Opinione scritta da Vita93

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    18 Febbraio, 2015
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Una simpatica commedia corale

"Galeotto fu il collier", pubblicato nel 2012, è il 33° romanzo di Andrea Vitali, scrittore estremamente prolifico nato a Bellano, in provincia di Lecco, e che proprio nel piccolo comune lombardo ambienta i suoi simpatici scritti.

Il protagonista è Lidio Cerevelli, trentenne disilluso e destinato ad una vita trascorsa a lavorare alle dipendenze della temuta madre Lirica, imprenditrice edile.
Donna austera e protettiva nei confronti del figlio, Lirica ha sempre affermato di voler lasciare l'impresa nelle mani di Lidio dopo che questi si fosse sposato, rigorosamente con una moglie italiana e di buona famiglia.
Come Eufemia per esempio, nipote dello stimato dottor Cerretti, ricca e con un sicuro avvenire ma talmente brutta da far spavento.
Ma nell'estate del 1930, ad una festa, Lidio conosce Helga, una procace svizzera in vacanza con gli amici, di cui in breve tempo si innamora.
Attorno al protagonista, una serie di personaggi comicamente macchiettistici tra carabinieri, segretari comunali, ristoratori, farmacisti, spie, membri del Partito, mogli e mariti vari. Tutti portatori sani di pettegolezzi e sfrenate dicerie.

Il romanzo è composto da capitoli brevissimi, rapide pennellate che permettono all’autore di saltare velocemente da un personaggio all'altro.
Ho avuto qualche piccola difficoltà nel ricordare i nomi di tutti i personaggi, numerosissimi e di non facile memorizzazione a causa della loro origine arcaica. Forse qualche comparsa in meno ed un numero inferiore di pagine avrebbero giovato ulteriormente alla scorrevolezza dell’intreccio.
Anche se il libro si lascia leggere comunque con piacere, complice la bravura dell’autore nel descrivere situazioni rocambolesche ed equivoche, con uno stile divertente e rapido, simile a quello di una commedia di uno spettacolo teatrale.

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Consigliato a chi, tra una lettura impegnativa e l' altra, vuole concedersi qualche giorno di tranquillità e ironia nell' Italia degli anni '30.
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    11 Febbraio, 2015
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Storie di un trasformista

“Il privilegio di essere un guru”, datato 2004, è il terzo romanzo dello scrittore genovese Lorenzo Licalzi.

Il protagonista è Andrea Zanardi, infermiere ultra-quarantenne presso un ospedale di Genova, che si paragona in tutto e per tutto al divo Tom Cruise. Soltanto tre particolari li differenziano: la professione, il luogo di residenza e la moglie (all’epoca) Nicole Kidman.
Ma se solo la Kidman lavorasse nel suo stesso ospedale, Andrea giura che sceglierebbe lui e non il celebre attore.
Con questa divertente premessa, Zanardi ci trascina nel suo mondo.
Uno stile di vita semplice, dove l’unico obiettivo irrinunciabile è finire a letto con quante più donne possibili. Ritiene di avere una tattica infallibile, valida per qualsiasi essere femminile incontrato: assecondarne passioni, passatempi, inclinazioni. Un trasformista. Diventa un timido single imbranato al mercato della frutta immerso tra esperte casalinghe, si professa no global irriducibile per conquistare una fotografa durante il G8. Ma quando incontra Maria, fanatica di cibi biodinamici e filosofie orientali, la conquista sarà più dura del previsto.

"Il privilegio di essere un guru" è un romanzo intriso di ironia ed originalità, sebbene il tema del single dongiovanni che incontra una donna capace di spezzare la sua routine sia argomento ampiamente affrontato dalla commedia, sia essa cartacea o cinematografica.
Il linguaggio veloce ed imprevedibile di Licalzi, unito ad un protagonista che, per quanto furfante ed abile raggiratore, suscita immediata simpatia, rendono il libro sempre piacevolmente scorrevole e divertente, tra situazioni comiche e personaggi secondari ben tratteggiati.

Il romanzo ironizza sulla tendenza moderna a considerare tutto ciò che è vagamente orientale, dalle filosofie all’alimentazione, come puro, incontaminato e portatore di salute, rispetto agli usi e costumi del corrosivo Occidente.
È un’ironia intelligente, che non giudica con sentenze dirette, limitandosi a mettere in comico risalto le contraddizioni di alcune sub-culture che spesso, sotto la guida di presunti guru e santoni, apportano ben pochi reali benefici.
Attraverso Zanardi, Licalzi si fa portavoce di una storia tutta al maschile, ma non maschilista come potrebbe sembrare in superficie.
L’umorismo non risparmia nessuno, personaggio principale compreso.
Emblematico il fatto che per quanto Andrea si proclami seduttore infallibile, le fatiche ed i tempi con cui riesce a raggiungere il "bersaglio" sono inversamente proporzionali alle abilità che sostiene di avere.

"Gli uomini sono cacciatori: magari non sparano, ma la mira la prendono sempre".

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    09 Febbraio, 2015
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Montagne russe alcoliche

Qualche anno fa lo scrittore scozzese John Niven aveva scalato le classifiche di vendita dei libri con il dissacrante "A volte ritorno", una storia ironica e cinica su un immaginario ritorno di Gesù Cristo sulla Terra.
“Maschio bianco etero”, scorretto e dissacrante fin dalla prima pagina, ha invece per protagonista Kennedy Marr, 44 anni, scrittore e sceneggiatore di successo.
Baciato dal talento naturale e da alcune circostanze fortunate, conteso dai migliori produttori cinematografici ed editoriali di Hollywood, ama trascorrere il tempo tra ristoranti lussuosi, fiumi infiniti di alcool ed attricette preferibilmente giovani.
Si comporta, per sua stessa definizione, come un "vero stronzo", fino a quando un inaspettato guaio con il fisco minaccia il suo stile di vita.
Per risanare le proprie finanze, Kennedy si trova costretto ad accettare un premio letterario che in cambio di una cospicua retribuzione, lo obbliga ad insegnare per un anno in un'università irlandese. Terra natale di Kennedy, dove abitano la figlia, l'ex moglie, il fratello e la madre malata, e dove si terranno le riprese del film di cui ha scritto la sceneggiatura.
Ma soprattutto luogo denso di brutti ricordi che si trasformano in sensi di colpa. Gli stessi dai quali aveva sempre tentato di fuggire.

La trama segue le peripezie del protagonista attraverso la tipica e collaudata parabola che trasforma il personaggio principale da edonista cinico e sprezzante alla scoperta di paure, incertezze, fragilità che lo fanno vacillare.
Grazie allo stile graffiante ed irriverente dello scrittore scozzese, Kennedy Marr risulta essere un personaggio davvero simpatico, nonostante il curriculum da canaglia incallita e la presenza di qualche volgarità di troppo. Nel romanzo, in pieno stile Niven, c'è spazio anche per una critica, piuttosto esplicita, rivolta ad alcune bizzarrie e contraddizioni delle industrie cinematografiche ed editoriali e dei loro interpreti.

In una storia simile non è facile riconoscere, ammesso che esista, una morale. Lo scrittore descrive un ideale di vita o ne condanna gli eccessi? E non è facile distinguere quanto le critiche, per esempio al sistema hollywoodiano, riflettano il pensiero dell’autore o se invece siano la rappresentazione caricaturale dei pregiudizi che spesso esistono sugli attori e i loro vizi.
Qual era l’idea di Niven? Divertire o farlo con l’aggiunta di un pizzico di riflessione? Ma in fondo è inutile chiederselo. A tal proposito Kennedy Marr direbbe qualcosa tipo "'rca troia ragazzo, è soltanto un libro, chiudilo e andiamo a spassarcela".

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O meglio, a chi ha visto la celebre serie tv " Californication ".
Impossibile non notare le numerose somiglianze tra i protagonisti, entrambi scrittori " maledetti " amanti della bella vita.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    05 Febbraio, 2015
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Nell'interesse del Partito

Shanghai, 1990.
È un periodo storico delicato per la Repubblica Popolare Cinese.
Nell'anno in cui sono stati rovesciati i regimi comunisti in Europa, la Cina elabora il ricordo delle recenti proteste di Piazza Tienanmen del 1989, dove persero la vita centinaia o forse migliaia tra studenti, intellettuali ed operai.
Sotto la guida di Deng Xiaoping, il paese ha iniziato da anni un momento storico di transizione e fusione tra la politica socialista e l'economia capitalista.
Una sorta di evoluzione del marxismo-leninismo promosso da Mao, politico e dittatore cinese dal 1949 fino al 1976, e che nel 1968 aveva lanciato la cosiddetta Rivoluzione Culturale, volta a frenare gli ideali rivoluzionari rieducando i giovani nei villaggi contadini sperduti.
In un periodo storico di forti cambiamenti socio-politici a livello mondiale, la Cina agli inizi degli anni '90 si trova quindi in una situazione delicata, dove l'interesse del Partito è uno solo: mantenere ad ogni costo la stabilità.

