Opinione scritta da Todaoda

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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    13 Luglio, 2013
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Proprio un "Infinite Jest"

Capolavoro della letteratura o stralunato viaggio mentale di un folle? Opera universale o prolisso scherzo letterario? Da un punto di vista “tecnico” il differente, singolare, stile di Wallace a seconda del personaggio trattato, l'alternare una narrazione in prima persona con una in terza, l'entrare nell'ottica dei protagonisti con divagazioni da narratore assoluto, per poi fuoriuscirne con vivide ed introspettive occhiate personali sul mondo da lui creato, rendono Infinite Jest senza dubbio un’ opera unica, innovativa e accattivante. Però come in un film se si cambia velocemente inquadratura lo spettatore poi si sente spaesato, allo stesso modo qui, il lettore, con le continue trasformazioni stilistiche del romanzo, si sente disorientato fino a supporre (forse dedurre) di trovarsi in presenza di un’ opera sì grandiosa ma irrimediabilmente sfuocata. Questo disorientamento non consente di creare quel processo empatico che generalmente lega il lettore ai protagonisti della vicenda, ne nasce così un senso di distacco nei confronti del libro.
Contenutisticamente fa piacere trovare in un romanzo moderno tanta introspezione psicologica e tanta profondità strutturale tuttavia se queste non sono supportate da fatti e azioni, almeno in minima parte, la narrazione perde di ritmo, diventa ridondante e si affloscia su se stessa contribuendo a cementare il sopraccitato distacco. Dal titolo un profano potrebbe immaginare si tratti di un'opera intrisa di ironia, ma considerato che sono rese molto meglio le parti tristi/violente (in queste l'autore è ineccepibile e raggiunge vette mai riscontrate in altre opere) rispetto a quelle ironiche, viene da pensare che il "jest" del titolo non sia un elemento della trama ma una sarcastica rivincita dell'autore che condanna il lettore, come campione ideale della società che lui pare disprezzare, a leggere per mesi le gesta disorientate e le divagazioni (talvolta fuori luogo) dei suoi personaggi. In sostanza Infinite Jest è un' opera che si ricorderà più per l'impegno che per il piacere di leggerla, più per l'allucinata cerebralità dell'autore che per la sua (talvolta mordente) ironia. Lettura enciclopedica, impegnata, complessa e innovativa… Non sempre però conoscenza e impegno dettano i canoni di un capolavoro letterario, non sempre complessità (specie se è auto compiaciuta) è sinonimo di grandiosità, non sempre innovazione è sinonimo di bellezza.

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... prima tutte le altre opere di D.F.W. E solo a loro!
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    12 Luglio, 2013
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Un romanzo interlocutorio

Un romanzo convenzionale con una trama piatta e un ritmo fin troppo serrato che, proprio per questo, non raggiunge mai i picchi di godibile intellettualismo dei precedenti lavori dell'autore e che piuttosto ha la tendenza a far sprofondare il lettore in gole di catatonico disinteresse, specialmente per quel che riguarda la sorte del protagonista. L'autore, ormai ben consapevole di ogni aspetto del sistema che desta l'interesse attorno ai suoi libri, tenta di risvegliare l'attenzione dei lettori sparpagliando qua e la i suoi collaudati "enigmi simbolistico - massonici", ma qui più che nelle altre opere questi rompicapo hanno ormai il sentore di stantii giochetti enigmistici da spiaggia e alla resa dei conti neanche loro riescono risollevare le sorti di un romanzo che, man mano che lo si sfoglia, sembra sempre più precipitare in una sorta di astenosfera letteraria autolesionistica. L'immancabile scontato epilogo farcito di vaneggiamenti filosofici rispecchia il resto del libro, ma più che una inevitabilmente adeguata conclusione sembra una rampa di lancio per conferire al romanzo il titolo di "Much ado about nothing post litteram". Approfondendo il discorso del finale, anche se è un po' come rigirare il coltello nella piaga, Dan Brown, per quanto di solito sia piuttosto ispirato alla pontificazione sui massimi sistemi del mondo, nelle ultime pagine de "Il simbolo perduto" più che un edotto illuminato divulgatore di arcane verità sembra uno strampalato oratore in preda ad un delirio mistico - tecnologico che adopera mirabilmente la sua favella non tanto per perorare la causa quanto per tentare di giustificare (o forse sarebbe meglio dire "porre rimedio a") quanto precedentemente scritto.
Lo stile narrativo di Dan Brown è di facile appeal ma se mancano i contenuti è altrettanto facile che il lettore si stanchi. Detto questo è innegabile che sia una lettura divertente e quotidianamente intrattenitiva ma i capolavori sono altri.

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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    12 Luglio, 2013
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Malriuscito

Una raccolta di tre brevi storrielle che vorrebbero criticare e biasimare, se non addirittura denunciare, l'ipocrisia della società, o almeno di una porzione di questa (quella della borghesia, del ceto medio), e vorrebbero farlo in contrapposizione con i problemi delle persone di estrazione sociale piú bassa; tre racconti che aspirerebbero ad essere interpretati come una parabola disincantata del quotidiano vivere ma che in realtá, per eccessiva particolaritá non fanno altro che narrare tre singole vicende slegate in cui manca qualunque forma di stiracchiato collegamento, se non quello etereo e impalpabile della sopracitata comunione d'intenti, percipita sempre e comunque però tramite sforzo deduttivo da parte del lettore.
Se la prima delle tre storie infatti é divertente quanto la sarcastica cattiveria con cui é scritta, e la seconda regge ancora, per quanto incominci già a perdere un po' il passo raccontando di un episodio cosí volutamente qualunque da riuscire banale nel significato piú profondo del termine, la terza, invece d'essere il trait d'union delle altre due, il punto dove le domande poste in principio trovano finalmente una degna risposta alla luce di quanto accade all' disadattato e autoemarginato protagonista, e così anche alla luce dei reali problemi del mondo, cosí vividi e stridenti al cospetto delle illazioni paranoiche di un ricco pensionato e di un'impiegatuccia da poco, invece di raggiungere questo climax nelle sofferenze psicofisiche dell'uomo su cui Moody punta il riflettore, tossicodipendente per necessitá lavorative, drogato imposto da una societá che non guarda in faccia nessuno, invece di essere tutto questo, è un' oscura vicenda persa nei fumi farmacologici dell'allucinazione, ambientata in una societá futuristica impossibile, che fa sì il verso ai mondi di Philip K. Dick senza tuttavia neppure accostarsi alla prodigiosa fantasia del genio incompreso della fantascienza.
Il terzo racconto sarebbe dovuto essere esaustivo, concludente, stridente ma a suo modo riassuntivo degli altri due, é invece una storia crepuscolarmente orwelliana, narrata tuttavia senza la classe del grande autore, ma piuttosto come filtrata della sua allegorica e sanguigna brutalitá da quella sorta di lente d'ingrandimento, tipica dei pynchoniani (vedasi per esempio D.F. Wallace) che con il suo eccessivo potere di risluzione mette in risalto ogni singolo particolare ma fa perdere di significato al quadro d'insieme. Ma se Pynchon e in parte anche Wallace riescono a riscattarsi con uno stile sempre un po' piú in lá della sadica ironia e sempre un po' piú in qua dello sfacciato sarcasmo, Moody con questa breve opera si mantiene sempre distaccato, quasi come se, osservatore esterno facente parte di quel mondo elitario che egli stesso denuncia, non gli importasse granché della sorte dei suoi stessi protagonisti, ma al contrario sorridesse sprezzante dall' alto della sua privilegiata intellettualitá. Dunque il riscatto stilistico con lui non si concretizza e la triplice narrazione mantiene il ritmo di una promessa sistematicamente rinnovata di pagina in pagina ma alla fine non mantenuta.
In coclusione tre vite é un opera che accarezza temi importanti ma non li prende mai di petto, é uno scritto che avrebbe la potenzialitá di essere un buon romanzo ma manca di sostanza e spregiudicatezza, é un esercizio di stile fine a se stesso talvolta anche riuscito ma in gran parte del tutto mancato, é un libretto che, anche se per alcuni apetti risulta apprezzabile, certamente non merita di sprecarci su molte altre parole.

