Opinione scritta da Mario Inisi
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Teresa vuole fiducia
Pietro è un uomo particolare, premiato dalla vita da un fascino oscuro e a volte eccessivo che fa sì che uomini e donne siano ben disposti nei suoi confronti, che gli dà straordinaria facilità di relazione e di relazioni, straordinario successo quando pubblica libri zeppi di luoghi comuni dato che pure i suoi libri godono del suo fascino.La sua immagine è quella di un uomo tranquillo, che sa ascoltare e che mette gli altri a loro agio. Gli uomini desiderano essergli amici e le donne avere relazioni con lui, spesso relazioni erotiche ma per non sapere immaginare di meglio, dato che il suo fascino non è tanto di tipo erotico quanto affettivo. Le donne vorrebbero legarsi a lui il più strettamente possibile e sognano di dormire sulla sua spalla. (Forse l'effetto dei suoi libri sulla scuola?). Ma non tutte le donne soffrono di tale mancanza di fantasia. La sua fidanzata Teresa gli propone un legame basato sulla reciproca confidenza di un segreto terribile. Dopo la confidenza ognuno avrà in mano la serenità dell'altro.Dopo la confidenza i due si lasciano e Pietro sposa Nadia. Nadia è anche lei vittima del suo fascino, ma dato che moglie, quindi legata a lui in modo particolare, è vittima in altro modo, nel senso che si sente oscurata dal suo fascino, relegata alla condizione di madre e di serva,per di più è frustrata nelle sue legittime ambizioni di carriera dato che a lei va tutto male. Nel matrimonio iniziano crepe e screzi e insoddisfazioni da ambo le parti che lo metterebbero a rischio se non tornasse in ballo Teresa con una idea nuova relativamente, nel senso che è una propaggine della precedente idea del reciproco scambio di confessioni: il matrimonio etico. Ognuno di loro userà il segreto come arma di ricatto per costringere l'altro a comportarsi bene. Lei in particolare veglierà sul matrimonio di Pietro. L'idea è abbastanza inusuale. Pietro non sa se fidarsi di Teresa, la ritiene pazza pericolosa e capace di tutto. Ma a tratti la fiducia affiora nonostante il ricatto etico e quando affiora le cose vanno bene. In fondo Teresa vuole solo tenersi una persona mal gestibile come Pietro senza fare la fine di Nadia, aiutando lui e Nadia a essere felici per quello che possono a distanza. Vuole ritagliarsi un ruolo nel suo cuore, o meglio nella sua testa, un ruolo di amica disinteressata. E' una donna intelligente, dunque dubita del cuore di Pietro latitante in tutti i suoi rapporti perchè anaffettivo- e vuole aiutarlo da lontano, dato che la sua vicinanza è pericolosa. Però questo rapporto richiede fiducia e la confessione iniziale comporta paura. Da qui la difficoltà ad andare avanti. E' ovvio che occorre un salto nel buio: la scelta a priori della fiducia da parte di Pietro. In fondo, Teresa gli ha già chiaramente dimostrato di tenere a lui e di non essere una minaccia. Ma la sfiducia può ribaltare le cose.
Il libro ha un incipit bellissimo, una trama insolita. Emerge una scrittura da maestro e una trama un po' lontana dalla vita, un po' astratta. Le relazioni di Pietro sono poco credibili dato che passa da un amore all'altro nel giro di poche righe e questo disturba il lettore che vorrebbe credere a quello che gli viene raccontato ma non può. Perciò il testo è più un gioco intellettuale piacevole che un racconto verosimile. Probabilmente non si sforza nemmeno di esserlo, all'autore piace più l'idea astratta e la scrittura della vita.
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A cosa servono gli amici
Uno pseudo vangelo che inventa la parte mancante dei Vangeli, cioè l'infanzia di Gesù e ci aggiorna sui retroscena della sua missione. Un libro pieno di ironia di bassa lega tipica di certe trasmissioni commerciali americane. Nel genere, meglio Malamud (Dio mio grazie) o Saramago, di altro livello.
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L'evoluzione dell'uomo secondo Malamud
Questo romanzo ricorda Caino di Saramago, con un'ironia più leggera e forse più superficiale. La scrittura di Malamud è accattivante e credo che il libro e la comprensione delle stoccate possa essere poco accessibile al lettore di oggi data l'ignoranza in materia biblica. Comunque il romanzo è blasfemo per il tipo di contenuti, ma piacevole da leggere e spiega l'evoluzione della specie dopo un'ecatombe nucleare che lascia sulla terra un unico sopravvissuto e alcune scimmie. Nonostante l'ecatombe sposti il romanzo nel futuro, potrebbe essere visto anche come una spiegazione retrospettiva della nostra origine, appunto dalle scimmie. Certi passaggi sono veramente simpatici, proprio per questo non ho apprezzato molto il cambio di rotta tipico di Malamud che porta a un tipo di storia più cruda.
La lettura è come dicevo piacevolissima fino alla svolta nelle abitudini alimentari che non ho gradito e che mi ha disturbato moltissimo la lettura. D'altra parte Malamud sembra che lo faccia apposta in tutti i suoi romanzi a disturbare il lettore in qualche modo. Invece la conclusione è perfetta.
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Geniale e simpatico
Un libro così mi ci voleva. A volte ho un'impressione di aridità, pomposità, leziosità e asfissiante materialismo dalle più acclamate opere che escono sul mercato editoriale. Questo libro è una felice eccezione. Ha un tipo di scrittura ironica e molto simpatica, una ironia candida, infantile, intelligente, buona, piacevolissima. E' una scrittura che nasce da un mondo interiore e affettivo particolarmente ricco. A me sembra l'esatto opposto di Mo Yan. Comunque la critica alla società cinese è chiara e lampante e non bisogna scervellarsi per capirla come in Mo Yan. Viene da chiedersi come mai uno così non è in galera. La conoscenza con questo scrittore è sicuramente da approfondire. Mi ha ricordato vagamente Guareschi non tanto come tipo di scrittura, ma come spirito.
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Carrellata sui Vangeli
Questo testo non è un romanzo, il titolo "grande romanzo dei Vangeli" potrebbe indicare un giudizio sul contenuto dei Vangeli. Il testo è articolato come discussione a due voci, dove quella di Augias dirige la conversazione e sceglie le tematiche da affrontare. Papa Benedetto ha pubblicato libri molto corposi sui Vangeli, è chiaro che in 200 pagine molti temi si affrontano in modo discorsivo e veloce. L'approccio è laico, del non credente affascinato dalla personalità di Gesù. Le riflessioni in merito soprattutto ai contenuti sono sempre abbastanza superficiali, ma vengono introdotti temi interessanti. Quelli mi sarebbe piaciuto che fossero sviluppati meglio. Ad esempio mi sembra interessante il discorso della tempistica ampiamente discussa da papa Benedetto tra l'ultima cena e la Pasqua e la morte di Gesù più dilatata in Giovanni e compressa nei sinottici, il discorso sulla regolarità/irregolarità del processo e sulla modalità del processo a casa di Caifa. E poi mi incuriosisce parecchio una tematica sfiorata nel libro: quella dei doppi. La scelta tra Gesù e Barabba che a quanto pare si chiamava lui pure Gesù. Il cognome Barabba significa Figlio di Dio. La scelta degli ebrei dell'uno o dell'altro deve avere un forte significato simbolico. Data la abbondanza di doppi nella Bibbia, uno positivo e uno negativo, per esempio nell'Apocalisse le due città, Caino e Abele, nonché di simboli (il leone, il leviatano) con duplice significato, mi sarebbe piaciuto approfondire questo discorso che richiama continuamente la libera scelta dell'uomo tra bene e male.Consiglio a chi vuole approfondire la conoscenza di Gesù i libri di papa Benedetto. Ci sono più versioni di cui una con meno pagine a seconda del grado di approfondimento voluto. Papa Benedetto è un grande scrittore, mai noioso. Ha una mente tagliente.
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Ma cos'è la verità
L’ultima intervista è un romanzo autobiografico o pseudo autobiografico scritto sotto forma di intervista, dove la forma dell’intervista è un pretesto per parlare di sé senza seguire un ordine cronologico stretto, saltando soprattutto all’inizio da un argomento all’altro per riprendere più avanti i due fili conduttori principali: il rapporto con la moglie Dikla e il rapporto con la scrittura. Entrambi i rapporti stanno vivendo una grossa crisi, probabilmente le due crisi sono correlate. Entrambe le crisi sono legate al rapporto tra scrittura e vita e tra vita e verità, quindi tra arte e verità. Questo ultimo argomento di discussione, cioè il rapporto arte-verità, andava di moda il secolo scorso, oggi come oggi è difficile che qualcuno sostenga ancora che l’arte debba essere legata alla verità, pena un ruolo minore. Nessuno pretende dallo scrittore che sia assolutamente sincero, ammesso e non concesso che verità e sincerità siano la stessa cosa. Dikla rimprovera al marito di non essere veritiero ma di raccontare troppi segreti di famiglia. In parole povere racconta fatti personali e problemi personali ma senza guardarne in faccia le cause, addomesticandoli a suo beneficio come se volesse fascinare il pubblico per tirarselo dalla sua come si fa nelle famiglie in crisi in cui ogni coniuge cerca di avere l’appoggio degli altri membri della famiglia oppure di usare i problemi famigliari per trarne storie. Del resto questo ruolo di fascinatore lo scrittore se lo rimprovera lui stesso, lo giudica severamente, lo bolla come immorale. Nevo ammette di essere il responsabile dell’ascesa del peggior politico israeliano del quale ha scritto e continua a scrivere i discorsi, discorsi assolutamente vuoti e populisti. In un certo senso l’autore è alla ricerca della verità nella scrittura ma cede facilmente alla fascinazione, al potere che riesce ad esercitare sugli altri e anche al denaro. L’immagine che dà di se stesso è tenera, sentimentale, fedele alla moglie. Ma, nonostante questo si capisce che l’immagine è deformata e falsa per le varie occasioni di tradimento vero o immaginato che descrive. Però come quello che racconta della sua vita ha del falso in sé, così la sua scrittura. Seduce, è formalmente intrigante, con un certo sentimentalismo di buon livello.
Insomma, credo che Nevo si renda conto che la scrittura può essere di più, soprattutto per uno con il suo talento. I grandi della letteratura russa, ad es. Dostoevskij o Solzenicyn hanno fatto della letteratura una forma di ricerca, proprio come Schopenhauer intendeva l’arte. Io credo che Nevo aspiri a qualcosa del genere ma non vuole perdere il pubblico che spesso chiede qualcosa di più commerciale e finto, come il buon politico. Nevo è sempre un sentimental-buonista. Gli unici momenti in cui tira fuori un pizzico di cattiveria è quando parla dei colleghi scrittori, in particolare dello scrittore reduce della Shoah, il cui romanzo di 10 kg di peso, di migliaia di pagine lo insegue come uno stalker, e dello scrittore di gialli scandinavo più fascinoso e commerciale di lui. In un certo senso lui si barcamena tra un modo e l’altro di scrivere senza scegliere una strada o l’altra. Le primissime pagine mi sono sembrate molto molto belle e toccanti cioè più del resto del romanzo. Del resto è molto difficile mettersi a nudo in un romanzo dato che poi all’autore è richiesto di accompagnarlo in giro per il mondo. Io credo che su questo la Ferrante abbia assolutamente ragione, un romanzo non dovrebbe avere la faccia dell’autore cucita addosso. Le parti sulle presentazioni dei romanzi rendono l’idea di come funziona il mercato dei libri e sono abbastanza snervanti. Invece sono interessanti le pagine che rendono l'idea della situazione esplosiva in Israele.
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La verità nella letteratura
Questi racconti colpiscono per il tono inusuale, legato non tanto alla nazionalità di chi scrive quanto alla sensazione di scavo interiore o comunque di ricerca cui non siamo più abituati. La sensazione è di avere davanti qualcosa di vivo mentre la letteratura ha sempre più un tono artificioso e artificiale, e se non lo è abbastanza, non è considerata grande letteratura. Questi racconti mi hanno fatto sentire la mancanza di un diverso modo di concepire la scrittura. Dei tre racconti il primo mi ha colpito più degli altri per quel tocco di sensibilità giapponese molto gradevole. Nel racconto sui martiri cristiani mi è sembrato di cogliere una riflessione dello scrittore tra sè, riflessione che poi lo ha portato al suo romanzo più noto (e davvero bello) Silenzio, in particolare al personaggio di Kichijiro. Del resto come non immedesimarsi nel debole traditore (una specie di Pietro più che di Giuda) più che nei martiri, nel fatto che si domanda con angoscia se meriterà la misericordia di Dio.
