Opinione scritta da topodibiblioteca
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Il gruppo vince sul singolo
Un libro piuttosto breve questo della Murgia, ma nella sua brevità estremamente significativo e potente nel contenuto, già a partire dal titolo: “Noi siamo tempesta”, poi come meglio specificato nel sottotitolo questo “Noi” rappresenta la forza del gruppo, perché l’importante è essere “Tanti. Insieme. Diversi”. La Murgia attraverso una serie di esempi più o meno celebri, ci racconta quanto la Storia con la “s” maiuscola in realtà non venga scritta dalle imprese compiute dai singoli, pochi individui super qualificati e/o super eroi, pieni di talenti o poteri, bensì dai molti individui che attraverso l’unione e la collaborazione raggiungono risultati proibitivi per i singoli. Utilizzando un’espressione mutuata dal mondo del lavoro si potrebbe dire che è il trionfo del “team working”, la dimostrazione che tutti quanti con l’impegno e l’organizzazione possono ottenere successi insperati. L’autrice ce lo dimostra raccontando la nascita di “Wikipedia”, l’enciclopedia libera che fiorisce sul web proprio grazie al contributo di una “comunità del sapere….un immenso alveare dove le api vanno e vengono e ciascuno porta il polline nella sua celletta”. Prosegue con altri esempi, tra cui la celebre “battaglia delle Termopili” nella quale 300 soldati spartani tengono testa all’enorme esercito persiano di Re Serse (“nessun’altro è addestrato come noi a pensare insieme, ad agire insieme, come se fossimo uno”), o ancora la “caduta del Muro di Berlino” buttato giù da individui liberi riuniti insieme.
La Murgia scrive un libro solo apparentemente dedicato ai ragazzi avvalendosi anche di una veste grafica innovativa ed accattivante contornata da disegni e fumetti, con la finalità di fare capire che mai devono scoraggiarsi e che la forza di ognuno sta nella voglia e nella determinazione, altrimenti non si raggiunge nessun risultato. La stessa forza e determinazione che hanno dimostrato le madri di “Plaza de Mayo”, dei giovani desaparecidos, con la loro protesta pacifica e collettiva contro la dittatura argentina, ma anche il così detto Bloomsbury group”, gruppo di intellettuali inglesi nato spontaneamente ed informalmente tra cui spiccano celebri nomi come Virginia Woolf, J.M. Keynes, che hanno lasciato segni indelebili nella letteratura, economia, arte in generale.
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La vita, l'amore, la religione in Singer
Merito della casa editrice Adelphi è in questo caso quello di continuare a pubblicare le opere del premio Nobel I.B. Singer: “Il ciarlatano” è la prima edizione mondiale tradotta dall’originale manoscritto in lingua yiddish. Protagonista del libro è Hertz Minsker, definito con un certo cinismo da un suo amico come un ciarlatano per l’appunto (“Perché gli dai del ciarlatano? E come dovrei chiamarlo? E’uno che corre dietro a donne di ogni tipo, facendosi pure dare del denaro. E’ così che ha sempre vissuto”). Minsker tuttavia è altresì un grande erudito, figlio di rabbino, profondo conoscitore del Talmud, oltre che incallito donnaiolo con moglie ed una serie di amanti in continua espansione. Singer ci regala un romanzo in cui parte dalle vicende dei singoli, in questo caso le tresche amorose di Minsker raccontate con uno stile tragicomico in cui risalta la liaison dello stesso con Minna, la moglie del suo migliore amico Morris Kalisher, legame destinato a interrompersi quando Morris scoprirà il tradimento dicui è vittima. Ma in Singer le vicende private ad un certo punto si allargano, vanno oltre, fino a inglobare le tradizioni del mondo ebraico e toccando il tema della guerra e della persecuzione subita dagli ebrei. Sullo sfondo di una New York anni ’40 del secolo scorso abitata da emigranti ebrei provenienti dalla Polonia, l’autore affronta con grande intensità e autorevolezza il tema dell’olocausto, dello sterminio degli ebrei in Europa, evidenziando nei suoi protagonisti quel senso di devozione, quella speranza rivolta in Dio affinchè, tramite la sua intercessione possa fare cessare le sofferenze del popolo eletto.
Allo stesso tempo tuttavia non mancano nemmeno questa volta quelle classiche domande esistenziali e filosofiche sull’esistenza di Dio e sui suoi disegni misteriosi e incomprensibili:
- “Anche Dio è crudele. Non uccide solo qui sulla terra, ma anche su milioni, miliardi di altri pianeti”.
- “Perché l’Onnipotente permetterebbe la sofferenza?.......Il mio punto di vista è che hanno tutti dei limiti, dall’ultimo angelo sino a Dio stesso”
- “Un Dio Onnipotente, infinito nel tempo, illimitato nello spazio……Perché non aveva scelto di tormentare qualcuno delle Sue dimensioni?”.
In definitiva Il ciarlatano è l’ennesima dimostrazione di come Singer sia in grado di trattare con leggerezza ma allo stesso tempo grande profondità, i temi a lui più cari, in cui la vita, l’amore, la quotidianità del mondo ebraico, si intersecano con questioni dal forte sapore filosofico e religioso nei confronti dei quali ogni essere umano può riconoscersi.
Un obiettivo puntato sulla Berlino anni '30
“Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa”. Con queste parole il narratore, alter ego di Christopher Isherwood (ed omonimo dell’autore), fin dalle prime righe di questo libro svela al lettore il suo interesse primario: raccontare la Berlino degli anni ’30 del secolo scorso nella quale aveva deciso di vivere insegnando inglese e descrivendo contemporaneamente l’umanità varia” con la quale era entrato in contatto. Isherwood ci parla di una Berlino tumultuosa, irrequieta, terreno fertile per i sempre più numerosi simpatizzanti del Partito Nazista in forte ascesa. La folla inneggia a Hitler ed i gruppuscoli delle SA si cimentano in libere scorribande contro ebrei o comunisti, senza trovare una vera opposizione. Sullo sfondo di questa città dai forti contrasti, con il gelido inverno incombente, in cui è possibile sentire “…il dolore acuto che il ghiaccio infligge alle travi della sopraelevata, al ferro delle ringhiere dei balconi, ai ponti, alle rotaie dei tram..”, si muovono una serie di personaggi, un sottobosco di amicizie e conoscenze che Isherwood ci introduce amabilmente, quasi come se volesse presentarci a loro, dedicando ad ognuno di essi un capitolo del libro.
Ecco che diventa così possibile fare la conoscenza di Sally Bowles, giovane attrice dal fascino certo e ammaliante, fortemente motivata a entrare “nella cerchia” giusta per emergere e fare carriera nel mondo dello spettacolo, ma allo stesso tempo piuttosto ingenua e preda di perditempo e faccendieri che frequentano abitualmente locali notturni. E ancora oltre a Sally, il narratore, che ad un certo punto decide di allontanarsi da Berlino e prendersi un periodo di vacanza sul mare Baltico, fa la conoscenza di una coppia omosessuale piuttosto litigiosa nella quale il giovane e squattrinato scansafatiche Otto Nowak seduce il facoltoso Peter, con l’intenzione di spillargli denaro. Una volta tornato a Berlino, Isherwood conoscerà i bassifondi popolari della città trovando alloggio proprio presso la casa della famiglia di Otto, del quale era diventato amico. Infine l’autore sposta il “suo obiettivo” parlando dei Landauer, ricca famiglia di origine ebraica dedita al commercio con la quale entra in contatto, soffermandosi in particolare sulla figura della giovane Natalia (che sembra avere un debole per lui). Non casuale la scelta di raccontare la vita di una famiglia ebraica in un momento storico cruciale, nel quale gli ebrei in Germania cominciavano a essere oggetto di forte dileggio prima e di azioni minatorie in seguito.
Più che un romanzo questo di Isherwood è un libro di racconti che a tratti diventa una cronaca di avvenimenti e che vale sicuramente la pena di leggere, nel quale si fondono le vite private dei personaggi con il tema politico. Forse più noto al pubblico considerando che dallo stesso sono stati tratti film ed il celebre musical “Cabaret”.
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Un'opera spiazzante e caleidoscopica
Quando un libro riesce a colpire il lettore fin dalle prime righe grazie all’originalità e capacità creativa dell’autore, l’opinione non può che essere positiva. Queneau inventa un romanzo che fin dalla prima pagina è tutto un programma: “ Il venticinque settembre mileduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare un momentino la situazione storica….Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Francesi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane..”.
Battute, giochi di parole, proverbi rivisitati (“Il diavolo fa le pentole ma non i Copernichi”) sono la struttura portante di una storia nella quale due protagonisti si alternano, quasi come se si scambiassero il testimone in una gara a staffetta. Da una parte il Duca d’Auge, nobile signore della provincia francese fortunato possessore di due cavalli parlanti e molto sapienti che terrorizzano la gente, oltre che piuttosto irriverente nei confronti del re e della chiesa, dall’altra invece il suo alter ego, Cidrolin, che vive alla periferia di Parigi a bordo di una chiatta e passa il suo tempo a riverniciare la vicina staccionata imbrattata da uno sconosciuto con scritte ingiuriose nei suoi confronti. La dimensione onirica è alla base della narrazione di questo romanzo, felicemente e superbamente tradotto da Italo Calvino, in cui, come si interroga lo stesso Calvino, non si capisce se è il Duca d’Auge a sognare di essere Cidrolin o se viceversa è questi a sognare di essere il Duca (“I miei sogni – disse Cidrolin-, li scrivessi, farebbero un romanzo”). Come per magia infatti, ogni volta che Cidrolin si addormenta sulla sua chiatta, dopo avere gustato un bicchiere all’essenza di finocchio, è come se si risvegliasse nei panni del Duca con il potere di viaggiare nel tempo, da un periodo storico all’altro, passando dal Medioevo e dalle crociate, alla Rivoluzione francese, fino a quando i due protagonisti si ritroveranno vis a vis in prossimità della Senna e della chiatta di Cidrolin.
Queneau scrive un romanzo totalmente fuori dai canoni tradizionali, risultando spiazzante e fuori da ogni logica, riuscendo a creare un “cocktail letterario” in cui storia, sogno, filosofia vengono sapientemente mischiate e irrorate da una massiccia dose di umorismo. Per la cronaca “i fiori blu” del titolo (che si ritrovano citati tanto all’inizio quanto alla fine del libro) sono un omaggio a versi di Baudelaire e dovrebbero richiamare l’idea di romanticismo e nostalgia di una purezza perduta.
