Opinione scritta da Valerio91

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    15 Luglio, 2020
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Un amore puro e insensato

Un racconto struggente.
Nelle poche pagine di cui è composto questo libro, l'aspetto che più mi ha colpito è lo stile dell'autore: preciso, efficace, scorrevole; sebbene aiutato da una narrazione fatta in prima persona per mezzo di una missiva. Si, perché il novantanove per cento del racconto è per l'appunto occupato dalla lettera della sconosciuta citata nel titolo: una lettera indirizzata all' uomo che ama fin da quando è una bambina, ma che non si è mai praticamente mai davvero accorto di lei. La donna ha appena perso il suo bambino, e prima di congedarsi dal mondo decide di esternare quel sentimento per il quale si è consumata senza mai riuscire a rivelarlo, se non in punto di morte.
Saremo dunque spettatori dello struggimento della sconosciuta per quest'uomo che, in fondo, per meritarselo non ha fatto nulla. L’amore di lei è inspiegabile, unilaterale, eppure la consuma e monopolizza la sua vita fino ad annichilirla, e pur non comprendendo i motivi che stanno alla sua fonte, è impossibile restare indifferenti a un tale sentimento.
Per quanto a tratti inverosimile, secondo me “Lettera di una sconosciuta" è davvero un bel racconto. Perché? Perché riesce ad emozionare, a farci entrare in empatia con questa donna e, pur non condividendone le azioni e i pensieri, si finisce per ammirarne l'abnegazione e la tenerezza, la purezza del suo sentimento.
La narrativa non deve essere verosimile sempre e comunque. Se il racconto arriva al lettore, questo aspetto può passare in secondo piano. E "Lettera di una sconosciuta" arriva; magari non travolge, ma colpisce.

“Ma io, ragazza di allora, non potevo immaginare che tu mi avessi dimenticata: essendo tu il centro dei miei pensieri, avevo infatti finito per illudermi che anche tu, e di frequente, pensassi a me e mi aspettassi; come avrei anche solo potuto respirare, se avessi avuto la certezza di non essere nulla per te, e che il mio ricordo non ti sfiorava mai, nemmeno vagamente!”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    08 Luglio, 2020
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Giovani VS. Vecchi

"Addio all'estate" è l'ultimo libro scritto da Ray Bradbury, il punto conclusivo di una splendida carriera e di una vita vissuta sempre con approccio e visioni ottimistiche; sempre alla ricerca della magia e della poesia che si annida in ogni angolo della realtà. Di questo modo di vedere le cose, “L’estate incantata" è forse il più fulgido esempio: un libro che ho amato alla follia e che probabilmente resterà stabilmente tra quelli più belli che abbia mai letto. Non c'è da stupirsi, dunque, se le mie aspettative per "Addio all'estate" fossero molto alte. Questo romanzo, infatti, non solo è ambientato anch'esso a Green Town ed è popolato dagli stessi personaggi, ma pare che in origine fosse destinato a essere la parte conclusiva de “L’estate Incantata", che tuttavia l’editore decise di tagliare perché il romanzo risultava troppo lungo. Maledetti editori. Quel finale è rimasto tuttavia nella memoria di Bradbury, che nel corso della sua vita lo ha arricchito e limato fino a farlo diventare il romanzo con cui concludere il suo meraviglioso ciclo di storie.
Tuttavia, è forse questo il problema di "Addio all'estate": racconta poco, e non fatico a credere che chi non abbia letto “L’estate incantata" possa esserne rimasto deluso: perché a parte qualche guizzo puramente bradburiano c'è poco altro. Sono certo che, come parte integrante del suo “predecessore” avrebbe acquistato più potenza, e forse nello stato attuale delle cose la scelta migliore è quella di leggere i romanzi uno dopo l’altro, come due parti di un’unica entità.
Nonostante la sua potenza risulti attenuata, questo romanzo è comunque degno di essere apprezzato. L’addio all'estate secondo Bradbury, infatti, non è altro che l'addio all'infanzia; il passaggio di un bambino dall’infanzia alla pubertà. Cosi come l'estate in cui è narrata la storia pare non volersene andare, così i nostri protagonisti ingaggiano una vera e propria guerra contro lo scorrere del tempo: cercano disperatamente un modo per non crescere e per non intraprendere la strada di quei vecchi che non comprendono. Ci proveranno in tutti i modi, anche i più assurdi, finendo addirittura per distruggere il responsabile di quell'inesorabile scorrere del tempo: la torre dell'orologio. Ma il tempo non si può fermare: spesso bisogna lasciare che il fiume della vita scorra, senza sprecare energie a combattere la corrente. Allo scorrere della vita bisogna lasciarsi andare, perché seppure serbiamo nel cuore il desiderio dell'infinito, dibatterci non solo non ci permetterà di ottenerlo, ma finirà per impedirci di godere anche di quel poco tempo che ci è stato concesso.

“Imparare a cedere qualcosa dovrebbe venire prima che imparare a stringerla. La vita dev’essere toccata, non strangolata. Qualche volta bisogna rilassarsi, lasciarla andare; in altri momenti bisogna avanzare con lei. Come con le barche: tu tieni il motore acceso e manovri con la corrente, poi a un certo punto senti avvicinarsi il rombo di una cascata. Allora non ti resta che rassettare la barca, metterti il cappello e la cravatta migliori e fumare una sigaretta fino al momento del gran salto.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    06 Luglio, 2020
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Il dio quattrino

È pazzesco pensare che questo romanzo sia semi-autobiografico, e che un personaggio a tratti davvero odioso e autodistruttivo come Gordon Comstock possa essere l’alter ego di George Orwell.
In “Fiorirà l'aspidistra" siamo ben lontani dalle distopie e allegorie presenti nelle opere più
famose dell’autore, eppure permane quella critica aspra alla società che, mentre in "1984"
e “La fattoria degli animali" ci viene presentata sotto altre vesti, qui viene criticata chiamandola per nome e senza mezzi termini. Sotto accusa c'e soprattutto il "dio quattrino”, e dunque il sistema capitalistico; non è un segreto, infatti, che Orwell fosse un socialista.
Il protagonista di questo romanzo ingaggia una spaventosa lotta contro il sistema, costringendo sé stesso alla fame per portare avanti la sua battaglia contro il sacrificio della vita umana sull’altare del denaro. Gordon Comstock dichiara guerra al “Buon Posto" di lavoro, al Fare Bene, al prestigio che è solo frutto della classe sociale… e alle aspidistre (piante che nelle case inglesi sono simbolo d'una dimora rispettabile). In nome di questi ideali, rifiutando qualunque compromesso, Gordon molla un buon posto nel campo pubblicitario pur essendo molto capace, e accetta un lavoro mal pagato come commesso di libreria,. Nel frattempo, nella sua stanzetta lurida e desolata, scrive poesie per le quali nutre ben poche speranze. Ma lui è testardo e continua a lottare, rifiutando qualsiasi aiuto, e pur di mantenere l'integrità rischia di perdere l'amore di Rosemary, una donna dolcissima che già per il semplice fatto di sopportare le sue fisime andrebbe santificata. Anche quando una delle sue poesie gli frutta un cospicuo guadagno, Gordon lo scialacqua in maniera insensata, lasciando allibiti sia i personaggi che il lettore. Insomma, Gordon Comstock è un personaggio odioso e spero davvero che Orwell non gli somigliasse poi così tanto, pur avendo scritto il romanzo descrivendo un periodo difficile della sua vita.
A parte tutto, il personaggio è potente come pochi, capace di bucare le pagine. È interessante assistere al suo mutamento, che ha inizio con un importante evento che gli travolge la vita e, sulla soglia dei trent'anni, lo costringe a crescere e a mollare quella battaglia forse giusta negli ideali ma impossibile da portare avanti nella pratica, ché non porta altro che miseria e sofferenza. È forse una lotta, come dice lo stesso Gordon, in cui tutti alla fine si arrendono, «lui aveva resistito nella sua rivolta un po' più a lungo della maggioranza, e questo era tutto. E che fiasco era stata quella rivolta!»
Ingaggiare una lotta solitaria contro le radici del mondo, non può portare che alla miseria e al fallimento. Il mondo sarà sempre sbagliato, mai del tutto come lo vorremmo. Certo, ha senso lottare per cambiarlo in quei luoghi in cui quel mondo ti costringe a una miseria peggiore di quella che avresti opponendoti a lui, e anche in quel caso la lotta non dovrà mai essere solitaria, o portata avanti da una manciata di uomini. Ma nelle società in cui il compromesso è possibile, quest'ultimo è l'unica scelta sensata. Gordon Comstock è l’uomo del sottosuolo in versione Orwelliana, un uomo che odia la società e vorrebbe non aver nulla a che fare con essa, ma allo stesso tempo ne brama segretamente le gioie. Quei compromessi necessari lo ripugnano e attirano al tempo stesso, e per non cedere non vorrà fare altro che sprofondare in una condizione sub-umana, in cui tutto è torpore e i sensi sono annebbiati al
punto che ogni desiderio è impossibile.
Un gran romanzo, per quanto mi riguarda, seppure le azioni di Gordon possano apparire davvero folli e portare il lettore a considerarlo con profonda antipatia.

“Senza rimpianti, quasi intenzionalmente, si lasciava andare a pezzi. In fondo a tutti i suoi sentimenti si nascondeva un astioso malumore, uno je m’en fous alla faccia del mondo intero. La vita lo aveva battuto; ma tu puoi ancora prenderti la rivincita sulla vita, voltandole le spalle. Meglio sprofondare che salire. Giù, sempre più giù, sempre più in basso, nel regno spettrale, in quel mondo d’ombre dove vergogna, sforzo, decoro non esistono!”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    03 Luglio, 2020
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Aneddoti canini

Certe cose può capirle solo chi ha avuto un cane. E pure certi libri.
Chi, come me, ha avuto in casa un cane di qualsivoglia razza, non potrà infatti fare a meno di sorridere leggendo certi aneddoti e spiegazioni sul comportamento canino. Sorridere, ma a volte anche commuoversi.
"E l'uomo incontrò il cane" è dunque un breve libretto rivolto agli amanti dei cani, sebbene non sembri avere uno scopo divulgativo né ludico ben preciso. I capitoli in cui è suddiviso, infatti, sono brevi e piuttosto eterogenei, sia negli argomenti che nello stile: si passa dall'aneddoto narrativo all'analisi etologica, passando dall'origine dei cani domestici fino alla loro evoluzione attuale, con balzi non indifferenti.
È per questo, dunque, che questo libretto è più adatto a chi un cane lo ha già avuto e non a chi voglia approfondire il legame che lo lega alla nostra specie, sebbene il titolo suggerisca questo tipo di approfondimento. Chi ha avuto un cane, o ce l'ha, finirà certamente per trovare qualcosa in cui vedrà sé stesso e il suo caro amico a quattro zampe, ma non riuscirà certo a farsi un’idea precisa su come il cane sia entrato nella nostra vita fino ad assumere il suo ruolo odierno. C’è da dire, comunque, che viene considerato più di un aspetto interessante sull'addestramento di un cucciolo (Lorenz aveva un allevamento di cani Chow), sulle dinamiche che si creano tra cane e padrone, e sui motivi che portano un cane ad agire in un modo anziché un altro.
Dunque, se cercate un libro leggero in cui siano alternati aneddoti piacevoli e analisi non troppo tediose e approfondite sul rapporto uomo-cane e sull'evoluzione che questo rapporto ha portato nell'una o nell' altra specie, “E l’uomo incontrò il cane” di Konrad Lorenz è ciò che fa per voi.
Altrimenti, vi direi di cercare altrove.

“Naturalmente non c’è nulla di male nel fatto che una persona molto sola, che per qualche sua personale ragione soffre della mancanza di contatti umani, si prenda un cane per soddisfare un intimo bisogno di dare e ricevere amore. Davvero non ci si sente più soli al mondo se c’è almeno una creatura che ci fa festa quando torniamo a casa.”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    30 Giugno, 2020
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Ottocento pagine di... cosa?

"Questa tempesta" è il secondo libro della seconda Tetralogia di Los Angeles, diretto successore di “Perfidia". Con questo ciclo narrativo, unito alla prima Tetralogia (che include un bellissimo libro come "L.A. Confidential”) e la Trilogia Americana, pare che Ellroy si sia proposto la grande ambizione di un affresco storico di oltre trent'anni (1941-1972), popolato da personaggi reali e di finzione che si mescolano tra loro e compaiono in diversi libri.
L'idea è certamente ammirevole, anche perché il contesto presentato è ben descritto e interessante, ovvero quello di un’America che vive la Seconda grande guerra da lontano, avendola toccata con mano solo con l’attacco inaspettato di Pearl Harbor. Altrettanto interessante è vedere come i tanto osannati Stati Uniti, sempre dipinti come liberatori senza macchia, abbiano essi stessi avuto una condotta discutibile e perpetrato nei confronti dei giapponesi una discriminazione simile a quella nazista. I giapponesi venivano infatti internati e, seppure non subissero le stesse brutalità subite dagli ebrei e dagli altri prigionieri nazisti, erano comunque maltrattati e non di rado uccisi senza alcun tipo di rimorso. Mentre in “Perfidia” questo aspetto era riuscito a farmi perdonare la troppa carne messa a cuocere dall’autore, in “Questa tempesta” tutto questo non è bastato e i motivi sono diversi.
Andrò con ordine.
Nelle prime centinaia di pagine sono sciorinati una serie infinita di nomi che l’autore ci presenta come se dovessero esserci familiari, ma che al lettore non dicono nulla e finiscono per confonderlo nei già ingarbugliati meandri della storia a cui si appresta ad assistere. Ellroy fa decine e decine di nomi, li ripete fino allo sfinimento mettendoli continuamente il correlazione tra loro e pretendendo che il lettore ne cavi qualcosa, mentre quest’ultimo sta invece tentando con tutte le sue forze di raccapezzarsi, invano. Questo aspetto rimarrà lungo tutta la storia, ma all’inizio è davvero irritante.
Quando i nomi più ricorrenti cominceranno finalmente a diventare familiari, ecco che emergono le tediosità della storia. A parte qualche raro stralcio d'azione (ben scritto, questo c'è da dirlo), "Questa tempesta" è tutto una continua ripetizione: Ellroy ribadisce le stesse cose fino allo sfinimento; tutto quello che i personaggi scoprono viene ripetuto quando un personaggio che ne era ignaro ne viene finalmente a conoscenza. Queste scoperte, poi, molto spesso lasciano totalmente indifferenti perché parte di un intrico troppo ingarbugliato per essere compreso o perché coinvolge personaggi lontani dallo spettro emotivo e cognitivo del lettore. Poche sono le rivelazioni davvero interessanti, che vengono oltretutto attutite dall’apatia che tutti gli altri eventi incomprensibili hanno generato. La storia non coinvolge mai: è troppo intricata, politica e in tutta sincerità poco interessante. Ottocentocinquanta pagine e si ha la sensazione di non aver letto nulla se non nodi e contronodi mentali: un esercizio intellettuale folle che l’autore ha fatto con la sua capacità stilistica e la sua conoscenza approfondita del periodo storico, che con questo cocktail si sono tuttavia annullate penosamente. Non si riesce a capire cosa Ellroy abbia voluto davvero raccontarci.
Per concludere, io sono un estimatore degli autori che vogliono offrire qualcosa più di un semplice intrattenimento: stimo ancora di più quelli che riescono a coniugare intrattenimento con letteratura impegnata. Anzi, vi dirò di più, è questa la letteratura che amo, e mi fa male vedere come Ellroy abbia fallito nei suoi nobili propositi, nella creazione di un contesto storico-narrativo che potesse lasciare il segno. Ma sebbene in "Perfidia" sia parzialmente riuscito nell' intento, in "Questa tempesta" credo abbia toppato alla grande e rappresenti un passo falso da cui difficilmente si possa riprendere, almeno per quanto riguarda questo ambizioso progetto. Non so se ha avuto eccessiva fiducia nei propri mezzi, se si sia lasciato prendere la mano, o abbia voluto semplicemente strafare; ma con la sua sconcertante mole non giustificata dai contenuti, "Questa tempesta" non ha generato in me altro che un sospiro di sollievo. Quando l'ho finito, si intende.

P.S. la menzione sul retro, in cui Joyce Carol Oates definisce Ellroy il Dostoevskij americano, è oltremodo offensiva nei confronti sia del russo, che di autori americani davvero meritevoli come Cormac McCarthy, che definisco il Dostoevskij americano da una vita. E io non sono nessuno. Davvero non capisco come personaggi di spicco possano fare affermazioni così azzardate.

“Tutti vogliamo essere qualcosa di più bello e dorato di quello che siamo.”

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Racconti
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    18 Giugno, 2020
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Vite di carta

Credo che, tra le opere letterarie che ho letto, i racconti di Carver siano quanto più si avvicina alla "vita vera", soprattutto per quanto riguarda l'ambito familiare. Non è raro infatti, quando si pensa a una storia di Carver, immaginarsi un focolare in cui una o più coppie sono riunite a consumare una cena e discutere di un qualsivoglia argomento. Come fa ben notare Francesco Piccolo nella sua prefazione all'edizione Einaudi di "Cattedrale", spesso nei racconti di Carver non succede nulla e gli eventi davvero significativi o sono già accaduti (con evidente influenza sui personaggi) o sono ancora di là da venire, e magari il racconto in sé non è altro che la scintilla che li porterà a compiersi.
Ma noi lettori non vi assisteremo, e dovremo limitarci a immaginarli.
È palese, dunque, quanto non sia la storia narrata a svolgere un ruolo importante, bensì coloro che la popolano, le dinamiche che vengono a crearsi nei loro rapporti e la profonda umanità che ne traspare. È proprio su questa umanità che credo di dover porre l'accento più netto: i personaggi di Carver non sono eroi, né antieroi, né nemesi: non sono altro che persone normali i cui sentimenti, contraddizioni, stranezze, pregiudizi, virtù, difetti e tutto ciò che ci appartiene in quanto specie umana vengono descritte dall'autore in maniera divina. Racconti come “Una cosa piccola una buona”, "Da dove sto chiamando", “Febbre" o lo stesso “Cattedrale", oltre a essere probabilmente i più belli e toccanti, ne sono un esempio lampante. I personaggi ci vengono presentati all’improvviso e ci sembrano subito persone in carne e ossa, con una propria vita alle spalle di cui non sappiamo quasi nulla, eppure allo stesso tempo abbiamo la sensazione di sapere tutto, perché sono simili a noi in modo spaventoso. Nel breve stralcio di vita che condivideranno con noi, Carver sembra volerci dare gli elementi per sondarne l'animo e immaginare quel che gli riserverà il futuro, almeno nel medio termine. In fondo, in quelle poche pagine, abbiamo imparato a conoscerli un po' e possiamo azzardarci a indovinare quali saranno le loro scelte, anche se gli stessi personaggi non lo ammetterebbero neanche a sé stessi. Ma Carver ci ha addestrati anche in questo, a capire quando i suoi personaggi sono sinceri con sé stessi, e quando non lo sono.
Eppure, Carver non inventa nulla di incredibile. Non vi troverete davanti storie da mascella spalancata, né avvenimenti inspiegabili e misteriosi che possano tenervi incollati alle pagine con l’irrefrenabile voglia di sapere come va a finire; Carver ci tiene incollati raccontandoci la nostra stessa vita (non prendetemi alla lettera); quella vita quotidiana fatta di gioie, dolori, difficoltà, ansie, sollievo; tragedia e commedia. È questo a renderlo un autore unico, anche se questo tipo di unicità potrebbe non rientrare nei gusti del lettore in cerca di "evasione".
Ma una possibilità, a Carver, va data, e forse “Cattedrale” rappresenta la scelta migliore.

“Sono davvero grandi. Massicce. Sono fatte di pietra. A volte di marmo. Ai vecchi tempi, quando costruivano le cattedrali, gli uomini volevano essere vicini a Dio. Ai vecchi tempi, Dio era una parte importante della vita di ognuno. Lo si capisce da tutte le cattedrali che costruivano.”

