Opinione scritta da annamariabalzano43
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Un giorno di ordinaria follia
Nella routine della vita d’un uomo il sabato è il giorno consacrato all’interruzione della routine stessa, è la pausa nello stress settimanale destinata a diventare, paradossalmente, una routine altrettanto rigorosa, fatta di svago, di doveri familiari e sociali puntualmente assolti.
In piedi, davanti alla finestra, già sveglio all’alba, il neurochirurgo Henry Perowne si accinge ad affrontare il suo sabato ricco di impegni, uguale a quello precedente e probabilmente uguale a quello successivo. Il suo sguardo indugia su ciò che vede all'esterno, prima rapida e simbolica premonizione di ciò che sta per accadere. Interno e esterno, tranquillità e caos costituiscono, sin dalle prime pagine, una significativa contrapposizione. Ed è il bagliore improvviso di un aereo in fiamme che illumina il cielo appena rischiarato dall’aurora che colpisce Henry e lo riporta bruscamente alla tragedia delle torri gemelle che ha segnato e cambiato la storia del mondo. È la storia che si impone con prepotenza, è il mondo esterno che invade il privato e non si può ignorare. E d’altra parte è proprio in questo sabato, in cui la figlia Daisy torna dopo una lunga assenza e il figlio Theo ha delle importanti prove per il suo concerto, che Londra è percorsa da una moltitudine di manifestanti contro la guerra in Iraq.
Come sempre nei romanzi di McEwan, la realtà si alterna e integra la finzione dando luogo a una serie di interessanti valutazioni sulle scelte politiche dei vari paesi. Qui, dunque, il protagonista si interroga sull’opportunità di abbattere un regime feroce quale quello di Saddam soprattutto in considerazione delle conseguenze che tale decisione avrebbe determinato. Il dibattito si fa aspro quando vede schierati interventisti e non-interventisti. È sempre il mondo esterno con la sua aggressività che spesso degenera in violenza che invade il pacifico mondo di Henry, quando una banale lite seguita a un altrettanto banale incidente stradale rischia di trasformarsi in tragedia. È la città stessa, con il suo caos dilagante che si contrappone ai ritmi tranquilli della vita familiare di Henry. Tutto sembra doversi concludere in una giornata di orrore e follia nel momento in cui lo squilibrato Baxter irrompe nell’abitazione dei Perowne e si rivela una minaccia reale. Ancora una volta è alla poesia che McEwan affida il compito di ricomporre il caos: sarà infatti la poesia recitata da Daisy a commuovere il balordo Baxter e ad abbassarne le difese.
Nulla sarà comunque più come prima alla fine di questa giornata drammatica, così come ogni cosa sarà diversa al termine della giornata di Leopold Bloom nell’Ulisse di Joyce. Bastano ventiquattro ore per cambiare una vita, per arricchirla di nuove seppur dolorose esperienze, o per privarla di quegli affetti e di quelle certezze faticosamente raggiunte.
Un romanzo che affronta temi importanti che non investono solo la politica, ma anche il sociale. McEwan si dilunga in considerazioni sulla vecchiaia, sulle malattie che affliggono spesso gli ultimi anni di vita degli anziani, con amare osservazioni sulla fugacità della vita.
La conclusione tuttavia lascia uno spiraglio di speranza, perché “alla fine, in caduta, lieve: questo giorno è passato”.
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C’è del marcio in Hamilton Terrace
Eccolo l’Amleto del ventunesimo secolo, eccolo a testa in giù che si muove con cautela, protetto dal rassicurante liquido amniotico, eccolo che osserva a occhi chiusi la realtà che lo circonda e di cui ben presto farà parte. Di essa percepisce gli odori, i profumi e i miasmi. Dà libero sfogo alla sua immaginazione e dà corpo a coloro che ancor prima della sua nascita fanno parte della sua esistenza.
È lui, come l’Amleto shakespeariano, testimone involontario del crimine commesso da sua madre Trudy e suo zio Claude ai danni di suo padre John Cairncross, è lui l’eroe tragico moderno che si dibatte nel dubbio se sia possibile vivere in un mondo corrotto e violento, o se sia meglio non nascere affatto. Essere o non essere, nascere o non nascere è l’interrogativo che egli si pone, di fronte a una realtà dolorosa e inaccettabile. Con la capacità speculativa dell’intellettuale, il nostro feto si chiede se sia possibile conoscere il mondo presente o quello futuro: “Che ne sarà del Medio Oriente, […..] si riverserà in Europa trasformandola una volta per tutte? È ipotizzabile che l’Islam immerga un’estremità febbricitante nel fresco stagno della riforma? O che Israele conceda qualche centimetro di deserto agli sfrattati? Il sogno laico di un’Europa unita potrebbe dissolversi dinanzi a odi antichi, meschini nazionalismi, catastrofi finanziarie, discordia. Gli Stati Uniti andranno incontro a un lento declino?” C’è tanto di Shakespeare in queste pagine bellissime, come c’è tanto dei suoi personaggi nelle figure di Trudy, in parte Gertude, in parte Lady Macbeth, e di Claude, in parte Claudio, in parte Iago. Né si può tralasciare di notare che lo stesso McEwan riconosce a Claude le caratteristiche dell’uomo del Rinascimento, l’uomo nuovo, destinato a divenire il centro di una società completamente sovvertita, dove profitto, interesse, complotto e volgarità regnano sovrani, “un Machiavelli vecchio stampo, convinto di poterla fare franca.”
A questi personaggi negativi, tuttavia, si contrappone il vecchio modello, nel personaggio di John Cairncross, il poeta, studioso di Keats, legato a un mondo fatto di bellezza e di arte. E come in moltissime altre opere di McEwan, anche in questo romanzo si esalta la funzione della letteratura e della poesia, in particolare, a cui è affidato il compito di mettere ordine nel caos di un mondo degradato, al fine di restituirgli la dignità perduta.
La vicenda di Claude e Trudy, così come ci giunge attraverso la descrizione del piccolo nascituro, diviene metafora della condizione del mondo, troppo spesso difficile da accettare. Essere o non essere? Combattere o accettare? La vita prevale sul resto. E “tutto il resto è caos”
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Quando la storia è metafora della Storia
Mai scelta di titolo per la versione italiana di un romanzo è stata così inappropriata. “Lettera a Berlino” non rende assolutamente l’esteso significato simbolico e metaforico che McEwan aveva attribuito al suo “The innocent”. Le due citazioni poste all’inizio del romanzo, una tratta da “La tana” di Franz Kafka e l’altra da una dichiarazione di Winston Churchill, offrono già una chiave di lettura del romanzo. Da un lato, infatti, la tana, lo scavo della piazzaforte descritto da Kafka si riallaccia al tunnel scavato tra Berlino Est e Berlino Ovest negli anni cinquanta nel quale il protagonista Leonard si trova a installare una rete che intercetti le comunicazioni sovietiche, dall’altro lato le parole di Churchill sottolineano quello stato di debolezza in cui la Gran Bretagna era venuta a trovarsi all’indomani della seconda guerra mondiale. “[…] Questa guerra ci lascerà deboli, impoveriti ed esausti, alla mercé delle grandi potenze: Stati Uniti e Unione Sovietica.”
È dunque su uno sfondo storico ben documentato che McEwan colloca la storia d’amore di Leonard, giovane e inesperto inglese, e Maria, tedesca e divorziata. A sostegno dei fatti a cui fa riferimento, l’autore aggiunge una nota a conclusione del romanzo che cita l’ Operazione Gold e chiarisce come il personaggio di Blake non fosse frutto di fantasia, ma che fosse in realtà stato un agente doppiogiochista realmente attivo in quel periodo. Ecco dunque che la storia individuale si intreccia indissolubilmente con la Storia collettiva. In questo contesto ogni personaggio assume un ruolo e un significato specifico. Siamo di fronte all’eterna rivalità tra americani e britannici, accentuata nel momento del declino britannico e dell’ascesa americana. Leonard e Glass ne sono il simbolo. E siamo di fronte, nondimeno, al rapporto delicato e talvolta critico tra vincitore e vinto, rappresentato nel legame tra Leonard e Maria, un rapporto che non manca di assumere talvolta toni di prevaricazione e di violenza, dai quali spesso può essere attratto il più forte nei confronti del più debole.
Dunque la vicenda complessa in cui si trova coinvolto Leonard è il terreno sul quale il giovane britannico è destinato a perdere la sua innocenza, una innocenza che assume significati molteplici, non solo sessuale, ma politica. Dal particolare di Leonard all’universale della Gran Bretagna e della Storia. La mancanza di esperienza di Leonard è strettamente legata al suo senso del peccato. La sua storia diviene una metafora politica che coinvolge le nazioni in un gioco sleale e subdolo.
La conclusione del romanzo, così amaro nel suo complesso, vuole trasmettere tuttavia un messaggio di speranza. Leonard ritorna a Berlino trent’anni dopo la fine della guerra fredda, poco prima della caduta del muro, recando con sé una lettera di Maria. Rivedere i luoghi del passato significa rievocare episodi di vita felici e terribili. Ormai l’età è avanzata. Leonard è stanco. Sente il bisogno di appoggiarsi a un tronco giovane. E’ alle future generazioni che è affidato il compito di sostenere il passato per rinnovarlo.
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“Un libro sul peso dell’eredità”
“[….] questo è un libro sul peso dell’eredità, sul molto che lasciamo, sul niente che lasciamo, sul molto che riceviamo, sul niente che riceviamo.” Ciò pensa lo scrittore/narratore di “Le variazioni Reinach” di Filippo Tuena. Un’opera complessa, una ricerca approfondita sui fatti storici che hanno visto protagonista l’Europa del ventesimo secolo, sulle tragedie pubbliche e private che hanno travolto famiglie e generazioni. Ripercorrendo le vicende dei Reinach-Camondo, Filippo Tuena ricostruisce una tragica verità, riordina documenti e testimonianze di vivi e di morti, sottolinea ed esalta l’importanza della memoria che restituisce a nuova vita un passato sepolto e diventa racconto nel momento in cui si arricchisce con l’immaginazione. È Proust, così spesso citato anche per la sua amicizia con la famiglia Camondo, lo scrittore a cui Tuena spesso fa riferimento per aver espresso con tanta chiarezza ed efficacia le stesse sensazioni e gli stessi sentimenti che suscitano nel presente i ricordi del passato. Da qui l’esigenza di ripercorrere i luoghi abbandonati che nascondono le voci e i rumori che li avevano animati e che solo l’emozione può resuscitare. Lo scrittore/narratore si addentra nel tunnel dell’orrore attraversato dalla famiglia Reinach, documenta tutti i passaggi che l’hanno portata dalla ricchezza e dal privilegio alla miseria e alla sofferenza della deportazione. Attraverso l’esame delle fotografie che ha potuto raccogliere, il narratore ricostruisce i pensieri e i sentimenti dei personaggi che sono al centro della sua storia, descrive lo splendore delle case parigine, le opere d’arte raccolte nel Museo Camondo, e il tragico contrasto con le camerate luride di Drancy e Aushwitz. Non c’è mai un cedimento nel patetico, nella narrazione di Tuena, anche grazie all’espediente del narratore/scrittore con il quale l’autore prende le distanze da se stesso, dai suoi sentimenti, limitando il suo coinvolgimento emotivo con un efficace effetto di straniamento. Così egli riesce ad affrontare i momenti più tragici della storia di Beatrice e Leon, di Fanny e Bertrand che finiscono i loro giorni tutti disperatamente uguali nell’inferno di Aushwitz. Per loro il tempo non esiste più, le ore presenti sono specchio di quelle appena passate. Il ritmo del racconto segue le note della musica composta da Leon, ogni capitolo è una variazione su un tema, sulla falsariga delle Variazioni di Leon Reinach. Un libro bellissimo che fa riflettere, che commuove, che coinvolge. Che dovrebbero leggere tutti.
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L'amore ti rende vivo
Tutte le guerre sono feroci. Alcune sono più feroci delle altre. Non tutte le guerre si combattono lealmente. Alcune sfogano violenza e crudeltà sulla popolazione inerme.
Questo è quanto evoca il titolo dell’ultimo romanzo di Edna O’Brien “Tante piccole sedie rosse”.
Nel 2012 undicimilacinquecentoquarantuno sedie rosse furono messe in fila nel centro di Serajevo, per ricordare l’inizio dell’assedio della città da parte delle forze serbo-bosniache. Seicentoquarantatre sedie erano di dimensione più piccola: ognuna di esse rappresentava un bambino ucciso dai cecchini.
Un titolo, dunque, che evoca una tragedia infinita, un romanzo che parla d’amore, dell’amore sognato, tradito, deluso, dell’amore materno, dell’amore per Dio, dell’amore per la natura.
Nello sfondo di un’Irlanda verde e pacifica, provinciale e borghese si ambienta la prima parte del romanzo che ha per protagonista Fidelma, bella e amata moglie di un uomo molto più anziano, che soffoca con dolore il suo frustrato desiderio di maternità. Ed è nella sua tranquilla routine quotidiana che irrompe prepotentemente la figura di questo straniero che si presenta come guaritore in grado di compiere prodigi. Fidelma diviene Didone, la regina sedotta e ingannata. Ella dà tutta se stessa, con la speranza di avere il figlio desiderato. Ma il prezzo che è costretta a pagare la nostra Didone, la Didone dei nostri tempi, è altissimo perché il suo straniero è ben lungi dall’essere l’Enea di Virgilio. Egli è il feroce assassino di Serajevo.
La violenza genera violenza e Fidelma ne è vittima ella stessa. Perso tutto ciò che costituiva la sua vita serena, abbandona il suo paese e giunge in Inghilterra. Il viaggio nell’inferno dei diseredati costituisce la seconda parte del romanzo.
Di discriminazione sociale e razziale, di sfruttamento e precarietà è fatto il mondo di queste creature che lottano per la sopravvivenza. Alcuni ce la fanno, altri soccombono. Un tema di tragica attualità, soprattutto se si pensa alla ulteriore chiusura voluta dalla Brexit verso una politica di solidarietà.
Un romanzo duro, a tratti feroce, come può solo essere la narrazione di fatti atroci realmente accaduti, una storia che turba e sconvolge le coscienze. Per lo meno di coloro che ancora ne possiedono una.
“Casa, casa, casa. […..]Non immaginate quante parole esistano per dire «casa» e quali musiche selvagge se ne possano ricavare.”
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Un manuale in forma autobiografica
Per affrontare la lettura dell’ultimo libro di Murakami Haruki, “Il mestiere dello scrittore”, bisogna aver ben chiaro cosa si intenda per “autobiografia” al fine di stabilire se quest’opera possa a pieno titolo essere considerata autobiografica.
A questo proposito è opportuno fare riferimento al testo di Philippe Lejeune “Le pacte autobiographique”. Qui, infatti, vengono elencati gli elementi essenziali che costituiscono l’opera autobiografica. Fondamentale tra questi è la coincidenza tra narratore personaggio e autore, che propone un racconto retrospettivo di fatti che riguardano la sua vita e ne delineano la personalità.
Nel "Mestiere dello scrittore" Murakami, in realtà, osserva questa regola, pur non abbandonandosi a dettagli sulla sua vita privata, egli, anzi, ne parla solo di tanto in tanto, di sfuggita, per concentrarsi invece sulle circostanze che hanno determinato la nascita dello scrittore di fama, e sulle aspirazioni giovanili, sulla tenacia con cui l’obiettivo è stato raggiunto. Nessuno spazio per il “gossip”, dunque, in quest'opera, che si propone piuttosto come un sorta di manuale che contiene una personale visione di come si possa eventualmente diventare scrittore e in qualche caso raggiungere il successo. L’interesse di questo libro, al di là della curiosità legittima che può suscitare nel lettore ammiratore di Murakami, consiste nel quadro sociale e culturale che l’autore delinea come retroterra della sua formazione di artista.
Egli dunque inizia con il definire le qualità proprie di uno scrittore e si sofferma su cosa significhi essere romanziere, sull’importanza del linguaggio e su come migliorare lo stile per far sì che l’opera diventi un “classico”, perché solo i classici sono destinati a durare nel tempo, grazie alla loro originalità. L’originalità è infatti elemento essenziale, come l’immaginazione che, come disse Joyce, equivale alla memoria. Secondo Murakami è fondamentale per uno scrittore attingere alla memoria: “[….] non ha importanza se pensate di non aver abbastanza materiale per scrivere un romanzo, non rinunciate. Basta che spostiate di poco il vostro punto di vista, che vi ispiriate diversamente e capirete che il materiale è lì, tutto intorno a voi.”
Non mancano esortazioni a curare il fisico oltre che lo spirito, per raggiungere l’equilibrio ideale per scrivere. Molto interessanti sono le pagine dedicate alla scuola, dalle quali si evince che in Giappone i limiti dell’istituzione scolastica sono simili a quelli più volte rilevati in molti paesi europei.
È ovvio che ogni considerazione sull’arte sia in stretta relazione al mercato al quale essa si rivolge e Murakami analizza le ragioni del suo successo, non trascurando gli eventi storici e sociali verificatisi nei paesi in cui la sua popolarità si è affermata con maggiore vigore.
“Il mestiere di scrittore” può definirsi dunque un manuale autobiografico che non si limita al tema specifico inerente la scrittura, ma si estende ad aspetti interessanti per un più vasto pubblico di lettori.
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L’adolescenza e le sue deviazioni
“Non ho ucciso mio padre, ma certe volte mi sembra di avergli dato una mano a morire. E se non fosse capitata in coincidenza con una pietra miliare nel mio sviluppo fisico, la sua morte sembrerebbe un fatto insignificante in confronto a quello che è successo dopo.”
Nel titolo e nell’incipit è anticipato uno dei temi fondamentali di questo romanzo di Ian McEwan del 1978, “Il giardino di cemento” il primo scritto dal romanziere inglese dopo una serie di racconti.
Sin dall’inizio, infatti, la narrazione fa uso di immagini che evocano concetti contrastanti sui quali si basa la dinamica del racconto.
Se nel nostro immaginario al termine “giardino” associamo l’idea di profumi, colori, oggetti armoniosamente distribuiti nello spazio, al termine “cemento” attribuiamo un significato di staticità e immobilità che è proprio della morte. La contrapposizione vita/morte contenuta nel titolo “Il giardino di cemento” viene ribadita nell’incipit, in cui il narratore protagonista accenna al decesso del padre avvenuto in concomitanza con la sua prima eiaculazione.