Protagonista del romanzo è l'ispettore capo Chen Cao, 35 anni.
Esperto e traduttore di letteratura straniera e poeta modernista di discreto successo, è stato assegnato dal Partito ad una carriera lavorativa nella Polizia.
L'ispettore Chen, insieme al sottoposto Yu, guida la sezione dei "casi speciali", ovvero crimini che hanno interessi politici, giudicati pericolosi per il Partito.
Quando in un canale sperduto, avvolto in un sacco della spazzatura, viene ritrovato il corpo di Guan Hongying, Lavoratrice Modello della Nazione e personaggio di spicco all'interno della propaganda politica, il caso viene assegnato a Chen.

Il romanzo, primo della serie dei casi dell'ispettore Chen, è l'opera d’esordio di Qiu Xiaolong, scrittore e poeta cinese.
Durante un viaggio negli Stai Uniti nel 1989, Xiaolong scoprì che il suo nome era finito nell'elenco dei promotori delle rivolte di Piazza Tienanmen, e da allora è stato costretto a rimanere in suolo statunitense.
Come spesso capita nella narrativa di genere, il giallo è soltanto il pretesto per analizzare e raccontare la realtà circostante.
Attraverso l'indagine di Chen, Xiaolong descrive la Cina del 1990, l’influenza del capitalismo nel “socialismo con caratteristiche cinesi”, le spinte verso la modernità che si scontrano con le tradizioni del Partito.
I grandi poteri degli alti quadri vengono contrapposti alla massa popolare, che vive in stanze di otto metri quadrati, sotto il controllo costante della politica che guida ed indirizza mass media e propaganda.
Il fatto che Chen non nasca poliziotto per vocazione, ma per volere del Partito, permette allo scrittore di inserire nel libro numerose poesie, massime confuciane ed endecasillabi modernisti.
Poliziotto romantico, che crede in una personale "giustizia poetica", Chen guida il lettore alla scoperta della Cina tra piatti tipici, ristoranti caratteristici, usanze popolari, karaoke, indagini che avanzano a suon di input politici, in un romanzo interessante ed ottimamente strutturato.

"Se ti impegni a sufficienza in qualcosa, comincia a fare parte di te, anche se non ti piace veramente e sai che quella parte non è vera".

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La trilogia di Stieg Larsson. I libri dello scrittore svedese sono più cupi e violenti, ma ho trovato la stessa volontà di raccontare un paese e una cultura attraverso un romanzo poliziesco.
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Romanzi
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    01 Febbraio, 2015
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Devi avere paura degli uomini, non dei mostri

"Io non ho paura" di Niccolò Ammaniti è stato il primo "vero" romanzo che ricordo di aver letto.
In seconda media, la mia cara professoressa di italiano invitò tutta la classe ad un taglio con le letture targate "Il Battello a Vapore" tipiche degli anni delle scuole elementari, per favorire un approccio più adulto alla letteratura. Contemporaneamente iniziammo una sorta di cineforum, di cui ho ricordi vividi e teneri. Leggevamo libri, guardavamo un film alla settimana durante le lezioni pomeridiane, cui seguivano dibattiti in classe e recensioni scritte.
All'epoca il romanzo di Ammaniti, complice la versione cinematografica di un grande regista come Gabriele Salvatores, era un titolo molto conosciuto ed è per questo che in quegli anni la professoressa di italiano ci fece leggere il libro e successivamente vedere il film.

La storia è ambientata nel 1978 ad Acqua Traverse, un piccolo paese del Sud Italia.
Michele Amitrano, nove anni, trascorre una tranquilla e spensierata estate con i suoi amici e la sorella. I campi di grano, le corse in bicicletta, le prove di coraggio, gli scherzi ai vicini. Fino a quando un giorno Michele, obbligato a scontare una delle tante penitenze tipiche dei giochi dei bambini, entra in una casa abbandonata e scopre un buco nel terreno.
La curiosità lo spinge ad affacciarsi per vedere cosa si nasconda nella fossa.
Lo attende un'immagine che cambierà il corso di quell'estate e della sua infanzia. Un lenzuolo sporco, dal quale spunta un piccolo piede.

Personalmente considero questo romanzo di Ammaniti un piccolo gioiello letterario. L’autore romano racconta con efficacia la storia di un bambino che scopre per la prima volta non soltanto l'esistenza del male ma soprattutto la sua vicinanza.
E riesce a farlo immergendosi nella mente di Michele. Un bambino che affronta una vicenda più grande di lui. Impaurito e allo stesso tempo curioso. Le stesse sensazioni che prova quando di notte legge, nascosto sotto al lenzuolo, storie di mostri e fantasmi. E contemporaneamente si innesca nel lettore un meccanismo di difesa nei confronti del protagonista. Vorremmo proteggerlo, evitandogli di sperimentare la perdita dell’innocenza.
È un romanzo crudo e adulto nelle tematiche affrontate. Ma il tutto, filtrato dal punto di vista di Michele, assomiglia a tratti ad una fiaba. Una di quelle tante fiabe che, lette da bambino in versione edulcorata, narrano di fate e personaggi positivi volti ad un sottinteso intento formativo e didascalico. Ma che, se analizzate nella loro versione ottocentesca ed originaria, contengono spesso un lato oscuro, macabro e violento.

"Piantala con questi mostri, Michele. I mostri non esistono. I fantasmi, i lupi mannari, le streghe sono fesserie inventate per mettere paura ai creduloni come te. Devi avere paura degli uomini, non dei mostri".

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    27 Gennaio, 2015
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Il quinto Beatle

George Best, nato a Belfast nel 1946, è stato uno dei più forti e famosi calciatori di tutti i tempi.
Simbolo per un decennio del Manchester United, di cui ha indossato la storica maglia numero 7, ha vinto il Pallone d’oro nel 1968.
Personalità complessa, con i suoi eccessi ha rappresentato l’icona della prima vera e propria rockstar del football.
Ecco spiegato il soprannome di "quinto Beatle", motivato anche dalla folta capigliatura simile a quella dei componenti della band di Liverpool.

Prima di leggere questa interessante autobiografia, avevo in mente una certa immagine di George Best, coincidente con quella diffusa nell'immaginario collettivo. Un’idea avvalorata da goliardiche e simboliche dichiarazioni del calciatore, ancora oggi citate sui social network e nei contesti più vari.
“Non sono mai stato in spiaggia, per arrivarci dovevo passare davanti a un bar e mi sono sempre fermato prima di raggiungere l'acqua”. “Nel 1969 ho dato un taglio a donne e alcool. Sono stati i 20 minuti peggiori della mia vita”. “Ho speso molti soldi per alcool, ragazze e macchine veloci. Il resto l'ho sperperato”. “Ho smesso di bere, ma solo quando dormo”. “Alcune cose me le sono lasciate sfuggire. Miss Canada, Miss Regno Unito, Miss Mondo...”.

Best, calciatore straordinario nel suo primo decennio di carriera, intraprese un declino inarrestabile a partire dai 26 anni e motivato principalmente da crescenti problemi di alcolismo e da uno stile di vita sregolato, non idoneo ad uno sportivo professionista.
Ciò che però traspare dal romanzo, in piena antitesi con l’immagine da rockstar ribelle e strafottente, è il ritratto di una personalità fragile, connotata da una profonda timidezza nel rapportarsi al genere umano.

“The Best” è un' autobiografia sincera. Parla di football, donne, pub, alcool, esagerazioni, ma soprattutto di un uomo e della sua esistenza fatta di trionfali esaltazioni e rovinose cadute, che però non gli hanno impedito di rimanere impresso nel cuore di tutti gli appassionati di calcio. Perché in fondo “Maradona good, Pelè better, George Best”.

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Romanzi
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    23 Gennaio, 2015
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Blood, sweat and beer

Nello sport moderno siamo abituati a condannare, giustamente, episodi di violenza come gli scontri tra tifoserie. Avvenimenti piuttosto isolati, per fortuna, e che proprio in virtù di tale rarità hanno un grande risalto mediatico.
Ma il calcio, specialmente quello inglese, ha conosciuto un periodo dove il numero degli scontri tra tifosi era talmente alto da non fare quasi notizia.
Il campionato di calcio inglese, oggi patria del fair play, del rispetto dell’avversario e della cultura della sconfitta, non è sempre stato un modello da seguire in quanto a disciplina e sicurezza.
Dagli anni’60 fino alla fine degli ‘80 tali atteggiamenti da parte dei tifosi più violenti e turbolenti, denominati hooligans, si ripetevano pressoché ad ogni gara. “Blood, sweat and beer”. Sangue, sudore e birra.
I primi morti si registrano verso la metà degli anni ’70. Seguono la tragedia dell’Heysel nella finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool (dove morirono 39 persone) e a quella di Hillsborough (96 vittime), anche se in quest’ultimo caso le cause furono principalmente la disorganizzazione con cui fu gestito l’afflusso dei tifosi alle tribune.
Avvenimenti tragici che hanno costretto il governo inglese, capeggiato dalla “Lady di ferro” Margaret Thatcher, a prendere importanti e drastici provvedimenti per estinguere il fenomeno.