L'autore non si dichiara cristiano convinto, dice di essersi ritrovato cristiano per la famiglia eccetera, però tutti i suoi lavori contengono riflessioni su tematiche religiose, riflessioni non superficiali o nozionistiche.
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Ottimo saggio
Il testo di Endo è simile per contenuto alle ultime uscite di Augias su Gesù di Nazareth. L'autore giapponese però ha una ottima conoscenza delle Scritture e delle fonti dell'epoca, nonché di tutti gli aspetti collaterali: storia, cultura ebraica, usanze. Oltre a questo ha un intuito da scrittore, un intuito eccellente per cui riesce a illuminare la vita di Gesù nel suo rapporto con la mentalità dell'epoca dando una lettura diversa da quelle a cui siamo abituati e davvero interessante. Il testo di papa Benedetto su Gesù resta irraggiungibile come grado di approfondimento e di conoscenza di tutto lo scibile a disposizione, e per il suo approccio assolutamente scientifico che nulla lascia alla fantasia. Invece Endo lascia margine alle intuizioni e ci mostra un Gesù molto più solo e incompreso di come siamo abituati a pensarlo. Giovanni Battista fu molto più gradito di lui in quanto figura forte che alzava la voce contro il re colpevole di essere sceso a patti, oltre che con la morale ebraica, con l'invasore romano. Endo rintraccia tra le pagine dei Vangeli il cammino di distacco di Gesù dall'idea che gli altri avevano di lui e dal ruolo che volevano cucirgli addosso. Dal disprezzo dei parenti per avere lasciato un lavoro che gli permetteva di mantenere la madre, alla permanenza nel deserto, forse presso una comunità di esseni, all'entusiasmo delle folle subito smorzato dal suo rifiuto del ruolo di re vittorioso. La delusione per il discorso della montagna, le fughe dalle cittadine sul lago di Cafarnao dove non era più gradito, alla persecuzione del farisei che vedevano in lui un possibile capo degli zeloti (li fautori della lotta armata contro i romani e le classi sacerdotali colluse con loro) e che gli mandavano dietro spie che continuamente gli facevano domande trabocchetto (per accusarlo di apostasia o di magia o di bestemmia, tutti reati punibili con la morte), all'abbandono di buona parte dei discepoli e alla fine persino dei dodici. Anche l'accusa di essere un mangione e un beone, che a noi fa morir dal ridere, non era così innocua dato che conteneva l'accusa implicita di essere un bastardo condizione già di per sè sospetta perchè i bastardi erano più propensi a comportarsi male secondo gli ebrei. Di san Giovanni apostolo,Endo non parla, come se non ci fosse lì dove i Vangeli lo mettono. Sotto la croce Endo vede solo donne, di cui diverse sue parenti. Però, le parole di Gesù sono fino alla fine di speranza e di fiducia. A me è piaciuta molto la lettura di Giuda, in particolare dell'episodio dell'olio che si doveva vendere per dare il ricavato ai poveri in chiave ironica, che trovo assolutamente geniale. E anche la spiegazione della presenza di Pietro da Caifa è credibile anche se mi dispiace pensare che il suo tradimento possa essere stato così grave e la solitudine di Gesù al momento della crocefissione così totale.
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Nostra madre fabbrica
Memoriale è uno dei libri più interessanti di Volponi, scrittore urbinate dallo stile impeccabile, a volte un po’ ostico per il contenuto (non in questo romanzo). Memoriale coniuga l’originalità del protagonista, Albino Saluggia, operaio strappato come tanti alla vita dei campi, al modo originale dell’autore di guardare l’esperienza della fabbrica. La fabbrica in cui lavora Albino ha un aspetto insolitamente materno, come doveva essere la Olivetti di cui Volponi è stato consulente. Non una fabbrica qualsiasi dunque, ma la fabbrica ideale. Agli operai sono concesse visite mediche, sussidi alla famiglia se in difficoltà, vacanze di un mese in montagna in albergo a spese della ditta, soggiorni di cura, visite da luminari (più di uno). C’è anche amore dell’operaio per il suo lavoro, non solo alienazione. D’altra parte proprio l'aspetto materno della fabbrica la rende subdola, lega ancora di più l’operaio suscitando in lui una feroce ribellione. L’aspetto ordinato, sacrale, la sicurezza economica, la tutela della salute e i sussidi alla famiglia rispetto al rischio del lavoro dei campi legato alle bizzarrie del tempo e alla salute del lavoratore sono una catena psicologica. La fabbrica assomiglia alla madre del protagonista che solo verso la fine del romanzo rivela il suo volto più squallido. Tra Albino e la fabbrica c’è un braccio di ferro silenzioso, sempre più pressante, simile a quello che si stabilisce in casa tra lui e la madre.
Nonostante la disponibilità del datore di lavoro, c’è una enorme difficoltà di comunicazione tra l’operaio e la fabbrica, ( e tra Albino e la madre), una impossibilità di aiutarsi reciprocamente quasi fosse inevitabile stare ai due lati di una barricata. Albino, malato di TBC, è anche affetto da una malattia nervosa, soffre di manie di persecuzione. Ma il suo atteggiamento patologico, la sua incapacità di comprendere la realtà rientra in una modalità diffusa dell’operaio di guardare le cose cogliendone il marcio dove c’è e dove non c’è. Probabilmente Albino cova la stessa divisione nell’animo- una oscillazione tra amore e odio- che nutre l’autore nei confronti della fabbrica. Da una parte, da comunista è portato ideologicamente alla lotta di classe, dall’altra è consulente della Olivetti che, con le sue materne aperture ai lavoratori, è disarmante. Tuttavia, resta questa incomunicabilità reciproca, che rende inevitabile la lotta e impossibile una sana collaborazione. La disponibilità del datore di lavoro suscita essa stessa ribellione anziché gratitudine come fosse una catena nascosta, per imbrogliare e catturare meglio la sua preda con l’inganno, anziché con un onesto scontro.
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Molto meglio i romanzi
Questi racconti sono stati raccolti e pubblicati dall'editore. Volponi, probabilmente non li avrebbe considerati finiti e dati alle stampe. I romanzi sono molto più interessanti. Lo stile dei racconti è buono, con punte di ottima scrittura, ma al racconto nel complesso manca quasi sempre qualcosa. Ora è la favola un po' ovvia, ora è il contenuto a essere sgradevole (Talete o Nerone o il racconto della suora), ma non in modo originale. Fa eccezione il racconto Iride più legato agli ambienti del lavoro e della sinistra femminile e femminista, più interessante come tematiche e effetto. In generale, direi che Volponi è uno scrittore di lunghe riflessioni, che ha bisogno di tempo e di pagine per dare il meglio di sé. I racconti giovanili hanno un tono sincero e un po' ingenuo anche nella forma, ma sono più piacevoli nel contenuto. Un altro scrittore che ha lasciato pagine su pagine di pensieri e poesie incredibili e qualche racconto bruttino è Pessoa. Il racconto su Talete mi ha ricordato il racconto dell'invito a cena di Pessoa, per il contenuto cannibale e la riuscita poco felice. Dovendo conoscere Volponi io consiglio la lettura di Memoriale, che è davvero memorabile.
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Evoluzione sociale
Il pianeta irritabile è un libro in cui lo stile impeccabile si unisce a un contenuto ostico e criptico di difficile lettura. Non credo che il testo possa essere considerato una favola post apocalittica. Assomiglia più a una complicata metafora sociale (forse una doppia metafora sociale/morale) che racconta il passaggio dell’uomo a un sistema sociopolitico migliore. Il cammino di evoluzione necessita di alcuni passaggi descritti metaforicamente nel racconto e comporta il lasciarsi alle spalle la razionalità e soprattutto la capacità di calcolo, da un punto di vista economico il potere del denaro (il governatore Moneta).
La storia racconta di quattro esseri: un elefante, una scimmia, un’oca e un nano che percorrono un mondo fantastico, forse una intersezione di più mondi comunicanti tra loro alla ricerca di un regno promesso di cui la scimmia dovrebbe diventare il re. Gli esseri potrebbero rappresentare diversi strati sociali oltre che condizioni morali. L’elefante porta nel gruppo la cultura e l’arte, che ahimè è imitazione. Rappresenterebbe quindi la classe degli intellettuali e la “pazienza”. La scimmia è il capo del manipolo a cui tutti sono soggetti e rappresenta un elemento di transizione necessario e utile, per sconfiggere le precedenti e superate strutture politiche borghesi (il governatore Moneta). In un regime comunista potrebbe essere lo Stalin del momento. Nella metafora morale rappresenta il coraggio e la forza. L’oca rappresenta la fedeltà assoluta al potere, non sempre lo stesso ma quello del momento, e dovrebbe essere la classe sociale più bassa, il proletariato. Il nano è l’unica figura che non rappresenta uno stato stabile ma in evoluzione. Non è un uomo, quindi è superiore all’uomo. E’ un mezzo uomo come proporzioni e ha una forma strana. Ha mezza faccia con un buco e tre teste. Questo buco serve sia per contenere che per donare. E’ una figura in certi momenti superumana piuttosto che subumana anche se all’inizio e per buona parte del romanzo porta al collo una catena in mano alla scimmia. Il nano nella doppia metafora morale è la bontà, anche quella non raggiunta ma in fieri, così come la sua condizione nella metafora sociale è in evoluzione: potrebbe rappresentare l’uomo nuovo, ex-borghese. I quattro incontrano vari personaggi come i cani (i dirigenti), il governatore (capo di una società borghese benpensante), vari uomini feriti malati barcollanti che vengono a malincuore abbattuti dalla scimmia e spesso dal nano con rimorso ma senza pietà. Un superamento necessario.
Nel finale il rapporto tra gli esseri rimasti, solo tre, diventa paritario e di totale condivisione. C’è anche un personaggio positivo, l’imitatore del canto di tutti gli uccelli, che non so cosa potrebbe rappresentare, forse una figura religiosa, anche lui non necessario e utile ma transitorio nell’economia del progresso sociale. Una figura poetica e messianica. I tre esseri rimasti vanno a costituire una sorta di trinità sociale basata sulla condivisione e la collaborazione paritaria nella rinuncia a imporre il primato di una parte sull’altra. Nel finale anche il mondo si riallinea, le tre lune diventano due e le due rimaste rimpiccioliscono. Tutte le descrizioni di ambienti, luoghi, paesaggi sono bellissime. A me sono sembrate di gran lunga la cosa migliore del testo.
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Romanzo peripatetico gay ma non troppo
Less, scrittore fallito, amante poco fortunato parte per una tournée letteraria mettendo insieme una serie di inviti per sfuggire all'evento che teme: il matrimonio del suo ex amante Freddy. Il romanzo è peripatetico, nel senso che il lettore segue Less nel suo itinerario che è una cosa a metà tra la fuga e un pellegrinaggio alla scoperta di sè. La scrittura è bella, leggera, brillante, con pagine molto gradevoli. Alcune parti sono bellissime, quelle in cui Less ricorda la sua passata storia d'amore con il poeta Robert, vincitore del Pulitzer. Le pagine su Robert sono le migliori. In queste spesso una malinconia ironica e sincera, piena di rimpianti e di affetto prende il posto del tono leggero che c'è in quasi tutto il romanzo. Una leggerezza che può essere stancante e suggerire una certa inconsistenza in alcuni momenti. E' interessante la descrizione dell'ambiente letterario, cioè il writer-watching, l'analisi dei rapporti tra scrittori, e anche il tipo di critica che viene mosso a Less come scrittore gay dagli ambienti gay: è dimenticato in patria non perchè non scriva bene, ma perchè non è abbastanza gay, per cui i movimenti gay non lo sostengono come scrittore. La critica è sconcertante, il fatto cioè che possa venire imposto un certo modo di scrivere ritenuto conforme a uno scrittore talentuoso.A me il romanzo sembra abbastanza veritiero in molte parti. Le pagine finali del romanzo sono bellissime a parte le ultimissime in cui c'è un cambio di passo, cambio che a me è risultato molto spiacevole. Ho avuto la sensazione di aggiunta imposta dall'editore di un lieto fine per il pubblico a un romanzo che sarebbe stato molto più bello, delicato, elegante tralasciando la badilata di zucchero dell'ultimo paio di pagine. Una concessione alla letteratura sentimental-gay?Oppure sentimentale e basta?
