Opinione scritta da Mian88
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Buchi neri e buchi bianchi
«Cinque giorni prima, il 10 maggio 1933, nella Opernplatz di Berlino si era celebrato il più grande rogo nazista di libri. Fra i testi bruciati ci sono quelli di Vladimir Majakovskij […] e i libri di e su Albert Einstein. Ottant’anni più tardi, grazie alle idee presenti in quei libri, sappiamo cosa sia il fischio misterioso ascoltato da milioni di americani: è la radiazione emessa dalla materia incandescente che, prima di caderci dentro, vortica furibonda attorno a un colossale buco nero che sta al centro della nostra galassia. Un buco nero grande come l’intera orbita della terra, con una massa quattro milioni di volte la massa del nostro sole.»
Quante volte abbiamo alzato lo sguardo al cielo e siamo rimasti colpiti e conquistati dalle stelle, quante volte la maestosità del cosmo ci ha fatto perdere nei suoi non confini e quante ancora ci siamo chiesti dell’entità dei buchi neri? Tante, tante volte. È un universo tanto vasto quanto complesso, tanto affascinante quanto magico e da scoprire. Ecco allora che ci tuffiamo tra le pagine di “Buchi bianchi” ultima opera di Carlo Rovelli che muove le sue fila partendo dai buchi neri. Eh sì, perché per comprendere cosa sono i buchi bianchi è prima di tutto necessario aver chiaro cosa sono i buchi neri. Buchi neri che sono ancora oggi studiati dalle equazioni di Albert Einstein del 1915, equazioni che ci guidano nei meandri di quel buco in cui ci addentriamo in presenza del nostro Virgilio in forma di formule matematiche. Formule, che si noti bene, dal 1915 ad oggi sono state smentite quanto comprovate. È solo a partire dalla parte più bassa del buco – notare e ricordare che in questo è ancora presente la stella che lo ha provocato – che subentra la fisica quantistica, disciplina che con il suo subentrare ci lascia senza il nostro Virgilio e in balia di un tempo diverso, distorto, incomprensibile e che ci porta ai buchi bianchi.
«Keplero voleva andare a vedere. Andare a vedere, questo è la scienza. Andare a curiosare dove non siamo mai stati. Usando la matematica, intuito, logica, immaginazione, ragionevolezza. In giro per il sistema solare, nel cuore degli atomi, dentro cellule viventi, nelle convoluzioni dei neuroni del nostro cervello, oltre l’orizzonte dei buchi neri… Andare a vedere con gli occhi della mente.»
E se il buco nero trattiene e intrappola, una volta cioè varcato l’orizzonte non ci permette più di uscire e ci attrae con la sua gravità che influisce sul regolare scorrere del tempo, ecco che il buco bianco non è oscurità ma luce, luce che non trattiene ma espelle. Ed ecco ancora che vengono introdotti nuovi concetti quali “i grani di spazio” (quanti di spazio) analoghi ai “grani di luce” (fotoni). Il procedimento tra i due buchi è inverso, un po’ come un calzino rovesciato o un film al contrario. “Stella di Planck” è il nome che normalmente viene attribuito al fenomeno e cioè una stella che sprofonda nel buco nero, ed ancora il suo rimbalzo e infine il buco bianco che tutto fa nuovamente uscire.
«Siamo sempre convinti che le nostre intuizioni naturali siano giuste: è questo che ci impedisce di imparare.»
Ma cosa succede davvero all’interno di un buco nero? Per capirlo bisogna pensarlo come un lungo tubo con in fondo la stella che l’ha generato: il tubo si allunga e si stringe nel futuro si schiaccia su una linea. Dov’è la singolarità? La singolarità è al centro; sta dopo. È questa la chiave, la vera riflessione. Ma come si procede quando i maestri non bastano più e come imparare qualcosa di nuovo quando ancora non lo sappiamo? Andiamo oltre, dobbiamo ingegnarci, imparare.
«Così funziona, credo, anche l’arte migliore. Scienza e arte riguardano la continua riorganizzazione del nostro spazio concettuale, ciò che chiamiamo significato.»
“Buchi bianchi” di Carlo Rovelli è un libro a dir poco affascinante. Si tratta di uno scritto che non mancherà di incuriosire i cuori e gli animi più curiosi ma che sarà anche in grado di coinvolgere il lettore più lontano al mondo scientifico e il tutto in modo estremamente comprensibile anche, dunque, ai non addetti ai lavori. Ma tranquilli, se siete invece più avvezzi alla materia e ne avete maggiore consapevolezza perché magari vi dedicate da tempo a studi inerenti, nelle note sarete appagati della vostra curiosità con approfondimenti ancora più tecnici e in particolar modo composti da linguaggio specifico per gli addetti ai lavori.
«La prima è che conosciamo il passato (non il futuro). Il passato quindi ci appare fisso, determinato. La seconda è che sappiamo decidere del futuro (non del passato). Il futuro. Ci appare aperto, indeterminato. Possibile che differenze così fondamentali fra passato e futuro siano solo accidentali della configurazione delle cose?»
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Frank e Laurence
«Eravamo in troppi a occuparci di quel minuscolo rivolo di umana necessità. Così, quando qualcuno se ne andava, non veniva rimpiazzato e il vuoto che restava veniva subito rattoppato, come si puntella un bastone per evitare il crollo definitivo.»
Sudafrica, un ospedale scalcinato, un luogo dimenticato da Dio dove chi se ne va difficilmente viene rimpiazzato. Non stupisce dunque la reazione di Frank Eloff quando apprende che sta per sopraggiungere un giovane medico, probabilmente pieno di idee, sogni e speranze, per compiere in quell’ospedale un anno di servizio civile. La domanda di Eloff è semplice: cosa può spingere un neolaureato con ogni porta del mondo aperta a chiudersi in un posto da cui tutti se ne stanno andando e dove non sembra esserci possibilità di cambiamento e/o miglioramento?
Frank ne ha visti partire tanti di medici e infermieri, talmente tanti che adesso gli addetti in sala mensa sono un numero sproporzionato rispetto ai dipendenti dell’ospedale: oltre a Frank, io narrante, ci sono la dottoressa Ngema, dal carattere risoluto e poco incline alle domande, l’infermiere, o quanto di più vicino, Tehogo, e i Santander, una coppia di medici in costante e continuo conflitto tra loro.
Ma per Frank le notizie non sono finite. Perché non solo sta per sopraggiungere un nuovo medico, non solo è un neolaureato le cui sorti sono tanto ambigue quanto misteriose, ma lo stesso Frank dovrà dividere con lui la sua stanza. È un solitario, Frank. Cerca di far desistere la dottoressa, di proporre altre alternative, ma senza successo. Ecco allora che fa il suo ingresso nel team Laurence.
«Ma era vuoto di significato. Ruth Ngema avrebbe fatto di tutto per evitare qualunque invasione o cambiamento, perché chi poteva sapere cosa ne sarebbe derivato? Oggi però mi sentivo sulla sua stessa lunghezza d’onda, sapevo che cosa voleva e anche lei capiva i miei sentimenti.»
Laurence e i suoi ideali tanto utopici quanto irrealizzabili, Laurence e la sua volontà d’azione che così collide con quell’ospedale che sta cadendo a pezzi e che non va dai pazienti ma nemmeno si aspetta che questi vengano da lui. Laurence a modo suo è molto aperto e questo lo porta a scontrarsi con il muro di riservatezza di Frank che protegge e tutela i suoi spazi, la sua routine, la sua privacy con tenace testardaggine. Non è semplice nemmeno trovare un compromesso perché Laurence è spinto da una curiosità che muove verso il cambiamento e per Frank cambiamento e curiosità sono due binomi inconciliabili, a maggior ragione per lui che è diventato medico solo per seguire le orme del padre ma mai è animato da passione. In un certo senso Frank è anche mosso da una forma di gelosia benevola verso Laurence che giorno giorno si fa sempre più spazio in una routine fatta di mancanze e nell’animo degli abitanti del luogo che finiscono con il trovare in lui un confronto e scambio. Nell’ospedale manca di tutto, dai farmaci ai dispositivi sanitari, all’elettricità in alcuni casi al bisogno di improvvisare durante operazioni in cui la vita del paziente è appesa a un filo. Non stupisce nemmeno che in questo ospedale si punti allo stabilizzare i pazienti più gravi per poi spostarli in strutture meglio attrezzate e che vengono considerate ospedali veri. Se non è possibile fare diversamente ci si appende a quel filo di speranza anche e a maggior ragione nelle operazioni più gravi e difficili per la sopravvivenza. Chi già da tempo vi lavora si è adattato a questa consapevolezza al punto da non concepire la rivoluzione di Laurence. Perché portare, ad esempio, un ambulatorio da campo nei paesi più isolati? I pazienti non si recano presso l’ospedale, preferiscono quello vero o arrangiarsi, portare una postazione da campo potrebbe significare solo più lavoro per tutti. Sarà un muoversi idilliaco, sarà l’ennesima speranza di un “novellino” ma questa sua irrefrenabile volontà e voglia di fare portano gli altri a farsi un esame di coscienza. E se fosse veramente possibile fare qualcosa per essere utili e sentirsi tali?
«Come in quel momento. Era come se qualcuno avesse spinto un dito nella debole trama del mio passato e stesse sbirciando dal buco. E anche io avevo l’assurda tentazione di guardare e di vedermi dall’esterno. Ma non potevo farlo. Insomma, avevo ritrovato il mio grandioso momento di agnizione, ma non volevo sapere cosa rivelasse.»
Dal punto di vista del passato dei due protagonisti, ben poco è dato sapersi. Frank ha avuto un matrimonio e ne aspetta la separazione definitiva con il divorzio, ha una relazione clandestina con una donna di colore sposata e di nome Maria. Il legame con questa donna è fatto di silenzi e sguardi e deve restare segreto. Laurence ha invece una relazione con Zanela, impegnata in missioni umanitarie. Il rapporto tra i due è segnato da un effetto alone, da un lato, ma dalla lontananza che ne sgretola e lima i confini, dall'altro.
In questo ospedale si aspetta un nemico che non sembra mai arrivare, si cercano spiegazioni e giustificazioni che non sembrano esistere. Assistiamo a facciamo nostro un luogo fatto di contraddizioni e significati mancati, osserviamo una realtà che può sembrarci lontana ma che in realtà è storia che si ricompone e incastona. È da questi pochi tasselli che prende infatti forma una narrazione corposa che porta il lettore a porsi domande e a interrogarsi.
Damon Galgut, vincitore del Man Booker Prize nel 2021, scrive un romanzo potente, composto da una prosa secca, concisa, diretta, dialogica. “Il buon dottore” metaforicamente può ricordare “Il deserto dei Tartari” di Buzzati e ricorda ancora un deserto che con il suo calore e la sua mancanza d’acqua priva l’uomo di vita e linfa vitale. L’ospedale, per effetto, prova a inaridire chi vi abita. Non dobbiamo però mai dimenticare la forza dell’umanità. Una umanità che è fatta di pulsioni, sentimenti, amicizia, passione, realtà, legami e che va ben oltre ogni deserto dell’anima. Metaforico e non.
«Avevo dimenticato che fa bene allontanarsi ogni tanto dai luoghi, dalla gente e dalle cose di tutti i giorni. Era fresco e si stava benissimo sotto agli alberi.»
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Giochi e guerra
«“Dov’è tuo padre?”.
“È morto”.
“E tua madre?”.
“È morta”.
“Perché piangi?” chiese Michel. […] “Aiutami, e poi vieni a mangiare a casa nostra”.
“E poi a dormire?”
“E poi anche a dormire”.»
François Boyer pubblica il suo “Giochi proibiti” nel 1947. Il libro è inizialmente ignorato tanto dai lettori quanto dalla critica. È solo dopo la trasposizione cinematografica di René Clément che torna alla ribalta e inizia ad avere successo. Ma attenzione, non è un libro che risparmia, non è un ennesimo libro sulla guerra per nessun motivo scontato. Al contrario è un romanzo crudele e folgorante che si focalizza e concentra sugli orrori della Seconda guerra mondiale e vi riesce per mezzo degli occhi di due bambini, Michel e Paulette. Due bambini, questi, investiti dalla guerra che osservano, sono travolti e privati di tutto da una guerra che non gli appartiene.
È il 1940, la piccola Paulette in questa estate e in una strada di campagna, vede morire i suoi genitori colpiti da una mitragliata aerea tedesca. È tempo di guerra, una guerra che porta sfollati, bombardamenti aerei, corpi umani lacerati e animali morti. I genitori di Paulette non sono da meno. Ella, nove anni, rimane di punto in bianco sola. Vaga Paulette, vaga tra la disperazione e la confusione generale. Vaga e ci descrive con i suoi occhi di bambina una prospettiva ignota, sconosciuta. Dalla sua altezza vede i talloni degli uomini, gli isterismi delle donne, non comprende le motivazioni, trasfigura ciò che è reale e lo trasforma in funzione di quelle che sono le sue priorità e i suoi bisogni. Ed è sempre per caso, in questo suo vagare, che approda al casale di Saint-Faix che si trova a cinque chilometri di distanza dalla strada maestra. Tuttavia, considerando l’epoca, potrebbe invece trovarsi in un altro mondo. Perché tanto quanto Saint-Faix vive in una sua realtà, altrettanto la Storia sembra disinteressarsene.
«Saint-Faix ignorava la Storia. E in quel giorno di giugno del 1940 fu chiaro che la Storia contraccambiava Saint-Faix con un identico disprezzo.»
È qui che vive una contadina dai modi altrettanto contadini e agri, Michel Dollé di anni dieci. Una volta incontrata Paulette nel bosco se la porta a casa. La guerra spezza, distrugge, nulla risparmia, al contrario i rapporti tra bambini sono rapidi ed immediati, semplici e diretti.
Ed è qui che iniziano i loro “Giochi proibiti”. Paulette è caratterizzata da un costante senso di distacco da tutto ciò che la circonda ma è anche affascinata dalla morte. Il loro gioco diventa, paradossalmente, quello di dare sepoltura ad ogni animale morto ponendo sopra ogni tomba una croce. Alcune scene possono essere disturbanti come quella della bambina bionda che balla con il cane morto, ma è davvero il mondo dei bambini quello non sano? O è forse il mondo adulto quello ipocrita che se ne frega della perdita dei più piccoli e della separazione e dolore che dissemina e semina nei cuori e nelle anime?
I giochi di Michel e Paulette sono intrisi di sacralità. I due seppelliscono gli animali a differenza dei genitori di Paulette che restano senza sepoltura. Onorare i defunti, ci ricordano i bambini, ha un prezzo e spesso è alto ma ha anche una certa sacralità che va rispettata proprio apponendo una croce sul luogo di riposo eterno.
«Chi non ha Dio non ha morale, chi non ha un prete non ha morale, chi non ha un tempio non ha morale, un senza morale è un amorale, un amorale è un immorale, evviva la morale, e mamma Dollé aveva concluso: “Ci fa la morale”.»
È possibile delineare un confine tra bene e male, innocenza e corruzione? L’opera di Boyer è un’opera dissacrante, senza confini, senza tempo. È uno scritto che imbarazza, spiazza, inizia alla vita, tocca il lettore con personaggi che non conoscono altro che la guerra, che sembrano aver dimenticato tutto quello che c’è stato prima e che non sembrano poter credere in un dopo.
È proprio la guerra il più assurdo dei “Giochi proibiti” che Michel e Paulette vivono sulla loro pelle mentre la crudeltà umana porta l’uomo ad uccidere l’altro uomo e tutto quello che trova sulla sua strada.
“Giochi proibiti” è un romanzo duro, disincantato, disilluso, che sullo sfondo ha sempre una crudeltà che viene narrata senza possibilità d’appello e in particolare senza forma alcuna di mediazione.
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Cinque donne per cinque epoche
«Ma Rosa avrebbe imparato presto che Bastiano non era un uomo che faceva le cose come ci si aspettava e, a costo di sbagliare e farsi ridere dietro, alla scelta più facile preferiva quella che gli diceva la testa. A casa sua Rosa sarebbe entrata da moglie e non come la picciridda che aveva rapito a valle.»
È un esordio potente quello di Aurora Tamigio con “Il cognome delle donne”, un titolo corposo che si propone come saga famigliare dalle tinte storiche. Tutto ha inizio con Rosa che nasce nella Sicilia di inizio Novecento e che sin da subito scopre che al padre suo non è dato chiedere, è il padre che chiede e lei può e deve solo eseguire. Se si azzarda a proferire parola diversa o richiesta differente, la aspettano cinghiate e percosse sino a svenire. Questa è la legge, questo è il suo ruolo nella famiglia. Ma Rosa ha un animo curioso e temerario. Impara dalla Medica i rudimenti per curarsi e fugge nel 1925 con Sebastiano Quaranta. Ben presto imparerà che l’uomo non usa le mani ma le parole, che gli occhi suoi brillano innanzi al suo grande amore e che niente per lui è scontato. Dopo poco tempo che ella è giunta al paese dove l’uomo ha i suoi possedimenti, ecco che questo decide di vendere tutto per comprare una struttura in paese dove creare la prima osteria della Storia. Questa diventerà il punto di riferimento per San Remo ma anche per i paesi circostanti. Dall’unione nascono prima Fernando, dal carattere mite e riflessivo, poi Donato, dal carattere astioso che finirà per prendere i voti, e infine Selma, la tanto desiderata e ambita Selma, la figlia femmina da cullare e custodire, da crescere e amare.
«Rosa, sul cuscino che ancora sapeva dei capelli di Selma, si era messa a pensare che forse non era male avere tirato su tre figli che non sapevano cosa fosse il sangue. Voleva dire che in vita loro, ne avevano visto poco.»
Scorrono gli anni, arriva la guerra. Giunge la chiamata: Bastiano deve partire e probabilmente non tornerà più da quel viaggio di sola andata. Anche se i suoi occhi sono ottimisti, anche se Bastiano vede il mondo a modo suo, la guerra che lo aspetta non perdona. Rosa non si arrende alle avversità e cresce i suoi figli con la temerarietà delle donne forti e determinate, porta avanti l’attività di famiglia e sfama la cittadina. I suoi prognostici sulle sorti del marito non sono errate ma peggio sarà per la figlia che si invaghirà irrimediabilmente di Santi Maraviglia, anche detto SantiDiVetro. Sposerà l’uomo anche innanzi al parere contrario della madre che ben lungo ha visto sulle incapacità del futuro genero e che altrettanto ha compreso su ciò che confà quelle che sarebbero le sue doti. Rosa ha coltivato con cura l’eredità della famiglia, in particolare ha sempre risparmiato per la figlia Selma, una moneta alla volta, anche in tempi di grande carestia. I problemi sorgeranno quando Santi diventerà il capofamiglia e quell’eredità verrà sottratta. Dall’unione con l’uomo nasceranno la battagliera Patrizia, l’attraente e fascinosa Lavinia e Marinella la cocca di papà, che cresce negli anni Ottanta e che brama di studiare all’estero e una indipendenza tutta nuova rispetto al passato.
«Marinella aveva allungato le braccia davanti a sé puntando i palmi contro il cielo e aprendo e chiudendo le dita per mettere in circolazione il sangue. E il sole aveva attraversato la pelle sottile delle sue mani, facendole luccicare come fossero di vetro, liberandola dal torpore e dal freddo della notte.»
Cambiano gli equilibri, mutano le voci ma resta indelebile il carattere di uno scritto che trascina tra le sue pagine senza difficoltà. L’intreccio è ben costruito, i personaggi sono vividi e suscitano nel lettore una grande empatia e capacità di immedesimazione. Si è talvolta Rosa, altra volta Selma. E si è ancora Lavinia, Patrizia e Marinella, si è vicini a Fernando e Donato, si è lontani da Santi e dai tanti scenari angusti che vengono a crearsi.
Cinque donne per cinque epoche diverse, cinque donne che fuggiranno dai loro ruoli e che dovranno fare i conti con uomini e un meccanismo insito nella società che vorrà invece costringervele. Le vite delle donne ripartiranno, grazie al sacrificio di Rosa e Selma, da una piccola mansarda al quinto piano ma sarà da qui che le tre figlie potranno tornare a vivere e sperare di poter ricominciare inseguendo i rispettivi sogni.
La penna è rapida, ben caratterizzata, fluida. Alcuni aspetti gergali rendono ancora più vivida e autentica la narrazione contestualizzandola nel luogo di riferimento. Un’opera che si lascia divorare in appena due giorni ma che lascia il segno.
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Il disegno perfetto
Si sa, i rapporti di famiglia e i legami, sono sempre estremamente complessi. Talmente complessi che talvolta si sviluppano con delle dinamiche tanto fini quanto affini, anche quando tra i singoli membri, come nel caso della famiglia Cunnigham, non corre buon sangue. È un dato, se ci pensiamo bene, abbastanza frequente, oltretutto. Il dato oggettivo è che tutti, per un motivo, o un altro hanno ucciso qualcuno, tutti tranne il narratore Ernest, la pecora nera, detto Ernie, almeno al momento. Perché la pecora nera? Ma perché tre anni prima ha denunciato il fratello Michel alla polizia per il delitto commesso, omicidio di un uomo di cui aveva poi chiesto proprio a Ernie di procedere con il seppellirlo clandestinamente in un boschetto.
Tuttavia, la famiglia per nessun motivo si rivolge alla polizia, ed ecco allora che su iniziativa della zia Katerine si ritrovano in un resort sulle montagne australiane dove festeggiano il rilascio di Michel dalla prigione stante la derubricazione del fatto di reato da omicidio a omissione di soccorso e occultamento di cadavere e l’avvenuta detenzione.
La famiglia dei Cunnigham va di pari passo con le morti e anche quando sopraggiunge allo chalet trova il cadavere di un uomo apparentemente morto per il freddo ma in realtà perito a causa di ben altro, sembrerebbe un tentativo di strangolamento con una profonda abrasione sotto al collo. Ma dove e come è morto davvero l’uomo?
«Sembra ovvio, ma i gialli moderni imboccano spesso un’altra via. Tendono a concentrarsi più sugli espedienti narrativi che sui fatti, più sugli assi nella manica che sulle carte in tavola. La trasparenza, invece, era il tratto distintivo dei giallisti del l’Epoca d’oro: Agatha Christie, per esempio, o Chesterton. Io lo so perché scrivo libri su come si scrivono i libri. E per i gialli esistono regole ben precise. Ronald Knox, che fu membro di quella cerchia di eletti, le mise nero su bianco, anche se lui le chiamava “Comandamenti”. Qui le trovate in epigrafe, quella parte di un libro che tutti saltano a piè pari. Ma datemi retta, stavolta vale davvero la pena di leggerla. Anzi, il mio consiglio è di fare un’orecchia alla pagina. Non vorrei tediarvi ripetendole di nuovo, perciò, in estrema sintesi: la regola d’oro dei gialli del l’Epoca d’oro è: Gioca pulito.»
Come in ogni perfetto giallo, non può mancare il dato dell’imperfezione che si traduce in un poliziotto totalmente incapace a gestire e condurre l’indagine. E come in ogni perfetto giallo, ancora, alla Agatha Christie toccherà a Ernie risolvere del mistero e far luce anche sui successivi omicidi che si susseguiranno.
Quel che colpisce di “Tutti nella mia vita hanno ucciso qualcuno” è senza ombra di dubbio il tono con cui è intriso nel suo essere. Si tratta certamente di un giallo, ben ponderato e ben cadenzato, i personaggi sono ben descritti ma ancor più a far leva è il tono ironico e il costante giocare a “l’aiutino da casa”. Non mancheranno passaggi in cui Ernie si rivolgerà direttamente al lettore per confrontarsi sulle ipotesi e possibilità di risoluzione del mistero. Il lettore non faticherà a capire chi si è macchiato della colpa del disegno criminoso, vi arriverà ben prima della truppa di protagonisti stessa ma continuerà comunque ad andare avanti perché la forza del romanzo è data dall’intero insieme. Un insieme fatto di colpi di scena quanto di umorismo sottile.
Un titolo che ricorda la scatola chiusa, formula già adottata e trova in tanti altri romanzi, che rimanda al giallo classico inglese per molteplici punti in comune volutamente ispirati e che ben si offre a una lettura per tutte le stagioni grazie a uno stile che accompagna e conduce per mano.
«Sarà anche una digressione irrilevante (ti sfido, editor: cassa tutto il paragrafo, se hai il coraggio), però siate sinceri: voi siete mai riusciti a passare davanti alla porta aperta di una stanza d’albergo senza sbirciare all’interno? Impossibile.»
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Tristane e Laetitia
«Che significava fare la brava? Voleva dire non emettere nessun suono, non manifestare né desideri né bisogni, non muoversi. Huxley scrive che almeno la metà di ogni morale è negativa. L’etica che corrispondeva al fare la brava era negativa al cento per cento.»
Avvicinarsi ma anche tornare ad Amélie Nothomb è sempre una emozione unica e irripetibile. Dopo aver parlato di “Primo sangue”, al tempo ultima pubblicazione della belga, questa torna in libreria con un altro romanzo forte quanto viscerale ma che è al contempo anche una favola decisamente malinconica e spietata. Forse si potrà dire che si tratta di una Amélie meno spigolosa, meno cinica ma non per questo ella è meno incisiva. Anzi. Esattamente come con “Primo sangue” a tessere le fila della storia è una dimensione famigliare.
Ad apertura del volume conosciamo Nora e Florent, innamoratissimi, folgoranti, preda di un idillio d’amore che non sembra avere mai fine, che non sembra mai cessare. La loro vita sembra incentrata e concentrata in quella che è una perpetua luna di miele dove l’amore non passa mai in secondo piano, esattamente come l’illusione di un rapporto perfetto. Ma attenzione perché, come sempre accade con la Nothomb, nulla accade per caso. È proprio dalla valutazione di questo apparente idillio perfetto che non viene descritto nella sua magnificenza in senso necessariamente positivo che subentra la figura di Tristane, la primogenita nata il 13 novembre 1973. Gli amici, infatti, consigliano ai due innamorati di far confluire questo amore in un figlio. Per Nora la maternità è un supplizio, la bambina inoltre non deve disturbare quello che è il loro idillio al termine delle giornate. Tristane è una bambina prodigio, è dotata di grande intelligenza, impara a scrivere e a leggere prestissimo da sola, impara a socializzare con chiavi di ragionamento che la porterebbero, se volesse, a saltare anni di scuola. Vive e cresce nell’indifferenza di due genitori che non fanno mai cessare quell’idillio. Soltanto la zia Bobette si rende conto del suo essere un prodigio, lei che ha una prole e un’indole così diversa.
«Si sforzarono di dimenticare che la figlia aveva aspettato un loro esplicito invito per rivolgergli la parola. Un eccesso di educazione così assurdo avrebbe dovuto fargli intuire il complesso di cui soffriva la loro primogenita: la paura di disturbare.»
Proprio per questo idillio costante gli amici suggeriscono, straniati e stupiti ma anche indispettiti, al duo di procedere con la realizzazione di una sorella per la piccola Tristane. Sì, realizzazione perché al momento del consenso della bambina vi è anche la promessa che sarà la bambina stessa a prendersi cura della sorella più piccola interrompendo anche la scuola, se necessario, per i sei mesi necessari affinché questa entri al nido – e per evitare una seconda e tediosa maternità a Nora.
Ecco allora che il 9 agosto 1978 nasce Laetitia, bella e bruna come Flaurent, inaspettatamente vivace. Laetitia nasce nella pienezza, nasce nella forza del desiderio, Tristane scopre della pienezza solo all’età di quattro anni e mezzo.
«Tristane ne dedusse che a divertire gli adulti erano le finzioni. Cos’altro poteva fingere di fare per suscitare di nuovo quelle risate che le erano piaciute tanto?
[…]. Il concetto di fiducia in se stessi le era estraneo, ma l’intuito le suggerì che la virtù necessaria per quella impresa si chiamava audacia, e che a lei non mancava.»