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Arte e Spettacolo
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    12 Giugno, 2020
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Una figura con cui confrontarsi

Ho sentito citare questo titolo in diversi altri saggi sulla scrittura, ma mentre è prevedibile che un autore citi il suo maestro, come nel caso di Raymond Carver, meno usuale è che a citarlo sia un grande scrittore contemporaneo come Stephen King. Si trovano in questo libro, infatti, consigli che King ha fatto suoi al punto da citarli nel suo "On writing"; come quello di lasciar "raffreddare" per un po’ il romanzo che avete appena finito di scrivere, per poi riprenderlo a mente sgombra e con più giudizio.
Come in tutti i saggi sulla scrittura creativa, ci sono cose con cui il lettore/scrittore può essere d'accordo o meno, e starà a lui far suo il meglio, e scartare quel che non trova affine con la propria visione del mestiere; cercando ovviamente di non confondere il meglio con il quel che già sente suo e il peggio con quel che gli sarebbe scomodo affinare.
Quest'opera di John Gardner va comunque letta nel contesto sociale (statunitense) e temporale (1983) in cui è stato scritto. Gardner, pur non risultando arrogante, tende spesso a esporre quella che è la sua idea con eccessiva lapidarietà; oltretutto, concetti che potevano essere (forse) validi ai suoi tempi - come il fatto che la scrittura televisiva produca solo spazzatura - lasciano oggi il tempo che trovano. Il lettore deve essere bravo ad approcciarsi a questo libro in maniera critica, svolgendo quasi un'analisi più che una semplice lettura.
Oltre a questo, comunque, Gardner fornisce anche degli utili consigli e delle interessanti analisi sul processo creativo, sulle pressioni sociali ed emotive a cui uno scrittore può essere sottoposto. In certe riflessioni mi ci sono anche ritrovato, devo dire, perché in effetti quello del romanziere è un mestiere ingrato e colui che lo persegue può essere facilmente soggetto a scoramenti, crisi, interrogativi riguardo al proprio lavoro e al proprio talento. Lo scrittore si interroga spesso sul se valga la pena di fare quel che fa, e proprio in considerazione di questo è importante che si circondi di persone in grado di stimolarlo, di supportarlo nei momenti bui, ma anche di persone con le quali possa confrontarsi.
È stata quindi una lettura interessante, anche se devo ammettere che qualche affermazione mi ha fatto storcere il naso. Oltre alla già citata critica alla televisione - che oggi vanta produzioni di valore assoluto - c'è la critica alla fantascienza, che viene definita perlopiù spazzatura, se si escludono autori come Bradbury, Vonnegut, Stanislaw Lem e diversi altri. Questa esposizione dei fatti mi è parsa piuttosto insensata: se esenti dal giudizio i suoi migliori autori, ogni genere può definirsi spazzatura; eppure questo tipo di approccio pregiudizioso pare essere riservato solo e soltanto alla fantascienza. Ma si può sapere, benedetto iddio, perché? Certo, Gardner scriveva questo libro intorno ai quarant’anni fa, ma questo tipo di pensieri dilagano anche oggi, in un mondo in cui certa fantascienza si è ormai fusa con la nostra realtà. Sì, perché la fantascienza non comprende soltanto alieni invasori o civiltà galattiche lontane, ma anche società in cui la tecnologia ha preso il sopravvento. E la nostra non sarebbe tale? Ma anche se ci sarebbe molto da dire, in merito, meglio che mi fermi qui.
Tornando a Gardner e concludendo, la sua si rivela una personalità piuttosto particolare con la quale ogni scrittore dovrebbe confrontarsi, così come dovrebbe farlo con ogni figura simile. È solo così, confrontandosi col pensiero di colleghi di ogni epoca e “filosofia”, che uno scrittore con un minimo di ambizione può raggiungere la versione migliore di sè stesso.

“Tutte le opere scritte richiedono, perlomeno in una certa misura, uno stato simile a quello della trance: lo scrittore deve evocare dalla non-esistenza un personaggio, una scena, e deve mettere a fuoco nella sua mente quella scena immaginaria finché non la vede con la stessa nitidezza con cui, in condizioni normali, vedrebbe la macchina per scrivere e il tavolo ingombro che ha davanti, o il calendario dello scorso anno appeso al muro. Ma a volte - per la maggior parte di noi fin troppo spesso - accade qualcosa, un demone prende il sopravvento, o un incubo si insinua, e il fantastico diventa realtà.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    05 Giugno, 2020
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Don Candido di Westfalia

Un po' Don Chisciotte, un po' Pinocchio; un po' racconto, un po' trattato filosofico proposto in veste fiabesca e comica. Sebbene sia più vecchio di oltre un secolo rispetto al racconto di Collodi, Candido ha una struttura e una narrazione molto simile: spezzettata in capitoli molto brevi, introdotti da titoli che anticipano gli eventi che si apprestano a narrare e che in certi casi potrebbero essere racconti a sé stanti. Forse su quest’ultimo aspetto Pinocchio ha una marcia in più, ma c’è da dire che mentre le disavventure del nostro burattino si concentrano su diversi temi (che dunque è accettabile spezzettare e vedere trattati separatamente), Candido cerca di arrivare alla sua conclusione principale con la storia nella sua interezza.
È evidente l’intenzione di Voltaire di sfruttare il registro comico e leggero della fiaba per poter essere dissacrante, ironico e paradossale nel montare e smontare quelle dottrine filosofiche che di norma vengono trattate con la serietà che loro compete. Tuttavia, l’approccio di Voltaire è efficace e interessante, e per raggiungere il suo scopo si serve in primis del suo protagonista: perfetta incarnazione del buono/ingenuo che attinge qualcosa, come dicevo all’inizio, del Cavalier Mancego di Cervantes. Come si fa, infatti, a non associare i vari compagni di viaggio (Cacambo in primis) al fedele Sancho Panza? Come si può non pensare di Cunegonda come alla bella Dulcinea del Toboso, motore di tutte le disavventure di Don Chisciotte così come la baronessa di Westfalia lo è per quelle di Candido? Sarà magari un’idea del tutto personale e campata in aria, ma forse a Voltaire non interessava essere narrativamente innovativo, ma cercava uno schema collaudato ed efficace che potesse permettergli di raggiungere il suo obiettivo: una discettazione romanzata che ha come tema centrale l’ottimismo; un ottimismo che Voltaire si diverte a smontare per mezzo delle disavventure di Candido.
Ma come riesce a far questo?
Molti dei personaggi di questo racconto sono rappresentanti in carne e ossa di un concetto nella sua accezione filosofica più estrema: il filosofo Pangloss è infatti la perfetta incarnazione dell’ottimismo estremo (ogni tragedia accade perché alla fine tutto vada nel migliore dei modi), che si contrappone al pessimismo acuto di Martin e del nobile veneziano Pococurante. In mezzo a tutte queste figure un po’ macchiettistiche si pone lo stesso Candido, che seppure sia influenzato da entrambe le parti non ha ancora preso la sua posizione: non parteggia né per l’una né per l’altra linea di pensiero, ma cerca di analizzarle e rapportarle a tutto ciò che gli capita, per capire quale di queste sia effettivamente supportata dai fatti. In conclusione delle sue avventure, sarà lo stesso Candido a trarre quella che forse è la vera idea di Voltaire: che la verità non starà forse nel mezzo, ma quasi.
Candido, forse, rappresenta per Voltaire ciò che il filosofo dovrebbe essere: qualcuno che non cerca di adattare la realtà alla propria filosofia, ma la corregge quando i fatti finiscono per sconfessarla. Una conclusione alla Holmes.

“«Credete - disse Candido - che gli uomini si siano sempre massacrati a vicenda come oggi? che siano sempre stati bugiardi, imbroglioni, perfidi, ingrati, briganti, deboli, mutevoli, vigliacchi, invidiosi, golosi, ubriaconi, avari, ambiziosi, sanguinari, calunniatori, dissoluti, fanatici, ipocriti e sciocchi?» «E voi - disse Martin - credete che gli sparvieri si siano sempre cibati dei piccioni che trovano?» «Sì. certo», disse Candido. «Ebbene! - replicò Martin - se gli sparvieri hanno sempre avuto lo stesso carattere, perché volete che gli uomini abbiano mutato il loro?»”

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Politica e attualità
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    01 Giugno, 2020
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Attuale cinquecento anni dopo

Certi uomini avevano una visione delle faccende umane che andava incredibilmente oltre la superficie, così a fondo da scovare concetti universali che resistono alla prova del tempo, perché talmente radicati in noi da risultare impossibili da cancellare e che ci portiamo dietro dal principio della nostra Storia. Quando penso a persone simili, la prima che mi è sempre venuta in mente è Shakespeare, ma da oggi mi verrà in mente anche Étienne de La Boétie, almeno per quanto riguarda il concetto di tirannia e la tendenza quasi innata che l'uomo ha di fare di sè stesso un servo.
La cosa che più colpisce di questo breve discorso, oltre all'essere stato scritto nel Cinquecento, è la giovanissima età del suo autore: si dice che avesse, infatti, fra i sedici e i vent'anni. L'arguzia del suo discorso era così elevata e fuori dagli schemi, per l'epoca, da colpire anche un grandissimo filosofo come Michel de Montaigne, che volle assolutamente farsi amico quel giovane così brillante. Nel suo discorso, La Boétie mette in risalto l'assurdità della tirannia, ma seppure enfatizzi la malvagità dell'uomo che detiene il potere, si concentra soprattutto sul paradossale comportamento dei sudditi che, se solo volessero, potrebbero facilmente liberarsi di lui. Non è che un solo uomo, in fondo. Purtroppo, l'uomo pare essersi assuefatto alla servitù al punto di amare le proprie catene. Tuttavia, anche coloro che sono riusciti ad attirarsi i favori del tiranno, dovrebbero sapere quanto quella considerazione e quei favori siamo effimeri; pronti ad essergli strappati al primo capriccio di un uomo ubriaco di potere, che per il proprio vantaggio può essere disposto a tutto.
Purtroppo gli uomini, pur bramando la libertà perché insita nella propria natura, tendono ad assuefarsi alla servitù, a convincersi che non è poi così male; che in fondo è meglio la «vaga sicurezza d'una vita miserabile che la dubbia speranza di vivere felici. Molti popoli hanno vissuto assoggettati dalla nascita e mai hanno conosciuto altro, dunque non possono piangere per la libertà perduta o lottare per essa, ma la Boétie è comunque convinto che il desiderio di libertà sia talmente radicato nella natura umana, che anche in mezzo a questi popoli potranno nascere uomini in grado di desiderare l'inimmaginabile. Più difficile è trovare la forza e il sostegno per ottenerle.
Breve, denso, ma estremamente interessante. Non dimentichiamo che, seppur lontane dalla nostra società occidentale (ma non troppo), realtà del genere sono presenti ancora oggi, cinquecento anni dopo La Boétie.

“Per ora vorrei invece soltanto capire come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città, tante nazioni, a volte sopportino un solo tiranno, che non ha altra potenza se non quella che essi gli concedono; che non ha potere di nuocere, se non in quanto essi hanno la volontà di sopportarlo; che non saprebbe far loro alcun male, se essi non preferissero subirlo anziché contrastarlo. Si tratta di una cosa enorme, certo, e tuttavia talmente comune da doversene più affliggere che stupire: vedere un milione di uomini servire in modo miserabile, il collo sotto il giogo, non costretti da una forza superiore, ma in qualche modo incantati e affascinati dal solo nome d'uno, di cui non devono temere la potenza, poiché è solo, né amare le qualità, poiché è inumano e selvaggio nei loro riguardi.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    27 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Ben fatto, vecchio mio

“Ratto”, ovvero l’ultimo racconto di questa raccolta, mi ha lasciato l'impressione che le difficoltà del protagonista a concludere un romanzo nascondano una paura o un’effettiva difficoltà del King recente. Un po’ come le paure espresse in “Misery”. Infatti, sebbene “L’istituto” e soprattutto “The Outsider” siano dei buoni lavori, avevano dei cedimenti che lasciavano in bocca il sapore della stanchezza, dell’indolenza, dell’incapacità di concentrarsi e trovare espedienti narrativi davvero soddisfacenti. Questo li rende, seppur siano godibili, ben lontani dai vecchi capolavori del Re. Per quanto riguarda i racconti, il discorso pare molto diverso: questi ultimi infatti si dimostrano solidi e mantengono tutte le peculiarità che ci hanno portato ad amare King nel corso di tutti questi anni.
Si, “Se scorre il sangue" è davvero un ottimo lavoro.
Ovviamente, l’attenzione di chi si appresta alla lettura è focalizzata sul racconto (o romanzo breve) che dà il nome alla raccolta, che ha come protagonista Holly Gibney e appartiene al filone degli “Outsider”. Questo suggerirebbe che gli altri tre racconti, come accaduto in passato, siano stati buttati lì per rimpolpare un tomo altrimenti troppo sottile: pescati nella massa di inediti scritti dall’autore e buttati lì a caso. E invece sapete una cosa? sono forse ancora più belli del racconto “principe”, ed è davvero difficile decidere quale io abbia preferito; forse quello meno orrorifico e più letterario della raccolta: “La vita di Chuck”.
Variegate eppure estremamente kinghiane, ognuna di queste storie mi ha colpito in modo diverso: “Il telefono del signor Morrigan" mi ha impressionato e spinto a lasciare la luce accesa un po' in più; “La vita di Chuck" ha stimolato riflessioni e pensieri, lasciando il segno con la sua narrazione “invertita”; "Se scorre il sangue" ha placato la sete thrilleristica dell'autore (che fossi in lui abbandonerei; ma se proprio non ce la fa, molto meglio col contesto "Outsider”), fornendo comunque un discreto intrattenimento; "Ratto" mi ha coinvolto nelle difficoltà e nelle paranoie del protagonista scrittore, per il quale non potevo non provare almeno un pizzico di empatia.
Nonostante l'età che avanza, oltretutto, è bello vedere come King si stia adattando ai nostri tempi e spingendosi verso contesti e temi attuali come l’ascesa della tecnologia e il problema cambiamento climatico: cose che è stato molto abile a trattare e integrare soprattutto nei primi due racconti.
Per concludere, se nel caso delle mie ultime recensioni dell'autore ero un po' restio nel consigliare o meno la lettura della nuova uscita di turno, in questo caso non ho alcun dubbio: promosso a pieni voti. Leggetelo.

"Il cervello umano è per sua natura finito - non è altro che una massa di tessuto spugnoso racchiusa in una gabbia di ossa -, ma la mente che vi dimora è infinita. Le sue possibilità sono illimitate, e la sua forza immaginativa va ben oltre ogni nostra capacità di comprensione. Per come la vedo io, quando un uomo o una donna muoiono va in rovina un mondo intero, il mondo che quella persona conosceva, e nel quale credeva. Pensaci, Brian: ci sono miliardi di esseri umani sulla terra, e ognuno di loro ha un mondo intero dentro. Il pianeta come è stato concepito dalla sua mente."
Dal racconto "La vita di Chuck"

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Romanzi
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    22 Mag, 2020
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Predicare bene, razzolare male

Un racconto molto breve e del tutto incentrato sul personaggio da cui prende il nome.
Sender Prager è un ebreo, proprietario di un ristorante a Varsavia conosciuto da tutti come un prolifico donnaiolo. Nella sua lunga vita da scapolo ha fatto strage di donne: pochissime erano infatti quelle che, sposate o meno, non s'erano fatte un giro sul divano del suo "studiolo". Tra le sue cameriere, addirittura, v'erano dei veri e propri bisticci riguardo a chi di loro fosse la sua favorita e avesse finito per sposarlo.
È proprio nel giorno dell’inatteso matrimonio di Sender Prager che il racconto ha inizio, ma non sarà nessuna delle devotissime cameriere a far la parte della consorte, con estrema disperazione di queste ultime; bensì un’ebrea di “buon partito” consigliata a Prager dal rabbino che lo ha sempre spinto con insistenza verso il matrimonio.
Israel J. Singer focalizza la sua attenzione sulla crisi di coscienza di quest’uomo dissoluto che a un certo punto della sua vita, spaventato dalla prospettiva di una morte da impenitente, decide di "mettere la testa a posto" e prender moglie. Per la prima volta rinnega sé stesso e dà ascolto a tutti gli ammonimenti fattigli da quegli uomini e quelle donne così integerrimi e cerca di porre rimedio sposando una ragazza immacolata e, nel giorno delle nozze, offrendo un pasto sostanzioso a tutti i poveri della zona.
Non passerà molto tempo, tuttavia, prima che Sender Prager scopra che quelle persone che lo ammonivano dall’alto della loro pura coscienza e che si reputavano in tutto e per tutto superiori a lui, erano in realtà impostori della peggior specie: santi nelle parole, ma dissoluti nei fatti. Nella testa del protagonista scatterà un meccanismo che lo porterà a mettere in dubbio tutte le sue certezze, a perdere la fiducia in ogni aspetto del mondo, fino a un rovinoso declino.
È proprio questo l'aspetto più interessante del racconto, quello più tragicamente reale e anche attuale: Sender Prager è vittima dell'ipocrisia e di un tradimento nei confronti di sé stesso, che ha perpetrato in nome di ideali che si sono insinuati nella sua psiche tanto da plagiarlo, ma che in realtà non venivano messi in pratica nemmeno dai loro più fervidi sostenitori. L’umiliazione, la disillusione e la sfiducia sfocerà in una condotta sregolata e priva di qualsiasi freno che lo porterà a schiantarsi.
Non un capolavoro, ma davvero un bel racconto.

“Non credeva più in niente. Né in questo mondo, né nell’altro. Non temeva più i cieli che si accendono di rosso, né gli uomini di Dio, quei giusti rivestiti di pelliccia setosa. Se della gente pia aveva potuto ingannarlo a quel modo, non restava più niente al mondo.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    18 Mag, 2020
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Una raccolta un po' povera

In Anna Katherine Green vedo la figura della giallista vecchio stampo, molto simile a quelli che erano i due più grandi esponenti del genere: Agatha Christie e Arthur Conan Doyle. Non si può comunque dire che ne imitasse lo stile e le idee, considerato che il suo primo romanzo venne scritto quasi dieci anni prima della "nascita" di Sherlock Holmes, in quel capolavoro che è “Uno studio in rosso".
Nella sua giovane detective Violet Strange constatiamo una metodologia d'indagine e un livello d'intuizione davvero molto simile a quelle del suo più famoso collega, seppur diversificate da una figura femminile vivace e dirompente, molto diversa da quella misantropica e misteriosa di Holmes.
In questa raccolta di tre brevi racconti, tuttavia, c'è davvero molto poco per poter giudicare Violet Strange e la sua creatrice: "Non è un mestiere per uomini " è infatti un libro che sarà anche di 200 pagine, ma queste vengono dimezzate dal testo a fronte (sulla cui utilità ho qualche dubbio, in questo specifico caso) e ulteriormente ridotte da almeno altre trenta pagine tra note, prefazione e postfazione. Rinunciare al testo a fronte e aggiungere un paio di racconti in più sarebbe forse stata una scelta più sensata, capace di dare al lettore un appagamento diverso oltre che la capacità di entrare più in empatia col personaggio, ché in questo caso non si tratta che di un “incontro” superficiale; come se avessimo invitato qualcuno a cena e questi ci avesse lasciati soli al tavolo subito dopo l’antipasto.
I tre racconti qui contenuti, tuttavia, ci danno un assaggio delle abilità della scrittrice (sicuramente degne di nota) e ci incuriosiscono abbastanza da voler leggere altro e approfondire. L'arguzia e le intuizioni di Violet Strange saranno certamente apprezzate dagli estimatori del genere, che magari hanno esaurito le avventure dei vari Poirot, Marple e il già citato Holmes ma non vogliono rinunciare alla bellezza unica dei gialli prodotti a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento.