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Yates, il Moravia americano
La prima edizione italiana di “Revolutionary Road”, uscì nel 1964 con il titolo “I non conformisti”. Questa scelta editoriale così evocativa, richiama in qualche modo alla memoria le opere di Moravia, che ha fatto del tema del conformismo borghese un suo cavallo di battaglia. Ora Yates sembra proprio ammiccare da certi punti di vista a Moravia, descrivendo una provincia americana suburbana abitata da una “middle class” borghese che Frank Wheeler, il protagonista maschile del romanzo, non esita a definire ipocrita: “E’ come se tutti si fossero tacitamente accordati per vivere in uno stato di perenne illusione. Al diavolo la realtà! Dateci un bel po’ di belle stradine serpeggianti e di casette dipinte di bianco, rosa e celeste; fateci essere tutti buoni consumatori…..e se mai la buona e vecchia realtà dovesse venire a galla e farci bu!, ci daremo un gran da fare per fingere che non sia accaduto affatto”.
I coniugi Wheeler si delineano, apparentemente, come i “non conformisti” del titolo: Frank, il marito, ha un lavoro noioso ma che gli garantisce un tenore di vita borghese ed ha una collega con la quale ha iniziato una relazione extra coniugale. April, la moglie, che Yates descrive come “una massaia piccolo borghese, piena di buon senso”, tenta di evadere dalla routine quotidiana iscrivendosi ad un corso teatrale di una compagnia filodrammatica. Entrambi quando non occupati dalle loro attività, trascorrono il tempo libero assieme ad un’altra coppia di amici, i Campbell, chiacchierando e spettegolando del più e del meno, ammazzando il tempo (s)parlando sul vicinato e provando quel sottile senso di piacere che deriva dal giudicare gli altri perché ci si sente migliori di loro. Ma la vita dei Wheeler non è poi così differente da quella degli altri vicini e sotto la facciata felice si nascondono le tensioni e le lacerazioni di una coppia in crisi in cui, proprio come ne “Il Disprezzo” di Moravia, ad un certo punto la moglie April confesserà al marito di non amarlo: “Ma io non ti amo..la verità è che mi fa schifo solo vederti. La verità è che se mi vieni vicino, se soltanto mi tocchi, credo che mi metterò a urlare”.
Per lungo tempo i coniugi si crogiolano nell’illusione di evadere dalla noia del mondo borghese nel quale sono immersi e che detestano, ben idealizzato in quel quartiere suburbano di Revolutionary Road in cui abitano con i due figli, sognando di attuare una sorta di riscatto sociale che si concretizza nella volontà di emigrare in Francia, facendo tabula rasa delle loro attuali vite e ricominciando da zero in Europa. La progressiva caduta verso il baratro, provocata dalla dura realtà dei fatti e degli imprevisti di cui sono vittime, li porterà a confrontarsi con sé stessi ed i propri scheletri nell’armadio. Yates descrive un piccolo mondo borghese cieco, senza via d’uscita in cui tutti i personaggi sembrano avere smarrito il lume della ragione ed in cui, paradossalmente, l’unico personaggio savio, che dispensa parole di verità, sembra essere John, il figlio affetto da disagio mentale di un’altra coppia di conoscenti dei Wheeler.
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La scuola degli orrori
Ci sono libri che riescono a rimanere impressi nella nostra mente e nel nostro cuore, scavano nell’anima e sedimentano. Tra questi si può annoverare il nuovo romanzo di Colson Whitehead, noto al pubblico per “La ferrovia sotterranea” con il quale ha vinto il Premio Pulitzer.
Whitehead, prendendo spunto da una storia vera fatta di violenza e razzismo, ci racconta una tragedia americana ambientata nella Florida degli anni sessanta, all’epoca in cui la figura del reverendo Martin Luther King era un imprescindibile punto di riferimento per la lotta della popolazione di colore contro la segregazione razziale per l’ottenimento di quei diritti civili così spesso negati.
Al centro della vicenda la Nickel Academy, scuola–riformatorio nella quale, senza troppe preoccupazioni, vengono spediti dalle autorità locali ragazzi minorenni -bianchi o neri indistintamente anche se il colore della pelle è spesso un aggravante- considerati disagiati, oppure perchè orfani o vittime di famiglie violente o perché accusati di piccoli reati. L’obiettivo della scuola sarebbe quello di educare e recuperare gli adolescenti in difficoltà ma dietro le sue mura vengono compiute, da parte dei sovrintendenti reggenti che godono di parecchie immunità, le più terribili rappresaglie: punizioni corporali ingiustificate, episodi di segregazione prolungata, sfruttamento del lavoro minorile. Partendo da questa cornice Whitehead racconta queste atrocità attraverso la salda amicizia tra due ragazzi di colore Elwood e Turner, finiti alla Nickel il primo a seguito di una falsa accusa per furto d’auto ed il secondo a causa di un episodio di teppismo nei confronti di un bianco. I due giovani sono perfettamente complementari, si completano a vicenda: Elwood è acculturato, fervido sostenitore dei movimenti di protesta dei neri, ma allo stesso tempo piuttosto ingenuo ed incline a mettersi nei guai. Turner è invece fortemente disilluso, cinico, dotata di scarsa cultura ma abile nel comprendere come un nero deve comportarsi in quell’ambiente “razzista di brutto”, in cui “la metà della gente che lavorava li probabilmente si metteva il cappuccio del Klan nel fine settimana”.
Un ambiente in cui il male penetra fin nelle fondamenta e rimane indelebile nella mente delle sue vittime per tutta la vita (“Ecco cosa ti faceva la scuola. Non si fermava quando uscivi. Ti storceva in tutti i modi finché non eri più capace di rigare dritto, e quando te ne andavi eri ormai completamente deformato”).
Un romanzo che colpisce e che a tratti, nello stile narrativo, ricorda una triste e drammatica cronaca di eventi rimasti oscuri per troppo tempo, grazie anche alla complicità del governo della Florida, lo Stato dove era localizzata la "scuola degli orrori" realmente esistita. Whitehead ha avuto il merito di capire che non era più possibile tacere davanti a tutto questo, soprattutto davanti alle improvvise scomparse di molti di quei ragazzi, che venivano troppo spesso eliminati e sepolti in cimiteri improvvisati all’interno della scuola.
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Il percorso di Giona
Credo non sia sempre facile approcciarsi all'esordio letterario di uno scrittore. Occorre superare quello scetticismo che ti porta a pensare quanto, magari, possa essere meglio dedicare il proprio tempo ad un autore noto piuttosto che ad uno sconosciuto che si affaccia sul mercato editoriale, proponendoti chissà che cosa. Invece una volta superata la possibile diffidenza iniziale, la scoperta di un nuovo autore può trasmetterci la piacevole sensazione di avere individuato una "nuova penna" da tenere d'occhio. Filippo Tapparelli, vincitore del Premio Calvino 2018 con questa sua opera prima, riesce a dimostrare un certo talento creativo e narrativo raccontandoci una storia dalle tinte fosche, tragiche e drammatiche, con alcuni personaggi di assoluto spessore ed un'ambientazione oscura. Giona, il ragazzino spaurito e senza memoria ("Non ho ricordi di quando ero piccolo, non ne ho nemmeno uno") che vive con il nonno Alvise duro, autoritario, violento e dominante, sono i veri protagonisti di un romanzo claustrofobico ambientato in un paesino di montagna immerso nella nebbia, isolato e fuori dal mondo e dal tempo ("Qui il tempo è bloccato in un oggi senza ieri, che non diventerà mai domani"). Alvise in particolare, si staglia al di sopra di tutto e tutti, vestendo i panni del rigido educatore di Giona ("La sapienza, Giona, si acquisisce attraverso la sofferenza. Deve essere così. Diffida da chi impara con gioia, perché ciò che si apprende senza dolore, altrettanto facilmente si dimentica"), autentico padre-padrone dell'intero paese, penetra nelle menti dei suoi abitanti, sembra sostenere da solo l'equilibrio del luogo ("Tutto il paese gira attorno a lui. Alvise al centro e tutti gli altri attorno") .
Partendo da queste premesse Tapparelli costruisce una narrazione avvincente in cui è possibile assistere al percorso di progressiva presa di coscienza da parte del giovane Giona, come si trattasse di un romanzo di formazione in cui la maturazione psicologica viaggia di pari passo con il tema della memoria, del ricordo, della riscoperta delle proprie radici e della famiglia. Un percorso in cui Giona viene accompagnato da una sorta di mentore, di un "Virgilio sui generis" in grado di fargli attraversare la selva oscura e che assume le sembianze di una misteriosa bambina accompagnata da un gatto nero, fino ad un epilogo che sa tanto di catarsi, di svelamento, di superamento di quell'inverno oscuro che si porta dentro e che lascia attoniti.
In definitiva trattasi di un'opera prima che si legge con piacere e che non lascia indifferenti, anche se, a mio avviso, non risulta priva di alcuni difetti come diversi rallentamenti nel ritmo della narrazione a causa di lunghe descrizioni assolutamente ben scritte ma talvolta eccessive e ridondanti.
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Amore, desiderio e riscatto sociale
Un romanzo che attraversa il tempo e lo spazio, queste “Avventure della ragazza cattiva” dello scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 2010. Una storia che inizia in Perù, negli anni cinquanta del novecento, quando il giovane protagonista Ricardo incontra e si innamora perdutamente della giovane ragazzina definita la “Niña Mala” , un epiteto che contraddistinguerà questo personaggio femminile, dotato di bellezza, sensualità, carisma, ambizione e grande potere seduttivo, per tutto il resto del romanzo. Da quel momento in poi, per i due protagonisti, sarà un continuo perdersi e ritrovarsi al di fuori dell’America Latina, sullo sfondo di città come Parigi, Londra, Tokyo. La Niña Mala incarna l’ossessione amorosa di Ricardo, saggiamente e sarcasticamente rinominato dalla stessa ragazza come il “Niño Bueno”, a dimostrazione di come queste due anime in evidente contrapposizione, siano in qualche modo obbligate e destinate a ritrovarsi, a frequentarsi, data la loro complementarietà.
