Opinione scritta da viducoli
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Un romanzo pretenzioso
Non mi capita molto spesso di leggere libri scritti dopo la seconda guerra mondiale. E’ una mia mania, convinto come sono che la letteratura abbia in gran parte perso il suo ruolo sociale con l’esaurirsi delle avanguardie del primo novecento, con l’avvento al potere del nazismo da una parte e con la trasformazione del potere sovietico nella dittatura staliniana dall’altro.
Nella mia libreria ci sono però anche libri scritti nel secondo dopoguerra, e persino alcuni scritti verso la fine del secolo scorso, ed alle volte mi capita di leggerne.
Devo dire che spesso in questi casi mi convinco ancora di più della bontà della mia scelta, e che, anche dal punto di vista del piacere della lettura, un classico vale quasi sempre senza dubbio molto di più della stragrande maggioranza dei testi contemporanei.
Certo ci sono numerose eccezioni, in un senso o nell’altro (brutti classici o meravigliosi contemporanei), ma questo "Una donna decapitata", pubblicato da Julia Kristeva in francese nel 1996 ed edito in Italia da Sellerio l’anno successivo è a mio avviso uno dei più clamorosi esempi che il mio rifugiarmi nei classici ha le sue buone ragioni, e che ben difficilmente, in ciò che il tempo ha distillato dalla letteratura delle epoche passate portandolo sino a noi, è possibile trovare un’opera talmente vuota, pretenziosa e sciatta al pari di questo giallo tardo-novecentesco.
Julia Kristeva, ci dice il risguardo di copertina, è "notissima come studiosa di semiotica e psicanalisi", mentre la voce a lei dedicata da wikipedia ci informa che "insegna Semiologia alla State University of New York e all’Université Paris 7 Denis Diderot." Non avendo letto i suoi saggi, non avendo seguito il suo percorso accademico, non mi permetto di giudicare la sua autorevolezza in questi campi, ma avendo letto "Una donna decapitata" mi permetto di dire che forse il suo dedicarsi alla letteratura poteva esserci risparmiato.
L’idea di partenza è buona, trattandosi di un libro di genere: una donna ricca, colta e raffinata, viene trovata decapitata nella propria villa la mattina dopo una cena tra amici, e la testa non si trova. Sul posto si recano l’immancabile Commissario e l’io narrante, una giornalista parigina amica della vittima, che tra l’altro ha partecipato all’ultima cena.
Già dalle prime pagine, però, si intuisce che l’autrice vuole usare questa vicenda inusitata per sfoggiare la sua cultura: subito la giornalista/narratrice associa la decollazione di Gloria alle statue del frontone del Partenone, alla Nike di Samotracia, alle rappresentazioni della decollazione del Battista dei mosaici del battistero di San Marco a Venezia, al Tiepolo…" E Caravaggio! E Leonardo! E Raffaello!" (sic, pag. 17).
Che una donna, amica intima della vittima, trovandola senza testa in un lago di sangue, pensi all’aspetto estetico della decollazione, alla sua rappresentazione nella storia dell’arte, francamente…
La storia si dipana poi tra banalità ed elementi improbabili, ingenui e superflui: l’azione, ad esempio, è ambientata in un inesistente (credo) stato di Santa Barbara, sorta di repubblica delle banane e buen retiro della borghesia intellettuale occidentale. Cosa questo aggiunga alla vicenda è un mistero. Si scoprono pagina dopo pagina un figlio sordo della vittima che imita alla perfezione Picasso, un marito pittore morto, un amante avido e volgare, trafficante d’arte, direttori di giornali, industriali, giovani impotenti, insomma tutta una corte di personaggi che definire banali e stereotipati è dire poco. Esemplare a questo proposito la figura del Commissario Rilsky (i cognomi sono dei capolavori: c’è un Popov, uno Zorine, uno Smirnoff, un Novak…) che vorrebbe forse essere modellata su quella dei poliziotti dei romanzi hard-boiled. Quando parla con i colleghi termina sempre le frasi con un "inutile-che-glielo-dica", facendo francamente la figura dello sciocco, ma naturalmente, essendo un personaggio positivo, è colto, raffinato e profondo conoscitore di Mozart. Non manca poi il sesso, anche esplicito, ma sempre in funzione del disvelamento dell’intima personalità dei personaggi….
Quello che irrita di più, a mio avviso, è comunque la prosa della Kristeva, che non perde occasione per digressioni petulanti e fuori contesto che potrebbero concludersi con un bel "visto come sono colta?"
Alterna inoltre senza necessità (forse considerando la cosa una figata letteraria) capitoli in prima ed in terza persona, e commenta a posteriori i dialoghi diretti con l’uso delle parentesi. Un esempio tratto dal dialogo tra la protagonista e una nuova conoscenza, da cui si percepisce la profondità dell’analisi psicologica dei personaggi:
"– Brian Wat. (Lui, ossequioso.)
– Un caffe? (Io, senza convinzione.)
– Con piacere. Voglio dire: è un immenso piacere per me fare la conoscenza con Stéphanie Delacourt. (Lui, recitando la sua battuta come in un dibattito alla televisione.)"
Dopo ducentocinquantasei pagine di tal fatta il giallo giunge ovviamente a soluzione, e sapremo chi ha ucciso e chi ha decapitato la povera Gloria Harrison. Naturalmente sarà la perspicacia congiunta del Commissario Rilsky e della giornalista d’assalto Stéphanie Delacourt a risolvere il mistero, anche se il mistero più grande, vale a dire perché un libro così sia stato scritto, pubblicato ed anche edito in Italiano da una casa come Sellerio (che nel 1997 non si era ancora dedicata completamente al giallo), permane fitto.
Il dramma di tutto ciò è che non è possibile reperire nel libro neppure un filo di ironia per il genere: Kristeva ci crede davvero, di scrivere qualcosa d’importante, di impartire al lettore nozioni che ritiene fondamentali e sottili analisi psicologiche, e questo fatto porta spesso a sorridere di tanta pretenziosità.
Del resto tutto ciò lo si poteva capire già dalla citazione messa prima dell’inizio dell’immane fatica, tratta nientemeno che dai Demoni di Dostoevskij. Il fatto che non sia giunta alcuna nota di protesta ufficiale da parte del grande Fëdor Michajlovi? fortifica il mio materialismo ed il mio conseguente non credere nella vita eterna.
Mi auguro che le altre prove letterarie della nostra siano migliori, ma non mi sottometterò alla prova.
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I limiti dell’immenso
"Tonio Kröger" è un racconto lungo, ma è anche quasi un saggio sulla tematica centrale per il Thomas Mann dell’inizio del ‘900: chi è e che ruolo ha l’artista nella società (ed in particolare nella società tedesca dell’epoca guglielmina)? Il racconto non scioglie, anzi pone in forma esplicita la grande contraddizione del borghese Mann: egli aspira a rappresentare la classe di cui fa parte ma al contempo è pienamente consapevole che quella classe può fare benissimo a meno dell’artista, che lo guarda con sospetto, che altri sono i valori (o i disvalori) a cui guarda. Tonio Kröger, che non a caso ha un nome latino e un cognome tedesco, che non a caso ha un padre borghese ed una madre “artista”, sa di essere “diverso” e condannato a osservare il mondo dal di fuori se vuole essere artista, ma al contempo ama, in Hans e in Ingeborg, la semplicità e la spensieratezza di chi è pienamente soddisfatto del mondo in cui vive: da loro, tuttavia, non verrà riamato: anzi, da Ingeborg verrà deriso perché non sa ballare la quadriglia, perché non rispetta le regole. Il racconto si chiude con Tonio che, ormai famoso scrittore, torna alla sua patria borghese ed accetta questa sua condizione di “osservatore esterno” ed ammiratore di chi “vive”. Qui secondo me sta il grande limite dell’immenso Mann: ha percepito fino in fondo la grande crisi dei valori borghesi ma l’ha ritenuta una crisi ricomponibile nell’ambito di quegli stessi valori, a patto di recuperare una sorta di “purezza perduta”, rappresentata in Tonio Kröger dalla metafora degli “occhiazzurri”. Non si è accorto che quegli occhi stavano attendendo con bramosia e partecipando attivamente all’organizzazione di due immani tragedie, che quegli stessi occhi avrebbero guardato adoranti, pochi decenni dopo, le svastiche naziste e il loro capo (in questo senso la metafora degli “occhiazzurri” appare ironicamente agghiacciante). Consiglio vivamente a chi leggesse il Tonio Kröger di associare alla lettura la visione del film di Hanneke "Il nastro bianco".
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Un importante tassello del Marx prima del Capitale
La "Miseria della Filosofia" occupa un posto particolare nell’evoluzione del pensiero di Karl Marx: è infatti il primo testo in cui lo studio dell’economia politica e degli economisti classici in particolare costituisce la base conoscitiva per sostanziare la radicale critica della società borghese che sino ad allora era stata condotta dal pensatore di Treviri su presupposti quasi esclusivamente “filosofici”.
Per la verità già in alcuni scritti di qualche anno prima, i famosi "Manoscritti Economico-Filosofici del 1844" Marx si era occupato specificamente di questioni quali salario, profitto e rendita fondiaria, e già quegli scritti frammentari dovevano costituire la base di un’ampia opera di critica dell’economia politica; nelle opere successive, tuttavia, "La sacra famiglia – Critica della critica critica" e "L’ideologia tedesca", Marx, iniziato il sodalizio con Engels, si era concentrato sulla necessità di fare i conti con la sinistra hegeliana tedesca, con Feuerbach, Bruno Bauer e Max Stirner, in altri termini di consolidare teoreticamente il distacco dall’idealismo che con l’amico era venuto maturando sempre più dal momento dell’esilio volontario parigino.
Nei primi mesi di permanenza nella capitale francese egli conosce e frequenta tra gli altri Pierre-Joseph Proudhon, che godeva di vasta fama negli ambienti socialisti francesi per il suo saggio "Q’est-ce que la propriété?" nel quale esponeva la convinzione, rimasta celebre, che "La proprietà è un furto."
Già nei "Manoscritti" Marx polemizza con Proudhon, pur riconoscendogli il merito di aver posto il problema della sottrazione al lavoratore di parte del prodotto del suo lavoro da parte del capitale. Egli imputa a Proudhon di avere criticato l’economia politica dal punto di vista dell’economia politica, di concepire la negazione della proprietà privata come una sua generalizzazione, di avere una prospettiva in cui l’alienazione del lavoro non viene superata ma generalizzata attraverso la trasformazione di tutti gli uomini in salariati. Questa critica permarrà, e verrà argomentata più diffusamente, anche nella "Miseria delle Filosofia".
Nell’ottobre del 1846 Proudhon pubblica a Parigi la ponderosa opera "Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère", che conteneva la proposta di scambiare le merci secondo il valore costituito, cioè il valore del lavoro in esse contenuto. In questo modo il lavoro sarebbe stato equamente retribuito e si sarebbe realizzata l’eguaglianza tra gli uomini. Nell’opera inoltre Proudhon si scaglia contro le prospettive rivoluzionarie e comuniste e sostiene l’inutilità, anzi, la dannosità delle lotte per il miglioramento dei salari dei lavoratori.
Marx è a Bruxelles, dove stava organizzando il primo nucleo della futura Lega dei Comunisti. Già nel febbraio del 1847 ha finito di scrivere, in francese, la sua risposta polemica a Proudhon, che uscirà nel luglio come "Misère de la Philosophie. Reponse à La Philosophie de la Misère de M. Proudhon".
Già dal titolo emerge un tratto che ho notato anche nelle altre opere marxiane da me lette: Karl Marx era anche un grande scrittore. Titoli come "Critica della Critica Critica" o "Miseria della Filosofia, Risposta alla Filosofia della Miseria" sono veri piccoli capolavori di per sé, e testimoniano di una capacità letteraria condita di una buona dose di ironia, che probabilmente gli derivava dalla sua esperienza giornalistica. Il testo conferma, sin dalla breve premessa, tale statura anche formale: pur non essendo 120 pagine di agevole lettura – dati gli argomenti trattati – il chiaro, netto e logico fluire dei ragionamenti di Marx aiuta moltissimo, e non mancano anche qui paradossi e veri e propri calembour che strappano invariabilmente il sorriso al lettore.
La Miseria della Filosofia è divisa in due grandi capitoli. Nel primo, intitolato "Una scoperta scientifica", Marx demolisce i presupposti economici della teoria Proudhoniana, dimostrando in particolare che il valore costituito, sua pietra angolare, non è altro che una malintesa rappresentazione del valore di scambio dell’economia classica, e che tutta la costruzione su di esso basata rimane all’interno di una logica perfettamente omogenea ai fondamenti costitutivi dei rapporti economici nella società capitalistica. Svolge la sua analisi polemica avvalendosi di frequenti citazioni di economisti come Ricardo, Smith, Sismondi, Say ed altri. Dimostra quindi come non abbia senso, né economico né politico, prefigurare una società in cui le merci siano scambiate secondo il cosiddetto valore costituito, e che questo non porterebbe ad altro che a una generalizzazione della proprietà privata e dei suoi presupposti economici e ad un livellamento dei salari al minimo.
Altre pagine di estremo interesse sono quelle dedicate da Marx alla moneta, al denaro, che egli considera non una cosa ma un rapporto sociale, per essere il suo compito quello di mezzo di scambio universale.
Il secondo grande capitolo, intitolato "La metafisica dell’economia politica", è meno tecnicistico e si addentra, sin dall’inizio, nel metodo falsamente dialettico che Proudhon impiega per sviluppare la sua teoria. Da profondo conoscitore della dialettica hegeliana Marx sbeffeggia il primitivo metodo proudhoniano, che consiste nell’attribuire alle categorie economiche un lato positivo ed uno negativo, per cui tutto lo sforzo di sintesi sta nell’eliminare quest’ultimo e far emergere il buono di categorie che egli accetta come date.
Per dimostrare la superficialità, l’antistoricità e l’evanescenza del metodo di Proudhon Marx dedica specifici capitoli ad alcune delle categorie economiche esaminate da Proudhon, come la divisione del lavoro, la concorrenza, il monopolio, la rendita. Molto importanti, per la loro modernità, sono a mio avviso le pagine che Marx dedica alla meccanizzazione dell’industria, ed alle sue conseguenze sul lavoro umano.
Infine Marx confuta con energia le affermazioni di Proudhon sull’inutilità dei sindacati, delle rivendicazioni salariali e degli scioperi.
La lettura di quest’opera e delle altre principali del Marx prima del Capitale mi ha consegnato la consapevolezza della enormità del lavoro fatto dal pensatore tedesco – in parte insieme a Friedrich Engels – per definire una potente chiave di interpretazione della realtà. Questa chiave a mio avviso apre ancora oggi moltissime porte, compresa quella di un esito necessario della storia. Credo, a differenza di recenti interpretazioni del pensiero Marxiano, che il cosiddetto Marxismo della contraddizione sia la base da cui partire per qualsiasi analisi della società attuale, ovviamente tenendo conto dei 150 anni trascorsi nel frattempo.
Se il marxismo si è storicamente inverato in una fallimentare ideologia (ma quanto più fallimentare di ideologie che oggi sono quasi universalmente accettate?) questo è dovuto, a mio avviso, alla pretesa di applicare schematicamente alcuni principi teorici a determinate condizioni storiche, oltre che alla durezza di tali condizioni. Leggendo Marx ci si può rendere conto di quanto lontane dal suo pensiero – e forse anche dalla sua personalità – fossero le azioni di chi in molti casi ha operato in nome del comunismo e del proletariato: proprio il Marxismo della contraddizione ci può spiegare anche il necessario fallimento dei vari esperimenti di socialismo realizzato, e questa è, a mio avviso, una ulteriore prova della profondità dell’analisi marxiana della realtà.
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Il capitale

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Quando Dickens diventa Dickensiano
A mio avviso "Il nostro comune amico" appartiene alle opere minori di Dickens. E’ un Dickens stanco, un po’ ripetitivo, che cerca, senza riuscirvi troppo, di riaccendere le atmosfere che hanno caratterizzato i suoi romanzi precedenti, e che ne fanno uno dei grandi scrittori dell’800.
In apparenza gli ingredienti ci sono tutti: i grandi sentimenti e le grandi meschinità, la Londra sottoproletaria della prima rivoluzione industriale, gli arrivisti e gli sciocchi, l’intrecciarsi di storie e di vicende diverse.
Quello che manca è la capacità di vivificare questi elementi, di farli piano piano apparire accanto a noi con tratti che ad ogni pagina si fanno più distinti e percepibili, come accade per Mr. Pickwick, Mr. Weller e le loro avventure, per Pip di "Grandi speranze", per Esther di "Casa desolata". Sembra che Dickens sia divenuto suo malgrado "Dickensiano", e si senta in obbligo di rispondere ai cliché che lui stesso ha creato, ma in cui ormai non crede più.
Certo nel libro non mancano momenti e personaggi memorabili, come Reginald Wilfer e moglie, genitori di Bella Wilfer, una delle protagoniste, o come l’inquietante antiquario/impagliatore Mr. Venus, la descrizione del cui laboratorio vale la lettura del libro, oppure ancora il ricco Mr. Podsnap. Altro personaggio sicuramente forte nella sua problematica negatività è il maestro Bradley Headstone, cui tocca in sorte una fine tragica. Si tratta però di personaggi secondari, mentre è nei protagonisti, nei personaggi chiave che manca l’afflato che caratterizza le opere migliori del nostro.
Bella Wilfer, eroina del romanzo, per metà del libro è descritta come una ragazza immatura, vanesia e pronta a sacrificare ogni virtù di fronte alla prospettiva di una scalata sociale. In una sola pagina diviene saggia, lungimirante e pronta a sacrificare ogni prospettiva di scalata sociale all’apparire del vero amore: si tratta probabilmente della conversione a U più rapida della storia della letteratura!
Anche l’altra eroina, Lizzy Hexam, se pure è una vera “figlia del popolo” che appare nel libro remando sul Tamigi come aiutante del padre recuperatore di cadaveri, sbiadisce progressivamente sino a divenire di fatto una qualsiasi infermierina innamorata.
Non è dissimile la percezione che abbiamo del “nostro comune amico”, di quello che dovrebbe essere il vero protagonista del romanzo, vale a dire John Harmon, alias Mr. Rokesmith. Anche lui è un personaggio sbiadito, a mio avviso non ben caratterizzato, solo abbozzato: il ruolo che gioca nella storia avrebbe meritato un po’ più di attenzione da parte dell’autore.
Anche il contesto in cui si muovono questi (e i molti altri presenti) personaggi è solo una quinta di cartone. A differenza che in altri libri, Dickens non è in grado di farci entrare nella Londra sordida, nebbiosa e sporca in cui si svolgono le storie intrecciate dei nostri eroi: perché? Credo che questo dipenda dal fatto che le vicenda narrate non dipendono in modo pregnante dall’ambiente in cui si svolgono, ma sono vicende “personali”, in larga parte sganciate dal loro contesto, che rimane quindi sullo sfondo, ed al più serve a volte a fornire alcuni “effetti speciali”.
Il nostro comune amico è comunque un libro di quasi mille pagine, nella edizione da me letta, scritto da un grandissimo artista che a volte è in grado di ritrovare i suoi sprazzi migliori. Questi sono per me rappresentati dalle parti del libro dedicate ai Signori Veneering e ai loro amici, i Lammle, i Podsnap, Lady Tippins e gli altri. Qui Dickens ritrova la sua capacità di ridicolizzare la borghesia inglese della sua epoca e la sua vacuità, le sue convenzioni, il suo sfrenato arrivismo, la sua brama di potere e soldi. Sono i capitoli migliori del libro, dove si ritrovano pagine degne del Dickens migliore.
Concludo con un cenno sull’edizione Garzanti, edita nel 1988 (due volumi) da me letta. Credo che la traduzione di Filippo Donini contribuisca in parte a creare quel clima “artificioso” che caratterizza il romanzo, soprattutto per un particolare: la traduzione di quasi tutti i nomi propri dei personaggi in italiano, che è portata così all’eccesso da dare fastidio: Lizzy diventa Lisetta, il fratello Charley Carletto e così via, sino a raggiungere punte vicine all’assurdo. Nicodemus Boffin viene spesso chiamato dalla moglie “Noddy”, che Donini traduce con “Muccio”. L’apice, poi, viene raggiunto nella traduzione del nome dell’assistente dell’avvocato Lightwood, che nell’originale è Blight e diventa Malanno. A mio avviso sarebbe stato più serio affidare a delle note la spiegazione dei giochi di parole sui nomi.
Alla fine, ci si trova di fronte all’immancabile happy end, che in questo caso non appare consolatorio ma logica conseguenza di una certa stanchezza espressiva.
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Quando il cattolicesimo non è dogmatico
François Mauriac è uno scrittore francese oggi forse un po’ dimenticato. Eppure è stato, per un cinquantennio, un’epoca cruciale che va dagli anni ’20 alla fine degli anni ’60 del secolo scorso, uno degli intellettuali francesi più noti e influenti. Cattolico, unì all’impegno letterario quello civile: si schierò contro il franchismo in Spagna e la Repubblica di Vichy, e nel dopoguerra condannò il colonialismo francese e la repressione in Algeria. Nel 1952 gli fu attribuito il Premio Nobel.
Il suo cattolicesimo “eretico” lo portò ad essere criticato sia da “destra” sia da “sinistra”: famosa al riguardo è la critica, che gli rivolse Sartre, di essere poco credibile come ricco fustigatore della classe a cui apparteneva.
Thérèse Desqueyroux, pubblicato nel 1927, è il romanzo più noto di Mauriac, da cui nel 1962 è stato tratto un omonimo film, alla cui sceneggiatura collaborò lo stesso Mauriac.
La storia è quella di una moglie che tenta di avvelenare il marito, ed il romanzo, che inizia al momento della dichiarazione del non luogo a procedere da parte del giudice, ci narra, con un ampio flashback reso attraverso le riflessioni della protagonista nel suo viaggio di ritorno verso casa, la vita di Thérèse, dalla sua infanzia al matrimonio, dalla vita coniugale al tentato uxoricidio; quindi la storia riprende il suo corso e ci mostra ciò che accade in conseguenza di quel gesto. La scelta di lasciare che sia Thérèse a presentarsi, a narrarci la sua vita pregressa, è un primo elemento di indubbio fascino del romanzo: è la protagonista stessa che dovrebbe e potrebbe dirci le motivazioni del suo gesto, ed il fatto che non ce lo dica significa che non c’è una ragione, o perlomeno non c’è una ragione puntuale e immediatamente riconoscibile del tentato avvelenamento del marito. Thérèse decide infatti quasi casualmente di avvelenarlo, e nel colloquio finale con il marito, ad una precisa domanda di quest’ultimo, Thérèse risponde: "Stavo per risponderti “Non so perché l’ho fatto”. Ma forse lo so, figurati! Potrebbe darsi che abbia compiuto quell’azione per vedere nei tuoi occhi un’inquietudine, una curiosità, un po’ di turbamento, insomma."
Se allora non c’è un motivo contingente che spinge Thérèse, quali sono le cause profonde del suo gesto? E’ questo il grande interrogativo che Mauriac pone, ed è anche quello la cui risposta va ricercata nell’intera vicenda narrata, ed in particolare nella prima parte in cui la protagonista racconta sé stessa. La risposta, a mio avviso, è scoperta ma anche abbastanza sorprendente per uno scrittore profondamente cattolico come Mauriac: la causa del gesto di Thérèse è la "famiglia", i rapporti sociali ed umani che si instaurano all’interno dell’istituzione che la chiesa cattolica (e non solo) considera il pilastro dell’ordine morale e sociale.
Analizziamo infatti il contesto: la vicenda è ambientata nella profonda provincia francese, le lande rimboschite con pini neri a sud di Bordeaux, uno dei paesaggi più monotoni di tutta la Francia. Thérèse è figlia di un notabile locale, è sin da piccola uno spirito indipendente, è agnostica, le piace leggere e stare sola, ma il suo destino è già segnato: sposerà Bernard Desqueyroux, perché questo permetterà di riunire due grandi proprietà fondiarie. L’interesse supremo della famiglia, che è essenzialmente basato sull’accumulazione e sul mantenimento del prestigio sociale, non può essere messo in discussione, e Thérèse vi si sottomette docile, anche se il coniuge si rivela da subito gretto, più interessato alla caccia che a lei, e prevaricatore – se non violento – anche nei momenti di intimità. L’interesse della famiglia prevale anche nel caso di Anne, sorellastra di Bernard, che si invaghisce di un giovane ebreo che ha il torto di non avere un patrimonio: contro questa possibile unione si mobilitano tutti, facendo emergere anche un gretto antisemitismo, ed anche Thérèse accetta di giocare una parte non piccola nel ricondurre la pecorella smarrita all’ovile. Thérèse vive comunque i suoi ruoli di figlia, di moglie, e presto anche quello di madre, con indifferenza, perché questo è l’unico atteggiamento che le consente di non far esplodere le sue contraddizioni interne, di sopportare lo iato tra le sue nebulose aspirazioni di emancipazione e i binari sociali entro cui è costretta. Subisce il fascino del giovane innamorato di Anne, figura di pseudo-intellettuale cinico e fintamente libero dalle convenzioni sociali, ma senza tradire il marito e capendone presto la personalità ipocrita. Il tentato avvelenamento del marito non è gesto che segnala la rottura di un equilibrio interiore, ma è pienamente inscritto in quell’equilibrio dell’indifferenza che la caratterizza e che le consente di andare avanti.
La famiglia determina anche le conseguenze del gesto: il marito può immaginare che la causa del gesto di Thérèse sia stata solamente il tentativo di lei di essere l’unica proprietaria delle terre e dei pini, depone a suo favore solo perché è necessario salvare le apparenze nei confronti della società, e costruisce la terribile punizione di Thérèse facendo in modo che "la gente" continui a crederli una coppia felice. Nel bel finale, sembra per un attimo che Bernard si metta in discussione, che cerchi di spogliarsi del suo ruolo, di capire perché, ma subito rientra nei ranghi, ed a Thérèse non resta che andare incontro ad una nuova vita, sottomettendosi ancora una volta con indifferenza alla volontà altrui.
Paola Dècina Lombardi, nella sua introduzione all'edizione Oscar Mondadori che ho letto, parla di "predestinazione" di Thérèse, ed in generale mette in evidenza i caratteri trascendenti, la potenza forsennata che domina il personaggio, "che sul suo cammino distrugge ogni cosa lasciandola terrorizzata." Non concordo con questa interpretazione intimistica della vicenda, perché ritengo che sia molto evidente come la predestinazione di Thérèse derivi in realtà dal contesto storico e sociale in cui si trova a vivere, dal contrasto tra i valori su cui si fondava il potere della borghesia terriera della Francia a cavallo tra XIX e XX secolo (non diversi da quelli della borghesia tout-court) e valori diversi, che ella oscuramente presagisce ma che non è in grado di razionalizzare e contrapporre alle convenzioni che le vengono imposte dalla famiglia. Anche se è vero (non ho letto altro dell’autore) che nel corso della sua evoluzione umana e intellettuale Mauriac ha finito per far prevalere tematiche che portano a dio come unico approdo rispetto alla disperazione umana e sociale, credo che si debba dare atto di due aspetti fondamentali che caratterizzano quest’opera e che a mio avviso rendono il cattolicesimo di Mauriac non dogmatico (come del resto la sua biografia dimostra): il primo è che, come detto, Mauriac individua con precisione le cause del male come cause sociali, umanamente determinate dalle condizioni materiali dell’esistenza e dai rapporti che queste costruiscono; il secondo è che il romanzo, con il suo finale aperto, non fornisce risposte, tantomeno risposte di tipo palingenetico-religioso. Questi aspetti dell’opera fanno di Thérèse Desqueyroux un romanzo da leggere con attenzione ancora oggi, anche se, a mio avviso, non siamo di fronte ad un capolavoro: vi è un certo schematismo nei personaggi di contorno che stride con la complessità di Thérèse, e lo stile di scrittura è comunque abbastanza dimesso e convenzionale, in un’epoca che vedeva le avanguardie battere terreni ben più avanzati; va comunque messa in rilievo la lucidità e l’onestà intellettuale con cui il cattolico Mauriac demolisce il mito, tipicamente cattolico, della famiglia come fonte di ogni bene.
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Un grande classico con una tronfia traduzione
Marco Valerio Marziale è uno dei grandi autori dell’antichità romana, che attraverso l’uso dell’epigramma ha saputo trasmetterci un vivido spaccato della società del suo tempo, permettendoci di approfondire la conoscenza della Roma del primo secolo dopo cristo, la Roma imperiale al massimo della sua potenza.
Per farlo utilizza l’occhio della satira, dell’implacabile osservazione dei vizi privati e pubbliche virtù dei potenti e dei ricchi, dell’ipocrisia e dell’istituzionalizzazione dell’adulazione che caratterizzava il sistema clientelare, ed utilizza una forma letteraria bassa, l’epigramma appunto, che gli permette sicuramente una maggiore libertà espressiva rispetto a forme poetiche più ufficiali.
Proprio per l’uso dell’epigramma e per le tematiche trattate, da una parte della critica Marziale è (o per meglio dire era) considerato un autore minore, non accostabile ai grandi poeti tragici ed epici dei primi secoli dell’impero romano. Al contrario, proprio la scelta espressiva e il carattere fortemente realistico della poesia di Marziale ne costituiscono la grande forza, capace di restituirci come pochi altri autori lo spirito di un’epoca cruciale per i destini di Roma e, direi, dell’intera civiltà occidentale come la concepiamo ancora oggi. La suddivisione in generi alti e generi bassi è a mio avviso un espediente utilizzato in passato, ma presente ancora oggi, per tentare di esorcizzare la capacità dissacrante e il potere liberatorio che in genere il comico e il volgare posseggono nei confronti dei paradigmi della società costituita.
Marziale scrive nel periodo della Roma dei Flavii, in particolare al tempo del potere di Domiziano; dopo la congiura patrizia che porta al suo assassinio nel 97 d.C., i nuovi equilibri politici instauratisi con l’ascesa di Nerva e quindi di Traiano lo vedono emarginato nella natale Bilbilis (odierna Spagna), dove poco prima di morire pubblicherà il XII e ultimo libro di epigrammi.
L’opera di Marziale infatti, che ci è pervenuta integra, consta di ben 12 libri di epigrammi che erano stati preceduti da tre libri a tema, dedicati rispettivamente agli spettacoli in occasione dell’inaugurazione del Colosseo, ai doni che si usava spedire agli amici in occasione dei Saturnali e ai doni offerti agli ospiti dei banchetti. Questa edizione Einaudi ha il pregio di offrirci tutta la produzione del poeta, con testo originale a fronte.
Cosa è l’epigramma? E’ un componimento breve, a volte brevissimo, in genere composto di due parti: una prima in cui si introduce l’argomento ed una seconda nella quale la conclusione è spesso inaspettata, spiazzante o paradossale, il che genera quindi un effetto comico. Per capire meglio ecco un esempio (Epigr. X – 43, traduzione tratta dal sito www.marziale.com):
"Filero, sotto terra la tua settima
sposa hai sepolto: terra redditizia
come la tua nessuno la possiede!"
