Opinione scritta da siti

506 risultati - visualizzati 101 - 150 « 1 2 3 4 5 6 ... 7 11 »
 
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    21 Settembre, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

INDIPENDETZIA

Eleonora D’Arborea, personaggio storico della seconda metà del XIV secolo, è molto famosa anche se la sua storia personale è poco documentata. A lei è riconosciuto il merito di aver firmato la Carta de Logu, un codice di leggi rimasto vigore in Sardegna fino al 1827 - in realtà il primo nucleo fu dovuto alla mente del suo illuminato padre Mariano – e di aver proseguito nell’opera compiuta dai suoi predecessori: preservare l’autonomia del giudicato di Arborea evitando un servaggio che una concessione di papa Bonifacio VIII, fatta nel 1297 a re don Giacomo d’Aragona e consistente nel dono della Sardegna come feudo in cambio della Sicilia, avvallava . Come se la Sardegna non si fosse resa autonoma, terminata la dominazione bizantina (827) autogovernandosi con quattro principati autonomi retti da famiglie imparentate tra di loro , i giudicati appunto; come se Arborea, governato dalla famiglia De Serra, visconti di Bas, non fosse uno di questi. Fu sotto questi giudici che la Sardegna visse i suoi primi aneliti di libertà e di autonomia, unendosi e percependosi come unico popolo.

Il lavoro della nota scrittrice sarda, Bianca Pitzorno, ascrivibile secondo la stessa, alla categoria di “racconto biografico”, non è immune dalle difficoltà dettate dalla scarsità di fonti documentarie, e pur essendo nato alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso, ha necessitato di ulteriori aggiornamenti grazie al rinvenimento di ulteriori documenti che hanno impreziosito il ritratto della giudicessa rinnovando lo scopo primario del lavoro stesso: sfrondare la figura storica da una sorta di aura romantica dovuta a pure tensioni di stampo risorgimentale che generarono addirittura dei documenti falsi, le famose Carte d’Arborea, in assenza totale dei documenti dell’archivio della Reggia di Oristano, andati perduti durante un incendio.

Insomma Eleonora fu davvero una principessa guerriera, una madre affettuosa, una sposa fedele, e ancora fu una cristiana devota, una dotta legislatrice, una avveduta massaia? Certo è che tutta la sua giovinezza rimane in ombra e che ogni studioso che scrive dei suoi primi anni di vita si affida soprattutto alla ricostruzione romanzata. Tanti sono i nodi ancora da sciogliere: il presunto sfregio nel viso, le ragioni del matrimonio tardivo a un Doria, la fedeltà allo stesso durante la sua prigionia per mano aragonese, la vera identità del secondo figlio … Rimane certo però quanto attestato dalle carte aragonesi: il giudicato interveniva a pieno titolo nella vita politica dei territori affacciati sul Mediterraneo, la giudicessa firmava gli atti, compresa quella pesante pace del 1388 che siglò la fine delle ostilità con gli aragonesi in cambio della libertà del marito e che le costò la cessione di gran parte dei territori che il padre Mariano aveva sottratto al nemico storico.

Il lavoro della Pitzorno ha il pregio dunque di unire il rigore del saggio storico alla piacevolezza della narrazione, appassionando il lettore alla figura di una donna protagonista della storia ma avvolta tuttora da un’aura di mistero.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
120
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    13 Settembre, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Genio e sregolatezza

“Pàffete! Ho rovesciato il bicchiere!
E tutto ciò che non vedeva l’ora di riversarsi ,
Tutto il sale dagli occhi, tutto il sangue dalle ferite,
Dalla tovaglia sulle assi del pavimento.
E niente bara! Niente separazione!
La tavola è sciolta dal suo incantesimo, la casa
destata,
Come la morte a un pranzo di nozze,
Io sono la vita, venuta a cena.

Sono le ultime righe dell’ultima poesia scritta da Marina Cvetaeva, la sfortunata poetessa morta suicida, versi che Youri Egorov conosceva a memoria come tantissimi altri di sfortunati connazionali. Versi che suggellano alla perfezione la breve parabola di vita vissuta da questo artista, genio e sregolatezza, versi che tornano prepotenti alla memoria, appena terminata la lettura della sua biografia romanzata dedicatagli da uno dei suoi più cari amici, lo scrittore Jan Brokken.

È il caso ad avvicinarlo al giovanissimo esule russo nel 1980, sono vicini di casa ad Amsterdam, lo sente esercitarsi al pianoforte quotidianamente ma non sa che è un astro nascente, un nome che si imprimerà nella memoria di tanti sulla scia di quelli dei più noti pianisti che lo hanno preceduto. In seguito alla sua prematura morte, l’amico, raccolta un’eredità di appena dodici fogli strappati da un taccuino, contenenti la memoria sotto forma di diario, della primavera del 1976, quella della sua fuga dall’URSS, decide di dedicargli un intero romanzo, memore dell’insegnamento più prezioso che l’amico gli ha lasciato: osannare la vita con il proprio talento evitando di sprecarla in attività poco edificanti, a volte travianti e latrici perfino di sventura mortale. L’esatto opposto di quanto abbia in realtà fatto lo stesso Egorov. A nulla valgono, alla fine della sua vita, le tenere parole di un amico, a cercare di convincerlo che la sua condotta di vita non è da condannare ma da accettare come riflesso della sua complessa identità.


Una lettura completa, ricca, stimolante, ha il dono di avvicinarci alla figura di Youri Egorov, di seguire la sua triste vicenda biografica di essere umano, di godere del palco di un grande artista, di calarci nella fatica del concertista oltre che dell’uomo, di entrare dentro l’universo musicale tra infinite partiture tutte doviziosamente citate da Brokken , esperto conoscitore della musica classica. A ciò si aggiunga la possibilità di acquisire un fermo immagine su un’epoca storica neppure così lontana, dagli ultimi anni della guerra fredda al crollo del muro di Berlino, un viaggio nel piano degli intensissimi anni ’80 preludio dionisiaco al cupo sentore di morte degli anni ’90, quelli dell’AIDS. Una testimonianza di prima mano che un lettore amante delle biografie ma anche estimatore della scrittura fluida, netta e sincera di Brokken, il cui taglio giornalistico e documentaristico non è per niente inficiato dal coinvolgimento personale, non potrà perdersi.

Non ho raccontato chi è stato Youri Egorov? A voi scoprirlo con infinito piacere.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    07 Settembre, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Come una venatura preziosa

Terza pubblicazione per l’ormai consolidato autore sardo che, dopo aver esordito con “Carta, forbice, sasso. Memorie senza raccordo”(2016) e aver guadagnato un posto presso la casa editrice isolana ”Il Maestrale” pubblicando “A tie solu bramu”(2018) , conferma la sua collaborazione con il massimo rappresentante editoriale in terra sarda ma soprattutto le sue innegabili capacità di scrittura. Che Giulio Neri sia un buon scrittore, eclettico, versatile, colto, è indubbio, come lo è il fatto che la sua scrittura sia immediatamente riconoscibile, attraversata com’è da motivi ricorrenti, eppure questo scritto compie un balzo avanti rispetto ai precedenti. Totalmente o quasi sgravato da sovrastrutture narrative complesse - cronologie a ritroso, compresenza di piani narrativi multipli, pluralità di voci narranti, registri stilistici vari, ricorso a molteplici tipologie di scrittura: diario, memoriale, scambio epistolare - il romanzo si presenta asciutto, lineare e perfino brioso, attraversato da un’ilarità che copre la vasta gamma capace di suscitare un sorriso per condurre alla risata, passando dal rispecchiamento in una realtà regionale, ma ancora meglio gravitante tra Cagliari e Vallermosa, virando verso il riso amaro che solo una vena grottesca azzeccata può suscitare.
Tutto ruota intorno al personaggio di Carmelo Hayez, un ventinovenne fallito e in piena deriva esistenziale, sull’orlo di un delirio che lo conduce a proteggersi con una maschera antismog, convinto che la sua Cagliari sia appestata. Un uomo in embrione, un ragazzotto ingabbiato, un indolente capace di mettersi in fila accanto a Zeno, un voyeur che trascina una relazione con una donna matura che lo sfrutta e dalla quale tutti i suoi cari cercano di allontanarlo mentre nutre simpatie sessuali per sua cugina. Il sesso infatti è il suo più grande cruccio, lo specchio del suo fallimento, del suo essere inconcludente. Ha un’unica fortuna il nostro caro antieroe, è ben voluto da tanti e pur tra molteplici traversie, comprese quelle che un’ampia ellissi accenna soltanto, compirà il suo percorso di crescita e di rieducazione soprattutto sentimentale. Un romanzo che ha la capacità di raccontare l’universo emotivo maschile, di rappresentare i moti dell’animo quando questo è squassato e basterebbe solo un braccio per scendere il nostro milione di scale.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    18 Agosto, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Libertà

Caso ha voluto che leggessi questo romanzo in un periodo in cui mi ero finalmente approcciata all’ascolto di “Oblomov” attraverso le teche del programma radiofonico della RAI Ad alta voce - ascolto poi interrotto a causa della discontinuità che mi caratterizza quando a prevalere sono le vacanze, rigorosamente accompagnate da scarsissima dotazione tecnologica - per cui la lettura dello splendido e fuorviante incipit di Pnin subito mi ha fatto pensare all’oblomovismo e al suo creatore. La scrittura di Nabokov ha immediatamente richiamato alla mia mente la Russia, i suoi grandi scrittori, l’intera tradizione culturale, soprattutto letteraria, illudendomi di trovarmi in un solco o forse meglio dire sulla scia di quella grande produzione, fino a quando un geniale, sicuro, inatteso colpo di coda non mi ha fatto ricredere portandomi al cospetto di un autore moderno, vivace, ironico e divertente. Un grande maestro della narrazione, un incantatore di lettori, un abile prestigiatore che lascia di stucco non una sola volta ma lungo tutto il corso della narrazione, sfoderando al momento opportuno i suoi trucchi per far rinvenire il lettore dall’illusione di aver avuto in mano la narrazione, di averla, addirittura ritenuta quasi fino alla fine, dopo l’abile giochetto iniziale, inutile, non necessaria, prevedibile, noiosa. E invece, questo romanzo è semplicemente uno scherzo letterario, quasi un ironico saluto di Nabokov a se stesso, al suo essere stato professore, esule, genio al pari del Pnin che lo stesso Nabokov, fattosi personaggio nell’ultimo capitolo, si diverte a mettere alla berlina , avendoci fatto - prima e per tutto il tempo- quasi detestare tutto l’entourage accademico che gli ruota attorno e che lo sbeffeggia. Pnin è un uomo fallito, un arrendevole, misero uomo, un goffo per natura, un simpatico pasticcione? Ancora, è solo un personaggio che per la sua debolezza genera affetto immediato nel lettore? Non penso, Pnin è semplicemente la cartina al tornasole di un bieco ambiente pseudo culturale, una provinciale università, che millanta di essere produttrice di cultura mentre si occupa in realtà di sovvenzionare se stessa con inutili e improbabili studi come il cosiddetto Test del dito nella Tazza … si sarà dunque compreso che Pnin è l’opposto di Oblomov, niente affatto indolente anzi a me piace immaginarlo in fuga per una nuova vita preso per mano a Seymour Levin di Malamud. Buona fortuna a entrambi.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Gialli, Thriller, Horror
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    13 Agosto, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La sottile linea dura

Si conferma presso Adelphi sin dal 1985, anno in cui ha avuto inizio la pubblicazione dei romanzi duri di Simenon, l’attenzione per il belga. Non c’è da stupirsi di fronte al numero 78, tanti sono i titoli, compreso questo, in catalogo.
Leggo sempre volentieri Simenon, anche quando la trama, come succede per questo romanzo, langue, non è sviluppata e pare essere monca e priva di quel tempo necessario per la costruzione del corpo testuale. Tempo che il belga, stando alle sue “Memorie intime”ha sempre utilizzato in modo molto pragmatico, dedicando in maniera meticolosa solo le prime ore della giornata alla scrittura e dedicando tutte le altre alla dimensione più vitale dell’esistenza: la famiglia, gli amici, il mare, i viaggi e le sue innumerevoli passioni. Il mare, appunto, è una di queste e viene richiamato prepotentemente dalla sua memoria emotiva anche nel freddo e innevato Tirolo durante una vacanza, tanto da fargli sentire l’esigenza di rinchiudersi in camera accanto a una stufa di maiolica per far compiere un balzo all’odore salmastro della costa normanna in modo così repentino e prepotente da far evaporare il pur intenso e cristallino sentore dei pini.
E allora, con l’arrivo di una nave in porto l’atmosfera diventa di colpo brumosa, pesante e asfittica: tutto langue, solo l’arrivo del peschereccio Centaure, in un mare grosso che non promette niente di buono, rianima il paese, un piccolo borgo marinaro, poca gente la cui esistenza è scandita dal mare e da esso ne viene segnata. Qui vivono i due gemelli Canut, Pierre e Charles, e proprio l’arresto del primo, capitano del peschereccio, allo sbarco in quella brumosa mattina, dà il via all’azione: è accusato dell’omicidio di uno dei superstiti del Telemaque, imbarcazione che trent’anni prima affondò lasciando alla deriva su un canotto pochi uomini che, ripescati dopo una ventina di giorni, raccontarono come fecero a sopravvivere, in barca con loro il cadavere del giovane papà dei Canut, la cui morte è sempre stata ricondotta all’ombra nera dell’antropofagia. Ora anche l’ultimo dei superstiti è morto e la colpa ricade, per via indiziaria, su Pierre. A Charles, il compito di scagionare il fratello mentre langue in prigione.
Come si intuisce gli elementi ci sono tutti per destare la giusta attenzione del lettore che, grazie alle magistrali pennellate da atmosfera, si trova gradevolmente immerso in un’ottima lettura, salvo appurare poi che l’ingranaggio del giallo prende il sopravvento sull’approfondimento psicologico e che la sottile linea dura fatica stavolta a insinuarsi se non, debolmente, nelle ultime trenta pagine quando l‘ambivalenza umana fa capolino e i rapporti interpersonali paiono sgretolarsi in un amaro ritratto di famiglia, appena accennato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Simenon
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
siti Opinione inserita da siti    01 Agosto, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO

“Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d'un sogno è raccolta la nostra breve vita” (W. Shakespeare, La tempesta, atto IV, scena I)

Pochi elementi narrativi, onirici e a tratti surreali, sapientemente intrecciati e dosati con una buona suspense rendono questo corposo romanzo, di agevole lettura, un‘ opera originale. L’originalità risiede di certo nella trama inizialmente molto ancorata alla realtà: una fuga da casa di un quindicenne che affronta un viaggio alla ricerca della propria identità per concludere il suo percorso di iniziazione alla vita, comprensiva di accettazione e di consapevolezza, dopo aver oltrepassato lo stesso confine della realtà rischiando, con la conoscenza, una permanenza in un aldilà atemporale. Tamura Kafka, o il ragazzo Corvo o se vogliamo l’amabile vecchietto Nakata, è un personaggio che in realtà, pur apparendo il più ancorato alla realtà, è invece l’anello di congiunzione del reale con l’irreale, del sogno con la realtà, il personaggio capace di intraprendere quel percorso di conoscenza che interpreta la fenomenologia dello spirito, per dirla come Hegel, al fine di giungere alla piena conoscenza, a una forma di sapere assoluto. Shintoismo, animismo, panismo fanno da cornice inoltre a una trama che pare abbia come scopo precipuo quello di mettere in relazione i singoli personaggi proprio tramite l’anello di congiunzione rappresentato da Tamura il cui cognome di copertura richiama Kafka, in ceco il corvo, e ancora è il titolo di un brano musicale e di un quadro, elementi narrativi che si assemblano nel titolo stesso. Soffermarsi oltre sulla trama farebbe correre il rischio di far perdere interesse verso il romanzo il cui unico pregio, a mio modesto parere , risiede proprio nel contenuto, ho trovato invece lo stile limitato dal plot narrativo, incapace di aprirsi a riflessioni di più ampio respiro che avrebbero invece permesso alla scrittura di arricchirsi di quella stessa sostanza di cui sono fatti i sogni.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti di viaggio
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    23 Luglio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

SUGGESTIONI

Brevi racconti, singole suggestioni, un insieme di voci a captare la vera anima del Paese nel quale si soggiorna, questo l’esito letterario di un soggiorno che Elias Canetti fece in Marocco nel 1954 al seguito di una troupe cinematografica. Una città in particolare, Marrakech, crocevia di uomini, mercato di cammelli, piazza mercantile: i suk, le segrete abitazioni, le donne velate, gli uomini operosi, un rincorrersi di voci e di silenzi. Ma anche i mendicanti, i bambini a frotte, il marabutto e i suoni a intessere storie. Una fusione perfetta, a cornice le suggestioni visive tutte meravigliosamente riportate da una prosa a tratti lirica, capace di intrecciare il substrato del vissuto personale e la storia che lo connota con la particolarità del luogo nel quale ci si trova. Esempio ne sono le pagine nelle quali viene riportata l’attività dei cantastorie, pagine che portano a riflessioni intime sul potere della parola parlata su quella scritta con conseguente disprezzo per chi, come lui, ha costantemente bisogno di carta per poter esprimersi e di un sapere freddo e accessorio. È evidente che basta una parola narrata, un epos, ad alimentare l’immaginazione come con gli antichi aedi. Marrakech è anche città di ebrei, nel suo quartiere ebraico della Mellah l’autore assapora, ritrovandole, le sue radici sefardite: “Camminavo più lentamente che potevo osservando quei volti. La loro varietà era stupefacente. C’erano volti che, in abiti diversi, avrei preso per arabi. C’erano i vecchi ebrei luminosi di Rembrandt […]. C’erano gli “eterni ebrei”, su tutta la figura era scritta la loro irrequietezza.”
Un vero e proprio reportage di viaggio che coniuga il dato etnico e antropologico a quello più intimo, di un sentire universale nel quale le voci udite fungono da semplici porte di accesso.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
letteratura da viaggio
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    22 Luglio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Sete d’amore, sete di sole