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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    12 Luglio, 2013
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Brillante ma funereo

Che cos’è la morte? Dal momento che è l’argomento su cui verte Everyman (come al solito sempre allegrissimo Philip Roth!) e dal momento che bene o male è lui stesso durante la narrazione a porsi e a porci la domanda, mi sembra lecito che venga ripetuta e mi sembra anche lecito che ci si ragioni un po’ su, almeno quel tanto che basta per farsi un’idea di fondo se l’autore con il suo libro abbia c’entrato l’obbiettivo e sia giunto a una conclusione coerente oppure se abbia eccessivamente divagato allontanandosi dal sentiero tracciato dalla sua domanda, così banale eppure così essenziale. Approposito, parlando di divagazioni eccessive, se non siete (giustamente) interessati alle prolisse elucubrazioni mentali del sottoscritto su un così funereo argomento potete saltare direttamente al quinto paragrafo (o pressapoco, quello che per intenderci inizia con: "Va bene ma allora che cos'è?"). Se al contrario mossi da subitanei istinti masochistici foste interessati si può procedere!
Dunque, che cos’è la morte?
Qualcuno potrebbe definirla come il contrario della vita, tutto ciò che non è vita. Vero, forse però sarebbe un po’ troppo semplice, qualcuno allora potrebbe interpretarla come la cessazione di tutto, quell’evento , quel “fastidioso imprevisto”, che una volta verificatosi tutto smette di esistere: il sig. Rossi è morto dunque ha smesso di esistere, le sue funzioni vitali sono cessate e dunque non è più vivo. Vero anche questo, forse però ancora una volta troppo limitato, già poiché se è vero che una cosa finché non la si sperimenta non la si conosce fino in fondo, è altrettanto vero che la natura burlona nel nostro caso non ci accorda la possibilità di tornare a riferire cosa si prova e in cosa consista una volta sperimentata (…o almeno si spera!) Di fatto dunque le nostre sono solo illazioni, ipotesi, nient’altro che immaginazione, e, immaginazione per immaginazione, allora perché non dare peso anche all’interpretazione del credente, del religioso, di colui che affida a un ordine superiore delle cose la sua stessa vita? Perché non credere che ci sia dell’altro oltre la morte? Perfino l’ateo, l’agnostico, almeno per onestà intellettuale non dovrebbero escludere ogni eventualità a priori, no? Dunque che cos’è è la morte per il credente? Per i cristiani è il passaggio che permette all’uomo di ricongiungersi con Dio, o suppergiù, e simile deve essere anche per coloro che osservano le altre religioni, qui ammetto la mia ignoranza, tuttavia di per certo so che alcuni credono addirittura che non esista una sola morte, ma tante, tante quante le vite in cui ogni volta ci si reincarna, certo, per il medesimo principio di onestà intellettuale citato prima, in quest’ultimo caso verrebbe da obbiettare che allora non si tratterebbe di vera e propria morte, di una cessazione totale, ma in fondo chi da valore alle parole, ai concetti, se non l’uomo stesso? Chi ne valuta, stima o attribuisce il peso se non le persone stesse? E dunque perché considerare la morte esclusivamente come la totale cessazione del singolo essere e non come una delle centinaia di cessazioni delle centinaia di possibili esseri?
Altre ipotesi e illazioni che rischiano di far impelagare il discorso tra gli intricati istmi della teologia e della filosofia, discorsi anche dotti ed eruditi se si vuole ma che non portano mai a nulla, e che il più delle volte vengono liquidati dalla brava gente con qualche sorta di gesto scaramantico. Comprensibile, la vita è qualcosa sempre di estremamente concreto e non si ha mai troppo tempo di pensare a queste cose se non al “momento buono.” E quando arriva quel momento non c’è logica o riflessione che tenga, solo paura, superstizione o per i più fortunati fede, dunque è logico non starci troppo a pensare finché siam vivi, come è logico lasciarsi prendere dal “non è vero ma ci credo” e scaricarsi la coscienza con qualche scongiuro, del resto cosa c’è di peggiore e più temuto della morte? Avanti confessate: quanti di quelli che hanno letto fin’ora questa recensione non si sono ancora strizzati i gioielli di famiglia? E quanti di quelli che hanno letto Everyman non si sono prodotti nel sopracitato gesto almeno una volta. Siate sinceri!
Dunque è logico, naturale, non pensarci troppo, non farci troppo caso e talvolta sdrammatizzare, logico… ma non per Philp Roth, lui in fatti in questo libro ci ragiona parecchio sulla morte, e vuoi (ahimè) per una questione anagrafica, vuoi per una sorta di deontologia personale talvolta troppo coincidente con la deformazione professionale, non riesce proprio a sdrammatizzare.
Quindi resta il dubbio, a noi e a lui: che cos’è la morte?
Meglio mantenersi sul semplice nel nostro caso, noi non siamo dei Philip Roth, tuttavia ci sono altre due interpretazioni che mi par doveroso aggiungere poiché fondamentalmente legate al messaggio del romanzo, la prima è quella dell’ottimista o del giovane ragazzo: la morte è qualcosa che accadrà in futuro ma che grazie a Dio è ancora lontana e dunque appunto è inutile pensarci; la seconda è quella del pessimista o dell’anziano: la morte è quell’ estrema inevitabilità a cui si incomincia a correre incontro non appena nasciamo.
Va bene ma allora che cos’è? Il buon Roth in Everyman ce lo spiega?
In un certo senso sì, per lui infatti è tutto ciò che ha a che vedere con la vita, è qualcosa di inscindibile da essa, vuoi che venga interpretata attraverso la coscienza del giovinetto che non ha tempo di pensarci se non attraverso il contatto esterno qual’ora venga rinvenuto un cadavere sulla spiaggia dove è solito andare a giocare, vuoi che venga interpretata attraverso gli occhi del medesimo giovinetto ormai adulto, cresciuto, anziano, che ha vissuto la sua vita, è venuto più volte in contatto con la morte attraverso le perdite dei suoi cari e ora, da li a qualche giorno, mese, massimo anno sa che inevitabilmente toccherà anche a lui.
Deprimente, triste, già, ma anche reale, vero e inevitabile, come inevitabile è ragionarci su più volte nel corso della propria esistenza, come inevitabile talvolta è illudersi di averla scampata, come inevitabile talvolta è farsi abbattere dalla sua cieca brutalità.
E quale occasione migliore per non riflettere sulla morte se non al funerale di un uomo? Pensa Roth. Quale situazione migliore? O ancora meglio: quale incipit migliore per un libro se non partire proprio da quella che agli occhi di tutti è comunemente riconosciuta come la fine estrema? Tutto questo è Everyman.
Ma il romanzo di Roth non è un libro solo sulla morte, lo stesso titolo ce lo suggerisce, certo ovvio se ne tratta, e anche abbondantemente, ma parlandone di riflesso è anche un libro sulla vita, sulla vita di un’ uomo qualunque e di ogni uomo, poiché di fatto una volta passati a fil di lama di quella grande uniformatrice che è la vecchia con la falce, siamo tutti uguali, siamo tutti identici e di noi nulla rimane se non quel che appunto siamo stati, la vita che abbiamo vissuto e come l’abbiamo vissuta. Dunque Everyman è anche un libro sulla vita, sui doverosi quanto banali ricordi dei parenti del defunto che partecipano al funerale, e sugli originali ricordi del defunto stesso che, con uno stratagemma concepibile solo in una sorta di surrealtà letteraria, ci racconta in una non ben precisata ultradimensione conicidente con quella del narratore assoluto, con quella di Roth, ci racconta dei suoi momenti di gloria e dei suoi momenti di infamia, di quanto di bello gli sia accaduto e di quanto di triste gli sia successo fino ad arrivare al culmine, al limite, dove la trasmigrazione dell’io narrante si fonde nella voce dell’autore che compie le sue riflessioni e poco dopo fa morire/muore il protagonista.
(Non è uno spoiler, se la scena d’apertura del romanzo è il funerale del protagonista è abbastanza prevedibile capire come vada a finire…)
E sono ricordi interessanti quelli di questo “Fu protagonista”, comuni, canonici, ma interessanti come le riflessioni, che in accordo con le rievocazioni, spaziano lungo tutto l’arco della sua vita; in questi si intravedono aspirazioni, desideri, piaceri, paure, rimpianti e dolori, ognuno particolare eppure ognuno normale: e se da bambino avessero sbagliato ad operarmi di appendicite?, se da giovane non avessi scelto quel lavoro?, se da adulto non avessi mollato mia moglie e non mi fossi risposato? E se ora da anziano mi trasferissi sulla costa?
Domande banali, verrebbe da pensare, eppure fondamentali nel corso di un esistenza, nel corso della propria esistenza, poiché sono quelle che definiscono una vita, poiché sono quelle che esemplificano la coscienza individuale, poiché nel romanzo traendo dal quotidiano acquistano la forza della realtà e sottraendo linfa alle reminiscenze di una vita si elevano a simboli del vivere stesso, al vivere di ogni uomo, appunto di Everyman.
E particolarmente ispirata è qui anche la narrazione di Roth, che raggiunge vette di incommensurabile tristezza pareggiate soltanto dalla splendente lucidità della sua riflessione, vette di potente angoscia (leggasi per esempio la descrizione dell’intervento chirurgico in anestesia locale) equiparabili solo alla purezza che l’autore riesce a conferire al potere della conoscenza, forse unico germoglio di salvifica consolazione per il protagonista, (leggasi per esempio “l’aneddoto” del becchino allorché descrive dettagliatamente il proprio lavoro ad un protagonista avido come non mai di conoscerne i particolari.) Una narrazione dunque viva ed incalzante, come solo può essere lo scorrere del tempo, come solo può essere la vita qual’ora ci si renda conto di esserne arrivati agli sgoccioli, e tuttavia una narrazione che potrebbe essere definita (o forse sarebbe meglio dire percepita) come l’ unico neo di un’ opera altrimenti perfetta.
Di fatti, malgrado tutto, è innegabile che lo stile con cui è scritto Everyman in diversi punti potrebbe essere chiamato in causa come prova dell’evidente eccessivo coinvolgimento dell’autore stesso nel suo romanzo: se il suo obbiettivo era quello di dipingere un quadro realistico della vita di un uomo, piuttosto che rappresentarne l’evoluzione della coscienza lungo il corso degli anni, sarebbe stato auspicabile un tono più distaccato, che conferisse identico peso e valore sia agli anni della giovinezza del protagonista, che a quelli della maturità, che a quelli della senilità e dunque che non fosse nettamente sbilanciato verso quest’ultima, ricca di nostalgici e deprimenti considerazioni; sarebbe stato auspicabile all’inizio uno stile che, traendo dalla istintiva vitalità della gioventù e dalla adulta consapevolezza della maturità, riuscisse a descrivere un’ esistenza in maniera più equilibrata. Tuttavia occorre ricordare, e anche realizzare, che è impossibile disgiungere la coscienza di un essere dalla sua stessa esistenza poiché l’una è il diretto prodotto dell’altra e viceversa, poiché l’evoluzione di una coscienza è quanto mai una delle principali caratteristiche dell’evoluzione di un esistenza e dunque anche i pensieri della giovinezza (e così le loro descrizioni) al limitare della vita del protagonista non possono essere che vissuti attraverso gli occhi nostalgici di colui che sa che ormai si tratta di tempi ormai lontani, poiché Roth stesso, anche lui non più esattamente un giovincello, non può esimersi dal far ricadere le sue attuali considerazioni personali raccontando di un uomo qualunque, alla luce della potenza parificatrice a cui neppure lui è esente, ovvero la morte, alla luce di quella potente e onnicomprensiva definizione dell’esistenza umana a cui neppure lui può sottrarsi, ovvero “Everyman.”
Un romanzo insomma convenzionale eppure, nel suo singolarissimo modo, particolare, che racconta di una storia comune eppure, eppure nella sua singolarissima eccezione, originale e la racconta con uno stile sbilanciato e tetro, eppure nella sua singolarissima universalità, lucido e vitale.
E una volta letto, tutti a fare scongiuri!