«Così Laetitia nacque nella pienezza, mentre Tristane la scoprì solo all’età di quattro anni e mezzo. Laetitia non seppe mai che il cuore può morire di fame, Tristane non poté mai dimenticarlo. Insieme al loro amore apparve quel divario: Laetitia non avrebbe mai patito l’angoscia di non essere amata, Tristane l’avrebbe conservata in eterno.»
Tristane si dedica anima e corpo alla sorella. La osserva, la guarda, dormire, si prende cura di lei. Comprende di non avere il suo sfavillio d’occhi, è frastornata quando la madre la definisce “scialba”, si ingegna per arginare questo dato di fatto, questa consapevolezza sopraggiunta ma inequivocabile, questa condanna senza possibilità d’appello. Come poter arginare il problema, come comportarsi? Come poter vivere della sua intelligenza senza che il suo essere scialba possa gravare? Come arginare quel vuoto nel cuore che non abbandona mai, quella tristezza che le è data dall’assenza di pienezza?
«”Perché sono così triste? Si interrogò. La risposta le zampillò nel cuore. Era sempre stata triste perché i suoi genitori non avevano mai cessato di escluderla. Niente nel loro atteggiamento lasciava pensare che avessero bisogno di lei, che lei fosse una parte importante della loro vita.
Scialba: un aggettivo mediocre, a immagine della sua tragedia. Non che il papà e la mamma non le volessero bene, o fossero cattivi, o la maltrattassero, o che gli fosse indifferente. Era peggio. Che si può fare contro la freddezza? Niente. Non è una cosa che grida vendetta al cielo. È una sofferenza modesta.
[…] Le parole “bambina scialba” la ossessionavano come una sinistra filastrocca. Capì che sarebbe stato il suo punto debole per sempre, anche venti o quarant’anni dopo sarebbero bastate quelle due parole per metterla k.o. “Ogni anima ha una ferita: questa è la mia” sentenziò. È raro a otto anni dar prova di una simile saggezza.»
Passano gli anni, i legami mutano, cambiano. Le bambine crescono, la fame e il cibo iniziano ad avere un ruolo sempre più pregnante in queste pagine. L’anoressia, si palesa con il suo nome, si dimostra per quel che è. La vita porta le due sorelle a percorrere percorsi diversi, percorsi fatti d’amore, progetti, desiderio di realizzazione. Ed emerge anche l’asprezza e la meschinità della madre e la cecità del padre. Il risvolto dell’opera non è meno acre delle aspettative. Questo vale anche per le relazioni amorose, per la perfezione apparente, per il silenzio e il non voler né sentire, né vedere.
Ma cos’è “Il libro delle sorelle” se non un gran romanzo d’amore? Tristane è il personaggio chiave, il personaggio centrale che determina e rappresenta gli ingranaggi dell’intero scritto. La sua solitudine, il suo silenzio ci accompagnano. Il suo camminare e muoversi in punta di piedi per non disturbare i genitori, ci fanno riflettere sul suo – ma anche nostro – approccio con il mondo. Il suo stesso assetto cambia al momento del sopraggiungere di Laetitia e cos’è l’amore se non anche un insieme di rinunce e non detti? Di sofferenze e punti fermi che vengono ricercati? Ne emerge, al momento dell’unione delle due sorelle, la descrizione di un amore assoluto, universale, omnicomprensivo, tenace.
Una storia intensa, apparentemente lieve, profonda di gravità in realtà.
«Non c’è niente che ci allieti più del sonno di una creatura amata. Se poi chi dorme è un neonato, la felicità si ammanta di mistero: che cosa sogna una bambina di tre mesi?»
«Le due sorelle alla fine si addormentavano insieme. Niente si addice all’amore quanto un sonno condiviso. Nella camera dei genitori avveniva un miracolo simile: Florent abbracciava Nora a cucchiaio per dare inizio al loro riposo coniugale.»
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Tempesta e Camilla
«Renzo era invaso dalle cose nuove che tutte insieme lo aggredivano continuamente: la marcia, la montagna, la fuga, la donna. Era esausto.»
Esordio molto potente è quello di Camilla Ghiotto in libreria con “Tempesta” edito da Salani Editore. Scritto dalla grande componente evocativa, il libro presenta al suo interno una parte di componente autobiografica e una parte romanzata. A muovere le fila vi è una storia radicata in un tempo non ancora così lontano ma spesso percepito come tale, quasi dimenticato. Torniamo agli anni della Seconda guerra mondiale, scopriamo di Tempesta, soprannome di battaglia del padre, Renzo Ghiotto, della narratrice, conosciamo di un legame separato da tanti anni di distanza e fatto di equilibri e silenzi. Renzo è stato infatti comandante di brigata con il nome di battaglia di Tempesta e tra lui e la figlia vi era una distanza d’età estremamente significativa che ha scavato un solco che inevitabilmente ne ha dettato le sorti e condizionato il rapporto.
Renzo muore novantenne quando la figlia frequenta il primo anno di liceo, tuttavia, il ritrovamento di uno scritto del padre in cui questo sviscera la propria esperienza di partigiano, è l’occasione per la giovane per riscoprire la figura del genitore e trovare quel filo rosso atto a comprenderne davvero la psiche.
«[…] Renzo aveva accettato mentalmente una vita gettata nell’incertezza e nell’isolamento, e quella decisione era già una ribellione. Trovare un gruppo organizzato e funzionante era una sorpresa, un sollievo. Con la sua divisa di allievo di solido panno blu era ancora un estraneo, ma era insieme a loro. Mal vestiti, ma partigiani veri. Male armati anche. […] Adesso era dei loro, armato. I partigiani era anche lui, pensò.»
Ecco allora che il romanzo prende forma e campo snodandosi su due piani narrativi diversi; da un lato vi è il racconto delle fasi che seguono nell’immediato il lutto dettato dalla morte del padre, dall’altro scopriamo parole e pensieri scritti di pugno da Tempesta. Potrà esserci una rivisitazione e correzione da parte dell’autrice ma, nel concreto, queste pagine sono tratte dall’esperienza di vita dell’uomo negli anni del conflitto. Precisazione necessaria e dovuta perché vi è un cambio ritmo narrativo che può inficiare e/o influenzare la lettura nei suoi tratti e nei suoi sviluppi.
Per Camilla diventa importante conoscere davvero il padre, quel padre che forse non ha mai davvero conosciuto. Quello scritto è un richiamo senza eguali per lei.
Si potrà dunque pensare che “Tempesta” sia solo e soltanto un romanzo d’esordio focalizzato sul rapporto padre-figlia, un rapporto di riscoperta e nuova linfa ma no, non è così, “Tempesta” non è solo questo. È un libro che coinvolge anche per l’aspetto storico, per quelle lotte partigiane che vengono riportate alla luce nella loro semplicità e autenticità, anche nel loro essere antieroiche. Dunque ci troviamo davanti a uno scritto che porta a vivere una riflessione interiore che si focalizza sull’io e il rapporto con l’altro ma si snoda anche in una ricostruzione veritiera di quel che è stato e vi riesce per mezzo della rievocazione di chi quei giorni li ha vissuti davvero sulla pelle.
E non è forse vero che dalla ricerca delle proprie radici è possibile ricercare se stessi? Scoprirsi forse davvero? E non è forse vero che dalle scelte compiute da chi ci ha preceduti è possibile trovare quel coraggio e quella linfa per compierne di nuove e coraggiose?
Perché il presente è fatto di passato e memoria, perché senza presente, passato e memoria, non può esistere neanche un futuro.
«Di fronte a tutte le galassie attraversate da mio padre mi sento uno dei suoi ultimi approdi. I suoi novantadue anni sono decisamente troppi per i miei diciassette. Lei ha vissuto tutto di me, era lì quando sono nata, io ho assistito solo alla stagione conclusiva della sua vita. Che tutto debba finire lo sapevo già, e sapevo che questa era una delle cose destinate a finire prima di me, ma così mi pare troppo presto.»
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Figli di un ideale sconosciuto
«È proprio sfortuna».
«Cosa è sfortuna?»
«La fine della lotta armata non appena siamo arrivati noi. Senza avere nemmeno iniziato. Senza aver fatto nulla per il nostro popolo».
«Be', sì. Che schifo di ruolo ci riserva la Storia».
Per quanto sia innegabile che Patria rappresenti il piccolo grande capolavoro di Fernando Aramburu, altrettanto vero è che la sua produzione letteraria è altrettanto ricca di spunti e letture meritevoli di essere conosciuti e tra questi non può mancare “Figli della favola”, ultima opera pubblicata in Italia dove l’autore torna a narrare dell’ETA seppur in modo diverso. È bene precisare che quest’ultimo lavoro è stato scritto in contemporanea di Patria ma racconta, questa volta, delle avventure di due giovani uomini, “Joseba e Asier”, che sono entrati nella militanza armata poco prima che questa venisse smantellata.
Sono due giovani opposti tra loro. Tanto Joseba è timido e impacciato, tanto Asier è rigido e ligio alle regole. I due partiranno per l’addestramento e si ritroveranno nella parte basca della Francia dove, in una fattoria di allevatori di galline, verranno istruiti a dovere. Proprio in questo frangente l’ETA chiude i battenti ed ecco che i due decidono di mettersi in proprio, di costruire una propria organizzazione di cui sono gli unici membri. Hanno vent’anni, nessun soldo, nulla da perdere ma sono anche un duo non perfettamente consapevole della portata delle proprie azioni.
«E continuavano a camminare uno accanto all’altro, immersi in frequenti e prolungati silenzi.»
Ecco, quindi, che Aramburu a sua volta si lascia andare dalla rigida impostazione narrativa che aveva caratterizzato Patria per creare una parodia, nel vero senso della parola, che si fonda sul grottesco e che ha quale obiettivo quello di far emergere la povertà intellettuale dei suoi protagonisti. Perché il male non è necessariamente e sempre e solo legato all’intelligenza di chi lo compie. I due giovani si buttano in battaglie assurde e prive di senso, chiaramente perse in partenza. Vogliono portare avanti una lotta armata, ma non hanno armi. Vorrebbero fare e fare ma non hanno soldi. Compiono piccoli crimini in virtù di chissà quale mito o rivendicazione, rivendicazione o mito che manco loro sanno quale essere. Si ritrovano dalla detta alla fatta con un’ideologia che legittimava al crimine fino a poco prima e che adesso è franata facendo loro mancare la terra sotto ai piedi. Nel mentre Joseba pensa alla sua compagna che avrà ormai partorito suo figlio e Asier è sempre più incline a diffidare del sesso femminile. Saranno però proprio queste figure a dimostrarsi risolute, veritiere e concrete a differenza di loro. Nella realtà, i due, non hanno idea di cosa vogliono fare e di cosa effettivamente vogliono perseguire. Sono mossi da motti quali “gioventù, energia e fede” ma appena si fermano e si chiedono cosa fare, perché fare, come fare, ecco che il castello delle convinzioni crolla perché una motivazione vera a quel che stanno facendo non c’è. Un divario enorme, dunque, tra aspirazioni altissime e gesti irrisori. Un divario amplificato ulteriormente dalla consapevolezza che i due amici sono legati da una ideologia ma si muovono da soli, allo sbando, senza una vera e propria direzione, procedono a tentoni, a tentativi.
Aramburu fa un vero e proprio lavoro di ricerca e di revisione nel momento in cui riprende in mano “Figli della favola”. Se da un lato l’obiettivo è mostrare la condizione umana di due giovani auto-emarginati per un ideale, se da un lato viene mostrato il come la Storia si rifletta sulla storia del singolo, ancora ad essere trattato è il terrorismo che vuol essere definito e descritto per mezzo della voce dei due protagonisti così com’è.
“Figli della favola” è un romanzo grottesco, in chiave ironica ma dalle tinte agrodolci. Se anche i personaggi sono capaci di strappare sorrisi, non manca l’amarezza. Sorprende lo stile volontariamente giocoso e ironico, satirico e pungente, che propone un Aramburu diverso dal solito ma la storia nulla risparmia. Irriverente verso l’ideologia, rispettosa verso chi non c’è più, l’amarezza è quotidianità. L’empatia è tenuta a debita distanza perché è fondamentale leggere lo scritto con una visione critica che non giustifichi dei personaggi illusi e patetici che puntano all’eroismo ma senza nemmeno conoscere dei valori cui il singolo individuo, in primis, dovrebbe avere e fare propri.
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Anna e l'astronomo
«E so che non è vero che se si vuole si può, sono l’emblema del fatto che desiderare qualcosa non basta e che alle volte semplicemente non è possibile arginare la forza di intere foreste.»
Quarto capitolo delle avventure che hanno avuto inizio con “Gli insospettabili”, che sono proseguite con “Testimone inconsapevole” e ancora con “La banda dei colpevoli” è “I selvatici” di Sarah Savioli. Ci troviamo davanti a un episodio che mette la sua protagonista Anna innanzi a una nuova ma non semplice prova: Anna Melissari, da tempo ormai nell’agenzia Cantoni, si trova a dover lavorare per la prima volta in trasferta presso un rifugio sugli Appennini.
Sono passati circa vent’anni da quando Cecilia Randi e suo marito Tullio hanno preso in gestione e poi acquistato il rifugio in Appennino. Dopo averlo sistemato lo hanno trasformato in un vero e proprio centro di accoglienza per viaggiatori di passaggio ma anche per rifugiati politici, vittime e persone in attesa di asilo. La comunità all’inizio non ha ben preso questa iniziativa, temeva dei nuovi arrivati, li guardava con pregiudizio ma poi, grazie alla coppia e a un ottimo lavoro di integrazione, ha iniziato a ricredersi. Anna e Cantoni, coadiuvati da Otto, vengono chiamati presso il rifugio perché è sparito uno dei ragazzi che vi soggiornava, Yasser detto Yassi di anni venti, siriano, da tutti benvoluto e ottimo intagliatore. Il duo arriverà presso il rifugio e Anna si renderà conto di trovarsi davanti a uno scoglio ben più grande di quel che pensava perché lei, che avrebbe potuto risolvere il caso in cinque minuti, è schiacciata dalle voci del bosco. Come isolarle? Come riuscire a parlare con gli animali e le piante distinguendo suoni e voci se questi suoni e queste voci le arrivano come un’unica massa di rumore senza filtri e distinzioni?
«E se fosse proprio questo il punto? Non sono di fronte a un’immensa orchestra come una spettatrice che non comprende la melodia e, anzi, ne è schiacciata e rigettata. Dell’orchestra ne sono parte e forse devo semplicemente smettere di fare resistenza e sciogliermi in essa trovando il mio ruolo.»
“I selvatici” di Sarah Savioli è un romanzo caratterizzato dall’immancabile stile creativo dell’autrice, una penna che sa far sorridere i suoi lettori ma anche farli riflettere. Ed è questo ciò che accade tra queste pagine. Perché tra una gag ilare e divertente si snoda un plot narrativo composto da riflessioni e voglia di sensibilizzare il lettore su una realtà attuale: l’immigrazione in tutte le sue forme e connotati ivi compresi il concetto di integrazione e inclusione, la paura del diverso e chi più ne ha più ne metta. Non mancano anche altre tematiche quali i legami umani, la famiglia, la fiducia e ovviamente non manca il giallo che incuriosisce e spinge ad andare avanti nella lettura perché il lettore, così come Anna, Cantoni e Otto, vuol ritrovare il giovane scomparso e capire cosa è davvero successo.
Una lettura adatta al periodo estivo e a tutte le stagioni è “I selvatici”, un libro che scalda il cuore. Buona lettura!
«Le pagine dei quaderni sono alla fine anche quelle della tua storia, Yasser. Una storia di crescita fatta con la copiatura fedele di pagine di libri che ti colpivano, che sentivi parlare a te e di te. Una storia prima riportata in caratteri occidentali, poi in arabo per permettere di declinarla in entrambe le tue identità e con i due mondi che ti portavi dietro.»
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Aurora
«Il mio nome è la frontiera tra la notte e il giorno, sono margine. Aurora. Aspetto l’alba ma resto nel letto sdraiata, a occhi chiusi. Passiamo troppo tempo in posizione verticale, la testa in alto, i piedi a terra, le spalle curve, le gambe che devono sorreggere tutto. Quando mi sdraio la mia lingua e i miei pensieri si sdraiano dentro di me, le parole cambiano la loro strada abituale, da nord a sud, più lente e imprevedibili. Ci sono storie che si possono raccontare solo da sdraiati, e io resterei ad ascoltarle così, a occhi chiusi. Invece dormire è un’altra cosa, dormire mi terrorizza.»
Aurora non ricorda più cosa significa dormire, lasciarsi cullare dal sonno che ti trascina nella serenità e nella speranza di un riposo sereno. Da fin troppo tempo il suo sonno è disturbato, interrotto, assente, frammentato. Da quel giorno in cui la sua vita si è spezzata, il suo sonno si è spezzato. Per lei che, come da incipit sopra riportato, ha un nome che rappresenta una frontiera tra la notte e il giorno, che aspetta l’alba ma preda della notte, dormire è diventato un vero supplizio. Non ha altra scelta che recarsi in un “centro del sonno”. E dire che non sapeva nemmeno che esistessero. Sono dieci anni che ormai vive a Marsiglia, città dove è approdata quasi per caso ma nella quale è rimasta come attirata da un richiamo, un decennio in cui mai ne aveva sentito parlare nonostante il suo lavoro e le tante relazioni intessute. Tuttavia, qualcosa di strano accade. Si reca all’appuntamento, il medico si professa con tutto il suo distacco, le riferisce che sarà trattenuta in ospedale per una notte nel futuro 28 aprile, le riferisce, con ennesima voce secca e senza via d’uscita, che il suo sonno verrà registrato e alla sua domanda sul se potrà vedersi, conclude che no, questo non sarà possibile perché “potrebbe spaventarsi”. Potrebbe spaventarsi? Di cosa? Perché? Per quale motivo? Cosa c’è di così pauroso e terrificate nel vedersi dormire? Cosa potrebbe scoprire?
È questione di un attimo. Il medico si distrae, quei tre dvd sembrano chiamarla, una mano scatta. Li ha presi, li ha nascosti, se ne va. Sa che è sbagliato, nel profondo lo sa, ma lei deve sapere. Lei. Deve. Sapere. Deve scoprire perché dovrebbe e potrebbe spaventarsi semplicemente del suo dormire ma soprattutto deve sapere se c’è davvero un modo per guarire dalla sua ferita e dalla sua inevitabile e conseguente insonnia.
«”E le lacrime nostre di cosa sono fatte allora?” E mi accorgo che è tanto tempo che non riesco a piangere.
“D’acqua.”
“Ma da dove viene?”
“Dal mare. Non ti sei accorta che sono salate?” E si stropiccia gli occhi cercando di far uscire qualche gocciolina da fami assaggiare.
“Ma come ha fatto il mare a starci negli occhi?”
“Lo porta il vento”.»
È da queste brevi premesse che Arianna Cecconi torna in libreria e con un romanzo altrettanto empatico ed emotivo così come lo era stato il suo romanzo d’esordio “Teresa degli orali” edito sempre per Feltrinelli e di cui la lettura è super consigliata. Arianna torna a parlare di una tematica importante e lo fa per mezzo di una storia che suscita subito empatia poiché un po’ tutti riusciamo a sentirci e immaginarci Aurora. Abbiamo ferite, dolori, bruciature nell’anima che ci bloccano in qualche modo e che ci provocano pensieri, riflessioni, bisogno di sentirsi parte e amati. E vi riesce con una delicatezza unica, per mezzo di una penna e di una prosa che accarezza l’anima.
Aurora è ammaccata, sola, sbucciata, tornare a casa era per lei sinonimo di paura e tristezza. Guarderà quei dvd e da quel momento avrà bisogno di confrontarsi e conoscere quelle persone che vedrà nel video e tramite loro verrà a costruirsi un filo rosso che la porterà a interrogarsi e interrogare ma, forse, anche a trovare la sua serenità.
Perché si chiama Aurora, perché è nata sulla terra, perché ha quarantadue anni e perché proprio a questa età ha imparato che l’aria deve uscire dal naso e non dalla bocca e che in francese rubare e volare, suonare e giocare ma anche mare e madre hanno lo stesso suono.
Perché si chiama Aurora ed è ora di ricominciare.
«In posizione orizzontale le parole sono venute sole e ho ringraziato ognuno di loro come ancora non ho fatto.»
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Nada, Danilo, Omar e Senadin
«”Ha detto che la prossima volta devi venire anche tu.”
“Ok. Ma tu quando lo capisci?”
“Che cosa?”
“Che dobbiamo stare qui.”»
Sarajevo, 1992. Una guerra, una città sotto assedio, bambini in fuga, bambini rifugiati in orfanotrofio in attesa di una madre che non tornerà e di un tempo sospeso di cui nulla è memoria. Non hanno più ricordo nemmeno di quello che era la loro vita del prima, sono ormai vittime e carnefici, prede e schiavi di un meccanismo che ruota interamente attorno ai proiettili. Proiettili che sono scambiati per figurine, proiettili che sono sinonimo di morte e di vita.
Omar ha dieci anni ma non ha amici. Senadin è suo fratello e cerca costantemente di dargli consolazione e conforto. Nada è una bambina senza anulare che però non smette mai di disegnare e ancora Danilo, che di anni ne ha quattordici, vive per quella promessa fatta a un tempo che verrà anche se ancora non c’è. Ma si può vivere senza la speranza che un giorno migliore arrivi? Che un futuro fatto di cose belle esista per tutti? No, non si può vivere senza coltivare questo bisogno.
Ecco allora che questi bambini si incontrano e che le loro vite si intersecano in una storia che li porterà a dover essere messi in salvo da quelle bombe in un Paese completamente estraneo a loro: l’Italia. È questo il luogo che potrebbe salvarli ma che al tempo stesso potrebbe strapparli inevitabilmente a vita dalla loro terra natia. Chissà se un domani avranno modo di tornare “a casa”, chissà se riusciranno a colmare quelle assenze e a ricomporre quel puzzle di identità e famiglia che è proprio di ciascuno di noi.
«Quando stava così vicino al suo corpo, la odiava come si odia un nemico [..]. Avrebbe voluto ucciderla, sua madre, per difendersi dal dolore di esserne il figlio. Avrebbe voluto torturare quel corpo, aveva fatto godere, quel corpo senza riserbo.»
Lo spostamento è proposto come un periodo limitato che poi però si trasformerà in affido e adozione. Non erano tutti orfani i bambini, alcuni le madri le avevano ma le donne, davanti all’inevitabile conflitto, non avevano avuto altra scelta, per salvarli, se non quella di darli in orfanotrofio. Era l’unico modo per proteggerli dal mondo di fuori. Questo non fa da scriminante, però, alla loro adozione.
Il focus si focalizza su Nada, Danilo, Omar e Senadin che partono in pullman verso il nostro Paese tra mille ostacoli e posti di blocco. Un viaggio della speranza che parte con una lacerazione che colpisce e taglia ciascuno di loro. Danilo è costretto a dividersi dalla famiglia che resta in Bosnia, Nada deve lasciare il fratello Ivo che è stato chiamato al fronte, Omar non riesce a non pensare alla sua mamma, una mamma che gli è stata strappata a seguito di una granata e della quale non conosce le sorti anche se spera che sia viva e Senadin ha il cuore pesante e invece non crede che questa sia sopravvissuta.
La struttura del libro, ancora, si divide in quattro parti che vanno dal 1992/1993 al 2010/2011. Un ventennio che vede crescere e diventare uomini e donne quelli che abbiamo conosciuto come bambini o adolescenti. Cosa ne sarà stato di loro?
«Dove vai?" Omar si lanciò su di lui, si aggrappò alla sua schiena, ma Senadin si scosse fino a farlo cadere. Non si fermò neppure per aiutarlo a rialzarsi. proseguì per la sua strada, probabilmente contento di essersi scrollato la propria storia di dosso.»
Rosella Postorino dona ai suoi lettori un componimento composto da tante storie e microstorie e da tante verità quanto tematiche affrontate. È una storia che parla di legami, di guerra, di perdita, di madri e figli, di esistere, di condividere, di amore, di famiglia, di affetti più cari, di sopravvivenza, di resilienza.
Un romanzo dai grandi intenti ma che è intriso di crepe come per un vaso rotto tenuto insieme dalla colla. La storia è ben scelta, l’idea è arguta soprattutto se si considera il target di riferimento per un libro come questo, tuttavia, alcuni argomenti e passaggi storici non sono affrontati con sufficiente approfondimento, vengono dati quasi per scontato o sono privi di una valutazione davvero oggettiva, è come se ci fossero delle falde che lasciano dei vuoti, e alcune sequenze, non sviluppati in modo omogeneo tanto da arrivare a scoppio ritardato e frammentato. Ma a prescindere dal dato storico l’altro grande cruccio di questo scritto è la prosa, lo stile. L’autrice non riesce ad essere davvero evocativa, fluida e a trattenere. Scrive un romanzo che finisce con l’essere ridondante, prolisso, faticoso da leggere e non emozionale. Non spicca per stile, l’evolversi non è fluente. Il lettore deve attendere per ricomporre il puzzle, si trova davanti a tante piccole microstorie che nei propositi vorrebbero dar luce a una fotografia più grande del tempo di allora ma che finiscono con l’essere percepite come decomposte, disomogenee, imprecise (alcuni aspetti non tengono conto dell’impossibilità concreta di alcune ricerche, ad esempio, o di alcuni dei molti meccanismi burocratici che si celano dietro all’adozione) e al tempo stesso inadatte nell’opera di ricomposizione.
Un libro che convince soltanto in parte, che risulta asettico per il suo frastagliarsi contro le onde. Un testo che sarebbe arrivato maggiormente con una impostazione diversa, magari con un’unica grande storia a far da collante al posto di tante piccole messe insieme e volendo anche con qualche pagina in meno. Un componimento che si fatica a leggere nonostante gli intenti e i buoni propositi.
Indicazioni utili
- sì
- no
no = a chi amando questo periodo storico ma preferisce una trattazione più contestualizzata.
Colpo grosso ne La Grande Mela
Alessandro Barbero torna in libreria con un titolo che si allontana, in parte, dalla produzione a cui ci ha abituato negli anni. Siamo nel 2001, siamo a New York. Harvey Sonnenfeld, agente CIA, ha una intuizione, una di quelle, che come spesso accade, non si sa da dove vengano ma che sono radicate: ci sarà un attentato e sarà anche bello grosso. Ovviamente il suo timore viene snobbato, la sua intuizione viene ridotta a una delle tante ovvietà perché figurarsi se in una metropoli come la “grande mela” qualcuno non ipotizza o teorizza attentati dalla mattina alla sera.
Ma si sa, quando la convinzione c’è, la convinzione resta. Ecco allora che vengono assoldati per il “caso” un gruppo di persone tanto assurdo quanto funzionale. Tra questi vi è Bobby Fischer, campione mondiale di scacchi. Egli è l’unico americano ed è anche decisamente paranoico. Kozlov, russo e ubriacone, viene invece dall’Afghanistan, è ingegnere esperto di ogni tipologia di attentato. Infine conosciamo Koselleck, docente universitario, cacciato senza troppe remore per una condanna per stalkeraggio verso la moglie ma anche massimo studioso di graffiti e scritte offensive quanto oscene.
Sono loro i volti che accompagnano l’intuizione e a cui si affianca un meccanismo strano che si aggira nella rete e che non abita nel 2001 ma nel 1421 nell’Egira. Il gruppo assoldato da Harvey scova un indizio in metropolitana e capta una conversazione per caso che porterà la narrazione ad accelerare sempre più verso quella che è una inesorabile corsa contro il tempo. Settembre non tarda ad arrivare, tutti sappiamo com’è andata, ma nonostante questo, la curiosità c’è e le pagine sono intrise di quel giusto quid di tensione e sorpresa, ironia e riflessione propri di Barbero.
“Brick of stone” sa essere una vera e propria sorpresa. All’inizio può suscitare dello scetticismo, per tema trattato ma anche per periodo storico che con una certa difficoltà si può faticare a legare a Barbero. L’impronta di storico c’è e resta in queste pagine e Barbero non abbandona quella che è la sua veste principale.