La divisione in vere e proprie bande organizzate, l’abbigliamento casual per non insospettire le forze dell’ordine, i raduni al pub, i tentativi di occupare con la forza la curva dei tifosi avversari, le rappresaglie, gli scontri ad inizio e a fine partita, sia nei pressi dello stadio che al suo interno, erano state le caratteristiche di una problematica che tra gli attori principali aveva registrato persone appartenenti a svariate classi sociali e fenomeni giovanili: membri della cosiddetta rough working class, teddy boys, skinheads, boot boys.

Si ricordi, a tal proposito, che l’Inghilterra degli anni’60-‘70 era l’ombelico del mondo, un vero e proprio laboratorio sociale dove tali subculture trovavano un terreno estremamente fertile.
Lo stadio era un luogo di aggregazione dove affermare la propria autorità e supremazia basandosi sull’uso della violenza. Nacquero rivalità e gemellaggi tra gruppi (in inglese “firm”), i cui nomi stessi incutevano timore: Red Army (Armata Rossa), Headhunters (Cacciatori di teste).

Uno dei gruppi più temuti era quello della ICF del West Ham United.
Il nome ICF prendeva spunto dai treni Intercity utilizzati dai tifosi per raggiungere gli stadi, dato che in questo modo era più facile mischiarsi tra i pendolari e la gente comune per eludere i controlli della polizia.
Famigerati per la loro cattiveria nelle risse, gli hooligans della ICF lasciavano spesso sul corpo degli avversari appena pestati un bigliettino con scritto "congratulazioni, hai appena incontrato la ICF".
Cass Pennant, uno dei leader del gruppo tra gli anni '70 e '80, ha scritto questo romanzo per raccontare appunto le “gesta” e gli aneddoti della firm all'apice della sua fama.

È un interessante spaccato di una realtà ingloriosa che ha riguardato il calcio inglese e delle difficoltà sociali di una parte della working class dell’est di Londra, sebbene il libro sia certamente troppo lungo ed abbia un eccessivo e, a mio avviso ingiustificato, grado di auto-esaltazione.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    19 Gennaio, 2015
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Diversi gradi di responsabilità

Dopo il superbo esordio con “Uomini che odiano le donne”, anche stavolta il compianto Stieg Larsson riesce a rapire l’attenzione del lettore per più di 700 pagine, con sporadici ed irrilevanti cali di tensione.
“La ragazza che giocava con il fuoco” è un romanzo ricco di personaggi unici ed impeccabilmente caratterizzati. Due di loro, in particolare, rubano la scena a tutti gli altri comprimari, e sto parlando ovviamente di Mikael Blomqvist e Lisbeth Salander.
Rispetto al romanzo precedente assistiamo ad un’inversione di tendenza nel ruolo di protagonista principale. Una svolta interessante per quanto prevedibile, constatato che un personaggio unico ed affascinante come quello di Lisbeth non poteva essere relegato ancora al ruolo di “spalla”.
Se in "Uomini che odiano le donne" il giornalista e fondatore della rivista mensile “Millennium” aveva fin dall' inizio più spazio rispetto a Lisbeth, stavolta l’intreccio lascia la netta sensazione che sia la giovane ricercatrice ed hacker a rappresentare il perno attorno al quale ruota l'evolversi della vicenda.

Si parla di "trafficking", di tratta di esseri umani dai paesi europei dell’Est, di prostituzione. Un intero sistema di soprusi e violenze. In una storia di donne maltrattate ed umiliate fisicamente e psicologicamente, la protagonista non poteva non essere Lisbeth, sulla cui vicenda personale vengono fornite finalmente alcune risposte ai tanti interrogativi che aveva lasciato il precedente romanzo.

La sensazione che provo leggendo Larsson è che, seppur per brevi e marginali tratti, la narrativa di genere e la letteratura (quella vera, dei grandi scrittori) si incontrino. È ovvio che gli scritti di Larsson siano fondamentalmente opere di intrattenimento, ma la compresenza di schemi cari al giallo classico e di elementi tipici del thriller moderno, unita alla forza di due personaggi unici e carismatici, crea una combinazione davvero straordinaria.
Così come intatta, anche stavolta, è l’abilità dell’autore nello sfruttare tale narrativa di genere per indagare e raccontare gli angoli più bui della realtà che ci circonda.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    19 Gennaio, 2015
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Harry Hole #1

Harry Hole è il carismatico protagonista di numerosi romanzi polizieschi dello scrittore norvegese Jo Nesbo.
Personaggio spigoloso, tormentato, soggetto a frequenti ricadute nell’alcolismo, Hole ha saputo entrare nel cuore di molti lettori per il suo intuito nelle indagini ed il personale senso del dovere e della giustizia che lo caratterizza.
Gli ultimi otto romanzi della serie, già tradotti e pubblicati in Italia, hanno fatto conoscere un Harry maturo, alle prese con i problemi appena elencati.
Mancavano i primi due libri e, sia per chiarire il passato oscuro del poliziotto che per cavalcare l'onda del meritato successo di un autore spesso in vetta nelle classifiche dei best seller, Einaudi ha parzialmente rimediato con l'uscita del primo romanzo datato 1997, "Il pipistrello".

La prima indagine di Harry si svolge in Australia, dove il poliziotto viene trasferito dalla Norvegia per affiancare il collega aborigeno Andrew Kensington nella soluzione di un caso. Inger Holter, una giovane norvegese, è stata infatti stuprata e strangolata a Sidney.
Un caso apparentemente isolato, ma presto i due detective si rendono conto che l’assassinio potrebbe essere opera di un omicida seriale.

Difficilmente il primo romanzo di una lunga serie può aspirare ad esserne il migliore. “Il pipistrello” non sfugge a questa regola non scritta. Lontane sono le vette raggiunte da Nesbo in alcune opere successive. Ma essendo l’istrionico autore norvegese un narratore di assoluto riferimento nel genere crime, anche le opere “minori” come questa sono da considerarsi di buon livello.

Consiglio questo thriller per l'ambientazione affascinante teatro della vicenda, per la capacità dello scrittore di alternare la componente crime all'introspezione del protagonista e infine per recuperare un pezzo fondamentale del complesso puzzle raffigurante il passato di Hole.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    16 Gennaio, 2015
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...è al buio che ogni tanto devo ritornare...

La serie avente per protagonista Mila Vasquez, iniziata con "Il Suggeritore" ed ottimamente proseguita con "L'ipotesi del male", continua a riscuotere un grande successo.

Poliziotta dal carattere chiuso e con occasionali tendenze autolesioniste provocate da un passato difficile, Mila lavora ancora nel Limbo, la sezione che si occupa del ritrovamento dei soggetti scomparsi.
Ogni volta che entra in ufficio centinaia di foto appese al muro, raffiguranti volti di persone scomparse, la fissano incessantemente.
Klaus Boris, ispettore del Dipartimento e collega di Mila ai tempi del caso del Suggeritore, la coinvolge in una nuova indagine intricata e pericolosa.
Roger Valin, un impiegato scomparso per 17 anni, ha sterminato un'intera famiglia lasciando vivo solo il figlio più piccolo, per poi sparire nuovamente. Sarà il primo di una lunga serie di avvenimenti simili.

Carrisi continua ad utilizzare quelli che ormai sono diventati veri e propri marchi di fabbrica nella sua produzione letteraria: un’ambientazione claustrofobica, asettica ed indefinita, la compresenza tra bene e male in tutti i personaggi, la considerazione che ogni essere umano, in certe particolari circostanze, potrebbe trasformarsi in un assassino.
Personalità cupe, fragili, complesse, dai contorni sfuggenti. Sono questi i protagonisti del romanzo di Carrisi, che completa il quadro con un’ottima gestione del ritmo e dei colpi di scena.

“L’ipotesi del male” non possiede probabilmente lo stesso carico di originalità che aveva contraddistinto “Il suggeritore”, ma eguaglia il titolo precedente in altre importanti componenti come la qualità dell’intreccio e la tensione narrativa, confermando lo status di Donato Carrisi come ottimo autore di thriller dal forte richiamo cinematografico ed internazionale.