Il romanzo, complesso e torbido per alcuni degli argomenti trattati, affronta sostanzialmente il tema dell’adolescenza abbandonando gli schemi perbenisti e ipocriti e facendo emergere realtà spesso nascoste e represse per un senso di vergogna o di paura.
Ciò che accade ai fratelli Jack, Julie, Sue e Tom dopo la perdita di entrambi i genitori è esemplare di come un nucleo familiare, rimasto privo di guida, possa chiudersi pericolosamente in sé, lasciando che ogni fobia, ogni psicosi prenda il sopravvento sul normale sviluppo del fisico e della mente.
Seppellire la mamma deceduta in una cassa sigillata col cemento è la soluzione che ai ragazzi appare più semplice per evitare di essere separati e affidati alle autorità preposte alla cura dei minori. Gestire la libertà non è tuttavia così facile come può sembrare. La narrazione di McEwan si fa dunque via via più cruda. Egli sottolinea lo squallore e il degrado in cui piomba la casa e la sporcizia che regna nella cucina, che fanno da contraltare a una realtà esterna di un quartiere degradato e quasi abbandonato, una periferia specchio dell’anima di chi vi è rimasto. “Le altre case erano state abbattute per far posto a un’autostrada mai costruita.[......] La nostra casa era grande e vecchia. L’avevano costruita in modo che sembrasse un po' un castello, con mura spesse, finestre tozze e smerlature sopra la porta di ingresso.” Una descrizione da romanzo gotico, che fa pensare al dipinto di Edward Hopper “House by the railroad” del 1925 dal quale Alfred Hitchcock trasse ispirazione per il suo “Psycho”.
L’atmosfera all’interno della casa si fa claustrofobica e offre terreno fertile per le manie di autoerotismo di Jack e per il travestitismo di Tom, ormai regredito all’epoca della prima infanzia, che Julie e Sue favoriscono e agevolano. Anche qui la contrapposizione tra i sessi è evidente: se per una donna indossare i pantaloni non è scandaloso, ma anzi, è indice di emancipazione, per un maschio indossare una gonna è degradante e segno di perversione.
Jack, il narratore autodiegetico, e Julie, la sorella verso la la quale egli nutre un’attrazione morbosamente crescente, fino a un incestuoso rapporto, sono l’evidenza di come rimuovendo le figure genitoriali e dunque eliminando le barriere culturali, il nucleo familiare possa ritornare alle origini, con un superficiale senso di colpa, ultimo residuo della consapevolezza di aver trasgredito a quel codice che regola la civile convivenza. Un libro duro, che può turbare per gli argomenti trattati, ma che esamina la natura umana, senza indulgenza e con imparzialità.
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“La vita non assomiglia affatto agli scacchi”
“La vita non assomiglia affatto agli scacchi [......] . La vita è come il poker o la briscola: il giocatore può essere un campione, può essere un brocco, ma vincere o perdere dipende anzitutto dalle carte che hai in mano.” Questa è solo una delle molte significative riflessioni in cui si imbatte il lettore dell’ultimo romanzo di Raul Montanari, “Sempre più vicino”. Si, perché qui siamo di fronte a un’opera che, al di là della trama piacevolissima e ben costruita, al di là di una prosa impeccabile e una vena umoristica non trascurabile, apre un dibattito ampio, tanto ampio quanto doloroso.
Protagonista del racconto è Valerio, un giovane laureato in procinto di conseguire una seconda laurea, desideroso di costruirsi una vita autonoma e economicamente indipendente, anche per segnare le distanze da un padre grossolano ed egoista che lo aveva allevato senza particolari tenerezze dopo l’abbandono di una madre egocentrica e superficiale. Valerio non è il solo giovane intorno al quale si dipana la storia: accanto a lui troviamo Simon, l’amico storico, l’amico di sempre, aspirante scrittore, ed Elena e Viola. Ognuno di loro rappresenta, in modo diversificato, la difficoltà di essere giovani nel mondo contemporaneo. Ed è infatti questo il punto centrale del romanzo. Siamo di fronte a una generazione a cui è stata tolta la speranza di un futuro, a cui è negato coltivare un sogno. Ciò perché l’eredità ricevuta dai più vecchi non ha saputo fornire le basi per un avvenire stabile e economicamente sicuro. E qui si imporrebbero considerazioni di carattere politico, sociale e culturale di non poco interesse. Lo scetticismo del personaggio Valerio nei confronti degli studi che si accinge a completare è, per esempio, sicuramente indice di quella sfiducia ormai diffusa tra i giovani nell’utilità dell’istruzione, con grave danno per la società nel suo insieme.
È con grande abilità che Montanari costruisce intorno a questo tema centrale una storia dai risvolti noir, che avvince e diverte, che consente al lettore di “vedere” al di là della lettura. E infine, nella migliore tradizione del romanzo picaresco, perché in definitiva la storia di Valerio altro non è che la storia di una crescita e, in quanto tale, una crescita dolorosa, ogni capitolo è preceduto da un sommario degli eventi che seguiranno. Proprio come, uno tra tanti, nel Tom Jones di Henry Fielding,
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Ricerca della verità in un mondo di ambiguità e in
“Viviamo avvolti dentro una nebbia percettiva in parte condivisa ma inaffidabile, e i nostri dati sensoriali ci arrivano distorti dal prisma di desideri e convinzioni che alterano persino i ricordi.”
È in un’atmosfera di incertezza, prossima alla confusione che ha luogo la vicenda narrata nel bel romanzo di Ian McEwan, “L’amore fatale”. Una trama semplice che si arricchisce di descrizioni di stati d’animo e di considerazioni interessanti sul rapporto tra letteratura e scienza, argomento di interesse fondamentale per il protagonista Joe Rose, giornalista scientifico.
È tuttavia la passione ossessiva di Jed Parry per Joe Rose, scatenatasi all’improvviso, durante il tentativo fallito di riportare a terra un pallone aerostatico fuori controllo e salvare una vita, che è il nucleo centrale del romanzo.
Il lettore si trova di fronte a una realtà spesso mutevole che insinua sospetti e crea suspense, nella migliore tradizione del thriller britannico.
McEwan sembra voler suggerire come la sfera irrazionale dell’uomo possa talvolta seriamente minacciare la sua comprovata razionalità. Non è un caso che Joe e Clarissa vedano diversamente la realtà che minaccia Joe, essi si dibattono tra certezze e incertezze e la trama del romanzo diviene in definitiva un viaggio esplorativo nella loro mente. Obiettività e verità sono mete difficili da raggiungere.
In questo clima di dubbio è l’amore a essere penalizzato, l’amore tra Clarissa e Joe, l’amore di Jean Logan per il marito defunto, l’amore malato di Jed per Joe, al punto che sorge spontaneo chiedersi: in questo caos che ci circonda, in questo mondo disgregato e fuori controllo, in cui la vittima può trasformarsi in carnefice, come suggerisce l’episodio dell'acquisto di una pistola da parte di Joe, in questo mondo, dunque, come può esistere e resistere l’amore? Come si possono realizzare bellezza e verità, come suggerisce l’ode di Keats, “ Beauty is truth and truth is beauty”, così frequentemente citata nel romanzo?
Questo forse è il tema che più interessa a McEwan, e che diviene centrale in molte altre sue opere.
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Humour britannico tra Hitchcock e Jan Fleming.
Expo 58 di Jonathan Coe, pubblicato nel 2013, è un romanzo di piacevole lettura che certamente non presenta la complessità strutturale di altre sue opere famose e di successo. Tuttavia se la tecnica narrativa di Coe ha molto frequentemente attinto alla tradizione letteraria inglese, qui le fonti sono piuttosto quelle del cinema britannico.
Non si può fare a meno di rilevare come il protagonista Thomas Foley venga spesso assimilato all’affascinante Cary Grant di Intrigo Internazionale di Hitchcock, anche se il fascino del personaggio di Coe non raggiunge quello dell’attore hollywoodiano. E d’altra parte un episodio importante del romanzo si ispira sicuramente ad alcune scene tra le più significative del film.
La storia si svolge tra Londra e Bruxelles, dove nel 1958 si tenne una Esposizione Universale, che vide riuniti i più grandi e importanti paesi del mondo con lo scopo apparente di consolidare una collaborazione e uno scambio di informazioni da tempo auspicati, dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma siamo in pieno clima di guerra fredda e in effetti tutti spiano tutti. Thomas, dipendente del Central Office of Information, ha l’incarico di sovrintendere al club Britannia nel padiglione inglese. La sua vita in Belgio assume un ritmo assai diverso da quello monotono e poco eccitante dei giorni trascorsi con una moglie priva di fantasia e una figlia neonata.
Il protagonista, dunque, si trova immerso nel bel mezzo di una spy-story, e qui i riferimenti ai romanzi di Ian Fleming sono evidenti. La stessa conclusione riserva un sorprendente colpo di scena.
Come in tutte le altre opere, Coe fa sfoggio del suo raffinato humour e ci offre pagine davvero godibili, che, come sempre, mettono in risalto il contrasto apparenza/realtà, destinato a creare incertezza. L’uomo, dunque, sembra vivere in un perenne stato di precarietà.
La storia, nata dalla fantasia dell’autore, ha come sfondo un periodo storico e luoghi realmente esistiti e ciò conferisce un aspetto di autenticità e realismo. Basti pensare al frequente accenno all’Atomium, la struttura simbolo dello sviluppo tecnico del Belgio, divenuto un monumento, allo stesso modo in cui lo divenne la Tour Eiffel (1889) o l’Acquario civico di Milano aperto con l’inaugurazione del Traforo del Sempione (1906).
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Episodi di vita tra brevitas e concinnitas.
Nelle sue magistrali “Lezioni americane” Italo Calvino sosteneva che il racconto, per la sua brevità, è il genere letterario da preferire, in quanto in esso è più facile mantenere desta l’attenzione del lettore e la tensione della narrazione. Egli fa riferimento alle Operette morali di Leopardi, come uno dei numerosi esempi di letteratura italiana in cui “ il massimo dell’invenzione e di pensiero è contenuto in poche pagine.” D’altra parte anche la letteratura straniera offre numerosi esempi di eccellenti narratori di opere brevi, si pensi a Edgar Allan Poe o a Borges, solo per citarne due. Eppure il racconto è stato a volte paradossalmente considerato un genere minore rispetto al romanzo, frutto di una narrazione più articolata, che può contenere al suo interno digressioni che costituiscono dei veri e propri racconti a sé stanti funzionali rispetto all’opera nel suo complesso.
Alice Munro, premio Nobel 2013, è nota per la sua prosa elegante e per i suoi racconti brevi. “Una cosa che volevo dirti da un po'” è una raccolta pubblicata nel 1974 e ora edita in Italia da Einaudi.
È straordinaria la capacità di questa scrittrice di narrare in poche pagine episodi di vita assolutamente attinenti alla realtà quotidiana, soffermandosi sui sentimenti e le passioni dei personaggi, con tale empatia da rendere palpabile il dolore che li affligge, o il piacere che li trascina. Il mondo della Munro è quasi sempre al femminile e la sua narrazione procede per lo più in prima persona, proprio per dare maggiore veridicità ai fatti che racconta. Sono donne, le sue, inclini ad analizzare se stesse e le persone con cui si rapportano, sono donne che raccontano l’amore, con nostalgia, rammarico, rancore, delusione. Spesso è il tradimento al centro di una storia sofferta, spesso è il difficile rapporto tra fratelli e sorelle e l’ancor più difficile rapporto genitori-figli. La Munro procede con una capacità di analisi che scava nel subconscio e fa emergere ferite nascoste mai veramente dimenticate. E il mondo che circonda i personaggi è ugualmente descritto con tratto realistico per offrire al lettore un quadro complessivo veritiero. L’eleganza della prosa della Munro e la sua capacità di delineare in pochi tratti fatti e personaggi, fanno sì che ogni racconto si espanda nell’immaginazione del lettore. È un’intera vita che si concentra e si dilata nello spazio di un episodio, come avviene effettivamente nella breve esistenza dell’uomo.
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Simbolismo, ironia e delirio onirico.
“Dio era morto, al pari di Marx e di John Lennon. E noi eravamo famelici” Così il protagonista dei due racconti di Murakami Haruki scritti negli anni ottanta e solo recentemente pubblicati da Einaudi con il titolo “Gli assalti alle panetterie”, allude alla caduta delle ideologie e al dissolversi dei sogni. Ciò che resta è la fame, una fame che è la manifestazione fisica del male che istiga a delinquere. “Non era la fame a spingerci a fare il male, no. Il male si trasformava in bisogno di cibo per istigarci a delinquere.” Ed è questa sensazione di vuoto, prima di piccole dimensioni, poi via via più grande fino ad raggiungere proporzioni abissali, che spinge i protagonisti a compiere il primo assalto alle panetterie. Tra croissants fragranti, appena sfornati, con il sottofondo della musica di Wagner, i due amici minacciano il panettiere, che lungi dal terrorizzarsi propone di dar loro tutto il pane che vogliono, se solo si fermano ad ascoltare la musica di Wagner. É palese l’ironia di Murakami, che oppone la magica funzione terapeutica della musica alla sciocca aggressività dell’uomo. Il male, così neutralizzato estingue la fame, il vuoto viene colmato, la fantasia rinasce.
Il secondo racconto, con al centro lo stesso protagonista, ormai sposato, si sviluppa intorno al medesimo tema del vuoto e della fame. Qui compagno nell’iniziativa di assaltare un McDonald’s non è più l’amico di cui si sono perse le tracce, ma la moglie, anche lei assalita da una fame insaziabile in una notte d’insonnia. Il vuoto, questo abisso che sembra attrarre e spaventare al contempo è rappresentato dall’immenso cratere di un vulcano che giace in fondo al mare e sul quale il protagonista si affaccia dalla barca ondeggiante su cui immagina di navigare. È questa la dimensione onirica del racconto, dovuta alla volontà e alla capacità dell’autore di tenere il lettore sospeso tra realtà e immaginazione. Anche in questo secondo racconto ogni violenza viene neutralizzata dall’appagamento di una fame apparentemente inestinguibile.
Due racconti assai suggestivi che anticipano alcuni dei temi del futuro grande Murakami. Un’edizione Einaudi assai curata soprattutto grazie alle bellissime illustrazioni di Igort, uno dei più importanti disegnatori italiani.
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L’affannosa ricerca d’un riscatto passa per via Ge
"Via Gemito mi appartiene, nel bene e nel male è la strada della mia infanzia.” Queste le parole di Mimí, primogenito di Federì, protagonista del romanzo di Domenico Starnone, Via Gemito, vincitore del premio Strega nel 2001. Romanzo autobiografico e di formazione, l’opera di Starnone descrive mirabilmente il viaggio di Mimí nel passato attraverso ricordi spesso dolorosi, immagini fissate nella memoria così come venivano rappresentate sulla tela con abili pennellate o leggeri colpi di spatola da un padre ossessionato dall’ambizione di diventare un celebre e stimato pittore.
“Vivere è certamente bello, quando la vita è pittata” usava dire Federì, e i suoi quadri ritraevano infatti per lo più scene di vita quotidiana. L’ansia spasmodica dell’artista, l’accanimento nella ricerca del successo spesso negato, fanno risaltare agli occhi del figlio i lati più drammaticamente rozzi e volgari del padre, facilmente propenso alla collera e alla violenza. Il bambino Mimì prova sentimenti contrastanti per questo padre ingombrante, tanto ingombrante da offuscare completamente la figura della madre Rusiné. Odio, disprezzo, ammirazione e paura si alternano nell’animo di Mimì, che confessa di desiderare la morte del padre, ogniqualvolta assiste alle percosse subite dalla madre. E questo sentimento così lacerante nei confronti della figura paterna impedisce al bambino di assaporare pienamente il calore dell’affetto materno. L’egocentrismo esasperato induce Federì a patetiche menzogne: la sua fragilità si mostra inequivocabilmente in questa spasmodica esigenza di consenso. Non è capace d’amare, Federì, perché a sua volta non ha conosciuto tenerezza e amore nella sua infanzia. Tutti coloro che gli vivono accanto vengono trattati con sufficienza e disprezzo. Eppure in questa natura perennemente scontenta e aggressiva , si nasconde una vena di allegria, una tendenza al gioco che lo vuole sempre protagonista.
Cresciuto dilaniato da questi sentimenti contrastanti, Mimì si appresta a compiere questo viaggio a ritroso nella sua vita, rivisitando i luoghi della sua infanzia, i luoghi dell’infanzia paterna, per cercare di capire di più, di avere una possibilità di riscattare in qualche modo la figura paterna. Questa ricerca non può ignorare l’opera artistica di Federì, non può tralasciare soprattutto quella tela gigantesca per cui aveva posato bambino, per ore, senza osare di fare il minimo movimento, soggiogato un po' dalla paura un po' dall’ammirazione per il padre, quella tela che rappresentava I bevitori.
Ed è qui che Mimì ricorda come corresse “dietro alla vita sciupata, sopraffatta dalla smania dei risultati” , consapevole di quante energie suo padre avesse sprecato, privando Rusinè e i figli di quella attenzione e quell’affetto di cui necessitavano. Quel quadro rappresenta un momento importante nella vita di Mimì. Ne I bevitori ogni tratto, ripreso e fissato nel colore è una memoria figurata, che riporta in vita sentimenti, passione, odio, disprezzo, ammirazione. Ciò che ne deriva,, tuttavia, è un acuirsi della ferita dell’infanzia e, al contempo, un’urgenza di placare l’animo in una riconciliazione definitiva.
Con questo romanzo, Starnone risponde a un’intima esigenza di mettere ordine negli avvenimenti del passato e lo fa attraverso la letteratura, il mezzo espressivo più idoneo a ripercorrere quegli eventi determinanti di una vita, a prenderne coscienza e accettarli come parte integrante del nostro mondo e del nostro essere.
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Adelante Pedro cum judicio
La satira è un genere molto efficace, ma assai difficile: difficile prima di tutto perché, essendo di sua natura dissacrante, ha la funzione di scardinare i canoni di una morale tradizionale e tranquillizzante nella quale amiamo per lo più riconoscerci. Difficile ancor più perché se non giustamente equilibrata rischia di mancare il suo obiettivo che consiste nella demistificazione di teorie, principi, personaggi, ambienti, largamente ritenuti degni di considerazione. Questo è, a mio avviso, uno dei motivi per cui i più grandi scrittori satirici si affidarono alla metafora o al mito per esprimere la critica più severa alla società del loro tempo. Si pensi a un Swift, a Joyce, a Cervantes, solo per citarne alcuni.