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Altri romanzi di Roth e molta narrativa (impegnata) contemporanea
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    11 Luglio, 2013
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Bah...

Un romanzo incentrato attorno a una tematica interessante, fin da principio infatti tra le righe traspare la ragione che ha mosso l'autore a sfoderare la penna per la sua prima volta: il destino o meglio la predestinazione. Glenn Cooper con La Biblioteca dei Morti si pone uno degli interrogativi così detti fondamentali che hanno reso insonni generazioni di filosofi, un interrogativo che man mano che la vicenda si dipana si fa sempre più pressante: esiste il fato? E' tutto già scritto o ciò che ci riserva il futuro è insondabile poiché, con buona approssimazione, casuale? Questioni importanti dunque, un po' ritrite e banali forse ma pur sempre importanti, questioni che lasciano sperare il lettore finalmente in un romanzo diverso, anticonvenzionale... peccato però che ogni illusoria e malriposta speranza in quattro e quattr’otto si dissolva come un castello di carte in mezzo alla bufera della banalità e dei luoghi comuni: Cooper si fa la domanda, si da una risposta qualsiasi e tutti amici come prima. Peccato che la risposta sia quanto di più superficiale e ignaro delle conseguenze si possa scrivere. Certo è ingiusto caricare di eccessiva responsabilità un novello scrittore che fin troppo chiaramente vuole fare il verso a Dan Brown (contento lui...), è ingiusto aspettarsi un po’ di profondità: bisogna pur sempre tenere a mente che si sta leggendo un romanzo commerciale, dunque la scorrevolezza e gli “effetti speciali” devono avere la meglio sul ragionamento logico e le disquisizioni filosofiche, ma qualora venissero a mancare esplosioni ed inseguimenti mozzafiato e lo stile di scrittura fosse di un piattume sconcertante che altro rimarrebbe per tentare di risollevare le sorti di questo romanzo? E' interessante notare come il solito curriculum dello scrittore spiaccicato sull'ultima di copertina, terminata la lettura del romanzo, suoni più come una giustificazione da parte della casa editrice che come una sottolineatura della competenza dell’autore. Non ha mai scritto un romanzo? Prima si occupava di tutt'altro? ...ah ecco!

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Fantascienza
 
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    11 Luglio, 2013
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La disneyana distruzione dell' umanità