Vargas Llosa riesce a costruire un intreccio narrativo di effetto in cui lo stesso Ricardo, il Niño Bueno, racconta in prima persona le proprie pene d’amore, la sua vita costellata dalla presenza-assenza di questa crudele ed avvenente ragazza che gli ha rubato il cuore e l’anima, per la quale arde senza soluzione di continuità (“Ero sicuro che l’avrei amata sempre, per mia felicità ed anche per mia infelicità”). L’amore viaggia in parallelo col desiderio, la presenza della Niña Mala è costante nella mente di Ricardo, anche nei momenti di sua assenza, anche quando i tormenti inflitti paiono offuscare questo sentimento profondo che riesplode inevitabilmente al suo manifestarsi (“Ti amo, ti desidero con tutta la mia anima, con tutto il mio corpo. In questi quattro anni non ho fatto altro che sognarti, che volerti e desiderarti. E maledirti, anche. Ogni giorno, ogni notte, tutti i giorni”).
Sarebbe però limitato inquadrare questo romanzo nella sola storia d’amore e di passione così ben descritta, in quanto l’abilità dell’autore si nasconde nelle pieghe della storia che, pagina dopo pagina, riesce comunque a fare provare al lettore un sentimento di solidarietà, se non addirittura di simpatia prima e di compassione poi, nei confronti di questa Niña Mala, che in qualche modo assurge a diventare emblema di quella forza di riscatto sociale che le viene riconosciuta. Vargas Llosa evidenzia infatti la sua capacità di emersione dalle “paludi” di un paese dell’America Latina, il Perù, ancora molto, troppo povero, afflitto da tensioni politiche tali da non garantire condizioni di vita soddisfacenti per il suo popolo, arricchendo così il contenuto di questa opera (“E forse….quando era ancora una mocciosetta impubere, aveva già preso la temeraria decisione di andare avanti…..di fuggire per sempre da quella trappola, quel carcere e quella maledizione che era per lei il Perù, e andarsene lontano ed essere ricca…fino a diventare una donna fredda, senza cuore, calcolatrice, crudele”).
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Morte, inganno, ricordo
Titolo ad effetto quello scelto da Marias per questo romanzo fortemente intimista raccontato in prima persona dal protagonista-narratore avvalendosi di lunghe divagazioni, derive della coscienza, che a tratti ricordano lo stile del grande Saramago.
“Domani nella battaglia pensa a me, e cada la tua spada senza filo…” Si tratta di richiami al Riccardo III di Shakespeare che tornano più e più volte nel testo, nei pensieri del narratore, spade di Damocle pronte a cadere in testa, minacce velate tese a rammentare eventi nefasti e tragici. Il romanzo infatti è avvolto da un’atmosfera di tragicità in cui la morte compare fin dalla prima pagina, come a volere indirizzare il lettore fin da subito su cosa avrà a che fare, descrivendo l’improvviso decesso di una donna durante una serata qualsiasi, mentre si trova in compagnia di un amante ed il marito risulta in viaggio per lavoro a Londra. Ed accanto alla dimensione tragica, in cui oltre alla morte si evidenzia il dramma del figlio piccolo rimasto senza madre, si accompagna la dimensione del tradimento. Il più importante forse (ma non certo l’unico) quello della vittima con l’amante (il protagonista-narratore) disperato e spaventato, che non sa come comportarsi e che non vuole lasciare tracce del suo passaggio. Sarà poi lo stesso Marias, nell’epilogo, a svelare al lettore che tema portante di tutto il romanzo è proprio il tradimento, l’inganno, nel senso più ampio della parola in quanto “Vivere nell’inganno è facile ed è la nostra condizione naturale, e in realtà questo non dovrebbe dolerci poi tanto”, “…continuiamo a essere coscienti, per quanto vogliamo ingannare noi stessi, che teniamo dei segreti e racchiudiamo in noi dei misteri, anche se la maggior parte di questi sono banali”.
A questo binomio si potrebbe aggiungere una terza parola “ricordo”, in quanto rimane impressa nella memoria, quasi si trattasse di un’immagine fissata sulla pellicola, il ricordo della persona scomparsa che a tratti assume la configurazione di una presenza, quasi incantata, che rimane personificata nella mente (“Forse il legame poteva limitarsi a questo, a una specie di incantamento o haunting, che a ben vedere non è altro che la condanna del ricordo, del fatto che gli eventi e le persone ritornino e appaiano indefinitamente e non cessino del tutto…dimorino o abitino nella nostra testa...”).
“Morte”, “inganno”, “ricordo”, rappresentano dunque le fondamenta di “Domani nella battaglia pensa a me”, costanti della condizione umana, di una vita in cui “Di quasi nulla resta traccia, i pensieri e i gesti fugaci, i progetti e i desideri, il dubbio segreto, i sogni, la crudeltà e l’insulto, le parole dette e ascoltate e poi negate o fraintese o travisate, le promesse fatte e non tenute in conto, neppure da coloro a cui sono state fatte, tutto si dimentica o si estingue”. L’evanescenza del vivere diventa un elemento inconfutabile perché “Tutto viaggia verso il suo stesso svanire e si perde e poche cose lasciano traccia, soprattutto se non si ripetono, se avvengono una sola volta e non tornano più”. Concetto particolarmente significativo questo della “non ripetizione”, che mi riporta con la memoria ad una considerazione del tutto analoga espressa da Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere.
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Un'opera completa
Classico contemporaneo del quale è già stato detto tutto, una lacuna colmata con troppi anni di ritardo ahimè (e ringrazio chi ha contribuito a farmelo leggere). Uno di quei libri da "leggere assolutamente almeno una volta nella vita". Un saggio-romanzo (oppure il contrario forse?) che sonda la profondità dell’animo umano attraverso continui approfondimenti filosofici, ma che allo stesso tempo spazia anche su tanti altri temi come la politica (la denuncia dell'occupazione sovietica nel 1968, durante la Primavera di Praga), religione, amore.
“Che cosa dobbiamo scegliere la leggerezza o la pesantezza?” E’ quello che si chiede Kundera fin dalle prime pagine, l’eterno dilemma, e questa dicotomia attraversa le pagine di quest'opera che ci fa capire quanto l’uomo ambisca ad una vita piena, realizzata, emozionante, anche se in concreto tali aspirazioni possono configurarsi in tutta la loro "pesantezza" e gravità. Sull’altro piatto della bilancia abbiamo invece il concetto di "leggerezza" che può anche diventare insostenibile, indesiderabile (come nel caso di Sabina, una delle co-protagoniste dell’opera). La stessa vita tra l’altro può definirsi leggera ed effimera, un’opportunità che svanisce velocemente (“la storia è leggera al pari delle singole vite umane, insostenibilmente leggera, leggera come una piuma, come la polvere che turbina nell’aria, come qualcosa che domani non ci sarà più”). Per Kundera infatti “Il tempo umano non ruota in cerchio ma avanza veloce in linea retta. E’ per questo che l’uomo non può essere felice, perché la felicità è desiderio di ripetizione”. L'uomo è perenemmente alla ricerca di quegli elementi di rottura in grado di rendere la sua vita unica e indimenticabile, ma come riuscire a cogliere le sollecitazioni della vita? Come distinguere il banale da ciò che non lo è ? Per Kundera la spiegazione sta in qualche modo nella casualità perchè "Soltanto il caso può apparirci come un messaggio. Ciò che avviene per necessità, ciò che è atteso, che si ripete ogni giorno, tutto ciò è muto".
Un libro che allo stesso tempo credo possa definirsi un'opera enciclopedica per la portata di concetti che contiene. Al di sopra di tutto e di tutti Kundera ci appare come il narratore onniscente che racconta la vita attraverso i suoi personaggi, ed allo stesso tempo svela il legame personale con la sua opera in quanto "I personaggi del mio romanzo sono le mie proprie possibilità che non si sono realizzate. Per questo voglio bene a tutti allo stesso modo e tutti allo stesso modo mi spaventano: ciascuno di essi ha superato un confine che io ho solo aggirato".
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Un'immersione nell'ebraismo
Questo romanzo del Premio Nobel I.B. Singer, scritto nel 1977 e dal sapore fortemente autobiografico, rappresenta una completa immersione nel mondo ebraico dal quale lo stesso autore proviene. Il libro si inserisce in quel filone che si concretizza nell'orgogliosa rappresentazione della tradizione "del popolo eletto", con tanto di elencazione dei riti legati ai momenti clou del calendario (come lo Yom Kippur, lo "sukkot" o festa delle capanne), oppure al rispetto dei divieti e degli obblighi descritti nella Torah validi per tutti gli ebrei osservanti. Singer tuttavia non si limita alla celebrazione in quanto non risparmia una serie di riflessioni dalle quali scaturiscono quelle domande e quei dubbi così tipicamente umani sul tema della fede, della provvidenza e delle ingiustizie riservate agli ebrei (“Strano come un popolo che era in esilio già da duemila anni, ed era sopravvissuto a espulsioni, inquisizioni, crocifissioni, e che perfino oggi, nel ventesimo secolo, era confinato in una Zona di residenza, fosse rimasto così devoto a un Dio della cui esistenza non c’era alcuna traccia, e continuasse a obbedire a una Legge scritta in un libro sacro chissà da quando e chissà da chi!”). Queste considerazioni devono poi essere collocate nel contesto storico in cui il libro è ambientato: la Polonia del 1911 ancora sotto il giogo della dominazione russa, in cui gli ebrei venivano considerati il "capro espiatorio" verso i quali convogliare i malumori della gente in un Paese ancora fortemente arretrato e tutt'altro che libero, anche se cominciavano a emergere quegli elementi storici che da lì a pochi anni avrebbero completamente stravolto l'impero russo con l'avvio della rivoluzione. Si evidenziano infatti quei segnali di una progressiva emancipazione dei popoli che avrebbe interessato l'intera società europea, donne comprese (“Ieri ho letto sul giornale che a Parigi le donne hanno cominciato a portare i pantaloni”).