L’intento di Gaetano Savatteri con il suo “La fabbrica delle stelle” vuole essere quello di far emergere la falsità e l’inganno sui quali si fondano da una parte il mondo politico, dall’altro il mondo dello spettacolo. Ciò che non funziona, io credo, in questo romanzo, è l’eccessivo atteggiamento “politicamente scorretto” del personaggio Lamanna, che si esprime solo attraverso espressioni sarcastiche, troppo frequenti, tanto frequenti da comprometterne la vis satirica.
Frustrato nell’ambizioso progetto di una carriera politica, Saverio Lamanna non esita a guardare con ironico disprezzo il mondo di cui fino al giorno prima era parte e accetta di assumere l’incarico di guardia del corpo di un’attrice che dovrà essere presente al festival del cinema di Venezia. Con sé porta lo scalcinato Piccionello, eternamente vestito con t-shirt e infradito. I due si improvvisano così come una sorta di Don Chisciotte e Sancho Panza, prima, Sherlock Holmes e Watson, poi. Il mondo del cinema e della televisione appare come una fabbrica di illusioni e di inganno, luogo di rivalità e ipocrisie. Si citano attori e personaggi del grande schermo, registi e romanzieri. Non poteva mancare qualche accenno all’Aschenbach di Thomas Mann, visto che ci troviamo a Venezia. La storia si tinge di giallo nella seconda metà del romanzo, dando un po' più di vivacità all’intera narrazione troppo sbilanciata sulla ricerca della battuta.
La satira è un terreno che può risultare scivoloso se non è ben dosata. Viene da pensare: “Adelante, Pedro, cum judicio.”
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Se Caino uccise Abele, siamo tutti figli di Caino.
In un’intervista che Marilynne Robinson concesse a nientemeno che il Presidente Obama, la scrittrice sostenne che l’ideale di democrazia si basa sulla fiducia che gli esseri umani ripongono negli altri esseri umani e nella speranza che le persone agiscano per il bene e non per il male.
Fede democratica e fede religiosa permeano tutta l’opera della Robinson. “Le cure domestiche” è il primo romanzo di questa autrice al quale fece seguito, solo dopo venticinque anni, una trilogia, più nota in Italia, “Gilead”, “Casa”, “Lila”.
In questa opera prima, premiata con il PEN/Hemingway Award nel 1982, la Robinson racconta la storia di due sorelle ancora bambine, abbandonate sulla soglia di casa della nonna da una mamma decisa a mettere fine alla sua vita gettandosi nel lago alla guida di un’auto. Di loro si prenderà cura dapprima la nonna, solerte, ma poco incline a superflue effusioni, poi, alla sua morte, le sue anziane cognate, infine la zia Sylvie. È costei la vera protagonista del romanzo, è Sylvie, col suo passato misterioso, la sua vita ribelle e vagabonda, la sua silenziosa e disperata ricerca di una pace interiore più aderente allo stato di natura, a suo agio nella diffusa penombra della casa, ma ancora più nella luce mutevole dei luoghi esterni, illuminati ora dai raggi del sole, ora dal riverbero ondeggiante dell’acqua del lago. Ed è il lago, sepolcro tranquillo e inesorabile di tante anime, ultimo rifugio del padre e di Helen, le due assenze costantemente presenti nel romanzo, ad essere, come tanto spesso nella letteratura americana, il simbolo di una fine che precede una resurrezione, quasi immagine di opera preraffaellita. L’acqua, seppure smossa o agitata da un corpo che vi si immerge, riacquista ben presto la sua immobilità. Il vagabondare di Sylvie, la sua eccentricità in una comunità legata alle convenzioni e alle apparenze, sono la causa dell’allontanamento di Lucille da Ruth. E qui emergono le due anime americane, Lucille, l’America conservatrice e perbenista, Ruth, l’America idealista.
La scelta di Ruth e di Sylvie, così lontana e diversa da quella di Lucille, è fatta di un dolore silenzioso, di ricordi sfumati, di visioni immaginifiche che le portano a sentire presenze invisibili: “Sylvie, lo sapevo, sentiva la presenza delle cose morte.” È una scelta di solitudine che le porta lontano, ma che non impedisce loro di portare con sé il proprio passato. L’America sognata dalla Robinson in questo romanzo è vicina a quella di Emerson e Thoreau, un mondo privo di orpelli, ma profondamente solitario. La famiglia che pure tanto sta a cuore alla scrittrice qui può ricomporsi solo nel vincolo affettivo tra Ruth e Sylvie. L’irrefrenabile desiderio di indipendenza e l’esigenza di vivere a contatto con una natura in cui il male e il bene trovano una armoniosa coesistenza, sono le stesse che troviamo nel Walden di Thoreau: i profumi, i suoni, ogni percezione sensitiva esprimono l’essenza divina, esprimono il desiderio di tornare simile ad Abele, lontano dalla ferocia di Caino.
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L’angoscia dell’uomo in un mondo senza certezze
Se già con “Il giudice e il suo boia”, breve romanzo apparso per la prima volta nel 1952, Friederich Durrenmatt affronta il tema del rapporto uomo-giustizia, sottolineando la difficoltà di stabilire una verità assoluta che riporti ordine in una realtà confusa quale è quella del mondo contemporaneo, ne “La promessa”, egli porta il tema su un piano ancor più esasperato, con l’intento di dimostrare l’inutilità di ogni indagine in siffatto mondo. Non a caso il sottotitolo di quest’opera è “Un requiem per il romanzo giallo”. La storia si svolge in un paesino della Svizzera, dove viene ritrovato il cadavere martoriato di una quattordicenne. L’omicidio viene immediatamente classificato come delitto a sfondo sessuale. È l’ ispettore Matthai, a qualche ora dal pensionamento, ad occuparsene. Egli si assume l’onere di comunicare la terribile notizia ai genitori della giovane vittima, si fa partecipe del loro immenso dolore e, profondamente commosso, promette di scoprire e arrestare il colpevole. Sarà questa promessa a condizionare il resto della sua vita. Egli, infatti, non si accontenterà delle indagini affrettate dei suoi colleghi che vogliono identificare il colpevole nella persona di un ambulante, abituato a vivere di espedienti e già accusato di reati sessuali. Allontanato dal suo ufficio, perché ormai non più in servizio attivo, Matthai conduce le indagini per suo conto, ulteriormente impressionato dal suicidio dell’ambulante ormai incriminato. Qui comincia la vera ossessione di Matthai, la sua lotta per stabilire la verità, una lotta contro una realtà tanto mutevole e ingannevole quanto sfuggente. Ed è questo il punto centrale del romanzo: i meccanismi di indagine e di giudizio sono inadeguati a cogliere i fatti nella loro autenticità. L’uomo non è in grado di orientarsi nel caos che lo circonda. E come ne “Il giudice e il suo boia” vittima e carnefice sono indissolubilmente legati, così ne “La promessa” l’investigatore, assillato dall’idea della giustizia, rimane vittima di se stesso e di quel male di vivere che domina il mondo.
Da questo romanzo, scritto in maniera mirabile, Sean Penn trasse l’omonimo film, con Jack Nicholson come protagonista. La storia naturalmente fu adattata alla realtà americana, e se pure parzialmente diversa, lo spirito e il messaggio sono fedeli al testo: una visione del mondo piuttosto pessimistica ma ben aderente al disagio esistenziale dell’uomo moderno.
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Due scomode realtà.
La fortuna e il destino dell’uomo dipendono in gran parte dal luogo in cui nasce, dal periodo storico, dall’etnia alla quale appartiene. Si ha un bel dire che tutti gli uomini sono uguali, la realtà con la quale ogni giorno ci dobbiamo confrontare ci insegna che l’umanità è sempre tristemente divisa tra forti e deboli, ricchi e poveri. Lungi dal diminuire con il progresso e l’emancipazione dei popoli, il divario va sempre accentuandosi, per molte ragioni, che siano politiche, economiche o religiose. Il fenomeno della migrazione delle genti, antico quanto il mondo e in questo periodo storico ripreso in maniera massiccia sta mutando il nostro modo di vivere, le nostre abitudini, il nostro atteggiamento, non sempre disponibile alla tolleranza e all’ospitalità.
Nel suo ultimo romanzo “Orfani bianchi”, Manzini ci racconta la storia di una donna moldava, giunta in Italia per trovare lavoro e inviare soldi alla madre rimasta nel paese di origine, per il mantenimento del figlio, avuto con uno sciagurato presto scomparso dalla sua vita. L’esistenza di Mirta è dura, come quella di tutte le persone nelle sue condizioni, costretta a cambiare spesso lavoro, mal pagata e rassegnata a essere trattata come una serva, se non come una schiava. Alla morte improvvisa della madre consegna il figlio dodicenne ad un internat, un orfanotrofio, con la speranza di poter racimolare tanto denaro col lavoro in Italia, da avere poi la possibilità di portarlo via con sé. Così suo figlio va ad ingrossare le fila dei cosiddetti “orfani bianchi”, bambini e ragazzi abbandonati da genitori che non sono in grado di mantenerli. Mirta dunque, con qualche stratagemma discutibile, riesce finalmente, dopo lavori faticosi e sottopagati, a trovare una sistemazione come badante di una vecchia signora inabile, molto benestante, della cui cura il figlio e la nuora non hanno alcuna intenzione di occuparsi. Ed è qui il quesito principale che Manzini pone a se stesso e al lettore, come è evidente nella quarta di copertina del libro: “quanto costa rinunciare alla propria famiglia per badare a quella degli altri?” Troppo spesso infatti non ci si pone questo problema, non ci si rende conto che il prezzo è altissimo, che chi viene in cerca di speranza e sopravvivenza spesso assiste al disfacimento della propria famiglia, con la conseguente perdita di ogni affetto e di ogni equilibrio psicofisico.
L’altro tema, non meno importante, di questo romanzo si concentra sulla difficile situazione di quegli anziani non più in grado di essere sostegno per la famiglia e a volte per la società. Essi sono un peso, come la ricca Eleonora del romanzo di Manzini, che, consapevole della sua inutile e ingombrante presenza, vorrebbe morire. La malattia la incattivisce e agisce con disprezzo e malversazione nei confronti di chi la accudisce. Dunque due esistenze drammatiche si trovano a confronto, si sfidano, si misurano ognuna con le sue debolezze e con la volontà di sopraffare l’altra. Ecco dunque come ormai è cambiata la nostra società. Le famiglie sono sempre meno il luogo di rifugio per gli anziani inabili, per ragioni che a volte sono anche comprensibili, visti gli impegni di lavoro e i ritmi frenetici della vita, ma che ci riportano a un concetto di progresso disumanizzato, tipico di questa “società liquida”, per citare Umberto Eco (Papè Satan Aleppe).
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L'arte come reificazione di uno stato psichico
Qualche volta non ci si sofferma molto a lungo ad esaminare la copertina di un’opera, che pure spesso è determinante nel farci decidere di acquistarla. Di rado riflettiamo sul fatto che quasi sempre è nella copertina la giusta chiave di lettura. E’ quanto accade per l’ultimo romanzo di Domenico Starnone, “Scherzetto”, edito da Einaudi. In sopracoperta, infatti, è riprodotto un olio su tela di Dario Maglionico , parte di una serie di dipinti dal titolo “Reificazione”, titolo, questo, che evoca un concetto filosofico che spesso ritorna in scritti sociologici e letterari. Qui si allude alla trasformazione del linguaggio pittorico nella società contemporanea, nella quale assistiamo a una frammentazione dell’io, a una reale difficoltà di restituire unitarietà all’individuo e al suo pensiero. Ecco perché Maglionico rappresenta soggetti fisicamente incompleti, o viceversa con sovrabbondanza di arti e lineamenti sfocati. Siamo di fronte alla rappresentazione di una drammatica perdita di identità, che si avvia verso una ancor più drammatica scomparsa della sfera psichica dell’uomo. Ed è un mondo altrettanto equivoco nella sua molteplicità di aspetti che Starnone rappresenta nel suo romanzo. Attraverso l’originalissimo espediente del rapporto nonno-nipote, del confronto vecchiaia-infanzia, egli ci propone un personaggio, fiaccato nel fisico, come nell’anima, che riesamina la sua intera esistenza, sollecitato da una sorta di competizione, a tratti stizzosa, con un nipotino saccente e dispettoso. Riemergono episodi di un’infanzia difficile, in un ambiente tendenzialmente malavitoso, ricordi sepolti in un angolo remoto della memoria. Il ritorno nella casa dell’infanzia, per accudire al nipotino, genera in lui un disagio fisico e psicologico, in quel periodo della vita in cui si è quasi certi di aver rimosso le insicurezze. E al contrario le insicurezze inconsce del presente emergono e si sovrappongono a quelle del passato. E’ così che l’anziano si riduce allo stesso livello del bambino, litiga con lui e approfitta della sua autorità per prevaricarlo. D’altra parte il rapporto col bambino gli permette di scoprire lati di sé fino ad allora sconosciuti, o quanto meno fargli acquisire coscienza dei suoi veri e profondi limiti. Lui, sicuro nella sua giovane età, della centralità del suo essere e della sua arte nel mondo, è costretto a rimettere tutto in discussione. Riemerge quel senso di precarietà che aveva conosciuto nell’infanzia e nell’adolescenza. I disegni che aveva ritenuto fossero stati alla base del suo successo come illustratore e come pittore, gli appaiono sotto una nuova luce, mediocri e spenti ed è così che comincia a disegnare figure sfumate, senza volto, con qualche arto in più , come appare chiaro nell’appendice al racconto. Con queste immagini Starnone ci riporta dunque al significato della pittura di Maglionico, compiendo in letteratura lo stesso percorso che il pittore ha sperimentato nell’arte figurativa. Due modi, entrambi efficaci, di rappresentare la fugacità della vita e la difficoltà per l’uomo moderno di conservare integra l’unitarietà del suo essere.
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Il giallo italiano tra realtà e fantasia
“Il senso del dolore” è un piacevolissimo romanzo di Maurizio De Giovanni, ambientato a Napoli, negli anni trenta, all’epoca del fascismo. Il protagonista, il commissario Ricciardi, è un personaggio dotato di intuito, buonsenso e grande umanità. Insieme con Maione, fedelissimo collaboratore, affronta e risolve casi difficili e delicati. Lo schema del capo e del suo assistente non è certo nuovo nella storia della letteratura, basti pensare a Sherlock Holmes e Watson, a Nero Wolfe e Archie Goodwin, per citare i più famosi: si tratta di un espediente che anima e amplia lo scambio dialettico tra i personaggi, al fine di delinearne meglio il carattere e le peculiarità.
Ciò che più interessa in questo romanzo, al di là della trama che si dipana attorno a un omicidio avvenuto nello splendido teatro San Carlo, è la descrizione dei luoghi, delle strade di una Napoli degli anni trenta, da cui emerge povertà e benessere in una sorta di dolorosa convivenza, priva tuttavia di quell’odio feroce al quale la cronaca contemporanea ci ha abituato. È una Napoli che tenta di celare umiliazione, sopraffazione e inganno ora per paura, ora per rassegnazione. È in questa prospettiva che si comprendono personaggi come Vezzi, egoista, egocentrico e sprezzante dei sentimenti altrui, e, all’opposto, Michele, giovane innamorato e generoso oltre ogni limite e Maddalena, vittima del suo status sociale e dunque facile preda del disonesto.
Ricciardi, dunque, si trova ad agire in questo ambiente e lungi dall’applicare la legge in maniera vessatoria, viene incontro e si immedesima nei problemi e nei drammi personali degli indagati. Non esita, a questo fine, a venire in contrasto con i superiori, incurante di eventuali vantaggi che potrebbero derivargli dal farsi acritico servo del potere. In questo non dissimile dal popolarissimo Montalbano di Camilleri.
Ed è in questa dimensione umana, io credo, che risiede il vero successo di questo genere, il giallo italiano.Al lettore spesso piace scoprire nei protagonisti un po' di se stesso, ritrovarsi nelle loro debolezze e nei loro limiti e pensare di poterli superare con altrettanto impegno e volontà. Al lettore, in breve, piace spesso ritrovare nel protagonista quell’antieroe che alberga in sé.
Un discorso a parte richiederebbe la valutazione di quanto proficuo sia per un autore, dal punto di vista del mercato, incontrare l’interesse del pubblico, l’unico che sia in grado realmente di decretare il successo di un’opera. Certamente con Fruttero e Lucentini, con Faletti e Lucarelli, come con De Giovanni e Camilleri, la letteratura italiana si è arricchita di un genere che non è solo intrattenimento o evasione, è anche ritratto di un’epoca, fonte di ispirazione per cinema e televisione.
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Al ritmo malinconico dei The Fray
Bellissimo il titolo dell’ultimo romanzo di Alessandro Piperno: “Dove la storia finisce”, che altro non è che la traduzione del titolo di un brano cantato da Isaac Slade, musicista della band dal suggestivo nome The Fray, che in italiano evoca il significato di rissa, zuffa, litigio. Come sempre il titolo di un’opera ci indirizza verso una chiave di lettura che forse più ci avvicina a ciò che l’autore ha voluto rappresentare. La canzone, infatti, esprime la sofferenza e la difficoltà di coppie che non riescono a conciliare le loro esistenze. Ma questo è solo uno dei temi affrontati in questo bel libro.
È il ritorno, dopo sedici anni di assenza, di Matteo, uomo volubile e superficiale al punto da contrarre più matrimoni, non tutti legalmente riconosciuti, a scatenare una crisi profonda nelle famiglie che aveva abbandonato e che avevano faticosamente trovato un equilibrio. Sono i due figli soprattutto a essere sconvolti da questa intrusione paterna, al punto che anche il loro rapporto con i rispettivi compagni viene rimesso in discussione. Tutto ciò in un ambiente alto-borghese di cultura ebraica.
Ogni personaggio si trova a fare i conti con una parte di sé rimasta a lungo repressa e nascosta. Ed è Martina quella che forse soffre di più, perché non riesce ad accettarsi per quello che è, non riesce ad affrontare la sua latente diversità.
La storia è raccontata con quel realismo che deriva da una conoscenza approfondita degli ambienti e delle situazioni. I personaggi, le famiglie sono le stesse che costituiscono una parte rilevante della nostra società. I fatti narrati assumono un carattere di normalità, se considerati in relazione agli eventi ai quali assistiamo oggi. Dunque la drammaticità delle relazioni, il logorio dei rapporti affettivi, trovano una soluzione e una fine solo quando interviene la Storia, quella con la S maiuscola, la Storia di tutti, non più del singolo individuo. È infatti nel tragico evento descritto nelle ultime pagine del romanzo, che il dramma del singolo viene superato dal dramma collettivo. Quasi a ricordare che ciascun individuo vive nella Storia, dalla quale non può né deve prescindere.