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Ma si insegna la scrittura?
Un'insegnante di scrittura creativa a cui più persone raccontano o nell'ambito del suo corso o al di fuori, frammenti della propria vita, annota queste storie nel suo libro intitolato appunto Resoconto. A me sembra che la scrittrice sia a caccia di vita vera, che insegua questi racconti come farebbe una persona che si è smarrita nella letteratura allontanandosi troppo dalla realtà a caccia dell'ossigeno che si respira su questa terra. Il distacco dalla vita è percepito da lei come baratro e come ostacolo alla scrittura anche se questo aspetto non è mai chiaramente detto. L'autrice vorrebbe secondo me accorciare le distanze, avvicinare vita e letteratura. Non è però questo il tipo di testo che può riuscire a farlo, anche perchè il fatto stesso che tutti raccontino la propria vita alla scrittrice aprendosi senza fare difficoltà è di per sè irrealistico, in più l'autrice si perde in riflessioni molto interessanti ma sempre più astratte e astraenti cioè intellettuali. Comunque le storie sono tutte belle e interessanti e il libro è stilisticamente pregevole e raffinato. Certo, che dei dubbi su quel corso di scrittura creativa sono venuti anche a me. Intanto è fatto come una riunione degli alcolisti anonimi, con i partecipanti che devono raccontare tutti un fatto vero. Raccontare, non scrivere. Ma perchè un fatto vero? Non so, la mia impressione è che alcuni scrittori sentano la nostalgia (nostos) della vita autentica come se scrivere rendesse tutto un po' finto, coltivato in serra, artificioso. Per questo l'insegnante non insegna a uscire dal mondo ma a rientrarvi, e a gente che ancora tiene i due piedi nel mondo e avrebbe bisogno di liberare l'immaginazione e di imparare a fare altro.
Comunque la scrittura è molto bella, curata, alta. Verso la fine si ha la netta sensazione che la letteratura abbia accalappiato l'autrice e non la molli più, addio vita vera.
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La strada
Questo romanzo di Eggers è veramente molto bello. Ricorda per alcuni tratti Il deserto dei tartari di Buzzati e anche La strada di Cormac, dato che proprio della costruzione di una strada tratta il romanzo. Questa strada viene costruita in un paese presumibilmente africano, devastato da una guerra civile, in cui ancora girano fazioni nemiche. Dovrebbe essere un simbolo di rinascita dopo la devastazione, di pace dato che entrambe le fazioni collaborano alla costruzione, dovrebbe portare vita, aiutare forme di commercio, facilitare la vita alla gente, per esempio ai malati che necessitano di cure mediche disponibili solo nella capitale. Il lavoro viene svolto da una ditta che vuole restare anonima e da due soli dipendenti della ditta 4 e 9. 4 deve guidare l’asfaltatrice e 9 è incaricato di rimuovere gli ostacoli incontrati lungo la strada. 4 e 9 nemmeno tra loro si scambiano informazioni anagrafiche. Queste, sarebbero pericolose, se rese note li metterebbero a rischio di rapimento a scopo di estorsione. La strada viene costruita nel “deserto” cioè in un paese senza infrastrutture, devastato dalla guerra dove la gente vive in estrema povertà e in condizioni igieniche disastrose. Lungo la strada si incontrano tracce della guerra, enormi sacchi neri, carri armati, carcasse di aerei e anche gente che si riunisce, festeggia, accoglie, offre alcolici e cibo locale (scarso) prevandosene. Immagini di morte e di speranza si alternano nel romanzo e sono immagini così forti che sono quasi simboliche. I cumuli di sacchi neri ad esempio, e il bambino fermo nel mezzo della strada. E’ veramente bello come 4, soprannominato Orologio per la sua dedizione al lavoro, si preoccupi del bambino e lo prenda in braccio, gesto notato e apprezzato dai parenti del bambino. Eggers propone come suo solito una storia di amicizia, anzi più storie di amicizia. Una tra 4 e 9, due persone molto diverse, 4 pignolissimo e scrupolosissimo nel lavoro, 9 all’opposto un edonista che sembra far tutto meno che lavorare. Ma racconta anche l’amicizia tra persone di culture diverse e questi incontri sono prima minati dal sospetto poi man mano più tranquilli fino a creare un legame forte. Eggers è molto bravo a far partecipare il lettore all’asfaltatura della strada, a farlo preoccupare del rispetto dei tempi, a fargli scoprire la gente locale, generosa, buona, ospitale, ingenua, come tutti sono ingenui rispetto alla capacità di calcolo delle grandi organizzazioni governative o imprese. E’ molto bello entrare pagina dopo pagina nel mondo di 4, nella sua “musica”, nel suo amore per i bambini, e anche la sua apertura progressiva verso la gente del posto accantonando pregiudizi e paure. Bellissimo poi il contrasto di questa estrema apertura al termine del lavoro, con il finale. Il finale ci riporta alla strada di Cormac, alla considerazione che il vero nemico non è l’uomo ma l’organizzazione. Questa fantomatica organizzazione che lavora assoldata da uno stato perseguendo un fine di lucro non può che prestarsi a essere uno strumento di morte. Questo romanzo ricorda per il clima surreale anche Ologramma per il re, ma secondo me è migliore di Ologramma. E’ veramente un bellissimo romanzo e, in questi tempi di chiusura mentale, un romanzo necessario.
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Odio tra fratelli
Il frutteto è un libro strano, di piacevole lettura e di sapore biblico.. Due fratellastri figli dello stesso padre hanno un rapporto fatto di amore e rivalse. Il maggiore è figlio della serva, il minore della legittima e colta moglie. Il maggiore è strappato alla madre brutalmente per essere allevato dal padre assieme al fratello minore. Ma appena possibile scappa di casa, non dà più notizie e va a lavorare presso lo strano frutteto di un ricco arabo che ha una ancora più strana figlia adottiva. Tra i due ragazzi nasce una relazione non si sa se anche sentimentale o solo erotica, che è simile alla relazione che lega il giardiniere alla sua terra cioè al frutteto. Il fratello minore a un certo punto arriva anche lui nel paese, si innamora perdutamente della ragazza e la sposa. Ha ereditato tutte le ricchezze del padre, anche la parte del fratello, il quale non può quindi chiedere in sposa la ragazza. Non si sa se la chiederebbe potendo. Nemmeno sono noti in tutto il romanzo i sentimenti della misteriosa ragazza, Luna, se ne ha. Ma forse non ha sentimenti anche se sembra una persona buona. Il narratore è un agronomo responsabile del frutteto dell’arabo, amico di entrambi i fratelli. Questo frutteto che non rende, pieno di piante dove entrano cavallette eccetera ricorda la vigna biblica che a sua volta ricorda la sposa di Dio, Israele, la sposa infedele. Nel libro c’è un discorso molto palese sull'assurdità dell’odio fratricida tra arabi e musulmani per la stessa donna, Luna-Israele. Si arguisce il rammarico dell’autore che pensa che sarebbe stato meglio non sposare la donna Israele, e lasciare che l’amore per questa donna-terra restasse un sogno. C’è l’idea che la realizzazione del sogno sia stato una chimera, un inganno, che sotto questa realizzazione ci sia una specie di maleficio, che la soluzione più giusta sarebbe stata rinunciare al proprio sogno, con tutto il dispiacere che questo avrebbe comportato. Solo il sacrificio del proprio bene a favore di quello del fratello, avrebbe potuto ricucire un rapporto nato malato. Molte cose restano misteriose nel romanzo anche a fine lettura, anzi il mistero di Luna ( quante Lune ci sono, una due tre?) si infittisce. Luna è come la donna città della Bibbia, la donna Israele o donna Gerusalemme, ricorda anche la donna dell'Apocalisse dove in effetti le donne sembrano due, la santa Gerusalemme e Babilonia la prostituta, come due forse sono le Lune del romanzo.
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Il labirinto del cuore
Il libro di Tammuz non è bellissimo o imprescindibile ma la figura del protagonista, l’agente segreto, è di grande fascino. Le sue lettere sono bellissime, sicuramente le pagine migliori del romanzo che ha forse ispirato il romanzo epistolare di David Grossman Che tu sia per me il coltello, che non a caso cita una frase della lettera a Milena di Kafka. In entrambi i romanzi, oltre che nella vita di Kafka, c’è una storia d’amore epistolare che deve la sua grande forza alla immaterialità di lui, più voce che persona e al desiderio di lui più che a quello di lei. Questo è evocato dal nulla dalla forza della voce di lui. Anche in questo caso la potenza della voce si distacca dalle insicurezze dell’uomo di carne per diventar canto irresistibile dell’anima. La persona materiale di lui, invece è un uomo con le sue debolezze, che vive in atteggiamento di strenua difesa di se stesso in uno spazio mentale delimitato, direi morbosamente chiuso, da cerchi concentrici, 3 cerchi, il primo dei quali, quello più interno, è il cerchio della musica e quindi dell’amore assoluto. C’è l’idea che ogni uomo sia chiamato a questo amore per la donna scelta per lui in cielo, se solo l’ufficio cuori solitari del cielo funzionasse. Invece, la burocrazia funziona male anche in cielo. Il fatto di non dover mai scendere a patti con le imperfezioni della realtà, rende il rapporto tra i due assoluto e del tutto al di fuori della materialità dei corpi, come fosse fatto di puro spirito o di sola musica, quindi al di sopra della infedeltà materiale sia di lui che di lei.
La cosa più misteriosa del libro è il suo titolo: forse potrebbe fare riferimento ai labirinti dell'animo umano, cuore e mente, tra i quali l'essere umano si ritrova metà uomo metà bestia e deve cercare di uscirne in qualche modo o uomo o bestia. Perciò la cosa importante del percorso è soprattutto il ritrovarsi su due gambe, vivi o morti non conta, e l'amore potrebbe essere il filo che porta fuori dal labirinto ovvero dal cerchio.
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Il cervo nel campo innevato
Questo romanzo è ben scritto ma non mi ha entusiasmato. Il tipo di scrittura statico e scolastico mi ha ricordato la Tart che a me non piace per niente nonostante l'indubbia bravura. Troppo costruita a tavolino, capziosa e divagatrice.. La situazione anche da Ottessa è descritta in modo eccessivamente ripetitivo con abuso di particolari sgradevoli assolutamente inutili ai fini dell'efficacia narrativa. Devo però aggiungere che in un contesto da buttare si salva il finale davvero bellissimo, che mi ha fatto ricredere sull'autrice. Il finale fantastico non può che venire da un grande talento. Quel campo innevato a fine romanzo con la visione del cervo immobile è bellissima e liberatoria.
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Supereroi contro Hitler
Premio Pulitzer per la narrativa, il libro racconta l'amicizia di due cugini ebrei, uno dei quali fuggito dall'Europa nazista. I due cugini sono legati dalla passione per il fumetto che si trasforma quasi subito in una specie di società commerciale. Alle SS naziste i ragazzi contrappongono le 4 S del sogno americano (superman soldi successo sesso) in una versione addolcita dai forti legami famigliari. L'escapista è una variante di superman, un ibrido superman-Houdinì, un supereroe buono che lotta contro il male e soprattutto contro Hitler. A fine guerra la lotta dell'Escapista e dei suoi ideatoiri contro Hitler diventa la lotta del fumettista contro il mercato che ha girato le spalle al fumetto e ai supereroi. Particolare l'idea che il fumetto è un'arte quando gli ideatori scopiazzano altri fumetti di successo e cercano il consenso del mercato. C'è una certa confusione tra arte e successo di pubblico. Molto bello l'incipit con il numero mozzafiato di Joe nel fiume e il furto del Golem. Curiosa l'idea che il supereroe in calzamaglia debba essere il parto di una mente gay.
Però 800 e passa pagine sono decisamente troppe per un testo del genere tutto sommato lineare e verosimile.