In questo contesto si muovono i personaggi di Singer, a partire dalla protagonista principale, l'ex prostituta Keyla ed il marito Yarme, ladruncolo e truffatore (“Capitava di rado che una femmina già passata per tre bordelli si sposasse….Era un segno del cielo riservato a tutte le puttane di Varsavia: non dovevano perdere la speranza, l’amore avrebbe continuato a governare il mondo”). Nel romanzo si denotano chiaramente i loro limiti oltre a quelli di altri personaggi co-protagonisti, come il criminale Max, attraverso i quali l'autore non risparmia denunce e critiche a episodi del novecento spesso rimasti nascosti tra le pieghe della storia ebraica, come ad es. la tratta di giovani prostitute da parte di ebrei in America Latina. Tuttavia, nonostante il suo passato, tra tutti gli attori che si muovono su questo palcoscenico, è Keyla la figura che si eleva per la sua umanità ed innocenza e che risplende rispetto alle bassezze umane messe in atto dal marito Yarme e dal (presunto) amico Max. Keyla è emblematica nella rappresentazione di quel senso di colpa tipicamente ebraico che Singer le attribuisce con l’intento di descrivere così un intero popolo. Vale infine la pena evidenziare, a dimostrazione del realismo di quest'opera molto consigliata, come in tutto il romanzo lo scrittore non risparmi l'impiego di un linguaggio spesso crudo e triviale ma assolutamente coerente con la storia e le bieche azioni di taluni protagonisti (“Se vuoi vivere e godertela, farai quello che ti diciamo noi. Troia! Baldracca! Puttana! Zoccola!” ).
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Una società malata
"Ma che cosa sono io? Una creatura della terra, impastata di fango e buio". Ecco come si presenta Dario Asfar, medico levantino proveniente dalla Crimea, un crogiuolo di razze e sangue nato in mezzo alla miseria, con avi che hanno sempre vissuto per mezzo di espedienti ("Ma che altra certezza puoi avere, quando hai visto soltanto miseria, violenza, ruberie e crudeltà?"). Dario è un medico giunto in Francia in cerca di ascesa sociale, di quell'ascensore che lo possa in qualche modo riscattare, elevandolo ed assicurando per sè e famiglia un futuro radioso. Ma l'ascesa sociale è sempre terribile e difficile da realizzarsi in maniera onesta, soprattutto quando rimane cucita addosso l'etichetta di migrante, di straniero ("Io mi sono laureato in medicina in una università francese, conosco gli usi francesi e ho ottenuto la cittadinanza francese, eppure vengo trattato da straniero.."). Dario è perennemente con l'acqua alla gola, carente di denaro, è un medico straniero di cui nessuno si fida e per sopravvivere non può fare altro che indebitarsi continuamente per ripagare i creditori precedenti, moltiplicando così all'infinito i propri problemi. La soluzione a questa impasse sta nell'adattarsi ad una società feroce, falsamente perbenista ed ipocrita come quella in cui vive e che porterà Dario a diventare "Il medico delle anime", comprendendo con grande intelligenza e astuzia quanto in realtà conti curare le anime della gente, illudendola con espedienti da psicanalista con pochi scrupoli, piuttosto che i loro corpi.
Romanzo dalle tinte fosche che la Nemirovsky conduce sapientemente, dimostrando che in fin dei conti i mali dell'umanità sono sempre gli stessi nonostante il passare del tempo (uno su tutti ad es. la paura nei confronti di chi è straniero). L'autrice dimostra quanto una società apparentemente tollerante e civilizzata possa in realtà nascondere comportamenti vili e ripugnanti, come possa essere perennemente assillata da invidie reciproche e così maledettamente attaccata al denaro e pronta a qualsiasi espediente pur di accumulare ricchezza, compresa la possibilità di mettere in atto azioni al limite della legalità. Di tutto questo Dario (ma non solo) ne è l'emblema e lo confessa al proprio figlio nelle ultime pagine del libro ("Provaci, a crepare di fame, come me, con una moglie ed un figlio sulle spalle. A sentirti abbandonato....Quando i tuoi vicini ti avranno trattato da sporco straniero, da immigrato, da ciarlatano...solo allora potrai parlarmi di denaro e di successo, e capire cosa significano").
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La perfezione è attorno a noi
Ci sono libri che hanno il pregio di toccare le corde del cuore, che affrontano argomenti e tematiche esistenziali e profondamente intimistiche, tanto che quando capita di imbattersi in uno di questi, il lettore già sa che conserverà nel tempo un piacevole ricordo. “Semplicemente perfetto” dello scrittore norvegese Jostein Gaarder, noto ai più per libri di notevole successo come “La ragazza delle arance” ed “Il mondo di Sofia”, è annoverato tra quelli per l’appunto, considerata la delicatezza e sensibilità dell’autore nel trattare situazioni particolarmente drammatiche nella vita di un essere umano.
Nel titolo, di per sé emblematico, è sintetizzato tutto il contenuto del libro: quella semplice perfezione che molto spesso trascuriamo di considerare anche se l’abbiamo davanti agli occhi e che può assumere diverse declinazioni. Può trattarsi infatti della semplice perfezione di una relazione amorosa, tra un ragazzo ed una ragazza che si conoscono all’università e capiscono subito di essere fatti l’uno per l’altra, come nel caso dei due protagonisti della storia, ma può anche essere la semplice perfezione del mondo in cui viviamo. Di questa sapiente combinazione di atomi e molecole che si è manifestata a seguito del “Big Bang” dal quale miliardi di anni fa è nato l’universo e la vita come la intendiamo oggi. Albert, il protagonista maschile, si interroga e compie queste riflessioni nel momento più difficile e buio della propria vita, quando sembra che la speranza venga a mancare e si sente il bisogno di ritirarsi a riflettere, in solitudine, magari all’interno della baita di proprietà immersa nella foresta norvegese, trovando ristoro per la vista e per la mente davanti alle acque di un gelido e azzurro lago. Le domande esistenziali che si pone Albert sono quelle che, probabilmente, qualsiasi essere umano che si sente con le spalle al muro comincerebbe a porsi. Per il lettore pertanto diventa naturale identificarsi con lui, provando una forte simpatia e un senso di solidarietà crescente. Albert cerca di risalire all’origine di tutto il creato, ipotizzando “la presenza di un’entità dietro le leggi fisiche, una sorta di intelligenza che ha progettato tutto”. Allo stesso tempo non scarta nemmeno l’ipotesi scientifica che dal caso “in un colpo solo sorgano infiniti universi, come bolle isolate…….ma che la maggiore parte di esse sia instabile e condannata a naufragare perché non ha i valori giusti”. E’ lo stesso Albert a svelare al lettore il perché di questi quesiti esistenziali e la risposta sta nella “speranza”, elemento così naturale e tipico degli esseri umani. La speranza di potercela fare, di sopravvivere e continuare ad esistere in questo mondo, in cui pur avendo coscienza della propria caducità, si riconosce allo stesso tempo la propria appartenenza al genere umano che comunque continuerà a esistere (“Una cosa abbiamo tutti in comune: a turno ci spegneremo. Ma il falò continua a bruciare, a propagare scintille energico come prima”).
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Brexit si, Brexit no
Terzo capitolo della “saga” della famiglia Trotter. che fa seguito ai precedenti “La banda dei brocchi” ed “Il circolo chiuso”. In questo libro ritroviamo con vero piacere l’onnipresente Benjamin, la sorella Lois, gli amici di sempre, Doug, Philip, ai quali si aggiungono nuovi personaggi come Sophie, la nipote di Benjamin e figlia di Lois, e Charlie un amico di infanzia sempre di Benjamin. Anche il canovaccio adottato da Coe è sostanzialmente il medesimo: raccontare le vicende dei suoi protagonisti, che navigano a vele spiegate verso il traguardo della mezza età, dando allo stesso tempo molto spazio al contesto storico-politico in cui vivono. E mai come questa volta Coe sembra ribaltare questo impianto consolidato in cui si ha l’impressione che il vero protagonista del romanzo sia l’attualità politica appunto, nella quale si muovono sullo sfondo i suoi personaggi.
L’autore calca la mano su alcuni aspetti così tipicamente attuali vissuti dalla società inglese come “il senso di ingiustizia, il risentimento verso l’establishment politico e finanziario….la collera latente di una classe media che si era abituata a vivere negli agi e ora vedeva ciò che aveva conquistato sfuggirle di mano”. Queste sono le premesse in cui Coe descrive il fenomeno della Brexit, del referendum indetto dall’ex Primo Ministro Cameron (al quale non lesina critiche e sarcasmo facendo parlare i suoi personaggi) con gli esiti nefasti che oggi conosciamo. Dalla lettura emerge chiaramente come Benjamin & C., tutti contrari all’uscita dalla UE, subiscano in un modo o nell’altro la volontà popolare che si sente fortemente delusa e tradita da un’Europa che impone regole vincolanti e non pone freni al fenomeno migratorio che a parere di molti riduce il valore del mercato del lavoro rendendo disponibile molta manodopera a basso costo. Sarà proprio quella “middle England” del titolo, dove vive la parte più conservatrice, tradizionalista e critica della popolazione, a fare la differenza pro Brexit. Il risultato finale è ben descritto come un caos: “….Corriamo di qua e di là come polli decapitati. Nessuno ha la più pallida idea di quello che sta facendo……..Nessuno sa cosa sia la Brexit. Nessuno sa come attuarla”.
Libro consigliato dunque se non altro per le riflessioni così estremamente attuali e con diversi parallelismi a certi dibattiti politici del nostro paese, anche se, forse, l’attenzione di Coe verso la Brexit va parzialmente a discapito delle vicende narrate non sempre così spassose e divertenti come nei due libri precedenti.
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Una storia corale
Punto di forza di quest’opera di Roberto Bolaño, pubblicata nell’ormai lontano 1993, è sicuramente il meccanismo narrativo che prevede la sovrapposizione di più voci narranti appartenenti a tre personaggi differenti, le cui storie si intersecheranno nel corso del romanzo. Questa sorta di “coralità” ben si adatta ad una storia che pur pescando nel genere noir - prevede infatti la scoperta di un cadavere e la successiva individuazione dell’assassino- definisce la sua peculiarità nella tecnica delle “confessioni incrociate” (come recita appunto la sintesi riportata nell’interno di copertina) dei tre protagonisti. Le voci narranti pertanto si alternano regolarmente ripetendosi di tre in tre, come se idealmente ognuno di loro avesse a disposizione lo stesso spazio per confessare, davanti all’ideale platea dei lettori, le proprie responsabilità in una vicenda a tratti surreale che ruota attorno ad una pista di ghiaccio, destinata ad una avvenente pattinatrice catalana, costruita all’interno di una sfarzosa villa decadente da tempo abbandonata.