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Amelia Sybil Mel e il fascino inquietante di Migue
Attraverso tre personaggi femminili, Marcela Serrano affronta con il suo ultimo romanzo “Il giardino di Amelia” temi molto interessanti, alcuni di carattere sociale, altri di interesse politico, senza tralasciare quelli più specificamente letterari. Un intento, il suo, portato avanti con una semplicità narrativa che rende l’opera di facile lettura. Non si tratta certamente di un capolavoro, ma vale la pena considerare i punti più salienti del romanzo dai quali possono scaturire interessanti riflessioni.
La storia si dipana apparentemente intorno al personaggio di Miguel, giovane mandato al confino durante la dittatura di Pinochet per la sua attività contro il regime. In realtà intorno a lui emergono figure di donne portatrici di principi e valori che sembrano coincidere con quelli conservatori delle classi più abbienti, mentre in realtà esprimono idee solidamente sostenitrici dell’emancipazione femminile.
Amelia la signora proprietaria de La Novena, latifondo nel quale Miguel trova rifugio e ospitalità nei momenti più drammatici del suo confino, è una ammiratrice di Elizabeth Gaskell, autrice di un romanzo”Mary Barton” pubblicato nel 1848, che possiamo giustamente annoverare tra i romanzi di carattere sociale. Quello che a prima vista potrebbe sembrare un dettaglio insignificante diviene, a mio avviso, un importante spunto di riflessione. I dialoghi infatti tra Miguel e Amelia vertono spesso su questioni sociali, sulla differenza di classe imperante ai tempi di Pinochet, sul conservatorismo sprezzante delle classi abbienti. Eppure Amelia si sente spiritualmente vicina a Mary Barton, le cui vicende la portano a prodigarsi per i più deboli, così come è nello stesso rapporto tra Mary e suo padre che Amelia rivede in parte la sorte toccata al suo genitore, relegato nell’angolo più remoto del suo cuore durante la sua giovinezza. E qui subentra un altro tema, affrontato nuovamente verso la fine del romanzo, e cioè il tema del perdono. “ In nome di chi o che cosa si può negare la benevolenza del perdono?”
E il perdono distinguerà Amelia, anche quando si sentirà tradita da Miguel e per causa sua subirà le torture del regime. Qui, ovviamente, si potrebbe discutere sulla opportunità di confessare un crimine o un reato commesso, se questo travolge persone innocenti. Qui la politica mostra il suo lato più feroce, poiché pone innanzi l’eventuale salvezza di molti contro la salvezza di un singolo innocente. La scelta non è solo difficile, è drammatica e coinvolge la coscienza del singolo. Difficile giudicare.
Altre due donne, Sybil, cugina di Amelia, con la quale Miguel viene a contatto dopo la sua fuga a Londra, e Mel, figlia di Amelia, subiscono il fascino inquietante e un po' ambiguo di questo giovane.
Proprio Mel, nel tentativo di capire meglio la personalità di Miguel, gli chiederà: “ Sei sempre di sinistra?” E lui: “È difficile smettere di essere di sinistra, una volta che lo sei stato. È una questione chimica, direi. Appoggio tutte le cause giuste, tutte, senza distinzioni. E mi scende una lacrima ogni volta che sento L’Internazionale, non so se mi spiego.” L’ambiguità, tuttavia, permane.
Dal punto di vista più specificamente letterario, la Serrano si affida a diverse tecniche narrative: il racconto procede in terza persona, quando l’autrice vuole mantenere le distanze dai personaggi e dare un’ illusione di imparzialità nel racconto dei fatti, mentre la narrazione di Miguel in prima persona fa sì che il linguaggio si adegui al personaggio, e faccia uso di termini anche volgari, rivelando un aspetto intimo, più nascosto del carattere. Infine i fatti ci giungono filtrati attraverso gli occhi e il giudizio di Mel, della quale risalta la spiccata femminilità. Tutto ciò per offrire al lettore una narrazione quanto più imparziale, basata su diversi punti di vista.
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La vita è preziosa e io vivo nel mondo
È questa una delle ultime battute pronunciate dal protagonista di “Eccomi” di Jonathan Safran Foer, Jacob, che suona come una accettazione della vita, dopo lunga e sofferta meditazione.
Un romanzo lungo quanto una vita, secondo l’intento stesso dell’autore, che ha voluto descrivere nei minimi dettagli la routine quotidiana di una famiglia ebrea americana, alto-borghese, che si trova a dovere gestire le conseguenze della profonda crisi esistenziale e sentimentale che travolge i genitori Jacob e Julia.
Siamo di fronte a un’opera di grande impegno, non solo per la sua imponente mole, ma anche per i molteplici temi affrontati e approfonditi con grande sensibilità. La vicenda in sé può coinvolgere e riguardare qualsiasi coppia del nostro tempo, che abbia da affrontare quotidianamente i problemi riguardanti l’educazione di tre figli esigenti, circondati da un ambiente culturalmente evoluto, abituati a porsi domande e a dare risposte complesse e argomentate. Il racconto, come ormai avviene sempre più spesso nella letteratura contemporanea, non può tralasciare di soffermarsi sull’uso della moderna tecnologia. È la scoperta di quegli sms fin troppo esplicitamente erotici mandati furtivamente da Jacob a una donna da un cellulare nuovo tenuto nascosto, che scatena quella crisi latente in Julia, che rivede la sua vita insieme al marito sotto una luce diversa e la induce a mettere in discussione ogni scelta, ogni momento della loro convivenza.
Ciò che rende più interessante il racconto e che complica notevolmente le cose nella vicenda è l’appartenenza della famiglia Bloch al mondo ebraico. Questo notevole e importante particolare fa sì che una gran parte del romanzo sia concentrato sulla differenza reale esistente tra l’ebreo americano e l’israeliano.
Appare evidente che l’ebreo americano, identificato in Jacob, non è particolarmente religioso. Rispetta le tradizioni, come rituali ricorrenti, senza interpretarne fino in fondo il significato. L’israeliano è assai più ligio e condizionato dalla sua fede. Foer dunque sembra interrogarsi su ciò che significa essere ebrei. Jacob si confronta con Tamir, il cugino giunto da Israele per il Bar Mitzvah di Sam, e prende coscienza per la prima volta del suo reale totale disimpegno nei confronti della questione israeliana. Il confronto tra i due personaggi apre il tema del Sionismo e di tutta la problematica ad esso concernente.
Né viene trascurato il ricordo della Shoah, che riemerge attraverso le rimembranze dei più vecchi. La morte è costantemente presente sia come naturale conclusione di una vita, sia come scelta attraverso il suicidio, sia infine nella forma di eutanasia, anche se ciò appare unicamente in relazione alla fine dell’amato cane Argo.
La drammaticità del romanzo si evidenzia soprattutto nella ansiosa ricerca di Jacob di un’identità che chiarisca il suo ruolo nella società, a fronte dei gravi tragici eventi che travolgono la terra dei suoi antenati. Allo stesso modo suo figlio Sam cerca in Other Life il suo alter ego che possieda quelle qualità che a lui mancano. D’altra parte questa esigenza di Jacob di acquisire una coscienza civile e politica allo stesso tempo trova la più significativa espressione nella citazione della risposta di Abramo a Dio che gli chiedeva di sacrificare suo figlio. “Eccomi” risponde Abramo a Dio. “Eccomi” risponde Abramo al figlio. Allo stesso modo Jacob, cosciente ormai del suo pur limitato ruolo di padre e di ebreo, dichiara tutta la sua disponibilità ad essere più e meglio di ciò che è. Disponibilità che si traduce in una totale accettazione della vita. Di fronte agli occhi di Argo destinati a spegnersi, Jacob ripete: “La vita è preziosa e io vivo nel mondo.”
Amore e dolore sono strettamente connessi in questo romanzo: il dolore che scaturisce da una separazione di due coniugi che non riescono più a trovare un equilibrio per condurre una vita in comune è descritto con una delicatezza e una sensibilità a volte commoventi. È il grande amore che genera sofferenza, perché l’amore è ansia, apprensione, tensione continua.
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L’autobiografia idonea ad una raccolta di racconti
Scrivere un’autobiografia che non trascuri lo studio di un albero genealogico è un’operazione che richiede una ricerca accurata di dati, informazioni, eventi che risalgono indietro nel tempo: è scrivere una “storia” nel senso più rigidamente etimologico del termine.
È ciò che fa Alice Munro in “La vista da Castle Rock”, almeno per quel che riguarda la prima parte del libro. La Munro, infatti, ripercorre la vita dei suoi avi, partendo dal XVII secolo, epoca in cui essi abbandonarono la Scozia. Dei membri della famiglia sui quali si sofferma, la scrittrice offre un ritratto realistico e convincente grazie alla sua abilità di fondere immaginazione e dati storicamente accertati. È proprio con questo studio attento dei suoi antenati che la Munro indaga sulla ragione del suo essere: il suo è un consapevole tentativo di approfondire la conoscenza di sé. E d’altra parte è proprio questo lo scopo principale di una autobiografia.
Dunque se nella prima parte di “La vista da Castle Rock”ci troviamo di fronte a una raccolta di racconti che compongono in definitiva un racconto unico, non molto diversa è l’impostazione della seconda parte, più vicina a noi nel tempo, in cui la scrittrice descrive episodi della sua vita, dall’infanzia a oggi. D’altra parte la forma autobiografica è l’ideale per narrare una serie di vicende con un protagonista e tanti personaggi collaterali. Ogni episodio potrebbe essere estrapolato dal contesto e costituire un corpo a sé, secondo lo schema delle “tales in the tale”.
Con “La vista da Castle Rock” la Munro approfondisce il rapporto con il mondo che la circonda, indaga sulle relazioni che la legano a parenti e ad amici, rievoca sentimenti e esperienze che segnarono la sua adolescenza, assumendo toni talvolta appassionati. Il legame con i genitori, con il padre, sempre pronto a cambiare lavoro, secondo le esigenze e le crisi economiche del ’29 e degli anni quaranta, con la madre, ammalatasi ancora giovane del morbo di Parkinson, con la nonna e la prozia, molto presenti nella sua vita, è raccontato talvolta con nostalgia e rimpianto, talvolta con una nota critica che rivela insofferenza. Non mancano descrizioni di luoghi che palesano un istintivo amore per la natura, come frequenti sono le visite a siti cimiteriali, quasi per una malcelata esigenza di acquisire una certa familiarità con il mistero che avvolge ciò che ci attende dopo la morte. Un libro interessante per chi ama le biografie e non teme i lenti ritmi narrativi.
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I "Four Quartets" di Jonathan Coe
C’è tutta la tradizione letteraria britannica in questo bel libro di Jonathan Coe, “I terribili segreti di Maxwell Sim”, dall’ispirazione ai temi del romanzo picaresco, che dal settecento in poi ha dato un’impronta determinante allo sviluppo del novel fino ai giorni nostri, all’influenza palese, in alcuni episodi, della corrente gotica, la più idonea a creare quella atmosfera di suspense così gradita ai lettori. Né si può ignorare che uno dei temi centrali del romanzo sia il tentativo spasmodico di superare il conflitto padre-figlio, un diverso ma altrettanto efficace viaggio riconciliatore di Ulisse verso Telemaco e viceversa, sulle orme dell’insegnamento di Joyce.
Ma ciò che appare estremamente originale e interessante in questo romanzo è la struttura dell’opera, che non può né deve essere sottovalutata. Sulla scia dei “Four Quartets” di T. S. Eliot, che vengono ripetutamente citati perché versi cari al padre del protagonista Harold Sim, lui stesso poeta, il romanzo si sviluppa in quattro parti fondamentali, all’interno delle quali sono inserite quattro storie sottotitolate “Acqua: il disadattato”, “Terra:la buca delle ortiche”, “Fuoco:la fotografia piegata”, “Aria: The rising Sun”: i quattro elementi come quattro quartetti, leitmotiv del romanzo, quattro novels in the novel. L’ultimo capitolo, “Fairlight Beach”, riepiloga gli eventi e svela il vero significato dell’opera.
Al protagonista, Maxwell Sim, il cui nome è estremamente significativo, perché fa riferimento alla scheda telefonica, memoria di fatti, eventi, messaggi e spostamenti di ogni individuo che viva quest’epoca tecnologicamente avanzata, è affidato il compito di ripercorrere il passato durante il suo viaggio verso il futuro. Ed è qui che di nuovo ci si riporta ai “Four Quartets” di Eliot, i cui versi sono un chiaro riferimento alla teoria bergsoniana del tempo, fluire continuo di passato,presente e futuro, in cui ogni attimo di ciascuno è contenuto nell’altro. Dunque la memoria permette non solo di rivivere momenti passati, ma di procedere verso il futuro con maggiore consapevolezza e conoscenza.
La storia di Maxwell Sim, le sue vicende personali, i suoi rapporti con il padre, con le donne e con gli amici, il suo identificarsi con il navigatore solitario Donald Crowhurst, mistificatore e “disadattato”, non sono altro, tuttavia, nell’intento di Coe, che il mezzo per esplicitare una sorta di teoria del romanzo. Egli è il nucleo intorno al quale il romanziere raccoglie e sviluppa temi a lui cari, inserendo episodi, avvenimenti e riflessioni, tratti dall’esperienza personale. Dunque è anche questo il lavoro dell’artista: creare un’opera che abbia uno schema costruito quasi geometricamente, che possa comunque essere letta e recepita ai livelli più diversi, che tenga desta l’attenzione del lettore, senza risultare pedante o noiosa. E Coe vi è riuscito, una volta ancora, in maniera eccellente.
Una menzione particolare merita la copertina dell’edizione universale economica Feltrinelli, curata da Alessandro Lecis e Alessandra Panzeri, che contiene tutti i temi fondamentali del romanzo.
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L'eterna speranza di una vita migliore
" Personalmente tratto l’ebreo come simbolo della tragica esperienza dell’uomo esistenzialmente. Cerco di vedere l’ebreo come uomo universale. Tutti gli uomini sono ebrei, anche se non lo sanno.”
Con queste parole Bernard Malamud delineò le caratteristiche dei protagonisti dei suoi romanzi sul Jerusalem Post del primo aprile del 1968, come ricorda Elèna Mortara Di Veroli nel bell’articolo dedicato all’autore, contenuto nel secondo volume della Letteratura Americana – I Contemporanei - edita da Lucarini.
È in questa prospettiva che meglio si comprende la figura di Seymour Levin, il protagonista di “Una nuova vita” pubblicato per la prima volta nel 1961 e uscito recentemente nella nuova veste editoriale della Minimum Fax. Insegnante di Letteratura Inglese, Seymour giunge ad occupare il posto di assistente in una piccola Università del West, dopo aver abbandonato New York, spinto dall’ esigenza di cambiare vita e dimenticare un passato da alcolizzato figlio di un carcerato. Ed è proprio metaforicamente la condizione paterna che si trasferisce su Seymour, prigioniero dei suoi errori dei quali ripetutamente cercherà di liberarsi e che, tuttavia, ripeterà sia pure in forma e modi diversi. La sua è una prigione interiore dalla quale desidera fuggire alimentando una ambizione professionale che si scontra con il muro di ostilità eretto intorno a lui dai cattedratici del College in cui lavora. L’ambiente in cui si trova a esercitare altro non è che la riproduzione di quella parte della società americana degli anni cinquanta, più retriva, più restia a rinnovamenti sociali e culturali. È l’America del maccartismo che nasconde una spontanea tendenza a celarsi dietro la maschera del Ku Klux Klan. Il college della Cascadia University diviene dunque un microcosmo nel quale si realizzano tutte le dinamiche della vita sociale e politica del paese e Seymour si trova drammaticamente in bilico tra la grettezza dell’ambiente in cui vive e il sogno di una vita migliore coronata persino da qualche successo professionale. L’ambiguità della sua vita è accentuata da un amore appassionato che si trasforma in tiepida rassegnazione, nel momento in cui la sua realizzazione si rivela complicata e rischiosa per la carriera. Dunque il destino di Seymour si perpetuerà nella continua ricerca di un se stesso libero dalle meschinità e dal calcolo. “Essere buoni, poi cattivi, poi buoni, non era un sistema morale di vita, ma essere buoni dopo essere stati cattivi era una possibilità che la vita offriva.”
Seymour rappresenta dunque l’antieroe, l’uomo qualunque il cui destino è continuare a lottare per vivere e sopravvivere. Poco importa che sia ebreo. È solo un uomo.
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Codice d'onore
Ci sono valori e principi imprescindibili che costituiscono il codice d’onore di ogni individuo rispettabile. Eppure esistono casi in cui trasgredire può divenire una necessità.
Nella storia passata, come in quella presente e contemporanea, abbiamo assistito a eventi che hanno trascinato il mondo in guerre, persecuzioni, stragi che hanno annientato generazioni e generato grande dolore.
Si è molto discusso sulla opportunità di ubbidire a ordini aberranti, in virtù del fatto che dovere di un soldato è l’obbedienza. Si è giunti alla conclusione più o meno unanime che ignorare simili ordini sia non solo opportuno, ma dovere di ogni soldato coscienzioso.
Cosa dire poi della diserzione, atto di codardia che lascia ad altri responsabilità che non si sente di assumersi? Come valutare questa decisione quando essa sia stata maturata dopo aver assistito a un susseguirsi di ingiustizie, di punizioni immeritate, e aver realizzato di essere costretti a combattere per un fine che non si condivide, per una patria che non è la propria e che ti perseguita? Pur rimanendo la diserzione un atto ignobile nella sua essenza, ad esso si può talvolta concedere qualche attenuante. È questo il motivo per cui il lettore è portato a guardare costantemente con simpatia al personaggio del giovane Lerner, protagonista del romanzo “Acciaio contro acciaio” di Israel Joshua Singer, pubblicato per la prima volta nel 1927.