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Attenzione all'orso-coniglio mannaro
Il nuovo romanzo di Lethem è un noir dall'ambientazione originale. La vicenda si svolge in una parte desolata della California con deserti, montagne e chilometri di nulla tra roulotte, capanne e grotte abitate da persone che hanno lasciato la civiltà e si sono riunite in fantomatiche comunità a metà strada tra zen, new age e setta con relative regole rigide e integralismo. L’ambientazione è la cosa più interessante e riuscita della storia che è piacevole e di facile lettura, ma a mio parere non esce dai confini di una letteratura di genere. Di questo autore non riesco a cogliere la decantata originalità.Lo stile è curato, si sente che è un buon lettore, anzi io direi che questo libro si ispira a due autori in particolare: Chandler e la Ferrante. Però, tra i due, è la Ferrante a fare la parte del leone nel senso che anche se il detective selvaggio richiama per i modi poco ortodossi e il moralismo free lance il caro vecchio Marlowe, forse proprio per questo, cioè per distogliere il lettore da un accostamento troppo scontato e difficile da reggere ( Marlowe è Marlowe), l’autore sceglie di parlare con la voce della cliente e non del detective, una donna matura di mezza età, piuttosto colta che richiama per modi e linguaggio l’Elena della Ferrante. In una situazione però più adatta a Marlowe. Al romanzo manca un po’ di spessore psicologico e di empatia per spingersi oltre il genere. La protagonista che fa tanti chilometri per salvare la figlia dell’amica, studentessa universitaria ribelle, poi non le rivolge mezzo pensiero dedicando tutte le sue attenzioni all'investigatore, al suo corpo e ai suoi cani. Ci sono anche alcune incongruenze che l’editor americano avrebbe dovuto eliminare. Se il detective conosceva già Arabella, non si spiega la sua reazione nella scena della buca. Caduta di stile pure la folgorazione lesbo per la ragazza che è del tutto fuori luogo. Ma forse è di moda, dato che simili brutture compaiono anche in altri romanzi contemporanei: centinaia di pagine dedicate al grande amore e folgorazione lesbo (Sally Rooney) che piove nel mezzo della storia dal nulla. Ma a parte la bruttezza di tali parentesi, la conclusione del romanzo di Lethem è inficiata nella sua efficacia proprio da tali digressioni/ folgorazioni che minano l'immagine di detective e cliente come possibili genitori affidatari/ educatori.
Lethem ha anche il gusto dei richiami, delle citazioni, e una certa ironia nei nomi (l’orso Yogi, attenzione pericolosissimo!). Però devo dire che preferisco a lui gli autori che cita anche se in casi come questo ho il dubbio di essermi perso l’opera migliore. L’autore ha una buona dose di ironia che nei dialoghi è più scontata ma viene fuori nel finale. Dopo tante avventure, salvataggi e scopate, dopo aver affrontato orsi di tutti i tipi, deserti, lotte e pericoli vari, il vero pericolo per la narratrice è incastrarsi in una casa con l’amato a pulire cesso e pavimenti per una marea di gente.
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Beautiful e intelligent, beati loro
Una soap scritta bene con personaggi che almeno nelle prime pagine hanno il beneficio di un certo spessore psicologico e dialoghi brillanti ma monocordi. Il romanzo parte bene per non andare da nessuna parte. Io credo che sia l'opera immatura sotto ogni punto di vista di una scrittrice che potrebbe decollare. La scrittura è vivace ma il romanzo è eccessivamente egocentrico e confuso, senza nessuna ricerca, cioè non è un romanzo di formazione, ma scade in un intreccio e in dialoghi da soap. Al posto della formazione c'è una certa autocelebrazione poco appariscente ma lo stesso fastidiosa.
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Come Icaro
Nel suo saggio Recalcati affronta un artista affascinante e unico: Vincent Van Gogh. Nato lo stesso giorno della nascita e morte del fratellino, gli viene dato lo stesso nome del fratello morto. Il nome rappresenta per il nuovo nato una proiezione del desiderio dell’Altro cioè del genitore, una specie di dono simbolico della fata buona al neonato come succede nella favola della Bella Addormentata. Ma nel suo caso l’augurio è infausto, cioè il genitore vorrebbe riavere indietro al posto suo il figlio morto e idealizzato. Da qui la melanconia e il senso di colpa che non nasce dalla castrazione del desiderio di godimento ma da un senso di inadeguatezza ben comprensibile e insuperabile. La risposta a questo stato di disagio psichico può essere di diverso tipo. Esiste il rimedio immaginario, abbastanza pericoloso, che consiste nella identificazione con altre persone, per esempio con il fratello Teo, e che consiste in una relazione sbilanciata e simbiotica in cui l’uno è il prolungamento dell’altro, l’uno rispecchia l’altro. Questo introduce un disequilibrio nella relazione in cui l’uno fatica a vedere l’altro. Vincent vorrebbe che il fratello Teo si buttasse nell’arte come lui, e mal tollera il suo matrimonio e la nascita del figlio (ahimè, un altro Vincent): le due cose matrimonio e Vincent III scatenano in lui una crisi psicotica. Van Gogh tende a stabilire relazioni di questo tipo: con il fratello, con le donne e con gli amici (Gaugin), relazioni sbilanciate e pericolose.
Altro rimedio sano alla melanconia è quello simbolico che rafforza l’identità barcollante del soggetto e che consiste nella realizzazione professionale e vocazionale.
La terza compensazione, possibile solo dopo l’attacco psicotico, è invece la metafora delirante, cioè il tentativo di ridare un senso al vissuto che però diventa un senso del tutto soggettivo e irrimediabilmente disconnesso dalla realtà.
Per quanto riguarda il rimedio sano, cioè quello simbolico, oltre alla realizzazione professionale come artista consiste anche nel tentativo di Van Gogh di fare il predicatore e nel suo tuffarsi in una religiosità che non è formale e dogmatica ma punta alla follia della figura di Cristo e ha come simbolo la croce. E’ una religiosità assoluta e spiazzante (inassimilabile a quella della società borghese e benpensante), una religiosità così come la intendeva anche Kierkegaard. Della figura di Cristo lui coglie più che la vittoria (ovvero la Resurrezione), l’abbassamento dalla sua divinità e la rinuncia, cioè l’incarnazione e lo spossessamento di ogni bene, il farsi povero tra i derelitti. Van Gogh persegue una imitazione di Cristo. Nel Vangelo all’oggetto di scarto è dato un altissimo valore in quanto soprattutto i diseredati e gli emarginati entrano in autentica comunione con Cristo. Su questa strada, la melanconia di Van Gogh da passiva (essere relegato al ruolo di oggetto di scarto) si fa attiva (è lui a occuparsi di oggetti di scarto, cioè si fa predicatore tra i minatori). La spinta mistica viene poi trasferita al campo artistico nel senso che la sua arte è sempre una ricerca di infinito e l’amore resta per lui la calamita. La sua è un’arte sacra in senso lato, oltre che una ricerca di penetrazione nel mistero del dolore della vita e del suo non senso. La sua arte come la sua religiosità trova nella compensazione simbolica una estrema forza e una grande libertà per l’assoluta mancanza di vincoli con la tradizione e la maniera. In lui la scelta per la pittura e la scelta per la follia (della croce) tendono a coincidere. Essere pittore (come essere cristiano) implica un senso di indignazione etica e il contrasto con le accademie e tutto ciò che è commerciale. Essere artista non comporta per lui come per Joyce l’essere artefice del proprio Nome ma uno totale sradicamento dalla tradizione del Padre e dalla società oltre che dalla cultura dominante. Quindi non lo porta a imporre il suo Nome ma a una identificazione melanconica attiva, cioè a scegliere se stesso come scarto: in questo la sua arte ha una forza straordinaria. Questa forza non è di tipo narcisistico di autoproclamazione ma è più simile a una preghiera. L’arte è un appello al mistero, un ponte verso l’esperienza religiosa. Per questo in un certo senso l’arte viene meno alla sua funzione di rimedio simbolico alla psicosi, precipitando Van Gogh nella psicosi, dato che lo avvicina troppo al dolore del mondo e al mistero della sofferenza in una tensione alla fine insopportabile. Van Gogh è il creatore che si consuma nell’opera. Le sue opere danno proprio l’idea di un avvicinarsi alla luce e al calore (dunque al colore) senza filtri proprio come Icaro. E’ un avvicinamento quasi mistico, una spinta religiosa. Basti pensare alla pietà dell’89 in cui Vincent presta il suo volto al Cristo morto.
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L'abbandono
Recalcati ha scritto un saggio sul tema dell'abbandono, dell'abbandono più doloroso che è il tradimento di un amico caro. Parte dalla notte di Gesù nel Getsemani per prendere in considerazione il tradimento di Giuda, degli apostoli e di Dio (nel senso di silenzio assoluto). Il tradimento di Giuda ha la connotazione di un transfert negativo, per mancata adesione di Gesù all'ideale narcisistico di Giuda. L'interpretazione è molto interessante. Giuda sarebbe stato un politico, uno che voleva risolvere alcuni problemi sociali come la povertà, incapace di mettersi nella testa altrui per modificare la sua idea iniziale. In un certo senso è il rischio della Chiesa nel momento in cui si propone di affrontare temi sociali importanti, in modo umano, mettendo da parte la preghiera e togliendo dal suo centro Dio, il rischio di tradire Dio pur facendo cose buone. Credo che questa interpretazione di Giuda sia molto calzante e anche corretta. Infatti il tradimento per denaro non avrebbe senso dato che i soldi in oggetto erano così pochi. Invece il tradimento come risposta al presunto tradimento dell'altro sarebbe comprensbile. Il traditore Giuda non riconosce l'eredità del maestro, nè si sente in debito con il maestro che secondo lui ha tradito la missione per raccogliere omaggi preziosi indebiti (l'olio della Maddalena).
Diverso il tradimento di Pietro e degli apostoli dovuto a debolezza umana, e forse all'effetto spiazzante di vedere Gesù Lui stesso alle prese con un momento di umana debolezza, angosciato e bisognoso del Padre che evidentemente non risponde. Infine, Dio, assente e silenzioso. La vera Fede si prova infatti nel silenzio più duro, senza rassicurazioni e senza sconti . In quel silenzio implacabile, Gesù accetta con decisione la prova, pur senza nessun incoraggiamento a farlo da Dio che resta silenzioso.
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Il passero che cammina
Il mio primo impatto con Mo Yan è stato traumatizzante. Di lui colpisce lo stile del grande scrittore al servizio di un contenuto sgradevole e difficilmente comprensibile. Il testo allucinato e onirico fa sì che non si possa raccontare una trama anche perché la oggettività dei fatti viene continuamente messa in discussione, ragion per cui lo stesso episodio viene riferito più volte in modo ossessivo e volutamente contraddittorio, ma questo è il meno. Infatti anche l’identità dei personaggi è mutevole. E’ come se ci fosse un deus ex machina, un io narrante superumano che diventa di volta in volta ogni personaggio oppure, a sua scelta, resta al di fuori della storia come narratore. Il libro ha un incipit bellissimo che ho dovuto rileggere 5 volte prima di rassegnarmi a capire di non averci capito nulla, in cui il narratore, una specie di mostro in gabbia mangiatore di gessetti, racconta a un pubblico di studenti, la storia di un professore di fisica morto durante una lezione sulla bomba atomica. Ma poi il professore ha un sosia, forse, in alcune versioni della storia suo gemello, e comunque suo vicino di casa, anche lui con una moglie e due figli in perfetta e non casuale simmetria. Il professore morto viene rimpiazzato dal sosia benché non sia veramente morto, oppure è morto e risorto, oppure il professore è oltre che se stesso anche il sosia e forse pure il narratore e magari in alcune versioni anche sua moglie e in altre versioni ancora anche qualcuno dei suoi amanti. La realtà è dunque onirica e magmatica, ma molto magmatica. L’incipit con il mostro in gabbia mi è piaciuto moltissimo, ma poi la lettura si fa ardua sia per l’inesistenza di una trama stabile, sia per la sgradevolezza estrema del contenuto. La moglie del primo professore di fisica scuoia conigli, la moglie del secondo professore di fisica lavora in un obitorio come truccatrice di cadaveri. Più che truccatrice è una chirurga plastica di cadaveri, con tanto di descrizioni di estrazioni di grasso adiposo e di visceri di cadavere che vi raccomando. Dunque, scuoia esseri umani.
Anche se Mo Yan è stato accusato di essere allineato al regime comunista cinese, il romanzo contiene una evidente critica sia a Marx che alla società cinese con gli insegnanti, quindi gli intellettuali, che muoiono di fame (mangiano gessetti) e i burocrati del partito che accumulano adipe e si servono a man bassa delle donne proletarie salvo poi mascherare questa condizione di evidente disparità sociale e prepotenza con operazioni di chirurgia plastica post mortem. C’è una falsità sociale diffusa. La giustizia e l’uguaglianza comunista si realizzano, sì, ma solo dopo la morte dato che i conigli scuoiati, così come i morti, contadini o dirigenti che siano, sono tutti uguali. L’obitorio è l’altare dove si realizza l’uguaglianza vera al di là di ogni finzione propagandistica. Io credo che se Mo Yan non ha avuto problemi con la censura è perché nessuno dei suoi papabili censori ha mai letto un suo libro o leggendolo ci ha capito qualcosa.