Di cosa trattano gli epigrammi del nostro? Marziale è un cliente, è cioè legato a nobili e potenti che deve in qualche modo servire per poter mangiare (letteralmente: il potente dava giornalmente al cliente la sportula, paniere di vivande o piccola somma per acquistarle). Questo lo porta a contatto diretto sia con il mondo dei patrizi e dei ricchi su cui si basava il potere imperiale, sia con quello dei clientes (oggi si chiamerebbero precari) e del popolino che cercava di sopravvivere raccogliendo (come nella cristiana parabola del ricco Epulone) le briciole che cadevano dalle tavole imbandite di tanta opulenza. Sono questi mondi che gli epigrammi ci raccontano, mondi espressione di quella che allora era una città unica, una metropoli di un milione di abitanti che costituiva un vero e proprio universo di umanità varia.
Marziale racconta questo mondo con realismo estremo, cogliendone, attraverso l’arma della satira, le infinite sfumature ed i paradossi. In un epigramma (X – 4) ci espone quello che può essere considerato il suo manifesto culturale: Qui non troverai né Centauri, né Gorgoni, né Arpie: la mia pagina sa di uomo. Non c’è mitologia, non ci sono dei negli epigrammi: ci sono il sangue, le membra, i pensieri degli uomini della Roma del primo secolo, delle diverse classi di uomini in cui la società era divisa, ci sono i rumori, gli odori, la corporeità pulsante della grande metropoli antica, con i suoi riti, le sue lotte, i suoi grandi spettacoli e le sue grandi crudeltà. Marziale osserva tutto questo spietatamente, ma non mette in discussione che debba essere così, non propone alternative: semplicemente constata, ma così facendo dissacra usi e costumi e mette alla berlina uomini e donne, e attraverso questi lo stesso ordine sociale; per sé aspira a poco, sostanzialmente ad un podere in campagna, in una prospettiva che oggi potremmo definire piccolo-borghese.
Se gli uomini e le donne concrete di Roma sono il suo bersaglio, il sesso, l’erotismo non possono che rivestire un ruolo centrale negli epigrammi. L’infedeltà coniugale, le impotenze nascoste, le abitudini segrete dei suoi concittadini forniscono a Marziale un materiale sterminato sul quale costruire molti degli epigrammi più memorabili, che per il loro essere espliciti rimando ad una lettura diretta. E’ in questi epigrammi che emerge appieno la forza corrosiva della satira di Marziale, perché è qui, trattando questi temi che viene maggiormente esplicitata da un lato l’ipocrisia regnante nella società, dall’altro il carattere eversivo e liberatorio del sesso. Non mancano ovviamente epigrammi a contenuto scatologico, a riprova di una libertà espressiva che non si ferma neppure davanti agli aspetti più intimi del vivere, e che sa fare anche di questi spunti di critica sociale.
Nell’ambito di questo quadro complessivo vi sono anche epigrammi dotati di un intenso lirismo, come quelli funebri, dedicati ad amici o conoscenti di Marziale morti: su tutti quello famosissimo dedicato ad Erotion (V – 37) morta a sei anni, per la quale Marziale chiede alla terra che la ricopre di esserle così leggera come lo era stata la bimba alla stessa terra. Questi epigrammi colti dimostrano quanto la scurrilità, il realismo del complesso dell’opera di Marziale sia una precisa scelta espressiva, dettata dall’esigenze di raccontare ciò che lo circonda oltre che, presumibilmente, da precise esigenze "editoriali".
Il piacere di poter leggere l’intera opera di Marziale è purtroppo fortemente attenuato, nell’edizione Einaudi che ho utilizzato, dalla traduzione di Guido Ceronetti. Credo che raramente si sia assistito, in un’opera di traduzione, ad una volontà così pervicace di sostituire alla resa della poetica dell’originale il proprio ego letterario. Ceronetti non esita a stravolgere ritmi, a introdurre termini moderni, a cambiare il senso di intere frasi pur di far emergere la sua personalità di traduttore. Il risultato è a mio avviso grottesco, tanto che molte volte per capire cosa effettivamente significasse un epigramma ho dovuto leggere il testo latino a fronte. Il tronfio Ceronetti (che a mio avviso sarebbe stato il perfetto soggetto di uno degli epigrammi dedicati da Marziale ai colleghi pseudoletterati) è perfettamente cosciente dell’operazione che compie, tanto da esortare il lettore, al termine della sua ovviamente prosopopeica introduzione, ad imparare il latino, così da leggere "Marziale e non Ceronetti!". A mio avviso c’è un modo più semplice per gustare Marziale pur non conoscendo il latino: stare lontani da Ceronetti avvalendosi di una edizione curata da un traduttore degno di tale epiteto.
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Un piccolo grande eroe dell’emarginazione
Questo piccolo Oscar Mondadori, edito sul finire degli anni ’70, è un libro prezioso, perché contiene i due unici racconti del drammaturgo romantico austriaco Franz Grillparzer, accompagnati dall’abbozzo di un altro racconto e da una lunga introduzione sulla vita e le opere di Grillparzer scritta dal grande e compianto Ervino Pocar.
E’ un libro prezioso soprattutto perché ci dona, nella traduzione dello stesso Pocar, uno dei racconti a mio avviso più straordinari di tutti i tempi, degno di assurgere ad un olimpo che per me contiene "La metamorfosi", il "Michael Kohlhaas" di Kleist, alcuni racconti di Hoffmann, "Bartleby lo scrivano", "Tonio Kröger" e per la verità molti altri che ora non mi vengono in mente.
Il racconto in questione è quello che dà il titolo al volume: "Il povero musicante", che oggi è possibile reperire nella stessa traduzione e cura (immagino) da Passigli o, con il nome de Il povero suonatore da Marsilio. Manca tuttavia, nelle edizioni più recenti, la possibilità di leggere anche l’altro racconto di Grillparzer, "Il convento presso Sendomir".
Partiamo proprio da questo racconto, che in verità non lascia pienamente trasparire la magnificenza del successivo.
Si tratta infatti di un racconto scritto nel 1828, ci informa Pocar, probabilmente per colmare in fretta e furia un vuoto apertosi nell’edizione di una rivista a cui il nostro collaborava, quindi con intenti quasi commerciali, e questo “vizio d’origine” si riflette nella storia, che definirei manieristicamente romantica, essendo la storia di un signore secentesco che, sposata una bella e vivace fanciulla, va incontro al delitto, alla rovina e all’espiazione a causa dell’adulterio di lei.
La trama è sicuramente avvincente e la scrittura di Grillparzer, dottamente interpretata da Pocar, è potente e molto teatrale – come si addice ad un autore uso alle tragedie da palcoscenico – ma il racconto, come detto, non si distacca da un "mainstream romantico" abbastanza convenzionale.
Tutt’altra cosa è "Il povero musicante", che veramente è un racconto che merita di essere letto più volte e meditato a lungo, di una straordinaria modernità pur appartenendo pienamente al tempo in cui è stato scritto, un racconto che brilla come un diamante dalle mille sfaccettature, per cui ritengo che chiunque lo legga possa trovarvi un sentimento, un’emozione personalizzata.
Già l’ambientazione è inusuale: se ne "Il convento presso Sendomir" lo sfondo sono castelli, conventi e un secolo lontano, qui la vicenda è ambientata nella Vienna dell’autore, e viene narrata in prima persona.
Se nel primo racconto la storia coinvolge personaggi potenti e sentimenti estremi, ne Il povero musicante il protagonista è persona umile, al pari del contesto sociale in cui vive, e miti e pacate, ma profondissime, sono le emozioni e le passioni che prova ed evoca in noi.
Ad uno stile teatrale fatto di dialoghi fitti e serrati si contrappone un ritmo lento, una tonalità quasi fiabesca, che contribuiscono non poco al grande fascino del racconto.
Durante una festa popolare l’io narrante nota un violinista di strada, che non suona bene ma tiene aperto un leggio con spartiti davanti a sé, che suona musiche “serie” che non incontrano il favore degli astanti, che è vestito umilmente ma dignitosamente, che commenta serenamente in latino il fatto che nessuno gli abbia messo una moneta nel cappello, che se ne va quando inizia ad arrivare il grosso della folla.
Preso da fame antropologica l’io narrante vuole sapere chi sia, che storia abbia il musicante, così lo avvicina e poi lo va a trovare nella sua stanzetta. Qui il musicante gli racconta la storia della sua vita. E qui si aprono praterie di emozioni, di riflessioni, di sollecitazioni in grado di soddisfare ogni tipologia di lettore, da quello che prende la storia così com’è a quello che gli può attribuire il significato di grande apologo sul ruolo dell’arte e dell’artista rispetto alla società, a quello abituato a smontare i singoli pezzi di un testo per trovarvi chiavi di lettura psicanalitiche o politiche.
Contrariamente a quanto faccio di solito non darò la mia interpretazione del testo, in quanto questo racconto è talmente bello e, come detto, sfaccettato, che mi sentirei di sminuirlo proponendo schemi interpretativi che per forza di cose sarebbero limitati e dilettanteschi. Mi inchino perciò alla grandezza e riconosco la mia inadeguatezza a descriverla. Persino l’introduzione di Pocar, che pure è ottima nella descrizione della vita e del contesto sociale e culturale in cui si è mosso l’autore, è a mio avviso estremamente riduttiva rispetto alla grandezza del testo.
Mi soffermo però sulla figura del musicante, che merita davvero di avere un posto di rilievo tra i grandi piccoli eroi della letteratura di ogni tempo. La sua coerenza, la sua ingenuità sono commoventi, e ne fanno uno dei grandi emarginati della narrativa. E’ anche da loro che possiamo nonostante tutto trarre residue motivazioni per pensare che un altro mondo sia possibile.
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Michael Kohlhaas
Bartleby lo scrivano

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Scoppiettante, ma non basta per capire
Leggere Gadda significa entrare in un mondo nel quale la lingua italiana esprime appieno le sue straordinarie capacità espressive. Questo autore, che considero uno dei più grandi del novecento italiano, ha saputo infatti plasmare la nostra lingua, attraverso un originalissimo miscuglio di sintassi e termini classici, desueti, dialettali e di sua invenzione, creando un linguaggio che è la cifra di gran lunga preponderante del suo comunicare.
In Gadda, infatti, la cose dette acquistano significati originali soprattutto per come sono dette: l’ironia che pervade i suoi scritti deriva in massima parte dalla scrittura stessa, più che da quanto detto.
Non sfugge ovviamente a questa regola Eros e Priapo, serie di scritti nei quali Gadda si lancia in una invettiva contro la volgarità, la nullità intellettuale e il machismo del fascismo e in particolare del suo capo.
Gadda, da uomo profondamente di destra, vide inizialmente con simpatia l’ascesa di Mussolini, ma nel corso del tempo prevalse in lui la coscienza intellettuale, e si rese conto di quanto il fascismo stesse portando alla rovina morale (che poi sarebbe divenuta anche materiale) del Paese.
Le pagine di Eros e Priapo furono scritte a guerra già iniziata (e pubblicate negli anni ’60), e questo testimonia quanto Gadda abbia atteso per elaborare ed esporre in forma pubblica un distacco che rimane comunque essenzialmente esistenziale, che non diviene mai espressamente politico.
Infatti la critica fondamentale a cui Gadda sottopone il fascismo, Mussolini, i gerarchi e le donne fasciste è basata su elementi di carattere psicanalitico, ed in particolare sulla capacità di Mussolini di rappresentare, con il suo esagerato e distorto narcisismo, la potenza virile, fallica (priapesca, dice Gadda) cui tutti, ed in particolare le donne (che l’autore, nella sua straripante misoginia, chiama femine) si sottomettono. Sentiamo Gadda a questo proposito, anche al fine di percepire la sua concezione della donna e di gustare, d’altro canto, la sua pirotecnica prosa.
"Non nego alla femina il diritto ch’ella se li portino a letto e non pretendano acclamarli prefetti e ministri alla direzione d’un paese. E poi la femina adempia ai suoi obblighi e alle sue inclinazioni e non stia a romper le tasche con codesta ninfomania politica, che è cosa ìnzita. La politica non è fatta per la vagina: per la vagina c’è il su’ tampone, appositamente conformato per lei dall’Eterno Fattore che l’è il toccasana dei toccasana, quando non è impestato, s’intende."
Per Gadda Mussolini, con i suoi atteggiamenti, le rigidità militaresche, gli agghidamenti improbabili in feluca e stivalone, non è altro che un grande fallo eretto, "un pragma bassamente erotico, un basso prurito ossia una lubido di possesso, di comando, di esibizione, di cibo, di femine, di vestiti, di denaro, di terre, di comodità e di ozi: non sublimata da nessun movente etico-politico, da umanità o da carità vera, da nessun senso artistico e umanistico e men che meno da un intervento di indagine critica." Gadda si scaglia quindi a piene mani contro le fanfaronate del regime, i raduni oceanici dove la folla esultante scandisce "Kù-cé, Kù-cé" (piccolo, ennesimo colpo di genio).
I primi capitoli del volume sono quindi una vera e propria invettiva conto Mussolini, i fascisti e il "poppolo", soprattutto femminile, che l’ha seguito. Sono i capitoli migliori, i più divertenti. Seguono pagine di disquisizioni sull’erotismo, il narcisismo e il priapismo in generale, sicuramente meno dense e interessanti.
Se, come detto, il linguaggio di Gadda fa di ogni suo scritto, anche quelli frammentari come questo, un piccolo capolavoro, non si può sfuggire tuttavia ad evidenziare la debolezza della critica gaddiana al fascismo, che sembrerebbe solo il frutto di una sorta di fascinazione collettiva per l’uomo forte, con il pugnale alla cintola, capace di abbindolare un intero popolo. Pur nella corrosività dello scritto, è d’obbligo segnalare la mancanza di una analisi vera delle radici profonde che il fascismo ha avuto nel nostro paese. Sicuramente non possiamo affidare questo compito a Gadda: prendiamo quindi questo autore com’è, con le sue grandissime contraddizioni, ma non dimentichiamoci che – se vogliamo saperne di più di un periodo di cui ancora oggi non ci siamo liberati definitivamente, se vogliamo evitare di assumere le stesse lenti distorte anche rispetto a periodi a noi vicinissimi, in cui alcuni topòs italici si sono puntualmente ripresentati – abbiamo assoluta necessità di approfondire l’analisi.
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La cognizione del dolore

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Ambiguità troppo forti anche per Buñuel
**ATTENZIONE - ANTICIPAZIONI SULLA TRAMA**
Questo romanzo di Benito Pérez Galdós, scritto nel 1892, è stato poco conosciuto in Italia sino al 1970, anno in cui Luis Buñuel realizzò l’omonimo film con protagonisti Catherine Deneuve e Fernando Rey. Ancora oggi, anche grazie all’importanza del regista, credo che il film sia molto più conosciuto del romanzo, e che in un certo qual senso si possa dire che, almeno nel nostro paese, il film abbia cannibalizzato il libro. Dopo aver letto il libro ho quindi rivisto il film, per confrontare le due opere che, su piani diversi, possono essere sicuramente considerati dei capolavori.
Il libro di Pérez Galdós è infatti un romanzo notevole, che pur essendo stato scritto in un contesto culturale periferico come la Spagna di fine ottocento, anticipa tematiche che saranno assi portanti della letteratura decadente europea del primo novecento. E’ infatti un romanzo fortemente intriso di elementi psicologici, che affronta il tema dell’ambiguità e dell’inadeguatezza del comportamento umano utilizzando elementi fortemente simbolici, che possono essere letti anche in chiave psicanalitica (credo sia stato questo uno degli elementi che ha affascinato Buñuel) e ricorrendo ad un’atmosfera morbosa ma al tempo stesso rarefatta.
Tre sono i personaggi chiave del romanzo: Don Lope Garrido, anziano caballero, libertino e miscredente, disprezzatore del denaro, insofferente delle convenzioni sociali e sentimentali; Tristana Reluz, giovanissima e innocente figlia di una vecchia amante di Don Lope, che gli viene affidata dalla madre in punto di morte e che Don Lope seduce recludendola in casa; Horacio Díaz, pittore di belle speranze, di cui Tristana si innamora e che sembrerebbe poter sottrarre la protagonista alla tirannia di Don Lope.
Ciascuno dei personaggi si rivela, con modalità diverse, carico di ambiguità e inadeguato ad affrontare le situazioni e le questioni poste dalla vicenda.
Don Lope è, come detto, un libero pensatore, ma riversa su Tristana le ansie della sua decadenza fisica, ne fa la vittima sacrificale del suo denegato crepuscolo. Non accetta la voglia di libertà della giovane e giunge persino a minacciarla di ucciderla nel caso avesse un’altra storia, ma favorisce il suo riavvicinamento a Horacio. Alla fine del romanzo sposa in chiesa Tristana avviandosi alla fine della vita avendo rinnegato tutti i suoi principi.
Del tutto inadeguato e ambiguo è Horacio, che appare nella storia come l’artista bohemièn pronto a strappare Tristana dal suo destino di reclusa ma a cui basta una breve lontananza per imborghesirsi e dimenticare il suo grande amore.
Ma inadeguata è anche Tristana, che vagheggia volta a volta future glorie da pianista, da pittrice, da scrittrice, senza avere né l’applicazione né il talento per combinare qualcosa. E’ anche ambigua nel suo rapporto con Don Lope, che vede sia come suo tiranno sia come un padre affettuoso.
C’è un punto centrale attorno a cui ruota la storia: è quello della malattia di Tristana, cui viene amputata una gamba. E’ l’avvenimento simbolico dopo il quale nulla sarà più come prima e le accennate ambiguità dei personaggi emergeranno in tutta la loro contraddittoria forza.
Al romanzo sono estranee tematiche e finanche accenni di carattere esplicitamente sociali, ma la forza di questo libro (come di tutti i grandi libri) è anche quella di poter interpretare le storie individuali come storie universali. Così, ciascuno dei tre personaggi è fortemente caratterizzato per rappresentare un tipo, e la loro storia può anche essere letta come una grande parabola delle tare della società spagnola di fine ‘800.
In questa chiave Don Lope rappresenta la Spagna cavalleresca e tirannica ancorata ai valori e ai disvalori della hidalgìa, che chiaramente sta morendo e lasciando il posto ad una Spagna in cui conta solo il vile metallo. Horacio è l’artista, che dovrebbe incarnare i valori della cultura anche in chiave di rinnovamento sociale ma che si asservisce presto alla cultura dominante. Tristana è la gioventù, la nuova generazione che si affaccia alla vita e potrebbe avere la forza per ribellarsi ma non ne ha le capacità, anche perché viene presto amputata nelle sue ambizioni.
Il finale è senza speranza: di Horacio si viene a sapere che si è sposato, i due si sposano in chiesa, come detto, e Tristana si dedica all’arte… della pasticceria: "Una maestra molto abile le insegnò due o tre tipi di dolci, e lei li faceva così bene, così bene, che Don Lope, dopo averli assaggiati, si leccava le dita, e non smetteva di lodare Dio. Erano felici, l’uno e l’altra…? Forse."
Rispetto alla forza del libro, il cui unico momento di relativa caduta è secondo me la sezione epistolare tra Horacio e Tristana, il film delude leggermente. La figura di Horacio (Franco Nero) non emerge nella sua contraddittorietà, anche perché nel film i due fuggono insieme, ed è Tristana di fatto a decidere di abbandonarlo. Buñuel aggiunge poi un seguito al geniale "forse" del libro, nel quale Tristana tiranneggia Don Lope ed alla fine lo lascia morire. Insomma, Buñuel attribuisce a Tristana una forza che nel libro non c’è, affidandole un ruolo di riscatto, sia pure in negativo, rispetto alle sue sofferenze fisiche e morali: in questo modo, a mio avviso, tradisce il libro, consegnandoci un messaggio sostanzialmente diverso e soprattutto sminuendo il senso di ambiguità e di inadeguatezza che caratterizza il romanzo.
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Il sogno di un cattivo maestro
** ATTENZIONE - ANTICIPAZIONE DELLA TRAMA **
Il sogno di un uomo ridicolo è un vero e proprio manifesto esistenziale e politico, attraverso il quale un Dostoevskij che ha alle spalle quasi tutti i suoi grandi romanzi (il racconto è del 1877) ci spiega la sua visione del mondo e le motivazioni del suo essere scrittore.
Il breve racconto, scritto come al solito in prima persona, narra di un uomo ridicolo che, essendo giunto alla totale indifferenza nei confronti della vita e degli altri, essendosi rinchiuso sempre più in se stesso, decide, osservando una stella in una fredda sera pietroburghese di novembre, di rientrare a casa e di uccidersi con una rivoltella comprata qualche tempo prima proprio per quello scopo. Mentre rientra a casa, una bambina in lacrime lo accosta chiedendo aiuto per la mamma: il protagonista, preso dalla sua decisione di farla finita, la scaccia. Questo episodio tuttavia lo colpisce, e mentre siede sulla poltrona di casa con accanto la rivoltella, inizia a riflettere sul fatto che la sua indifferenza non è totale, che per quella bambina ha provato dolore e vergogna per la sua reazione. E’ ancora deciso ad uccidersi, ma qualcosa in lui e nelle sue certezze si sta incrinando, e finisce per addormentarsi.
Nel sonno sogna di spararsi (al cuore e non alla testa, metafora importante) e di essere cosciente della sua sepoltura, dalla quale viene tratto da un essere angelico che lo porta in un lontano pianeta che è la copia della terra. Qui vivono uomini perfettamente incoscienti e felici, in piena armonia con sé stessi e con la natura: un vero e proprio Eden nel quale non c’è conoscenza data dalla scienza, c’è amore ma non sensualità. Inevitabilmente, però, l’arrivo del protagonista porta il germe della contaminazione con la storia dell’uomo, ed anche in quella società sino ad allora inconsapevolmente felice sorge la sensualità, che genera il desiderio, l’invidia, le divisioni in gruppi, la scienza, le religioni. Scoppiano le guerre in nome della giustizia, e tanto più ci si allontana dallo stato primigenio tanto più si costruiscono sovrastrutture per cercare di ritornarvi; in una parola quel mondo si trasforma rapidamente nel nostro mondo, dove – come dice Dostoevskij – …" il sapere è superiore al sentimento, la coscienza della vita è superiore alla vita." Il protagonista si sveglia, allontana da sé la pistola e decide di andare per il mondo a predicare la verità che ha visto in sogno. Per prima cosa troverà la bambina che la sera prima ha scacciato.
Come evidente dal riassuntino, il racconto è un vero e proprio apologo, che ci presenta la concezione che il nostro aveva del mondo e della missione dello scrittore. Il mondo è dominato dal male, e questo male è essenzialmente il risultato della sostituzione del desiderio di conoscenza all’armonia primigenia. Compito dell’intellettuale è quindi diffondere e predicare questa verità, la possibilità del ritorno all’umanità bambina: esso sarà per questo deriso e considerato pazzo, ma non deve desistere da questa che è la sua missione.
Emerge a mio avviso in questo racconto la matrice fortemente reazionaria del pensiero Dostoevskijano. Se da un lato è infatti condivisibile la critica al predominio della scienza sulla vita, dall’altro non è certo attraverso il vagheggiamento di un eden primigenio che si può pensare di dare una alternativa credibile a questo stato di cose. Il primo ad esserne cosciente è lo stesso Dostoevskij, che si fa alfiere di un intellettuale alieno, pazzo, felice della e nella sua impotenza. Il suo pensiero somiglia terribilmente a quello di tanti utopisti che nel corso della storia hanno esaltato la felicità perduta senza fornirci strumenti per cambiare la realtà in cui viviamo. Somiglia al pensiero di quelli che negli anni ’70 sono andati a vivere in Toscana nelle comuni mentre la società virava verso il devastante liberismo in cui ci troviamo immersi. Credo sia veramente giunto il tempo di riaffermare che è solo attraverso una serrata critica della società e della sua organizzazione, che ne evidenzi le vere contraddizioni – a partire da quelle di carattere economico – che forse potremo uscire dal pantano in cui ci troviamo. Leggiamo quindi con piacere Dostoevskij, ma non ergiamolo a nostro maestro.
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Amici Miei in trincea
La mano mozza è, come dice Cendrars, una cronaca delle avventure dell’autore durante la Grande Guerra. Cendrars infatti si arruolò nella Legione Straniera, fu mandato al fronte nelle trincee della Somme e nel settembre 1915 perse l’avambraccio destro. Il libro è stato scritto al termine di un’altra guerra, nel 1945-46, e la distanza di quasi trent’anni dai fatti narrati si sente. Infatti Cendrars si lascia forse prendere dalla nostalgia di quella che è stata la sua giovinezza, tende secondo me a mitizzare la sua vita militare e la racconta con un tono che sembra dire ad ogni pagina: Era una situazione di m…, ma quanto ci siamo divertiti. Il racconto delle persone, dei compagni di Cendrars e dei vari episodi si snoda come se fosse una chiacchierata tra reduci che si ritrovano davanti a un bicchiere e si ricordano i bei tempi andati.
Proprio per questo tono tra lo scanzonato e lo smargiasso il libro si legge molto volentieri: il periodare è frizzante, ed anche la costruzione per episodi che si intrecciano e si rimandano l’un l’altro contribuisce a farne una lettura estremamente gradevole. Ci si sorprende quindi a gustare anche gli episodi più cruenti, le morti dei compagni che Cendrars racconta come fatti inevitabili o dovuti alla loro stupidità, le sortite in prima linea organizzate per fare uno scherzo ai boches, l’eroismo incosciente che l’autore attribuisce a se stesso.
Allo spirito di corpo che anima la squadra di legionari si contrappone la stupidità di quasi tutti i superiori, che vengono ridicolizzati da Cendrars perché non capiscono, con il loro formalismo regolamentare, lo spirito goliardico con cui i nostri fanno la guerra. Manca nel libro una formale denuncia delle atrocità belliche, ma questa emerge dai fatti, dalla oggettiva distorsione della prospettiva e dell’individualità che la guerra comporta.
In definitiva un libro per certi versi spiazzante, una sorta di tragico Amici miei dove chi schiaffeggia i passeggeri alla stazione rischia seriamente di rimanere sotto il treno.
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Caducità, illusione e critica al potere
Le "Nachtwachen des Bonaventura" sono ancora oggi un caso letterario, se è vero che mentre Garzanti le attribuisce ad August Klingemann, Marsilio le pubblica come anonime. La prima attribuzione sembra comunque essere la più accreditata, e questo farebbe delle Veglie, pubblicate la prima volta nel 1804, il capolavoro di un autore misconosciuto, le cui altre opere non hanno lasciato molta traccia di sé.
La querelle sull’autore, che portò nel corso del tempo ad attribuire le Veglie ai maggiori esponenti del primo ottocento tedesco, quali E.T.A. Hoffmann, Shelling, Jean Paul, Brentano, rivela l’importanza di quest’opera, la sua rilevanza nel quadro della letteratura del primo romanticismo, anche se per la verità le cronache narrano che alla sua uscita nessuno se ne accorse, e che la loro riscoperta avvenne (emblematicamente) solo nel 1848.
Per il gusto moderno, per la nostra idea di romanzo, le Veglie sono indubbiamente un libro strano, eppure, leggendole sia in una prospettiva storica sia (soprattutto in alcune parti) da un punto di vista del piacere letterario è indubbio che emanano un fascino sinistro, e che rivelano una straordinaria modernità che le può accostare, con un paragone ardito e fatta salva l’atmosfera tipicamente romantica, ad alcune pagine delle avanguardie letterarie novecentesche, come pure ad alcune pagine cinematografiche (ad esempio alcuni film di Bergman e di Dreyer).
Il libro è composto di sedici capitoli (le Veglie) narrati in prima persona dal protagonista, chiamato Kreuzgang (in tedesco chiostro), guardiano notturno incaricato di vegliare sull’ordine della città. Kreuzgang si aggira per vicoli bui, cimiteri, passa accanto a case dove accadono fatti oscuri, incontra strani personaggi, racconta di sé, della sua strana “nascita” (fu trovato dentro un forziere disseppellito da suo padre adottivo), del periodo che ha passato in manicomio e di molte altre cose. Il caos regna sovrano nel libro, sia per l’accavallarsi di momenti descrittivi e speculativi, sia per la mancanza di un ordine cronologico – alcuni racconti vengono interrotti per essere ripresi dopo alcune pagine dedicate ad altri argomenti – sia per lo stesso disordine stilistico che vede pagine di satira sferzante e secca alternarsi a momenti comici e grotteschi e ad altri di intenso lirismo. E’ questo caos strutturale che secondo me forma uno degli elementi di maggior fascino e modernità delle Veglie, anche se indubbiamente rappresenta anche l’elemento di maggior impegno per il lettore.
Se la struttura del testo è affascinante, allo stesso modo i contenuti delle Veglie sono sorprendenti nella loro totalità, nella loro radicalità critica rispetto al potere, agli intellettuali, alla religione, alle illusioni di immortalità dell’uomo e delle sue idee: l’autore esprime nelle veglie una Weltanschauung che rasenta (secondo alcuni raggiunge) il nichilismo.
Già l’ambientazione notturna è indicativa: Kreuzgang vive di notte, di notte racconta e di notte osserva il mondo, perché è solo di notte che possono emergere le verità, che l’uomo si confronta con i suoi fantasmi e con le sue paure.
La prima veglia, che secondo me è una delle più belle, anche perché introduce nell’atmosfera cupa e notturna del libro, ci fornisce alcuni elementi interpretativi importanti: il protagonista, infatti, passando sotto la finestra illuminata dietro la quale lavora uno sfortunato poeta "perché solo allora i creditori dormivano, e le Muse erano le uniche non aggregate alla schiera", gli si rivolge così: …" ti capisco bene io, perché una volta ero identico a te! Però ho abbandonato questa occupazione in cambio di un mestiere onesto, di cui si può campare […] ed interrompo i sogni d’immortalità di cui tu vagheggi là in alto, rammentandoti puntualmente, sulla terra, del tempo e della caducità."
Kreuzgang era quindi poeta, intellettuale, ma ha riconosciuto l’inutilità della poesia, e prosaicamente constata che, inutilità per inutilità, almeno lui ha di che campare. In una veglia successiva, infatti, il poeta cui viene negata la pubblicazione si impiccherà.
Il tema della caducità, della vacuità e dell’inutilità di ricercare l’immortalità tramite la gloria letteraria o l’esercizio del potere è centrale nelle Veglie, e le accompagna sino allo splendido e tremendo finale, ma è affiancato – come detto – da altri elementi di riflessione, su cui si abbatte con non meno potenza critica la penna dell’autore. L’impossibilità dell’immortalità infatti conduce immediatamente alla critica alla religione ed alla chiesa, e già nella stessa prima veglia vi è un episodio, la morte di un ateo cui invano un prete cerca di far cambiare idea, di grandissima forza satirica. La sesta veglia, in cui il protagonista annuncia alla città che è arrivato il giorno del Giudizio Universale e osserva le reazioni dei vari strati sociali, è forse l’episodio più godibile del libro, e qui prevale chiaramente la critica sociale e politica.