Il merito di Bolaño è quello di intrigare presentando dei personaggi piuttosto sui generis che, oltre alle tre voci, prevedono figure assolutamente curiose ed accattivanti, con ruoli non certo secondari, e che si muovono sullo sfondo di “Z”, località balneare di fantasia sulla Costa Brava spagnola. Vale la pena ricordare ad es., la già citata campionessa di pattinaggio che si allena sulla pista di ghiaccio, giovane donna con pochi scrupoli morali pronta a sfruttare la propria bellezza per raggiungere gli obiettivi personali, così come una coppia femminile squattrinata ed ai limiti dell’indigenza, formata da una cantante lirica e da una misteriosa amica di poche parole che nasconde nel grembo un coltello da cucina. In definitiva si tratta di un romanzo che certamente non verrà ricordato per i colpi di scena relativi alla vicenda noir, ma che vale la pena di leggere per l’originalità insita tanto nella costruzione narrativa adottata quanto nella rappresentazione degli “attori“ recitanti.
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Il grigiore dell'America di provincia
“Un libro che piacerà a chi ha amato Twin Peaks”, così recita il frontespizio della copertina, ma per la verità in questo noir ambientato a Roma, Kentucky (nulla a che fare con la Capitale quindi,ma solamente un’amena cittadina di diecimila anime nella provincia americana), non si respira nessuna di quelle atmosfere cariche di tensione della celebre serie di David Lynch.
Nessun personaggio che si stagli o che si riesca a ricordare a lungo, nessun mistero e segreto condiviso, ma solo una scomparsa di persona ed il ritrovamento di un cadavere nel bosco. Quello che rimane dunque è una storia ricostruita con il meccanismo del flash back e che porterà alla soluzione dell'enigma, e che si alterna alla narrazione di altre piccole grandi tragedie famigliari. Ecco semmai il libro ha il pregio di raccontare le storture dell’America di provincia, di quei territori del sud degli Stati Uniti, come il Kentucky, lontani dalle grandi metropoli, in cui episodi di bullismo scolastico all’interno di una scuola pubblica, crisi di coppia, difficoltà economiche sono all’ordine del giorno.
Probabilmente è proprio questo l’aspetto che sta a cuore all’autrice, narrare la vita di cittadini qualunque, perché forse spesso si tende a dimenticare che l’America non è solo quella della tv, con i grattacieli e la finanza di Wall Street, ma nasconde invece le insidie di una vita anonima e difficile, lontana dalla ribalta.
La coppa che ha fatto storia
“Chi non la conosce, la bossanova, pensa si tratti solo di un genere musicale. Non è questo: è molto di più. E’ la nostra vita stonata e sempre in ritardo. Anche il cuore degli uomini, in Brasile, pulsa in levare e batte un tempo dispari”.
In questa riflessione così "musicale" è contenuta la sintesi di questo romanzo in cui il Brasile è al centro del racconto. Il Brasile come nazione attanagliata da mille contrasti e problemi sociali ed economici, ma soprattutto il Brasile come squadra di calcio, la mitica “Seleção”. In particolare quella (o quelle) del 1958-1962-1970 nelle quali giocarono autentiche divinità del pallone come Garrincha e Pelé, capaci di regalare al proprio paese tre titoli mondiali, rappresentati dalla celebre coppa Rimet, dalle sembianze di una vittoria alata dal volto femminile che sostiene la coppa. All’epoca il regolamento della Fifa prevedeva che al terzo titolo conquistato la relativa nazionale avrebbe conservato per sempre nella propria bacheca il trofeo dei vincitori, e pertanto la coppa entrò a fare parte del palmares della federazione brasiliana a titolo definitivo.
Il libro risulta piacevolissimo per chi ama il calcio, ma non solo quello, in quanto la cronaca sportiva si sposa perfettamente con la Storia, quella con la “s” maiuscola, attraversando diversi eventi tragici dell’umanità quali la Guerra Civile Spagnola, la Seconda Guerra Mondiale, la rivoluzione cubana e tanto altro, affiancando inoltre a personaggi d’invenzione anche personaggi reali come Hemingway, George Orwell, Hitler, Cheguevara, giusto per fare qualche nome. Il protagonista ripercorre a ritroso, attraverso un’intervista avvenuta il 31 dicembre del 1999 all’interno di una base scientifica in Antartide, il secolo appena trascorso e racconta le peripezie affrontate per centrare l’obiettivo di tutta una vita: rubare la coppa Rimet diventata di proprietà della Federazione brasiliana dopo la vittoria dei Mondiali di Messico ’70.
Merito dell’autore, Fabio Stassi, è quello di prendere spunto da fatti realmente avvenuti di cronaca politica e sportiva, mischiandoli con una storia romanzata nella quale la musica, il calcio e l’amore nei confronti di una donna rappresentano i veri motori della vicenda. Forse infatti non tutti sono al corrente che la celebre Coppa Rimet venne rubata due volte: una prima volta nel 1966 durante i mondiali in Inghilterra, anche se poi ritrovata subito dopo, e successivamente nel 1983 a Rio de Janeiro dove era conservata, a seguito della quale fu dichiarata perduta per sempre in quanto, secondo la cronaca ufficiale, i ladri avrebbero fuso l’oro di cui era composta per poi rivenderla. Perché allora, come abilmente confezionato da Stassi, non mescolare questi episodi con un tocco di romanticismo, svelando che dietro a questi furti si cela la figura del protagonista, desideroso di impossessarsi di quella coppa al fine di conservare per sempre intatto il volto della donna raffigurata, quel volto di cui si innamorò in gioventù e che rappresentò la fonte di ispirazione per l’orafo forgiatore del trofeo.
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Il luna park non sempre è divertente
I romanzi noir di Léo Malet, incentrati sulla figura dell’investigatore privato parigino Nestor Burma, presentano una curiosa particolarità: ognuno si svolge per intero nel territorio di un preciso arrondissement di Parigi. Questo “Delitto al luna park” ha pertanto come ambientazione il XII, una delle zone più note della città abbracciando l'area di Bercy ad es. o la celebre piazza della Bastiglia. Come già intuibile dal titolo, l’indagine di Burma parte da una spiacevole avventura in cui lo stesso protagonista rimane coinvolto mentre si trova su un ottovolante all’interno del luna park. Da qui nasceranno intrighi e sviluppi piuttosto impensabili a priori.
Le storie di Malet si apprezzano per la classica caratterizzazione di genere: narrazione serrata, tempi morti praticamente inesistenti, generose scazzottate tra l’ispettore e sedicenti energumeni, figure di contorno godibili, trattandosi di personaggi femminili piuttosto avvenenti. Carente invece quell’indagine psicologica sui personaggi, tanto cara a Simenon, che si ritrova nelle pagine dell’ispettore Maigret. La scrittura di Malet può definirsi essenziale: piuttosto semplice e diretta, pochi fronzoli, il tutto condito con sarcasmo quanto basta (“Siamo in maggio…Parigi subisce il regime della doccia scozzese. Un acquazzone, un raggio di sole, un raggio di sole, un acquazzone. Talvolta acquazzone e sole contemporaneamente, per soddisfare gli amanti del cocktail”). Allo stesso tempo però ha l’indubbio merito di riuscire a tratteggiare in maniera credibile l’ambientazione in cui i personaggi si muovono, avvalendosi di paragoni piuttosto calzanti (“Un odore eterogeneo investe a tradimento le mie narici….sa di olio di motore, di fritti e frittelle, di pasta frolla, di polvere e di profumo dozzinale di cui si impregnano le servette un po’ brille”).
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L'amore non ha età
Elizabeth Von Armin pubblica nel 1925 questo romanzo fortemente autobiografico nel quale si narra l’intensa storia d’amore tra l’affascinante quarantasettenne Catherine ed il giovane Christopher, di 22 anni più giovane di lei. Forse ai giorni nostri, ormai abituati a questo tipo di liaison tra donne più grandi e uomini molto più giovani che incarnano la figura del “toy boy”, può apparire normale ma non certamente in quell’epoca, quando le convenzioni sociali e l’ipocrisia borghese imponevano il rispetto di rigide regole per evitare lo scandalo. Catherine è una donna rimasta vedova, con una figlia sposata e incinta. E’ una madre insomma e “Le madri, per essere interamente soddisfacenti, dovevano essere votate al sacrificio, solo il sacrificio e null’altro….Non dovevano desiderare altra felicità…”. Catherine si trova pertanto isolata davanti a questa sua follia (“L’amore non è opportuno. L’amore è splendido e spudorato”) e vede ergersi un muro formato dall’ostilità e diffidenza di parenti come il genero, la consuocera, alcuni amici e conoscenti. Lei stessa per prima è poi assalita da legittimi dubbi visti gli inevitabili nodi al pettine che a lungo andare, una relazione del genere, comporta, tenuto anche conto dell’incontenibile entusiasmo del giovane spasimante (“Era una vera sfortuna che il caso le avesse fatto incontrare l’unico ragazzo su dieci milioni, supponeva, abbastanza matto da innamorarsi di lei…”).
La Von Armin affronta dunque un tema delicato, spinoso e che prende spunto da episodi vissuti in prima persona, attraverso un romanzo godibile, mai noioso, adottando allo stesso tempo uno stile leggero e pregno di un notevole senso dell’umorismo. Indimenticabili risultano le caricature del bigotto genero, pastore anglicano anche lui tra l’altro molto più grande della donna che ha sposato (la figlia di Catherine) e della consuocera. Molto realistiche anche le considerazioni sui rapporti domestici tra parenti, soprattutto quando si tratta di sopportarne la presenza come ospite (“L’ospite è un essere indifeso; una suocera ospite è un essere molto indifeso; una suocera ospite non richiesta è una creatura legata mani e piedi”).
Proseguendo nella lettura però, la spensieratezza e l’umorismo lasceranno progressivamente spazio a temi molto più seri ed anche drammatici, come ne testimonia in qualche modo il finale, direi abbastanza imprevedibile ed inatteso ma allo stesso tempo molto intelligente. L’autrice, attraverso alcuni discutibili comportamenti della sua protagonista, ha il pregio di porre davanti agli occhi del lettore, alcune inevitabili considerazioni sulle potenziali dinamiche correlate a rapporti in cui la differenza di età è così evidente. Allo stesso tempo però introduce interessanti riflessioni sul tema dell’amore, la stessa parola che dà il titolo al romanzo e che alla fine può rappresentare la soluzione a tutti i problemi (“l’amore deve imparare a dare…quando è vero, è anche generoso, non chiede nulla e lascia liberi..”) .