Stupendo secondo volume della Ricerca proustiana, un viaggio letterario ineguagliabile, un ritrovarsi in una prosa cristallina, netta, perfetta, dalla cifra stilistica che non corre mai il pericolo di lasciare indietro il contenuto, sapientemente dosato, centellinato nelle oltre cinquecento pagine, a riscoprire il piacere di un trama impalpabile ma tangibile, tesa ad annullare i fatti mentre li propone come solo la pittura impressionista sa fare. Impressioni , sensazioni, pensieri , colti nell’immediato ma arricchiti da considerazioni a posteriori che oscillano fra il gusto garbato dell’anticipazione e lo sguardo ricco di senno di chi ripercorre la propria giovinezza, o meglio una porzione di essa. Un’estate lunga, a Balbec, la prima lontana dai genitori, in compagnia della nonna, nel Grand Hotel che fotografa, cristallizzandola, la realtà sociale francese ancora in bilico, in questo primo scorcio del Novecento, fra nobiltà e borghesia, una realtà , di contro, tutta protesa verso la novità dettata dal progresso tecnologico. Un narratore alle prese con i suoi primi ardori, nella prima parte, di ambientazione parigina , nei confronti di Gilberte, la figlia di Swann e di Odette, dapprima agli Champs –Élysées poi, gradualmente, nella dimora della coppia, quasi un fortino da espugnare, per vedersi infine ripagato da un intero gineceo in spiaggia, in Normandia. Le fanciulle in fiore, visione prima, messa a fuoco poi e selezione fra esse di una predestinata al suo amore: Albertine, sfuggente come un cerbiatto, accessibile come una soglia da varcare a cui si frappone intanto un gradino inatteso. Un vissuto sottratto all’oblio cui sarebbe stato destinato, come tutto nella vita. Il processo dell’innamoramento, il mistero del ruolo giocato dalla casualità in certe alchimie che si vorrebbero lontane dal mistero e totalmente imbevute della nostra volontà, per scoprir poi che l’amore procede seguendo, dettato dal caso, semplicemente i binari della nostra fantasia, del nostro immaginare, supporre e ricercare nell’altro una porzione meno fumosa di noi stessi. Il volume è trapuntato di considerazioni di tal misura, ogni volta colpiscono per l’ingenua verità e truce che contengono, permettendo al lettore un ritrovarsi universale, meravigliandolo per la semplicità con la quale viene trasposto in scrittura un pensiero sicuramente abbozzato un tempo anche nella sua mente, senza averne mai avuto la capacità di recuperarlo, analizzarlo, fissarlo nella sua estrema veridicità. Proust ha il dono di recuperare il suo tempo, il suo vissuto, coinvolgendo il lettore in un’altra ricerca, simile alla sua, anche se ora più personale: quella del proprio tempo perduto. "All’ombra delle fanciulle in fiore" è semplicemente uno scritto contraddistinto dalla grazia della giovinezza, dall’eleganza del ricordo, dalla istantaneità di un quadro impressionista. Coglie l’attimo, lo fissa, per sempre dilatando la percezione del proprio universo temporale.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
La strada di Swann
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
siti Opinione inserita da siti    08 Luglio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Conosci te stesso

Romanzo storico di ampio respiro, impegnativo, pregnante, sorretto da una ricerca storica certosina che porta il lettore nel XVI secolo, epoca in bilico tra il nuovo sapere prodotto dal Rinascimento e l’eresia soggiacente a ogni nuova evoluzione della mente. Un’epoca storica in pura dimensione europea con una breve incursione verso il Levante, sullo sfondo le continue guerre di conquista, la Riforma luterana, il valzer delle eresie, la moda anabattista; al centro Zenone, il personaggio filosofo, alchimista, medico, che cela in realtà semplicemente l’uomo imprigionato nella sua finitezza umana, l’uomo bisognoso di conoscere, di esplorare i propri limiti per giungere alla piena consapevolezza e conoscenza di sé, al pieno controllo, paradossalmente, se poi si pensa al sublime epilogo di questa vita e di questa straordinaria opera. Pagine intense, che giungono al culmine e si fanno perdonare l’eccessivo zelo storico che permea lo scritto, a tratti appesantendolo e rendendolo di non agile lettura. La Grande Opera, l’opera al nero, - la prima tappa della trasmutazione alchemica necessaria per la creazione della pietra filosofale- e Zenone, pellegrino tutta la vita perché “chi sarà tanto insensato da morire senza aver fatto almeno il giro della propria prigione?”. Zenone, spinto dalla necessità di appurare se “l’ignoranza, la paura, la stupidità e la superstizione verbale regnano anche fuori di qui”, protagonista di un lungo viaggio attraverso il suo tempo, la conoscenza, se stesso. Una figura storica fittizia, dice la stessa Yourcenar nella nota dell’autore, ben diversa da una figura storica ricreata come l’imperatore Adriano delle celeberrime Memorie, che necessita più che mai di una perfetta collocazione temporale affinché le date della sua vita coincidano in maniera esatta col substrato storico attestato. Tutte le “verità” alle quali Zenone giunge dopo incessanti e travagliate oscillazione dell’anima e del pensiero sono poi le medesime intenzioni che hanno caratterizzato vita e opera di Leonardo, Harvey, Paracelso e tanti altri. Una sintesi perfetta del pensiero del secolo i cui fatti storici interessano le vite parallele degli altri personaggi, fornendo un’eccellente ambientazione di sfondo. Niente è lasciato al caso, tutto è riconducibile a precise fonti documentarie, la trama langue, rari gli spunti narrativi di vivo interesse, quasi un substrato narrativo sincopato, a volte monco; un viaggio ostico che chi saprà intraprendere vedrà culminare nelle due- tre pagine finali di raro pathos e di intensità descrittiva tale da riabilitare l’intero scritto col dubbio di essere davanti a un sapere tale da poter solo lasciare inebetiti. Per appassionati di storia , per cultori della materia, per curiosi che volessero approfondire l’affascinate età moderna.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Brecht, Vita di Galileo
Trovi utile questa opinione? 
200
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
2.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
2.0
siti Opinione inserita da siti    29 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Da che parte stai?

Durante la seconda guerra mondiale, Malaparte che aveva già vissuto giovanissimo la guerra come volontario, a soli sedici anni, durante il primo conflitto ( si ricordi che morirà alla soglia dei sessanta anni in seguito alle lesioni polmonari da iprite) e che ne aveva criticato aspramente la conduzione con “Viva Caporetto” poi divenuto “La rivolta dei santi maledetti”, è un personaggio scomodo al regime. Dopo l’entusiastica adesione in prima linea, con la partecipazione alla Marcia su Roma, dopo l’accettazione dello squadrismo più bieco, dopo l’assassinio Matteotti - fu testimone a processo a favore dell’imputato principale – il colpevole materiale, non quello ideologico, dopo la rottura con Mussolini e la sua estromissione dal partito nel 1933 in seguito alla sua critica a fascismo e nazismo, lo ritroviamo corrispondente di guerra per varie testate giornalistiche, testimone diretto nei principali fronti, soprattutto quelli del nord Europa e dell’est più prossimo alla Russia: Finlandia, Polonia, Ucraina. Questo lavoro è la sintesi di quella esperienza, traslata in carta per i giornali e per una sua rivisitazione più letteraria in un manoscritto poi smembrato in tre parti consegnate al ministro di Spagna ad Helsinki, al segretario della legazione di Romania a Hensinki e all’addetto stampa della legazione romena nella capitale di Finlandia per poi giungere “dopo una lunga odissea” a Roma. A detta del suo autore è un libro crudele per il fatto che la grande tragedia della guerra offre uno spettacolo unico che la sua penna non esita a cesellare e a rendere ancor più crudele con l’obiettivo di fare protagonista della scrittura non già la guerra, utilizzata come sfondo integratore, ma l’idea di disfatta , di rottura, di schianto secco che è quello prodotto dalla morte dell’Europa. Un’araba fenice che si spera risorga dalle sue ceneri. Quelle ceneri descrive il testo ma non come nel successivo “La pelle” , a posteriori, nell’onda lunga del passaggio dello tsunami bellico devastante, ma in divenire, negli anni compresi tra il 1941 e il 1943 quando, caduto il regime, Malaparte farà rientro nella sua villa a Capri per concludere l’ultimo capitolo dello scritto, il più simile a “La pelle”. Le altre pagine in realtà non lo sono, manca il lirismo, manca la teatralità, emerge invece un disperato bisogno di raccontare che ha la meglio su tutto. Malaparte si rappresenta infatti alle prese con conversazioni che intrattiene con personaggi eminenti: ambasciatori, principi, funzionari, e l’oggetto del suo narrare è sempre una crudele e disturbante galleria di impressioni, visioni, fermo immagini che restituiscono un complicato insieme di cui però non riesce a superare la frammentarietà. Sono quadri singoli, feroci, oggettivi e al tempo stesso visionari, comprendere dove termini la realtà, nuda e cruda, e dove intervenga il surrealismo visionario non è semplice. Può trattarsi di un canestro contenente ventimila occhi umani scambiati per ostriche prive di guscio, o di busti di soldati emergenti da una landa immensa e innevata posizionati col braccio teso, congelato, a mo’ di segnaletica o ancora cavalli anch’essi congelati nel Ladoga le cui acque ghiacciate restituiscono solo la testa, in superficie, in attesa di un disgelo che li restituirà come sfatte e marcescenti carcasse. Ci sono poi le condizioni disperate del ghetto di Varsavia, le notizie dei pogrom, i tentativi di aiutare qualcuno, se possibile. In realtà proprio questo aspetto è particolare perché Malaparte è dentro le stanze degli ufficiali tedeschi e conversa con loro o si intrattiene con l’invasore nelle residenze più ricche delle terre conquistate e contemporaneamente accoglie e riporta le storie dei vinti, dei conquistati, dei piegati e in modo, rappresentato sempre come fosse un fatto del tutto fortuito e occasionali, diretto li aiuta. Difficile capire, difficile trovare una collocazione al bene, in questo caso. Tutto è passeggero, irreale e tremendamente vero; la scorza narrativa non chiarisce, lascia perplessi, attoniti; restituisce probabilmente le contraddizioni implicite al fenomeno bellico. Tutto è secco, schiantato, kaputt.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
La pelle
Trovi utile questa opinione? 
220
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    14 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Come le stelle alpine

Il delicato compito, assolto egregiamente da Ilaria Tuti, di far conoscere il ruolo assunto dalle donne friulane durante la Grande Guerra, non era esente dal pericolo più strisciante e latente ovvero quello di non contribuire affatto a restituirne la memoria ma, al contrario, paradossalmente, di impoverirla ulteriormente con un racconto poco degno di nota. E invece, la scrittrice friulana, conosciuta e apprezzata da molti lettori per i suoi precedenti romanzi con protagonista, guarda a caso una donna, il commissario Teresa Battaglia, e la sua terra, il Friuli , riesce a restituire il vero senso della partecipazione femminile al conflitto e la misura di tale impegno, lasciando il lettore attonito rispetto al coraggio e alla generosità di queste donne. E in realtà, dietro la storia particolare legata agli anni del conflitto, vi è la storia millenaria della donna: “la nostra capacità di bastare a noi stesse non ci è riconosciuta, né concessa. L’abbiamo tessuta con la fatica e il sacrificio, nel silenzio e nel dolore, da madre in figlia … ”; ora l’occasione di essere audaci e coraggiose potrà essere palese agli occhi di tutti perché questa volta a chiamare è la guerra, compito solo maschile. È facile riconoscere l’importanza della donna, ma peggio la si dà per scontata, quando a lei è affidato un ruolo cristallizzato, la cura della casa , dei bambini, o ancora dei vecchi, la fatica del tirare avanti in assenza dell’uomo, diverso è invece riconoscerle pare dignità in un terreno mai sperimentato prima: quello delle trincee, dei camminamenti, dei sentieri esposti ai cecchini austriaci … Questo fanno le donne in questione, le Trogarinnen, le Portatrici. Munite solo della loro capiente gerla e degli scarpetz, scarpe fatte di stracci sovrapposti, aderenti alla dura roccia, camminano dal paese fino al fronte e trasportano viveri, medicinali, munizioni portando con sé il canto, la gioia e perfino la speranza. Sono mamme con il seno turgido e dolorante, lasciano i loro piccoli a casa dopo la poppata, sono figlie devote con il pensiero del malato che le attende a valle, sono giovani donne innamorate in attesa che la guerra restituisca loro il ragazzo, vivo. Fra tutte spicca Agata Primus, la sua voce narrante permette di focalizzare l’attenzione del lettore su una storia particolare, la sua, che ha il dono di essere l’emblema di tutte le restanti. Sullo sfondo le vite delle vere portatrici sulla scorta di un’ accurata ricostruzione storica che è stato possibile realizzare a partire proprio dai documenti che la memoria , questa volta maschile, ha voluto conservare e perpetrare. Libro bello, delicato e doloroso, necessario per conservare la memoria di una pagina importante della storia d’Italia, stavolta scritta dalle donne.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
260
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    08 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La lingua dell'amore

Primo volume di una monumentale autobiografia iniziata nel 1977 e continuata con “Il frutto del fuoco”, nel 1980 e “Il gioco degli occhi”, nel 1985. Una lettura sicuramente gradevole che ha come sottotitolo “Storia di una giovinezza” e che, per quanto mi riguarda, ha tenuto desta l’ attenzione per i tre quarti mentre ha generato una certa stanchezza nella parte finale; probabilmente perché ho trovato molto avvincenti le situazioni narrate rispetto alla prima, seconda e terza infanzia mentre l’avviarsi dell’autore nella pubertà è stata appesantita dal profilo dello stesso ragazzo narrato. Il volume inizia con i primissimi ricordi di vita, in Bulgaria, in seno a una famiglia di ebrei sefarditi di origine spagnola; una famiglia facoltosa, di commercianti, ben integrata ma con un’identità linguistica precisa e ancorata alla lingua spagnola. Una coppia genitoriale giovane e affiatata che invece parla eleggendo a veicolo linguistico, privilegiato e intimo, il tedesco; un bambino che sente parlare contemporaneamente spagnolo e bulgaro, comprendendoli entrambi fino ai sei anni, e che si incuriosisce all’universo linguistico esclusivo della mamma e del papà. Un periodo della vita, felice, comunitario, integro, che improvvisamente si sgretola e si sfalda a causa, prima, di dissapori interni alla grande famiglia, in particolare per via della rottura tra il padre di Elias e il genitore, il capofamiglia, e poi per via della morte prematura dello stesso papà di Canetti quando ormai la famigliola è emigrata in Inghilterra. Inizia così una vita nuova, caratterizzata dalla condizione di orfano e di fratello maggiore che comporterà al piccolo Elias preoccupazioni, ansie e responsabilità inaudite. È la parte più toccante della narrazione, non interessa un unico blocco ma si dissemina nel resto dell’opera e della vita, lasciando un segno profondo, quello dell’assenza e al tempo stesso del rapporto quasi simbiotico con la madre. Segue poi il resoconto delle tappe di una vita in viaggio; ai due anni trascorsi a Manchester ( 1911-1913) si giustappongono gli anni di Vienna, tra il 1913 e il 1916, e per finire quelli del “paradiso perduto”, in Svizzera, che coprono il restante intervallo fino al 1921. Si tratta di soggiorni lunghi ma il senso di precarietà è latente. Il periodo inglese e quello viennese sono ricchi di aneddoti che permettono di costruire un profilo biografico di tutto interesse; al centro sempre la riflessione costante sull’esposizione linguistica; un esempio fra tutti, il più evidente, è sicuramente il barbaro apprendistato al quale la giovane vedova sottopone il figlio per fargli apprendere la lingua tedesca, ultimo ed estremo ancoraggio all’amato marito. Canetti, poliglotta, scriverà tutte le sue opere in tedesco. Gli anni della crescita corrispondenti alla scolarizzazione sono inizialmente molto interessanti, si entra dentro l’universo privato del percorso di formazione, generosamente anticipato dalle sollecitazioni ricevute in famiglia; emerge netto il profilo di un alunno sui generis, un assettato di sapere che stona perfino con il rigore educativo che pure caratterizzava l’epoca facendolo entrare in conflitto con un universo studentesco comunque eterogeneo e non sempre zelante. Un atteggiamento quasi superbo, il suo, del tutto involontario che solo l’onda antisemita riesce a fargli finalmente percepire. I ricordi legati alla Svizzera sono meno interessanti, forse perché nel frattempo il ragazzo che è lontano dalla madre, ha modo di crearsi una sua autonomia di pensiero e si perde quell’aura eccezionale che aveva caratterizzato le altre età fino a quando la mamma non irrompe prepotentemente a indirizzarlo un’altra volta, lontano dalla favola bella della Svizzera, imponendogli l’ennesimo trasferimento, questa volta in Germania. Sigla Canetti: “il paradiso zurighese era finito, finiti gli unici anni di perfetta felicità”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    02 Giugno, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

A PRIORI

Una scrittura fluida, punteggiata di dialoghi, con rari inserti descrittivi, fluida e asciutta al tempo stesso, quasi scarna, mimetica e pure prevedibile: ad ogni snodo della trama l’avvicinamento preparatorio abilmente intessuto da Yates porta il lettore alla facile previsione di quel che accadrà. Eppure un libro bello, ben scritto, una somma di pause e accelerazioni in una tensione emotiva che, anche quando raggiunge i picchi, non si esaurisce mai, neanche nel finale. Una storia semplice, tutto sommato e maledettamente complicata e scontata, una storia amara che incarna il sogno americano della cosiddetta middle class. Una storia borghese. Una storia deprecabile.
Frank e April, sono due giovani, si conoscono, si amano e si sposano, complici del fatto che mai potranno accontentarsi del mediocre sogno americano: la famiglia perfetta in una villetta perfetta, lontani dal caos della città. Loro amano New York, sono due giovani anticonformisti, la loro unione di coppia è basata sul ripudio del falso mito del benessere borghese; due esseri superiori alla media, capaci di seguire i propri sogni e di nutrirsi di alte velleità artistiche e letterarie. Frank, più di tutti, si rappresenta in questo modo, anche quando la vita lo ha già piegato: l’arrivo del primo figlio, l’allargarsi della famiglia poi, la scelta di una villetta – come da copione- che lo allontana dalla città dove nel frattempo ha trovato lavoro come impiegato, costretto al più abominevole degli atti che possa essere richiesto a un essere umano: lavorare con il surplus del pendolarismo per recarsi quotidianamente in un luogo che odia anche se è la fonte dei suoi guadagni. In poco tempo, Frank, “la persona più interessante che abbia mai conosciuto” si trasforma in un agnello sacrificale nella sacra pira della famiglia, a coprire il ruolo del marito perfetto. Apparentemente è April, la mina vagante, mai contenta, tenta ancora di seguire il sogno da attrice, nonostante sia diventata la perfetta mamma-casalinga costantemente dedita alle pulizie e con una serie di giornate tutte uguali all’orizzonte. Frank è più equilibrato, lui sì che ci sa fare: convivere con questa nuova realtà borghesuccia è un gioco da ragazzi, l’importante è sapere chi non vuole diventare. E nel frattempo lo è già divenuto, solo che non lo ammette, è invischiato fino al collo e il suo pantano lentamente lo affoga: April però è l’unica mina vagante che non può imbrigliare …
Sono pochi gli eventi, è un libro di atmosfere, questo, lascio al lettore la scoperta del gusto e non anticipo altri elementi della trama, sperando che non abbia visto il film di Sam Mendes con Di Caprio nei panni di Frank. Panni scomodi , i suoi … Buona lettura.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    31 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