Che cos’è l’umanità, che cosa ci rende umani? La coscienza? L’intelletto, la consapevolezza, l’auto consapevolezza di appartenere ad una specie animale superiore? E in cosa si manifesta esattamente questa superiorità?
La risposta parrebbe facile dal momento che sono proprio la conoscenza e le opere dell’intelletto, che ci permettono di definirci umani, l’evoluzione: la possibilità intrinseca di definire noi stessi come esseri pensanti ci permette di elevarci sopra le altre specie animali. I pesci non possono, così i felini, i volatili e ogni altro genere di animali, è questo che ci rende umani, superiori, evoluti.
Ma se in un futuro non troppo lontano lo sviluppo tecnologico permettesse di creare delle macchine, umanoidi, in tutto e per tutto identiche a noi, con le nostre sembianze, il nostro cervello, il nostro carattere, cosa ci differenzierebbe ancora da loro, e se queste macchine, proprio come i computer si rivelassero più adatte a svolgere certi incarichi, lavori o compiti, tanto da farci dubitare della nostra superiorità nei loro confronti, tanto da arrivarne a stimarne l’intelligenza, da arrivare a giudicare la loro intelligenza, superiore alla nostra, che cosa ci permetterebbe ancora di differenziarci? Oltre ovviamente ad un esame bioptico; in che cosa potremmo vantarci ancora di prevalere?
Questa è la domanda di Blade Runner, esatto il film, non il libro da cui è tratto, non “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?”.
Il paragone è essenziale per capire il testo, quanto naturale data la superiore notorietà della pellicola rispetto al libro, quanto ahimè inevitabile dal momento che oggi giorno nessuno che incominci a leggere questo libro non ha visto prima il film ed essendo il film appunto tratto dal libro, essendone una semplificazione, forse per apprezzare meglio la complessa profondità della fonte originale è bene cominciare dalle cose più semplici, appariscenti e note.
In che modo dunque potremmo ancora distinguerci? Questa è la domanda che si pone Ridley Scott affrontando i temi immaginati da Dick, e la risposta che adotta, la stessa trovata dall’autore, è una risposta semplice ed esaustiva: l’empatia.
L’unica cosa che ci potrebbe permettere ancora di distinguere tra uomo e macchina sarebbe l’empatia, il sentimento, la sensazione che per antonomasia è sinonimo di umanità, quell’istintiva immedesimazione spontanea nei confronti dell’essere che abbiamo di fronte, la possibilità di capirlo, capirne e condividerne i sentimenti, le gioie tanto quanto le sofferenze.
Questo è il totem attorno al quale potrebbero riunirsi, rinforzare le fila, gli uomini se invasi da esseri sovraumani, questa sarebbe l’unica possibilità per definirci ancora superiori.
Ma anche le macchine al nostro pari hanno sentimenti positivi e negativi, ridono, piangono e uccidono, proprio come talvolta gli uomini, e lo fanno anche bene, complottano contro di noi piani arzigogolati, intelligenti, fini, quindi non sono semplicemente dei simulacri perfetti degli esseri umani, delle copie, al contrario hanno una loro individualità, sono divertenti, noiosi, scaltri, sciatti proprio come noi e talvolta sono anche abili assassini la cui spinta omicida è legata al naturale, logicissimo e assurdamente umano istinto di sopravvivenza, quindi in fondo qual è la differenza?
Non importa noi, uomini, siamo comunque migliori poiché fin tanto che gli androidi non capiranno cosa sia l’empatia, non la proveranno, non potranno mai sapere cosa significa essere realmente vivi…ma se alla fine, lo capiscono?
Se alla fine, in un ultimo ansito di vita, il peggiore di tutti, proprio il più cattivo, ha la sua illuminazione, capisce l’empatia, ed anzi in una sorta di paradossale trasposizione della crocifissione di Gesù Cristo, si sacrifica lui stesso per salvare un singolo essere umano…a noi cosa resta?
“Solo lacrime nella pioggia.” Poiché loro in tutto e per tutto diventano migliori di noi. Questo è il significato del film, forse il più bel film di fantascienza mai stato fatto... D’accordo, ma il libro?
Il libro parte da questa premessa e si evolve fino a raggiungere con un’escalation di sarcastico nichilismo quella che potrebbe essere definita la disneyana distruzione dell’umanità.
Nel film Roy Baty, l’androide, urla (letteralmente ulula) la sua rabbia cieca, il suo sconforto e la sua delusione nei confronti del genere umano, genere umano che la creato e l’ha tradito in quella sorta di rivisitazione Frankensteiniana moderna che è la pellicola di Ridley Scott, nel libro invece è l’agente Deckard, il cacciatore di taglie, l’uomo, che urla e ulula la sua rabbia e il suo dolore nei confronti del genere umano, del suo stesso genere che ha creato dei mostri da cui è attratto, che ha creato una società in cui lui è costretto a fare qualcosa che non vuole, che in definitiva ha creato lui stesso. E se per l’androide di Rutger Hauer c’è una redenzione, c’è comunque una scintilla nobilitatrice tipica dell’essere umano, per quello di Dick, per quello di carta stampata, non c’è alcun che e tanto meno, e questo è ancora più comicamente e tragicamente nichilistico, non c’è alcun che neppure per l’uomo che dopo aver compiuto il suo dovere non sa più cosa pensare, a chi affidarsi, di che illudersi e sconfitto dalla vita torna a casa a dormire.
In Blade Runner l’uomo ha tradito il pupazzo specchio di se stesso, in “Ma gli andoridi…” l’uomo tradisce se stesso. E l’umanità tutta ulula il suo muto sconforto scoprendo che le sue creazioni, quei simulacri disneyani così perfetti, utili ed attraenti che sono gli androidi e il loro mondo luccicante, non sono altro che caricature estremizzate degli uomini e che gli uomini le hanno create per non guardare in faccia la realtà, per non capire che dentro al costume di topolino che ti accoglie a braccia aperte in realtà c’è un rifiuto della società, un essere finto fatto della medesima “palta” con cui è fatto tutto il resto, della medesima polvere in cui tutto è destinato a trasformarsi.
Nel mondo di Dick persino Dio non è altro che palta, il Mercer – merciful simbolo dell’empatia, dell’estrema identificazione, dell’ultimo tendere umano, non è nient’altro che finzione, un vecchio ubriacone deificato da uomini senza scrupoli grazie a qualche altro specchio, qualche luce e qualche trucco. E il comico sadismo sta proprio nel fatto che non è l’uomo a scoprirlo (in tal modo potrebbe ancora elevarsi, evolversi) me è lo stesso Topolino a farglielo notare, l’androide televisivo perfetto e simpatico, la sua stessa creatura, è lui che gli rivela che Mercer non sta per Mercy ma per merchandise, per mercificazione, è lui che rivela agli uomini che perdevano tempo ad assurgere ad un ideale fittizio, è lui che rivela all’umanità che non esistono ideali a cui tendere e tantomeno ideali assoluti, che ciò che è bene per uno è male per un altro, che in definitiva gli uomini sono finti come gli androidi, poiché credono nella finzione così come credo in Topolino senza voler accettare, pur rendendosene conto che è solo uno stupido pupazzo con un uomo infilato dentro.
Che società è quella creata dall’uomo se per sopportare se stesso, se per vivere ha bisogno di proiettare la propria immagine su un omino di latta, su un androide, su un pupazzo? E che futuro potrà mai avere?
La distruzione disneyana dell’umanità.
Qui sta la sostanziale differenza tra il film e il romanzo. Nel film l’androide, il Topolino solo apparenza, riesce a salvarsi mostrando di avere un cuore, di essere vivo, nel libro affronta la morte accettandola passivamente pur essendo un’ ingiustizia; nel film è carnefice e redentore di un mondo di balocchi, nel libro è carnefice e martire di un mondo di palta.
Topolino dunque è finto, in realtà è una macchina assassina che incarna le colpe dell’uomo, gli animali sono finiti, congegni meccanici da revisionare ogni anno, poiché quelli veri muoiono inadatti a vivere in un simile mondo, il mondo stesso è destinato alla distruzione per colpa dell’uomo e Dio, l’ultimo ideale, quello in cui tutti si vorrebbero incarnare è finto anch’esso, nient’altro che un barbone alcolizzato, e allora che rimane a noi?
Nulla, solo il deliquio dei sensi e il sonno.
Questo è Ma gli androidi sognano pecore elettriche, un profondo e disperato grido di denuncia nei confronti di una società quella post bellica degli anni cinquanta – sessanta che sente ancora sulle spalle le colpe di quella precedente, di quella che ha scatenato su se stessa due guerre mondiali, che sente sulle spalle il peso delle proprie colpe, con la guerra in Vietnam, e che è costretta a rifugiarsi in sterili immagini di finti animali parlanti per non osservare cosa è diventata.
Questo è il messaggio di Dick: il primo passo per la de umanizzazione è Disneyland, il secondo saranno le pecore elettriche, il terzo gli androidi, il quarto la morte: la totale scomparsa del genere umano non tanto per cause fisiche ma per una progressiva assenza di volontà, per una progressiva rinuncia a credere, agire sperare, finché la società, la nostra stessa società, ci estrometterà poiché inadatti, poiché troppo deboli e stupidi, finché le’uniche cose che ci rimarranno saranno il sonno e i sogni beati di bambini senza età e senza coscienza che osservano solo i topolini e non notano il luridume che vi sta dietro.
Che cosa sono dunque gli uomini, cosa sono diventati in questa società? Si chiede infine Dick. Solo pietre che rotolano senza volontà, per nulla dissimili dagli androidi, per nulla dissimili da ogni altra dannata cosa. E a che servirebbe vivere se neanche ci rendessimo conto di essere vivi? Servirebbe solo per appagare quell’istinto che ci spinge a rotolare nel nulla illudendoci del significato delle nostre azioni, proprio come gli androidi.
L’anti umanesimo di una società che per sua stessa costituzione vorrebbe definirsi umana e che per sua stessa condanna è destinata alla distruzione. Tutto si crea e tutto si distrugge e quel che resta di noi è solo polvere, “palta” e gli scheletri inutili di Topolini senz’anima ovvero di ciò che eravamo stati un tempo.
Questo, tutto questo è il messaggio di Ma gli androidi... un romanzo illuminato e potente, complesso e stridente che in appena duecento pagine riesce a porre delle domande e dare delle risposte che sono diventate simbolo di un intero genere letterario e cinematografico, simbolo della capacità creativa di un genio, e dell’utopica denuncia della stupidità autolesionistica di una società che in se contiene i semi della beatitudine ma per qualche ridicola ragione riesce solo a contemplare i germi della propria dannazione.
Un romanzo di culto, ormai entrato nell’immaginario collettivo di diverse generazioni di lettori, scrittori e cineasti, un romanzo talmente omnicomprensivo da racchiudere in se tutta la fantascienza moderna, impegnata e la critica sociale degli ultimi cinquant’anni, un romanzo che, per troppi anni dimenticato, ora, se letto senza prestare attenzione, potrebbe persino apparire deludente….
A onor del vero è innegabile che, data l’odierna ritrovata rinomanza di Ma gli Androidi…, inizialmente si rimanga piuttosto delusi dalla piattezza della storia e dello stile con cui è narrata; così come è innegabile che senza il film che funge da contorno, stimolo e supporto, con le sue scure atmosfere e le espressive facce degli attori, sarebbe alquanto difficile superare le cinquanta pagine. Tanto che verrebbe da chiedersi come abbia fatto una simile opera a diventare così famosa.
Poi fortunatamente intuendo che non può essere così poco, che ci deve essere di più, si continua a leggere, e la storia si evolve, e così la filosofia dell’autore e cosi la nostra comprensione e si capisce, si intuisce, si apprende che in nessun altro modo queste cose potevano essere dette, che in nessun altro modo questo romanzo poteva essere scritto, poiché niente è più potente della reale, oggettiva, esperienza dell’essere umano che prende coscienza dell’imperfezione della realtà, dell’imperfezione di se stesso. E quale stile meglio s’accorda all’uomo imperfetto se non uno stile appunto imperfetto?
Sembra un po’ una scusa, vero, ma se l’opera di Philip K. Dick fosse stata abbellita, levigata, lucidata da frasi smaltate e parole neutre sarebbe ella stessa diventata un’ opera finta, una banale favoletta disneyana che non avrebbe funzionato, che il giorno dopo, finita di leggere ci si sarebbe dimenticati, ed anche volentieri. E invece no è dura, scarna, ingarbugliata, ma assolutamente concreta e nella sua finzione profeticamente reale. Certo se Ma gli androidi… fosse stato un romanzo pulito e lineare probabilmente sarebbe diventato più famoso, proprio come un fumetto, un cartone, invece è rude, secco, deprimente, proprio come il suo stile, lo stile con cui è scritto, ma è proprio grazie a questo che rifulge maggiormente tra le grandi opere dell’uomo, perché questa suo oscuro stridore rappresenta la forza dell’intuizione, l’intuizione che ha l’autore della vita, la forza della costante e stoica ricerca di una coscienza universale che permetta all’uomo di evolversi e comprendere maggiormente il significato del suo quotidiano agire, gioire e soffrire. Ed è proprio con questa forza che il libro, e con lui l’autore, può assurgere all’immortalità, al pari dei più grandi pensatori di ogni epoca.
Non c’è frase ben scritta che tenga di fronte alla verità universale, non c’è vocabolo ben levigato che regga di fronte all’intuizione della vita e non c’è rilettura puntigliosa che valga di fronte alla necessità di divulgare la propria scintilla creatrice, una scintilla che ci spinge, lui Dick, come noi che lo leggiamo, ad essere migliori, superiori a noi stessi, appunto evoluti.
Vero, letto affrettatamente potrebbe apparire un deludente romanzo di fantascienza da quattro soldi da cui un bravo regista è riuscito a estrapolare un ottimo film, letto affrettatamente… ma basta soffermarsi un attimo a ragionare, ad andare oltre la soglia dell’apparenza e si scoprirà che Ma gli Androidi…, è una gemma nascosta e solo recentemente riscoperta del panorama culturale mondiale, è un libro simbolo di un genere che trascende la letteratura e si spinge all’estremo limite dell’immaginazione umana, è un’opera patrimonio ed eredità di una generazione che ha vissuto all’insaputa di uno dei suoi più grandi capolavori per quasi cinquant’anni, di una generazione che ha vissuto all’insaputa dei suoi limiti per quasi duecentomila anni, la generazione dell’uomo.
Un tempo de Andrè cantava “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”, letto Ma gli Androidi sognano pecore elettriche, si capisce cosa intendeva, si capisce che Disneyland splende come il più puro dei diamanti e la mente di un genio puzza come il più puro dei letami.