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Una settimana bianca da dimenticare
Avevo buone aspettative su questo romanzo ma a lettura ultimata credo di sentirmi parzialmente deluso. Non tanto dalla trama di per sè, che rimane la cosa migliore direi, grazie anche all'ottima idea di lasciare al lettore la possibilità di comprendere da solo l'intera vicenda senza dare spiegazioni dirette, ma piuttosto dal contorno troppo poco sviluppato, nonostante il potenziale a disposizione di Carrère.... a cui va comunque il merito di averci pensato.
Certe situazioni così interessanti da portare avanti infatti sono state appena accennate, lasciando un po' di amaro in bocca nel lettore (almeno a mio avviso). Mi riferisco in particolare ad alcuni temi di straordinaria importanza e così attuali ancora oggi ahinoi, come gli episodi di bullismo ai danni di Nicolas (a proposito veramente spaventosa la scena del "solo contro tutti" nella prima notte passata nella camerata con gli altri compagni di scuola nel cottage di montagna) , oppure sempre per rimanere in argomento, alla figura del ragazzino "capobranco" carismatico che lascerebbe così ben promettere e che poi si perde strada facendo, sfociando nel "gioco del detective" a cui si presterà, lasciandosi conquistare dalla fantasia galoppante dello stesso Nicolas.
Proprio la fantasia di Nicolas, la sua capacità di elaborare storie per sfuggire ai drammi del quotidiano ed ai problemi familiari così evidenti, sebbene assolutamente giustificate e coerenti come si potrà ben intuire al termine del racconto, hanno però il difetto di allungare un po' troppo il brodo, facendo perdere quel pathos, quel senso di inquietudine che invece una narrazione meno singhiozzante riuscirebbe a comunicare.
In definitiva però rimane una lettura gradevole, ultimata la quale ci si può interrogare sul perché Carrère, nel corso degli anni, abbia abbandonato questo filone romanzesco per dedicarsi invece a tutt'altro genere.
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Come amare la lettura
“Avevano semplicemente dimenticato che cos’era un libro, cos’aveva da offrire….Non sapevano che un romanzo deve essere letto come un romanzo: placare prima di tutto la nostra sete di racconto”.
In queste poche righe è forse racchiusa l’essenza di questo “pamphlet” di Pennac che riflette liberamente sulla passione della lettura, sul piacere che ne deriva e soprattutto sul “come” trasmettere queste sensazioni a giovani lettori che devono crescere, in particolare studenti adolescenti che sembrano avere dimenticato quelle sensazioni che provavano da piccoli quando i genitori leggevano loro le fiabe.
Ho riletto questo libro a distanza di anni -a proposito, il diritto di rileggere è uno dei “10 diritti imprescrittibili del lettore” enumerati dall’autore- essendomi appellato recentemente al “diritto a non finire un libro” (ebbene si, tra i 10 vi è anche questo..) che me lo ha fatto in qualche modo rievocare.
E’ stata una piacevole riscoperta, perché il sagace stile del “professor Pennac” risulta sempre accattivante (come non citare la saga di Malaussène a tal proposito!). Ci ricorda come genitori e scuola rappresentino i pilastri portanti dell’educazione letteraria dei giovani, evidenziando quegli errori che spesso e (in)consapevolmente vengono fatti, col risultato di allontanare (definitivamente?) i ragazzi dal semplice piacere della lettura che non deve assolutamente essere considerata come un”dogma” al quale adeguarsi. In sintesi un libro da tenere sul comodino che ogni persona adulta dovrebbe leggere.
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Una vita intensa
La corsara, così ha deciso di intitolare questa biografia sulla vita di Natalia Ginzburg l’autrice Sandra Petrignani, richiamando volutamente, già nel titolo, un animo corsaro, impetuoso, mai domo ed ammiccando altresì a quell’idea degli “scritti corsari” di pasoliniana memoria, che ben si abbinano alla vita artistica della celebre scrittrice (anche lei infatti titolare di un’analoga rubrica sulle pagine del Corriere della Sera). Per inquadrare Natalia sono sufficienti le parole usate dall'amico-collega Italo Calvino: "Natalia è una femmina antica, che si muove in un mondo di relitti abitato da donne incolori e succubi e uomini che fumano la pipa. E' unica". Proprio Calvino infatti assieme a Pavese, Garboli, Vittorini, la Morante e tanti altri, rappresentano gli amici più cari, quelli della casa editrice Einaudi co-fondata dal capostipite Giulio e dal primo marito di Natalia, quel Leone Ginzburg trucidato dai nazisti durante la guerra, dal quale poi prenderà il cognome come omaggio alla sua memoria. Uno dei passi più toccanti del libro è la lettera mandata da Leone a Natalia poco prima di morire nella quale esortava la moglie ad essere coraggiosa ed a continuare a lavorare perchè "Attraverso la creazione artistica ti libererai dalle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l'attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre persone, per il quale io ti ero così spesso l'unico ponte di passaggio”.
L’Einaudi diventa pertanto il fulcro attorno al quale ruota la vita artistica della Ginzburg -basti pensare ad un’opera su tutte quel “Lessico famigliare” che vinse il premio Strega nel 1963-, ma è allo stesso tempo una sorta di focolare domestico, considerato che gli intrecci professionali trovano poi un’ideale prosecuzione nei tanti salotti serali in cui gli autori precedentemente citati, si ritrovano discorrendo molte volte fino a notte inoltrata. I legami che si instaurano assumono contorni intensi, un esempio su tutti è il dolore provato dopo il suicidio di Cesare Pavese che però, nella lettera scritta poco prima di morire, catechizzava gli amici a “non fare troppi pettegolezzi” sulla sua morte.
La Petrignani, in questo libro rientrato nella cinquina 2018 dei candidati al Premo Strega, ci accompagna prendendo per mano il lettore lungo tutta la vita di Natalia: dall’infanzia vissuta a Torino, dove nacquero quelle espressioni all’interno della famiglia, quei modi di dire attorno ai quali poi scrisse Lessico famigliare, e via via crescendo fino al secondo matrimonio con Gabriele Baldini, e infine gli ultimi anni di vita che coincideranno col suo impegno politico come parlamentare tra le file del partito comunista. Sono proprio questi ultimi, gli anni della progressiva presa di coscienza di una civiltà italiana che stava cambiando, che portarono Natalia a “dire la verità il mio tempo non mi ispira che odio e noia….un tempo in cui sono stati banditi lo spirito, la responsabilità individuale, il comportamento morale individuale”.
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Donne, soldi, tennis, golf ed un tuffo in piscina
Claudia Pineiro è una talentuosa narratrice in quanto nei suoi romanzi riesce sempre a fotografare con spietatezza l’ipocrisia e la decadenza sociale della classe borghese argentina, condendo il tutto con vicende fosche, che si tingono di noir.
In questa storia per di più si assiste al fallimento di quella borghesia protagonista e che non esiste più, travolta dalla crisi economica di inizio anni 2000, dalla crisi immobiliare prima e dalla progressiva bancarotta del Paese poi, con le multinazionali che lasciano l’Argentina o si ristrutturano licenziando in massa i loro dirigenti. Nonostante tutto però quello che conta per molti di costoro nonostante la perdita del lavoro, è salvare le apparenze, continuare a vivere ostentando opulenza e benessere in quel microcosmo urbano per ricchi alla periferia di Buenos Aires chiamato “Altos de la Cascada”, un country club, una residenza di lusso con tanto di piscine, campi da tennis e da golf isolato dalle baraccopoli del mondo esterno. Le famiglie che possono permetterselo vivono in questa torre d’avorio e le mogli annoiate passano il tempo spendendo denaro alla ricerca di effimera felicità, organizzano feste e placano i rimorsi di coscienza con eventi di beneficenza. Proprio queste Signore che danno il titolo al libro simpaticamente etichettate “le vedove del giovedì” il giorno della settimana in cui i rispettivi mariti si ritrovano tra loro (lasciandole sole) per mangiare e parlare di economia tra una partita a carte ed un tuffo in piscina, sono le vere protagoniste del romanzo, come spesso accade in tutte le storie della Pineiro.
L’autrice infatti dimostra grande sensibilità nei confronti del mondo femminile in generale: queste donne, sebbene caratterizzate da problemi familiari, debolezze personali e momenti di pura vanità e frivolezza, sono comunque portatrici di dolore e sofferenza e si caricano sulle loro spalle le responsabilità dei relativi mariti. Suscitano pertanto una certa pietà (positiva) e simpatia e rappresentano una delle valide ragioni per leggere questo libro, a tratti impietoso ma estremamente reale per la disamina sociale ed economica.
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Questo non è un libro giallo
Attenzione questo non è un giallo, come la quarta di copertina e i blog in rete tentano di tratteggiare !
Certo un libro giallo fa notizia, suscita entusiasmo e spesso fa lievitare le vendite, tuttavia a lettura ultimata, credo sia possibile dare “un’etichetta” differente a questa opera. Per la precisione, la vicenda ruota attorno ad un omicidio ed alla ricerca di un assassino per cui l’elemento poliziesco di fatto esiste anche se, a mio avviso, l’impianto narrativo tende a sottolineare e privilegiare altri aspetti. Il libro assume la struttura di un articolo di cronaca nera in cui l’autore narra il dipanarsi della vicenda dai diversi punti di vista dei vari protagonisti, riuscendo a ricomporre in un unico quadro situazioni inizialmente frammentate.
L’autore ne “L’uomo che voleva uccidermi” si pone l’obiettivo di illustrare, anche in maniera abbastanza cruda e spietata, l’attuale società giapponese attraverso un’analisi sociologica e psicologica piuttosto accurata. Spesso infatti siamo portati a vedere il Giappone come un paese con caratteristiche differenti rispetto all’Occidente, ammirandolo per l’assenza di alcuni vizi così tipici del nostro mondo che sembrerebbero assenti a quelle latitudini. Invece Shuichi riesce a dimostrare diverse ed inquietanti similitudini: l’uso disinvolto di Internet ed il ricorso ai social network come strumenti per agevolare i contatti tra uomini e donne, la consumazione di rapporti sessuali facili alimentati dalla diffusione dei cosiddetti “love hotel” o “centri benessere”, all’interno dei quali relazionarsi in libertà ed intimità. Allo stesso tempo fotografa una società malata di solitudine: persone rimaste psicologicamente segnate nell’infanzia che trascinano i traumi nell’età adulta tentando di mascherare le proprie debolezze tra le braccia di una conoscenza occasionale, oppure giovani privi di valori che per sopravvivere alla noia passano le serate nei locali cantando karaoke e abbordando ragazze.