SENZA TITOLO

Quando Debenedetti pensò di commemorare la tragedia della deportazione di oltre mille ebrei in seguito al rastrellamento del ghetto di Roma, a detta del figlio Giovanni intervistato in occasione dei settant'anni della prima pubblicazione del libro, la necessità primaria fu quella di riportare i fatti in modo cronachistico usando l’espediente del narratore anonimo. Prevalse la pietà di fronte alla tragedia; non si sentiva l’autore di appropriarsi del dolore e tanto meno di fare in modo che apparisse come frutto del suo lavoro: furono i fatti a generarlo. Certo è che il dolore va saputo raccontare; come disse Moravia nella postfazione a una delle diverse edizioni, scritta su richiesta proprio di Antonio, il figlio di Giacomo, “ la pietà prevalse sull’estetismo”. Indubbio rimane l’alto valore letterario dello scritto. Sono pagine piene di grazia, raccontano l’antefatto della tragedia, non solo il tentativo della donna di popolo di avvisare gli ebrei dell’imminente pericolo di cui fortuitamente è venuta a conoscenza, e del suo affannarsi invano, ma anche il ricatto a cui furono sottoposti gli ebrei - la consegna di cinquanta chili d’oro da racimolare in un tempo strettissimo - per evitare l’arresto di duecento di loro. È la grazia del venerdì sera, quella del popolo laborioso che si prepara alla festa del sabato, è la ritualità della sinagoga, è la vita intima delle abitazioni dove gli ebrei si rifugiano alle prime avvisaglie del calare delle tenebre, memori di pregresse notti dolorose nella storia del loro popolo. Sono presentati, questi uomini e queste donne, in una ingenuità tale da sentire quasi l’esigenza di spronarli, insieme alla povera Celeste che, se almeno fosse stata una signora, l’avrebbero ascoltata … Quelle stesse case, quelle stesse vie del ghetto sono poi squassate dalla retata la quale, iniziata alle prime luci dell’alba, intorno alle cinque del mattino, e conclusa entro il primo pomeriggio, coglie nel sonno i suoi poveri abitanti. E allora imperversa il caos, non tanto quello del fuggi fuggi, l’abbiamo detto, gli ebrei sono fiduciosi e increduli, il loro sentire mal si concilia con l’azione necessaria per la fuga, ma quello dell’animo, quello che di contro paralizza e lascia ancora la flebile speranza di potersela cavare nascondendosi dietro la porta della propria abitazione. È poi il caos della retata, paradossalmente condotta con la meticolosità dei tedeschi essa viene invece dominata dal caos: salvarsi o perdersi per sempre diventa puro gioco del destino, nonostante la precisione con al quale è stata compilata la lista. È la parte più tesa della narrazione, rende in modo mimetico la concitazione. Segue poi il ritmo lento dell’attesa, quello che precede il lungo viaggio senza ritorno. I vagoni piombati, la consapevolezza del macchinista, il sommesso vociare, stipato in spazio angusto, incrociato dai civili colti nella loro quotidianità gravata ora da un nuovo peso, quello dell’impotenza. Molti furono i civili che aiutarono gli ebrei; quelli sopravvissero forse fino all’eccidio delle Fosse Ardeatine, degli altri tornarono in sedici.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
LEVI, Se questo è un uomo
WIESEL, La notte
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    24 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Per appassionati

Ultima conversazione pubblica di Romain Gary , realizzata da Jean Faucher per Radio Canada, poco tempo prima che l’autore ponesse fine alla sua vita, uscendo di scena in modo plateale, stile che gli era consono anche in vita. Sicuramente personaggio eccentrico, poliedrico, noto a posteriori per il suo impossibile doppio Goncourt del quale naturalmente tace anche in questa sede, avendo reso a tutti nota la paternità de “La vita davanti a sé” con una lettera postuma. Un uomo che si svela, ormai sessantacinquenne, cercando di smentire i falsi miti circolanti intorno alla sua persona, sfrondando il personaggio, spesso cucitogli addosso in modo posticcio da altri, per restituirci la persona. Il suo affabulare però è sempre di matrice picaresca e allora il racconto della sua vita, perché questo è in sostanza l’oggetto della conversazione, restituisce ancora nuovi particolari e nuovi miti. Colpisce senz’altro il ruolo rivestito dalla madre nella sua educazione, donna che lo ha portato a contatti con culture diverse, quella russa della nascita a Vilnius, la polacca, e per finire quella francese alla quale, da buona russa di fine Ottocento, maggiormente ambiva: “ il suo unico sogno è stato fare di me un francese”; avrebbe voluto addirittura partorirlo in Francia ma le doglie la sorpresero in viaggio, obbligandola a partorire a Vilnius. Raggiunta la Francia, Nizza per la precisione, quando Gary è in età da liceo, lavora sodo, lasciando la sua vecchia professione per fargli studiare legge, e lui stesso si mantiene con mille mestieri mentre già scrive. Nel 1938 va sotto le armi e tra alterne vicende, poiché non ancora naturalizzato francese, pur avendo frequentato la scuola da aviatore, non diventa ufficiale fermandosi al grado di caporalmaggiore, per non deludere la madre inventa uno scandalo sessuale di cui si sarebbe reso protagonista negli ambienti. Molto spesso traspare, durante la conversazione, un atteggiamento protettivo nei confronti della figura materna, e un rapporto speciale che inverosimilmente si mantiene attivo anche dopo la morte della donna. Niente di trascendentale, tranquilli, ma ancora una volta una situazione che fa somigliare la vita dello scrittore a un vero e proprio romanzo… lascio ai lettori la scoperta. Vero è comunque che questa conversazione, in termini di fatti, probabilmente non aggiunge molto alla sua prima autobiografia “La promessa dell’alba”, risalente a vent’anni prima, se non chiarire la stretta relazione esistente tra vita e pubblicazioni dei suoi innumerevoli romanzi, aggiungendo aneddoti e curiosità. Vengono quindi ripercorsi gli anni che , dopo la pubblicazione di “Educazione europea”, giudicato da Sartre il miglior testo sulla resistenza francese, lo portano a vivere una rocambolesca attività in campo diplomatico, rigettando infine tutto quel mondo che gli appare attraversato solo da ipocrisie e menzogne, in bilico tra ideali personali e politica coloniale che non condivide ma che si trova, suo malgrado, a difendere. La parte più intensa della conversazione è certamente quella finale, anticipata dalla leggerezza dei ricordi hollywoodiani e da una mini dissertazione sull’umorismo di Groucho Marx, ad avvallare la tesi che “l ’umorismo è l’arma bianca delle persone disarmate” , vi è inoltre una breve ma interessante rassegna sulla letteratura ebraica della scuola letteraria newyorkese. È la parte decadente, la finale, quella del campo che si restringe, dello sguardo volto più al passato che al futuro pur senza far affatto presagire la sua imminente e drammatica morte; una decadenza legata piuttosto a un sentimento della vita che si accompagna alla consapevolezza di non averla vissuta ma di esserne stati vissuti.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
le opere dell'autore
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    22 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Multiforme esperienza di lettura

Straordinaria opera d’arte, trascende le forme, oltrepassa il contenuto, nutrendosi in modo parossistico , paradossalmente, di forma e di contenuto. Risolvo il paradosso: è un romanzo corposo per numero di pagine ma ha come oggetto una sola giornata, il 16 giugno del 1904, che sia un romanzo poi , in senso stretto, non è nemmeno affermabile, pare essere più un catalogo di forme letterarie, e di contro, è un corposo concentrato di una moltitudine di contenuti che oltre ad attestare l’impressionante ricchezza culturale del suo autore, mette a dura prova il lettore, il quale può solo sentirsi un minimo appagato quando rinviene, senza l’ausilio dell’apparato critico, un rimando a lui noto. Senza pensare a quelli strettamente legati al qui e ora che li ha generati e che si perdono in un metatesto dato dall’intrecciarsi di slang, tradizione popolare, substrato culturale che solo un dublinese dei primi del Novecento potrebbe cogliere. Opera multiforme, si è detto, ma soprattutto contenitore e naturale proseguimento di altre tradizioni letterarie, derivanti da contesti storici e culturali che, pur rappresentando un continuum naturale, sono prodotti letterari unici e inimitabili; eppure qui presenti e rivitalizzati e perpetuati, se mai ce ne fosse bisogno. La triade rappresentata da Omero, Dante, Shaekespeare; per dire la più macroscopica. Un filo conduttore poi, eterno leit motiv, di matrice musicale, non tanto l’opera mozartiana, quanto il suo libretto, la sua parte testuale, Da Ponte e il suo “vorrei e non vorrei” o “là ci darem la mano”, un motivo sensuale a sfondo mefistofelico; un richiamo circolare a quel plot narrativo apparentemente esile che potrebbe farci accostare Il Don Giovanni di tanta tradizione letteraria , e non solo musicale, al nostro caro Bloom o al suo antagonista, dipende dall’angolatura con la quale si osserva la vicenda; Leopold, uomo tradito- traditore al tempo stesso Don Giovanni e Masetto. Ci si perde, vedete: parlarne e indagarne un aspetto specifico, porta, a spirale, a coinvolgere l’insieme. Altra particolarità di questo simil labirinto è invece la linearità dei personaggi, dei loro percorsi materiali nel tessuto urbano, una perfetta geometria, non conosco i luoghi, ma a me hanno richiamato una fitta rete di assi perpendicolari l‘uno all’altro, in un tessuto viario che richiama i personaggi, li accoglie e li fa vivere. È il romanzo della presa diretta, della rappresentazione del pensiero e insieme della materialità più bieca del corpo, rappresentato anch’esso e in tutte le sue funzioni. È inverosimile ridurlo, questo non romanzo, al flusso di coscienza, credetemi è molto più presente nella scrittura della Woolf che in queste pagine, certo che quando lo incontri ti lascia senza respiro, ma è penalizzante farlo rispetto alle geniali battute e alle altrettanto vivide didascalie del testo teatrale contenuto nella sezione quindicesima , prima che si apra la terza parte dell’opera o alla musicalità che sprigionano le onomatopee all’inizio dell’undicesima sezione, quasi a richiamare “La pioggia nel pineto” di dannunziana memoria, anteriore tra l’altro alla composizione di quest’opera. È inoltre, a mio avviso, anche la parte di un tutto che pare evolversi e che è bene conoscere; certo sarebbe opportuno, visti i richiami intertestuali leggere prima nell’ordine” Gente di Dublino” e “Dedalus” proseguendo, superato “Ulisse”, con l’illeggibile “Finnegans Wake”; mi rammarico di non aver letto prima la raccolta di racconti mentre la conoscenza di “Dedalus” mi ha supportata meglio. Eh sì, perché questo è un libro che necessita di supporto, ne era ben consapevole il suo autore tanto da fornire i necessari strumenti dell’esegesi approdati negli schemi Linati e Gorman. Insomma non si è lasciati soli e nonostante la fatica accompagni alcuni passaggi è indubbiamente un’opera magnetica. Personalmente l’ho letta con viva curiosità, senza pretese di completezza, focalizzandomi sugli aspetti che meglio mi parlavano: la storia di Irlanda, il Don Giovanni e l’inguaribile Bloom, l’imperfezione fatta persona e la snervante attesa dell’assenza più sentita, quella di Molly. Buona lettura e lo sarà sicuramente.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Dedalus
Gente di Dublino
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    13 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Una comune identità: il canto

Mai come in questo caso il traduttore ha permesso di godere maggiormente dell’opera, accantonato dunque il ricordo scolastico legato alla traduzione del Pindemonte, cosa che mi riprometto di fare tradendo pure il Monti dell’Iliade, ho letto serenamente il lavoro della Calzecchi Onesti, gustando appieno ognuno dei ventiquattro libri del poema.
Dalla “Telemachia”, a “ I viaggi di Odisseo”, concludendo con “Il ritorno e la vendetta di Odisseo”, la protagonista assoluta, compagna delle tre sezioni, è stata la curiosità, nonostante questo sia il libro che molti conoscono senza averlo mai letto. In particolare la lettura è stata utile per scalzare dal podio il suo protagonista assoluto, Odisseo: non l’ho condannato come Dante nel XXVI canto dell’Inferno; non l’ho circoscritto alla sua condizione di esule come fece Foscolo per cantare il suo destino; non ho visto in lui l’emblema della decadenza come fece Pascoli e tanto meno ne posso cogliere i tratti del superuomo di cui l’ha rivestito D’Annunzio, entrambi , Pascoli e D’Annunzio, facendolo protagonista, come Dante prima, del rinnovato viaggiare nonostante il ritorno.
L’Odissea non è solo Ulisse, è un mondo multiforme, è la metafora del pericolo, del diverso, dell’incontro, della scoperta; è inoltre il canto dei canti, un poema in divenire che evolve autoalimentandosi; tutto questo è ben visibile nella lettura integrale, non episodica ma continuativa, nonostante la struttura episodica sia sovrana e abbia dato modo di isolare i singoli momenti narrativi ben noti a tutti. Una continuità di lettura che permette dunque di godere dell’antico poema collettivo come di un romanzo moderno, facendosi suggestionare dal tema centrale del nostos e da quella commistione di generi che, come ci fa notare Calvino,nel suo “Le Odissee nell’Odissea” in “Perché leggere i classici”, riprendendo la tesi di Heubeck, mette un eroe epico in uno schema narrativo da antica favola e da fiaba. Ecco perché ci affascinano la maga Circe, il Ciclope, il potenziamento delle proprie virtù per intercessione esterna ( il dono a dirla come Propp), misti al concilio degli dei, alla guida di Atena, alla vendetta di Poseidone e allo stesso tempo varchiamo la dimensione più reale di quegli antichi regni autonomi che si affacciano sul mare o ne sono circondati e aspettano un ritorno o accolgono uno straniero accomunati da un unico canto che unisce una comunità dispersa quasi in una sorta di diaspora atavica che ha come legame il suo comune cantare.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
altre versioni del poema e a chi non l'ha mai letto
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    19 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

L’anima di un uomo

In un’Irlanda claustrofobica, colonizzata dagli anglosassoni, paralizzata dalle sue stesse paure e da tradizioni gaeliche quasi misconosciute e all’uopo rivitalizzate, in una terra dove fervono le anticipazioni dei moti separatisti e si preparano i futuri moti civili che porteranno, dopo la prima guerra mondiale, all’agognata libertà a prezzo dell’eterna schiavitù dell’Ulster, cresce un bambino. Questa è la sua storia, o meglio una parte, fino a lambire una sorta di maturità adolescenziale, trampolino di lancio per un salto notevole: oltre il mare, oltre il confine, oltre i limiti di ogni genere.
Si tratta di Stephen Dedalus e non so se mi è piaciuto di più il bambino della “muuuuuucca”o il collegiale che non subisce il sopruso gesuitico o il giovane alla scoperta timida, impacciata e peccaminosa del sesso o quello che si sottrae alle grinfie di una pericoloso abbordaggio in terra votiva ( leggi: proposta di farsi sacerdote) o ancora e di più quello che matura, in coscienza, il proprio destino, seguendo le sue inclinazioni, i suoi pensieri, affinando un senso estetico sconosciuto ai più. Personaggio complesso dunque il nostro, alter ego dell’artista da giovane a voler calcare lo stesso titolo dell’opera che Pavese confinò a sottotitolo preferendogli il più incisivo Dedalus. Un uomo ormai quasi fatto quello che lasciamo nell’ultima pagina mentre affida a striminzite pagine di diario i primi cocci della sua giovane vita trascorsa: le conoscenze, l’amico, l’amore, i genitori e tutti gli amen e gli alleluia del piccolo mondo che lo ha formato in ottica cristiana, soffocandolo o tentando di farlo. Eppure non c’è astio, nessun rancore, solo la lucida consapevolezza di voler preservare l’anima…
” - L’anima(…) nasce anzitutto in quei momenti di cui ti ho parlato. La nascita è lenta e tenebrosa e più misteriosa di quella del corpo. Quando, in questo Paese, nasce l’anima di un uomo, subito la si irretisce per impedirle di fuggire. Tu mi parli di nazionalità, di lingua, di religione; ebbene io cercherò di sottrarmi a tali reti.- “
Gradevole lettura, inizialmente stentata e poco scorrevole perché incentrata sulla rappresentazione dei pensieri del personaggio in stile mimetico rispetto all’età narrata, condita da evidente frammentazione, procede in crescendo, alternando blande sequenze narrative che generano una certa progressione sempre utile a soddisfare la curiosità del lettore con più frequenti inserti riflessivi via via più interessanti e utili a chiarire il contesto storico, culturale ma soprattutto l’avvenuta formazione del giovane uomo e la sua scelta di lottare per se stesso. Lo consiglio sicuramente.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
i dolori del giovane Torless
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    13 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Al di là del nulla … un romanzo.

Il lascito maggiore di questa lettura alla mia persona è saggiamente contenuto nella citazione del mistico Tommaso da Kempis che chiosa la prefazione al romanzo datata 5 gennaio 1980: “In omnibus requiem quaesivi, et nusquam inveni nisi in angulo cum libro”. Paradossale, quasi, nella finitezza, nella piccolezza, che mi distingue come lettrice: rifuggire, se posso, da quelle letture che è dato per certo essere impegnative perché, è sicuro , lasciano con la netta consapevolezza di non aver capito tutto, di non essere all’altezza culturale di poterle cogliere nella loro totalità. Ma, se è vero, che un’opera letteraria, direbbe il dotto magister, è per sua natura un’opera aperta, sia allora di consolazione sapere che anche questa non può sottrarsi all’esposizione del giudizio del lettore, al suo gusto personale e anche ai suoi limiti culturali. Buona pace per Eco, il quale, per divertirsi così con il suo lettore, ha richiamato nella sua nassa pesci grandi e piccoli, per cui la sua opera è stata fatta oggetto di infinito studio, di competizione culturale, impari, con un uomo dalla conoscenza enciclopedica, dalla memoria prodigiosa, dalla consapevolezza teorica che assomma discipline le più diverse, il tutto gestito dalla sapiente regia di uno studioso di semiotica. Non solo, è nota a tutti la trasposizione cinematografica che come sempre, a mio avviso, tradisce l’opera scritta: tutte le categorie narratologiche spazzate via da tecniche cinematografiche che, se da un lato materializzano l’iconografia dei luoghi ( non bastasse la mia immaginazione di lettore così abilmente supportata dai diversi strumenti messi in campo da Eco) dall’altro azzerano la gestione del tempo narrativo scandito da Eco a rendere una necessaria e ardua coincidenza tra tempo della narrazione e tempo della storia. Azzerati inoltre i meccanismi diluiti del giallo, il lento procedere dello svelamento degli indizi, la messa in gioco dell’abilità del lettore. Potrei continuare ancora su questa falsa riga ma in realtà mi preme molto di più chiarire e chiarirmi perché ancora una volta un’opera di difficile lettura, inarrivabile nella sua complessità, mi faccia al contempo sentire così piccola e insieme così “in pace”. Seguirebbe una lunga riflessione sull’atto della lettura, sul suo significato, sull’essere lettori mentre mi limiterò dopo questa inutile introduzione a dare una mia personale sensazione di lettura.
Gradevole fin dall’inizio è stato il richiamo al genere del romanzo storico, la strizzatina d’occhio dell’ironico Eco alla trovata, immancabile, del manoscritto, il gusto per il topos letterario, il divertimento intellettuale a richiamare moduli narrativi noti. Consolatorie, fin da subito, quando già minacciosi comparivano i primi riferimenti culturali per me sconosciuti, subdorati ma non indagati al fine di non perdere continuità nella lettura, l’alternasi delle sequenze puramente narrative e la tecnica di presentazione dei personaggi. Irresistibile già nell’ora terza del primo giorno il richiamo alla semiotica, al valore dei segni, alla loro decifrabilità e alla loro comunicabilità. E lì, volente o nolente, la trappola ha funzionato e ancora prima di imbattermi nelle successive, naturalmente solo in quelle che il mio limite culturale rendeva intellegibili, ho iniziato a rincorrere gli indizi: non i fatti contingenti alla soluzione del giallo ma i segnali di un disegno altro, quasi di un messaggio subliminale consegnato a quest’opera. E invece, bravissimo Eco, mi sono ritrovata ad attraversare le diverse fasi di appagamento che sono necessari al lettore: la progressione della trama, il senso della scoperta, la meraviglia che l’accompagna, l’ammirazione per la mimesi stilistica e per la ricostruzione storica. E poi il climax continuo, la lotta tra il bene e il male, il conforto delle vecchie care antitesi e perché no il dirottamento verso una sorta di immedesimazione e di edificante protagonismo, la catarsi finale, senza né vinti né vincitori ma solo lo sprofondare nell’assoluto trionfo del caso e nell’annullamento di ogni categoria, la pace dell’assenza di qualsiasi segno …”stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
La montagna incantata
Trovi utile questa opinione? 
210
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    06 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Brontolo ergo sum