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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    11 Luglio, 2013
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Incommensurabile.

Realtà o finzione? Percezione sensoriale o oggettiva e concreta comprensione? Quel che l’uomo vede, crea, fa, pensa e talvolta distrugge è frutto della sua brama di tendere all’assoluto, al divino che secondo le religioni risiede in tutti noi, oppure non è nient’altro che uno sfogo delle sue pulsioni più recondite, sopite ed inconfessabili? Istinto o intelletto? Passione o ragione? Mefistofele o Faust?
Questo è il tema, il problema, l’adagio su cui si svolge e si evolve tutta la più grande opera Goethiana, un opera incommensurabile, come lui stesso ebbe a definire, e di incommensurabilità e di imponderabilità, infatti qui si dibatte. Ma se l’uomo è davvero frutto solo del mero istinto, e il suo creato ne consegue, par dirci il grande scrittore, e dunque ciò che vede, lo percepisce solo attraverso gli occhi delle sue passioni, dello stato d’animo del momento, il reale rimane reale? E se invece il mondo, con le sue invenzioni, quelle dell’uomo, e le sue scoperte, fosse la concreta ed oggettiva conquista dell’intelletto umano, e la sua poliedrica multi sfaccettatura non foss’altro che il nutrimento stesso del nostro pensiero, il combustile che da vita alla scintilla del nostro essere? In un caso e nell’altro come si potrebbe venire a patti con ciò che siamo? Con quel che sentiamo, con l’alterno avvicendarsi di queste nostre considerazioni?
Realtà o finzione? Passione o intelletto? Faust o Mefistofele? E se l’uomo in realtà fosse entrambi, se in sé racchiudesse due nature contrastanti e proprio grazie a queste potesse intuire entrambe le realtà del mondo? L’esistenza di una in fondo non prevarica l’esistenza dell’altra, questo ci fa capire il Faust: l’intelletto nasce pur sempre dalla brama di scoprire e conoscere, dunque pur sempre di desiderio si tratta, e non è forse vero che maggiore è l’intelletto, più profonda, gratificata (o talora mortificata) è la passione? D’accordo esiste una realtà oggettiva, ne siamo tutti intimamente consapevoli, certo occorre però ammettere che questa realtà la si conosce solo attraverso le nostre percezioni, solo attraverso le nostre sensazioni, ma ancora una volta le nostre sensazioni, i nostri istinti non generano forse dal mondo esterno, non maturano in noi grazie all’esperienza di altre sensazioni, di altre percezioni provate? Dunque cos’è l’uomo? Cos’è il dr. Faust, il campione goethaino dell’umanità? Istinto o logica, senno o pulsione?
E’ entrambe, entrambe le nature dell’uomo, e ad esse è inscindibilmente legato e per questo imprescindibilmente condannato dalla mortificazione di un obbiettivo irraggiungibile: la comprensione della molteplicità del mondo attraverso l’elaborazione di una teoria unificatrice della naturale dicotomia umana.
Questo è il messaggio del Faust di Goethe, un messaggio che riassume in se il pensiero di mille anni di filosofia, storia e letteratura, un messaggio che pur rifacendosi all’antichità precorre il tempo gettando le fondamenta di quella che si evolverà come la filosofia psicanalitica degli anni a lui futuri, che con l’incessante streben del suo protagonista spalanca i cancelli all’introspezione letteraria, rivoluzionando il concetto di essere umano nella cultura per i secoli a venire: senza un Faust non sarebbero esistititi Dmitrij, Ivan, Alesa e Smerdjakov Karamazov, senza i fratelli Karamazov non sarebbero esistititi personaggi come Tom Joad e Santiago, e a loro volta senza di loro non sarebbero esistiti Nathan Zuckerman, Nick Shay e Aomame e Tengo. Senza l’opera di Goethe, ciò che ha significato per i fruitori dell’epoca, il modo in cui si è evoluta nelle rielaborazioni delle opere di altri scrittori, la maniera in cui è stata accolta dall’umanità e più o meno inconsciamente è divenuta patrimonio del pensiero moderno, o di quella che sintetizzando potrebbe esser definita come l’ auto consapevolezza globale della società attuale, senza il suo messaggio, non sarebbero esistiti scrittori come Dostoevskij, Steinbeck, Hemingway, Roth, DeLillo e Murakami e noi tutti avremmo sicuramente perso qualcosa, qualcosa che ci rende più coscienti dei nostri limiti e delle nostre potenzialità, della perspicacia del nostro intelletto e della profondità delle nostre passioni.
Ovvio, scontato, banale: non è certo il sottoscritto il primo a scoprire il valore di un opera di tale portata, un’ opera che i critici riconducono per importanza, contenuti e talvolta persino stile, niente meno che alla Divina Commedia, che la percepiscono, in una meravigliosa involontaria dicotomia così faustiana, come l’evoluzione dell’opera dantesca e al contempo la sua antitesi, con quell’eroico ed umano avvicendarsi di Faust a Dante e Mefistofele a Virgilio. No, non è certo il sottoscritto il primo a ribadire che Goethe in questo sforzo lungo tutta la sua vita, traendo dai classici tanto quanto dai romantici, si fa portavoce e pacificatore del principale diverbio intellettuale dell’epoca che voleva l’ambiente letterario spartito tra chi considerava di sommo valore la riscoperta dei fasti ellenici e latini e chi confidava nella weltanschauung delle passioni o per usare ancora una volta un germanismo, visto che tanto qui sì è in tema, dello Sturm und Drang.
No, non è certo questa una chiave di lettura originale dell’opera, del resto che altro si potrebbe dire del Faust che non sia già stato ribadito centinaia e centinaia di volte da persone, critici, letterati, filosofi, storici molto più importanti, competenti e senza dubbio acculturati del sottoscritto?
Nulla, assolutamente nulla, ciò che si può apportare al completamento di siffatta recensione, dunque, onde evitare di concedersi ancora al già detto, non posson altro ch’essere le considerazioni personali, le opinioni che ogni lettore si fa nel corso della lettura. Questo è l’unico possibile apporto concreto ad un opera tanto conosciuta e questo ormai è l’unico sprazzo innovativo che può destare un qualche interesse, anche se equivale a smettere i panni del recensore e calzare quelli del soggetto pensante, del singolo fruitore dell’opera, confidando che l’eccezione di questo breve personale excursus venga accolto come niente più che una semplice individuale opinione senza alcuna pretesa di ribaltare, contraddire o sconfessare (qual’ora possa essere il caso) tre secoli di avveduta critica letteraria.
Facendo dunque appello alla clemenza di tutti coloro che hanno campato sulle spalle del grande scrittore tedesco, insegnandolo, criticandolo, recensendolo e via dicendo, non resta che fare qualche umile, semplice, personale considerazione che si può risolvere nelle due seguenti ingenue ed infantili domande: cosa penso del Faust? Mi è piaciuto?
Io penso che il Faust di Goethe sia una storia alquanto strampalata e tremendamente noiosa. Una storia la cui trama ridotta ai minimi termini, priva di tutti i riferimenti letterari, filosofici, storici, non si regge in piedi più che l’allucinazione onirica di un ubriaco, che inizia con l’Urfaust in maniera accattivante (o per lo meno sensata), ma che poi collassa in un assurdo quanto illeggibile dipanarsi di eventi esoterici senza luogo, tempo e talvolta forma, eventi che senza la costante guida introduttiva, che grazie a Dio riassume schematicamente la trama, sarebbero non solo impossibili da seguire, ma anche privo di senso farlo. Certo permane sempre l’impressione di trovarsi di fronte ad un’opera gigantesca, la cui comprensione completa è sempre un passo avanti le proprie facoltà intellettive, ma ciò non è strabiliante, al contrario è fastidioso, tanto quanto lo stile che pare di pagina in pagina un crescendo di ridondante auto compiaciuto sfoggio di cultura.