“Non vedere! Lui comprese la futilità delle proprie parole nel momento in cui lo sguardo gli cadde sulla giovane donna, che si era alzata al suo apparire e ora stava in piedi davanti a lui e lo fissava senza proferire parola, senza fare un gesto, ma con una tale scintilla di terrore negli occhi che gli fece comprendere per la prima volta il senso dell’umana miseria.”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    15 Mag, 2020
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Un thriller ibrido

Durante la lettura di questo romanzo balzano all’occhio certi problemi che, nel super civilizzato mondo in cui ci illudiamo di vivere, credevamo debellati già da molto tempo. Purtroppo non è così: in determinati posti del mondo certe realtà sono più vive che mai, soprattutto lontano dai centri nevralgici della società umana contemporanea.
Tra questi, la questione razziale.
Con una storia in bilico tra il thriller e il giallo, Attica Locke ci fa gentilmente notare che in molti angoli dell’estesissima terra d’America, l’aver avuto un presidente di colore non ha cambiato di molto le dinamiche discriminatorie di cui abbiamo testimonianze di diverso tipo, tra cui un capolavoro letterario come “Il buio oltre la siepe”, che pur essendo un romanzo del 1960 a quanto pare si rivela più attuale che mai.
“Texas Blues” prova a dire la sua sulla questione raccontandoci una storia in bilico tra il thriller e il giallo. Il romanzo è ambientato a Lark, una piccola cittadina i cui residenti di colore fanno ancora i conti con l'odio razziale e dove sono costretti a guardarsi continuamente le spalle, a evitare certi locali e a pesare ogni parola. È questo contesto a distinguere il romanzo dalla massa informe di thriller oggi in commercio, spesso molto simili l'uno all'altro. E direi che questo è il suo maggior pregio.
Riguardo allo stile dell’autrice, tuttavia, ho qualche perplessità. Attica Locke tende a cogliere ogni occasione propizia per divagare: e se da una parte questo la aiuta a tratteggiare il background dei personaggi (a volte con precisazioni superflue), dall'altro spezzetta la narrazione e intacca il coinvolgimento del lettore. Paragrafi molto lunghi in cui vengono esposte vicissitudini lontane dall’azione in corso, spesso inseriti a bella posta tra due battute di un dialogo, non sono il massimo. Nonostante questo, la storia scorre abbastanza piacevolmente, senza tuttavia rivelazioni da mascella spalancata, con qualche personaggio un po' artificioso e diverse forzature di troppo.
Per concludere, se vi interessa il tema citato all'inizio ma non avete la voglia di cimentarvi in letture più impegnative, "Texas Blues" può essere un buon compromesso. Se cercate un libro che tratti quei temi in maniera più approfondita o, all’opposto, volete leggere un thriller più rispettoso dei canoni del genere, il mio consiglio è quello di cercare altro.

“L’intera conferenza stampa non era forse un salto verso una conclusione, un tentativo disperato di afferrare una corda che potesse portare Van Horn e Wilson in salvo dall’altra parte di quella pozza di fanghiglia ribollente, sorvolando le acque torbide della storia, la palude della questione razziale che minacciava di inghiottirli?”

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Romanzi
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    11 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Comico, triste e dissacrante.

Ci sono autori che hanno uno stile unico e inconfondibile; che hanno un modo del tutto originale per trattare temi universali e portarli all'attenzione del lettore in salse nuove.
Uno di questi autori è Kurt Vonnegut.
Questi autori, tuttavia, in molti casi o si amano o si odiano, e spesso chi li ama può riscontrare una certa difficoltà nel difenderli senza mai tirare in ballo il proprio gusto personale. Sì, perché non si può certo dire che le opere di Vonnegut siano prive di elementi particolari, surreali, a volte folli o anche privi d'ogni senso. Questo può renderli soggetti ad attacchi spietati volti a sminuirne il valore. Tuttavia , per come la vedo io, questo è l’aspetto più caratteristico di Vonnegut; il modo particolare che aveva per porre l'accento sulle assurdità della vita e dell'uomo. Prendete dunque l'autore per quello che è: un uomo che indaga le controversie degli uomini con un'ironia amara e folle al tempo stesso; capace di indurre a sorrisi dei quali, in certi casi, ci si pente dopo pochi attimi.
Detto questo, dico che ho apprezzato molto "Ghiaccio Nove", così come a suo tempo apprezzai "Perle ai porci”, che pur essendo molto diversi mi hanno lasciato nella testa una forte sensazione di affinità, come se li ritenessi strettamente legati pur non avendo alcun punto di contatto se non, ovviamente, la mente che li ha partoriti. Mentre “Perle ai porci” si concentrava sulle disparità economico-sociali che affliggono l’uomo (quasi) da quando è al mondo, in “Ghiaccio Nove" Kurt Vonnegut sposta l’attenzione a temi più lontani dall'ambito materiale e fisico, verso un contesto più "spirituale”. Al centro di questo romanzo infatti, oltre all'onnipresente spauracchio di un’estinzione di massa che, a causa delle sue esperienze pregresse, è sempre fulcro dei pensieri dell'autore, c'è il rapporto Uomo-Dio e la miserevole condizione umana spesso mascherata da euforia e grida che non sono altro che un modo per nascondere la possibile insensatezza del tutto; una barbara finzione. Non sfugge infatti la profonda amarezza di cui è pregno un romanzo che, pur parendo comico quasi in ogni pagina, ci trasmette la costante convinzione di non essere tale.
Raccattando la storia di un fantomatico padre della bomba atomica, il protagonista intraprenderà un viaggio nelle contraddizioni umane, nella falsità spesso insita nella religione, fino a un epilogo che, pur essendo fantasioso, pare quasi inevitabile.
L'ultimo paragrafo del romanzo ne rappresenta alla perfezione l'anima: triste, comico e dissacrante allo tempo stesso.

“«Guardati dall’uomo che lavora sodo per imparare qualcosa, e una volta che l’ha imparato, non diventa più saggio di prima», ci dice Bokonon. «Egli nutre un risentimento omicida per la gente ignorante che non ha dovuto faticare per la propria ignoranza.»”

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Scienze umane
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    07 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Letteratura nel terzo millennio

Che Italo Calvino sia un grandissimo della letteratura italiana (non abbastanza riconosciuto, secondo me) trova ulteriore dimostrazione nel fatto che sia stato l'unico italiano ad essere stato invitato a tenere le Norton Poetry Lectures all'università di Harvard.
Proprio da queste conferenze nascono le “Lezioni Americane" qui contenute, e purtroppo pubblicate postume. In queste lezioni troviamo quella che, in fondo, è la visione che Calvino aveva della letteratura e degli adattamenti che avrebbe dovuto attuare per fronteggiare il millennio in cui siamo, ma che a quel tempo stava ancora approssimandosi (si era nel 1985). Cosa ancor più importante, Calvino si concentra su quel che della letteratura doveva assolutamente salvarsi.
Diversi sono gli spunti di riflessione datici dall’autore, ancor più sorprendenti se si pensa che molto di quel che viviamo lo aveva previsto con spaventosa esattezza: parlo ad esempio della supremazia del "software" sull'"hardware"; della società che ci bombarda di immagini che mano a mano si svuotano di significato e soffocano l'immaginazione figurativa degli uomini, travolgendo la produzione letteraria contemporanea con uno tsunami di vacuità. Oltre a considerazioni molto utili a chi aspira a scrivere, traspare anche il Calvino autore: le lezioni sono infatti un modo per analizzare meglio la sua opera, conoscere le idee e le intenzioni che hanno fatto da motore ai suoi lavori.
Seppure il caro Italo tenda a divagare e a perdersi nella sua grande cultura letteraria, a volte portando anche il lettore a non capire dove voglia andare a parare, ci sono pensieri illuminanti che credo siano utili, se non imprescindibili per l'autore "consapevole". Cosa intendo per autore consapevole? Intendo un autore come lo era lo stesso Calvino: un autore che non vuole semplicemente raccontare una storiella, ma che di una storia fa un mezzo per indagare il mondo in modi mai visti prima; che vede nella letteratura qualcosa che può arrivare dove nient'altro può farlo: oltre i limiti della realtà conoscibile. Solo fino a quando la letteratura continuerà ad avere questo obiettivo potrà dirsi veramente tale, secondo Calvino, ma anche secondo il mio modestissimo parere. Ora la domanda è: com'è la situazione per noi che questo millennio lo stiamo vivendo? Posso rispondere solo per me stesso e dirò che in alcuni scrittori tutto questo è ancora vivo, seppur attenuato; ma è riguardo alla mole e al "palato" dei lettori che ho qualche riserva. Sarebbe davvero interessante sapere cosa ne penserebbe Calvino, o qualcuno quantomeno accostabile alla sua caratura. Ma purtroppo figure di questo genere nel mondo scarseggiano, e dopo la dipartita di Umberto Eco (e forse anche Camilleri) mi sento di dire che che in Italia non ce ne siano davvero più.

“[…] tutte le «realtà» e le «fantasie» possono prendere forma solo attraverso la scrittura, nella quale esteriorità e interiorità, mondo e io, esperienza e fantasia appaiono composte della stessa materia verbale; le visioni polimorfe degli occhi e dell’anima si trovano contenute in righe uniformi di caratteri minuscoli o maiuscoli, di punti, di virgole, di parentesi; pagine di segni allineati fitti fitti come granelli di sabbia rappresentano lo spettacolo variopinto del mondo in una superficie sempre uguale e sempre diversa, come le dune spinte dal vento del deserto.”

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Romanzi
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    05 Mag, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Spogliati d'ogni cosa

Il titolo di questo racconto è una chiara e puntuale anticipazione di quel che ci si troverà a leggere. Saranno infatti gli stessi personaggi, spogliati d’ogni loro avere, a mostrarsi ai nostri occhi “Nudi e crudi”. Ma andiamo con ordine.
Peculiarità di questo romanzo, com’è evidente fin dalla quarta di copertina, è l'umorismo: la vicenda ci viene infatti raccontata con una comicità sfumata dal dramma e da un’atmosfera un po’ grottesca, che coinvolge sia gli eventi raccontati che i suoi protagonisti. Due coniugi imborghesiti e abitudinari si ritroveranno vittime d’un curioso furto: infatti, al rientro a casa da una serata a teatro, la ritroveranno completamente svaligiata. I ladri non hanno lasciato nulla, neanche la moquette; ma essendo tutto coperto dall'assicurazione il trauma non dovrebbe essere poi così forte. Difatti, all’inizio sembra limitarsi a una semplice storiella (neanche troppo interessante e unica) da raccontare a tavola con gli amici, oltre a comportare un periodo in cui i coniugi saranno costretti a vivere in maniera un po’ arrangiata e a dover star dietro ai processi burocratici richiesti dall’assicurazione. Alla lunga però, quest'evento scatenerà un forte cambiamento nella moglie dell' avvocato, che privata di tutti quegli averi che parevano averla chiusa in una gabbia dorata, puo finalmente gettare un occhio a tutto ciò che fino ad allora avevo evitato per puro e semplice pregiudizio. Come se, spogliata di tutti i suoi beni, si fosse sbarazzata anche di quell'identità che le si era appiccicata addosso e l'aveva resa prigioniera delle abitudini. Mentre lei si mostra non solo adatta, ma anche eccitata dal cambiamento, lo stesso non potrà dirsi di suo marito. Questo furto li metterà l'uno di fronte all'altra, senza più maschere, e sembra essere questo il fine ultimo del racconto.
Pur avendone compreso il fine e apprezzato l'ironia, devo tuttavia dire che questo racconto non ha avuto la potenza di scuotermi. È mancata quella scintilla, quel colpo di genio; quegli sprazzi di letteratura vera che potessero elevare l'idea dell'autore e farla arrivare al lettore forte e chiara. È mancata l'emozione, il coinvolgimento, l'empatia.
Un racconto piacevole da leggere, ma non propriamente indimenticabile.

“Si sentiva come derubata due volte: la prima, dei suoi averi; la seconda, della possibilità di superarne la perdita. Non era giusto, e non aveva senso; forse, pensò, era questo che si intendeva per «sentirsi destabilizzati».”

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Romanzi
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    29 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un libro fedele a sé stesso

Avevo questo libro in coda già da un po', ma ancora non mi ero deciso a iniziarlo. Negli ultimi giorni però, mi sono imbattuto in un articolo su Focus Storia che parlava della guerra condotta da tedeschi e italiani sul fronte russo durante la Seconda Guerra Mondiale, e quest'articolo esordiva proprio con una citazione tratta da questo libro. Questo perché “Il sergente nella neve” è forse la più grande testimonianza che abbiamo di quella guerra dal punto di vista degli Alpini, visto che Mario Rigoni Stern fu un sergente maggiore che ne prese parte in prima persona.
C’è bisogno di dirlo? Neanche un giorno dopo la lettura di quell’articolo, avevo questo libro tra le mani.
La spedizione in Russia non era cominciata sotto i migliori auspici: gli Alpini non erano la divisione più adatta a condurre un'operazione militare nella steppa russa, nel pieno dell'inverno: è ovvio che fossero abituati a tutto un altro tipo di scenario. L’equipaggiamento, poi, non era dei migliori, non solo per quanto riguardava le armi ma anche per l'abbigliamento troppo leggero con cui si misero in viaggio. Ma saranno lì, e terranno bene botta ai russi sulla riva del fiume Don. Tuttavia, quando saranno costretti a ritirarsi, comincerà un devastante cammino che li vedrà cadere come mosche, provati duramente nel corpo e nell’anima. Il nemico è costantemente alle loro spalle, nascosto in ogni angolo, e quegli uomini si chiedono continuamente se arriveranno mai a “baita”, pur sapendo nel profondo del cuore che se anche dovessero farlo nulla sarà mai come prima.
“Il sergente nella neve” è una testimonianza straziante e a tratti poetica di questo cammino orrorifico che mette un ulteriore punto esclamativo sulla follia della guerra, con la potenza che poteva metterci solo una persona che l’ha vissuta in prima persona. Rigoni Stern rende perfettamente questa situazione pazzesca, mettendo in risalto quella creazione straordinaria che è il corpo umano, che seppur sottoposto alle prove più impensabili è deciso a non cedere. Ma la forza dell’uomo non sta solo nel corpo, ma anche nell’anima; nell’essere capace di dividersi e resistere a sconvolgimenti emotivi dovuti al dolore continuo causato dalle perdite dei compagni e dalla pressione di una situazione disperata, eppure serbare in sé la speranza e voglia di sopravvivere anche nel grigiore estremo d’un viaggio in mezzo al gelo e alla neve, tra un isba e l’altra.
Sembrerà che io abbia amato questo libro, ma non è proprio così. Diciamo che forse il termine più adatto è che lo “ammiro”. Sono perfettamente consapevole che non poteva essere scritto in modo diverso e che solo così poteva trasmettere quel che i protagonisti hanno provato, nella maniera più fedele possibile. La lettura a un certo punto si fa stancante proprio come quel viaggio che racconta; diventa ripetitiva e asfissiante. È davvero difficile per me ammetterlo, ma in certi tratti era dura proseguire proprio come lo era per il protagonista, e questo secondo me rende il tutto più veritiero e fedele che mai, pur abbassando il piacere della mia lettura.
È un libro importante, senza ombra di dubbio, ma occorre che il lettore sappia quale viaggio sta per intraprendere, prima di caricare in spalla la propria forza di volontà e cominciare.

“In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne i bambini un'armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l'altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. […] Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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4.3
Stile 
 
4.0
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    27 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

L'alchimista del thriller

La coppia Ballard-Bosch è ormai super affiatata, e promette di tenerci compagnia ancora per un bel po'. Devo dire che, probabilmente, è proprio la capacità che Connelly mostra nel tratteggiare personaggi carismatici e molto vari a garantirgli il successo che ha, e probabilmente avrà ancora per un bel po' di tempo. Penso, oltre ai protagonisti, anche alla forza che ha un personaggio come l'avvocato Haller, che riesce a dare ai romanzi dell'autore quella sfumatura "legal" che rende il tutto più variegato. L’autore si è costruito un contesto super-dinamico, che non annoia mai e non risulta mai ripetitivo.
Connelly ha trovato la formula perfetta per sfornare un romanzo godibile dopo l'altro.
Attenzione però, perché forse è proprio in questo che sta anche il maggior difetto dei suoi romanzi. Sì, perché si percepisce che è un romanzo prodotto secondo una formula; seguendo uno schema che è sempre molto simile pur variando nei contenuti. Cosa implica questa osservazione? Che Connelly potrà sfornare tanti romanzi godibilissimi, ma sarà molto difficile che sforni un romanzo "capolavoro”; sempre restando nei limiti del genere.
“La fiamma nel buio", infatti, segue due o tre linee narrative come tutte le opere di intrattenimento moderne: vuole tenerti incollato a spingerti ad andare avanti, e ci riesce egregiamente. Tuttavia, nella corsa adrenalinica verso la risoluzione dei casi, il lettore non prova più l’ebrezza del coinvolgimento cognitivo, peculiare dei gialli classici; non gli è più possibile fare le sue supposizioni, e dunque deve solo lasciarsi trascinare dagli eventi e dai personaggi. C'era un tempo in cui i thriller provavano a mantenere un minimo di questa peculiarità giallistica: penso a "Il collezionista di ossa" di Jeffery Deaver, tanto per fare un nome. Ma a quanto pare il genere ha ormai preso questa direzione, e quantomeno posso dire che Connelly si è adattato a questa realtà meglio di altri.
Dunque, se cercate una lettura adrenalinica, veloce e coinvolgente, potete tranquillamente leggere “La fiamma nel buio". Seguirete Ballard e Bosch nella risoluzione di ben tre casi: l'omicidio di un giudice, di un vagabondo e di un ragazzo morto ormai da trent'anni.
Buon divertimento.

“Se prendi ogni caso sul personale, ti arrabbi. La rabbia è un fuoco che ti dà la forza di andare fino in fondo ogni volta.”

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Racconti
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    24 Aprile, 2020
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Simbolico, onirico, ma vivo.

Si riemerge dalla lettura di alcuni racconti di Borges come si emerge da sogni molto vividi; vividi proprio come la scrittura dell'autore argentino, che nonostante spesso oscilli tra il fantastico e l'onirico, riesce a produrre nella mente del lettore immagini intense, suggestive, pulsanti. Tuttavia non vi dirò sciocchezze: leggere questi racconti non è facile: ci vuole attenzione, voglia, perseveranza. Le verità nascoste e i messaggi che Borges vuole trasmettere non sono evidenti e facili da cogliere, ma vi faranno volutamente perdere in un labirinto linguistico e concettuale che mette in evidenza la sconfinata cultura dell'autore, la sua mente acuta che ha in canna colpi di genio che sono un ibrido tra sapienza umanistica e scientifica. Per alcuni racconti, lo ammetto, ho dovuto fare delle ricerche per schiarirmi le idee, ma una volta scovata la chiave di lettura tutto diventa più chiaro e soddisfacente.
La raccolta si chiama "Finzioni" perché, nelle diverse accezioni che si possono dare a questo termine, sono presenti in praticamente tutti i racconti: l'enciclopedia completa d'un mondo fittizio; la copia d'un Don Chisciotte che vuol essere fedele al Cervantes, ma alla fine non è altro che una sua imitazione puntuale; la materializzazione d'un uomo concepito in sogno; il carnefice che si finge vittima; la messinscena dell'esecuzione d'un traditore assassinato da eroe, così da ottenerne un duplice effetto vantaggioso; e cosi via.
Alcuni racconti sono più interessanti di altri: penso a "la Biblioteca di Babele", a “Le rovine circolari" o al “Giardino dei sentieri che si biforcano", che hanno lasciato in me un’immagine molto forte e mi hanno colpito per quel che provano a trasmettere. Molte sono poi le figure ricorrenti cariche di significato simbolico: il labirinto; la ciclicità del tempo e l'eterno ritorno (concetto tanto caro a Nietzsche); il libro. Ognuno di questi simboli viene usato a più riprese: a volte come mezzo per giungere a una conclusione, altre volte rivelandosi essi stessi la conclusione.
Come vi dicevo, è difficile esprimere quanto Borges ha messo in questi racconti; è difficile farlo quando li si legge, figuriamoci a volerlo fare in una recensione. Dunque, non mi resta che concludere consigliandovi di leggerlo, ma armandovi di pazienza e stando pronti a perdervi nei labirinti, nei giochi linguistici e concettuali, nelle teorie provocatorie che non risparmiano nessuno e nei cicli temporali che Borges ha preparato per voi.