Kunsthistorisches Museum, un uomo è in anticipo di un’ora su un appuntamento datogli da un altro uomo, il suo a dir poco zelante tempismo è studiato perché gli serve per osservare o meglio spiare l’uomo che gli ha dato l’appuntamento, dalla Sala Sebastiano verso la Sala Bordone, indisturbato e da un’angolazione che definisce ideale. Reger può essere finalmente fatto oggetto di studio da Atzbacher, con la complicità del sorvegliante Irrsigler che è appunto colui, lo verremo a sapere più avanti , che rende possibile anche la visuale esclusiva di Reger, in posizione privilegiata di fronte al quadro di Tintoretto, l’Uomo dalla barba bianca, seduto su una panca rivestita di velluto, pura licenza poetica del nostro autore rispetto al luogo reale di cui si parla. Reger a sua volta osserva un uomo che guarda, di sbieco, da una posizione non frontale, un vecchio dallo sguardo teso e indagatore, sospeso nell’attimo della ricerca. Di che cosa non so, della verità , forse. Questo interessante gioco di specchi e di rimandi , del tutto borgesiano, è poi impreziosito e amplificato dalla originale gestione della voce narrante che in terza persona (“ scrive Atzbacher”)riporta le impressioni del secondo narratore in prima persona, per cui per tutto il tempo leggiamo un lungo e ininterrotto monologo che a sua volta introduce il terzo narratore, ovvero lo stesso Reger. Insomma siamo di fronte a uno spazio fisso che si potrebbe paragonare al palco di un teatro dove in scena ci sono degli attori che sono al tempo stesso degli spettatori, in un perfetto triangolo che tramite Reger si prolunga verso un’altra dimensione che è quella del quadro che, a sua volta, rimanda ad altro spazio. Spazio infine che è attraversato da molteplici voci e amplificato ancora da inserzioni narrative che fluttuano nella dimensione del ricordo. In un’ora Il narratore primario permette a quello secondario che ci intrattiene di dare a sua volta la parola al terzo narratore che, in sostanza, è il protagonista primario. Un brontolone, un misantropo, un dissacratore che man mano svelerà la sua teoria del tutto, a partire dalle osservazioni sullo spazio museale e sulla sua funzionalità per allargarle a raggiera sui suoi avventori, bulimici e ignari, sui critici d’arte, sul sistema stato, sull’intera nazione, sull’Austria, cattiva maestra, sui maestri e sugli antichi maestri per andare a sventrare il significato stesso dell’arte, in tutte le sue espressioni, non solo pittoriche. Alla base l’assunto che nega la perfezione per giungere poi alla constatazione che l’arte è per noi semplicemente il bastone su cui ci appoggiamo, o l’elemento su cui proiettiamo, da fruitori, ma probabilmente anche, per chi riesce, da creatori, la nostra finitezza, la nostra imperfezione, la nostra insulsaggine che probabilmente è solo da accettare riuscendo a riderci un po’ su. Insomma, non prendiamoci sul serio, scendiamo dal piedistallo, riconosciamoci tutti un po’ Reger: adorabili brontoloni e , se vi va, ascoltiamo le nostre tirate reciproche accettando anche l’improbabile nel comportamento altrui.
Gradevole caleidoscopio che può stordire come un giro di giostra ma che lascia l’euforia dell’osare

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
non saprei, molto originale, difficilmente accostabile ad altri autori
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    01 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Sulle orme di H. James

È necessario premettere a questo scritto il fatto innegabile che io sia un’estimatrice della prosa enigmatica, elusiva e allusiva di Henry James e che la lettura di questo romanzo mi ha permesso di riconoscerne qui i tratti fondamentali della sua scrittura. È stata dunque una lettura piacevole in virtù del fatto che la tecnica narrativa utilizzata -narratore interno costantemente autorappresentato nello sforzo di ricostruire una vicenda di cui egli, all’epoca dei fatti narrati, non era per niente consapevole e che si ritrova più che a essere protagonista a fare semplicemente da testimone – pur generando numerose anacronie e il ricorso frequente ai flashback con conseguente sforzo ricostruttivo della vicenda da parte del lettore , genera nello stesso , o almeno questo capita a me, il pieno coinvolgimento nella narrazione col fine pressante di capire gli eventi .
Tutto è detto e taciuto fin dall’inizio, accennato ma non svelato; il narratore, John Dowell e la moglie Florence sono due ricchi americani che stabilitisi in Inghilterra entrano in amicizia con una coppia, gli Ashburnham, il buon soldato Edward, appunto, e sua moglie Leonora. John racconta in seguito alla morte della moglie e di Edward i fatti che apprende dalla rivelazione di Leonora: insomma sappiamo fin da subito di essere alla ricerca di una verità che ci verrà però consegnata solo attraverso un unico punto di vista supportato tra l’altro solo dal ricordo e dall’ipotesi ricostruttiva, quella riconducibile al “deve essere accaduto proprio così”. Il narratore inoltre non nasconde il suo imbarazzo a essere stato in un qualche modo estromesso da quegli stessi eventi di cui ora riferisce e non cela nemmeno il fatto di non riuscire, nonostante tutto, a giudicare i protagonisti della “ più triste storia” – questo sarebbe dovuto essere il titolo originale cassato dall’editore per via dei tempi di pubblicazione, correva l’anno 1915, - e in particolare a mostrarsi molto comprensivo nei confronti del “buon soldato” Edward, a più riprese giustificato per i suoi comportamenti e quasi commiserato. La stessa compiacenza viene mostrata inizialmente anche per le donne coinvolte, le quali, però negli sviluppi successivi, vengono entrambe, almeno “le mogli” giudicate e allontanate dalla propria sfera affettiva, la stessa che, per tutto l’arco dell’esistenza del nostro John, si rivelerà essere stata monca, deficitaria, incompleta e irrisolta. Probabilmente il commento che state leggendo sarà a sua volta percepito come allusivo e poco chiaro ma questo è fatto per tutelare lo stesso futuro lettore dell’opera che deve essere messo nelle condizioni di non sapere nulla per affidarsi totalmente alla voce narrante, a suo rischio e pericolo. Buona lettura.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
H. James
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    15 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

IL CERCHIO DELLA VITA

“Dio creò l'uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò;
maschio e femmina li creò.”
Genesi 1,27

Un Lui crea con una Lei, dalla notte dei tempi, un altro uomo: maschio o femmina. Un essere vivente e già in nuce morente, chiamato all’esistenza per un arco temporale circoscritto ma non definito: l’incognita più evidente della condizione chiamata vita. TEMPO. L’ essere nasce, del tutto inconsapevole; e l’essere, mentre il suo sistema fisiologico muta nel processo chiamato crescita, si inserisce in un contesto umano fatto di relazioni e si adatta. Inizialmente non dotato di categorie mentali utili a fargli decifrare l’ignoto che man mano si rivela, costruisce a sua volta categorie conoscitive e schemi comportamentali e assume, di riflesso, per il processo evidente dell’imitazione, quelli delle persone che gli sono più vicine. GENITORI. Esseri imperfetti che hanno già attraversato le fasi primordiali, esseri apparentemente finiti e conclusi in quanto adulti. Esseri che, in un processo di replicazione egoistica, bramano di scorgere nella loro genìa la propria unicità. CORTO CIRCUITO. Ogni essere umano è essere a sé: può riflettere l’immagine altrui, può essere cesellato finemente ma ha da fare, nella sua esistenza, il necessario processo di affrancamento da chi l’ ha preceduto, facendo tesoro degli errori altrui ma anche delle esperienze passate che non necessariamente portano solo, anche nelle avversità più buie, male o negatività. DOLORE. Necessario compagno dell’esistenza, passaporto per il superamento generazionale. RICONOSCENZA. Necessaria anch’essa per cogliere il dono della vita e cercare di spenderlo nel migliore dei modi possibili.
Un autore scrive, chiediamoci il perché.
Daniele Sannipoli è un giovane studente di medicina, una mente brillante, un ragazzo che si è sempre distinto per la passione con cui affronta il sapere. Un giovane uomo che sarà medico e che ha la sensibilità necessaria a sostenerlo in questa delicata professione; la lettura e la scrittura lo affiancano nel suo quotidiano e lo dotano di strumenti utili a sostenere gli uomini che un domani saranno i suoi pazienti. Un ragazzo di oggi che ha saputo, grazie al suo talento, regalarci lo stupore dell’universo emotivo di un giovane, restituendoci, a distanza di anni, i medesimi dubbi, le stesse fascinazioni, i dilemmi che ci hanno accompagnati guardando in viso i nostri genitori.
Perché ha scritto? Perché è un essere umano e agli altri esseri umani tende in un consorzio che ci unisce tutti nell’universalità della nostra condizione.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Kafka
Camus
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
2.0
siti Opinione inserita da siti    15 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Che paese, l'America

Un atto di coraggio, ecco, così potrei definire questo romanzo. Un atto coraggioso per una serie di ragioni, bastanti - le prime due che elencherò - ad argomentare l’asserzione: l’opera è una denuncia del falso mito americano, in primo luogo, ed è, in seconda battuta , una critica fatta da una parte debole del melting pot che compone il popolo America. La parte ebrea, una tra le tante molecole di un composto chimico non ancora ben amalgamato nonostante si sia, ai tempi di Roth - coincidenti con quelli della narrazione – alla seconda generazione, quelle di figli dei migranti che si sentono pienamente americani. È americano lo Svedese? È americano lo stesso Roth? Perché lo chiedo, perché ve lo chiedo? Partiamo dall’assoluto protagonista della narrazione, Seymour Levov, nomen omen verrebbe da dire, di facile tracciabilità: ebreo al cento per cento; e no, che fa il nostro Roth? gli appioppa una alterità, una diversità tale che già a livello visivo fa di lui un originale, un diverso, un unicum , ha i tratti somatici di uno svedese e tale è , per tutta l’opera, un caso eccezionale: un uomo retto, eccellente, infallibile, equilibrato, un puro, un giusto verrebbe da pensare. Lo Svedese. E no! Calma: si va in direzione opposta; è semplicemente il riflesso negli occhi altrui di un modello vincente e rampante che incarna appieno il mito americano, dell’uomo di successo, della società di successo, quella competitiva e infallibile anche quando sguazza nel fango nero della guerra inutile o , per tornare alla dimensione del singolo, quando vive un vero e proprio dramma familiare che, all’insegna della violenza, della mina vagante, della casualità, dell’idealismo, dell’ingenuità, della pazzia se vogliamo, frantuma un’identità, fragile e contraddittoria come quelle di tanti, di tutti. Arriviamo ora al narratore, un vero e proprio alter ego dell’autore, Nathan Zuckerman, nomen omen nuovamente, di chiara matrice ebraica, uno scrittore con alle spalle anche lui un mondo di migranti americanizzati. Ennesima identità celata, ennesimo tratto originale perché la sua narrazione sarà solo frutto di una mera supposizione, una possibile ricostruzione dei fatti che potrebbe avere vissuto lo Svedese a partire da un’unica certezza: era un giovane brillante, lo incontra a distanza di anni, gli vorrebbe consegnare brevi manu la sua vita; la consegna è solo rimandata e non avverrà perché il narratore apprenderà poco dopo del decesso dello Svedese dal fratello.
Originale cornice a incastonare una narrazione secca, asciutta, a tratti ripetitiva, martellante direi, quando tocca gli aspetti più ideologici, l’ etica. Una visione laica e dissacrante di un falso mito creato da cantori precedenti che lo hanno voluto generare con intento puramente autoreferenziale. Una voce scomoda e stridente che non necessita di autocompiacimento e che quindi non cerca plauso alcuno, neanche in termini di piacevolezza. Sì, non mi è piaciuto, fatico a dirlo, perché è davvero un grande romanzo, è innegabile. Sono forse nostalgica della prima generazione di migranti e delle loro difficoltà? Qui l’omologazione necessaria e il desiderio di conformismo dei loro figli annienta ogni beltà e fornisce un quadro ancor più triste e desolante di quanto non fosse quello, per esempio, del triste commesso malamudiano. Viva l ‘America? Anche no.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Malmud
Frank McCourt
Trovi utile questa opinione? 
210
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    01 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Del perché sia un libro bello

Della famigerata lettera di Alessandro Manzoni, iniziatore del romanzo storico in Italia, al marchese D'Azeglio “Sul Romanticismo” (1823) tutti ricorderete le parole: “Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter esser questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo.” La necessità, dunque, per fare letteratura, di un argomento legato al contingente, al reale; di un argomento capace di “scoprire e di esprimere il vero storico e il vero morale”, perché “sorgente del bello”, perché” il vero storico e il vero morale generano pure un diletto, e questo diletto è tanto più vivo e tanto più stabile, quanto più la mente che lo gusta è avanzata nella cognizione del vero: questo diletto adunque debbe la poesia e la letteratura proporsi di far nascere.”
Dopo aver vissuto sensazioni contrastanti, allontanamenti repentini e riappacificazioni altrettanto estemporanee , tanto da farmi dubitare di un qualsivoglia residuo di giudizio, mio, personale, nel leggere questo controverso testo cardine della nostra letteratura italiana del novecento, mi sento ora di poter affermare che oltre a essere un libro utile , esso sia pure un libro bello. Sì, avete ben compreso, un libro bello, inteso, ricalcando le parole di Manzoni, come un libro capace di esprimere il vero storico e il vero morale. Non sono giunta a questa convinzione facilmente, in maniera netta, pulita; tutt’altro anzi, perché la materia di questo romanzo storico è respingente, su più fronti, nel contenuto, macabro, grottesco, a tratti surreale e orrido come le peggiori visioni infernali; perché il rischio di leggerlo seguendo una qualsivoglia ideologia (basti , per tutti, ma non è l’unico, il binomio fascista/ comunista - partigiano)è molto elevato; perché ancora l’ombra del suo controverso autore è feroce: rischia di oscurare tutto. Leggere questo romanzo, a mio parere, per ben leggerlo, significa entrare in una dimensione asettica, come quella necessaria prima di un intervento chirurgico; leggerlo evitando dunque qualsiasi contaminazione e soprattutto leggerlo con gli occhi di un lettore non del narratario ipotetico che possiamo presumere possa essere stato il primo destinatario dell’opera. Noi non lo stiamo leggendo all’indomani del secondo conflitto mondiale, io personalmente non l’ho nemmeno vissuto, per mia fortuna, anche se ha lasciato viva memoria in mia madre ancora vivente e di conseguenza indirettamente anche in me; noi abbiamo la fortuna di una lettura meno ideologizzata della storia italiana, della stessa lotta partigiana anche se viviamo ancora in un’epoca di forti strumentalizzazioni ideologiche( basti pensare alle vergognose polemiche che hanno annebbiato il 10 febbraio scorso e l’incapacità generale di leggere ancora alcune pagine della nostra storia); noi siamo i lettori dell’oggi che possono solo, a mio modesto parere, ringraziare il dato oggettivo fotografato da Curzio Malaparte. Un Paese sotto una dittatura, un Paese vinto, un Paese infine liberato da un vincitore, un Paese sconfitto, sotto tutti i punti di vista; un Paese infine ammorbato dal male, come tutta l’Europa, ma, a ben vedere come tutto il mondo; perché non c’è distanza alcuna tra vinto e vincitore dove a trionfare è solo il Male. Una storia che non lascia spazio a espiazione o a redenzione alcuna ma che condanna, in una disfatta generale, qualsiasi ideologia, qualsiasi posizione: quella del vinto, quella del vincitore, quella del fascista, del comunista, del partigiano, del cattolico … è il trionfo della morte dell’uomo, del suo umanesimo schiacciato dalla guerra.
Sono dunque convinta assertrice della necessità di recuperare questo libro, di farlo conoscere, perché penso sia un libro profondamente coerente, leale, oggettivo e coraggioso per le posizioni espresse. È vero, non è un libro perfetto, a tratti è ripetitivo e disturbante, ma letto fino in fondo esprime una profonda umanità, un interesse vivo e reale per il bene del nostro popolo, non è un libro “bello” perché racconta l’orrore ma è un libro originale perché lo fa attraverso molteplici moduli stilistici e letterari, senza risparmiare il grottesco e il surreale, è un libro dall’intelligente ironia ma anche un libro doloroso. È l’esperienza di un uomo in un ennesimo viaggio al termine della notte; una notte che spesso è stata metafora della perdita dell’umanità. L’unico tratto peculiare che rende l’essere umano, o dovrebbe, renderlo tale.
Mi dispiace di non aver scritto niente di dettagliato e forse di utile ai fini di una recensione, posso solo sperare che le mie parole permettano ad altri di accostarsi , nella maniera corretta, a questo scritto che annovero, a livello stilistico, tra i più alti e belli, dunque, che mi sia capitato di leggere nella mia esperienza di lettura.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
La Bibbia
Trovi utile questa opinione? 
200
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    26 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Nel cuore della Storia

Dopo aver letto “La famiglia Moskat” e “La famiglia Karnowski”, per citare le due più conosciute saghe familiari della letteratura yiddish, l’una del premio Nobel Isaac B. , l’altra del fratello Israel J. e dopo aver inseguito per alcuni anni le rappresentazioni del popolo annientato, in terra europea come in terra americana per il tramite di J. Roth e del suo “Giobbe” o attraverso Malamud e il suo malinconico commesso, davvero non pensavo di poter nuovamente imbattermi in una narrazione che potesse uguagliare le precedenti. Inutile dire che il corposo romanzo di Israel J. Singer ha oltrepassato ogni mia aspettativa, con il suo solito stile pacato e asciutto, con un’ inesauribile capacità narrativa, a cui basta un unico colpo di fioretto per arrivare al cuore e per il suo tramite passare alla mente a suggerirle le verità nascoste ma già rivelate e contenute, come arcani misteri sopravvissuti al tempi, nei sacri libri della Bibbia. Non occorre crederci a tali verità, ci si riveleranno comunque nel nostro percorso di vita e anche noi avremo un momento nel quale, ripiegati su noi stessi, cercheremo il significato della nostra esistenza, domandandoci se quella vissuta è stata degna di noi. Tale è il lascito di questo coinvolgente romanzo storico, di ampio respiro, poggiato su solida ambientazione storica e geografica: la Polonia e i possedimenti dell’impero russo negli anni cruciali compresi tra la seconda rivoluzione industriale e la prima guerra mondiale, passando per la rivoluzione russa e terminando con l’involuzione economica generata dalla sovrapproduzione sul finire degli anni venti del secolo scorso. Una narrazione dunque che intrecciando la storia universale a quella particolare punta i suoi riflettori sul nucleo originario di quella che poi sarebbe diventata la fiorente e feconda industria tessile di ?ód? . Protagonisti due fratelli ebrei, gemelli diversi, Jacob Bunim e Simcha Meyer, pur senza fare della loro originaria diversità e del loro antagonismo, l’unico e riduttivo fulcro narrativo. Direi anzi, che le loro storie individuali scorrono su binari paralleli, con rari e sporadici incontri che fomentano il seme della discordia la quale però è sempre taciuta, sottintesa, mai dunque direttamente rappresentata ma quasi filtrata dal succedersi incalzante degli eventi, della vita. Un romanzo che permette di approfondire altresì la parabola crescente dell’odio antisemita, il suo montare in una terra dove tedeschi ed ebrei avevano creato, dal nulla, ricchezza e prosperità e con esse disparità e differenze di classe, una terra capace di digerire il capitalismo borghese solo quando non generato dagli ebrei. Uno scritto che restituisce dunque una visione più completa della storia, inserendo le comunità ebree in qualità di protagoniste in quel parossismo capitalista che generò poi solo abominio e violenza. Da leggere, sicuramente.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
La famiglia Karnowski
Trovi utile questa opinione? 
210
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
siti Opinione inserita da siti    14 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Nel cuore degli uomini