Il lungo racconto è avvalorato da personaggi molteplici e caleidoscopici, ciascuno con un proprio volto e una propria caratterizzazione. Ognuno è percepito con forza e non manca di solleticare la curiosità. Basti pensare, a titolo di esempio, tanto a Bobby Fisher con il suo malanimo verso gli States quanto a Koselleck e al suo impegno devoto alla ricerca spasmodica di insulti nelle varie lingue e nei vari dialetti del tempo alla ricerca di un colpo sensazione; entrambi sono due volti che rendono la lettura ancora più piacevole. Ed è molto importante l’insegnamento che Barbero ci lascia. Perché la Storia, con la s maiuscola, non è scalpellata e indirizzata solo dai “potenti” e da quelle decisioni che percepiamo quali irrevocabili soprattutto se coadiuvate da grandi e pomposi discorsi, la Storia è anche l’insieme di quelle che sono le nostre singole storie con i loro colori e le loro verità. Che si tratti di giovani chiusi in casa per la pandemia o di un ex militare russo trascinatosi fin nella realtà newyorkese dove passa il tempo tra bettole e riflessioni alcoliche.
“Brick for stone” è una lettura interessante ma soprattutto intelligente, una lettura che va oltre il battage mediatico e che sa vincere il paradigma mentale che spinge il lettore a una certa reticenza per tematica e ricordo storico. Lo stile in apparenza può sembrare disordinato anche a causa dei passaggi e salti temporali, in realtà è pungente e finalizzato a uno scopo ben preciso. È un Barbero diverso ma pur sempre se stesso. Da leggere.
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Fibonacci, Fibonacci...
Piccola doverosa premessa: seppur “Labirinti” possa essere collegato a “Puzzle” i due titoli non sono necessariamente susseguenti, anzi, possono essere letti in via totalmente autonoma. Dunque, se non avete ancora avuto modo di leggere “Puzzle” o altre opere del narratore, nessun problema, è possibile avvicinarsi a quest’ultimo lavoro senza conoscere degli antecedenti.
Thilliez è uno di quegli autori che sa essere originale nei suoi intenti. Già in altre opere ha saputo tenere avvinto il suo lettore grazie a scritti capaci di farlo scervellare, interrogarsi e giocare a capire quale fosse l’enigma e il colpevole di turno. A volte è riuscito in modo migliore, altre la soluzione dell’arcano è stata più facilmente intuibile ma nel complesso sa distinguersi per questa impronta psicologica che sa offrire ai suoi lavori. Non manca comunque una certa ridondanza di temi e circolarità tra fatti, eventi e narrato nei vari scritti ma nel complesso sa offrire proposte capaci di suscitare interesse machiavellico.
“Ci sono cinque protagoniste nel racconto che sto per condividere con lei. Solo donne. Scriva. È importante per il prosieguo: “la giornalista”, “ la psichiatra”, “la rapita”, “la scrittrice”
– Mi manca la quinta persona
– Arriva solo in seguito ed è la chiave di tutto.”
“Labirinti” comincia proprio da cinque donne di cui sappiamo ben poco. Sarà solo proseguendo nella lettura che avremo modo di arrivare a capire chi sono e soprattutto qual è l’anello mancante che regge tutta la narrazione. All’inizio dell’opera Camille Nijinski sta parlando con il dottor Fibonacci nella speranza di dar risoluzione a quella che è una storia tanto intricata quanto assurda. È stata ritrovata una donna in evidente stato confusionale tra geloni ai piedi, sangue, choc e una amnesia totale. Non ricorda assolutamente niente di quel che è stato.
Ma attenzione a quel che può intendersi con “labirinti”. Perché i labirinti non sono solo quelli fisici, possono essere anche mentali e possono ripresentarsi anche in narrazioni che si incrociano in storie e realtà che talvolta sono destinate a incrociarsi e altre a non incrociarsi mai. In quest’ultimo caso, cosa hanno queste in comune?
Ancora conosciamo Lysine, una donna orfana che ha paura di tornare dai genitori per via dei ladri. Giornalista appassionata del cibo è una donna irrequieta, affranta, sola. E tanto è sola, tanto lo è anche Vera, la psicologa ritirata sulle montagne lontana da tutto e tutti per scappare dalle onde magnetiche e da quelle che sono le conseguenze da queste apportate. Sophie impersona invece il ruolo della scrittrice che anticipa la realtà nei suoi scritti. Julie è il personaggio che fa ritorno, che è stata rapita, che è la musa ispiratrice di Caleb Traskman il romanziere di romanzi thriller.
Tante storie per tanti volti e tanti colpi di scena alla Thilliez. Non mancano passaggi anche denotati di una certa violenza che può disturbare (soprattutto nella parte delle torture che vengono inflitte a Julie). Anche questi sono però ben studiati e non lasciati al caso o alla circostanza di una narrazione improntata sull’improvvisazione.
Se avete già letto in passato i testi dello scrittore non faticherete a trovare similitudini e punti in comune con altre opere e con la struttura che normalmente offre a queste. Pian piano la narrazione parte, si ricompone e ricostruisce come un puzzle in piena regola che fa sì che ogni tassello, dopo tanti tentativi, vada al suo posto. Lo stile è fluido, i personaggi sommari ma funzionali. Le storie solo in apparenza sono slegate, ciascuna ha in realtà un suo perché e un suo essere.
La vicenda forse non brilla propriamente di originalità ma sa trattenere e incuriosisce. Offre delle piacevoli ore di lettura, nonostante i passaggi più macabri, al lettore che cerca uno scritto con cui staccare la spina.
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La fabbrica della morte
«Allo stesso modo il delirio di un malato riflette – deformati e mostruosi – pensieri e sentimenti precedenti alla malattia. Allo stesso modo un folle con la mente annebbiata agisce sovvertendo la logica tipica dei comportamenti e delle intenzioni di un normale essere umano. Allo stesso modo un criminale che infligge alla sua vittima una martellata fra gli occhi unisce l’abilità professionale – la mira e la precisione del fabbro – al sangue freddo del mostro.»
Cosa resta oggi di Treblinka? Sei esistita davvero Treblinka? Forse ci sarà chi potrà affermare che no, non sei esistita, ma tu, al contrario, puoi dimostrare di esserci stata, di aver lavorato con furiosa attività per tredici interminabili mesi con un numero di morti giornaliere a dir poco spaventoso e i cui dati se moltiplicati, anche facendo una stima al ribasso, sono a dir poco indeterminabili. Oltre tre milioni in poco più di dieci mesi di effettiva attività per un numero molteplice di convogli giornalieri, minimo tre, trasportanti la bellezza di 150/180 prigionieri a vagone per almeno 60 vagoni a convoglio.
«Era una fabbrica di morte, una catena di montaggio improntata a quella moderna produzione industriale su larga scala.»
Solo che a Treblinka ad essere oggetto di “larga scala” erano volti di uomini e donne, corpi ammonticati, corpi privati di tutto, dei loro beni come della loro umanità. Uomini e donne usati come schiavi, come cavie, come reietti, come oggetti di piacere, come oggetti destinatari di una violenza gratuita e la cui origine atavica è inspiegabile. Ed è scomoda Treblinka, prima con la sua ribellione interna dei detenuti del 2 agosto 1943 che portò alla fuga di quei pochi e alla conseguente distruzione del luogo stesso. Per celare, nascondere, obliare. Perché la sussistenza del lager stesso era una testimonianza sconveniente di cui era necessario liberarsi quanto prima, prima che altri potessero vedere e sapere, odorare e respirare di quei corpi morti tra violenza, camere a gas, pestaggi, di quei morti in stato di decomposizione perché numericamente maggiori anche a quelli che volta volta potevano essere bruciati. In tal senso basti pensare che Himmler medesimo, dopo la sconfitta della Battaglia di Stalingrado, optò per un convinto negazionismo seppur l’opera stessa di distruzione di massa fosse in vita e i cadaveri in visibile decomposizione tra insetti grassi e variegati. Che mosche grandi e grosse, osservavano i prigionieri al loro arrivo al campo, mosche sempre sfamate da quegli stessi ignari futuri pasti. E allora via con i forni, i cadaveri devono bruciare e quanto più rapidamente possibile, nulla deve riemergere dal fondo della terra e per questo devono essere costruiti strumenti di eliminazione delle prove adatti. Una macchina della morte che nulla poteva lasciare al caso era Treblinka e lo è stata anche nell’arte del suo scomparire. Una ruota continua, un congegno preciso e puntuale come un orologio svizzero, una catena di montaggio che mai poteva fermarsi e per nessuna ragione.
«La presidente riusciva a soddisfare i suoi desideri, almeno in parte, usando in modo arbitrario il potere di cui disponeva. Lo considerava un male minore, anche perché era fermamente convinta di fare il bene della comunità. (…) doveva essere successo un fatto talmente grave da superare l’ampio margine di tolleranza che lei concedeva a se stessa e agli altri. Un fatto che la tormentava e la riempiva di sensi di colpa.»
Treblinka non perdeva tempo. Perché far patire la fame, far lavorare in modo estenuante, dover rifornire i prigionieri di abiti seppur usati e smunti, perché doverli anche solo tollerare nella loro esistenza quando questi potevano immediatamente essere eliminati previo precedente annientamento di quell’ultimo rimasuglio di umanità? Giusto qualche violenza antecedente alla morte atta a soddisfare questo fine era prevista e poi basta, nessuna perdita di tempo e per nessun motivo. I prigionieri venivano stipati verso le camere a gas e si sperimentavano anche diversi modi di uccisione in queste. Un primo modo poteva ad esempio essere quello di sottrarre poco alla volta l’ossigeno dalla stanza, ma ci sarebbe voluto troppo tempo. Il metodo doveva essere affinato. Un secondo modo poteva essere quello di usare il vapore ma anche in questo caso ci sarebbe voluto troppo tempo e il metodo non sarebbe stato sufficientemente efficace. Usare lo Zyklon B? No, perché mai dover usare questo se si poteva fare semplicemente ricorso al gas di scarico del carro armato, una morte tale da essere paragonata a quella di uno strangolamento. Bastava calcolare la giusta quantità da immettere onde evitare che ci potessero di nuovo mettere ore a tirare il calzino. La stessa struttura della camera a gas viene modificata e migliorata nel tempo approntando una giusta pendenza per essere certi che i corpi potessero essere rimossi in tempi più rapidi e dunque al fine di rendere più snelle e celeri le operazioni di “pulizia”. Treblinka non ha tempo da perdere! Avanti con il prossimo convoglio, avanti con il prossimo gruppo da stipare! Avanti con i corpi da rimuovere! Veloci!
«Solo la cosa più preziosa al mondo – la vita veniva calpestata. Intelletti generosi e robusti, anime pure, occhi innocenti di bambino, cari volti di anziani, belle teste altere di ragazza che la natura aveva faticato secoli e secoli a crear, scivolarono come un fiume silenzioso e infinito nell’abisso del nulla. Bastano pochi secondi per distruggere ciò che il mondo e la natura hanno creato nella gestione lunga ed estenuante della vita.»
È lì Grossman in quell’autunno del 1944, è lì che scrive, che raccoglie testimonianze, che osserva il terreno e che conta, annota, conserva nella memoria quel che vede apparire. Cappelli, pantaloni, scarpe, candelabri, corpi scampati al forno, vesti, tessuti, capelli pare destinati ai sottomarini, ricami ucraini e tanto tanto altro ancora. Ed ancora ci sono le voci. Voci di contadini che osservavano l’arrivo in quel luogo geograficamente strategico ma sinonimo di condanna a morte, voci di pochi e fortunati superstiti, voci di quelle stesse guardie. Apparso sulla rivista “Zamja”, “L’inferno di Treblinka” è letto al processo di Norimberga dove arriva con tutta la sua grande e infinita forza evocativa. Una prosa rapida, descrittiva, concreta e complessa che oscilla tra orrore, incredulità, impotenza ma volontà che quanto accaduto non riaccada. Un monito per il passato al futuro che verrà. Un allora futuro oggi diventato presente che ha fin troppo dimenticato quel che è in realtà stato.
«La crudele esperienza degli ultimi anni ci insegna che un uomo nudo perde ogni capacità di ribellarsi, si rassegna al proprio destino, insieme agli abiti dismette anche l’istinto di sopravvivenza e accetta la sua sorte come un fatto ineluttabile. Chi prima aveva una fame inesauribile di vita diventa passivo e indifferente. Eppure, a scanso di sorprese, in quest’ultima tappa della catena mortale le SS aggiunsero comunque un nuovo tassello – annichilivano le loro vittime, le riducevano in uno stato di shock psicologico. Come? Sfoderando all’improvviso, brutalmente, una crudeltà assurda, illogica. Esseri umani nudi ai quali è stato tolto tutto restano tenacemente mille volte più umani delle bestie in divisa nazista che li circondano, continuano a respirare, a guardare e a pensare, i cui cuori battono ancora.»
Un piccolo reportage nella mole, una grande testimonianza nella sua essenza. Uno di quegli scritti che oggi come oggi dovrebbero essere letti e riletti anche e soprattutto dalle generazioni più giovani che sentono come troppo lontani fatti che sono al contrario del tempo di uno ieri.
«Che grande cosa è il dono dell’umanità! Un dono che non muore finché non muore l’uomo. E se anche sopraggiunge un’epoca storica breve ma tremenda in cui la bestia ha la meglio sull’uomo, l’uomo ucciso dalla bestia conserva comunque fino all’ultimo suo respiro forza d’animo, mente lucida e cuore ardente.»
«Dobbiamo tenere a mente che di questa guerra il nazismo, il razzismo, non serberanno soltanto l'amarezza della sconfitta, ma anche il ricordo fascinoso di quanto sia stato facile uno sterminio di massa.
E dovrà tenerlo a mente ogni giorno, e con grande rigore, chiunque abbia cari l'onore, la libertà, la vita di ogni popolo e dell'umanità intera.»
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Berta e Marta Miralles
«Una balena arenata, né più né meno, immensa e distesa sulla sabbia, morta. Supina, mostruosa per le sue dimensioni, ma anche affascinante nella sua gigantesca dignità. È curioso, tutti ci sentiamo un po’ colpevoli al suo cospetto, come se avessimo contribuito a ucciderla distruggendo il pianeta.»
Madrid. È la suite di un hotel spagnolo il luogo in cui viene ritrovata la donna, morta, avvelenata dal cianuro somministratole per mezzo di un caffè che era stato dalla stessa ordinato durante la notte. Le autorità si mobilitano, tutte le più alte cariche sono in fermento. Dal Ministro dell’Interno al capo dei servizi. L’obiettivo è uno e uno soltanto: insabbiare tutto. Nulla deve trapelare, alcunché deve venire a galla. La vittima, infatti, non è altro che Vita Castellà, la chiacchierata presidente della Comunidad Valenciana che nel giorno successivo avrebbe dovuto deporre testimonianza in tribunale. Tanti i nemici della vittima anche a causa del suo passato che l’ha vista a capo di una rete di potere fatta di benefici e favori ma anche di corruzione, malaffare, trame oscure. Il Partito, dunque, ha tutto l’interesse affinché delle vere ragioni della sua morte nulla si sappia. Occorre evitare le complicazioni che la verità potrebbe addurre, occorre intervenire affinché nessuno sospetti. Ecco perché la Presidente, formalmente, è morta d’infarto. Per rendere il tutto più credibile occorre però anche dar vita a una indagine che sia esistente ma non eloquente, che sia concreta ma non lesiva per l’insabbiamento della verità. Come fare per venire a capo della matassa se non spostando tutto a Valencia e incaricando del caso due novelline appena uscite dall’accademia di polizia? Le ispettrici Miralles, Berta e Marta, 32 e 30 anni, sono due sorelle tra loro diversissime ma molto legate. La Presidente, e la sua morte, rappresenta il loro primo caso ed è fondamentale che facciano giustizia (e bella figura). Ben presto capiscono che la ragione per la quale sono state investite di un caso di tale portata è proprio la loro inesperienza, l’interesse prevalente è dato dal fatto che la verità non venga scoperta ma loro non vogliono mollare e portano avanti un’indagine parallela in cui l’unico a sostenerle è l’addetto stampa della vittima, Salvador “Boro” Badia, anche testimone. Riusciranno a risolvere il caso?
«Berta aveva sempre avuto un carattere disciplinato, un forte senso della giustizia, una considerevole capacità di adattamento. Marta di carattere allegro, senza pensieri, entusiasta, svelta come uno scoiattolo. Le piaceva ballare, le piacevano i ragazzi, la vita, il divertimento.»
“La presidente” è un romanzo ben diverso dai precedenti lavori della Gimenez-Barlett. A differenza del personaggio canonico di Pedra Delicado, che ne rappresenta anche la serie più famosa, “La presidente” è un’opera più debole seppur più fresca, più leggera. Berta e Marta sono personaggi gradevoli e a loro modo credibili ma lo scritto manca della forza evocativa e di quei colpi di scena che tengono il ritmo serrato e che di solito caratterizzano le opere della romanziera. La narrazione, inoltre, è caratterizzata da una sequenza lenta, che difficilmente riesce a prendere propriamente il campo perché le protagoniste finiscono con il ripetere le stesse azioni, non hanno mordente, si fatica a ricordarle. Sono tratteggiate nei minimi e finiscono con il risultare due protagoniste anonime.
Non manca certo la trattazione di temi importanti quali la corruzione, l’abuso di potere, l’omosessualità, la vita in periferia, il futuro dei giovani fin troppo spesso abbandonati a se stessi, ma manca qualcosa.
“La presidente” è un romanzo piacevole, adatto per trascorrere qualche ora di stacco ma finisce con il risultare ridondante tanto da non trattenere completamente. È un libro consigliato a chi cerca qualcosa di leggero ma non a chi al contrario cerca uno scritto con cui restare incollati alle pagine. Sicuramente non mancheranno nuove avventure dedicate alle due donne ma la speranza è che nel tempo queste possano raggiungere quella forza ma anche quel carattere necessario a diventare indimenticabili.
Per chi già conosce la Gimenez-Barlett il consiglio è di non aspettarsi un testo al pari dei precedenti, a chi non la conosce il consiglio è di partire dalla saga più famosa che mostra e conferma tutta la capacità della romanziera.
«La presidente riusciva a soddisfare i suoi desideri, almeno in parte, usando in modo arbitrario il potere di cui disponeva. Lo considerava un male minore, anche perché era fermamente convinta di fare il bene della comunità. (…) doveva essere successo un fatto talmente grave da superare l’ampio margine di tolleranza che lei concedeva a se stessa e agli altri. Un fatto che la tormentava e la riempiva di sensi di colpa.»
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- sì
- no
No: a chi cerca romanzi che tengano incollati alle pagine.
Alla ricerca del delitto salvezza
«Sempre neve sporca, tutta quella neve che pare marcita, con tracce nere e incrostazioni di detriti. La polvere bianca che ogni tanto si stacca dalla volta celeste, a piccole dosi, come il calcinaccio da un soffitto, non giunge a coprire quel sudiciume.»
Siamo in Europa, Nord Europa. Un luogo non ben precisato, una località incastonata in quel dell’occupazione nazista. Questo almeno, ciò che si può dedurre perché alcunché è esplicitato. Protagonista di queste pagine è Frank Friedmaier, giovanotto diciannovenne, senza arte né parte, che non studia e non lavora e che trascorre le proprie giornate da Timo, un locale noto in cui si reca per trascorrere qualche serata in compagnia degli “amici”.
Lotte, la madre, è una signora piacente ma anche astuta. Ha destinato la sua umile dimora a bordello, le ragazze non devono avere che tra i sedici e i diciotto anni, e ad abitarla vi sono madre e figlio ma anche alcune ragazze che la donna desidera avere sempre a disposizione per ogni necessità.
Frank è una figura scostante, insolente, irritante, fredda, solitaria. Agisce con cinismo, è anaffettivo, prova solo rabbia e disprezzo per ciò che lo circonda e per chi incontra. Il prossimo è destinatario di volontaria cattiveria, la madre è patetica e insulsa, le ragazze del bordello sono oggetti con cui divertirsi e che mai gli si negherebbero essendo lui il figlio della padrona. E quale modo migliore per la sua iniziazione se non l’omicidio e senza ragione? Alla sua veneranda età di diciannove anni, deve pur in qualche modo entrare nel mondo degli adulti.
La madre stessa lo teme. Nota in lui atteggiamenti e sguardi intrisi di cattiveria e malevolenza, cerca di tenerlo buono e di destinargli attenzioni che però sono percepite in senso negativo tanto da infastidire il giovane uomo.
Da Timo intesse un rapporto di conoscenza con Kromer che si vanta, e senza troppo lesinare, di aver ammazzato un uomo. Da qui Frank matura la necessità di procedere con il suo di primo assassinio (vicino casa, Holst, unico testimone non per caso e non a caso) ai danni di un sottoufficiale con un lungo coltello. Non prova rimorso, non prova pietà. È impassibile. Deve contrastare la noia, dimostrare che riesce a togliere la vita a uno sconosciuto senza sbagliare, senza provare rimorso e/o pietitudine.
Tuttavia, qualcuno si innamora di lui: Sissy. Sissy, la giovanissima figlia di Holst, un uomo umile che guida i tram e che vive per questa giovane donna che se ne sta sempre chiusa in casa. Frank si accorge dell’interesse della ragazza verso di lui, si accorge del fatto che quando passa ella sbircia dalla porta socchiusa. È un’anima pura e innocente, percepisce il pericolo nell’uomo ma al cuore non riesce a comandare. Tanto ne è attratta, tanto ne è intimorita. Esattamente come Minna, ospite della madre di Frank ma di questo tanto infatuata quanto terrorizzata.
«Forse era vero: non era triste, ma non provava nemmeno il bisogno di ridere e scherzare. Restava sempre impassibile, ed era questa la cosa che sconcertava.»
Può bastare un solo crimine per sentirsi appagati? No, certo che no. L’asticella si alza, il rischio non è pervenuto. Il ragazzo si mette anche in società con Kromer e continuerà a commettere altri crimini sino ad arrivare a vendere la stessa inconsapevole Sissy. Attirata dalla prospettiva di trascorrere una notte con l’amato, ben altra sarà la sorte che la attenderà. In un certo senso quel che accadrà romperà la presunta corazza di Frank che, per quanto apparentemente imperturbabile, non fa che chiedersi come ella stia essendosi “ammalata” dopo quella notte.
Sono giorni di freddo, di neve. Nel cuore e fuori. Sono giorni in cui Frank è spavaldo, beve e si fregia di una tessera capace di addurre e apportare benefici. Sono giorni di una neve sporca, sudicia, non sinonimo di purezza come verrebbe da pensare. Un po’ come la stessa vita è, un po’ come la stessa metafora della vita ci porta a vivere. La neve per definizione è pura e candida, ma nulla vi è di puro e candido in Frank. Costui è squallido, cinico, meschino, imbruttito dal suo stesso essere. Distrugge Sissy, l’unica capace di dargli un calore che forse avrebbe potuto salvarlo in primis da se stesso.
Frank verrà tratto in arresto, verrà condotto in prigione e tra tutti i reati commessi finirà con l’essere accusato dell’unico di cui non è reo. Che ne sarà di Frank? Della sua apparente lucidità?
Come Raskol’nikov de “Delitto e Castigo” di Dostoevskij ma anche come ne “Il processo” di Kafka, siamo alle prese con un personaggio che dovrà riflettere sulle proprie azioni, che destinatario di un sentimento immeritato dovrà riflettere sul se confessare o meno i suoi veri delitti.
“La neve era sporca” è uno dei libri più complessi del Simenon non Maigret. È uno scritto psicologicamente forte, che mette il lettore davanti alla cupezza e all'oscurità, che mette il lettore davanti a tutto il gelo del periodo storico ma anche dell’anima. Maestro è Simenon, inoltre, nel definire l’ambientazione temporale senza mai esplicitarla. Ciò che più spicca è ad ogni modo la caratterizzazione psicologica del personaggio. Frank è un giovane provato dalla vita. Non è un uomo la cui morale è condividibile e che in alcun modo è giustificabile per le sue azioni ma è anche una figura che viene delineata come diciannovenne ma che istintivamente viene identificata come molto più grande, naturalmente additata di caratteristiche negative, che cresce senza padre, anaffettivo, con una madre di dubbia moralità a sua volta, con due occhi stretti a fessura da cui alcuna luce può passare e ancor meno può esservi spiraglio alcuno di bontà. Una figura che è facilmente identificabile e riconoscibile ma che trasmette anche un fondo di solitudine, tristezza pur nonostante il lettore abbia la consapevolezza di trovarsi davanti a una figura assolutamente incapace di provare emozioni perché non ne conosce. Frank è un uomo solo alla ricerca di un suo essere, alla ricerca di una figura maschile e paterna di cui sente la mancanza come un macigno, è schiacciato da una disperazione di cui non è nemmeno consapevole. Cerca una vita tranquilla e normale, un suo saper essere. Tanta cupezza che chiude il cerchio con uno spiraglio di luce nel finale. Un personaggio cioè atipico e amorale che nelle conclusioni riporta il lettore a quel briciolo di innocenza, amore e bellezza.
Un Simenon provato dal dolore per la perdita del fratello che su suo consiglio si era arruolato alla Legione, un Simenon provato dalle accuse a lui rivolte di collaborazionismo. Un Simenon che nulla risparmia, che scrive un libro nerissimo (insieme a “Il fondo nella bottiglia”), un Simenon di grande impatto psicologico e riflessivo.
«Frank non ha pietà. Di nessuno, nemmeno di se stesso. E non chiede pietà, non ne accetta (...) perché non debba un giorno aver la debolezza di provarne per se stesso.»
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La verità, la ricerca della verità
“Una questione privata” di Beppe Fenoglio è una storia di partigiani, di guerra ma anche d’amore. Durante un’azione il giovane partigiano Milton passa per caso nei pressi della villa in cui viveva la ragazza di cui è innamorato, Fulvia. Mosso dal ricordo di questa il giovane entra nell’abitazione e trova la custode con cui si mette a parlare di colei che determina il battito accelerato del suo cuore. È così che scopre che la ragazza aveva una relazione, molto probabilmente, con Giorgio, il miglior amico di Milton e che come lui è ora partigiano ma in una brigata diversa. Deve sapere la verità, ne ha bisogno. È una questione di principio ma anche una necessità. Deve sapere. Tuttavia, le sue ricerche dell’amico lo portano a un’altra triste verità: Giorgio è stato catturato dai fascisti e se è ancora in vita potrebbe ben presto non esserlo più. L’unico modo per riaverlo è scambiarlo con un prigioniero. Ecco allora che Milton inizia un viaggio disperato nelle Langhe ormai teatro di una guerra atroce condotta tra compatrioti, tra fughe, pioggia, freddo, fango, pericoli e un unico grande interrogativo: scoprire la verità.
Pubblicato per la prima volta nel 1963, “Una questione privata” di Beppe Fenoglio è forse l’unico libro a descrivere in modo completo e complesso quella che è stata la Resistenza italiana. È lo stesso Calvino a definire questo scritto quale la produzione che meglio rappresenta la Resistenza. La cosa che solletica ancor più il lettore e che lo fa ancor più sentir protagonista è la vividezza delle vicende. Il lettore si sente parte, costante e continua, delle avventure e delle ricerche di Milton, della sua ricerca, della sua sete di verità. E questo accade con una Resistenza che in realtà resta sullo sfondo. C’è, si sa esserci, ma resta lì, sullo sfondo. È una costante ma proprio per la grandezza della scrittura per il lettore resta un dato di fatto con cui convivere e per cui resistere. In apparenza difetta anche di quelle che sarebbero le canoniche situazioni che caratterizzano una guerra anche dal punto di vista militare, ma questa è rappresentata dalla povertà, dai partigiani, dagli orrori, dalla miseria e dalla prosa che nel suo essere essenziale delinea con maestria quelle che sono le circostanze. Tra morti, scarpinate, appostamenti infruttuosi, fame, verità scomode, ricerca di luoghi ove poter dormire, vestiti laceri e quella morte che è sempre lì, in agguato, pronta a prenderti con la sua falce. Quando finirà? Quando tutto questo avrà fine?
«Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo.»
Il dramma del protagonista finisce inoltre con l’essere dramma del lettore. Si innesca una naturale operazione di immedesimazione tra Milton e chi legge. L’obiettivo è cercare Giorgio, trovarlo, scoprire la verità e quindi vincere la propria personale guerra. Perché l’amore è la cosa più importante. La scelta di Fenoglio è voluta quanto sentita. Egli decide volontariamente di allontanarsi dalla canonica reportistica sulla Resistenza ma non per questo non ne parla. Ne parla in modo diverso, più empatico e quotidiano e meno reportistico. Ma ne parla. Tesse una tela strutturata su una dimensione introspettiva. Ecco perché “la sua questione privata” non altro che una storia nella Storia, una storia quotidiana che vede scontrarsi il legame di amicizia quasi fraterno tra Milton e Giorgio ma che vede anche spingere il sentimento verso la verità, una verità ricercata nell’amore ma che è ricercata anche in una guerra che è solo orrore e perdita. Ed ecco che corre, Milton. Corre nella nebbia, cerca e ricerca, insegue le ombre. Corre alla ricerca della risposta a quella domanda che resta senza risposta in un finale in sospeso.
Uno scritto anche per questo ancora oggi autentico.
«Tu non devi saper niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti.»
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Maddalena e Francesca
«La gente la chiama con un nome brutale [...] Lei l'ha indossato come un'armatura e adesso ne va fiera. È una ragazza forte. Non le interessa quello che dicono gli altri. E di questi tempi è l'unica cosa che conta.»
È un esordio fortunato quello di Beatrice Salvioli, diplomata alla scuola Holden e la cui opera prima, “La malnata”, vede la pubblicazione in contemporanea in Europa. Una storia forse non originalissima, con diversi déjà-vu ma anche con una buona ambientazione, una ricostruzione storico-sociale abbastanza fedele e un legame d’amicizia che sa trattenere.
Come ne “L’amica geniale” di Elena Ferrante anche questa volta le protagoniste sono due bambine preadolescenti tra loro estremamente diverse. Provengono da contesti sociali differenti, le classiche figure che raramente viene facile pensare che possano incontrarsi nella vita. Tuttavia, la curiosità è una delle caratteristiche principali dell’uomo e la diligente e tranquilla Francesca Strada non resiste alla fama della Malnata, sua coetanea nota per essere considerata dal popolo al pari di una piccola “strega”. Vuoi perché le sue profezie portano disastri, vuoi perché porta male, vuoi per quel bambino, suo fratello, caduto o spinto giù dalla finestra, ella ha una fama che non lascia possibilità d’appello ai più.
Monza, 1936. Il Duce è presente nella testa della classe media, il fascismo è una realtà conclamata. È festa per quella dichiarazione di guerra all’Etiopia, una delle tante decisioni fatte passare come successi e scelte strategiche ma di poi dimostratesi, come la Storia insegna, un disastro.
La famiglia di Maddalena Merlini è in una condizione di miseria, una condizione di miseria che si aggrava con la partenza del fratello Ernesto per l’Africa. Già quando lavorava alla fabbrica Singer la situazione non era idilliaca, figurarsi ora che è costretto a lasciare la madre e le sorelle senza mezzi ma che è anche costretto a rinunciare al matrimonio con Luigia che resterà in patria ad aspettarlo.
Anche il clima in casa è diverso nelle famiglie delle due protagoniste. In casa Merlini, nonostante tutto, vige l’allegria e la stessa Francesca, abituata a un affetto ben diverso, viene accolta con calore. In casa Strada il padre è sempre al lavoro nel cappellificio di famiglia, la madre è vistosa, conformista e dedita alle apparenze, legata ad una figura potente del posto, il fascista Colombo, padre di due ragazzi a cui è riservato un ruolo non di poco rilievo nella vicenda. Non stupisce, dunque, che Francesca sia sorpresa e affascinata dall’affetto che invece vige in casa della Malnata.
Tra i personaggi “satellite” che ruotano attorno alle due figure principali ecco Matteo e Filippo, gelosi del rapporto tra Maddalena e Francesca tanto da faticare ad accettare quest’ultima, ed anche Noé, figlio del fruttivendolo di Tresoldi e portatore di autenticità e di un amore silenzioso, ed ancora Carla, la domestica che aiuterà Francesca nelle sue imprese di fuga per raggiungere l’amica.
A ciò si aggiunge il contesto storico, l’indottrinamento fascista totalizzante, il maschilismo che regna incontrastato, gli uomini crescono violenti e le donne sono strumenti per il piacere che devono stare al loro posto. Può Maddalena vivere e resistere in un contesto del genere? Può non emergere nel suo essere sovversiva?
«Di lei parlavano segnandosi le labbra con una croce o facendo un gesto stizzoso con la mano come a scacciare una vespa, quasi ne avessero paura. Di una ragazzina che avrebbe dovuto rifare il primo ginnasio, gli adulti parlavamo come di una brutta malattia, un pezzo di ferro arrugginito, di quelli che ti tagli, ti viene la febbre alta e muori.»
È una ragazza come tante, che non cerca altro che affetto e giustizia, che sfida tutti e si comporta come una selvaggia; Francesca è la sua unica e prima amica ed è il suo esatto opposto. Ciascuna impara dall’altra, tra sfide che le vedono solidali tra soprusi e falsità. La prima a subirne è proprio la Malnata a causa della sua fama e del pregiudizio che le ruota attorno.
Ferite, violenza, morti precoci. Denominatori che in questa storia non mancano e che si sommano a tanti altri elementi che si incastonano tra loro. Ad osservare gli avvenimenti vi è il fiume Lambro che osserva i giochi dei ragazzi, che osserva la violenza gratuita che viene perpetrata.
Scena profetica è quella relativa alla corsa automobilistica del Gran Premio che si svolge nell’autodromo di Monza, che vede gareggiare Tazio Nuvolari alla guida dell’Alfa Romeo in Ferrari contro un tedesco alto e biondo, una scena che rimanda a quell’Italia fascista che soccomberà ai nazisti.
A narrare le vicende è Francesca, colei che conosce a memoria il decalogo de “Piccole italiane”, la classica prima della classe, la classica giovane vestita come una signorina perbene, ma che non si sottrae a un’amicizia vera. Per lei mente, rinuncia, fugge, tradisce, pensa, vive secondo principi diversi da quelli sino ad allora appresi.
Una storia d’amicizia e di grande affetto tra due ragazze che vivono in uno dei periodi storici più complessi e bui del nostro tempo. Tra ingiustizie e coraggio.
La Malnata di Beatrice Salvioni è un romanzo di formazione, una storia che nasce e si sviluppa sapendo sfruttare una buona idea. Non originalissima, infarcita anche di quei giusti tratti idilliaci difficilmente esistenti in un contesto quale quello delineato, ma ben coniugata ai fini. Non viene meno, a tratti, il pensiero che riporta ad altre opere della letteratura contemporanea quali L’Arminuta, Oliva Denaro, L’amica geniale, Il treno dei bambini etc e che ne tratteggia una colleganza inevitabile. Con le sue pecche e i suoi punti di forza, con qualche sbavatura dal punto di vista del ritmo, lo stile è ancora un poco acerbo e molto in linea con il format holdiano. Un ottimo prodotto.
«[…].Forse significava questo, essere grande e donna: non era il sangue che veniva una volta al mese, non erano i commenti degli uomini o i bei vestiti. Era incontrare gli occhi di un uomo che ti diceva “Sei mia” e rispondergli: “Io non sono di nessuno”»
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Piero e la Merica
È da sempre un po’ il sogno di tutti, la Merica. Un sogno che obbliga a una scommessa in primo luogo con noi stessi.
«L'essere partiti per fare la Merica li ha obbligati a una scommessa, come quando da piccolo, sul sagrato della chiesa di Biadene, si giocava le sue biglie di terracotta contro i coetanei. Solo che la loro scommessa non ha vie di fuga, o la vinci e la vivi, o la perdi e la muori. Gioco tristo, senz'altro, ma per quel gioco lì Piero non si sente in colpa, mica l'ha inventata lui, la miseria.»
Un luogo che per chi è abituato a vivere con il niente e a far fatica a mettere insieme un pranzo e una cena tanto da arrangiarsi con lavoretti saltuari e a coltivazioni di terre altrui, è sogno utopico, illusione. E se un giorno si prospettasse la possibilità di averla una terra tutta per sé? Se quella terra si trovasse proprio lì, alla Merica? Piero dei Gevori che di anni ne ha quindici sa bene che spesso il miraggio dell’illusione cela una verità amara. Piero è abituato a sentir urlare i padroni, è abituato alle ingiustizie, è abituato a dover fare per accontentare e accontentarsi. E anche quando il padre decide di partire per la Merica del Sud, per il Brasile, e tra i prescelti vi è lui, Lina, la sorella che si sarebbe presa cura di tutti gli uomini di casa, e Tonìn, ancora legato alla madre, immagina la difficoltà di quel viaggio che già dai preparativi per la traversata mostra tutte le sue criticità. Non può partire tutta la famiglia, la madre è di nuovo incinta, i figli ultimi nati sono ancora troppo piccoli.
Piero sa bene che ci dovranno essere tanti compromessi e sa bene che la stessa traversata non sarà semplice già solo per il fatto che la maggior parte dei viaggiatori di terza classe non ha mai staccato i piedi dalla terra ferma prima di quel partire.
La Merica però significa anche ricominciare. Tutto va costruito e ricostruito dalle fondamenta, nulla è risparmiato. Lui è originario di una famiglia veneta, sa adattarsi alla vita, è spinto dal fatto che c’è della terra, “terra a non finire. Terra vera che aspetta solo chi venga a prendersela”. È questo ciò che più che tutto anima la famiglia. Tanti sono i migranti che come loro hanno lasciato il Veneto per ricominciare. Bisogna imparare, ripensare i valori, vanno riadattati ai tempi nuovi.
«Ha presto inteso che nella vita, prima di tutto, bisogna restare vivi, e che non c'è nulla di più forte della famiglia per chi, come loro, è stato costretto a dare un calcio a tutto il resto, casa paese lavoro, per ripartire daccapo.»
Piero è abituato a soffermarsi sulle cose fondamentali, sa adeguarsi e sa andare avanti anche quando le cose che desidera non sono per lui. Ha vissuto nella miseria ma i suoi occhi quindicenni sono ancora illuminati dalla fortuna, dalla speranza, da quel futuro che arriverà anche per lui. Le emozioni sono in lui vive anche se adesso non sa più esprimerle con le parole che avrebbe usato nella sua vecchia vita del prima.
Quella di Paolo Malaguti è una storia che è la nostra Storia, è una storia di migrazione, sogni, speranze e verità. È una storia che ha toccato tante famiglie ed anche per questo alcuni capitoli sono aperti da epigrafi tratte da lettere e testimonianze di tutti quei migranti che hanno fatto la Merica.
“Piero fa la Merica” è un romanzo che anche per questo è verosimigliante e perfettamente riconoscibile dai lettori. Non perde di forza empatica, non perde di intensità ma è avvalorato da testimonianza e retroscena che per mezzo di Piero, che deve formarsi e plasmarsi in luce della migrazione, prendono consistenza.
«Piero ha scoperto come vanno le cose, e cioè che se un adulto non piange, è solo perché guarda da un'altra parte rispetto ai mali che si porta dietro.»
Al tutto si somma uno stile narrativo caratterizzato dalla presenza del dialetto veneto, altra caratteristica che rende ancora più reali i personaggi, e da sequenze riflessive e introspettive. Il libro è un crescendo ma è anche un cerchio. I nodi lasciati aperti nella prima parte trovano forza e conferma, ma anche risoluzione, nella seconda. Tutto sembra aver trovato il proprio posto, il puzzle sembra ricomporsi, la storia trovare la sua forma e la sua ragione di essere nell’essere.
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Umanità
«Che se a ogni uomo e donna di questa terra dicessero quanto è difficile fare figli normali, nessuno ne farebbe più. Basta un niente, una proteina non assimilata, un enzima che non fa il suo lavoro. La normalità è come un biglietto della lotteria. Invece tutti pensano che sia naturale il contrario. Che un figlio è come un elettrodomestico, costruito per funzionare alla perfezione. Soltanto chi ci passa sa quante competenze ci vogliono per attraversare una strada, per prendere una penna in mano.»
È una scelta coraggiosa quella di Daniele Mencarelli con “Fame d’aria”. Una scelta coraggiosa perché l’autore vede la storia e decide di trattarla, vede la sceneggiatura teatrale e decide di metterla in scena anche se questo significa addentrarsi nei meandri dello spettro autistico. Ed è proprio questo il tema che regge e conduce per quella che è la sua ultima fatica. Pietro Borzacchi e il figlio Jacopo sono in viaggio. Il loro obiettivo è la Puglia, luogo dove si rincontreranno con Bianca, attualmente nel milanese, la madre del ragazzo, per celebrare una data importante che segna “il dove tutto ha avuto inizio”. Tuttavia qualcosa va storto, la frizione della vecchia golf di Pietro non regge, è venerdì pomeriggio, loro devono essere a destinazione entro lunedì e sono spersi nel nulla tra paesini arroccati e luoghi incantevoli. Il paese più vicino dove vengono a ritrovarsi in attesa che Oliviero, il meccanico, sistemi il guasto è S. Anna del Sannio, un paesello di poche anime che non attende visitatori. Si trovano così ad alloggiare in un bar che un tempo era anche pensione di proprietà di Agata e qui conoscono anche Gaia, giovane e bella che va oltre la facciata. Perché Pietro e Jacopo non sono un padre e un figlio che vivono in quella che siamo abituati a considerare normalità. Jacopo è affetto da una forma di autismo a basso funzionamento che lo porta a vivere in un perenne stato neonatale. Sa pronunciare solo un “mhmm” che cambia di intensità a seconda delle richieste e nonostante i suoi diciotto anni deve essere cambiato, accudito, gestito. La cosa forse più semplice è farlo mangiare perché è un po’ come un orologio; si carica e parte in automatico. Pietro non sa più cosa sia essere. Vive in perenne accudimento del figlio, lo odia. Odia la situazione che stanno vivendo, odia dover fare, è pieno di rabbia ma nulla fa mancare a Jacopo. Vive una totale e completa forma di abnegazione ma comunque resta vigile e attento ai bisogni di quel figlio che è la sua condanna e che è così lontano dalle aspettative. Gaia, in questo senso, riuscirà a riportare alla luce il Pietro non PietroJacopo, il Pietro che vive, che sogna, che ha desideri come tutti. Si creeranno anche degli equivoci ma pian piano le crepe diventeranno crateri e ogni verità verrà alla luce.
«Non ricorda, Pietro, quando è stata l’ultima volta che ha parlato con un altro essere umano di sé stesso e non del figlio. Proprio di lui.»
Perché per Pietro la vita ha preso una piega inaspettata. La moglie laureata in scienze politiche ha dovuto lasciare il lavoro per prendersi cura del figlio, su Pietro gravano le responsabilità e rappresenta al contempo l’unica fonte di entrata economica. Ma può bastare un solo stipendio a sopperire alle cure necessarie? Cosa succede quando la tua vita non è più tua e inizi a far debiti perché in qualche modo quelle cure proprio non puoi fargliele mancare ma non hai aiuti da nessuno, ancor meno dallo Stato, perché hai un contratto a tempo indeterminato con uno stipendio fisso, fidi su fidi e a differenza di altri figura che hai qualcosa mentre altri che lavorano in nero hanno aiuti su aiuti perché i soldi in casa li fanno entrare dalla porta sul retro? Come difendersi da un mondo che sembra chiuderti la porta in faccia? Come sopravvivere, come ricordarsi che esisti anche quando tu per primo non lo ricordi più?
«Dopo aver oltrepassato il boschetto, una radura affacciata sui monti.
Pietro, violentato dal destino, regredito a una vita senza bellezza, si porta una mano sulla bocca.
«Dio mio che meraviglia.»
Oltre al panorama, è l’aria, l’aria gonfia di tramonto, a rendere la visione un dono per gli occhi.
Un cielo azzurro che diventa arancio, sino al rosso infuocato del sole che cala.
Sembra di vivere un sogno.
Quelli dove Pietro si rifugia.
Ma questo non è un sogno.
E Gaia è fatta di carne, ed è qui accanto a lui.
«Grazie.»
Solo questo riesce a dirle.»
Daniele Mencarelli riesce in quello che spesso si vuole negare per comodità. È più facile immaginarsi questi genitori eroi in quel che è una non fortuna ma questi genitori, sono davvero eroi? Egli mostra il volto oscuro, un’altra faccia della medaglia, una medaglia in cui non si è altro che soli a convivere e combattere con un mostro più grande che non perdona e non cambia. Mencarelli ci solletica con una storia d’amore anche se in parvenza trasuda l’odio ma ci ricorda anche che non siamo che semplici esseri umani chiamati a convivere con una battaglia che non sempre più essere vinta. Vi riesce con un lungo racconto dai toni scanzonati, meno poetici ma ben cadenzati e studiati e dove nulla è lasciato al caso. Né come personaggi, né come parole. Parole che hanno tutte e indistintamente un peso, parole che ci fanno riflettere e ci fanno entrare per una porta sul retro che spesso resta chiusa. Anche la scelta di narrare la vicenda dal punto di vista del padre e non della madre non è causale. Non c’è vittimismo tra queste pagine, non c’è autocommiserazione, c’è emozione e sentimento, c’è una realtà che tocca e coinvolge.
Non è lo stesso Mencarelli del passato. L’autore conosce di questi luoghi e dello spettro autistico per contatti occorsi con la sua famiglia e i suoi figli, riesce a essere lo stesso, a firmare un’opera che lo rende riconoscibile ma dimostra anche una crescita e tanto coraggio. Per tema trattato ma anche per essere riuscito a staccarsi da una ideale trilogia (La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza, Sempre tornare) che ne ha consacrato il nome ma che stava iniziando a perdere della sua unicità. Una maturazione necessaria.
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Alice e Amélie
«La libertà, amica mia, ha sempre un prezzo. Devi scegliere. Ricorda, Maddalena, qualunque cosa farai noi saremo sempre con te. Potrai sempre contare su di noi.»
Crescere non è semplice e non è semplice nemmeno la vita nelle grandi città. A volte siamo sconfortati, altre volte siamo travolti da una routine senza soste, eppure, è altrettanto vero che, man mano che andiamo avanti troviamo un equilibrio e questo è ciò che più ci sprona a vivere e a dedicarci ai nostri interessi. Questo è anche un po’ quello che succede ad Alice, protagonista de “La via del miele” di Cristina Caboni, in libreria dallo scorso ottobre 2022 per Garzanti.
Ci sono poi volte in cui sentiamo la necessità di chiudere con la nostra vita di prima anche se questo significa chiudere con i nostri genitori. Alice decide proprio questo. Per evitare ulteriori litigi chiude ogni rapporto con la madre ed anche la sorella la quale, l’ultima volta che l’aveva sentita, voleva convincerla a partire da un momento all’altro, cosa impossibile per una programmatrice nata come Alice. Una richiesta questa che al tempo l’ha sorpresa ma che poi ha scoperto avere un fondamento.
«Non permettere alle circostanze di governare la tua vita, ma cherie.»
Sarà molto tempo dopo, infatti, che Alice scoprirà la vera ragione di quella chiamata. Emma è morta e le lascerà in dono la figlia Amélie di cui nessuno era a conoscenza. L’arrivo di un figlio, desiderato o non, porta sempre scompiglio. Alice ha avuto una vita concentrata su se stessa, adesso la priorità diventa Amélie e con lei dovrà riorganizzare tutti i suoi spazi e la sua quotidianità (facendo attenzione a non perdere il lavoro). Sarà da qui che deciderà di partire e di andare in Sardegna, luogo mistico e magico in cui la sorella defunta voleva portarla in quella che al tempo era stata definita come una pazzia.
«Ci ragionò su come faceva con tutto il resto, analizzando i pro e i contro. Se avesse accettato quell’invito, e ancora non ne era certa, tutto si sarebbe svolto alle sue condizioni. Niente di romantico.»
È proprio quando si è obbligati a rimettersi in gioco, ad uscire dai propri schemi, dalle proprie certezze che è possibile crescere. Ed è questo ciò che accade ad Alice. Ella verrà a contatto con le sue più grandi paure ma, al contempo, riuscirà a leggersi davvero e a capire chi è e cosa desidera.
Cristina Caboni ci dona un romanzo scritto con una penna rapida e fluente e che soprattutto ci trasmette i grandi messaggi di cercare sempre chi siamo, non snaturarci mai e non smettere mai di cercare quel che ci fa stare bene.
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Psicoterapia, tragedia greca e omicidi
«I miei dubbi su buona parte della psicoanalisi stanno nel preconcetto secondo cui la sofferenza è un errore o un segno di debolezza, o addirittura un segno di una malattia. Quando in realtà, le verità più grandi che conosciamo nascono forse dalla sofferenza delle persone.»
Alex Michaelides si è reso noto al grande pubblico grazie al suo “La paziente silenziosa”, opera che nel 2019 ha determinato un grande successo ma anche una divisione tra lettori. C’è chi lo ha trovato geniale e chi, invece, non è rimasto coinvolto e colpito dalla strategia e struttura narrativa adottata per costruire il mistero.
Con “Le vergini”, tradotto da Seba Pezzani, l’autore inglese di origine cipriota, si propone con un thriller che si smuove tra Londra, Cambridge e la Grecia.
Ancora una volta tra i protagonisti vi è uno psicoterapeuta, Mariana. Questa è specializzata in terapia dei gruppi. Vive da anni a Londra, è arrivata dalla Grecia per studiare al college di Cambridge, al St Christopher’s. Qui ha conosciuto Sebastian, colui che sposerà e di cui presto diventerà vedova. Sempre a Cambridge studia la nipote Zoe, nipote che per il marito è sempre stata al pari di una figlia. Si può dire che sono loro che si sono presi cura di lei e della sua crescita, i genitori della giovane sono morti e adesso che non c’è più nemmeno Sebastian, per Mariana la ragazza è l’unico vero affetto rimasto. Può dunque esimersi dalla richiesta d’aiuto della ragazza quando questa in lacrime la contatta dal college per dirle che c’è stato un omicidio e che questo vede probabilmente quale vittima Tara, la migliore amica? No, non può. Giunta al college si rende subito conto che effettivamente la vittima è proprio questa e che questa era invischiata in qualcosa di oscuro: pare che la giovane sia stata legata al docente di tragedia greca, il fascinoso ed eccentrico Edward Fosca, uomo con il quale ella aveva intrattenuto una relazione sentimentale e che le era costata minacce di morte dal professore alla dichiarazione della studentessa di renderla pubblica. Ma sarà stato davvero costui a uccidere la giovane? Chi si sta, inoltre, macchiando dei molteplici omicidi che si stanno susseguendo? Altre donne stanno morendo per mano di un assassino senza scrupoli. Mariana non potrà e dovrà perdere tempo, ne va della vita di altre persone.
«Ci sono professori capaci di incantare e far scoprire universi interi. È il caso dell'eccentrico, coltissimo Edward Fosca, il cui corso di tragedia greca è seguito con passione quasi ossessiva. Tanto che alcune studentesse, conquistate e rapite da quelle.»
Tra i molteplici personaggi creati dalla penna dell’autore spicca la dualità tra Mariana e il docente. Si presume che siano coetanei, entrambi sono giovani ed affermati ma le similitudini qui giungono al termine. Mariana viene costruita come una figura atta alla spavalderia quando in realtà è una persona fragile, insicura, instabile, con molti complessi. Fosca è al contrario una figura forte, dominante e ne è conscio. Usa ciò a proprio favore. Le sue stesse allieve ne sono affascinate ed attratte. “Le vergini”, il gruppo speciale di giovani allieve a cui impartisce lezioni speciali, è riprova di ciò. Che sia forse insito in questo gruppo il motivo, la ragione, che determina le morti misteriose?
“Le vergini” è un thriller ben costruito, coinvolgente, con un buon page-turning e dove a far breccia nel lettore è non solo l’evoluzione e lo sviluppo della storia ma anche la penna ricercata ed anche in alcuni passaggi elegante del narratore. L’interezza del componimento si basa non sulle dinamiche di gruppo quanto sull’influenza artistica e sul delitto.
La trama trova il suo compimento sull’unico piano della protagonista ma non mancano i colpi di scena e le vicende collegate che sanno ben intrecciarsi ed amalgamarsi. I personaggi tendono a stereotiparsi ma risultano tra loro ben caratterizzati. Non mancano, infine, le citazioni letterarie e teatrali, i rimandi alla letteratura classica, alla tragedia greca, all’epica, tutti trattati in modo tale da renderli appetibili anche a chi non ha molta dimestichezza con la materia.
Ultima peculiarità, la profonda impronta di una sceneggiatura. Sembra proprio di trovarsi davanti a un plot cinematografico, il thriller si presta benissimo a una trasposizione.
Forse non un romanzo indimenticabile, con i suoi cliché ma certamente piacevole.
«Speriamo tutti segretamente che le tragedie colpiscono sempre gli altri. Ma Mariana sapeva che prima o poi, le tragedie colpiscono anche te.»
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Lennox
«A parte i boxer, è nudo. Bloccato sulla sedia di plastica. Polsi e caviglie sbiancati dalla stretta dei lacci. Pelle d’oca floscia e tremula. Oltre a quelle mutande rosse a strisce ha addosso solamente un’altra cosa: il cappuccio di cuoio marrone che gli abbiamo calato sulla testa. Ma è muto, adesso, mentre lo guardo dall’altro capo del grosso magazzino vuoto. Rifletto sul suo silenzio come uno specchio, seduto qui su una sedia, uguale per studiarlo da lontano.»
Con “I lunghi coltelli”, edito da Guanda, Irvine Welsh torna in libreria con un thriller la cui traduzione si deve a Massimo Bocchiola – critico, saggista e poeta. Classe 1958, Welsh è un autore poliedrico ma anche noto ai più per il celebre “Trainspotting” che ne rappresenta tanto l’esordio quanto un memorandum indimenticabile stante la trasposizione in pellicola. Tante le opere che sono succedute e che negli anni hanno colorato il pubblico e coccolato i lettori più affezionati.
Caratteristica cara e comune al narratore è quello di narrare della strada e sulla strada, scrive parlando alle persone con un linguaggio diretto e privo di fronzoli e che per questo lo fa o amare o odiare. Non teme di trattare storie di miseria e di sfruttamento, di violenza e disperazione, di perdizione e di desiderio di rinascita.
Tra queste pagine torna a far capolino Ray(mond) Lennox, sbirro dell’Anticrimine di Edimburgo, nativo di Leith, tifoso degli Hearts e già conosciuto in “Crime” – 2008. Lennox indaga ne “I lunghi coltelli” su un caso di omicidio efferato. Nello specifico il parlamentare conservatore Ritchie Gulliver, sospetto pedofilo, viene torturato e brutalmente seviziato. Chi potrebbe averne desiderato la dipartita? Chi può essersi macchiato di un siffatto crimine? Per venire a capo della matassa è necessario indagare nel mondo politico, mettere le mani in questa realtà marcia, capire l’origine di un delitto che va oltre i sospetti e le apparenze. Lennox non si tirerà indietro e prenderà in mano la situazione con l’intelligenza del detective e la durezza dei suoi modi. Seguirà anche una analisi introspettiva in cui egli si porrà davanti limiti e dubbi ma arriverà anche a conclusioni inaspettate sul suo essere.
«Quando si offusca l’amore, subentrano il senso del dovere e un assillo molesto.»
Quello proposto da Welsh è un romanzo in pieno stile Welsh. È un thriller ma non solo, emerge e spicca l’ideologia radicale del narratore, un pensiero che non ammette mediatori e mediazioni, che non teme di sconfinare nel pulp. Lo stile è tagliente, duro, crudo ma in grado di delineare senza troppi problemi le caratteristiche principali dei protagonisti.