Forse però le Veglie più sconcertanti quanto a modernità delle tematiche trattate sono quelle in cui Kreuzgang riscrive l’amore di Amleto per Ofelia (Shakespeare, in quanto autore capace di mischiare comico e tragico è uno degli idoli dell’autore) come un sentimento legato al ruolo che ai due personaggi è stato affidato, che non è quindi lecito sapere se esita davvero al di fuori di tale ruolo, nel loro vero io. E’ Ofelia che si spinge più in là in questa riflessione e conclude così la sua ultima lettera ad Amleto: "Così, non potendomi più leggere al di fuori del ruolo che mi è stato assegnato, vi leggerò fino alla fine e all’exeunt omnes, dietro al quale seguirà forse il vero Io. Poi potrò dirvi se esiste qualcosa al di fuori del ruolo, e se l’Io vive e ti ama." Credo che trattandosi di frasi scritte nel 1804 si possa davvero essere colpiti, anche per quell’improvviso, modernissimo e perfetto passaggio dal Voi al Tu.
Moltissime altre cose si potrebbero dire sulle Nachtwachen des Bonaventura: ogni veglia infatti ci riserva una sorpresa, che però lascio al lettore. Avverto solo del fatto che la lettura, per la struttura ed i contenuti del testo di cui ho parlato, richiede una particolare attenzione e concentrazione. Personalmente ho letto il libro due volte di seguito per cercare di addentrarmi meglio in questo testo complesso, che ci svela la radicalità critica che un movimento sfaccettato come il romanticismo ha assunto in alcune sue componenti, radicalità critica che avrebbe innervato di sé una parte importante dell’attività letteraria del XIX e XX secolo.
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La parabola dell'esteta
Søren Kierkegaard è, come noto, un pensatore più che un narratore e, pur se la sua imponente produzione comprende anche opere di carattere narrativo, queste non possono essere comprese ed interpretate se non all’interno del pensiero filosofico complessivo dell’autore.
Ciò è tanto più vero nel caso del Diario di un seduttore, che a rigori non esiste come testo a sé, ma è solamente una parte di una delle opere più famose di Kierkegaard, Enten-Eller (solitamente tradotto come Aut-Aut).
Recensire questo Diario è quindi un’operazione complicata, perché significa addentrarsi nei meandri di uno dei più complessi, sfaccettati e controversi sistemi filosofici elaborati nel corso della storia del pensiero, e ciò richiederebbe una preparazione specifica che va ben al di là di quella posseduta da chi scrive.
Tuttavia, avvalendosi anche di letture parallele al testo, tra le quali una abbastanza approfondita voce che Wikipedia dedica al filosofo danese, è possibile fornire alcune chiavi interpretative del diario che possano servire anche da introduzione, pur se forzatamente limitata e dilettantesca, al pensiero di Kierkegaard.
Mi sia consentito sin da subito – quindi – criticare l’edizione in cui ho letto questo libro. Già in altre occasioni (ad esempio nel caso de I gioielli indiscreti di Diderot) mi era capitato di lamentare la superficialità e la mancanza di apparato critico di questi volumi della collana Acquarelli, e non posso che ribadire tale critica anche in questa occasione, proprio per il necessario collegamento che si deve stabilire tra questo testo e il pensiero di Kierkegaard per comprenderlo appieno: è vero che all’inizio del volume è presente una breve presentazione, ma questa è del tutto insufficiente – a mio avviso – per stimolare il lettore a riflettere sul contesto complessivo di cui il Diario di un seduttore fa parte; Il rischio è quello di considerarlo un’opera romantica, una delle tante storie d’amore che la letteratura ottocentesca ha prodotto, e di non cogliere invece la sua essenza (per usare un temine chiave del pensiero kierkegaardiano) di tassello esemplificativo della concezione complessiva dell’essere umano che il filosofo ha elaborato.
Per questo credo di poter consigliare chi fosse interessato all’autore e al suo pensiero di leggere questo Diario nell’ambito originale in cui è collocato, ossia quello di Enten-Eller, piuttosto che come opera a sé stante.
Ciò non toglie tuttavia che, per chi è appassionato di letteratura ottocentesca, il Diario di un seduttore sia una lettura piacevole, ricca di spunti e di elementi di riflessione anche per sé stessa.
La storia è quella della seduzione e del repentino abbandono di una ragazza, Cordelia, da parte di un giovane, Johannes, che annota su un diario le fasi del suo avvicinamento all’obiettivo. Il diario, sottratto da un cassetto di Johannes da un suo conoscente e amico di Cordelia, viene da quest’ultimo pubblicato con una sua iniziale prefazione, inframmezzato da lettere di Johannes a Cordelia e preceduto anche da alcune lettere spedite da quest’ultima al seduttore dopo essere stata abbandonata.
Come detto, il Diario di un seduttore è parte integrante di Aut-Aut. Il titolo di quest’opera è relativo alla alternativa tra la vita estetica e la vita etica tra le quali l’uomo può scegliere, che tuttavia, per Kierkegaard, sono entrambi modelli inadeguati di comportamento e che possono essere superati solo dalla scelta della vita religiosa (i cui fondamenti l’autore elaborerà in Timore e tremore).
Johannes (il cui nome è un’evidente allusione al Don Giovanni) è l’esteta, e il suo diario è l’esemplificazione dei modelli comportamentali a cui questi si ispira.
Per Johannes, infatti, il godimento non consiste tanto nel possesso di Cordelia, quanto nella sua capacità di condurre il gioco che lo porterà verso quel possesso. Più volte Johannes dice che considererebbe volgare costringere Cordelia a concederglisi, che egli deve essere tanto abile da fare in modo che Ella scelga liberamente di fare questo passo. Egli si osserva compiaciuto mentre – disprezzando ogni convenzione e ogni atteggiamento morale – esplora ciò che chiama l’interessante del suo rapporto con Lei, mentre suscita in Lei l’erotico, inteso come prevalenza della sensualità sulle convenzioni e sulla razionalità. C’è un passo che spiega bene l’atteggiamento dell’esteta, ed è quello in cui l’autore ci dice che obiettivo dell’esteta può anche essere quello di ottenere un semplice saluto da una donna, e che ciò nulla toglie al piacere dell’azione posta in essere per ottenerlo.
Logica conseguenza dell’atteggiamento estetico è che, non appena l’obiettivo è raggiunto subentra la noia e l’indifferenza per l’oggetto, per lo strumento che ha permesso di raggiungerlo. Pertanto Johannes non può che abbandonare Cordelia nel momento stesso in cui la possiede: il gioco, l’interessante è finito, e all’esteta non rimane che inventarsi altri giochi su cui concentrarsi. Il Diario di un seduttore termina nel momento dell’abbandono di Cordelia, e quindi non esprime giudizi sul comportamento dell’esteta (salvo qualche accenno nella parte introduttiva) ma Aut-Aut ci dice che la conseguenza ultima dell’atteggiamento estetico è il vuoto, sono la noia e la disperazione esistenziale.
Come detto, in Aut-Aut Kierkegaard contrappone alla vita estetica la vita etica, rappresentata, specularmente alla figura di Johannes, da quella di Guglielmo, marito e funzionario esemplare, che aderisce ai valori della società: anche se per Kierkegaard la scelta etica è comunque superiore a quella estetica, in quanto comporta un’assunzione di responsabilità individuale, essa è comunque destinata ad essere limitante per l’esistenza del singolo, in quanto sfocia nel conformismo e nell’adesione (si potrebbe dire acritica) ad imperativi morali predefiniti che limitano oggettivamente le possibilità di scelta dell’individuo.
Gli interrogativi posti dal pensiero di Kierkegaard hanno segnato una parte importante dell’evoluzione del pensiero occidentale moderno, soprattutto in ambito nordico – essendo fortemente legati al consolidarsi anche teorico di quella che è definita l’etica protestante – ed il pensatore danese è considerato, anche se in una forma spuria, il padre dell’esistenzialismo novecentesco. Questo Diario ci permette, sia pur con mille limitazioni, di riflettere sulla sua proposta filosofica attraverso un testo apparentemente leggero ma che se osservato in profondità rivela abissi di conoscenza per la cui esplorazione dovremo armarci di scafandri conoscitivi con una tenuta ben più solida di quella di cui siamo abitualmente dotati.
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Appassionato assertore del compromesso....
...tra aristocrazia al potere e grande borghesia (Attenzione: anticipazioni sulla trama)
Questo bel volume delle Edizioni Studio Tesi, ancora disponibile per l’acquisto, ci propone un famoso racconto di Achim von Arnim, oltre a due brevi saggi, dei quali di particolare importanza per comprendere la posizione dell’autore rispetto alla figura di Napoleone è l’altrettanto famoso Che fare nella fortuna.
Von Arnim è un autore oggi forse un po’ dimenticato rispetto ai mostri sacri del primo romanticismo tedesco: nondimeno fu uno dei principali animatori del movimento, frequentando tra gli altri von Kleist, Goethe, Hölderlin, i fratelli Grimm e Clemens Brentano, di cui sposò la sorella Bettina. Insieme a Brentano scrisse uno dei testi fondamentali di quel filone del romanticismo che andava alla ricerca di fiabe, canti e storie popolari: Il corno magico del fanciullo.
"Il folle invalido di Fort Ratonneau" è un breve racconto (meno di trenta pagine in questa edizione) che, oltre ad essere esteticamente pregevole ed avvincente, racchiude una serie di elementi utili per comprendere il pensiero dell’autore rispetto ai tempi in cui viveva, tempi drammaticamente segnati dalla lotta tra la Francia napoleonica, portatrice – sia pur tra mille contraddizioni e tradimenti – degli ideali borghesi della rivoluzione, e le altre monarchie europee che miravano a restaurare l’ordine sociale aristocratico prerivoluzionario.
Von Arnim è profondamente antinapoleonico, e si impegna a fondo, con l’amico Kleist, in campagne di stampa per basare il contrasto all’avanzata delle armate francesi sulla costituzione di un autentico spirito nazionale tedesco, incarnato nella monarchia prussiana. Tuttavia, per quanto a mio avviso emerge chiaramente dalla lettura del citato saggio Che fare nella fortuna, non è ottusamente reazionario, non vagheggia un impossibile ritorno al passato. Dice von Arnim all’inizio di queste poche pagine, scritte di getto nel 1806 e quindi nel pieno delle campagne napoleoniche:
"Napoleone ha colto lo spirito del più grande movimento popolare del nostro tempo, – la rivoluzione francese . Lo spirito lo protegge se Napoleone lo segue; può essere sconfitto, alla fine vincerà."
Von Arnim è quindi pienamente consapevole che la Rivoluzione ha espresso lo spirito dei tempi, e nelle pagine seguenti propone ai governanti europei che – una volta sconfitto lo straniero invasore – gli stati sappiano assorbire le nuove idee portate dalla rivoluzione attraverso nuovi ordinamenti, che giungano sino a riconoscere il diritto delle nazioni all’autodeterminazione (vengono emblematicamente citati, tra gli altri, i casi della Polonia e dell’Italia) nell’ambito però di un ordine garantito, che sappia conservare precisi valori di gerarchia sociale. Dice ancora von Arnim: "…ciò che voleva la rivoluzione deve diventare comune e ciò che aveva di solo umano deve perire, si deve rendere libera la forza innata individuale di ogni singolo, senza rompere i legami famigliari, non ci devono essere province appartate, segregate per caso, che quelle unite nello stesso governo, non deve esistere ciò che non ha forza."
Von Arnim è quindi il lucido precursore di quello che effettivamente avverrà nel corso del XIX secolo, cioè l’innesto delle istanze borghesi relative alle libertà individuali nel corpus degli stati aristocratici, e l’aggregazione di questi ultimi in stati nazionali al fine di garantire dimensioni dei mercati adeguate alle necessità di sviluppo dei commerci. E’ l’appassionato assertore del compromesso tra aristocrazia al potere e grande borghesia, compromesso che può garantire alla prima la conservazione dei privilegi ed alla seconda il reale dominio sulla società e sull’economia. Perché questo accada nella sua Germania, von Arnim sa che è innanzitutto necessario che la Prussia assuma un ruolo egemone, aggregando i piccoli regni tedeschi (le province appartate) e che assuma i valori borghesi come base del nuovo patto nazionale.
Da un punto di vista politico, di comprensione del pensiero di von Arnim, che si rivela un vero e proprio "intellettuale organico", come del resto lo spirito del tempo richiedeva, le cinque pagine di "Che fare nella fortuna", con il loro stile di scrittura confuso e concitato, sono il vero fulcro del volume, e forse andrebbero lette prima di affrontare il racconto che gli dà il titolo.
"Il folle invalido di Fort Ratonneau" è pubblicato nel 1818: Napoleone è ormai da tre anni a Sant’Elena, il Congresso di Vienna ha ristabilito (sia pure apparentemente e in maniera estremamente precaria, come la Storia si incaricherà di dimostrare di lì a pochi anni) l’ordine prerivoluzionario, e von Arnim, con questo racconto-apologo ambientato durante una guerra combattuta attorno al 1755 tra Francia e Prussia, si riaggancia, sia pure in forma letteraria, alle idee espresse nel saggio pubblicato dodici anni prima, per riconfermarle in un momento in cui sembrava non potessero avverarsi.
Protagonista del racconto è il sergente Francoeur (già nel nome emblematico: cuore francese) che, a seguito di una ferita alla testa durante una battaglia, si comporta in modo folle ma estremamente coraggioso. Veniamo a sapere all’inizio del racconto che mentre era ferito, a Lipsia, è stato curato da una ragazza tedesca che poi lo ha sposato. Tornati in Francia, a Marsiglia, la ragazza, che gli ha dato un figlio, prega il comandante del marito di assegnare al marito un compito che lo sottragga dall’ostilità dei compagni d’armi, che lo considerano un pazzo. Il comandante, conoscendo il valore – sia pure eccentrico – di Francoeur, gli assegna il comando di un piccolo forte all’imbocco del porto di Marsiglia, dove avrà solo tre uomini ai suoi ordini.
Nei primi giorni le cose vanno bene, ma presto Francoeur si convince (naturalmente errando) che la moglie lo tradisce: si barrica quindi nel forte tenendo sotto tiro con i suoi cannoni il porto, la cui attività viene bloccata. Quando i cittadini di Marsiglia, che hanno visto i loro commerci fermarsi, chiedono al comandante di riconquistare il forte con le sue truppe, questi acconsente che la moglie faccia un ultimo tentativo di far rinsavire il marito. Ella si presenta sola sotto le mura del forte e quando sembra che Francoeur stia per sparare la salva che avrebbe ucciso la moglie, una improvvisa crisi di coscienza lo fa rinsavire: esce dal forte, ed abbraccia la moglie: il medico che gli fascia la ferita al capo riesce ad estrargli una scheggia d’osso che causava la sua follia… e vissero felici e contenti.
Il carattere di apologo del racconto secondo me emerge da moltissimi elementi. Il protagonista è francese e la sua follia si manifesta come sovvertimento dell’ordine militare. Questo sovvertimento, però, è funzionale a raggiungere risultati militari importanti: solo in preda alla follia, veniamo a sapere, Francoeur ha potuto durante un’azione sbalzare di cavallo il suo capitano, che aveva ordinato la ritirata, e conquistare una batteria nemica. La moglie che lo fa rinsavire è tedesca, e di cognome fa Lilie (il giglio è simbolo della Francia). La follia di Francoeur, se all’inizio è stata accettata perché foriera di coraggio, non è più tollerabile quando minaccia l’ordine economico di una città; il comandante tuttavia si rifiuta di riconquistare il forte con le armi, ed affida alla moglie tedesca il compito di ristabilire l’ordine con la forza della comprensione. Si ritrovano quindi appieno nel racconto, anche se in forma traslata, i concetti che abbiamo visto espressi in forma diretta nel saggio Che fare nella fortuna.
Il volume è completato da una bella introduzione di Hartmut Retzlaff, che pone l’accento su altri elementi interpretativi del racconto, sicuramente altrettanto (se non maggiormente) importanti.
In definitiva, un ottimo volume, molto curato, che attraverso l’intelligente accostamento di scritti diversi ci permette, in poche pagine, di addentrarci nel pensiero di uno dei più importanti rappresentanti del romanticismo tedesco e di leggere un bel racconto.
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"Quando l'epoca levò la mano...
...contro di sé, quella mano era la sua"
Il titolo di questa recensione non è mio, ma di Bertolt Brecht, e secondo me riassume magnificamente (e come poteva essere altrimenti, vista la fonte?) il ruolo e la funzione intellettuale che Karl Kraus ha esercitato a Vienna negli anni che vanno dalla fine dell’800 alla prima guerra mondiale e sino al 1936, anno della morte.
E’ questo il periodo in cui Kraus pubblica i 922 numeri (20.000 pagine, traggo da wikipedia) di "Die Fackel", la rivista che si scaglierà – armata dello straordinario linguaggio del suo redattore unico – contro l’impero, il liberalismo, il filisteismo borghese, il militarismo, il giornalismo asservito e ignorante, la morale corrente, ma anche contro la socialdemocrazia e gli pseudorivoluzionari in realtà totalmente funzionali alla conservazione della società borghese.
Kraus è noto soprattutto nel nostro paese per "Gli ultimi giorni dell’umanità", il dramma-monstre sulla prima guerra mondiale che secondo lo stesso autore non sarebbe rappresentabile a causa della sua mole (nella premessa Kraus dice: "La messa in scena di questo dramma, la cui mole occuperebbe, secondo misure terrestri, circa dieci serate, è concepita per un teatro di Marte. I frequentatori dei teatri di questo mondo non saprebbero reggervi)" ma che nel nostro paese ha visto una mirabile rappresentazione, per la regia di Luca Ronconi (chi altri?), nel lontano 1990, al Lingotto di Torino quando era ancora una fabbrica abbandonata.
Se "Gli ultimi giorni dell’umanità" è un testo grandioso, che ci svela tutta l’assurdità della guerra, la sua stupidità e nel contempo la sua estrema lucidità in termini di necessità data l’organizzazione sociale ed economica (dirà Kraus al proposito che funzione della guerra è trasformare aree di smercio in campi di battaglia, perché questi a loro volta divengano aree di smercio) è con questi "Detti e Contraddetti" che ci viene svelato l’insieme del pensiero di Kraus, il suo essere coscienza critica (la definizione è sicuramente riduttiva e sicuramente Kraus non l’avrebbe amata, visto il suo essere altra cosa rispetto a tutto ciò che lo circonda) di un mondo prima in decomposizione, e che dopo la grande catastrofe cerca di riorganizzarsi in un modo, se possibile, ancora più foriero di tragedia.
In "Detti e Contraddetti" il pensiero di Karl Kraus ci viene presentato attraverso la forma letteraria che più amava, che più si addiceva alle stilettate che intendeva inferire al suo tempo ed al linguaggio inadeguato che tale tempo utilizzava: l’aforisma. Il volume ci presenta tre diverse raccolte di aforismi krausiani, originariamente pubblicati via via sulla Fackel : "Detti e Contraddetti", pubblicata nel 1909, "Pro domo et mundo" (1912) e "Di notte", del 1918. Kraus si rivela ovviamente un maestro dell’aforisma, collocandosi in una tradizione che annovera tra gli altri autori da lui molto ammirati, quali Nietzsche e Wilde. Ciascuna delle tre raccolte è suddivisa per argomenti, che spaziano dalle donne alla morale, dal giornalismo a Vienna, dall’Arte alla società.
Molti sono composti da brevi frasi, autentici gioielli che in poche parole, al riparo dell’apparenza del paradosso, aprono un mondo di satira e di riflessione, costruiti con una proprietà di linguaggio che era una delle vere ossessioni dell’autore. In altri casi ci troviamo di fronte a pensieri più ampi e articolati, lunghi anche alcune pagine, nei quali si perde senza dubbio il colpo di frusta ma che permettono a Kraus di trasmetterci dei piccoli saggi del suo pensiero. Alcuni esempi tratti da "Detti e Contraddetti", secondo me la raccolta più godibile.
Per essere perfetta le mancava solo un difetto;
L’astinenza si vendica sempre. Nell’uno produce pustole, nell’altro leggi sul sesso;
Lo scandalo comincia quando la polizia vi mette fine;
Bellezza appassisce, perché virtù resiste;
Il superuomo è un ideale prematuro, che presuppone l’uomo;
Ma dove troverò mai il tempo per non leggere tante cose?
Non ci si può fidare di uno snob. Se loda un’opera, può darsi anche che sia buona.
Gli aforismi krausiani svelano anche le sue contraddizioni, quelle di uno scrittore di cui a volte si ha l’impressione che l’egocentrismo, il gusto della satira e della battuta sferzante oltrepassino il suo stesso pensiero. Lo si nota maggiormente nelle sezioni dedicate alla donna, nelle quali accanto ad aforismi e pensieri da cui traspare la piena coscienza che l’eros femminile è un potente strumento di liberazione dai tabù sociali convivono momenti che rasentano un bieco maschilismo, sempre però all’insegna di un gusto e di un linguaggio raffinatissimo:
Nulla è più insondabile della superficialità della donna;
La donna è coinvolta sessualmente in tutti gli affari della vita. A volte persino nell’amore;
Bisogna distinguere tra donne colpose e dolose;
Con le donne monologo volentieri. Ma il dialogo con me stesso è più stimolante;
e, su tutti lo splendido:
Certo, non conta soltanto l’aspetto esteriore di una donna. Anche i dessous sono importanti.
Del resto, lo stesso Kraus ci avverte che "Un aforisma non ha bisogno di esser vero, ma deve scavalcare la verità. Con un passo solo deve saltarla" e anche, più oltre, che "L’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo."
Il volume, molto curato come è nello stile Adelphi (soprattutto degli Adelphi del XX secolo) è preceduto da un ponderoso saggio di Roberto Calasso, nel quale, in oltre cinquanta impegnative pagine, ci si addentra nel mondo anche interiore di Kraus, nei presupposti di pensiero dei suoi scritti, nella complessa relazione che ha intrattenuto con l’intellettualità viennese dei suoi tempi (celebre la sua avversione a Hugo von Hofmannsthal, considerato un nostalgico dell’orpello e della decorazione) nell’influsso che la sua opera ha avuto su pensatori come Benjamin e Adorno e su scrittori come Canetti. Per la verità l’analisi di Calasso secondo me tende a mettere troppo in evidenza gli aspetti archetipici dell’opera di Kraus, tralasciando la forza dirompente della sua critica sociale e politica. E’ vero che si tratta di uno scrittore anche contraddittorio, che non può essere catalogato, ma è altrettanto vero che la sua radicale critica del militarismo, della società liberale e dei suoi miti, della morale e della religione come strumenti di oppressione delle coscienze costituiscono a mio avviso una base concreta di interpretazione dei suoi scritti, forse più del rapporto tra origine e fine che sta particolarmente a cuore a Calasso.
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L'omosessualità come condizione dell'artista
Questo vecchio volume delle Edizioni e/o propone il romanzo più famoso di Michail Kuzmin, Vanja, oggi reperibile in un’altra edizione dello stesso autore ed anche come e-book, accompagnato dalla raccolta di poesie Immagini sotto il velo e da un breve saggio di Antonio Veneziani che tratta alcuni aspetti del problema della letteratura omosessuale.
Kuzmin, esponente di spicco del simbolismo russo nel periodo attorno alla rivoluzione sovietica, era infatti omosessuale, e del tema della educazione omosessuale di un giovane agli inizi del secolo (XX) tratta, come dice il sottotitolo, il romanzo che il volume ci presenta.
Prima di addentrarmi nell’analisi del romanzo, mi sembra importante svolgere alcune considerazioni sull’autore e sul contesto sociale e politico in cui agisce, soprattutto sul suo rapporto con la rivoluzione e il potere bolscevico dei primi anni postrivoluzionari.
Dalle note bibliografiche che chiudono il volume, dalla lettura di Vanja, ma anche dalla lettura di un altro breve romanzo dell’autore, Le avventure di Aymé Leboeuf, edito da Sellerio, emerge chiaramente come Kuzmin, da buon simbolista, concepisca l’arte come linguaggio evocativo, in grado di trasmettere livelli di conoscenza che vanno al di là della realtà percepita, e che recupera l’armonia e gli ideali di bellezza classici. Se a questo si aggiunge il suo essere omosessuale ed il suo scrivere di omosessualità sembrerebbe di avere di fronte il perfetto rappresentante dell’artista-esteta, lontano anni luce dai valori fondanti la rivoluzione bolscevica e destinato ad essere fucilato o internato nei giorni immediatamente successivi l’ottobre.
All’opposto, Kuzmin non solo fu un entusiasta sostenitore della rivoluzione, ma fu membro del presidium dell’Unione degli scrittori di Pietrogrado, insieme a Blok, Majakovskij e Punin, e ancora nel 1928 reciterà trionfalmente a Leningrado le sue poesie in pubblico acclamato da una folla di omosessuali che gli lanciavano fiori. Solo con l’involuzione staliniana sarà emarginato, morendo di polmonite nel 1936.
La parabola di questo autore ci dice secondo me molto del fervore culturale che ha accompagnato il grande rivolgimento russo, e ci dice anche molto di come tale rivolgimento fosse basato su presupposti che non implicavano necessariamente l’esito dittatoriale e fallimentare che lo ha contraddistinto, con buona pace dei sostenitori del pensiero unico e della vulgata comunismo=dittatura.
Tornando a Vanja, pubblicato nel 1906, colpisce innanzitutto la sua struttura, che a mio modo di vedere anticipa il linguaggio cinematografico come si svilupperà nel corso del ‘900, rendendo conto della profonda frequentazione che l’autore aveva con le avanguardie dell’epoca.
Il romanzo è infatti suddiviso in brevi frames, di alcune pagine ognuno, ciascuno dei quali riporta una situazione, un dialogo tra i personaggi o – in un unico caso – un monologo, e ciascuno dei quali è legato a quello che lo precede e a quello che lo segue da una sequenzialità logica ma non dichiarata, tanto che spetta al lettore ricostruire il quadro d’insieme. Kuzmin distilla per noi i momenti salienti della vicenda, lasciandoci la facoltà di legarli tra di loro attraverso il nostro giudizio e immaginando le parti mancanti. Ciò rende la lettura molto piacevole e incalzante in un racconto in cui l’azione è molto rarefatta.
Vanja è un adolescente che, dopo la morte della madre, va a vivere a Pietrogrado dagli zii per continuare gli studi ginnasiali. Qui fa la conoscenza con un amico di famiglia, Larion Dmitrievi? Štrup, raffinato intellettuale omosessuale, che gli apre la conoscenza della cultura classica, che propugna l’universalità delle leggi della natura, che non hanno, come l’amore, alcun fine predeterminato, dove non esistono bene e male," dove esiste un’antica patria, di sole e di libertà, popolata da uomini bellissimi e arditi; ed è là, attraverso i mari, le nebbie e le tenebre che noi andiamo, o argonauti!" (Quanto Whitman, se così posso dire, in questo passo tratto dal monologo di cui parlavo prima, vero manifesto dell’omosessualità come unica condizione esistenziale che permette di comprendere la bellezza e l’arte e come unica possibilità di liberazione dell’uomo dalle costrizioni della cultura cristiana).
Vanja ha così la sua iniziazione culturale, anche grazie ad un’altra figura centrale nel romanzo, quella dell’insegnante di greco Daniil Ivanovi?, amico di Štrup (forse suo amante) e come lui innamorato dell’arte classica, che nella terza parte del romanzo condurrà con sé Vanja in un viaggio in Italia, intesa come luogo dove la bellezza classica può essere toccata con mano. E’ lui che dice a Vanja per primo che non sono gli atti in sé, ma l’atteggiamento che abbiamo verso di loro che possono essere morali o immorali.
Parallela all’iniziazione culturale di Vanja c’è la sua iniziazione sessuale: per quanto detto essa non è solo parallela, ma consequenziale all’altra: per Kuzmin infatti questi due percorsi sono le due facce di una stessa medaglia e l’uno non può esistere senza l’altro. E’ l’arte, la scoperta della vera bellezza e delle leggi della natura che portano, secondo Kuzmin, all’omosessualità come forma necessaria dell’eros.
Vanja quindi scopre lentamente la sua attrazione anche fisica verso Štrup, si ritrova ad essere geloso del suo rapporto di con un altro ragazzo, e ad un certo punto rifiuta le avances di una signora con uno sdegnoso Ma lasciami stare, femmina disgustosa. Da quel momento, Vanja si rende conto della sua diversità e si prepara ad accoglierla. Kuzmin comunque sa che l’omosessualità non è un fardello semplice da portare nella società, e Vanja, sia pure con un sorriso, accennerà al dolore che può comportare la sua consapevolezza.
Non manca nella vicenda un risvolto drammatico, quello del suicidio di una giovane che, innamorata di Štrup, non può accettare il suo rifiuto e la sua patente omosessualità. Questo episodio, assieme al citato tentativo di seduzione di Vanja e a come vengono presentate le altre figure femminili, mi porta a dire che la donna è concepita da Kuzmin come un essere inferiore rispetto all’ideale di bellezza maschile dell’autore, che ci dice, nel monologo già citato: "coloro che collegano il concetto di bellezza alla bellezza della donna manifestano solo una volgare lascivia e sono lontani mille miglia dalla vera idea di bellezza. Molte altre volte l’amore per la donna è associato alla volgarità, alle convenzioni sociali e alla pura lascivia." Indubbiamente è una posizione discutibile, apertamente misogina, ma pienamente coerente con l’assunto centrale del romanzo.
Da notare che nel testo non vi sono scene erotiche (a parte il goffo tentativo di seduzione del protagonista) e neppure la parola omosessualità è mai nominata, a testimonianza del valore culturale e intellettuale che Kuzmin attribuisce all’omosessualità.
In definitiva quindi, credo che Vanja si possa definire un romanzo-manifesto, nel quale la vicenda del protagonista serve all’autore per illustrare la sua concezione dell’arte, e di quella classica in particolare, come manifestazione della vitalità dell’uomo, che può divenire compiuta solo attraverso l’attrazione reciproca di uomini (maschi) eletti, che si sono lasciati alle spalle, tramite l’approfondimento culturale, tutte le convenzioni e le costrizioni della morale cristiana. Una visione che, anche se indubbiamente elitaria, estetizzante e quasi aristocratica, non impedì a Kuzmin, come detto, di aderire alla rivoluzione, nella quale probabilmente vedeva il presupposto perché tale visione potesse estendersi a ciascun individuo.
Il libro propone anche alcune poesie scopertamente erotiche di Kuzmin (illustrate da un suo compagno), alcune delle quali sono veramente divertenti (su tutte Le riflessioni di Luca) e ci svelano come l’autore vivesse la sua omosessualità con gioia, o perlomeno con una buona dose di ironia. Il breve saggio di Antonio Veneziani nulla aggiunge a mio avviso al libro, se non la rivendicazione della necessità della corporeità della letteratura omosessuale, che peraltro Kuzmin in Vanja sublima in maniera sublime.
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molto, ma non tutto, è cambiato da allora
La fossa è un quartiere della grande città meridionale di K*; è in questo quartiere che Aleksandr Kuprin, scrittore russo poco noto del primo novecento, ambienta il suo romanzo più noto, pubblicato nel 1915.
La fossa, però, è un quartiere particolare, quello che oggi definiremmo un quartiere a luci rosse: là si trovano le case di tolleranza (che effettivamente espongono, di sera, delle lanterne rosse), rigidamente suddivise in case di lusso, di second’ordine e popolari, con prezzi e qualità del servizio diversi.
Kuprin ci racconta la storia di una di queste case, quella gestita da Anna Markovna – una casa di second’ordine, da due rubli – delle ragazze che vi lavorano e della varia umanità che la frequenta. Ci narra con estremo realismo la condizione umana e sociale delle prostitute, le regole che una società ipocrita si era data da un lato per garantire l’importante funzione “sociale” svolta dalle case e dall’altro per assicurare l’emarginazione e l’isolamento dal resto del corpo sociale di chi vi opera.
