che la fortuna di Agatha Christie risieda certamente nella sua abilità a confezionare dei classici del genere, con il consueto format delitto-investigazione-soluzione, ma non solo.
Agatha Christie piace, si legge volentieri, senza alcuna fatica, scorrendo le pagine piacevolmente, con curiosità, interesse, oserei dire con passione, si termina la lettura piacevolmente sorpresi, soprattutto distesi, perché la Christie prima di ogni altra cosa sa scrivere, prima ancora di creare intrecci all’apparenza inestricabili ed infine estremamente logici, addirittura semplici una volta visti a cose fatte, è una scrittrice come Dio comanda, lasciate perdere di cosa scrive, lo scrive veramente bene, in maniera gradita, comprensibile, deliziosa. Fluente, scorrevole, sciolta. Spesso incantevole.
La scrittrice inglese rende, innanzitutto rende la lettura un piacere, come ogni bravo scrittore deve saper fare. Rappresenta bene, scrive, descrive, ci offre delle storie originali e ben congegnate, e rese ancora meglio sulla pagina.
Se non avesse questa cura e attenzione, tanto impegno, riguardo e dedizione nel confezionare il parto della sua fantasia, qualsiasi enigma, anche il più difficile e misterioso, perderebbe pathos ed interesse, riuscirebbe niente più che un passatempo da settimana enigmistica.
Il suo talento, e il conseguente successo di pubblico ma anche di critica, sono davvero pochi i critici che storcono il naso davanti ai suoi libri, che dir si voglia, e si sa quanto spesso cattedratici e soloni della critica siano ostili a considerare la paraletteratura, sta in questo: Agatha Christie confeziona dei quadri, degli affreschi.
Riflette sul soggetto, ne inventa uno, poi è anche capace di realizzarlo riversando l’immagine fantastica sulla tela, scegliendo le tinte giuste, ombreggiando e schiarendo, sottopone il soggetto alla luce più adatta, occupandosi anche della cornice più adeguata.
Dopodiché, taglia il quadro in tanti pezzi, uguali e simmetrici.
Si badi, non crea un puzzle, non sono pezzi confusi ad incastro difficile a trovarsi, la Christie non bara mai con i suoi lettori, non imbroglia o depista o omette, tutti i pezzi del quadro sono lì, alla portata di chiunque, facili da assemblare, se visti con logica, solo che non sono in ordine, sono sparsi su un piano. Vanno rimessi insieme con ordine e senza preconcetti.
Serve ricostruire l’immagine, individuando dapprima i riquadri a bordi confinanti, di modo da ricostruire il perimetro, poi riempire l’area circoscritta in ordine logico, infine osservare il quadro nella giusta prospettiva.
Il risultato finale è uno, e uno solo, quello giusto.
Questo è quanto fa Hercule Poirot, un investigatore sui generis, in realtà un ometto pretenzioso e un po' buffo, un poliziotto, anzi ex poliziotto che è soprattutto un uomo dotato di comune buon senso e altrettanto comune senso pratico. E di pazienza e di costanza: non è che serva di più.
Poirot non fa altro, per prima cosa, che procurarsi tutti, ma sopra ogni cosa TUTTI i pezzi del quadro, tenendo bene a mente quali sono le passioni umane che portano un individuo a commettere il più grave dei delitti.
Esclusi i delitti di malavita e gli attacchi di follia, Poirot sa benissimo che i moventi possibili sono sempre e soltanto due: il denaro, o quanto altro nelle sue svariate forme in cui può presentarsi, la bramosia di potere, per esempio; e l’Amore, quello con la maiuscola, il solo in grado di spingere a commettere reati gravissimi, e quindi anche ogni altro sentimento ad esso collegato, la gelosia, il tradimento o la vendetta, per esempio.
Una volta ricostruita bene l’immagine, e offerta alla vista del suo uditorio come fosse esposta su un cavalletto, per quanto possa sembrare inverosimile a prima vista, se è quella giusta, è l’unica soluzione possibile.
Per questo, quando come spesso accade, Poirot e per lui Agatha Christie, nella ricostruzione finale delle sue storie, in cui inchioda inappellabilmente il colpevole alla sua responsabilità, riscuote appalusi a scena aperta, perché è una ricostruzione logica, perfetta, l’unica plausibile, e soprattutto…descritta, anzi scritta, ancora meglio.
Magari è una soluzione semplice, ma è il modo come ci è offerta, i viali per cui ci conduce la scrittrice alla meta finale, che sono deliziosi, alberati, piacevoli e deliziosi. Anche ripetibili.
Un bel libro, un bel romanzo, da leggere, questo e gli altri di Agatha Christie, una brava scrittrice.
La caratteristica in particolare di questo “Assassinio sull’Orient Express”, il tocco di classe in più rispetto agli altri della stessa autrice, è quello che ritroviamo anche in altri analoghi, come l’”Assassinio sul Nilo” o “Dieci piccoli indiani”: sono enigmi della camera chiusa.
L’azione cioè si svolge in un ambiente limitato, confinato; vale a dire, il colpevole è necessariamente uno di quelli insito nei limiti, un personaggio noto e ben delineato frammisto agli altri presenti e con la vittima, non viene né può provenire dall’esterno in alcun modo, da fuori contesto, l’azione cioè si svolge in una camera chiusa, o metaforicamente tale, come un battello su un fiume, magari su una piccola isola, giusto per spaziare un poco, o addirittura su un treno in corsa.
Un treno particolare, un treno dal sapore esotico, il mitico e fascinoso Orient Express, un treno da vip, su cui Poirot si ritrova quasi per caso.
Senonché una bufera di neve blocca il treno sui binari, e nel mentre si attendono i soccorsi, un delitto ha luogo a bordo.
Un passeggero, una persona un po' infida e ambigua, in verità, viene rinvenuto nel suo vagone letto trucidato a coltellate.
Il delitto rappresenta quasi una sfida per Poirot, sia perché avviene quasi sotto i suoi occhi, sia perché si sente chiamato indirettamente in causa: la vittima aveva provato ad assoldarlo in precedenza come guardia del corpo, temendo per la propria esistenza.
Senza successo, malgrado il compenso allettante, Hercule Poirot è un uomo profondamente onesto, di una tempra morale tale da rifuggire dall’ambiguità e dalla cattiveria intuita sotto gli abiti costosi e l’apparente ricchezza dell’uomo.
Soprattutto, Poirot ha certamente modo e valori tali da poter rifiutare un ottimo compenso, tra l’altro neanche adeguato alla sua figura considerandosi egli un fine pensatore investigativo ma meno che mai una bodyguard.
Infine, perché ha un sesto senso per la malvagità dell’animo altrui, non lavora cioè per la salvaguardia di uno, ma per la giustizia di tutti, e avverte una qualche meschinità nel vissuto della vittima.
Tutti i romanzi di Agatha Christie sono permeati da un profondo senso della giustizia: i suoi libri non sono a lieto fine, spesso lasciano l’amaro in bocca, come spesso succede per le miserie umane, ma sempre il colpevole viene assicurato alla giustizia.
Quella degli uomini, o quella divina, o qualche altra ancora, Poirot non si dilunga mai oltre.
Ecco quindi Poirot che indaga, e per indagare risale, ricerca l’origine del quadro.
Prima di ricostruire, guarda, vede, osserva, ricerca il bozzetto, lo schizzo, il progetto d’immagine, la prima pennellata: tutto il resto poi viene da sé.
Pian piano, o anche in fretta, tutta la storia si svolge in poche ore, ricostruisce il quadro, sistema i riquadri nel giusto ordine, poi la tela risultante è l’unica possibile, e ancora una volta il senso della giustizia conduce alla soluzione, e trattandosi di un ambiente chiuso, non raggiungibile dall’esterno, Poirot rievoca tutto come in un aula di tribunale, descrive il delitto ed un probabile progetto, poi un evento imprevedibile, a parte la sua presenza sul posto, che come in tutti i delitti perfetti rischia di essere il classico granello di polvere negli ingranaggi, e ancora l’investigazione, l’azione di polizia, il referto medico, il tribunale, il giudice, la giuria, la sentenza, insomma tutto l’armamentario della dea Minerva.
Tranne la pena, da quello Poirot si tira fuori, non è suo compito giudicare, sono azioni che lascia agli altri, lui avalla solo la soluzione più equa e moralmente accettabile.
Ne viene fuori un quadro logico, spietato nella sua interezza, crudo e crudele, ma potentemente reale, banale quanto sa esserlo veramente il male, il Male con la maiuscola.
Però un bel quadro, scritto bene, veramente un bel romanzo che rende immagini vivide e potenti, e questo lo sanno fare solo i bravi scrittori. E le bravi scrittrici, ancora meglio.
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La scelta responsabile
Questo è un testo potente, che parla di un potere, quello talora più grave da gestire tra le facoltà umane, sebbene sia il più straordinario, e perlopiù meraviglioso, eccelso ed eminente insieme: la virtù di essere origine, radice, madre.
E perciò, inderogabilmente, trattasi di una prerogativa di donna.
Cosa significa concedere la vita? Quando e dove si inizia a divenire madre?
Questo il tema de “Il dono di Antonia”, un bel libro, l’ultimo in libreria, di Alessandra Sarchi.
Un libro difficile, in verità, per l’argomento trattato, a prima vista presenta anche una certa resistenza alla lettura, malgrado sia ben scritto, con stile elegante e prosa ricercata, mostra una sorta di pudore, una qualche ritrosia a estrinsecare tutto il suo potenziale, che è notevole, credo a causa di una certa delicatezza, più che riserbo oserei dire tenerezza, con la quale l’autrice affronta di straforo un tema attuale come la maternità suffragata.
Forse solo in questo è il suo unico neo, che ne frena forse la scorrevolezza.
In realtà il suo è un discorso più ampio, sussurrato più che esclamato, espresso con timidezza e finezza insieme, una garbata conversazione su cosa significa davvero divenire madre, come lo sente in sé questo sentimento una donna conscia e consapevole che ogni mese, per un periodo della sua vita, è depositaria della possibilità di effettuare un dono, o più spesso un rifiuto, di cui sottilmente e inconsciamente prova sempre una lieve frustrazione.
Antonia è una donna, una moglie, una madre, gestisce una piccola azienda agricola con caseificio annesso sulle colline intorno a Bologna.
Vive una vita come tante, apparentemente tranquilla, serena, forse anche monotona, le sue giornate trascorrono secondo orari dettati dai ritmi naturali, scanditi dai tempi della mungitura, del governo degli animali da latte, della produzione di ricotta e formaggi, della cura della casa e dell’orto.
Come tanti, nelle pause dal lavoro cerca nello sport e nell’attività fisica fine a sé stessa, supporto e conforto allo stress quotidiano dell’esistenza, inanellando vasche su vasche nella piscina annessa all’azienda.
Per benefica produzione di endorfine, certo, e catarsi in una parvenza di protettivo liquido amniotico.
Uno stress quotidiano il suo, in verità, un po' più accentuato che in altre famiglie: l’unica figlia, la diciottenne Anna, infatti, soffre di un disturbo alimentare insolito per le passate generazioni ma purtroppo in auge oggi nei tempi moderni, è anoressica.
L’esistenza della famiglia si regge quindi per il tramite di un filo assai fragile che lega le esistenze dei membri della famiglia, padre, madre e giovane impiegato, ruotano tutti intorno al problema evidente, mai negato e però nemmeno conclamato apertamente.
Tutti sono alla ricerca di un continuo equilibrio, in una atmosfera instabile, da un lato le blande e caute strategie dei familiari, la mamma Antonia in particolare, volte a convincere in qualche modo più spesso maldestro la giovane ad alimentarsi, ad introdurre un numero maggiore di calorie nella dieta quotidiana, dall’altro il sottrarsi della ragazza a quelle che considera pressioni ed intrusioni sgradite nella propria sfera di scelta e di azione.
Il tutto attraverso un gioco di finzioni, un senza parere, un gioco di convenzioni, di compromessi, di trattative, perché le insistenze, seppure dettate a fin di bene, non diventino ossessioni nefaste, o ritornelli e sproni compulsivi, e non diano la stura ad autentiche crisi isteriche di panico, così come caldamente raccomandato di evitare dai professionisti sanitari, e dai gruppi di supporto e di aiuto, costituito come tipico in certe patologie, dai familiari dei pazienti, tutte ragazze, afflitte da tale disturbo.
Una simile evenienza, il fatto stesso che tale disturbo sia a sola diffusione femminile, conduce inevitabilmente ad orientare lo spot sulla madre, sul rapporto madre- figlia, dai più ritenuto origine dello squilibrio emozionale che si estrinseca nel rifiuto di nutrirsi.
La protagonista del romanzo quindi è giocoforza sospinta a ridiscutere e a riconsiderare il suo ruolo di madre, e questo naturalmente la porta anche a ricordare gli eventi della sua vita trascorsa.
Perché è inevitabile: ognuno di noi è la conseguenza di quello che è stato, degli eventi che ha vissuto, delle scelte compiute o subite, e quello che è stato prepara il presente, e questo a sua volta è l’input del futuro.
Antonia ricorda quindi, o meglio è costretta a rinvangare quello che considera, o si è convinta a considerare, un errore di gioventù, il frutto di una leggerezza, una mossa tanto superficiale quanto istintiva e frettolosa, compiuta in assoluta buona fede e nobiltà d’intento in un’età quando ancora necessariamente difettano maturità e capacità di scelta giudiziosa.
Un evento di cui nessuno, se non il marito, è al corrente, una circostanza che in qualche modo ha forse lasciato memoria genetica in lei, e lo ha trascritto malignamente nei geni della figlia
In tal modo condizionandone il rifiuto ad assimilare energia vitale, quasi la ragazza intendesse punire come una nemesi storica-genetica Antonia, che le è madre ed è l’origine del suo primo cibo, la poppata da lattante, ripudiandolo e rifiutando ogni altra forma di alimento offerto.
Antonia infatti, ancora ragazzina, ventisei anni anni prima, fresca di studi universitari, aveva usufruito di una borsa di studi universitaria, trascorrendo un anno in California.
Era stata la sua una scelta accademica ricercata e voluta, sentiva il bisogno di evadere, di continuare gli studi il più lontano possibile da casa sua e specialmente dalla propria madre, con la quale aveva un rapporto di timore e disagio, di staccarsi dai luoghi natali, quasi intendesse sradicarsi e cancellare il ricordo di sé.
La giovane aveva provocato involontariamente una delusione cocente, lei unica figlia, all’autorità manifestatamente unanime della sua famiglia, la mater familias.
Una madre costei ben diversa di carattere dalla dolce e timida Antonia, una donna d’altri tempi, potere unico e assoluto, dotata di carisma e autorità congenita data la sua difficile, e ammirevole in verità, storia di emancipazione sociale.
Antonia era stata una tremenda delusione per sua madre, ne era stato motivo di umiliazione e forse sottile derisione di quanti la detestavano. Le aspettative della madre, e dei familiari, tutti infermieri e tutti occupati nelle professioni sanitarie, furono vanificate dalla scelta di Antonia di dedicarsi ad altro negli studi e nella professione, a causa di una sua innata e sconcertante repulsione per tutto quanto consono al sangue e alla medicina, addirittura perdendo incredibilmente i sensi in caso di prelievo di sangue, e ovvio conseguente rifiuto di divenire donatrice di sangue, come invece ruolo consolidato in tutti i familiari, da ferrea tradizione di famiglia instaurata appunto dalla madre.
A Los Angeles Antonia, semplice e ingenua, mal si adatta allo stile di vita e alle incongruenze anche atroci dell’opulenta, e assurdamente contraddittoria, società americana.
Di giorno vede gli americani bene riempire a dismisura i grandi carrelli dei supermercati di ogni sorta di cibo e di ben di Dio, la maggior parte del quale finirà sprecato; e di notte, gli stessi carrelli sono sospinti di nascosto, e con vergogna, carichi di povere cose, dagli homeless sbucati dal nulla in cui si nascondono nelle ore di luce e che con il buio gironzolano in giro in cerca di avanzi alimentari nei bidoni della spazzatura.
Questi sconvenienti controsensi turbano la giovane, la portano a insicurezze ed errori di vita che sfociano in un rapporto superficiale con un uomo più grande, e più immaturo di lei, che si conclude con un tragico, e doloroso, aborto spontaneo.
Salva il suo equilibrio e la sua sanità mentale, restituendole una parvenza di serenità, la sua amicizia, intensa e disinteressata, con Myrtha, una donna di poco più grande di lei, sposata e di famiglia agiata, con cui condivide la passione per il nuoto, e che le insegna come a lei, e a lei sola, spetta il compito di scegliere come essere felice, nessun altro al mondo può sostituirla in questa scelta responsabile, meno che mai la propria madre.
Per questo Antonia, grata all’amica del cuore, poiché questa per qualche motivo è sterile e desidera fortemente avere un figlio, le propone prima spontaneamente e poi la costringe ad accettare il suo dono, un pegno d’amicizia e di amore, il più grande, una maternità surrogata, le dona d’impulso, e con gioia, anche con un pizzico di incoscienza giovanile, un proprio ovocita, per cui tramite la fecondazione eterologa, l’amica possa esaudire il proprio desiderio di maternità.
La gravidanza procede, e Antonia capisce, con dolorosa coscienza, che non può più restare vicino all’amica: il suo dono non è come una donazione di sangue, non è un colmare una carenza momentanea di sostanza, è un creare ex novo, è un dono che non può essere donato, è una scelta responsabile ed irresponsabile insieme, magari giusta ma a cui non è preparata.
Pertanto, parte, anzi fugge, torna in Italia decisa a lasciarsi indietro tutta questa esperienza, e soprattutto la gelosia nel vedere una vita, che è anche sua, crescere in un’altra madre.
Sa che i figli appartengono a chi li cresce, li nutre, li cura, li segue, certo; ma appartengono.
Per essere, sono di chi li ha messi al mondo. Di più, di chi li ha creati. L’input primordiale.
Perciò torna in Italia, si rifà un’esistenza, provando a relegare nell’oblio una parte di sé.
Ed ecco, quell’ovocita non è più un gamete, è un giovane di nome Jessie, per una serie di circostanze ha saputo di sua madre biologica, e viene a cercarla perché…perché:
“Ogni culla chiede: da dove?”
Conoscere il passato per comprendere il presente e preparare il futuro, è una grande lezione di Storia. Anche della Storia degli umani.
Ognuno di noi necessita di sapere da dove viene, chi è, come è diventato quello che è, è scritto nel nostro patrimonio genetico, che ha un numero pari di cromosomi, perché ciascuna metà viene da un genere diverso, e combinandosi forma un tutt’altro che è sé e viene anche da due.
Conoscere i due, per avere coscienza di sé, è istintivo nella razza umana.
La concretezza di Jessie che la viene a cercare a Bologna è salvifica per Antonia e, come pare assai probabile, per la giovane Anna, la sorella almeno in parte di Jessie.
Poiché ambedue le donne sembrano recuperare qualcosa, riempiono una carenza che si era instaurata tra loro e che Anna manteneva volutamente vuota, evitando di riempirla di cibo, comprendendo che solo un certo tipo di Amore aveva il diritto di colmare tanta lacuna.
Amore fatto di chiarezza, apertura, sincerità e senza alcun timore di essere giudicati.
Perché i figli possono essere giudici severi, ma quasi mai sono attendibili, e nemmeno i genitori.
Bisogna saper affrontare le scelte, comprendendole e accettandole senza condizioni, nell’uno e nell’altro senso.
Antonia sia con Jessie che con Anna, ha fatto quello che poteva e sapeva fare in quel momento, del suo meglio, non altro. Perché una donna nell’arco della sua vita produce parecchie uova, e tutti le spiegano presto tutto al proposito, come fecondarle e come evitare la gravidanza.
Ma fare la madre, non te lo insegna nessuno, mai. Meno che mai la propria madre.
Ogni donna lo apprende da sé, è una scelta responsabile.
La sola che permette per esempio ad Antonia di ritrovare sé stessa, e la parte di sé che credeva persa.
Questo il senso del dono della maternità, il più grande dei doni, che neanche i tre Magi.
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Prova d’orchestra
Si suole dire che tre è il numero perfetto, forse perché dopotutto è una cifra che simboleggia, in estrema sintesi, il senso dell’esistenza di ognuno, la nascita, la fine, e quanto esiste tra i due estremi.
L’inizio quindi da un lato, la conclusione dall’altro, e il durante al centro, quello che è il più importante di tutto.
Perché è l’intermezzo che costituisce il vissuto trascorso, ciò che è stato costruisce il passato, questo conduce al presente, a sua volta si ripercuote nel futuro.
Quello che è nel mezzo è il remoto da dove è iniziato tutto ed il contrario di tutto, con il suo scorrere determina la fine.
Tre è il numero perfetto, quindi, ed è anche l’emblema, il simbolo, che ricorre in questo romanzo già dal titolo: il racconto di un accidente usuale nella Roma odierna, un delitto passionale.
Un omicidio, anche semplice e banale, perché presumibilmente con tutta evidenza istintivo per decisione improvvisa e rabbiosa, d’impulso, neanche premeditato.
Sono in genere quelli più semplici da motivare e chiarire, assicurandone alla giustizia i colpevoli, investigando nell’immediato tra quanti più vicini alla vittima.
Non un giallo misterioso e impenetrabile, quindi, questo libro, e tutt’altro che un mistero, aggiungerei, ma una bella prova corale, una prova d’orchestra.
Un racconto che prende a pretesto un delitto, un crimine neppure particolarmente efferato, per di più commesso utilizzando come arma del delitto, guarda caso, un terzo di una scultura bronzea, un manufatto artistico rinvenuto sulla scena.
Il senso di atroce sta tutto solo nella vittima, perché è una barbaria ai danni di una giovane e bellissima ragazza, piena di vita, di luce e di colori, di interessi, di preparazione e di cultura artistica, un astro nascente negli ambienti dell’arte della capitale.
La giovane è qui pervenuta dalla provincia, decisa a concretizzare i suoi sogni e a conquistarsi il suo personale, e sfolgorante, posto al sole, una giovane così bella e struggente da potersi definire lei stessa una tela incantevole, di quelle con soggetti diafani, dolci e struggenti, come una piccola fiammiferaia, e come quella esile, fragile, adorabile.
E bersaglio, preda, sacrificio, come spesso divengono soggetti così.
Tre sono i personaggi principali, i protagonisti unici, per prima il poliziotto che indaga sul crimine, quindi il maggiore sospettato dell’omicidio, per inciso l’amante della vittima, e la moglie di quest’ ultimo. All’apparenza il classico triangolo: lui, lei, l’altra.
Quello che rende davvero insolito, atipico e singolare il romanzo, e allo stesso tempo delizioso, di gradevole lettura e attraente per l’intreccio e la struttura, il particolare che gli conferisce la cifra giusta, sta in un altro trittico ancora, quello degli autori.
Un trio di autori, di quelli già noti, e non come giallisti, ma come solisti. E di gran classe.
Cristina Cassar Scalia, Giancarlo De Cataldo e Maurizio De Giovanni, tre voci tra le più calde del nostro Sud, tre autori, oserei dire tre cantautori, si sono seduti insieme ad un pianoforte, ciascuno con la propria sensibilità ha trascritto sulle righe orizzontali di un foglio di musica delle note, quelle più consone alla propria indole di affabulatori, ne hanno ricavato così insieme un originale spartito, una trascrizione a tre per canto, chitarra e pianoforte, dando luogo ad un componimento musicale a tre fiati, dal timbro caldo, tocco arioso e modulazione intonata.
Ognuno di loro tre infatti, autore ciascuno di due capitoli sui sei totali del romanzo, ha elaborato una propria sinfonia, si è dedicato ad un frammento del melodramma ed a descrivere, approfondire, far risaltare un personaggio principale, cesellandolo con le note, ricavandone frammenti di una multiforme personalità, un articolato mosaico musicale che poi tutti e tre insieme si fondono in una unica concorde melodia, vanno mirabilmente ad incastrarsi con quelli degli altri, ricavandone infine una canzone epica e sonante insieme.
Non è da tutti; ci riescono con difficoltà coppie di scrittori di chiara fama come Fruttero e Lucentini, per esempio, ma scrivere all’unisono a tre non è per tutti, riesce davvero arduo incanalare le note in un fluire unico e armonico, altissimo il rischio di stonare, una bella stecca davvero.
A loro tre invece riesce: non un capolavoro, ma una simpatica e ben curata lettura si, senza dubbio.
E volete definirli giallisti? Assolutamente: sono tre scrittori, e di quelli bravi.
Fatti i dovuti distinguo, per intenderci questo non è un romanzo a sei mani, è un concerto di tre tenori, non si esibiscono alle terme di Caracalla come Pavarotti, Carreras o Placido Domingo, e però nessun dorma in ogni caso, loro tre insieme come quelli fondono mirabilmente le loro voci in sintonia senza mancare un’entrata o un accordo, dando luogo ad una prova d’orchestra, non un melodramma ma un’aria, un accordo, un’intesa fantastica nella scrittura a tre.
Domani vincerò si traduce per loro in oggi scriviamo vincenti insieme.
Ognuno degli autori rievoca l’inizio delle storie personali dei protagonisti principali, ne esamina il loro svolgersi, l’evolversi dei fatti, le conclusioni pervenute e conclude con chiusura multipla, perché la verità delle umane vicende non è mai univoca, ma spesso oserei dire tripla.
Insolita, controversa, manipolata.
Giancarlo De Cataldo, in virtù dei suoi trascorsi di magistrato, ci racconta il suo Davide Brandi, dà prova della sua abilità giuridica e di letterato, delineando a chiari tratti la figura del poliziotto incaricato delle indagini, scafato, esperto e competente di metodi e procedure, ma non solo, anche di movimenti adeguati agli ambienti, attento alla carriera e a non commettere passi falsi o politicamente scorretti, sensibile e disincantato ad un tempo, delineato nelle linee con realismo e obiettività di chi conosce uomini e atmosfere della giustizia, esternandoli filtrati dalla propria sensibilità di scrittore.