La visione d’insieme che ne deriva è piuttosto allarmante. Come viene stigmatizzato verso la fine del racconto dal padre della vittima “c’è troppa gente a questo mondo che non tiene a nessuno in particolare….La gente così è convinta di potersi permettere qualsiasi cosa e guardano dall’alto in basso quelli che invece perdono qualcosa, che nutrono desideri…”.
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Voci dall'Africa
Libro vincitore del premio Strega europeo 2017: potrebbe essere sufficiente questo riconoscimento per comprendere che si tratta di un’opera che non è passata inosservata. Già dal titolo, "Voci del verbo andare", si riesce ad intuire il fil rouge attorno al quale si costruisce la narrazione dell'autrice Jenny Erpenbeck. Le voci sono quelle dei migranti africani, dei profughi sbarcati prima sulle coste italiane di Lampedusa e poi finiti a Berlino in attesa di ricevere un permesso di soggiorno per potere lavorare e costruirsi così un futuro dignitoso. Si tratta di voci che corrispondono a persone provenienti da Niger, Nigeria, Ghana, Burkina Faso e tanti altri paesi dell'Africa sub sahariana, accomunate dal destino di essere finite in Libia per sfuggire a miseria, tragedie personali, persecuzioni, ma che a loro volta si sono ritrovate imbarcate (molto spesso anche forzatamente) su natanti diretti in Italia, vittime del business dei migranti. Voci in movimento, come testimoniato dall’uso del verbo "andare", dirette verso un traguardo, una vita migliore. Ad ogni voce viene dato un nome, un volto.
Questo compito spetta a Richard, professore tedesco in pensione, ex insegnante universitario di filologia classica, che decide di trascorrere il tempo libero di cui ora gode occupandosi di queste persone, intervistandole nelle strutture in cui sono state temporaneamente collocate in attesa dei provvedimenti del governo tedesco che deciderà sulle loro sorti, sulla possibilità di rilascio di un permesso di soggiorno. Richard mescola il presente con il passato, fa parallelismi tra la condizione dei migranti e la vita in Germania quando esistevano ancora la DDR ed il muro di Berlino cercando di trovare punti di contatto. Utilizza le proprie conoscenze di cultura classica dando soprannomi ad alcuni dei migranti, li ospita a casa sua, si preoccupa del loro futuro, tenta di trovare delle occupazioni temporanee. In sintesi diventa il loro padre adottivo in quanto capisce le difficoltà nel sensibilizzare l’opinione pubblica tedesca sulla condizione di questi stranieri.
Voci del verbo andare è un libro di “riflessioni”, pacato ma allo stesso tempo rabbioso, in quanto mette in mostra alcuni lati oscuri della società del nostro tempo, alcuni egoismi che portano Richard a concludere che “…la pace, che è sempre stata la massima aspirazione dell’uomo e che finora si è realizzata in cosi poche regioni del globo, ci impedisce dunque di farne oggetto di condivisione con coloro che da noi cercano rifugio e ci spinge a difenderla in modo così aggressivo”.
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Nel solco della tradizione ebraica
Lettura complessa questo “Eccomi” di Safran Foer. Tanto per la difficoltà in alcuni punti del testo (soprattutto all’inizio, quando l’autore anticipa situazioni, personaggi e avvenimenti che verranno chiariti solamente nel proseguo dell’opera per cui il lettore rischia di rimanere spiazzato), quanto forse per la pretesa di parlare di molte, troppe cose: famiglia, amore, religione, tradimento, politica. Una ricetta con troppi ingredienti, ma anche “un’opera-mondo che si insinua nelle fondamenta della società e nei nostri amori”, come la sintetizza lo scrittore Marco Missiroli proprio in prima di copertina. Un libro che richiede pazienza ed anche parecchio tempo da dedicare viste le 660 pagine di lunghezza non sempre particolarmente scorrevoli, ma che comunque può valere la pena di leggere considerata l’arguzia di certe riflessioni (se ne potrebbero citare un’infinità dalla prima all’ultima pagina, tra cui ad esempio quella in finale di libro detta dal protagonista: “La vita è preziosa e io vivo nel mondo”), le metafore, il sarcasmo di cui trasuda. Notevole inoltre la capacità narrativa dell’autore, Jonathan Safran Foer, che prosegue idealmente la ricca tradizione degli scrittori ebrei-americani come Philip Roth, Saul Bellow, giusto per fare qualche accostamento (magari azzardato..).
Il libro infatti è un evidente manifesto a proposito della “questione ebraica”, fin dal titolo, quell’ ”Eccomi” che richiama le parole di Abramo nella Genesi, quando risponde alla chiamata di Dio che decide di metterlo alla prova chiedendogli di sacrificare il suo unico figlio Isacco. L’ebraismo è una presenza fissa e costante, a partire dalla cerimonia del Bar Mitzvah, attorno alla quale ruota gran parte delle vicende narrate, che rappresenta il rito di iniziazione di un adolescente ebreo alla Torah, fino ad arrivare prepotentemente al conflitto israeliano-palestinese che esplode con violenza a seguito di un terribile terremoto che devasta il Medio Oriente, in particolare lo stato di Israele ed i territori occupati dai palestinesi. Il tema religioso traspare in tutta l’opera: la necessità di rispettare le tradizioni ebraiche, il senso di responsabilità nel ricordare le proprie origini anche se lontani dalla madrepatria, il senso del dovere nel chiedersi se rispondere alla chiamata di Israele per tornare “a casa” e difendere i confini dalle minacce di attacchi islamici preservando così l’eredità del popolo ebraico sopravvissuto miracolosamente all’olocausto, oltre che la sua intelligenza e forza. Perché comunque l’autore ricorda che nonostante gli ebrei rappresentino solamente lo 0,2% della popolazione mondiale, hanno ricevuto il 22% di tutti i premi Nobel !
Ed èquindi accanto al tema religioso, che si combina con quello civile e politico, che Safran Foer costruisce la vicenda umana della famiglia Bloch, sovrapponendo gli intrecci coniugali dei due protagonisti Jacob e Julia e dei loro tre figli, ed evidenziando altresì la crisi all’interno della coppia. L’incapacità di comunicare, i tradimenti non consumati ma comunque vissuti attraverso scambi di sms tra il marito ed una presunta amante (solo virtuale), le accuse reciproche, spesso represse, riguardo all’educazione dei figli, la presenza talvolta ingombrante dei genitori di Jacob e del nonno. La fotografia che viene presentata è in definitiva quella di una coppia mediamente borghese, alla deriva, che non riesce a ricomporre una distanza ormai insanabile ma che tenta di non affogare nella tempesta della vita.
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Esistenzialismo all'italiana
Molto è già stato scritto su questo arcinoto romanzo di Moravia, a proposito di quella noia esistenziale così ben caratterizzata e descritta fin dal prologo (“Per molti la noia è il contrario del divertimento….per me, invece…..è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà…il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà…incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza).
Preferirei quindi soffermarmi un attimo a fare qualche riflessione sullo stile dell’autore in quanto poche volte (almeno tra gli italiani) ho incontrato scrittori capaci di scrivere in maniera così chiara di concetti non semplici, in quanto strettamente legati a momenti di vita personali, che hanno a che fare con argomenti spesso considerati tabù come il sesso. Leggere un romanzo di Moravia è un po' come trovarsi al tavolino di un caffè con un amico che ti racconta, in maniera del tutto confidenziale ma diretta, le sue esperienze. L'impressione che ne deriva è quella di riuscire ad immaginare facilmente quello che viene raccontato proprio grazie ad un linguaggio “parlato” e scorrevole che viene in qualche modo "impresso sulla pagina". Come disse lo stesso autore in un’intervista al momento dell’uscita del libro nel 1960, “La noia” è un romanzo d’amore in cui il sentimento amoroso diventa un filtro attraverso il quale parlare del senso di alienazione di un individuo, di una sua incomunicabilità rispetto al mondo reale. Questi aspetti emergono chiaramente dalla confessione del protagonista, il pittore mancato Dino, che sembra volersi confessare con il lettore raccontando del proprio disagio esistenziale, la cui causa primaria è riconducibile a quei concetti tipicamente "borghesi" rappresentati dal denaro e dalla ricchezza dai quali cerca di fuggire. Se il denaro infatti permette di comprare tutto quello che si desidera allora la realtà perde di interesse, diventa un qualcosa di stancante perché ogni cosa è posseduta, conosciuta ed inevitabilmente si manifesta la noia esistenziale, l’impossibilità ad interagire con il mondo. Le uniche cose che interessano veramente e che si desidera sono pertanto quelle inafferrabili, quelle che non si riescono ad acquistare nemmeno col denaro, come ad esempio l’amore di una donna che si concede solo fisicamente ma che in realtà appare distaccata e lontana. Ecco che allora un individuo può manifestare una terribile ossessione quando capisce di non riuscire a possedere quello che invece vorrebbe avere, perché solamente in questo modo smetterebbe di soffrire e subentrerebbe quella noia, in grado di condurlo alla pace dei sensi. Moravia riesce magnificamente a condensare questi concetti in quasi 300 pagine, delineandosi come un ideale prosecutore nostrano di quella tematica dell’”esistenzialismo” in qualche modo già così ben tratteggiata da Sartre.
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La sorpresa è servita
Isola della Réunion, dipartimento francese d’oltremare nell’oceano indiano, a pochi passi dalle isole Mauritius. Crogiolo di razze, creoli, africani, musulmani che incrociano i loro destini, paradiso tropicale immerso tra spiagge meravigliose, foreste pluviali e vulcani frementi. In questo ambiente “fuori dal tempo”, il francese in vacanza Martial Bellion, denuncia alla gendarmeria dell’isola l’improvvisa scomparsa della moglie nella camera dl’albergo. Tuttavia qualcosa non torna: una serie di indizi piuttosto lampanti suffragati da alcune testimonianze, la scoperta del cadavere di un indigeno con la relativa arma del delitto sulla quale, guarda caso, sono presenti le impronte del suddetto Bellion, lascerebbero pensare ad una messinscena, alla palese colpevolezza dell’uomo, provata oltremodo dalla sua immediata fuga assieme alla figlia piccola. Ma come in ogni giallo che si rispetti, la soluzione dell’enigma non è così prevedibile e scontata, esiste sempre una seconda pista che lentamente viene a galla, anche grazie all’indagine della gendarmeria che rimescola nel passato del protagonista.