Parti importanti del romanzo sono quindi dedicate alla descrizione della vita che si svolge nella casa, al ruolo che nell’azienda svolgono i vari personaggi, dalla proprietaria all’economa al portiere, ai meccanismi con cui le ragazze vengono sfruttate, al rapporto della casa con le autorità (spesso corrotte), alle tipologie dei clienti. Sono queste le parti corali del romanzo, nelle quali La fossa assume quasi i toni di un’inchiesta e della denuncia di una realtà ufficialmente ignorata.
Quasi a fare da contraltare a queste parti d’insieme, il romanzo focalizza la sua attenzione sulle storie di due ragazze che vivono nella casa di Anna Markovna: Ženia e Ljuba. Come detto nel commento in quarta di copertina della mia edizione BUR, si tratta di storie emblematiche, ciascuna delle quali vuole mettere in evidenza il dramma esistenziale e sociale che comporta essere prostitute, e ciascuna delle quali vuole dirci che da tale condizione non vi è redenzione, vuoi perché troppo grande è il fardello di umiliazione e di annichilimento della personalità che esercitare tale professione nel contesto delle case comporta, vuoi perché l’ipocrisia di cui la società è intrisa respinge ogni tentativo di riscatto.
La storia di Ženia è la più drammatica. Lei è di fatto la leader delle ragazze, è la più bella e la più richiesta dai clienti. E’ apparentemente cinica e crudele, e non perde occasione per ricordare alle altre la loro vera condizione, la futilità dei loro sogni di una vita piccolo-borghese, basata sulla speranza che un giorno qualcuno si innamori di loro e le porti a vivere fuori dalla casa, come amanti ufficiali e mantenute. Ženia non si fa illusioni, sa che per la società è e resterà sempre la donna pubblica, e matura l’idea della vendetta sulla vita e sull’ipocrisia degli uomini. Quando scopre di essere ammalata di sifilide, lo tiene nascosto e moltiplica la sua disponibilità così da contagiare quanti più clienti possibile. Si ferma però davanti ad un ingenuo ragazzino alle prime esperienze, e questo episodio la convince che l’unica via d’uscita dalla sua condizione sia il suicidio. Credo che queste pagine, e quelle relative alla reazione delle ragazze, dei padroni della casa e delle autorità siano le più belle, intense e dense di significato del libro.
Ljuba è vittima del buonismo ideologico di chi si crede rivoluzionario ma è unicamente un piccolo-borghese. Lo studente Lichonin, animato da nobili ideali di redenzione della società, la fa uscire dalla casa e la porta a vivere con sé. In realtà non ama Liuba, ma sé stesso e l’idea di compiere un’azione eroica e coerente con le sue idee. Naturalmente si stancherà presto e a Ljuba non resterà altra scelta che tornare, sconfitta, nella casa.
Un’altra ragazza la cui storia è seguita con attenzione particolare dall’autore è quella di Tamara, che in qualche modo è l’alter ego positivo di Ženia: diviene economa della casa ed architetta un audace furto ai danni di un vecchio cliente di cui si finge innamorata. Finirà comunque in galera denunciata dal complice e amante.
Il libro si chiude con il dramma finale: l’intero quartiere è percorso da una sorta di pogrom e tutte le case vengono saccheggiate e devastate da una folla inferocita. La stessa società che ha sempre utilizzato i servizi delle case per incanalare e regolamentare le pulsioni del sesso ora distrugge i luoghi del piacere a pagamento. Le autorità ordinano di chiudere tutto e cambiano persino il nome al quartiere. Kuprin ci dice però che da quella catarsi nacque la prostituta da marciapiede, a testimonianza della insopprimibilità di tale ruolo in una società che perpetua sé stessa e i suoi bisogni.
La fossa è indubbiamente un bel libro, nel quale la lucidità dell’analisi, la capacità di trattare un argomento così complesso nelle sue varie sfaccettature e senza eccessivi paternalismi compensa anche alcune pecche, come una certa schematicità di alcuni personaggi.
Kuprin, non bisogna dimenticarlo, scrive il romanzo all’inizio del ‘900, in una Russia che seppure pervasa nei grandi centri urbani dalle tensioni rivoluzionarie rimaneva uno degli stati più arretrati d’Europa: la storia, però, ha il grande valore di essere universale, e potrebbe essere ambientata anche – per esempio – nell’Italia dell’immediato dopoguerra.
A mio avviso il grande pregio del libro è infatti quello di mostrarci il nesso inscindibile che esiste tra la società, la sua organizzazione, e la prostituzione organizzata come business, basata sullo sfruttamento della donna; allo stesso tempo il romanzo ci mostra con nettezza il patto di ipocrisia stretto tra la società e la prostituzione, patto che è vigente ancora oggi, sia pure in forme più sfaccettate, nella nostra società apparentemente libera da ogni tabù sessuale: ci sei, mi sei necessaria, ma devi rimanere nascosta, sei troppo disturbante per essere parte organica dell’organizzazione sociale.
Certo, molto è cambiato dai tempi raccontati ne la fossa, ma se guardiamo alle posizioni politiche di alcuni movimenti di casa nostra, alla mentalità di molti buoni padri di famiglia dell’Italia del XXI secolo ritroveremo tanti motivi per leggere questo libro e per riflettere sui suoi contenuti.
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Risposta inadeguata e fuori tempo massimo
Else Lasker-Schüler è stata una delle più significative ma anche controverse letterate ebraiche della prima metà del XX secolo: se da molti è considerata la poetessa del popolo ebraico, Kafka (ad esempio) non poteva soffrire la sua poesia né la sua prosa. Visse sino al 1933 in Germania, facendo parte dei circoli intellettuali espressionisti e conducendo una vita bohémienne, per poi andare in esilio prima a Zurigo e quindi a Gerusalemme, dove morì nel 1945.
"Arthur Aronymus", uno dei testi in prosa di questa autrice più nota per le sue raccolte in versi, ben rappresenta, a mio modo di vedere, il senso di ambivalenza che la critica ha dimostrato nei confronti dell’autrice. Il volume edito da Sellerio che ho letto riporta anche un altro, breve racconto, La gatta rossa, che gli dà il titolo ma potrebbe essere considerato come un capitolo del primo, visto che ne ripropone l’ambientazione e l’atmosfera generale, non aggiungendovi nulla di significativo. Il racconto principale è anche proposto, in una traduzione diversa, da un volume della Letteratura Universale Marsilio, che ha il pregio di essere corredato da un imponente apparato di note e da un lungo saggio di Virginia Verrienti, sicuramente più pregnante della scarna nota di Marina D’Attanasio dell’edizione Sellerio, oltre che di riportare il testo originale a fronte. Per questi motivi consiglio caldamente l’edizione Marsilio.
Arthur Aronymus fu scritto nel 1932; tale data non è di secondaria importanza, nella mia interpretazione del testo, e vi ritornerò. Più tardi l’autrice vi avrebbe derivato una rappresentazione teatrale.
Il racconto narra dell’infanzia del padre della poetessa nel villaggio di Gäsecke, in Vestfalia, in una famiglia patriarcale ebraica. Arthur è uno degli ultimi di 23 (!) figli, è il beniamino del padre e soprattutto della madre, figlia di un rabbino capo della vicina Paderborn, che ha sempre ricercato la convivenza tra cristiani ed ebrei, da poco morto.
Nel racconto, che è impregnato di un lirismo aulico soprattutto nelle parti che descrivono la vita quotidiana della comunità familiare, i teneri rapporti tra i genitori e i figli e fra questi ultimi, gli avvenimenti sono filtrati dagli occhi del piccolo Arthur, che pure non è l’io narrante (è l’autrice che narra in prima persona), e di avvenimenti ve ne sono alcuni che assumono un ruolo centrale.
Il primo, con cui si apre la storia, è il racconto di un pogrom avvenuto quando il padre di Arthur era ragazzino, che egli narra ai figli una vigilia di natale. E’ un racconto molto crudo, nel quale Else Lasker-Schüler ci dice che i corpi dei bambini ebrei pendevano come confetti dagli alberi di natale del municipio di Paderborn, e che nei vicoli del ghetto erano sparsi tenere manine e piedini grondanti di sangue, come foglie vizze e morte.
Arthur viene poi invitato dal buon parroco Bernard in canonica a ricevere dei regali per il natale. Dopo una discussione, i genitori decidono di lasciarlo andare, e il piccolo Arthur è incantato dall’atmosfera di festa e dalle due nipoti del parroco: quando però una delle due tenta di rubare una delle palline colorate dell’albero, Bernard le dà uno scappellotto e la redarguisce così: "Ehi, non vorrai mica diventare una di quelle bambine ebree?" pentendosi subito. Arthur però viene ferito dalla frase e scappa a casa.
Qualche tempo dopo una delle sorelle di Arthur, Dora, si ammala del Ballo di San Vito e per questo il villaggio minaccia di metterla al rogo come strega. Il parroco Bernard propone al padre di Arthur di educare il figlio alla religione cattolica, per placare gli animi, ma questi rifiuta con dignità. Giungerà quindi una lettera dal vescovo di Paderborn ai parrocchiani, in cui li invita caldamente ad amare i fratelli ebraici e a distogliersi da pericolose superstizioni, e tutto rientrerà.
Infine, nell’ultima scena del racconto, il parroco Bernard e il vescovo di Paderborn visitano la casa di Arthur alla vigilia della Pasqua ebraica, trovando la famiglia riunita con sette poveri invitati per la festa. I due sacerdoti e il padre di Arthur concordano che ci vuole un po’ d’amore ed ebrei e cristiani spezzeranno insieme un solo pane. "Anche se è pane azzimo", chiosa la madre di Arthur nella (secondo me più azzeccata) traduzione di Virginia Verrienti. Lasker-Schüler propugna quindi una riconciliazione (Versönung) in cui le due culture riconoscono ed accettano le loro diversità culturali, basate tuttavia su una comunanza di sentimenti profondi.
Dico subito che il racconto sconcerta sia per l’atmosfera idillica che circonda la famiglia di Arthur (o meglio per l’atmosfera idillica che l’autrice le cuce addosso) sia per l’ingenuità della modalità di riconciliazione tra le due culture che propone, affidata come è a dei saggi che si incontrano su un terreno comune, quello della loro personale bontà. Virginia Verrienti, nel suo saggio in apertura del volume di Marsilio, ci informa che la possibilità della riconciliazione era del tutto assente in un altro racconto di Lasker-Schüler, "Il rabbi dei miracoli di Barcellona", cupo dramma su un pogrom catalano che si conclude con la vendetta di Javhé, e analizza dottamente le cause di tale diversità.
A mio avviso, però, non coglie l’elemento fondamentale che distingue i due racconti: le differenti epoche in cui sono stati scritti.
"Il rabbi dei miracoli di Barcellona" è del 1921, nel primo periodo della Repubblica di Weimar, e se anche l’antisemitismo era una componente storica della cultura germanica, credo ci fosse la speranza che la nascente democrazia avrebbe potuto espellerlo dal corpo della società: Else Lasker-Schüler può quindi scrivere un testo di denuncia, in cui mostrare che le forze oscure che animano l’odio razziale si ritorcono contro i suoi stessi propugnatori.
Molto diversa è la situazione nel 1932: non solo le illusioni democratiche stanno sparendo, ma l’antisemitismo è a un passo dal farsi Stato. E’ una involuzione inaudita, troppo pesante per darle una risposta razionale: non resta che rifugiarsi nel passato familiare, trasfigurarlo ed opporre al male che avanza una soluzione basata sulla buona volontà dei singoli. Sfuggono tuttavia a Lasker-Schüler sia le cause vere dell’antisemitismo, sia la necessità che il partito ormai pronto a farsi regime ha di alimentarlo per raggiungere i propri obiettivi di dominio. Nessuna conciliazione, nessuna Versönung sarà possibile, e la poetessa lo sperimenterà sulla propria pelle di lì a pochi mesi.
La debolezza intrinseca della tesi di fondo del racconto è quindi accentuata dal fatto che lo stesso è per così dire giunto fuori tempo massimo, in un periodo in cui l’autrice avrebbe dovuto capire di più e meglio. Forse, come detto, a sua scusante si può portare il fatto oggettivo che la realtà che stava vivendo era per larghi versi inconcepibile.
Resta comunque, nel lettore di oggi (che però – a differenza dell’autrice – sa quali furono gli sviluppi futuri) la sensazione di un atteggiamento consolatorio, di un rifugiarsi nel proprio guscio che non è del tutto adeguato ad una intellettuale che aveva vissuto in prima persona il clima culturale della Berlino degli anni ’20, molti esponenti del quale hanno cercato di dare, anche se invano, ben altre risposte alla barbarie montante.
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il rapporto con la madre è sempre complicato
Paul Léautaud può essere considerato, a mio avviso, uno dei “prodotti” più eccentrici dell’atmosfera culturale di Parigi nel periodo che va dalla fine dell’800 allo scoppio della seconda guerra mondiale, periodo nel quale questa città è stata una delle capitali, se non la capitale mondiale, della vita e dell’elaborazione culturali.
Léautaud è sicuramente un personaggio minore in quel fantasmagorico panorama intellettuale, un giornalista e critico solitario, spietato censore delle mode del momento ma allo stesso tempo incapace di percepire la grandezza di alcuni dei protagonisti della vita culturale parigina, spesso propenso alla polemica fine a sé stessa, a crogiolarsi nel suo essere solitario e diverso. Questo è almeno quanto emerge dalla presentazione dell’autore che Lanfranco Binni ci regala in questa bella edizione de Il piccolo amico, la più nota delle sue non numerose opere letterarie, quasi tutte di carattere autobiografico.
E’ proprio dalla sua biografia che emerge appieno come Léautaud non potesse che essere parigino, come una figura di questo tipo non potesse che nascere e vivere in quella città in quella determinata epoca. Siccome, come detto, le sue opere sono perlopiù autobiografiche e siccome anche Il piccolo amico non sfugge a questa regola, credo sia essenziale fornire qualche breve nota sulla vita di questo autore, anche per il fatto che è sicuramente poco noto in Italia.
Nato nel 1872 dalla relazione tra due attori, viene abbandonato dalla madre quando ha solo tre giorni. Questo fatto segnerà la sua vita e sarà al centro, come vedremo, de Il piccolo amico. Viene così allevato dal padre, o meglio da una bambinaia, perché anche il padre lo vede come un ostacolo ai suoi amori. Frequenta così il mondo del teatro, ed in particolare cresce circondato dall’affetto delle prostitute che frequentano quel mondo. Il legame con le prostitute parigine sarà un tratto costante della sua vita e costituisce l’altro argomento portante de Il piccolo amico.
A cavallo del secolo entra in contatto con gli ambienti letterari parigini e diviene critico teatrale del Mercure de France, di cui rimarrà collaboratore sino al 1941. Vive in solitudine, ostentando un aspetto trascurato e quasi da clochard, sino al 1956.
Come accennato, due sono le tematiche portanti de Il piccolo amico, pubblicato nel 1903: il rapporto con la madre, direi la ricerca della madre da parte del giovane Léautaud e il suo rapporto, per meglio dire la sua amicizia, con le prostitute, sullo sfondo della Parigi della Belle Époque.
Léautaud vedrà la madre due sole volte: la prima nel 1881, quando ha otto anni, e la seconda nel 1901, ormai quasi trentenne. Tutta la sua vita è però solcata dal trauma dell’abbandono, dal mito di questa donna affascinate e sensuale che non l’ha voluto, e la sua misoginia, il suo rifugiarsi per tutta la vita nelle braccia amiche e comprensive delle prostitute è facilmente spiegabile con questo trauma infantile.
Il piccolo amico è in questo senso una sorta di grande operazione di autoanalisi, anche molto coraggiosa e impietosa, come è nello stile dell’autore: ormai trentenne, egli tira le somme di ciò che ha significato nella sua infanzia l’assenza della madre, e pone al centro della prima parte del libro il mitico incontro del 1881, quando la mamma lo accolse in una stanza d’albergo, lo strinse al seno (letteralmente, era a letto seminuda) e stette con lui tutto il giorno. Léautaud ci descrive quello che è il giorno più importante della sua vita con minuzia di particolari, e si vede che mentre scrive, vent’anni dopo, cerca di riassaporare ogni minuto di quella memorabile giornata. Emerge in particolare la sensualità della madre, che tra l’altro in serata porterà il piccolo Paul alle Folies-Bergère, quasi consegnandolo simbolicamente al mondo cui sarebbe appartenuto negli anni della giovinezza. L’ambiguità del rapporto con la madre emerge ancora più chiaramente nel secondo incontro, quando un Léautaud trentenne (lei ha 45 anni) la rivede in occasione della morte della zia e tra i due c’è uno scambio di atteggiamenti scopertamente erotici, che prosegue per un certo periodo per via epistolare. Lei è sposata, ha altri figli, e ad un certo punto interromperà l’equivoca (anche se solo “letteraria”) relazione con il figlio, che cercherà in ogni modo di riavvicinarsi a lei, senza successo. Questa ultima parte del libro è scritta quasi in presa diretta e ancora una volta Léautaud ci descrive minuziosamente gli avvenimenti, i contenuti delle ultime lettere, quasi a voler esorcizzare l’ennesimo abbandono materno e a voler registrare oggettivamente come si sono svolte le cose. Del resto l’idea di scrivere un libro sulla sua vita era venuta proprio dalla madre.
Alcuni capitoli iniziali del libro sono dedicati a ritrarre la vita dell’autore da piccolo, prima dell’incontro con la madre, e qui emergono descrizioni di quartieri di Parigi (Montmartre, Pigalle) che ci restituiscono, in scarni ma efficaci tratti di penna, l’atmosfera della grande città nei suoi angoli tranquilli, quasi bucolicamente trasfigurati dalla memoria di quel bambino triste che Léautaud è stato.
Vi è poi la parte dedicata alla vita mondana del giovane Léautaud, alla sua amicizia con le prostitute dei locali notturni parigini. E’ una vera e propria amicizia, in cui l’elemento sessuale è quasi secondario, ed è in ogni caso uno dei tanti modi di stare insieme, di sentirsi solidali nella propria solitudine attraverso il reciproco scambio di piacere. Sono pagine tenere, in cui l’autore riversa la propria gratitudine verso queste donne, che hanno una sensibilità particolare, che sanno capire quando lui ha bisogno di essere solo e quando cerca compagnia, che trovano in lui un amico pronto a prenderle per ciò che sono, senza giudicarle, disprezzarle e senza tentare di redimerle. Sono anche pagine in cui emerge, si potrebbe dire nonostante lo sguardo languido e tenero di Léautaud, la fatica e la crudeltà del mestiere, che porta queste donne ad invecchiare precocemente, sia fisicamente sia nell’animo.
Il piccolo amico è quindi, senza essere un capolavoro, un libro piacevole, che ci fa entrare nella vita di questo eccentrico autore grazie alla sua lucidità analitica, alla sua capacità di illustrarci, anche spietatamente, i suoi sentimenti, e nello stesso tempo ci fornisce dei brevi lampi che illuminano la vita di Parigi, i suoi quartieri, i suoi locali notturni all’inizio del ‘900.
Lo stile di scrittura di Léautaud è volutamente piatto, tranne in alcuni momenti dedicati alla madre o alle figure di alcune delle sue amiche cocottes, e questo perché, ci informa ancora Lanfranco Binni nella prefazione, egli è uno Stendhaliano convinto, che condivide volentieri l’accusa di “stile da portinaia” rivolta a Stendhal da tanti letterati. Léautaud odiava infatti la letteratura, la scrittura costruita attraverso lo stile, fino a dire di Flaubert (è sempre Binni che lo riporta): "Quel povero Flaubert, che fu solo un operaio dello stile,- sebbene questo stile sia poi di un’uniformità desolante e gelida, senza intelligenza né sensibilità". Credo che questo giudizio, a mio avviso ingeneroso, riassuma bene la parzialità di questo autore.
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Attenzione ai vostri istinti, ragazze...
Per me, per i miei interessi letterari, un racconto od un romanzo sono interessanti soprattutto quando, sollevando i veli in cui è avvolta la storia in quanto tale, la storia esplicitamente narrata dall’autore, è possibile trovare altri livelli interpretativi, è possibile capire perché la storia è stata scritta, da quale contesto culturale nasce, cosa voleva comunicarci d’altro l’autore.
Non sempre questo è possibile: esistono molti libri che sono scritti riprendendo pedissequamente cliché e mode letterarie, scritti con l’unico obiettivo di vendere, che non ci comunicano nulla, e ciò a mio avviso riguarda la stragrande maggioranza delle proposte della moderna industria culturale, in un’epoca in cui la produzione letteraria risponde quasi unicamente a logiche di mercato.
Forse tra un secolo da tutto il ciarpame edito in questi decenni emergerà comunque qualche opera che avrà resistito all’inevitabile oblio, per il fatto di essere stata in grado di raccontare la nostra epoca. Ho tuttavia l’impressione che opere di questo genere, se pure vengono scritte, difficilmente vengono pubblicate, per l’ottica mercantile che ormai pervade tutta la produzione letteraria, e che è perfettamente coerente con il processo di ottundimento delle coscienze lucidamente portato avanti dai padroni del vapore. Credo quindi che l’archeologo che andrà alla ricerca dello Zeitgeist di questa nostra epoca (di archeologo si tratterà, perché questa in-civiltà si autodistruggerà – ne sono certo – in breve tempo) dovrà ricercarlo nei like di Facebook, nel degrado egotistico dei selfie, piuttosto che in opere letterarie che in generale si badano bene dal raccontarci perché siamo giunti a tutto ciò. A mio avviso, quindi, è solo leggendo i classici, con la loro capacità di raccontarci l’epoca in cui sono stati scritti che possiamo sperare di avere e diffondere gli strumenti culturali in grado di farci capire l’epoca in cui viviamo.
Carmilla, di Joseph Sheridan Le Fanu, è un ottimo rappresentante di opera letteraria stratificata, leggibile a più livelli, e pur appartenendo indubbiamente alla categoria dei romanzi di genere (in questo caso il genere gotico) mostra una complessità interpretativa che lo colloca tra i libri da leggere se si è interessati a capire lo spirito dell’epoca vittoriana, del periodo in cui lo sviluppo dell’industrializzazione in Gran Bretagna (il racconto è del 1872) comportava un necessario controllo delle coscienze, la definizione di una ideologia basata sulla repressione delle pulsioni, in primis quelle sessuali quali anticamera del disordine sociale. E’ questa un’epoca che presenta inquietanti analogie con la nostra in termini di ideologia dominante, anche se un secolo e oltre di affinamento delle tecniche di controllo sociale hanno portato a rendere più conveniente inibire il potere sovversivo del sesso attraverso la sua esibizione e disponibilità totale, piuttosto che attraverso la sua negazione e sublimazione.
Carmilla è innanzitutto ancora oggi un bel racconto, piacevole da leggere, nonostante alcune ingenuità stilistiche e ambientali che derivano dall’essere noi i lettori del XXI secolo di una storia destinata a mettere paura ad un pubblico del XIX. La storia è quella di Laura, (che come spesso capita in questo genere di racconti la narra in prima persona anni dopo, a garanzia dell’happy end) figlia di un funzionario austro-ungarico di origine inglese, che vive diciottenne in un solitario maniero della Stiria, con l’unica compagnia del padre e di due istitutrici. Per una serie di avvenimenti molto oscuri nel castello viene ospitata una ragazza della stessa età di Laura, un personaggio enigmatico, dai comportamenti bizzarri, languida e bellissima, e tra le due ragazze nasce una intima amicizia che sconfina apertamente verso l’amore. Subito nei villaggi circostanti iniziano a morire giovani fanciulle, affette da un misterioso morbo che toglie loro l’energia vitale: in breve tempo anche Laura inizia ad avere incubi in cui strani animali si introducono in camera sua e la mordono al seno; inizia a sentirsi sempre più spossata e solo il tempestivo intervento di un amico di famiglia, un generale a riposo che sta dando la caccia ai vampiri riuscirà a risolvere la situazione con l’immancabile (ma per allora non così scontato) paletto di frassino nel cuore di Carmilla e successiva decapitazione.
Moltissimi, anche da questa breve sintesi, sono gli elementi che emergono e che fanno di Carmilla un testo che si può dire era volto all’educazione delle giovani rampolle della borghesia vittoriana. In estrema sintesi e con una certa dose di brutalità e approssimazione la morale della storia può essere la seguente.
"Attenzione, giovani fanciulle che state entrando nell’età in cui dovrete decidere del vostro avvenire: troverete sulla vostra strada le insidie del sesso, gli oscuri impulsi che guidano il vostro istinto. Essi si presenteranno estremamente attraenti, ambigui ed affascinanti. Seguendoli, tuttavia, andrete incontro alla rovina certa, alla morte. Non dovete però temere, perché le autorità sapranno mettere tutto a posto e vi reindirizzeranno verso la retta via, dove potrete adempiere felicemente i vostri compiti sociali."
Questo è secondo me il messaggio sociale che il racconto vuole consegnarci. Ne sono testimoni molteplici particolari, quali la figura stessa della protagonista, che non è un vampiro di orribili fattezze (si pensi per contrasto a Nosferatu) ma una bellissima fanciulla, manifestamente il doppio oscuro di Laura. Ne è testimone il ruolo che svolgono i personaggi che risolveranno la questione: il padre funzionario imperiale, l’amico generale, il prete, i dottori: tutti rappresentanti emblematici della buona società che agiscono saggiamente per il meglio.
Il racconto è però ancora più complesso, e permette di scoprire, se adeguatamente scandagliato, ulteriori livelli interpretativi. Vi è infatti un livello squisitamente psicanalitico, che attiene a come viene descritto il rapporto tra Laura e Carmilla in un’epoca in cui parlare di sesso era, come detto, tabù. Qui secondo me Le Fanu dà il meglio di sé come narratore, perché è in grado di scardinare questo tabù senza formalmente metterlo in discussione. Sempre in chiave psicanalitica può essere interpretato il ruolo che nel racconto assume la dimensione onirica.
Vi è infine secondo me un livello ancora più sottile di interpretazione del personaggio di Carmilla, che non solo rappresenta il pericolo che le pulsioni sessuali costituiscono rispetto all’ordine sociale, ma, in quanto proveniente da una famiglia nobile di epoca medievale, accosta tali insidie al mondo feudale europeo (non dimentichiamo che il padre di Laura è inglese). Carmilla è poi anche manifestamente atea, materialista e illuminista (come ci dice Attilio Brilli nella bella e breve postfazione all'edizione Sellerio da me letta): assomma in sé quindi anche le minacce che alla società borghese trionfante potevano derivare da un lato dalla reminiscenza del vecchio ordine feudale e dall’altro dalla cultura radicale che era stata alla base stessa della presa di potere della borghesia, me che ben presto venne rinnegata perché non funzionale alla costituzione del nuovo ordine economico.
Pochi decenni dopo Henry James scriverà la sua storia di fantasmi più nota, Il giro di vite e l’incombenza della crisi farà sì che nessun finale lieto sia più possibile, che nessun esorcismo, nessun paletto di frassino possa fare scomparire creature per larga parte generate proprio da quegli stessi meccanismi sociali che tentano di distruggerle.
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vestivamo la divisa della wehrmacht...
Marte in Ariete è il romanzo più conosciuto di Alexander Lernet-Holenia, ed è unanimemente considerato uno dei suoi capolavori. Tra l’altro viene unanimemente considerato l’unica opera di opposizione al regime scritta in Austria durante la guerra (dalla voce di Wikipedia sull’autore), e nel risguardo di copertina dell’edizione Adelphi da me letta si asserisce che in queste pagine si legge davvero in filigrana una possente raffigurazione dello sfacelo che i nazisti stavano portando nel mondo.
Non concordo molto con questa lettura politica del romanzo, perché a mio avviso il tema della guerra, che pure occupa uno spazio importante nel libro, praticamente tutta la parte centrale, è trattato da Lernet-Holenia con un distacco cronachistico che permette di dire che si tratta solo di una quinta, di un rumore di fondo che gli permette di far risaltare la vicenda personale del protagonista, il tenente Wallmoden, e di inserirla in un contesto altamente drammatico funzionale alla dimostrazione di quella che si potrebbe definire la tesi di fondo di tutta la sua letteratura: l’ineluttabilità del fato.
La vicenda si svolge infatti tra il 15 agosto e la fine di settembre del 1939, periodo nel quale scoppia, con l’invsione della Polonia da parte delle truppe del Terzo Reich, la seconda guerra mondiale.
Lernet-Holenia partecipa come ufficiale a quella invasione, venendo presto congedato a causa di una ferita, ed annota, secondo quanto riportano le fonti, in un dettagliato diario gli avvenimenti di quei giorni. Proprio questo diario costituisce la base delle dettagliatissime informazioni di carattere geografico e militare che l’autore traspone nel libro.
Il romanzo può essere suddiviso in tre parti distinte. Nella prima, che va dal 15 agosto a pochi giorni dopo, il protagonista, che torna nell’esercito per un mese di esercitazioni, conosce e si innamora di una affascinante e misteriosa signora, la Baronessa Cuba Pistohlkors, appena giunta a Vienna, di cui si sa poco e che non gode in società di una reputazione irreprensibile. Wallmoden le fa la corte nelle ore di licenza in cui può tornare a Vienna dal campo militare in cui si trova. Fa così la conoscenza con alcuni strani personaggi che la baronessa frequenta e nello stesso tempo intavola stimolanti discussioni con i suoi colleghi ufficiali sulla realtà delle cose e sull’esistenza dei fantasmi. La baronessa Pistohlkors inizialmente resiste alle avances di Wallmoden, anche perché, secondo un amico di lei, nonostante due brevi matrimoni è ancora illibata. Un giorno confessa però di amare Wallmoden e gli dà appuntamento al giorno dopo per essere sua. E’ però la sera della partenza del reggimento, e Wallmoden non potrà tornare a Vienna. Parte così, attraverso la Slovacchia, per quella che ritiene essere una esercitazione di breve durata, e che invece si trasformerà nell’invasione della Polonia.
La seconda parte riporta, come detto in forma molto dettagliata, la marcia di avvicinamento delle truppe al confine polacco, la sosta di alcuni giorni alla frontiera e quindi l’invasione, giungendo sino al 16 settembre 1939. Nella prima fase Wallmoden è ancora convinto che si tratti di una esercitazione, e di poter tornare a Vienna da civile il sedici settembre. Scrive telegrammi in tal senso, senza ricevere risposte, e quindi affida ad un collega il compito di contattare la baronessa durante una licenza. La situazione però precipita, e il 1 settembre c’è l’invasione. I polacchi sembrano non opporre resistenza, ma durante una scaramuccia Wallmoden viene ferito ad una mano. Gli avvenimenti si susseguono sempre più drammatici, e Wallmoden riceverà notizie sconvolgenti dall’ufficiale mandato a visitare la baronessa.
Il sedici settembre, giorno in cui sperava di tornare a Vienna, Wallmoden viene ferito al termine del primo vero scontro con i polacchi, e nella terza, breve parte, il romanzo narra di come il protagonista riesca ugualmente a presentarsi all’appuntamento della sua vita, all’ora magica, anche se con modalità completamente diverse da quelle sempre pensate dal protagonista e immaginate dal lettore. Non voglio dire di più perché toglierei a chi vorrà leggere questo romanzo il gusto di scoprire l’intreccio ed i particolari, che sono parte importante del fascino della scrittura di Lernet-Holenia.