Il ritmo è calzante e ben cadenzato. Non mancano citazioni di brani musicali quasi come a crearne una vera e propria colonna sonora. Lennox è specchio tramite Welsh di un’epoca disordinata e nula risparmia. Un libro che divide proprio perché o lo si ama o lo si odia.
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Proust e Alessandro
«È di lui che vorrei parlarvi. Della sua centralità nella vita di tanta gente come me, di come ha contribuito a cambiarcela, ma anche di come è riuscito ad avvelenarla ben benino e per sempre. Perché, occorre esserne consapevoli, quando ti entra dentro non ti lascia più in pace.»
Avvicinarsi ad autori del calibro di Marcel Proust non è semplice. Se da un lato ne siamo profondamente attratti, dall’altro ne siamo anche respinti. Un sentimento ambivalente che spesso sfocia in una forma di attrazione rocambolesca che porta ciascun lettore a chiedersi perché Proust affascini così tanto, perché Proust non abbia affascinato. Alessandro Piperno cerca di comprendere e analizzare quelli che sono in particolar modo gli effetti affascinanti della prosa proustiana sul lettore e per farlo decide di partire dalla biografia, scandagliandola, analizzandola in più aspetti e retroscena, partendo, a voler essere ancora più precisi, dal suo incontro con l’autore. Piperno si trova all’ultimo anno di liceo quando riceve per Natale da un amico, Roberto, un librone blu: il primo volume de “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust con traduzione da parte di Giovanni Raboni per i Meridiani Mondadori.
Un po’ come per ogni battesimo, Proust non si dimentica. E un po’ come quando accade con la scelta di una macchina, non siamo noi a scegliere ma è la macchina/libro a scegliere noi, a chiamarci. Quante volte ci sarà capitato di trovarci tra le mani un libro di un determinato autore così, quasi per caso, perché attratti da un quel qualcosa che nemmeno noi sappiamo ben spiegare.
Ed ecco allora che ci immergiamo in un Proust adulto e recluso, ipocondriaco e snob, segregato nella propria stanza, insonne e affiancato dalla fida governante. Conosciamo il Proust che vuol farsi conoscere, il Proust che vuole mostrare un determinato volto. Altresì conosciamo un Piperno che non vuole abbandonarsi, per ingenuità e/o romanticismo, al mito di uno scrittore che si contrappone con un alter ego.
Piperno ci invita alla riflessione, all’interrogazione, all’interpretazione. Chiede al lettore di farsi una propria idea, di custodirla e di condividerla una volta che questa ha preso forma. C’è un profondo orgoglio nell’essere proustiani che trapela da queste pagine, ne emerge anche un vero e proprio identikit proustiano.
«La verità è che sono un proustiano, e lo sono dalla testa ai piedi. In quanto tale, seguace di una vera e propria consorteria che annovera tra i suoi adepti individui tra i più disparati, e non tutti raccomandabili.»
Piperno si sposta poi a quelle che sono le tematiche trattate da Proust e che oscillano tra l’ebraismo, la moralità, la morte, la moralità, la letteratura e il suo ruolo nel nostro vivere. Pone in essere anche un vero e proprio parallelismo tra realtà proustiana e società attuale scandagliando quelli che sono i punti in comune ed evidenziando quelli che sono i punti di distanza tra lo ieri e l’oggi.
Nella seconda parte del componimento, ancora, Piperno accosta Proust a Montaigne, Céline, Nabokov, Balzac, Dante, Virginia Woolf, Roth. Per ogni coppia è evidenziata la tesi e l’antitesi, il parallelismo positivo e il parallelismo in negativo, l’ammirazione (come nel caso della Woolf), la differenza e distanza (come nel caso di Céline ma anche Balzac).
In conclusione Piperno con “Proust senza tempo” dona ai lettori uno scritto che porta il lettore a conoscere meglio Marcel Proust ma che al contempo perde un poco di quella che è l’essenza del saggio. Si evince l’amore del narratore contemporaneo per il narratore del passato ma si tende ad eccedere. Il risultato è un saggio “spuntato”, che perde di mordente perché troppo soggettivo e poco oggettivo. Quell’entusiasmo di Piperno sdubbia, finisce con il lasciare perplessi e rischia di suscitare nel lettore un effetto inverso, di allontanamento e non di vicinanza.
Un libro dai grandi intenti e le armi senza punta. Può conquistare il lettore già avvezzo all’opera proustiana per cameratismo ma finisce con l’essere di nicchia non riuscendo a coinvolgere completamente anche il conoscitore sommario, prossimo, novizio o anche appassionato ma con riserva. Un saggio non saggio.
«Nell'eterodossa famiglia di lettori (categoria umana non sempre simpaticissima), i proustiani si distinguono per una singolare inclinazione allo snobismo e all'idolatria. Se da un lato sono soliti guardare dall'alto in basso chiunque non abbia finito la Recherche, dall'altro considerano un dovere patriottico visitare almeno una volta nella vita i luoghi proustiani (case di campagna, alberghi di mare, cattedrali), con lo spirito del pellegrino che si reca in Terra Santa.»
Indicazioni utili
- sì
- no
Saint et Le Petit Prince
«”Questa penna”, spiega l’uomo d’affari, “è la terza scoperta importante che permette di risolvere il mistero della scomparsa di Saint-Exupéry. Il 31 luglio 1944 Antoine de Saint Exupéry decolla da Borgo, in Corsica, la mattina presto a bordo di un aereo americano, un cacciabombardiere P-38 Lightning, per una missione di ricognizione fino a Grenoble. Non risponde a nessuna chiamata radio. Alle 14.30 il suo carburante è esaurito. Alle 15.30 viene dato per disperso. Non ricomparirà più. Qualcuno ha pensato che potesse essere atterrato in Svizzera o nel Vercors per unirsi alla Resistenza… Poi cercheranno senza successo il relitto del suo aereo al largo di Saint-Raphael, sia in seguito alle testimonianze di alcuni piloti tedeschi, sia perché lì, a picco sul mare, c’è la casa di famiglia di Saint Exupéry, il castello di Agay. Più di cinquant’anni di ricerche non hanno portato il minimo indizio, la minima pista da seguire. La verità è scoppiata a settembre 1988 proprio qui, al largo di Marsiglia, quando il pescatore Jean-Claude Bianco tira su con la rete un braccialetto d’argento con targhetta. Nonostante i lunghi anni trascorsi in acqua l’incisione è ancora leggibile: Antoine de Saint-Exupéry (Consuelo) c/o Reynal and Hitchcock Inc. 386 4th Ave N.Y. City, Usa. Svelato finalmente il mistero! Saint-Exupéry è colato a picco da qualche parte sotto i nostri piedi.»
Ma se non fosse proprio andata così? Se le circostanze che hanno portato alla morte di Saint-Exupéry fossero ben diverse? Se fossero collegate proprio alla sua opera “Il Piccolo Principe”? Potrebbe infatti supporsi che le due morti siano collegate? Ed ancora, chi ha ucciso “Il Piccolo Principe”? Tante sono le ombre che si celano dietro la morte del romanziere ma anche dietro alla morte del Principe che fa sognare costantemente milioni di lettori. Saint-Exupéry è stato abbattuto da Horst Rippert? Si è suicidato dopo aver volato per un’ultima volta sopra la casa della madre? È sopravvissuto ed è stato fatto prigioniero? Oppure, ancora, è successo un qualcosa di cui alcuno ha tenuto conto? E se fosse stato fondato un apposito organo, il Club 612, composto da cinque membri atto a venire a capo della matassa e risolvere il mistero del personaggio e dell’autore?
Ha inizio da questi brevi presupposti “Codice 612” ultima opera di Michel Bussi che è prima di tutto un omaggio a “Il Piccolo Principe”, opera amata e stimata e che in un certo senso rappresenta l’infanzia ma anche l’età adulta per i messaggi che sa trasmettere e dedicare.
Tante le ricerche compiute da Bussi per la stesura di questo piccolo testo che si propone di offrire ai suoi lettori una vera e propria caccia al tesoro. Due i personaggi che ci accompagnano in questa avventura: Neven Le Faou, goffo e gigantesco ex aviatore che ha saputo riciclarsi come meccanico sull’Aeroclub du Soleil XIII e Andie (Ondine), detective stagista alla Fox Company, appassionata di Saint-Exupéry e del Piccolo Principe al punto da curare un blog a lui dedicato e che le permette di essere in contatto con tutti quelli che sono i fan sparsi per il pianeta.
«No, non si dimentica. Le cose che ami non si dimenticano, perché ti mancano. Come le persone.»
Il duo verrà avvicinato dal miliardario camerunense Oko Dolò, cofondatore del Club 612, verranno invitati sullo yatcht Diamante delle isole, ancorato a Calanque de Sormiou, vicino a Marsiglia, verranno informati del caso, verrà loro mostrata la stilografica Parker 51 e i rottami delle lamiere di un Lockheed P-38 Lightning ripescati al largo della Provenza nel 2000 dopo che nel 1988 proprio al largo di Marsiglia fu ripescato il braccialetto d’argento di Antoine. Un braccialetto, si noti bene, di cui alcuno aveva ricordo e ancor meno che alcuno aveva mai notato al suo polso. Da qui la missione: i due giovani dovranno incontrare i membri del Club 612, e con un fondo di spese illimitato ricomporre il puzzle. Dovranno raggiungere diverse parti del mondo (non pianeti come nell’opera) e Neven dovrà occuparsi della guida di un Falcon, jet privato. Prima tappa sarà l’isola di Manhattan dove incontreranno Marie Swann, al tempo cinquenne bambina dai riccioli d’oro, magari modella indiretta per il volto del Piccolo Principe, ed ancora dovranno incontrare Moisès, sull’isola di Conchaita, poi Izar alle Orcadi, ed ancora di Hoshi, ermita sull’isola del faro di Gedda in Arabia Saudita, ed ancora giungeranno alle Bermude. Tanti i punti di vista che dovranno affrontare e il puzzle che dovranno ricostruire.
«Lì per lì la coincidenza mi incuriosisce, poi la dimentico. Quando le coincidenze sono troppo impressionanti, nessuno ha il coraggio di diffidarne.»
“Codice 612” di Michel Bussi è uno scritto di appena 189 pagine che ha le tinte di un’indagine ma anche di una favola, un po’ come l’opera dalla quale prende spunto e idea. È un romanzo, ancora, intelligente e che rimanda ad altre opere dei grandi della letteratura del giallo quali quelle nate dalla penna di Agatha Christie. È un libro “studiato” nel senso che ha richiesto un gran lavoro di ricerca prima della stesura per assicurarsi che il dato storico e narrativo coincidessero e non collimassero, ma è anche un libro che sa mostrare i suoi punti di forza nell’ottica dell’indagine, soddisfacendo così il lettore amante dei gialli, nonché il lettore amante de “Il Piccolo Principe”.
Ma “Codice 612” è prima ancora un romanzo filosofico e poetico, una fiaba-gialla che sa far sognare e che invita a riscoprire un’altra favola. Accomuna ancora i lettori per l’effetto concatenato e il legame che può venirsi a instaurare con un personaggio narrativo, quante volte non a caso ci siamo chiesti quale fino potrebbe aver fatto il nostro eroe o cosa ne potrebbe essere stato di lui laddove a maggior ragione la sua figura si legasse a un fatto storico, politico, sociale o più semplicemente a una vita? Tra queste pagine ciò che più giunge è il messaggio che voleva essere lasciato ancor prima di Bussi da Saint-Exupéry.
È uno scritto che ha le sue pecche, può deludere perché ci si aspetta un giallo vero e proprio, può perdere di pathos perché in alcuni passaggi il ritmo narrativo rallenta un poco, ma resta un titolo che nei suoi intenti e scopi riesce perfettamente e che quindi ha anche punti di forza notevoli. La conditio sine qua non è amare questa favola che ha scaldato un po’ tutti i cuori, il resto viene da solo.
«Per voi che amate quanto me “Il Piccolo Principe”, noi sappiamo che tutto cambia nel cielo e nell’oceano, poiché ci preoccupiamo per una rosa.»
Vicolo di umanità
«Il tramonto si annunciava e il Vicolo del Mortaio andava coprendosi di un velo bruno, reso ancora più cupo dalle ombre dei muri che lo cingevano da tre lati. Si apriva sulla Sanadiqiyya e poi saliva, in modo irregolare: una bottega, un caffè, un forno. Di fronte ancora una bottega, un bazar e subito la sua breve gloria terminava contro due case a ridosso, entrambe di tre piani.»
Ci son due cose che balzano immediatamente all’occhio del lettore che si avvicina alla lettura di “Vicolo del Mortaio” di Nagib Mahfuz. La prima è la grande accuratezza delle descrizioni che riesce a rendere ogni passaggio, ogni battuta, ogni personaggio, vivido e contestualizzato. Questo proprio perché tra le grandi capacità del narratore vi è quella di riuscire a riportare il conoscitore in quel vicolo con piccole pennellate che rendono tangibile e concreto il luogo. La seconda, invece, è la grande attualità. Chi legge non si rende ben conto del periodo storico, è consapevole che l’opera abbia qualche anno ma la sente vicina, quotidiana. Non sente il peso degli anni, sente che è al contrario un’opera contemporanea, non datata, che è capace di suscitare senso di comunanza. Questi due elementi suscitano sin da subito profonda empatia con lo scritto, un testo che ha molto da dire e che ben contestualizza storie di ordinaria quotidianità. Altro tassello, questo, simbolicamente il terzo se vogliamo aggiungerne uno extra ai due già citati, che ne conferisce ulteriore e profonda sostanza. Non ci sono vinti e non ci sono eroi, non ci sono supereroi, tra queste pagine, ci sono vite. Vite di uomini e di donne, vite di persone che combattono ogni giorno la propria singola e individuale battaglia personale, con coraggio, con forza. Questo anche quando al contrario potrebbe sembrare prevalere un senso di arrendevolezza a quelli che sono i fatti, le circostanze. Non solo, questi uomini e queste donne, sembrano proprio non volersi arrendere a quel senso di sopravvivenza perché la vita è una ed è preziosa e bella e allora perché non viverla davvero?
«Con lo scoppio della guerra, aveva preso servizio nelle guarnigioni dell’esercito britannico, dove riceveva trenta piastre al giorno contro le tre del suo primo impiego […] Si dava alla bella vita con sfrenato entusiasmo.»
Classe 1947 è “Vicolo del mortaio”, scritto del premio Nobel egiziano Nagib Mahfuz che ci trasporta a Il Cairo. Siamo davanti a una realtà di povertà, di malattia e di desiderio costante e pulsante di riscatto. Un riscatto che vede anche il desiderio di soddisfare impulsi e aspirazioni ma anche di realizzare progetti.
È un libro dove emergono molti personaggi che, tutti insieme, danno vita a un’opera corale fatta di semplicità e umanità. Tra tutti i personaggi quello che maggiormente emerge è certamente Hamida, figlia adottiva di Humm Hamida, inserviente nei bagni pubblici e mezzana di matrimoni. È una giovane bellissima che è amata da Abbas. Quest’ultimo, un giorno, si dichiara alla ragazza promettendole di arruolarsi nell’esercito inglese al fine di guadagnare denaro per poterla sposare. Hamida è una donna animata da sogni di evasione, è una donna che vive in un contesto che le sta stretto. Accetta seppur riluttante il fidanzamento ma nel cuore pulsa e vive.
«Niente è più brutto di una parola d’amore pronunciata freddamente da una bocca annoiata.»
“Vicolo del Mortaio” narra di uomini e donne con pregi e difetti, donne e uomini che cadono e si rialzano, che combattono ogni giorno le proprie singole battaglie. È un libro che si apre all’occidente mostrandosi con i suoi scheletri nell’armadio, che non giudica ma che delinea. L’esser caratterizzato da una narrazione universale lo porta ad essere un titolo capace di suscitare riflessione e di rendere verosimile un contesto politico-sociale-religioso anche a distanza di settantasei anni. Da leggere.
«Il buon Kamil si accigliò, impallidì e gli occhi si riempirono di pianto ma lo Shaykh alzò le spalle indifferente e continuando a fissare il soffitto proseguì:
Chi muore d'amore, di pena se ne muore
senza di questo non c'è alcun bene nell'amore.
Infine si stropicciò le mani soffiandovi sopra e concluse:
"Signore e giudice di ogni cosa, concedici la misericordia dei santi. Signore, che io possa essere paziente, non ha forse ogni cosa la sua fine? Sì, ogni cosa ha la sua fine, che in inglese si dice end e si scrive e.n.d."»
Indicazioni utili
Jake, Edie e Ryan
«Era un rapporto speciale, il loro. Le altre persone contavano poco, erano lontane anni luce.»
Autrice nota al grande pubblico per il suo "La ragazza del treno" e "Dentro l'acqua", Paula Hawkins torna in libreria e propone ai suoi lettori un nuovo romanzo edito Piemme e disponibile a partire dal 7 febbraio 2023.
Jake, Edie, Ryan sono da sempre il terzetto più enigmatico della scuola ma al contempo sono immancabilmente pronti a farsi scudo l’uno con l’altro. Edie e Jake sono ora una coppia forte, ma anche l’amicizia lo è tanto che i tre restano tra loro legati. Jake è uno sceneggiatore televisivo e cinematografico, ha poca fortuna e conta all’appello ancora meno successo. Ryan lavora nel settore finanziario e lo aiuterà prestandogli del denaro. Infine, Edie è affetta da una malattia alla retina che la porta a non avere una visione chiara soprattutto quando la luce scarseggia. Ama il marito, almeno in apparenza, follemente. Tutto sembra perfetto, tutto sembra procedere al meglio. Tuttavia il matrimonio tra i due ex compagni di liceo è in crisi e questa aumenta in modo inarrestabile nel momento in cui Jake decide di trasferirsi sulla casa sulla scogliera. Edie è titubante, non è felice della scelta. Il luogo è isolato e contrasta tra bosco e mare. Le ambientazioni della casa stessa sono inquietanti con quelle vetrate che pongono lo sguardo solo verso la distesa marina, un mare grigio che si fonde con il cielo e con onde altissime che s’infrangono sulle rocce.
Ed è durante una mattina che Edie apprende della notizia: Jake è stato trovato morto in una pozza di sangue. Il cadavere viene rinvenuto da Ryan che, trovato con un pezzo di vetro in mano, verrà ritenuto colpevole del delitto e per questo incarcerato. Ma cosa è successo davvero? Chi ha ucciso Jake e perché? Cosa si cela dietro la facciata di un’amicizia senza ombre e senza oscurità?
Edie è semplicemente sconvolta. Cosa fare? Come comportarsi adesso? Dovrà fare luce sul caso e per farlo dovrà combattere contro quella stessa patologia retinica che la rende cieca e le impedisce la vista chiara. E se fosse lei la prossima vittima? Sembra proprio, infatti, che il passato non voglia lasciarli andare. Una donna del passato? Un’amica? Chi sembra essere intenzionato a far tornare a galla fantasmi e scheletri nell’armadio?
“A occhi chiusi” può considerarsi un Quick Reads, una lettura cioè rapida e veloce che focalizza sulle emozioni che aleggiano tra le pagine quali paura, disperazione e sospetti ma anche sul giallo. Il trio di personaggi è composto da volti tra loro eterogenei, uomini e donne che abitano una realtà fatta di una costante ben precisa e di una altrettanto radicata stabilità. Più che un romanzo può ben definirsi un lungo racconto composto da una trama ben articolata ma che non esula dalla presenza di molti cliché. Lo stile crea una buona suspense anche se non brilla per prosa narrativa essendo molto asciutto. Molte, ancora, le verità cieche che si celano nei ricordi di Edie. Altrettanti i dubbi che si perpetrano e i fatti e gli eventi in buona parte prevedibili.
Una lettura rapida, con cui trascorrere ore gradevoli ma da cui non aspettarsi granché e sicuramente non un capolavoro. Senza lode e senza infamia.
Philip Marlowe
«Per certi versi aveva ragione. Terry Lennox mi ha portato un sacco di guai. Ma i guai, in fondo, sono il mio mestiere.»
Pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1953 e vincitore nel 1955 del premio letterario Edgar Award, “Il lungo addio” è il sesto romanzo di Raymond Chandler che vede nuovamente come protagonista Philip Marlowe, il cui esordio letterario risale al 1939 nell’opera “Il grande sonno”.
Sin dalle prime pagine quel che emerge dal componimento è un profondo senso di noir e di malinconia. Philip Marlowe è definito e descritto con poche e rapide “pennellate” ma giunge al lettore con grande forza.
L’investigatore privato, protagonista, è quasi al termine della sua carriera e il suo spirito è affranto dalla consapevolezza che a breve scomparirà da quella che è la scena pubblica. Marlowe è un uomo in grado di risolvere anche i casi più complessi, si propone al pubblico come un perdente, ma è un personaggio che sa toccare le corde di chi legge e restarci.
Siamo nella prima metà del secolo scorso, siamo a Las Vegas, una realtà fatta da boss malavitosi, poliziotti, denaro che scorre. Le pagine si aprono con Terry Lennox ubriaco su una Rolls-Royce Silver Wraith davanti alla terrazza del Dancer. Una serie di vicissitudini lo riporteranno in quel di Las Vegas dove si ricongiungerà in seconde nozze con la moglie Sylvia figlia di Harlan Potter. Chiuso questo primo aspetto ci spostiamo ancora su Roger Wade, scrittore che non riesce a concludere il proprio romanzo, in preda all’alcolismo, a comportamenti violenti verso la moglie, a sparizioni e morti. Il compito di Marlowe è quello di vigilare al fine di far sì che il romanzo venga concluso, tuttavia, si susseguono morti per omicidio che vedono coinvolto lo stesso Wade e la stessa amante figlia di un rinomato possidente locale.
Il caso si infittisce, la polizia ha dei sospetti, la stessa comparsa di un personaggio dato per morto e il suicidio di una delle varie voci narranti porterà allo svilupparsi di altrettante sorprese. La trama, infatti, de “Il lungo addio” non è affatto semplice e al contrario si sviluppa come una rete fatta di elementi da scoprire e vagliare tra loro perfettamente collegati. Nulla è scontato, nulla è come appare. La stessa risoluzione del caso non sarà semplice e porterà Marlowe a ricevere conferma delle sue supposizioni a seguito di un nuovo evento postumo.
«Ha sorriso e si è stretto nelle spalle. Io ero ancora di cattivo umore, scendendo le scale, ma non capivo il perché, così come non capivo per quale ragione un uomo dovesse ridursi alla fame e a dormire per strada invece di impegnare il guardaroba. Doveva avere i suoi principi, e ci si atteneva con rigore.»
“Il lungo addio” è un libro che coinvolge e che spicca soprattutto per lo stile. Apprezzato dagli sceneggiatori, rinomato tra i letterati, Chandler non manca di proporsi al grande pubblico con una penna raffinata e precisa che sa essere tanto poetico quanto minuzioso ed evocativo, che sa stamparsi nella mente e rendere vivide le indagini. Il risultato è quello di un giallo gradevolissimo, dalle tinte noir e intriso di una malinconia e nostalgia che ben si mixano a quello che è un intrigo ben orchestrato.
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Oh Thérèse!
“Quando il futuro è privo di speranze, il presente acquista un'ignobile amarezza.”
Thérèse Raquin, 1867, fu un titolo che sin da subito portò al gridare dello scandalo e della pudica ripugnanza, riprova ne è già la prefazione all’opera, scritta dallo stesso Zolà e dalla quale si evince un profondo risentimento verso quei tempi e quegli uomini di cultura che evidentemente non sono stati in grado di cogliere il senso di uno scritto profondo quando complesso. Un titolo catalogato per molti ai limiti del pornografico e a cui come anzidetto rispose lo stesso Zolà evidenziando l’ipocrisia benpensante dell’epoca quando a lui altro non interessava che studiare la natura umana tanto dal punto di vista psicologico che naturale. L’opera è totalmente e completamente intrisa di realismo, osserva in modo accurato tanto le persone quanto gli ambienti, ne delinea i caratteri e nulla risparmia ai lettori. Proprio per questo nulla risparmia e nulla cela al suo interno.
“Qui sono tutti ciechi perché non sanno amare...”
La trama nel suo essere ci narra di una storia di tradimenti ove ad essere presente è la classica triangolazione, per taluni un cliché, fatta di lui, lei e l’altro. Tuttavia, a una trama semplice si aggiunge uno sviluppo affatto lineare. Non mancano le assonanze, che sopraggiungono quali naturali, con Madame Bovary, Thérèse come Emma sembra volersi sottrarre a un qualcosa, a un fardello, a un peso e più precisamente al peso di una famiglia che è vissuta come una forma di prigionia, di dolore, di sofferenza. Un contesto famigliare, il suo, dove ella ha sempre dovuto obbedire e mai ha potuto esprimere il suo pensiero in libertà o alzare la testa. Mai ha potuto opporsi alle decisioni della zia, la merciaia madame Raquin. Ma Thérèse, a differenza di Emma non brama lussi e orpelli, è vissuta accanto al malaticcio cugino Camille e al contempo è stata schiava della vita di provincia quando la sua indole e tempra erano vitali e vive.
“Lei ha un difetto imperdonabile che le precluderà qualunque porta: non può chiacchierare due minuti di fila con un imbecille senza fargli capire che è un imbecille.”
Camille e Thérèse si sposano per volere della zia. La zia desidera che il figlio non sia lasciato solo e soprattutto che il figlio sia accudito da una moglie-madre. Per farlo, quale occasione migliore del matrimonio con la ragazza? Quest’ultima dal suo canto non è attratta da quest’uomo poco appetibile a livello sessuale e che oltretutto sa da sempre di malattia, puzza proprio di malattia. Il tradimento è per questo vissuto come una sorta di riscatto, un riscatto in primis verso la vita. Amante della donna è Laurent, impiegatuccio e artista senza futuro e con scarso passato, ma uomo vigoroso e sessualmente appetibile. Egli mira non solo ad essere amante di Thérèse ma desidera anche essere amico di Camille e scapolo sulla piazza. Tre cose al tempo stesso. Casa Rquin è il luogo perfetto per un parassita come lui e Thérèse, seppur relativamente bella, nel suo essere innocua almeno in apparenza, è perfetta. Il carattere remissivo, l’indole, il suo essere apparentemente inoffensiva, la rendono la preda perfetta. Ma cosa potrebbe accadere se la donna, al contrario, rivelasse una profonda e insostenibile indole carnale atta a causarne dipendenza? Quale strada percorrere se non quella della vedovanza? Laurent è un uomo ambizioso, incontentabile, è un uomo che auspica al raggiungimento di molti progetti che però non tengono conto di altri aspetti della realtà.
"Lui ci metteva il sangue, lei i nervi; vivevano l'uno nell'altra e avevano bisogno dell'amore fisico per regolare il meccanismo dei loro corpi."
Un romanzo ricco di descrizioni, profondo nella sua struttura, corposo nel suo divenire. Un libro che non manca di riguardare relazioni fisiche e mentali, di far riflettere il lettore, di farlo interrogare su tanti aspetti che riguardano il rapporto umano, i legami ma anche quegli aspetti più reconditi del vivere. Ecco allora che Camille è più presente da morto che da vivo, che è una presenza fissa tra loro dopo il suo annegamento, che porta liti furenti e furibonde, che portano a vivere il rapporto come un vero e proprio inferno. Da legame bramato e agognato si rivela essere un’ennesima e rinnovata prigione a cui si somma anche la malattia della paralitica madame Raquin che osserva placida.
Sullo sfondo una Parigi priva di luci e sfarzi ma lugubre per uno scritto accompagnato da una prosa ricca, corposa, intramontabile. Trapela l’inquietudine, trapela l’indifferenza, l’insoddisfazione, il pessimismo, la prigionia, l’incapacità di un riscatto e di una rivalsa, un desiderio distorto per un vivere altrettanto malsano.