Maurizio De Giovanni presta voce e ci offre visivamente tratti, figura e l’intimità caratteriale di un protagonista crudo, duro, cinico, quello di Marco Valerio Guerra, il nome di un condottiero ed un cognome che suggerisce conflitto. Nomen omen, il destino nel nome, mai nome fu più azzeccato.
Trattasi dell’amante ufficiale della vittima, il maggior indiziato dell’omicidio della giovane gallerista, un imprenditore di successo, uno di quei mammasantissima dell’economia nazionale, un uomo che si è fatto da solo, con fatica, inflessibilità, rigore, disciplina, e a caro prezzo.
Perché la vittoria, diremmo meglio gli assoluti trionfi in ogni campo, professionale, sociale, di conquista di stratosferico potere economico, si riflette di converso nella situazione difficile, angosciosa, dolorosissima in cui si dibatte la sua anima tormentata e perennemente insoddisfatta, che le durezze dell’esistenza belligerante hanno ridotto ormai a nulla più che un grumo di roccia, intangibile finanche alla lama di un diamante.
Inaccessibilità necessaria, perché ne va dell’esistenza stessa di tutto quanto costruito: una minima crepa, ed è la fine, perché da una crepa può non passare altro che una lama di luce, ma la luce è di per sé sufficiente per la catastrofe. Specie se la fonte della luce è una fiamma di sentimento.
Cristina Cassar Scalia cesella, da donna a donna, tutto l’universo femminile di Carla Santucci in Guerra, la moglie dell’imprenditore. Una donna figlia di un imprenditore arricchitosi con il suo lavoro e però di stampo plebeo, giusto che siamo a Roma, quindi un paria sociale per estrazione ed interesse economici. Con il matrimonio, Carla indossa con soddisfazione l’ambita veste patrizia maggiormente consona al suo charme ed al suo livello, riscatta il suo nome e sale diversi gradini sociali con il matrimonio con l’allora semplice imprenditore rampante Marco Valerio, al quale serve giusto il suo patrimonio per lo slancio finale verso l’empireo economico.
Un matrimonio di convenienza, forse, ma Carla è una donna tosta, decisa, determinata, forse anche innamorata, e l’amore, come la vita di coppia, non ha mai una sola faccia, può averne più di una, due o anche tre.
Tre voci, tre scrittori mettono insieme una storia: poiché le storie sono fatte di persone, ognuno dei tre offre il proprio contributo con un corrispondente personaggio.
La storia scivola bene, suona meglio, scorre fluida, è piacevole a leggersi, non una costrizione editoriale, ma una prova di abilità e di professionalità.
Che funziona, grazie alla professionalità dei tre, che si amalgano bene, al meglio.
Perché ognuno di loro si fa in quattro, in tre cioè, pardon.
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Del suo meglio
“Due maestrine fasciste, in divisa bianca e nera, facevano marciare una colonna di piccoli balilla, armati di moschetti di legno. Arcieri, per il suo mestiere, sapeva quali forze si scontravano in Europa: eserciti moderni, aviazione, acciaio e motori, grandi potenze di fuoco.
L’Italia invece era nella condizione di quei bambini ignari, coi fucilini finti”
Queste parole introducono subito i tempi e gli scenari in cui agisce Bruno Arcieri, il protagonista dell’ultimo pregevole romanzo di Leonardo Gori, “Il ragazzo inglese”, quello di più recente arrivo in libreria, in cui ritroviamo il personaggio forse meglio conosciuto dagli affezionati lettori dello scrittore fiorentino.
Sicuramente il più sapientemente caratterizzato: Leonardo Gori fa agire il suo Bruno Arcieri, dapprima nei panni di ufficiale dei Carabinieri ed in seguito funzionario dei servizi segreti italiani, in un arco di tempo che va dall’avvento del ventennio fascista, passando per gli anni dell’ultimo conflitto mondiale, fino al dopoguerra.
Bruno Arcieri è quello che si dice un uomo tutto di un pezzo, ma di un pezzo lavorato bene, con semplicità e abilità artigianale, forgiato per educazione, indole e crescita a comuni, e ben radicati nel profondo dell’animo, valori di lealtà, onestà e coerenza, prima di tutto verso la sua stessa persona.
È lo specchio fedele del galantuomo del suo tempo che, in tutta onestà, compie del suo meglio per adeguarsi ai fatti e agli eventi che si snodano davanti ai suoi occhi, cercando di mantenersi comunque aderente alla sua natura di uomo di comune buon senso, empatico e tollerante, caritatevole ed intransigente insieme, antico e moderno, restio ai cambiamenti eppure aperto alle novità, gentile, capace, retto d’animo e di intenzioni.
Certamente, non è un uomo perfetto, tutt’altro; devia spesso, commette errori, sbaglia, sbanda, si lascia trascinare da istinto, passioni, desideri, talora se ne fa accecare perdendo di vista la logica e la regola, si lascia pure traviare, ma sempre ne prende coscienza, facendo del suo meglio per rimediare, come gli detta la coscienza.
Arcieri non è un eroe, è appunto solo uno che fa del suo meglio, ci prova sempre e comunque a farlo, con tenacia, spesso con cocciutaggine, sempre con pudore, talora in punta di piedi, ma con il coraggio della persona per bene che vuole capire, comprendere, approfondire, senza giudicare a priori.
Il tratto pregevole del personaggio Arcieri è proprio questo suo assistere in prima persona, la sua visione dei fatti storici realmente avvenuti, che Gori descrive abilmente come se si stessero svolgendo esattamente sotto gli occhi del suo eroe, nel momento stesso in cui accadono.
Bruno Arcieri è letteralmente un testimone del suo tempo, e data la sua militanza nelle forze dell’ordine, in un modo o nell’altro, è dalla parte giusta della barricata, il suo occhio clinico rileva in particolare ciò che stona nell’ordine naturale del vivere civile.
Perciò serve lo stato fascista, ma non è un fascista; non ama guerre e guerrafondai, e però è presente a Firenze negli anni prebellici per organizzare al meglio il Servizio d’ordine, in occasione della famosa visita del Fuhrer della Germania nazista nella città del giglio, sventandone al meglio possibili guai e complicazioni, come dovere comanda. Non gli piace Hitler, ma svolge al meglio il suo lavoro.
Vive sulla sua pelle le discriminazioni e i soprusi, le assurdità delle abiette ed esecrabili leggi razziali, poiché Elena, la donna che ama, è ebrea, e quindi soggetta a pericoli e discriminazioni, a sopraffazioni e angherie di ogni genere.
Tale legame, tenero ed intenso, Elena sarà sempre e comunque l’amore della sua vita, in quei tempi è grandemente rischioso, con evidenti ripercussioni sulla carriera e la vita del nostro eroe, ma questo non servirà a distoglierlo dall’amore verso la ragazza.
Arcieri lo ritroveremo in seguito anche a guerra finita, vuoi per i dettami morali della sua coscienza, vuoi per la scomoda conoscenza di fatti e segreti d’archivio, finanche fuggiasco oltreconfine per sfuggire ai raggiri e alle vendette dei poteri loschi, quelli che agiscono dietro le quinte delle istituzioni democratiche, sabotandole e tessendo oscure trame criminose.
Uomini, poteri e istituzioni che evidentemente non tollerano coloro che fanno del loro meglio per costruire una esistenza a misura d’uomo, fatta di buon cibo, ottima musica, cordialità e gentilezza.
Una insolita caratteristica di Bruno Arcieri è che, protagonista unico in tutta una serie di romanzi a lui dedicati da Gori, talora, caso insolito nella scrittura del nostro paese, è anche una “guest star”, ospite dei romanzi del fraterno amico di Gori, anche lui scrittore, e anche lui di Firenze, Marco Vichi.
E viceversa. Le storie di Bruno Arcieri carabiniere, a firma di Leonardo Gori, si intreccino spesso e volentieri, in un amalgama magistrale, con le trame di Franco Bordelli poliziotto, nato dalla penna di Marco Vichi. Nascono allora storie di convivialità, di amicizia, di reciproca stima e supporto, con le atmosfere e i sapori tipici di quando si incontrano dei veri e genuini “maledetti toscani”, tosti, decisi, determinati e intensamente pervasi di schietta umanità. Sia i personaggi, come i loro autori.
In questo romanzo, nel mentre, nei primi anni 60, percorre l’appennino tosco emiliano insieme ad un amico per porre la parola fine ad una vecchia storia protrattasi fino allora, Arcieri ritorna con la memoria ai fatti avvenuti la tarda primavera del 1940 a Firenze.
Poche settimane prima della proclamazione dell’entrata ufficiale in guerra dell’Italia l’8 maggio 1940, Arcieri viene contattato, tramite comuni amicizie, da un ragazzo inglese.
Johnny, questo il suo nome, da tempo residente a Firenze, per sottrarsi all’imminente richiamo alle armi da parte delle autorità militari del suo paese di origine, appressandosi i preparativi di guerra, si offre di trafugare e consegnare alla “spia” italiana, come è ufficiosamente considerato il nostro, importanti documenti segreti.
Incartamenti delicati sulla consistenza e disposizione delle forze armate della Gran Bretagna, custoditi presso il locale consolato inglese, dove il giovane presta servizio.
Johnny pretende in cambio accoglienza, rifugio e ospitalità, nuovi documenti e nuova identità per rifarsi un’esistenza non soltanto lontano dal concreto rischio di perdere la vita in guerra, ma soprattutto per restare al fianco di Leda, la donna che ama perdutamente, una semplice, ma bellissima ragazza del posto. Arcieri segue dapprima i dettami della sua coscienza e della sua drittura morale, e rifiuta sdegnosamente quello che ritiene una vile diserzione per futili e capricciosi motivi, ma è costretto poi ad accettare giocoforza, dati gli ordini dei superiori, che non intendono perdere un simile vantaggio strategico per il conflitto ormai prossimo.
Arcieri a malincuore obbedisce.
Un altro eroe letterario, serio, integerrimo, inflessibile e senza macchia non verrebbe mai meno ai principi etici e cristallini a cui ispira le sue azioni, ma appunto Bruno Arcieri non è un eroe, non è migliore degli altri, neanche sa esserlo, semmai talora è pure più presuntuoso, ma in questo sta la sua forza, proprio per questo non è verosimile ma vero, è un uomo normale, un uomo del suo tempo, che si arrabatta a fare del suo meglio, magari si scopre con stupore più fragile di quanto pensi, e fa i conti serenamente con la sua realtà.
Si snoda così questa vecchia storia, tra omicidi, servizi segreti e presunti tali, funzionari del regime insoliti e contraddittori, vecchie botteghe nei vicoli della Firenze medievale e borgatara, autori dell’ermetismo in voga e poesie tanto ermetiche quanto eclatanti, pizzi, merletti, tè e vecchie signore di stampo vittoriano, soffitte, nascondigli, doppi giochi, misteri, polizia politica e defenestrazioni.
Un insieme, un calderone di eventi, tutti provocati dalla follia imminente a venire, e che tutto avrebbe travolto:
“La sua vita e quelle di tutti erano state travolte da un fiume in piena, la guerra che nessuno era riuscito ad evitare. Il loro vecchio mondo era scomparso in un inferno di fuoco”.
Leonardo Gori, nei suoi romanzi con protagonista Bruno Arcieri, ha descritto sapientemente, e con penna leggera, con tratto incisivo e scorrevole di lettura e di azione, l’epopea di un uomo normale.
Proprio per questo più difficile da scriverne.
Gori non ha fatto del suo meglio scrivendo di Arcieri, ma ha scritto di Arcieri al meglio.
Scrivere romanzi, o fare romanzo di una esistenza, è un conto; ma raccontare una realtà, per quanto varia e intensamente vissuta, riportando con precisione e maestria esperienze, atmosfere, clima, eventi, fatti realmente avvenuti, e tra i più disparati, facendoli interagire in simbiosi con un proprio protagonista di fantasia, significa ammantare di reale anche il protagonista.
Leonardo Gori rende al meglio tale magia, possiede abilità, incanta con le parole, intrattiene il lettore.
Consiglio di iniziare la conoscenza di Arcieri seguendo l’ordine cronologico di uscita delle sue storie; credo sia il modo per apprezzare appieno sia il nostro ufficiale dei carabinieri sia il suo autore, reiterando gradualmente il piacere della conoscenza di ambedue.
Ambedue al loro meglio.
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ASSOLO
Sembra sia passata un’eternità, invece è storia di ieri. Appena ieri. E neanche è finita.
Eravamo tutti, o quasi, chiusi in casa. Ricordate?
“Restate a casa” era l’ordine, la necessità assoluta, il paradigma, la conditio sine qua non l’umanità tutta sembrava destinata, senza appello, all’estinzione di massa.
Nella realtà quotidiana, e nel personale immaginario catastrofico di ognuno, esistevano esclusivamente concetti come la pandemia, il coronavirus, il covid19, l’autocertificazione, le mascherine, il lavaggio compulsivo delle mani, la sanificazione parossistica di cose e ambienti, la fila per la spesa solo alimentare e farmaceutica, i luoghi deserti, il silenzio nelle strade e nelle piazze, tutti reclusi a scrutare attoniti il vuoto dietro i vetri alle finestre, in attesa dell’odierno bollettino televisivo di sciagura.
Impossibile dimenticare la paura, il terrore, il panico, l’angoscia che ci prese tutti in quei giorni.
L’inquietudine tremenda di accusare decimi di febbre e tosse, risibili e innocui fino a poco prima.
Lo smarrimento per il momento, i sinistri presagi per il grigio futuro, lo spettro della perdita del lavoro, della miseria, della disperazione.
La paura, quella folle, era l’unica suggestione che ci obbligava senza sforzo al “Restate a casa”, l’imperativo unico rimedio nell’immediato, senza il quale saremmo precipitati inevitabilmente assai più in basso del crepaccio in cui, da un giorno all’altro, il genere uomo, l’unico tra i viventi del pianeta, si era ritrovato senza neanche accorgersene.
Sostavamo tutti su un primo livello, un terrazzamento sotto il quale s’intravedeva, con chiarezza e pari raccapriccio, un burrone profondo, di quelli scoscesi e frastagliati, una foiba carsica della peggior specie, di quelle affilate e taglienti, da mozzarti il respiro…letteralmente.
Una discesa agli inferi cui non si scorgeva la fine neanche aguzzando per bene la vista.
Senza ritorno, nessuna via di uscita.
Un esercito di nuovi eroi, rigorosamente bardati in bianco, era impegnato a fronteggiare la nuova apocalisse, senza altre armi che coraggio e abnegazione, poiché tutto quanto la tecnologia e la scienza futuristica approntavano a immediata disposizione apparivano spuntato, inadeguato, impotente. Uno scenario da brivido, ma reale, concreto, tangibile. La nuova peste.
Sul quale s’innescavano le storie di varia umanità: poiché è un assioma, in simili evenienze allora, e solo allora purtroppo, si riscopre la fragilità dell’esistenza.
Serve Caporetto per fare fronte unico e ricompattare i ranghi, respingere unanimi l’effimero dell’assurdo patire quotidiano, lo sbattersi inutile e stressante richiesto dall’adeguarsi ai bisogni fittizi e velleitari propostici, si riconsiderano vittoriosi i valori unici fondanti, quelli del cuore. L’amore, l’affetto, l’empatia, la solidarietà, la compartecipazione, l’unione: in sintesi, l’umanità solo quando condivide tutto questo, allora combatte sotto una sola bandiera. E vince, forse, o cade in piedi. Volete che uno scrittore di rara sensibilità e intelligenza come Maurizio De Giovanni, un valente affabulatore di storie della città emblema del cuore e dell’umanità umile e condivisa, un osservatore acuto del cuore degli uomini, una persona di delicata empatia, non ne facesse materia per un suo scritto?
De Giovanni non descrive mai gli stereotipi “anema e core” della sua città, ma della sua città, e dei suoi abitanti., che conosce a menadito nell’essenza, sa mostrarne la modernità ed il meglio, raccontandocelo con l’ anima e con il cuore.
In estrema sintesi, da questa comune e recente esperienza nasce “Il concerto dei destini fragili”, l’ultimo lavoro dello scrittore napoletano.
Un racconto bello, breve e intenso, quanto mai attuale, una storia essenziale ma curata nei particolari, una testimonianza a tre voci, oserei definirlo, con il dovuto rispetto, come l’amore ai tempi del Covid19.
Perché di amore si parla qui, quello esteso ai propri simili nella comune sventura.
Cantano alle finestre gli uomini e le donne di buona volontà, declamano con speranza e sentimento lo stesso motivo: con la pandemia, ognuno ha acquisito piena coscienza della fragilità del proprio destino.
Serve essere uniti, è l’ora di superare i propri limiti e riscoprire la propria umanità.
L’unione fa la forza, è sempre così, è nei momenti difficili che si riscopre la solidarietà e la concordia.
Le voci sono tutte diverse, intonate, stonate, cristalline, stridenti, distorte, fuori tempo, ognuno sembra seguire un proprio spartito, eppure tutte concatenate insieme unificano, ne viene fuori un concerto, una melodia, una sinfonia, un ritornello, un refrain: “andrà tutto bene”.
Maurizio De Giovanni di questo concerto ne fa un assolo, un brano eseguito da una sola voce.
Perché? Perché non una storia con un commissario di polizia nella Napoli del ventennio fascista, oppresso da un “fatto”, una peculiare sensibilità nell’accogliere le miserie umane?
Perché non il racconto delle disparate umanità di una squadra di poliziotti nella Napoli moderna, ognuno riflettente un particolare che contribuisce all’affresco del caso umano chiamati a risolvere? Perché:
“Noi, sai, siamo nella storia. Questo momento, questo strano assurdo periodo, verrà comunque ricordato per sempre. Non è mai successa una cosa così, e sia che finisca presto, come tutti ci auguriamo, sia che, Dio non voglia, estingua la razza umana resterà la prima volta che una cosa così è successa nel nostro mondo.”
Perciò De Giovanni ci racconta con grazia e sapienza, con delicatezza e tenerezza, con realismo e verosimiglianza, storie del tempo in cui un miserabile protista subcellulare, all’apparenza del tutto simile ad un puntaspilli, ma assai più pungente quando sfugge al controllo, rivoluzionò i nostri modi di essere.
Maurizio De Giovanni parla all’unisono, dando voce a tre figure rappresentative.
Un medico, giovane, capace, appassionato, dedito alla professione, letteralmente un eroe dei nostri tempi.: “...il suo lavoro era, per sua natura molto vario, ogni patologia o somma di patologie era una storia a sé nel reparto di terapia intensiva…adesso invece sembrava di monitorare lo stesso paziente in stadi successivi…bardati come palombari…senza poter far molto…”
Un avvocato, un uomo giovane e di successo, un professionista ricco e affermato…e cocainomane e dalla vita dissoluta, dalle abitudini tossiche e suicide, dissacranti e sprezzanti della sacralità dell’esistenza, quasi fosse oggigiorno un viatico obbligato e indispensabile supportarsi chimicamente per arrivare al successo per un professionista di tale caratura: “… …Ho paura di morire, avendo voluto morire fino a poche ore fa, desiderando di morire e adesso desiderando di vivere.”
E infine una collaboratrice familiare, straniera e non in regola, cui la pandemia priva degli indispensabili mezzi di sostegno e reclude inevitabilmente in un ambiente minuscolo, non privo di tensioni e di pericoli, tra un compagno suo malgrado bieco e incline al bere e alla violenza domestica, come tipica di una certa subcultura di atavica provenienza, e una figlia adolescente da proteggere, perché fragile, perché giovane, perché donna.
Una colf, quindi, una tipica badante dell’est europeo venuta in Italia perchè:
“…le storie, tutte le storie che le amiche e le parenti le raccontavano di quest’altro mondo, dove si poteva mangiare e si poteva vestirsi e si poteva perfino avere una stanza per dormire per ognuno, dove, se volevi, un lavoro lo trovavi.”
Le storie, le vite di questi personaggi s’intersecano, a un certo momento, come capita di consueto.
Esistenze diverse, direzioni differenti, destini discordanti unite da un comune denominatore, si snodano durante la notte del Covid19, e s’incontrano nel luogo di destinazione naturale per tale evento, un ospedale, che altro? Un ospedale con una sala di rianimazione. Ed un solo letto libero.
L’esito è a una voce sola, è un assolo, lo esegue con garbo, tatto e delicatezza Maurizio De Giovanni, con l’accompagnamento dei suoi tre davvero ben riusciti personaggi, intensamente rappresentativi del tempo e della situazione creatasi.
Per non dimenticare, ora che tutto questo sembra sia giunto al termine.
Sembra.
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Il travet
Noi italiani siamo un popolo di eroi, si sa, e di poeti, di santi, di navigatori.
Poi, in special modo nel periodo in cui si disputano i campionati mondiali o europei di calcio, che catalizzano l’attenzione dei più, vestiamo tutti i panni, o meglio la tuta di allenatori o commissari tecnici della nazionale.
Almeno vorremmo esserlo, fermamente convinti come siamo di essere gli unici capaci di scegliere con cura e per bene undici ragazzi, allenarli e disporli in campo al meglio e portarli senza indugio all'inevitabile trionfo, grazie alla bontà dei nostri schemi e dalla nostra impareggiabile sagacia calcistica. Dopo tutto, che ci vuole? Il calcio è materia semplice, basta capirne, e tutti ne capiamo.
È questo il bello del calcio: nella sua semplicità sta il suo fascino.
Se un alieno in vena di esplorare usi e costumi dei terrestri si trovasse a sorvolare uno stadio durante una qualsiasi partita di pallone, dopo poco capirebbe perfettamente come funziona il tutto, qual è il fine ultimo del gioco. Dopo novanta minuti, avrà assimilato alla perfezione il concetto di calcio d’angolo, punizione diretta, penalty e il famigerato fuorigioco, una delle regole più semplici da capire guardandola anziché spiegare a parole. Qualche altro tempo ancora, e inizierà a pensare che se quei terrestri si disponessero in maniera diversa, ne otterrebbero maggiori benefici…guarda caso.
Se per sua sfortuna, l’alieno avesse sorvolato invece un campo di baseball, avrebbe sicuramente chiesto lumi all’algoritmo del computer di bordo, convinto di avere a che fare con una civiltà adusa a complicarsi inutilmente l’esistenza.
Il calcio è bello perché è semplice, possono giocarci tutti, con qualsiasi struttura fisica, alti, bassi, magri, è nella sua natura polivalente, oltretutto è una metafora dell’esistenza.
La palla è rotonda come il ciclo della vita, incontri chi è leale e chi simula e si tuffa sperando in un vantaggio truffaldino, chi mena e chi tira indietro la gamba, chi comanda il gioco e chi lo distrugge, si segna un gol e poi si riparte, una rivincita è sempre possibile.
Il calcio è chiaro, attrae e incanta come l’acqua di sorgente, neanche devi fare fatica a chinarti per giocare, la palla la prendi con i piedi, anche se devi comunque usare la testa.
C’è chi difende, chi ragiona, chi concretizza, ma si vince e si perde tutti insieme, è un inno alla solidarietà, alla compartecipazione, all'unione, al tutti per uno e uno per tutti.
Il calcio è sentimento, è euforia e rabbia, è festa e commozione, è emozione languida e intensa e tristezza indescrivibile, il calcio perciò è amore.
Solo l’amore presenta tutte queste stridenti caratteristiche in contrapposizione tra loro.
Ci giochiamo un po’ tutti, al calcio, ma giocarlo bene, per agonismo e professione, richiede freschezza atletica; gestire gli atleti, allenarli, disporli in campo secondo schemi e idee personali, si può fare invece a prescindere dall’età.
Questo è il motivo per cui ci sentiamo tutti allenatori, come Dio comanda.
Che cosa siamo veramente disposti a fare per divenire sul serio un allenatore di pallone?
Per chi ha giocato, anche in serie semiprofessionistiche, l’iter è agevolato, talora anche obbligato, al termine dell’agonismo.
Per chi invece, al più, ha giocato per mero divertimento nei dilettanti e nei campionati minori, e che per sbarcare il lunario svolge tutt'altra attività, una famiglia non si mantiene, infatti, correndo sui campetti in terra battuta delle periferie, intraprendere una carriera di allenatore è assai difficile, instabile, incerta partendo da zero, dall’abc, senza avere un retroterra professionistico alle spalle.
Quanti avanti negli anni sarebbero davvero disposti a lasciare un lavoro stabile e sicuro, magari anche importante e ben remunerato, con cui mantenere più che dignitosamente una famiglia, per intraprendere l’aleatoria carriera di allenatore di calcio? Francamente, nessuno sano di mente.
Salvo che…vedete, il calcio è amore, come dicevo sopra. Omnia amor vincit.
“Sarri prima di Sarri”, questo grazioso, piccolo volumetto, ben scritto e preparato con cura e dedizione, a firma di Francesca Muzzi, in estrema sintesi è un pezzo di rara maestria giornalistica: perché fa poesia della cronaca.
Narra con precisa conoscenza di dati e di cronache calcistiche dei campionati minori la bella avventura di un normale travet di provincia, un toscanaccio nato per caso a Napoli, la Napoli operaia di Bagnoli, giramondo per seguire famiglia e professione, un modesto pallonaro che giochicchiava da difensore, pure scarso, in una squadretta senza tante pretese.
Diviene “da grande” un bancario, anzi di più, un funzionario di banca: alle soglie della mezza età ha famiglia, ha professione, ha tutto quanto può desiderare, compreso l’hobby di allenare nei campionati minori con alterna fortuna.
Si badi, è un funzionario di banca, quindi non un piccolo travet, un impiegatuccio modesto e mal pagato, che conduce una vita estremamente monotona e priva di gratificazioni, magari un frustato.
Affatto: è solo un uomo perdutamente innamorato di un amore più grande di lui.
Quest’amore gli chiede di sorridergli: e per amore, solo per amore, quel toscanaccio rispose.
Non è un esaltato, non è fuori di senno: è un uomo saggio e maturo, innamorato del gioco più bello del mondo. Fa quello che nessuno farebbe: lascia quello che ha non per inseguire qualcosa di più, ma semplicemente per vivere quello che ama, costi quello che costi.