Marte in Ariete si è rivelato essere, come altre opere dell’autore da me lette, un romanzo che mi lascia sentimenti contrastanti.
Da un lato c’è l’abilità dell’autore di costruire storie che, come detto, affascinano per come presentano il tema del destino individuale e della impossibilità di mutarlo sia da parte dei personaggi sia da parte degli avvenimenti esterni. In questo romanzo Lernet-Holenia ci vuole dire che il nostro destino è comunque scritto, anche se con caratteri che a noi sono inintelligibili, e che solo in un mondo di mezzo tra realtà e immaginazione riusciamo a comprenderne alcuni brani. C’è un momento chiave, nel libro, quando al protagonista, che si aggira solo nelle retrovie della battaglia, viene ordinato da un superiore, il Capitano Sodoma, di scattare verso un gruppo di alberi poco lontani. Wallmoden si rende poco dopo conto che l’ordine gli è giunto da un fantasma, perché Sodoma è morto poche ore prima nella battaglia; mentre comunque esegue l’ordine (perché Optimi consiliari mortuii) un aereo sgancia la bomba che lo ferirà: sarà proprio questo ferimento che gli permetterà di giungere all’appuntamento, di avere la sua ora magica.
Tuttavia questa tesi, questa ideologia – direi – dell’ineluttabilità del destino, già da sé testimonia abbondantemente dell’aristocratico conservatorismo del nostro, e si accompagna, in questo romanzo come in altri di questo autore, ad un altrettanto aristocratico distacco dagli avvenimenti storici di cui Lernet-Holenia è stato testimone.
Certo, riconosco che nel romanzo non vi è alcuna apologia del nazismo, dell’espansione tedesca, anzi affiora in alcune descrizioni di masse in fuga, di villaggi che bruciano una certa pietà per il destino di un popolo e di una terra, – e questo aspetto è certamente da sottolineare soprattutto perché scritto quasi in presa diretta – ma da qui a dire che questo libro rappresenta un esempio di resistenza passiva al nazismo, di possente raffigurazione dello sfacelo… ce ne corre. Se tutto questo c’è in filigrana, come dice Adelphi, si tratta di una filigrana sottilissima, quasi impercettibile, che emerge appieno, a mio avviso, solamente nella giustamente celebrata metafora della migrazione dei gamberi.
A Lernet-Holenia, come detto, la guerra interessa essenzialmente in quanto possente fattore di condizionamento dei destini individuali e collettivi, e non come dramma sociale esecrabile in sé. Si fa oggettivamente fatica, leggendo, ad immaginarsi Wallmoden e gli altri nella divisa della Wehrmacht, a distinguere le croci uncinate sui mezzi che percorrono le polverose strade polacche nella tarda estate del 1939 e si è inconsciamente portati a vedere il protagonista e gli altri ufficiali nelle uniformi bianche dell’impero austro-ungarico, di quel mondo scomparso che è l’essenziale punto di riferimento culturale di Lernet-Holenia. Insomma, se è vero – come è vero – che il ministero della propaganda impedì l’uscita del libro nel 1941, credo che ciò sia stato dovuto più alla mancanza nel romanzo di slancio patriottico e di esplicito appoggio alla guerra che ad un suo presunto antinazismo, anche perché in quel caso oso ritenere che le conseguenze sarebbero state ben diverse, per l’autore. Credo che alla censura ministeriale abbia anche contribuito il fatto che non fosse possibile per un capitano della Wehrmacht chiamarsi Sodoma! Direi quindi che si tratta di un libro a-nazista, in cui il nazismo in quanto tale non compare affatto, perché altri sono gli obiettivi dell’autore. E’ un libro in cui, in una forma molto criptica, viene presentata anche l’opposizione al regime, che assume però i tratti di un complotto straniero. E’ comunque, come altri libri di Lernet-Holenia, un romanzo da leggere e che invita alla riflessione e alla discussione, anche al fine di evidenziare quelli che secondo me sono indiscutibili limiti culturali e politici dell’autore, che lo accompagneranno anche per tutto il dopoguerra.
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Tolleranza religiosa: una proposta sempre attuale
Gotthold Ephraim Lessing è il più noto rappresentante dell’illuminismo tedesco, e Nathan il saggio è la sua opera più famosa, quella che riassume, sotto forma di una commedia teatrale, il pensiero di questo importante letterato della seconda metà del XVIII secolo.
La vita e le opere di Lessing sono bene illustrate nel bel saggio di Emilio Bonfatti che fa da introduzione a questa classica edizione Garzanti, dotata di testo originale a fronte, e ad essa rimando chi volesse approfondire la conoscenza dell’autore e del contesto culturale in cui ha operato.
Basti qui ricordare che Lessing anche in vita fu una sorta di irregolare rispetto ad una cultura dominante, quella tedesca dell’epoca, che – anche a causa della frammentazione politica da un lato e dell’incipiente ruolo egemonico della Prussia dall’altro – diffidava delle idee e delle elaborazioni provenienti da oltre il Reno, considerandole il prodotto di una società profondamente diversa. Di lì a poco lo Sturm und Drang e il Romanticismo avrebbero fatto virare il pensiero tedesco verso lidi affatto diversi, e quindi possiamo dire che l’illuminismo in Germania fu una corrente di pensiero che si affaccia sulla scena culturale per un breve periodo, incarnato da poche figure e che mantiene un ruolo del tutto minoritario (come anche la storia tedesca del XIX e XX secolo si incaricheranno di dimostrare).
Ciò non impedisce, tuttavia, che le opere di Lessing fossero ammirate dai primi romantici, e che buona parte della fortuna dei suoi testi teatrali tra ‘700 ed ‘800 sia dovuta all’attenzione che ad essi ha riservato Goethe.
Nathan il saggio viene scritto da Lessing tra il 1778 e il 1779, e sarà l’ultima opera teatrale di un autore che, a dimostrazione della sua irregolarità, ha speso gran parte della vita a polemizzare con i rappresentanti della cultura ufficiale ed accademica, soprattutto rispetto al ruolo che il teatro deve svolgere come strumento di cultura e quindi rispetto a cosa deve trattare e a come deve trattarlo. Anche per questi aspetti, dalla contrapposizione tra teatro francese e inglese al tentativo di Lessing di fondare un teatro tedesco, rimando al saggio di Bonfatti che approfondisce queste tematiche con ben altro spessore di quanto potrei fare io.
Il Nathan, infine, viene scritto da Lessing contemporaneamente alla censura che alcuni suoi saggi di riflessione sulla religione subiscono da parte dell’autorità politica dietro intervento della chiesa luterana, e questo episodio è sicuramente una delle molle che spingono Lessing alla scrittura dell’opera.
Nathan il saggio è infatti definito ufficialmente innanzitutto un inno alla tolleranza religiosa, alla rinuncia alla pretesa, da parte di una fede, ad agire contro le altre in virtù di una convinzione di verità. Secondo me il concetto di tolleranza non sintetizza bene il pensiero di Lessing rispetto alla religione: infatti si tollera qualcosa quando con spirito di condiscendenza si accetta che qualcuno pensi o agisca in modo diverso dal nostro, convinti tuttavia della giustezza e della superiorità dele nostre convinzioni o azioni. In Lessing non c’è tolleranza, ma la proposta di un mutuo riconoscimento tra le religioni, il riconoscimento della reciproca legittimità dovuto al fatto che esse hanno un fondamento comune, tendono ad un fine comune e che le differenze sono dovute ai diversi contesti culturali in cui si sono materialmente sviluppate.
A differenza di molti degli illuministi francesi, Lessing non è ateo, non contrappone ragione e religione. Egli, figlio di un pastore luterano e immerso nella cultura della Germania della riforma, attribuisce alla religione un ruolo fondamentale nella formazione dell’etica, ma contesta che questo ruolo debba essere attribuito ad una sola religione, in quanto tutte, o perlomeno le grandi religioni monoteistiche, hanno come detto lo stesso fondamento teorico e tendono allo stesso fine, distinguendosi solo formalmente.
Il Nathan, infatti, è la storia dell’incontro fra il protagonista, un saggio ebreo, il Saladino e un templare, che attraverso complicate vicende giungeranno a riconoscere di essere parte di un unico progetto di vita in cui ciascuno, mantenendo la propria identità culturale e religiosa, contribuisce alla felicità individuale e collettiva.
Fulcro del messaggio di Lessing sulla legittimità delle diverse religioni è la famosa parabola dei tre anelli, che Nathan racconta al Saladino nel terzo atto, e che l’autore ha mutuato da Boccaccio. Non è un caso, a mio avviso, che lo strenuo propugnatore tedesco dei valori borghesi ricorra ad una novella di quello che può essere considerato il primo intellettuale borghese della storia.
A fare da contraltare a Nathan e al Saladino, alla loro tolleranza, vi è nella commedia la figura del Patriarca, dogmatico ed intollerante, che pretende di applicare alla lettera la legge della sua religione anche quando questa genera male e sofferenza. E’ sintomatico, a mio avviso, che l’unica figura negativa della commedia sia rappresentata da un alto gerarca della cristianità, a riprova del fatto che la critica lessinghiana era rivolta in primis all’apparato religioso che egli conosceva meglio.
Troviamo poi nella commedia una esemplificazione dei tratti essenziali dell’elaborazione teorica dell’autore sul teatro, sulle modalità della rappresentazione e sui caratteri dei personaggi. Lessing propugnava – in piena coerenza con i principi illuministici, che il teatro dovesse rappresentare la complessità e anche la contraddittorietà dell’agire umano, che i personaggi dovessero quindi non essere nettamente connotati come solo buoni o solo cattivi, ma dovessero avere comportamenti mediani, come è nella realtà. Per questo preferiva la commedia, in grado di far ridere e piangere alternativamente lo spettatore a seconda delle situazioni, alla tragedia classicistica in cui i ruoli sono nettamente caratterizzati. Nel Nathan, a parte le figure del saggio protagonista e del patriarca, funzionali alla caratterizzazione di due estremi comportamentali e filosofici, tutti gli altri personaggi, compreso il tollerante Saladino, presentano tratti contraddittori, nei quali a volte prevale una visione dei fatti distorta da angolazioni personali e condizionata da pregiudizi.
E’ questo un aspetto di grande modernità del testo, ed a mio avviso questa concezione non manichea dei comportamenti umani rappresenta uno dei lasciti culturali più importanti di Lessing.
Lessing, infine, in quanto illuminista è portatore di valori borghesi, ed a fondamento di tali valori, non va dimenticato, c’è la necessità di una società che favorisca gli scambi commerciali, l’accumulazione, la produzione. Questi aspetti emergono, sia pure in maniera apparentemente sotterranea, da una lettura attenta del testo: Nathan, il saggio, è un ricco commerciante, e trae la sua saggezza proprio dalla sua ricchezza. Più volte nel testo il rapporto tra saggezza e ricchezza è messo in evidenza in maniera esplicita. E’ proprio grazie a questa ricchezza che viene chiamato a colloquio dal Saladino, che si trova in difficoltà perché sperpera abitualmente il suo denaro ed ha bisogno di un prestito. Oltre che alla tolleranza religiosa, la commedia può quindi essere considerata un inno alla saggia amministrazione dei beni materiali, alla capacità di accumulare ricchezze che inevitabilmente genera saggezza. Nathan è il borghese che, non importando se sia ebreo, cristiano o musulmano, è saggio perché in grado di fare affari, in questo quasi contrapposto al Saladino, aristocratico animato da uno agire che sia pur altamente filantropico – dona il suo denaro ai mendicanti – lo mette in difficoltà nell’amministrazione dello Stato. Come mette in evidenza ancora Bonfatti nella sua introduzione, il rapporto con il denaro è un tratto che distingue nettamente Nathan dal Saladino: io aggiungerei che Lessing, coerentemente con il suo pensiero complessivo, con il suo illuminismo protestante, esalta nella figura di Nathan colui che è in grado di generare valore, anche morale, tramite l’accumulazione di denaro.
Nathan il saggio è ancora oggi un testo teatrale da gustare ma anche su cui riflettere, perché ci fa entrare in un filone della cultura tedesca che si può oggi dire fu indubbiamente sconfitto dalla storia (come del resto furono sconfitti i principi più egalitaristi dell’illuminismo rispetto all’evoluzione concreta del pensiero e della società borghese), e che se avesse avuto modo di contare di più sul palcoscenico del pensiero germanico avrebbe sicuramente potuto contribuire ad una evoluzione storica diversa rispetto ai grandi drammi che attendevano la Germania in particolare nel XX secolo. Ovviamente ci fa anche riflettere sul rapporto che oggi esiste tra mondo occidentale e mondo islamico, rapporto che appare molto più rozzo e manicheo di quanto Lessing ci proponesse oltre ducentocinquanta anni fa: ma questo è abbastanza scontato, visto il regresso culturale che caratterizza a tutti i livelli la nostra epoca.
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Uno Zeno brasiliano, quarant'anni prima
Joaquim Maria Machado de Assis è considerato il più grande scrittore brasiliano dell’800, e Memorie dall’aldilà uno dei suoi capolavori.
Questo romanzo è in effetti molto divertente, a partire dall’originale espediente che l’autore utilizza per la narrazione: la storia è infatti narrata dal protagonista, Braz Cubas (nella traduzione di Laura Marchiori di questa edizione BUR italianizzato in Biagio) dopo la sua morte, come dice il titolo (anch’esso italianizzato rispetto all’originale Memorias posthumas de Braz Cubas). Ciò permette al narratore di essere al contempo l’io narrante ma anche un soggetto distaccato dal Braz Cubas vivo, di giudicare la vita del protagonista da una prospettiva più critica, meno emotivamente coinvolta rispetto alle classiche narrazioni in prima persona, pur conservandone il punto di vista soggettivo. E’ questo espediente che contribuisce a dare a Memorie dall’aldilà la cifra scanzonata e ironica che lo contraddistingue. Un altro elemento di grande importanza per il tono complessivo del racconto è dato dalla sua struttura, fatta di brevissimi capitoli (se ne contano ben 160 in meno di 200 pagine effettive) nei quali il narratore alterna la descrizione dei fatti a digressioni e commenti, dando luogo ad un fitto dialogo con il lettore, al quale spesso viene chiesto di giudicare e commentare a sua volta.
Machado de Assis ci narra quindi, per bocca del protagonista che si definisce non un autore defunto ma un defunto autore la vita di Braz Cubas, partendo però dalla sua morte, quasi a voler sottolineare che quello, dopotutto, è stato l’unico momento veramente grande della sua esistenza. E’ la vita di un esponente dell’alta borghesia brasiliana, destinato ad una laurea in Europa, ad un buon matrimonio e ad avere un seggio in parlamento, ad essere probabilmente ministro, ma che non riesce a realizzare questi obiettivi a causa della sua irresolutezza e della sua codardia esistenziale.
Snodo centrale della sua vicenda personale è il rapporto con Virgilia, bellissima donna con la quale si fidanza, che sposa un altro ma di cui diventerà l’amante. Prima di Virgilia si affacciano alla sua vita altre due figure femminili: quella di Marcella, suo primo amore, che lo renderà succube della sua gretta passione per i gioielli e i regali costosi, e quella di Eugenia, timida e diafana fanciulla che Braz abbandona perché leggermente zoppa dalla nascita. In entrambi i casi Braz dimostra di non saper gestire la situazione, per mancanza di carattere e di capacità di discernimento nell’un caso e per incapacità di svincolarsi dai pregiudizi della società dall’altro (cosa avrebbe detto la gente se avesse sposato una zoppa?).
Nel rapporto con Virgilia la vicenda è più complessa, perché, dopo averla lasciata ad un altro , Braz è in grado di riconquistarla tradendo la fiducia e l’amicizia del marito di lei. La vicenda si adagia, per la verità con la piena complicità di Virgilia, in un ménage pseudo matrimoniale, con tanto di nido d’amore, che dimostra la sua fragilità non appena iniziano a circolare dicerie sulla loro liaison: entrambi i protagonisti della storia si riveleranno inadeguati a gestire le difficoltà e la loro storia d’amore, apparentemente tenacissima ed appassionata, si dissolverà nel nulla, di fronte alla necessità di assumersi le proprie responsabilità nei confronti del marito tradito.
Un personaggio importante del libro è Quincas Borba, sorta di filosofo – cui Machado de Assis dedicherà un altro romanzo – che rappresenta l’alter ego di Braz Cubas, teorizzatore di un sistema filosofico (l’umanitismo) che Machado de Assis ci illustra dettagliatamente in uno dei capitoli più lunghi del libro, e che dovrebbe portare a comprendere e a gestire il ruolo che ciascuno di noi ha nella storia dell’evoluzione dell’umanità. Un sistema perfetto, a cui Braz Cubas si aggrappa tanto da fondare un giornale che ne propaghi i principi. Con amara ironia, anche questo appiglio si rivela insicuro, tanto che Quincas Borba finirà pazzo alla fine del libro.
A Braz non resterà, alla fine, che rinchiudersi nella sua solitudine: sino all’ultimo penserà di poter dimostrare l’utilità della sua vita, attraverso l’invenzione di un balsamo per la cura dell’ipocondria. Sarà proprio il perdersi dietro questa possibile invenzione che lo porterà alla tomba.
Se, come detto, Memorie dall’aldilà è un libro divertente ed ironico (lo si intuisce sin dalla dedica "al verme che per primo ha intaccato le fredde carni del mio cadavere") non è sicuramente – come si può intuire da quanto detto – un libro leggero: la vita di Braz Cubas, così come ci viene narrata, è come si è visto una vita mediocre, fatta di occasioni perse, di indecisioni esistenziali e di fallimenti, ed in questo senso Cubas può essere a mio avviso accostato più ad alcuni dei personaggi della letteratura novecentesca che ad un tipico rappresentante dell’ottocento letterario. In particolare, a mio modo di vedere, vi sono molte analogie con lo Zeno sveviano, anche se ovviamente sia la distanza temporale (quarant’anni separano le due opere, e non sono quarant’anni qualunque…) sia la distanza spaziale (Machado de Assis, sia pure impregnato di letteratura europea, non lasciò mai il Brasile e visse quindi in un’area che potremmo definire periferica rispetto alle grandi correnti culturali dell’epoca) comportano specifiche differenze. Tuttavia come non vedere assonanze precise tra la vita di questo altoborghese di Rio de Janeiro e quella del triestino, entrambi affetti da una inadeguatezza esistenziale e sociale che porterà la loro vita verso il fallimento?
Se nella struttura del romanzo, nella modalità in cui lo scrive, Machado de Assis si rifà, come egli stesso dichiara nella prefazione, a Sterne e a de Maistre, con una certa dose di azzardo mi sento di affermare che quanto a contenuto egli anticipa tematiche ed elementi che sarebbero stati pienamente affrontati dalla letteratura alcuni decenni dopo e in tutt’altro contesto culturale. Questo è secondo me uno degli elementi di grandezza di Memorie dall’aldilà, come sottolineato anche nel breve saggio di Susan Sontag che precede il romanzo. Non è sicuramente un libro nel quale la critica sociale emerga direttamente: tra l’altro sconcerta non poco, per il nostro modo di pensare, l’assoluta indifferenza con cui viene data per scontata la schiavitù, ancora presente all’epoca in Brasile; è tuttavia un libro in cui la vacuità delle aspettative di una vita borghese, la rigidità di convenzioni sociali cui ci si deve adeguare per non essere un escluso emergono attraverso le vicende di questo piccolo, grande personaggio, che merita un posto accanto ad altre, più celebrate figure della letteratura di ogni tempo.
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Il teatro di un fondatore del pensiero moderno
Leggere La mandragola e Belfagor, le due opere raccolte in questo piccolo volume degli Oscar Mondadori, ci permette di scoprire un Machiavelli diverso da quello ufficiale, dallo scrittore politico e fine letterato del Principe e dei Discorsi.
E’ il Machiavelli commediografo e narratore, che ci regala una delle perle del teatro italiano di tutti i tempi, La mandragola, appunto, una commedia innanzitutto godibilissima ancora oggi, nonché piena dello spirito dei tempi ed in grado di fornirci un quadro freschissimo della Firenze del ‘500 e del pensiero dell’autore riguardo la società in cui viveva.
La mandragola è la classica commedia delle beffe. Un giovane di nome Callimaco, appena tornato a Firenze dopo essere vissuto a Parigi vuole diventare l’amante di una virtuosa fanciulla, Lucrezia, moglie di un ricco avvocato, Messer Nicia.
Con l’aiuto di Ligurio, un parassita che frequenta la casa di Messer Nicia, ordisce una trama che fa leva sul desiderio di quest’ultimo di avere un figlio. Sarà quindi lo stesso sciocco marito a collaborare fiducioso alla riuscita dell’inganno che lo renderà cornuto, anche grazie all’intervento di un frate avido e corrotto.
La prima cosa da notare nella commedia è a mio avviso la lingua usata dal Machiavelli. E’ un fiorentino verace, popolaresco e salace, pieno di modi di dire divertenti ed oggi inusuali, che contribuisce non poco a rendere piacevole la lettura. Nelle prime pagine si deve ovviamente fare uno sforzo di adattamento – soprattutto se non si sciacquano i panni in Arno – ad una lingua desueta, ma dopo poco, se ci si immerge nel ritmo, se si pone attenzione al tono e al suono delle parole la lettura diviene un ineffabile piacere per sé stessa, a prescindere quasi dalla storia che la commedia narra. A mio avviso, per quanto detto, La mandragola andrebbe letta a voce alta o – meglio ancora – andrebbe sicuramente vista a teatro. Per chi volesse, segnalo che è disponibile su YouTube© una vecchia rappresentazione, dei tempi in cui la RAI era un’azienda seria. In ogni caso in questa edizione Mondadori la comprensione dei passi linguisticamente più ostici è facilitata dalle abbondanti note.
Un tale linguaggio ci dice che la commedia, genere considerato minore rispetto a forme più alte di teatro, è destinata ad un pubblico popolare, come ben si capisce anche dal contenuto del prologo in versi che precede l’azione e nel quale l’autore presenta l’antefatto e il contesto. Machiavelli infatti si scusa di proporre un’opera che potrebbe non apparir … degna / per esser pur leggieri / d’un uom che voglia parer saggio e grave…, ma ci dice che non ha altro mezzo per fare el suo tristo tempo più suave, in quanto gli è impedito di esprimersi con altri tipi di opere.
Machiavelli scrive infatti La mandragola tra il 1512 e il 1520, nel periodo in cui, caduta l’effimera Repubblica Fiorentina e tornati i Medici, il nostro – dopo essere stato imprigionato – è costretto a vivere in una villa nella campagna fiorentina e non ha alcun incarico politico. Con La mandragola egli si serve quindi di un mezzo espressivo basso per esprimere il suo pensiero sugli eterni mali della società fiorentina, non potendo, per ragioni di prudenza, esprimerli in forma ufficiale.
Il prologo è la chiave di volta per capire lo spirito con il quale Machiavelli scrisse la commedia: nella settima strofa, l’autore dice che anche se dovessero tentare con la calunnia di farlo tacere, egli è parimenti capace di dir male, e – quasi a riprova di ciò – ci informa che non stima nessuno del mondo dove el sì suona anche se è stato costretto a fare da servo ai potenti di turno. La mandragola riflette dunque, anche se in forma comica, l’amarezza di Machiavelli, che si considerava (ed era) un grande consigliere politico, per la inattività forzata cui la Signoria lo costringeva, e questa amarezza viene esplicitata nella descrizione di Firenze che La mandragola ci fornisce. Notiamo infatti che il protagonista, Callimaco, è appena tornato a Firenze dopo esserne partito giovanissimo ed essere vissuto per vent’anni a Parigi. Nella facilità con cui gabba Messer Nicia avvalendosi di un cliente come Ligurio che collabora con lui in vista di un vantaggio materiale si può vedere la metafora dell’ingenuità e della dabbenaggine della Repubblica che, come noto, cadde per aver dato credito ai francesi in opposizione al papato di Giulio II.
Gli strali maggiori e più espliciti Machiavelli li riserva comunque all’ipocrisia della Chiesa, rappresentata da Frate Timoteo, senza dubbio il personaggio più divertente della commedia, pronto a convincere la dubbiosa Lucrezia della liceità teologica ed etica del tradimento in cambio di una cospicua elargizione per le elemosine.
Il volumetto ci propone, dopo La mandragola, anche Belfagor, una favola (come la definisce lo stesso Machiavelli) giovanile, che – anche se non manca di una sua notevole godibilità – non ha certo lo spessore della commedia. Sono poche pagine, di chiara ispirazione boccaccesca, che ci narrano come Satana, allo scopo di far luce sulle affermazioni delle anime dannate, la gran parte delle quali dice di essere all’inferno a causa del matrimonio e della moglie, mandi sulla terra sotto sembianze umane l’arcidiavolo Belfagor, che dovrà sposarsi e tornare a riferire dopo dieci anni. Belfagor, divenuto Roderigo di Castiglia, va a vivere a Firenze e sposa Onesta Donati, che si rivelerà una moglie insopportabile. La favola prende poi un’altra piega e narra di come Belfagor venga gabbato da uno scaltro popolano.
Come avvertono alcune note, il racconto presenta alcune lacune e anche contraddizioni, perché non fu pubblicato da Machiavelli e probabilmente abbandonato prima di una revisione finale. Pur con questi limiti Belfagor è scritto in una prosa spumeggiante e non manca di tirare qualche stoccata alla società fiorentina, e contiene anche una sorta di autocensura (due righe sbianchettate da Machiavelli) proprio in riferimento a Firenze: il nostro era sicuramente molto prudente, ed a ragione, visti i tempi in cui si è trovato a vivere!
Il libro è poi completato da una serie di lettere che Machiavelli scrisse a vari personaggi, tra i quali Luigi e Francesco Guicciardini e Francesco Vettori, in vari periodi della sua vita, che aiutano a capire il pensiero politico di Machiavelli e la sua smania di rendersi utile, il suo sentirsi messo da parte o sottoutilizzato rispetto a quanto poteva dare di fronte ai tragici avvenimenti italiani e fiorentini di cui fu testimone e in parte vittima, ma che gettano uno sguardo anche su un Machiavelli privato, alle prese con gli avvenimenti di tutti i giorni. Emergono anche tratti divertenti e inaspettati, come quelli relativi alla lettera scritta all’amico Luigi Guicciardini da Verona nel Dicembre 1509 nella quale il grande Niccolò narra, con linguaggio esplicito e scurrile, il suo incontro con una prostituta. Malinconicamente, le lettere terminano con quella del figlio Piero che nel giugno 1527 annuncia la morte del padre, avvenuta pochi giorni prima.
Questo volume ha quindi il pregio di farci capire meglio – anche attraverso scritti minori e grazie alla ampia prefazione ed alla Nota Critica finale, la complessa personalità di questo grandissimo intellettuale del rinascimento italiano, la cui personalità è nella vulgata – soprattutto anglosassone – legata ad una certa doppiezza o mancanza di scrupoli tipicamente latina, ma che in realtà si rivela in tutto e per tutto un uomo del suo tempo, capace come pochi di tramandarcene l’essenza anche attraverso una commedia, una piccola fiaba o il suo carteggio.
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Se le "impressioni" hanno più forza dei fatti
Il colpo di testa è stato scritto da Ford Madox Ford nel 1933, quando l’autore aveva sessant’anni, e rappresenta il primo capitolo di una progettata trilogia centrata sul personaggio di Henry Martin Smith ed ambientata negli anni della Grande Depressione. Madox Ford non completerà la trilogia, riuscendo solo a scriverne il secondo capitolo, Henry for Hughes, peraltro mai tradotto in italiano come la grande maggioranza delle opere di questo misconosciuto autore.
In questo romanzo l’autore porta alle estreme conseguenze le teorie sulla narrativa che aveva espresso in molti molti saggi e che aveva sperimentato nelle sue opere antecedenti (su tutte The Good Soldier): la necessità che la narrazione non sia oggettiva e cronachistica, ma derivi dalla percezione che di essa hanno i personaggi. Questo è per Madox Ford l’unico modo di conferire realismo alla narrazione, perché nella realtà i fatti non ci si presentano mai in forma ordinata e oggettiva, ma filtrati e selezionati da come noi li abbiamo assorbiti. Ne deriva, tra l’altro, che la narrazione, per raccontare davvero, non può e non deve seguire un preciso ordine cronologico, ma deve svolgersi lungo il tempo interiore ricreato dalle sensazioni, dalle impressioni e dalla memoria dei personaggi; ancora, il dialogo diretto deve lasciar posto al racconto indiretto, filtrato dalla memoria, perché nessuno è in grado di ricordare esattamente cosa ha detto e cosa ha ascoltato durante un dialogo, mentre ne può riferire il senso attraverso una ricomposizione personale e necessariamente indiretta.
Nell’ultimo capitolo di un altro romanzo del nostro, Una telefonata, nel quale l’autore si rivolge direttamente al lettore per spiegare tra l’altro il suo modo di scrivere, Madox Ford ci spiega con un esempio questo suo modo di intendere il narrare, e dice:
Voi, probabilmente, rendereste un dialogo così: “Tendendo una mano, avvolta in un tulle color panna, Mrs Sincue esclamò: ‘Un’altra tazza di te, caro?’ ‘Grazie, due zollette,’ rispose l’ospite. ‘Dunque, si dice in giro che il colonnello Hapgood è scappato con la cameriera francese di sua moglie.’
Io probabilmente la metterei così: “Dopo una breve, svagata conversazione, l’ospite di Mrs Sincue, chinando i bruni occhi a terra, disse con voce che non tradiva né esultanza né rammarico: ‘Il povero vecchio Hapgood ha tagliato la corda con Nanette. Ve la ricordate Nanette, che indossava un grembialino coi merletti tutt’intorno e la crestina sui capelli ricci?’
E’ evidente a mio modo di vedere, da questo se si vuole banale esempio, quello che vuole dirci Madox Ford, ovvero la scarsa importanza che attribuisce agli elementi oggettivi (il te, lo zucchero, il vestito, la nazionalità della cameriera) e il fatto che egli, proprio omettendo questi particolari e concentrandosi sulle impressioni, su elementi soggettivi, su particolari apparentemente secondari ci restituisce non solo le stesse informazioni che ci dà il primo dialogo, ma le arricchisce di un contesto, di un’atmosfera che ci aiutano a capire meglio. Qui si vede appieno, secondo me, l’ascendenza che sulla scrittura di Madox Ford ha avuto uno dei suoi venerati maestri, quell’Henry James maestro dell’omesso.