Lerner, infatti, ebreo polacco, trovatosi coinvolto nella catastrofe della prima guerra mondiale, arruolato nelle fila dell’esercito russo, stanco delle sopraffazioni subite, rifiuta di continuare una guerra che non capisce e diserta, affrontando una serie di rischi e pericoli che possono costituire una minaccia anche per la famiglia dello zio Reb Baruch Yosef che lo ospita. Il destino di Lerner è quello di molti ebrei vissuti in quell’epoca e in quella zona di Europa ambita dalla Russia da un lato e dalla Germania dall’altro. La peregrinazione di Lerner, dunque, lo pone di fronte a molteplici minacce e lo porta a contatto con moltitudini di diseredati, poveri lerci individui, avvezzi a traffici di ogni genere. È un mondo degradato e privo di speranza, quello descritto da Singer in questo romanzo: un’umanità preda di loschi individui che non esitano a farne oggetto di guadagno. Lerner e Gitta, la giovane cugina che lo ama sin dall’infanzia, sono gli unici che si dedicano disinteressatamente ai più deboli.
Con grande sensibilità Singer descrive le figure femminili, spesso prostitute costrette a umilianti esibizioni, talvolta giovani oneste e abusate come la stessa Gitta.
È la storia del primo ventennio del novecento che fa da sfondo a questo romanzo ed emerge chiaramente il contrasto con il popolo tedesco e la diffidenza per il popolo russo. Nelle ultime pagine la rivoluzione del ’17. Per Lerner è la speranza di una vita migliore.
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Disagio della civiltà
Sigmund Freud definì “ disagio della civiltà” la sensazione angosciosa di essere circondati da pericoli ignoti, insondabili, indefinibili: è quanto ci ricorda Arnold Hauser nella sua “Storia sociale dell’arte”. Una definizione, questa, che si attaglia benissimo al problematico personaggio del padre nel romanzo “Una famiglia bellissima” di Antonella Di Martino, un libro coraggioso e intelligente che vuole denunciare le ipocrisie e la superficialità di gran parte della società contemporanea.
Ed è proprio la famiglia che nella sua apparente armoniosa e felice esistenza, nasconde le tensioni più laceranti: la famiglia diviene la sede degli inganni più spietati e della sopraffazione.
Il racconto è affidato al giovane Max, depositario di un segreto imbarazzante, del quale si viene a poco a poco a conoscenza, e con il quale Max ha imparato a convivere. Il segreto è costituito dalla “scimmia”, vergogna della famiglia, testimonianza inconfessabile della degenerazione familiare, oggetto e causa della sopraffazione paterna.
Eppure Max, giovane puro nell’animo, scopre la vera dimensione dell’amore fraterno e compie un atto di ribellione rivoluzionaria: priva la scimmia, sua sorella, del suo pelo mostruoso e le restituisce dignità umana. È l’onestà di Max che ci apre uno spiraglio verso un futuro meno ipocrita e più coraggioso. È Max l’unico portatore di quei sani valori dei quali la nostra società si vanta ma che disattende quotidianamente.
Può apparire spietato e amaro il romanzo di Antonella Di Martino e certamente non è un inno alla famiglia così come essa si è radicata nel nostro immaginario. I tempi difficili che viviamo hanno indubbiamente contribuito a generare opere di un realismo a volte agghiacciante. Si pensi a un Franzen o a un Piperno, per citarne solo due, che raccontano storie di famiglie dilaniate da incomprensioni, competizioni e a volte odi profondi. Il nostro è indubbiamente il tempo del realismo, del realismo più spietato, il solo forse in grado di restituirci una coscienza e una consapevolezza che stiamo perdendo del tutto. Eppure in questo quadro realistico dissacrante c’è uno sguardo ottimistico verso il futuro, un futuro costituito da giovani privi di fatui orpelli, portatori di sentimenti sinceri e spontanei, non contaminati da principi opportunistici facili veicoli verso la corruzione.
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On the road, con sosta al Jay's bar
“Ascolta la canzone del vento” e “Flipper,1973”, i brevi romanzi di esordio di Murakami Haruki, sono parte di una ideale trilogia della quale finora era stata tradotta e divulgata solo la terza parte con il titolo “Nel segno della pecora”. Si tratta di due racconti logicamente collegati, che si snodano intorno alla figura dello studente inquieto che aspira a diventare scrittore e a quella del Sorcio, giovane afflitto dalla solitudine e disilluso dalla vita.
Sono qui già presenti molti dei temi che Murakami affronterà nelle opere successive, più mature e complesse. Nella prefazione alla edizione pubblicata da Einaudi, lo stesso autore racconta come sia nata la sua avventura di scrittore e quali siano state le difficoltà da affrontare per riuscire nel suo intento. In questa prospettiva la figura dello studente di “Ascolta la canzone del vento” contiene numerosi elementi autobiografici. Non c'è dubbio che un’opera vada valutata a prescindere dalle influenze che la biografia dell’autore abbia potuto esercitare su di essa, ma spesso risulta arduo scindere completamente la sfera personale da quella artistica. Ed è così che il giovane studente assomiglia molto al giovane Murakami affascinato dalla musica angloamericana, dal cinema di Hollywood, dai classici degli scrittori europei. Il suo viaggio ideale, gli incontri che condivide con il Sorcio nelle pause trascorse al Jay’s bar, altro non sono che un procedere on the road verso una crescita non priva di dolorose esperienze. Le donne, in entrambi i racconti, non costituiscono relazioni stabili e permanenti. Esse si dissolvono, si allontanano, a volte muoiono, nessuna si fermerà, nessuna diventerà un punto di riferimento. In un succedersi di sentimenti difficili da gestire con equilibrio, ecco che il barman Jay assume una funzione da analista e terapeuta. Una volta ancora Murakami sembra aver risentito dell’influenza del cinema americano, delle scene in cui i personaggi scambiano pochissime ma significative battute col barman che serve loro abbondanti e numerosi drink. Non ci si meraviglia se a volte a questo straordinario autore giapponese sia stata rimproverata la sua predilezione per la cultura occidentale. In un paese come il Giappone, la cui storia è ben nota, non tutti sono disposti ad accettare un atteggiamento così aperto verso gli Stati Uniti. Le frequenti citazioni degli eventi della storia americana che in parte scandiscono i racconti di Murakami, possono sembrare un tentativo di sovrapporre la storia di un paese ad un altro. Ma le cose probabilmente non stanno così. I giovani protagonisti di Murakami appartengono spesso agli anni settanta, sono eredi dei mutamenti e dei sogni degli anni sessanta di cui l’America prima degli altri paesi si fece portavoce. Si tratta di una generazione che in Giappone fu in bilico tra il tragico ricordo di Hiroshima e il sogno di libertà trasgressiva rappresentato da Dean Moriarty. È forse qui il vero coraggio e la vera originalità di Murakami: aver dato voce alla sua fantasia, a volte persino sconfinando in una sfera surreale, superando i limiti che la storia pretende di imporre. In questa prospettiva va inteso il dialogo con il flipper, divenuto una sorta di “astronave” umanizzata. Il flipper racchiude in sé i sogni, le sfide, le esaltazioni di un’epoca magica, un’epoca giunta alla fine, dalla quale con rammarico e nostalgia ci si deve inevitabilmente separare, perché essa rappresenta il passato, mentre l’individuo è proiettato verso il futuro. Non a caso nelle ultime pagine di “Flipper, 1973”, Murakami cita Tennessee Williams: “Il passato e il presente sono quelli che sono, del futuro possiamo solo dire che è probabile.”
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Nell'arte la salvezza di Roquentin
“La nausea” di Jean Paul Sarte, pubblicato nel 1938, è un romanzo filosofico. Esso infatti altro non è che il mezzo artistico attraverso il quale l’autore espone la sua teoria e la sua interpretazione dell’esistenzialismo. Si tratta di un romanzo complesso, strutturato come un diario, in cui il protagonista, Roquentin, giovane intellettuale, racconta con dovizia di particolari la sua vita quotidiana in una città di provincia, Bouville. È l’inconciliabilità tra il suo io e il mondo esterno che genera in Roquentin una profonda crisi esistenziale. Egli avverte l’assurdità e l’estraneità di tutto ciò che gli sta intorno: l’avverte nelle azioni ripetitive che compie quotidianamente, nelle persone che incontra e con le quali stabilisce contatti superficiali e transitori, nei luoghi che frequenta e nei quali trascorre gran parte del suo tempo. Roquentin ci conduce nella biblioteca cittadina in cui conosce l’Autodidatta, personaggio straordinario, ricco di umanità, relegato ai margini di una società discriminatrice e omofoba, l’unico con il quale il protagonista riesce a fare una conversazione di un certo livello culturale, sia pure di breve durata. Ci conduce poi nel Ritrovo dei ferrovieri, dove viene a contatto con una borghesia mediocre, di cui descrive l’aspetto e gli atteggiamenti. L’esperienza psicologica che ne deriva genera in lui quella che egli definisce come “nausea”, come ,cioè, il risultato di una acquisita consapevolezza dell’inutilità dell’esistenza dell’uomo. La nausea nasce dunque dal conflitto tra l’essere e il nulla, tra l’io pensante e il resto del mondo, e non è un caso che lo stesso Roquentin citi Cartesio : “Quando avevo vent'anni mi sborniavo e poi spiegavo che ero un tipo sul genere di Descartes.” Cartesio, dunque, il cui pensiero è alla base dell’esistenzialismo, con la sua distinzione tra “res cogitans” e “res extensa” è costantemente presente in questo romanzo.
Ecco infatti il pensiero di Roquentin : “ Sono, esisto, penso dunque sono; sono perchè penso, e perché penso? Non voglio più pensare, perché penso che non voglio più pensare, sono perchè penso che non voglio essere....” E più avanti: “ Sorge la casa, esiste; ......davanti a me il muro esiste...le cose esistono le une contro le altre...” E poi nelle parole rivolte all’Autodidatta : “ Penso che siamo tutti qui a bere e a mangiare per conservare la nostra preziosa esistenza e che non c'è niente, nessuna ragione di esistere.”
Eppure attraverso la compilazione del suo diario, Roquentin giunge gradualmente alla conoscenza di sé e alla consapevolezza di essere mosso dalla volontà di superare la nausea che lo attanaglia e dare uno scopo alla propria vita. Un cammino verso l’impegno, dunque, che vuole essere impegno civile, politico e artistico. In questa prospettiva sono estremamente significative le ultime pagine del romanzo, nelle quali Roquentin abbandona il suo lavoro di biografo storico e decide di dedicarsi alla scrittura di un romanzo, perché è solo attraverso la creatività dell’arte che l’intellettuale può sperare di dare un senso e di mettere ordine nel caos della propria esistenza.
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La maschera e il volto
“Doppio sogno” fu scritto da Arthur Schnitzler tra il 1925 e il 1926. Già con “La signorina Else” Schnitzler si era palesato come un innovatore nell’ambito della letteratura mitteleuropea, facendo ricorso, come aveva fatto Joyce, alla tecnica dello stream of consciousness. In “Doppio sogno” è più esplicita l’influenza freudiana e risulta evidente la lettura de “L’interpretazione dei sogni”, anche se potrebbe risultare riduttivo e superficiale fermarsi solo a questo aspetto, nella considerazione di questo breve romanzo.
Certamente i due protagonisti, Fridolin e Albertine, coppia borghese apparentemente consolidata, unita in un matrimonio reso più felice dalla nascita di una figlia, si trovano, ad un certo punto della loro vita, a dover fare i conti con quella parte sopita e minacciosa, la più inconfessabile relegata nella sfera dell’inconscio, che talvolta si riesce a rimuovere e a fare emergere, solo a scopo terapeutico, con una conseguente liberatoria presa di coscienza di sé.
Il doppio sogno è dunque da una parte il sogno reale di Albertine, libidinoso ed erotico, dall’altra, quella parvenza di sogno di Fridolin, che nel suo vagare notturno, rimane sospeso sulla soglia del dubbio tra realtà e immaginazione. Doppio il sogno, ma doppi e sdoppiati i personaggi che si trovano di fronte all’altra parte di sé.
Eros e Thanatos sono i veri protagonisti di questo racconto nel quale i personaggi sono dominati da pulsioni che li rendono schiavi e padroni dell’altro e l’erotismo sconfina in perversione e mescola sacro e profano, come ad affermare che il piacere è solo il prodotto dell’appagamento dei più inconfessabili istinti. Questa dicotomia morale già rappresentata in letteratura dal bipolarismo del Dr.Jekyll nel romanzo di Stevenson, è qui approfondita e valica il confine tra bene e male per addentrarsi in un più accurato esame della psiche del personaggio.
Il crollo delle barriere morali è, nell’opera dì Schnitzler, metafora del disfacimento del mondo di ieri della società austroungarica a cavallo delle due guerre mondiali, così ben descritta da Zweig, non meno di quanto avrebbe fatto Broch nell’opera “Gli incolpevoli” o “La morte di Virgilio”, o Musil con il suo esemplare “L’uomo senza qualità”. È il crollo di un mondo a lungo ritenuto ideale, che aveva offerto una certa stabilità, seppure non perfetta, all’intellettuale ebreo, che sarà condannato a riprendere le sue peregrinazioni, con l’ansia di ricostruire, almeno in parte, ciò che gli era stato tolto.
Dal romanzo di Schnitzler Kubrik trasse il film “Eyes wide shut” che fu completato da Spielberg dopo la sua morte, che rende bene l’ansia e l’angoscia dei personaggi e mette l’accento sul tema della vista – eyes-, così cara agli anglosassoni. Perché “ to see”, come si riscontra anche nell’opera di Henry James, non significa solo “vedere” ma anche metaforicamente “comprendere, conoscere”.
Ed infatti nel film, come nel romanzo, si insiste sulla maschera, che copre il viso, sulla benda che copre gli occhi, impedimenti alla presa di coscienza del personaggio.
Fridolin dovrà ribellarsi per acquisire una completa conoscenza di sé, per realizzare che una parte de suo io risulta ripugnante ed abietta persino a lui stesso, mentre Albertine, in sogno, ad occhi chiusi, vede una realtà che la terrorizza e con la quale dovrà fare i conti.
La trasgressione, minaccia per la coppia borghese, Fridolin e Albertine, che nel film sono Alice e Bill, si rivela, infine, l’ancora di salvezza e l’elemento unificatore d’un matrimonio agonizzante.
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Strena seu de nive sexangula
Amare può voler dire abbandono, può voler dire fuggire per paura, scegliere di soffrire nell’immediato con la speranza di non soffrire di più nel futuro. Eppure il prezzo di certe scelte si paga lungo il corso di tutta una vita e senza sconti. È quanto accade a David Winkler, studioso e meteorologo, dotato di una capacità di prevedere in sogno avvenimenti funesti o minacciosi.
Comincia così, con la separazione dalla moglie Sandy e dalla figlioletta Grace, che aveva visto in sogno morire per annegamento senza poter far nulla per salvarla, l’odissea di David, che lascia gli Stati Uniti per rifugiarsi in un’isoletta dei Caraibi e vivere in una dimensione diversa, a contatto con la natura, con la speranza di guarire da quella ferita profonda che si portava dietro nell’incertezza della sorte realmente toccata alle uniche persone che amava.
Al di là della trama certamente interessante, ciò che più colpisce in questo romanzo è, a mio avviso, il riferimento più o meno esplicito all’opera di un grande classico della letteratura anglosassone, T.S.Eliot. Non a caso qui, come nella Waste Land, il tema dell’acqua è dominante. Il meteorologo David concentra la sua attenzione su tutto ciò che riguarda i fenomeni atmosferici, in particolare si sofferma a descrivere il fiocco di neve, che a una lente di ingrandimento appare come una stella a sei punte. E qui si comprende la citazione in latino che ci riporta alla Congettura di Keplero. Il fiocco di neve al suo interno contiene numerosissime molecole d’acqua sempre in movimento, seppure invisibili all’occhio umano. “Hai presente un cristallo di neve, la classica stella a sei punte? Che sembra così rigida, immobile nel suo gelo? Ecco, in realtà, a un livello piccolissimo, meno di un paio di nanometro, via via che si congela, vibra da matti...i miliardi di molecole che la compongono si agitano anche se non si vede, praticamente divampano.” Acqua in movimento, dunque, acqua portatrice di vita e di rinascita come nel mese più crudele di Eliot, Aprile. Ma l’acqua proprio perché è indispensabile alla vita, proprio perché è l’elemento predominante nella composizione del corpo umano, come lo stesso David ricorda, nelle sue riflessioni, porta con sé l’inevitabilità della morte. Perché l’acqua può essere causa di distruzione e catastrofe. Ed ecco che il tema della morte per acqua, la morte che David teme per la figlia Grace prima e per la giovane Naaliyah, dopo, è lo stesso che troviamo in Eliot nei versi dedicati a Phlebas, il Fenicio: “ Una corrente sottomarina/ gli spolpò l’ossa in sussurri. Come affiorava e affondava/ passò attraverso gli stadi della maturità e della giovinezza...”
Il personaggio David, afflitto da questo dono di prevedere in sogno il futuro, dono che vive come una vera e propria condanna, non è molto diverso dal personaggio della Sibilla o di Tiresia, nell’opera di Eliot. Anche i suoi occhi, seppure non completamente offuscati, come quelli del profeta greco, sono deboli al punto da non vedere distintamente la realtà che lo circonda. E al caos che regna nella sua vita, David cercherà di porre ordine e rimedio, vivendo a stretto contatto con la natura, novello beau sauvage. Solo il suo estremo tentativo di ricostruire una sorta di nucleo familiare gli permetterà di restituire alla sua vita un significato. “Una famiglia è una storia: verità, tribolazioni, castighi. Una famiglia è tempo....non è tanto ciò che ricevi, ma ciò che riesci a tenere.”
Anche la struttura del romanzo ha un suo perché che si ricollega al fiocco di neve: come il fiocco di neve ha sei punte, così il romanzo è diviso in sei parti, ciascuna con una sua dinamica, un suo significato. L’ultima parte, come è giusto che sia, si interroga sulla morte, raggiunge una sofferta pacificazione dell’anima, chiude il cerchio del racconto e il ciclo della vita.
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E-mailing novel
È assai improbabile che oggi, nel XXI secolo, si trovi un autore che si dedichi alla scrittura di un romanzo epistolare, a meno che non lo ambienti in un’epoca lontana dalla nostra. È questo forse l’unico genere divenuto obsoleto, se consideriamo che quasi più nessuno comunica attraverso lettere per giunta scritte a mano con bella e curata grafia. Cose d’altri tempi. Eppure il romanzo epistolare ha un erede, un erede più veloce ed efficiente, che si serve della moderna tecnologia e che potremmo definire “e-mailing novel”. Lo scambio di mail garantisce il mantenimento dei diversi punti vista della narrazione al cui centro sono i due personaggi fondamentali e intorno eventuali figure secondarie. Certo siamo ben lungi dalle pagine studiate ed elaborate con pazienza e devozione da una Madame de Sevigné, da un Rousseau o da un Goethe. Il linguaggio è mutato, spesso è contaminato da neologismi di derivazione anglosassone.