“Se l’onore e la sapienza e la felicità non sono per me, che siano per altri. Che il cielo esista, anche se il mio luogo è l’inferno. Che io venga oltraggiato e annichilito, ma che in un istante, in un essere, la Tua enorme Biblioteca si giustifichi.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    20 Aprile, 2020
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Bartleby lo straniero

Seppur ambientato nella Wall Street astro nascente della finanza mondiale, il racconto pare un ibrido di atmosfere Dickensiane e kafkiane, che contribuiscono enormemente al senso di straniamento di cui queste pagine sono pregne.
Nell'edizione Feltrinelli che ho acquistato, un buon terzo delle pagine è occupato dalle interpretazioni che i critici, nel corso degli anni, hanno dato di questo racconto. La sua peculiarità, infatti, sta nell'inafferrabilità di ciò che ci viene raccontato e soprattutto in quella del suo protagonista, Bartleby, il cui assurdo comporta­mento è il motore che spinge il lettore ad andare avanti d'un fiato, ma che ha anche infuocato gli animi degli intellettuali che a quel "avrei preferenza di no" hanno provato a dare tutte le spiegazioni possibili.
Il lettore spera che il dipanarsi degli eventi possa fornirgli una spiegazione, magari celata nel background di Bartleby, ma proprio alla fine del racconto gli verrà esplicitamente detto che lo stesso narratore non ne sa nulla, e forse neanche lo stesso Melville si è mai sognato d'immaginarne qualcosa. L'unica informazione che ci è data sapere riguarda un precedente impiego di Bartleby in un ufficio di lettere smarrite, probabilmente indirizzate a persone decedute che non hanno avuto modo di riceverle; contenenti magari un anello, o una banconota inviata con la più sollecita carità. “Inviate per le occorrenze della vita, queste lettere vengono alla morte”, ci dice Melville: un mestiere dunque distruttivo per uomini propensi "al pallido pensiero dell'irreparabile", alla cui schiera il narratore finisce per collocare l'insondabile Bartleby. A nessuna conclusione certa, tuttavia, si è potuto giungere sulla sua natura.
Qualcosa di quest’opera mi ha fatto venire in mente (e a quanto pare anche a qualche critico) Camus e il suo Straniero: un uomo totalmente indifferente al mondo e a quel che nell'immaginario collettivo è considerato importante. In Bartleby ho notato la stessa passività e inerzia, che tuttavia non è segnata da un’incapacità di invertirne la tendenza come per Meursault, bensì un netto seppur pacato rifiuto, espresso nella ripetizione ossessiva della frase "avrei preferenza di no", applicata praticamente al 99% delle questioni umane all'inizio, al 100% alla fine. Vita compresa. Ma a cosa è dovuto questo rifiuto? Il lettore ci si arrovella, ma per lui come per tutti è impossibile arrivare a una conclusione certa.

“Il vincolo della comune umanità mi trascinava ora irresistibilmente verso una cupa tristezza. Una malinconia fraterna! Giacché sia io che Bartleby eravamo figli d’Adamo. Mi sovvenni delle sete lucide e dei volti smaglianti ch’avevo visto quel dì, in abiti festivi, naviganti come cigni in quel Mississippi che è Broadway; e li confrontai col pallido copista, e dissi a me stesso: Ah, la felicità corteggia la luce, perciò noi crediamo allegro il mondo; ma la miseria si nasconde da lungi, perciò crediamo non esista miseria.”

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Salute e Benessere
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    16 Aprile, 2020
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L'approccio alla vita

Per una persona che è consapevole della propria carenza d'autostima, un titolo del genere è qualcosa che fa subito drizzare e le antenne. È quello che è successo a me con questo libro ed è il fattore che mi ha spinto ad acquistarlo, insieme alle opinioni entusiastiche lette qua e là. La mia generale diffidenza su questo tipo di pubblicazioni (“può un libro aiutarmi in un problema di tale portata?”, è il pensiero che automaticamente mi sovviene) è invece il fattore che mi ha portato a procrastinare a lungo prima di cominciarne la lettura. Tuttavia, la quarantena ha fatto in modo che raccogliessi il coraggio e la voglia necessari, e dunque eccomi qui a cercare di darvi un'opinione.
La principale conclusione che ne ho tratto è che, come già immaginavo, un libro non può miracolosamente risolvere i vostri problemi, ma se ben scritto e argomentato può aiutarvi a fare ordine nella vostra testa; può permettervi di confrontarvi con un punto di vista professionale (Nathaniel Branden era uno psicoterapeuta) e portare alla vostra attenzione evidenze che avevate ignorato o semplicemente lasciato in un angolo. "I sei pilastri dell'autostima" non farà miracoli, ma porterà alla vostra attenzione aspetti interessanti riguardo alla stima di sé; può portarvi a riflettere e spingervi ad apportare qualche cambiamento nel vostro approccio alla vita. Alcuni concetti sono cosi bene esposti che potrebbero spingervi a chiedervi come mai non ci avete mai pensato e non avete mai agito in armonia con gli enunciati dell’autore.
Soprattutto la prima metà del libro (che si concentra sui sei pilastri) è densa di considerazioni degne di nota; la seconda metà va più nello specifico, focalizzando l’attenzione su certi ambiti in cui l'autostima è importante, o sull'influenza che diversi fattori esterni possono avere su di essa. Il libro, pur entrando nel dettaglio e rallentando in certi tratti, si legge bene e con piacere.
Credo che il segreto per apprezzare questo tipo di letture (che io applico anche nell'ambito della narrativa e soprattutto della filosofia) è che bisogna approcciarsi ad essa col giusto spirito critico, senza prendere per oro colato ogni parola, ma allo stesso tempo essendo pronti a mettere in discussione anche le nostre convinzioni più radicate. Con questo approccio, credo che "I sei pilastri dell'autostima" possa aiutarvi davvero in quello che (e questa è una mia convinzione, ancor più forte dopo questa lettura) è uno degli aspetti più importanti per costruirsi un radioso avvenire.
Autostima.

“Non avere il senso della propria efficacia, aspettarsi la sconfitta anziché la vittoria, vuol dire essere interrotti, minati o paralizzati (in vari gradi) nei nostri sforzi di affrontare i compiti e le sfide che la vita ci presenta.”

“La radice dell’autostima non sono i nostri successi, ma quelle pratiche generate dall’interno che, tra l’altro, rendono possibili tali successi.”

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Romanzi
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    13 Aprile, 2020
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Due metà d'una visione chiara

“[…] che queste due metà fossero egualmente insopportabili, la buona e la cattiva, era un effetto comico e nello stesso tempo significativo, perché alle volte i buoni sono dei terribili scocciatori."
Questo dice lo stesso Italo Calvino riguardo al primo romanzo della sua “Trilogia degli antenati", e in questa affermazione risiede uno dei temi della storia: la dicotomia tra il bene e il male assoluti che sono entrambi, anche se non egualmente, nocivi e malvisti. Magistrale, in questo senso, è la contrapposizione nelle reazioni dei personaggi di contorno agli incontri con le due metà del visconte; soprattutto quella degli ugonotti.
In questo romanzo troviamo diverse analogie col resto dell'opera calviniana, come ad esempio "Il sentiero dei nidi di ragno" o “Le città invisibili", e forse proprio di queste due opere forma l'unione perfetta. Diviso infatti tra favola (anche se in certi tratti troppo cruda per esserla puramente) e realismo, mette a nudo diversi conflitti dell'animo umano sia riguardo alla super sviscerata dicotomia di cui parlavamo prima (e in questo senso è chiara l'influenza di Stevenson), sia nella concezione equilibrata d'un mondo che si divide (per l'appunto) tra bellezza e tragedia; tra nobili intenti difficili e cattivi propositi nella cui realizzazione siamo non solo maestri, ma artisti.
Del Sentiero prende anche il narratore “fanciullo”, che seppur in maniera meno invadente rispetto a Pin ci accompagna lungo tutto il racconto. Rispetto a quel romanzo, tuttavia, il Visconte ha dei toni fantastici più vicini alle Città (pur non somigliandole per nulla nella struttura); popolata da personaggi macchiettistici portati all'eccesso, che tuttavia ci pongono dinanzi scomode verità: conflitti che proviamo a ignorare ma con cui, ogni giorno, facciamo tacitamente i conti.
Il Visconte torna dalla guerra coi turchi dimezzato, beccandosi in pieno petto una palla di cannone, ma con la sua incompiutezza fisica metterà in vergognoso risalto l'incompiutezza metafisica di ogni essere umano, ed è bellissimo vedere come le sue due metà così diverse, trovino un punto d'incontro proprio su questo punto.
"Il visconte dimezzato" è un libro dimezzato a sua volta, che con questo meccanismo perfetto riesce a metterci davanti a realtà compiute con la facilità che si avrebbe nel comporre un puzzle di due soli pezzi. Direi che quest’opera è degna del miglior Calvino, che si conferma genio forse non abbastanza celebrato della nostra letteratura.

“Allora il buon Medardo disse: - O Pamela, questo è il bene dell'esser dimezzato: il capire d’ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezza. Io ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai con me, Pamela, imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando i loro.”

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Romanzi
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    08 Aprile, 2020
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Unico nel suo... genere?

Prima di imbattermi in questo autore, avevo un’idea concreta del fatto che non sarebbe stata una lettura comune. Questa idea non è stata disattesa, per diversi motivi, ma andiamo con ordine.
Lo stile di Michele Mari è di altissimo livello, prodotto di una persona evidentemente acculturata, ma anche molto capace e appassionata nel mestiere dello scrivere. Il suo vocabolario è sconfinato, e non capiterà di rado di imbattersi in termini mai sentiti prima che ci permetteranno di arricchire il nostro, di vocabolario. Pur risultando difficoltoso in certi tratti, soprattutto nei dialoghi che coinvolgono Felice, il quale parla soltanto in dialetto strettissimo, credo che il valore della scrittura di Mari sia un dato oggettivo.
Ma di cosa parla questo libro? "Verderame" è un viaggio nella mente di un uomo dal passato e dai natali misteriosi, resi ancor più oscuri dalla sua recente perdita di memoria; un viaggio che verrà condotto dal nostro protagonista: Michelino, probabilmente un piccolo alter ego dell'autore. Nella sua indagine sul passato di questo agricoltore (Felice, che lavora per i suoi nonni), Michelino mostrerà le abilità deduttive di un investigatore già navigato, con una cultura e delle nozioni ampie e già consolidate. Questo aspetto tuttavia è, per quanto mi riguarda, una pecca: Michelino non ha neanche quattordici anni e sembra avere qualità e conoscenze che molti adulti si sognerebbero. Mi è parsa una forzatura e, anche se non me la sento di definirla grave, toglie il racconto dallo spettro della perfezione. Tenendo da parte questo aspetto, il racconto prosegue come fosse un indagine giallistica che appassiona il lettore e lo invoglia a proseguire. Tuttavia, nonostante le peculiarità appartenenti al genere, non può assolutamente esservi confinato.
Felice è un uomo che ha vissuto una vita traumatica, pregna di tragedie personali e attraversata da avvenimenti storici incresciosi. Il periodo della vita di Felice su cui Michelino cerca di fare luce, infatti, comprende anche quello delle lotte partigiane contro i nazisti. Che ruolo ha avuto quell’agricoltore, nella Storia che ha travolto il suo paese? chi erano suo padre e sua madre? cosa ci fanno i cadaveri di tre nazisti dietro una porta del fienile? e perché ce l'ha a morte con le “lumache francesi”?
Questo di Michele Mari è un racconto inusuale, in cui non mancano punti oscuri e inspiegabili; soprattutto in un finale che, in tutta onestà, non credo di aver afferrato appieno, ma che è perfettamente in riga col tono palesemente influenzato dai vari Stevenson, Lovecraft e Poe, che permea un po' tutto il romanzo.

“È già insostenibile sapere di essere amati, ma scoprirlo di nascosto è più osceno che fare il voyeur nascosto dietro ai cespugli…”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    03 Aprile, 2020
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Origini

In questo romanzo, che è la prima opera di Stephen King, c'è il germe di diverse tra le sue storie future, soprattutto per quanto riguarda la telecinesi (TK). Questa sua idea è rimasta viva e coerente nelle opere del “filone” anche delle sue pubblicazioni più recenti: penso a “L’istituto", che pare quasi ambientato nella stessa realtà, a un tempo in cui le vicende di Carrie White sono Storia; l'origine di un qualcosa che ha scatenato altri eventi di quel mondo creato da King.
Seppur slegato dal valore dell'opera in sé (non è infatti dimostrabile che l'autore avessi quest'idea, ai tempi del suo romanzo d'esordio), mi è sembrato un aspetto interessante.
Ma passiamo a “Carrie”: l’opera appartiene decisamente al "vecchio" King, è palese infatti l'impronta meno mainstream che gli permetteva di essere più fedele a sé stesso, senza i compromessi richiesti da un pubblico così ampio che può includere anche elementi impressionabili, a cui bisogna andare in contro. La tragedia di Carrie White ci è presentata senza alcun tipo di filtro, come è giusto che sia; la vita della ragazzina non lascia infatti spazio a spiragli di luce e "indorare la pillola" sarebbe risultato artificioso. Carrie è, infatti, una ragazzina influenzata da una crescita problematica, causata dal fondamentalismo religioso (che purtroppo è un'influenza a volte importante nella crescita dei bambini, anche se voglio sperare non arrivi ai livelli descritti da King) della madre, e del conseguente problema sociale che si porterà dietro a scuola, dove diventa costante bersaglio di ingiurie e scherzi crudeli. Il libro, che ha una narrazione che si divide tra il puro racconto in terza persona e le citazioni giornalistiche e letterarie fornite dai personaggi, comincia proprio quando questa situazione raggiunge il punto critico, alle porte della tragedia che ne sarà conseguenza.
Pur non essendo, secondo me, il miglior libro del Re, è una valida lettura (e forse un must) per chi lo apprezza. Per quanto negli ultimi anni si notino dei timidi segnali di ripresa, il primo King è certo quello che preferiamo.

“Le conseguenze del caso White fanno sorgere gravi e difficili problemi. Le nostre precedenti nozioni su come agiscano e reagiscano le leggi naturali sono state scosse da un terremoto. Si può rimproverare un fisico pur famoso come Gerald Luponet per avere asserito che tutta la faccenda non è che un trucco è una frode, anche di fronte a prove così schiaccianti come quelle presentate dalla commissione White? Perché, se Carrie White è una verità, allora dove va a finire Newton?”

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L'istituto
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Racconti
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    29 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Il mare non bagna niente

Ecco, questo è uno dei casi in cui faccio fatica a reprimere la mia soggettività. Sì, perché non ho affatto amato quest'opera di Anna Maria Ortese.
Ma andiamo con ordine.
"Il mare non bagna Napoli" è una raccolta di cinque racconti, di cui quelli veramente godibili sono i primi due: interessanti quadri di una Napoli popolare e un po' disagiata, attaccata a tradizioni e consuetudini, e in certi tratti anche un pò squallida e ignorante. Non c’è in effetti da stupirsi se poi l’autrice sia stata malvista non tanto dal popolo, quanto dai rappresentanti politici napoletani, tanto da non poter reggere psicologicamente a un ritorno nella sua terra natia, come lei stessa specifica nell’introduzione. Lo squallore del contesto napoletano di quell’epoca è reso particolarmente vivido nel quarto racconto: drammatico testimone d'una realtà spaventosa, ma dove già si intravedono le lungaggini descrittive snervanti che poi troveranno l'apoteosi nell'ultimo racconto, che è davvero tra le cose più tediose e sconclusionate che abbia mai letto e che occupa ben metà del libro compromettendone, a mio parere , quanto di buono è stato fatto soprattutto nei primi due racconti.
Nella seconda parte infatti, "Il mare non bagna Napoli" si trasforma in non so bene cosa; qualcosa a metà tra il saggio e il racconto narrativo, che pare abbia finalità di critica verso gli intellettuali napoletani dell'epoca. Il lettore è tuttavia stordito dalla quantità sproporzionata di informazioni: un viaggio in tram in cui l’autrice descrive nei minimi dettagli tutto quel che succede, quel che c'è al lato destro della strada, al sinistro, a sud-est e nord-ovest; a tavola si descrive chi è seduto nello spigolo destro che ha un angolo di novanta gradi e chi allo spigolo sinistro, di angolo ottantotto per chissà quale forza soprannaturale; si fanno nomi su nomi... snervante, davvero. Ciliegina sulla torta: lo stile composto da frasi lunghissime, piene di virgole e in cui i punti sono merce rara. Niente contro questo tipo di scrittura: anzi, se correttamente maneggiata può essere uno strumento potentissimo; ma per come la vedo io non è questo il caso.
Non prendete le mie parole per oro colato, ma la mia opinione è che possa valere la pena leggere solo metà di questo libro. Lo ammetto, stavolta non ho davvero potuto evitare di inquinare il mio commento con un po' di soggettività. Ma certe volte, ragazzi, davvero non ce la faccio.

“Lei, mai aveva parlato così, nel suo linguaggio c’erano entrate e uscite, o, al più, interessanti osservazioni sulla moda di quest’anno. Perciò, meravigliata e abbattuta, come chi scorge per la prima volta un paese misero e silenzioso, e gli dicono che lì ha vissuto, credendo di vedere palazzi e giardini dove non erano che ciottoli e ortiche, e considerando in un baleno che la sua vita altro non era stata che servitù e sonno, e ora stava per declinare, smise di passeggiare, guardandosi intorno con aria stupita.”

P.S. Questa citazione è presa dal secondo racconto, molto bello, che mi aveva fatto ben presagire. In effetti, i primi due racconti sono l’unico motivo per cui il mio voto non è una stroncatura completa. Davvero un peccato la deriva in cui si cade in seguito.

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Classici
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    20 Marzo, 2020
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Il misantropo

“La mite" è un romanzo pienamente in riga con la produzione dell'autore. Credo che se mi fossi trovato a leggerlo senza sapere a chi appartenesse la penna, ci avrei preso. Soprattutto, direi che quest'opera ha molto in comune con due altri romanzi: "Memorie dal sottosuolo", per il monologo e qualche tratto caratteriale dei protagonisti; "Delitto e castigo", per il delirio da cui sempre loro sono afflitti. Mi duole tuttavia dire che “La mite”, pur essendo un discreto racconto, non si avvicina neanche lontanamente alla bellezza delle opere a cui somiglia. Certo, non mancano i guizzi stilistici e i pensieri importanti, né tantomeno il protagonista è caratterizzato male; tuttavia credo che manchi qualcosa.
Il protagonista è fondamentalmente un misantropo, una persona sola anche in compagnia d'altri e manca, forse per questo motivo, quasi ogni contatto con l'esterno: con quella società disagiata e cadente che il caro Fëdor è così bravo a descrivere, che lascia il posto a un focolare domestico freddo e austero.
Dunque, al centro de “La mite” non c’è nemmeno una donna mite; essa è infatti solo il fattore scatenante della definitiva crisi di un uomo già afflitto da seri problemi: relazionali; d’autostima; di rimorso e rancore; da una specie di necessità subdola e incessante di prevaricare e "vincere "sugli altri, anche sulla sua stessa moglie che, anzi, sembra essere la sua vittima preferita. Quest'altro "uomo del sottosuolo" è un uomo che fa di continuo piani in cui è invariabilmente al centro e dove gli altri, se presenti, sono mere comparse. È la mite, involontariamente, ad aprirgli gli occhi; ma in quel momento è già troppo tardi, ha già irrimediabilmente rovinato quanto di buono avrebbe potuto trarre dalla sua vita coniugale.
Quante occasioni ha perso, in passato, per creare un matrimonio felice! Ma in fondo al cuore ha sempre lavorato contro sé stesso, per l'infelicità. Il velo che gli copriva gli occhi cade, ma è ormai tardi.
Credo che Dostoevskij, fosse nato più tardi, avrebbe affiancato alla sua carriera di scrittore quella di psicologo; è chiaro da avesse un talento incredibile nel sondare la psiche umana.

“[…] non c’è nulla di più offensivo e intollerabile che vedersi rovinare la vita dal caso, qualcosa che poteva succedere come non succedere, da un infausto concorso di circostanze che avrebbero potuto anche passare oltre, sopra la vostra testa, come nuvole. Per un essere dotato di raziocinio, questo è umiliante.”