Inizia dalla gavetta, la gavetta quella vera, vera perché nera e affatto gratificante, quella che se non ti uccide ti fortifica, quella dove non vinci ma impari.
Una vita di fatica, delusioni, rospi ingoiati a forza, sangue, sudore e lacrime.
Esoneri, perché il calcio come tutti gli amori sa essere crudele nel profondo, ti scaccia quando finisce l’amore, ti umilia, ti ferisce.
Ti riduce uno straccio, ti denigra, ti porta alle soglie della miseria, devi ingoiare l’orgoglio e chiedere un ingaggio per sbarcare il lunario.
Per amore, solo per amore: perché non scendi in campo, ma è come se lo facessi, perché schieri le tue squadre come credi, e credi con fede cieca e assoluta nei tuoi schemi, provi solo amore senza fine per il tuo disegno, per i tuoi schemi.
Sei il solo fermamente convinto che toccando massimo a due tocchi, gli avversari corrono a vuoto e non feriscono, sei il solo perfettamente conscio che è il pallone che deve volare e non i ragazzi che ali ai piedi non hanno.
Certo, non è né un santo né un uomo facile, neanche un tipo che le cose le manda a dire, ha le sue fisime e le sue fissazioni, pretende per esempio cocciutamente che gli venga riservata un’aria di sosta solo per la sua auto fuori dal campo, quello spazio e non un altro, assolutamente quello, se no non allena.
Tuttavia, allena con passione, è un uomo con la coerenza di coltivare la sua passione, costi quello che costi. Non allena per soldi, o per la gloria, allena perché ama quello che fa, ne è pervaso nell’intimo, e per chi ama non esiste fatica o sacrificio che ti distolga dal tuo amore.
Per amore, solo per amore, e semplicemente e solamente con la forza e l’energia di un grande amore, un banale travet di provincia diviene Maurizio Sarri.
Maurizio Sarri, soprattutto, non l’allenatore, ma l’uomo, un uomo coerente e di valori che per amore, solo per amore, ha lasciato una stabile sicurezza di vita per allenare lo Stia e la Faellese, la Cavriglia e l’Antella, la Valdema e il Tegoleto; il Sansovino, la Sangiovannese, il Pescara e l’Arezzo. E ancora, anni e anni di fatiche con Avellino, Verona, Perugia e Grosseto; l’Alessandria e il Sorrento, fino alla storia d’oggi, l’Empoli e il Napoli.
Il Maurizio Sarri, l’allenatore che ha vinto l’Europa League con il Chelsea e lo scudetto con la Juventus, non è che una conseguenza, una logica conseguenza.
Quello che vale, è il Sarri prima di Sarri: Francesca Muzzi lo sa, lo ha avvertito da subito con rara sensibilità giornalistica, è andata oltre la cronaca, ne ha scritto con semplicità e rigore, direi con passione. E ne ha fatto poesia, sempre si fa poesia quando si parla di amore. E se ne scrive.
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TESTIMONI INCONSAPEVOLI
“Ho imparato che l’arrampicata sugli specchi non serve a nulla e impatta contro la razionalità infantile esplodendo in mille frammenti”.
Questa breve frase, poco dopo l’incipit de “Gli insospettabili”, di Sarah Savioli, riassume in felice sintesi tutto quanto c’è da sapere su questo fantastico, e sorprendente, romanzo d’esordio della scrittrice sarda.
Una piacevole novità nel panorama delle ultime uscite editoriali, una storia dal taglio insolito, diversa, ma intensa, incisiva, profonda, reale. Un libro gentile, ma vigoroso, sostenuto, geminato.
Da leggere con l’animo lieve e sgombro da preconcetti, con semplicità e candore. E attenzione.
La frase riportata dice tutto, sancisce che solo un bambino, infatti, con l’innocenza neutrale che si riconosce ai bambini, riconduce razionalmente alla norma la capacità di comunicazione con l’altro, qualsiasi altro, quantunque diverso.
Ritenendolo d’istinto come un processo logico e naturale, e giustamente, una normalità semmai da apprendere, diffondere e rendere accessibile a tutti.
Senza stare tanto a chiedersi e a preoccuparsi del come e del perché della comparsa di tale facoltà, e soprattutto di indagare come sia possibile che sussista una tale “stranezza”.
Comunicare placidamente con un altro essere vivente, qualunque sia, tanto strano a loro non appare per niente, non se ne meravigliano per nulla, non la considerano una devianza o una follia, come invece sarebbe facilmente portato a etichettarla un adulto.
In un’ottica tanto semplice, candida ed equanime, per quanto possano essere diversi tra loro, tutti i viventi comunicano, per definizione stessa di vita, quindi l’interazione tra esseri senzienti dovrebbe scaturire spontaneamente, il minimo sindacale garantito, senza preclusioni di sorta.
La comunicazione e tutto quanto segue di conseguenza, la condivisione, l’empatia, la compartecipazione si attua senza se e senza ma.
Senza arrampicarsi sui vetri delle facili e sciocche convenzioni, che impediscono di considerare “naturale” questo tipo di ponte tra vissuti diversi, portano a temere le eventuali reazioni di quanti sono sprovvisti di tale capacità empatica, e solo per questo la respingono con prepotenza e bieca ottusità perché impossibile a priori.
S’intende in questo romanzo che la comunicazione con il diverso “diversamente vivente” di cui si parla, concerne il dialogo tra la protagonista umana e l’universo animali e piante nello specifico, ma va da sé che il concetto si estende ad ogni presunta diversità.
Anna, la protagonista, moglie devota, madre amorevole del piccolo Luca, impiegata come aiuto di una coppia d’investigatori privati, a seguito di un’accidentale diversità anatomica, un ematoma in una specifica, atavica area encefalica, ha scoperto all’improvviso la sua capacità di “comunicare” con piante e animali.
Dialoga così tranquillamente con cani, gatti, tartarughe, ficus, tigli, oleandri, e insomma tutto il creato animato che ci circonda, di cui spesso, se non sempre, siamo testimoni inconsapevoli, li notiamo cioè senza in realtà soffermarci a considerarli più di tanto, senza sapere nulla d’essenziale degli altri viventi, li diamo per scontati.
Al limite, li utilizziamo, li sfruttiamo, ne abusiamo, non altro, con tutte le pessime conseguenze del caso. Non gli portiamo rispetto, eppure vivono, esistono, assistono, sono testimoni attenti e sensibili. Senzienti e consapevoli.
Così, se in un’indagine investigativa la polizia e gli investigatori raccolgono indizi e testimonianze come da manuale, Anna interroga, ma sarebbe più esatto dire che chiede gentilmente, ricevendone pari cortesia, a quadrupedi e pennuti presenti, ai platani e alle piante in loco.
Certo, la sua qualità la differenzia, ma non è un vantaggio investigativo, poiché quanto ricava, va comunque filtrato dalla propria sensibilità: ogni vivente ha il suo idioma, sta a ciascuno comprenderlo correttamente. Talora, non è così facile.
Da questa idea di partenza, ne deriva davvero un bel libro, di grande freschezza, oserei dire vitale e sbarazzino, davvero una lieta novità nel panorama editoriale recente.
Un racconto originale e gradevole, ottimamente scritto, si legge che è un piacere, fluido, scorrevole, emoziona e indulge al sorriso, indigna e esorta alle riflessioni, anche ispide o struggenti.
È una storia di fatti e persone, un racconto poliziesco anche a tinte gialle, e di finale movimentato.
Con una particolarità che lo trasforma e lo differenzia dai testi simili, proprio per questa capacità comunicativa con il vivente di qualsiasi genere, insita nella protagonista.
Nessun potere fantastico o paranormale, ma ben altro, un requisito più sottile, una forma di concreta empatia con il vivente che ci circonda, che troppo spesso tendiamo a ignorare.
Tutto il romanzo, a mio parere, utilizza questo tema di confronto “con gli altri” come una lente d’ingrandimento, per soffermarci su quelle che sono le nostre crepe di umani.
Piante e animali sono testimoni del nostro vissuto, loro sì consapevoli dei nostri limiti e delle nostre miserie. Ci osservano, meditano sui fatti e i personaggi della storia, un suicidio “forzato” di un giovane da poco uscito dal tunnel delle tossicodipendenze, un racconto ambientato nel mondo talora ambivalente ed elusivo dei centri e delle comunità di recupero e riabilitazione dalle dipendenze “non naturali”.
Soprattutto tutto il racconto è un invito a riconsiderarci, noi persone adulte, non più, una volta per sempre, il centro del creato.
A tornare umili e in simbiosi con la natura e i nostri simili, a rifiutare l’alterigia dei cavalli di razza per accogliere l’umiltà, e la conseguente intelligenza, degli asini rivoluzionari, nel libro giacobini e rivoltosi finanche nel nome.
Tutto intorno a noi sussiste una biomassa animata assai più insigne e mirabile della nostra esistenza, e che però, pur avendone i numeri, non si pone al centro, non pecca dell’egocentrismo ed egoismo tipico degli umani.
Noi siamo testimoni inconsapevoli della sua esistenza, magari intuiamo che non è certo muta o silenziosa, è solo la nostra presunzione a spingerci a considerarci superiori e ci impedisce di comprenderne l’idioma, per interagire alla pari.
Chi ha letto i libri del neurobiologo fiorentino prof. Stefano Mancuso (“Verde brillante”, “Uomini che amano le piante”, “Plant revoluction”, e il più recente “La nazione delle piante”) comprende perfettamente quanto si afferma: ciò che consideriamo diverso, muto, inferiore, è in realtà in ogni tratto sito di parecchie spanne ben sopra il genere umano.
Il nostro atteggiamento ottuso ha conseguenze nefaste, induce a ripetere e a riportare l’identica norma di esclusione anche nei confronti dei nostri simili ritenuti diversi, per qualche motivo.
Ad accorgersene per primi di tale assurdità sono sempre i più saggi di noi, i bambini, non ancora guastati dal materialismo dell’età adulta.
Non ci si lasci fuorviare però all’apparenza, o dalla veste grafica: il libro ha una copertina simpatica e accattivante ma attenzione, non è un libro per bambini, una storia della letteratura magica e infantile con intenti pedagogici alla Harry Potter, tutt’altro.
Certo, la storia ruota anche intorno ad un bambino, Luca, un piccolo protagonista cui nulla sfugge del suo macrocosmo familiare, ne capta perfettamente pregi e difetti all’occorrenza da utilizzare ai propri fini, l’ennesima riprova che “i bambini ci guardano” come ben enunciò il compianto De Sica.
Anche gli animali e le piante ci guardano, capiscono, comprendono, sono testimoni consapevoli e affidabili del nostro agire.
I bambini non sono bambolotti immersi nel loro fantastico mondo di sogni, sono invece attenti alle nostre assurdità di adulti, sono razionali, semplici, logici, acuti, per cui considerano perfettamente preferibili e anzi auspicabili i rapporti fattivi con tutto quanto di vivente sussiste intorno a noi.
Lo stesso fanno gli animali, e le piante intorno a noi: perciò questo è un libro per tutti ma va preso con serietà, tante cose insegna soprattutto a noi “grandi”. Per esempio, che:
“Ho imparato che il fatto che una vita possa essere banale e al tempo stesso eccezionale, è qualcosa che sta negli occhi di chi guarda”.
Bambini, animali, piante, agiscono sempre secondo natura: hanno compassione per noi umani adulti, sono sodali e partecipi, si commuovono senza giudicare, sanno che se un dolore non si può alleviare, serve almeno rispettarlo, anche se è la sola cosa che puoi fare.
Ognuno a suo modo, secondo propria indole e propria natura, deve vivere la propria vita, con tutte le esperienze necessarie, come lo richiede l’esistenza, senza stare troppo a lambiccarsi il cervello.
Lo sintetizza così il saggio cane pastore Rocky:
“…Forse non sarà mai bravo a schivare uno spintone, ma le farfalle ed i fiori di primavera renderanno indelebili tutti i colori del suo cuore e gli faranno sentire meno doloroso ogni livido della vita…Si acciaccherà, ma non si romperà”.
Un bambino desidera che i parenti in visita gli rechino in omaggio un giocattolo, è naturale, com’è naturale per Otto, un cane goloso di pasticcini, soffrire di dissenteria, o per Banzai, un gatto esigente, pretendere sabbia asciutta nella propria lettiera.
Un uomo invece amministra con naturalezza solo i sacramenti dell’assurdità.
Anna dialoga con il cane Otto, con il gatto Banzai, con il ficus di casa, con i platani dei viali, con i passerotti. Il suo non è un comportamento assurdo, nemmeno un superpotere, semmai una forma estrema di sensibilità e attenzione per l’altro. Quello che manca a gran parte degli umani.
I superpoteri sono altri, altri sono i supereroi:
“…essere gentili ed avere tanta fantasia non sono poteri soprannaturali, ma qualità che per essere mantenute tutta una vita richiedono un coraggio da supereroe”.
Per questo, animali e piante sono naturalmente, loro sì, supereroi. Insospettabili.
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La gana di babbiari
Riponete i fazzoletti, ricacciate indietro la lacrimuccia di commozione; questo non è l’ultimo romanzo delle avventure di Salvo Montalbano, lo struggente saluto di Andrea Camilleri ai suoi lettori. Non è un racconto giallo o poliziesco, che dir si voglia, scritto a tempo debito ad hoc dallo scrittore siciliano, ormai avanti con gli anni, per chiudere in qualche modo, possibilmente in bellezza, il ciclo dei racconti con protagonista il noto commissario di Vigata.
Preparando per tempo l’epilogo del suo personaggio più famoso, e accordandosi perché tale racconto fosse edito dopo la sua scomparsa, che tra l’altro avverrà oltre un decennio dopo la prima stesura del libro.
Con questo “Riccardino”, non a caso un titolo ironico, un diminutivo dissacrante e dal sapore vagamente canzonatorio, Camilleri ha voluto invece rimarcare ben altro, la sua incredibile e vitalissima “gana di babbiari”, la voglia di scherzare, intesa come leggerezza d’animo, qualità, a suo modo di vedere, essenziale per affrontare nel modo dovuto le cose dell’esistenza.
Nessun addio, nessuna fine, lo scrittore siciliano ha chiaramente lasciato intendere che “Montalbano sono” non sparirà mai, rimarrà sempre vivo e ben presente nell’immaginario del “suo” lettore.
Quel lettore fedele e affezionato che segue con simpatia, interesse, curiosità e letizia le gesta del poliziotto siciliano dal suo primo apparire, e che di lui tutto sa e tutto conosce, indole, amori, avventure, preferenze gastronomiche, espressioni verbali ricorrenti, sia del personaggio in sè sia dei suoi compari di vita e di professione.
Lettori affezionati che s’immergono con perfetta dimestichezza e comprensione nella lingua “vigatese”, metà siciliana e metà inventata dall’Autore, anche se risultano putacaso nativi del sud Tirolo.
Magari degustando, durante la lettura, uno squisito “cannoli alla ricotta”, isolandosi per bene per evitare una qualsiasi “ camurria” o “rotture di cabasisi” durante la lettura.
Salvo Montalbano è uno di quei personaggi, dunque, un James Bond o un Hercule Poirot che non scomparirà mai, sarà sempre presente nell’immaginario dei lettori ogni qualvolta sarà riletto uno qualunque dei classici volumetti dalla copertina blu a lui dedicati.
Si badi bene, il personaggio, non la persona.
Il personaggio vive per sempre, ogni volta che si rievoca con il proprio immaginario, la persona invece ha necessariamente un termine.
“Sa, ho letto i libri che sono stati scritti su di lei e ho visto anche qualche puntata in televisione. Non male. Ma una cosa è un personaggio e una cosa è una persona. A Montalbano vinni l’impulso di susirisi e annare ad abbrazzarlo. Ma non dissi nenti, non si cataminò.”
Salvo Montalbano personaggio nulla deve ad Andrea Camilleri persona, il quale per sua stessa ammissione sempre ha iniziato a scrivere di lui senza mai portare a termine la trama secondo le sue intenzioni, poiché il personaggio è speciale, è una di quelle creature rarissime ma che esistono più spesso di quello che si crede, è dall’inizio della sua storia che gli prende la mano, al suo creatore.
Gli prende la mano, ma senza prepotenza, non è una ribellione ma con convinzione, gentile ma deciso, ha finito per prevaricare sull’Autore, a vivere di motu proprio, scegliendo da se il modo di essere, di divenire e di gestire le sue storie.
In questo modo facendo la fortuna del suo Autore, molto più che gli altri romanzi, alcuni davvero valenti di storia, di civismo e di costume, a firma di Camilleri.
Meno che mai il personaggio Montalbano ha qualcosa a che fare con il simpatico attore che lo interpreta nelle fortunate fiction televisive; nemmeno quello appartiene al personaggio e all’Autore, semmai è un prodotto delle sceneggiature e all’Autore deve solo un certo input iniziale, e non altro.
Salvo Montalbano è molto di più, e come tale non finisce, non è possibile che termini il suo ciclo.
È un personaggio stupendo, l’emblema di una regione altrettanto stupenda, la Sicilia, è il campione della gente per bene, la stragrande maggioranza, che popola una terra ricchissima di Storia, di Cultura, di Bellezza, di personaggi altrettanto stupendi ed eterni come Pirandello, Sciascia, Verga, Tomasi di Lampedusa, lo stesso Camilleri.
Tutte le cose belle dell’esistenza hanno un termine, certamente; alcune di esse sono ripetibili, altre invece sono eterne. Salvo Montalbano fa parte di queste ultime.
La Sicilia è una regione stupenda, e lo è perché imperfetta, nella sua unicità, è una terra bella rovinata da pochi laidi:
“E come ti sbagli, in questa nostra bella terra? Vidi, ma non arriconosci. Sei prisenti, ma non puoi pricisari. Hai viduto, ma confuso, pirchì ti sei scordato a casa l’occhiali….E come ti sbagli in questa nostra bella terra?”
La riscatta questa terra chi resiste, chi resta, chi la difende, chi la onora contro tutto e contro tutti, chi ne promulga i valori di onestà, lealtà, correttezza, amore per la legge e per la cultura.
Di questi valori Andrea Camilleri è il cantore, e Salvo Montalbano ne è l’emblema, da qui l’eternità del personaggio.
Andrea Camilleri scrisse per tempo “Riccardino”, perché in qualche modo i lettori devono sapere come mai non sono state edite altre avventure e perchè quelle che ci sono bastano e avanzano per farlo vivere. Allora imbastisce una storia, plasmata su quelle classiche trascorse, con Montalbano svegliato alle prime albe dal suo sonno, non dai poliziotti che lo avvisano di un delitto, stavolta, ma dalla telefonata di tal Riccardino. Lo stesso sulla cui “ ammazzatina” si troverà a indagare.
Indaga come sempre, sulla falsariga delle sue precedenti avventure, e però…con qualche forzatura, qua e là. Per esempio, non trovasi in loco perché dai suoceri il vicecommissario femminaro Domenico “Mimì” Augello, quasi come se nessuno dovesse far ombra al gran capo, lasciandogli scena aperta. Stavolta la mano che “tuppia” sull’uscio dell’ufficio, quella catastrofica dell’agente scelto Agatino Catarella, è più disastrosa del solito, devastando porta e architrave, proprio un finale con il botto, diremmo. L’ispettore Giuseppe Fazio, sempre con il pizzino anagrafico a portata di mano, lo dice chiaro al suo superiore: dottore non la riconosco più, perche a lei gli è venuta a mancari la “gana”, la voglia, l’entusiasmo, il fuoco interno per fare questo mestiere.
Il reparto “pollaio” del commissariato, gli agenti Gallo e Galluzzo, compare solo per nominata.
Salvo Montalbano stavolta da Enzo, il suo ristoratore prediletto, ci passa pochissimo, gli si è smorzato l’appetito, anche se qua e là compare ancora la pasta n’casciata, la caponata, il provolone ragusano, le triglie, insomma i piatti che preferisce. Ma di Adelina neanche l’ombra; Lidia Burlando, poi…da Boccadasse vorrebbe portarlo in viaggio in Sud Africa o a in Brasile, ma figuriamoci, lo vedete voi il nostro eroe vagare in quei lidi?
Tutto concorre a farci credere che siamo davvero agli sgoccioli della serie, al gran finale, ci prepariamo tremebondi al “modo” in cui Montalbano chiuderà la sua esistenza, tutto sta a vedere come l’Autore intende porre fine alla saga del suo personaggio più famoso.
Sullo sfondo, come in altre indagini precedenti, agiscono i consueti poteri forti, quelli della politica, della mafia, degli affaristi, dei trafficanti, finanche quello temporale della Chiesa, con cui spesso Montalbano si è scontrato; viene quindi naturale pensare che il commissario è giunto al capolinea.
I poteri forti potrebbero eliminarlo in maniera pulita…magari facendo approvare una legge ad personam, data l’epoca in cui è ambientata la storia, che lo costringa al pensionamento coatto.
Peggio, potrebbero mandargli a casa un lurido killer, un vero topo di fogna, un nativo delle chiaviche della malavita mafiosa che lo assassina, elevando il nostro valoroso al rango di un martire della giustizia, alla Falcone e Borsellino.
Niente di così banale. Ancora una volta, il personaggio Montalbano prende la mano all’Autore Camilleri: si finisce “pigliato dai Turchi”, a sorpresa, spiazzati.
Santo Montalbano è un siciliano vero: schietto, leale, intelligente, giusto.
Come tutte le persone con queste caratteristiche, è anche brioso, divertente, faceto: ha la gana di babbiari, come il suo autore Andrea Camilleri, di cui è copia conforme.
Quindi, semplicemente, si cancella. Fino alla prossima rilettura.
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ANCHE DA QUESTA PARTE ESISTONO I SOGNI
La cronaca spicciola nostrana certe notizie le riporta con frequenza pressoché quotidiana: sono i resoconti crudeli e agghiaccianti dei viaggi di poveri migranti disperati, in fuga dalla loro terra per i motivi più vari, ma sempre tragici, la guerra, le persecuzioni, più spesso la fame e la miseria nera.
Tra sofferenze inaudite, a rischio altissimo di perdere la vita, per di più pagando il “trasporto” alla malavita con prezzi esorbitanti in denaro, riscatti, estorsioni e violenze di ogni genere.
La motivazione che li spinge inesorabilmente ad accettare comunque ogni tipo di rischio, di pericolo e di abiezione umana però, nonostante le scarsissime, quasi nulle probabilità di successo, devono essere ben forte. Assolutamente inimmaginabile per noi privilegiati, che queste cose non le viviamo né le sperimenteremo mai in prima persona, e ci limitiamo a leggerne, magari scuotendo la testa in segno di disapprovazione.
Gli sbarchi d’immigrati clandestini continuano con flusso pressoché inarrestabile, oltretutto nessuno gradisce accoglierli.
Giungono più spesso via mare su barconi fatiscenti, causa di frequenti naufragi con relativa tragica fine delle povere vittime miseramente trasportate, colpevoli solo di essere spinte dalla fame e dalla disperazione. Moltissimi di loro spariscono durante la traversata, nell’indifferenza generale degli stessi sventurati compagni di viaggio, troppi di loro neanche arrivano a vedere perciò il profilo dell’agognata “terra promessa”, qualunque essa sia, sempre meglio del luogo di partenza.
Le organizzazioni criminali su questa disperazione prosperano, si spartiscono in competizione tra loro il nuovo business della tratta dei nuovi schiavi, si impongono con abusi, violenze, assassinii e crudeltà infinite senza riguardo per nessuno, meno che mai donne e bambini, che sono anzi le vittime predilette, quelle più ricercate per ovvi scopi di violenze e sfruttamento sessuale.
Non solo: talora i continui respingimenti delle autorità “istituzionali” vanificano tutti gli immani sacrifici fatti per partire e arrivare, come i porti chiusi, l’ostracismo “legale”, il rimpatrio coatto, e poi ancora gli inganni, le delusioni, i tradimenti, le denunce, le delazioni, le continue paure.
Eppure tutti questi viaggi, malgrado siano noti i rischi e le abiezioni, continuano ad avvenire quotidianamente, peraltro in misura crescente.
Perché il pane amaro conquistato a questo prezzo, sa di sale, è vero, è salato come il mare nemico appena attraversato, è scarso, incerto, aspro, duro, e ha in proporzione un costo esorbitante, brucia le labbra, lo stomaco, l’anima, ma è comunque pane. Meglio del nulla assoluto.
Il pane riempie e ti concede almeno un attimo di pausa, è una vera e propria panacea oppiacea.
Questa pausa ti permette di sognare, credere con tutto te stesso che da questa parte del mare esistono davvero i sogni, e sono realizzabili, è veramente possibile renderli concreti.
È tutto quanto ti resta, quando sei un migrante come questi, ma è già tanto. Tantissimo. Tutto.
Di questo ci parla nel suo libro duro e crudele, spietato quanto reale, Jeanine Cummins, racconta del sale. Il sale che secca l’esistenza di tutti i migranti di questo mondo. Già, i migranti:
“Nella peggiore delle ipotesi li percepiamo come una massa di invasori e di criminali che prosciugano le nostre risorse; nella migliore, come una folla di poveri senza volto con la carnagione scura, che chiedono aiuto a gran voce bussando alle nostre porte. Di rado pensiamo a loro come a esseri umani uguali a noi.”
Jeanine Cummins ne “Il sale della terra” ci parla semplicemente anche di questo sale che manca nella testa degli uomini.
Nello specifico, racconta di un altro tipo di sale, non quello del mare, ma quello della terra.
Non di un suolo qualunque, ma della terra più crudele e disgraziata del pianeta, a pari merito con le dune del Sahara: l’area desertica che separa il Messico dal sud degli “Estados Unidos”.
Sono le tremende, climaticamente infernali, tratte percorse da altrettanto sfortunati migranti, quelli del Sud povero e disastrato dell’America. Messico, Honduras, Guatemala, e altri ancora.