Tornando a Il colpo di testa, in questo romanzo l’elemento che colpisce maggiormente è proprio la narrazione non temporalmente lineare portata a cifra stessa del romanzo. Questa modalità di scrittura era già stata – come detto – usata da Madox Ford quasi vent’anni prima ne Il buon soldato (e probabilmente anche nella tetralogia Parade’s End, che purtroppo l’editoria nostrana non ci ha ancora dato il piacere di conoscere per intero) ma qui si aggiunge un elemento apparentemente secondario ma a mio modo di vedere decisivo: mentre Il buon soldato è scritto in prima persona da uno dei protagonisti, che al termine delle vicende le racconta come se fosse accanto a un caminetto, Il colpo di testa è scritto in terza persona. Questo espediente narrativo rappresenta secondo me un ulteriore salto nella poetica di Madox Ford, perché è chiaro che se è in qualche modo normale che i ricordi di un narratore in prima persona si affastellino, che chi racconta fatti che ha vissuto in prima persona li ridisegni, li reinterpreti secondo ordini e priorità personali, ciò non è affatto scontato, e a prima vista neppure giustificato quando il narratore è un io terzo, che tutto dovrebbe sapere e tutto dovrebbe ordinare secondo un preciso filo logico. Madox Ford ci avverte, con quell’uso della terza persona, che ormai, in un’epoca in cui tutte le certezze sono crollate, che annaspa nella crisi dopo essere appena uscita da una guerra devastante, (e che si avvia ad un’altra guerra ancora più spaventosa, ma questo l’autore non poteva saperlo) non esiste più nulla di oggettivo, e che neppure la possibilità di osservare dall’esterno una vita ed i suoi casi ci permette di essere distaccati da ciò che quella vita ci comunica. Ancora una volta, quindi, Madox Ford ci si presenta come un grande autore moderno, che ha saputo esprimere letterariamente il disfacimento dei valori su cui si fondava la società borghese.
E che l’oggetto principale della narrazione sia la società borghese e il suo disfacimento è chiaramente percepibile dalla storia e dal contesto in cui si svolge.
Henry Martin Aluin Smith, il protagonista, è il rampollo trentacinquenne di un industriale che negli Stati Uniti produce croccante al pistacchio (il libro, nella sua tragicità, è colmo di una sottile ironia). Lo incontriamo in Provenza la mattina del 15 agosto 1931 mentre sta uscendo in barca dal porto per suicidarsi annegandosi. E’ ormai senza soldi a causa di speculazioni errate, ha fallito come scrittore e vuole farla finita.
Attraverso una serie di flash-back anche contorti ed innestati uno dentro l’altro veniamo a conoscere la sua vita, il suo difficile rapporto con il padre gretto e tirannico, l’esperienza poco gloriosa come soldato durante la guerra, i suoi tristi amori con donne che non ha amato e che non lo amavano, ed il suo incontro, la sera prima, con un ricco industriale inglese di nome Hughes Monckton Smith, sorta di suo doppio, a partire dal nome, che però ha apparentemente dalla sua il successo economico e sociale. Henry Martin sarà incapace di suicidarsi, troverà il corpo dell’amico, lui sì suicida, e deciderà di divenire Hughes, con la complicità di una buona somiglianza e dell’irriconoscibilità del cadavere di quest’ultimo. Il suo tentativo di sostituire una vita fallimentare con una di successo, tentativo che scoprirà essere stato favorito dallo stesso Hughes, si risolverà però, se non in un fallimento drammatico, in una sorta di indeterminatezza esistenziale, che lo lascerà nelle stesse condizioni psicologiche di prima, circondato da strani personaggi che ovviamente si interessano a lui perché lo credono un altro. Il romanzo non ha un vero e proprio finale perché, come detto, era pensato come parte di una trilogia.
La parabola di Henry Martin diviene quindi sia una parabola esistenziale – le modalità con cui cerca di mutare la propria identità sono singolarmente simili a quelle adoperate da Jack Nicholson, descritte da Michelangelo Antonioni in Professione reporter – sia una parabola sociale, come testimonia la contemporaneità della storia narrata rispetto all’epoca in cui fu scritta. Madox Ford aveva di sicuro capito il carattere dirompente della crisi nella quale l’epoca in cui viveva era stata fatta precipitare dall’ingordigia e dall’inettitudine del sistema economico e finanziario, e aveva deciso di fornircene una rappresentazione plastica “in diretta”, sia pure attraverso la forma mediata del suo impressionismo letterario. Nonostante lo stile di scrittura molto americano che caratterizza questo romanzo siamo lontani dalla denuncia diretta delle conseguenze della Depressione di uno Steinbeck, ma a volte le “impressioni” acquistano una forza che i fatti non hanno. Non sappiamo come Madox Ford avesse deciso di terminare la storia di Henry Martin ma, sia pur parzialmente, possiamo gustare anche attraverso questo suo romanzo la capacità che aveva di parlarci con estrema originalità ed acume di mali che oggi ci si ripresentano quasi identici. Purtroppo necessita dire che oggi chi si suicida non sono gli Hughes Mockton o gli Henry Martin, ma i tanti che subiscono le conseguenze delle loro azioni.
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L’antitesi ai Buddenbrook in una "quasi fiaba"
**Attenzione: Spoiler **
Thomas Mann pubblica Altezza reale nel 1909, otto anni dopo I Buddenbrook: tra il grande romanzo dell’esordio e questa fiaba, come la definiscono molti critici, Mann pubblica solo racconti, tra i quali due grandi racconti: Tristano e Tonio Kröger. La distanza temporale e di produzione letteraria tra i due romanzi non è quindi molta, eppure mi pare di poter dire che poche volte si può notare in un autore una differenza così netta d’impostazione e di tematica come quella che corre tra il romanzo che narra le vicende dei mercanti di Lubecca e questa opera, storia di un principe ambientata in uno dei tanti staterelli in cui la Germania era suddivisa sino alla fine della prima guerra mondiale.
Nella parabola drammaticamente declinante della famiglia Buddenbrook è stato sin troppo facile scorgere, da parte dei critici che non si sono accontentati di analizzare la storia in sé e il suo stile, la coscienza e l’esplicitazione della irreversibile crisi dei valori su cui si era fondata l’espansione economica e politica della borghesia nel XIX secolo, tanto che I Buddenbrook è stato spesso definito, anche per la data della sua comparsa, il romanzo che inaugura il novecento letterario (io ritengo invece che I Buddenbrook abbiano avuto parecchi antesignani in qualche modo novecenteschi tra le opere di autori a cavallo dei due secoli, soprattutto in ambito anglosassone). Perché Altezza reale si pone in modo così dialettico rispetto a I Buddenbrook e, anche se probabilmente in misura meno eclatante, anche con la sua produzione successiva (si pensi in particolare a La morte a Venezia e a La montagna incantata, che costituiranno le successive più importanti prove narrative di Mann)? Perché Mann sente il bisogno, dopo la grande prova di realismo del primo romanzo, di rifugiarsi in una dimensione come detto quasi fiabesca? Per cominciare a capirlo (o meglio per cominciare a illustrare come io cerco di rispondere a questa domanda) partiamo dalla trama.
Klaus Heinrich è il secondogenito della casata dei Grimmburg: suo padre è il Granduca, sovrano del piccolo stato tedesco, e suo fratello Albrecht è l’erede al trono. Il paese è vicino al disastro economico La vecchia economia feudale, basata sull’agricoltura, sulle miniere e sui boschi, non regge più; le comunicazioni sono arretrate, e non c’è turismo; il debito pubblico sta diventando insostenibile (ma guarda…). Mann spende un intero capitolo a descriverci minuziosamente le cause e gli effetti della crisi economica che attanaglia il paese da decenni, e che è simboleggiata dalla decadenza dei castelli e delle tenute granducali. Seguiamo Klaus Heinrich dalla nascita, giorno in cui ci si rende conto che ha il braccio sinistro rattrappito, agli studi giovanili, durante i quali ha come maestro, anche di vita, il dottor Überbein, figura complessa sulla quale torneremo.
Morto il granduca padre, gli succede Albrecht, che però è malaticcio e a causa del carattere chiuso rifugge il contatto con il popolo: egli delega quindi al fratello, di carattere più aperto ed amato dai sudditi, la maggior parte degli impegni ufficiali e di governo, riservandosi un ruolo solo formale.
Un grande magnate americano ormai anziano, Samuel Spoelmann, di origini tedesche, giunge un giorno nella piccola capitale dello stato per curarsi con le sue acque termali, e si trova tanto bene da acquistare uno dei cadenti palazzi granducali, rimodernarlo e ritirarvisi con la giovane figlia Imma e una sedicente contessa, dama di compagnia di quest’ultima. La giovane, da buona americana, è molto vivace ed anticonformista, aliena ai formalismi dell’aristocrazia del paese, incarnati da Klaus Heinrich. Egli tuttavia la nota e decide di farle la corte, restando però soggiogato dalla sua personalità, che vede in lui una persona che si cura solo delle apparenze e dalla vita condizionata dal ruolo che riveste. Mentre il rapporto tra i due si approfondisce tra alti e bassi dati dalla diversità di carattere e cultura, il possibile matrimonio viene visto dal governo come una grande opportunità per salvare il paese, ed in un importante (anzi centrale) colloquio il ministro degli interni illustra a Klaus Heinrich le reali condizioni economiche del paese, esortandolo a considerare, oltre che il suo interesse personale, anche quello generale che rappresenta. Da quel momento Klaus Heinrich studia economia, e attraverso questa nuova concretezza conquista Imma. Si sposano, il vecchio genitore di lei acquista, come promesso, i titoli del debito pubblico e lo stato può riprendere a prosperare tra il giubilo del popolo per i due giovani sposi.
Dunque apparentemente davvero una bella fiaba. Siamo però di fronte a Thomas Mann, e forse è necessario qualche approfondimento.
In senso generale ritengo di poter affermare che Altezza reale è una sorta di autorisposta manniana a I Buddenbrook. E’ come se Mann (non dimentichiamoci, grande borghese) avesse avuto paura di una interpretazione radicale della tesi esposta nel primo romanzo, quella del disfacimento dei valori borghesi ottocenteschi, e tentasse con questo romanzo una sorta di riparazione, di spiegazione più articolata della sua posizione. Sembra dirci: ”E’ vero, io vi ho detto che le antiche virtù etiche che accompagnavano il commercio e l’accumulazione si stanno perdendo, ma è solo attraverso il recupero della freschezza e della vitalità di questi originari valori in un’ottica moderna che la nostra vecchia Germania si salverà, che avremo un futuro.” I due romanzi possono così essere letti quasi all’interno di una logica dialettica di tipo Hegeliano, rappresentando uno la tesi e l’altro l’antitesi che portano ad una sintesi, a mio avviso rappresentata dalla discesa finale di Hans Castorp dalla Montanga incantata, tutta giocata all’interno di una visione comunque organicamente borghese, cui l’autore fu fedele per tutta la vita e che si ritrova in tutta la sua opera.
Nel romanzo, scritto con una leggerezza che spesso sconfina nell’ironia, anche se sono evidenti, pur nell’ambientazione come detto quasi fiabesca, richiami alla Germania reale in cui viveva Mann, a partire dall’esplicito riferimento a Guglielmo II rappresentato dal braccio rattrappito di Klaus Heinrich, manca tuttavia a mio parere una reale coscienza critica del disegno egemonico e militarista che l’impero tedesco stava perseguendo, e che avrebbe inevitabilmente in pochi anni portato alla catastrofe della prima guerra mondiale: questa è forse la più grave pecca del libro e questa è la più grave accusa che si può rivolgere a Mann: un intellettuale delle sue capacità analitiche non avrebbe dovuto non accorgersi di ciò che si andava preparando, ed anzi suggerire, come fa in Altezza reale, un matrimonio altamente simbolico tra l’autoritarismo prussiano (visto con gli occhi di una satira tutto sommato benevola che si limita a prendere in giro l’eccessivo formalismo dei suoi rappresentanti) e gli spiriti animali del capitalismo.
Ancora poche parole su alcuni dei personaggi minori della storia, che iniziano a giocare quei ruoli paradigmatici che Mann svilupperà appieno ne La montagna incantata. Su tutti emerge la figura del dottor Überbein, il maestro degli anni giovanili, che – con la sua vita difficile, da bastardo, ed i suoi tratti fisici quasi ripugnanti – rappresenta la coscienza arretrata della Germania feudale, nella quale il potere era sublimato in una distanza quasi mistica tra regnante e popolo, ed era proprio l’inaccessibilità del primo a costituire la sua legittimazione nei confronti del secondo, come emerge chiaramente dai più significativi colloqui tra l’insegnate e il regale allievo. Significativamente, Überbein si suicida il giorno del fidanzamento ufficiale di Klaus Heinrich con Imma, il giorno in cui la distanza tra aristocrazia e capitale viene annullata.
Un altro personaggio che compare solo in poche pagine è il poeta Axel Martini: il suo colloquio con Klaus Heinrich è una piccola summa del pensiero manniano circa il ruolo dell’intellettuale nella società, ed anche un capolavoro di ironia sulla figura reale, privata, dell’intellettuale.
Altri personaggi andrebbero citati, da quello di Spoelmann ai parenti di Klaus Heinrich, ma credo che la loro scoperta vada lasciata al piacere della lettura.
Dietro la forma di una fiaba tedesca e una scrittura leggera si cela insomma in Altezza reale un romanzo complesso, come deve essere in uno scrittore quale è Thomas Mann, un romanzo in cui emergono a mio avviso tutte le contraddizioni di questo grandissimo scrittore, che segna di sé la cultura europea della prima metà del novecento, ma che non è esente da colpe (sia pure indirette) rispetto all’andamento che ha avuto, e che forse si è accorto troppo tardi di aver guardato con troppa indulgenza ai piccoli mostri che più tardi, cresciuti, avrebbero cercato di divorarlo.
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La montagna incantata

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Primo caso di Nestor Burma: per me rimarrà l’unico
Léo Malet è considerato da alcuni uno dei maestri del romanzo poliziesco francese, ed associato sovente a Georges Simenon (che però – al pari di Hercule Poirot, era belga). In particolare uno dei suoi personaggi più noti, l’investigatore privato Nestor Burma, ha alcuni tratti – su tutti essere parigino e fumare la pipa – che inevitabilmente rimandano al commissario Jules Maiget.
Dopo avere letto questo 120, Rue de la Gare, scritto nel 1943, primo romanzo in cui compare Nestor Burma, e quindi romanzo che contribuisce non poco a fissarne i caratteri essenziali, mi sento di poter dire che le assonanze tra i due autori e i due personaggi sono molto labili.
Leggendo alcuni dei romanzi di un altro scrittore di polizieschi, lo svizzero Friedrich Glauser, avevo notato come il fascino di Maigret e di Studer (il poliziotto protagonista dei romanzi di Glauser), stia nell’essere persone normali, con una psicologia complessa, che giungono alla soluzione dei casi in cui sono coinvolti soprattutto perché cercano di capire perché un delitto sia stato commesso, e non solo chi sia il colpevole.
Questo approccio comporta che le storie siano costruite dando ampio spazio al contesto in cui un delitto avviene e – contrariamente ai canoni del poliziesco investigativo – che vi sia una intensa partecipazione emotiva del detective rispetto alle situazioni ed ai personaggi con cui viene in contatto.
Il racconto poliziesco diviene quindi – come accade nei migliori hard-boiled statunitensi, il mezzo, lo strumento narrativo per raccontarci drammi, umani e sociali, spesso causati non dalla perversa volontà del singolo ma dalle condizioni oggettive in cui si è trovato ad agire e dalle difficoltà contro cui ha cercato di lottare.
Il giallo, il poliziesco, perdono così la loro funzione originaria, di rassicurazione rispetto alla capacità della società organizzata e della scienza di porre fine al disordine rappresentato dal delitto, e si proiettano in un territorio oscuro, nel quale il ruolo di grande rammendatore del detective, che pure c’è, è bilanciato dalla consapevolezza di essere lui stesso parte di quel sistema che gli strappi da rammendare produce.
E’ a mio avviso questa consapevolezza della contraddizione del loro ruolo, accanto alla loro umanità e minimalismo che rendono Maigret e Studer grandi personaggi e che elevano i romanzi di cui sono protagonisti al di sopra del genere.
Ebbene, nulla di tutto questo, o di altri elementi di originalità rispetto a un genere che nel 1943 contava già oltre 100 anni (se diamo per buona la sua nascita con i delitti della Rue Morgue di Poe), nel Burma di Malet, perlomeno in questo romanzo d’esordio del personaggio.
Eppure i presupposti per una creazione originale c’erano tutti, a partire dallo spessore intellettuale dell’autore, che era stato uno dei fondatori del surrealismo, amico di Breton, di Prevert, di Dali, per giungere al periodo in cui Malet scrive e ambienta il romanzo, la Francia occupata e di Vichy.
120, Rue de la Gare si rivela invece essere un romanzo di genere, nel quale alcuni elementi sono talmente banali e ingenui da far pensare ad una sorta di parodia: purtroppo, se di parodia si tratta, l’ironia è a mio avviso talmente sottile da essere impercettibile. In quarta di copertina si parla anche di umorismo inconfondibile, ma per quanto mi riguarda sarei più propenso a parlare – almeno per alcuni passaggi del romanzo, di umorismo inconsapevole.
Il protagonista caratterizza la sua improbabilità già dal nome: Nestor Burma detto Dinamite. E’ proprietario di un’agenzia dall’altrettanto improbabile nome di Fiat Lux e naturalmente, oltre che saper risolvere il mistero della storia, stende gli avversari con un pugno, è abile con la pistola e sa trattare con le pupe. Il deus ex machina della vicenda è poi un ex ladro di gioielli detto Jo Tour Eiffel (sic!).
Come detto, la storia è ambientata nella Francia occupata, all’indomani della disfatta, anzi prende avvio in un campo di prigionia tedesco nel quale è rinchiuso Burma, che riceve da un altro prigioniero affetto da amnesia, in punto di morte, l’enigmatica indicazione dell’indirizzo che dà il titolo al romanzo.
Dopo poco Burma viene rilasciato e mentre transita in treno da Lione riconosce un suo collaboratore della Fiat Lux, che si arrampica sul predellino del treno in partenza, gli grida "120, Rue de la Gare" e poi stramazza al suolo colpito da alcuni proiettili.
Burma inizia così ad indagare su quella che si rivelerà una storia molto intricata ma che naturalmente riuscirà brillantemente a districare, muovendosi tra Lione e Parigi e riattivando di fatto l’antica agenzia, temporaneamente chiusa per prigionia del titolare.
Ciò che lascia più perplessi nello svolgimento della storia è l’assoluta indifferenza che Malet manifesta per un’ambientazione che, se altrimenti utilizzata, avrebbe potuto da sola a mio avviso conferire alla storia ben altro spessore. La Francia vinta, divisa un due tra la zona occupata e la Repubblica collaborazionista, credo potesse rappresentare per Malet, anarchico e surrealista, un campo d’azione drammaticamente meraviglioso. Invece questa situazione tragica del paese rimane del tutto sullo sfondo: non vi sono giudizi su quanto è accaduto e quanto sta accadendo, non vi sono considerazioni di sorta e, se si eccettua qualche accenno alla necessità di permessi speciali per passare da Lione a Parigi, il tutto avrebbe potuto tranquillamente avvenire dieci anni prima o dieci anni dopo. Forse, azzardo, il fatto che il romanzo sia stato scritto e pubblicato nel 1943, ad occupazione ancora in corso, ha consigliato a Malet di non avventurarsi in descrizioni dello stato del paese. Certo, rimane comunque difficile capire come, in quel periodo che immagino difficile anche per Malet, tornato davvero da un campo di prigionia, egli abbia pensato di scrivere una storia tanto d’evasione: forse proprio per un assoluto bisogno di astrazione.
Un altro punto debole del romanzo, che accentua ancora di più il senso di ingenuità e di genere del romanzo è il fatto che sia scritto in prima persona da Nestor Burma in un imprecisato periodo dopo lo svolgimento dei fatti. L’uso della prima persona, infatti, secondo me fa a pugni con le minuziose descrizioni di fatti e situazioni e con la netta predominanza di dialoghi diretti: non c’è mai un dubbio, un riassunto, un’impressione nel racconto chirurgicamente preciso che Burma fa di quanto gli è accaduto. Ovviamente ciò è possibile solo perché ci troviamo di fronte al grande Dinamite Burma.
In definitiva un romanzo deludente, che non mi spinge ad acquistare ulteriori volumi delle avventure dell’investigatore parigino, perché so che volendo leggere un poliziesco di valore posso rivolgermi a ben altri autori. Forse la dimensione ideale di 120, Rue de la Gare è quella fumettistica, visto che vi è in commercio una edizione illustrata da Jacques Tardi, ma allora si entra in un altro campo di interesse.

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Non c’è salvezza nel grande gioco del potere
Indubbiamente Conrad è un grandissimo narratore, probabilmente uno dei più grandi. E' incredibile pensare che l'inglese fosse per lui una lingua appresa, addirittura la terza dopo polacco e francese. Forse proprio lo sforzo che presumibilmente doveva fare per rendere in inglese le sue sensazioni fa sì che il suo linguaggio sia così ricco e suggestivo.
Ne L'agente segreto si rivela anche un maestro della suspance: sa creare tensione ed attesa, sa rallentare in modo sublime le azioni che si svolgono nelle scene centrali del romanzo, tanto da rendere quasi insopportabile la lettura, tanta è l'ansia che si crea intorno a quello che sta accadendo; usa una tecnica narrativa che non segue esattamente lo svolgersi temporale degli avvenimenti per permetterci di scoprirli a tempo debito. Non intendo entrare in particolari raccontando pezzi della storia, che va innanzitutto gustata per quello che è -un bellissimo thriller- ma posso assicurare che alcuni capitoli sono davvero memorabili, per l'avanzare lento dell'azione, sempre accompagnato dall'introiezione nella psicologia dei personaggi in essa coinvolti; su tutti, il capitolo XI, che da solo merita la lettura del libro. Non stupisce che Alfred Hitchcock abbia tratto dal libro il film Sabotaggio (Sabotage o The Woman alone, 1936) anche se non si tratta di uno dei suoi capolavori e “tradisce” il romanzo.
Il fascino maggiore del libro deriva comunque, come spesso capita negli autori più grandi, dalla stratificazione dei livelli che lo compongono. Quello della storia in sé è naturalmente il più immediato da percepire, ma a questo si accompagna subito quello dell'atmosfera generale del libro, che è cupa e torbida come la storia. Tutti i personaggi che si affacciano nella storia sono brutti, grotteschi, a volte deformi, inadeguati rispetto al ruolo che intendono assumere, quando non decisamente malvagi. Tutti sembrano essere semplici pedine di un gioco molto più grande di loro, di cui è impossibile capire le regole, chi le ha stabilite, ma anche ribellarsi ad esse. In questo senso Mr Verloc, il protagonista, è esemplare: pur essendo un personaggio decisamente negativo, responsabile di nefandezze e codardia, pure fa quasi pena, e Conrad si premura di descrivercelo nella sua intimità familiare come un marito premuroso. Abbastanza paradossalmente rispetto all'andamento della storia quasi ci si affeziona a questo pasticcione, vittima predestinata dell'azzardo con cui conduce l'esistenza. Quasi caricaturali, poi, sono i tratti del gruppo di anarchici frequentato da Verloc, ciascuno fortemente tipizzato ma tutti caratterizzati da una infinita distanza tra ideali sbandierati e comportamenti concreti. Infine, una menzione particolare merita Mrs. Verloc, che da figura apparentemente sbiadita e secondaria si trasforma, all'acme del romanzo, nel vero deus ex machina.
Anche la città in cui si muovono questi personaggi, Londra, è sempre umida e nebbiosa, sporca, fatta di vicoli solitari e bui oppure brulicante di gente ignara ed indifferente ai drammi che si stanno consumando.
Se questi sono i punti di forza del libro, non è possibile tacere anche quelli che secondo me ne sono i difetti. Dal punto di vista della storia credo che Conrad avrebbe potuto finire prima: gli ultimi due capitoli sembrano posticci, e corrono il rischio di trasformare una storia perfetta in un melodramma. Mi piacerebbe chiedere all'autore cosa lo ha spinto a scriverli: forse il bisogno di portare sino alle estreme conseguenze il senso di mancanza di qualsiasi possibilità di riscatto che il libro trasmette. Secondo me ha ecceduto (ma chi sono io per affermare ciò?)
C'è poi la valutazione “politica” del libro, che indubbiamente ha il grandissimo pregio di denunciare il cinismo e l'amoralità del potere, ma che, come detto, riduce chi a questo potere si oppose, in quell'epoca storica, a poco più che macchiette o a soggetti dotati dello stesso cinismo ed amoralità (è il caso del professore, personaggio che non a caso chiude il libro). Ritengo che la storia del pensiero rivoluzionario a cavallo tra '800 e '900 non possa essere ridotta alla caricatura che ne fa Conrad, anche se questa è ovviamente perfettamente funzionale al messaggio disperante che il libro ci vuole trasmettere.
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La linea d'ombra

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Conoscere Ludwig per capire la Germania
Ludwig II di Baviera è un personaggio quasi mitologico, in particolare nel nostro paese dopo che Luchino Visconti realizzò nel 1972 un film che può senza dubbio essere considerato uno dei vertici assoluti della cinematografia italiana (e quindi mondiale).
Alla costruzione del mito di Ludwig hanno contribuito e contribuiscono diversi fattori: la sua ascesa al trono appena ventenne, la sua bellezza apollinea (perlomeno in gioventù), il controverso rapporto con Wagner e l’amore per la sua musica e per l’arte in genere, l’amore sublimato per la cugina Sissi (altra figura dell’aristocrazia europea mitizzata dal cinema e dalla letteratura), la costruzione dei famosi castelli, la tragica e misteriosa fine.
Anche se oggi è ormai un mito da turismo di massa e da paccottiglia acquistabile nei negozi di souvenir della Baviera, la sua figura, vero paradigma della contraddittorietà del potere e di come le esigenze di quest’ultimo necessitino di sacrificare chi non ne percorre i binari prestabiliti, emerge ancora prepotentemente dietro la patina disneyana che i mentori dei viaggi tutto compreso cercano di cucirgli addosso.
Questo racconto di Klaus Mann, figlio di Thomas, scritto nel 1937, ci narra dei due ultimi giorni di vita del re deposto, dal suo arrivo – dopo essere stato arrestato – al castello di Berg presso Monaco, sino al ritrovamento del corpo nelle acque del vicino lago di Starnberg ed all’arrivo dell’afflitta imperatrice Elisabeth, che chinandosi su di lui quasi lo ricopre con la sua scura, lunga chioma. Quest’ultima scena, su cui si chiude il racconto, è talmente decadente e wagneriana da sembrare quasi una struggente parodia del gusto scenografico, dei paradigmi culturali che per tutta la vita caratterizzarono la personalità del re morto.
Il racconto si schiera decisamente e sin dalle prime pagine per l’interpretazione più politica dell’arresto e della deposizione di Ludwig, in piena sintonia, in questo, con l’opera viscontiana. Del resto è ovvio che per la realizzazione del film il regista si sia affidato, tra le varie fonti, anche a questo bel racconto, a sua volta basato su fonti storiche di prima mano. Ludwig è sì un uomo sfatto, grasso e dai denti ormai ridotti a moncherini, è sì soggetto ad un’alternanza di momenti di esaltazione e di cupa depressione, ma non è pazzo, è pienamente consapevole di essere una vittima di quelli che chiama gli intrighi e della scienza asservita al potere, che lo ha condannato senza neppure visitarlo. La stessa scelta del titolo da parte dell’autore, che allude ad uno dei particolari della sua nuova residenza che Ludwig nota subito, sottolinea il taglio che Klaus Mann dà alla vicenda.
In un lungo monologo, che rappresenta il punto focale del racconto, e che momentaneamente fa passare il racconto dalla terza persona alla prima, Ludwig riflette sulla sua vicenda personale e politica, sui suoi rapporti con Wagner, sulla sua omosessualità vissuta come una colpa, sull’amore per Sissi e su tante altre cose. E’ uno squarcio, ancorché a tratti scritto in maniera troppo cronachistica per essere davvero un monologo interiore, sulla vita del re, che ci permette di conoscere e ricostruire le vicende che portarono al suo arresto. Mann, che pure come detto ci presenta Ludwig come vittima del sistema di potere statale, non fa comunque sconti alla sua complessa personalità, che non era sicuramente – a dispetto di una certa vulgata mitizzante – quella di un re democratico.
Ludwig infatti aveva come ideale politico Luigi XIV, come testimonia in modo clamoroso il palazzo di Herreninsel costruito sul Chiemsee ad imitazione di Versailles. Vagheggiava un assolutismo diretto nel quale lui, il re illuminato e sapiente, si sarebbe rapportato direttamente al popolo senza l’intermediazione di ministri e parlamento. Era chiaramente una posizione politica non solo inadeguata ai tempi, ma apertamente in contrasto con lo sviluppo della società tedesca, che dopo la vittoriosa guerra con la Francia stava rapidamente andando verso l’unificazione statale egemonizzata dalla Prussia. In un’epoca di rapida industrializzazione, di costruzione della potenza economica e militare tedesca, di necessità di adeguare la struttura dello stato alle esigenze della borghesia dominante un re sognatore, che ha una visione antica del suo potere, che si dedica al mecenatismo culturale e – tramite la costruzione dei suoi castelli – alla rievocazione dello spirito germanico medievale intriso di assolutismo francese, disdegnando gli affari correnti dello Stato, diviene oggettivamente un ostacolo rispetto alle esigenze delle classi dominanti, e in quanto tale deve essere emarginato.
In questo senso diviene secondo me secondario sapere se Ludwig si sia volontariamente annegato nelle acque del lago di Starnberg o se il suo suicidio e la morte con lui del dottor Gudden sia stata una macabra messa in scena. Klaus Mann propende per la prima ipotesi, e ci descrive con grande forza evocativa la scena di Ludwig che nella notte incombente, sotto una pioggia che incessantemente ha accompagnato la sua prigionia, si lancia nell’acqua del lago e quindi, gridando "A casa voglio andare! Nel mio regno!" trascina con sé il dottor Gudden che era entrato in acqua per convincerlo ad uscirne. Il suicidio viene visto da Mann come la resa definitiva del re ai meccanismi che lo hanno intrappolato, la presa di coscienza finale che il suo regno non potrà più essere ristabilito in Baviera, ma va ricreato in un’altra dimensione. Ludwig ha comunque l’estrema soddisfazione di trascinare con sé il rappresentante di quella medicina che si era prestata a dare una patina di necessità scientifica alla sua prigionia.
Per capire appieno quest’opera, a mio avviso, vanno comunque evidenziati altri aspetti. Il primo riguarda il periodo in cui è stata scritta: siamo come detto nel 1937, Klaus Mann è da quattro anni fuori dalla Germania ed è impegnato in attività di propaganda contro il regime nazista. Scrivere in quel periodo la storia di un re intellettuale tedesco, imprigionato e fatto uccidere dallo stesso potere politico di cui era parte non può a mio avviso essere un semplice caso: sia pure in forma mediata, emerge nella storia un riferimento a ciò che stava accadendo in Germania ai suoi tempi, ed a come la dittatura nazista fosse figlia della storia tedesca pregressa.
Nella breve nota di Giacomo Debenedetti posta al termine del racconto, il critico sposa la tesi di una forte componente autobiografica, paragonando in particolare il rapporto tra Ludwig e Wagner a quello, denso di ambiguità, tra Klaus e il padre Thomas. Trovo forzata questa tesi, o meglio ritengo che la componente autobiografica, se è presente, sia nettamente secondaria rispetto alle tematiche più direttamente storiche e di critica politica che ho sopra cercato di evidenziare, anche se è indubbio che le assonanze tra la vicenda umana di Ludwig e quella di Klaus Mann si sarebbero protratte sino alla fine per suicidio dell’autore (1949). Klaus, come è noto, era politicamente e culturalmente più affine allo zio Heinrich piuttosto che al padre, e dallo zio aveva mutuato l’attenzione all’analisi sociale: non mi pare proprio che si possa dire che, scrivendo Finestra con le sbarre nel 1937 avesse come obiettivo rimirarsi l’ombelico.