Persino il protagonista, Faust, è tremendamente antipatico: non solo inganna ingenue fanciulle, mandandole poi a morte, per qualche frivolezza passionale, ha pure la faccia tosta di esaltarle come benigne muse il cui sacrificio è indispensabile per la sua maturazione psicologica, per la sua esaltazione intellettuale. E visto che poi le tenere fanciullette non gli bastano, va a scomodare addirittura l’ormai defunta Elena di Troia, dico Elena di Troia! E ci fa pure un figlio, umile il tipo… Ma non gli basta ancora pretende anche eserciti, terre, imperi, pretende di arrivare a conquistare la natura, di domare gli elementi e vessa costantemente quel povero diavolo di, …be del diavolo, che ogni volta pur di avere la sua anima è costretto ad assecondarlo in tutti i suoi pazzi desideri per l’eternità, per tutta la f… eternità! D’accordo sarà anche tutto allegorico, ma se fosse stato anche solo per un minuto, per un semplice singolo minuto reale, e se io fossi stato Mefistofele, alla prima sconclusionata richiesta, al primo retorico pistolotto auto celebrativo, gli avrei fatto: “A Faust… sai dove te la puoi infilare la tua anima?! Ma vaffan…!”
Perché in questo modo di fatto si può anche leggere l’opera di Goethe come una grande, retorica, ridondante ed egocentrica auto proclamazione del dr. Faust, dunque per estensione del genere umano e dunque per ulteriore estensione di Goethe stesso.
E stilisticamente parlando, noia a parte, (certo forse letta in tedesco…), attingendo dai classici greci e romani quanto dai romantici avrà percorso anche i tempi, ma loro, netti, definiti, genuini erano tutt’altra cosa: la logica di Goethe è un mero risciacquo dell’intuizione aristotelica, così la sua gotica mitologia è poco più che acqua sporca se paragonata all’indissolubile purezza romantica di Byron. Dunque nella progenie letteraria del poeta tedesco si potranno anche annoverare i grandi romanzieri russi, i realisti e neo realisti americani, perché unendo le due sopracitate correnti di pensiero è riuscito a sondare i meandri e i dolori dell’io, del conscio e del subconscio, in un’ opera che può essere intesa anche come un solo unico viaggio introspettivo, si può essere, ma rispetto agli originali, per usare una metafora a molti nota, non è altro che un banale nano che si poggia sulle spalle di autentici giganti.
Va be ma allora il messaggio profondo, le allegorie, il precorrere le tematiche di tre secoli di storia umana, che fine han fatto? Dunque secondo te è solo una noiosa stupidata oppure contiene in sé i semi di una più elevata comprensione del mondo, i germogli da cui nascerà il pensiero moderno?
Quale uno e quale altro?
Entrambi. E’ un’opera lenta, fastidiosa eppure magnifica ed elevata. Ed è proprio in questo, ai miei occhi che sta la sua grandezza, ciò che la rende appunto incommensurabile ed eterna: in come la si percepisce e in come la si capisce, in entrambi i modi in cui la si contempla, in quella assurda stridente dicotomia cerebrale che suggerisce si possa interpretarla sia nel bene che nel male, quella dicotomia così intimamente Goethiana che solo uno sciocco potrebbe non accettare, che solo uno sciocco potrebbe criticare facendo appello soltanto alla cerebrale compiaciuta intellettualità di una o alla viva, stolta e diretta volgarità dell’altra, in questo sta la sua grandezza, questo è ciò che la rende appunto incommensurabile ed eterna; poiché soltanto un ingenuo facilone non potrebbe avvedersi del fatto che l’intuizione faustiana dell’uomo è così potente e reale da condizionare persino la mente dei lettori nel mentre che leggono di essa, da fargliela detestare mentre la si apprezza, da fargliela odiare mentre la si ama.
Dunque non solo un’ interpretazione, non solo una recensione per quest’opera, ma due, all’opposto eppure unite, e per onestà intellettuale, se si è inteso il messaggio dell’opera, si devono accettare entrambe, poiché simile è l’insondabilità dell’essere faustiano, simile è l’insondabilità del nostro essere, e simile è la nostra goethiana realtà.
Il nostro io non si muove mai in un'unica direzione e così la vita che noi viviamo, e così il mondo che noi abitiamo, questo il grande scrittore tedesco l’aveva capito e l’aveva trasportato nella messaggio della suo poema: la realtà l’uomo la può contemplare solo accettando la propria limitatezza ma aspirando all’assoluto, solo accondiscendendo alle sue passioni ma mediandole con l’intelletto, questo ci dice Faust, questo ci fa capire Goethe.
Ri-calzando, dunque, i panni moderati, equilibrati e logici del critico, come è doveroso fare, ci si rende conto dunque, che sarebbe quanto mai, ingenuo se non addirittura fuorviante ridurre il Faust a un grezzo ammasso di banali opinioni personali, poiché di fatto si tratta di un’ opera profondamente allegorica, la cui complessità strutturale, filosofica e psicologica è ancora oggi oggetto di molteplici interpretazioni e discussioni, ma sarebbe ancora più ingenuo limitarsi a ciò che di quest’opera è già stato detto, uniformarsi alla concezione comune del lavoro Goethiano e in questo modo violentare il proprio istinto, il proprio io personale, l’impulsiva altra metà del mondo con cui Faust stesso deve fare costantemente i conti.
Dunque come considerarla, come giudicarla? Impossibile, poiché persino se non la si riesce apprezzare a livello personale, quanto meno gli va riconosciuto il merito di smuovere le coscienze degli uomini, appagandole, urtandole, o anche solo vagamente influenzandole. Gli va riconosciuto questo potere enorme, un potere che trascende il tempo e il luogo, un potere che si evolve durante le epoche, tra le culture e le genti, che è tanto universale da rimanerne inevitabilmente colpiti e tanto subliminale da farci sragionare, da farci perdere l’obbiettività di critici in nome di quella sorta di caduca rivincita demoniaca dell’io del lettore così simile alla pulsione mefistofelica del dr. Faust. Questo è il suo potere, questa è la sua forza, la forza di un’opera che, seppur stridente al giorno d’oggi, non è costretta da nessun legame temporale ma al contrario costringe il lettore ad uniformarsi ad essa, vincolandolo indissolubilmente a rileggerla più volte nel corso della vita, alla luce di nuove esperienze e di nuove acquisizioni culturali; questa è la sua grandezza, la grandezza di una lunga composizione poetica in cui si riconoscono molteplici difetti e solo alla fine si realizza che non sono nient’altro che uno specchio dei nostri, e il lavoro di Goethe non è altro che quello di evidenziarli, metterli alla luce, trascendendo il contesto, sociale, linguistico, culturale e geografico a cui si appartiene.
Dunque un solo poema e due recensioni, una sola idea, due pensieri. Come fare?
Vero, senza un punto di riferimento, senza un’opinione precisa la recensione smarrisce il senso, e a coloro che la leggono e non han mai letto il Faust, l’opera stessa potrebbe apparire insensata, ma così di fatto è la realtà secondo Goethe: un eterno contrasto tra ciò che vediamo e ciò che crediamo di vedere, così è il dottor Faust un eterno contrasto tra ciò a cui istintivamente tende e ciò che vorrebbe conseguire con la ragione, così è l’uomo che non ha peggior nemico di se stesso, così in fine è, ancora una volta quest’opera: noiosa, fastidiosa, superata eppure sublime ed eterna, un’opera appunto “incommensurabile” nel senso più stretto del termine.
Il mio voto personale ne è una diretta conseguenza…
(Consigliato con la traduzione in metrica della versione Mondadori)