Costoro cercano ugualmente non l’America, non ne hanno bisogno, viaggiano per entrare negli opulenti “Estados Unidos”, certo non la chiamano America, perché giustamente sono già essi stessi nativi Americani, cercano non l’identità, ma il pane, o le analoghe “tortillas” che dir si voglia, ben sapendo con ampio anticipo che avranno sapore di sale, ma è comunque un gusto di qualcosa, non del nulla assoluto. Al pari dei loro analoghi nel Mediterraneo, costoro provano dunque a qualunque costo a passare il confine verso il loro personale giardino dell’Eden, chiuso qui dai muri e sorvegliati non da regolari, e legali, milizie, ma da biechi, violenti e crudeli vigilantes al servizio dei narcotrafficanti locali. Lo fanno nonostante i rischi, le violenze, le morti e le mutilazioni, pagando ingenti somme ai “cartelli” della droga e alle varie organizzazioni fuorilegge che spadroneggiano in quei territori, anche tra la milizia e i presunti appartenenti alle forze dell’ordine, spesso i primi a comportarsi assai peggio dei malavitosi per definizione.
Non esiste alternativa al pane, qualunque cosa voglia significare il termine.
Solo che, in questo romanzo, Jeanine Cummins fa assai di più: descrive certo la difficile situazione del sud del continente americano, denuncia l’infiltrazione a ogni livello civile degli onnipotenti cartelli della droga, svela come dietro gli orpelli e gli splendori dei paradisi turistici come Acapulco si trovi tutto un mondo di abiezioni, sopraffazioni, sfruttamenti, violenze, crudeltà, e la profonda disperazione dei nativi. Lo fa attraverso gli occhi di comuni ”persone per bene”, piccoli borghesi pertanto non all’ultimo livello del sottoproletariato, non disperati disoccupati e senza dimora e prospettive di vita, ma cittadini comunissimi con casa, lavoro, famiglia, affetti, progetti e gioie quotidiane. Ci fa vivere perciò l’orrore visto con i nostri stessi occhi non adusi a queste scene, le fa “sentire” addosso come se capitassero a noi. La Cummins non ha scritto una cronaca o un reportage, nemmeno un romanzo di denuncia in senso stretto, ma un racconto su misura di chiunque, con una prosa semplice, senza giri di parole, ci fa vivere eventi reali e di pubblico dominio rendendoci diretti protagonisti. Un buon libro, ben scritto, documentato, corposo, di valore.
Un tipo di narrativa che ti induce a riflettere, e quindi ben venga.
Il romanzo dice, in definitiva come sarebbe potuto essere disperata la nostra esistenza, se solo avessimo avuto un diverso destino di nascita. Tutto qui, e non è poco, perciò vale il suo prezzo
Lydia, la protagonista del romanzo, è una normale madre di famiglia, una donna colta, un’intellettuale che gestisce una piccola libreria ad Acapulco, con il marito Sebastian, giornalista tra i più quotati e impegnati in battaglie civili, e un figlio di otto anni, Luca, un bambino vivace e intelligente assai più della media dei suoi coetanei.
Una vita tranquilla, uno scorrere lieto dell’esistenza; sennonché Sebastian, che è un esperto conoscitore del fenomeno dei “cartelli” della droga, e come tale soggetto a minacce cui però mai è seguita reale volontà di vendetta, pubblica uno scomodo articolo su Javier, il nuovo “jefe”, il capo emergente del potente e crudele “cartello”, detto dei “Jardineros”, per la simpatica usanza di fare a fette le loro vittime con attrezzi da giardino, falci, machete e simili.
La vendetta dello jefe non tarda a giungere, e Sebastian e l’intera famiglia di sedici persone, riunite per un evento familiare, sono massacrati dai sicari.
Si salvano solo Lydia e il piccolo Luca: la loro unica speranza di salvezza è quindi quella di raggiungere gli Stati Uniti. Poiché tutte le linee di comunicazioni stradali, aeree e ferroviarie sono sotto il controllo dei malavitosi, l’unica è seguire le vie dell’emigrazione clandestina, confondendosi nella folla dei disperati, e disgraziati, che nulla hanno da perdere nell’inseguire il loro sogno, nemmeno la loro miserabile esistenza, a volte nulla più che un inutile e doloroso orpello.
La donna non è una stupida o una sprovveduta, è una persona colta e istruita, è una libraia, lo sa che “Viaggiare con i libri costa meno dell’aereo”. Come sa che il viaggio che si accinge a fare richiede saltare sui treni in corsa a rischio di finire sotto le ruote, viaggiare sui tetti dei vagoni, guardarsi dagli altri migranti, dai malavitosi, dalle milizie che solo di nome rappresentano l’ordine, ma sono al servizio dei narcos:
“Gli uomini sono vestiti con le tute mimetiche e hanno così tante armi addosso che una persona ignara di tutto darebbe per scontato che fanno parte di un esercito regolare.”
È un continuo e stressante, per una comune madre di famiglia con un bambino al seguito, sfuggire alle violenze di ogni genere da parte di chiunque, pagare con tutti i loro averi un’indispensabile e ambigua guida per attraversare il deserto, soffrire la fame, la sete, la paura, il freddo, il caldo, arrivare sporchi e distrutti alla meta, e rischiare di essere rispediti indietro…anche dopo anni di soggiorno negli Stati Uniti.
Questo è il racconto del viaggio in un crescendo ripido, faticoso, infernale di Lydia e di Luca, delle giovanissime e stupende Soledad e Rebecca.
Di Lorenzo, di Slim, di David, e di Beto che soffre di asma, di Marisol, e di Nicolas che studia all’università.
Del coyote, la guida del deserto, che manco a farlo apposta si chiama Chacal, e di chiunque di noi che, per ventura o per caso o perché così hanno deciso gli dei, si fosse trovato al loro posto.
Un racconto di sofferenza, che ci coinvolge tutti, che ci deve coinvolgere tutti, per il solo fatto di essere umani, se vogliamo continuare a dirci umani.
“È così grande la sofferenza. È esponenziale. Ogni morte violenta si amplifica di cento volte, di mille volte. Tutti…conoscono una porzione grande o piccola di quel dolore…Ogni giorno un orrore nuovo, e quando finisce, subentra quel senso di distacco surreale. Una specie di incredulità verso quanto hanno appena sopportato. La mente ha i poteri magici. Gli esseri umani hanno i poteri magici”. Sì, gli esseri umani hanno i poteri magici.
Se solo lo vogliono, possono dire: “Tambien de este lado hay suenos”.
Anche da questa parte esistono i sogni.
Quando e se gli esseri umani si ricordino di essere tali.
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A tinte azzurre
“L’enigma della camera 622” segna il gran ritorno in libreria di Joel Dicker, giovane autore tra l’altro del fortunato “La verità sul caso Harry Quebert”.
Dati i precedenti, dovremmo indicare lo scrittore svizzero come un autore di gialli sui generis, un romanziere che a modo suo, in verità anche nuovo, e diverso dal consueto, si diletta a costruire comunque gradevoli enigmi e piacevoli misteri irrisolti, a uso dello svago librario del suo lettore. Con tutti i cliché possibili del genere: viene già nelle prime pagine perpetrato un delitto, quasi sempre il più abietto tra i reati, un omicidio; non si giunge a soluzione immediata data l’apparente inspiegabilità dell’evento occorso; qualcuno, non necessariamente un funzionario delle forze dell’ordine a tal scopo preposto, indaga accuratamente.
In un modo o nell’altro s’individuano possibili colpevoli, malgrado difficoltà e depistaggi, grazie all’acume dell’investigatore di turno: quindi, scoperta del movente, colpo di scena finale con spiegazione a sorpresa dell’esatto svolgimento del crimine, le sue motivazioni più o meno tanto occulte quanto banali, l’individuazione del sicuro colpevole che viene immancabilmente assicurato alla giustizia.
La fortuna di Joel Dicker, e il suo talento, consistono nel fatto che non fa niente di tutto questo.
I romanzi di Dicker non hanno nulla a che fare con i puzzle logici e appassionanti alla Agatha Christie, la Regina del romanzo giallo propriamente detto.
Differiscono anche dai pur valenti polizieschi nostrani, ciascuno a suo modo originali e gradevoli, che vedono protagonisti vicequestori che spinellano beatamente, squadre di poliziotti “bastardi” raccolti qua e là tra gli scarti dei commissariati cittadini, avvocati penalisti, investigatori privati vari, sostituti procuratori improbabili che scorrazzano in tacchi a spillo tra i sassi di Matera.
I libri di Dicker nemmeno richiamano i police procedural americani, o i mystery sensu strictu, o i delitti locali all’italiana, tanto di moda oggi nelle fiction televisive, dove ad indagare spesso e volentieri con esito felice sono personaggi che poco hanno a che fare, per professione nativa, con l’indagine e il delitto, come per esempio parroci di provincia, professoresse di liceo, specializzande di medicina legale, e chi ne ha più ne metta.
Joel Dicker sfugge a una qualsiasi superficiale etichettatura, sopra ogni altra cosa egli è semplicemente uno scrittore, un bravo romanziere, uno che scrive libri per il piacere stesso di scrivere, prima di ogni altra cosa.
Può piacere o no, ma scrive varie cose buone, e le sa scrivere bene.
Si tratta di un giovane encomiabile per un qualsiasi lettore, giacché egli scrive principalmente per se stesso, per un proprio bisogno esistenziale; perciò scrive bene e meglio, giunge facilmente al cuore del lettore, lo emoziona, come ogni lettore desidera essere deliziato tutte le volte che sfoglia le pagine di un libro, e come ogni bravo scrittore deve saper fare.
Dicker non fa fatica, si applica, lavora, scrive, cancella, riscrive, non si stacca dalla tastiera, trascura tutto per scrivere, proprio perché per lui non è una fatica, non è un lavoro, è amore per la scrittura.
Quando fai qualcosa che ti piace, non stai lavorando, stai seguendo la tua passione, e la passione non concede requie, è vero, ma provvede essa stessa a ricaricarti. Un circolo chiuso, un privilegio.
Joel Dicker è un bravo artigiano della scrittura, s’industria alacremente, ha talento, e il prodotto del suo talento ha un valore ancora maggiore perché costruito in giovane età.
Lo dichiara lui stesso, sic et simpliciter:
“…una storia prende le mosse innanzitutto da una voglia: quella di scrivere. Una voglia che si impadronisce di te e che niente può ostacolare, una voglia che ti allontana da tutto…la malattia degli scrittori…Puoi avere la trama migliore del mondo, ma se non hai voglia di scrivere, non concluderai niente.”
Joel Dicker ama scrivere, e allora scrive. Lo ripeto non piace a tutti, ma scrive piacevolmente.
Scrive di tutto: scrive di sé stesso, letteralmente, e manco a farlo apposta la sua partner nel romanzo non lo chiama mai con il suo nome, ma semplicemente: “Scrittore”, come volevasi dimostrare.
Scrive della sua vita, della sua arte, scrive di amori e di editori, d’inizi e di fiaschi, di città, dove è nato e dove è stato. Di persone cui è grato, di donne di cui si è innamorato, e da cui è stato piantato.
Parla di viaggi, di alberghi, di camere di albergo con numerazione insolita; descrive fatti passati del tempo e li attualizza con gli eventi correnti, inventa personaggi, e ne segue la sorte, gli intrecci, la crescita, gli sviluppi, le coincidenze.
Romanza su un delitto irrisolto, e allora il romanzo si tinge di giallo; s’incanta in una lunga e travagliata storia d’amore, e allora il libro assume tonalità rosa.
Descrive vite disastrate, corrose dal bisogno, dalla povertà, dalla miseria e che anelano condizioni di vita migliori, quasi una rivincita sulle ristrettezze, i disagi e le privazioni dell’esistenza; allora possiamo dire che questi suoi capitoli sono pervasi dal verde della speranza.
Enuncia fatti misteriosi, nascosti, celati agli occhi del pubblico: in questo suo “Enigma” ci sono Servizi segreti, insospettabili agenti sotto copertura, intrighi politici e diplomatici; il mondo della grande finanza e dell’egemonia mondiale delle banche svizzere, con i giochi di potere che sempre si scatenano attorno alle grandi fortune, delitti e segreti, persone di mondo e sordidi personaggi privi di ogni scrupolo, un noir vero e proprio quindi.
Direi che se una tonalità va scelta per questo tomo, in definitiva, è l’azzurro quello più appropriato, come rimanda la copertina del libro: azzurro come il cielo, perché quella di Dicker è una bella storia, lunga e avvincente, una storia grande come il cielo, e bella come quello.
Un grande palcoscenico dove si alternano mimi e saltimbanchi, valenti attori ed esperti capocomici, truccatori, trucchi e truccati, nobili russi, sapienti analisti di bilanci e medici analisti della psiche umana, vecchi ebrei, maschere greche, trucchi alla Diabolik e alla Fantomas, governanti innamorate del padrone di casa, banchieri disposti a folli baratti e baratti realizzati con un misto di magia e possessione diabolica, perché in fondo la vita è un’illusione, una maschera, un travestimento, un gioco di prestigio:
“Quando si vuole veramente credere a qualcosa, si vede solo quello che si vuole vedere”.
Ancora, si narra di avventure, di pistole, di passioni, di anelli scomparsi, di cime innevate di neve e acque turchine delle isole greche.
Su tutto, aleggia la colonna sonora delle musiche di Wagner, o di un vecchio carillon a molla.
Più che le storie che scorrono sul palcoscenico, Dicker eccelle nel dietro le quinte; si dilunga sugli antefatti, sui trascorsi, sul passato per comprendere il presente, perciò il romanzo si rinnova continuamente, i racconti si presentano con altra veste, gli intrecci si disfano e si riformano con trame nuove e si percorrono risvolti inesplorati, tutto si può dire della sua Storia, mai che annoia.
Soprattutto, c’è tutto l’originalità dello scrittore Dicker in questo suo libro, un giallo dove la vittima assassinata, si badi, la vittima, non l’assassino, si scopre chi è solo dopo due terzi del libro.
Quale giallo comincia così, identifica la vittima con tanto ritardo?
Questo non è un giallo di Joel Dicker, è un romanzo di Joel Dicker, che si tuffa a corpo morto nella scrittura:
“Quando mi concentro sulla storia, vengo completamente assorbito. È come se ci fossi anche io nel romanzo, all’interno dello scenario. E ci sono tutti quei personaggi attorno a me…”
Direi inoltre che l’”Enigma della camera 622” è anche una bella storia d’amore, il numero neanche è casuale, magari richiama una data o un orario con un significato affettivo per i protagonisti; è una bella, lunga e duratura storia sentimentale, di quelle rare, uniche, speciali, eppure contrastate e controverse, perché:
“…Facevamo fiorire, ognuno per conto proprio, il nostro piccolo giardino segreto, ma siamo stati incapaci di coltivare un orto insieme”.
Una storia d’amore grande in tutti i sensi, tra un uomo e una donna, ma anche tra padre e figlio, tra docente e discente, tra chi non ha figli e chi non ha identità, tra chiunque abbia un cuore e sappia amare:
“Cosa siamo capaci di fare per difendere le persone che amiamo? È da questo che si misura il senso della nostra vita.”
Siamo grati a Joel Dicker per questo suo libro: ci ha donato un bel romanzo, e non è poco.
“La cosa più importante, in fondo, non è come va a finire, ma in che modo ne riempiamo le pagine.”
Esattamente come diceva Daniel Pennac, la vita è: “Come un romanzo”.
Lo afferma, uguale, anche Joel Dicker.
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PORTATRICI D’AMORE
Questo è un romanzo pregevole, ma soprattutto lodevole, scritto da una donna, e che parla di donne, e che donne: le “Portatrici”, non donne di straordinarie virtù, ma donne eccezionali per la semplice e sola piena appartenenza al genere, in tutti i sensi, pratici e sentimentali, donne di braccia e di spirito, sempre e comunque.
La coerenza è più spesso un attributo del genere femminile, delle Portatrici sicuramente.
Donne compiute, complete, esaurienti, esaustive: Dio, se davvero esiste, deve essere Donna.
Con “Fiori di roccia” Ilaria Tuti ha sospeso crediamo e ci auguriamo solo pro tempore, i temi e i personaggi di successo dei suoi testi precedenti, con coraggio inusuale per un autore, in verità.
Ha qui voluto altro, si è spesa magistralmente a ricordare le figure di donne, spesso misconosciute a molti, figure realmente esistite, donne meritevoli di ogni elogio e di ogni onore, rievocate con precisione e rigore storico, con struggente intensità, incisività nella descrizione, espressività ed efficacia narrativa.
Un libro scritto bene, curato nei minimi particolari, frutto evidente di un lungo lavoro di ricerca e di cesello, elaborato con diligenza e fervore, con forza e pazienza, con passione e patema, che sono poi tutti i sentimenti che caratterizzano la protagonista e le sue compagne, quasi che Ilaria Tuti abbia letteralmente trasferito, nel suo scrivere, l’intimo dei suoi personaggi, creati sullo stampo di donne realmente esistite.
Donne che scelsero di essere libere. E lo fecero in tempi non sospetti, e poco permissivi, quelli della Prima guerra mondiale sul fronte italiano della Carnia.
Venendo meno a sé stesse, per gli stereotipi del tempo, e pagandone un caro prezzo.
Lo dice chiaro la protagonista, la giovane Agata Primus:
“Ho scelto di essere libera.
Libera da questa guerra, che altri hanno deciso per noi.
Libera dalla gabbia di un confine, che non ho tracciato io.
Libera da un odio che non mi appartiene e dalla palude del sospetto.
Quando tutto attorno a me era morte, io ho scelto la speranza.”
Agata Primus è nata e vive da sempre nell’alto Friuli, sulle Alpi Carniche, è una giovane, come le sue coetanee, tipica dei luoghi, non ha assolutamente vita facile, tra fame, stenti, miserie, date le condizioni dell’epoca, ma ha animo e corpo sodi, avvezzi alla fatica e al sacrificio richiesto dall’esistenza, lo accetta e ne sa sorridere.
Le donne di quei luoghi sono Donne come Dio comanda, il solo modo di sopravvivere; e Agata è il campione maggiormente esemplificativo, scolpita nelle rocce della Carnia, è tosta e decisa, risolta e determinata, senza che queste sue caratteristiche sminuiscano in qualche modo la propria essenza di femminilità.
Agata è figlia dei tempi e dei luoghi; la guerra infuria, l’esercito austro ungarico superiore in tutto preme sulle roccheforti alpine per l’imminente invasione, e l’Esercito Italiano, nella persona dei gloriosi soldati originari del posto, gli Alpini, resistono strenuamente per come e quanto possono, data l’inadeguatezza del nostro Comando Generale, e la scarsità di mezzi, approvvigionamenti e vie di rifornimento.
Orfana di madre, educata con semplicità e determinazione al rispetto di pochi elementari valori di vita, la giovane donna si occupa del padre al termine della propria esistenza, e svolge il suo compito non come dovere ma appunto come valore, come impegno che reca sacralità all’esistenza propria e di chiunque, esattamente come dovrebbe essere: “…nell’inverno della vita, sacra è la presenza che si prende cura della dignità umana”
Tanto sono genuini e di valore i suoi principi, che sono gli unici che le danno modo di resistere alle lusinghe e alle sgradite attenzioni di Francesco, lo stalker locale, imboscato e malsano: “Riconosco che cosa mi disturba di Francesco: l’essere estraneo alla fatica, a quella lotta per la sopravvivenza, una lingua che lui non ha mai dovuto imparare.”
Una lingua che Agata e le sue compagne Lucia, Viola, Maria, Caterina, e altre ancora, conoscono benissimo; le Portatrici, e solo loro, sono poliglotte quando si tratta di capire e immedesimarsi completamente nelle necessità, negli obblighi e nelle fatiche del difficile vivere quotidiano.
Perciò, quando il comando militare italiano si rende conto che la guerra sulle più ardite vette alpine non può nemmeno iniziare senza un minimo di trasporti di tutto quanto serve in alta quota, per sentieri inaccessibili finanche ad asini e muli, ecco spuntare l’idea di” reclutare” le ragazze dei luoghi.
A pagamento, certo, poco più che simbolico, ma le giovani si prestano senza discutere, nemmeno per senso di dovere o malinteso amor patrio, esclusivamente per spirito tutto femminile di umana compartecipazione, vogliono condividere con i soldati i loro sforzi in nome di un valore di libertà e unione tra simili che riconoscono reale e non demagogico, o assurdo e fittizio ideale.
Gioco forza la mano d’opera femminile è l’unica forza rimasta non impiegata come combattente, non ancora almeno, e s’impiega perciò senza ulteriore indugio perché si carichino sulle spalle, nelle loro caratteristiche grandi gerle di robusti vimini, di materiali di ogni tipo, armi, viveri, munizioni, medicine. Per poi trasportarle sulla schiena, a piedi e per ore, con una fatica bestiale, con le cinghie che segano la carne della schiena, seguendo percorsi scoscesi e inaccessibili, noti solo alle native dei luoghi, in ogni condizione climatica, sotto il tiro dei “diavoli bianchi”, i cecchini nemici ben mimetizzati nella neve data la loro tuta mimetica.
Non solo; ma nel percorso inverso, continuano a portare pesi: quelli dei panni e delle cose dei soldati, perché con premura tutta femminile si offrono di lavarli o accomodarli per rendere in qualche modo maggiormente confortevole il rischioso soggiorno al fronte dei loro” ragazzi”.
Anche di altri pesi si caricano nella discesa a valle, questi molto più sgradevoli ma effettuati con pari cure e affettuosa premura e sollecitudine, il trasporto dei morti, dei feriti, e degli oggetti e dei ricordi da riconsegnare alle famiglie di quelli nemmeno più integri perché smembrati dagli esplosivi.
Un simile lavoro, svolto con dignità, sollecitudine, efficacia vale alle ragazze il rispetto del capitano comandante e dei soldati tutti per le “Portatrici”.
I rudi uomini temprati dagli orrori della guerra sono immensamente grati a coloro che sono le uniche a ricordargli che la vita non è, non può essere, solo un orrore continuo.
Imparano a rispettare, ad ammirare incondizionatamente, se non ad amare, queste giovani che letteralmente rappresentano un alito di vita, un colore gaio, un fiore tra quelle rocce intrise dal sangue dei caduti; e le Portatrici lo sono per davvero fiori, sono i fiori di roccia, gli unici che in quei luoghi possono crescere, e crescono, gentili, amabili, stellari, in una parola femminili: le stelle alpine.
Vanno su e giù sulle vette, fra trincee e camminamenti, i piedi stretti nelle loro caratteristiche “scarpetz” fatte di strati di stoffa, isolanti e silenziose, da loro stesse cucite, magari durante i loro viaggi, cosicché le mani non restino inoperose.
Fabbricate anche a uso degli stessi soldati, perché possano sorprendere il nemico in silenzio.
Sono incredibilmente femminili, queste ragazze, e come donne s’innamorano, chi del capitano, chi di qualche alpino che suscita in loro un dolce sentimento, e per quest’amore magari si carica di munizioni pesantissime perché il ragazzo interessato abbia un motivo in più per attenzionarla.
Donne così non possono che essere ammirate finanche dallo stesso nemico: italiani e austriaci si ritrovano perciò uniti e concordi almeno in una cosa, nella stima e nel rispetto dovuti alle “Dar Trogarinnen”, Le Portatrici.
Le Portatrici portano tutto, ma soprattutto se stesse, come dire, portano Amore, il vero amore è portato sempre e solo, quando serve, da mani di Donna.
Non donne eccezionali, ma Donne nel senso più completo, universale, della parola: capaci di fatica, di sforzi immaginabili, di travagli inenarrabili, anche di usare un fucile come e meglio di un uomo, di scovare e sparare ad un “diavolo bianco”
E con pari misura sono Donne, sanno amare e innamorarsi, affezionarsi e prediligere le persone e non le nazionalità, apprezzare e voler bene alle cose della vita, sotto ogni cielo, libere di essere quello che meglio sanno essere: Donne.
Hanno ragione loro, hanno sempre ragione le donne come le Portatrici.
Decenni dopo, negli stessi luoghi, le rocce si polverizzano di nuovo, ma non per le bombe degli uomini, stavolta, ma per una bomba di Natura, un terremoto, l’immane sisma in Friuli del 1976.
E si avverrà quanto le Portatrici decenni prima avevano già compreso, ben più di tanti altri:
“L’esercito austriaco ha violato diversi trattati per giungere qui a soccorrere il Friuli in ginocchio.
È un invasore pacifico, che aiuta a sollevare macerie e a ricostruire, invece di distruggere.”
Tutto quanto descritto è realmente avvenuto, e non inventato di sana pianta.
Sono esistite davvero queste insolite trasportatrici su roccia, veri e propri corrieri delle alpi, con la loro Storia, ancora poca nota al grande pubblico, etichettate come “Portatrici”.
Ilaria Tuti ha il merito notevole di questa rievocazione, ne ha tratto un gran libro, bello, emozionante, da cui è difficile staccarsi, l’espressione giusta è carezzevole, ti tiene letteralmente inchiodato alla pagina accarezzandoti il cuore con la leggiadria di una piuma, ma ti accorgi poi che piuma non è, è un fiore, semplicissimo e proprio per questo tenace.
“Fiori di roccia” piace, è delizioso e accogliente, commovente e accorato, toccante, scorre fluido, i capitoli finali sono una continua emozione struggente a rotta di collo, un fluire rapido di un fiume in piena che scorre tumultuoso tra le rocce della Carnia, alimentato a dismisura dai ghiacciai eterni, in un susseguirsi di rapide e cascate, fra rocce e strette gole.
Quale sia il carattere che permea tutto il testo e rende il romanzo fine ed elevato, sta in una sola parola, l’ultima vergata da Ilaria Tuti, e per lei da Agata Primus, letteralmente l’ultimo vocabolo del libro: “Umanità”.
“Fiori di roccia” è un condensato di questo, non altro, ed è Donna.
Sono solo Donne, le Portatrici.
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Black lives matter
L’atleta è di colore, e ha appena realizzato un gol.