In ogni caso, il mondo di Mo Yan è terribile. C’è solo materia, materia in decomposizione, materia che sopravvive alla sua morte ma questa sopravvivenza ha qualcosa di mostruoso. E’ come se la materia potesse eternizzarsi, divinizzarsi, perdendo però ogni umanità. Il personaggio nella gabbia dello zoo che compare nell’incipit e che, con il senno di poi, dovrebbe essere uno dei due professori di fisica, è una figura mostruosa, con quegli occhi che mandano bagliori verdi, gli stessi occhi del professore di fisica resuscitato. Il verde ha un significato in genere di rinascita, ma qui è anche e soprattutto legato alla marcescenza cadaverica, per cui è una rinascita ma in una condizione solo materica. I personaggi del romanzo non hanno umanità solo istinti. L’amore è citato nel romanzo come idea, nel senso che, come nei romanzi di Marquez, che solo in questo gli assomiglia, i personaggi hanno istinti e mai affetti. Gli affetti muovono gli istinti o sono istinto mascherato. L’unico affetto autentico è quello della scimmia per il figlio. L’uomo ha un cervello (anche se non superiore a quello della scimmia) che usa solo per fare i suoi interessi perseguendo istinti o necessità materiali. In un certo senso c’è pure una idea di cannibalismo senza sacrificio, che porta a una maggiore materialità e bestialità dell’uomo, all’opposto di quello della religione cristiana. Questa carne che mangiano tutti, che a volte è di animali, carne cruda, carne che ho sospettato venisse anche dall’obitorio, rende l’uomo una bestia più delle bestie dello zoo. Allo stesso tempo ogni personaggio è lo stesso personaggio. Forse per questo alla disuguaglianza sociale si contrappone una gemellanza morale che rende ogni personaggio simile a tutti gli altri nell’essere una bestia in gabbia, la stessa bestia. Il romanzo esprime un materialismo asfissiante. Io credo che ci sia un’esigenza di amore o di spirito in tutto questo. L’amore è citato alcune volte dai personaggi sempre per dire che però l’amore è un’altra cosa, rispetto alle relazioni che vivono. L’amore è come un vago ricordo, ma molto più remoto e inafferrabile e lontano di un vago ricordo. E’ qualcosa come i baffi verdi della moglie del professore di fisica (quello vivo), qualcosa che pare di un altro mondo. Gli uomini sono come la tigre e il leone e generano figli più feroci di loro. Non per niente la tigre e il leone sono una coppia con due figli, simmetrica anch’essa a quella formata da ogni professore di fisica e consorte. E il guardiano dello zoo che ha quegli occhi con pericolosi bagliori verdi e commercia carne umana che scambia con altra carne di animali, sembra una immagine speculare e opposta del Dio cristiano. Per poi sovrapporsi all’immagine del professore di fisica e del narratore dentro la gabbia, mangiatore di gessetti, che non si capisce bene se crei la storia o ne sia attore o tutte e due le cose insieme, un po’ come nella religione cristiana la figura di Cristo ma capovolta e speculare. Il professore è tornato vivo in una resurrezione della materia divinizzata senza però anima, perciò ingabbiata in una eterna schiavitù che alla fine ingloba anche il lettore. Le descrizioni, quelle non di cadaveri, per esempio il temporale che c’è a pagina 300, sono bellissime e il finale è meraviglioso. Il libro data l’inesistenza della storia e la forza delle immagini è quasi fatto per immagini. Ciò non toglie che la lettura sia pesantissima.
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Consolatorio
Una storia piacevole e consolatoria come tutti i libri in cui buoni e cattivi sono facilmente identificabili. Credo che molte lettrici si siano trovate nei panni della protagonista o ci siano ora, perciò una storia così incoraggiante può essere anche benefica oltre che piacevole. Naturalmente la letteratura con la L maiuscola richiede minori semplificazioni morali, però un libro come questo è come una pallina di zucchero, con un effetto placebo. La storia è scorrevole e accattivante, lo stile non mi ha colpito. Non so se gli altri libri dell'autrice sono migliori.
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Il nome del gladiolo
Lettura scorrevole, ma non aspettatevi un giallo impegnativo. I dialoghi sono frizzanti e il finale, cioè le ultime righe sono decisamente la trovata migliore. Unamuno avrebbe approvato il finale. Il libro cita così spesso il nome della rosa che un ispettore di polizia potrebbe sospettare che Eco abbia commissionato la stesura del romanzo per poter vendere il suo.
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Ipocrisia
Ho trovato questo libro commovente. E' scritto con un linguaggio semplice che potrebbe far pensare a eccessiva semplicità intellettuale dello scrittore. In realtà si tratta di semplicità di cuore, di mancanza di doppiezza, di ipocrisia, di un candore non intaccato dagli anni e dalle sofferenze. Il libro è bellissimo, sia per il modo di affrontare il processo e le accuse non solo ingiuste ma soprattutto ipocrite, sia per lo sguardo dell'autore sul mondo, per il suo spirito quasi francescano e religioso, anche se non di quella religiosità gesuitica che si pratica negli ospedali psichiatrici. Hamsun ha una delicatezza nel sentire che diventa delicatezza nello scrivere e sguardo innocente e penetrante, pieno di saggezza. Non è lo sguardo di una persona che sa poco, e alcune pagine e citazioni lo dimostrano. Io credo che il suo discorso al processo in cui rinuncia a produrre una difesa efficace la quale difesa rimanda ad altro giudice, avrebbe dovuto fare sprofondare nella vergogna giudici, medici e tutta la Norvegia.
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Adieu Aciman
Lo stile curato copre, si fa per dire, l'assoluta mancanza di contenuto. Il libro vorrebbe raccontare l'amicizia tra un taxista arabo e uno studente ebreo, ma dell'amicizia non c'è traccia. Il romanzo descrive con studiata ma insopportabile lentezza una successione senza speranza di scopate, tradimenti, scodinzolamenti alla corte dei docenti di Harvard fino all'agognata inclusione nella boriosa elite. Non manca il tradimento di Giuda dell'inesistente amicizia. Forse Aciman voleva scrivere un testo proustiano e commerciale allo stesso tempo. Un autore che non sa dove sia l'interiorità , ma non sa di non saperlo, decisamente da evitare.
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Il mondo blu
Una scrittrice particolare, sicuramente talentuosa e interessante. I racconti non son tutti dello stesso livello. Il primo della raccolta è bellissimo, abbagiante sia per l'idea sia per le descrizioni: il faro, il blu, la ragazza-angelo.... Il posto dove è ambientato è un mondo sospeso, una specie di limbo lontano dalla terraferma, illuminato da un faro, dove ogni cosa diventa blu: bellissimo questo posto. Le persone che ci vivono, i guardiani, hanno caratteristiche di angeli, ma anche di demoni. Sono custodi non si capisce bene di cosa, sempre di guardia, e allo stesso tempo sono soggetti a invidie terribili, come se il posto fosse necessario al mondo, ma maledetto per chi vi abita. Di questo racconto sono belli l'idea e i colori. Ammetto di avere letto gli altri della raccolta con una certa delusione dopo di questo. Comunque anche altri non sono male, per esempio la lettera finale, o anche Panico. I temi sono vari e in parte contengono allusioni metafisiche a realtà diverse: il faro con i suoi custodi, l'angelo, la miniera, il padre... ma la visione della Cardoso non è religiosa nè tranquilla, anzi certe immagini sono decisamente crudeli ad esempio la gallina, la gamba del neonato, la madre che sceglie tra i due figli come sceglie quale gallina sacrificare, il gobbo che canta solo quando è triste e così via. Più che storie d'amore le sue sono storie sulla cattiveria umana, sul lato oscuro dell'uomo o della vita (la corriera che va verso il ponte). Perciò il titolo della raccolta dà un tocco ulteriore di cinismo al contenuto già abbastanza velenoso.
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L'albero delle cornacchie
In realtà il libro della Berlin è una autobiografia fatta di racconti in cui Lucia ci parla di sè senza seguire un ordine cronologico, anzi all’inizio nemmeno si capisce che ci parla di sè. I racconti sono quasi tutti bellissimi, i due che mi sono piaciuti meno sono due racconti lunghi in cui l’io narrante cambia a racconto in corso e io li ho trovati un po’ confusionari. Ma in generale, tutti i racconti sono molto belli, sinceri, ironici, impietosi. Gli argomenti sono tanti e coincidono con i capitoli principali della sua vita. Giganteggia la malattia della sorella, l’alcolismo, la scogliosi e l’infanzia rovinata dall’alcolismo di madre e nonno. L’alcolismo è descritto con due facce: quella terribile della madre e del nonno, capaci di ogni crudeltà, e quella più umana dello zio John o quasi divertente delle sue vicende personali. In alcuni racconti non sembra nemmeno che l’alcolismo estremo a cui si è spinta, sia stato per lei un problema grave. Si intuisce però che lei, per quanto impietosamente sincera, non voglia considerare a fondo cosa abbia significato il suo problema per i figli. Poi ci sono i mariti, i lavori, gli amori. Ma tutti vanno e vengono e le persone stabili nei suoi affetti sono il padre, lo zio John, ma soprattutto la sorella Sally, dolce e fragile, cui si riavvicina per la malattia di lei. La raccolta sembra un omaggio a Sally con il penultimo racconto che avrebbe anche potuto chiudere la raccolta con quel tocco di tenera nostalgia che è bellissimo. Ma per un eccesso di lucidità e di ricerca di sincerità, lei ci presenta se stessa alla fine della sua vita: sola, abbandonata da tutti, in silenzio davanti all’albero delle cornacchie che forse sono i racconti che ha scritto che suggeriscono ma non dicono tutto e quello che non dicono lo possiamo dedurre dal fatto che lei ora sia sola e malata, senza nessuno che corre a aiutarla, come lei stessa fece a suo tempo per Sally. La vita di Lucia descrive un cerchio concentrico, si apre e si chiude allo stesso modo, con la sua disperata solitudine, come se per tutto il tempo non avesse fatto altro che trovare un modo per rientrare nei panni della bambina sola disprezzata dalle amiche e mal vestita che era. Le cornacchie che lei guarda seduta con la bombola dell’ossigeno dalla veranda sono i rimpianti, i cattivi pensieri, i rimorsi tardivi e pericolosi. Tutti insieme se ne stanno come fantasmi presenti ma senza parole, perciò nei suoi racconti non parlano. I racconti sono vivaci, allegri, brillanti, anche malinconici. Ma in genere sulle sue scelte personali predilige il tono brillante e la tristezza è accesa da madre e nonno e dai loro comportamenti e scelte. Ma l’ultimo racconto suggerisce appunto quello che è nascosto tra le pagine.
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Ricostruzione storica
Anche Augias si lascia affascinare da Gesù personaggio storico e si avventura nella ricostruzione della sua vicenda limitandosi alle ultime 18 ore, dunque concentrandsi sul processo. Augias si avvale delle testimonianze di storici, dei Vangeli di tutti i tipi canonici e non, delle informazioni disponibili a proposito dei personaggi (Pilato) e dei processi a quel tempo. La ricostruzione di dialoghi e vicende è poco vivace, nel senso che non riesce a rendere viva la carta stampata. Quanto a profondità, credo che papa Benedetto possa dire la sua su come si potrebbe scrivere un testo del genere (e non solo dal punto di vista religioso) per la sua straordinaria capacità di tirar fuori dettagli e informazioni da minimi particolari che il comune mortale non noterebbe. Ad Augias, come a qualunque comune mortale, manca questa capacità, non lo studio delle testimonianze. E si intuisce che lui pure è rimasto affascinato, come Pilato, da Gesù chiunque egli sia. Pilato è la figura che ha sviscerato meglio e in cui forse si è più rispecchiato dato che osserva Gesù con l'occhio del non credente e della persona di buon senso (magari debole) estranea a invidie e gelosie farisaiche.
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Il furto
Una coppia borghese, lui pedante avvocato, lei moglie dell'avvocato, subisce un furto particolare: l'appartamento viene svuotato di tutto, comprese lampadine, carta igienica ecc... L'incipit è folgorante, brillante e piacevolissimo. Dopo le prime pagine il racconto perde di tensione e di interesse. L'incipit molto divertente è senza dubbio la cosa migliore. Il furto di oggetti serve a togliere la maschera alla coppia, cioè l'arredamento è come la facciata che nasconde quello che c'è sotto.