“Thérèse Raquin” è un romanzo che non può essere definito osceno e ancor meno pornografico, è al contrario un libro che spinge il lettore a riflettere e a meditare, a interrogarsi, che sprona a guardarsi dentro, a ponderare sui sentimenti che spesso ci accompagnano, che invita a guardare all’interno del cuore e dell’animo umano, è un libro complesso nella struttura e nell’evoluzione, un libro da non dare per scontato e da non minimizzare nei suoi termini. Un romanzo che sorprende anche nel suo epilogo, un libro che non perde di forza nemmeno con il passare dei secoli.
“Non c’è niente di più dolorosamente calmo di un crepuscolo autunnale. I raggi impallidiscono nell’aria che pare rabbrividire, i vecchi tronchi si spogliano delle foglie; la campagna, bruciata dai raggi ardenti dell’estate, percepisce coi primi venti gelidi l’inizio inesorabile della morte. Nel cielo l’aria si sposta con un gemito disperato e la notte, scendendo dall’alto, racchiude sudari nell’ombra cupa.”
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Gelati tra re e regine
“Picciotti, siete stati bravi anche stavolta, ho fiducia in voi..”
Se siete amanti di Cristina Cassar Scalia e delle sue opere non potrete che essere felici: l’autrice dona ai lettori una breve indagine di Vanina Guarrasi, ovvero Giovanna Guarrasi, la poliziotta palermitana tanto amata quanto celebre che vede i suoi esordi in “Sabbia nera”.
Vanina, vicequestore aggiunto della Mobile di Catania, nata a Palermo, dopo un periodo nella Questura di Milano, era stata rispedita al sud e più precisamente proprio a Catania. Non voleva tornare nella sua città, troppo doloroso vedere Paolo Malfitano, il giudice amalfitano con cui aveva avuto una profonda relazione sentimentale e a cui aveva anche salvato la vita. Fumatrice incallita, amante del cibo, appassionata di cinema, burbera e determinata di carattere, ella è nota nell’ambiente anche per le sue origini essendo figlia di un ispettore di polizia ucciso dalla mafia circa due decenni prima.
Ma tornare non è stato evitabile ed ecco allora che la protagonista vive fuori Catania, sulle pendici dell’Etna. Le scatole, tuttavia, con libri e film d’epoca sono ancora intonse, la osservano con fare sornione in attesa che ella le svuoti.
Non è però finita qui perché l’ultimo libro di Cristina Cassar Scalia racconta anche una nuova indagine della vicequestore, ghiotta e buongustaia, amante del cibo e della cucina locale. Ed è qui che entra in scena Agostino Lomonaco, gelataio storico catanese, proprietario di molti locali, che scopre che nei suoi gelati sono state trovate delle pillole. I clienti, spaventati e indignati, hanno sporto denuncia per timore di essere stati avvelenati o peggio.
Vanina va incontro a Lomonaco una volta che viene allertata, valuta il caso, lo prende anche un po’ alla leggera non ravvisandone tutta questa pericolosità, eppure, dopo la sua visita l’uomo viene trovato privo di vita, chiaramente assassinato, dietro al bancone del locale che nel paese ha fatto storia e che rappresenta il più antico e rinomato della catena di gelaterie.
Tito Macchia e il suo eterno sigaro in bocca, Marta Bonazzoli in arrivo dal nord ma con il mancato spirito di migliorare le cose ed anche vegetariana, Lo Faro e Pappalardo, gli agenti e Vanina si mettono al seguito per venire a capo della matassa e risolvere il caso. Chi potrebbe essere stato il colpevole del misfatto? Tra i sospettati non manca Corinna, la figlia, presenza frequente in gelateria. Vanina però la esclude dai possibili colpevoli e si orienta su ben altro. E su ben altri.
Da qui avranno inizio colpi di scena su colpi di scena, eventi concatenati tra loro, situazioni esilaranti mixate a un giallo che chiede solo di essere gustato (magari proprio mangiando un buon gelato). Vanina? Ancora una volta non delude le aspettative con il suo acume e la sua forza di volontà.
Al tutto si somma lo stile inconfondibile di Cristina Cassar Scalia che ben mixa dialetto siciliano e italiano, dipingendo con maestria le pagine dell’opera.
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Margaret
«Salvare i rifugiati.
Salvare i bambini.
Salvare il paese, forse.
Ma se il paese non avesse voluto farsi salvare?»
È una bambina, o almeno questa sembra essere nel buio della notte. È questo, infatti, il momento in cui ella può essere incontrata con il suo fare etereo, il suo non parlare, il suo osservare. Che sia tra un vicolo o l’altro, la Bambina del Sale attende e vende con discrezione il sale ai passanti, sacchetti in tela azzurra con dentro una manciata di questo bene ormai introvabile da tempo. Una moneta per un sacchettino, un prezzo irrisorio se si pensa alla rarità di questo. Compare dopo il tramonto, scompare all’alba. Mito o leggenda, realtà e/o sopravvivenza. Nessuno sa come si procura il prodotto, nessuno a Praga conosce il suo nome. Sono però tempi oscuri dove l’aria puzza di guerra, dove il nazismo è pronto a mietere vittime su vittime seguendo le mire espansionistiche del suo leader.
Siamo nel 1938, siamo in Cecoslovacchia. Non c’è tempo, il Ghetto, ma anche tutta la popolazione, lo sa bene. I più deboli devono essere salvati, tutti devono riuscire a mettersi in salvo. Ma la lista è lunga, l’impresa sembra impossibile. Tanto impossibile quanto cieca e forte è la fiducia di chi vuol imbarcarsi in questa battaglia fatta di speranza.
Quando Nicholas Winton arriva a Praga, Doreen Warren è già operativa da mesi. Mentre la donna è consapevole della situazione e della difficoltà del mettere in atto un piano così coraggioso, per l’uomo non ci sono dubbi: coadiuvato da Petra a causa delle sue difficoltà linguistiche organizzerà prima aerei e poi treni per mettere in salvo i bambini. Inglese ma di origine ebraiche, determinato nel suo agire, pronto ad allestire questi treni con direzione Gran Bretagna, il luogo dove egli attualmente vive e a cui presto dovrà far ritorno. Perché Winton è in ferie ma quali ferie possono essere godute se a farne le spese sono vite innocenti e la furia è pronta a dilagare?
La incontra per caso, la bambina. Un fatto particolare porta a unire le loro strade ma come aiutarla, come portarla in salvo se la prima a sembrare non voler essere salvata è proprio lei? Lasciare tutto e tornare in Inghilterra è davvero possibile?
«Un limite è necessario, mi diceva sempre, per affrontare un’impresa illimitata.»
Ed ancora due volti femminili, da un lato Doreen, personaggio storico realmente esistito che insieme a Trevor Chadwick, resta ancora oggi un volto da scoprire ma le cui missioni di salvataggio sono passate alla Storia, donna ancora tutta d’un pezzo, meticolosa e decisa, forte e agguerrita, e Petra, colei che nell’arco di una notte ha semplicemente perso tutto. Suo marito, il suo bambino, il suo futuro, il suo essere. Scelte, scelte giuste o sbagliate, ma pur sempre scelte.
E la guerra Scoppia. Scoppia senza remore, senza timori, senza freni. Senza mai rinunciare al suo incedere. Scoppia e corre, corre come un treno, come quel treno che carico di vite deve attraversare il vecchio continente per raggiungere la possibilità di una salvezza.
«Ma c’era anche chi lavorava in senso opposto. In mezzo alla follia, alla stupidità e al male generali c’erano anche persone di buona volontà. La catena del bene.»
Fabiano Massimi torna in libreria dopo la serie iniziata con “L’angelo di Monaco” e proseguita con “Demoni” ma anche dopo il suo “Il club Montecristo” e “Vivi nascosto” con un nuovo romanzo storico che non delude le aspettative. La storia che viene narrata è Storia, è la storia nella Storia di uomini e donne che a ridosso della Seconda guerra mondiale hanno cercato di aiutare il prossimo, hanno cercato di mettere in salvo quante più vite possibili per fronteggiare la follia del nazismo.
Ecco allora che Massimi rende omaggio a Nicholas Winton ma anche a Doreen Warriner e Trevor Chadwick che per troppi decenni sono rimasti, e in parte ancora sono a causa della scarsità di notizie, volti del passato, volti di un passato che non deve essere mai dimenticato. Ma narra anche di donne e uomini che hanno cercato di fare la differenza.
Un caleidoscopio di voci, colori, emozioni e fatti storici che si susseguono con un buon ritmo narrativo. Talvolta forse un po’ troppo descrittivo tanto da far perdere di rapidità al componimento ma un libro certamente da leggere e assaporare, per forza evocativa, intenti e anche emozioni che è capace di suscitare.
«Anche così, anche soli e abbandonati, anche in un paese in guerra, tra freddo, fame e malattia, riuscivano a ridere. Riuscivano a vivere.»
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Yusuf
“Non aveva mai fatto nulla di cui vergognarsi; di vergognoso c’era solo il modo in cui lo avevano costretto a vivere, lui e tutti gli altri. I loro intrighi, i loro odi, la loro avidità rancorosa avevano trasformato i valori più elementari in moneta di scambio, oggetto di baratto.”
Vincitore del Premio Nobel per la letteratura è Abdulrazak Gurnah, autore che viene riproposto da La Nave di Teseo in una nuova e rinnovata veste proprio a seguito di questo riconoscimento di tutto rispetto.
Ad essere tra le prime opere ripubblicate è stato “Paradiso”, scritto classe 1994 che ci parla di Yusuf, giovane dodicenne che subisce le sorti più nefaste essendo venduto dal padre per sanare la posizione debitoria ad un ricco mercante. A far da teatro alle vicende è la Prima guerra mondiale, siamo nell’Africa orientale tra Tanzania, Kenya, Uganda e più precisamente in quella che è stata conosciuta come l’Africa orientale tedesca.
A spiccare maggiormente è lo stile dell’autore. Uno stile che romanza le vicende ma che riporta alla vita anche le ambientazioni e le descrizioni che mostrano agli occhi del lettore quei luoghi e quegli ambienti così lontani e distanti dal mondo occidentale. Ancora, ad essere figura centrale e prevalente è proprio Yusuf che ricercherà il suo “paradiso” non solo in senso fisico ma anche metaforico. Saranno le sue non scelte e poi scelte a condurre il lettore sino a quello che è un epilogo aperto e tutto da interpretare. Cosa deciderà di fare il giovane? Quale sarà la scelta che guiderà la sua vita?
Non mancano, tra le pagine, i riferimenti alla parte più dura e cruda dell’Africa, delle sue tradizioni ma non mancano nemmeno i riferimenti alla tradizione biblica e in particolare alla figura di Giuseppe. Gli eroi che abitano queste pagine lottano in un mondo che sembra respingerli, un mondo che non accetta il riscatto e che non sembra disposto a concederglielo.
O lo si ama, o lo si odia. “Paradiso” è certamente un titolo che offre molto al lettore, molto dipende anche dalla conoscenza dell’Africa e della letteratura africana circa il grado di piacevolezza, ma nel complesso resta e si fa sinceramente apprezzare. Da leggere e assaporare con calma, con i giusti tempi.
“Quando si toccò, Yusuf si accorse di avere i vestiti bagnati, era completamente zuppo, ma era felice di stare lì fermo a lasciarsi avvolgere dagli spruzzi. Se ascoltava con sufficiente attenzione, ne era sicuro, avrebbe sentito un mormorio che cresceva e scemava sotto il ruggito della cascata, il rumore del respiro del Dio del fiume. Restò a lungo là, in silenzio.”
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Lei, la bell'abissina
Molti conosceranno Carlo Lucarelli, scrittore eclettico e poliedrico che torna in libreria, questa volta, con un romanzo giallo dalle tinte storiche intitolato “Bell’abissina”. Lucarelli è noto per opere eterogenee, ma è noto anche per quella passione per il giallo storico che spesso lo ha riportato agli anni del fascismo e con lui il lettore. Il titolo riconduce al commissario Marino, personaggio la cui prima apparizione risale al 1993 quando fu pubblicato ne il Giallo Mondadori in quanto vincitore del Premio Tedeschi. Gli appassionati del genere sapranno che si tratta del premio più importante per chi ama scrivere di gialli e/o ambisce a diventare scrittore di questo filone.
È nel 1937 la “Squadra Fognature” rinviene il cadavere sgozzato di una donna. Nello specifico si tratta di un comando ad hoc finalizzato ad occuparsi del sottosuolo e della sua perlustrazione. Ne 1940, a Cattolica, il commissario Marino – in segreto antifascista – riceve una dritta proprio da questi ex agenti. Quel che scoprirà lo porterà a perdere il sonno a causa di quel cadavere così ben descritto. La donna, infatti è collegata alla famiglia di Francone Brandimarzio, un imprenditore che ha fatto fortuna nelle Colonie d’Africa e che adesso si è ritirato nella cittadina romagnola insieme ad Attilio, il figlio, e a una bellissima ragazza eritrea (la bella abissina di cui al titolo).
Marino conosce della famiglia, è semplicemente intoccabile poiché mantiene i gerarchi corrotti con denaro non lecito. Smascherare l’assassino ed evitare che torni a mietere vittime non sarà per niente semplice. L’indagine assumerà, ancora, connotati di profonda gravità quando le vere idee politiche dell’agente rischieranno di essere scoperte.
Lucarelli si ripropone in libreria con un romanzo incasellato perfettamente nell’epoca. Il clima è magistralmente descritto esattamente come l’indagine. I personaggi sono ben delineati, l’arcano è ben sviluppato ed è capace di incuriosire il lettore che vuol conoscere della sua evoluzione.
Ciò che più spicca è inoltre l’umanità di Marino. In “Bell’abissina” egli arriva al lettore sia come investigatore che come uomo, un uomo che come tutti sbaglia, un uomo con le sue fragilità e debolezze.
«È uno bravo» disse indicandolo agli altri, «promosso e rimosso per aver fatto una cazzata che non piaceva al governo. Dicevano così, quello bravo che ha fatto una cazzata, anche se nessuno sapeva qual era.»
Ancora una volta Carlo Lucarelli si conferma un maestro nella narrazione, rende i protagonisti vividi e tangibili con mano, li unisce e fonda in un mondo da scoprire e amare. Al tutto si somma uno stile asciutto, rapido, pungente, asfittico, con le giuste descrizioni e con la giusta calibratura del romanzo storico. Rapido e magnetico. Il mio più sincero ringraziamento a chi mi ha fatto dono di questo scritto che altrimenti non so se avrei mai letto.
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Bill
«Questa volta, appena riuscì a sbloccare il lucchetto, ebbe la sensazione che dentro ci fosse qualcosa di vivo, ma nelle carbonaie ne aveva trovati tanti di cani che non avevano un posto decente dove sdraiarsi a dormire.»
“Piccole cose da nulla” è un lungo racconto a firma di Claire Keegan ambientato nei giorni di Natale. È un libro che ha l’obiettivo di portare il lettore a riflettere sul tempo che è stato, sull’immobilità del suo scorrere, sullo scandire di questo. Per buona parte, infatti, l’opera sembra non proseguire, sembra non prendere forma, sembra essere immobile e cristallizzata in una routine senza interruzioni.
Protagonista di queste pagine è Bill Furlong, gran lavoratore, che consegna con il camion legna, torba e carbone nelle case. È un duro lavoro, il suo, ma lo svolge con cura e dovizia, tra ansia e pensieri e conti che devono tornare anche se non tornano mai. Ha cinque figlie, Bill, deve pensare al loro futuro.
Siamo in Irlanda, è il1985. Tante sono le cose ad essere state precluse. Il passato è fatto di privazioni difficili da dimenticare, lui non ha mai conosciuto i genitori, è stato cresciuto da Wilson. La madre è scomparsa prematuramente, il padre non è mai stato conosciuto.
Il Natale è per Bill sinonimo di ricorrenza che si perpetra fin troppo senza novità, è come se le cose si fossero perpetrate senza ragione, senza un vero essere. Forse proprio a causa della mancanza di quei genitori mai avuti, mai incontrati, mai vissuti.
«Lei guardò la finestra, fece un respiro e cominciò a piangere, come fanno quelli che non sono abituati alla gentilezza quando se la trovano di fronte per la prima volta, o dopo molto tempo.»
Sarà quasi per caso che Bill verrà a scoprire di un mondo di cui fino a quel momento viveva di sentito dire. O meglio, viveva di quella omertà che spesso porta a non vedere. Si troverà presso un istituto frequentato da ragazze e gestito da suore, tante le crudeltà e le voci che girano su questo. Assisterà a un qualcosa che metterà in subbuglio il suo quieto vivere e a quel punto dovrà scegliere cosa fare. Continuare a vivere nell’omertà o fare qualcosa? Rispondere al grido d’aiuto di una donna anche se le conseguenze saranno gravi o tacere?
«Mentre proseguivano e incontravano altre persone che conosceva, si ritrovò a domandarsi che senso aveva essere vivi se non ci si aiutava l’un l’altro. Era possibile tirare avanti per anni, decenni, una vita intera senza avere per una volta il coraggio di andare contro le cose com’erano e continuare a dirsi cristiani, a guardarsi allo specchio?»
Quella proposta da Claire Keegan è una favola dai toni natalizi ma che al suo interno racchiude una denuncia, la denuncia verso le Magdalene Laundry di cui l’ultima in Irlanda è stata chiusa solo nel 1996. Non è dato conoscere il numero di donne, ragazze e bambine che vi siano state incarcerate e nemmeno del numero effettivo di bambini e neonati che vi sono passati o morti. La maggior parte degli atti relativi alle lavanderie sono andati persi, sono inaccessibili o, ancora, sono stati distrutti. Tante le atrocità e le ingiustizie commesse in questi istituti dubbi.
Una fiaba leggera, che concede speranza, che offre un barlume di luce davanti a quel che è un mondo fatto di atrocità. I temi trattati sono già noti e conosciuti, affrontati con tocco delicato ma nulla apportano di nuovo. Forse troppo breve e con una narrazione evocativa ma che non riesce a far breccia pienamente nel lettore. La sensazione è quella del deja-vu in buona parte privo di mordente. Il libro ha chiaramente un suo significato e contenuto ma non riesce a convincere pienamente.
«Possibile che la parte migliore di lui stesse infine venendo alla superficie, in tutto il suo sfolgorane splendore? Una qualche parte di lui, comunque la si potesse chiamare – ammesso che ci fosse un nome – stava impazzendo, lo sapeva. Il fatto era che l’avrebbe pagata, ma non una volta in tutta la sua vita così insignificante aveva provato una felicità paragonabile a questa, nemmeno quando gli avevano messo tra le braccia le sue figlie neonate e aveva sentito il loro pianto sano, ostinato.»
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Padre e figlio
«Sono diventato lui, quando rovistava per indagarmi. […] Sono immobile. Dagli occhi il bruciore scende nell’esofago e ai polmoni.»
Avvicinarsi a un titolo quale “Avere tutto” di Marco Missiroli significa avvicinarsi a uno scritto non immediato. Se ci si aspetta, cioè, una lettura che sopraggiunga sul momento e che resti sin dal principio, il titolo potrebbe deludere perché il suo essere si basa su una essenza intrinseca che si sviluppa poco alla volta e che porta il lettore a interrogarsi sul vivere e sulle ferite della vita, ferite che non sempre sono in grado di guarire e che per questo possono poi ripercuotersi su altri per effetto di una mancata cicatrizzazione.
L’opera ha un incedere in crescendo. Parte con un ritmo più lento, sembra non voler portare in alcun luogo, si sposta poi in un accelerando, poi in un rallentando ed ancora in un accelerando. I ricordi si fondono con il presente, si fa fatica a immaginare un futuro. Nando Pagliarani, vedovo di Caterina, è vittima “del fallimento della vita”. Ancora, è gravemente malato. Sandro, il figlio, riminese trapiantato in quel del milanese, è affetto da “sindrome del gioco d’azzardo”. Un male che si spiega e non si spiega ma che lo piega. Diversi ma eguali, padre e figlio. Fatti di silenzi, parole non dette, pugni fuori, sigarette fumate masticando gomme americane. Ed ancora silenzi in quel che è un legame imperfetto, frammentato, fatto di granelli di vita che si sono scomposti in un tempo dilatato per poi rincorrersi e rincorrere quelle domande a cui dare risposta in un tempo che adesso è diventato limitato. Scandito. Battuto. Circoscritto.
«Densi stasera. La concentrazione di più vita possibile nel tempo minore possibile.»
Questa densità del romanzo ne rende inconciliabile l’immediatezza, porta a interrogarsi ma può anche sfiancare. Le parole sono frammentate e frammentarie, volutamente caratterizzate in dialoghi ridotti al minimo e pensieri che vi si sostituiscono insieme ai ricordi, all’oggi. Riecheggiano nella mente del lettore che li immagina, che li delinea. Non vi sono particolari perché i particolari sono lasciati alla trama e alla curiosità che ne emerge. Ne emergono ancora i tratti più bui, più difficili e oscuri dell’anima. Ma ci si può salvare? Si può, semplicemente, essere salvati?
Un libro che o si ama, o si odia. O trattiene o respinge. Senza vie di mezzo. Con un suo potenziale, con un suo essere riuscito, con un suo non essere riuscito.
«Vivere secondo la matematica della vincita e della perdita: tutto è addizione o sottrazione. Abbuffate e digiuni.
Perché tutto, è avere cosa? O è avere niente? Tutto è languore. E perdono.»
Indicazioni utili
- sì
- no
La Tasmania come salvezza futura
«Quando un corpo oltrepassa l’orizzonte degli eventi, quel corpo scompare, non se ne sa più niente, e tutto quello che gli accade in seguito è un mistero inaccessibile. Quel corpo potrebbe trovarsi dall’altra parte dell’orizzonte deformato o smembrato, oppure trasformato in qualcos’altro, magari in pura luce.»
Parlare di “Tasmania” di Paolo Giordano significa prima di tutto fare un viaggio all’interno della mente del narratore stesso perché l’opera di cui si va trattando è un componimento che è a metà tra il saggio e l’autobiografia. L’autore parte da se stesso e dal suo vivere, più precisamente da un momento complesso della sua vita, un momento che lo vede non poter diventare padre. Da qui si sposta e il focus si converte su una prospettiva diametralmente diversa perché dalla ricerca del sé l’attenzione viene focalizzata sull’ambiente circostante, su quel che è stato e sul quel che sarà, sulla più grande paura del nostro tempo; la bomba atomica. Giordano, in particolare, inizia a narrare della sua Lorenza e del suo rapporto con questa donna più grande di lui e con già un figlio al seguito. Ciò nella realtà riporta, sempre tra assonanze tra il vero e non vero, alla vita di Giordano legato sentimentalmente a Raffaella Lops, incontrata tra il 2006/2007 alla scuola Holden di Torino e di poi sua agente, editor e moglie e anche in questo caso più grande di lui. Il confine tra verità e finzione è sottile ma capace di far riflettere chi legge. Partendo da questa prospettiva coniugale, che incrina il legame tra il duo, Giordano si sposta in Francia, incontra Novelli e da qui si sofferma sul tema climatico. Osserva le conseguenze delle nostre azioni tra lo ieri e l’oggi, si propone di guardare al futuro e di interrogarsi su quel che sono gli scenari più prospettabili laddove le conseguenze non siano arginate, ed ancora, torna indietro. Torna agli anni di Hiroshima e Nagasaki, torna a Fermi, a Marie Curie, torna ai grandi della Storia che hanno costruito la bomba atomica con il pensiero che sì, l’arma sarebbe esistita, ma probabilmente mai utilizzata. Torna agli anni delle radiazioni, ascolta e si interroga su quelle che sono le introspezioni ed anche le testimonianze dei superstiti. Il tutto suddividendo l’opera di due parti, ciascuna portatrice di un diverso timore e intrisa di quella che è la più pura e semplice fragilità dell’uomo.
«Gli ho chiesto in che senso occuparsi di buchi neri non gli facesse bene e lui, nel rispondere, ha evitato attentamente di incrociare il mio sguardo: Secondo lei, prof, è possibile che una materia di studio prenda il sopravvento su di te?»
Tante le voci narranti che si affiancano a Paolo nella narrazione. Da Lorenza, la moglie che gli porta in eredità Eugenio e che sarà colei che sempre gli starà accanto anche nei momenti di silenzio, anche durante le incomprensioni, anche quando lui dovrà subire un’operazione, essendo questa una figura forte anche nelle proprie paure, a Novelli, radiato dall’Università di fisica per le sue lotte di parità di genere e amante delle nuvole, a Giulio, amico del cuore che vive a Parigi e con un rapporto turbolento con la ex moglie e un figlio piccolo, Adriano, altrettanto problematico perché destinatario dei litigi dei genitori, a Curzia, giornalista conosciuta in un’occasione alternativa con Novelli con cui ha un rapporto altalenante ma che anche lo invidia per la posizione che lo scrittore ricopre, a Christian e ai suoi rami. In quest’ultima figura è racchiusa una delle personalità più interessante del componimento, un giovane uomo che si propone al vivere con tutte le sue paure, insicurezze e timori.
Pensieri e vite che si incontrano tra loro ma che non offuscano mai il pensiero della bomba che sempre ricompare prepotentemente nel pensiero di Giordano. Non a caso l’opera così viene a concludersi, con Paolo che si trova in Giappone con Giulio proprio nei giorni della commemorazione annuale del lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Un ricordare che porta alla conclusione per la quale “scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere”.
Cos’è davvero la Tasmania? Si tratta di un’isola sita a Sud dell’Australia in uno Stato democratico, con riserve d’acqua dolce e che non ospita predatori. Perché ci sarà da difendersi e quello è un luogo che è “facile” da difendere. E quale miglior luogo ove rifugiarsi e sperare di vivere e sopravvivere in caso di catastrofe nucleare?
Giordano ha scritto un romanzo/saggio stratificato ma non per tutti. Molto è dato da un pensiero che scorre, un flusso di coscienza senza sosta che trattiene ma al contempo allontana. L’opera si apre su riflessioni molteplici che vanno dalla Storia, agli errori compiuti, all’io, alla ricerca del proprio posto in un mondo che sembra essere ormai in dirittura d’arrivo per l’autodistruzione, alle problematiche climatiche, alle radiazioni, a una apocalisse nucleare, alla fisica teorica e così facendo si erge a saggio/romanzo che tratta delle paure del nostro secolo e in particolare sulle bombe atomiche a cui forse riuscire a fuggire rifugiandosi su un’isola irraggiungibile ma forse unica salvezza. Esiste un futuro? Come attenderlo? Cosa aspettarci? A cosa affidarci? L’uomo sarà sufficientemente saggio?
«Nella trasparenza del vetro ho visto la camera di Christian, ho visto le radici dell’ailanto insinuarsi da sotto il pavimento, rompere le piastrelle con i loro nodi in più punti; ho visto i germogli sbocciare e allungarsi, diventare giunchi elastici, poi bucare il materasso e indurirsi sempre di più mentre il letto si riempiva di foglie. Adesso la vegetazione copriva anche le pareti e il soffitto, la stanza era ormai una foresta, le fronde erano scosse ritmicamente dalla musica che saliva dal Mirò, e Christian si trovava lì in mezzo, imprigionato dai rami, dalle specie invasive, dai pensieri invasivi. Non c’era modo di diserbare ormai, poteva solo sradicare. L’ho visto afferrare il primo oggetto a portata, una forchetta lasciata lì accanto, e difendersi con quella. È possibile, prof? […] Secondo lei, prof, è possibile che una materia di studio prenda il sopravvento su di te?»
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Patrick
«Mi portano davanti al plotone di esecuzione. Il tempo si dilata, ogni secondo dura un secolo più del precedente. Ho ventotto anni.
Di fronte a me, la morte ha la faccia di dodici fucilieri. La consuetudine vuole che una delle armi sia caricata salve. Così che ognuno possa ritenersi innocente dell’omicidio che sta per essere perpetrato. Dubito che oggi quella tradizione sia stata rispettata. Nessuno di questi uomini sembra aver bisogno di una possibilità di innocenza.»