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" Il Suggeritore "
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Romanzi autobiografici
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    11 Gennaio, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Storia di un'ossessione

Da grande appassionato di calcio e da praticante quale sono ormai da 20 lunghi anni, non potevo non leggere uno dei libri più famosi scritti in materia, un vero e proprio cult degli anni '90, dal quale nel 1997 è stata tratta una versione cinematografica con Colin Firth.

Nick Hornby, scrittore britannico nato nel 1957 e residente a Londra, racconta in questo romanzo autobiografico la sua relazione colma di passione, tifo e ossessione nei confronti dell'Arsenal, storico club londinese tra le squadre di calcio più titolate in Inghilterra e più celebri al mondo.

Un rapporto "malato". Così come malato si autodefinisce l'autore stesso.
Hornby divide il romanzo in 3 parti, ognuna delle quali occupa circa un decennio di storia dell'Arsenal, dal 1968 al 1992, anno in cui è stato pubblicato il libro.
Una passione inizialmente trasmessa da un padre spesso assente, coltivata durante l’adolescenza e infine esplosa negli anni universitari.
Lo scrittore è abile e divertente nel trasmettere le sensazioni provate durante questi lunghi e faticosi decenni trascorsi dietro alle gesta dei "Gunners". Anni di grandi gioie e di cocenti delusioni.
Ma l'ossessione per le cronache calcistiche di cui Hornby ci rende partecipi sono soprattutto l'occasione che l'autore sfrutta per parlare della storia di un uomo, di se stesso.
In mezzo a tante vittorie e sconfitte dell'Arsenal, c'è spazio per le esperienze scolastiche, familiari, sentimentali e lavorative che hanno trasformato Hornby da ragazzino a uomo.

Ma si può essere un uomo maturo e responsabile e allo stesso tempo coltivare un vero e proprio fanatismo fanciullesco nei confronti di una squadra di calcio? Si può essere considerati individui “socialmente accettabili” se per andare allo stadio a veder giocare l’Arsenal contro l'ultima in classifica, si è disposti a perdere il matrimonio della sorella? Si può avere una relazione normale con una ragazza se l'unica vera priorità nella vita è rappresentata dalla squadra del cuore, capace con un singolo risultato di influenzare umore e comportamenti? "Ad un certo punto non riuscivo più a capire se la mia vita faceva schifo perché l'Arsenal aveva perso o viceversa".

Domande che Hornby si pone spesso, fornendo risposte brillanti e raccontando episodi veramente spassosi che gli sono capitati nel corso degli anni.
Oltre a tanti spunti ironici in cui ogni appassionato di calcio può o meno riconoscersi, l’autore non perde occasione per analizzare alcune serie difficoltà che hanno colpito il calcio inglese negli anni '70-'80, tra hooligans e stragi riprovevoli negli stadi. Problematiche che per fortuna sono state ampiamente superate.

“Febbre a 90°” è una lettura divertente, un romanzo di formazione consigliato non soltanto agli appassionati di calcio.

"La vita non è, e non è mai stata, una vittoria in casa per 2-0, contro i primi in classifica, con la pancia piena di patatine fritte”.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    08 Gennaio, 2015
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Il Mostro di Firenze

Il caso del mostro di Firenze, avente per oggetto ben 16 vittime di omicidi seriali tra il 1968 ed il 1985, è stato sicuramente il più sanguinoso, efferato e tristemente noto della cronaca nera italiana. Ha avuto un enorme risalto mediatico e sociale tanto da creare, nella campagna fiorentina degli anni ’70 e ‘80, una vera e propria psicosi sociale. Il fatto che il profilo delle vittime fosse quello di giovani coppie sorprese durante l’atto sessuale, aprì inoltre un vero e proprio dibattito nell’opinione pubblica italiana, riguardo alla possibilità di concedere ai figli una maggiore intimità all’interno delle abitazioni familiari, evitando loro di dover ricorrere a luoghi isolati.

Un' indagine talmente complessa che ancora oggi, a distanza di 30 anni dall'ultimo omicidio, non è stata scritta la parola "fine”. La teoria del serial killer solitario, la pista sarda, l’ipotesi Pacciani, i compagni di merende, la teoria dei mandanti, il presunto collegamento con il caso Narducci. E poi testimonianze, smentite, ribaltamenti, morti correlate, colpi di scena, processi che in alcuni momenti hanno raggiunto toni perfino folcloristici. Abbiamo visto veramente di tutto.

Mario Spezi e Douglas Preston provano a fare un po’ di chiarezza, fornendo al lettore una personale ed accattivante versione dei fatti.
L'espediente letterario è semplice: il giornalista Spezi, che si è realmente occupato del caso all'epoca dei crimini, riceve all'inizio del romanzo la visita di una giovane regista che gli chiede di parlare del mostro di Firenze.
Il narratore espone con chiarezza e precisione la successione cronologica dei fatti, dal primo omicidio fino ai più recenti provvedimenti processuali.
Spezi e Preston puntano il dito contro la versione dei cosiddetti compagni di merende. Ovvero l’ipotesi, sostenuta dal capo della squadra mobile di Firenze Michele Giuttari, che Pacciani, Vanni e Lotti fossero gli esecutori materiali degli omicidi e che alle loro spalle si celasse una sorta di secondo livello di mandanti a carattere esoterico. Una teoria che ha portato all’incarcerazione di Vanni e Lotti, mentre Pacciani venne trovato morto alla vigilia del secondo processo d’appello. Una “verità” processuale che non hai mai convinto del tutto l’opinione pubblica, che comprensibilmente ha faticato ad immaginare personaggi tanto folcloristici e macchiettistici, per quanto negativi e capaci di compiere azioni orrende, nel ruolo di assassini seriali freddi e calcolatori. A fronte di qualche sparuto indizio, la sensazione è che le prove vere e proprie scarseggiassero, per usare un eufemismo.

I due autori forniscono quindi una loro differente soluzione del caso, in un romanzo-inchiesta particolareggiato, gradevole e di indubbio interesse, per quanto i fatti narrati abbiano una componente morbosa, torbida e perversa difficilmente dimenticabile.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    08 Gennaio, 2015
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Cercasi tranquille località turistiche

La scrittrice di biografie Erica Falck, residente a Stoccolma, torna nella casa di proprietà della propria famiglia a Fjallbacka, una tranquilla località turistica situata sulla costa svedese. In lutto per la recente morte dei propri genitori, è impegnata a risolvere una questione ereditaria legata all'abitazione.
Quella che doveva essere una fugace permanenza si trasforma in un incubo quando la scrittrice trova il corpo senza vita di Alexandra, la sua migliore amica durante gli anni dell’infanzia.
Il corpo della vittima, ritrovato nella propria abitazione con i polsi tagliati in una vasca da bagno piena di ghiaccio, fa pensare ad un suicidio.
Ma Erica non è convinta e decide di approfondire il caso con l’aiuto del poliziotto Patrick Hedstrom, anch'egli una sua vecchia conoscenza.

Il romanzo, vincitore di numerosi premi letterari svedesi e francesi dedicati al genere crime, è il primo della serie denominata “I delitti di Fjallbacka”.

L’ambientazione è fascinosa. Un piccolo ed esclusivo villaggio di pescatori, con i moli a separare le poche case presenti ed una vista unica sulla baia circostante. È inoltre una località realmente celebre, in quanto luogo dove viveva l’attrice Ingrid Bergman durante i suoi soggiorni in Svezia.
Per quanto riguarda invece la trama ed i personaggi, l'autrice si discosta dai toni grigi tipici di alcuni colleghi scandinavi e che solitamente contraddistinguono il genere.
Leggere questo romanzo mi ha fatto pensare ad alcune serie tv dove regna la commistione tra crimine, dramma e commedia. Troppi ingredienti? La vicenda poliziesca ha il sopravvento, ma al contempo le digressioni sulla vita sentimentale e personale dei protagonisti hanno uno spazio non marginale. Un aspetto che dona una tonalità rosa inconsueta. Auspicando che, qualora leggessi altri romanzi dell’autrice, la proporzione tra i due elementi resti a favore del genere thriller.

In conclusione, pur non disponendo di un intreccio particolarmente originale o di personaggi innovativi, “La principessa di ghiaccio” è un giallo gradevole e sufficientemente intrigante.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    02 Gennaio, 2015
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Il legal-thriller per eccellenza

Ho sempre provato una certa simpatia verso John Grisham. Forse perché nella mia libreria personale ho alcuni suoi romanzi, acquistati dai miei familiari tanto tempo fa e che oggi conservano quell’odore inconfondibile che tanto piace a noi lettori.
O forse perché mi piace la sua storia. Nato in Arkansas nel 1955 in una famiglia modesta, coltiva fin da giovanissimo una passione fortissima per la lettura. Su consiglio della madre si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Si laurea a 26 anni ed esercita la professione di avvocato per un decennio, fino a quando la predilezione per i libri prende definitivamente il sopravvento. Fa il suo esordio letterario a 33 anni con “Il momento di uccidere”. Un mezzo fiasco. Il secondo tentativo va a segno. “Il socio” è il settimo romanzo più venduto del 1991. Seguono “Il rapporto Pelican”, “Il cliente”, “L’uomo della pioggia”. Tutti successi commerciali, tanto che Grisham viene considerato il re del legal thriller e diventa l’autore più venduto degli anni ’90.