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L'orso polare
In effetti questo libro può piacere molto, specie a chi cerca una bella storia edificante che ti riconcili con la vita. A me è sembrato troppo zuccherato, anche se è scritto bene. Parla di abbandoni e delle ragioni del cuore. Il cuore ha sempre ragione mentre la rabbia e il desiderio di vendetta di chi si sente abbandonato (il padre di Michele) trovano minor comprensione. Il libro va alla ricerca dell'orso bianco che è come la balena bianca. Pare un mito, un'illusione, invece forse esiste l'amore vero ed eterno.
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Il desiderio del Padre
Il complesso di Telemaco è un libro che spiega la disfunzionalità della nostra società con la mancanza del padre, che è anche mancanza del Padre, dunque mancanza di quel limite posto al godimento sfrenato (cui l’animale uomo tende) sancito dalla legge di castrazione o della parola, cioè dalla consapevolezza dell’esistenza dell’Altro.Il limite autoimposto sottrae parte del piacere ma conferisce umanità. Le conseguenze sociali del fatto che la legge del godimento non sia più controbilanciata dalla legge di castrazione o della parola, sono state illustrate nel film di Pasolini Salò, spesso frainteso come rappresentazione delle personali fantasie morbose dell’autore. Recalcati chiama a volte la legge della parola anche legge del desiderio dove con desiderio intende qualcosa di diverso ovviamente dal godimento, in quanto il desiderio comporta amore e sacrificio, anzi è il Desiderio che vale ogni sacrificio. Credo che il desiderio sia l’amore o il desiderio dell’amore nel senso più puro e assoluto. Ora la società di oggi nega la legge della parola o del desiderio che sia, come nega il fatto che esista qualcosa di così desiderabile da sacrificare ad esso il proprio godimento. Dal punto di vista sociale c’è quindi una rinuncia alla auto-limitazione della libertà di godimento, che porta a una umanità disumanizzata e comporta una forte pulsione di morte in un contesto di apparente libertà. Recacati chiama questa situazione particolare “la festa della notte dei Proci”.
Diventa in questo contesto difficile se non impossibile l’esperienza dell’amore adulto che è sempre un amare l’altro come altro, non come una proprietà. Invece, è difficilmente riconoscibile il male che è qualcosa che sta dentro l’uomo. Il male viene frainteso come qualcosa che viene da fuori, creando impedimento al piacere. Infatti, la perdita della legge della parola fa perdere anche il discernimento su se stessi.
Con la crisi della legge della parola non può non essere in crisi il ruolo del genitore. Se in passato il peggior genitore era quello che pensava di incarnare la legge della parola dicendo l’ultima parola, oggi il peggior genitore è il genitore che si sente figlio, narcisista e infantile. Molto bella l’idea di Recalcati che il genitore debba essere come Abramo quando sacrifica Isacco. Deve saper riconoscere che c’è una legge al di sopra di lui e deve non possedere i figli ma saperli affidare al deserto.
Certo, la condizione di mancanza del padre o di latitanza del Padre può essere una condizione positiva e piena di spinte creative, come lo fu per Leonardo da Vinci, non riconosciuto dal padre e cresciuto da due donne. La condizione di orfano è infatti la vera condizione di erede, di colui che è privo di qualcosa, dunque bisognoso. E comunque in mancanza di un padre, tutti però abbiamo un Padre, materialmente assente la cui presenza e il cui ritorno possiamo desiderare.
Recalcati dice infatti che ora siamo nell’epoca di Telemaco. Io credo che intenda dire che siamo nell’epoca dei Proci, del godimento mortifero e sfrenato ragion per cui chi si levi contro questo modo di vivere ponendosi a difesa della legge della parola diventa come Telemaco. Forse intende persino dire che per rinunciare al godimento mortifero bisogna avere un desiderio più grande che può essere un amore, una fiducia nell’amore che spesso ha una radice religiosa-cristiana di forte attaccamento al Padre. Il padre di Telemaco è una figura cristologica. Telemaco fa esistere il padre lottando per il suo nome, come Cristo fa esistere il Padre dando la vita per il Suo nome, mentre Edipo e Narciso sono due senza nome. Anche la lettura di Ulisse di Recalcati è la più bella che mi sia capitata. Ulisse cede a fondo perduto qualcosa di incomparabile (l’immortalità promessa da Calipso) in nome della legge della parola cioè per il desiderio di riabbracciare la famiglia. Come Ulisse pone a rischio tutto per amore, anche Telemaco per poter ricevere l’eredità paterna deve uscire a cercarlo, desiderare l’incontro con lui e rischiare la vita per quell’incontro. Bisogna saper rinunciare alla sirena del godimento mortale e credere alla possibilità di Altro godimento, di una resurrezione dentro questa stessa vita per diventare eredi di un padre e del Padre. Il pensiero di Recalcati ha una forte matrice cristiana.
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Maledizione famigliare
Il romanzo è meno bello degli altri di Istrati. Però, finora non ho trovato nessun libro dell'autore che fosse scialbo, banale, la cui lettura fosse tempo perso. La storia sa di vita, racconta di una famiglia ebrea "maledetta". La maledizione consiste nella separazione dei vari membri tra loro secondo un destino di frustrazione e di solitudine, ma anche di ricerca di verità. Figli e genitori sono molto legati anche se non vivono insieme, sono brave persone le cui aspirazioni non si realizzano (carriera, matrimoni e cose del genere). Però trovano amici fidati e fanno un cammino di crescita personale e di fede, un cammino sempre accompagnato da sofferenza. Il destino della famiglia rispecchia quello di espiazione e ricerca di tutto il popolo ebraico. La maledizione non va intesa nel senso di sfortuna ma come spiegava Simone Weil, è simile al destino di Cristo.
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All'arrembaggio!
I primi racconti/capitoli, quelli cha parlano di Sofia bambina sono bellissimi e credo che siano tra i migliori racconti che mi è capitato di leggere negli ultimi tempi. Sofia irrompe originalissima e rende piacevole e solare ogni cosa. Poi arriva il nero che più che altro è un viola, colore della nostalgia più malinconica che Sofia lascia come marchio dietro di sè nelle persone che incontra: uomini, genitori, amiche. Quando a Sofia si sostituisce la nostalgia di Sofia o comunque quando il mondo degli adulti avanza sulle fantasie infantili/adolescenziali la scrittura si appesantisce e perde di freschezza. Anche i pensieri degli adulti, le loro azioni e ossessioni sono più prevedibili per quanto Cognetti riesca a schivare sempre la gretta banalità. Solo che i primi racconti erano così belli che il lettore non apprezza il cambio di tono, la virata nell'età adulta. Sarebbe stato bello non fare crescere Sofia.
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Più intelligente che bella
La storia di Penelope è stata riscritta in modo molto carino, soprattutto nella prima parte del libro. Dopo la partenza di Ulisse, la storia diventa meno originale, nonostante le trovate. Anche il coro non mi ha entusiasmato. Ma la prima metà del romanzo è molto convincente, fresca e offre una versione di Penelope tenera e un Ulisse credibile e affascinante. Certo la proverbiale intelligenza di Penelope ci perde nella versione della Atwood. Di lei si può dire che era più intelligente che bella e bella lo era molto poco. Forse era una brava persona, ma soprattutto per mancanza di opportunità. Il problema è che calcare certi luoghi comuni come l'Elena bella e seducente e la Penelope brutta e piagnona poi rende i personaggi troppo caricaturali.Comunque, nella prima parte si sente solo la freschezza della narrazione e la lettura è piacevole. Non mi hanno convinto nemmeno i discorsi dei proci e i resoconti da osteria delle avventure di Ulisse. L'idea non era brutta, ma andava pensata meglio e resa in modo più originale. Anche il rapporto d'amore tra la famosa coppia appare basato soprrattutto sulla mancanza di alternative per Penelope. In epoca post Guttenberg la lingua lunga di Ulisse non avrebbe compensato le sue gambe corte e la tendenza a non tornare a casa.
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70thriller30altro
Trevor scrive benissimo, i personaggi sono sfaccettati e ben delineati come in un buon romanzo non di genere. La storia ha un incipit piacevole, con la solita ragazzina di provincia bella ma che non sa di esserlo, che si innamora di un compaesano che lavora in Inghilterra. Dato che siamo in Irlanda, ovvio che chiunque lavori in Inghilterra specie se nell'esercito, è guardato come un traditore della patria. Ovvio che il ragazzo non dica di lavorare nell'esercito ma inventi un impiego da qualche altra parte. Felicia, innamorata e incinta, parte per ritrovare il ragazzo ma... Da qui inizia la storia che è al 70% un thriller, ma che è troppo ben scritta per essere solo un thriller. Trevor avrebbe potuto spingersi oltre lasciando ancora di più il sentiero sicuro del thriller mozzafiato. E' comunque un libro in cui non ci sono buoni e cattivi. Il ragazzo amato da Felicia sparisce senza preoccuparsi di eventuali conseguenze del loro rapporto e non le lascia modo di contattarlo. Invece il maniaco che si occupa di lei ha anche tratti teneri e infantili, il suo rapporto con la madre induce il lettore alla compassione. Resta meno freddo dell'altro, protetto da una madre schierata al suo fianco senza esitazioni. In un certo senso la persona che ama di più non è quella che più è gradita all'amata, ma quella che più si sacrifica per lei, che rinuncia a parte del suo piacere o interesse. Per questo il finale è giusto, nel senso che un amore così strano deve incidere nella vita dell'amata qualcosa all'altezza di tanta sofferta originalità. Il finale è decisamente buono.
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Bisogno di assoluto
La ballata di Adam Henry è la storia di un giudice che deve decidere su alcuni casi che coinvolgono principi morali. Per esempio, la separazione di gemelli siamesi che implicherebbe la morte di uno dei bambini o di entrambi, la trasfusione a un minore (17 anni) testimone di Geova contro il parere della famiglia per salvargli la vita. In queste questioni non è mai chiaro dove stia il bene o il male, nel senso che la linea di confine presenta ambiguità e contraddizioni. Il giudice poi sbaglia inevitabilmente, nel senso che non è onnisciente e comunque non può avere grandezza d’animo o empatia o intelligenza necessari per poter discernere perfettamente. Il giudice non è Dio, occupa impropriamente un ruolo che non gli compete. E quando sbaglia-vengono raccontati casi emblematici- la vita dell’imputato può essere distrutta o compromessa tragicamente. Nel caso in questione, quello del testimone di Geova, la giudice si pronuncia a favore della trasfusione facendo contenti tutti, genitori e ragazzo, mettendo in luce i limiti della fede di quella famiglia e le debolezze della comunità. Ma poi rifiuta il ruolo che si è in un certo senso assunta di vice di Dio perchè non ha la capacità di amore di cui il ragazzo avrebbe bisogno, che è proprio quella assoluta di Dio. Perciò la sua mano tesa risulta una mano atrofica. Atrofico è anche il rapporto della giudice con il marito. Questa insufficienza nei rapporti umani (di Fiona rispetto al ragazzo e del marito rispetto a Fiona) è percepita dall’altro come un tradimento e accostata al bacio di Giuda. Nel senso che la mano tesa è il bacio, il bacio contiene una promessa, ma la incapacità umana a far fede alla promessa è in sé un tradimento della promessa fatta. Al bisogno di assoluto altrui l’uomo non può che dare una risposta imperfetta creando vane aspettative e illusioni, prendendo dunque il ruolo di Satana e non di Dio. Dunque, l’uomo non può dare all’uomo che una calda ipocrisia come un rapporto matrimoniale sicuro e affettuoso ma poco intenso o una partecipazione gentile ma distaccata e mancante di comprensione. Il finale resta aperto sulla prospettiva di vita nuova aperta dal giudice al ragazzo con la sua sentenza e la incapacità effettiva di sostituire la religione con qualcosa di umanamente altrettanto assoluto e bello. “Tutta la vita e l’amore che il ragazzo ha davanti” citati nella sentenza si riducono a poca cosa se questo amore non è totale e totalizzante e non comporta un rischio da correre per l’altro. Io ho trovato l’argomento del libro molto interessante.
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MA è tutto vero?