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Il Vulcano
L'Angelo azzurro

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Los Angeles è lontana
Chiedi alla polvere è il secondo libro che leggo di Fante, ed è la seconda volta che questo celebrato autore non mi convince. Già in La confraternita del Chianti avevo trovato un po’ troppi luoghi comuni sugli italiani, anche se la figura del protagonista aveva una sua tragica grandezza.
In questo, che dovrebbe essere il suo capolavoro, ho trovato tutti gli ingredienti dell’America metropolitana del XX secolo, le sue grandi solitudini, le storie di emarginazione, l’alcool, le droghe e il sogno di farcela, conditi in una salsa un po’ insipida.
Quello che potrebbe essere un grande personaggio, Arturo Bandini, da associare al kerouachiano Sal Paradise, come lui artista disadattato, in realtà non ne ha l’epica grandezza, e questo a mio avviso, perché manca in Fante la capacità di scavare realmente nei meandri della società statunitense, nelle sue contraddizioni, la capacità di narrare una storia che cammini veramente per le strade di Los Angeles. Quello che in Kerouac è l’elemento essenziale del racconto, il paesaggio urbano e rurale degli States, che inevitabilmente ci fornisce i tipi umani che ne fanno parte, in Fante è solo lo sfondo opaco della contraddittoria vicenda esistenziale di Bandini, del suo essere incapace di stabilire un legame stabile con Camilla, il grande amore della sua vita.
Fante cerca per tutto il libro di immergere i suoi personaggi nel contesto della Los Angeles dalle mille facce, ma questa resta lontana, assumendo una patina oleografica e scontata che non giova alla credibilità della narrazione. Bandini, secondo me, non è un vero figlio di quell’America, non è stato distillato da quella polvere, ma è un prodotto non poco artefatto. Il suo rapporto con la città e con la società americana è asettico e financo asfittico: la sua storia d’amore con Camilla non ha e non può avere la forza dirompente dei viaggi di Sal, perché lui è solo un rappresentante della middle-class temporaneamente senza soldi, la cui vera aspirazione è farli (i soldi) per cambiare vita.
Infatti alla fine ci riesce, e nel bel finale emerge la diversità del suo destino, ormai incanalato verso la sicurezza economica e sociale, da quello di Camilla, che se ne va chissà dove. E’ sintomatico che Arturo, rinunciando a cercarla, affidi il suo messaggio d’amore al suo libro, allo strumento che gli sta dando la certezza del successo.
Il libro certo non manca di momenti alti, e soprattutto il finale, come detto, lo riscatta. Resta tuttavia l’impressione dell’uso forzato di un’atmosfera per raccontare qualcosa che potrebbe essere ambientato altrove. Resta l’impressione che il libro potrebbe aprirsi con “… Mentre su Bunker Hill calavano le prime ombre della sera…”
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Il grande romanzo di un piccolo decadente (?)
Jay Gatsby è a mio parere uno dei grandi personaggi tragici della letteratura americana, che merita, sia pur con qualche distinguo, un posto accanto al Capitano Achab, al Clyde Griffiths di Una tragedia americana e a Martin Eden.
A questi ultimi due personaggi, in particolare, lo legano moltissime affinità: poveri, animati da un potente desiderio di riscatto sociale sublimano nell’amore per una donna il desiderio di essere pienamente accettati dalla società cui tentano di far parte. Tutti falliscono e soccombono al loro sogno. Certo ci sono anche molte differenze tra i personaggi citati, e ciascuno è protagonista di storie dai tratti originali, figlie del periodo in cui sono usciti dalla penna dei loro autori, ma un tratto li accomuna: essere assolutamente e inequivocabilmente figli della società statunitense, delle sue peculiarità e delle sue contraddizioni.
Gatsby giunge poco dopo gli altri due, appartiene all’età in cui il mito liberista inveratosi nel capitalismo statunitense raggiunse il suo acme, prima del grande crollo del ’29. Le armi che usa per la sua scalata sono quindi quelle della finanza e del contrabbando, simile in questo a tanti dei voraci uomini d’affari di quel periodo. Apparentemente ce l’ha fatta: è una sorta di faro della vita mondana di Long Island, le sue feste sono frequentate dagli esponenti di quello che in Europa si sarebbe chiamato demi-monde, attricette, arrampicatori sociali di ogni risma, semplici approfittatori. Sul suo passato e sul suo presente circolano, alimentate da lui stesso, svariate leggende. Gatsby però sa che tutto questo non avrà senso se non riuscirà a riconquistare Daisy, la ragazza che alcuni anni prima l’ha rifiutato – preferendogli il gretto razzista Tom Buchanan – perché appartenente ad una classe sociale inferiore. Daisy è l’equivalente più crudele e ipocrita della Ruth di Martin Eden e della Sondra di Una tragedia americana: rappresenta la donna borghese, pronta a sacrificare alla sua tranquillità sociale non solo il sentimento, ma anche la dignità: è infatti perfettamente consapevole dei tradimenti del marito, ma finge di non vederli per conservare il suo status.
La storia finirà naturalmente male, e Gatsby, cattiva coscienza della sua epoca e della società che essa esprime, verrà di fatto eliminato, per interposta persona, proprio da Tom Buchanan, con la tacita complicità di Daisy.
Fitzgerald ci regala due ultimi capitoli splendidi, nei quali affonda il coltello ancora di più nella piaga purulenta della ipocrisia e della mancanza di valori (escluso quello del denaro) della società americana del suo tempo, e nei quali emerge anche la figura del narratore, Nick Garrison, che tira la morale della vicenda di cui è stato coprotagonista. E’ naturalmente una morale amara ma, come spesso capita negli scrittori statunitensi, monca: anche Garrison/Fitzgerald infatti sembra dirci che l’unica possibilità di redenzione da questo mondo crudele sta nel ritornare ai buoni vecchi valori di una volta, all’America rurale dove tutto era più vero. Nick, infatti, abbandona il suo lavoro in borsa e il rutilante Est per tornare nel Middle West da dove era venuto, un poco compiaciuto di essere cresciuto nella casa dei Carraway, in una città dove le dimore sono ancora da decadi chiamate col nome di famiglia. Ci dice che in fondo tutti i protagonisti della vicenda erano del West, e quindi forse inadatti a vivere nell’Est. Sembra che neppure Fitzgerald sfugga al grande limite culturale statunitense: pensare che non esista altro al mondo che gli Stati Uniti d’America, che i valori che questa terra esprime siano i soli da cui partire per la soluzione di ogni problema. Non lo sfiora neppure l’idea che forse il capitalismo dell’Est e il mondo rurale del Middle West sono le due facce di una stessa medaglia, che l’uno non potrebbe esserci se non fosse stato preceduto dall’altro, e che forse è l’insieme dei valori che questa terra esprime che dovrebbe essere messo in discussione. Da questo punto di vista ritengo più crudi e disperati i romanzi di London e di Dreiser a cui ho accostato Il grande Gatsby, li ritengo più universali e meno americani.
Fitzgerald scrive infatti Il grande Gatsby praticamente negli stessi anni in cui in Europa scrivevano Kafka, Musil, Proust, Broch, Svevo e molti altri. Mentre in questi autori (e in molti altri) al senso della catastrofe non si accompagnano certezze circa il “come uscirne” è comune a chi sta al di là dell’Oceano avere sempre una sponda interna cui attraccare. Avesse scritto in Europa, Fitzgerald sarebbe forse stato classificato come piccolo decadente.
Per finire, voglio condividere la tristezza di leggere un romanzo di questo spessore nell’edizione “I miti” Mondadori, dove tutto, a partire dalla copertina, comunica la decadenza dell’editoria berlusconizzata: non c’è introduzione, postfazione o commento. Non c’è neppure un indice! Fortunatamente le esigenze di risparmio hanno portato a utilizzare la classica traduzione di Fernanda Pivano, che seppur da molti criticata a me è piaciuta parecchio.
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Entusiasti e ammirati: B. svelato 150 anni fa
La lettura di Umiliati e offesi è un’esperienza profonda, al termine della quale si è sicuramente arricchiti nella capacità di comprendere le contraddizioni dell’animo umano. Può alle volte non piacere come Dostoevskij scrive, si può dissentire dalla sua visione delle cose e della società, ma è indubbio che questo autore rimane uno dei grandissimi scavatori, uno dei massimi speleologi della personalità che la letteratura ci ha dato.
Umiliati e offesi è precedente ai quattro grandi capolavori della maturità, e, come detto nell’introduzione riportata qui sopra, fu concepito quasi come un romanzo d’appendice, da pubblicare a puntate su una rivista popolare, e quindi non è scevro dai difetti del romanzo che deve tenere sempre desto l’interesse del lettore: in particolare, alcuni colpi di scena, alcuni intrecci sono sicuramente forzati, come pure in alcuni passi la narrazione assume toni eccessivamente melodrammatici.
Purtuttavia, questi difetti vengono spazzati via dalla forza con cui l’autore sa tratteggiare i caratteri dei protagonisti, dalla sua capacità di restituirci personaggi duramente scolpiti ma nello stesso tempo articolati e complessi.
All’inizio del romanzo sembra che il personaggio principale sia l’io narrante Vania (userò, per i nomi dei personaggi, l’italianizzazione proposta dai traduttori dell'edizione da me letta). In lui non è difficile scorgere lo stesso Dostoevskij: è un letterato, solitario, destinato a svolgere, come l’anonimo protagonista del racconto Le notti bianche, il ruolo di innamorato a senso unico della protagonista femminile (qui Natascia, lì Nasten’ka), di suo confidente e amico che l’accompagna verso l’altro, reprimendo ciò che veramente sente. Vania quindi rappresenta un vero e proprio topos Dostoevskijano, è lui, è l’intellettuale rinchiuso in sé stesso dopo la perdita di ogni illusione circa la sua capacità di incidere sulla realtà, che anzi è costretto a giocare un ruolo di testimone anche rispetto al fallimento dei suoi sentimenti e delle sue aspirazioni personali, restandogli solo la possibilità di riversare sulla pagina le sue sofferenze.
Se Vania è sicuramente un personaggio chiave del romanzo, il vero protagonista, il gigante negativo è il principe Valkovsky. Egli assomma su di sé tutti i caratteri tipici della piccola aristocrazia di campagna russa che costituiva un anello fondamentale nell’organizzazione sociale dell’autocrazia zarista: è falsamente bonario, paternalista, aperto al nuovo e tollerante nei confronti della infatuazione del figlio Alioscia per la povera Natascia; anzi, apparentemente vuole favorire il matrimonio tra i due, dichiarando il suo apprezzamento per la personalità e il carattere di Natascia. In realtà Vania/Dostoevskij ci avverte subito, sin dal suo apparire sulla scena, che nei suoi occhi, nei gesti e nei momenti meno controllati affiora la vera personalità del principe, che è egoista ed avido, che mira solo a portare il figlio verso un matrimonio “adeguato” a risolvere i suoi problemi finanziari. C’è un momento del libro in cui anche noi lettori non capiamo bene la strategia del principe, che è talmente sottile da essere difficilmente interpretabile. Prima Natascia, che è sicuramente il personaggio più appassionatamente lucido del libro, poi il principe stesso, nel corso di un memorabile colloquio con Vania che rappresenta l’acme del romanzo, ci apriranno gli occhi.
Rispetto a questo personaggio non posso esimermi da due considerazioni. La prima è relativa al fatto che, anche se il romanzo non assume mai al suo interno elementi di critica sociale, essendo un romanzo “psicologico”, la figura del principe è sicuramente una critica feroce ad una intera classe sociale, che come detto era uno dei bastioni dell’arretrata e sommamente ingiusta società russa. La seconda, sicuramente più azzardata, riguarda la straordinaria somiglianza che si può individuare tra Valkovsky e un noto personaggio della vita politica italiana dei nostri giorni: stessa capacità di ammaliare, di apparire simpatico e attento alle esigenze degli altri, perseguendo al contempo spietatamente i propri interessi personali.
Il romanzo ci presenta molti altri personaggi, ed anche storie parallele a quella principale. Non voglio però togliere il piacere della lettura entrando in dettagli eccessivamente rivelatori: basti sapere che in meno di quattrocento pagine Dostoevskij ci offre una vera enciclopedia di tipi umani, che insieme compongono un quadro psicologico e sociale di grandissimo spessore emotivo.
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Progressista a sua insaputa?
Il Tom Jones di Fielding raramente è ricordato come uno dei capolavori della letteratura universale. Eppure, leggendolo, si capisce presto di essere di fronte ad uno dei testi che hanno segnato un punto di svolta, che hanno posto le basi del romanzo borghese moderno come lo abbiamo conosciuto nel corso del XIX secolo, pur essendo un testo peculiarmente inglese.
Un romanzo di questo genere non poteva infatti che essere scritto nella Gran Bretagna della prima metà del XVIII secolo, ossia nel paese allora più avanzato del mondo, nel quale la coesistenza di una borghesia mercantile egemone e di una aristocrazia che aveva saputo cedere parte del proprio potere a fronte della conservazione di privilegi formali stava ponendo le basi della prima rivoluzione industriale.
E’ in una società in rapido cambiamento, nella quale tutti i valori tradizionali vengono messi in dubbio dall’avanzare inesorabile della logica dell’accumulazione che il Tom Jones viene scritto dal grande conservatore Henry Fielding. Il libro registra perfettamente questa temperie sociale e culturale, disegnandone un godibilissimo affresco attraverso le avventure giovanili del protagonista. L’autore è perfettamente conscio che nella società in cui vive il male maggiore è il conformismo, il restare ancorati a schemi mentali e culturali del passato, e disegna chi se ne fa portatore come un idiota o un ipocrita. In questo senso si può dire, secondo me, che Fielding si rivela, forse suo malgrado (a sua insaputa, si direbbe nell’Italia di oggi) uno scrittore progressista.
Tom è un bastardo, di natali incerti, che cresce nella casa del “buon” gentleman di campagna Allworthy, che lo tratta come un figlio. Giunto alla prima giovinezza, dopo avere avuto la propria iniziazione sessuale con una ragazza del popolo, si innamora, segretamente ricambiato, della bella Sophia, figlia di un gentleman vicino di Allworthy. Le calunnie di un nipote legittimo di quest’ultimo lo faranno però cacciare di casa e bandire dal padre di Sophia: Tom inizia una peregrinazione per l’Inghilterra meridionale che lo porterà ad imbattersi in numerose persone e ad avere numerose avventure, anche amorose (è un bel ragazzo), sempre però pensando alla sua Sophia ed essendo combattuto tra il desiderio di rivederla, di farla sua e la decisione di andarsene lontano per non nuocerle. Non svelo il finale perché naturalmente contiene numerosi colpi di scena.
Fielding è innanzitutto un grandissimo narratore: interviene continuamente in prima persona nella storia per esprimere giudizi, porre questioni, suscitare una sorta di dibattito tra sé e il lettore su quanto sta accadendo, e tutto questo con una capacità straordinaria di mantenere il ritmo, di avvincere e di interessare, che ancora oggi stupisce e contribuisce alla assoluta modernità del romanzo. Il tono del narrare è leggero ed ironico, con una buona dose di satira sociale incardinata su alcuni dei personaggi principali e secondari, come il padre di Sophia, gretto, interessato solo alla caccia e al patrimonio e pronto a fare l’infelicità della figlia in nome del suo amore per lei; oppure come i due istitutori Thwackum e Square, il primo paradigma dell’ipocrisia religiosa e il secondo di quella della morale laica, entrambi incapaci di tolleranza. Le loro dispute filosofiche sono una delle perle del libro.
E’ proprio la tolleranza, o meglio la necessità di comprendere la complessità e le sfaccettature del carattere umano e di indulgere verso le sue debolezze che Fielding ci vuole insegnare. Tra i personaggi del Tom Jones, quelli a cui l’autore guarda con occhio più benigno sono quelli (a partire da Tom) che non hanno certezze, che si pongono interrogativi ed hanno dubbi, che si mostrano per quello che sono. Viceversa, Fielding non risparmia i suoi strali a chi si fa portatore di principi inflessibili ed in genere è invece ipocrita o applica una doppia morale a seconda che si tratti di sé o degli altri.
In definitiva, la mia opinione è che il Tom Jones assommi tutte le caratteristiche del capolavoro, perché è al contempo capace di descrivere un ambiente sociale, di presentare dei tipi umani universali, di divertire e di far riflettere.
Un secolo dopo, la grande lezione di Fielding sarebbe stata imparata dal miglior Dickens. Al tempo della pubblicazione, invece, il libro fu accusato di immoralità, e ciò non deve stupire, perché sicuramente la morale che se ne trae ha caratteri ancora oggi eversivi rispetto a quella corrente, e contiene elementi disgregatori delle certezze e dei modelli che la società costituita ritiene indispensabili per la sua perpetuazione.
Un ultimo appunto a proposito dell’edizione Feltrinelli che ho letto: la traduzione di Decio Pettoello, così d’antan, contribuisce a dare al testo una patina di antico che quasi fa pendant con la freschezza del romanzo, creando un azzeccato mix d’atmosfera. Bella anche l’introduzione di William Empson, che ha il pregio di essere frutto della cultura d’origine del testo: ci svela alcuni dei meccanismi narrativi di Fielding, anche se a mio avviso accentua troppo la chiave “psicologica” di interpretazione del romanzo.
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Non è il destino la causa della tragedia di Tess
Il giorno in cui mi stavo apprestando a scrivere la recensione di Tess dei d’Urberville di Thomas Hardy, mi sono imbattuto, nelle pagine del Corriere della Sera online, in una riflessione sull’autore scritta da Pietro Citati, che credo possa essere facilmente reperita negli archivi del quotidiano.
Di fronte a tanto critico pensai che fosse meglio rimandare, per non dare adito ad un confronto che sarebbe stato senza dubbio impietoso.
Lessi con attenzione l’articolo di Citati, incentrato proprio sul capolavoro di Hardy, ed alla fine decisi di scrivere lo stesso la mia recensione, soprattutto perché mi permetto di non essere completamente d’accordo con l’analisi di Citati.
Questa è tutta incentrata sull’azione di un imperscrutabile destino come causa ultima della tragica storia di Tess: egli parte da una disamina del ruolo della natura nei romanzi dell’autore – una natura apparentemente ciclica ma che rivela, soprattutto nella brughiera e nella fattoria di Flintcomb-Ash, il suo aspetto cupo e desolato, per dirci che i segni di cui è disseminato il romanzo portano verso l’ineluttabile destino della protagonista. Sentiamo Citati:
"Dovunque Hardy e i suoi personaggi guardassero, perfino nell’incantevole primavera, non scorgevano che sventura. La natura stessa era intessuta di sciagure: non solo umane, ma animali e vegetali."
E ancora:
"In un romanzo di Hardy il Destino agisce come un fabbro macchinoso e malvagio, ribadendo una catena di piccoli fatti assurdi, di coincidenze miracolose, di avvenimenti e di persone che ritornano, di segni uniformemente negativi."
Ora, secondo me è sicuramente vero che in un romanzo come Tess le magistrali descrizioni della natura scritte da Hardy sono funzionali a creare un sentimento, un’atmosfera consona all’andamento della storia, come è altrettanto vero che nel libro si trovano alcuni segni ed alcuni episodi fortemente evocativi del destino di Tess (citati da Citati…) ma forse al grande critico in questa occasione è sfuggito che la causa principale delle sventure della protagonista sono gli uomini che incontra e le convenzioni sociali dell’Inghilterra vittoriana in cui tutti i protagonisti sono immersi.
Due uomini in particolare: Alec, frivolo e cinico rampollo della borghesia mercantile la cui famiglia ha addirittura comprato, per ragioni di prestigio sociale, l’antico cognome dei d’Urberville e Angel, l’uomo apparentemente retto e innamorato di Tess, che si rivelerà del tutto incapace di comprendere la grandezza dell’animo e dell’amore di quest’ultima, abbandonandola crudelmente salvo riapparire tardivamente provocando il tragico epilogo del romanzo.
La figura di Angel è secondo me il vero perno del romanzo. Se Tess ne è infatti l’indiscussa protagonista, splendida figura di donna che al suo sentimento sacrifica tutta se stessa (anche se a volte appare sin troppo coerente con il suo amore), se Alec, come detto, è figura strumentale (per ben due volte è lo strumento della rovina di Tess, pagandone comunque le conseguenze) è Angel il vero deus ex machina del destino della protagonista, colui che prima potrebbe cambiarlo, ma non ne è capace – schiacciato come è tra un’apparente anticonformismo e un reale asservimento alle regole della società – e poi provoca, anche se inconsapevolmente, il tragico epilogo del romanzo (sto facendo equilibrismi per non rivelare nulla della trama, perché Tess è anche un romanzo avvincente). Angel è il vero cattivo della storia, perché ha in mano tutti gli strumenti culturali per accogliere Tess e la sua vicenda, per accorgersi di quanto sia bella anche dentro, oltre che fuori, ma nel momento cruciale, quando Tess gli rivela il suo (peraltro subìto) passato, la abbandona. Ed a proposito di segni, credo sia particolarmente rilevante e rivelatrice del fatto che tutto sommato, alla fine, il tempo rimarginerà le sue ferite, la scena finale del libro.
Un ruolo non marginale nell’innescare la catena di fatti narrati dal romanzo lo giocano anche i genitori di Tess, in particolare la madre, che di fatto spinge la figlia verso i ricchi (falsi) d’Urberville sognando la loro ricchezza, sorta di madre di aspirante velina ante litteram.
Insomma, se è vero, come è vero per ogni grande romanzo, che Tess dei d’Urberville può essere letto ed interpretato a vari livelli, non credo si possa ignorare che tra questi livelli assume particolare rilevanza l’aspetto profondamente umano e sociale della storia di Tess, il suo essere vittima di persone incapaci di capire la sua grandezza d’animo e di andare oltre ciò che l’ordine costituito dettava rispetto alle relazioni sociali.
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Un universo di colori, suoni, odori e sangue
Leggendo Salambò si entra, anche grazie alla ottima traduzione di Teresa Cremisi che accompagna l'edizione Oscar Mondadori che ho letto, nel meraviglioso mondo dello stile di scrittura di Flaubert, forse più che leggendo gli altri e più celebrati romanzi.
La sensazione di trovarsi di fronte a un testo in cui Flaubert raggiunge la vetta del suo musicare in prosa si ha sin dall’incipit, giustamente famoso e osannato da Proust: “C’était a Megara, fauburg de Carthage, dans le jardins d’Hamilcar.”
Il romanzo, come appare dall’incipit, è ambientato a Cartagine, nella Cartagine del III secolo a.C. guidata da Amilcare Barca, padre di Annibale, in lotta con Roma per il predominio nel Mediterraneo. La Città-Stato africana ha appena perso la Sicilia al termine della prima guerra punica, e le pesanti condizioni di pace imposte dai Romani non le consentono di pagare i mercenari che sono ritornati in città. Il romanzo racconta in particolare la rivolta dei mercenari, che si sentono defraudati del salario, e la guerra che ne deriva. Gli avvenimenti narrati hanno quindi una base storica, e un primo dato da mettere in evidenza è che Flaubert, per scrivere Salambò, si è sobbarcato un immane lavoro di ricerca nelle fonti antiche, in particolare Polibio. (Chi volesse saperne di più sulla Rivolta dei mercenari può consultare l’omonima dettagliata voce di Wikipedia).
Perché Flaubert si imbarca in un romanzo che si occupa di un avvenimento storico tanto lontano e tutto sommato oscuro? Le ragioni sono molte, e sono messe bene in evidenza nella bella prefazione al romanzo, ma forse alcune prevalgono sulle altre:
a) l’ambientazione “classica” permette a Flaubert di dispiegare uno stile di scrittura che porta alle estreme conseguenze la sua ricerca sulla scrittura;
b) raccontando di un periodo lontano, in cui i paradigmi morali e le convenzioni sociali erano molto diversi dagli attuali, e “dovendo” essere aderente alla realtà storica dei fatti, Flaubert è molto più libero di essere “esplicito”: infatti il romanzo è caratterizzato da un tasso di crudeltà (che a volte rasenta il grand-guignol) e di “cinismo narrativo” inusitato per l’epoca;
c) L’ambientazione esotica permette a Flaubert di caricare il romanzo di suggestioni ambientali, anche derivate da viaggi e sopralluoghi ad hoc, funzionali a creare un’aura di mistero che contribuisce a sua volta all’indubbio fascino di Salambò;
d) La vicenda è perfetta per descrivere i meccanismi inesorabili del potere e come a questi siano assoggettati i sentimenti e persino le volontà individuali.
Sullo sfondo dei fatti storici Flaubert innesta la vicenda di Salambò, sacerdotessa della dea Tanit (la luna) e figlia di Amilcare, che è amata da Matho, il capo dei rivoltosi: La giovane sarà spinta dalla ragion di stato a sacrificare i suoi sentimenti e ad essere strumento della riscossa di Cartagine.
Il romanzo è molto complesso e richiede di essere letto con attenzione, lasciandosi cullare dal ritmo narrativo Flaubertiano, che ci fa entrare in un mondo antico e sconosciuto, dove ogni frase ci sprofonda in un abisso di odori, colori, rumori e sangue che si fa via via più reale e totalizzante. L’acme lo si raggiunge ovviamente alla fine: l’ultimo capitolo, con la conclusione della vicenda (che non anticipo) credo sia da considerarsi uno dei vertici della letteratura di ogni tempo.
Come ogni grande romanzo, Salambò può essere letto a vari livelli: se indubbiamente nel caso di uno scrittore come Flaubert prevale il cromatismo, lo spessore della scrittura – e come detto in questo romanzo secondo me Flaubert va “oltre sé stesso” – altrettanta importanza ha ovviamente ciò che sta sotto questa scrittura, vale a dire la vicenda politica narrata. Flaubert scrive Salambò nella Francia apparentemente narcotizzata dal trionfo del II impero, e sembra lanciare un secondo campanello d’allarme, dopo quello di Madame Bovary, sulla fatuità delle convenzioni e delle sicurezze borghesi. Stavolta, come detto, è più esplicito, pur nell’esotismo dell’ambientazione, e quasi prefigura, nel rosso sangue che domina le pagine del romanzo, la inevitabile fine cruenta di un ordine finto, che si sarebbe puntualmente verificata pochi anni dopo.
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Madame Bovary
Alle ricerca del tempo perduto

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Dai decabristi a Elio, passando per Visconti
Le notti bianche è uno dei più famosi racconti di Dostoevskij, anche perché nel 1956 Luchino Visconti ne ricavò un memorabile film con protagonista Marcello Mastroianni.
Dostoevskij lo scrisse, ventisettenne, nel 1848, in un momento molto particolare della sua vita e della vita culturale russa. Come ci viene bene spiegato nella prefazione a questa bella edizione Oscar Mondadori, gli intellettuali russi degli anni ’30 e ’40 dell’800, dopo la repressione dei moti liberali di qualche anno prima, avevano ripiegato su un individualismo estetico di stampo schilleriano, rifuggendo come anime belle da una realtà sociale che si palesava immutabilmente arretrata. Nel periodo in cui Dostoevskij scrive Le notti bianche questo atteggiamento isolazionista è messo in discussione e fortemente criticato: le spinte rivoluzionarie che segnano in quegli anni l’Europa occidentale giungono sino a Mosca e a Pietroburgo, spronando gli intellettuali a scendere di nuovo in campo per contribuire a cambiare ciò che li circonda.
Le notti bianche si inserisce in questo filone critico, ma con tratti tipicamente Dostoevskijani. Da un lato, infatti, è indubbia la critica ironica, a tratti dura, del tipo dell’intellettuale sognatore (il sottotitolo del racconto è Dalle memorie di un sognatore. Racconto sentimentale). Ciò è evidente sin dalla prima definizione che l’autore dà del sognatore: “Il sognatore, se occorre una definizione precisa, non è un uomo ma, sapete, una specie di essere neutro”. Dostoevskij nega quindi all’intellettuale sognatore persino la patente di umanità. Tutta la seconda notte, vero fulcro teorico del racconto, è dedicata a smontare le illusioni del sognatore, a metterne in evidenza le contraddizioni e la drammatica fatuità. Dostoevskij è quindi sommamente consapevole del carattere consolatorio, ridicolo e dell’inutilità della vita dell’intellettuale ”che si addentra nel suo cantuccio, vi aderisce come la chiocciola al guscio, e diventa simile a quell’animale divertente chiamato tartaruga, che è nello stesso tempo un animale e una casa”.
D’altro canto, il nostro non fornisce alternative. Il sognatore infatti ha la grande occasione per uscire dal suo guscio di solitudine e inadeguatezza incontrando Nasten’ka, ragazza solare, piena di vita, che vuole tagliare il cordone ombelicale con la famiglia (nel racconto è simboleggiato dallo spillo con cui l’anziana nonna la lega a sé per sorvegliarla). Tuttavia, anche se il suo amore per Nasten’ka è intenso e sincero, anche se per un attimo sembra che ella tenda le braccia per sollevarlo verso di sé e verso la vita vera, è inevitabile che, quando la vita vera appare, Nasten’ka non abbia un attimo di esitazione, e si lanci con un grido verso di essa. Il sognatore, quindi, non solo si rivela inadeguato nei suoi rapporti con la società, ma è anche incapace di risolvere i suoi problemi esistenziali. Non gli rimane che ritirarsi ancora di più nel suo cantuccio. La resa di Dostoevskij nei confronti della realtà e della vita è quindi totale, e ciò è sottolineato ancora di più dall’uso, comune a molti dei suoi testi, della prima persona.
Naturalmente la grandezza del racconto sta anche nel fatto che agli aspetti strettamente connessi con il periodo storico in cui fu scritto si affiancano elementi di introspezione dell’animo umano che hanno il carattere dell’universalità. Il protagonista – in questo analogo al Vania di Umiliati e offesi – è incapace di suscitare davvero l’amore della protagonista femminile, anzi: parlando con lei, confidandosi ed aiutandola a confidarsi contribuisce a rinsaldare il legame che esiste tra lei e l’altro. E’ una situazione comune ad una precisa tipologia di uomini che si potrebbe definire gli amici delle donne: sono quelli che si innamorano senza speranza di donne che amano parlare con loro, in genere per raccontare come siano innamorate perdutamente di un altro. Soffrono in silenzio e giungono persino a dare consigli per fare in modo che la loro amata possa felicemente volare dal vero amore. Una descrizione perfetta di questo tipo umano l’hanno data Elio e le Storie Tese nel celeberrimo brano significativamente intitolato Servi della gleba: che si siano ispirati direttamente alla Russia dell’800 e a Dostoevskij?