Wisconsin, nel Midwest, nel cuore della regione dei Grandi Laghi, un piccolo paese del Wisconsin in realtà, spopolato, abitato solo da vecchi, gente semplice, lavoratori in pensione, mariti e mogli con alle spalle solide unioni matrimoniali o amari fallimenti. Un luogo piccolo, dove tutti si conoscono, dove la comunità intreccia il proprio vissuto con le gioie o i dolori degli altri. Un luogo fatto di piccoli semplici gesti, sguardi schietti, rare le espressioni più vive d’affetto, arrivano solo quando è veramente necessario. Lyle, il sessantenne protagonista, vive qui con la moglie Peg e da poco, i due coniugi, ospitano la figlia adottiva e il suo bambino, Isaac, gioia pura per il nonno che aveva perso il suo unico figlio maschio di nove mesi. Pochi amici, ma veri e preziosi. Un lavoro per tenersi vivo, la cura di un frutteto di un’anziana coppia cui presta il lavoro non tanto per la retribuzione quanto per l’amore per i meli che vi abbondano, fragili e delicati nel fiore e nel frutto: una varietà unica e preziosa. Le vicende personali della figlia Shiloh portano nel cuore della famiglia le ombre dell’incomprensione, le distanze dell’ insicurezza, aprono ferite che un tempo si erano rimarginate; sono decisioni adulte, percorsi individuali, quelli che un genitore, pur disapprovando, non può contrastare perché correrebbe il rischio di allontanare per sempre l’amore di un figlio trascinando in questa deriva anche gli altri affetti, la moglie, il nipote. È dunque il romanzo di Lyle, personaggio davvero ben tratteggiato, irrisolto nella sua fede, contrastato dalle certezze altrui, capace però di ponderare sempre il suo dubbio, di mettersi in discussione, di tentare di capire anche quando è evidente che ciò che accade è pura follia. Shiloh è vittima di un manipolatore che la mette in pericolo e soprattutto mette a rischio la vita del piccolo Isaac, ritenuto dal predicatore, di cui si è innamorata, un guaritore. Ispirato ad un fatto di cronaca, il romanzo non risente per niente della matrice cronachistica e non è nemmeno affidato ai toni melodrammatici o alla suspense che avrebbero potuto farlo scadere al rango di uno scritto scontato e prevedibile. Il dramma è sempre sullo sfondo, allontanato, dilatato, irrisolto; più importante è invece perdere lo sguardo nei rapporti interpersonali, scandire i fatti con il susseguirsi delle stagioni, avere il tempo di respirare la natura, la vita, le sue gioie e i suoi dolori. Convincente.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
210
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi autobiografici
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    10 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Una donna lei, un poeta lui

È un carteggio considerato oramai un classico, pur avendo edizioni precedenti - la prima è la cosiddetta vallecchiana risalente al 1958 - non cessa di rappresentare una sfida filologica per gli studiosi dei due scrittori italiani. L’edizione del 1987, curata da Bruna Conti, si è arricchita infatti degli studi successivi basati soprattutto sugli archivi di Sibilla Aleramo che, alla morte, la medesima lasciò al Partito comunista italiano per essere poi resi consultabili dalla Fondazione istituto Gramsci di Roma. La stessa prima pubblicazione non fu esente da acerbe critiche perché a detta di Franco Matacotta, ex amante della scrittrice nonché suo pupillo, stando ad una lettera di Dino Campana dove lo scrittore espressamente diceva “ le mie lettere sono fatte per essere bruciate”, quel carteggio non si sarebbe mai dovuto pubblicare. Lascio ai lettori scoprire i motivi che spinsero Matacotta ad operare in tal modo e non svelo altro dei retroscena molto ben argomentati dalla curatrice Bruna Conti nella minuziosa prefazione che introduce il volume e costituisce sicuramente la parte più interessante di questo libro. Le lettere, a onor di cronaca, furono spesso richieste espressamente alla scrittrice che le serbava gelosamente e lei le rese consultabili solo due anni prima della morte, quando appunto era già una donna anziana. La possibilità avuta dalla curatrice di esaminare anche alcuni scritti originali di Dino Campana ha permesso infine di gettare luce su una storia d’amore travagliata e dolorosa, nella sua brevità, ma che purtroppo stigmatizzava l’estrema libertà di Sibilla e ne faceva volontariamente, agli occhi dell’opinione pubblica, la colpevole della pazzia di Dino.

Il volume dunque è sicuramente consigliabile se si vuole conoscere i retroscena di una delle più famose storie d’amore fra letterati italiani, soprattutto se si vuole sapere la verità sul tormentato rapporto d’amore; va detto anche che ridotto al solo carteggio l’esperienza di lettura potrebbe apparire alquanto riduttiva e blanda nei contenuti ma, letta la prefazione, il lettore avrà modo di riflettere sul destino di un uomo e di una donna nella prima metà del secolo scorso, entrambi spiriti irrequieti e non facilmente inquadrabili nelle categorie del perbenismo di facciata imperante all’epoca. Buona lettura: una donna lei, un poeta lui.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Canti orfici
Una donna
Trovi utile questa opinione? 
220
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    10 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Il potere dei grandi?

Opera postuma e incompiuta, 1956. Romanzo, non testo teatrale. Opera molto attesa, si sapeva che il noto drammaturgo ci stava lavorando, una lettura forse oggi ai più sconosciuta, mi ci imbatto grazie a Luciano Canfora e al suo saggio “Giulio Cesare. Il dittatore democratico”, è lo stesso storico a chiarirmi che Brecht in realtà aveva iniziato la sua stesura già un ventennio prima della morte. Che sia un’opera complessa , è affermazione insindacabile. Si tratta sostanzialmente del resoconto di uno storico giovane e idealista che , a vent’anni dalla morte del dittatore, si mette sulle tracce dei diari di Raro, il segretario di Cesare, con lo scopo di attingere alle preziose informazioni in essi contenute per documentarsi in modo più completo in previsione della biografia sul grande uomo che egli ha in mente di scrivere. Il resoconto delle ricerche condotte dal nostro narratore, che ha come primo interlocutore il banchiere di Cesare, si alternano alle pagine degli immaginari diari di Raro. Tramite la sua voce narrante scopriamo un Cesare inedito, un ritratto dell’uomo certo, ma soprattutto il ritratto di un personaggio politico emergente. A dire il vero, Cesare è solo il pretesto usato da Brecht per restituire il periodo nero della cosiddetta crisi della repubblica, con un riguardo particolare all’aspetto meramente sociale delle conseguenze registrate sulle frange sociali più deboli a causa della gestione del potere. Un potere che viene rappresentato apparentemente come quello tipico delle istituzioni romane ormai collassate ma tramite un linguaggio vivido e attuale e a noi sinistramente conosciuto. Qui si parla di affari, di giochi speculativi , di Borsa, di crac e dissesti vari, di alleanze marce che sorreggono il privilegio di pochi, di un sistema economico degno dei cuori commerciali più attivi del nostro pianeta. Un prototipo di City, di quartieri affaristici contrapposti alla Suburra, un via vai di faccendieri, di individui loschi ma anche tremanti quando si avvicina l’ennesimo ribaltone politico a matrice, sempre e solo, squisitamente, finanziaria. In primo piano i raggiri, il sistema di clientele, la corruzione, il malcostume, l’assenza totale di un’etica politica, in secondo piano- ma efficacemente evidenti- le condizioni del popolo schiacciato dallo stesso sistema di clientele che mantiene in vita, dai danni economici derivati da guerre di conquista che avrebbero dovuto invece garantire un allargamento delle possibilità economiche per tutti. La guerra non è poi neanche guerra: è conquista di nuovi mercati. Parallela, lieve e gradevole, scorre la vicenda d’amore dell’autore dei diari per il suo amato, partito con gli eserciti di Catilina dopo il fallimento della congiura. E Cesare? Con viva delusione per il suo estimatore rimane una figura enigmatica e sfuggente, apprezzato e insieme denigrato da chi gli è più vicino, non solo Raro, pronto a cercare con doti da perfetto camaleonte la via più adatta o se vogliamo il momento più adeguato, la classica mossa giusta per sfondare e assumere il potere. Questo Brecht, non ha fatto in tempo a rappresentarlo ma ciò che ha premesso permette al meglio di cogliere un certo populismo crescente in Cesare man mano che si approssimava al suo personale trionfo e alla presa del potere ma anche lo sguardo lungo di che sapeva che il popolo va guidato e gestito per evitare la rivoluzione:
“ La capitale del mondo è costituita da alcuni edifici governativi in mezzo a sobborghi. Qualche sala riunione, alcuni templi e qualche banca, circondati da un mare di case d’affitto decrepite, piene di miserabili. La guerra è stata un delitto. I vinti sono ventidue re asiatici e il popolo romano. La capitale del mondo ospita oltre a voi, signori miei, soltanto disoccupati. L’occupazione cui si dedicheranno un bel giorno, vi meraviglierà tutti. I capi della democrazia presto non saranno più in grado di far capire la ragione alle masse. In queste condizioni serrate pure col pugno i vostri sacchi di soldi! Domani ve li porteranno via, con tutto il pugno.”
Una condanna della guerra, un monito al Senato, una profezia…
Un romanzo che permette infine di capire il valore della storiografia in ogni epoca storica. Pensateci bene, che idea di Cesare vi ha tramandato lo studio della storia a scuola? Sapete che lo stesso Catilina è personaggio già da tempo riabilitato? E il mito che spesso si accompagna a queste grandi figure storiche? E l’approccio storiografico attuale?
Un libro che apre insomma a importanti riflessioni in tempi non proprio felici quali sono i nostri durante i quali lo studio della storia va ancor più difeso e direi garantito alle giovani generazioni.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
saggi storici
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    02 Febbraio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La condizione umana

Una creatura, costretta al domicilio coatto, un essere quasi senza memoria, una creatura già disorientata prima ancora di essere trascinata dentro un labirinto claustrofobico. Una creatura moltiplicata, all’infinito in immagini concentriche tese anch’esse all’infinito e prodotte dagli specchi che rivestono le pareti del non luogo dove si trova. Un essere che non ha consapevolezza della realtà, intorpidito dal sonno della non conoscenza, una creatura senza categorie mentali, puro istinto.
Questo è il Minotauro per lo svizzero: un istinto messo di fronte a tanti specchi, una reazione motoria che è capace di iniziativa, di azione, anche se bestiale. È accovacciato, è rannicchiato, è in piedi, arretra, si tocca il capo, fa cenni di saluto, gli altri esseri riflessi lo imitano. Non è solo, la relazione instaurata con la moltitudine dei sé riflessi lo rende presuntuoso, anche se per un attimo: crede di essere un capo, un dio. Nel labirinto entrano i giovinetti ateniesi, una ragazza prima fra tutte, la creatura è istinto, festeggia il contatto con altri da sé ma la relazione con l’altro da sé precipita: si fa violenza bestiale, morte. Non c’è però alcuna intenzionalità. Il mito si sfalda ulteriormente, accresce la carica umana dell’essere mostruoso, perde di consistenza la sua leggendaria violenza. Non sa cosa siano maledizione, destino, nascita e morte, il sole gli rapisce, con i suoi bagliori che impediscono il riflettere degli specchi, l’unica non verità alla quale era appena pervenuto. Altre presenze. Il contatto con l’altro però lo fa diventare di nuovo bestia ma questa volta seguendo l’atavico istinto della bestia sopraffatta dall’uomo, della creatura che ha scoperto l’odio. Prima categoria mentale: il dubbio. Al dubbio seguono paura dell’altro da sé e orgoglio della propria unicità, la creatura è ora volontà di violenza. Rimasto solo combatte con se stesso: è l’epifania dell’identità ma è solo percezione senza comprensione. Solo l’ inganno di Teseo lo riconduce al desiderio di amicizia, di comunanza, di fratellanza, dato dalla parvenza di somiglianza: morirà tradito dalla fiducia verso l’altro.

Amarissima parabola sulla condizione umana: un misto di dubbio, di incomprensione del sé che si scontra con i medesimi dubbi e le medesime incomprensioni degli altri.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Borges , L'aleph ( in particolare il racconto La casa di Asterione)
Trovi utile questa opinione? 
220
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    25 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Satelliti in cerca di un’orbita distante dal male

Una stella brilla, seppur distante, ne cogli la presenza, fisica, oggettiva, il suo essere stella dovrebbe rassicurarti, indiscussa dovrebbe essere la sua funzione: guidarti, come nel mare, i primi naviganti, la stella polare. Ma questa stella non è il nord, questo è il sud, il profondo sud, quello “in culo al mondo” direbbe Lobo Antunes, quello che rigetta i suoi figli e li sparpaglia nel mondo, ispanico prima ovvero latino americano e poi europeo, di una moderna Barcellona, magari. E fa odiare loro la propria patria e gliela fa rinnegare mentre ne canta, malinconicamente le virtù.
Dove risiede la virtù del Cile dopo l’11 settembre 1973? Quando tutto sembra perso, dove si può ricercare quel che era, quel che è stato? Si ha il bisogno di una ricerca, preme l’esigenza di una risposta. Avvertito è il dovere per lo meno di dire quel che c’era. E in Cile c’era la poesia, in Cile c’era la vivacità culturale, anche femminile, l’università, c’erano gli studenti, si respirava cultura. Molti sono spariti, gli altri sono dispersi e disperati vivono il loro anonimato facendo i commercianti, nulla racconterebbe di essi i trascorsi culturali, i sogni infranti, la vita spezzata.
E allora chi ha ancora, seppur dopo una vita raminga e povera e lontana dalla patria, la forza di cantare, lo fa, in modo prepotente, originale, violento e soprattutto attraverso un’assenza, un personaggio che pare incarnare i mali del mondo, sfuggente, etereo, irreale. Questo è per me “Stella distante”, la storia di un non personaggio, un parto letterario necessario affinché si compia un omicidio virtuale, quello del male.
La sua forma letteraria è impregnata di metaletteratura , rimanda ai labirinti borgesiani, storie che richiamano altre storie, che formano un universo coeso, dove la centralità è solo apparenza perché ciò che conta è l’infinito satellitare che gli ruota attorno. Chi è Alberto Ruíz-Tagle? Ancora ve lo chiedete? Non ha nessuna importanza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Borges, Finzioni
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    25 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Quello che non si dice

Opera del 2004, già edita in Italia e riproposta ora da Feltrinelli nella collana “I Narratori”, interessante prodotto di uno scrittore colombiano, Juan Gabriel Vásquez, che riesce a catturare l’interesse dell’editoria internazionale e viene acclamato come una delle voci più innovative della recente letteratura sudamericana. Non delude le aspettative.
Il romanzo è innanzitutto un libro nel libro, racconta infatti le conseguenze accorse alla voce narrante in seguito alla pubblicazione del suo primo libro e viene siglato da un post scriptum che inserisce ulteriori sviluppi alla vicenda confinata in questo suo secondo libro intitolato appunto “Gli informatori”. La struttura narrativa è perciò complessa, originale, capace di determinare un andamento vivace alla scrittura che si avvale, giocoforza, di ampie analessi oltre che di inserti narrativi dal respiro documentario.
Nei primissimi anni ’90 del secolo scorso, Gabriel Santoro è richiamato dal padre, di cui porta lo stesso nome, perché l’anziano genitore che solo tre anni fa aveva bocciato in maniera del tutto inaspettata e feroce il suo libro con una recensione impeccabile, determinando quindi il loro allontanamento, deve subire un importante intervento chirurgico. Questo evento iniziale genera a cascata tutti gli sviluppi successivi: il parziale riavvicinamento dei due e la svolta imprevista del decesso del padre, eventi che a loro volta generano, a spirale, il riemergere di un passato celato che Gabriel tenterà di decodificare al di là della cortina di mistificazione che il sapiente genitore, docente di retorica, ha innalzato.
È la storia della Colombia, terra di arrivo per molti profughi tedeschi durante i feroci anni del nazismo, terra che ospita inizialmente e poi rigetta, in seguito agli sviluppi della II guerra mondiale, i pericolosi tedeschi, tutti, a prescindere dalla loro ideologia, è dato per scontato che siano tutti nazisti. Si tratta spesso di tedeschi perfettamente integrati nel tessuto sociale colombiano, ne hanno sposato le donne, hanno da loro figli che parlano spagnolo e sono cattolici. Un centinaio vengono internati nell’ Hotel Sabaneta di Fusagasugá, a sud di Bogotà, questo libro parla anche di loro e di come ci siano finiti.
Tutto ruota intorno al valore della parola e come declama lo stesso Santoro nella sua aula universitaria qui si parla “di quello che non si dice, di ciò che sta oltre il racconto, il computo, il riferimento”. Spesso la verità è impossibile da ricercare. Buona lettura.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    20 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Fuori corso

V. Blasco Ibáñez è considerato l’ultimo dei romanzieri realisti spagnoli, quelli sulla scia di Galdós per intenderci, nome importante, autore di veri e propri successi letterari oltre che una personalità di spicco nella Spagna di fine ‘800. Fu deputato, antimonarchico, fondatore del quotidiano ?? El pueblo?? e la sua fama è spesso associata a pellicole celebri quali “Sangue e arena” e appunto “I quattro cavalieri dell’Apocalisse”. La sua scrittura fu certamente poliedrica ma anche criticata, soprattutto quando eccessivamente tesa al melodramma.