Aspetta che anche l’ultimo dei compagni che è corso a congratularsi con lui si allontani; solo allora, con la visuale libera a uso dei media, profitta della sua popolarità di sportivo acclamato per trasmettere a una platea, ben più vasta di quella concessa a un uomo qualunque, la sua protesta: si abbassa fino a poggiare un ginocchio in terra, china il capo, pronuncia il suo omaggio silenzioso in memoria di George Floyd.
Perché ancora una volta, uno zio Tom di turno ha fatto le spese non tanto del sadismo, della bieca crudeltà o, peggio ancora, dell’ignoranza e del pressappochismo dell’uomo bianco su uno di colore. Floyd, come troppo spesso altri prima di lui, sono principalmente vittime dell’eterna diffidenza, del pregiudizio duro a morire, del pensiero tanto distorto quanto innato e immarcescibile in tanti che costui solo perché è nero, non è un uomo, non un tuo pari.
È ”straniero”, è diverso, è pericoloso, è cattivissimo, è ladro, bugiardo e mentitore, non gli puoi credere, non puoi fare affidamento se supplica qualcosa, non è affatto possibile che non riesce a respirare, malgrado lo stringi alla gola con il ginocchio caricando tutto il tuo peso.
Che cosa vuoi che sia? E poi, comunque vada, via, si sa, le vite nere NON contano.
Niente di nuovo sotto il sole.
Cambiano i tempi, i luoghi, le circostanze ma ancora ai nostri giorni la pigmentazione della cute di una persona è problematica irrisolta, spesso foriera di violenze gratuite. Oggi come ieri.
Nonostante un buon libro, semplice e ben scritto, e perciò efficace, quale questo “La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, un’opera considerata miliare sulla via dell’abrogazionismo.
Già all’indomani della sua pubblicazione, fu dato alle stampe per la prima volta oltre un secolo fa, forse non diede l’input, come si usa dire esagerando un pò, difficile che un solo libro produca tanto scalpore, ma certamente in qualche modo scosse le coscienze della classe medio alta americana, quella dei benpensanti che contano, perciò la più importante, specie se basa le sue fortuna sull’industria e non sulla necessaria mano d’opera agricola e gratuita.
Il diffondersi, spesso ad arte, della tragica storia di uno sparuto gruppetto di schiavi neri nelle piantagioni di cotone nel sud degli Stati Uniti, alimentò anch’essa, nel suo piccolo, la presa di coscienza che portò ad un lungo e cruento conflitto civile, al termine del quale pareva proprio che la questione abolizionista fosse definitivamente passata in archivio.
Le sofferenze, le vessazioni e gli sfruttamenti degli schiavi nativi africani, e dei loro discendenti, erano state definitivamente poste al bando per legge, così parevano, e nessun uomo poteva essere in qualche modo discriminato ancora per il colore della pelle, o comunque per l’appartenenza a etnia diversa della maggioranza bianca dominante.
Chiarite una volta per sempre le colpe dell’uomo bianco e il suo sfruttamento della mano d’opera gratuita, alla base delle grandi fortune agricole nel Sud degli stati Uniti, sembrava che fosse definitivamente chiusa una delle pagine più abiette della storia dell’umanità.
Illusione che perdura tuttora, com’è dimostrato dal continuo bisogno di manifestare per riproporre il concetto che le vite nere contano, quando in realtà TUTTE le vite hanno valore, a prescindere dal colore.
La storia de “La capanna dello Zio Tom” è costruito bene, anche se scritta in maniera talora ingenua, quasi con piglio infantile, è stata perciò spesso considerata letteratura per ragazzi.
Non lo è. La scrittura usata è uno stile voluto, provocato ad arte, poiché all’autrice interessava che il messaggio arrivasse forte e chiaro, e non solo alle persone istruite della sua epoca.
Il Tom del titolo è uno schiavo avanti con gli anni, con un’apparenza mansueta e servile; tant’è che spesso questo personaggio, per quanto inventato, era quanto mai indicativo, è stato bersaglio nel corso degli anni di violenti critiche, in quanto rappresenta il prototipo del “buon negro”, un signor “Signorsì” in cui i neri liberi, animati da ben altra indole, mai e poi mai potrebbero riconoscersi.
La persona di colore rivendica la dignità della suo essere per quello che è, non per quello in cui deve limitarsi ad essere, invece Tom nell’immaginario dei critici al personaggio rappresenta colui che, pur di farsi in qualche modo accettare e benvolere nel consorzio degli uomini bianchi, si prostra alla loro autorità senza discussioni o ribellioni di sorta, ben lieto di eseguire quando gli viene chiesto, senza mai contestare la liceità di quanto gli viene ordinato, senza mai ribellarsi o protestare, mansueto e accondiscendente.
Pertanto è uno schiavo “fidato”, di affidamento, e perciò di valore. O un traditore della sua razza.
Invece, Tom non è né l’una né l’altra cosa, è semplicemente un uomo che pensa con la propria testa.
È un cristiano convinto, perciò di conseguenza un deciso sostenitore della non violenza.
Il buon “Zio Tom” tanto vituperato, è in realtà un campione della resilienza; è contento se una coppia di schiavi mulatti suoi sodali riesce a scappare in Canada, rischia la propria pelle per salvare dall’annegamento la vita della figlia di un uomo bianco, soccombe alle violenze omicide dello schiavista che lo assassina di botte pur di non abiurare al suo credo e a i suoi intendimenti, ringrazia Dio con animo lieto che la sua morte copra la fuga di altri schiavi, come Cristo sulla croce perdona i suoi persecutori. Non è uno stupido, non un eroe, o uno stucchevole buonista, tutt’altro, e neanche un fanatico religioso: è l’emblema di un uomo di buon senso, che sa che la schiavitù non ha senso, e però esiste, ma estirparla a forza è solo un palliativo, serve un lavoro agricolo di scavo alle radici annidate bene in profondità, un lavoro più fine e di qualità che il rude estirpare violentemente le erbacce. Tom è uomo ragionevole e coerente, fedele non ai suoi padroni ma alle sue idee, alla sua fede, e per questo disponibile a resistere e insistere, ma senza rispondere alla violenza con pari metodi, ma lasciandola scivolare su di sé a proprio discapito, mantenendo la fierezza delle sue idee come esempio per quelli a venire.
Insomma, un Mahatma Ghandi ante litteram, e come quello efficace, sebbene soccombente.
Degno di stima, e che serve a riflettere.
Per questo, è un libro che vale la pena leggere, oggi più di ieri.
Non è un capolavoro letterario, come una volta lo si definiva, equivocando tra letteratura e messaggio politico. Talvolta è anche pesante, oltre ad essere infantile e stucchevole, ma ci sta, dati gli intendimenti morali. Definirlo un romanzo per ragazzi, lo ripeto, mi pare, però falso se non riduttivo, anche perché ai tempi dell’autrice una letteratura per ragazzi neanche esisteva, a loro erano riservate le favole o poco più. Leggere libri era riservato a persone istruite, gente che viaggiava, che vedeva e sapeva giudicare da soli che la buona e bella capanna del vecchio Tom, descritta con tanto di orticello e vasetto di fiori, era una baggianata, i neri vivevano in baracche e non altro, come avviene tuttora negli slums e nei bassifondi americani.
Solo che ora…ora la situazione è esplosiva, la non violenza non è più di moda.
Chissà, forse rileggere “La capanna dello Zio Tom” è un po’ come voler affermare…la letteratura ci salverà. Speriamo. Tutto conta per una buona causa.
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Ombre sotto i portici
Tutti gli investigatori protagonisti dei romanzi seriali di Carlo Lucarelli, si contraddistinguono soprattutto per una loro caratteristica peculiare, sempre ben resa dall'autore emiliano: sono funzionari delle forze dell’ordine perfettamente identificabili e riferibili alla loro epoca, sono un emblema rappresentativo, lo specchio dei tempi in cui vivono e agiscono.
Vale per Grazia Negro, protagonista tra l’altro del celeberrimo, bello e originale, “Almost blue”, che procurò fama immediata all’autore, così come per Marco Coliandro, poliziotto all’apparenza un po’ assurdo, patetico e tragicomico.
Nella fiction tv che ne è stata tratta, Coliandro addirittura appare come un Rambo esaltato, razzista e qualunquista, invece nei romanzi è una figura assolutamente reale nella sua normalità, tarata su registri di basso livello, ma ben calato nella sua parte e nel suo ruolo.
Quanto detto si nota a maggior ragione, e soprattutto, in tutta evidenza, per Achille De Luca, commissario di pubblica sicurezza nell’Italia durante il ventennio fascista.
De Luca è, prima di ogni altra cosa, un poliziotto; un uomo votato, per indole, scelta, e dedizione a mantenere l’ordine pubblico, a scoprire delitti e misfatti assicurandone gli autori alla giustizia.
Considera terminato il suo compito allorchè traduce i colpevoli alla contenzione, perché non reiterino oltre i reati o si diano alla latitanza.
Si premura di fornire inoppugnabili prove documentali al magistrato, perché ne tragga le debite conclusioni, decidendo il proseguimento dell’azione giudiziaria.
Non altro, ma dati i tempi in cui vive, è parecchio.
Quello che valorizza l’uomo, è la sua umana ragionevolezza, che riconduce la sua professione in un ambito lecito, nonostante tutto.
De Luca, a differenza di tanti graduati di quegli anni, non travalica, non va mai oltre i suoi limiti, legittimi e legittimati. Vive gli anni bui cui a chiunque, dotato di una divisa o di qualche autorità in qualche modo suffragata, è permesso stravolgere con prepotenza il codice e la procedura, le libertà individuali e democratiche, i diritti elementari della persona, abusare delle sue funzioni, esercitare autorità e dittatura, in nome dell’appartenenza, per scelta o per ruolo istituzionale, all’unica classe politica dominante.
De Luca non è un fascista, meno che mai è uno sbirro della dittatura.
Nemmeno però è un pavido trincerato nella neutralità, uno che si gira dall’altra parte per quieto vivere, che si limita a esercitare il suo lavoro barcamenandosi al meglio, al più ad assistere passivamente allo stato delle cose.
Il comissario pensa con la sua testa e agisce di conseguenza, prova a ricondurre gli eventi in termini ragionevoli, in qualche modo accettabili. Pertanto non chiude gli occhi, ma indaga, come gli è richiesto di fare; va a fondo delle cose, ricerca la verità, ma mai per punire, per perseguitare, per propositi di carriera, il suo compito è solo ristabilire l’esatta cronologia degli eventi, perché emerga la verità. Lo fa con onestà, dedizione, intelligenza e buon senso, ma non è né un giustiziere e nemmeno uomo che chiude gli occhi.
Le miserie umane spesso, troppo spesso, sono indotte dalle circostanze, e ben altri misfatti, assai più gravi, svolti però con intenzione, restano spesso impuniti, nonostante i suoi sforzi.
Ne è conscio, sia del suo valore sia del suo ruolo, deve arrendersi spesso contro forze di persuasione maggiori delle sue possibilità, ma si mantiene integro, e continua il suo lavoro.
Sono i tempi a rendere difficile la sua professione; ma a renderla davvero difficile è la sua ragionevole onestà, non altro.
Achille De Luca è una vittima dei tempi, come tantissimi altri suoi compatrioti; si schiera a suo modo dalla parte giusta, ma non è, non può essere, un doppiogiochista, non è nella sua indole.
Non è uomo che ha aderito al fascismo e alla dittatura per convinzione; si è trovato in questi tempi, si è adeguato, obbedisce, perché ligio all’ordine costituito, in silenzio ma senza rinunciare a ragionare con la sua testa, dedito alle autorità e ai superiori che il destino gli ha imposto.
Simpatizza magari per gli antifascisti, per la resistenza, e però non milita apertamente nelle file dei partigiani, anche se ne condivide le idee: è confuso, ma perché come tanti non può avere le idee chiarissime a priori, resta un servitore dello Stato, gli spiace che lo Stato sia nero, nero come l’inverno del 1944 a Bologna in cui agisce, ma non si tira indietro, non si nasconde, agisce.
Indaga, fa il poliziotto, magari con discrezione, e altrettanta determinazione, cerca di non venire mai meno ai dettami della sua coscienza di uomo.
Achille de Luca è, prima ancora di essere sì un poliziotto, è un uomo onesto, e non ha alcuna intenzione di dimenticarsene.
Ha paura, rischia la vita, non è un eroe, è folle di terrore di essere torturato e ucciso dai tedeschi che ormai non fanno più distinzioni tra italiani amici e nemici, ma insiste, investiga, indaga, ricerca prove e verità valendosi del suo fiuto investigativo, della sua cocciutaggine, spinto da un ardore esistenziale che lo conduce, sempre e comunque, alla ricerca della verità.
Tanto è abile nella sua professione, che è da tutti ricercato per questo, è stimato dai vertici della Questura, della Milizia Politica, dagli occupanti tedeschi, ma certamente, assai di più, dai Resistenti.
L’attrattiva che ne fa un bel personaggio, stimato da tutti, è la sua coerenza, tanto è lineare la sua condotta così descritta da Lucarelli, che finanche il lettore la avverte, e glielo rende gradito.
Un bel personaggio, un libro ben scritto, con una storia resa bene, un’ atmosfera sapientemente ricreata con accuratezza, articolata nei particolari, convincente, a mio avviso il libro migliore di Lucarelli con De Luca protagonista.
In questo romanzo De Luca agisce a Bologna, nel ’44, anno di guerra e di brutale occupazione nazista, anno di fame nera, di pericolo nero, di ombre nere sotto i portici, semmai portici siano rimasti ancora intatti in una città martoriata dalle bombe: “…al primo calar del sole, il coprifuoco avrebbe trasformato il suk dentro le mura di Bologna in una città fantasma, accecata dall’oscuramento e muta, a parte gli scarponi delle pattuglie o quelli dei partigiani”.
Sono tempi incerti, e il nostro è coinvolto in una triplice indagine:
“…De Luca pensò che ultimamente erano in tanti ad offrirsi di essergli amici nel futuro in cambio di una collaborazione, la prefettura, i tedeschi, adesso anche la resistenza…”
Non si tira indietro, lo fa per sé, perché è il suo dovere, perché gli è stato ordinato, lo fa perché glielo chiede un amico e collega che milita nella resistenza, e lo fa perché uno degli assassinati su cui indaga è un tedesco, e se non trova il colpevole da consegnare al comando delle SS, saranno fucilati per rappresaglia dieci italiani.
C’è tutta la motivazione di vita di Achille De Luca in questa triplice indagine.
Perciò lo vediamo giorno e notte ostinatamente in giro in bicicletta, a piedi, in sidecar, in auto, per la città, alla ricerca non tanto dei colpevoli, ma della verità, perché è la verità la sola che può servire a ristabilire almeno una parvenza di status quo.
Per chi conosce Bologna, risuonano i nomi familiari di strade, luoghi, locali, gli stessi di oggi, mai cambiati: via Rizzoli, via Ugo Bassi, Via Indipendenza, via Volturno, Via Dè Monari, il teatro del Corso, il cinema Manzoni, il ristorante “Diana” e il “Donatello”, le Due Torri, la basilica di San Petronio.
Lucarelli rende così omaggio alla Dotta, scenario delle sue storie, che ha fatto la sua fortuna.
Viene a capo della verità, De Luca: ma è stanco, sempre più stanco, ormai.
Non può esimersi, sa che: “…in qualunque momento, ci sarà sempre bisogno di gente come noi.”
Poliziotti sì, ma per bene. Gli unici che, in qualche modo, portano il calore della verità, ogni tanto.
A loro discapito, tenendo il gelo dentro di sè:
“Se lo sarebbe portato dentro per sempre, quell’inverno. Quell’inverno così ruvido e freddo.
Così nero.”
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Segreti e memorie
Quello che colpisce in questo giallo di Silvio Raffo è lo stile, molto più della trama, comunque avvincente e rilevante, è il modo come lo scrittore la porge al suo lettore.
È il suo un modo di scrivere molto particolare, ricercato, non casuale: Raffo volutamente ammanta la sua prosa di un sapore gotico, mi ricorda moltissimo la prosa di maestri del genere come Peter Straub o Ann Radcliffe o Shirley Jackson.
In più, ha un modo incerto di esporre la trama, effetto ricercato anche questo, per cui il lettore non capisce mai, non afferra mai compiutamente, se non alla fine, il vero intento del discorrere cui finora ha assistito, e vi giunge solo dopo aver trascorso un bel po’ di tempo con le idee parecchio confuse.
Il lettore è completamente spiazzato, quando realizza, o crede di farlo, che colei che parla dice il vero; ma è altrettanto disorientato quando ugualmente comprende che la stessa persona mente sapendo di mentire. O forse neanche allora.
Quest’artifizio non è, con tutta evidenza, un tentativo di depistaggio del lettore, sarebbe davvero banale e puerile, ma è tutto il romanzo che letteralmente è così, e la sua fortuna sta in questo, disorienta, incuriosisce, appassiona, e finisce per incantare.
Capite, non è che sorprende, non è che termina con il classico coniglio a sorpresa fuori dal cilindro, no, se ti sorprende, è perché ti meraviglia per la semplicità e la logica che portano al risultato finale.
Il libro è la semplice, progressiva enunciazione di una storia avvenuta nel corso di un lungo periodo di tempo, riportata da una persona i cui ricordi, per quanto vividi, reali, sinceri, hanno carattere di urgenza, di frettolosa e ansiosa, direi ansiogena rivelazione, tendono a sbiadire nel tempo, risultano confusi, evanescenti, spesso in palese contraddizione tra di loro.
Il lettore è letteralmente proiettato non dico nei deliri onirici, ma nelle reminiscenze confuse di chi, per qualche motivo, ha evidenti problemi cognitivi, ne è conscio, eppure nello stesso tempo desidera fissare i fatti prima che accada qualcosa per cui non riesca più a manifestarli che a spezzoni, non li mostra però mai confusi e inconcludenti a sè stanti, e pure in questo si rivela l’abilità dell’autore.
La storia è una storia d’amore, non l’amore classico di coppia, ma uno invece più sublime, ed eccelso, l’amore filiale. Ancora più insigne in questo caso specifico, perché non si tratta di un rapporto madre figlia, ma come spesso accade, è quello assai più nobile tra un’istitutrice, Aurelia, e la giovane a lei affidata per cura e istruzione, la giovane Marie Belle.
Aurelia è la voce narrante, sullo scenario di Villa Sorriso, ora forse un ospizio o una casa di riposo, o probabilmente un grazioso edificio per persone carenti nella mente, ed ella ripercorre tutte le vicende che vedono protagonisti i membri familiari della giovane a lei affidata.
In un altro tempo, in un’altra location, in un’altra villa che non è di sorriso, ma di dolori, una villa che dovrebbe essere di protezione già nel nome elettivo.
In realtà poco protegge, in particolare è di poca difesa per la sua pupilla, non le nuoce certo nel fisico, ma nel morale, dove fa più male, e le ferite sono quasi sempre mortali, questo non è un giallo classico, direi invece un dramma psicologico, se non una tragedia, un delirio di anime.
Ricorda molto le atmosfere dello scrittore e psichiatra tedesco Wulf Dorn.
Infatti, tutti quelli che le sono d’intorno a Marie Belle, che lei più ama, periscono, prima la madre, poi il padre, poi varie persone a titolo diverso vicino prima alla bambina e poi alla giovane donna che Marie Belle diventerà, e che Aurelia segue, educa, protegge, accudisce fino all’età adulta, annichilendosi in un amore filiale volto a proteggere e preservare l’innocenza, la bellezza interiore, il garbo di Marie Belle.
Al punto da annullarsi completamente, Aurelia vive la propria esistenza solo per interposta persona, è Marie Belle che vive due vite in una la sua e quella della sua istitutrice.
Per le due donne, è un mutuo soccorso, ciascuna trova rifugio nell’altra e l’altra protegge, è una forma di amore ambiguo se visto dall’esterno, ma quanto mai tenero e delicato, ognuna delle due donne si realizza nell’altra, al riparo da ogni forma di amore molesto, e dannoso, e certo Aurelia si sublima per la sua pupilla, ma la sua discepola vive anche l’esistenza che avrebbe potuto, e dovuto condurre, la sua istitutrice.
Loro due unite contro un nemico misterioso, giacchè i lutti che funestano la vita della giovane, anche se alla’apparenza non sembrano tali, sono, in effetti, degli omicidi.
Oltretutto, senza movente.
O almeno, senza movente apparente.
La conclusione, dicevamo, non è a sorpresa, e però sorprende, perché tratta dei delicati, e talora mostruosi, ambigui rapporti affettivi che s’instaurano tra le persone.
L’ambiguità non va bene con i sentimenti forti; questi per definizione hanno bisogno di chiarezza, sempre quello che è grande e forte lo è perché è alla luce, si esalta nel vero e nel chiarore della limpidezza.
Allorchè si ammanta di ambiguità, di ombre, di equivoci, allora per diretta reazione opposta divampa di luce improvvisa, quindi di fiamma, con furia distruttrice, e devastante.
Paradossalmente, un fuoco a lungo covato, che quanto divampa, non brucia, agghiaccia.
Perché il finale, e la sua motivazione, non sono funerei, è agghiacciante. e proprio per questo l’unica possibile, la più reale, inesprimibile a parole:
“Perché le parole non sono mai all’altezza della verità. La verità è un segreto troppo prezioso. È stato il mio segreto per tutta la vita».
Questo di Silvio Raffo è una storia molto particolare, proprio per questo di non facile lettura.
Tuttavia, conviene insistere, anche se, per stile e tutto, talora stanca, o irrita.
Tranne accorgersi, sul finire, che è un gioco delle parti. Ruoli modificati.
Un romanzo, in fondo, questo fa; non descrive fatti, li modifica.
Al punto, che un sentimento intenso, chiaro e plateale, si tramuta in un segreto.
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I guaiti di un cucciolo
Questo è il terzo romanzo, a firma del noto scrittore Maurizio de Giovanni, avente a protagonista il suo personaggio di più recente ideazione, Sara Morozzi detta “Mora”.
A mio parere, è quello meglio riuscito finora della nuova serie, il più completo, esauriente, esaustivo, anche il più articolato e avvincente.
Schiarisce e traccia di più la sua figura e la sua storia, rende appieno i requisiti e le prerogative del nuovo personaggio.
I primi due, “Sara al tramonto” e “Le parole di Sara”, erano certamente letture piacevoli, ma in un certo senso ancora in secondo piano, surclassate dagli altri romanzi dell’autore napoletano.
Quelli con i suoi personaggi più noti: l’insolito, per tanti versi, commissario di polizia Luigi Alfredo Ricciardi, in servizio presso la Regia Questura della Napoli durante il ventennio fascista, e la disomogenea ma affiatata squadra dei poliziotti detti “I Bastardi di Pizzofalcone”, costituenti l’organico raffazzonato di una stazione di polizia nella Napoli di oggi.
In tutta apparenza, la signora Sara Morozzi è una donna comunissima, tranquilla e rispettabile, magari un po’ seriosa e attempata, anonima, dai capelli grigi e l’aspetto dimesso, ancora giovanile benché trascurata nel fisico e nel vestiario, comunque in età pensionabile.
Una persona tanto banale da passare inosservata sempre e comunque, esattamente come desidera apparire.
In concreto, Sara è stata un poliziotto, ma di quelli speciali, è ex agente dei Servizi Segreti, quelli classici, misteriosi e celati all’opinione pubblica, che agiscono un po’ sullo sfondo ma comunque organizzati nelle strutture dello Stato.
Intendiamoci, non è mai stata un James Bond tutta azione, sparatorie, fughe e corse in auto a tutta velocità. Tutt’altro, Sara ha un talento unico ma quieto, poco appariscente, inavvertibile, sapientemente sfruttato in certi ambiti: sa osservare.
È quella che si dice un’analista dei segni; un severo addestramento ha esasperato all’inverosimile il suo talento naturale non solo nell’interpretazione della labiolettura, ma anche nel comprendere il linguaggio del corpo, quello difficile da dissimulare, veritiero e conforme alla realtà.
Un elemento prezioso in certi ambiti, dove la mistificazione è all’ordine del giorno, e le sue capacità di riportare in maniera autentica, esatta e concreta quanto captato in situazioni e conversazioni losche, terroristiche e malavitose è spesso, se non sempre, d’importanza vitale per scoprire, e neutralizzare in tempo, pericoli gravissimi per la collettività.
Sara vede, e interpreta; osserva, e comprende con interezza; scruta, e scopre quanto, in effetti, è.
Si badi la sua non è un’intuizione, un sesto senso, o una facoltà paranormale.
Sara è dotata di un notevole spirito di osservazione; questa sua caratteristica di base è andata perfezionandosi con addestramento e applicazione, certo, ma anche, e soprattutto, sotto l’input dell’emozione principale che, nelle donne in particolare, unica tra tutti i sentimenti umani, è quella che conferisce la spinta motivazionale più intensa: l’amore.
La donna è, infatti, perdutamente innamorata del suo diretto superiore, tra l’altro il suo reclutatore e mentore, con il quale ha convissuto per venticinque anni, e per il cui amore ha abbandonato marito legittimo e figlio ancora piccolo, pagando per questo in seguito un caro, amarissimo, prezzo personale. Sara ha quindi un “fatto” suo personale che la caratterizza, e si applica ancor di più perché innamoratissima del suo capo.
Come le disse un giorno passato il suo compagno Massimiliano:
“…hai un dono, Sara. Ti viene spontaneo, perciò credi che sia normale e non ne percepisci l’unicità. Invece è unico. Lo chiami istinto, ma è velocità. Ancor prima che elabori i dati, la tua mente li ha già collegati…Quello che chiami istinto, non ti può ingannare.”
Ora, dopo la morte del suo uomo, Sara, avanti con gli anni e abbandonato il lavoro, si ritrova sola, e tenta di rimettere insieme i brandelli di un’esistenza faticosa, sacrificata, vissuta nell’ombra dei servizi, e però gratificata dalla vicinanza del suo amore, scomparso dopo tragica malattia.