All'inizio il libro è la solita agghiacciante testimonianza di un reduce dai campi di sterminio della Germania nazista. Il protagonista- il romanzo è autobiografico- è un ragazzino ebreo ungherese di 14 anni. Mentre sta andando a lavorare come al solito con altri coetanei ebrei, viene fatto scendere dall'autobus dalla polizia ungherese assieme agli altri ragazzini ebrei. Il poliziotto sembra avere simpatia per loro e tutto sembra un gioco. Mentre sono in stato di fermo, gli viene offerto molto gentilemente e come opportunità di andare volontari in Germania a fare un lavoro molto ben retribuito. In molti partono sperando in quel "trattamento migliore" promesso. Il treno fa prima tappa ad Aushwilz dove persone poco raccomandabili con vestito a righe, con facce adunche da ebrei, in una lingua strana fanno capire ai ragazzini (ce ne sono parecchi) che non devono mai dire di avere 15 o peggio 14 anni ma almeno 16. Il protagonista ne dichiara 16 e così può proseguire la sua permanenza ad Aushwitz e poi in altri campi. Nel libro c'è un confronto tra campi per abitudini di sterminio e razioni alimentari. Fin qui, abbiamo il solito toccante racconto fatto anche da altri. All'inizio il lettore vede le cose con gli occhi del ragazzino che sono un po' ottusi e faticano a capire e vedere il male intorno a sè. Poi, fame e fatica e la persucuzione di un carceriere hanno la meglio, il ragazzo si lascia andare, perde la voglia di vivere e la forza fisica e la malattia ha il sopravvento. Da qui inizia una testimonianza incredibile, surreale eppure, credo, reale:l'esperienza della solidarietà e della bontà nel lager. Solidarietà che viene non solo dai compagni, il che in quelle condizioni di vita non doveva essere comune, ma da parte di personale del lager come medici, ad esempio, tedeschi.
E comunque la presenza in un campo di un'oasi con letti veri e trapunte colorate ha dell'incredibile. Come il fatto che gente che ha fatto un credo politico dello sterminio di massa poi abbia permesso ad alcuni dei suoi di adoperarsi per curare chi andava sterminato. Insomma quelle imbottite colorate che compaiono nel lager su letti veri sono come delle farfalle in volo su una distesa di neve. Ancora non mi capacito di questo libro. Comunque credo proprio che la storia sia vera. Anche il finale mi è piaciuto per il senso di orgoglio e la consapevolezza che la discesa all'inferno dei lager ha dato, a chi l'ha vissuta, una possibilità di comprensione del reale che manca a tutti gli altri. Questa capacità di penetrazione profonda e ampia contrasta con la visione "debole" del ragazzino dell'inizio del romanzo quando lui sembrava non capire nulla del mondo e del male che aveva intorno a sè.
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Crescete e moltiplicatevi
Eliot, il Grisù dei miliardari, è,come l’altro Grisù, affascinato dal mestiere di pompiere, ma nutre anche l’ambizione di incenerire l’immenso patrimonio famigliare. Tra crisi di samarotrofismo ovvero samaratofismo (atrofia progressiva della compassione e dell'altruismo) della povera moglie Sylvia che non ne può più di poveri e beneficenze, Eliot oscilla tra il rischio della stessa patologia psichiatrica e quello della malattia opposta, una folle generosità. Per paura che incappi nella patologia opposta, il povero (si fa per dire) Eliot viene perseguito dall'astuto avvocato di famiglia (senza scrupoli come ogni avvocato che si rispetti). L'avvocato deve infatti la sua fortuna al parassitismo del capitale famigliare e cerca quindi di fare interdire il pericoloso Grisù-Eliot in modo da estrometterlo dalla gestione della immensa fortuna. Ma Eliot per quanto un po’ matto, è anche geniale e troverà una soluzione incredibile e bellissima al problema (come Kurt al libro).
Il romanzo è originale, brillante e molto simpatico e affronta problemi seri come la giustizia sociale, l’uguaglianza e la fratellanza in modo assolutamente irriverente.
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La spada di ghiaccio
Romanzo d’esordio di Bolano, veramente bellissimo. E’ stato classificato come thriller ma non è naturalmente un giallo classico, forse nemmeno un giallo. E’ una cosa inclassificabile, originalissima, forse più romanzo sentimentale che giallo, ma sentimentale senza zucchero, anzi con un po’ d’aceto. Anche se nella narrazione si intrecciano più voci, più storie d’amore o quasi, la voce più interessante è senza dubbio quella del geniale e arrivista Enric Rosquelles, uomo in carriera, poliedrico, pieno di interessi e tutto cervello. E’ bellissima perché Bolano rende la sua voce particolarmente brillante, geniale, scafata in tutto, ma del tutto innocente e idealista in amore fino al limite massimo consentito. Fino a voler vivere una storia d’amore senza mai viverla, facendola muovere come in una pista di ghiaccio nel territorio dell’idea e del sogno in modo da renderla atemporale, forse eterna. Come un filo che si tende al massimo e poi… vedrete voi la fine. La storia sembra non avere nessuna possibilità. Enric è un uomo grasso e poco dotato fisicamente mentre Nuria, campionessa nazionale di pattinaggio, è bellissima. Per qualche oscura ragione Nuria viene esclusa dalla sua squadra e privata della borsa di studio per lo sport, ragion per cui non potrebbe più allenarsi non essendoci una pista in città. Enric, per poter passare del tempo con la ragazza, costruisce una pista di pattinaggio nella villa abbandonata e in rovina di Benvingut dirottando i fondi del comune. La descrizione della pista e della villa sono bellissime come pure tutti i sogni che riguardano il pattinaggio. L’immagine di Enric che sogna di pattinare come Nuria e le immagini legate ai sogni sono incredibili. Anche la pista è un luogo suggestivo, quasi metafisico. E’ descritta al centro di un labirinto, ricavato nell’antico palazzo in rovina, che a sua volta è come un altro labirinto di sale, scale, stanze. La storia è tutta bellissima, con un finale perfetto, leggermente malinconico, del resto non poteva essere diversamente. Alcune immagini e alcuni passaggi sono di una bellezza eccezionale. Pure i libri nel libro sono interessanti e con immagini simboliche: il fiume ad esempio in cui pattina la santa protettrice delle pattinatrici è come una spada che separa giorno e notte. Così la pista è teatro di una storia d’ amore atemporale, che Enric vorrebbe eterna, ma sembra anche un altare dove si compie il “sacrificio umano”. Secondo me, questo è il miglior libro di Bolano.
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La buona società
E' un romanzo sulle illusioni. Una donna romantica, sognatrice, non abituata a gestire rapporti falsi e fatui viene spinta verso una relazione extraconiugale che non le porterebbe nulla di buono se non la perdita della sua integrità morale, qualcosa che non conta molto, ma che quando c'è infastidisce la buona società. Molto bella la descrizione della società e dei rapporti che vi legano le persone: fine, arguta, intelligentissima. Ho apprezzato molto meno i personaggi come caratterizzazione psicologica e la trama. Il marito si rivela migliore dell'amato non solo come spessore umano ma anche come intelligenza, a dimostrazione del fatto ormai assodato che l'amore è cieco e rende ciechi e magari anche stupidi . Nessuno dei personaggi mi è piaciuto particolarmente e la storia è ormai datata nel senso che leggendola sembra un po' falsa e artificiosa a differenza di certi capolavori che restano immortali. In ogni caso certe pagine, soprattutto quelle all'inizio del libro, sono molto belle e si riconosce la penna del grande artista.
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Ritratto iperrealista
Toibin si cimenta nell'impresa non facile di ricostruire la biografia di Henry James, scrittore molto geloso della sua intimità, tanto da non lasciare trapelare molto di sè nemmeno nelle sue opere, per non parlare di documenti più personali quali lettere ad amici che ha sistematicamente distrutto. La biografia offre un lavoro certosino di ricostruzione di fatti e relazioni e anche di luoghi e dà una spiegazione sui personaggi dei romanzi di James a chi siano ispirati e anche una ricostruzione delle ambientazioni molto interessante. Tuttavia, il mistero James resta tale e con mistero mi riferisco non tanto alle sue tendenze sessuali per le quali Toibin fa capire come la pensa, ma soprattutto alla sua psicologia e alle sue relazioni con gli altri. Da una parte Toibin riesce a far muovere e parlare James come James, ma dall'altra manca una chiave al personaggio, una spiegazione magari faziosa e soggettiva del tutto inventata di cosa rende James tale e di cosa ha nel cuore. Io capisco perfettamente che Toibin anche per il dovuto rispetto all'autore non abbia voluto osare, ma per me ha fatto male. James resta troppo morto al lettore in varie circostanze dove sarebbe stato necessario guardargli attraverso. In primo luogo nel rapporto con l'amica scrittrice Constance, soprattutto nel momento della sua morte. Alcuni passaggi me lo hanno reso sgradevole. Il fermarsi al dato reale lo fa apparire in alcune circostanze gelido, egoista, egocentrico in modo assoluto, del tutto anaffettivo.
Ha una schiera di "amici" a cui è soprattutto richiesto di sapersi comportare, tacere quando bisogna tacere, evitare certi argomenti a lui sgradevoli, sapere mantenere le distanze quando lui lavora e/o desidera starsene in solitudine, non toccare mai argomenti più intimi. Soprattutto le pagine relative al rapporto con Constance hanno qualcosa che disturba per la mancanza di spessore umano di James, dato che Toibin non ha osato darglielo. D'altra parte anche i suoi rapporti con la società e con gli altri amici hanno qualcosa di poco chiaro. Invece è interessante come viene reso il suo modo di dosare silenzi e algide gentilezze per frenare l'interlocutore intelligente e farlo stare al suo posto cioè entro i confini che James ha stabilito per lui. Pure nel rapporto con i fratelli, avrei preferito guardare più a fondo. L'alcolismo del padre che viene citato ma non approfondito avrebbe potuto dare una chiave di lettura del personaggio.
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L'umanizzazione dell'alieno
Un alieno viene sulla terra nei panni del prof. Martin per neutralizzare il pericolo rappresentato da una scoperta scientifica dell'eminente matematico. Tale scoperta in mano a una razza disgustosamente egoista e incapace di pensare al plurale come la nostra, metterebbe in pericolo l'intero universo a dir poco. Pieno di condivisibili pregiudizi, l'alieno impara a conoscerci e ad amare le nostre imperfezioni, la nostra poesia e la nostra musica, impara ad amare perfino il dolore e la sofferenza che sono alla base della capacità di provare amore, perchè per capire di amare qualcosa devi rischiare di perderla. Il romanzo è simpaticissimo, veramente geniale, soprattutto nella prima metà. Poi cede in parte al buonismo e alla tentazione dei buoni sentimenti e perde parte della freschezza iniziale.L'umanizzazione dell'alieno lo edulcora un po' troppo per i miei gusti, ma il Martin alieno resta molto molto simpatico e interessante, troppo umano per essere davvero umano. La prima metà del libro è eccezionale.
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Addio imbecilli!
Non è un romanzo, non è nemmeno un racconto ma una lettera di una trentina di pagine in cui Romain Gary si toglie lo sfizio di dare il suo vaffanculo di addio, senza livore e in modo quasi scanzonato, ai critici letterari parigini, supponenti, ignoranti e incompetenti, ai lettori di Gallimard, nonchè allo stesso Gallimard.
Romain si prende una bella rivincita sul bel mondo che lo aveva bollato come scrittore finito. Bollato per incompetenza perchè i suoi libri nessuno dei critici li aveva letti se non distrattamente, così distrattamente da non cogliere somiglianze evidenti a gente non del mestiere. Nelle trenta pagine Romain coglie l'occasione per sottolineare la boria dei critici che non danno giudizi oggettivi sul romanzo appena uscito ma basati sulla capacità di ingraziarseli dell'autore. Tipico l'esempio del critico che gli scrive una recensione al cianuro sul romanzo appena uscito perchè per quella al precedente romanzo non era stato ringraziato. Un mondo superficiale ma soprattutto incompetente con gente che non mette nessun amore nel suo lavoro e che non lo fa per il gusto di scoprire l'opera d'arte e contribuire a darle il giusto risalto.
La vicenda di Gary dello scrivere con più pseudonimi nasce dalla sua bulimia di vita, una specie di nevrosi che lo porta a voler vivere virtualmente molteplici esistenze parallele. Purtroppo approda alla delusione di dover constatare che si è spossessato della sua unica vera vita. Il suicidio è il suo modo di porre fine a una situazione pesante. Si intuisce che suo cugino cercava di soffiargli l'identità di Ajar che Gary gli aveva cucito addosso.
Un caso del genere ha pochi termini di confronto: Pessoa, e forse Elena Ferrante (nel caso che sia la stessa mano a scrivere i libri di Starnone e di Elena come qualcuno suppone).