"Il Socio" resta una delle opere più famose dello scrittore americano, la cui fama sarà amplificata dalla buona trasposizione cinematografica con Tom Cruise e Gene Hackman.

Mitchell McDeere si laurea in Giurisprudenza ed in poco tempo trova impiego in uno studio legale pressoché sconosciuto della sonnolenta Memphis, ma capace di offrire uno stipendio altissimo per un giovane avvocato alla prima esperienza lavorativa.
La passione e l’ambizione di Mitchell vengono messe ben presto a dura prova quando il protagonista scopre i loschi affari che lo studio organizza con la mafia radicata a Chicago.
La situazione si complica quando l'FBI, a conoscenza dei traffici criminali, lo contatta per scoprire i segreti dei suoi superiori.

Tensione costantemente alta, intreccio coerente, buon controllo del ritmo, colpi di scena ben gestiti, personaggi credibili. “Il socio”, annoverato non a caso tra i migliori romanzi della lunga e redditizia carriera di Grisham, ha tutti i requisiti che deve possedere un ottimo legal thriller per essere definito tale.

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Romanzi
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    29 Dicembre, 2014
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Latino agile flessibile

Paul Morand, scrittore francese del XX secolo, affermava che "il caso non è mai una cattiva compagnia".
Una citazione calzante per il libro che sto per recensire. Perché io ho letto "Una barca nel bosco" assolutamente per caso. E non è stata certo una cattiva compagnia.

Liceo scientifico. Primo anno. La professoressa di italiano ha la brillante, e purtroppo rara, idea di far portare un romanzo a tutti gli alunni. Per farceli scambiare dando vita ad una sorta di “club del libro” che, a quanto ricordo, ebbe durata breve. Non ricordo il motivo per il quale ero assente il giorno dello scambio. Quando ritornai in classe, scambiai il mio libro con quello dell'unico compagno che era rimasto solo. È così, in modo assolutamente fortuito, che mi capitò tra le mani "Una barca nel bosco”.

Gaspare Torrente ha 14 anni, è nato in una piccola isola del Sud Italia ed ha una passione smisurata per il latino. La sua professoressa delle scuole medie, Madame Pilou, gli ha già insegnato tutto quello che c'è da sapere sui poeti latini e le loro traduzioni.
Gaspare non può sprecare il suo talento, così il padre pescatore decide di mandare la moglie ed il figlio dalla zia Elsa, residente a Torino, per permettergli di frequentare un rinomato liceo classico.
Ma a Torino il protagonista non troverà terreno fertile. Non segue la moda, anzi non sa proprio cosa sia, si scopre diverso dai suoi coetanei, e neanche i professori ed il loro mediamente svagato insegnamento rispettano le aspettative di Gaspare.
L'amicizia con Furio lo salverà parzialmente dalla solitudine, in mezzo ad una serie di cambiamenti, adattamenti ed esperienze formative che lo segneranno per sempre.

Questo è uno di quei romanzi in cui le sensazioni provate dal lettore sono maggiori della somma di singoli elementi quali stile, contenuto, piacevolezza.
È un libro che coinvolge, emoziona, riuscendo nell'intento di far riflettere senza rinunciare ad una buona dose di ironia.
Non mi sono identificato in Gaspare durante la lettura, non c'è niente nell'aspetto fisico e nel carattere che mi possa accomunare al protagonista.
Credo però che ognuno di noi si sia sentito, almeno una volta nella vita, come Gaspare. Inadeguato, fuori luogo, sprecato, isolato, impotente. Una vera e propria barca nel bosco.
Chi non si è mai trovato, specialmente negli anni dell’adolescenza, nella situazione di dover scegliere tra restare fedelmente se stesso o adeguarsi alla massa sacrificando la propria personalità?
È la storia di un’occasione mancata, di un talento sprecato in nome di una società o di un'istituzione, in questo caso la scuola, fortemente criticata dall’autrice (insegnante) perché accusata di premiare la mediocrità e l’omologazione anziché la meritocrazia. Per pigrizia, per abitudine, per scarso attaccamento ed interesse nel lavoro e nella conoscenza degli alunni. È sempre così? Certamente no. Ma non è così raro.

Un momento in particolare racchiude tutto lo spirito del libro.
Gaspare si prepara per l'interrogazione di francese. Studia tantissimo. È pronto a stupire professoressa e compagni. E quando l'insegnante gli chiede semplicemente "Commet tu t' appelles?", Gaspare non ha neanche la forza di rispondere, tale è la delusione. Resta in silenzio, lo stesso che accompagna gran parte delle sue giornate, chiuso nel retrobottega del negozio di alimentari della zia Elsa e della madre. In silenzio in attesa di scegliere chi essere.

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Classici
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    27 Dicembre, 2014
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Cedere alle tentazioni

"Il ritratto di Dorian Gray" è l'opera più famosa di Oscar Wilde.
Scrittore, saggista, giornalista, drammaturgo nonché poeta, questo estroso autore irlandese si configura come uno dei più famigerati della letteratura ottocentesca.
Il romanzo celebra il culto della bellezza, l'ideale dell'esistenza vissuta come se fosse un'opera d'arte, e rappresenta fedelmente le convinzioni di Wilde, fervente portavoce di ideologie decadentiste, anti-conformiste ed anti-vittoriane.

Il protagonista del testo, ambientato nella Londra del XIX secolo, è Dorian Gray, giovane aristocratico di straordinaria bellezza.
La narrazione inizia con Basil Hallward, pittore affascinato dalla fisicità di Dorian, intento ad ultimare il ritratto del giovane.
Ben presto entra in scena Lord Henry Wotton, personaggio indubbiamente carismatico ed affascinante.
A Lord Henry basta poco per catturare l'attenzione del protagonista. La sua visione cinica ed edonista della vita, gli aforismi pungenti e provocatori, conquistano Dorian, che ben presto si mostra incline al trascorrere una gioventù vissuta all'insegna della ricerca smodata del piacere, qualunque esso sia.
Una tendenza che lo porta a desiderare di restare eternamente giovane, proprio come nella rappresentazione del ritratto di Basil. Ed è così che Dorian stringe una sorta di patto con il demonio.
Il suo corpo non subirà mutamenti nonostante il trascorrere del tempo, mentre il ritratto mostrerà i segni della decadenza fisica, psicologica e morale del personaggio.
Parte consistente del fascino del romanzo è rappresentata dagli ammalianti e numerosi aforismi di Lord Henry, ancora oggi ampiamente citati nei contesti più vari.
L'importanza che Henry ricopre nella trama, la sua influenza sul protagonista, hanno portato molti critici letterari a considerarlo come il vero e proprio ago della bilancia della vicenda. Tanto che spesso si pensa che egli rappresenti, in forma letteraria, ciò che Oscar Wilde sia stato nella vita reale.
A tal proposito è curiosa un’affermazione dell’autore, citata nella splendida introduzione, il quale affermò che tutti pensavano che fosse come Lord Henry, mentre in realtà avrebbe voluto vivere come Dorian (in altri tempi, specifica), anche se il personaggio al quale probabilmente si avvicinava di più era Basil.

“Il ritratto di Dorian Gray” è un testo leggendario, simbolo di un autore istrionico, discusso e capace di far notizia per tutto. Opere, pensieri, condotta di vita, relazioni, abbigliamento. Non stupisce, in tal senso, la prigionia che dovette sopportare nella benpensante e moralista società vittoriana.