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    11 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Bologna nera

"Blu notte". “L’inverno più nero". È chiaro che a Carlo Lucarelli piacciano le tonalità scure, e scure sono anche le vicende e l'ambientazione di questo suo ultimo romanzo, che ha come protagonista il commissario De Luca.
Ma partiamo dall'ambientazione, che secondo me è l'aspetto più interessante e riuscito del romanzo: una Bologna del 1944 in piena occupazione tedesca; dilaniata dalle bombe; pregna del terrore perpetrato dalle truppe naziste e dai fascisti; soggetta a coprifuoco e a spaventose limitazioni della libertà individuale, sia essa di espressione o di semplice movimento. È in questo contesto che si muove il nostro De Luca, che pur essendo un commissario di polizia viene continuamente bloccato per controlli, guardato con sospetto, intralciato nelle sue funzioni o costretto a far cose che vanno oltre ogni etica o morale .
Le vicende in cui De Luca si trova coinvolto sono ben tre: omicidi a danno di persone piuttosto diverse tra loro: un ingegnere, un professore universitario e, udite udite, un componente delle SS. Forse sta qui il punto debole del romanzo: troppa carne a cuocere; si finisce per perdersi e confondersi tra un caso e l'altro, dando oltretutto l'impressione di non averli approfonditi abbastanza da renderli interessanti. Certo, la bella sensazione che si ha quando tutti i tasselli vanno al proprio posto è comunque presente, ma un po' sfumata dall'impressione che tutto si sia risolto in maniera un po' semplicistica, senza indagini troppo approfondite o colpi di genio veri e propri. Forse De Luca è uno di quei commissari che fanno dell'istinto il proprio cavallo di battaglia a discapito dell'intuizione, ma è chiaro che risulti più interessante un investigatore chi arrivi alle soluzione del proprio caso tramite logiche deduzioni, piuttosto che perché "se lo sente". Certo, non in tutti i casi è così, per De Luca: anche lui fa le sue deduzioni, ma queste non sono mai dei veri e propri colpi di bravura, bensì vengono fuori da semplici interrogatori o indizi piuttosto chiari.
Di contro, devo dire che i personaggi descritti da Carlo Lucarelli, seppure siano troppi in conseguenza dei troppi e diversi eventi raccontati, sono comunque ben caratterizzati. Ammetto che, infatti, gli eventi tragici che travolgono alcuni dei nostri protagonisti e comprimari mi hanno colpito e coinvolto, facendomi capire che tra me e loro s'era comunque creata una connessione empatica.
In conclusione, direi che se Lucarelli avesse limitato gli archi narrativi ne sarebbe risultata una lettura ancor più godibile. Il mio giudizio resta comunque positivo, seppur più concentrato su ambientazione e personaggi e non sulla storia che comunque, in romanzi di questo genere, dovrebbe essere un aspetto fondamentale.

“Ci sono freddi diversi, anche in inverno. Ci sono quelli che fanno male alle ossa, quelli che strizzano la testa e ci sono quelli che bruciano la gola e i polmoni. Ma il suo era un altro, perché non era entrato con l'aria ghiacciata della stagione, e neanche con quella umida di quella stanza gelida e nuda. Veniva da dentro il freddo che gli stringeva lo stomaco e il cuore. Era il freddo della paura.”

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Romanzi storici
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    09 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Ragazzi di vent'anni

Un romanzo faticoso, devo dire.
Il contesto descritto da Fenoglio è privo d'ogni colore se non quello del fango, tutto il resto è nebbia. Al suo principio ci presenta una storia d'amore immatura, i cui protagonisti sono una giovinetta ancora incapace di capire che l'esteriorità non è tutto (pur avendone prova), e un giovanissimo partigiano descritto come «un brutto: alto, scarno, curvo di spalle»; un giovane costretto a farsi uomo troppo presto, ma che non è in grado di svestirsi completamente della sua ingenuità: non ne ha avuto il tempo, e questa è stata dunque compressa nel pensiero di quella bella ragazzina, le cui attenzioni lo hanno esaltato forse per la prima volta, in una vita vissuta all'ombra del suo amico e fratello Giorgio: quello bello ed elegante. Quando la certezza dell'amore di lei pare venir meno, l'imperturbabile Milton (così si chiama il protagonista) perderà tutto il suo contegno, imbarcandosi in una pericolosa missione personale, in un contesto in cui le questioni private hanno importanza meno che secondaria. Che importanza può infatti avere la fedeltà d'una bambina, quando ogni giorno è in ballo la propria sopravvivenza? Ma tra i membri della Resistenza partigiana v'era anche questo: ragazzi di vent'anni che si sentono già vecchi, che sono costretti ad esserlo e che hanno già visto il peggio della vita, mentre il meglio non hanno forse neanche potuto viverlo del tutto; uomini che, tuttavia, se colpiti nel punto giusto tornano ad essere ciò che in fondo sono ancora: ragazzi di vent’anni incapaci di distinguere le priorità, certe volte.
Milton non è che una cinepresa, un viaggiatore pieno di fango che viaggia in mezzo ad anime come la sua, costrette a celarsi e a fingere d'essere ciò che non sono, pur di dare la svolta a un mondo che non gli appartiene. Eppure basta cosi poco a renderli fragili, indifesi… addirittura masochisti o dissennati.
In conclusione è molto difficile dare un giudizio su questo libro: non l'ho amato, ma capisco che qualcuno possa farlo. Non era intenzione dell'autore dare vita a una storia con un principio e una fine, è evidente, forse provando a mettere la storia in analogia con quelle vite spezzate che si trova a descrivere. È forse qui la peculiarità di “Una questione privata", e qui si nascondono forse i motivi chi possono portarvi ad apprezzarlo oppure no.

“Accese una sigaretta. Da quanto tempo non accendeva la sigaretta a Fulvia? Valeva sì la pena di attraversare a nuoto l’oceano pauroso della guerra per giungere a riva e non far altro o più che accendere la sigaretta a Fulvia.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    03 Marzo, 2020
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A sangue troppo freddo

"A sangue freddo" è forse uno dei titoli pii azzeccati, per un'opera di narrativa: questo perché non sono solo i fatti raccontati a calzargli alla perfezione, ma anche l'approccio con cui l'autore ha deciso di raccontarli. Sì, perché si può dire che Truman Capote ha impugnato la penna così come i due assassini protagonisti di questo fatto di cronaca nera impugnano coltello e fucile, nel compiere il loro tragico proposito.
"A sangue freddo" ci narra del pluriomicidio ai danni di una benvoluta e benestante famiglia del Kansas, i Clutter. A commettere l'omicidio sono due forestieri: Perry Smith e Dick Hickock, recatisi nella cittadina di Holcomb col preciso scopo di derubare questa famiglia; una rapina dal tragico esito. La narrazione di Capote si concentra soprattutto sulla "latitanza" dei due assassini e sulle indagini, mentre poco spazio è dedicato alla tragedia in sé e al relativo processo. Essendo il libro piuttosto corposo, in certi tratti la lettura risulta un po’ difficoltosa. L’autore si mantiene sempre a una certa distanza dai fatti narrati e dalle persone che ne sono protagoniste, creando un curioso ibrido tra romanzo e un lungo articolo di cronaca nera.
Ma questa “penna fredda” rappresenta un pregio o un difetto? Credo sia un parametro del tutto soggettivo. Per quanto riguarda il mio gusto personale, non l’ho trovato un valore aggiunto: è evidente il proposito di creare una sorta di “romanzo reportage”, ma per quanto mi riguarda questa scelta stilistica smorza la potenza che fatti narrati potrebbero avere. Sarà un paragone inappropriato, ma mi è tornato in mente Primo Levi e il suo “Se questo è un uomo”: anche Levi si è trovato a raccontarci una tragedia (certamente più grande e vissuta in prima persona); anche lui scrive di cose spaventose "a sangue freddo", con un approccio a tratti quasi scientifico. Eppure, l'opera di Levi non ne perde nulla in potenza e incisività. L'opera di Truman Capote, almeno a mio avviso, sì. Considerata l'elevata tragicità degli eventi narrati, mi aspettavo una lettura sconvolgente; che potesse scuotermi l'animo o spingermi a interrogarmi. Ma la lettura mi ha lasciato un po' freddino. Eppure, sono convinto che il problema sta nella mia percezione da “individuo lettore”, perché non mancano persone che da questa narrazione sono stati scossi nonostante l’approccio distaccato, ma essendo questo un mio commento, basato sulle mie percezioni di questa lettura, devo essere onesto.
Sapete cos’é? In questo tipo di storie c’è un elevato potenziale, sia per quanto riguarda le riflessioni scatenate che per l’analisi psicologica dei protagonisti, ma con questo metodo quasi giornalistico… non lo so, non mi ha colpito. Forse il problema sono le classiche aspettative troppo alte... o magari Capote voleva che anche il lettore mantenesse il sangue freddo; ma per me che sono uno di quelli alla ricerca di letture che mi facciano bollire il sangue, forse era un amore destinato a non sbocciare.
Non mi sento di sconsigliarlo, assolutamente; ma vorrei darvi un consiglio: non vi ci accostate con altissime aspettative, considerato che l’opera gode di una fama che potrebbe portarvi a tale approccio. Magari si rivelerà una piacevole sorpresa.

“Al più giovane del gruppo […] era stato assegnato quello che lui definiva il «compito maledettamente delicato» di parlare con il gruppo dei Clutter. «È penoso per te ed è penoso per loro. Quando capita un delitto, non si può rispettare il dolore. O la vita privata. O i sentimenti personali. Sei costretto a fare delle domande. E alcune fanno male» ”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    21 Febbraio, 2020
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Una giudicante goliardia

Io credo che la bellezza della lettura sia anche nel percorso che ti "costringe" a seguire. Questo percorso comincia, spesso, con autori più noti, magari più leggeri; quelli che in libreria hanno il loro angolino felice carico delle loro opere, magari in diverse edizioni. A un certo punto però è come se questi autori, per quanto validi, non ci bastassero più; o magari sono proprio loro a indirizzarci verso quelli che invece se ne stanno, nella loro umile grandezza, in un angolo più nascosto, in attesa che lettori degni e preparati possano accostarsi alle loro fatiche. Che bellezza scovare gioielli dove la maggior parte degli altri non guarda! Bene, tutto questo preambolo per dire che “La panne” è uno di quei gioielli, e Dürrenmatt un autore potenzialmente geniale che intendo approfondire.
Questo libro intriga e strappa un sorriso già solo leggendone la quarta di copertina: quattro pensionati che si divertono a inscenare i grandi processi della storia (a Gesù, Socrate, Dreyfus eccetera) ma ancor più si divertono a mettere sotto accusa eventuali ospiti, a scovarne le colpe in un atmosfera allegra e goliardica.
"Un reato si finiva sempre per trovarlo".
La situazione è descritta dall'autore in maniera curiosissima: avvolge tutto in un’atmosfera esilarante, pur presentandoci la situazione morale degradante di Alfredo Traps, viaggiatore di commercio che si trova coinvolto nel gioco a causa di una panne alla sua auto. Bisognoso di un luogo dove passare la notte, si rifugerà nell’ospitalità d’un vecchio pensionato e nel gioco che gli riempie le serate e ha regalato a lui e i suoi compagni una sorta di nuova giovinezza. Alfredo, all’inizio diffidente, ben presto perde ogni freno inibitorio e comincia a divertirsi un mondo; presto sarà addirittura avvinto dalla sua colpa, che gli permetterà a guardare a sé stesso sotto una luce totalmente nuova.
È proprio questa la peculiarità de “La panne": si legge sorridendo dall'inizio alla fine, pur recandoci un curioso disagio interiore; la goliardia dei protagonisti ci diverte, ma pone al centro della scena il degrado morale di cui un essere umano può essere capace. Un libro breve, ma di incredibile densità, che porta il lettore a interrogarsi sulla giustizia e sulla morale: quel che non è regolato da leggi, è sempre lecito? A un'analisi superficiale e affrettata verrebbe da dire di sì, ma soffermandoci di più sulle implicazioni di tale asserzione si arriva alla conclusione che molte delle atrocità (grandi e piccole) commesse dagli uomini derivano da questo pensiero erroneo.
In maniera intelligente e umoristica, Dürrenmatt ci sbatte davanti proprio questo concetto, facendoci intravedere le qualità d'un grandissimo autore. Questa storia, oltretutto, si presta perfettamente o delle trasposizioni e, infatti, ha ispirato il film “La più bella serata della mia vita" di Ettore Scola, con Alberto Sordi.
Non vi prenderà troppo tempo... leggetelo.

“Tutti risero, specialmente Traps. «Davvero,» confermò «è stato proprio un brutto scherzo, quello che ho fatto al vecchio gangster. La situazione, d’altra parte, era sin troppo comica, a pensarci bene. Finora mi vergognavo a ricordarla, chi se la sente di conoscersi a fondo, non c’è nessuno che abbia la coscienza perfettamente pulita, ma fra amici tanto comprensivi il pudore diventa ridicolo e inutile. Curioso! Ora mi sento compreso e comincio anche a capirmi, è come se facessi la conoscenza di una persona che sono io stesso, e che finora conoscevo solo in modo superficiale: un rappresentante generale su una Studebaker con moglie e figli da qualche parte.»”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    17 Febbraio, 2020
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Una nazione d'ubriaconi... (?)

Cavolo se è stato traumatico. questo approccio con James Joyce.
Andrò subito al punto: "Gente di Dublino" non mi è piaciuto molto. Sì, perché senza nulla togliere allo stile dell'autore l'ho trovata una lettura pesante; per vari motivi.
Prima di tutto non si fa in tempo a entrare in empatia coi personaggi. Potrà sembrare una sciocchezza, visto e considerato che i racconti non hanno il tempo di tratteggiare bene i personaggi; e può sembrarlo soprattutto in questo caso che i racconti sono tutti brevissimi (a parte gli ultimi due). Tuttavia, vi dò ragione fino a un certo punto. Penso ad esempio a “Cronache Marziane” di Ray Bradbury, in cui c’è un personaggio (Spender) che è rimasto indelebile nella mia memoria, e non è il solo ad avermi lasciato un segno nella testa. Trovo che una raccolta chiamata “Gente di Dublino” abbia come fine principale proprio quello di farci entrare nella testa e nei sentimenti dei dublinesi; che dovrebbero essere loro a dover restare indelebili nella nostra mente a lettura ultimata. Purtroppo non è stato così, almeno per quanto mi riguarda.
E cosa dire della stessa Dublino? Il suo ritratto non è vivido come avrei sperato. Pur non lesinando in descrizioni, Joyce non è riuscito a farmela “vedere”; la città non ha preso vita nella mia mente. Nell’ultimo racconto poi (che probabilmente è anche il più interessante) Joyce diventa quasi irritante: ci descrive per filo e per segno l'atmosfera di una casa privata, delle portate e del proseguimento di una cena mentre abbiamo una Dublino, lì fuori, in gran parte inesplorata.
Ma la cosa che più mi ha infastidito è che, del modo di vivere e d’essere dei “Dubliners”, passa quasi soltanto l'idea che siano ubriaconi. Mio dio; alcool ovunque, in ogni santo racconto. Certo, passano anche cose come l'amore viscerale per la propria terra, la voglia di partire smorzata dalla paura d’abbandonare la terra natia, la rigidezza mentale; ma sono cose soltanto accennate. Se Joyce avesse messo, nel trasmettere queste cose, lo stesso ardore e ripetizione che ci ha messo nel dire che i dublinesi sono una massa di ubriaconi, forse lo avrei apprezzato di più.
Per concludere, "Gente di Dublino" è ben scritto ma spesso prolisso, a volte pesante, ma questa pesantezza non è comunque ripagata da una profondità di contenuti che lasci soddisfatti o folgorati.
Se avevo paura di leggere "Ulisse", ora sono terrorizzato.

“Vi son riusciti. L’hanno abbattuto.
Ma tu Irlanda ascolta:
Potrà ancora il tuo spirto risorger dalle fiamme
Come fenice allo spuntar del giorno
Del giorno che porterà la Libertà
E possa ben l’Irlanda allora
Nella coppa alla gioia alzata mischiare
Un sol dolore: il rimpianto di Parnell.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    11 Febbraio, 2020
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Martire della stupidità umana

Ci sono autori verso i quali ci si accosta con una sorta di "timore reverenziale”; autori di cui c'è un'opera particolare di cui abbiamo paura, anche solo all'idea di tirarla fuori dalla nostra libreria. Non ci sentiamo pronti, né abbastanza padroni della conoscenza dell'autore. Penso a Steinbeck e al suo “Furore"; a Proust e alla sua "Recherche"; a Mann e alla sua "Montagna incantata". Allora cosa si fa, soprattutto se non si è mai letto nulla dell'autore? Si prova il contatto con qualcosa di più leggero. È stato così per me anche con Céline e il suo "Voyage”, e "Il dottor Semmelweiss” è stato il primo contatto che ho scelto per accostarmi all'autore e alla sua opera più importante.
Inutile soffermarsi troppo sulla grandezza (nota a tutti) di Céline: si riconosce subito, e quest'opera ci dà subito un assaggio del suo stile non certo semplice, ma molto potente. Questo romanzo mette in risalto il dramma di Ignazio Filippo Semmelweiss, medico ungherese realmente esistito e al quale l'umanità deve moltissimo, per i progressi da lui portati nell'antisepsi (sterilizzazione in ambito medico). Ai suoi tempi, tantissime donne soccombevano al parto per infezioni. Perché? Perché medici e ostetrici non disinfettavano le mani prima degli interventi; mani che spesso, poco prima, avevano anche effettuato autopsie. Banale? Non ai tempi di Semmelweiss. Miracoloso? Sì, eppure l'ignoranza dell'uomo ignorò quella scoperta illuminante, rigettò essa e il suo creatore in nome dell'orgoglio, dell'invidia, dell'indolenza. È mostruoso vedere come gli uomini possano essere crudeli. Semmelweiss porta con sè una benedizione eppure non solo lo maledicono, ma si accaniscono contro di lui per distruggerlo poco a poco: nella mente e nel corpo. È come se noi oggi mettessimo al palo un uomo che ci offra una cura per il cancro. Assurdo? Lo credevo anch'io. Mi sbagliavo; ma la cosa più assurda è che questa ostilità è guidata da chi, più di tutti, avrebbe dovuto capire Semmelweiss: i suoi colleghi. Sono loro a ripudiarlo, a torturarlo più di tutti.
Céline, che era stato studente di medicina e aveva fatto una tesi dedicata allo stesso Semmelweiss, è l'uomo perfetto per descrivere il dramma di questo benefattore morto pazzo a causa degli uomini che voleva salvare; nella sua vicenda ci immergiamo così profondamente da farci male, perché tocchiamo con mano la nostra stessa stupidità, che purtroppo sembra avere numerosissime sfaccettature. Semmelweiss è un martire della stupidità umana e la sua opera verrà apprezzata quando troppe vite saranno già state sprecate, compresa la sua. A certi geni viene resa giustizia solo da morti, e Céline è solo uno dei tanti che ne hanno portato il nome dove merita d'essere: nella Memoria del mondo.
Un passo verso il "Viaggio al termine della notte" è fatto: e che passo!

"La Musica, la Bellezza sono in noi e in nessun altro luogo nel mondo insensibile che ci circonda. Le grandi opere sono quelle che risvegliano il nostro genio, i grandi uomini coloro che sanno dargli una forma."