La ritroviamo che tiene insieme, con il suo carisma e la sua personalità mai sopita, brandelli di affetti: la nuora Viola, compagna del suo figliolo disperatamente perso, l’adorato nipotino Massimiliano, che porta il nome del suo scomparso amore, un ispettore di Polizia male in arnese, Davide Pardo, alle prese tragico/comiche con Boris, il suo cane, un irruente Bovaro del Bernese.
Se una critica si deve fare a De Giovanni, è questa: è stato male informato.
Da amante dei cani, posso assicurargli che il Bovaro del Bernese è un cane sì grande e grosso, ma davvero calmo e affettuoso, che ama essere coccolato e a sua volta coccolare; abbassa le sue barriere difensive, è di ottima compagnia, sopporta tutto con pazienza, è dolcissimo e non è assolutamente pericoloso. Buonissimo, generoso, affettuoso, disponibile.
Niente a che fare con il diavolo prepotente e dispettoso che amareggia l’esistenza di Pardo.
Proprio l’ispettore di Polizia, traviato dai suoi trascorsi esistenziali, a seguito della richiesta improvvisa e insolita di un suo vecchio superiore in fin di vita, chiede aiuto proprio a Sara, offrendo lo spunto per una nuova storia dell’ex effettivo dei Servizi Segreti, qui alle prese indirettamente ancora una volta anche con i fantasmi del suo passato.
Maurizio De Giovanni essenzialmente ha raccontato, in questo suo romanzo, ben altro che un giallo o un libro di avventure, come superficialmente si potrebbe credere, specie da parte di chi non conosce l’arte e la valenza dello scrittore napoletano; ha scritto di coincidenze, e perciò indirettamente ha dettato di cose della vita.
Che cos’è, infatti, l’esistenza, altro se non un insieme di circostanze che s’intersecano, casualmente o no, talora inestricabilmente, e danno luogo a cascata a una serie di eventi di portata imprevedibile, inimmaginabile, incerta? Talora anche con esiti tragici, imponderabili, sconosciuti.
Sono le coincidenze quelle che descrive qui abilmente De Giovanni, attraendo e conquistando piacevolmente l’attenzione del suo lettore, tratteggiando diversi personaggi e le loro singole storie, riunendole in una singola realtà romanzata, ma non per questo meno reale, con specifico rimando a tragici fatti di cronaca nera realmente accaduti, intrecciandone esiti e destini nella trama elegante di una buona storia, scritta bene.
Caso, fatalità, parallelismo, assurda corrispondenza legano e intrecciano le esistenze dei vari, diversi, assortiti personaggi, che costituiscono un passato univoco ed un presente consequenziale.
Il caso lega i destini di una giovane studentessa universitaria fuorisede che arrotonda le sue risicate entrate spendendosi come commessa in una libreria antiquaria, e il suo cocciuto fratello.
La fatalità contrassegna l’esistenza di una coppia di disperati e del figlio casualmente partorito dalla loro sventurata unione, allacciandosi all’irreprensibile vissuto di un ligio cancelliere del tribunale.
Un’assurda corrispondenza è intrattenuta per esempio tra un feroce capo mafia e i servitori dello stato; o ancora, sussistono corrispondenze finanche con venature sentimentali, intrecci amorosi che si dipanano tra un abilissimo borsaiolo, un ladruncolo dal cuore d’oro, e una vittima di una sindrome genetica tanto rara quanto infausta e dolorosa.
Il primo che “…è cresciuto combattendo con le unghie e con i denti; viene da un posto che non perdona, in cui la sensibilità è sempre scambiata per debolezza. E la debolezza, in periferia, è un peccato mortale.” L’altra, una persona di specchiata umanità, un’operatrice di una casa famiglia, vittima di una di quelle malattie rare per cui non esiste cura, perché le case farmaceutiche non investono nella ricerca di cause e rimedi non sussistendone la convenienza economica. Quel tipo di malattie dolorose, di cui finanche chi ci lavora dice, con cognizione di causa, senza mezzi termini:
“ Noi lavoriamo col dolore. La sofferenza stravolge la gente, toglie la voglia di fingere, assorbe ogni energia: così emerge chi siamo davvero, senza più inganni. Tutto qui, fine del discorso.”
Solo la sapienza, la competenza, la sensibilità non comune di un bravo scrittore, poteva rendere al meglio questi concetti, Maurizio De Giovanni lo conferma, e si conferma tale.
“Una lettera per Sara” è quindi non una sola missiva, ma un insieme di corrispondenze che dal passato, da un passato tragico, pervengono a quanti direttamente coinvolti nella storia.
I nodi vengono al pettine, presto o tardi, alla fine riemergono incubi che si credevano sepolti, e questo vale per tutti, nel bene e nel male.
Se trattasi di un passato tragico, quelli che pervengono, i suoni che riecheggiano, non sono il classico stridio di catene trascinate in eterno dai fantasmi ma gemiti, pianti disperati di fantasmi innocenti, perché si tratta di vittime innocenti, e questo tipo di lamento ha un suono inconfondibile, quello dei guaiti di un cucciolo. E qualcuno che ascolta, deve raccoglierli quei suoni, deve raccontarli, perché non se ne perda la memoria, perché:
“…Qualcuno deve stare accanto a chi se ne va…Almeno uno che ti tiene la mano alla fine della vita ci vuole.”
Ecco, come si vede nella dedica iniziale, Maurizio De Giovanni questo ha fatto, ha ascoltato e ha ricordato, con commozione e umanità, i guaiti di un cucciolo, tenendolo per mano.
Altro non poteva fare, lo scrittore napoletano, ma ha fatto tanto. E bene.
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Questione di fegato, anzi no, di cuore.
Quello che contraddistingue questo bel romanzo di Giuseppe Conte, solo omonimo del nostro Presidente del Consiglio, è il suo essere un libro poliedrico, un racconto corale per generi e personaggi trattati.
Perciò un tomo poderoso, che però si legge con facilità, perché la scrittura non è ridondante, anzi direi che è concisa ed efficace.
L’autore non si dilunga in faticose e poco interessanti descrizioni, non si perde nei particolari, si cala subito nell’atmosfera e nel tempo in cui ambienta la vicenda, intorno all’anno 1100, all’epoca delle crociate.
È un racconto chiaro e preciso, sufficientemente esauriente ed esaustivo nel delineare la sua storia, anzi le sue novelle convergenti in una.
Perché questo è un romanzo di Storia e di Avventure, è un diario delle Crociate e di viaggi in Terrasanta e oltre, con relativo accenno a battaglie e a macchine di guerra rudimentali ma ingegnose.
Quelle che hanno fatto la fortuna, e hanno consacrato alla fama il protagonista, il condottiero genovese fino al midollo, e fiero di esserlo, devoto alla sua città, Guglielmo degli Embriaci, detto anche Guglielmo il Malo, data la sua rudezza e scontrosità solo apparente, e anche Guglielmo Testa di Martello, e questo fa riferimento sia alla sua cocciutaggine sia alla maestria di guerriero, di artigiano, e ingegnere di artifizi per le battaglie.
Non solo: direi che è un romanzo incredibile, che svaria con rara facilità e piacevolezza a tutto tondo.
Possiamo definirla anche una storia di miti e leggende, richiama per certi versi e per spettacolari intrecci e colpi di scena le avventure di un antico Indiana Jones, alla ricerca dell’Arca Perduta.
Ricorda, ancor di più pertinente, dato lo speciale significato attribuito all’oggetto della ricerca, la spedizione di Giasone alla testa degli Argonauti, alla ricerca del Vello d’oro.
Solo che nel nostro caso la ricerca verte su un misterioso vaso trafugato da ignoti in Palestina, che conferisce al suo possessore degli incredibili e misteriosi poteri.
A ragione: si tratta, infatti, di un utensile che si dice sia stato usato da Gesù Cristo per consumare il suo pasto nell’Ultima Cena, insomma il tema ricorda molto anche il genere tipico delle trame dei romanzi di Dan Brown, con il suo Robert Langdon che svela segreti nascosti nei miti.
Ancora oltre: potremmo definirlo anche un giallo, questo libro.
Che utilizza anche uno degli artifizi classici, e tra i più ingegnosi e difficili da realizzare magistralmente, il tradizionale mistero del delitto nella camera chiusa.
Il caso cioè in cui il delitto, o i delitti come nel nostro caso, avvengono in un ambiente chiuso, come può essere appunto un locale inaccessibile ad estranei, per cui il colpevole va necessariamente ricercato tra tutti i possibili indiziati reclusi in quello spazio precisamente delimitato, e però, malgrado sospetti e diffidenze, nessuno sembra, almeno in apparenza, gravato da qualche dubbio che lo indichi sicuramente coinvolto; più spesso, tutti sono al di sopra di ogni sospetto.
Di una simile situazione delittuosa è stata magistrale autrice Agatha Christie, per coloro che la conoscono, è facile rievocare le condizioni di un ambiente chiuso e inaccessibile, non necessariamente una camera, come un treno, nell’”Assassinio sull’Orient Express”, o un isolotto, come in “10 piccoli indiani”.
Giuseppe Conte però ne offre una versione originale e fantasiosa: il giallo è ambientato su una galea, una tipica imbarcazione dell’epoca, ma non un piccolo battello da crociera come in “Assassinio sul Nilo” della Christie, tanto per non smentirci, ma una nave bella grossa, che ospita 200 persone, tutti stipati a contatto di gomito, che quindi si sorvegliano tra di loro, e si tratta di uomini rudi, avvezzi a difendersi, sul chi vive e con occhi aperti.
Eppure i delitti avvengono e si susseguono, anche in maniera efferata, senza che nessuno si accorga di chi e come agisca, quasi si trattasse di un fantasma.
Nel frattempo, Conte ci erudisce anche di come si svolgeva la vita sulle navi dell’epoca, per di più in viaggio oltre le temute, e famigerate, Colonne d’Ercole.
Proprio questo carattere d’inafferrabilità del colpevole, è occasione per l’autore di virare ancora nel suo raccontare, stavolta si orienta verso i temi del thriller, per non dire dello splatter, reso bene perché accennato senza specifiche descrizioni particolareggiate, con incursioni diritte nella stregoneria e nella possessione demoniaca, al cui confronto le atmosfere da brividi dell’”Esorcista” nulla hanno a che invidiare.
Giuseppe Conte ha scritto una bella storia fantastica, con una fantasia inesauribile, veramente una lettura distensiva e senza pretese se non di divertire, una lettura gradevole; per portare altri esempi basti pensare che tutto il racconto è redatto in prima persona da uno scrivano, Oberto da Noli, sulla falsariga di Adso da Melk, il giovane novizio che redige, a mò di diario, “Il nome della rosa” di Umberto Eco.
Oppure quando favoleggia finanche di una favolosa città, sommersa con tutte le sue immense ricchezze al largo della Cornovaglia, con il preciso riferimento al mito di Atlantide, il leggendario continente sommerso.
Dobbiamo dire tuttavia che questo romanzo di Giuseppe Conte non è solo un esercizio di scrittura fantastica e favolosa, esso è assai di più. Certo appare un romanzo gradevole e a prima vista leggero, una lettura disimpegnata fine a se stessa, invece esso è, molto sottilmente, assai di più, un’elegia dell’uomo, e del suo viaggio verso il sapere e verso la conoscenza.
Per questo l’autore richiama tanti generi, tante trame, tanti altri libri e autori.
Quello che spinge personaggi come il suo protagonista Guglielmo non è la ricchezza o la brama di potere e di avventura, persone come queste sono spinte essenzialmente dal cuore.
Il cuore li spinge a conoscere, a fare, a osare, anche quando la ragione li consiglia di desistere, e però senza rinunciare a questa, senza smettere di cercare soluzioni e spiegazioni a quanto appare incomprensibile. Un’elegia dell’uomo che cerca e conosce, con interezza.
Tutto il romanzo di Giuseppe Conte è, in definitiva, una dedica: all’uomo.
Che è tale, solo quando agisce con sintonia di anima e corpo.
La bellezza dell’esistenza è fantastica, non è cosa per i senza cuore.
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Roma città aperta
La fortuna non è solo una questione di talento, ma anche di tempi giusti.
Coincidenze giuste, nel momento più opportuno.
Per esempio, in queste giornate in cui è stata annunciata la rosa di nomi finalisti per l’assegnazione dell’imminente, e importante, Premio Strega 2020, attorno ai quali già divampano accese discussioni su quale sia più l’autore più meritevole di fregiarsi della palma del vincitore, ho scoperto da poco questo romanzo, “Come una storia d’amore” di Nadia Terranova, che è stato finalista al Premio Strega 2019.
A mio modesto parere, fosse stato in concorso oggi, avrebbe vinto a mani basse.
Perché è per prima cosa per davvero un bel libro, mi correggo, non è un romanzo, ma una raccolta di racconti.
Racconti brevi, intensi, incisivi.
Un centinaio di pagine, per una decina di racconti.
Con una forte connotazione autobiografica, che vedono donne come personaggi principali, e la città per eccellenza, Roma, e i suoi quartieri, come protagonista assoluta.
Roma, città d’accoglienza e d’adozione, adottiva, adottante, adottata dalla scrittrice messinese.
Di che parlano in sintesi i suoi racconti?
Di amore naturalmente, che altro, trattandosi della città della grande bellezza?
Amore e bellezza vanno di pari passo, quello che si ama è bello, perché la bellezza è negli occhi di chi guarda con amore.
Amore quello vero, spontaneo, sincero, e perciò di maggior valore.
Non quello banale tra una coppia; ma quello che più ci è mancato nei giorni di lockdown, in cui siamo stati forzatamente rinchiusi in casa, abbiamo perso nozione e contezza delle nostre città, delle nostre strade, dei nostri spazi, e delle cose della nostra quotidianità.
Amore per le cose della vita, per una città e i suoi abitanti, non necessariamente quella nativa e per i soli indigeni, amore per quanto ci accade, per quanto facciamo.
Amore per cose semplici, e sorprendenti; quello per esempio che, nella novella iniziale, “Via della Devozione”, descrive il quotidiano di una coppia di anziani, antichi, retrogradi, medievali, di altra epoca e altra mentalità.
Che stanno insieme da una vita, e insieme restano a forza, finanche quando uno dei due è vittima dei malanni dell’età e l’altro, per quanto in modo burbero, gli resta vicino, sempre attento, accorto, premuroso.
Quello che li lega è amore, la devozione, la stessa empatia umana che li porta a spendersi per i dignitosi adempimenti funebri di uno sconosciuto indigente, per di più trans e solito a prostituirsi, morto ammazzato nell’esercizio della professione.
Quanto di più lontano quindi dalla propria mentalità antica, ma vicinissima alla loro empatia esistenziale, la stessa “devozione” all’umanità semplice e intensa a un tempo, che fa da sempre collante alla loro unione.
Amore, declinato ancora con un altro esempio, amore per…un corso di lingue; che ti permette insieme anche di riscoprire, di recuperare qualcosa che non hai vissuto appieno a suo tempo, “Il primo giorno di scuola”.
Un corso di lingue, di un idioma insolito, per esempio l’ebraico, studiato sul campo, nel Ghetto Ebraico. Un modo come un altro per riempirti l’esistenza in una città enorme, insolita, affascinante, che come tale non ammette solitudine o apatia.
“L’ebraico è l’unico caso di lingua morta e poi risorta di cui ho notizia, e paradossalmente appartiene a un popolo che non crede nella resurrezione”.
Anche per questo, ha una sua magia, un incanto particolare per chi ebreo non è; e nemmeno è di Roma, e non ha a chi far appartenere il proprio cuore in stato di temporanea stasi affettiva.
Un corso di lingua, perché per non rendere false ed effimere le cose dell’esistenza, servono parole:
“…se avessimo avuto una parola come met, l’avrei preferita a morte, anche perché – ci spiega la nostra insegnante – se si aggiunge una “e”, emet, dalla morte si ottiene la parola verità”
Amore finanche per chi non si conosce. Ne “La felicità sconosciuta” si narra di come ci si sente sconosciuti e disconosciuti in una grande città, una capitale. E di come sia facile allora sedersi a un computer, incuriosirsi, interessarsi, invidiare una Sconosciuta trovata su un social network.
Una Sconosciuta come possiamo trovarne tante, tanto sono comuni e diffuse sui social:
“…la Sconosciuta ha solo problemi dicibili, confessabili, non ha una vita segreta, la Sconosciuta non si è sposata. La Sconosciuta ha genitori vivi,un fratello minore, un’amica del liceo, tutti vivi alle sue spalle e tutti vivi intorno a sé, ha compagni di strada fedeli, colleghi di lavoro medi, ha un lavoro normale…”.
Mi chiedo, vi chiedo, quanti profili di Sconosciuti abbiamo occhieggiato sui social, nei giorni di quarantena, fosse solo per passare il tempo?
Se poi vivi un’esistenza tormentata, con problemi di mancanza affettiva e lavorativa, per compensazione a una Sconosciuta ti affezioni, e tanto.
Ne condividi l’esistenza, ne avverti con dolore la mancanza.
Amore…come in “Roma in uscita”, amore per una città che non è la tua, non ci sei nata, non sei indigena, e che però ti ha dato tanto, quando ci sei arrivata, ti ha fatta sentire felice, fiera, orgogliosa, perché: “…A me non importava di vivere bene, mi importava di vivere al centro del mondo”. E però…e però gli amori finiscono, e dal tuo amore divorzi. Succede. E succede di pensare: “Penso con nostalgia a quando avevo certi orizzonti e penso alla città come un corpo mostruoso che mi ha cacciato fuori o divorata, e forse è la stessa cosa.”
Sic transit gloria mundi, a Roma come altrove. E quindi? E quindi fare come in “Lettera a R.”:
“L’unica è raccontarsela come una storia d’amore, perché all’inizio nessuno pensa che pure quella parola, amore, si esaurirà. “
L’amore questo ha di bello, che come tale difficilmente è eterno, ma è ripetibile.
Rendo il concetto?
Nadia Terranova ha scritto dei racconti che sono piccole gemme, dei boccioli di rosa, semplici, teneri, delicati, e proprio per questo incantevoli.
Piccole bomboniere raffinate, sogni evanescenti, gingilli graziosi, fragili, struggenti,
Con una scrittura chiara, priva di fronzoli e iperboli, mostra in maniera intensa un modo comune di scorrere l’esistenza, come una storia d’amore.
Sono grato alla mia amica Isabella Borghese, per avermi regalato questo libro: certe persone sono come i buoni libri, e la sana cultura, bellissime.
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I titoli di coda più belli della vita in comune
Il protagonista di questo romanzo, l’ultimo appena edito di una serie che lo vede da tempo alla ribalta, l’avvocato Vincenzo Malinconico, è forse il personaggio meglio riuscito, e quello più noto, dello scrittore napoletano Diego De Silva.
Direi di più: tra tutti, questo è il racconto più bello, più umano, più appassionante della serie, certamente quello più romantico e delicato, non dico malinconico, che la battuta neanche è in linea con il personaggio.
L’avvocato non è, e non è mai stato, una persona mesta, triste o grigia, tutt’altro, è sempre stato invece ironico, dissacrante e divertente nel suo vivere e divenire, e in questo libro come non mai, è un vero “eroe” del normale quotidiano.
Eroe, a modo suo, perché ha inteso come il disincanto, il sarcasmo, il surreale e una buona dose di umorismo involontario, siano le uniche armi efficaci per affrontare con sufficiente serenità l’esistenza, spesso assurda e illogica, com’è effettivamente spesso irrazionale la vita di chiunque.
Malinconico è un vero mito quindi, per i suoi lettori ed estimatori, malgrado lui stesso tenda a sminuirsi ed a sottovalutarsi.
Un racconto letteralmente basato sui valori che contano, come da titolo, e poiché sono valori universalmente riconosciuti come eccelsi e supremi, Malinconico stesso, uomo satirico e beffardo, disilluso ma non afflitto, con i piedi ben piantati sul terreno, tende in modo sarcastico a ironizzare che siano valori effettivamente connaturati alla sua natura, è scettico che siano davvero nelle sue corde, per quanto si ritenga, in fondo, una persona onesta e leale, almeno con se stesso.
Tali valori sono quelli noti dell’amore, in primis, nonostante il suo rapporto caldo, conflittuale e controverso sia con l’attuale compagna Veronica, sia con le sue ex Nives e Alessandra Persiano, quindi la famiglia, i figli, Alfredo e Alagia e il pet d’ordinanza, il gatto Alfonso detto Alfonso Gatto, un felino evidentemente con movenze poetiche, la salute, gli amici e colleghi, tra tutti l’avvocato Beniamino “Benny” Lacalamita, e naturalmente i clienti: tutti insieme delizie e, talora, croce del nostro Avvocato Malinconico, da cui il sottotitolo in cui dichiara che, certe cose, talora, uno preferirebbe non scoprirle.
Un gran bel libro, mi è piaciuto molto, l’ho apprezzato come il migliore dello scrittore napoletano.
Intendiamoci, Diego de Silva è un signor scrittore e non da ieri, ha dato ampiamente prova di sé, della sua bravura, della sua abilità narrativa nel descrivere, intensamente e con ritmo ammaliante, i fatti della vita, per quanto insoliti e destabilizzanti, già dai suoi lontani, e subito fortunati esordi con “Certi bambini” e Voglio guardare”.
La serie di romanzi con Vincenzo Malinconico l’ha semplicemente consacrato autore popolare, noto al grande pubblico, in particolare perché nell’avvocato sui generis, e quanto mai reale, De Silva ha avuto modo di mostrare al meglio la sua vena sorniona e sarcastica, volutamente comica, ma quanto mai logica, e con un retrogusto filosofico che rende ragione oserei dire della palese napoletanità del nostro autore.
Davvero un bel libro, direi ottimo come qualità della storia, piacevolezza di lettura, significato recondito struggente e coinvolgente.
Con un linguaggio ironico, sarcastico, pungente, volutamente dissacrante, Diego De Silva ci offre lo spettacolo di “uno qualunque” che tanto qualunque non è, è un campione, un araldo, un emblema della quotidianità dell’esistenza e di come va ad affrontata: esattamente come fa Malinconico.
Con disincanto, certo, con un certo distacco, e però senza mai rinunciare, senza poter fare a meno nel modo più assoluto del calore umano, della condivisione dei sentimenti, della comunanza elettiva con i suoi simili, malgrado le loro colossali pecche: Vincenzo Malinconico è un uomo arguto e sornione, ma è intelligente, e come tale non rinuncia alle prerogative, e agli obblighi, non solo giuridici, del suo essere sociale.
Perciò quando un bel giorno si presenta all’improvviso alla porta di casa sua una ragazza seminuda, in fuga da una retata in una casa di appuntamenti di cui il nostro nemmeno sospetta l’esistenza nel condominio dove risiede, non esita a darle ospitalità, arrivando a coprirla e rendersi complice di reato nel mentire alle forze dell’ordine sguinzagliate alla sua ricerca.
Non lo fa per rivoluzionario spirito contraddittorio, nemmeno per simpatia nei confronti della ragazza, nemmeno tanto simpatica e riconoscente, tra l’altro, segue l’istinto, vale a dire il cuore, anziché la ragione, semplicemente perché è nella sua indole cortese, gentile, partecipe alle asperità dell’esistenza altrui.
Vincenzo Malinconico reagisce ai contrattempi e agli imprevisti con uno sberleffo, con una battuta, con sarcasmo, e mostra con spirito la sua filosofia di vivere, che contempla l’umana vicinanza con i suoi simili.
Naturalmente, il fato benigno lo ripaga come merita, complicandogli l’esistenza, specie se, per esempio, la ragazza in questione è la figlia del sindaco in carica.
Nulla di cui meravigliarsi, è la norma per Malinconico: ” …Le cose che succedono nelle nostre immediate vicinanze ci lasciano sempre increduli, specie quando nella vita ci succede poco.”.
A Malinconico succede invece parecchio, anche quando per esempio è impegnato nel suo normale lavoro di avvocato a difendere una signora, in una causa di separazione, e la stessa se ne esce rimarcando i suoi modi di dire: “…noi avvocati scriviamo i titoli di coda della vita in comune”, una frase che diventerà da quel momento in poi il tormentone del povero Malinconico tutte le volte che tratterrà di divorzi e separazioni nell’esercizio della professione.
Non demorde, però, il nostro avvocato: rivendica sempre il diritto di dire quello che non voleva. Vincenzo Malinconico è un avvocato…” più che di grido, direi di gemito”.
Questa frase gli calza a pennello.
Non è un matrimonialista, o un penalista, nemmeno ha uno studio suo o è associato ufficialmente allo studio Lacalamita. Sa fare tutto, come i mediocri. I bravi si specializzano.
Perciò è un precario, un provvisorio, un effimero, un incerto della vita.
Un intellettuale prestato all’avvocatura, e come tale portato alla riflessione più che al conflitto.
Come tutti noi, possiede poche e dubbiose certezze, e qualche sicura paura, senza tentennamenti.
La stessa paura che assale tutti noi quando, per esempio, ci ammaliamo.
Si ammala, Vincenzo Malinconico. Si spaventa, sebbene il medico lo esorti ad affrontare il problema come una cosa tra le altre: sa che, il limite di questa esortazione, è che nessuno ti spiega come si fa. Attende perciò come tutti noi, tremebondo, il risultato delle analisi cui si sottopone.
I risultati arrivano: “Avrebbe dovuto dirmelo, il dottore. Quando ti darò la notizia, non guardare il tramonto. Sentirai la mancanza di tutto.”.
Sono questi i momenti in cui ti sorreggono…i valori che contano.
Vincenzo Malinconico apprende che non è vero che l’esistenza deve necessariamente avere una veste…Addolorata. Afflitta. Affranta. Contrita. Angustiata.
Tutti sinonimi del suo rifiuto ostinato nel ricordare il nome della sua segreteria: non è un caso.
Lo sconforto, la sfiducia, la tristezza, seppure velati dal sarcasmo e dall’ironia, non hanno proprio motivo di essere se la tua donna, i tuoi figli, le tue tuoi ex, gli amici, i colleghi, i medici, i compagni di stanza, ti si stringono intorno, ti abbracciano, nel nome dei valori che contano.