“Non esistono libri morali o immorali, come la maggioranza crede. I libri sono scritti bene, o scritti male. Questo è tutto”.
“Io credo che se un uomo dovesse vivere la vita pienamente e completamente, desse forma a ogni sentimento, espressione a ogni pensiero, realtà a ogni sogno, credo che il mondo si rinsanguerebbe di un così puro fiotto di gioia, che dimenticheremmo tutte le malattie. Ogni impulso che tentiamo di soffocare, germoglia nella mente, e ci intossica. Il corpo pecca una volta, ed il peccato è finito, perché l'azione è un modo di purificazione. Non rimane che il ricordo del piacere, o la voluttà di un rimpianto. L’unico modo di liberarsi da una tentazione è di abbandonarsi ad essa. Resistete, e vedrete la vostra anima intristire nel desiderio di ciò che s'è inibito, di ciò che le sue leggi mostruose hanno reso mostruoso e illegale. Dicono che i grandi eventi dell'umanità si svolgono nello spirito. Ed è nello spirito, solo nello spirito, che si commettono i grandi peccati dell'umanità”.
“La ricerca della bellezza è l’unico vero scopo della vita”.
“La personalità, non i princìpi ideali, dominano le epoche”.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    27 Dicembre, 2014
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"Come fuoco, esattamente come fuoco"

Ultimamente è ormai impossibile aprire un thriller scandinavo qualsiasi senza trovare, tra i brevi commenti di scrittori o giornalisti, un riferimento, inteso come termine di paragone, a Stieg Larsson. Questo per sottolineare lo slancio che il compianto autore della celebre trilogia "Millennium" ha dato al sempre più crescente proliferare di gialli ambientati nel freddo e, forse perché lontano, affascinante nord Europa.
Spesso si tratta di un confronto del tutto ingeneroso nei confronti di Larsson, che a mio avviso è il miglior talento che la penisola scandinava abbia prodotto in termini di autori di thriller, gialli, noir.
Anche se, ad onor del vero, credo che lo scrittore appena citato non sia l’unico autore meritevole della fama acquisita. Penso a Jo Nesbo, altro maestro. E secondariamente a Henning Mankell, Camilla Lackberg, Arnaldur Indridason, Jussi Adler Olsen.
A questi nomi più o meno noti si sono recentemente aggiunti i romanzi di Lars Kepler, curioso pseudonimo di Alexander Ahndoril ed Alexandra Coelho, marito e moglie che nel 2009 hanno deciso di cavalcare l'onda del successo di molti compatrioti e di sospendere le loro carriere individuali per scrivere romanzi a quattro mani.
"L' Ipnotista", il primo romanzo della serie, è diventato in breve tempo un best seller tanto da aver guadagnato, nel 2013, il privilegio di vederne realizzata una versione cinematografica.

Nello spogliatoio di un campo di calcio viene ritrovato un cadavere. Nell’abitazione del malcapitato, la stessa sorte è toccata alla moglie e alla figlia minore.
L'unico sopravvissuto della famiglia è Josef, sedicenne ricoverato in ospedale in evidente stato di shock ed incapace di comunicare con il mondo esterno.
Joona Linna, investigatore di origini finlandesi della polizia criminale di Stoccolma, indaga sul caso e decide di interpellare Erik Maria Bark, uno psicoterapeuta abile nella tecnica dell'ipnosi.

Il romanzo è caratterizzato da una narrazione di stampo fortemente cinematografico. Linguaggio essenziale, capitoli brevi, colpi di scena a ripetizione, ampio uso dell’espediente del cliffhanger.
Come ogni thriller scandinavo che si rispetti, anche in questo caso uno dei punti forti è rappresentato dal riuscito contrasto tra l'atmosfera ovattata ed apparentemente tranquilla del paesaggio e la spirale di paura e violenza che cresce con l'aumentare delle pagine.
Ma se da un lato ambientazione e, in parte, intreccio riescono nell'intento di creare una sufficiente dose di curiosità nel lettore, dall'altro ho ravvisato una caratterizzazione dei personaggi poco approfondita, qualche colpo di scena forzato, una lunghezza del libro sicuramente esagerata ed una tendenza al ricorrere a scene eccessivamente hot, il cui impiego puntuale in certi tipi di thriller è un aspetto che non capirò mai.

Ho notato che anche la seconda opera di Lars Kepler, "L' Esecutore", ha ricevuto pareri discordanti.
Sempre in base alle recensioni, la serie sembra aver trovato la sua definitiva consacrazione, in termini di giudizio dei lettori, a partire dal terzo romanzo. Motivo per cui, pur giudicando “L’ipnotista” un titolo poco più che sufficiente, potrei decidere di dare altre possibilità ai due coniugi svedesi.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    20 Dicembre, 2014
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Chi ha paura dell'uomo nero?

"La Psichiatra" è l'opera d'esordio di Wulf Dorn, autore tedesco classe 1969 specializzato nella stesura di thriller psicologici e cimentatosi in questo genere dopo aver scritto numerosi racconti horror.
Il feeling che Dorn sembra avere nei confronti di certe tematiche ed ambientazioni dipende probabilmente dal fatto che abbia lavorato per molti anni come logopedista per la riabilitazione del linguaggio in pazienti psichiatrici.

La protagonista del romanzo è Ellen Roth, una giovane psichiatra. Il suo fidanzato e collega Chris è partito per un lungo viaggio verso una sperduta isola australiana, in compagnia di un amico. Ellen ha il compito di occuparsi di una nuova paziente, appena arrivata all’ospedale psichiatrico.
Visitandola, si accorge subito che la donna ha subìto evidenti maltrattamenti fisici e psicologici.
Quando la protagonista chiede chi sia l'artefice di questi danni, la donna risponde "l'Uomo Nero".
Ellen decide di parlare del caso con il collega ed amico Mark. Ma quando tornano insieme nella camera della paziente, scoprono che è vuota. Ed Ellen sembra essere l'unica persona in tutto l’ospedale ad averla vista.

Lo stile dell’autore è rapido, essenziale, funzionale al genere. La profondità della caratterizzazione dei personaggi, sebbene non colpisca in quanto ad originalità, è in linea con la media dei thriller moderni e la buona gestione del ritmo narrativo rende l’intreccio scorrevole.
Peccato che io abbia intuito il finale della storia ben prima che l'autore decidesse di svelarlo. Evidentemente non era impresa tanto ardua.

Reputo eccessivo lo status di “caso editoriale” di cui ha goduto il libro, attribuitogli fin dalla data di pubblicazione. “La psichiatra” è ad ogni modo un buon thriller psicologico. Da affiancare, come spesso accade per questo tipo di letture, a testi di ben altra caratura.

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Arte e Spettacolo
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    20 Dicembre, 2014
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Il mio "malin...comico" preferito

Carlo Verdone, insieme al mitico trio di Aldo, Giovanni e Giacomo, è il mio comico preferito.
Attento osservatore della realtà che ci circonda, fin dall’esordio del 1980 con “Un sacco bello” ho sempre apprezzato la bravura con cui riesce a coniugare umorismo ed un pizzico di malinconia.
Quando in libreria mi sono trovato davanti alla sua autobiografia, di cui francamente ignoravo l’esistenza, non ho potuto resistere.

"La casa sopra i portici" non è altro che il luogo, situato in Via Lungotevere dei Vallati a Roma, dove Verdone ha trascorso la propria infanzia e la successiva gioventù, fino a quando l'abitazione è tornata di proprietà del Vicariato della Santa Sede.
Fin dai primi capitoli è evidente l'amore che lega l’autore a quella casa che è stata non soltanto la dimora della propria famiglia, ma anche luogo di ritrovo per famosi attori e registi.
Il padre di Carlo, Mario, era infatti uno stimato critico cinematografico.
Ed è così che il giovane Verdone ha avuto l'occasione di frequentare sin da piccolo celebrità del calibro di Pier Paolo Pasolini, Cesare Zavattini, Federico Fellini, Vittorio De Sica, Franco Zeffirelli, Alberto Sordi e tanti altri.
Ma il libro non è soltanto una carrellata di incontri ed aneddoti, alcuni dei quali veramente divertenti.
"La casa sopra i portici" è soprattutto un romanzo intimo, malinconico, una testimonianza di affetto di Verdone nei confronti della propria famiglia, un viaggio dolce nella memoria di quei tempi meravigliosi.
La madre Rossana, il padre, il fratello Luca e la sorella Silvia, futura sposa di Christian De Sica. Nella narrazione c'è spazio per ognuno di loro.
Familiari, domestiche, amici, fidanzate, sono i protagonisti di un testo che è anche ritratto nostalgico della turbolenta società italiana di quegli anni, dal miracolo economico degli anni ’50-’60 ai roboanti ’70.

Lo stile ed il lessico non sono ovviamente dei più ricercati, ma questo aspetto interessa relativamente. “La casa sopra i portici", soprattutto per i fan del comico romano, è un’autobiografia che ha nelle emozioni e nella curiosità verso la storia del personaggio i suoi punti di forza.

"Mancava un'ora circa all' arrivo dell'incaricato del Vaticano. Avevo deciso di realizzare una ripresa alla casa così com'era in quel momento, spoglia e buia. Poi ci avrei fatto un montaggio con una canzone di Jimi Hendrix. Azionai la telecamera. Lo studio di mio padre, la libreria, la scrivania. Le camere di Silvia e Luca. Ero consapevole che le immagini fossero traballanti, ma dovevo fermare il tempo. La sala da pranzo, il tavolo, le discussioni, mille volti, mille voci, la mia camera, la gente, le risate, la musica. Mi lanciai sul terrazzo concludendo la ripresa in modo liberatorio sul quel panorama unico. Ne ero sicuro, avevo girato un gran bel film. Dolce e doloroso. Il film della mia vita ".