Il romanzo di Glattauer racconta di uno scambio di mail tra Emma e Leo cominciato per errore e portato avanti inizialmente con ironia e leggerezza per poi trasformarsi in un sentimento più serio e profondo. I personaggi si conoscono a poco a poco, scoprono i reciproci lati deboli, le delusioni e le speranze che nutrono per il futuro. Tutto è affidato alla parola che crea atmosfere suggestive. Il rapporto tra Emmi e Leo scivola inconsapevolmente dal piano intellettuale a quello fisico, pur ignorando ciascuno l’aspetto dell’altro. Il verbo si carica di eros e altera i ritmi della vita quotidiana. La consapevolezza di vivere un amore impossibile in una realtà virtuale reca disagio e sofferenza.
Un romanzo breve “ Le ho mai raccontato del vento del Nord”, che affronta tra le righe il problema della falsa dicotomia tra la sfera fisica e la sfera intellettuale. Ciò che accade a Emmi e Leo dimostra che l’amore si completa e si realizza solo nell’equilibrio tra ragione e sentimento.
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Gioco di specchi
Un romanzo costruito con cura, L’ombra del vento di Zafon tradisce l’eredità dei grandi del passato, da Dickens a Dumas, a Hugo e rivela l’influenza del romanzo gotico. Nè si può ignorare che il romanzo di iniziazione per antonomasia, il romanzo picaresco, nasce in Spagna con il Lazarillo de Tormes e la storia di Daniel Sempere altro non è che un’avventura picaresca, un percorso a tratti doloroso attraverso la vita, che lo conduce alla maturità e alla consapevolezza. Il suo amore per Bea, l’amicizia persa e ritrovata con il fratello di lei Tomàs, sono lo specchio d’una storia di anni precedenti che aveva visto protagonisti Julian Carax, scrittore incompreso, autore di un romanzo dal titolo “L’ombra del vento”, la sua amata Penelope e il fratello Jorge. Un romanzo nel romanzo, più romanzi nel romanzo se si considerano altre vicende e altri personaggi collaterali, non meno importanti come Nuria Monfort, Fermìn Romero de Tormes e il perfido Fumero, sempre al servizio del più forte, spregevole sia nella vita privata che come rappresentante del regime. Ed è il regime franchista che si rivela qua e là nel corso della narrazione che aggiunge all’opera l’impronta del romanzo storico.
Questo gioco di specchi che si alternano con un avvicendarsi di personaggi e fatti appunto speculari è tenuto insieme dall’elemento centrale del racconto, il volume ritrovato da Daniel nel Cimitero dei Libri Dimenticati. È l’ultima copia dell’opera di Julian Carax che scatena la lotta tra il bene e il male e getta su alcuni personaggi un’ombra inquietante che ci riporta alle atmosfere create da un Horace Walpole o da Mary Shelly. La stessa Barcellona, impressa nell’immaginario collettivo con gli smaglianti colori di Gaudì o di Mirò, assume le fosche tinte della nebbiosa e umida Londra di Dickens.
L’impianto del romanzo sembra essere costruito con attenzione e precisione quasi scientifica: i riferimenti culturali sono numerosi e nell’insieme si tratta di un’opera che può essere letta anche dai più giovani, proprio per la sua trama avventurosa e per quel finale un po’ melodrammatico. Il vero messaggio, sia pure subliminale, consiste nella certezza che la letteratura, la pagina scritta, le parole hanno più vita degli esseri viventi. Esse si animano e si rianimano ogni volta che qualcuno le sfoglia o le legge. La pagina scritta può contenere in sé il dono dell’eternità , può entrare in sintonia col lettore, rappresentare le sue speranze o le sue delusioni.
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Measure for measure
“Undici”, l’undicesimo e ultimo romanzo di Jonathan Coe prosegue con lo stesso caustico tono de “La famiglia Winshaw” la critica alla società britannica del nostro tempo.
L’opera è composta di cinque parti suddivise in capitoli che presentano diverse tecniche narrative, dal racconto impersonale a quello in prima persona, all’inserimento di un breve romanzo nel romanzo con l’episodio del Giardino di cristallo, fino all’uso dell’epistola che rende più immediata e realistica la descrizione degli eventi.
Numerosi sono i personaggi che ruotano intorno alla protagonista Rachel. Le loro storie si intrecciano e creano una rete di connessioni significative.
Il romanzo si apre con la descrizione della misteriosa e inquietante figura della Pazza del Gheppio: sono pagine nella più pura tradizione gotica, la stessa che si ritroverà più avanti nel corso del racconto.
Sin dai primi capitoli si capisce che la critica di Coe è soprattutto di carattere politico e sociale. L’accenno al suicidio di David Kelly, ispettore dell’ONU in Iraq, avvenuto nel 2003, è pretesto per esprimere biasimo per quello che fu l’inganno della guerra contro Saddam Hussein, necessaria, secondo quanto sostenuto ufficialmente e pubblicamente dal Primo Ministro Tony Blair, poiché il dittatore iracheno avrebbe posseduto armi nucleari in grado di distruggere la Gran Bretagna in quarantacinque minuti. E la guerra, nel corso del romanzo, appare come un grande business che si protrae anche dopo la sua fine. Coe non si limita tuttavia a denunciare gli errori di un solo partito: la sua è una critica bipartisan. I conservatori non sono portatori di ideali più puri, essi rappresentano, al contrario, l’anima più gretta di quel popolo che nel corso della storia aveva preteso di essere il più genuino divulgatore dei principi democratici. È il personaggio di Alison, ragazza di colore, disabile, povera e gay, grande amica di Rachel, che raccoglie tutte le caratteristiche dell’emarginato moderno. Sarà lei il bersaglio di una delle ultime discendenti dei Winshaw, Josephine, che pubblicherà un articolo in cui Alison apparirà come la solita speculatrice parassita della società “per bene”.
Le vicende dei personaggi sono dunque il mezzo per evidenziare la crisi della società britannica, crisi che non si limita alla finanza, ma si estende ai principi e ai valori etici sui quali si erano fondati gli Stati moderni in Europa. Sul mondo della finanza Coe ha scritto pagine spietate, creando il personaggio di Frederick Francis, un ex ispettore fiscale che utilizza le conoscenze acquisite lavorando per il governo, al fine di fare evadere le tasse ai ricchi magnati del paese.
Non solo il mondo della finanza è sotto accusa: lo è altresì l’ambiente della Sanità che non garantisce una equa distribuzione dei farmaci, trascurando le fasce più deboli e più povere che non possono permettersi cure dispendiose. In questo mondo fatto di inganni e di illusioni ha la sua giusta collocazione una televisione che crea falsi miti, che distrugge l’immagine dei cittadini più ingenui con la truffa dei reality show. Non a caso Coe si sofferma sui disvalori diffusi dai programmi della Stercus Television.
La satira è pungente, ma è lo scopo principale dell’opera, al punto che l’autore sente il bisogno di ripercorrere a grandi linee quella che è stata la storia del comico e del riso a partire da quel famoso libro della Poetica di Aristotele, tanto discusso, passando attraverso Hobbes, Cartesio, fino a Bergson e Freud. Ed è la funzione demistificatrice del riso, del comico e ancor più della satira a colpire e distruggere i falsi miti, soprattutto in politica. L’inconveniente, denuncia Coe, è che lo spettatore, come il lettore, gratificato dalla satira che colpisce i suoi avversari, appagato, ricade in un’inerzia pericolosa che non porta al cambiamento. La satira aiuta a colmare una certa ingenuità politica, ma difficilmente porta all’azione.
Nella effettiva complessità di questo romanzo, ci sono, tuttavia, elementi che ritornano, come il numero undici. Ciascun personaggio ha un legame con questo numero, che poi, non a caso, fu anche il giorno dell’attacco alle torri gemelle ed è il numero di Downing Street dove risiede il Cancelliere dello Scacchiere, cioè il Ministro delle Finanze.
Per quanto riguarda l’aspetto più propriamente letterario, quest’opera risente evidentemente di tutta la tradizione letteraria britannica, dal romanzo gotico, a Conan Doyle, a Edgar Allan Poe , fino a Henry James. Ed è proprio il ritmo avvincente della storia che permette di andare piacevolmente fino in fondo e approfondire quei temi che altrimenti sarebbero risultati assai più onerosi. Ed è assolutamente eccezionale in Coe la capacità di evidenziare quanto sia fragile il confine tra ragione e follia, come la realtà possa più facilmente di quanto si creda trasformarsi in un mondo visionario e assurdo. È questa la società che abbiamo contribuito a creare. E l’ultimo capitolo ha la funzione di uno spettacolare colpo di scena che suona quasi come un monito e che ci riporta al mondo classico shakespeariano, il mondo di “ Measure for Measure.”
L'importanza di chiamarsi Purity
Oscar Wilde aveva intitolato una delle sue commedie “The importance of being earnest”, giocando ironicamente sull’equivoco tra il termine earnest (serio, onesto, zelante) e il nome del protagonista Ernest.
Nell’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity è sia il nome del personaggio intorno al quale si snoda tutta la vicenda, sia l’apparente scopo del Sunlight Project, l’organizzazione clandestina che diffonde via web informazioni riservate, portando alla luce numerosi traffici illeciti. Più che evidente è il riferimento a Wikileaks e a Julian Assange, che si citano esplicitamente nel corso della narrazione.
Il simbolismo è d’altra parte sempre presente nella letteratura americana, sin dai tempi di Hawthorne e Melville. Ciò è palese anche nelle scene più drammatiche, dove la caduta spirituale del personaggio nell’abisso del peccato è scandito dal rumore della pioggia e ogni movimento è rallentato e compromesso da un mare di fango.
La struttura di quest’opera corposa è costituita di sette lunghi capitoli: i primi tre introducono i personaggi più importanti, mentre negli altri si chiarisce come si intreccino le vite di ognuno. La narrazione è impersonale, a eccezione di un capitolo in stile diaristico in cui Tom racconta di sé.
Sono tanti gli argomenti affrontati dall’autore in questo romanzo, dal condizionamento esercitato dalla moderna tecnologia sulla vita di ognuno, con conseguente perdita della privacy, alla difficoltà per il giornalismo vecchio stile di sopravvivere nell’era di internet, che trascura completamente il lato umano dei fatti e delle persone. Si trattano sia il tema della sicurezza di un paese come gli Stati Uniti che producono armi nucleari che talvolta non riescono a custodire con tutte le garanzie del caso, sia il tema della democrazia imperfetta del mondo occidentale, e quello dei danni scaturiti da un regime totalitario con riferimento alla Germania Est fino alla caduta del muro (“un intero paese di vite sprecate”).
In questo serio groviglio di argomenti, ciò che colpisce, come sempre nelle opere di Franzen, è il ruolo della famiglia nella società, delle tensioni, delle incomprensioni, dei fenomeni di incompatibilità tra genitori e figli che possono spesso ripercuotersi sulla collettività. Il difficile rapporto tra Purity e sua madre, il disprezzo che Clelia nutre per Annelie, l’odio feroce di Andreas per Katya vengono descritti con parole accorate, lasciando intendere la sofferenza dei personaggi che in alcuni casi sembrano non avere speranza. È sempre lacerante il mondo di Franzen. Le sue donne sono dotate di una forza dominante, che le rende autonome ma spietate. Eppure dietro questa maschera quasi shakespeariana, questi personaggi femminili celano un bisogno incompreso d’amore, una sofferenza generata dall’incapacitá di comunicare che le rende fragili. È ancora la strenua lotta per l’emancipazione da uno stato di subalternità rispetto all’uomo che non si è ancora conclusa.
E d’altra parte neanche l’amore trova facile realizzazione nei romanzi di Franzen. Il sesso sostituisce spesso i sentimenti e viene sperimentato nei modi più trasgressivi, quasi come volontà di affermazione di un ego tolto bruscamente dal grembo materno e ancora in cerca di tenerezza e calore.
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Lucida analisi della società del nostro tempo
Uscito postumo, Pape Satan Aleppe è l’ultimo libro di Umberto Eco. È una raccolta di considerazioni sui più vari argomenti di attualità che hanno interessato la nostra società dall’inizio di questo nuovo secolo ad oggi, pubblicate sull’Espresso nella rubrica “La bustina di Minerva”.
Nell’introduzione Eco spiega il perché di un titolo così ambiguo eppure chiaro al tempo stesso. La scelta del noto verso di Dante, tratto dall’Inferno, VII,1, privo di un significato preciso, è apparsa all’autore quanto mai appropriata a definire l’apparente mancanza di coerenza della raccolta che riflette la reale condizione della nostra società, che nel primo capitolo egli definisce “liquida” attingendo al concetto ben espresso da Bauman, in “Stato di crisi”, dove il sociologo discute l’argomento con Carlo Bordoni.
La società liquida nasce dalla caduta delle ideologie e caratterizza la nostra epoca che potremmo definire postmoderna. Il termine “liquido” in sè, proprio nella sua evidente contrapposizione allo stato solido, suggerisce un’idea di qualcosa che sfugge, difficile da afferrare, qualcosa che assume la forma del suo contenitore.
Ciò che caratterizza la vita del nostro tempo è dunque questa corsa verso un consumismo irragionevole, dovuto alla necessità del singolo di adeguarsi al gruppo per non sentirsi escluso. Da qui l’aumentare delle esigenze, spesso ingiustificate e ingiustificabili.
Questo è il mondo della globalizzazione.
Eco suddivide gli argomenti trattati in quattordici capitoli, dando in questo modo un ordine logico al contenuto. Affronta così il tema del progresso tecnologico indiscutibile in sè, che presenta tuttavia diversi aspetti negativi, soprattutto per le giovani generazioni che divengono fruitori spesso passivi dei moderni “device” abbandonandosi a una nociva pigrizia mentale. Non manca mai, nelle disamine di Eco, la vena umoristica, anche se spesso accompagnata da una malcelata amarezza.
Progresso come regresso, dunque, è ciò che spesso si verifica nel nostro tempo. Molto significative le pagine sull’upgrade e il downgrade.
Nè risparmia il suo biasimo, l’autore, nei confronti di una società che vuole “apparire” a tutti i costi. L’individuo fa di tutto per essere visibile, non importa diventare famosi per qualcosa di grande o per qualcosa di spregevole. L’importante è essere popolare. A questo fine sono utilizzati spesso i social network. “Twitto, ergo sum”, Twitter come il bar sport di qualsiasi villaggio.
L’analisi della nostra società procede, capitolo per capitolo, con grande lucidità, affrontando il tema del “falso complotto”, di come ognuno sia portato a credere a tutto e al contrario di tutto, come ci si abbandoni troppo spesso a una facile dietrologia, come il bello si sia confuso e amalgamato col brutto, quasi a riprendere la profezia delle streghe di Mcbeth.
Ogni argomento affrontato, la relazione tra giovani e vecchi, il fallimento dei sessantottini, le pagine sull’odio e la morte, sulla privacy o “privatezza”, sull’ “homo cellularis” e sul Big Brother del 2000,
sull’antisemitismo, ognuno di questi temi, sarebbe utile fosse affrontato nei licei. Ogni “bustina” potrebbe essere letta e discussa in classe e ciascun allievo potrebbe in seguito elaborare e ampliare l’argomento secondo la propria sensibilità e le proprie conoscenze. Ciò a conferma, non solo della piacevolezza dell’opera, ma della sua effettiva utilità se ben utilizzata. Ciò solo come modesta proposta.
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Il faticoso cammino verso l'emancipazione
È un romanzo toccante e coinvolgente l’opera d’esordio di Chigozie Obioma, nato in Nigeria, ma insegnante di Letteratura negli Stati Uniti, presso l’Università del Nebraska.
È la storia di una crescita segnata dal dolore e dalla speranza, dalla perdita degli affetti più cari, in un paese, la Nigeria, che tenta faticosamente di avviarsi verso l’emancipazione, un paese dilaniato da decenni di lotte intestine e alla perenne ricerca di un’identità unitaria che superi gli inconvenienti del bilinguismo, elemento che accentua la discriminazione sociale con la distinzione tra lingua ufficiale e lingua nativa, un paese in cui la persistenza d’un paganesimo recidivo e impermeabile al vero messaggio cristiano costringe l’uomo a una condizione di soggezione nei confronti degli eventi naturali.
È nella città di Akure che ha luogo il dramma che colpisce la famiglia Agwu, composta da Padre Madre e sei figli. Sono i quattro maschi più grandi al centro degli eventi che vengono narrati con un’efficacia espressiva che raccoglie l’eredità della tradizione epica. Obioma sembra voler insistere sulla felice unità familiare che comincia a disgregarsi nel momento in cui il padre si allontana per lavorare in un’altra città . Il nucleo, più fragile, diviene facile preda delle più assurde credenze popolari e si convince d’essere oggetto di una maledizione lanciata dal pazzo Abulu. Il maleficio riguarderebbe in particolare Ikenna, il primogenito al quale si preannuncia una morte per mano del fratello Boja. Qui siamo davvero di fronte alla tradizione mitologica, così come l’abbiamo appresa attraverso i classici greci. La superstizione domina l’animo umano e conduce ad estreme conseguenze. La disgregazione della famiglia seguirà un percorso doloroso e inevitabile, dal momento che la volontà del singolo non riesce a prevalere sul mistero minaccioso che l’attende.
Il carattere quasi “naïf” della narrazione é determinato anche dal parallelismo personaggio/animale, personaggio/insetto, come se solo dall’analisi del mondo animale e naturale che ci circonda, potessimo meglio cogliere il carattere delle persone. In questa prospettiva Ikenna è dapprima assimilato a un pitone, noto per la sua forza, poi a un passero, noto per la sua fragilità . L’aquila rappresenta il padre, la sanguisuga è il male che toglie la vita.
La sventura che colpisce la famiglia distrugge i sogni del Padre, che avrebbe voluto vedere i figli affermarsi con successo nella vita. È il sogno di una realizzazione nel mondo occidentale, lontano dalla miseria, dalla sporcizia, dalle guerre locali, gli antagonismi religiosi, sempre più frequenti. È il sogno di un’emigrazione in Canada, che va in frantumi e trascina nel fango i giovani Agwu. Nelle parole del Padre ai figli il messaggio più bello, più dolorosamente disilluso: “Quello che voglio è che siate pescatori di sogni buoni, che non si arrenderanno finché non avranno catturato la preda più grossa. Voglio che siate dei Titani, dei pescatori minacciosi e irrefrenabili. Ragazzi che affonderanno le mani nei fiumi, nei mari, negli oceani di questa vita e avranno successo. Dottori, piloti, professori, avvocati. Questi sono i pescatori che voglio avere come figli.”