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    03 Febbraio, 2020
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La brutalità e vacuità della guerra

Per quanto riguarda le letture, il mio 2020 è cominciato alla grande. Questo libro di Remarque (che segna il mio primo approccio con l’autore) è probabilmente l’opera più bella che ho letto da inizio anno e che darà parecchio filo da torcere a chiunque cerchi di superarla.
Si, perché “Niente di nuovo sul fronte occidentale" è un capolavoro: devastante, duro, crudo, triste, ma un capolavoro. Nella mia storia di lettore mi sono ritrovato davanti opere basate principalmente sulla seconda delle due grandi guerre, nella maggior parte dei casi vista dalla parte degli “oppressi” o comunque dei “buoni” (anche se si tratta di termini vaghi); riguardo alla Prima Guerra Mondiale e del punto di vista dei “tedeschi brutti e cattivi” non avevo mai approcciato nulla, fino ad ora. Devo dire che, pur appartenendo alla più “snobbata” (avete notato quante virgolette sto usando?) delle due grandi guerre, non credo di aver mai letto un’opera potente ed emozionante quanto questa, riguardo al tema della guerra e di tutto ciò che ne concerne.
Remarque ci fa camminare accanto a degli sventurati soldati tedeschi, che non sono mostri ma soltanto uomini, che si trovano a combattere e morire in massa per una guerra che in fondo non è la loro; per degli ideali e delle offese che persone in poltrona hanno giudicato imperdonabili e da lavare nel sangue, che tuttavia non sarà il loro ma quello di una generazione che ha come unica colpa quella d'esser nata nel momento sbagliato della Storia. Una generazione che sarà artefice del suo stesso annichilimento: uomini si trovano a stroncarne altri senza nemmeno sapere chi siano e costringono sé stessi a vederli come dei semplici fantocci da abbattere, cosa che può risultare semplice dalla distanza necessaria allo sparo d’un proiettile o al lancio d’una granata, ma che diventa insostenibile quando lo strumento di morte diventa un coltello e la morte che abbiamo generato si mostra davanti ai nostri occhi, coi suoi gorgoglii e con la vita che si aggrappa disperatamente a quel corpo in convulsione. E allora ci si rende conto che quei fantocci non sono tali, che come te hanno una casa e una famiglia che hanno dovuto lasciare e alla quale vorrebbero tornare. Non siete poi così diversi; diversi sono solo gli uomini che hanno scelto di mandarvi a morire.
Seguendo i giorni al fronte di Paul Baümer, Stanislaus Katczinsky e compagnia diventeremo i loro camerati: Remarque ci getta in mezzo a loro con la sua scrittura potentissima; ci rende partecipi delle loro paure, dei loro desideri, delle loro difficoltà, e dei loro fugaci momenti di pace. C'è davvero tantissimo su cui riflettere, e non vi succederà di rado di fermarvi a pensare a ciò che avete appena letto. Si pensa spesso ai soldati come a una massa d'uomini senz'anima; la conta dei morti non significa molto se non v'è in mezzo il nome d'una persona cara, e anche in quel caso il dolore è canalizzato su quella persona soltanto, mentre la massa intorno resta sfocata e il numero... è un numero e basta. Ma quel numero è fatto di tante persone care a qualcuno, e ogni unità che accresca il totale aumenta in maniera esponenziale la miseria e la tragedia umana. Come si possono svestire tanti uomini della propria anima e condurli al macello in questo modo? Se chi sceglie di muovere guerra a un altro sapesse cosa stronca nel mandare a morire anche il più miserabile degli uomini, lo farebbe? Non lo sa, non ci pensa o non vuole pensarci? Che razza di uomo è, in ognuno di questi casi?
Remarque ci sbatte in faccia la realtà VERA; non una che potrebbe presentarsi se dovessimo perseverare nella nostra cattiva condotta, VERA. Ci mostra quello di cui siamo stati già capaci.
Ed è qualcosa a cui dovremmo pensare più spesso.
Ed è qualcosa di cui dovremmo DAVVERO ricordarci.
Questo libro va letto assolutamente e non v'è stomaco debole che possa giustificarci. V’è rappresentato il vero e proprio dramma dell'umanità, in cosi tante sfaccettature che ne resterete davvero disorientati.
Non aspettatevi benevolenza.
Non siamo mai stati buoni con noi stessi. È la dura verità e la verità va affrontata, prima o poi.

“[…] non siamo più giovani, non ci interessa più dare l’assalto al mondo. Siamo dei profughi, fuggiamo da noi stessi. Avevamo diciott’anni, e cominciavamo ad amare il mondo e l’esistenza: ci hanno costretti a spararle contro. La prima granata ci ha colpiti al cuore. Siamo esclusi ormai dall’attività, dal lavoro, dal progresso, non ci crediamo più. Crediamo nella guerra.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    31 Gennaio, 2020
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Sciascia il "semplice" ma potente

Sciascia ha una "capacita di sintesi" fuori dal comune. Questa definizione va tuttavia estesa: essa non si limita all’accezione del “raccontare molte cose in poche parole”, ma anche all’abilità di trasmettere un messaggio forte e efficace, senza la necessità di mettere in piedi storie complicate e condensando tutto in poche pagine. A questo, aggiungiamo che Sciascia, anche nelle sue opere più brevi, non risulta mai sbrigativo o sciatto e capirete di avere di fronte un “matematico” della letteratura. Sì, perché così come i matematici snelliscono le loro formule facendogli mantenere lo stesso significato, così Sciascia riesce a snellire le sue storie senza che queste ne perdano in forza.
Per quanto mi riguarda, questa è una delle peculiarità più grandi dell’autore, che gli ha permesso di distinguersi nel panorama letterario italiano e che lo rende quanto mai leggibile in questi tempi in cui le digressioni ci piacciono così poco. Di questa peculiarità, “Una storia semplice” è un fulgido esempio.
Partiamo dal titolo, che potrà apparire banale ma non lo è: "Una storia semplice" narra infatti gli eventi di un caso poliziesco che tanto semplice non è, ma che tale viene considerato fin dall'inizio. Questo perché alcuni degli attori coinvolti vorrebbero bollarlo in fretta come “un caso di suicidio”, così da non doversi assumere gli oneri e i rischi che vi sono implicati, con immensa vergogna per gli organi di giustizia. Se non fosse per la solerzia del brigadiere che si ritrova per primo sul luogo del delitto, il caso verrebbe archiviato come se fosse davvero una storia semplice e priva d’importanza.
In secondo luogo, soffermiamoci sull’aspetto puramente narrativo: in effetti non v’è nulla di cervellotico o difficile da comprendere, in questa storia, eppure questa porta a galla una realtà tutt’altro che semplice da digerire; una realtà che si palesa con una potenza inaudita soprattutto nella pagina conclusiva. L’ultimo paragrafo è infatti un pugno nello stomaco, un paragrafo in cui ci viene presentata una verità scomoda, che provoca riflessione e amarezza.
“Una storia semplice” si legge anche in un’ora, ma credo che ne valga assolutamente la pena. Ricordate, vi sono pochi autori che riescono a trasmettere così tanto, con così “poco”; in modo semplice.

“Il magistrato scoppiò a ridere. «L'italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui, procuratore della Repubblica…». «L'italiano non è l'italiano: è il ragionare» disse il professore. «Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto». La battuta era feroce. Il magistrato impallidì. E passò a un duro interrogatorio.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    27 Gennaio, 2020
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The Grapes of Wrath

Un'opera monumentale: affresco di un'America che gli americani stessi tendono a celare.
Fu proprio per le verità scomode che descrive che “Furore", quando fu pubblicato, divenne oggetto di aspre polemiche; in Italia fu addirittura sottoposto a una rigida censura del regime fascista, perché considerato un libro “sovversivo”. Tutto questo non gli impedì di diventare un best-seller.
I fatti descritti in questo romanzo non sono certo piacevoli: ambientato nel Midwest americano intorno agli anni '30, narra l'esodo della famiglia Joad che, come tanti altri contadini, si vede strappare la terra dalle banche e da quella chimera chiamata “trattore”. I mezzadri saranno dunque costretti a emigrare, attratti da quella che viene descritta come una "terra in cui scorre latte e miele": la California. Incentivata da possibilità lavorative che sembrano abbondanti e promettenti, l’emigrazione dei Joad si rivela invece una tragedia senza fine; un mezzo con cui Steinbeck denuncia il lato più spietato di un’America talmente concentrata sul proprio profitto da perdere ogni umanità, da risultare crudele nei confronti di quella parte del popolo che con la terra aveva un legame ancestrale. Questa povera gente, oltre a vedersi strappato tutto ciò che aveva, è poi costretta a sopportare la fame, il vagabondaggio coatto, gli insulti e i soprusi. Uomini che non vogliono altro che sfamare sé stessi e i propri figli vengono trattati come ladri; costretti a spaccarsi la schiena per pochi centesimi, a sopportare le intemperie e privazioni di ogni tipo.
Questa assurda realtà, seppur confinata in un'epoca e un contesto preciso, contiene in sé riflessioni che sono più attuali che mai. Perché forse non ci troviamo e non ci troveremo nelle condizioni della famiglia Joad (o almeno speriamo che sia così), ma i lati scabrosi dell'animo umano che li costringeranno a tale miseria sono qualcosa che non abbiamo debellato e non debelleremo mai, e quando diciamo a noi stessi che il peggio della storia non dovrà ripetersi, lo facciamo per la spaventosa consapevolezza che questo non solo è possibile, ma altamente probabile. È per questo che “Furore" dovrà continuare a essere letto: per riportarci alla mente quelli che sono state e possono essere le conseguenze del nostro egoismo e della nostra avidità; per perpetuare il ricordo delle pagine più vergognose della nostra Storia. Perché la vergogna non va dimenticata, e non per fare penitenza sui peccati di chi è venuto prima di noi, ma per lasciar germinare la consapevolezza che deve guidarci in ogni nostra azione; per non diventare oppressori e non macchiarci del sangue di innocenti, ché si uccide anche senza "spada" e delle volte lo si fa anche per semplice leggerezza. E se fossimo noi gli oppressi, questa lettura potrà ricordarci che al mondo ci sarà sempre qualcuno come noi e che insieme siamo forti; che i grappoli del nostro furore possono abbattere qualsiasi nemico.
“Furore" è una lettura emozionante, poetica, maledettamente avvolgente nella sua tristezza, una tristezza che lascia comunque intravedere quel barlume di speranza che viene fuori solo quando tocchiamo il fondo, perché è nel fondo che le nostre qualità migliori tendono a nascondersi.

P.S. Guardate anche il film di John Ford con Henry Fonda. Un po’ diverso, ma comunque molto bello.

“Gli affamati arrivano con le reticelle per ripescare le patate buttate nel fiume, ma le guardie li ricacciano indietro; arrivano con i catorci sferraglianti per raccattare le arance al macero, ma le trovano zuppe di cherosene. Allora restano immobili a guardare le patate trascinate dalla corrente, ad ascoltare gli strilli di maiali sgozzati nei fossi e ricoperti di calce viva, a guardare le montagne di arance che si sciolgono in una poltiglia putrida; e nei loro occhi cresce il furore. Nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    20 Gennaio, 2020
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L'ho sopravvalutato?

Ho recensito più di una nuova uscita di Joe R. Lansdale nel recente periodo, e nella mia testa ha preso a formarsi un interrogativo: avrò sopravvalutato l'autore, o questo è un periodo in cui è semplicemente svogliato? Immagino che potrò capirlo soltanto leggendo altre delle sue opere più apprezzate, scritte tempo fa. Forse così potrò capire se Lansdale è un autore di semplice intrattenimento con qualche guizzo felice (come "Paradise Sky"), o se come Stephen King sta puntando sulla quantità e meno sulla qualità, quantomeno di recente.
Dico questo perche' “Caldo in inverno" non è altro che un modo per passare una piacevole giornata di lettura, ma ben lontano dalla letteratura; così come i film Marvel sono film adatti a passare un piacevole paio d'ore, ma ben lontani dal grande cinema.
È curiosa, oltretutto, la scelta di inserire questo libro nella collana "Gialli Mondadori", mancando in esso quelli che sono le fondamenta del giallo: detective, indagini, ricerca dell'assassino da parte dei protagonisti e del lettore, che collabora pur essendo inascoltato. “Caldo in inverno” è un'opera carica di testosterone, sparatorie e Dixie Mafia, cosi come piace a Lansdale ultimamente, anche nel recentissimo "Elefante a sorpresa". Niente mistero, dunque, solo tensione e adrenalina. Non c’è molto da aggiungere sulla trama, considerato che è tutta ben descritta nella quarta di copertina. Questa storia procede per la sua strada, senza colpi di scena di sorta, seguendo le gesta di personaggi (di cui alcuni anche interessanti) che sarebbero perfetti per un film d’azione.
Certo, questi sono romanzi piacevoli da leggere, ma in passato se volevo leggere qualcosa di simile mi "rivolgevo” ad altri autori, perché ero convinto che Lansdale appartenesse a un’altra categoria, una spanna sopra di loro; che fosse capace di ben altro.
Mi sbagliavo? Ve lo farò sapere, perché credo che la mia prossima lettura di Lansdale sarà rivolta a qualcuna delle sue opere più conosciute.

“All’epoca, ero certo di essere io l’eroe e di poter trionfare sempre. Dopo l’esperienza nell’esercito e dopo essere stato in guerra, non mi ero mai più sentito un eroe. Di certo, non mi sentivo un dannato eroe in quel momento.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    17 Gennaio, 2020
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L'incanto della vita

Quando ami uno scrittore, la lettura di un suo lavoro è un’esperienza diversa. Percepisci ogni battito del tuo cuore; ogni parola letta pare scavare nel tuo essere, nella tua memoria, nella tua anima, per cavarne fuori cose che credevi di aver seppellito, intenzionalmente o meno. E per me Ray Bradbury è così: spesso declassato perché scrittore di fantascienza (etichetta che lui stesso rifiutava), ma che nella mia personale scala di preferenze pongo all’altezza dei vari McCarthy, Dostoevskij, Dickens; quegli autori che toccano le mie corde più intime e le scuotono senza ritegno.
“L’estate incantata” è un libro meraviglioso, che probabilmente ricorderò per sempre, come succede per tutti i libri che finiamo per amare. Poetico, profondo, riesce quasi a toccare le altezze raggiunte da quel capolavoro che è “Cronache marziane”; è un libro che non puoi fare a meno di chiudere e stringere al petto… perché alla fine diventa tuo. Eppure “L’estate incantata" non parla d'altro che, appunto, un'estate. Ma come lo fa, Bradbury, come lo fa! Ambienti, odori, sapori, sensazioni, emozioni: c'è tutto, ed è descritto con una poeticità che può anche non piacere, che può risultare pesante soprattutto al lettore medio di oggi (che si annoia), ma che io reputo fuori dal comune. La visione delle cose e della vita di Bradbury è quanto di meglio un uomo possa ambire per sé: una visione ottimistica; un continuo concentrarsi sul bene e sulla bellezza. Ciò non significa ignorare il male e la tragedia, ma affrontarla con quella forza che può dare solo un profondo amore per la vita. E se guardate le interviste di Bradbury, capirete quanto l’uomo Bradbury ha in comune coi suoi scritti; capirete che Douglas, il protagonista di questa storia, quando scopre di essere veramente vivo non è che l'alter ego dell'autore, che ha vissuto quest'esperienza comune a tutti noi ma che lui è riuscito a rendere al meglio con la bellezza delle sue parole.
Quanta nostalgia ha generato in me questa lettura, quanta amarezza nel ricordo dell'infanzia ormai passata; eppure quanta gioia nell'abbandonarvisi! Per un giorno svestiamoci del cinismo e del gelo che l'era moderna ci ha gettato addosso; inebriamoci del calore di un'estate incantata che un autore enorme ha condensato in questo libro, imbottigliando la bellezza della vita come fosse vino di dente di leone (chi leggerà il libro capirà), così da poterlo assaggiare ogni volta che ne avremo voglia semplicemente sfogliando, leggendo. Amando.

L'estate incantata in fondo non ha trama; anzi, direi che può definirsi una successione di raccontini con dei personaggi in comune (su tutti i piccoli Douglas e Tom Spaulding) e che nel loro insieme formano il quadro dell'estate incantata che apparirà sempre più nitidamente.
Ci divideremo tra la bellezza dei giorni estivi; personaggi bizzarri; automobili verdi e macchine della felicità; macchine del tempo che nulla hanno di meccanico, ma sono frutto dei ricordi di uomini che, se solo li ascoltassimo, potrebbero farci viaggiare lontano pur stando seduti.
Amicizia, amore, bellezza, tristezza, dolore. Ve l'ho già detto: in questo libro c'è tutto.
Che state aspettando?

“Era più grande, più forte, più intelligente di lui, non è vero? Sentiva anche lei la minaccia intangibile che saliva dalle tenebre, la malvagità delle cose che s’acquattavano nell’ombra? Se era così, allora non si acquistava più forza quando si diventava grandi; non si trovava pace nell’essere adulti; non esisteva, nella vita, nessun rifugio sicuro; nessuno era tanto forte da resistere agli incubi, o alla mezzanotte. […] Si rese conto che tutti gli uomini erano così: che ciascuno, ai propri occhi, era perduto e solo. Un’unità che insieme ad altre unità formava una città, ma che pur sempre rimaneva singola e spaurita. Come loro, sul bordo del crepaccio. Se Tom avesse urlato, se avesse chiamato aiuto, a pieni polmoni, sarebbe servito a qualcosa?”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    13 Gennaio, 2020
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Un giallo completo

In un mercato editoriale saturato dai nomi ingombranti di giallisti e autori di thriller d’oltreoceano che appaiono libro dopo libro sempre più svogliati e sicuri di poter campare di rendita, è un piacere riscontrare come nuove voci italiane ci permettano di tirare una boccata d'aria fresca. E chissà, magari col tempo ci permetteranno di lasciare sugli scaffali questi presuntuosi che non si sforzano più di compiacere il proprio pubblico, ma solo il proprio conto in banca.
La lettura di questo romanzo di Lidia Del Gaudio, dunque, è stata un toccasana che ci ben fa sperare nelle sue prossime pubblicazioni, che magari ci regaleranno altre indagini del suo interessante commissario: Alberto Sorrentino.
"Il delitto di via Crispi n. 21" è un giallo avvincente, arricchito da una scrittura raffinata e dettagliata, ma che riesce allo stesso tempo a risultare scorrevole e coinvolgente. Spesso si sente dire che la scrittura dei romanzi di questo genere deve essere necessariamente scarna, non troppo carica di dettagli, per fare in modo che il lettore non si annoi e prosegua nella lettura. Ho molto apprezzato la scelta dell’autrice di non scendere a compromessi e mantenere la descrizione minuziosa dei luoghi, degli ambienti, nonché degli stati d’animo del protagonista, e questa scelta eleva il suo scritto una spanna sopra al “giallo medio”.
Il romanzo è oltretutto arricchito dall’ambientazione napoletana, di cui l’autrice è stata brava anche a cogliere i luoghi comuni, i detti popolari, le contraddizioni e le bellezze nascoste.
Quello che tuttavia reputo il punto di forza di questo romanzo è tuttavia la caratterizzazione dei personaggi: variegati, ognuno con una propria voce perfettamente distinguibile e ben calati nel contesto anteguerra (cosa per nulla scontata). Ognuno di loro ha le sue peculiarità, e il lettore non resterà indifferente a nessuno di loro, pur finendo per affezionarsi più ad alcuni rispetto ad altri. Il fiore all'occhiello è proprio il protagonista, il commissario Alberto Sorrentino, al cui background l'autrice ha pestato un'attenzione speciale, regalando ai lettori un personaggio completo e interessante, facendo nascere la speranza di poterne seguire ulteriori indagini, che potrebbero essere magari arricchite da un contesto ancora più intrigante, che è quello dell’Italia immersa nel secondo conflitto mondiale. Secondo me, si aprirebbero degli scenari interessantissimi che darebbero ulteriori motivi di seguire l’autrice e una sua eventuale serie.
Se vi piace il genere, dunque, non fatevi scappare questo giallo di pregevole fattura, e tentate di risolvere questo caso prima del commissario. Io ci ho provato, ma non vi dirò se ci sono riuscito o meno.

“Se devo essere sincero, non ve lo so dire. Insomma, io sono napoletano, commissario, e i napoletani sono persone particolari. Vi danno il cuore quando è il momento, l’entusiasmo, l’adunata, l’oro alla patria e tutto il resto. Poi però ogni tanto si fermano e si fanno due conti della vita spicciola, del dare e avere, dell’esistenza che non è eterna e del ccà nisciuno è fesso, non so se rendo l’idea. E così come si sono entusiasmati, cosi si disentusiasmano presto presto. Non sempre con la rivoluzione o con chi lo sa quali grandi azioni. Lo fanno con l’apatia, come quando uno si disamora del suo più grande amore e, allora, prima sopporta, poi si arma di silenzio e indifferenza e li cova sotto la cenere, fino a quando non succede quel qualcosa che li fa esplodere come l’eruzione di un vulcano. Del resto, qua sotto al Vesuvio ci troviamo, o no?”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    05 Gennaio, 2020
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Narcisismo patologico

Provo una notevole ammirazione per Camus; è uno degli autori che apprezzo di più perché le sue opere hanno l'ambizione di sviscerare in profondità l'animo umano, senza timore di tirarne fuori anche i lati peggiori. E questo, inutile dirlo, è una delle caratteristiche che più gradisco, in un romanzo; anzi, forse la considero una vera e propria raison d'etre.
Tuttavia, credo che l'ambizione di Camus ne “La caduta" sia andata leggermente oltre quella che è la sua reale efficacia: sembra che l'autore voglia sviscerare buona parte dell'animo umano, considerare molti dei tanti lati della sua natura; forse troppi, per essere trattati in un libriccino di neanche cento pagine. Ne viene fuori un condensato di numerosissimi concetti e riflessioni che, tuttavia, nel marasma di parole che vengono fuori dalla bocca del protagonista, perdono notevolmente di efficacia.
Quello che viene meglio messo in risalto, secondo me, è il ritratto del nostro protagonista, che alla fine si rivela la perfetta personificazione del narcisismo patologico. Credo che il lavoro di Camus, in questo senso, avrebbe il plauso dei migliori psicoterapeuti: lo smodato amore per sè stesso; la mania di possedere e tenere legate a sé le donne con cui intrattiene una relazione, senza esservi legato da un sentimento amoroso e vivendo le relazioni da vero libertino, salvo ripresentarsi al partner quando questo decide di staccarsi, per imprigionarlo ancora e riabbandonarlo.
Narcisismo patologico. Senza se e senza ma.
Nel tratteggiare questi lati del carattere di Clamence, Camus è stato abile, e forse questo personaggio avrebbe meritato maggior giustizia con un romanzo più lungo. Anche la scelta narrativa alla lunga stanca: l'autore sceglie infatti un soliloquio simile a quello adottato da Dostoevskij in Memorie dal sottosuolo", ma mentre questo era spezzato da alcuni avvenimenti e comunque si concentrava su pochi temi principali, i voli pindarici che Clamence fa ne “La caduta" stancano, alla lunga.
Pur avendo alcuni tratti interessanti, dunque, vedo in quest'opera come un'occasione mancata per creare un vero e proprio capolavoro: credo che gli elementi di base ci fossero, ma che non siano stati
adoperati al meglio.
Anche ai migliori capitano i passi falsi.