“I quattro cavalieri dell’ Apocalisse” è un romanzo sulla guerra, scritto durante la guerra, concepito nel 1914 sull’ultimo transatlantico tedesco che toccò le coste francesi prima dello scoppio del conflitto, quando l’orgoglio delle grandi potenze ventilava l’ipotesi di una guerra veloce, di una guerra preventiva, igienica e necessaria. Nasce, nella sua crudezza realistica - quella che rappresenta le azioni belliche appunto- non da una fervida immaginazione ma dall’esperienza diretta che il suo autore fece del conflitto in qualità di inviato speciale, dopo la prima battaglia della Marna, non per i giornali, ma per la nazione. L’ incarico infatti lo ricevette dal Presidente Poincaré, con la raccomandazione di farne materia di un romanzo che servisse la causa degli Alleati rappresentando l’atrocità delle operazioni belliche. Si legge in realtà un sentito odio per i tedeschi, per gli invasori, comprensibile a livello umano e sicuro specchio dei sentimenti che agitarono gli animi in quel periodo, ma , se si sorvola su questo aspetto, direi troppo marcato, e si giunge a fine lettura, ci si rende conto che a questo si aggiunge un sentimento di fratellanza che accomuna francesi e tedeschi nel dolore, nella perdita, nel lutto, nella sofferenza. Il romanzo è anche un bellissimo affresco dell’Europa emigrata in Sud America, dei figli di una terra vecchia e percorsa ripetutamente da insanabili conflitti che trovano pace e soprattutto ricchezza nel Nuovo Mondo. Sono rappresentate epiche storie di conquista e di riscatto, di amore e di conflitto, tra singoli e tra famiglie, di sopportazioni e di convivenze e, stagliati sullo sfondo, personaggi ben delineati, perfettamente caratterizzati, indelebili nella mente del lettore. Figure prevalentemente maschili, vincenti e poi irrimediabilmente condannate a lenta e sofferta decadenza. Sono gauchos, sono borghesi, sono transfrontalieri, sono cittadini senza patria, sono trapiantati in una terra che li ha arricchiti e che si portano nel cuore anche quando tornano in Europa. Sono l’emblema di un vecchio continente in rovina. Molto complesse ed efficaci anche le figure femminili, tragiche eroine, ai confini di un mondo ancora prepotentemente maschile. Suggestive le pagine dedicate a Parigi, città che teme la guerra, città che fiuta il nemico, città che si prepara ad una possibile disfatta. Un romanzo di gradevole lettura, indubbiamente interessante perché riflette gli umori del tempo, privo però di quel necessario afflato lirico che lo avrebbe reso un capolavoro e purtroppo uno scritto eccessivamente nazionalista.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
180
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    13 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

“Ehi, della vita! Nessuno risponde? “

Per chi volesse accostarsi a questo libro, la prima informazione utile da possedere è che si tratta di un insieme di testi ( inteso il testo come insieme di parole scritte aventi un messaggio e veicolate da una struttura linguistica comprensibile perché normata) sicuramente letterari ma non definitivi , giustapposti l’uno all’altro non per un disegno artistico voluto dal suo autore ma secondo criteri semplicemente tematici adottati da Jacinto do Prado Coelho che, nel 1982, ha curato la prima edizione critica di un centinaio di fogli manoscritti, in parte fascicolati dallo stesso Pessoa e autografati con il titolo “Livro do Desassossego”. Il libro però non è di Pessoa ma è attribuito al suo eteronimo Bernardo Soares, per cui ci troviamo di fronte a un non libro e a un non autore. La prima operazione richiesta al lettore, investito dl ruolo di narratario dall’autore, è quello di prendere atto dell’esistenza di Bernardo Soares, dopo di che il lettore in quanto narratario sparisce perché l’autore non lo contempla più e lo annulla insieme a se stesso facendo permanere solo il lettore reale, quello che fisicamente sta con il libro in mano a cercare di capire quale sarà la storia narrata. Fin dalle prime pagine, superata la presentazione dell’eteronimo, anche la storia attesa non ci sarà. Il lettore compie un vero e proprio viaggio dentro la vita mentale di Bernardo Soares/Pessoa abituandosi presto alla mancanza assoluta di continuità fra un pensiero e l’altro e ciò si realizza nonostante l’accorpamento tematico di cui abbiamo parlato prima. Eppure lentamente il lettore è indotto a cercare una sorta di filo conduttore e, mettendo insieme le piccole contingenze del quotidiano, l’accenno agli spazi interni ed esterni rappresentati, o quelli alle persone che incrociano il nostro, si arriva a definire un quadro sommario di riferimento. Bernardo è un contabile, vive in affitto al quarto piano di un palazzo che si affaccia su Rua do Douradores, e vive affacciato al mondo che quella visuale gli offre; si sposta tuttavia nel suo quotidiano anche in altri spazi : l’ufficio e le vie di Lisbona. Bernardo è però fondamentalmente un pensatore, un insonne, uno scrittore, un poeta e soprattutto un incapace: non sa vivere. Confessa dunque in questa sorta di autobiografia il niente che ha da dire o meglio l’insieme delle impressioni che sovraffollano il suo pensiero inchiodandolo in una consapevole e forse voluta inazione. Bernardo, nonostante la pesantezza del suo affermare, sa però esserci simpatico semplicemente perché è un essere sospeso e intrappolato in quel pensiero che, mi verrebbe da asserire volgarmente, per fortuna, attraversa momentaneamente la mente di molti uomini; il pensiero che si perde nella contemplazione della vita, nel suo mistero, nella lettura degli episodi significativi dell’esistenza, nella decodifica delle relazioni che instauriamo con noi e con gli altri. La restituzione concentrata delle sue fantasticherie, dei suoi sogni ad occhi aperti, di quelli nella dormiveglia di una cronica insonnia, del suo stesso sogno che è la vita , a dirla come Quevedo, è ciò che ce lo rende di fatto necessario e simpatico. È tutto ciò che avremmo voluto sentire e anche no, è il coraggio di arrancare dentro un mistero riconoscendosi miseri e finiti.
REPRESÉNTASE LA BREVEDAD DE LO QUE SE VIVE Y CUÁN NADA PARECE LO QUE SE VIVIÓ:“Ah de la vida!”... “Nadie me responde? / Aquí de los antaños que he vivido! / La Fortuna mis tiempos ha mordido; / las Horas mi locura las esconde. / Que sin poder saber cómo ni adónde / la salud y la edad se hayan huido! / Falta la vida, asiste lo vivido, / y no hay calamidad que no me ronde. / Ayer se fue; Mañana no ha llegado; /Hoy se está yendo sin parar un punto: / soy un Fue, y un Será, y un Es cansado. / En el hoy y mañana y ayer, junto / pañales y mortaja, y he quedado / presentes sucesiones de difunto.



Ehi, della vita! Nessuno risponde?
Voglio qui tutti gli anni che ho vissuto!
La Fortuna il mio tempo ha già compiuto,
la mia pazzia le Ore mi nasconde.
Ch’io non possa saper come né dove
la salute e l’età sono fuggite!
Manca la vita, c’è l’aver vissuto.
Non v’è calamità che non mi provi.
Ieri sparì, Domani non è giunto,
l’Oggi se ne va via senza fermarsi;
sono un Fu, un Sarà, un È già smunto.
Nell’oggi, ieri e domani congiungo pannolini e sudario,
son rimasto eredità presente d’un defunto.
(Francisco Quevedo da Sonetti amorosi e morali, trad. it. di V. Bodini, Einaudi, Torino, 1965)

Quevedo ma non solo, Thomas Mann con Hans Castorp: «Il singolo può avere di mira parecchi fini, mete, speranze, previsioni, donde attinge l’impulso ad elevate fatiche e attività; se il suo ambiente impersonale, se l’epoca stessa, nonostante l’operosità interiore, è in fondo priva di speranze e prospettive, se furtivamente gli si rivela disperata, vana, disorientata e al quesito formulato, coscientemente o no, ma pur sempre formulato, di un ultimo significato, ultrapersonale, assoluto, di ogni fatica e attività, oppone un vacuo silenzio, ecco che proprio nel caso di uomini dabbene sarà quasi inevitabile un’azione paralizzante di questo stato di cose, la quale, passando attraverso il senso morale psichico, finisce con l’estendersi addirittura alla parte fisica e organica dell’individuo. Per aver voglia di svolgere un’attività notevole che sorpassi la misura di ciò che è soltanto imposto, senza che l’epoca sappia dare una risposta sufficiente alla domanda “a qual fine?”, occorre o una solitudine e intimità morale che si trova di rado ed è di natura eroica o una ben robusta vitalità. Né questo né quello era il caso di Castorp, sicché si dovrà pur dire che era mediocre, sia pure in un senso molto onorevole».
Ma i richiami letterari sono infiniti e ricchi di suggestioni che spazierebbero per Kafka, Musil, Proust, Pirandello. Un grande libro fra i grandi.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
La montagna incantata
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    08 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Di necessità virtù

A dispetto del titolo, questo dramma in cinque atti non fa di Giulio Cesare il protagonista; si assiste invece alla rappresentazione del passaggio dall’apoteosi cesariana alla successiva ed ennesima piega assolutistica che prenderanno gli ormai agonizzanti statuti repubblicani. In mezzo, l’eversivo tentativo di difesa del repubblicanesimo maturato da Cassio e dai suoi compagni che passeranno alla storia per aver ucciso Cesare.
Egli muore nel terzo atto, autocelebrandosi come irremovibile nelle sue decisioni, unico fra gli uomini, inattaccabile, un uomo che non si piega alla piccolezza delle relazioni umane ma vede oltre, con lo sguardo sagace, lo stesso che attonito si spegnerà constatando il tradimento del suo Bruto. “Tu quoque, Brute, fili mi!” reso nel dramma con “Eh tu, Brute? Allora muori, Cesare!”
I primi due atti sono invece funzionali a descrivere l’ opportunismo della plebe urbana che inneggia a Cesare e al suo trionfo, dimentica di aver reso lo stesso omaggio prima a Pompeo, o ancora a imbastire la congiura ai danni di Cesare cercando di convincere Bruto, limandone le sue ultime resistenze. È proprio la rappresentazione del dissidio interiore di Bruto ad occupare l’intero secondo atto. Solo, Bruto medita, pondera i fatti, gli atteggiamenti, i comportamenti del suo caro amico e condanna insieme al lui il genere umano quando mostrandosi umile sta in realtà salendo i gradini della nota scala chiamata ambizione. Lui seguirà i cospiratori ma si porrà anche come il mediatore fra la brutalità dell’omicidio e la necessità del suo compiersi, gestendo infine di fronte ai concittadini e ad Antonio le sue ragioni: “… ho ucciso il mio migliore amico per il bene di Roma, ma serberò lo stesso pugnale per me, quando il mio paese riterrà necessaria la mia morte”.
Il dramma, dopo il memorabile discorso di Antonio che con fine arte oratoria afferma ciò che nega, si avvia alla conclusione rappresentando il costituirsi del secondo triumvirato e il decisivo scontro a Filippi, e non tanto per evidenziare il conflitto tra Antonio e Bruto quanto per confermare quella lontananza di intenti che già emergeva nel primo atto tra Bruto e Cassio.
Intenso dramma che rappresenta la distanza fra il fine e il mezzo quando in gioco ci sono alti ideali quali la libertà e l’uguaglianza che per essere garantite hanno necessità della violenza.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Cicerone, Le catilinarie
Trovi utile questa opinione? 
140
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    05 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Don Giovanni in pantofole

Benito Pérez Galdós è sicuramente lo scrittore più importante della letteratura spagnola dell’Ottocento, e anche se generalmente viene considerato il narratore iberico più significativo dopo Miguel de Cervantes, in Italia gode di scarsa fortuna. L’ editoria nostrana, quella illuminata dei fratelli Treves o di Bemporad pubblicò, lui vivente, una quindicina di titoli della sua vasta produzione composta da una settantina di titoli, fra romanzi e drammi, poi ci fu un silenzio che durò fino agli anni sessanta quando la produzione filmica di Luis Buñuel riaccese l’interesse per alcune sue opere, compresa questa “Tristana”.
Fatto sta che se oggi volessimo leggere le sue opere in traduzione, ne troveremmo ben poche ed è dunque necessario un monito verso le case editrici che non cavalcano questo filone mentre i titoli oggi in circolazione sono stati curati da piccoli editori di nicchia con genuino interesse letterario.
È stata una mia recente visita, del tutto casuale, alla mostra allestita sull’autore presso la Biblioteca Nazionale di Madrid, a far in primo luogo riemergere dalla mia libreria “Tristana”, titolo che avevo letto ma di cui non ricordavo nulla per poi farmi interessare alla sua bibliografia e arrivare a scoprire amaramente quanto su esposto.
Siamo di fronte ad un grande autore che nella sua Spagna al limite dell’Europa e in pieno passaggio dalla monarchia alla prima repubblica è perfettamente in linea con la produzione letteraria del periodo: sperimenta infatti moduli realisti anticipando quelli che saranno poi quelli tipici del romanzo psicologico.
Fa apparentemente protagonista della sua opera il destino di una ragazza e la sua triste involuzione mentre in realtà congeda, a mio parere, tutta la tradizione letteraria spagnola richiamandone i suoi protagonisti maggiori : autori e personaggi. Per chi ha dimestichezza con la storia della letteratura spagnola, qui non sarà difficile ritrovare Tirso da Molina e il suo Don Juan Tenorio, Lazarillo de Tormes, La Celestina di Fernando de Rojas o per risalire all’archetipo primario il Don Qujote di Cervantes. Questa è forse la caratteristica più pregnante del romanzo che, se si andasse a valutare per l’esile trama, avrebbe ben poco da restituire. È più un gioco meta letterario, un’ evoluzione di tipi noti per raccontare i destini umani. Sorprendente per me è stata la giustapposizione, anch’essa del tutto casuale, nelle mie letture di Tristana a Emma di Madame Bovary. Ma aprirei infiniti parallelismi se volessi dilungarmi nell’analisi delle loro comunanze.
Tristana è infatti una ragazza che viene ospitata da un vecchio dongiovanni, Don Lope in seguito alla morte dei suoi genitori, suoi cari amici. La sua filantropia muta presto in una sorta di pseudo menage coniugale che fa di Tristana l’ennesima vittima di un infinito catalogo, l’ultima, in realtà, perché stavolta Don Lope si innamora e ne fa la sua prigioniera. Nel frattempo assistiamo alla crescita spirituale della giovane che brama libertà e riesce a sfuggire al dispotismo di cui è vittima innamorandosi di un giovane pittore. Scoprirà ben presto che forse anche il giovane Horacio ambisce ad una donna “subordinata all’uomo in intelligenza e volontà”…
Varie e mutevoli saranno le stagioni della vita per Tristana e da un’evoluzione all’altra ripiegherà in una triste involuzione mentre Don Lope farà trionfare, suo malgrado, una rilassata visione borghese. Morti con lui Don Chisciotte e Don Giovanni.


Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Madame Bovary
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    02 Gennaio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un rovinoso senso di noia

“Una giovane donna vestita di lana azzurra guarnita di tre volants”, così appare allo sprovveduto medico di campagna la signorina relegata ai Bertaux, figlia di uno dei più agiati coltivatori di quella zona, una giovane donna dalle unghie candide, il cui biancore lo affascina anche se è rapito subito dallo sguardo che “colpiva diritto con candida arditezza”. Una fanciulla costretta a badare ad una fattoria per la prematura scomparsa della madre, una fanciulla che ha ricevuto una buona educazione e cha ha recondite aspirazioni: vivere in città, rifuggire la noia.
Un giovane medico, di cui sappiamo i trascorsi ingloriosi, bambino viziato dalla madre, depositario delle di lei ambizioni, privo di qualsiasi aspirazione, vedovo dopo fugace matrimonio, combinato, con una donna adulta. Un mediocre.
La dicotomia fra i personaggi principali del romanzo è imbastita fin dall’inizio, seppur non nell’ordine da me presentato: appare prima il dodicenne Charles, in un’ ampia analessi e solo dopo lei, prima che diventi madame. Le scene del matrimonio arrivano velocemente e anticipano da un lato quella che sarà la curva dei capricci della giovane donna e d’altra quell’ombra di inquietudine che calerà ripetutamente dopo ogni lieto evento a venire; su tutto già aleggia però la mirabile capacità di Flaubert di orchestrare i suoi personaggi facendoli muovere in ampi inserti descrittivi dall’ indiscreto taglio socioeconomico. Tutto è funzionale a rappresentare il non essere di Emma.
La vita a due si avvia con una intima e inevitabile frattura, i due non condividono niente, non c’è alcuna comunanza di spirito , tanto lui “ è felice e senza pensiero al mondo e il suo universo finisce “all’orlo della sottana di lei”, così lei si cruccia per l’attesa felicità che non arriva, o almeno non tale a come l’ ha letta nei suoi libri; si interroga, la donna, nel frattempo su cosa celino in realtà ”parole quali felicità, passione, ebbrezza”. In lei tutto si risolverà ad avere un andamento ciclico con picchi di noia, ansia per eventi futuri, illusioni, picchi di transitoria e impalpabile felicità, seguiti da rovinose cadute, anticipate da inafferrabili malesseri, distacco emotivo, risentimenti ingiustificati e su tutti un rovinoso senso di noia.
L’occasione di un insperato invito ad un ballo apre l’uscio per un baratro senza ritorno, un precipitare degli eventi che seppur ricoprenti un vasto arco temporale sono rappresentanti come un inarrestabile stillicidio prolungato ad arte dalle atmosfere claustrofobiche che si respirano nella gretta provincia.
La frattura tra reale e ideale giunge all’apice, alimentata da un turbinio di eventi, da un parossistico strafare, dall’incapacità di vivere, per poi ricadere nel vuoto oblio della morte.
Prototipo della ricerca di un’inarrivabile felicità idealizzata , quella che non esiste.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...

Trovi utile questa opinione? 
230
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    20 Dicembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Inutili distinzioni

Testo teatrale perfetto. Tre atti, tre capitoli significativi della vita di Grazia Deledda: la partenza definitiva dalla Sardegna in seguito al matrimonio, il ritiro del premio Nobel, la malattia che la porterà alla morte. Due persone ad accompagnare la sua vita terrena e la presenza nel palcoscenico: il marito e la madre, viva e poi sotto forma di spirito. Grazia, la protagonista assoluta, restituita allo spettatore dall’eccellente maestria di Fois che ha saputo far rivivere l’anima di una donna intelligente, collocandola opportunamente nel suo ristretto universo culturale di riferimento. E, si badi bene, non parlo qui solo delle angherie subite da un perbenismo di facciata nutrito dalla cultura ancestrale della famiglia di riferimento o da parte della piccola Nuoro, quanto, e in misura forse ancora più palese, di quelle riconducibili alla cultura ufficiale, a quella continentale, a quella che da un lato pubblica o legge i suoi lavori per poi scandalizzarsi se la giovane donna sarda ottiene il riconoscimento più ambito dai maschi ben più “importanti”, quali D’annunzio o Pirandello. Sapevo della lettera a Treves vergata dal siciliano che riferiva, in occasione del suo Nobel, di aver appreso che l’ avrebbero conferito a lui prima, se Mussolini non avesse voluto favorire la sarda per far tacere la rivalità fra due mostri sacri, lui e il pescarese appunto, ma mi sfuggiva, benché sapessi del romanzo “Suo marito” e della polemica nei confronti di Palmiro Madesani, marito della Deledda, la consapevolezza dell’artista di essere al centro di una polemica sottile e maschilista ma anche profondamente umana, nei suoi limiti. Pare che Treves avesse risposto a Pirandello riconducendolo alle sue ragioni più intime: la gelosia per una famiglia serena e un rapporto coniugale invidiabile, appunto. E mi sfuggiva soprattutto il pensiero della scrittrice che ancora una volta si trovava indignata ma fortemente consapevole della sua forza innovatrice rispetto ad un mondo che non poteva accettare uno spirito libero e per di più donna.