Un romanzo sulle grandi passioni che alimentano il cuore dell’uomo: sull’amore, sull’odio, sul desiderio di vendetta, sulla lealtà e soprattutto sui sentimenti che uniscono o dividono gli animi in seno ad una stessa famiglia.
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Quale letteratura?
Il breve, divertente romanzo di Antonio Manzini, “Sull’orlo del precipizio”, é una satira acuta e intelligente sul mondo dell’edtoria, sulla deriva in cui essa può precipitare in seguito a scelte dettate da un interesse unicamente economico a discapito della cultura e dell’arte.
Attraverso il personaggio di Giorgio Volpe, autore di successo, pluripremiato, Manzini imbastisce una storia che suscita a tratti un’ilarità irrefrenabile, senza assumere i toni aggressivi del pamphlet satirico, ma raggiungendo lo stesso scopo con altrettanta efficacia. Oggetto dell’attacco sono i grandi cartelli editoriali che ormai sono una realtà innegabile, che soffocano e eliminano le piccole case editrici di “ nicchia” che pubblicano poche opere di qualità, per non parlare di quelle non riescono comunque a resistere nella giungla della speculazione economica. In epoca di globalizzazione, ciò non sorprende davvero. Ciò che allarma tuttavia è il destino che può essere riservato alla cultura e nel caso specifico alla letteratura, sempre più dequalificata. E la dequalificazione parte dalla lingua, maltrattata, oltraggiata, senza rispetto per le più elementari regole grammaticali e sintattiche. Qui Manzini ci offre pagine esilaranti che descrivono la volontà di due grossolani editor, che pretendono di modificare Manzoni o reinterpretare Tolstoi, eliminando per giunta, tutto ciò che di triste possa essere contenuto nella trama delle loro opere.
I nuovi immaginari squali che dirigono le scelte dei lettori e ne orientano il gusto verso contenuti e forme sempre più volgari, mostrano un sostanziale disprezzo verso il pubblico al quale si rivolgono. Non sono dunque solo gli autori, con la loro arte, ad essere mortificati, ma altrettanto risultano vilipesi i lettori, trattati come un volgo ignorante senza gusto né cultura.
Quale letteratura dunque ci attende nel futuro? Questo l'ipotetico quesito. Si rassegneranno i grandi autori come Giorgio Volpe a tradire se stessi e i loro lettori, per mantenere lo status sociale e i guadagni ormai consolidati o prevarrà la scelta idealistica e morale?
La decisione dipenderà dai valori preminenti in ogni coscienza.
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Fortuna, fors, fatum, sors.
Straordinaria complessità nel titolo del bellissimo romanzo di Claudia Pineiro “Piccoli colpi di fortuna”.
Il concetto stesso di “fortuna”, così come era inteso nella lingua latina, è legato ai termini “fors”, “fatum” e “sors” che in sé possono contenere una forte connotazione negativa.
Tutta la vita della protagonista è infatti condizionata da scelte di cui è parzialmente responsabile, si, ma il cui disgraziato esito è determinato dal caso, da un caso malauguratamente sfortunato. Un interrogativo si fa impellente su quanto la nostra vita sia condizionata dal libero arbitrio o quanto piuttosto da un fato prestabilito.
L’infelicità di Marilè è accentuata da un senso di colpa schiacciante, che la porta ad abbandonare il figlio per restituire a lui quel posto che gli spetta nella comunità di cui è parte e a se stessa la dignità di madre.
Un racconto sull’amore, la perdita, l’assenza, sulla solitudine e sul desiderio e la necessità del riscatto. Un racconto che si interroga e ci interroga su quanto sia giusto ritirarsi nell’ombra di un mondo sconosciuto o piuttosto combattere per non lasciare alcunché di incompreso e di incomprensibile. La Pineiro descrive il dolore nei suoi più intimi aspetti, la disperazione della solitudine e offre nella letteratura una via di scampo. Saranno i testi della Munro, di Tennessee Williams, della de Beauvoir a offrire qualche sollievo a Marilè. La letteratura è lì a rappresentare il dolore che agita l’animo umano, è lì a colmare sia pure in parte quel vuoto che crea l’assenza di chi si ama.
È nelle parole di Alice Munro che Marilè riconosce il proprio strazio e fa sua la sensibilità della scrittrice: “Questo dolore acuto. Diventerà cronico. Cronico vuol dire che perdurerà anche se forse non sarà costante. Può anche voler dire che non ne morirai. Non te ne libererai ma non ti ucciderà. Non lo avvertirai in ogni istante però non passerà molto tempo prima che torni a farti visita. E imparerai alcuni trucchi per mitigarlo o tenerlo a bada, cercando di non distruggere ciò che tanto dolore ti è costato.” (Le bambine restano)
La Pineiro sceglie di scrivere questo romanzo in prima persona: una scelta assai appropriata perché è la forma più idonea ad esprimere sentimenti così intimi, considerazioni così personali. Non un romanzo autobiografico, ma la biografia della protagonista, Marilè, che si racconta.
Un’opera che pur nella sua straziante narrazione offre uno spiraglio di speranza ad una vita che appare definitivamente distrutta di ricostruire le basi per un breve futuro di serenità.
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Tiziano Scarpa, tutore transbiografico
Originale, satirico, provocatorio, eccentrico: così si può definire l’ultimo ottimo libro di Tiziano Scarpa. Già dalla lettura della prefazione si capisce che ci si trova di fronte a un’opera che si allontana dagli schemi tradizionali del romanzo contemporaneo. Qui il narratore presenta e descrive se stesso come essere non esistente, qualcuno che avrebbe potuto avere un corpo e tuttavia non ha nulla, nemmeno una voce. Egli si definisce l’Interrotto, dichiara di aver affidato il suo racconto alla forza delle parole, organizzate in forma di romanzo dallo scrittore Tiziano Scarpa, suo tutore transbiografico.
L’opera segue separatamente per diciotto capitoli le vicende di due personaggi fondamentali, Federico Morpio, artista, e Adele, giovane impiegata. Il diciannovesimo capitolo intreccia storie e personaggi, infine il ventesimo costituisce l’epilogo.
Morpio, creatore di video artistici, è il mezzo attraverso il quale l’autore esprime una critica feroce nei confronti delle dinamiche che regolano il rapporto tra talento, societá e mercato, denunciando quanto spesso la vera arte sia penalizzata o addirittura ignorata per favorire ambienti o personaggi che contano. La progressiva perdita di autostima induce Federico, artista fallito, rimasto senza soldi e senza la donna che amava a rinunciare alla sua arte per guadagnarsi da vivere. Egli prende coscienza di ciò che non va nel suo personale rapporto con l’arte nel momento in cui si sofferma a guardare il movimento vorticoso del cestello della lavatrice durante la centrifuga. Egli comprende che ciò che lo frena è la sua incapacità di concentrarsi. Egli ha un rapporto “circonferenziato” con la sua arte. Così come i panni centrifugati nel cestello scompaiono schiacciati sui bordi, così la sua arte, non prodotta da un processo di concentrazione, risulta invisibile. I pensieri di Morpio si “disperdono nell’inconsistenza”. È questo uno dei punti più originali del romanzo.
Parallelamente alle vicende esistenziali di Federico, si svolge la storia di Adele. La sua progressiva integrazione nel mondo cristiano avviene in seguito a quella che si può definire l’epifania del geco. È infatti l’osservazione di questo animaletto insettivoro che riesce a superare quasi ogni prova di sopravvivenza, ma che rimane imprigionato tra le pareti di una pentola rivestita di teflon, che spinge Adele a stabilire un contatto ravvicinato più intenso e spirituale con la natura e con la fede. Il suo incontro con Ottavio la spingerà ulteriormente in questa direzione fino ad abbracciare i principi dei Cristiani Sovversivi. L’adesione così totale alla fede porta Adele e Ottavio a cercare il famoso cronovisore, strumento noto per la capacità di captare quelle onde lasciate da personaggi del passato, anche remoto, e riprodurre le stesse scene e gli stessi avvenimenti. Essi sono spinti dal desiderio di rivedere la resurrezione di Cristo. Ma la fede non avrebbe più ragione di essere se la veridicità degli eventi potesse essere dimostrata.
L’epilogo del romanzo ritorna in maniera circolare a ciò che era stato annunciato nella prefazione. Il lettore si troverà di fronte al narratore che si è definito l’Interrotto. Sarà chiaro infine che l’intero romanzo è un atto di fede dell’autore Scarpa nella forza della parola e della letteratura, che ritrova la sua funzione in un mondo in cui l’arte sembra stia perdendo progressivamente quella dignità che le spetta.
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Romanzo storico e di formazione
Indimenticabile, umano, coraggioso Pereira. Coraggioso, si, anche se il coraggio giunge come scelta conseguente a una sofferta presa di coscienza della realtà storica e politica del suo tempo.
Il romanzo e il personaggio sono inscindibili. La storia di Pereira é la storia del Portogallo di Salazar, é la testimonianza di come si possa disinformare e condizionare l’opinione pubblica e di come un intellettuale onesto possa infine trovare sottili stratagemmi per riuscire a comunicare ciò che il regime impedisce che venga divulgato.
Non é né arbitrario né esagerato definire “Sostiene Pereira” un romanzo storico: la storia qui conferisce maggiore dignità alla narrativa, fa da sfondo realistico alla vicenda, generando un componimento misto di invenzione e realtà che si avvicina al concetto di fiction. Se si pensa a “I viceré” di De Roberto, a “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, o anche a “La storia” della Morante, per citarne solo alcuni titoli, vediamo con quanta efficacia e con quale successo realtà e immaginazione insieme abbiano prodotto opere indimenticabili.
Sono gli eventi, inscindibili dall’epoca, a determinare quella crescita ideologica del personaggio Pereira. Il suo incontro con Monteiro Rossi, il crescente disprezzo verso la portinaia informatrice della polizia, l’influenza esercitata su di lui dal medico Cardoso, il rapporto sempre più critico con il direttore del suo giornale, in linea con i dettami del regime, e infine la violenza subita da chi avrebbe dovuto rappresentare lo Stato trasformano Pereira da testimone sensibile alle sopraffazioni, ma non attivo nell’impegno civile, nel partecipe e consapevole giornalista che mette la sua penna al servizio della causa per la libertà. Raggirare la censura e rendere noti i fatti delittuosi a cui ha assistito, é un’operazione astuta e efficace, che costituisce una rottura definitiva con il passato, che lo aveva costretto a una specie di sopravvivenza, a una parvenza di vita.
Importantissimo é il titolo del romanzo per un duplice motivo: da una parte sottolinea che la narrazione è in terza persona, affidata ad un narratore esterno alla vicenda, che raccoglie la testimonianza del personaggio-protagonista, dall’altra getta una luce di ambiguità e problematicità, sulla interpretazione dei fatti così come ci vengono presentati. Il “Sostiene” diviene in questo senso quasi un appellativo, un attributo del protagonista, il simbolo di un’epoca di incertezze.
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Un imperatore, un uomo.
Marguerite Yourcenar lavorò per molti anni alla stesura definitiva di “Memorie di Adriano”, opera che fu pubblicata negli anni cinquanta e che per la sua ricchezza e molteplicità di aspetti sia contenutistici che stilistici, é difficile definire semplicisticamente romanzo storico o saggio filosofico: essa é, infatti entrambe le cose e molto di più.
La ricerca puntuale effettuata con metodo scientifico di documenti storici, atti e testimonianze riguardanti la figura dell’imperatore romano Adriano, riporta al concetto greco di istoría, che implica una ricerca effettuata nel presente di fatti del passato, con un uso del tempo molto diverso da quello teorizzato da Bergson come durée che ha influenzato tutto il romanzo del novecento. Certo in questa prospettiva si potrebbe definire romanzo storico qualsiasi narrazione di fatti radicati in un tempo e uno spazio ben definiti.
Il racconto é affidato alla voce narrante dello stesso Adriano e si svolge in forma di epistola indirizzata a Marco Aurelio, nel momento in cui l’imperatore vede scemare le sue forze e avvicinarsi il momento della morte. L’epistola si compone di sei parti, ciascuna delle quali ha un significativo titolo in lingua latina. Adriano non esita a definirsi anima vagula, blandula, consapevole della sua fragilità interiore nel momento in cui sente vicina la fine. Ed è una figura complessa nella sua toccante umanitá, quella che la Yourcenar ha ricomposto di questo grande del passato che aveva cercato di regnare con giustizia, pur consapevole di commettere errori e imparzialità, talvolta, solo per il bene del suo popolo.
“Varius, multiplex, multiformis” Adriano definisce se stesso. Né é ignaro dei torti fatti a Sabina, la compagna che ha spietatamente ignorato e alla quale ha preferito l’amore del giovane Antinoo. E qui la Yourcenar non esita a soffermarsi su ciò che si può intendere per libertà : “Ho cercato la libertà più che la potenza, e quest’ultima soltanto perché in parte secondava la libertà”.
L’amore di Adriano per Antinoo assume l’aspetto dell’esperienza decadente che ci ricorda il Mann di “La morte a Venezia”. Antinoo come Tadzio, fanciulli, che rappresentano un ideale di bellezza classica che trasforma l’esperienza estetica in desiderio carnale, dimostrando quanto labili siano i confini tra sfera intellettuale e sfera fisica.
Il romanzo storico si trasforma in saggio allorché affronta argomenti quali la schiavitù, la condizione della donna, la legge e l’arte.
“Non credo che alcun sistema filosofico riuscirà mai a sopprimere la schiavitù: tutt’al più ne muterà il nome.” Nulla di più vero persino oggi dopo tanto cammino verso la democrazia e verso il rispetto per i diritti umani. La schiavitù ha cambiato forma e tuttavia appare evidente nella perdurante sopraffazione dell’uomo sull’uomo.
“Ho insistito affinché nessuna fanciulla sia data in moglie senza il suo consenso:lo stupro legale é ripugnante quanto qualsiasi altro.”Adriano appare consapevole della condizione di inferiorità in cui si trova la donna del suo tempo, e anche il suo giudizio sull’efficacia dell’applicazione delle leggi appare di una modernità sconcertante: “ Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione. Se troppo complicate, l’ingegnosità umana riesce facilmente a insinuarsi entro le maglie di questa massa fragile, che striscia sul fondo.”
Bellissimo il pensiero di Adriano sull’arte. Egli esalta ogni forma d’arte che si concentri intorno all’uomo. È l’uomo l’interesse principale di questo imperatore illuminato. “[.....] La nostra arte ha preferito attenersi all’uomo. Noi soli abbiamo saputo mostrare in un corpo immobile la forza e l’agilità ch’esso cela; noi soli abbiamo fatto d’una fronte levigata l’equivalente d’un pensiero.”
Ripercorrere la propria vita è per Adriano l’esperienza estrema. Egli è consapevole della sofferenza che genera la memoria e tuttavia non ne nega né ne respinge l’utilità. “La memoria della maggior parte degli uomini é un cimitero abbandonato, dove giacciono senza onori i morti che essi hanno cessato d’amare.”
“Patientia” é il titolo dell’ ultimo capitolo di quest’opera, il capitolo più toccante, più profondo in cui Adriano, cosciente della fine che si avvicina, pur favorevole nel passato al suicidio, come fine dignitosa d’una vita, sente di dover accettare come supremo sacrificio il degrado fisico, e il dolore del corpo, come naturale conclusione di un tempo trascorso ad amare, a soffrire, a godere della bellezza della natura e a sentire il peso delle responsabilità della gestione del potere. Ed ecco ora Adriano torna a essere l’anima vagula e blanda che cercherá di entrare nella morte a occhi aperti.
Marguerite Yourcenar ci ha consegnato il ritratto di un imperatore che fu uomo prima d’ogni altra cosa, un uomo senza tempo, grande nello spirito, fragile nei sentimenti, forte nel decidere.
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Feroce critica al potere vestita di giallo
Una storia molto semplice nella sua struttura romanzesca e di lettura piacevole : questo é a prima vista “La testa perduta di Damasceno Monteiro” di Antonio Tabucchi. Il romanzo, tuttavia, va molto al di là di questo. Il ritrovamento, nella città di Oporto in Portogallo, di un corpo privo di testa dá inizio a un’indagine giornalistica che si avvale del supporto di un rinomato avvocato, soprannominato Loton per il suo fisico debordante che ricorda il celebre attore Charles Laughton, protagonista, nelle vesti di avvocato, appunto, del bellissimo film “Testimone d’accusa” per la regia di Billy Wilder. Il Loton di Tabucchi è uomo dalla cultura vastissima che ha trascurato il profitto per dedicarsi alla difesa dei più deboli. È lui che apre gli occhi a Firmino, il giornalista, sui meccanismi complicati e poco trasparenti che regolano i rapporti tra cittadino e istituzioni. Con una non semplice disquisizione filosofica su ciò che si intende per Grundnorm, Loton denuncia la malcelata corruzione di certi ambienti della Guardia Nacional.
Facendo riferimento alla filosofia del diritto così come era stata interpretata da Hans Kelsen, egli sostiene che la Norma-base dell’ordinamento giuridico è indipendente dalle norme morali e pertanto essendo essa fondamentale e costituendo, nonostante base, il vertice della piramide del sistema del diritto, può facilmente celare ciò che al sistema morale apparirebbe negativo e deprecabile. In questo modo Loton spiega la deriva del potere verso l’oppressione e l’abuso che si servono senza scrupolo della tortura e della negazione di ogni diritto umano.
La critica di Tabucchi tuttavia non si ferma qui. Sono in discussione anche la funzione della stampa, i limiti e la veridicità dell’informazione, la manipolazione dell’opinione pubblica. E non è meno importante la considerazione sugli stili letterari: non a caso si cita Lukacs - autore del fondamentale “Teoria del romanzo” e di “Storia e coscienza di classe” - che definì il saggio una “forma tra letteratura e filosofia”, a metà cioè tra creazione immaginaria e creazione concettuale, quella forma letteraria che affronta i problemi, ma non offre soluzioni.
Ciò che colpisce il lettore, nelle pagine conclusive del romanzo è l’amara constatazione di trovarsi in un mondo privo di certezze, dove il concetto di giustizia è svuotato di ogni contenuto.