“La felicità e il successo, la gente te li perdona solo se accetti generosamente di condividerli. Ma, per essere felici, non bisogna occuparsi troppo degli altri. Ecco che allora non c’è via d’uscita. Felice e giudicato, oppure assolto e triste. Quanto a me, l’ingiustizia era ancora più grande: ero condannato per felicità passate. Avevo vissuto nell’illusione di un accordo generale, mentre da ogni parte piovevano su di me, distratto e sorridente, i giudizi, le frecciatine e i dileggi. Il giorno in cui me ne resi conto, scoprii la lucidità. Ricevetti tutte le ferite in una volta sola e persi di colpo le forze. L’universo intero prese allora a ridere intorno a me.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    30 Dicembre, 2019
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La vita è un caso irrisolto

Dopo quarantun anni in cui sono stati separati, due uomini che da giovani sono stati amici inseparabili si incontrano di nuovo. Entrambi sembrano essere sopravvissuti per poter vivere questo preciso incontro, e una volta che questo si sia compiuto e i quesiti che il tempo ha sollevato si siano risolti, probabilmente potranno morire in “pace”.
Ma cosa ha portato due amici, quasi fratelli, a separarsi di punto in bianco e senza un saluto? Cosa ha a da fare una misteriosa donna con questa separazione?

Questa è una di quelle letture che mi lascia in difficoltà, volendone dare un’opinione obiettiva. “Le braci” è un titolo super acclamato, che a quanto mi pare di capire è piaciuto a tantissimi. E invece io, pur riconoscendone la grandezza stilistica e la bravura dell’autore nella costruzione della tensione narrativa, non l’ho trovata una storia di quelle che ti lasciano una traccia indelebile. Penso che i temi trattati possano scuotere persone che hanno vissuto le emozioni e qualche situazione di quelle trattate in questo romanzo, ma forse questa potenza viene attenuata negli altri lettori. Non lo so; sta di fatto che, pur trattandosi di una bella lettura, non mi ha colpito fino al punto che credevo.
Mettendo da parte le opinioni soggettive, ritorno a parlare del modo di scrivere e della maestria narrativa di Marài, che è davvero su livelli altissimi. A tratti difficile da reggere - anche a causa della seconda parte, che è praticamente un soliloquio di uno dei due protagonisti - ma anche potente e profondo. La peculiarità di questo romanzo, comunque, sta nella tensione che cresce pagina dopo pagina nel corso dell’incontro tra questi due amici, che non si vedono ormai da quarantun anni. Si ha la costante sensazione che il culmine di questa tensione si sia raggiunto, che la “bomba” sia lì lì per scoppiare, e invece la tensione continua a crescere. Leggere questo libro dà una sensazione simile a quella che dovrebbe provare un condannato a morte che attende che il boia cali la sua ascia; il condannato non può vederlo ma sa che è lì dietro di lui, ne avverte la presenza eppure quest'ultimo si attarda, non prende mai una decisione. E alla fine non siamo neanche certi che Marài, il nostro aguzzino, abbia calato o no il suo strumento di morte; ci si sente sospesi tra la vita e la morte, in un limbo letterario che regala una sensazione stramba che ha il sapore dell’irrisolto.
Capite quanto è stato bravo Marài?
Parlando degli eventi raccontati, per quanto mi riguarda non hanno molto di propriamente originale, anzi, mi sono apparsi piuttosto banali; la forza sta, ripeto, nel modo in cui vengono raccontati. Un aspetto piuttosto curioso, che non so se piazzare nello spettro delle coincidenze o meno, è il fatto che il protagonista indiscusso di questa storia sia anche quello più maltrattato dagli eventi e dallo stesso autore. Sì, perché l’autore nomina ripetutamente tutti i personaggi presenti in “Le braci”: Konrad, Kristina, Nini… tutti, a parte il suo protagonista Henrik, che nomina giusto un paio di volte, ma chiamandolo “generale” in tutte le altre occasioni. Come se Marài volesse mettere in risalto la differenza tra quest’ultimo e gli altri: uomo a cui è stata affibiata un’etichetta, una posizione sociale fin dalla nascita; status che pare anche gratificarlo abbastanza. Tuttavia, pare che questo lo ponga a un livello inferiore rispetto agli altri, indegno anche di essere chiamato per nome; incarnazione di una figura incolore che quasi non possa essere considerato un essere umano, in cui non arde il fuoco dell’anima come arde nella figura dell’artista, di quel suo amico che, tuttavia, coi suoi modi di fare mostra alcuni dei lati peggiori dell’essere umano.
Chi è più umano, dunque?
A questa e ad altre domande attende la risposta il lettore, così come i protagonisti (così come gli uomini in genere) attendono la risposta a quella che reputano la domanda essenziale della propria esistenza. Ma una volta che arriva il momento decisivo, il momento delle risposte, nessuna di queste pare essere esaustiva; come se l'esistenza degli uomini sia destinata ad essere per sempre un caso irrisolto.

“Il senso dell’amore e dell’amicizia è tutto qui. La loro amicizia era seria e silenziosa come tutti i sentimenti destinati a durare una vita intera. E come tutti i grandi sentimenti anche questo conteneva una certa dose di pudore e di senso di colpa. Non ci si può appropriare impunemente di una persona, sottraendola a tutti gli altri.”

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    23 Dicembre, 2019
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Genesi

“Sbalorditivo. Un thriller avvincente e implacabile”. Questa è la marchetta stampata, neanche dietro, ma sulla copertina di questo romanzo; a pronunciarla non un fesso qualsiasi, ma un maestro del genere quale è Don Winslow. Lasciando perdere l’altra marchetta di Michael Connelly (che rivolta a questo romanzo mi pare una balla, perché c’è pochissimo se non nulla di propriamente originale), la marchetta di Winslow andrebbe studiata a fondo. Lungi da me andare oltre l’obiettività, ma definire sbalorditivo questo romanzo mi sembra eccessivo; la scusante che offro all’autore della marchetta è che, considerata la somiglianza tra il modo di scrivere e la storia raccontata da Hamilton proprio con Winslow, volesse salvaguardare sé stesso. Non puoi dire, di un autore che ti somiglia in maniera evidente, che fa schifo. Io apprezzo Winslow e ho trovato questo romanzo - sotto certi aspetti - molto simile al suo “Corruzione”, pur considerando quest’ultimo di gran lunga superiore.
Tutto questo per dirvi: non fidatevi troppo delle marchette, anche se a pronunciarle dovesse essere lo spirito di Dostoevskij.
Tornando al romanzo, pur non essendo sbalorditivo è comunque una lettura che si fa in breve tempo, sia per la sua scorrevolezza sia per la inusuale brevità, per un romanzo del suo genere. Una buona lettura da fare sotto natale, senza impegno, anche se secondo me un periodo come questo si presta benissimo a letture più impegnative e profonde; ma non siamo tutti uguali. In fondo questo libro può rappresentare il principio di una serie in grado di regalare buone soddisfazioni agli amanti del noir-thriller di stampo americano e soprattutto a chi apprezza gli autori delle marchette che lo accompagnano, e cercano una nuova serie di genere da seguire.
Tuttavia, prima di procedere all’acquisto di questo romanzo, voglio darvi alcune avvertenze. Primo, non aspettavi una grande profondità di contenuti: siamo alle prese con un’opera di puro intrattenimento, tutta azione, senza particolari guizzi e con qualche forzatura fatta al preciso scopo di mettere tutti i tasselli al proprio posto, di posizionare gli elementi su cui si fonderà la serie che l’autore ha in mente (e che, se non sbaglio, ha già una seconda pubblicazione oltreoceano). Secondo: pur incuriosendo e raccontando una discreta storia di genesi, gli eventi narrati non hanno granché di originale (e qui torniamo alla marchetta truffaldina), sono un po' triti, senza colpi di scena da mascella spalancata.
Riassumendo, una lettura piacevole che vi consiglio solo se amate il genere, se vi piacciono i romanzi in serie e ne cercate una nuova da seguire.

Nick Mason è rinchiuso in un carcere, accusato di omicidio, e pare che dovrà restarci ancora per molto tempo. In prigione la sua vita scorre sempre uguale, senza che nessuno gli causi particolari problemi, ma anche senza nessuno che vada a trovarlo o gli faccia una telefonata. Sua moglie le ha chiesto il divorzio tramite un avvocato, senza una parola, senza un cenno, tenendolo lontano da sua figlia Adriana e non permettendogli di vederla neanche una volta.
Nick Mason non ha molto per cui vivere, se non sé stesso.
Il momento di svolta è l’incontro (forzato) con Darius Cole, che si interessa di lui per chissà quale oscura intuizione e decide che è l'uomo giusto per svolgere dei lavori scomodi per lui. Cole, infatti, è un boss di Chicago il cui potere non è stato scalfito dalla sua detenzione; tuttavia, considerata la sua distanza geografica, ha bisogno di un braccio armato che continui a far rispettare le sue regole in città. Quel braccio sarà proprio Nick Mason; Cole non sarà abbastanza potente da scarcerare sé stesso, ma lo è abbastanza da far uscire lui e costringerlo a fare quel che chiede.
Nick uscirà di prigione, scagionato dalle accuse, ma da quel momento non sarà comunque libero. Avrà una seconda vita da vivere, ma sarà una vita che appartiene totalmente a Darius Cole.

“Non ho bisogno di farmi degli amici qui dentro. Quando ti fai un amico, i suoi nemici diventano tuoi nemici. Non ne ho bisogno.”

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Corruzione di Don Winslow
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    18 Dicembre, 2019
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L'edizione italiana di questo libro arriva in seguito all'enorme successo conseguito dalla versione inglese, letta e apprezzata da una miriade di aspiranti (o già esordienti) scrittori alla ricerca di un modo costante di migliorare sé stessi; alla ricerca di errori tecnici e di approccio dei quali riconoscono i sintomi ma fanno fatica a identificare le cause.
Renni Browne e Dave King, nei dodici capitoli che compongono questo libro (che si legge velocemente, grazie a uno stile quasi colloquiale), si concentrano su alcuni dei pilastri su cui dovrebbe fondarsi il mestiere del narratore efficace: dal famoso (ma niente affatto semplice) “Show, don’t tell”, passando alla scorrevolezza fino alla ricerca di una propria voce. Tutto è corredato da esempi (positivi e negativi) tratti da romanzi pubblicati e non, da riflessioni interessanti ed esercizi da svolgere per testare la propria comprensione; esercizi che si potranno poi confrontare con le versioni svolte dagli autori, piazzate alla fine del libro. Un po’ come la Settimana Enigmistica, ma con meno rigidità; perché in fondo ogni scrittore ha le sue tecniche, i suoi metodi di lavoro, le sue preferenze; e una scelta suggerita non necessariamente finirà per essere la migliore. Tuttavia, credo che confrontare il proprio metodo d’approccio al mestiere con i vari punti di vista (a volte contraddittori) di altri scrittori e insegnanti di narrativa, può aiutare a orientarsi e a trovare il proprio modo di identificarsi in quanto scrittore. Personalmente, ho provato a fare tesoro dei suggerimenti che mi parevano più sensati, approcciandomi sia a questa lettura che a me stesso con spirito critico; riconoscendo gli errori in cui sono caduto, ma anche compiacendomi scoprendo che molti dei modus operandi suggeriti per migliorare il proprio lavoro li avevo già inconsciamente applicati. Questa lettura, dunque, oltre che a migliorarsi nelle proprie lacune può essere anche uno sprone a continuare sulla propria strada, con rinnovata energia.
Il talento esiste, ma va sempre e comunque coltivato, alla ricerca di una propria voce e affinando una tecnica che gli permetta di esprimersi al meglio e di raggiungere quello che, in fin dei conti, è uno dei motivi maggiori per cui molti di noi si dilettano nello scrivere: essere letti e apprezzati.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    13 Dicembre, 2019
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Scontro tra Ragione e Cuore

"Quando Dickens descrive qualcosa, ti rimane davanti agli occhi per tutta la vita"; questo è quanto asserisce George Orwell in un breve saggio su Charles Dickens, riportato alla fine dell'edizione Einaudi di questo romanzo. Oltre a questo complimento, tuttavia, pur riconoscendo il genio del grande scrittore inglese e ammettendo anche il suo personale apprezzamento, Orwell quasi si interroga sui motivi del suo immenso successo, quasi fosse un mistero che va oltre la concezione umana; quasi stessimo parlando dell’equivalente ottocentesco di Fabio Volo. Perché? Perché secondo lui nei romanzi di Dickens i personaggi sono a volte incoerenti, stereotipati, macchiette incapaci di evolversi; in alcuni casi le trame risultano banali e, oltretutto, mancano proposte per migliorare la società malfunzionante e disparitaria che Dickens spesso critica.
“Se gli uomini si comportassero come si deve, anche il mondo sarebbe un mondo come si deve”: questa è la semplificazione che il buon Orwell dà del messaggio globale dickensiano.
Ecco, se devo dire la mia, pur riconoscendo la bravura dell’autore di un capolavoro come “1984”, trovo che in questo breve saggio pecchi un po’ di quell’invidia che gli scrittori provano al cospetto di un genio inarrivabile, quale senza ombra di dubbio era Dickens. Ricercare la perfezione in un essere umano è impossibile, è dunque una follia ricercarla in esseri umani controversi quali sono gli artisti toccati dal genio. Oltretutto, nei propri romanzi, uno scrittore si sofferma su ciò che più gli sta a cuore; dà ai personaggi l'impronta del suo carattere e i fini degli eroi non possono non coincidere, almeno in parte, con quelli che l'autore vede più desiderabili, nel caso di Dickens il focolare domestico, l'amore, gli affetti.
Dickens è un grande indagatore dell'animo umano: tenero quando possibile; spietato quando necessario; capace di porre l’attenzione su realtà difficili ma allo stesso tempo in grado di stemperare tutto con la sua ironia irresistibile. Ma la potenza di Dickens sta soprattutto nello stile: evocativo, capace di imprimere immagini indelebili nella mente del lettore; capace di creare personaggi indimenticabili, ognuno per un motivo diverso; capace di commuovere e di generare ogni sorta d'emozione. Questo era Dickens; perché cercare in lui quel che non è, e non soffermarsi sulla miriade di cose che invece è? Certo, non sarà stato una fucina di soluzioni per i problemi della sua epoca (anche se, comunque, anche il solo denunciarli e farci satira era, per un uomo così influente, un modo efficace per incanalarvi l'attenzione), ma il modo in cui affrontava temi d'importanza universale nella sfera emotiva degli uomini lo ha reso eterno al pari di Shakespeare e pochi altri. Che avesse avuto successo anche con le masse di lettori non dovrebbe indignare, generare invidia, bensì rincuorarci; è infatti la prova che, delle volte, la vita può essere anche giusta e dare ciò che deve a chi lo merita.
Ora, chi legge questa recensione potrà dire che ho parlato di tutto fuorché di “Tempi difficili", ma mi rimetterò in carreggiata dicendovi semplicemente che il genio sopracitato dell'autore è oltremodo presente nell'opera in oggetto. Quel che Dickens mette in risalto raccontandoci questa storia effettivamente semplice, è capace di toccare il cuore e far riflettere. L’importanza dell'immaginario, dell'amore, della bontà; la satira e l'accusa nei confronti dei capitalisti sfruttatori e privi di morale; la capacità dell'uomo di poter cambiare: tutto questo è molto di più si può leggere in questo romanzo che si “beve” in un sol sorso, ricco di dettagli che non fanno altro che renderlo più vivo e indimenticabile.

Tom Gradgrind è un uomo tutto d'un pezzo, che crede fermamente nella supremazia della Ragione sugli insulsi viaggi del Cuore; dei numeri sull'immaginazione e la fantasia. È sulla base di questi pilastri che fonderà la sua vita e l'educazione dei suoi figlioli, in particolare della sua figlia prediletta: Louisa, che crescerà estremamente chiusa e disinnamorata della vita, presentatale fin da piccola come un agglomerato incolore di Fatti ed equazioni. Dunque, quando il padre le proporrà di prendere in sposa un ricco e insopportabile amico di famiglia (tale Bounderby), più grande di lei di trent'anni, accetterà con apatia. “Che importanza ha? "è l’inciso che accompagnerà il suo “sì”, ma ben presto, quando quei sentimenti che vanno oltre la logica le travolgeranno la vita, conseguenze devastanti si riverseranno su di lei e su tutti coloro che le sono intorno, facendo crollare la barricata di Fatti con cui il signor Gradgrind aveva sorretto la propria vita. In mezzo a una folla di persone arrese al potere della logica, spiccherà invece la figura di Sissy, figlia di un saltimbanco che l’ha abbandonata quando il suo circo era stanziato a Coketown e presa in custodia proprio dal signor Gradgrind. Lei rappresenta l’altra faccia della medaglia, quella che si contrappone alla fredda logica e farà valere le ragioni del Cuore e dell'Amore.
Leggetelo, e leggete anche il saggio di Orwell che, seppure sia per me condivisibile solo in parte, è comunque interessante.

“Centinaia e centinaia le «braccia» al lavoro in questa fabbrica; centinaia e centinaia i cavalli-vapore. Sappiamo quel che può fare una macchina, fin nella sua minima componente, ma neppure tutti i contabili della tesoreria nazionale riusciranno mai a calcolare quale sia l'attitudine a compiere il bene e il male, ad amare oppure a odiare, a servire la patria oppure a sobillare, la capacità di corrompere la virtù in vizio, o viceversa, che si annida nell'animo di ciascuno di questi mansueti servitori dai volti composti e dai gesti regolari. La macchina non ha misteri, ma un mistero insondabile si cela per sempre anche nel più umile di costoro. Cosa mai accadrebbe se riservassimo la nostra aritmetica agli oggetti materiali, e cercassimo invece di valutare con altre misure queste entità del tutto ignote?"