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    17 Dicembre, 2014
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Non ci sono delitti in paradiso

“Bambino 44”, opera d’esordio dello scrittore londinese Tom Rob Smith, è il primo capitolo di una trilogia che sfortunatamente, nei successivi due episodi, non ha saputo mantenere le aspettative generate da questo eccellente debutto.

1933. Nella Russia stretta nella morsa di Stalin, due bambini escono di casa per dare la caccia ad un gatto. Sono disposti a tutto pur di procurarsi un po’ di cibo. Uno dei due non tornerà mai più a casa.
1953. Muore Stalin. C’è un clima pesante, di cultura del sospetto, di continua caccia all’uomo per cercare di scovare traditori ed oppositori del regime.
Leo Demidov è un rispettato ufficiale dell'MGB, la polizia segreta sovietica. Fedele servo del sistema, ligio alle regole, abituato a lavorare nel rispetto dei dogmi staliniani ereditati.
Il crimine in Russia non esiste, semplicemente perché non ci sono casi irrisolti. Sarebbero impurità, imperfezioni. “Non ci sono delitti in paradiso”. In qualsiasi circostanza, l'importante è chiudere velocemente il caso. Tanto che in mancanza di un presunto colpevole, la Polizia arriva spesso ad incolpare emarginati, reietti o persone scomode.
Fino a quando nella vita di Leo accade l’impensabile. Il figlio di un suo collega viene trovato morto, con la famiglia convinta che si tratti di un omicidio. E Raisa, la sua bellissima moglie, viene accusata di essere una spia. Chi sono i colpevoli? Cos’è davvero il paradiso?
Nella testa di Leo si insinua il dubbio, che porterà il personaggio alla scoperta di un nuovo se stesso.

"Bambino 44" è un thriller potente, capace di coniugare finzione e ricostruzione storica, attingendo anche dalla cronaca nera come nel caso del tristemente noto mostro di Rostov.
Il romanzo è pervaso da una sensazione di paura, di costante terrore psicologico, come se i protagonisti si muovessero su una lastra di ghiaccio senza alcun margine di errore.
Ottima la scelta del ritmo della narrazione, così come eccellente è la caratterizzazione dei personaggi, sia principali che secondari.

Il regista Daniel Espinosa girerà un adattamento cinematografico (prodotto da Ridley Scott e rigorosamente bandito in Russia), con un cast di assoluto livello (Tom Hardy, Noomi Rapace, Gary Oldman, Jason Clarke, Vincent Cassel) ed un corposo budget da 44 milioni di dollari.

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Storia e biografie
 
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    14 Dicembre, 2014
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"Apro gli occhi e non so dove sono e chi sono"

Da appassionato di tennis quale sono da ormai un decennio, non potevo lasciarmi sfuggire la biografia di uno dei tennisti più forti di tutti i tempi. Numero 1 del circuito Atp per 101 settimane e vincitore di 60 titoli, tra cui 7 tornei del Grande Slam, oltre all’oro olimpico nel 1996 ad Atlanta. Un’occasione per conoscere meglio la storia di una carriera stellare.
E per approfondire quanto accaduto in ambito tennistico dalla fine degli anni ’80 ai primi anni 2000, un’epoca importante che ha visto succedersi atleti del calibro di Lendl, Edberg, Becker, Agassi, Sampras, fino a Federer.
Mi aspettavo una biografia tradizionale, incentrata come di consueto sull'amore e sulla dedizione assoluta ed incondizionata verso il proprio sport. Non pensavo che "Open" potesse essere così profondo ed emozionante.

Non è, o almeno non soltanto, la storia di un campione. È la storia di una vita, di un uomo che per la prima volta dopo anni di tormenti interiori ha trovato il coraggio di dire: "Io odio il tennis. L’ho sempre odiato con tutto il cuore. Eppure ho continuato a palleggiare ogni mattina e ogni pomeriggio della mia carriera perché non avevo scelta, non sapevo fare altro".
Emerge una figura per certi versi opposta all’immagine di rockstar del tennis, di idolo dei teenager. Chi poteva immaginare che dietro l'icona da sfacciato ribelle che lo ha contraddistinto, soprattutto nei primi anni della carriera, si celassero tante fragilità?

Il libro inizia con il racconto dell'ultimo match della carriera. US Open 2006. Terzo turno. Il vecchio campione è ormai usurato, in preda a fastidiosi dolori fisici e costretto a ricorrere a costanti infiltrazioni di cortisone, ma fino all’ultimo punto è in grado di mandare in estasi il proprio pubblico.
Poi il romanzo prosegue in ordine cronologico, iniziando dai primi anni di vita di Andre. Emerge la complessa figura del padre, ex pugile iraniano naturalizzato statunitense, deciso a farlo allenare duramente tutti i giorni per permettergli di diventare “un numero 1”.
“Open” è la storia di una leggenda che se in superficie sembra aver ottenuto tutto quello che ogni uomo potrebbe desiderare tra soldi, premi, popolarità, vita sentimentale (la moglie, Steffi Graf, è probabilmente la migliore tennista di sempre), in alcune circostanze arriva a maledirsi per tutto quel talento posseduto.
Una continua lotta. Da una parte l'odio verso il tennis e verso se stesso. Dall’altra l'orgoglio, la volontà di non soccombere di fronte all’avversario e ai propri demoni. Per 20 lunghi anni.
Le tante vittorie, le brucianti sconfitte. Perché una sconfitta resta addosso molto più di una vittoria.
È uno sport solitario, il tennis, dannatamente psicologico. Lo “sport del diavolo”, come spesso viene definito.

In mezzo a tante fragilità, Agassi ha avuto la fortuna di essere circondato da persone come Gil Reyes, storico preparatore atletico ed amico, colonna portante nella carriera dell’atleta. Tanto che uno dei figli della coppia Agassi-Graf si chiama Jaden Gil, in suo onore.

E proprio Gil, di fronte ad un giovane Agassi, pronuncia un discorso che rappresenta uno dei momenti più intensi della biografia. Un discorso che Agassi ricorda ancora parola per parola, nonostante siano passati decenni.

"Non proverò a cambiarti, non ho mai provato a cambiare nessuno. Se fossi stato capace di cambiare qualcuno avrei cambiato me stesso.
Ma so che posso darti la struttura e il progetto per ottenere quello che vuoi. C' è differenza tra un cavallo da tiro e uno da corsa. Non li tratti allo stesso modo. Si parla tanto di uguaglianza ma non sono sicuro che uguale voglia dire allo stesso modo. Tu sei un cavallo da corsa e ti tratterò di conseguenza. Sarò severo ma giusto. Ti guiderò senza spingerti. Ci siamo ragazzo, ci siamo. Puoi contare su di me. Da qualche parte lassù c' è una stella con il tuo nome. Forse non sarò capace di trovarla, ma le mie spalle sono forti e puoi salirci sopra mentre la cerchi. Sali sulle mie spalle e allunga la mano, ragazzo. Allungala".

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    14 Dicembre, 2014
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L'importanza di saper cadere

"La verità sul caso Harry Quebert" è un romanzo dell’autore svizzero Joel Dicker, classe 1985 e nativo di Ginevra, che con questo interessante giallo deduttivo ha spopolato in Francia vincendo nel 2012 il prestigioso premio "Grand Prix du roman", prima di divenire un vero e proprio caso editoriale in tutto il continente europeo e non solo.

Il giovane scrittore Marcus Goldman, dopo essere stato sulla cresta dell'onda per il clamoroso successo ottenuto con il suo primo romanzo, attraversa una fase di scarsa vena creativa. Il classico tormento della pagina bianca.
Ossessionato dalle pressioni della casa editrice con scadenze sempre più imminenti, decide di provare a sbloccare la situazione rivolgendosi al suo ex professore universitario e maestro di vita Harry Quebert.
Il saggio insegnante, anch'egli scrittore e celebre per il testo "Le origini del male", invita Marcus ad allontanarsi dalla frenetica New York per trasferirsi nella propria residenza ad Aurora, nel New Hampshire. I diner, la villa in riva al mare, i gabbiani, l’atmosfera familiare. Tutto sembra procedere tranquillamente, fino a quando nel giardino della casa di Harry viene ritrovato il cadavere di Nola Kellergan, scomparsa 33 anni prima nel lontano 1975 all’età di 15 anni.

La storia alterna, attraverso numerosi flashback, il 2008 ed il 1975. Curioso il fatto che la numerazione dei capitoli sia in ordine decrescente e che all'inizio di ognuno sia riportato un consiglio dato da Harry a Marcus per diventare un bravo scrittore.