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Difficile é sapere essere liberto
L’immoralista pubblicato nel 1902, è forse l’opera più significativa di André Gide, premio Nobel per la Letteratura nel 1947. Si tratta di un romanzo in cui si fondono autobiografismo, esercizio estetico e attacco alle convenzioni morali in un tentativo di dimostrare l’impossibilità di conciliare memoria e avventura, diversamente da quanto realizzerà Marcel Proust nella sua Recherche.
È alle parole dell’amico Menalque che il protagonista Michel attribuisce questo concetto che farà suo: “I ricordi più delicati appassiscono, i più voluttuosi marciscono, i più incantevoli sono i più pericolosi per il futuro.” Ed è intorno alla figura di Michel, coincidente per molti versi con la personalità di Gide, che si dipana una storia drammatica tanto perfetta stilisticamente, quanto scarsamente ricca di pathos. La “confessione” di Michel è quasi una forma di edonismo. Il suo ego è al centro del suo mondo, il suo rapporto con la delicata moglie Marceline è continuamente condizionato e compromesso dal suo egoismo e dalle sue tendenze omosessuali. Più prende coscienza del suo essere, più Michel si allontana dalle convenzioni morali dell’epoca, pur celandosi dietro un preteso profondo amore coniugale. In realtà Marceline rappresenta per lui il passato, quel mondo di cui non vuole conservare memoria ed é questo il motivo per cui affannosamente trascina la donna gravemente ammalata di tisi in giro per il mondo. Così come egli stesso era rinato dopo la malattia, ora sarà la malattia di Marceline a offrirgli la possibilità di una seconda rinascita. Ma svincolarsi dai legami, qualsiasi essi siano, non sempre comporta saper gestire il futuro. “ Saper liberarsi non è niente, il difficile è saper essere liberto.” Una frase di una lucidità ineccepibile. Dunque il dramma di Michel è il dramma dell’intellettuale Gide che vede irrisolto il conflitto tra passato e presente, tra amore e sesso, e la storia che egli ci racconta vuole essere, in tutto il suo anticonformismo, una critica a questo tipo di uomo e di intellettuale.
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Quando il sequel distrugge il mito
È sempre azzardato scrivere il sequel di un libro di successo. É stata una vera follia, a mio avviso, scrivere il seguito de “ Il buio oltre la siepe”, un romanzo-mito non solo per la società americana che lo ha reso lettura obbligatoria nelle scuole, ma per tutto il mondo che si riconosce nei valori di uguaglianza e libertà che in esso vengono celebrati. La letteratura conosce diversi casi di narrativa sviluppata in ampi cicli, in cui ritornano personaggi che il lettore ha amato e dei quali desidera seguire le sorti nel passare del tempo, ciò con risultati spesso deludenti. Si pensi, tanto per fare un solo esempio, al ciclo dei Rougon- Maquart di Zola. Persino il grande, eccellente scrittore francese fu meno convincente nei romanzi successivi all’Assomoir che pure seguivano le vicende della stessa famiglia.
Nel caso di “Va’ metti una sentinella” il titolo diviene ironicamente profetico, più per il lettore che per la protagonista del romanzo.
Ritroviamo, dunque, la piccola Scout, ormai donna, che rientra a Maycomb da New York per una vacanza. Il mondo intorno a lei appare ai suoi occhi in tutta la sua meschina grettezza di provincia piena di pregiudizi e di limiti. Nessuna pietà Jean Louise-Scout mostra nel giudicare anche i suoi affetti più cari. Il soggiorno nella sua città natale é l’occasione per la sua dolorosa crescita definitiva, il momento per vedere le cose nella loro giusta dimensione, nella loro vera essenza. E ciò che vede non le piace, ma sarà costretta ad accettare la realtà, perché é solo così che potrà continuare a vivere, accogliendo nel proprio cuore anche quei limiti, quei grandi limiti che scopre nelle persone che ama.
Il versetto tratto dalla Bibbia al capitolo XXI di Isaia, “Va’ metti una sentinella”, letto durante la funzione religiosa dal Signor Stone, sarà profetico per Jean Louise. Ella dovrà guardare avanti, approfondire le cose, senza fermarsi alle apparenze.
Senza voler fare dell’ironia, il dramma investe più il lettore che si era affezionato all’immagine di certi personaggi al di sopra di ogni sospetto, e che ora si trova di fronte a eroi dimezzati, che gestiscono i loro pregiudizi e con essi convivono con naturalezza.
Certo il periodo in cui il romanzo fu scritto è stato tra i più complessi per il superamento della discriminazione razziale negli Stati Uniti. Negli anni cinquanta si era in pieno maccartismo, e la caccia alle streghe e il Klu Klux Klan imperversavano e la paura del comunismo era diffusa soprattutto nel ceto borghese e benestante. Questo romanzo, dunque, scritto in quell’epoca ma pubblicato solo ora, sembra voler quasi correggere l’impostazione assai più aperta de “Il buio oltre la siepe”. C’è da chiedersi se la scelta di diffondere ora quest’opera sia dovuta a mera speculazione editoriale o piuttosto a considerazioni più speculativamente politiche.
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Epica del XX secolo
L’Ulisse di James Joyce fu pubblicato nel 1922 ed è universalmente riconosciuto come l’opera che ha determinato una svolta rivoluzionaria nella storia della letteratura.
Il romanzo è diviso in tre parti e ogni parte è a sua volta diviso in episodi. Tre è anche il numero dei personaggi principali, Leopold Bloom, Stephan Dedalus, Molly Bloom intorno ai quali ruota la storia.
La vicenda si svolge nel giro di ventiquattr'ore e inizia il mattino del 16 giugno 1904.
Joyce ricorre al mito per la struttura del romanzo. I titoli degli episodi sono infatti esplicitamente tratti dall’Odissea: Lotofagi, Ade, Lestrigoni, Scilla e Cariddi, e così via. Ma il mito non è solo il mezzo per procedere in una narrazione in costante movimento, esso viene usato da Joyce per scomporre e ricomporre una realtà, la realtà del mondo che lo circonda e in cui l’artista stenta a riconoscersi e a collocarsi. È un mondo mediocre quello che Joyce vuole rappresentare, il mondo del piccolo borghese ebreo, che si sente emarginato. É la Dublino dei primi del novecento. E qui viene rappresentato il dramma dell’intellettuale, Stephan Dedalus, che si è allontanato da casa, che ha rifiutato la figura paterna ed é partito alla ricerca di una figura sostitutiva. E l’incontro con Leopold Bloom lo porta a stabilire con l’uomo un rapporto filiale. Bloom, che ha perso un figlio naturale, accoglie Stephan come Ulisse accolse Telemaco. Un viaggio picaresco attraverso gli ambienti più diversificati unisce i due e ne evidenzia i limiti e le attese. La ricerca di Dedalus e Bloom è il tentativo di dare un senso alla vita. Si sente costantemente la presenza dell’Amleto di Shakespeare, nella drammaticità dei personaggi. Ricca di umanità è la figura di Molly Bloom, che rappresenta la sensualità, il lato più fisico dell’umanità rappresentata da Joyce. Ai tre protagonisti solamente l’autore concede di esprimersi con lo “stream of consciousness”, il flusso di coscienza. Pur dichiarandosi contrario a ogni forma espressiva che potesse far riferimento alla psicanalisi, Joyce ne fa ampiamente uso in questi monologhi che mettono in luce il pensiero conscio e inconscio del personaggio.
Saranno uno Stephan e un Leopold diversi quelli che ritroveremo alla fine del romanzo. L’esperienza di una giornata ricca di emozioni ha costituito la crescita dei due personaggi: Dedalus ha acquisito una parte della sensualità di Bloom, mentre Bloom ha maturato una parte di quella sensibilità tipica dell’intellettuale. Il messaggio positivo in una rappresentazione sostanzialmente negativa è affidato a Molly, che non a caso ricorda la Moll Flanders di Defoe, che conclude il suo monologo con un “Yes, Yes, Yes”, che testimonia la sua presa di coscienza e l’accettazione della vita, nella sua totalità.
È proprio l’intento di dare una rappresentazione oggettiva della realtà, che spinge l’autore a usare linguaggi diversi, stili appropriati agli ambienti rappresentati e descritti e ciò costituisce sicuramente una novità determinante nella tecnica narrativa del novecento.
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Ares per Irene
Ares per Irene. La guerra per la pace. Raccogliere armi e documenti di ogni genere che attestino gli orrori della guerra e con essi allestire un museo che possa divenire luogo di profonda riflessione, volta al consolidamento di una pace duratura, è il fine che si propone il protagonista dell’ultimo romanzo di Claudio Magris “Non luogo a procedere “.
È Trieste il teatro di questo racconto polifonico, Trieste, bella e offesa nella sua dignità durante l’occupazione nazista.
Dopo il misterioso incendio che porta alla morte dell’eccentrico collezionista e alla distruzione del museo, è Luisa a dover riordinare il materiale recuperato, Luisa, erede di un compito difficile e erede di realtà e esistenze drammatiche.
La brutalità della guerra, la sua spietata ferocia non risiede unicamente in quelle armi costruite per seminare morte e distruzione, ma traspare dai documenti, dagli scritti, dai graffiti lasciati dai prigionieri, ebrei, dissidenti del regime, partigiani, sui muri della Risiera di San Sabba, trasformata in prigione e lugubre forno crematorio, muri che sarebbero poi diventati sepolcri imbiancati.
Riordinare le carte è per Luisa, figlia di un’ebrea e di un sergente afroamericano approdato a Trieste nel momento della liberazione, erede dunque di una duplice emarginazione, occasione per ripercorrere momenti felici della sua infanzia e ricostruire parte della vita di sua madre e di sua nonna Deborah e rielaborarne il doloroso segreto. Sì perché il dolore non è generato solo dalla perdita e dalla mancanza, il dolore nasce anche dalla conoscenza e dalla consapevolezza che una vile debolezza può trasformarsi in tradimento o delazione. La verità si radica nei pensieri di Luisa, come si era radicata nella mente di sua madre.
Ma la guerra è anche questo. La paura è un sentimento talmente umano e comprensibile, che può portare a comportamenti ignobili. Se non perdonare si può comprendere.
Certamente il pathos che traspare nei bellissimi capitoli dedicati a Luisa è raggelato dall’alternanza con i documenti riguardanti la descrizione delle armi o con gli episodi relativi ai Chamacoco e a Luisa di Navarrete. Anche queste storie nella storia raccontano, tuttavia, di minoranze perseguitate, di vita e di morte, di sangue e passione.
È sempre Trieste, comunque, con il suo lungomare che per molto tempo conservò l’odore delle ciminiere della Risiera, con il suo bellissimo castello di Miramare che aveva ospitato Massimiliano d’Asburgo, ma che fu sede dei festeggiamenti per il compleanno di Hitler, è Trieste sullo sfondo e in primo piano al tempo stesso. Per parlarne con dolore, con amore, con speranza. Nonostante si sia concluso tutto con un “ Non luogo a procedere”.
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Viaggio nella terra desolata
“È la cronaca nuda e cruda dell’Apocalisse [....] . Ma Pietro non sapeva cosa fosse l’Apocalisse.
-È quando muoiono tutti perché Dio ha detto stop. Vi ho dato un gioco e voi lo avete rotto. Vi ho dato un pianeta bellissimo e voi lo avete ridotto una merda.”
In queste parole è uno dei temi dominanti dell’ultimo romanzo di Niccolò Ammaniti, un romanzo che procede per antitesi, ponendo a confronto la vita e la morte, lo spirito e la materia, la bellezza e la devastazione. A una Sicilia che conserva panorami mozzafiato e ambienti naturali incontaminati
si contrappone un’isola colpita da un virus letale che ha seminato morte e distruzione. Tra cadaveri in putrefazione, mucchi di immondizie, negozi saccheggiati, automobili abbandonate, Anna intraprende il suo viaggio con il fratellino Astor e il cane Coccolone, alla ricerca di un luogo sicuro, non infestato dal virus, col solo aiuto di un quaderno di istruzioni lasciatole dalla mamma prima di morire. Di fronte alla morte Anna reagisce con forza e coraggio. Della madre tenta di portare con sé parte del suo scheletro, pur rendendosi conto che l’essere umano diviene mera materia, nel momento in cui l’anima l’abbandona. È consapevole Anna che la sua vita terminerà nel momento in cui diventerà donna, perché il virus colpisce solo gli adulti. Ed è questo l’altro tema dominante del romanzo, la contrapposizione tra l’innocenza dell’infanzia e la contaminazione dell’età adulta.
E tuttavia, é la storia stessa in sé, nel suo complesso che ci induce a pensare che il mondo, comunque, non può sopravvivere senza gli adulti, unici garanti del perpetuarsi del ciclo vitale.
In questo viaggio drammatico durante il quale si alternano esperienze spaventose e raccapriccianti a momenti di tenerezza, Anna conosce il primo sentimento d’amore per Pietro. “[.....] Adesso capiva cos’era l’amore, quella cosa di cui si parlava tanto nei libri della mamma. L’amore sai cos’è solo quando te lo levano. L’amore è mancanza.”
Il tempo vissuto da Anna sembra espandersi, le ore, i giorni, i mesi, sembrano amplificarsi nei suoi lunghi interminabili viaggi a piedi su sentieri, strade, autostrade, fino alla conclusiva traversata dello stretto che dovrebbe consegnarla a un mondo migliore. Anna vuole con la sua forza e la sua determinazione essere la celebrazione della forza stessa della vita.
Il tema del romanzo non é certo nuovo nella storia della letteratura, nella fattispecie nella letteratura straniera, come ne “Il signore delle mosche” di William Gerald Golding.
La prosa di Ammaniti colpisce talvolta per la crudezza delle immagini che evocano contenuti “pulp”.
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Così è se vi pare
È il personaggio di Alexandre Alekhine, campione del mondo di scacchi, al centro dell’ultimo romanzo di Paolo Maurensig.
Spinto dal desiderio di fare luce sulle cause che portarono alla morte del grande scacchista, lo scrittore immagina e descrive i suoi ultimi giorni di vita trascorsi all’Hotel do Parque, a Estoril, in Portogallo.
Siamo di fronte a una biografia in parte romanzata, che ci consegna l’immagine di un personaggio ambiguo e sfuggente, che aveva dedicato se stesso con passione e sincerità solo all’arte del gioco degli scacchi. La scacchiera è vista e considerata come l’unico mondo accettabile, ed è posta in contrapposizione alla vita reale miserevole e contraddittoria. “ La scacchiera è stata il mio mezzo di espressione artistica: la tela su cui dipingere, il pentagramma del musicista, la pagina bianca del poeta; e a quest’arte mi sono interamente votato.” Queste le parole di Alekhine e in queste parole egli sottintende altresì una giustificazione alle accuse che gli vengono mosse da molte parti del mondo. Alekhine salvato da Trozki da una condanna a morte come oppositore del regime comunista, Alekhine campione, Alekhine collaborazionista dei tedeschi del terzo Reich. Ogni periodo della sua esistenza, ogni evento, ogni difficoltà sono state superate solo in funzione di una spasmodica ricerca artistica nel gioco degli scacchi. Eppure la sua immagine è offuscata da quella amicizia con Hans Frank, governatore della Polonia, e con i seguaci di Hitler. Gli ultimi giorni della vita di Alekhine coincidono con i giorni del processo di Norimberga. Egli non è alla sbarra, ma il suo processo ha luogo nella sua coscienza dove egli rappresenta a se stesso gli atti di accusa contro i quali cerca giustificazioni che appaiono deboli, quasi inconsistenti. Una delle accuse più terribili che gli si possa rivolgere è quella di aver saputo del destino degli ebrei e non aver esercitato alcuna intermediazione presso le sue amicizie potenti. L’ambiguità del personaggio ê qui accentuata da una disquisizione che verte specificamente sull’abilità artistica degli ebrei alla scacchiera, che Alekhine sminuisce, fino a negarla.
Un personaggio, questo, che in alcune pagine appare in una dimensione odiosa, in altre, come in quelle in cui si ritrova a discorrere con l’amico giudeo Neumann, in una dimensione di umana fragilità. Siamo di fronte a una vera e propria rappresentazione della teoria delle ombre. Come nella geometria prospettica, così nella vita reale, ogni corpo, ogni individuo, assume una forma diversa a seconda di come esso viene illuminato, a seconda di come la sua ombra si propaga. Così è se vi pare.
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Documento a più vocii
Con il titolo “Ragazzi di zinco” Svetlana Aleksievich consegna all’opinione pubblica una raccolta di testimonianze sulla guerra sovietica in Afghanistan rilasciate da reduci, da madri, parenti e amici di giovani deceduti in quell’inferno. Una verità allucinante emerge dai racconti, verità che non lascia alcun dubbio sull’inganno di cui erano stati vittime in tanti , e che diventa una condanna inesorabile per ogni guerra. È la demistificazione dell’illusorietà di ideologie fasulle, basate sulla propaganda capziosa.
Sono i reduci stessi, a volte gravemente mutilati, che descrivono gli orrori che venivano commessi, in nome del socialismo e di una patria a cui tutto era dovuto. La realtà che si presenta ai loro occhi è del tutto diversa da ciò che era stato loro descritto. Morti e carneficine, corpi straziati, costituivano le esperienze quotidiane. I feriti desideravano solo morire come estrema fuga per la libertà.
Le testimonianze più laceranti sono quelle delle madri, alle quali vengono restituite salme chiuse in bare di zinco. E il sospetto che le bare non contengano i resti dei figli si fa insistentemente strada. Qualcuno afferma che invece dei corpi si rimpatriava droga e ogni genere di mercanzia commerciabile. Perché non venisse realizzato dall’opinione pubblica il numero dei caduti, le bare venivano disseminate in cimiteri diversi senza lapidi.
Un susseguirsi di immagini raccapriccianti crea in chi legge un giusto sentimento di indignazione e di ribellione verso la vessazione a cui alcuni popoli vengono sottoposti. Si fa più forte il rifiuto della guerra. Ci si chiede se sia ancora valido quel principio di autodeterminazione dei popoli, secondo il quale ogni stato è sovrano e ha il diritto di scegliere il proprio governo. In quei paesi dove regimi repressivi e sanguinari si macchiano delle più delittuose colpe, la democrazia dovrebbe essere una conquista autonoma e indipendente. Se imposta essa non è un bene di cui si possa essere consapevoli. Eppure la follia umana sembra essere ben lungi da queste considerazioni. E le guerre dilagano sul nostro pianeta.
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