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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    10 Luglio, 2013
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Esemplare

Uomini e topi, Of Mice and Men, è universalmente riconosciuto come uno dei più grandi racconti della letteratura d’oltre oceano, come l’emblema di un’epoca e di un filone letterario, al pari solo di alcuni grandi capolavori quali per esempio, Furore (sempre dello stesso Steinbeck), Il Vecchio e il Mare o (seppur diametralmente opposto) Il Grande Gatsby, ed è facile capire il perché: con i suoi temi, gli aspri paesaggi rurali, i sanguigni protagonisti dai sentimenti forti e puri, i risvolti psicologici profondi ma immediati, il romanzo di Steinbeck racconta di un’epoca, quella della Grande Crisi e della Depressione, in cui l’America ha vissuto alcuni dei suoi più grandi stravolgimenti sociali e civili, ma racconta anche di uomini, rudi e coriacei, la cui unica colpa pare quella di essere vittime del Sistema, la cui unica virtù è la forza delle loro ambizioni, ovvie quanto può essere il desiderio di sopravvivere eppure così difficilmente raggiungibili in un mondo tanto crudele e violento, come era quello segnato dalla povertà delle campagne americane tra le due Guerre.
Il simbolo di un epoca dunque, e di un filone letterario, ma Of Mice and Men è ancora di più, scritto da Steinbeck col suo stile impareggiabile, che con una parola riesce a raccontare una generazione, con una frase a disegnare un paese, con un dialogo a caratterizzare una società, Uomini e Topi è l’emblema anche dello spirito dell’uomo, della sua fibra coriacea che ogni giorno gli permette di sudare per ore nei campi a rincorrere il sogno di quando potrà finalmente ritirarsi a vita agiata, e della sua umanità, del suo spirito di fratellanza che gli consente di chiamare “amico” proprio colui senza il quale magari riuscirebbe a perseguire il suo agognato obbiettivo, proprio quell’ostacolo insormontabile che si frappone costantemente al raggiungimento del suo sogno: Lennie, il gigante stupido, la creatura perfetta, grande, forte, infaticabile eppure, come per uno scherzo della provvidenza, privo di intelligenza e di coscienza. Ed è proprio in lui che Steinbeck, sempre con un occhio alle interazioni umane, alle dinamiche sociali, crea la figura più bella e più drammatica: Lennie, il condannato alla nascita, l’eterno sciagurato; poiché un uomo simile nel mondo crudele della Depressione sarà sempre fuoriposto, sarà sempre disgraziato, come coloro che mossi dalla sua innocenza o da uno spiccato senso del dovere si legheranno a lui pur sapendo che forse, oggi, forse domani, forse il giorno dopo ancora, dovranno patire la sofferenza del suo abbandono, il dolore della sua dipartita. E tra questi più di tutti ovviamente George, ovvero il suo illegale tutore, colui che proprio per via della sua grande lealtà è costretto ad accudirlo malgrado gli sia costantemente d’intralcio, malgrado rappresenti l’unico ostacolo ai suoi sogni di ricchezza.
Lennie e George, i fratelli non fratelli uno legato all’altro dalla sventura eppure anche da sentimenti puri e introvabili in un mondo privo di valori se non quello del denaro, se non quello del colore della pelle e dell’estrazione sociale. E alla dipartita di uno dei due la trasformazione: la depressione economica che diventa anche depressione psicologica, e l’evoluzione finale del simbolismo del racconto che, in una sorta di gioco di scatole cinesi al contrario, sfrutta la tragedia del singolo per diventare tragedia universale e, agli occhi dell’osservatore neutrale, mero spettatore della vicenda, tragedia dell’incomprensione. “Ma cosa hanno da dirsi quei due uomini, ora?” “Cosa li lega ora?” Si chiede Steinbeck per bocca dello spettatore, quasi terzo incomodo, mentre osserva gli attori del dramma andarsene assieme facendosi forza l’un l’altro. “Cosa li lega ora?”
“Qualcosa che è accaduto” è la naturale risposta, nonché il titolo originario dell’opera, qualcosa che è accaduto in un mondo troppo crudele per concedere degli errori, per concedere ai deboli una pur minima possibilità, qualcosa che è accaduto e che nonostante tutto bisogna superare per poter continuare ad andare avanti, per poter illudersi di realizzare un giorno il sogno, qualcosa che è accaduto, infine, a cui ci si può ribellare soltanto facendo affidamento nuovamente a quella cosa che proprio sembrava venuta meno per colpa della Crisi: la fratellanza umana e l’amicizia.
Tutto questo e Uomini e Topi di Steinbeck un libro, profondo e drammatico, ma anche semplice e sincero, un libro che, narrando di una vicenda comune eppure singolare, specifica eppure universale, con la sua cruda autenticità getta in faccia al lettore le linee guida di tutto un filone letterario, il filone del neo-realismo americano. Questo è, un libro oggi come all’ora di grande attualità, un libro imprescindibile per chiunque voglia definirsi amante della letteratura, un libro che più di ogni altro andrebbe letto in lingua originale per meglio apprezzarne i dialoghi, e gli uomini che si fanno attori di quei dialoghi, per meglio apprezzare quel mondo e lo stile con cui viene rappresentato da uno scrittore dotato della stessa cultura dei più grandi, ma a differenza di molti di loro anche dell’umiltà necessaria per camuffare la sua accurata penna con i panni grezzi e logori del bracciante.
Tutto questo è uomini è topi, un romanzo che in meno di cento pagine rappresenta l’uomo e la sua storia, un racconto che potrebbe essere descritto con innumerevoli superlativi assoluti ma che anche nella più arzigogolata associazione linguistica rimarrebbe pur sempre un grande esempio d’onestà intellettuale e di eleganza.