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Il grande traghettatore, approdato al '900
Le ali della colomba è uno degli ultimi romanzi di James, scritto nel 1902, durante quella che che viene definita la major phase artistica dello scrittore americano (anche se in effetti molto europeo quanto all’essenza della sua letteratura). In questa fase lo stile di scrittura di James diviene ancora più complesso che nei romanzi precedenti, e la sua tendenza ad alternare lunghe digressioni sulla psicologia e sui sentimenti dei personaggi a brevi spezzoni di dialogo, a dilatare il tempo dell’azione si accentua sino a divenire la cifra dominante del romanzo. Sembra quasi di poter dire che tra l’altro grande romanzo da me recentemente letto, Principessa Casamassima (1886) e questo, James sia pienamente entrato nel ‘900 letterario, abbia completato la transizione tra due modelli di letteratura, abbia toccato la riva opposta, assolvendo la funzione, che si è trovato addosso, di grande traghettatore. Il tragitto non deve comunque essere stato indolore, se è vero che per ben sei lunghi anni (1890 – 1896) questo autore così prolifico non scrisse romanzi.
C’è un altro elemento tipico della prosa di James che ho trovato in questo romanzo enormemente dilatato: la forza e l’importanza del non detto. Già riflettendo su Il giro di vite, da poco letto, avevo notato come ciò che nella storia non viene detto ha più importanza di ciò che vi è esplicitato. In questo modo, nel suo celeberrimo racconto, James è riuscito a creare un clima di ambiguità e di sospetto che sovvertirà per sempre i paradigmi del racconto gotico. Ne Le ali della colomba James va più in là: non solo – nonostante le lunghe digressioni psicologiche riguardanti i personaggi – non dice mai quali siano i loro sentimenti profondi, le motivazioni ultime del loro agire, lasciando che sia il lettore a costruire, tassello dopo tassello, il complicato puzzle dell’animo dei singoli e dei rapporti veri tra loro intercorrenti, non solo accenna senza esplicitamente proporceli ad alcuni fatti e fattori la cui conoscenza ci sarebbe apparentemente utilissima per capire le motivazioni di alcune azioni dei personaggi, ma inauditamente (credo che inaudito sia il termine chiave per marchiare questo autore) omette totalmente la descrizione di due momenti chiave del romanzo: l’incontro tra Kate e Merton in cui lei gli si concede a fronte della promessa di lui di sposare Milly (perché Kate agisce così? Leggete il romanzo!) e l’ultimo incontro tra Milly e Merton, che determinerà tutto ciò che accade nell’ultima parte del romanzo.
Se nel primo caso possiamo sospettare che il silenzio di James sia dettato da una pudicizia tardo-vittoriana dovuta anche alla personale sessuofobia dell’autore, apparentemente inspiegabile è l’omissione dell’incontro Milly – Merton, che poteva essere risolto dall’autore in un semplice, per quanto drammatico, colloquio.
A mio avviso questa doppia omissione può segnalare la volontà di James di stabilire un parallelo profondo tra i due momenti: in entrambi i casi si tratta di incontri in cui la passione di uno dei due protagonisti è utilizzata dall’altro per i propri fini: non ci sono (inequivocabilmente nel primo caso, in maniera più ambigua nell’altro) due sentimenti simili che si incontrano, ma in qualche modo un personaggio si serve del sentimento dell’altro. Un’altra possibilità è che anche l’incontro con Milly sia andato ben al di là di un semplice colloquio, e che tra i due sia accaduto qualcosa di simile a quanto avvenuto in precedenza tra Kate e lo stesso Merton: da qui la necessità dell’autocensura. In ogni caso, qualunque siano state le motivazioni di James, resta il coraggio letterario di elidere gli snodi cruciali, le scene madri del romanzo.
Sono tantissime le cose che James non ci dice, e che dobbiamo immaginarci noi lettori. Ne cito alcune. Merton è davvero innamorato di Milly? Quale avvenimento ha portato alla rovina il padre di Kate? Quale è il contenuto vero della lettera di Milly a Merton? C’è una relazione sentimentale tra Milly e Susan? A seconda delle risposte che noi diamo a questi interrogativi (e a moltissimi altri che ci si presentano alla lettura) possiamo immaginare scenari diversi, variare la nostra percezione della storia, e la grandezza di James è anche quella di non darci soluzioni preconfezionate, perché credo che qualunque strada prendessimo arriveremmo sempre a ritenere i personaggi credibili e il finale inevitabile.
Questo peculiare aspetto della scrittura di James fa riflettere circa il suo rapporto con il pubblico, che come noto non fu felice: secondo me anche questo modo aperto di scrivere, questo lasciare al lettore ampi gradi di libertà interpretativa segnala quanto James volesse essere scrittore di successo: solo che ha usato le armi sbagliate: già ai suoi tempi, e tanto più oggi, chi ti fa pensare non è ben visto, chi mette alla prova le tue capacità critiche viene giudicato male. Sta qui, secondo me, la chiave di lettura dei molti giudizi rinvenibili sulle comunità di lettori che parlano di “lentezza”, “testo datato”, addirittura di “seghe mentali” per i libri del nostro. Con un pizzico di cattiveria si potrebbe dire che questi giudizi rappresentano la controprova della grandezza dell’autore.
Se James è maestro del non detto è altrettanto vero che ne Le ali della colomba di cose ce ne dice molte, sapendole cercare con accuratezza.
Innanzitutto contrappone la freschezza e la spontaneità dei due personaggi americani (Susan e soprattutto Milly) alla complessità, al formalismo, alla rigidità ed in alcuni casi alla doppiezza dei personaggi europei, segnalando implicitamente una divaricazione sociale e culturale rispetto alla quale prende decisamente posizione. Milly sarà vittima di questa differenza e la sua morte (ops!) sarà dovuta proprio all’impossibilità di continuare a volare con la sua gioia di vivere: le ali della colomba vengono tarpate da chi le si rivolge con il sorriso e l’adulazione.
A ben vedere c’è anche una denuncia precisa del potere del denaro: Milly è corteggiata perché è ricchissima: il suo denaro fa gola a Lord Mark, che le si dichiara invano e, respinto, non esita a vendicarsi, ed è anche la molla che fa scattare la macchinazione – francamente diabolica – di Kate, cui Merton si sottomette. Ancora il denaro sarà la causa dell’epilogo della storia, nel quale Merton subisce la vendetta postuma di Milly e Kate rivela sino in fondo la sua incapacità di accettare un amore che le farebbe scendere gradini nella scala sociale ed economica.
Oggi Le ali della colomba sembra reperibile solo come e-book, peraltro nella stessa traduzione da me letta, che risale agli anni ’60. Sarebbe forse ora che qualcuno si decidesse a ristampare questo bellissimo romanzo, magari con una nuova traduzione, contribuendo ad esaltare la straordinaria modernità di questo autore anche attraverso un aggiornamento della lingua usata per proporcelo (segnalo per tutti l’uso del termine “intervista” per “colloquio”).
Indicazioni utili
Ford Madox Ford
I classici inglesi dell'800

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Grande è la confusione sotto il cielo di Germania
L’amante indegno di Rudolf Borchardt si inscrive a pieno titolo tra la letteratura di quel particolarissimo momento della cultura di area tedesca che fu il periodo tra la fine della prima guerra mondiale e l’avvento del nazismo. Un periodo di profonda crisi, in cui erano venuti meno, per le classi dominanti, i valori e le certezze dell’età di Guglielmo II, la vita era dominata dal “disordine” economico e sociale seguito alla sconfitta e la paura di un nuovo ordine in cui i privilegi sarebbero stati persi preparava la consegna dello stato alla follia nazionalsocialista.
Il libro narra una vicenda apparentemente semplice e “familiare”: una famiglia della nobiltà terriera della Germania meridionale deve conoscere l’amante di Steffi, sorella del capofamiglia Moritz, che lo vuole sposare dopo aver divorziato dal primo marito. Konstantin è un baltico, non appartiene alla stessa classe ed è preceduto da una fama di avventuriero e dongiovanni. Da subito la famiglia erige un muro di diffidenza ed ostracismo per impedire il matrimonio: inaspettatamente, però, di Konstantin si innamora Tina, la sino ad allora irreprensibile moglie di Moritz e i due fuggono insieme. La loro storia durerà poco e Tina morirà suicida, nonostante l’invito a tornare da parte di Moritz.
Il libro può a mio avviso essere letto, oltre che come trama familiare, anche ad un altro livello, vale a dire quello dello smarrimento delle certezze della classe dominante tedesca negli anni ’20 del novecento. La famiglia di Moritz stenta a mantenere il livello di vita cui è usa, e la necessità di non frammentare le proprietà è uno dei motivi del rifiuto di far sposare Konstantin a Steffi. La perdita di status economico e sociale si traduce nella perdita dell’ordine familiare: Steffi è sin dall’inizio la “pecora nera”, la donna frivola e sventata, cui è contrapposta Tina, madre e sposa esemplare. Eppure sarà proprio Tina a rompere tutto, ad andarsene con il bell’avventuriero. Moritz, tutto sommato, accetta la sconfitta, capisce che non può far nulla per fermare Tina, ed è logico che i suoi tentativi di “perdonarla” non abbiano successo: non è possibile ricostruire l’ordine antecedente, né quello sociale né quello familiare. E’ sintomatico, a questo proposito, che Tina, pur di non tornare dove era stata apparentemente felice, si adatti a suonare il pianoforte nei cinematografi ed in seguito vada a fare la puericultrice negli USA. Ad ulteriore riprova del “disordine” in cui è precipitato il mondo c’è la vicenda, parallela a quella principale, del fattore Müschler, che va letta con estrema attenzione e che tocca l’acme (che rappresenta anche l’acme del libro intero) nel suo colloquio con Tina.
Come dice il risguardo di copertina dell'edizione Adelphi da me letta (nel libro mancano purtroppo una pre od una postfazione) nel mondo di Borchardt non c’è remissione e non potrebbe esserci, considerando che tra il prima e il dopo c’è stata di mezzo una immane tragedia. Il problema principale è che questa età di mezzo sta preparando una tragedia ancora più grande. Sembra di vederlo, il saggio e pacato Moritz, pochi anni dopo, vestito di camicia bruna.
Indicazioni utili
Heinrich Mann

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L’inaudita ambiguità di un racconto meraviglioso
Il giro di vite è senza dubbio il racconto più noto di James, anche perché ne sono state tratte numerose versioni per il cinema e per la televisione. E’ anche una delle opere di questo autore in cui la sua peculiare capacità di affidare a ciò che non scrive, a ciò che non dice, l’essenza delle sue storie, raggiunge una delle massime vette.
James è il maestro del non detto, dell’ambiguità della scrittura, anche nei grandi romanzi della maturità in cui pure si dilunga in pagine di descrizioni su ciò che provano e pensano i suoi personaggi: questo celebre racconto lungo (o romanzo breve) gli permette – anche grazie all’ambientazione gotica – di sperimentare sino alle estreme conseguenze una modalità di comunicazione con il lettore che lascia aperte tutte le porte e tutti i livelli dell’interpretazione, compresi quelli attinenti la storia in sé. Cerco di spiegarmi. Solitamente, leggendo un’opera letteraria, si “accetta” la storia, la trama, come un dato di fatto, e si cerca di comprendere se essa sottenda simboli, metafore, rimandi ad elementi di carattere autobiografico, sociale, politico, psicologico o altro: se l’autore, attraverso quella storia, abbia voluto dirci qualcosa su di sé, sulle sue emozioni, sul mondo in cui vive.
L’elemento spiazzante de Il giro di vite risiede secondo me nel fatto che la storia stessa non è affatto univocamente interpretabile, ragion per cui i livelli interpretativi – per così dire – aumentano in misura esponenziale.
La trama del racconto è nota: una giovane istitutrice viene assunta per istruire, in una villa della campagna inglese, due bambini – Miles e Flora – orfani ed angelici. Dopo pochi giorni ella comincia a vedere due strane e silenziose figure, che scopre essere il domestico e la precedente istitutrice, entrambi morti misteriosamente poco tempo prima e che erano amanti. La protagonista si convince che i due fantasmi mirano a portar via i bambini e inizia una drammatica lotta per sottrarli al loro influsso.
Il dilemma centrale – riscontrabile nelle varie trasposizioni e anche in alcune recensioni dei lettori in rete – attorno al quale parrebbe ruotare l’interpretazione della vicenda è se i fantasmi visti dall’istitutrice esistano davvero o siano un parto della sua fantasia, delle sue frustrazioni esistenziali. James ovviamente non ce lo dice, e dissemina lungo il racconto indizi a favore sia di una tesi sia dell’altra. Sono molte altre le cose che non dice: ad esempio come siano morti i due “fantasmi”, cosa abbiano combinato per essere ricordati come malvagi, perché il piccolo Miles sia stato espulso dal collegio. Ne esce, come detto, una storia che lascia al lettore la possibilità di costruirsi un quadro personale, e credo che questo – a dispetto di chi lo ritiene un limite – sia una delle caratteristiche che fanno di questo racconto un capolavoro assoluto, un testo precursore della letteratura novecentesca e del suo rapporto con la psicologia e la psicanalisi.
Secondo me James era perfettamente consapevole di avere scritto qualcosa di inusitato per l’epoca, e la scelta del titolo ne è la prova. Nel testo il titolo viene spiegato dal fatto che la storia viene narrata – durante una serata tra amici – dopo una storia di fantasmi che coinvolgeva un solo bambino. Il giro di vite starebbe quindi nel maggior grado di terrore che questa storia, coinvolgendo due bambini ed essendo ambientata in una campagna idilliaca, farebbe provare all’uditore. Azzardo una ipotesi più nascosta: che l’autore si riferisca al giro di vite dato alla sua narrativa, nel momento in cui mette in scena una storia di una inaudita ambiguità.
Avendo detto che il racconto può dar luogo a 2^n interpretazioni (dove 2 sono i livelli – trama e contenuto – e n le possibilità interpretative) non mi sottraggo al piacere di fornire la mia personale interpretazione, pur nella consapevolezza che sfocerà nel mare delle banalità in cui confluiscono la maggior parte dei torrenti scaturiti dalla mente dei critici improvvisati (e spesso anche da quelle dei critici di professione).
A mio avviso chiedersi se i fantasmi esistono, se sono generati dalla fantasia dei bambini, da quella dell’istitutrice o dai fatti precedenti la storia narrata è un falso problema.
I fantasmi, a mio avviso, sono chiaramente un simbolo, e rappresentano la vita cui i due bambini stanno andando incontro, che inevitabilmente li attira, e di cui chi li ama ha paura. L’istitutrice indubitabilmente idealizza i due piccoli protagonisti, li vede sotto una luce angelica, e non può accettare che essi siano bambini in carne ed ossa, con le loro piccole contraddizioni destinate ad aumentare man mano che cresceranno. Lo testimonia il fatto che Miles – il vero protagonista della storia, il bambino che ormai si sta facendo ragazzo – sia stato scacciato dal collegio per alcune (non riportate nel racconto) frasi (sconce?) dette ai compagni, e che sino all’ultima pagina l’istitutrice cerchi di capire la causa di tale allontanamento, rifiutando la possibilità che Miles sia davvero colpevole. I fantasmi sono quindi la vita adulta, nella quale la componente erotica ha una capitale importanza: essi erano amanti, e il reclamare il possesso dei piccoli (azione peraltro solo immaginata dall’istitutrice, visto che i fantasmi si limitano a guardar tacendo) ha un significato direi palese.
Nel finale James ci vuole forse dire che l’ingresso nella vita adulta non può avvenire se non tramite il violento distacco dall’innocenza dell’infanzia, che per diventare grandi è necessario uccidere il bambino che era in noi. Forse, facendo un ulteriore passo, si può intendere tutta la storia come una critica di James alle convenzioni sociali e soprattutto morali dell’Inghilterra vittoriana. L’istitutrice, personificazione dell’autorità incaricata di instradare i bimbi verso una corretta morale, non può accettare che essi siano venuti in contatto con una diversa visione della vita, con un’altra prospettiva ritenuta moralmente inaccettabile. Schiava delle convenzioni, combatte questi fantasmi sacrificando a questa lotta la vita stessa di Miles.
Tante cose vi sarebbero ancora da dire, ad esempio sulla tecnica narrativa di James: l’edizione Garzanti che ho letto riporta una splendida introduzione di Franco Cordelli, che consiglio vivamente a chi volesse approfondire la conoscenza di questo meraviglioso, enigmatico racconto.
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Una pausa prima del filotto
Il giocatore è un romanzo costruito secondo uno schema consueto in Dostoevskij. E’ scritto in prima persona, il protagonista è un giovane che si trova ad intervenire in una complessa vicenda familiare, è innamorato della protagonista femminile, è in qualche modo inadeguato ad affrontare le situazioni che gli si presentano, finendo per divenire un ulteriore elemento di disordine. Anche in questo romanzo oltre a quella del protagonista-narratore, spiccano la figura di un ricco uomo di mezza età e quella di una giovane donna.
E’ come detto uno schema narrativo tipico di Dostoevskij, che ho ritrovato in sia in Umiliati e offesi sia ne L’adolescente, di recente letti.
Questa volta però, a mio avviso, lo schema non funziona sino in fondo. I personaggi principali, il Generale e Polina, ed anche lo stesso protagonista-narratore Aleksej Ivànovic, sono sbozzati male, mancano di quella carica di umanità (anche negativa) e di rappresentatività sociale che ha fatto degli analoghi personaggi dei due romanzi prima citati dei personaggi immortali. Si percepisce, in definitiva, che il romanzo è stato scritto in un solo mese per onorare un impegno contrattuale e salvarsi dalla rovina economica (proprio a causa del gioco).
Pur con questi limiti strutturali, si deve comunque dire che Il giocatore rimane ovviamente un grande romanzo. E’ grande soprattutto nel tono, che è quello del Dostoevskij gogoliano, ironico e satirico.
La componente satirica è in particolare legata alla analisi del microcosmo di piccola nobiltà cosmopolita che frequenta la città tedesca di Roulettenburg (sic!) ed alla possibilità fornita a Dostoevskij di descrivere sia il provincialismo dei russi all’estero sia i caratteri (per la verità un po’ stereotipati) dei vari rappresentanti delle nazioni europee: il rigido e formale barone tedesco, il gretto e venale marchese francese (cui si accompagna l’inevitabile cocotte), il freddo e distaccato borghese inglese. Emerge dal romanzo come Dostoevskij ce l’avesse in particolare con i francesi, che vengono letteralmente presi a pesci in faccia in varie parti del libro.
Il tono ironico, ed a tratti anche comico, raggiunge il suo apice nell’episodio della calata a Roulettenburg della nonna, che viene presa dalla smania del gioco e dilapida il suo capitale sotto gli occhi attoniti della famiglia che contava sulla sua morte e sulla conseguente eredità. La figura della nonna, che pure è presente solo una piccola porzione del romanzo, è senza dubbio, secondo me, la più riuscita tra i vari personaggi, proprio per il fatto di essere quella più aderente al tono complessivo del racconto.
Il giocatore può essere considerato in definitiva una sorta di commedia di costume, e la sua trama, opportunamente riadattata, potrebbe servire da spunto per il cinema italiano, se ancora esistesse un cinema italiano.
Certo un autore come Dostoevskij ci ha abituato a ben altro spessore narrativo: come accade anche in molti altri autori, tuttavia, le necessità della vita portano a convogliare il talento su testi vendibili, e forse è proprio questo che ha avuto in mente il nostro mentre dettava ad Anna Grigorievna Snitkina (sua futura moglie) questo romanzo. Prendiamolo quindi come una pausa che Dostoevskij si è preso prima di sparare quell’incredibile serie di colpi maestri che va da Delitto e castigo a I fratelli Karamazov.
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Un confronto impossibile (o no?)
Il circolo Pickwick è uno dei grandi classici della letteratura mondiale, quindi una sua recensione può risultare oltremodo imbarazzante per chi la propone. Del resto non credo, di fronte ad un’opera di tale spessore, ci si possa limitare ad esprimere il proprio gradimento soggettivo, che in ogni caso è per me stato notevole.
Ritengo quindi interessante, anche se azzardato da parte mia, avventurarmi in una riflessione che trae lo spunto da un accenno che ho trovato in quarta di copertina dell’edizione Bompiani che ho letto (per inciso: ottima edizione, con traduzione brillante di Lodovico Terzi e corredo delle illustrazioni originali, sia pure sacrificate dal formato tascabile), laddove si dice che Mr. Pickwick e il suo servitore Sam Weller sono stati spesso paragonati a Don Chisciotte e a Sancho Panza. Mi sono quindi chiesto: cosa hanno in comune e in cosa differiscono i due capolavori di Cervantes e di Dickens?
La domanda può apparire peregrina, perché relativa a testi scritti ad oltre duecento anni di distanza l’uno dall’altro, in paesi completamente diversi per cultura e condizioni materiali di sviluppo: tuttavia, mentre ci pensavo, mentre cercavo di sviscerare affinità e differenze, mi sono reso conto che questo confronto era un potente strumento di analisi della struttura e dei messaggi reconditi lanciati dal capolavoro dickensiano.
Le affinità tra i due romanzi sono molte, soprattutto a livello epidermico: entrambi narrano di signori di mezza età che, accompagnati da un servitore, viaggiano per il loro paese incontrando varia umanità, essendo protagonisti e spesso vittime di avventure dal risvolto comico; Don Chisciotte e Mr. Pickwick sono entrambi depositari di convinzioni personali e circa le relazioni sociali che appaiono alla prova dei fatti del tutto inadeguate rispetto alla realtà, e da questo deriva gran parte della comicità delle situazioni in cui si trovano coinvolti; i loro partner principali sono portatori di una saggezza e di una concretezza popolare che più di una volta è decisiva per trarre i principali dai guai.
Se notevoli sono le analogie, ancora di maggiore spessore a fini interpretativi ed analitici sono le decise differenze, ed una su tutte: Don Chisciotte è un personaggio comicamente tragico , Mr. Pickwick è un personaggio comico . In Don Chisciotte si consuma la tragedia tra la realtà delle cose e la loro percezione soggettiva (e questo ne sostanzia la straordinaria modernità), mentre Mr. Pickwick è pienamente consapevole della realtà e non la mette mai in discussione, limitandosi ad opporvi un comportamento (quasi) sempre conciliante e riflessivo. Don Chisciotte paga sulla sua pelle le proprie convinzioni e le proprie illusioni, ed alla fine è sconfitto: muore e morendo si redime. Solo scomparendo può quindi accettare che la realtà vinca (in questo sta principalmente la sua tragicità). Mr. Pickwick, che nel corso dei suoi viaggi ha incontrato una realtà non meno degradata di quella dell’Hidalgo cervantesiano, al termine del libro si ritira in un consolante microuniverso borghese, in un happy end che sistema le cose per tutti i protagonisti positivi della storia ed emargina il mondo esterno che continuerà ad essere quello di sempre (si vedano le ultime pagine con la descrizione del destino di tutti i personaggi). Anche il padre di Mr. Winkle, che si era opposto al matrimonio del figlio per l’inadeguatezza della dote della dama, poche pagine prima aveva dato la sua benedizione all’unione, tra le lacrime di tutti i presenti. Questo a mio avviso è il grande limite del romanzo: sembra quasi che il giovane Dickens abbia avuto paura di trarre le conseguenze della tantissima carne messa al fuoco nel romanzo e si sia rifugiato in un finale consolatorio e partenalistico.
Ciò non toglie ovviamente che Il circolo Pickwick sia zeppo pagine memorabili. Tra quelle di pura denuncia sociale formano un romanzo nel romanzo quelle dedicate alla prigione per debiti dove Mr. Pickwick si fa rinchiudere pur di non sottostare alle angherie degli avvocati-banditi Dodson & Fogg. L’umanità dolente che Pickwick vi incontra, la solidarietà tra i reietti che la abitano colpiscono al cuore. Non mancano ovviamente le straordinarie capacità di descrivere e caratterizzare con poche pennellate ambienti e persone, facendone degli archetipi di grandissima forza evocativa. Sono infine godibilissime le pagine dedicate alla satira politica (i due partiti dei blu e dei bigi di Eatanville) come pure quelle scritte esclusivamente con intento comico.
In definitiva, mille pagine da cui è difficile staccare gli occhi, che ci consegnano alcuni dei personaggi più immortali della letteratura: forse però, nell’eden dove di sicuro questi personaggi si incontrano, il buffo Pickwick deve ancora togliersi il cappello (del resto lo avrebbe fatto comunque, vista la sua educazione) al passaggio del cavaliere dalla triste figura.
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Laurence Sterne
Daniel Defoe
... e tutti i classici britannici

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L’ipocrisia sociale in un grande romanzo del ‘900
The Good Soldier è il romanzo più noto di Ford Madox Ford, oltre che uno dei pochi titoli di questo scrittore disponibili in italiano. Eppure questo autore inglese del primo novecento, figlio di un preraffaellita, amico di Conrad – con il quale scrisse alcuni romanzi – poeta, romanziere e critico letterario, fondatore di riviste che hanno ospitato i primi scritti di gente come Lawrence, Hemingway, Pound e Bennett, meriterebbe ben altra attenzione da parte della nostra pavida editoria. Oltre a Il buon soldato ho infatti letto in questo periodo altri suoi due libri, che recensirò a breve, e devo dire che ne emerge il profilo di uno scrittore molto importante, capace di descriverci in profondità gli abissi dell’animo umano e l’inarrestabile declino dei valori della società in cui viveva, capace di sperimentare forme letterarie che al riparo di uno stile apparentemente semplice e diretto in realtà terremotano le fondamenta del romanzo borghese ottocentesco, al pari di quanto andavano facendo nello stesso periodo autori molto più celebrati. Non è un caso il sodalizio con Conrad, non è un caso la venerazione di Ford Madox Ford per James e per Turgenev, tra gli scrittori della generazione precedente.
E’ quindi difficilmente comprensibile che i titoli di Ford Madox Ford oggi disponibili nella nostra lingua si possano contare sulle dita di una mano, e che un’opera tanto importante della letteratura inglese del ‘900, la tetralogia Parade’s End non sia mai stata completamente tradotta. Per il momento accontentiamoci comunque di quanto passa il convento.
Il buon soldato è la storia di un adulterio, narrata, al termine delle vicende, dal marito tradito. E’, come dice il narratore all’inizio del racconto la storia più triste che abbia mai sentito, perché il tradimento si consuma nell’ambito di due coppie di amici, i Dowell e gli Ashburnham, americani i primi, inglesi i secondi, appartenenti alla migliore società, che si frequentano per nove anni in una delle più rinomate stazioni termali europee – dove Florence Dowell e Edward Ashburnham si curano dai loro problemi cardiaci – in Provenza, a Parigi. Sin dalle prime pagine John Dowell ci dice che …conoscevamo benissimo il capitano e la signora Ashburnham; meglio, senza dubbio, non sarebbe stato umanamente possibile. Eppure, a guardar bene, non sapevamo niente di loro. Infatti, John Dowell capirà solo alla fine, poco prima di mettersi a narrare, la vera natura dei rapporti tra sua moglie Florence e Ashburnham, tra quest’ultimo e la moglie Leonore, tra questi e gli altri personaggi che si affacciano nella storia. Capisce e quindi si mette a narrare, per la voglia di raccontare a qualcuno quanto gli è accaduto: e lo fa come raccontasse ad un amico davanti ad un caminetto, senza seguire un ordine temporale, anticipando spesso fatti, giudizi e considerazioni che diverranno chiari nel corso della storia, coinvolgendo il lettore con espressioni colloquiali e chiamate dirette in causa, come se il lettore dovesse già conoscere qualcosa della sua storia.
E’ un modo di narrare, di scrivere, che – se non ha la forza eversiva dello stream of cosciousness, se non ha la capacità evocativa della dolente ed asmatica ricerca della memoria proustiana – si inserisce tuttavia a pieno titolo, a mio avviso, in quella grande corrente letteraria che nei primi decenni del XX secolo fece emergere la soggettività come grande protagonista della letteratura. John Dowell, da questo punto di vista, può essere considerato uno dei grandi Io narranti del ‘900 letterario, forse, tra i grandi, quello che si ritaglia il ruolo più ambiguo, più scomodo, ed anche più controverso, come testimoniano i molti giudizi critici che parlano di lui come di un personaggio inadeguato, incapace di capire e di agire.
Del resto che così sia ce lo dice egli stesso, a partire dal suo ruolo di marito: la bella Florence infatti è sua moglie solo a parole, perché – adducendo la sua debolezza di cuore che la potrebbe portare alla tomba- ha sin dalla prima notte di nozze chiuso a chiave la sua camera, impedendo al marito di entrarvi. John ha accettato serenamente questa situazione, questo declassamento da marito ad infermiere, ad accompagnatore della malata, senza accampare alcun diritto di coniugio.
E’ proprio questo suo essere alieno al sesso che gli impedisce di capire come invece l’impulso sessuale governi i comportamenti di chi lo circonda, che gli impedisce di cogliere i pur espliciti messaggi che gli altri protagonisti disseminavano. Alla fine, quando saprà, egli potrà raccontarci la storia non come l’ha vissuta durante gli avvenimenti, ma come la può reinterpretare ora, alla luce della sua nuova consapevolezza, e questo – come detto – costituisce il fascino maggiore del romanzo ed anche la sua forza espressiva. L’inadeguatezza di John, quindi, lungi dal farne un personaggio sbiadito, è perfettamente funzionale al modo in cui Ford Madox Ford ha voluto raccontarcela, all’assoluta prevalenza della soggettività sull’oggettività dei fatti.
Il sesso è il protagonista assoluto del libro, per la sua assenza dai rapporti sociali ufficiali e per il suo essere un fattore preponderante nel determinarli. Non a caso Graham Green ha scritto che Il buon soldato è il solo libro inglese che affronti in modo adulto la sessualità, e ciò può apparire strano, in un romanzo in cui (ci informa Guido Fink nella bella postfazione) la parola sesso appare solo quattro volte. Ma qui entra in campo un elemento secondo me inseparabile dalla grande letteratura: la capacità dell’autore di rendere universale una storia, nel caso di questo romanzo di rendere oggettivo ciò che è descritto attraverso l’uso esclusivo della soggettività del protagonista. Il sesso in quanto tale è assente dalla storia dei Dowell e degli Ashburnham perché è formalmente assente dalla società in cui vivono: tutti sanno che determina i rapporti tra le persone, ma nessuno si confronta apertamente con esso. Ed è così che due uomini come John Dowell e Edward Ashburham, il primo praticamente asessuato ed il secondo tombeur de femme, possono divenire intimi amici, ma senza mai conoscersi davvero; è così che la loro amicizia non potrà che concludersi in tragedia. La storia di un adulterio diviene così la storia dell’ipocrisia di una intera società, destinata ad essere inghiottita dall’incombente tragedia (il romanzo esce nel 1915) che essa stessa ha provocato. L’autore sa però che quella società è pronta a rinascere in forme apparentemente nuove ma che ne perpetuano i vizi, e per questo – dopo che la tragedia si è consumata – ci presenta i protagonisti sopravvissuti che si sono rifatti una vita avente i medesimi tratti essenziali della precedente, tratti tuttavia appesantiti da una bonaccia borghese che non può che preannunciare nuove tempeste. Il buon soldato e Florence, che non hanno saputo risolvere la contraddizione tra l’essere e l’apparire, non ci sono più, ma chi è restato non ha tardato a trovare nuovi equilibri, anche attraverso la funzione liberatoria della narrazione. Quanto questi nuovi equilibri non avessero fatto i conti davvero con il passato ce lo dimostrerà la Storia pochi decenni dopo la vicenda narrata da Ford Madox Ford e – credo – si incaricherà di dimostrarcelo anche tra non molto, considerando che il filisteismo politico, economico e sociale è ancora saldamente al comando di questo nostro sventurato mondo.
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Gustave Flaubert
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