Amélie Nothomb torna in libreria con la sua consueta metodicità proponendo ai suoi lettori il suo trentesimo lavoro. La belga è nota per essere una scrittrice eclettica e fantasiosa ma anche molto originale nel suo scrivere e narrare. Non manca mai di toccare tematiche sottili quanto di far riflettere tra le righe il lettore.
Tra queste pagine a far da protagonista è Patrick Nothomb, padre di Amélie, venuto a mancare a causa della pandemia e quindi del Covid. Si può dire che questo sia un omaggio vero e proprio alla figura del padre, una vita che viene ricostruita con cura, una storia che si plasma e che si muove tra dramma, ironia, sagacia e perspicacia. Ecco allora che prende forma il racconto.
Patrick è un ragazzino che desidera solo l’amore della madre ma è anche un diplomatico di successo, tra i tanti grandi traguardi il riuscire a salvare 1.500 ostaggi in Congo dopo lunghe trattative. Ma il padre non era e non è stato solo questo. È un uomo che ha visto la vita, che ha visto la morte. Un uomo che nel 1964 si trova davanti al plotone d’esecuzione e vede scorrere tutto il suo vivere innanzi ai suoi occhi.
La Nothomb passerà poi alla figura di Pierre, il nonno ed ancora al concetto di educazione che non è lo stesso che possiamo ravvisare in altri luoghi e famiglie. Come tanti e come tutti Patrick sbaglierà, cadrà, si rialzerà, la strada che lo porterà alla carriera diplomatica sarà ben particolare ma intrisa di verità. Perché alla fine anche il negoziare ha un suo perché e un suo svilupparsi tra retroscena, compromessi, giustizie a metà e bicchieri tanto pieni quanto mezzi vuoti.
«Sopravvivere all’infanzia restava un’esperienza darwiniana per i figli di Pierre Nothomb.»
Narrato in prima persona, “Primo sangue” è uno scritto che rispetta e si conforma a tutti i canoni e le impostazioni proprie della narratrice. Non supera le 128 pagine, è sviluppato in modo fluente, non mancano tematiche ricorrenti, non manca l’introspezione e la memoria.
Il risultato sarà quello di uno scritto godibile, perfettamente nothombiano, sufficientemente distaccato ma anche un omaggio in piena regola.
«Nonostante il bagno di sangue, Patrick Nothomb non svenne. Mai sottovalutare l’istinto di sopravvivenza. Come nove ostaggi su dieci, fu annoverato tra i superstiti.»
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Un omaggio dalle tinte francesi
«Qual è secondo voi il miglior inizio possibile per un romanzo?” “ Un morto!” risponde senza esitare la comandante Faréyene. “Ci sei andata vicina” esclama contento il professore di scrittura (…) Meglio di un cadavere è nessun cadavere! Solo una sparizione.»
Michel Bussi, scrittore francese eclettico e dal gran talento narrativo, torna in libreria ancora una volta con un romanzo molto originale edito per Edizioni E/O e che riprende in mano niente meno che un famoso giallo di Agatha Christie. Il tutto tra cibi esotici, veleni, luoghi, cimiteri abbandonati, inseguimenti nella giungla, testamenti e chi più ne ha, più ne metta.
Caratteristica pregnante del giallista francese è la capacità di ambientare romanzi gialli particolarissimi in luoghi altrettanto variegati, il tutto mixando una trama avvincente con una buona dose di suspense.
Siamo nelle isole Marchesi, Hiva Oa, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico. È qui, luogo ove è venuto a mancare Paul Gauguin, che si svolge una strana e insolita gara di scrittura. Pierre Yves François (PYF) indice qui un concorso ove cinque aspiranti scrittrici si dedicheranno alla scrittura al fine di redigere il loro romanzo e vedere decretare un vincitore. La vincitrice verrà pubblicata e otterrà la fama e la celebrità auspicata. Sarà nella pensione Au Soleil Redouté che egli organizzerà il laboratorio di scrittura a cui partecipano le cinque donne: Clémence, trentenne e sportiva, sognatrice, immaginifica ma anche espansiva, Eloise, coetanea, malinconica, diametralmente opposta e introversa, Faréyne, quarantenne, comandante di commissariato a Parigi e fissata con lo scrivere, accompagnata dal marito Yann, capitano di gendarmeria, Marie Ambre, quarantenne, benestante, tendente al bere, accompagnata dalla figlia sedicenne Maima e Martine, settantenne, blogger di grande successo, amante della scrittura e oltre quarantamila follower.
Tuttavia la vita è imprevedibile e molto spesso non va come vorremmo. Lo stesso sarà per Marie-Ambre, Clémence, Eloise, Martine, Farèyne, le cinque prescelte, che si ritroveranno davanti a indagini che le condurranno sino a un epilogo che porterà alla rivelazione di una inaspettata realtà. Eh sì, perché a distanza di poche ore dal loro arrivo PYF sparirà nel nulla, non lasciando nessuna traccia se non i suoi vestiti piegati su uno scoglio e un sasso con degli strani simboli tatuati. Ed ancora, quale sarà il vero significato delle 5 statue scolpite che verranno rinvenute nei pressi dell’hotel dove soggiornano le cinque aspiranti scrittrici? La sparizione dell’uomo sarà solo l’inizio di una serie di misteri che si susseguiranno tra scomparse ma anche misteriose morti.
«Le Marchesi si odiano o si amano, disgustano o incantano. Alcuni le considerano uno degli ultimi paradisi terrestri, altri le vedono come il giardino maledetto del Tiaporo, il diavolo della Polinesia.»
Tra tatuaggi e tatuatori, statue votive e tiki che rimandano a riti misteriosi, ciottoli abbandonati e testamenti, il tutto per una perfetta e ben riuscita parodia de “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie. A far da filo conduttore il desiderio di amare, essere amati e il successo letterario, un successo talmente ambito da andare oltre ogni prezzo e scrupolo.
Tra le pecche dell’opera vi è quella di una trama che nel suo voler essere più complessa e misteriosa rischia di finire con l’essere un poco più farraginosa da seguire tanto da far perdere di intensità e ritmo alla narrazione. A ciò si aggiunga anche l’uso di termini della cultura locale che non sempre rendono agevole la lettura.
Tra i pregi il chiaro ed inequivocabile omaggio a una delle scrittrici regine del giallo più affascinanti di sempre. Una di quelle scrittrici che non ci si stanca mai di leggere e che ogni volta che vengono lette riservano sorprese, colpi di scena e riflessioni.
Un libro godibile, all’altezza delle aspettative anche se non tra i migliori dell’autore a causa del suo tendere a perdersi in una densità talvolta controproducente.
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Tra mistero, musica e giallo
In un “Colpo al cuore” Piergiorgio Pulixi dona ai suoi lettori uno scritto composto da tre voci narranti: il vicequestore Vito Strega e le due ispettrici, già conosciute ne “L’isola delle anime”, Mara Rais, dura, dai modi bruschi e impulsiva, ed Eva Croce, dall’acutezza ben mixata al riserbo. Le due donne, in particolare, di origini diverse, l’una milanese e l’altra sarda, hanno tra queste pagine un ruolo ancora più coinvolgente e fatto di emozioni che diventano ancora più tangibili nello scorrimento di vicende che le mettono a dura prova.
Vito Strega, dal suo canto, è un uomo affascinante e dalla corporatura possente e da sempre attratto anche dal male. Caratteristiche, queste, che non lo rendono inosservato al passaggio e che lo portano anche al non riuscire a mimetizzare la sua brillantezza nell’investigazione. Dal passato tormentato, criminologo, da vicende personali che non sembrano volerlo lasciare in pace, da un lavoro che lo spreme fino al midollo per quanto sia acuto e perspicace, è una figura emotiva, dal suo canto fragile, preda e vittima di se stessa.
Lo stesso relazionarsi con il mondo di “fuori” è per lui difficoltoso. Il suo loft è il luogo in cui ritirarsi e star bene, lui, i suoi spazi, la gatta nera decisamente gelosa ma anche rispettosa degli spazi, non invadente e a sua volta acuta. Le confidenze sono invece riservate a una ragazzina, adolescente, che altro non è che una vicina.
“Occhio per occhio, dente per dente”. È questa la filosofia che muove il serial killer ideato da Piergiorgio Pulixi, un serial killer molto particolare che ha deciso di riparare ai torti della giustizia. Se non ci pensa la legge a risolvere e condannare il colpevole individuato, sopraggiunge lui. Lui e la sua maschera dai tratti demoniaci, lui e quel video con cui rende il destinatario egli stesso complice. Perché con votazioni anonime il destinatario esprimere il suo giudizio, nessuno lo saprà ma alla fine il risultato finale sarà una punizione e una tortura senza possibilità d’appello per il colpevole. Ma è concepibile individuare una vendetta alla Dantès?
Il tutto tra la Sardegna e Milano, in un perfetto mixarsi di colpi di scena e situazioni al limite. Al tutto si somma uno stile narrativo fluido, ben ritmato, una trama ben costruita e solida che coinvolge e trattiene.
Nella creazione del pathos, nel coinvolgimento emotivo, nella denuncia verso retroscena di un vivere fatto di apparenze e di una giustizia terrena che spesso è disattesa e lascia posto ed adito a una giustizia individuale e crudele dell’uomo detentore del presunto vero e giusto.
Un libro che gioca anche con la musica, basti pensare al titolo omonimo di Mina, che ben trattiene e incuriosisce, con qualche cliché ma nel complesso piacevole.
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Cagliari tra mistero e omicidi irrisolti
«Non appena aveva messo piede in quella terra ancestrale, circondata dal mare, il canto del male si era però attenuato, come se la natura stessa se ne fosse fatta carico per lei soffocando la propria melodia.»
Purtroppo non tutti i crimini riescono a trovare una loro soluzione. Al contrario. Ci sono casi, e non sono pochi, che per una ragione o per un’altra, restano privi di colpevole e finiscono con il diventare dei veri e propri cold case. Inchieste che non trovano soluzione, che lasciano le persone care senza un perché, che mettono a dura prova i migliori detective del settore che per quante indagini facciano, non trovano minimamente soluzione a quell’enigma che li ha accompagnati. Tuttavia, alcuni casi, possono anche diventare un’ossessione e questo lo scopriranno molto bene, e anche troppo presto, le ispettrici Mara Rais ed Eva Croce. Quasi per caso indagano su misteriosi omicidi di giovani donne e rimasti irrisolti. Ma se quei casi non fossero poi così relegati al passato? Se in realtà quei casi fossero presente? Se fossero tornati a essere vivi? Se il killer fosse tornato a mietere vittime? Se non avesse mai smesso?
L’una milanese, l’altra cagliaritana, arrivano per strade diverse alla sezione “delitti insoluti” della questura di Cagliari. Entrambe si portano dietro un dolore da elaborare e da espiare, entrambe devono maturarlo e farlo proprio. Ma Eva e Mara sono chiamate, in quella Sardegna evocativa e profonda, a investigare sulla morte di Dolores Murgia, donna brutalmente e barbaramente uccisa che viene ritrovata in un sito nuragico. Il crimine è legato al culto della Dea Madre e questo introduce per il lettore un binario parallelo che rimanda a leggenda, tradizione, mito. Accanto alle figure femminili vi è l’ispettore capo Moreno Barrali, in pensione. Due gli omicidi irrisolti che si porta dietro come una spada di Damocle e che ne rappresentano la più grande ossessione.
«Il male non sanato genera altro male, in una spirale infinita.»
A una trama studiata e cadenzata si somma uno stile narrativo caratterizzato da un alternarsi di voci narranti che si snodano tra miti e leggende che ben si coniugano con quello che è il noir e il crimine da risolvere. Un binario parallelo interessante anche se alle volte tende ad essere eccessivo per il lettore tanto da far perdere, in parte, di interesse e pathos.
Il risultato è quello di un thriller elegante, abbastanza solido che sa omaggiare la terra d’origine dello scrittore stesso. I personaggi sono a loro volta ben delineati e credibili per chi legge che non fatica a lasciarsi trasportare. L’attenzione è rivolta in particolare anche a quel che riguarda la scelta stilistica del gergo dialettale, mai volgare ma sempre molto ricercato. Ampio spazio è lasciato alla sociologia e all’antropologia di questa terra che spesso oscilla tra presente e passato. Forse non originalissima la trama e presenti i dovuti cliché, ma nel complesso è uno scritto godibile per gli amanti del genere.
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Serena Martini
«Se vi doveste trovare, una notte d’autunno mentre piove, completamente nudi ai comandi di un aereo di linea che sta sorvolando Ponte San Giacomo, e si dovessero spegnere d’improvviso entrambi i motori, il mio consiglio è di non lasciarvi prendere dal panico. In primo luogo perché Ponte San Giacomo, il posto dove vivo, è un paese per modo di dire: in realtà è una strada in mezzo a una pianura, e le uniche case sorgono accanto alla strada stessa, per cui se siete esperti non avrete nessun problema a trovare un campo o un altro spiazzo erboso abbastanza vasto per atterrare senza fare danni.
In secondo luogo., anche se non sapete pilotare un aereo non c’è problema, perché quello che vi ho descritto ovviamente è solo un sogno. Per essere precisi, è il sogno che ho fatto stanotte.»
Serena Martini, di anni quarantacinque, non è retribuita per il lavoro che costantemente svolge. Ha due figli, Pietro, tredicenne che studia violoncello e Martino, di anni dieci, che si allena con lo judo. Il marito con cui è coniugata da ben due decenni, insegna all’Università ed è ordinario di Intelligenza Artificiale e Informatica. Serena è laureata ed è esperta di chimica sopramolecolare dei metalli, ha un ottimo olfatto e si barcamena tra la scelta di un lavoro a tempo pieno o meno viste le varie incombenze. Ed è proprio in una domenica come tante che ella scopre per caso un cadavere. Scoperta, questa, che cambierà particolarmente le carte in tavola.
Come di consueto Serena si diletta nella camminata con Giulia e Debora. Sulla strada di casa si accorge di aver perso le chiavi e decide di tornare indietro per vedere se le rinviene sullo stradone. Come spesso accade in questi frangenti, la vescica fa i capricci e lo stimolo del fare la pipì non è controllabile. Si inoltra appena appena nel boschetto ed è qui che vede il corpo di un uomo senza vita. Due gli odori che percepisce: polvere da sparo e acidemia isovalerica. Ma chi potrebbe aver sparato al cinquantaquattrenne Luigi Caroselli, professore pro tempore della cattedra musicale della scuola privata Della Casa di Procura Missionaria? Un uomo solo, appartato, senza famiglia, amante della natura, colto, clavicembalista ma anche decisamente un discreto rompiscatole. È un personaggio, inoltre, noto per il contesto sociale in quanto la scuola in questione è l’unica del posto ed è frequentata anche dai figli di Serena stessa.
Del caso viene investita la gigantessa – un metro e novantuno centimetri dai capelli biondi e gli occhi grigi orlati di verde, non sposata, non madre, non fidanzata, Ana Corinna Stelea. Con il cipiglio e rigore giuridico che le appartiene arriverà ad intendersi alla perfezione con Serena. Sarà sufficiente superare quelle prime e piccole diffidenze che accompagnano l’incontro con una persona che ancora non siamo riusciti a inquadrare nei suoi connotati.
«Sapete come si allena l’olfatto? È una cosa curiosa, lo si fa sfruttando il vero superpotere del cervello umano: la capacità di astrazione. Di immaginarti cose che non ci sono.»
Samantha Bruzzone, chimica, e Marco Malvaldi, chimico, sposati da due decenni, appassionati di gialli e delle parole, scrivono e firmano a quattro mani “Chi si ferma è perduto”, opera che conduce i lettori tra le maglie di una nuova ed eclettica protagonista. È il primo loro romanzo a quattro mani ma certamente non sarà l’ultimo. Giocano tra fiction e non fiction, tra letteratura e cinema, tra chimica e giallo. Anche la voce narrante prevalentemente è nella prima persona di Serena ma con intervalli alla terza nei capitoli su Corinna.
Non mancano acrobazie, digressioni, lati comici e paradossali ma anche riflessioni sottese. Perché la vita toglie e la vita offre, la vita fa cadere ma ti invita anche a rialzare. Non mancano le riflessioni sulla famiglia, il legame con i figli ed anche le pillole scientifiche che sanno anche fondersi con la cucina.
Il risultato è quello di un romanzo gradevole, non particolarmente impegnativo ma al tempo stesso curioso. Il lettore è trattenuto dalla verve ironica e pungente, dal giallo ma anche dalla conoscenza di questo nuovo volto delle opere del neo duo.
«Ecco, in quel momento avevo esattamente lo stesso problema. Avevo sentito quell’odore, forte e persistente, in un punto dove non doveva esserci? Sì. Significava quello che mi ero messa in testa? Boh. A quel punto lì, non lo sapevo più. Anzi, man mano che camminavo, me ne convincevo sempre meno.»
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Kaweka e Lita
Sono passati già tre anni da quando Falcones deliziò il suo pubblico in libreria con un’opera corposa e stratificata quale “Il Pittore di anime”. Uno scritto, questo, capace di trascinare il lettore tra colpi di scena e fatti storici realmente accaduti che difficilmente deludono le aspettative e che anzi sono capaci di trattenere con il fiato sospeso. Ma Falcones non si ferma e in questo 2022 torna in libreria con un altro romanzo storico intrigante e interessante. Questa volta l’autore si sposta e ci riporta in un continente diverso e in un’epoca ancora più diversa e remota. È infatti Cuba il luogo di destinazione di quella nave carica di anime e volti in quel 1856. Quando la nave attracca presenta a bordo un carico non fatto di merci quanto di donne e bambini considerati tali. Il peggio sembra essere ormai finito dopo un viaggio estenuante e fatto di stenti, pensano, ma si sbagliano di grosso e ben presto lo scopriranno e a caro prezzo.
«Lei stessa capì che quel momento non si sarebbe affatto concluso con il dolore delle frustate: comportava anche il superamento di una tappa nella vita di una ragazzina innocente che come tutte loro era capace di sorridere di fronte alle disgrazie, di giocare nello stesso posto dove poco prima un nero era crollato esausto. Mamma Ambrosia si era presa cura di Kaweka cercando di fare per lei ciò che facevano le altre madri con le proprie figlie.»
Madri anno 2007. Maria Regla Blasco, Reglita da bambina e ora Lita, è una giovane donna finita a lavorare per la banca Santadoma per avere un’entrata stabile per sé ma anche per la madre sempre più prossima alla pensione. Tuttavia, ella ama l’arte, la cultura, le lettere, è specializzata in queste e mai avrebbe pensato di far altro. La madre, a sua volta, è domestica sempre i Santadoma ed è tramite la conoscenza diretta che anche la figlia può “usufruire” dei benefici lavorativi di cui diventa destinataria ma anche debitrice.
Tornando indietro nei secoli conosciamo anche Kaweka che con la sorellina poi morta fa parte di quel carico scaricato sulle spiagge cubane. Ad attendere Kaweka ci sono anni di privazioni, umiliazioni, violenze fisiche e psicologiche, soprusi. Ha difficoltà ad ambientarsi, sente il peso di questo mondo a lei sconosciuto di cui non conosce la lingua ma nemmeno gli usi e le consuetudini, subito si ferisce nelle piantagioni di canna da zucchero, subito viene comprata e sempre in tempi rapidi scopre e realizza di avere un legame con le divinità. Queste prendono possesso di lei che ha anche doti e capacità curative, sfidano l’uomo bianco per mezzo del loro possedere. Il corpo della donna è punito per l’impudenza, non mancano le frustate, non mancano le punizioni e le violenze da parte di chi pensa di poterla possedere. Ciò la rende una diversa agli occhi degli stessi schiavi con cui divide i luoghi e i tempi dello scandirsi della sua vita.
Torniamo al presente più prossimo e osserviamo come per Lita sia difficile accettare che la madre continui ad essere trattata come l’ultima ruota del carro ma anche come per lei sia difficile vivere in quel contesto sociale fatto di coordinate che non le appartengono. Tra Lita e Kaweka esiste, inoltre, un legame. Sarà un viaggio a Cuba a portare Lita a riscoprire della sua storia e dei segreti della sua famiglia. Segreti che la riporteranno indietro e le faranno riscoprire anche se stessa.
«Lita danzò, trascinata da una forza incontrollabile, alternando, come la giovane che l’aveva preceduta, un ritmo frenetico a movenze più delicate. Sentiva il mare vicino a sé e le onde lambivano il suo spirito, ma, a differenza dell’altra ballerina, Lita cantava… E lo faceva con una voce che non era la sua…»
Pagina dopo pagina Falcones ricostruisce un puzzle fatto di mille sfaccettature e mille volti. È un romanzo solido e stratificato “Schiava della libertà”, un romanzo ricco di temi e riflessioni sottese. Al contempo gli stessi personaggi sono vividi e ben caratterizzati, il lettore li percepisce quali realistici e non fatica a farne proprie le aspettative, le paure, le ingiustizie, i desideri. Ad avvalorare il tutto vi è uno stile narrativo curato, minuzioso, arricchito da ricerche e ricostruzioni storiche. Un libro che sa far riflettere sul concetto di libertà, un qualcosa che oggi tendiamo a dare troppo spesso per dovuto e/o per scontato quando in realtà non lo è ed è frutto di lotte, ribellioni, sacrifici, contestazioni e tanto altro ancora da parte di chi, in passato, è dovuto sottostare alle angherie dei più forti per essere nato nella condizione sociale “sbagliata” o nel paese “sbagliato”.
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Aleksandr Il’ic Rostov
«Il conte non aveva un temperamento vendicativo; non aveva l'immaginazione per epopee; e di certo non aveva l'ego di sognare imperi restaurati.
No. Lui era per il dominio della sua situazione e che sarebbe stato un diverso tipo del tutto diverso di prigioniero: un anglicano lavato a secco. Come Robinson Crusoe incagliato sull'isola di disperazione, il conte avrebbe mantenuto la sua determinazione impegnandosi per gli affari dagli aspetti pratici.
Dopo aver dispensato con i sogni di scoperta rapida, i Crusoe di tutto il mondo cercano riparo e una fonte di acqua dolce; insegnano loro a fare fuoco con la selce; studiano la topografia della loro isola, il suo clima, la sua flora e fauna, per tutto il tempo mantenendo i loro occhi addestrati per le vele all'orizzonte e le impronte sulla sabbia.»
Aleksandr Il’ic Rostov, decorato con l’Ordine di Sant’Andrea, conte, membro del Jockey Club, maestro di caccia, è scortato sino alla suite 317 del Grand Hotel Metropol passando per i cancelli del Cremlino. È il 1922 ed è condannato, il conte. Condannato dal Comitato d’Emergenza del Commissariato del Popolo, agli arresti domiciliari per essersi “arreso alla corruzione della classe sociale” di appartenenza. Non vi è possibilità d’appello, al contempo, se mai dovesse uscire da quelle mura sarà fucilato all’istante. Un metro e novanta, baffi incerati, portamento fiero, un uomo colto, anfitrione, decide di governare le circostanze ma senza arrendersi a questo colpo basso della fortuna a lui ritorta. E da ogni situazione può sempre essere tratto un beneficio, d’altra parte il Metropol è un luogo sfarzoso, inaugurato nel 1905, intriso di art déco, pieno di ristoranti e luoghi lussuosi. Ma può un uomo come Rostov abituato a viaggiare per il mondo e muoversi “accontentarsi” di “quattro mura”? Le sue giornate scorrono tra lettura, riflessioni e cene, sa che non è da gentiluomini avere un lavoro ma comunque ciò gli pesa. Mai lo avrebbe pensato. Quando incontrerà la ragazzina che ama il giallo, Nina Kulinova, che vive al Metropol, scoprirà che è possibile espandere le mura del luogo verso l’esterno. Si farà carico dell’uomo la giovane, lo educherà al mondo dell’albergo e dei personaggi che lo popolano.
«A volte, tutti dicono qualcosa perché sono tutti» mise in chiaro Nina. «Ma perché si dovrebbe prestare ascolto a tutti? Sono stati tutti a scrivere l'Odissea? Sono stati tutti a scrivere l'Eneide?» Scosse il capo, per poi concludere, in modo definitivo: «Non riesco a vedere alcuna differenza tra tutti e nessuno.»
Ci sono autori che quando scoperti difficilmente si fanno e lasciano dimenticare. Ed è quel che succede con Towles, romanziere amante del Novecento, che tra queste pagine ci conduce a Mosca con un personaggio colto e intelligente, un camaleonte che sa condurre le scene e che tra queste pagine vive prendendo in mano le proprie redini e il proprio destino senza abbattersi anche se abbattersi potrebbe essere la cosa più logica e semplice da fare.
E mentre l’uomo è chiuso in queste stanze, fuori prende sempre più campo Stalin con la sua politica. I rapporti con i paesi occidentali vengono sempre maggiormente meno, la nuova realtà imposta chiusa, dura e restrittiva prende sempre più forza. La sua vita di “uomo più fortunato del mondo” si costruisce attorno ai personaggi che qui incontra, prima Sofia, madre di Nina, poi Emile, capo chef del ristorante Boyasrky, Andrey, maître del ristorante, Marina, sarta che quasi diventerà una figura materna per Rostov, Vasily, il portiere, Anna, Osip, Mishka e tanti tanti altri ancora perché il gruppo diventa come una vera e propria famiglia. Tanti volti, tanti personaggi, tante voci. Voci che costruiscono una storia ricca di emozioni e dove quel che viene maggiormente insegnato è il come reagire alle situazioni e circostanze del nostro vivere. Perché è con la forza della mente che possiamo vivere e sopravvivere a quella che è la gabbia fisica in cui ci troviamo.
Rostov riesce perfettamente in questo. Potrebbe abbattersi, lasciarsi andare, lasciarsi prendere dallo sconforto e invece reagisce cercando di trovare un lato positivo a quella “gabbia dorata” in cui si trova. Se prima il Conte doveva gestire beni materiali e patrimoni, adesso deve gestire se stesso in quello che lo spazio ristretto di una camera d’albergo ritrovandosi senza nulla, ritrovandosi ad essere un “nessuno” per la società circostante.
Nina, bambina di nove anni, avrà il merito di trascinarlo in quelli che sono i retroscena dell’albergo. Ed ecco che con la sua forza prorompente la prospettiva di Rostov cambia ancora. Perché è la prospettiva con cui Nina stessa lo guarda ad essere diversa. Per lei il Conte non è un aristocratico pre-rivoluzione bolscevica quanto un uomo che è fatto di debolezze che deve vincere, che non è capace di affrontare argomenti e certe situazioni, che si dimostra fragile in primo luogo proprio verso questo passato.
Così come Nina lo guarderà con occhi nuovi, sarà il Conte ad osservare il mondo esterno con occhi diversi e nuovi, con una maggiore sensibilità. Al tutto si somma uno stile narrativo preciso, minuzioso, erudito e una prosa ricercata che accompagna e conduce nel perfetto ritmo narrativo che gli è proprio. La dimensione spazio-temporale si dilata anche se le vicende si svolgono nello stesso luogo, questo è un altro dei grandi meriti del romanziere.
“Un gentiluomo a Mosca” è un libro stratificato, fatto di tanti elementi, composto da tanti tasselli, intriso di messaggi e una morale solida su cui riflettere. È un componimento che ben sa coniugare la commedia, l’ironia, la riflessione, la politica, l’edonismo con forza e dovizia. Al tutto si aggiungono personaggi eterogenei e tutti ben delineati da uno stile narrativo limpido, cristallino, magnetico e che incanta.
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Una giustizia possibile o non possibile?
«E poi la gran trovata di mettere il punto dopo “ho trovato”: “ho trovato che la vita non vale la pena di essere vissuta”, “ho trovato”, “ho trovato”: il tutto e il niente»
Una storia semplice, o forse una storia affatto semplice. Una storia semplice perché specchio di una realtà che ci appartiene e che è diventata fin troppo quotidianità comune, una storia semplice che semplice non è perché narra di un giallo intricato che, se vogliamo, non trova nemmeno davvero soluzione. Una storia semplice che viene narrata da un narratore mai semplice e sempre molto molto particolare e minuzioso nel suo scrivere. Uno scrittore che sa rendere apparentemente semplice un fatto affatto tale.