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Un' operazione commerciale e poco altro

Un libro ridondante impregnato di una nostalgica, ma anche banale, fantascienza anni '80 e arrangiato con uno stile talmente piatto da tendere alla schematicitá; un romanzo dalla trama lineare e scarna che ci si illude di poter leggere esclusivamente presagendo l'inevitabile, quasi periodico, susseguirsi dei colpi di scena, ma che in realtà si porta a termine solo rifacendosi costantemente a quella sorta di legacy, tradizione, obbligo ed affetto, che lettori ed estimatori avvertono nei confronti di un autore che era dotato di fervidissima immaginazione, ma che in Mycro, come non mai, tradisce le aspettative.
Quella di Crichton è narrativa di svago, d'accordo, del resto quale non la é?, ma qui, nell'ultima e probabilmente sua finale fatica, (con certi autori non si puó mai dire e tale è la sete di denaro che non li si lascia in pace neanche dopo la loro dipartita) in questa, terminata grazie all'aiuto di un collega, c'è davvero troppo poco e persino la documentazione scientifca, l'accurato lavoro di ricerca aprioristico alla stesura della storia, che a ben vedere era uno dei suoi punti di forza, viene meno, confidando piú sul sensazionalismo che sul realismo, più sugli effetti speciali che su quella autenticitá appena oltre il possibile che rimanda a un crepuscolare domani e che tanto lo ha fatto apprezzare dai lettori di tutto il mondo. Si per caritá qualche idea c'è, qualche intessante spunto a ben cercare lo si trova, ma viene sistematicamente messo in secondo piano, se non addirittura sommerso dall'inutile ridondanza di una trama che null'altro è se non un macabro countdown dei suoi principali attori, che, sempre in onore di quella giá citata banale ripetitivitá, vengono di volta in volta abbattuti attraverso stratagemmi che perfino un entomologo incallito non esitebbe a definire eccessivi e troppo sbilanciati verso una sorta di autocompiaciuto ribrezzo: se non è una formica è un ragno, se non un ragno una vespa o un millepiedi ma tutti prima o poi fanno i conti con qualche improbabile schifosa bestiaccia e tutti inesorabilmente hanno la peggio. E il pathos dei protagonisti che lottano per la loro sopravvivenza si trasforma in involontaria comicitá, e il giusto finale ad effetto si trasforma in ovvietà e quelle che potrebbero essere le ultime parole con cui ci lascia un autore che ha contribuito a plasmare l'immaginario di una intera generazione di lettori si trasformano nell'ennesima operazione commerciale. Un operazione che qui come non mai ha l'aspetto dell'accanimento terapeutico.

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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    10 Luglio, 2013
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Piccolo capolavoro urban-fantasy

Un’ avventura affascinante che riesce a coniugare il mondo delle favole a quello reale del quotidiano vivere, delineando una sorta di trait d’union tra fantasia e percezione, tra immaginazione e logica, e per riflesso tra l’infanzia che ogni essere umano ha vissuto e la sua maturità, stabilendo quelle che oggi giorno potrebbero essere riconosciute come le linee guida dell’ urban fantasy.
Tuttavia “la fine del mondo e il paese delle meraviglie” è più che una semplice fiaba in bilico tra reale e irreale: è una presa di posizione dell’autore nei confronti della vita, una presa di posizione che si rifà al suo intimo modo di interpretarla e di raccontarla, una presa di posizione a cui rimarrà più o meno fedele in tutti i suoi lavori successivi.
La realtà, l’effettiva consistenza di un oggetto, di un essere, così come la sua forma, il suo colore, il suo odore, perfino il sapore, sono prerogative intrinseche ed immutabili di quell’oggetto in quanto tale oppure sono solo attributi che noi gli ascriviamo per vederlo, distinguerlo e così capirlo? Urge un esempio: una mela tende effettivamente ad essere solida, sferica, di colore verde, con la buccia liscia e un sapore agro dolce, oppure siamo noi uomini che la percepiamo così attraverso i nostri schemi mentali? Un bicchiere è effettivamente trasparente, vetroso, levigato oppure questi sono soltanto aggettivi che noi utilizziamo per descriverlo, per farci capire dai nostri simili, libere parole che rappresentano esclusivamente ciò che noi percepiamo di un determinato oggetto ma che senza una contro prova potrebbero essere quanto mai lontane dalla sua effettiva e concreta realtà?
Per secoli centinaia di filosofi si sono scervellati sulla dicotomia del reale, se esso sia oggettivo e concreto o solo frutto della nostra percezione, Kant aveva introdotto il concetto di schemi trascendentali per venirne a capo, altri come lui adottando i medesimi schemi erano giunti a conclusioni diametralmente opposte. Dunque chi aveva ragione e chi ha ragione?
Poco importa, come tutte le disquisizioni che non traggono da specifiche e stringenti basi scientifiche, ma si inerpicano con indiscussa abilità oratoria sui sentieri della metafisica esistenzialista, si può dire tutto e il contrario di tutto. Quel che importa invece è compiere una scelta e a quella attenersi onde evitare di perdersi (e perdere tempo) nella vita di ogni giorno.
Murakami in questo libro la compie e ci dice, ci spiega, anzi quasi scientificamente ci dimostra, che ogni singolo aspetto del reale non è nient’altro che frutto di come noi lo percepiamo, del nostro modo di ragionare e pensare, in sostanza di una semplice elaborazione degli impulsi che arrivano al nostro cervello, tanto che, vuoi per un malfunzionamento, vuoi per una sorta di predisposizione, se tali impulsi non vengono più codificati in maniera canonica tutto ciò che noi vediamo, udiamo e sentiamo, cambia, si trasforma, muta, fino a venire noi stessi catapultati in un altro mondo, un mondo parallelo, assurdo, immaginario, ma non per questo meno reale del primo, non per questo meno interessante del solito, e non per questo meno degno di essere vissuto.
E’ una scelta coraggiosa quella di Murakami, difficile soltanto da immaginare, figurarsi da sostenere, e sostenere fino alla fine del romanzo! Eppure lui lo fa, e lo fa in maniera talmente convinta e convincente che giunti all’ultima pagina risulta quasi impossibile non dirsi d’accordo con lui e col suo protagonista, con coloro ovvero che hanno creato quel mondo, con coloro che bene o male sono partecipi di quella diversa realtà. E’ una scelta difficile la sua eppure è una scelta che paga poiché come è innegabile che persino nella mente più portata al realismo durante la lettura sorga qualche dubbio è altrettanto innegabile che il comune lettore, indiscriminatamente aperto ad entrambi i mondi, non rimanga irrimediabilmente catturato dalla vicenda, tanto quanto dalle riflessioni dell’autore, tanto quanto dalla narrazione.
Già poiché in aggiunta all’interessante dibattito filosofico a cui si rimanda in questo libro, in aggiunta al fascino dell’ambientazione urban fantasy e all’indiscusso appeal di una trama concreta seppur al di sopra delle righe, bisogna tener conto del meraviglioso stile di Murakami, che in questo come in altra romanzi con una schiettezza disarmante e una rara limpidezza mentale riesce a raccontare di intricate vicende al confine col paranormale rendendole plausibili, divertenti, poetiche e soprattutto quotidiane.
A onor del vero non sempre in “La fine del mondo etc.” la narrazione scorre via semplice e pulita (vedasi per esempio la spiegazione del “professore” nella grotta) e a tratti, come spesso accade agli scrittori esordienti (… è solo il terzo o quarto romanzo dell’autore e secondo pubblicato a livello internazionale), il suo stile alle volte è ridondante, altre volte naive, specie quando si rifà ai luoghi comuni dei generi da cui attinge (noir, fantasy, sci-fi, horror,) ma a una mente tanto brillante e libera da essere stata in grado di partorire una storia così, e a uno scrittore dall’indole così temeraria da averla difesa fino in fondo senza risolverla nei banali, ultra sfruttati, luoghi comuni verso cui sembrava irrimediabilmente destinata ad evolversi (parlo di finali che tirano in ballo sogni, allucinazioni, psichedelici viaggi farmaco indotti o trapassi a realtà paradisiache post mortem), a uno così, si può perdonare tutto, tanto più allorché si realizza che malgrado i momenti di stanca, malgrado le ovvietà, malgrado le assurdità, si è di fronte a un piccolo capolavoro della narrativa di genere.

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