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    10 Dicembre, 2019
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Un autore che stimo ma non amo

Io e Tolstoj proprio non ci prendiamo. Non fraintendetemi, ne “La morte di Ivan Il'Ic" fa sfoggio di una maestria fuori dal comune, soprattutto nel tratteggiare la situazione e i mutamenti nella psiche del protagonista. Questo è davvero impossibile negarlo, anche per un lettore come me che con questo autore ha avuto “frizioni” fin dal principio. Anche nel caso di quest’opera, tuttavia, pur non potendone ignorare i pregi, è mancata quella scintilla che in me scatta quando una lettura è stata realmente indimenticabile. Non so a cosa questo sia dovuto: la prima esperienza con Anna Karenina è stata troppo traumatica e mi ha reso prevenuto? Le entusiastiche recensioni lette sul web e ascoltate da amici mi hanno caricato di troppe aspettative? Non saprei davvero dirlo, sta di fatto che pur avendolo apprezzato, non l’ho amato. Mentre proseguivo nella lettura, ho avuto la stessa sensazione che avrei potuto avere in un ristorante di ottimo livello, in cui pur ammirando e apprezzando la raffinatezza dei piatti, mi ritrovavo a pensare ai prossimi pasti nei miei locali di fiducia.
Tralasciando i gusti personali (perché di null'altro si tratta) Tolstoj tratteggia egregiamente e in pochissime pagine quella che potrebbe essere la vita di una persona qualunque (facendo, ovviamente, le opportune attualizzazioni), per poi metterla di fronte alla brutale realtà della morte. Ivan Il’ic è un uomo come tanti: lotta per avere quello che vuole; si entusiasma per i propri successi, persegue le proprie mete, si crea una famiglia; insomma, si districa tra le consuete gioie e dolori della vita, beandosi nella convinzione di stare facendo tutto nel modo giusto. Tuttavia, la morte è quell'elemento che ha il potere di mettere tutto in discussione; in primis, la vita.
Perciò, quando la malattia busserà prematuramente alla porta di Ivan Il’ic (oltretutto in modo incredibilmente stupido, aumentando il senso di impotenza e mettendo in risalto l'estrema fragilità della vita), questi reagirà con sgomento, con incredulità, con una serie interminabile di emozioni che lo consumeranno lentamente. Mano a mano verranno fuori tutte le ipocrisie con cui le persone in salute si approcciano a chi vede la morte avvicinarsi inesorabilmente. Ivan Il’ic prova repulsione per la condiscendenza e il falso ottimismo dei dottori, degli amici e dei familiari; prova sollievo solo in compagnia di chi ha pietà di lui. Presto però, tutto lascia il posto alla voglia di continuare a vivere. Perché si deve morire? Cosa c'è di giusto nella morte? perché ci è toccata in sorte? Allora ci si interroga sulla propria vita, sul senso che questa ha avuto, se si sia davvero vissuta nel modo giusto, e anche nel caso in cui la risposta sia affermativa, che senso ha avuto far tutto nel migliore dei modi se alla fine si è costretti a gettare tutto nelle ortiche della non-esistenza?
Ivan Il’ic verrà travolto da una marea di emozioni di cui saremo spettatori; che ci faranno pensare e forse ci angosceranno. Quando il nostro protagonista vedrà finalmente la fine forse ci chiederemo: "negli ultimi attimi, avrà finalmente trovato un senso?"
Chissà.

“Gli era venuto in mente che quello che prima gli sembrava impossibile, l’idea di non aver vissuto la propria vita come avrebbe dovuto, poteva essere la verità. Gli erano venute in mente certe sue pretese di lotta, appena percepibili, contro quello che veniva considerato buono dalle persone altolocate, pretese appena accennate che lui aveva subito allontanato da sé; gli era venuto in mente che proprio quelle potevano essere giuste, e tutto il resto poteva essere sbagliato. E il suo lavoro, il suo modo di stare al mondo, e la sua famiglia, e gli interessi sociali e professionali: tutto questo poteva essere sbagliato. Aveva tentato di difendere, di fronte a sé stesso, queste cose. E d’un tratto aveva sentito tutta la debolezza di quello che difendeva. Non c’era niente da difendere.”

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Classici
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    06 Dicembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Idrofobia letteraria

"Amok” è un racconto che si può leggere in un pomeriggio: breve, intenso, febbrile. Lo stile di Stefan Zweig è perfettamente adattato alla vicenda che vuole raccontare: un medico spedito ai tropici che si trova improvvisamente vittima di una specie di febbre detta Amok. Ma cos'è precisamente? Amok è un termine malese che sta per "follia rabbiosa, una specie di idrofobia umana... Un accesso di monomania omicida, insensata”. Il racconto di questa febbre ci viene presentato dallo stesso protagonista, che si confida con un passeggero della nave Oceania. Le parole del medico, il suo modo di esprimersi, rende evidente come questo Amok non si sia ancora spento, solo sopito, nonostante la sua fuga dall'insostenibile ambiente tropicale in cui era stato costretto a operare per anni.
Il pregio maggiore di quest'opera sta proprio nel protagonista della sua storia, la cui condizione ci viene descritta in maniera chiara e che è capace di sconvolgere anche il lettore, perché in fondo è tutto il libro ad essere influenzato da questi folli sentimenti. Questa novella, dunque, è febbrile dalla prima all’ultima pagina, ci trascina nel suo corso come se anche noi fossimo afflitti da una sorta di Amok letterario, che non si sopisce se non quando il libro viene chiuso definitivamente. Credo fosse proprio questo l'obiettivo di Stefan Zweig; obiettivo raggiunto pienamente, anche se la storia che ci viene raccontata non sia propriamente indimenticabile.

“[…] l'unico diritto umano che alla fine ti resta è quello di crepare come credi... senza essere scocciato dall'aiuto altrui."

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    01 Dicembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Azione e non molto di più

Tiepido. È il primo termine che mi viene in mente pensando a questo romanzo. Sì, mentre leggevo ho avuto l'impressione che Lansdale non si sia sforzato poi molto; che abbia scritto questo romanzo in un giorno di noia in cui non aveva nulla di meglio da fare. Il titolo stesso: "Elefante a sorpresa", non ha molto a che vedere con "l'indagine" che Hap e Leonard si trovano ad affrontare; tutti i romanzi dei due investigatori avrebbero potuto intitolarsi cosi. Forse anche Lansdale ha trovato difficoltà a scegliere un titolo per questo romanzo che, in fondo, ha una trama debole: è più una sequela di scene d'azione senza alcun mistero né indagine. Hap e Leonard, nel bel mezzo di uragani e diluvi universali, difendono a suon di pallottole la testimone oculare di un omicidio, perseguitata da un boss della Dixie Mafia.
Punto. Il romanzo è null'altro che questo.
Mi ha dato la sensazione di uno di quei film d'azione che vai a vedere per divertirti un paio d'ore, ma che oltre questo non lasciano molto altro. Ora, se stessimo parlando di un altro autore, dalle limitate capacità e che si offre a un certo tipo di pubblico (senza molte pretese), sarebbe anche accettabile. Ma parliamo di Joe R. Lansdale, maledizione; un uomo che ho scritto romanzi di altissimo livello come "Paradise Sky". Anche lo stile è molto scialbo, sottotono, seppur scorrevole. Certo, la serie di Hap e Leonard è sempre stata un po' cosi: scanzonata, semplice, in certi tratti esagerata, ma devo dire che, forse, di questo loro ritorno si poteva anche fare a meno. Lo dico da grande estimatore di Lansdale: Joe, torna a mostrarci quello che davvero sai fare... e se è necessario, sì, lascia perdere Hap e Leonard; per un po' almeno!
Signori, mi rendo conto che questa recensione potrà risultare estremamente breve, ma giuro che non c’è molto altro da dire. Dunque, se siete fan sfegatati di Hap e Leonard, magari leggetelo; in caso contrario, direi di passare oltre.

“Tu prova a mettere la speranza da una parte e la merda dall’altra, e vedrai dove penderà la bilancia.”

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Romanzi storici
 
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4.5
Stile 
 
5.0
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5.0
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4.0
Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    28 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

L'individuo contro lo stato

Sento di dover cominciare questa recensione dicendo che, secondo me, Ayn Rand è una grandissima scrittrice troppo poco conosciuta. Dico questo in base a constatazioni personali, come la bassa percentuale di recensioni online o il fatto che, se non fosse stato per un caso raro e fortuito, non l’avrei scoperta nemmeno io. Se poi dovesse venir fuori che la conoscono tutti, sarò felice di aver preso una cantonata; sta di fatto che ne sento parlare molto poco. Fatta questa premessa, devo dire che la lettura di questo libro non è stata semplice; l'autrice tende spesso a dilungarsi in dettagli, in descrizioni molto lunghe a volte superflue e ridondanti, con una scrittura tuttavia pazzesca, evocativa, perfetta. Ecco il perché del cinque allo stile, e il quattro (sofferto) alla piacevolezza.
Passando ai contenuti, devo dire che in "Noi vivi" più che in “La fonte meravigliosa" mi sono trovato più di una volta a storcere il naso: non riuscivo a condividere il modo d'agire e di pensare dei personaggi; alcuni li ho persino odiati. Al diavolo, ve lo dirò: i due protagonisti mi stanno enormemente sulle scatole. Oltretutto, molte delle loro scelte portano a eventi che mi hanno lasciato interdetto e deluso. Tuttavia, non ci ho messo molto ad acquietarmi, perché in fondo lo scopo ultimo della letteratura vera non è quello di appagare il nostro desiderio di fiction, di lieto fine; né la soddisfazione di vedere tutte le tessere andare al posto giusto (o meglio, il posto che noi crediamo sia giusto). No. Per queste cose c’è la letteratura d’intrattenimento, e se abbiamo di questi desideri è a quest'ultima che dovremmo rivolgerci. "Noi vivi" appartiene a un altro partito; il partito delle opere che sconvolgono, che dipingono il quadro perfetto di un contesto, che fanno riflettere e ti lasciano in balia di emozioni, anche negative, perché queste in fondo fanno parte della vita. Tutto questo fa di questo romanzo d'esordio di Ayn Rand un libro vero, profondamente reale, pieno di personaggi che sono in tutto e per tutto esseri umani, coi loro pregi e gli infiniti difetti accentuati dal contesto asfissiante e carico di disperazione che è quello della Russia sovietica.
I personaggi sono caratterizzati alla perfezione, bucano le pagine e prendono il lettore per il collo; non solo i protagonisti, ma tutti, in un modo o nell'altro. Vedere come tanti individui intraprendono la propria lotta contro lo Stato (o vi si rassegnano) è qualcosa di unico, che non si può descrivere ma va provato leggendo quello che, secondo me, è un grande romanzo a dispetto della sua tristezza e ingiustizia.

"Noi vivi" si apre col rientro a Pietrogrado della nostra protagonista Kira Argunova e della sua famiglia, dopo un periodo passato in Crimea nell'attesa che la situazione, per le vecchie famiglie borghesi, si facesse più sopportabile in seguito alla Rivoluzione proletaria. Tuttavia, scopriranno ben presto che la situazione non è per nulla migliorata, anzi, Pietrogrado è diventata la capitale di un regno che soffoca gli individui in nome di ideali e di una collettività che vengono gridate a gran voce, ma a cui anche i più fervidi sostenitori forse non credono e sicuramente non praticano fino in fondo. Il risultato è una società surreale, controversa che sparge sangue gratuitamente a volte senza neanche saper perché; un'umanità disumanizzata che a questo snaturarsi o si ribella o si rassegna.
Non molto altro si può dire sulla trama di questo romanzo, perché quest’ultima non è che un mezzo per indagare la natura umana insieme ai suoi rappresentanti, di cui uno spicca su tutti: Andrej Taganov.
Buona lettura.

“Kira, la cosa più alta che c’è in un uomo non è il suo dio. È la parte di lui che gli fa conoscere la venerazione dovuta a un dio. E tu, Kira, sei l’oggetto della mia più alta venerazione.”

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Poesia straniera
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    25 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

The Raven

Non è stata una vita semplice, quella vissuta da Edgar Allan Poe. Una vita segnata da tragedie, dalla morte di un considerevole numero di persone amate, a partire dai suoi genitori fino ad arrivare, in una scia di sangue, alla morte della sua giovane moglie. Quest'ultima sarà la tragedia che gli toglierà il senno; una tragedia che aveva praticamente profetizzato nella sua celeberrima poesia "Il corvo".
Non stupisce, dunque, che la produzione di Poe abbia preso una direzione tanto oscura e disturbante. Devo dire, tuttavia, che apprezzo molto di più il Poe narratore, rispetto al poeta. Non è un caso, credo, che la sua poesia più riuscita (pur essendo tale a tutti gli effetti) regali la sensazione di star leggendo un vero e proprio racconto, oltre che un componimento in versi. Le poesie raccolte in questa edizione ci mostrano l'animo di Poe in varie delle sue sfaccettature: la sua ossessione (e attrazione) per la morte e per le donne, una dicotomia che emerge molto spesso, in vari componimenti; la malinconia; la solitudine; l'amore per l'arte.
"Mi hanno chiamato pazzo; ma nessuno ancora ha potuto stabilire se la pazzia sia o non sia la più elevata forma d'intelligenza, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non derivi da una malattia del pensiero, da umori esaltati della mente a spese dell'intelletto generale." Questo diceva l'autore in uno dei suoi componimenti, e la sensazione di avere a che fare con un genio afflitto da una vena di follia si prova costantemente, durante la lettura delle poesie qui raccolte, che stabiliscono un contatto diretto tra il lettore e il controverso "io intimo" dell'autore. Chi ama Poe, dunque, non può esimersi dal fare anche questa lettura.
Concludo ribadendo che reputo il Poe narratore di molto superiore al poeta, ma aggiungendovi che la sola lettura de "il corvo" vale l'acquisto dell'intero tomo. Non per nulla è considerata tra le più belle poesie dell'Ottocento.

"«Tu, profeta dell'inferno!» dissi. «Tu, demonio o uccello!
Per il cielo su di noi - per il Dio a cui ci inchiniamo -
dì a quest'anima infelice se qui o nel lontano Eden
stringerà la donna sacra che per gli angeli è Lenore -
sì, quell'unica, radiosa, che per gli angeli è Lenore.»
Disse il Corvo: «Mai più»."

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    12 Novembre, 2019
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A volte non serve cercare oltreoceano

Devo cominciare questa recensione con un'ammissione di colpa. Chi segue le recensioni che scrivo sa che spesso prediligo gli autori stranieri. Spesso ci si fa affascinare dai nomi: Michael Connelly, Jo Nesbø, Jeffery Deaver, o per rimanere nell'ambito dei "thriller legali" un certo John Grisham.
E spesso ci si rimane delusi.
Quest'ultimo libro di Gianrico Carofiglio è la dimostrazione che in casa abbiamo degli ottimi autori, che a volte si rivelano più meritevoli di lettura di "quelli che hanno il nome famoso". Certo, Gianrico Carofiglio non è l'ultimo arrivato, ma devo ammettere che mi ha davvero stupito.
Cominciamo dallo stile, che è la cosa che più mi ha colpito: accurato, coinvolgente, riflessivo, a volte adornato da una sottile ironia utile a stemperare; capace di dosare perfettamente dialoghi e narrazione. Dalla spiccata capacità di emozionare e fare riflettere, risulta evidente che l’etichetta di “autore d’intrattenimento” a Carofiglio sta più che stretta, e infatti credo non possa limitarsi a questo. L’autore non strizza continuamente l’occhio al lettore, non vuole farlo contento a ogni costo con scelte banali volte a regalargli una leggerezza passeggera; l’autore vuole lasciare il segno. Non ha paura di soffermarsi su verità scomode e difficili da digerire, a volte angoscianti; perché è consapevole che questo spingerà il lettore a fermarsi a ponderare quel che ha appena letto, regalandogli l’impagabile sensazione di aver letto qualcosa di vero, non contraffatto da artificiosi addolcimenti. La dolcezza c'è come c'è nella vita: a piccole dosi, senza ignorare i momenti difficili che a quella dolcezza danno una marcia in più.
La figura dell’avvocato Guerrieri è praticamente viva: un personaggio così ben reso da poter credere di incontrarlo, un giorno o l’altro, lungo la strada di casa. Afflitto da dilemmi, vittima di debolezze e capace di piccoli atti d’eroismo , Guerrieri è un personaggio in cui ogni lettore può vedere una parte di sé stesso e (sono sicuro) anche l’autore ha messo moltissimo del suo essere.
Insomma, non so più che dire per farvi capire che sì, “La misura del tempo" è un romanzo da leggere e Carofiglio un autore da approfondire.
O almeno io lo farò.

La storia di questo romanzo ruota tutta su Iacopo Cardaci, ragazzo accusato dell'omicidio di uno spacciatore e già condannato in primo processo. La madre dell'accusato è una vecchia fiamma dell'avvocato Guerrieri, al quale si rivolge per il processo in appello. Incapace di dire di no a Lorenza e resosi conto dell' inefficacia della difesa che lo ha preceduto, Guerrieri decide di prendere in carico questo lavoro, nonostante sia chiaro fin da subito che le speranze di ribaltare la sentenza siano ridotte al minimo.
Mai scontata, mai banale, questa storia si legge in un attimo e, in certi tratti, è anche capace di emozionare.
Consigliatissimo.

“Quando sei giovane e pensi a un mondo e a un tempo in cui tu non esistevi, la cosa non ti turba. Perche' la storia sembra dotata di una direzione implicita che porta fatalmente al momento in cui sei tu a irrompere sulla scena. Il mondo senza di noi prima di noi è una lunga fase preparatoria. Il mondo senza di noi dopo di noi invece è semplicemente il mondo senza di noi. Finché appare lontano riusciamo a placare l’angoscia dell’idea. Ma io so che fra qualche settimana, al massimo qualche mese, non ci sarò più e il mondo continuerà a esistere, senza nemmeno una increspatura. Senza nemmeno un sussulto. Voi piangerete, ma poi dovrete occuparvi delle questioni pratiche e smetterete di piangere. E comunque sarete sollevati che questa sofferenza non ci sia più. Potrete distogliere lo sguardo e occuparvi di vivere. Come è giusto. E tutto sarà finito.”

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Fantascienza
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    08 Novembre, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Ambizioso ma debole

Quando leggo un romanzo o guardo un film, l'autore (o il regista) ha due modi facili per non piacermi: utilizzare violenza gratuita che non ha alcun fine narrativo, oppure linguaggio o contenuti inutilmente espliciti. Nella mia mente queste due cose sono correlate, perché in entrambi i casi c'è un'esagerazione non giustificata da fini "letterari", ma bensì dalla voglia dell’autore di andare sopra le righe. Questo aspetto, pur essendo in parte personale, influisce sul giudizio che dò di un'opera e, a malincuore, devo dire che questo è il caso de “Il libro di Joan” di Lidia Yuknavitch.
Quando un autore, durante la lettura, comincia a risultarmi antipatico, non è affatto un buon segno. Oltre ai motivi sopracitati, ho avuto la sensazione che l'autrice tentasse di mettere in piedi una storia con un’alta ambizione, sia nello stile che nel messaggio, senza riuscire a mantenere le attese che essa stessa crea. Non basta strizzare l'occhio alle masse con temi super-attuali per accaparrarsene il gradimento. Oltre tutto questo, gli eventi narrati procedono in maniera confusa e le descrizioni non sempre riescono a rendere l'idea degli ambienti. Certo, stiamo parlando di un romanzo di fantascienza e alcuni ambienti non è sempre facile immaginarti alla perfezione, ma spesso l'autrice si trova a fare lunghe descrizioni che si dilungano e comunque non chiariscono granché, anzi, confondono ancor di più le idee.
Bene, da questa stroncatura iniziale si potrebbe pensare che io stia descrivendo un romanzo pessimo, ma non è proprio cosi. Il problema principale è, come dicevo prima, aver disatteso l'ambizione che trasuda da ogni pagina. Mi fossi trovato davanti a una storia senza altro obiettivo che esporre sé stessa o poco più, forse sarei stato più indulgente. In questo caso (e me ne dispiace), ho dovuto essere "cattivo".

La storia ha inizio su CIEL: una struttura spaziale che ospita i pochi sopravvissuti di una geo-catastrofe che ha ridotto la Terra a una palla di fango. Gli esseri umani sopravvissuti hanno conservato poco della loro umanità: cambiati nel fisico, distrutti nella mente e ormai incapaci di riprodursi. CIEL è sotto il controllo di Jean De Men, che un tempo era una celebrità del mondo dello spettacolo e nel corso del tempo si è trasformato in un temibile dittatore.
La narrazione si dipana tra due linee. La prima è quella di una sopravvissuta che vive su CIEL,
Christine, una scrittrice di “innesti”: delle specie di tatuaggi che raccontano storie e che ricoprono il corpo di tutti i sopravvissuti. L’altra linea narrativa segue le vicende di Joan, una donna che fin da bambina ha mostrato capacità straordinarie, come il controllo degli elementi naturali. Paladina di una Terra in rovina, sembra essere l'unica in grado di restituire agli uomini quel che hanno perduto.

“La Terra è un cimitero. Punto e basta. Non c’è niente da dire su tutto questo vuoto. Non c’è stato nemmeno un elogio funebre vero e proprio. Penso a tutti i cosiddetti pianeti senza vita che fluttuano là fuori nello spazio. Siamo davvero alla fine della nostra storia? Stiamo per unirci alle galassie dei pianeti che ruotano e fluttuano, abitati da niente e da nessuno salvo che dagli stessi elementi di cui siamo composti noi? Ce lo meritiamo. Per ciò che abbiamo fatto gli uni agli altri. Per ciò che abbiamo fatto a questa sfera su cui ci siamo ritrovati a vivere. Questo bel luogo abbandonato dove un tempo c’era la vita.”

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