Sciascia scrive questo breve scritto nel 1989, ci trasporta in una realtà con molte criticità e nello specifico in un ambiente poliziesco, una caserma, che riceve una chiamata da parte di un diplomatico assente da molto tempo nella cittadina. Rientrato nella tenuta ha trovato qualcosa e chiede l’intervento della polizia. Il commissario declina e prende alla leggera la richiesta considerandola quale quella di un mitomane che quasi si sia dedicato a fare uno scherzo alle autorità e invita il brigadiere a farvi una capatina il giorno successivo. Sarà proprio in queste circostanze che il brigadiere scoprirà quello che è il corpo di un uomo senza vita e quella frase “ho trovato” seguita da un punto fermo. Da qui i sospetti. All’inizio ci sarà chi punterà sull’ipotesi di un suicidio mentre costui sin da subito su un omicidio. Tanti i dubbi e le nefandezze che si celano dietro “una trama semplice” che finisce con il concludersi con un “finale aperto”. In perfetto parallelismo e binomio in stile Sciascia.
Lo stile è asciutto, la trama non scontata, la vicenda appassionante. Al contempo vi è amarezza e malinconia, tra queste pagine. Sembra che la conditio sine qua non quella sia e quella resti in ogni caso voluto o fortuito del nostro vivere, quasi come se quel malessere fosse radicato nella nostra società senza possibilità d’appello. Emblematico l’incipit di partenza nonché la citazione che ne apre le pagine.
«Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia.» Durrematt, Giustizia
Ultimo suo scritto, forse, ma certamente da non dimenticare nonostante l’asciutezza del medesimo. Un gioco di specchi e intrecci che non delude le aspettative e invita alla riflessione il lettore.
«L’atavico istinto contadino a diffidare, a vigilare, a sospettare, a prevedere il peggio e a riconoscerlo gli si era risvegliato fino al parossismo.»
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Una commedia romantica in perfetto stile Barreau
«Ma le cose non finiscono mai davvero, cambiano e basta. Ecco perché le dico di essere ottimista e di guardare sempre avanti.»
Joséphine Beauregars, trentuno anni, ama il suo lavoro di traduttrice anche se questo, certamente, non le offre grandi e laute entrate. Eppure è il lavoro che più ama, che più la soddisfa e per cui ha studiato. Ha dato l’esclusiva del suo operato a una piccola casa editrice specializzata in traduzioni scandinave e in particolar modo finlandesi, la Editions Lassalle, ed è tutto sommato tranquilla perché ha firmato per una serie di contratti che le garantiscono lavoro almeno sino all’anno successivo. È considerata la “pecora nera” della famiglia, rispetto alle sorelle ella è infatti una semplice interprete di parole, nulla a che vedere con la sorella avvocatessa nello studio del padre e con l’altra medico. Entrambe sposate, Eugénie, professionista sanitario coniugata con un chirurgo plastico, e Pauline, laureata e in legge e abilitata all’esercizio della professione forense, sono i gioielli di famiglia con la loro eleganza e quel futuro che sembra aspettare solo loro tra denaro e soddisfazioni.
Seppur in famiglia questo non sia noto, Joséphine ha una relazione con un uomo, Luc, impegnato al Ministero per lavoro, sposato e con figli. L’uomo manifesta la volontà di lasciare la moglie ma nel concreto mantiene i piedi in due staffe. La vita della giovane è ad ogni modo serena, è una sognatrice ma è anche ingenua. La realtà le si infrange contro quando riceve due lettere. Nella prima viene ad apprendere dal titolare della casa editrice che la stessa sta per chiudere i battenti per fallimento: ogni contratto è annullato, ogni certezza economica è venuta meno. Cosa fare adesso? I suoi genitori hanno sempre, almeno la madre, denigrato il suo presunto impiego e lei potrà resistere al massimo due mesi senza entrate. Che fare? Cosa trovare? Ha sbagliato a dare l’esclusiva alla casa editrice, ma si sentiva a casa, in una comfort zone che non la induceva ad andarsene o ad ampliare gli orizzonti, anzi. Ecco però che apre la seconda lettera proveniente da un notaio. Questo la informa che lo zio Albert, a sua volta considerato un mentecatto in famiglia e con il vizio del bere, è passato a miglior vita nominandola erede unica della sua houseboat. Sembra un colpo di fortuna inaspettato! Potrà venderla, si dice, e ricavare del denaro. Ma si sa, la vita è sempre pronta a destare degli strani colpi di scena, e sarà così anche questa volta. Perché anche se la houseboat è parcheggiata proprio nella Senna e lei l’ha sempre avuta sotto gli occhi, non è priva di inquilino. La Princesse de la Loire è infatti abitata da Maxime Laforet che ne rivendica i propri diritti.
Da qui nascerà una commedia degli equivoci in perfetto stile Nicolas Barreau. La narrazione è rapida, veloce, fluida. È avvalorata altresì da espressioni tipicamente francesi che ne avvalorano il contenuto e al tempo stesso non manca di far sorridere il lettore. Sia chiaro, si tratta della canonica commedia degli equivoci con tanto di cliché e trama intuibile, ivi compreso l’epilogo, ma nel complesso è una lettura gradevole soprattutto per cuori sognatori e per chi cerca uno scritto con cui evadere. Non può essere definito il miglior scritto di Barreau ma si propone con interesse al lettore curioso e amante delle commedie romantiche.
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Forza Tripolina che non è altro che una firmetta!
Ispirato a un personaggio vero e a un caseggiato realmente esistente, “Cosa è mai una firmetta” è una commedia degli equivoci che trasporta il lettore in quel di Bellano, luogo consono e amato dal romanziere. Protagonista di queste pagine è non solo il caseggiato stesso ma anche Augusto Prinivelli, venticinquenne, di bell’aspetto, giovane, perito industriale e impiegato in un’azienda in quel di Lecco specializzata in minuterie metalliche di proprietà di Bazzi Vinicio.
L’occhio della figlia di Bazzi, Birce, cade sul giovane e su quel che c’è dietro al giovane. Perché costui, orfano di entrambi i genitori, è stato cresciuto dalla zia Tripolina che ha un caseggiato – quello di cui in oggetto. Ogni mese è Augusto a riscuotere per la zia lo stipendio e al tempo stesso questo le consente di vivere dignitosamente. Nel caseggiato sono presenti cinque inquilini e un bar al piano terra. Birce, insieme alla famiglia, pensa in grande, circuisce il giovane e ben punta al caseggiato che potrebbe essere investito in qualcosa di molto ma molto più redditizio. Un investimento sicuro per un futuro prospero e in grande, non certo un luogo dove far vivere qualche buzzurro.
Non serve molto, basta una firmetta su qualche carta, una donazione al nipote, et voilà! Les jeux son fait!
O almeno così pensano e sperano. Perché la buona, vecchia e cara Tripolina ha intenzioni ben diverse. Eh sì, perché la cara signora ha deciso che è il momento di ritararsi a vita riparata e di congedarsi presso un ricovero diretto da suore. Da qui la necessità della cessione del caseggiato alle stesse e l’auspicio della tranquillità. La famiglia Bazzi non è minimamente d’accordo con la decisione dell’anziana e sprona e spinge e pressa il giovane Augusto affinché la convinca a non cedere e soprattutto a muoversi il più rapidamente possibile perché i tempi per agire sono stretti.
Cosa accadrà? Augusto riuscirà a farle apporre quella fatidica firmetta? Tripolina cederà alle pretese del nipote o porterà a termine il suo proposito di cessione alle religiose? Il finale non mancherà di sorprendere in perfetta chiave Andrea Vitali.
Ed infatti, a una trama rapida e fluida, ben si sommano personaggi molteplici e camaleontici, caratterizzati da mille e mille particolarità che vengono approfondite e descritte passando per gli inquilini e sino ad arrivare alle voci prevalenti e alle circostanze che si susseguono rapide. Se da un lato vi è Perbuini Lisetta amante dei gatti randagi ma povera in canna, dall’altro vi è Corti Sigismondo con quella figlia sempre occupata al bagno. E tanti, tanti, tanti altri ancora.
Il lettore dal suo canto è trattenuto tra le pagine, è incuriosito ed affascinato. La prosa è avvalorata dalle tipiche espressioni gergali che non mancano mai nelle opere di Vitali, seppur talvolta in modo maggiore e minore, e questo rende i volti ancora più vividi e concreti.
Il risultato finale è quello di un gradevolissimo romanzo d’evasione, piacevole, capace di donare ore liete ma anche di insegnare perché la vita ha sempre un suo perché e vale sempre la pena di essere vissuta, anche quando le circostanze possono portarci a pensare diversamente, anche quando pensiamo che al peggio non ci sia mai fine, anche quando non crediamo più nel futuro e in quel che di noi potrebbe essere. Un romanzo quindi leggero ma con una sua morale di fondo che si esprime in un messaggio sottile e sotteso.
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Ufo Robot, Ufo Robot!
«Questa è la storia delle vite che si incrociarono allora, alle pendici della montagna. E se di una vita non si possono conoscere tutte le pieghe, le luci e le ombre, si può almeno provare a raccontarla, usando documenti, interviste, libri e giornali d’epoca, consapevoli dell’incolmabile distanza tra i giorni vissuti e le pagine scritte. Del resto, la sfida del narrare è raggiungere la verità affrontando l’ineffabile, si trattasse anche di lupi mannari e dischi volanti.»
Tutto ha inizio quasi per caso, ma una cosa è certa, Jacopo e Margherita non sono due sciocchi e ancor meno sono inesperti. Non si sarebbero mai allontanati senza far avere traccia di sé e mai se ne sarebbero andati così di punto in bianco. Eppure, durante e poi dopo quella spedizione, di loro si perde ogni riferimento, conoscenza, visione. Il preoccuparsi di Simone è cosa certa e fondata, il dare l’allarme è cosa altrettanto naturale quanto fisiologica. Tuttavia, ogni ricerca è vana; i due sono spariti nel nulla. Perché? Cosa ne è stato di loro? Oggi Simone di anni ne ha settanta. Nell’autunno del 1976 lascia gli scout e rimanda la laurea in giurisprudenza, è provato dai fatti. Fino all’estate successiva partecipa alle ricerche di Jacopo e Margherita ma senza successo. Batte ogni passo della montagna ma senza risultato, arriva anche a mollarla proprio l’università quando capisce che ormai c’è ben poco da fare. Si trasferisce in Svezia a Goteborg per cercare una vita diversa. L’illusione si spezza nel 1978 quando anche altre persone vengono coinvolte nel mistero del Quarzerone, luogo della scomparsa dei giovani.
«Milena ricorda ancora quel che scrisse sul suo taccuino d’appunti: “Gli ufologi sono più kantiani di Kant”, per intendere che Paolo Sesto teorizzava l’esistenza di una cosa-in-sé, cioè i fatti al di là di come li percepiamo e raccontiamo, ma ben oltre Immanuel Kant, pensava che quei fatti si potessero ricostruire, ripulire dagli elementi soggettivi, per arrivare alla pura realtà.» p. 165
Come sempre i Wu Ming tornano in libreria con un romanzo pensato e ragionato che nulla lascia al caso e allo scontato. Si tratta del primo romanzo del collettivo del nuovo decennio del nuovo millennio ma è un libro che ha visto la sua nascita e le sue fondamenta già da prima della pandemia e che da questa ancora viene ritardato.
Ed ecco allora che torniamo a rivivere un periodo storico questa volta però più vicino a noi. Siamo nel tramonto degli anni ’70 in un ciclo di lotta armata e legislazione d’emergenza, consumo smoderato di eroina, punk a go go e sconvolgimenti in quel del Vaticano a seguito della scomparsa di Papa Giovanni Paolo I, le riforme sociali, l’uccisione di Moro e sì, anche i rapimenti alieni. Storicamente questi sono stati anche anni di avvistamenti, della cd. “Grande ondata”, una vera e propria epidemia che a livello culturale porta ad abbracciare alieni e velivoli spaziali. Un po’ tutto il mondo ne è influenzato, basti pensare ai cartoni giapponesi di quegli anni quali Ufo Robot e chi più ne ha più ne metta. Cartoni che hanno cresciuto e fatto sognare intere generazioni.
Il romanzo al suo interno contiene anche musica ed effetti, chiamiamoli così, allucinogeni, circostanza che ci fa pensare a un vero romanzo corale che come sopra anticipato ha inizio con la scomparsa di Jacopo e Margherita in Lunigiana e che poi si sposta al primo movimento del marzo del 1978, due settimane prima del rapimento di Moro. Un romanzo corale che si struttura come una inchiesta che è avvalorata anche da documentazione e che si smuove su un oggetto narrativo capace di strutturarsi anche in più piani temporali. Si noti che dal 2019 ad oggi il romanzo è stato anche snellito nella forma. È un libro che, come anticipato sopra, trova le sue origini in quasi due decenni fa (sedici anni a voler essere precisi) e che arriva ora alla sua maturazione a seguito di altri scritti quali Proletkult in cui si sviluppano le ricerche preliminari e base che portano poi a Ufo 78.
Con Ufo 78 ci troviamo davanti a un volume complesso e dove nulla è come appare. Si trattano sì i misteri del paranormale, si rimanda allo scrittore Peter Kolosimo come riferimento letterario espresso ma anche a Battiato a livello musicale e alla nostra Storia perché tra pagine di ricostruzione non viene a mancare nemmeno quello che è un focus sugli Anni di piombo, i retroscena di quel che questi hanno significato e tutto quel che hanno rappresentato per noi.
Uno scritto stratificato, dove nulla è come sembra, con tanti intenti raggiunti e soddisfatti e con uno stile narrativo che accompagna e conduce in una perfetta partitura musicale.
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Arimo... "Un, due, tre stella!"
«A volte anche l’essere più innocente serba dentro di sé un’indole potenzialmente malvagia.»
Porto Ercole, estate del 1997. Pietro Gerber e il cugino Iscio sono in vacanza. Fa caldo e i loro pomeriggi si snodano con giochi e divertimenti con gli amici. In particolare è il “gioco dei ceri” a far da padrone, un gioco che è una via di mezzo tra “acchipparella” e “nascondino” ed in cui un designato, il primo omino di cera, ha il compito di scovare gli altri, i viventi, per trasformarli in omini di cera semplicemente toccandoli. A questo punto gli sfortunati che non riescono a sottrarsi a questo destino possono contribuire alla caccia. Il tutto senza poter parlare e quindi senza potersi in alcun modo scambiare indicazioni su eventuali nascondigli. Chi violava la regola sarebbe morto di morte violenta entro tre giorni. Una sola la parola liberatoria, l’unica che può essere proferita per salvarsi: Arimo. Dal latino “arae mortis” e cioè altari costruiti per celebrare i caduti al termine di una guerra. Una parola, probabilmente che aveva lo scopo di indicare una sorta di tregua per seppellire i morti. A completare la banda di ragazzi vi è l’unica ragazza, Deborah, di Siena, che ha preso sotto la sua ala protettiva Zeno Zanussi, detto Batigol per la passione per la fiorentina e Batistuta, di solo cinque anni e fratello del più grande (la comitiva si aggira sugli 11 anni in su) Pietro Zanussi, di anni tredici, veterano del gruppo, Giovanni da Empoli, Giovannone, dalla mole del fratello sedicenne, Ettore da Firenze, Dante da Lucca con la mania per la distruzione delle cose e Carletto, di Grosseto, il meno assiduo della compagnia. Una banda eterogenea che passa un’estate in apparente tranquillità. Apparente perché se prima Pietro Gerber si ferisce a una gamba e resta per mezzo minuto senza respirare e senza battito cardiaco, poi è Batigol a far cadere il sipario su una estate che in alternativa avrebbe continuato a scorrere con tranquillità. Perché in un pomeriggio come tanti ecco che Zeno scompare. Di lui si perde ogni traccia.
«Il signor B. diceva sempre che bisogna avere più paura degli stupidi che dei mostri, perché non sanno di essere malvagi.»
Sono trascorsi due decenni. Pietro Gerber ha perso tutto. Fama, riscontro mediatico, successo come addormentatore di bambini nonché specialista infantile. Un solo paziente si è presentato alla sua porta, Tommy. Un bambino con tendenze violente, che cela qualcosa e verso il quale il professionista non ha più quegli scrupoli che avrebbe avuto in passato. Hanna Hall, i fatti de “La casa senza ricordi” lo hanno ricondotto a una situazione di apatia, trascuratezza, confusione, ossessione. La voce si è diffusa negli ambienti e per Gerber non c’è più credito disponibile. Tuttavia, una giovane donna, Maja Salo, si presenta alla sua porta. Capelli rossi, studentessa presunta d’arte, ragazza au pair della piccola Eva di anni dieci presso una famiglia prestigiosa, gli Onegli Catelani, in quel di San Giminiano, di origine finlandese, si presenta all’uomo con una lettera in mano e una richiesta d’aiuto. Sono questi il suo biglietto da visita. Pare che Eva abbia un amichetto immaginario decisamente dispettoso e che sempre più sta prendendo possesso e forza nella mente della bambina tanto da arrecarle delle lesioni. Per Gerber sembra trattarsi di schizofrenia infantile, all’inizio rifiuta il caso ma poi decide di incontrarla almeno una volta. Ed è qui che il romanzo ha davvero inizio perché l’incontro con Eva porta alla luce una serie di circostanze tanto ambigue quanto sovrannaturali e che riportano Gerber a quei due decenni prima. Sempre più sono i momenti di sincronicità con Zeno e la sua scomparsa. Che sia lui l’amichetto immaginario di Eva?
«Solo i bambini pensano che gli adulti siano migliori di loro e che crescendo si diventi più saggi o più rispettosi. Nessuno cambia con gli anni, si diventa solo più abili a nascondere i difetti.»
Ancora una volta Donato Carrisi torna in libreria con un romanzo dai grandi intenti e dai risultati approssimativi. È chiaro ed è evidente che l’autore desideri far breccia nel lettore facendo leva sul paranormale e sulle paure della mente. L’immaginazione, la voce, le presenze oscure che potrebbero presentarsi attorno ai protagonisti, la vita oltre la morte, le sette spiritiche e chi più ne ha più ne metta hanno il chiaro intento di incutere terrore e ansia nel lettore che, però, nel procedere dello scritto si sveglia dall’incanto. Sente che quel che viene presentato non è veritiero, non ha sufficiente forza “a trattenere”, cerca istintivamente una risposta nella logica che oltretutto trova (quando non dovrebbe). Perché per quanto alcuni fatti possano sembrare completamente incomprensibili, nell’osservare la scena o nel porsi la giusta domanda, le alternative al paranormale ci sono e non sono nemmeno poche. La sensazione è un qualcosa di non naturale e lineare. Se da un lato abbiamo un King che crea un paranormale che non fatica a far credere al lettore anche il fatto più misterioso ma improbabile, in questo caso abbiamo un Carrisi che ci prova ma che sembra messo spalle al muro dai suoi stessi personaggi e dalle stesse vicende. Nonostante, ancora, rispetto al super deludente precedente capitolo “La casa senza ricordi”, piatto e inconcludente e con pure un finale estremamente opinabile, “La casa delle luci” abbia una struttura più solida con anche un minimo di evoluzione del personaggio, non convince. In primo luogo si torna indietro tornando a Hanna Hall (e questo fa presagire che tornerà anche nel quarto capitolo che aspettiamo a novembre/dicembre 2023), in secondo luogo non c’è un vero e proprio collegamento con il secondo capitolo che resta ancora aperto, in terzo luogo manca di capacità di trattenere. Lo si legge per curiosità, lo si ultima per lo stesso motivo ma la sensazione è quella di trovarsi davanti a un Carrisi “senza cartucce” o comunque con “le cartucce esaurite”. Una distanza abissale dall’autore delle origini con le capacità di entrare nella mente del lettore e inchiodarlo al libro. Questa serie, inoltre, non si capisce dove vuole arrivare. Proprio a livello di creazione. Sembra che si stia plasmando “in corso d’opera” più che avere un disegno più grande che viene seguito capitolo dopo capitolo.
In conclusione, senza infamia, senza lode. Un romanzo di intrattenimento dove si eccede con il paranormale senza però riuscire a convincere.
Quali orchidee, Miss Blandish?
James Hadley Chase, uno dei molteplici pseudonimi, di René Lodge Raymond, ex libraio e di poi scrittore classe 1906, Regno Unito, e venuto a mancare in Svizzera nel 1985, in “Niente orchidee per Miss Bladish” propone ai suoi lettori un giallo ambientato in America, Kansas City.
Una ricca e giovane ereditiera, Miss Blandish, viene rapita da una banda di criminali. Sono inesperti, impreparati, fiutano il “colpo facile” e si buttano a capofitto nella possibilità di ottenere il guadagno della vita. Ma è proprio la loro inesperienza a farli cadere innanzi a una banda più scaltra capitanata da Mamma Grisson, spietata criminale molto ambiziosa, che scoperto il sequestro interviene uccidendo i malviventi e portandosi via la malcapitata donna. Scatta la richiesta di risarcimento milionario. Il padre paga, ci mancherebbe, tutto il quantum pur di riavere la figlia.
Ottenuto il riscatto però qualcosa non va come auspicato. Originariamente il piano era quello di uccidere la donna subito dopo aver ottenuto il denaro ma, tuttavia, Slim il figlio di Mamma Grisson, si innamora perdutamente dell’ereditiera. È un uomo con problemi di mente, inquietante, squilibrato e perverso. Rappresenta il perfetto pazzo criminale normalmente idealizzato nell’immaginario comune. Ma cosa succede se il gioco si inverte e una mente criminale diventa un gioco del gatto col topo? Se dietro la facciata vi è altro? Se il gioco si stesse inaspettatamente complicando?
Una trama semplice, lineare, una scrittura scorrevole e fluida nel suo essere. Non è una lettura banale, forse nemmeno indimenticabile ma certamente coinvolge per l’aspetto della crudezza e della violenza che viene inserito. La storia, infatti, sembra essere interamente scritta dal punto di vita della mentalità criminale senza nulla risparmiare a chi legge. E sia chiaro, è una storia semplicemente crudele.
Slim è instabile, sociopatico, violento, la madre, dal suo canto, non ha scrupoli e non ha interesse all’osservazione e rispetto della vita umana. Sono per questo il binomio perfetto di una coppia brutale e senza vincoli o morali di qualsivoglia genere.
Come contrappeso abbiamo un detective burbero, tormentato, in perfetto stile anni ’30 e che conosce bene non solo i suoi limiti ma anche quelli da non oltrepassare. Meno incisiva come personaggio è proprio Miss Blandish, una donna mite, docile che a tratti sembra essere invisibile, anche se nel concreto è la protagonista e molla scatenante delle vicende.
“Niente orchidee per Miss Blandish” è un buon testo soprattutto se contestualizzato nel periodo storico inerente e nel momento della sua creazione. Non può dirsi un capolavoro e per alcuni passaggi di crudezza può disturbare, o si ama o si odia. Di facile lettura, capace di conquistare per intreccio e/o binomi narrativi. Crudele.
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Au revoir Poirot!
«Forse, allora, penserai che sarebbe stato meglio restare all'oscuro di tutto e poter dire "Calate il sipario.»
La penna di Agatha Christie sa essere sempre pungente e magnetica, una penna che trasporta il lettore nella sua comfort zone e che lo coccola in ogni circostanza e avventura narrata. Lo stesso vale per “L’ultima avventura di Poirot. Sipario” opera in cui il conoscitore saluta e dice addio al simpatico ed eclettico investigatore Belga.
Tra queste pagine non manca quel velo di nostalgia e malinconia che spesso accompagna le opere del collega Simenon, ma anche della stessa autrice, che si voglia per un ritorno al passato o per uno al presente, per un ritorno a quello Styles Court dove tutto ha avuto inizio. Un vero e proprio ritorno alle origini e narrato in prima persona, un ritorno alle origini che ci mostra che tutto è cambiato a Styles esattamente come tutto è rimasto identico e immodificato. Sono passati cinquantacinque anni da quel primo caso, adesso Hastings dovrà essere sia occhi che orecchie per l’anziano investigatore acciaccato, pieno di dolori, quasi impossibilitato a muoversi ma pur sempre nel vivo delle sue facoltà cognitive. E non serve forse questo per risolvere un caso?
«Non c’è niente di più triste, a parer mio, della vista di un uomo devastato dagli anni, soprattutto se è un amico.
Il mio povero amico! L’ho descritto molte volte, e lo rifaccio ora per darvi un’idea di quanto fosse mutato. Storpiato dall’artrite, si spostava servendosi una poltrona rotelle. Il suo corpo, un tempo grassoccio, si era smagrito. Il viso era grinzoso, coperto di rughe. Baffi e capelli conservavano il colore corvino, ma Poirot commetteva un errore tingendoli, anche se per niente al mondo avrei usato offenderlo, facendoglielo notare.»
Poirot resta un uomo saggio, acuto, meticoloso, un uomo che osserva, un investigatore previdente e prudente. Ricollega i tasselli, identifica più crimini commessi da Mister X, questo il nome fittizio che decide di dare al colpevole, tace con Hastings sulla vera identità del presunto reo per proteggerlo ma anche perché sapendo potrebbe perdere di lucidità. Ed essendo quest’ultimo tanto gli occhi quanto le orecchie dell’investigatore, non è plausibile.
Tanti i personaggi che si susseguono tra cui anche la figlia ventunenne di Hastings, Norton, un innocuo uomo di mezza età che ama l’osservazione per gli uccelli e della natura, sir William Boyd Carringoton, ex governatore di una provincia dell’India, la signorina Elizabeth Cole, che nasconde la propria identità a causa del passato, l’arrivista ed egoista Allerton, la signorina Craven, infermiera. Tutte persone che risiedono nel pensionato che viene gestito dai coniugi Luttrell.
Muore prima la signora Franklin, moglie del dottor Franklin di salute cagionevole, seguita a ruota dalla morte di un altro personaggio e dello stesso Poirot. Suicidio? Hastings fatica a credervi, le medicine scomparse fanno pensare a tutto tranne che a una morte volontaria. Ma come farà Hastings a venire a capo della matassa? Vi riuscirà? Ad aiutarlo vi saranno gli indizi custoditi all’interno della valigetta di Hercule, sarà l’uomo a dover poi ricomporre la matassa nel suo intero.
«A chi non è capitato qualche volta di sentire un tuffo al cuore rivivendo un'esperienza, un sentimento o un'emozione?
"Non è la prima volta che mi capita questo..."
Perché queste parole colpiscono tanto profondamente?
Era la domanda che mi ponevo mentre, seduto in treno, vedevo passare davanti ai miei occhi il piatto paesaggio dell'Essex.»
Ben quattro mesi dopo la morte dell’investigatore il caso troverà una soluzione, una soluzione che si radica e trova il suo punto forte nelle scene teatrali, indizi inizialmente molto complessi. Postuma giungerà anche una lettera che contiene osservazioni sul mistero.
Ancora una volta Agatha Christie stupisce e coinvolge, conquista e lascia il lettore appagato. E vi riesce con uno scritto dalla penna precisa e in perfetto suo stile ma anche con analisi introspettive e psicologiche che accompagnano chi legge in un ritmo narrativo sempre più incalzante. Lo stesso epilogo non delude essendo caratterizzato da una serie di tratti che lo rendono d’impatto e che consentono di mescolare osservazione dell’intelletto a indagini minuziose.
Il risultato finale è un’opera che ben saluta l’eroe principale della scrittrice ma che non delude le aspettative, un eroe che torna nelle ultime pagine, che risolve il mistero, che lascia un vuoto nel cuore e nell’animo, un profondo velo di malinconia.
«Scesi le scale, con un gran peso nel cuore. Non riuscivo a immaginare la mia vita senza Poirot.»
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