“…vivere ogni giorno che ti viene regalato con intensità e riconoscenza, circondato dalle persone che ami e dagli amici (pochi e veri) che ti ritrovi accanto, fregandotene delle piccole, miserabili preoccupazioni con cui ti sei inutilmente intossicato l’esistenza…La vita…bisogna tenersela stretta.”
Tutto questo che dice l’avvocato Vincenzo Malinconico, ed è l’essenza stessa del romanzo, un romanzo che è bello, è bello scoprire, è bello scoprirlo.
Commuove, incanta, delizia.
Sarà sentimentale, smielata e struggente, ma è bellissima quest’idea:
“Mi piace l’idea che siamo in tanti nello stesso recinto, e che possiamo farcela.”.
Come personalmente direi che è bellissimo questo romanzo di Diego de Silva.
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Con la kippah in testa, a testa alta
La tragedia della Seconda guerra mondiale inizia con l’invasione militare, una vera aggressione a tradimento, programmata e pretestuosa, della Polonia; e con questa becera prepotenza si rivela palesemente ben presto al mondo intero tutto l’orrore del nazifascismo.
La vile e barbara persecuzione degli ebrei prima, e il loro sistematico sterminio poi, come dettato dalla follia hitleriana, inizia pertanto, di conseguenza, per prima proprio nei confronti dei “juden” polacchi, prima di estendersi con metodo e rigorosa disciplina di morte al resto dell’Europa occupata.
La Polonia, e gli ebrei polacchi, sono i primi a subire l’olocausto, faranno da cavia, da apripista, da modello per le barbarie successive dei nazisti.
Prima ancora della definitiva soluzione finale, nel mentre si approntano i campi di sterminio, di cui il più noto, e famigerato, sarà proprio quello di Auschwitz, all’estremo settentrionale di quella terra, fin dall’inizio i tedeschi iniziarono a deportare da tutto il Paese migliaia di ebrei polacchi, praticamente tutti quelli che non sfuggirono ai rastrellamenti effettuati con spietato rigore e efferatezza, stipandoli a forza nei ghetti.
Erano questi grandi agglomerati di quartieri, nei quali erano letteralmente riversate esclusivamente persone di etnia ebraica, il più famoso, e popoloso, era quello della capitale, il ghetto di Varsavia.
Le condizioni di vita nel ghetto erano difficili, per non dire tragiche, nessuno poteva entrare e uscire liberamente dalla cittadella, gli abitanti sopravvivevano a stento, isolati e lasciati a se stessi, nonostante la fame, la difficoltà di approvvigionamenti, le malattie, il clima rigido, le continue vessazioni e persecuzioni degli occupanti.
La proverbiale Resistenza del popolo ebraico, stoica, fortissima, compatta era basata sul comune sentimento religioso e di etnia.
Pur in quelle tragiche condizioni, con livelli di mortalità altissima, gli ebrei resistevano nel fisico e nel morale, sodali e solidali tra loro, in continuo mutuo e reciproco soccorso.
Continuavano una parvenza di vita per quanto possibile nella norma, con infiniti sacrifici lavoravano, producevano, s’innamoravano, figliavano, osservavano le feste e i loro precetti, tiravano avanti mantenendo coraggiosamente intatte le loro abitudini, tradizioni, i loro usi e costumi, i riti, le ricorrenze, le celebrazioni, le loro cerimonie mirabili e affascinanti.
In definitiva mantenevano viva l’identità ebraica, di popolo e di credo.
La loro esistenza, come sempre, come tipico del popolo ebraico, era di una tenuta, di un vigore mirabile derivante da millenni di fede nel Dio unico.
Una santa e sacra Alleanza cui tutto andava ricondotto, anche le condizioni di vita misere e miserevoli, cagionevoli, stentate, miserande, che richiedevano accettazione eroica, erano vissute con animo umile e mansueto.
La loro fede, di più, la loro commistione con Dio, era la loro forza vitale, l’unica, ma ineguagliabile e quanto mai efficace.
Il popolo ebreo era, allora come sempre, emblema vivente che il bastone può straziare la carne, ma non può cancellare l’Idea, la loro fede in Dio, la loro fierezza di appartenere al Popolo Eletto.
Un esempio di resistenza passiva, quindi, che non era ignavia, paura, timore o vigliaccheria, tutt’altro, nessun più di un ebreo sa quanto più forza e coraggio ci voglia per vivere in tempi e situazioni difficili.
Tutta l’esistenza di un ebreo è un cammino di fede in Dio, ma con coraggio, baldanza, audacia.
Non sopportando più la pervicace resistenza degli ebrei del ghetto di Varsavia, il loro esemplare “l’chaim”, l’attaccamento alla vita, malgrado ogni tentativo volto a fiaccarne letteralmente il Credo più che la comunità fisica, il comando tedesco, nella diretta persona del Reichsführer-SS Heinrich Himmler, l’anima nera della Germania nazista, decide una definitiva prova di forza.
Come crudele esempio non solo per altri ebrei, ma per tutti quanti si opponevano al nazismo e all’occupazione tedesca non solo in Polonia ma in tutta Europa.
In simili condizioni di svantaggio, la distruzione del ghetto di Varsavia, sulla stregua di Guernica, è organizzata e da ritenersi conclusa, definitivamente eseguita e terminata al più non oltre tre giorni di attacchi delle agguerrite milizie tedesche contro gli ebrei superstiti.
Mal gliene incoglie.
Il ghetto di Varsavia, e i suoi occupanti, resisteranno invece per più di un mese, mirabile esempio per il mondo libero d’impavida resistenza ai demoni tedeschi, al male personificato negli elmetti a testa quadra, dando filo da torcere alle SS, più numerose, più addestrate, meglio armate.
Gli Ebrei combattono, a mani nude letteralmente contro i cannoni, e lo fanno con coraggio e fierezza, a testa alta, senza elmetti, ma con in testa il tipico copricapo ebraico, la kippah.
Che li proteggerà meglio, elevandoli a gloria eterna, dopo l’inevitabile scontata sconfitta, costata però un caro prezzo agli invasori, da un punto di vista materiale e soprattutto d’immagine.
Davide che cade, ma Golia che traballa, goffamente, schernito dal resto dell’umana libera umanità.
“Mila 18” di Leon Uris è tutto qui finora detto, è il romanzo vivo, pulsante, eroico che racconta l’epopea del popolo ebraico nei giorni della gloriosa rivolta del ghetto di Varsavia.
Un racconto gagliardo, un resoconto dal sapore leggendario, ma soprattutto una storia commovente, drammatica, tenera e poetica: oserei definirlo un romanzo d’amore.
Ben scritto, fluido, scorrevole, avvincente, incanta con ardore e pathos, con delicatezza e poesia, è un racconto d’azione e di guerra, di guerriglia e paure, ma anche grondante di sentimenti, di solidarietà, di amore, di amicizia.
Leon Uris, ebreo polacco, non ha vissuto quell’epopea in prima persona, ma è stato un cronista, un corrispondente di guerra, ha raccolto le storie dei superstiti, le testimonianze di coloro che in prima persona, da ambo le parti, vissero quei giorni, e ne ha fatto romanzo di vita.
Il libro, il cui titolo richiama il nome della via, in pieno centro del ghetto, dove aveva sede il comando degli insorti, non è una storia inventata e romanzata; è cronaca, nello stile di altri libri dell’autore, di fatti veri e personaggi reali, resi con altri nomi e altre sembianze ma riconoscibili dai protagonisti reali e a quelli riconducibili.
Leon Uris non scrive della rivolta nel ghetto, racconta della vita nel ghetto in quel tempo e in quelle circostanze, e stilando cronaca di quei giorni e quelle persone, scrive un racconto di vita.
La disperata e coraggiosa, impari e disarmata rivolta antinazista di cinquantamila ebrei nella primavera del '43, la progressiva distruzione del ghetto, è quasi un espediente con cui Uris narra anche di altro, il racconto per far uscire dalla Polonia un giornalista italo-americano in possesso di carte segrete a riprova dell’Olocausto in corso, le vicende e le schermaglie d’amore di Christopher e Deborah, di Andrea e Gabriella, di giovani, uomini, donne, bambini, ritratti nel loro vivere e, purtroppo, morire.
“Questo esercito di fortuna, privo di armi vere e proprie, tenne a bada per quarantadue giorni e quarantadue notti la più potente forza militare che il mondo abbia mai conosciuto”, questa frase è di Leo Uris stesso. E rende ragione della tenacia, del carattere, della costanza, della lena e della pazienza di un popolo, lo stesso che di lì a poco, a guerra finita, rinnoverà l’esodo biblico verso la terra promessa, andando a costituire ex novo una nuova nazione, lo Stato di Israele.
Dove gli ebrei continuano ancora oggi la loro esistenza, nemmeno completamente in pace neanche stavolta, in verità, ma sempre a testa alta, con la kippah in testa.
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Touring club
Sono un grande ammiratore di Walter Veltroni: del politico, dell’uomo, del regista e dello scrittore.
Tra l’altro, ho avuto modo di conoscerlo personalmente, di incontrarlo in varie occasioni, in vesti e funzioni differenti: sempre però, in tutte le circostanze, ho avuto modo di costatare di persona che mantiene intatte, ovunque e sotto ogni funzione, le sue caratteristiche di persona intelligente, tranquilla, tollerante.
Un uomo di pace e di concordia, cresciuto con certi valori ben precisi, e a quelli è sempre rimasto fedele, un uomo coerente come pochi, veramente una brava persona, un gentiluomo, educato, rispettoso dell’altro, mai prevaricante, una persona perbene.
Come soggetto politico, ho apprezzato i suoi modi semplici, cordiali, pragmatici, alla continua ricerca di condivisione, di ciò che unisce e non di quanto divide, mirato al bene comune.
Umanamente parlando, possiede con evidenza una notevole sensibilità, un’empatia istintiva per il prossimo, perciò sa instaurare rapidamente un civile dialogo con chiunque.
È persona portata alla riflessione, un intellettuale con poliedrici interessi, ama da sempre, spassionatamente, il cinema, si è cimentato con fortuna con quanto sa fare meglio, i documentari, ritratti di cose, persone e realtà sociali visti in presa diretta, e di cui ha curato magistralmente la regia. Mi hanno enormemente colpito i suoi lavori come “I bambini sanno”, “Gli occhi cambiano”, “Indizi di felicità”, “Tutto davanti a questi occhi”.
Veri e proprie testimonianze della realtà sociale e umana del nostro Paese, con riguardo per quelli che si mostrano senza riserve più spontanei e genuini davanti alla macchina da presa.
Veltroni fa parlare visibilmente, senza artifizi, i fatti sociali, quelli che in ogni luogo d’Italia si succedono sempre uguali, anche se appaiono tutti diversi.
Non solo, l’occhio della telecamera segue i diretti, reali protagonisti del costume italiano, e senza costrizione neanche occulta, li fa parlare a ruota libera, così che essi rivelano spontaneamente se stessi, come sono cambiati e cosa sono diventate le persone e le tradizioni nel nostro paese.
Documentando gioie, dolori, problemi, sacrifici, allegria, pianti sorrisi, da una parte all’altra del Paese. Con una incursione anche nel tragico, riportando per esempio la diretta testimonianza di un sopravissuto ai campi di concentramento.
Non ultimo, Walter Veltroni è anche scrittore.
Ha una curiosità intellettuale, e un debole per la Storia, convinto che le azioni degli uomini determinano i fatti storici, e questi a loro volta innescano altre azioni, talora conflittuali, tal altra uguali e contrari, a volte tragici, altri lieti, costituendo il cerchio della vita, quel gran libro dell’esistenza da cui ha tratto spunti. Ha scritto libri per raccontare fatti che lo hanno colpito, ne ha fatto romanzi, secondo il suo estro artistico: ho apprezzato così alcuni piccoli gioielli frutto della sua penna, come “Noi!, “L’inizio del buio”, “Ciao”, “Quando”, ho seguito con interesse e partecipazione anche quel saggio intenso e delicato che è “Odiare l’odio”.
Perciò, potevo mai non leggere la sua incursione in un genere tanto gettonato quanto il giallo?
Perché il suo: “Assassinio a Villa Borghese” questo è, un giallo, un intrigo, un thriller che racconta di misteriosi omicidi e di poliziotti che indagano infaticabili con acume e intelligenza per risolvere il mistero e assicurare alla giustizia l’assassino.
Un classico, quindi, e niente di strano, l’autore si è adeguato ai tempi, basta pensare alla fortuna che arride negli ultimi anni al genere e ai suoi autori che vanno per la maggiore, Camilleri, De Giovanni, Manzini, Malvaldi, anche ex magistrati come Carofiglio, finanche un fine intellettuale come Umberto Eco scelse il genere per il suo esordio nella narrativa con “Il nome della Rosa” .
Walter Veltroni immagina in questo libro la costituzione di un commissariato di polizia all’interno del più grande parco pubblico della città, il polmone verde di Roma, il Central park italiano, Villa Borghese. Un parco immenso nel centro di Roma, più grande di Città del Vaticano e di poco più piccolo del principato di Monaco. Ci sono musei, teatri, la Casa del Cinema, ludoteche, chiese, migliaia di piante, corsi d’acqua e le svariate specie animali ospitate al Bio-Parco.
Trattandosi di un posto di polizia tranquillo, anche monotono, dove il massimo che può accadere è un bambino che, intento ai suoi giochi, finisce per sperdersi, non è molto ambito, per cui a esso è destinato una mal assortita combriccola di poliziotti in disgrazia, se non proprio inetti, elementi raccogliticci dei vari distretti di polizia della Capitale.
In un certo senso le riserve, per non dire gli scarti, quelli che nessuno vuole in organico nella propria squadra o commissariato, destinati quindi a vivacchiare, possibilmente senza fare danni, sono letteralmente un eterogeneo gruppo di soggetti “sfigati”. A guidarli è chiamato Giovanni Buonvino, ispettore superiore che, quindici anni prima, è stato condannato alle retrovie da un bruciante errore. Pochi giorni dopo l’inaugurazione del commissariato, però, manco a farlo apposta, accade un fatto inaudito, si trova un cadavere, per di più anche orrendamente straziato.
Ne seguirà, con alterne vicissitudini, un’indagine che riabiliterà il commissario, il commissariato e la sua squadra restituendo a tutti loro onore e prestigio, venendo a capo del macabro mistero.
La costituzione originaria di tale malridotto posto di polizia richiama subito alla mente analoga organizzazione di forze con cui sono stati creati i “Bastardi di Pizzofalcone”, l’abile squadra investigativa di Napoli creata da Maurizio de Giovanni.
Solo che, ci spiace dirlo, Walter Veltroni non è De Giovanni, direi di più, non è un autore di gialli.
Credo che Veltroni si sia cimentato nel genere quasi per sbaglio, non è cosa sua, francamente.
La storia, e il mistero attorno a cui dovrebbe ruotare, è bislacca, non sta in piedi, manca di sostanza, anche i personaggi sono appena tracciati, poco delineati nelle loro caratteristiche, pur avendo più di un particolare che si presta allo scopo.
Intendiamoci Veltroni è una buona penna. È la storia, non chi la racconta.
Non è nelle sue corde; può essere anche una lettura distensiva, anche divertente, e istruttiva per chi non conosce Roma, e tutti i gioielli contenuti a villa Borghese.
Diciamo che Veltroni ci ha messo tutto il suo amore per la sua città, descrivendo uno scorcio tra i più belli della Capitale, e infatti ci parla, e li descrive mirabilmente, di posti come la Casina Veladier, il Parco dei Daini, la Casina delle Rose, la Casa del Cinema, i luoghi dove Ettore Scola girò il suo capolavoro “C’eravamo tanto amati”, con il famoso ristorante mezza porzione, la Casina dell'Orologio, la Meridiana, il Giardino del Lago, insomma ci fa fare un giro turistico meglio di una guida del touring, ci parla dei suoi miti ed eroi come Dario Argento, Dalla, De Andrè, Nick Novecento…ecco, questo sì.
Ma come giallo, questo libro non funziona. Non è cosa sua, non va bene per Walter Veltroni, non è nelle sue corde, e capacità, che pure sono notevoli. Come dire…a ciascuno il suo.
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L’chaim (alla vita)
Conoscere il passato per comprendere meglio il presente, magari, perché no, costruire un buon futuro: sic et simpliciter, questo è il messaggio insito in “Exodus”, romanzo dello scrittore ebreo, polacco di origine ma naturalizzato americano, Leon Uris.
Un libro datato nel tempo, in verità, ristampato in una nuova edizione da pochi anni; la sua prima uscita, infatti, risale al finire degli anni ‘50, addirittura, eppure è un testo quanto mai attuale, vivo, pulsante, grondante verità e chiarezza su episodi storici passati, spesso misconosciuti ai più.
“Exodus” non è un romanzo storico, strettamente parlando, e nemmeno è un racconto romanzato di cronache passate reali, con tanto di personaggi e personalità veramente esistite, a fare da contorno a un immaginario dello scrittore, un romanzo alla Ken Follet per intenderci, senza nulla togliere al valente scrittore del Galles.
“Exodus” è tutt'altro: utilizza personaggi di fantasia, è vero, con altri nomi e altre sembianze, ma esattamente riconducibili a persone realmente esistite, narrando i fatti esatti che li hanno visti attori principali a tutto tondo.
Soprattutto, il romanzo racconta, ammantati non di poesia, ma di delicata empatia umana, gli eventi come si sono, in effetti, spiritualmente originati, e poi umanamente susseguitisi nel corso del tempo. Non solo, ma fa ben di più, manifesta in maniera chiara l’autentico sentimento, di la da ogni deriva sociopolitica, che c’è dietro ad una questione decennale, per non dire secolare, tuttora non risolta: la questione israelo – palestinese.
Tutte le tensioni tuttora esistenti nel Medio Oriente trovano il loro catalizzatore, il punto focale su cui convergono tutte le annose questioni di quest’area calda, se non caldissima, del nostro pianeta, proprio sull'irrisolto problema della terra contesa fra israeliani e palestinesi.
Sussiste un’impossibilità, insormontabile da sempre, nonostante gli annosi sforzi della diplomazia internazionale, di raggiungere un accordo, un’intesa, una firma definitiva di pace tra due popoli che, per assurdo, pur vantando un’unica origine etnica, sono da sempre in conflitto.
Niente e nessuno sono riusciti a dar luogo alla soluzione più logica, pragmatica e dogmatica, la creazione di due stati che vivano a fianco a fianco in pace e sicurezza, corrispondenti in linea di massima all'attuale stato d’Israele da una parte, di popolazione ebraica, e i territori circostanti di Cisgiordania, della Striscia di Gaza e quanto altro variamente denominato dall’altra, il cosiddetto Stato Palestinese, terra martoriata associata all'intifada, ai poveri disgraziati profughi palestinesi, al terrorismo e agli atti di sangue di Al Fatah e Yasser Arafat, tanto per dirne qualcuna.
Israele, stretta tra terra e mare, con tutti i crismi di stato sovrano riconosciuto, si batte strenuamente dalla sua creazione, letteralmente con le unghie e con i denti, per la difesa del suo territorio, o meglio per quello che gli è stato concesso per partizione dalle Nazioni Unite, e per quello che in seguito si è annesso, per conquista militare, insediamento di coloni e conseguente introflessione nei suoi confini.
Fin dalla sua origine, ricordiamo che lo Stato d’Israele fu proclamato il 14 maggio 1948 allo scadere del mandato britannico.
I paesi arabi si opponevano al piano e le forze militari congiunte, di credo musulmano, di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq attaccarono subito Israele.
Lei sola si trovò contro tutto il mondo arabo e musulmano, da cui è circondato da ogni lato.
Pertanto gli ebrei sono ben consci che un’eventuale sconfitta in una qualsiasi guerra, con relativa invasione del suo territorio, sarebbe anche l’ultima della sua giovane storia: sarebbero ributtati a mare una volta per sempre, senza possibilità di rivincita.
Questa situazione, e soprattutto come e perché si è giunti a tanto, è appunto il tema del romanzo “Exodus”. Esso racconta soprattutto come, a seguito al movimento d’immigrazione in Palestina già in atto fra gli ebrei della diaspora, frutto della dispersione del popolo ebraico avvenuta durante i regni di Babilonia e sotto l'impero romano, tale fenomeno andò naturalmente accentuandosi per l’afflusso durante, e massicciamente dopo, la Seconda Guerra Mondiale, soprattutto sotto la stimolo fisica ed emozionale dello stermino di sei milioni di ebrei da parte dei nazisti.
La storia è ambientata nel 1947, nella zona funzionava il mandato britannico, ostile a tale immigrazione, nonostante l’olocausto; mandato mal tollerato da tutti i residenti palestinesi in generale, ma in particolare dagli ebrei, animati da volontà di trovare finalmente una patria dopo le atrocità e gli infiniti lutti sofferti.
Tutto il romanzo è una storia di lotta e di passione, di astuzie e di guerriglia, una guerra d’indipendenza impari ma ispirata da tenacia e da ferma, ostinata, ossessiva aspirazione alla creazione di uno stato ebraico, di una patria, ma più che altro di un rifugio definitivo alla paura e all'angoscia da sempre opprimenti gli ebrei, stranieri in terra straniera dovunque si stanziassero, perenni capri espiatori di qualsiasi crisi politica, con prescrizioni e vessazioni continue.
Volete dargli torto?
Abbiamo accennato al fatto che l’autore è ebreo, ma questo particolare non deve risultare fuorviante. Leon Uris, quantunque la sua origine, non è uno scrittore di parte, meno che mai ha prodotto un’elegia dell’ebraismo: semplicemente riporta il romanzo, perché questo evento è per davvero una storia fantastica, della nascita dello stato di Israele.
Con imparzialità e rigore, non dello storico, ma del cronista, perché prima di essere uno scrittore, Uris è stato un corrispondente di guerra, proprio in quegli anni e in quei luoghi caldi, dove ci si batteva per la sopravvivenza dello Stato ebraico, ne ha sentiti in prima persona le storie e i sentimenti, ha raccolto testimonianze ed esperienze, le ha filtrate per il tramite della sua sensibilità umana, e ne ha tirato fuori un piccolo capolavoro letterario nel suo genere.
Scritto in maniera precisa, accurata nei fatti e negli episodi, riporta in maniera obiettiva stati d’animo, reazioni, perplessità e emozioni dei personaggi principali, riconducibili malgrado i nomi differenti, con gli autentici protagonisti dell’epoca, e però con scrittura scorrevole, fluida malgrado i continui intrecci e scenari divergenti, a riprova della complessità della Storia.
Il racconto è incentrato su un personaggio principale, Ari Ben Canaan.
Da questo libro fu tratto anche un film di successo, anche se il libro è tutt’altra cosa, assai meno romantico e più realistico della pellicola, e il ruolo di Ari è fissato nell’immaginario degli spettatori con gli occhi di ghiaccio dell’attore Paul Newman, allora all’apice del suo successo.
L’Ari letterario è altro, e figura ben più consistente: è un sabra, cioè un ebreo nato in Palestina.
Siamo, infatti, in una situazione tale che agli ebrei sopravissuti all’Olocausto e a quanti altri intendono raggiungere la Palestina, è impedito con la forza dagli inglesi di raggiungere la zona, rinchiudendoli in autentici campi di concentramento.
Figuriamoci come possono reagire gli ebrei superstiti a un simile trattamento, ne hanno avuto abbastanza di campi e fili spinati.
Ari è un agente dell’Haganà, il servizio segreto clandestino del popolo ebraico, che riesce con un colpo di mano a trasportare nella terra promessa circa un migliaio di profughi, con un nave ribattezzata appunto “Exodus”, in ricordo dell’esodo del popolo ebraico descritto nella Bibbia. Questo episodio avventuroso del viaggio da Cipro all’Haifa, con l’arrivo in Palestina, è l’occasione per Uris per ricostruire la situazione del nascente stato di Israele, la colonizzazione delle terre e il duro lavoro di fertilizzazione e insediamento con i kibbutz, specie di fattorie collettive, la lotta politica tra le diverse fazioni dei servizi segreti, divisi tra politiche diplomatiche o di sanguinaria guerriglia, in particolare i contrasti tra coloni ebrei i residenti.
Da un lato gli ebrei che, come dice Ari, hanno smesso di fidarsi di chiunque non sia ebraico fino al midollo, non si affidano più ciecamente ad altri di fede diversa non per sfiducia ma per convinzione, avendo compreso che il libero arbitrio che il loro Dio gli ha concesso, contempla un’intensa attività del fare esclusivamente in proprio, ad ogni costo, senza contare più su altri.
Tutti i non ebrei hanno condannato l’olocausto senza riserve, ma ben pochi non ebrei hanno fatto altro per impedirlo.
Il saluto ebraico di rito suona “Shalom”, che significa pace, ma il modo ebraico di intendere l’esistenza è ben espressa nel loro brindisi, “L’chaim”, che significa “alla vita”.
La vita richiede impegno personale, dal fucile alla zappa, dall’amore al sacrificio.
Dall’altra, gli indigeni musulmani, tra l’altro aizzati contro i presunti usurpatori della loro terra, per i loro scopi di egemonia nella zona, da organismi tedeschi o filo germanici, guarda caso.
A loro, per lo più nomadi e pastori, è volutamente fatto apparire blasfemo voler trasformare a forza in un Eden fertile e produttivo le antiche, brulle e desertiche terre degli avi, convinti che la loro vita sia volere di Allah, e intestardirsi a mutare lo stato delle cose sia un’autentica offesa a Dio.
Inshallah, se Dio vuole, quindi; non si può costringere le cose ad andare diversamente, se Lui non vuole. Due filosofie diverse, certo, eppure ambedue monoteiste, potrebbero ambedue fare di più.
Tutto intorno ad Ari, Leon Uris raccoglie un ricco corredo di storie collaterali dei vari personaggi di grande e piccolo spessore umano, sempre evidenziando un qualche legame della loro vita personale alla nascita del nuovo stato ebraico.
Per gli appassionati di storia, non è difficile riconoscere le figure di Yitzhak Rabin, Moshe Dayan, Menachem Begin, Yitzhak Shamir, Golda Meir, Ariel Sharon e altri.