Nel mio paese, la Deledda è stata assurta a modello per le donne, in un ciclo di iniziative sul tema della parità di genere, e al termine delle iniziative è stato organizzato un convegno per presentare un carteggio intrattenuto dalla scrittrice con un giovane professore di Lettere , Pietro Ganga, avo di alcuni miei compaesani. I contributi dei relatori hanno delineato una personalità forte e coraggiosa, tenace e complessa, sicura e combattuta nell’intimo dissidio generato dall’inevitabile frattura con il mondo che l’aveva generata, partorita, allevata e poi non era riuscita ad accettarla nonostante non facesse altro che narrare quello stesso mondo a cui profondamente era debitrice. Si è ricordato inoltre che nel 2016, anno di pubblicazione del lavoro di Fois, sono apparsi alcuni altri timidi contributi sulla figura ancora poco conosciuta della Deledda, compresa la biografia di Luciano Marrocu, “Deledda. Una vita come un romanzo”, sottolineando come ci sia una timida ripresa dell’interesse verso la scrittrice sarda oltre che un incessante lavoro accademico che si spera di raccordare con il lavoro delle scuole di ogni ordine e grado, soprattutto in Sardegna, al fine di evitare quel terribile oblio, dovuto allo studio della letteratura per movimenti letterari che vede penalizzata una scrittrice non inquadrabile in tal senso. Ironia della sorte: stesso destino che le fu riservato in quanto donna.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Cosima
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    18 Dicembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

La requisitoria in confessionale senza etica né mo

Mi chiedo, dopo questa lettura, cosa avrebbe ancora scritto Camus, se la morte beffardamente anticipatrice , non lo avesse sottratto a tutti noi due anni dopo aver scritto questo testo . Mi chiedo se le sue visioni dell’uomo sarebbero diventate ancora più negative, e, al tempo stesso, anch’esse beffarde e sornione. Perché che qui, in fondo, ci abbia provato gusto, non me lo leva dalla mente nessuno, ha voluto giocare, dissimulare, intrattenere servendosi di un alter ego , Jean-Baptiste Clamence e, nello specchio della finzione letteraria, trasformare l’interlocutore dell’avvocato in tutti noi, i suoi lettori.
Il monologo/ requisitoria - d’ora in poi il lessico sarà quello prevalente nella giurisprudenza, con alcuni inserti riconducibili al cristianesimo- che l’avvocato parigino, ora giudice-penitente, intraprende con l’avventore borghese del bar di periferia di Amsterdam, quanto tiene nel sacco il suo indefinito ascoltatore, tanto tiene in pugno il lettore che si ritrova a desiderare di sentire ancora quella voce, di capire chi sia colui che parla e soprattutto di comprendere cosa vada dicendo. Il discorso, tra l’altro non è nemmeno racchiuso dentro l’unità di tempo, perché spezzato in una manciata di giorni e trasferito in diversi luoghi della città, quasi tutti esterni, per andare a culminare poi nell’appartamento dello stesso Jean-Baptiste Clamence, nell’ex ghetto ebraico, “nel luogo d'uno dei maggiori delitti della storia”.
Ma che ha da dire di così tanto pressante costui? Niente! Semplicemente si confessa, riconosce il limite della sua condizione umana e di riflesso di tutta l’umanità , di cui lui è un eccellente interprete rappresentandone un degno condensato. Certo che dalla sua parte pare avere, contrariamente a tutti gli altri, inteso alla perfezione quale possa essere la chiave di volta. Non resta che condividere la scoperta, perché essa sarà funzionale alla sua redenzione anche se ancora una volta sarà una scelta egoistica.
In un narcisistico e autoreferenziale atto liberatorio, egli potrà nuovamente porsi al traguardo di partenza, e, dotato della sua superiorità che gli deriva dal segreto, scalare le vette più alte dalle quali lanciare gli strali del suo giudizio.
“Il sentimento del diritto, la soddisfazione d'aver ragione, la gioia di stimarsi, caro signore, sono molle potenti per sostenerci o farci andare avanti. Gli uomini si trasformano in cani rabbiosi, se gliele togliete.”
Triste la condizione umana: i suoi esemplari si ritrovano a poter essere felici e ad avere successo a patto di condividere tale felicità e tale successo, solitudine e felicità non vanno di pari passo come sono incompatibili anche solitudine e successo. L’uomo si ritrova dunque felice solo se viene assolto dal consorzio umano che lo sottopone a giudizio e poiché è necessario questo passaggio ( giudizio- condanna- assoluzione) è di conseguenza un miserabile. L’uomo è dunque in un eterno Limbo.
Qualcuno può sfuggire al giudizio altrui? Qualcuno può vivere libero?Basterebbe uscire dal consorzio umano, sottrarsi al giudizio?
E la giustizia terrena che ruolo esercita?Dov’è la colpa? Qual è l’innocenza?Dove risiede veramente il giudizio?È possibile svincolarsene?Che posto avrebbe la coscienza in un atto umano di estrema ribellione al proprio giudizio ?
L’uomo non ha scampo: a nulla può l’etica , a niente vale la morale.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
La caduta, Durrenmatt
Trovi utile questa opinione? 
210
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
2.0
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
siti Opinione inserita da siti    27 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

In soffitta o in cantina?

Romanzo breve, anche troppo, veloce tanto da sembrare incompiuto; blando e sbiadito, un’idea in nuce, non sviluppata abbastanza. Non so quali siano stati i motivi che hanno dirottato questo scritto, ma tale appare , quasi un mezzo aborto.
Un adolescente problematico, forse solo irrisolto e in cerca di se stesso, risente a tal punto delle proiezioni materne e dei patemi paterni da trovarsi ingabbiato in una grande fandonia che, nata quasi inconsapevolmente, lo obbliga ad una scelta drastica: rinchiudersi nella cantina della propria casa per una settimana al fine di giustificare l’assenza per un viaggio con ipotetici amici che non lo hanno mai invitato anche perché non lo vedono nemmeno.
L’isolamento forzato è spesso interrotto dalle telefonate della madre che vuole accertarsi che tutto vada bene e dalla riapparizione inaspettata della sorella, figlia di primo matrimonio del padre, una tossicodipendente che lo costringere a una forzata resa dei conti con se stesso e con gli altri.
Ritratti psicologici appena abbozzati, una certa prevedibilità degli eventi, una prosa piana finiscono col facilitare una lettura veloce, di poche ore, che si spegne come un fuoco d’artificio acceso il tempo giusto per vedere il triste tramonto di se stesso senza toccare cielo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
  • no
Consigliato a chi ha letto...
sì: per una lettura passatempo
no: se si esige spessore
Trovi utile questa opinione? 
240
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    25 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Che ne sai tu di un campo di grano...

È ormai lontano il tempo della prima edizione di questo romanzo (2001) così come è, di conseguenza , già datato anche l’omonimo film di Salvatores, vincitore nel 2004 del David di Donatello , eppure mi sento di dire che è un prodotto letterario che ha lasciato il segno: non si è trattato di una meteora nel firmamento delle celebrità passeggere ma, è evidente, ha colto il segno.
Ancora oggi risulta richiesto dal mercato e viene continuamente ristampato, circola nelle scuole e funge da viatico per il passaggio a letture più mature. Soprattutto quando si è a digiuno. Viene letto da persone di tutte le età e molti ne serbano un buon ricordo. Ai ragazzi piace, cattura la vicenda, catalizza la suspense, attrae il linguaggio pulp, mimetico e necessario a rappresentare la miseria di un immaginario paese della Puglia, incastonato in bionde colline ricche di grano e circondato dai terribili anfratti delle più tetre gravine.
Un pugno di case, una strada, Acqua Traverse. Una banda di bambini, adulti allo sbando, il sapore della povertà, quella dove si insinua il malcostume, il guadagno facile, la moda, anche quella, dell’ignobile stagione dei rapimenti. È il 1978. La vittima è Filippo, un bambino del nord che viene catapultato in un buco del sud, lì gettato, in attesa del riscatto. Vittima con lui è Michele che lo scopre casualmente e cerca di capire le ragioni della sua presenza, indagando l’oscuro mondo degli adulti, i veri mostri da temere che detronizzano in un colpo solo tutte le ataviche paure di un bambino di nove anni. È la storia di un legame profondo, non cercato, capitato, che permette però di far luce su tutti gli altri legami, quelli consolidati, quelli creduti certi e indiscutibili. È anche indirettamente il ritratto dell’Italia e dei suoi storici divari. Un piccolo romanzo di formazione consigliato a tutti, soprattutto ai giovanissimi.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
240
Segnala questa recensione ad un moderatore
Racconti di viaggio
 
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    15 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Perso nel mondo

A leggere questa insolita biografia ci si ritrova in duplice compagnia. Se l’intento iniziale è quello di approcciare la figura del noto reporter , in parte perché orfani del grande Terzani, poche pagine, ma già il titolo è premonitore, saranno sufficienti per farci capire che avremo un altro compagno di viaggio: Erodoto. Lo potremmo definire l’alter ego del polacco, un vademecum , un prontuario, un pozzo di aneddoti, spesso inverosimili, dal quale attingere per comprendere i luoghi nei quali Kapuscinski si trova a lavorare, ma soprattutto un manuale di metodo. La difficoltà maggiore di un giornalista infatti è quella di capire la differenza che passa tra lui e gli altri, sempre, ma in particolar modo quando l’evento storico, magari sensazionalistico ( un attentato, fuoco, fiamme, morti) desta l’attenzione di un mondo globale avvolto in una cappa di presunta conoscenza mentre è tristemente ingabbiato nei suoi solidi e ottusi schemi culturali. Quelli che non permettono la reale comprensione di culture differenti, quelli che rischiano di decodificarle secondo un’ottica rovesciata rendendole altro da sé. In questo scritto Kapuscinski ripercorre dunque la sua vita da giornalista, un ramingo al pari degli aedi, teso più ad ascoltare che a riferire, un uomo che partendo dagli esordi timidi, impacciati e coatti delle tenebre del comunismo polacco giunge fino alla libertà generata dal movimento e dalla sete di conoscere e di comprendere. Un viaggio tra passato remoto e passato prossimo teso alla comprensione del presente. Consigliato a chi ha letto Erodoto e a chi non l’ho mai letto, a chi conosce Kapuscinski e a chi invece vorrebbe conoscerlo.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Erodoto
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Fantascienza
 
Voto medio 
 
2.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
1.0
siti Opinione inserita da siti    03 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

AL BANDO LA CONOSCENZA

In uno scenario urbano dominato dalla tecnologia, l’uomo apparentemente ancora vive , in realtà resiste e si adatta, come sempre nella storia del genere umano. Questa volta però l’adattamento dipende da una realtà che egli stesso ha creato in un parossismo tecnologico senza precedenti dove, gioco forza, l’élite destinata al comando, come sempre nella storia del genere umano, trova terreno fertile per imporre un nuovo mondo, nuovi modelli, univoci, incontrastati e incontrastabili. Terribili e temibili eppure, alla fine sopportabili. Tutto si sopporta se viene offerta una alternativa facile e comoda che porti alla passività assoluta e all’ottundimento di ogni manifestazione che possa anche solo di sfuggita far cadere nella razionalità. Con il raziocinio si estingue però anche l’emotività e il non pensare procede di pari passo con l’infelicità più assoluta. Una forma di resistenza è possibile, ma , come sempre nella storia del genere umano, porta all’isolamento, al confino, alla fuga e per finire alla macchia. Basta una forma di potere totalitario e lo scenario distopico immaginato da Bradbury non ci pare poi così lontano o irrealizzabile. Certo la componente fantastica, tipica del genere, qui ha del geniale: in un’ottica invertita, uno dei quattro elementi alla base di qualunque cosmogonia, il fuoco, diventa , in chiave simbolica, lo strumento che genera in luogo di distruggere: i pompieri appiccano incendi in luogo di domarli e di esso si servono per distruggere le case che ancora custodiscono l’unico potere che potrebbe minare quello centrale dal quale sono comandati: i libri. E Montag, il nostro eroe, fa proprio il pompiere, fin quando, un giorno, all’improvviso esce dal torpore che lo circonda e lo domina dal momento in cui ebbe la netta percezione che qualcosa stava cambiando senza avere la forza per opporsi. La narrazione segue le sue vicende e il suo destino per restituire gradualmente una dimensione collettiva quasi impercettibile inizialmente e che via via restituisce il quadro completo di un mondo privato del suo bene più prezioso: la conoscenza. Originale e nota intuizione alla base di un romanzo che, per mero gusto personale, non riesce a catturare la mia attenzione a livello formale anche se anche , a livello contenutistico stimola la riflessione. Lo consiglieri solo agli appassionati del genere.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Ishiguro, "Non lasciarmi"
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    02 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Persi per sempre

Ennesimo inedito del grande Singer restituito a quasi trent’anni dalla morte al pubblico mondiale e in Italia per iniziativa della casa editrice Adelphi che, avvalendosi della professionalità di Elisabetta Zevi, il cui nome non ha bisogno di presentazioni, e della traduzione dell’altrettanto affermata e brava Elena Loewenthal, permette di conoscere meglio la produzione del premio Nobel per la letteratura, 1978. È l’ennesimo scritto in yiddish, la lingua madre, mai rinnegata e anzi elevata a statuto letterario, la lingua di tutta la sua produzione, un patrimonio culturale da coltivare e tenere vivo in terra straniera a ricordare un mondo perduto ma ancora pulsante. Sono gli anni sessanta, quelli della rivoluzione culturale giovanile, quelli compresi più nel dettaglio fra la fine del dicembre 1967 e il maggio 1968, a vedere l’uscita a puntate sul quotidiano yiddish di New York ??Forverts?? di questo bel romanzo sotto lo pseudonimo Yizkhok Warshavski, quello usato per la produzione ‘popolare’ oltre che per i pezzi giornalistici.

E forse è vero, troviamo in quest’opera una prosa più dimessa, una struttura più sobria, quasi un fare didascalico, una minore tensione narrativa, un intreccio tutto sommato prevedibile, ma la penna del grande Singer è ben riconoscibile e restituisce una dimensione più americana, avvicinabile al migliore Malamud e oserei dire anche al più feroce Simenon. Una miscela di ebraismo e di americanità che rende questa lettura estremamente moderna e avvincente, senza peraltro tralasciare, ma anzi nutrendosi, fin nella sua essenza più profonda, della cultura ebraica che l’ha partorita.

È infatti la storia di tanti polacchi, ma due in particolare, il ricchissimo Morris Kalisher e lo sfaccendato Hertz Minsker, il nostro ciarlatano, che, negli anni del secondo conflitto mondiale, prima del coinvolgimento degli USA nella guerra, proliferano nel grande sogno americano, tutti sfuggiti dalle adunche grinfie della sanguinaria mano nazista. Sono immigrati, chiaramente identificabili eppure ben assimilati, spesso hanno ripudiato il loro credo e vivono lontani dalla legge della Torah e lo avrebbero fatto a prescindere dalla loro condizione. Sono esseri finiti, tremendamente umani, pieni di limiti e dalla condotta riprovevole; qualcuno si è arricchito, molti vivono di espedienti, altri confermano la loro indole che ha come comune matrice l’identità del perseguitato, dell’esule senza requie, talvolta dell’apolide. Si arrangiano come possono in un’ America, e qui New York ne è il simbolo perfetto, che accoglie ma divora, inglobando in uno sterile capitalismo i destini di un pullulare di persone che si sviliscono in esistenze frenetiche e vuote e in un materialismo senza speranza sfociante in un inevitabile ateismo. Il pensiero del destino dei propri connazionali chiusi nei ghetti, costretti alla stella gialla, tradotti forzatamente in campi di lavoro o di sterminio, qualche volta si affaccia nelle loro coscienze, le ripulisce blandamente, resettandole per il successivo abominio. Il maggiore rappresentante di questo tormentato modo di vivere è lui, il ciarlatano: si nutre di teorie che mischiano edonismo spinoziano a misticismo cabalistico, condito di un pizzico di idolatria, a saldare, confondendoli inevitabilmente, piacere e religione. È un grande amatore, un temprato simulatore, il peggiore traditore. Si dibatte nell’eterno dubbio esistenziale, il dubbio gli è necessario per affermare che scienza e religione sono parte di un’unica verità della quale ancora nessuno è stato messo a parte. Tanto vale allora buttarsi nella parapsicologia …

La trama insomma, capirete, è presente e pure gradevole, ma è debole pretesto per intessere una brillante tragicommedia, una vera e propria pantomima che si nutre del variegato e brillante modulo della commedia degli equivoci, rendendo gradevole una lettura che è puro atto di denuncia della condizione dell’ ebreo moderno. Chi è costui? Non solo il ciarlatano, sarebbe troppo comodo! L’ebreo moderno non ha niente da invidiare al nazista, “siamo tutti nazisti, nazisti circoncisi”, lo pensa Morris, lo conferma Hertz, vermi senza dio, votati al dio denaro, alla solitudine inghiottiti e divorati dalle splendide luci della città, meritano certo, gli ebrei, l’ennesima trappola per topi che la moderna civiltà offre nella dorata America.
Ritratto amaro e impietoso , se i toni lievi della commedia non hanno sortito l’effetto contrario, umoristico e paradossale, dell’ebreo perso per sempre. Aldilà della specificità culturale e storica, fa sorridere amaramente il comune destino di ogni uomo sulla terra, con la netta differenza che forse noi, un cantore così della nostra disfatta non lo abbiamo se non andando fino ai tempi di Dante.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Malamud
Simenon
Trovi utile questa opinione? 
130
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    28 Ottobre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Il trionfo della ragione

Rileggere questo memoriale che riunisce in sé la fattura del documento storico e la statura di un prodotto artistico di indubbia qualità letteraria, è ancora una volta fonte di arricchimento e di scoperta, di stupore e di ambascia. Lo si dimentica col tempo, rimane certo il ricordo netto , quasi episodico, sorretto dalla struttura testuale stessa, di un dolore universale che non lascia insensibile nessuno, l’urgenza di quella meditazione perpetua alla quale ci ammoniva lo stesso Levi (“Meditate che questo è stato: /Vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/(…) /Ripetetele ai vostri figli.)e una presunzione di aver già conosciuto e capito. E invece no, l’opera, all’ennesima lettura, ricorda la sua intima essenza, il suo obiettivo di fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano, paralizza e toglie il fiato, apre una notte, quella notte alla quale “occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere”. Si procede per gradi, in modo meticoloso, a comprendere lo svilimento dell’uomo, il suo annientamento morale prima che fisico; si familiarizza con luoghi e relativa nomenclatura, con la loro rigida organizzazione, con i giorni e le notti scandite da fatica e fame , riposo e sogni. Levi riesce a restituirci l’indicibile e a far comprendere la scomparsa della morale, l’ inutilità di parole quali “bene “ e “male” “giusto “ e “ingiusto” dentro un spazio deprivante e teso all’annientamento totale. È una vita ambigua quella all’interno del lager, ma Levi da buon scienziato non smette un attimo di analizzare il fenomeno e lo restituisce come i dati di un esperimento. In modo oggettivo, data la reclusione forzata di uomini di diversa provenienza e condizione, visto il regime di sottomissione al quale sono sottoposti, considerato il mancato soddisfacimento dei più elementari bisogni, lui registra che l’uomo non diventa brutale, egoista , stolto ma teso al soddisfacimento dei suoi bisogni, tutti legati a doppio filo alla sopravvivenza, che lo stesso non fa altro che ridurre al silenzio le consuetudini e gli istinti sociali. L’umanità è sepolta, la bestemmia invade l’animo quando ancora la preghiera resiste. La mente incessante osserva, analizza ed elabora, risolve. La mente vince il corpo, lo piega e lo ricostruisce. E si apre un nuovo giorno. E il nuovo giorno avrà il sapore della ragione.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Trovi utile questa opinione? 
150
Segnala questa recensione ad un moderatore
Storia e biografie
 
Voto medio 
 
4.4
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
4.0
Approfondimento 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    21 Ottobre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Semplicemente un uomo

Il canto intessuto di narrazioni, il principio dell’ospitalità, la speranza nutrita dai sogni fanno da cornice al racconto del ritorno per eccellenza, quello di Ulisse. In un viaggio che inverte l’ottica e ci concede il privilegio di sentire le voci di chi l’esule incontrò, seducendolo, amandolo, fermandolo, lui divorato dalla eterna sete del conoscere, lui cantato e sublimato in un mondo fra terra e mare dilatato all’infinito, voci tutte al femminile. Si inizia dal luogo dove si attende il ritorno, una Itaca più petrosa che mai, se a raccontarla è la spartana Penelope, circondata da gente gretta, più pretendenti della stessa Elena, lo sguardo lungo di chi ha saputo nell’istante fugace del primo incontro, seppur da poco ragazza, leggere negli occhi di uno straniero audacia e intelligenza. Penelope al telaio, avvolta in sogni che al mattino rinnovano speranza , risvegliando paura e ansia. Telemaco, in cerca del padre giunto al cospetto di Elena e di Menelao, lontano da Itaca suscita il ricordo che si tramuta in elogio al coraggio, all’astuzia. Investito di una nuova identità è ora deciso a canalizzare il dolore per un padre troppo presente nella sua assenza, per farsene un vanto prima e una ragione poi. Circe, stregata e ammaliata, lei che potrebbe in un attimo trasformarlo, per puro divertimento, in un animale, lei che si annoia nel rendere gli uomini indifesi alla sua mercé. Con Ulisse è diverso: lui narra ed è canto, neanche le sirene possono tanto. E si procede così , ed è la volta di Calypso, ed il divario tra mortale e immortale si cristallizza per sempre: neanche la lusinga dell’immortalità potrà fermare “l’ultimo degli eroi”. Altre prove lo attenderanno, il suo limite dato dalla condizione mortale non sarà ora fatale, tornerà Ulisse, stanco e provato, e ritroverà la patria, gli affetti …
Una bella rivisitazione della storia di Ulisse secondo le donne che lo hanno amato, un’ottima occasione per approcciare il poema, una lettura che restituisce secondo il modulo del romanzo psicologico la complessità dell’epos, per mano di uno studioso che si rivela essere anche un eccellente narratore riservandoci nell’epilogo la possibilità di infinite letture.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Baricco, L'Iliade
Trovi utile questa opinione? 
170
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    05 Ottobre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Il messaggero per l’umanità