Infatti il libro, oltre alla vicenda poliziesca, mostra soprattutto una storia di amicizia tra un giovane uomo ed il proprio mentore. Il rapporto tra i due protagonisti è uno dei punti di forza del romanzo. Un legame sincero, duraturo nonostante la differenza di età e nato in circostanze spassose. Chi ha letto il libro ricorderà il frangente goliardico in cui Marcus, alzandosi in piedi in classe, ha modo di farsi conoscere dal proprio insegnate.

Numerosi sono i personaggi che ruotano attorno alla coppia appena citata. Forse troppi. La stessa cittadina di Aurora, assopita ma allo stesso tempo teatro di feroci pettegolezzi, può essere considerata un personaggio extra. Così come eccessiva è la quantità di tematiche affrontate. Un famoso chef di un noto programma televisivo culinario direbbe che, in alcuni punti, si sfiora il “mappazzone”.

Piccoli difetti che non pesano particolarmente sul giudizio del romanzo, un ottimo giallo intrigante ed avvincente, ideale da alternare a letture di altro spessore che richiedono un maggiore grado di impegno.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    13 Dicembre, 2014
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"Lui è già un passo avanti"

"Il Suggeritore", opera prima dello scrittore pugliese Donato Carrisi, è un romanzo poliziesco pubblicato nel 2009 e vincitore del Premio Bancarella.

Cinque braccia sono state ritrovate in un bosco. Ed altrettanto bambine risultano scomparse. Sulla loro sparizione indaga una squadra speciale di investigatori, guidati dall'esperto criminologo Goran Vila.
Quando compare il sesto braccio, il sospetto di trovarsi di fronte ad un efferato serial killer diventa una certezza. In un secondo momento si unisce alle indagini Mila Vasquez, specializzata nel ritrovamento di persone scomparse.

Ciò che colpisce, fin da subito, è che la storia sia ambientata in un luogo non definito. Una scelta che potrebbe apparire come un punto a sfavore del romanzo, connotandolo di impersonalità o come tentativo di donare al testo un respiro internazionale. A mio avviso si tratta soprattutto di uno stratagemma sapientemente utilizzato dall’autore per suggerire al lettore che il male sia ovunque e che alberghi più o meno segretamente in ognuno di noi. Come se bastasse un singolo avvenimento per scatenare i nostri peggiori istinti animali.

La caratterizzazione dei personaggi è ottima, frutto della specializzazione in criminologia e scienze del comportamento conseguita dall’autore.
Nel suo genere “Il suggeritore” è senza ombra di dubbio un prodotto eccellente. Ha tutte le caratteristiche che un thriller moderno dovrebbe possedere: ritmo magnetico degno del miglior Jeffery Deaver (autore non a caso molto apprezzato da Carrisi), colpi di scena, rapidi cambi di prospettiva, protagonisti ben congegnati, capacità di incutere timore nel lettore.

Non stupisce quindi il vasto e meritato successo, sia di critica che di pubblico, avuto dal romanzo.
Così come non mi stupirei se in futuro Carrisi, di professione sceneggiatore oltre che scrittore, decidesse di trarne una versione cinematografica.

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Vita93 Opinione inserita da Vita93    13 Dicembre, 2014
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In cosa sei bravo? A rintracciare le persone

Roger Brown è un cacciatore di teste al servizio delle grandi aziende. Si autodefinisce il migliore di Oslo. Il più scaltro. Il suo metodo di selezione, composto da ben 9 fasi come nelle procedure degli interrogatori della polizia, è una vera e propria tortura per i candidati.

È sicuro di sé, arrogante e amante della bella vita. Tutte caratteristiche secondo lui necessarie per sopperire ad una statura di 168 cm, in un paese come la Norvegia in cui l'altezza media maschile, di 15 cm superiore, è tra le maggiori di tutto il continente.
Ha una bella casa e una moglie affascinante, proprietaria di una galleria d’arte. Ma non si accontenta, vuole sempre di più per soddisfare un tenore di vita al di sopra delle proprie possibilità a cui ha ormai abituato la propria compagna e se stesso. Sprezzante del pericolo ed in totale delirio di onnipotenza arriva a pensare, con la complicità di un amico a capo della security di un’agenzia di sicurezza, che i furti di opere d'arte siano la soluzione a tutti i suoi problemi economici.

Quando incontra Clas Greve, ex amministratore delegato di un’importante azienda, Roger intuisce subito che potrebbe essere un candidato perfetto da proporre ad una società per cui sta lavorando. E non è l’unica motivazione per cui vuole conoscerlo meglio. Clas afferma infatti di essere il proprietario di uno splendido e prestigioso quadro di Rubens, pittore fiammingo.

Lo scrittore norvegese Jo Nesbo è celebre principalmente per la serie di romanzi polizieschi aventi per protagonista il detective Harry Hole. Una figura carismatica, uno dei migliori personaggi della letteratura thriller dell’ultimo ventennio.

"Il cacciatore di teste" non si attesta sui livelli del miglior Nesbo. Nel suo genere si tratta ad ogni modo di una lettura godibile, con una trama solida, non priva di apprezzabili colpi di scena e talvolta perfino cupamente ironica.

La versione cinematografica del romanzo, dal titolo “Headhunters” e diretta dal regista Morten Tyldum (da segnalare, tra i suoi principali lavori, “The Imitation Game”) è stata inoltre un successo sia di critica che di pubblico, tanto da essere il film norvegese di maggior incasso di tutti i tempi.

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A chi piacciono i noir e a chi è curioso di leggere un romanzo di Jo Nesbo senza Harry Hole.
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Vita93 Opinione inserita da Vita93    12 Dicembre, 2014
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Perché non ci fidiamo del nostro istinto?

"Uomini che odiano le donne" è il primo romanzo della celebre trilogia Millennium, pubblicata successivamente alla precoce scomparsa dell'autore svedese Stieg Larsson, avvenuta nel 2004 a soli 50 anni.
Questo romanzo ha rappresentato per me una svolta significativa nel mio altalenante (fino ad allora) rapporto con la letteratura.
Dopo aver letto qualsiasi cosa mi capitasse tra le mani durante l'infanzia e la prima adolescenza, negli ultimi anni del liceo mi sono inspiegabilmente allontanato dal magico mondo dei libri.
Fino a quando poco tempo fa, durante un'agognata pausa tra una lezione universitaria e l'altra, sono entrato quasi per caso, oserei dire in punta di piedi, in libreria.
Distrattamente, basandomi soltanto sull'enorme fama che aveva acquisito il testo (complice anche l'ottima trasposizione cinematografica targata David Fincher, con Daniel Craig e Rooney Mara), ho deciso di acquistarlo. Fiducioso che "una storia che vi terrà svegli fino all'alba", come recitava la copertina eccessivamente furba ed ammiccante, potesse risvegliarmi dal torpore letterario in cui navigavo.

La trama è a dir poco nota. Mikael Blomkvist, giornalista economico e direttore responsabile nonché fondatore del mensile d'inchiesta "Millennium", viene contattato da Henrik Vanger, anziano e potente industriale svedese. Henrik propone a Mikael di indagare sul caso della scomparsa della nipote prediletta, Harriet, avvenuta nel lontano 1966. Un mistero mai risolto. Sospetta che il colpevole sia da ricercare all'interno della cerchia familiare. “Si troverà ad indagare su ladri, avari, prepotenti. La più detestabile collezione di individui che lei abbia mai conosciuto: la mia famiglia”. Una sorta di enigma della camera chiusa.
Nel corso dell'indagine, il giornalista viene affiancato da Lisbeth Salander, abilissima hacker e ricercatrice dalla personalità tanto complessa e tormentata quanto magnetica.

Nel suo genere, considero "Uomini che odiano le donne" un vero e proprio gioiello. Un raro caso di bestseller di indubbia qualità letteraria.
La storia è affascinante, suggestiva, arricchita da una prosa avvolgente e capace di mantenere alta la tensione per ben 676 pagine. E con personaggi di notevole spessore e carisma.
In qualità di esperto conoscitore di organizzazioni neonaziste e da sempre in prima linea nella lotta per la difesa della libertà di parola e contro il razzismo (si noti, a tal proposito, la linea editoriale perseguita nella rivista trimestrale fondata da Larsson, Expo), l’autore avrebbe voluto creare una serie di dieci romanzi volti a mettere in luce i lati oscuri di una società, quella svedese, soltanto apparentemente perfetta. Approfondendo, in questo primo episodio, il tema della violenza sulle donne. Ecco quindi spiegata la tendenza ad iniziare ogni capitolo con alcune brevi statistiche riguardanti questa problematica. Come per ricordare al lettore che la trama è frutto della fantasia di Larsson, ma che la realtà sa essere altrettanto crudele.
Considerata la qualità dell'esordio e, presumo, dei successivi due romanzi, è un vero peccato che questo versatile autore non abbia avuto il tempo per completare il suo lodevole progetto.

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