Il romanzo ha un finale struggente, in cui un’ebrea e un arabo condividono finalmente la loro terra…vista dalla parte delle radici, però.
Una tragedia che perdura tuttora.
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Io (non) ho paura
Leggo e seguo Lorenzo Marone dai suoi inizi.
Mi piace, come persona e come scrittore, sono un suo fan, per tanti e svariati motivi, non ultimo, mi faccio sfacciatamente influenzare dai comuni natali napoletani. Lo ammetto, sono di parte.
Il suo testo d’esordio: “La tentazione di essere felici” mi ha letteralmente incantato, e del protagonista di quella bella storia, Cesare Annunziata, conservo un ricordo lieto, direi affettuoso, se così ci si può esprimere per un personaggio di fantasia letteraria.
Tra l’altro, io che non amo il libro elettronico, non ho esitato a scaricarmi il suo “La tentazione di essere Cesare Annunziata”, una raccolta di racconti con il leggendario personaggio.
Mi ha “preso” di meno il suo secondo romanzo, “La tristezza ha il sonno leggero”; poi di nuovo Marone mi ha spedito in orbita con “Magari domani resto”, facendomi innamorare come una pera cotta di Luce Di Notte, la protagonista di questo racconto sospeso tra malinconia dei ricordi e resilienza nell’affrontare l’esistenza.
Di lì a seguire ho apprezzato alla grande “Un ragazzo normale” e “Tutto sarà perfetto”, “Cara Napoli” e “Le feste non vengono mai sole”, ottimi titoli e gradevoli letture, che consiglio spassionatamente.
Pensavo quindi di conoscere bene lo scrittore napoletano…della serie le ultime parole famose.
Il suo ultimo, “Inventario di un cuore in allarme” mi ha completamente spiazzato, sia perché non ero informato della sua problematica ossessione, l’ipocondria da cui è afflitto, che è la protagonista assoluta non dico di questo racconto, ma del suo monologo su questo tema, sia perché è del tutto insolito rispetto a come ho imparato a conoscerlo, è decisamente un testo al di fuori delle sue tematiche abituali.
Lorenzo Marone è un formidabile affabulatore, ma più che storie con persone, racconta i sentimenti delle persone, e in questo eccelle.
Li indaga, li rivela, li palesa con estrema sensibilità e delicatezza, li offre infine al lettore emozionandosi lui per prima, tanto lui stesso vive le sue storie, s’immedesima in azioni e personaggi tanto reali quanto struggenti, emozionando a ruota il lettore.
Stavolta invece affronta non dico un argomento serio, perché i temi trascorsi che ha trattato, i sentimenti e le emozioni di cui ha scritto, sono cose serie, ma un argomento serioso.
Anche troppo, come può essere la malattia, vera o presunta che sia.
Capisco perfettamente l’intento meritorio e meritevole dello scrittore, che è quello di esorcizzare la paura, sua e quella dei lettori che ne sono afflitti, raccontandola e raccontandosi, ed è certamente un’intenzione lodevole e degna di menzione.
Sdrammatizzare è il passo, quello iniziale e più efficace, per ridurre un problema ai minimi termini, riconducendolo in un’area più vasta, prodiga di soluzioni, togliendolo da un vicolo stretto e buio, e senza uscita.
Tra l’altro, Marone è uno scrittore che sa scrivere, e scrive davvero bene, tanto di cappello, ha una scrittura potente, schietta, franca, incisiva, racconta le cose come stanno, e come devono essere espresse per giungere bene al lettore.
Il libro è un buon testo, si fa leggere, e però devo ammettere che non desta l’interesse che ci si sarebbe aspettato da tanto nome, proprio perché fuori dai canoni cui ci aveva piacevolmente abituati. Pertanto, ammetto che non coinvolge, non prende completamente, sembra più un parlarsi addosso che conversare e condividere, appunto un monologo.
Ed è difficile che un monologo monopolizzi l’attenzione del lettore per tutte le pagine di un libro.
Appurato questo, in estrema sintesi, questo libro è un elenco, neanche esaustivo, illustra le varie fobie e le strategie per liberarsene, comunemente diffuse tra chiunque sia affetto da ipocondria.
Messe in atto per liberarsi, o in qualche modo alleggerire il fardello di credere di essere afflitti da una qualsivoglia patologia.
Finendo per ammalarsi davvero, non della malattia di cui si crede di aver riconosciuto segni e sintomi, magari letti casualmente da qualche parte, ma di una malattia ben più grave.
Una paura, un’ossessione, una fobia, che questa si è vera, reale e non solo presunta, e ti rovina la vita, non solo la tua, ma anche quella di chi ti sta vicino.
Con vena e stile magari tragicomica, ma seriosa, il libro di questo tratta.
Letteralmente, fa un inventario delle cose che trasmutano in fobia, in paura allo stato brado.
La paura agita, turba, impressiona; e poiché le malattie possibili sono tante, altrettante numerose sono le fobie che ne conseguono, e i rimedi o presunti tali.
Perciò un rimedio omnicomprensivo è impossibile, serve distinguere la strategia d’attacco.
Falliti i confronti con amici, parenti e familiari stretti, che tendono a sminuire o a negare simili fobie, una soluzione è quella di rivolgersi alla chiesa cattolica, che ha nel proprio statuto anche la “mission” di consolare gli afflitti.
Solo che nessuno ha una fede incrollabile, e la pazienza che a questa si dovrebbe accompagnare, meno che mai un prete.
In verità l’ipocondriaco sa benissimo che le presunte malattie di cui si crede afflitto, altro non sono che un segnale di disagio che parte dalla sua testa, e utilizza il corpo e le sue presunte sintomatologie per ricordargli che, da qualche parte sepolta nella materia grigia, c’è un fatto, un evento, un episodio, un quid, non necessariamente un trauma, che da bambino in qualche modo lo ha turbato e per cui serve esorcizzarne il ricordo, onde sublimarlo e liberarsene.
Solo che lo ripetono tutti gli analisti, questo assioma, anche se con tecniche diverse, ma il fatto, l’evento, l’origine, proprio non ne vuole sapere di farsi ricordare per la catarsi liberatoria.
Che fa allora l’ipocondriaco, e per derivazione, il fobico? Evita. Scappa. Si sottrae.
Ha paura di volare? Non vola. E via così.
Gli ipocondriaci fanno propria la massima di Linus: “Non esiste problema così grande o complicato dal quale non si possa scappare”.
La grande fuga, insomma, gli appassionati di cinema sanno a cosa mi riferisco.
Devo dire che per essere un romanzo, è molto istruttivo, ho imparato che esistono tantissime fobie, alcune veramente strane.
La prima, l’ipocondria, il terrore di ammalarsi. Poi, la dermatofobia (paura delle lesioni della pelle), la cancerofobia (la paura delle malattie oncologiche), l’aracnofobia (la paura dei ragni), la iatrofobia (la paura dei medici, il che per un ipocondriaco è l’apoteosi!), l’eliofobia (paura per le scottature solari), entomofobia (paura degli insetti).
Ancora, l’aerofobia e l’acrofobia, rispettivamente la paura di volare, che non c’entra niente con Erica Jong, e la paura del vuoto; poi la coimetrofobia, la paura dei cimiteri, e la talassofobia, che è la paura del mare aperto, che per un napoletano è un guaio grosso, e altre e ancora altre, per finire in bellezza con la fobofobia, la paura delle paure, il timore cioè di sviluppare una fobia…ma no, ma tu guarda! Ma ven via, ma cosa vai a pensare.
E però…e però, abbiamo detto che Marone è un bravo scrittore, e dà il suo meglio quando ci parla di sentimenti. E qual è il sentimento principe?
Ma l’amore, naturalmente. L’Amore che tutto vince, amor omnia vincit.
Infatti, a Marone lo salva l’Amore.
Sono due sole le paure di cui, per fortuna sua, non deve fare i conti.
Ne è fortemente immunizzato, su di lui non attecchiscono manco a insistere fino alla notte dei tempi.
La prima è la xenofobia: Lorenzo Marone non teme lo straniero, il diverso, di altra etnia.
La seconda, la philophobia, la paura di amare. Marone ama, ed è riamato.
Privi di questa paura, ci salviamo tutti, perché l’amore è la panacea.
Lorenzo Marone lo sa, e lo dice, chiaro, in modo insolito, ma alla maniera sua.
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L'umana meschinità
Scrivere un romanzo, è qualcosa alla portata di molti, anche se, in verità, scrivere non è arte adatta a chiunque, solo pochi, in effetti, eccellono nel comporre nero su bianco.
Tuttavia, un romanzo ha questo di buono, ci si può cimentare anche uno scrivano medio, almeno non del tutto pessimo, perché il romanzo è un qualcosa d’animo buono e compassionevole, ti dà tempo e modo di rendere in qualche maniera accettabile il parto della fantasia letteraria di uno scrittore.
Un romanzo ti regala spazio, e ore e giorni e mesi, ti concede pause e riprese, ti permette di guidare la tua storia fuori dalle secche in cui si è impantanata a causa di qualche blocco dello scrittore.
Inoltre, se solo riesci a centrare un solo pezzo valido, un capitolo mediamente buono, o più di uno, questo è sufficiente a rivalutare sicuramente tutto il ciarpame vergato fino allora.
Ancora, un romanzo ti permette di dilungarti e spiegarti meglio, di approfondire, di eviscerare completamente in modo esaustivo almeno, se proprio non ti riesce a essere efficiente, cosicché magari hai espresso opinioni noiose, futili, uggiose e soporifere, neanche lontanamente condivisibili, redatte pure male, ma almeno in forma esaustiva, senza sospesi.
Il romanzo è comprensivo, con il suo autore, è accondiscendente, gli permette tutto, e il contrario di tutto.
Un racconto no: esso è crudele, secco, impietoso.
Il racconto non è un romanzo con molte pagine in meno; le dizioni romanzo breve o racconto lungo sono espedienti fallaci e menzogneri, il racconto è qualcosa a se stante, unico. Non solo, ma è inclemente, insensibile, spietato con il suo autore.
Il racconto non conosce mezzi termini, ed è un test inappellabile: se sei in grado di comporre un buon racconto, in un tempo accettabile, proporzionale alle dimensioni, allora sai scrivere, altrimenti lascia andare, non è arte tua.
Il racconto è un banco di prova per ogni scrittore, senza appello: o sai raccontare, e scriverne, o lascia stare, meglio non rubare testa e braccia per altre attività più consone alla tua indole.
Un qualsiasi scrittore degno di questo nome deve essere capace di raccontare una buona storia, compresa ma non compressa in poche cartelle, ed esprimerla bene, deve suscitare entusiasmo ed emozione in maniera esauriente, efficace, esaustiva.
Se ci riesce, è un bravo scrittore; se lo fa spesso, e con eccellenti risultati, è un grande scrittore. Il romanzo poi, non è altro che una debita conseguenza.
Uno dei più grandi scrittori di racconti è Stephen King, che ha cominciato la sua carriera proprio con storie di poche pagine.
King non ha bisogno di presentazioni, lo conoscono tutti come un grande romanziere, a torto o a ragione, a prescindere dal genere di cui scrive.
Certo, spesso i suoi racconti contano molte pagine, sforano pericolosamente il limite editoriale di distinzione tra romanzo e racconto, tuttavia sono belle storie, che si leggono in fretta, e sempre sono emozionanti, ben scritte, esaustive.
“The mist”, in italiano “La nebbia”, è a parer mio uno dei suoi racconti più belli, già edito nella raccolta “Scheletri”, ma è un piccolo gioiello nel suo genere, ben meritevole di una edizione a parte.
Nella raccolta citata, di racconti veramente ben fatti, ce ne sono diversi; "La nebbia", apre la raccolta, e come si dice, il buon libro si vede dal principio.
Nel "La nebbia" c'è una di quelle situazioni che piacciono tanto a King, una successione banale d’eventi, come può essere appunto l'improvviso levarsi di un bel banco di nebbia, per poi limitarsi ad osservare ed a descrivere al lettore quel che accadrebbe se......
King, infatti, scrive le sue storie senza avere in mente una trama prefigurata, egli parte da una situazione del tutto nella norma, e poi lascia che la storia vada avanti da sé, viva di linfa propria, trama e personaggi vivono e si evolvono secondo la successione degli avvenimenti, consequenziali all'impatto con un elemento perturbatore.
Questo può essere rappresentato da un fenomeno paranormale, o un vampiro, o un mostro che vive nelle fogne, o ancora un banale banco di nebbia che nasconde pericoli inimmaginabili.
Interessante non è tanto la curiosità che necessariamente suscita il mostro o l’evento diverso; molto più interessante e indicativo, talora e più spesso con altri e più concreti caratteri di mostruosità, sono le reazioni degli umani di fronte a tali eventi.
Sono reazioni talora solidali, ci si aiuta a vicenda, insieme ci si ripara, ci si conforta, ci si dà sostegno.
Una volta consolidatasi la micro comunità, ecco emergere le vere caratteristiche di ognuno, l’eccezionalità della forzata convivenza porta all'emersione degli aspetti più deleteri dell'individuo, quelli che tanto bene si riesce a celare nel normale ambito sociale.
Ecco allora individui che, in altre occasioni, si presentano nelle vesti di caritatevoli vecchiette o rette persone, ma gli stessi non esitano, come cala la nebbia sulla ragione e sul sentimento, in nome di una presunta e schifosamente egoistica tutela personale, a richiedere a gran voce l'abietto sacrificio umano di un bambino, per esempio. Solo per dirne una.
Per queste persone la nebbia non cala, si solleva: e rivela la loro meschinità, la loro grettezza, l'egoismo, la cattiveria gratuita, eppure tanto diffusa, e perbenisticamente ben celata.
A salvarsi sono sempre in pochi, i più umani; la scansano questa nebbia e, con un lumicino, si avviano all'affannosa ricerca di qualche motivo di speranza.
Nei giusti, di poco ha bisogno la speranza per sussistere, può bastare una flebile voce appena avvertita su una frequenza radio.
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Quando la notte ti cerca
“Per chi è la notte” è il titolo del romanzo d’esordio di Aldo Simeone: ed è un gran bell’esordire, in verità, un ottimo testo, per essere l’opera prima di un nuovo autore.
Un racconto davvero interessante e avvincente, ben scritto, una bella storia ambientata in Garfagnana negli ultimi anni dell’ultimo conflitto mondiale, redatta con semplicità e inconsueta freschezza narrativa, con uno stile giovane e giovanile.
D’altra parte, è anche un iter obbligato, si tratta, infatti, del narrare in prima persona del protagonista, un ragazzino non ancora dodicenne, di cui è resa fedelmente nel libro l’età, e il corrispondente anagrafico sia del suo pensiero istintivo che del suo ragionamento ponderato.
Con estrema sensibilità, attenzione e delicatezza insieme, l’autore riversa in questa sua narrazione i modi di accogliere la realtà, rifletterci e riversarla nei fatti, esattamente come potrebbe farlo un qualsiasi ragazzino di quell’età.
L’età della prepubertà, anni che sono linee, limiti, tempi di confine, di passaggio, perché questa certo non è più l’età della totale incoscienza da bimbo, ma non si è ancora completamente presi dai turbamenti e dalle palpitazioni degli squilibri emozionali dell’adolescenza, e si è ancora ben lontani dal vissuto spassionato dell’adulto fatto.
Francesco ha undici anni, come tale per definizione è ancora incline ai giochi, alla magia, al fantastico, è un ragazzo come tutti i suoi coetanei curioso, sbarazzino, a tratti ancora infantile, eppure già compreso nel suo voler considerare, e magari comprendere in pieno, i fatti degli adulti.
Specialmente in tempi di guerra, in cui è costretto a vivere adeguandosi in fretta.
Ignora per ovvi motivi l’origine, la portata, le effettive dimensioni e conseguenze di tanti eventi, talora volutamente taciute dagli adulti, ma ne intuisce con interezza, per il tramite delle antenne ben dritte della sua sensibilità prepubere, l’importanza e la drammaticità, ammantandola con l’aurea del fantastico e della favolistica insita nelle leggende della tradizione paesana, che rendono i luoghi della sua infanzia un mix di attraente e pauroso ad un tempo.
Il piccolo protagonista è ritratto immerso interamente in un’età tanto difficile quanto ondivaga, altrettanto ostica a rendersi in un testo scritto da un adulto.
L’efficacia narrativa di Simeone si evidenzia in questo: un descrivere non facile, eppure perfettamente riportato, quasi l’autore s’immedesimasse, ma non solo, si calasse con intensità e partecipazione nell’essenza stessa della sua creatura narrativa.
Ce la riporta vera, e non verosimile, rende realisticamente con impressionante fedeltà questa profondità d’indole istituzionale, presente nel principale e in tutti gli altri bambini, o poco più, coinvolti in prima persona nel suo racconto.
Simeone si rintana in un cantuccio nel cuore del giovane protagonista, e senza interferire, in silenzio, si pone in ascolto e ci riporta esclusivamente quello che il ragazzino vede, sente, interpreta, senza nulla aggiungere, non autore ma semplice spettatore, alla pari del suo lettore.
Lo scrittore pisano descrive senza interpretare, mediare o interferire, esattamente come reagisce il suo dodicenne, in che modo interagisce con fatti e cose “da grandi”, crude, cruente e crudeli come sono sempre le cose degli adulti; il tutto permeato dalla magia e dall’inclinazione al fantastico e al favolistico tipico dell’età.
Il piccolo Pacifico, che neanche sa di avere il nome di un oceano, e s’incanta quando glielo spiegano, neppure si chiama per davvero Francesco, è un nome datosi per le convenzioni del tempo, ed è anche detto Frufrù, termine derisorio che sta per finocchio, chiamato così dai suoi coetanei, non per altro che per sfottò e prese per i fondelli; simili soprannomi, nomignoli e appellativi, sono un classico dell’età.
Francesco è nato e vissuto nel paese della Garfagnana, in cui è ambientato il racconto, sulla linea bellica più ostica e difficile negli anni più crudeli e turbolenti, gli ultimi, dell’ultimo conflitto mondiale. I fatti della guerra che lambiscono pesantemente i suoi luoghi natali sono forse ancora fuori dalla sua piena comprensione, ma egli li accoglie completamente, seppur mediati dalla magia residua dai suoi anni infantili, assorbe perfettamente i drammi a cui già gli tocca assistere nella sua breve vita, fatti congruenti con l’epoca e i luoghi del suo divenire.
Aldo Simeone però si addentra ancora oltre nel bosco della sua inventiva artistica: infatti, non sta raccontando e descrivendo solo i guasti sull’animo sensibile di un preadolescente a causa della guerra e della guerriglia partigiana, come, in effetti, ne sono accaduti tanti, purtroppo, sui nostri Appennini sotto la dominazione nazifascista prima e poi, più accentuata, all’indomani dell’armistizio badogliano.
“Per chi è la notte” non è solo il titolo del romanzo d’esordio di Aldo Simeone; è una domanda, che insieme alla ricerca e all’individuazione della risposta giusta rappresenta, in estrema sintesi, tutto il fulcro attorno al quale si snoda il racconto del giovane scrittore pisano.
Perché non è solo, come abbiamo detto, un racconto di guerra, e di guerriglia partigiana, di eccidio, di rappresaglia, di occupazione, una storia di paese chiuso tra monti e boschi fitti di nascondigli e di misteri, un resoconto di vita contadina, di fame…e come la descrive bene la fame, il nostro autore: ”…con la fame così forte che per sentire qualcos’altro i bambini ficcavano le dita nelle prese della corrente per ricevere la scossa”,
Altrettanto bene, ancora oltre, mostra la miseria, il freddo e la strenua e perenne lotta quotidiana sia per la sopravvivenza in sé sia per sfuggire alle persecuzioni dell’occupazione nazista.
L’intenzione dell’autore non è di descrivere però un fatto storico, almeno non solo.
Aldo Simeone fa di più, racconta una storia di crescita, di maturazione, di acquisizione della consapevolezza del vivere.
Il bambino narratore ci spiega la sua crescita, la sua esperienza di vita, il piccolo testimone racconta semplicemente la sua forzata maturazione dallo scapestrato, ingenuo e infantile Frufrù, unico figlio di un soldato presunto disertore o sospetto aderente alla resistenza partigiana, all’uomo Francesco.
Lo fa nell’unico modo possibile: apprendendo il valore delle scelte.
Comprende che crescere significa una cosa, e una soltanto: scegliere.
Significa schierarsi da una parte, e mantenersi coerenti con la scelta intrapresa.
La scelta del Bene, la via che il cuore t’indica come quella giusta, l’unica possibile, e lo dice chiaro, Francesco Pacifico/Aldo Simeone, senza fronzoli, senza se e senza ma:
“Era questa – capii la vera morale di quella storia: fidarsi, affidarsi, voler bene, amare non è trovare protezione negli affetti, ma accettare il rischio.”
Lo impara, Francesco, diviene adulto nell’unico modo possibile, alla sua età, confrontandosi con i coetanei, soprattutto con l’equivalente del miglior amico che tutti noi abbiamo avuto in quegli anni magici.
Nello specifico il bambino, presunto ebreo, Tommaso, dai capelli rossi e dagli occhi verdi; forse il suo alter ego, forse un’immagine onirica, forse una creatura fantastica neanche esistente, forse davvero semplicemente un piccolo profugo clandestino, nascosto a rischio di vita da un vecchio prete nella sua parrocchia, per sfuggire alle persecuzioni contro gli ebrei.
Forse Tommaso altro non è che quello che sarebbe potuto divenire Francesco stesso se solo fosse vissuto in altro luogo e in altro tempo, dove i bambini semplicemente giocano nei boschi, sui prati e nei giardini senza timore, vanno a scuola, e imparano a non temere qualcosa solo perché non sanno che cosa sia.
Fatto sta che è il suo unico, grande amico per la pelle, quello cui si è legato per sempre con un giuramento inossidabile, con un rituale mistico e leggendario, come mirabilmente lo descrive Simeone:
“…Se uno sta male, l’altro lo sente; se uno è in pericolo, l’altro lo sa. E non si libera finché non salva l’amico. L’avevo giurato col sangue. Col sangue avrei onorato la promessa.”.
Francesco cresce e matura anche interagendo con altri ragazzi come l’avanguardista Secondo, che vive all’ombra delle gesta eroiche del fratello Primo al fronte.
Secondo proprio amico suo non è, perché Francesco non l’ha scelto, è una pseudo amicizia che in un certo senso gli è stata imposta dai tempi e dalle circostanze, e proprio per questo, paradossalmente, pur non piacendogli, Secondo è l’equivalente di un fratello, e Francesco non si disinteressa pertanto nemmeno della sua sorte, ne è partecipe e sodale per quanto gli riesce.
Pacifico è gradualmente seguito nella sua crescita, allorchè apprende con costanza i fondamenti del vivere anche attraverso i rapporti difficili, che per i tempi e i luoghi devono essere ammantati di riserbo, pudore e riservatezza, con i familiari, con il padre, mai visto eppure presenza tanto ingombrante quanto misteriosa, e con la madre, mai prodiga di manifestazioni fisiche affettive di cui non solo Francesco, ma ambedue ne avrebbero necessità.
Sublimi, struggenti, liriche, commoventi allo spasimo sono le righe dell’ultimo saluto madre-figlio, riportate da Simeone:
“…”Non me ne curai perché tutta la mia attenzione, tutta l’energia, tutta la rabbia e l’amore e il desiderio furono concentrati in un ordine che restò muto: Voltati, mamma! Voltati adesso!”
Trae esperienza di vita Francesco finanche cullandosi nei racconti della nonna, che parlano di “streghi”, che vivono nascosti nel BoscoNero e impediscono a chiunque di uscirne, se non si è in grado di rispondere alla parola d’ordine “Per chi è la notte?”.
Streghi, si badi bene, non streghe; perché l’orrore, in genere, è degli uomini, sono loro che portano elmetti quadrati, armi, lanterne schermate per l’oscuramento. Per loro è la notte.
Il bosco è per chi deve nascondersi, perché non gli è possibile tornare, e ci si nasconde sempre nel buio, quindi mai di giorno.
Il bosco esiste anche, e soprattutto, per nascondere a se stessi fin dove può giungere la miseria umana. Per chi è la notte, dunque? La risposta è ovvia, redatta nero su bianco su un libro sacro.
“Per chi è la notte? “Per chi non può far ritorno, se non può andare di giorno”
La risposta c’è, dunque, ma non è data.
Quando calano le tenebre, nel bosco divampano incendi, sparatorie, rappresaglie, barbarie; imperversano ben altri orrori, “streghi” ben peggiori.
Solo allora il bosco davvero diviene Bosconero, perché a renderlo tale, è il velo nero delle storture degli uomini che cala sul paese.
Scende rapidamente la notte buia, la tenebra scura per tutti indistintamente, certo, ma per qualcuno più oscura, la notte è sempre più buia sugli innocenti che sui belligeranti, questo è un classico delle guerre, perché l’ostilità, il conflitto, la discordia, il dissenso, la crisi, sono le più comuni, stupide e buie, delle scelte degli uomini.
Gli uomini pertanto, loro sì, sono gli unici “streghi” realmente esistenti.
Per lavare il paese da tanto fango, servirebbe affogarlo sott’acqua, letteralmente.
Una notte così, una Bosconero di tal genere, ti costringe a scegliere, e scegliendo cresci, e crescendo cambi. Ritorni all’oceano, magari.
“…io stesso ora mi facevo chiamare Pacifico, sia per semplicità burocratica,sia perché di Francesco non avevo più niente, in tutti i sensi della parola, sia infine perché (Tommaso ne sarebbe stato fiero) lo avevo scelto.”
Un bel libro, in definitiva, una lieta scoperta, un testo che scorre fluido, merito della snellezza artistica che si ottiene solo grazie a un accurato lavoro di ricerca, ad un’appassionata rifinitura in fase di prescrittura, ad un amore infinito per la lettura e la scrittura.
Un metodo di lavoro garanzia di sicuri, lusinghieri successi futuri, per il giovane nuovo scrittore Aldo Simeone.
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