Sopravvissuto ad Auschwitz, nel 1986, una lunga vita già alle spalle, Wiesel ottenne il Premio Nobel per la Pace in virtù del grande sforzo umano che fece per superare l’annientamento-subìto come individuo durante l’esperienza concentrazionaria- trasformandolo in un intenso lavoro a favore della pace che riteneva essere non tanto un dono divino quanto una capacità umana di accoglienza. In occasione della celebrazione del giorno della memoria nel nostro Paese, nel 2010, al Parlamento italiano ha, tra le altre parole, lasciate impresse queste: “Mi hanno chiesto in un’intervista: quando andrà in cielo, quali saranno le parole che dirà a Dio? Io dirò un’unica parola: perché? Questa domanda non dobbiamo farla soltanto a Dio creatore, ma anche alle creature: perché Hitler e i suoi accoliti, nati nel cuore del cristianesimo, hanno fatto quello che hanno fatto? Perché volevano ad ogni costo distruggere l’ultimo ebreo sul pianeta? Oggi, riuniti per ricordare quel fatto, quell’avvenimento, che non ha precedenti nella storia, ci si potrebbe chiedere: ma perché la memoria? Perché riaprire vecchie ferite? Perché infliggere un tale dolore ai giovani? Per i morti è troppo tardi. Sì, ciò che è stato fatto non può essere annullato, neanche Dio può annullare ciò che è stato fatto. Tanta paura, dolore e tormento non possono essere dimenticati. Ma possono essere veramente ricordati? In che modo ? In che modo possiamo aprire i nostri cuori e le nostre anime al ricordo e, ancora, conoscere la speranza?”.
Non fu facile per Wiesel, internato da ragazzino e unico sopravvissuto della sua famiglia, tornare alla vita e testimoniare la sua esperienza, pubblicò “La notte” solo nel 1958 grazie alla pressione di Mauriac, riducendo un precedente lavoro apparso due anni prima a Buenos Aires. Si tratta di un volume di un centinaio di pagine appena, dedicate alla memoria dei suoi cari e portatrici di tutto l’orrore possibile, come letto purtroppo anche in altre testimonianze, con la particolarità legata al fatto che queste memorie si stamparono, indelebili e per sempre, dopo essere state esperienza viva prima e decodificazione poi operata da un ragazzo di appena quattordici anni. Come capire la notte che si apre e diventa infinita, la successione di cambiamenti che trasformano la vita in sopravvivenza, la morte che impèra ovunque, lasciate per sempre le iniziali illusioni che non permettono di stravolgere improvvisamente la sicurezza? Lo sguardo è ampio, coglie l’insieme, consegna i particolari. L’occhio del fanciullo si posa sulla donna che perde il senno, sul volto dei bambini che salgono poco dopo al cielo, trasformati in volute di fumo, gli orecchi registrano i pianti e le urla, l’olfatto rifugge l’orrore, l’ occhio indugia sui prigionieri che lavorano sotto il sole, scorge ciò che non dovrebbe vedere, si sofferma infine sul pianto degli impiccati: anche un suo coetaneo penzola, tarda a morire ma non ha pianto.

Come ricordare? Leggendo di un giovane ortodosso, dedito allo studio, desideroso di avvicinarsi a Dio, di un ragazzino che si scontra con il Male e perde il suo dio per canalizzare poi la sofferenza, da adulto, nella ricerca del bene in seno all’uomo, senza perdere la speranza. Il comitato norvegese per il Nobel lo chiamò “il messaggero per l’umanità”.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Se questo è un uomo
Trovi utile questa opinione? 
200
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi
 
Voto medio 
 
4.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    30 Settembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Uno strappo nel cielo di carta

Romanzo breve tutto dedicato al senso della scoperta, dell’inganno e del disincanto. Agostino è un ragazzetto in villeggiatura al mare con la madre vedova , ancora giovane e avvenente. Tra la cabina e l’ombrellone, la loro estate scorre lieta e serena , la mattina in spiaggia, il pomeriggio a casa per una siesta rigenerante, per tornare al lido la sera. La loro routine è scandita dall’immancabile giro in patino, al largo, la mattina, per fare il bagno; Agostino rema orgoglioso, consapevole dello sguardo di ammirazione degli altri bagnanti, sguardo che li accompagna mentre loro, coppia perfetta, si avviano verso la linea dell’orizzonte. È Agostino il più orgoglioso, soprattutto perché ha convinto la madre a liquidare il marinaio che li accompagnava le prime volte. Un giorno però un’ombra si staglia , ritta e fiera, presso il loro ombrellone; oscura il sole, mina la felicità, modifica gli equilibri: un giovanotto prestante invita la donna all’uscita quotidiana sul patino e il ruolo di Agostino viene lentamente a decadere. Inizialmente l’ingenuo ragazzetto accompagna i due diventando complice di incontri la cui natura non è ancora in grado di definire, solo in seguito ad un alterco con la madre, un giorno decide di non stare con loro e , offeso e risentito per uno schiaffo materno, si rintana nella cabina,incapace di qualsiasi azione. Sarà un ragazzetto del popolo, giunto dalle spiagge limitrofe a quelle elitarie degli stabilimenti a strapparlo dalla visione edulcorata della realtà nella quale è immerso . Si è introdotto in cabina per sfuggire agli altri in quella che parrebbe una comune battuta di “Guardie e ladri”; gli altri: una masnada di ragazzotti della peggior specie ai quali l’intrepido riesce a condurlo. Da quel momento in poi l’estate di Agostino diventa al tempo stesso fuga, pericolo, scoperta, dolore fisico e morale, iniziazione sessuale o almeno un primo approccio indiretto e nelle sue manifestazioni meno edificanti, passando per pederastia e prostituzione. Le esperienze forti alle quali si esporrà, spesso in maniera inconsapevole e ingenua, altre volte per appagare un improvviso moto di curiosità che diventa sempre più prepotente nella misura in cui riesce ad allontanarlo dalla madre, faranno di lui un giovanotto confuso, irrisolto e forse consapevole di non essere ancora divenuto uomo.
Questo breve romanzo rappresenta nella produzione di Moravia un tassello importante, cronologicamente è quello che lo restituisce alla scrittura dopo l’esperienza forte della guerra e della vita alla macchia in Ciociaria; è quello inoltre che lo conferma grande scrittore con plauso del pubblico, scalza “Cristo si è fermato a Eboli” dell’amico Carlo Levi dal podio del vincitore del premio istituito dal “Corriere Lombardo”; è infine quello che lo stesso Moravia definì la “cerniera” tra la prima produzione e la successiva. Si inserisce in un filone letterario che ha per oggetto le inquietudini adolescenziali, a me ha ricordato in particolare “I turbamenti del giovane Torless” di Musil e in maniera prepotente anche “Dietro la porta” di Bassani, uno precedente , l’altro successivo; introduce nella produzione di Moravia il tema dell’eros, in una delle tante e possibili sfaccettature. Gode di un respiro particolare che appoggia il suo afflato sulla rappresentazione dell’ambiente marino: il mare, la spiaggia, il cielo, la foce prepotente di un rio, la successione di lidi attrezzati alla migliore villeggiatura e la sporcizia della spiaggia libera, quella vera, quella di un’altra possibile vita, “uno strappo nel cielo di carta”…

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Dietro la porta
I turbamenti del giovane Torless
Trovi utile questa opinione? 
190
Segnala questa recensione ad un moderatore
Storia e biografie
 
Voto medio 
 
4.8
Stile 
 
4.0
Contenuti 
 
5.0
Approfondimento 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    29 Settembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Un uomo e una donna

La biografia di un letterato è sempre strumento prezioso per comprendere a fondo la poetica dell’autore di cui tratta, conferisce al ricordo dei suoi scritti una chiave di lettura in più; arricchisce la conoscenza dell’epoca nella quale ha vissuto e ha il potere ultimo di offrire un approccio sistemico rispetto all’individuo narrato, restituendocelo come un tassello di un complesso di relazioni: la famiglia, le amicizie, le frequentazioni, la società.

Sotto questo aspetto il lavoro di Anna Folli risulta impeccabile anche perché questa in realtà è una biografia doppia: si tratta di Morante e di Moravia e anche se a unirli è stato un amore tormentato, il libro ha il pregio di operare una netta distinzione fra i due, presentandoceli, fin da loro infanzia e per tutto il corso della vita, come due esseri autonomi senza per forza imbrigliarli nel loro essere coppia. Ho apprezzato molto il rispetto verso l’individuo ancor più conoscendo, attraverso la lettura, le profonde distanze che attraevano i due, respingendoli a vicenda.

La scoperta di episodi dell’infanzia e dell’adolescenza dei due grandi scrittori , all’insegna di una profonda sofferenza, ha agito in me come un filtro capace di farmi realmente comprendere, nel senso empatico del termine, il loro agire da uomini. Le loro vite condensano i pregi, le virtù e i limiti della condizione umana in un ampio ventaglio di comportamenti che permettono, di riflesso, una sorta di indulgenza anche verso se stessi e verso i propri limiti.

Emerge un carisma ipnotico nella figura di Alberto, una sorta di buona stella che ne accompagna gli esordi letterari e lo sviluppo di tutta la carriera, ponendolo come una sorta di icona nel panorama letterario italiano, discusso e discutibile certo e non scevro da attriti anche pesanti con il potere costituito o con il modello sociale imperante, eppure sempre bello e vincente. A volte disturbante, forse, viste le intime scissioni che lo caratterizzano e che ce lo avvicinano al tempo stesso perché animano le sue fragilità. Una personalità complessa ma carismatica, a tratti ambigua.

Diverso l’approccio con Morante: la sua restituzione sociale è pessima, il suo carattere, la sua intelligenza (non certo relazionale) , il suo fare letteratura, il suo stare al mondo cozzano dolorosamente con la fatica del vivere convivendo con gli altri. È un ‘isola infelice, tesse relazioni e ne trae appagamento solo se esse sono caratterizzate dal suo tratto distintivo primario: la sincerità assoluta, quella che dà, toglie, apprezza e disprezza al tempo stesso. Ama e odia. In u modo o nell’ altro , è questo il suo personale fascino, si fa comunque amare o apprezzare da tutti.

Sono due intellettuali diversi, sono stati un uomo e una donna che si sono amati, per tutta la vita, di un amore unico, incomprensibile, tenace, fatale che può esserlo ciascuna storia d’amore nella sua unicità.
Lasciano a noi, con le loro opere, uno specchio doppio in cui sono riflesse due risposte quasi in antitesi al loro vissuto: inquietudine e incanto.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
le opere dei due autori
Trovi utile questa opinione? 
210
Segnala questa recensione ad un moderatore
Classici
 
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
siti Opinione inserita da siti    15 Settembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

SENZA VIA D'USCITA

Nel 1960 Moravia pubblica “La noia” che, dopo la parentesi neorealista postbellica (“La romana”, “La Ciociara”), riporta il lettore al punto di partenza, “Gli indifferenti” del lontano 1929. È un ritorno alla rappresentazione della borghesia in un mutato scenario storico, sociale ed economico: sono gli anni del grande sviluppo industriale, quelli che porteranno all’avvio di un modello consumistico solo apparentemente democratico, all’abbandono della morale tradizionale veicolata dalla religione, alla percezione di una maggiore libertà individuale, all’allentamento dei rapporti e dei vincoli in seno alla famiglia , all’avvio di un modello consumistico senza ritorno. La borghesia è sempre una classe sociale privilegiata, chiusa e portatrice di un intimo malessere ma ora può incontrare e riconoscere lo stesso disagio anche fuori dal suo mondo. È il caso di Dino, pittore trentacinquenne, romano, ricco borghese, incastrato in una vita che non gli appartiene, schiacciato da una identità sociale che non corrisponde al suo sentire. Vive in via Margutta, ha abbandonato gli agi di una comoda e lussuosa villa nella via Appia, cerca la sua identità nell’attività artistica. Lo conosciamo mentre inizia a percepire un’avversione anche verso questa identità che lo aveva salvato da un malessere pervasivo che lui, narratore in prima persona, chiama “noia”, specificando con opportuna disamina dal tono asciutto, analitico e clinico in cosa consiste questo sentire, non certo riconducibile alla accezione più nota del termine. La noia è l’impossibilità di collocarsi nel fluire della vita, è la percezione di un distacco gelido dal proprio vissuto, un’urgenza che, paradossalmente, mentre dovrebbe tendere all’azione porta invece all’inazione, all’inerzia perché si risolve in una successione di corto circuiti rispetto alla percezione della oggettività del reale. Tutto ciò che si manifesta intorno a Dino è reale ma assurdo e in quanto tale impossibile da vivere. A Dino è concessa però un’ancora di salvezza, si tratta della giovane Cecilia , una ragazza che con il suo aspetto provocante, con il suo torbido passato, con la sua modesta provenienza sociale potrebbe rappresentare l’alternativa alla stasi. I due intrattengono una relazione sessuale che sfocia presto nell’ennesima trappola per Dino: quando tutto si fa chiaro e certo, ritorna la noia e lui decide di lasciare Cecilia. Il comportamento della ragazza che gli anticipa la mossa rendendosi improvvisamente ambigua, irraggiungibile e sfuggente ribalta la situazione e vincola Dino a quello stesso oggetto donna che ormai aveva perso qualsiasi attrattiva. I suoi sforzi di appropriarsi di lei, di fermarla, di vincolarla , di imborghesirla per favorire quella vitalità che altrimenti non percepirebbe trasformano la relazione in un inseguimento senza speranza. Cecilia è l’altra faccia della medaglia, Cecilia è la noia povera, non possiede niente, non si attende niente, vive alla giornata lieta e spensierata, senza vincoli morali, senza vincoli famigliari, incapace di darsi agli altri se non con il corpo. È la cartina al tornasole del disagio trasversale a tutte le classi sociali secondo una fenomenologia che varia per spazi, ambienti, vissuti. Non c’è denaro che possa modificare la condizione di prigionia sentita e vissuta da Gino e da Cecilia , il dio denaro non garantisce la felicità nel primo caso, il dio denaro non compra la felicità nel secondo. La soluzione al disagio del vivere è vincolata alla volontà e ognuno la esercita come meglio riesce. Lettura claustrofobica, secca, lineare, angosciante, all’insegna di un esistenzialismo soffocante. Senza via d’uscita.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Svevo
Camus
Trovi utile questa opinione? 
200
Segnala questa recensione ad un moderatore
Romanzi storici
 
Voto medio 
 
5.0
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
siti Opinione inserita da siti    09 Settembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Anche gli dei dimoravano in alto...

L’opera nacque materialmente da un atto di scrittura che si colloca fra il Natale del 1943 e la fine di luglio del ’44 quando l’autore viveva clandestino a Firenze , nel momento più drammatico della guerra, e sentiva più accesa la comunanza emotiva con l’esperienza del confino in Lucania che lo aveva costretto a isolamento e presunta solitudine fra il 1935 e il 1936. Lo scritto in realtà si colloca nel solco delle esperienze precedenti dello scrittore: la nascita da famiglia borghese ebrea, i natali torinesi, la laurea in medicina, l’esordio artistico in qualità di pittore, la militanza politica antifascista convogliata poi nel movimento “Giustizia e libertà” ma già bisogno impellente fra i banchi del liceo e per finire l’esperienza reiterata del carcere. Apparve dopo la Liberazione , nel 1945, ma fu preceduto nel ’39 dallo scritto “Paura della libertà”, l’opera più importante dello scrittore, custode del suo pensiero, pubblicata solo nel ’46 e fortemente osteggiata dalla cultura militante dell’epoca. Fu preceduta anche dalla espressione pittorica rintracciabile nei numerosi quadri che Levi dipinse in Lucania, primo fermo immagine delle forti impressioni che la realtà contadina, a lui fino ad allora sconosciuta, impresse nel suo universo culturale da principio attraverso gli occhi per andare a depositarsi poi nel cuore, residenza eletta dell’universo emotivo. Il libro che scrisse nacque dunque da questo substrato, dall’esperienza diretta, dalla necessità di dare voce a una realtà prima che dimenticata, sconosciuta. La Lucania, una terra estranea e straniera in patria, sentita da principio dall’autore come lontana e incomprensibile quanto inaccessibili gli risultano i due paesi nei quali è costretto a dimora: Stigliano e Gagliano (Aliano, in realtà). Una terra ostile che si arrocca raggiungendo picchi dimenticati da Dio dove l’uomo vive in misere case circondate da calanchi. Un paesaggio aspro, suggestivo e variegato come l’umanità che lo popola. Una terra che lo accoglie e che lui impara a conoscere, apprezzare e amare.
È un’opera ibrida, né romanzo, né saggio, né memoriale; parte certo dal racconto di un’esperienza personale ma si colloca fra poesia, documento, saggio etnografico, racconto, pamphlet politico. La posizione di Levi è ben chiara: questo mondo arcaico e ancestrale è stato capace di preservare “il senso umano di un comune destino” perché si fonda su una “fraternità passiva”, su un “patire insieme”, su una “secolare pazienza”, l’immergersi in esso determina arricchimento umano e ulteriore allontanamento dalla barbarie del presente. Da leggere in ogni epoca.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Silone, Fontamara
Trovi utile questa opinione? 
160
Segnala questa recensione ad un moderatore
506 risultati - visualizzati 101 - 150 « 1 2 3 4 5 6 ... 7 11 »

Le recensioni delle più recenti novità editoriali

Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Identità sconosciuta
Valutazione Utenti
 
3.3 (1)
Incastrati
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)
Chimere
Valutazione Utenti
 
3.5 (1)
Tatà
Valutazione Utenti
 
3.0 (2)
Quando ormai era tardi
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Intermezzo
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
La fame del Cigno
Valutazione Utenti
 
4.8 (2)
L'innocenza dell'iguana
Valutazione Utenti
 
4.0 (1)
Long Island
Valutazione Utenti
 
3.0 (1)
Volver. Ritorno per il commissario Ricciardi
Valutazione Utenti
 
4.1 (2)
Assassinio a Central Park
Valutazione Utenti
 
3.8 (1)

Altri contenuti interessanti su QLibri

L'antico amore
La famiglia
Fatal intrusion
Il grande Bob
Orbital
La catastrofica visita allo zoo
Poveri cristi
Se parli muori
Il successore
Le verità spezzate
Noi due ci apparteniamo
Il carnevale di Nizza e altri racconti
Delitto in cielo
Long Island
Corteo
L'anniversario