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Fratello di croce
Istrati vale sempre la pena leggerlo. Questo non è il suo romanzo migliore dal punto di vista stilistico. Forse la traduzione è appena meno brillante di quelle proposte da altri editori, almeno questa è la sensazione che mi ha dato alla lettura. Comunque la storia è interessante. I personaggi sono karamazoviani, belli, pieni di luci e ombre. Moralmente oscillano tra abissi di bene e di male, in particolare Kodin, il protagonista, l'uomo perduto, ex galeotto, capo di una banda di quartiere. Eppure il desiderio del galeotto di amore, di purezza, di assoluto, di affetti disinteressati è qualcosa che colpisce profondamente: l'idea del fratello di croce. Il tutto è inserito nel solito nomadismo, desiderio di conoscere nuovi luoghi (la palude, il quartiere malfamato), persone, usi. Istrati ha una curiosità senza fondo per tutto quello che riguarda gli uomini e un profondissimo desiderio di giustizia, di bene, di condivisione e di amicizia assoluta. I suoi personaggi si butterebbero nel fuoco per un amico e non conoscono la misura, anzi la disprezzano profondamente.
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Lo schiavo di Dio
Ecco un altro capolavoro di Singer. Lo schiavo è un romanzo sull’amore e soprattutto sul rapporto con Dio. Il rapporto è difficile, perché certe cose sono difficili da digerire: il mistero della sofferenza, il silenzio di Dio di fronte al male, la constatazione che i cattivi prosperano mentre le brave persone fanno la fame e devono sopportare sopraffazioni e violenze inaudite. Ci sono le stesse considerazioni di Dostoevskij a proposito della sofferenza dei bambini, umanamente inaccettabile.
Il romanzo è ambientato in Polonia nel periodo delle persecuzioni razziali. Jacob, il protagonista, sfugge a una strage dove viene sterminata la sua famiglia e viene venduto come schiavo a un polacco cristiano, una brava persona. Si innamora della figlia di lui, Wanda, ma il loro rapporto è ostacolato dalla diversa religione. Wanda è disposta a convertirsi ma all’epoca un fatto del genere era punibile con la morte. I due comunque si sposano e vanno a vivere in una comunità ebraica dove lei si finge sordomuta.
Il romanzo è soprattutto un atto di accusa contro la mentalità gretta, superstiziosa, di ebrei e cristiani senza distinzione. Con la religione degli uni e degli altri, Dio ha poco a che fare. Gli ebrei, che Singer conosce meglio, hanno una serie di rituali da rispettare che diventano formalismi inutili quando la pietà umana viene lasciata fuori della porta e quando si rispettano i divieti alimentari ma non il precetto di non rubare e di non sfruttare il prossimo. Più o meno sono le stesse cose che Gesù Cristo diceva ai farisei, solo che Singer fa entrare il lettore nei riti e nella testa di questi ebrei per cui si capisce perfettamente come ragionano e sragionano e come le esigenze di una persona buona non possano essere soddisfatte da una comunità bigotta e superstiziosa. La religiosità è qualcosa di totalmente diverso da pratiche vuote o idolatre. Il romanzo è bellissimo, compreso il finale. A tutto c’è uno scopo, anche a cose che sembrano incomprensibili. Dio ha tutto chiaro e il Suo disegno è sempre per il bene più grande. Nel finale alcuni tasselli vanno al loro posto, il disegno di Dio per i protagonisti, almeno, si delinea con chiarezza. Perciò, forse, anche le persecuzioni e le stragi di innocenti, incomprensibili e disumane, metteranno un tassello nel progetto di Dio che è sempre per il bene, anche se per il momento resta incomprensibile. Il titolo gioca sulla parola schiavo. Chi è schiavo di chi. La schiavitù vera risulta essere quella delle passioni (donne, denaro e roba del genere) mentre l’amore vero, di Dio o dell’uomo, libera.
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Beviamoci sopra (un caffè)
Il nuovo libro di Eggers è chiaro e ben scritto ma di tipo documentaristico. Il protagonista, Mokhtar, un nome una garanzia,è uno yemenita trapiantato in America, che aspira a mettere su un’impresa commerciale del caffè tra MoKha (Yemen) e il mercato USA. Lo Yemen, MoKha in particolare, è la terra natale del caffè come viene fin troppo dettagliatamente ricordato.
Nel testo sono descritte tutte le tappe della realizzazione del sogno dall'ideazione alla attuazione attraversando difficoltà di ogni tipo. Ci sono anche ricadute positive per il paese in guerra dove il lavoro scarseggia e è mal pagato. Il nostro eroe dovrà diventare prima un Q grader, cioè un esperto sommelier della variante arabica del caffè (la variante robusta richiede un esperto con una diversa specializzazione); poi apprendere alcune nozioni sulla coltivazione e lavorazione della materia prima, trovare i finanziatori, non farsi ammazzare dalla concorrenza a volte sleale, e infine riuscire a esportare il caffè dal paese in guerra. La storia è vera. Il protagonista, Mokhtar, ha doti affabulatorie non di poco conto. E’ un Perlasca yemenita, che anziché salvare esseri umani grazie alle sue doti di improvvisazione riesce a realizzare un’impresa non certo meno difficoltosa, anche se per il lettore meno coinvolgente.
Il libro è ben scritto e ben documentato. La narrazione resta però asettica, asciutta, senza gli slanci inventivi o umanitari di Eggers, quelli per cui uno corre a comprare i suoi libri. Anche la parte avventurosa dell’attraversamento del paese in guerra a me è sembrata poco coinvolgente. Per esempio Ologramma per il re a me è piaciuto molto di più dal punto di vista narrativo, anche se l’argomento potrebbe essere simile. Forse è la storia in sé che non merita un intero libro.
Gli aspetti più interessanti sono quelli marginali: il quartiere povero in cui Mokhtar vive con la famiglia in America, la storia del nonno yemenita che ha perso la sua parte di eredità per la gelosia dei fratelli quando lui solo è chiamato al capezzale dal padre morente. Il ragazzo chiede una capra e rinuncia al resto dell’eredità ma gli viene rifiutata pure quella (la capra vale più di te) per cui parte senza la capra. Ma poi ha successo e manda soldi a casa alla madre (da quello che vale meno di una capra). Sembra una storia biblica, bellissima. Quella storia avrei voluto leggere!
Alcuni aspetti della vita nello Yemen sono interessanti. Mentre la tensione al successo e all'integrazione del protagonista, non so, mi sembrano una perdita. Certe dinamiche politiche e culturali o sociali che pure avrei approfondito volentieri non sono state esplorate dato che superflue per il racconto. Il libro non è narrativa, ma un resoconto giornalistico (ben fatto) della rocambolesca realizzazione del sogno americano di uno yemenita ben integrato. La storia a me non è sembrata molto interessante né per l’argomento né per il taglio che le è stato dato. Magari può essere un esempio di come si mette su una attività commerciale equa e solidale unendo utili e giustizia sociale (seppur relativa).
Potrebbe essere interessante da proporre ai ragazzi delle scuole di ragioneria o agli studenti di economia. C’è anche una descrizione dettagliata della pianta del caffè e della sua coltivazione nonché malattie e metodi di scelta dei chicchi (rossi e non verdi) e via discorrendo. Per cui forse andrebbe bene anche per gli studenti degli istituti agrari.
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Il fienile americano
Singer scrive con la bacchetta magica. Questo romanzo è bellissimo. Non solo per la scelta dell’argomento, ma per il fatto che ogni pagina è scritta in modo meraviglioso, piena di immagini che ti fanno entrare nella storia ma anche piena di pensieri e di vita e di contraddizioni legate alla incompatibilità tra vita e pensiero. La voglia di vivere inseguendo i propri desideri porta a situazioni disastrose. E’ evidente che per essere uomini bisogna accettare delle frustrazioni ma per una persona debole è impossibile farlo. Il libro è umanissimo e i personaggi più belli sono quelli intransigenti con se stessi e tolleranti con gli altri. Sono quelli che sono già morti a se stessi, come Tamara uscita da un campo di concentramento russo, dove ha perso i due figli. Ma anche Yadwiga maltrattata da tutti, nata serva, l'idiota tra gli intellettuali, è un bel personaggio per la sua bontà e generosità. Il romanzo è pieno di ricordi di vita (e morte) in lager russi e tedeschi, pieno di orrori ma pure questi ricordi sono insolitamente quasi inopportunamente vivacii nella loro tragicità. Della vita dei lager Singer rende proprio quella incrollabile, incancellabile e insopprimibile voglia di vivere dell’uomo. Herman, il protagonista, il nostro eroe non viene però dai lager come due delle sue donne, la moglie Tamara data per morta da testimoni e Masha, l’amante nevrotica e fascinosa. E’ stato nascosto dalla ex serva e attuale moglie Yadwiga in un fienile in Polonia. Herman è legato a tutte e tre le donne che ama con sfumature diverse e tutte e tre le donne sono legate a lui, ma amano solo lui. Ma Herman proprio perché debole rispetto ai suoi desideri non riesce a prendersi responsabilità e nemmeno a scegliere una delle tre come imporrebbe il buon senso. Con ironia Singeriana, Herman scrive per il rabbino, è esperto di Talmud e di Torah, scrive articoli pieni di libero arbitrio che lui non ha, nel senso che non riesce a governare minimamente le sue azioni per cui è sballottato dagli eventi e causa sofferenze alle tre donne barcamenandosi tra loro con sotterfugi e menzogne. Il libro è pieno di comprensione, compassione e senso di colpa, quello di Herman, l’uomo del fienile che non fa che nascondersi rispetto alle responsabilità. Invece le donne, soprattutto Tamara ma anche Yadwiga sono figure angeliche capaci di sacrificarsi e quindi di portare qualcosa di buono nel mondo. Un po’ di solidarietà. Non per niente la figlia di Herman si chiamerà Masha. Naturalmente ci sono anche pensieri sulla vita e sul senso dell’esistenza e domande sul silenzio di Dio di fronte all’olocausto. E’ bello che i dubbi sollevati dal silenzio di Dio portino il santo rabbino a guardare con maggiore indulgenza le debolezze umane e portino a una grande tolleranza per gli altri. Il libro è veramente bellissimo, non è stupido né leggero. Anzi, è uno dei più bei romanzi di Singer. Bellissimo anche il finale dove a volte Singer scivola nel moralismo perdendo in autenticità. Qua il finale è perfetto.
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Umanità
Educazione europea è il primo romanzo di Gary e si sente che è un'opera prima nel senso che gli altri romanzi che ho letto, Le radici del cielo e La vita davanti a sè sono più maturi e meglio scritti. Mi è sembrato che Gary fosse negli altri romanzi un po' più scottato dalla vita, meno idealista, cioè sempre idealista ma anche disilluso. Insomma preferisco il Gary più vecchio. Comunque Educazione europea è un romanzo importante, che ha qualcosa da dire. Non è semplicemente contro una razza o una nazione o contro una ideologia e non è solo un romanzo di denuncia di determinati fatti storici. Gary soprattutto si augura e si protende verso una umanità nuova. Il fatto che cerchi di costruirla, denota tutto il candore di un animo giovanile che non ha ancora dato la priorità agli elefanti rispetto all' essere umano così incorreggibilmente disumano. Il romanzo è abbastanza intransigente, oltre ai combattenti della resistenza che sono tutti d'animo nobile, esemplari scelti della umanità futura, ci sono vari personaggi alcuni mossi dall'amore per la pagnotta o per i propri comodi, donne usate come merce o come esche, vecchi che non possono combattere, ma anche alcuni (pochi) tedeschi buoni. Nella nuova umanità Gary vuole includere anche i tedeschi, non vorrebbe lasciare fuori nessuno: ebrei, tedeschi, prostitute, artisti. Una umanità senza alcun pregiudizio, senza barriere e senza chiusure. Ecco come vedrebbe lui l'Europa e come intende l'Educazione europea.
"Tu ami i russi, vero?"
"Amo tutti i popoli, ma nessuna nazione. Sono un patriota, non un nazionalista".
"Che differenza c'è?"
"Il patriottismo è amare la propria gente; il nazionalismo è odiare gli altri. Russi, americani.... Un grande sentimento di fraternità va maturando nel mondo, i tedeschi saranno serviti almeno a questo."
....
E a Janek d'improvviso parve che il mondo degli uomini non fosse altro che un sacco immenso, dentro il quale si dibatteva una massa informe di patate cieche e sognanti: l'umanità.
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