Questa affermazione acquisisce ancora più valore quando si tratta del giallista francese Michel Bussi, noto ai più per il libro “Ninfee nere”, che presenta un finale davvero sorprendente ed imprevedibile,
Bussi in questo romanzo ambientato, appunto, nel paradiso tropicale dell’isola della Réunion descritta con dovizia di particolari tanto da fare provare la sensazione di trovarsi proprio lì sul posto assieme ai vari personaggi, dà ulteriore prova della sua abilità di affabulatore, della sua capacità nel raccontare e dipanare matasse intricate. Come un vero illusionista l’autore mostra particolari, invita il lettore a costruirsi una rappresentazione dei fatti, a definire delle ipotesi, per poi prendersi immancabilmente gioco di lui nel finale. Questo pertanto è il punto di forza del libro, tenerti incollato alla pagina fino all’ultimo, per cui il giudizio non può che essere positivo. Forse però, da un certo punto di vista, questo potrebbe risultare per alcuni anche il suo principale limite. Chi conosce Bussi infatti è al corrente dei suoi “trucchetti” del fatto che prima o poi estrarrà un cilindro dal cappello per cui c’è il rischio di lasciarsi prendere dalla smania di volere arrivare alla fine a tutti i costi, di non godere pienamente quelle atmosfere che invece meriterebbero di essere gustate fino in fondo, così come le caratterizzazioni dei personaggi, o il rapporto amorevole che si instaura tra padre e figlia in fuga, oppure certe riflessioni piuttosto interessanti e stimolanti come la seguente “…questa necessità di trovare sempre dei colpevoli per tutte le disgrazie dell’universo. Anche quando non ce ne sono, la nostra mente li inventa. Probabilmente non è facile per un poliziotto l’idea che abbiamo talmente bisogno di colpevoli da finire per crearli di sana pianta”.
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Una passeggiata a San Pietroburgo
Questo libro dell’autore olandese Jan Brokken (che a tratti ricorda una guida turistica della città di San Pietro Burgo), in effetti poteva essere pubblicato solo dalla casa editrice Iperborea che ha fatto dei romanzi scritti ed ambientati nei paesi nordici (meglio ancora se scandinavi) il suo marchio di fabbrica. Insomma, una sorta di libro-guida che ci fa passeggiare per le strade di questa meravigliosa città così ricca di storia e fascino e che Brokken sembra conoscere perfettamente.
Il celebre Palazzo d’Inverno simbolo del potere zarista con lo splendido museo dell’Hermitage, la Cattedrale di S. Isacco che si staglia sulla città con la sua cupola dorata, la Chiesa del Salvatore sul Sangue Versato eretta nel luogo dove venne ucciso lo Zar Alessandro II, la Neva e la Prospettiva Nevskij (la strada più famosa della città), sono solo alcuni esempi dei monumenti e luoghi visitati dallo scrittore. Luoghi eternamente sospesi tra il passato imperiale, la svolta rivoluzionaria bolscevica ed il presente nostalgico, a partire dai quali l’autore rievoca suggestioni e ricordi di poeti, scrittori, musicisti entrati a pieno diritto nel club degli “indimenticabili”. Spesso si tratta di intellettuali vissuti in questa città durante il periodo zarista o comunista, invisi alla corona od al regime sovietico a seconda dei casi, perché ritenuti scomodi, etichettati come nemici della patria ai quali riservare un periodo di reclusione nei campi di lavoro. Dostoevskij fu uno di questi, scampato alla pena di morte per grazia dello zar, vide la sua pena commutata in anni di reclusione in Siberia per poi tornare in città e dare alla luce capolavori come “Delitto e castigo” od “ I Fratelli Karamazov”. In epoca Staliniana una sorte analoga toccò a Solzenicyn, mentre altre volte celebri letterati come Nabokov, (l'autore di “Lolita”), scelsero la strada dell’espatrio in nome della libertà, così come altri invece decisero di rimanere a San Pietroburgo continuando a lottare coraggiosamente per i propri diritti. E’ il caso ad esempio della raffinata e affascinante poetessa Anna Achmatova, oggetto del desiderio di Boris Pasternak, dal quale ricevette diverse proposte di matrimonio tutte rifiutate, che non temeva le ritorsioni del regime e lottava affinché le fosse restituito il figlio imprigionato per motivi politici.
In definitiva Brokken dimostra la sua conoscenza ed il suo amore verso la Russia in generale e San Pietro Burgo in particolare, discorrendo amabilmente, ed elencando le numerose personalità che hanno lasciato un segno indelebile del loro passaggio. Una sorta di sinfonia musicale di celebrità tra le quali, a proposito di musica, vale certo la pena di citare anche Ciajkovskij
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Un tuffo in piscina
Molto è già stato detto e scritto di questo romanzo autobiografico (sebbene l’autrice stessa abbia dichiarato che c’è anche invenzione mischiata ai ricordi di infanzia), tra cui la legittimazione ad entrare nella cinquina di libri finalisti al Premio Strega 2017.
Considerato questo presupposto credo che per provare a fare qualche riflessione in merito si possa partire dalla copertina del libro che raffigura parte di una gigantesca piscina all’interno di un grande giardino. Spesso capita che le copertine dei libri siano pensate per attirare l’attenzione dei potenziali lettori, per agevolare magari un acquisto di impulso, senza poi avere a che fare con la storia narrata. In questo caso invece mai copertina fu dichiarata più profetica: questa grande piscina infatti è assolutamente emblematica di tutta la vicenda della famiglia Ciabatti, un elemento costante che ne accompagna le vicissitudini. E’ il fiore all’occhiello della grande villa di famiglia, la villa del “Professore” così come viene chiamato a Orbetello Lorenzo Ciabatti, noto chirurgo da tutti rispettato e apprezzato. La piscina è la prova del successo di questo celebre medico che ha studiato a New York, del suo prestigio personale testimoniato dalle innumerevoli amicizie di cui si circonda, persone influenti e importanti, politici, imprenditori. La piscina è anche il passepartout con cui la figlia Teresa ragazzina viziata e ribelle -“la più amata” dal padre come lei stessa si definisce - ottiene le attenzioni dei suoi compagni di classe, pavoneggiandosi e ostentando la sua ricchezza al loro cospetto.
La piscina è il luogo dove un bel giorno uno sconosciuto si palesa con pistola alla mano per rapire il Professore che a quanto pare nasconde numerosi segreti, tutti probabilmente imputabili alla sua presunta affiliazione alla Massoneria, in particolare alla Loggia P2, ed alla sua vicinanza con personaggi noti e scomodi della storia italiana come Licio Gelli.
La piscina infine rimane nei ricordi di Teresa diventata adulta, la figlia che a distanza di tempo decide di ricostruire le vicende della sua infanzia, di quel padre-padrone sprezzante che ha perso il suo patrimonio immobiliare ed il suo denaro a causa di investimenti sbagliati, di quell’uomo che nel bene e nel male le ha segnato la vita e del quale ricorda solo alcune cose, come ad esempio l’anello d’oro col simbolo del compasso che portava sempre con sé.
La Ciabatti non ha paura nel mettersi a nudo raccontando a ruota libera, con un linguaggio diretto e scorrevole, le proprie debolezze di donna, ovvie conseguenze di quella gioventù condizionata dalla presenza ingombrante, ed allo stesso tempo dall’assenza nei momenti importanti, della controversa figura paterna.
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La classe borghese non va in paradiso
Piacevole scoperta questo romanzo di Moravia piuttosto noto anche in considerazione della trasposizione cinematografica di Godard che in qualche modo ha orientato la mia scelta nella lettura. La vicenda è narrata in prima persona dal protagonista Riccardo Molteni, di professione sceneggiatore per il cinema, che racconta la crisi matrimoniale con la moglie Emilia scoppiata dopo due anni felici di matrimonio in cui capisce che “La felicità è tanto più grande quanto meno la si avverte”. Emilia progressivamente si distacca da Riccardo, con una banale scusa decide di non dormire più nello stesso letto, quindi comincia a trattarlo con una certa freddezza, fino ad evitare qualsiasi forma di contatto fisico. Si assiste ad un crescendo di tensioni, Riccardo sempre più sofferente cerca in tutte le maniere di capire il motivo di questo inspiegabile cambiamento fino a quando Emilia, messa alle corde ed esasperata, confessa di disprezzare il marito (“io ti disprezzo…ecco quello che provo per te…Ti disprezzo e mi fai schifo”). Il tema di questo segreto disprezzo mai motivato, né spiegato da Emilia, scorre inesorabilmente lungo le pagine del romanzo, rappresenta l’ossessione di Riccardo desideroso di riconquistare la moglie in tutti i modi e viene in qualche modo svelato solo nelle pagine finali attraverso le riflessioni del protagonista che scava nel proprio passato.
Emblematica della condizione di Riccardo, come ulteriore gravame a suo carico, è rappresentato dal tormento di doversi occupare della sceneggiatura per un nuovo film, la trasposizione cinematografica dell’Odissea di Omero. Egli deve barcamenarsi tra due differenti visioni dell’opera: quella del produttore che vorrebbe una sceneggiatura in perfetto stile kolossal con tanto di mostri, donne nude, sangue ed avventura, e dall’altra parte quella del regista che invece interpreta l’Odissea come un drammone psicologico, strizzando l’occhio alle teorie di Freud sul subconscio, in cui la lontananza di Ulisse da Itaca è in realtà voluta e rappresenta la conseguenza della crisi matrimoniale tra Ulisse e Penelope. Per Riccardo, che odia scrive sceneggiature e che sembra accettare questo lavoro solamente per pagare le rate dell’appartamento e della macchina nuovi, il dilemma sta nel scegliere tra buttarsi a capofitto nella scrittura oppure abbandonare tutto, avendo dell’opera una terza versione tutta sua in contrasto con quella del produttore e del regista. Una visione assolutamente poetica e “sospesa nel tempo”, sulla falsariga dell’Ulisse descritto e rappresentato da Dante nel XXVI canto dell’Inferno. Lavoro e vita sentimentale sembrano così incastrarsi, tanto che Riccardo riveste la sua decisione di accettare o rifiutare la sceneggiatura, di un significato profetico, in grado di cambiare le sorti del suo matrimonio e riconquistare Emilia, fino a sovrapporre la sua persona con quella di Ulisse capace di sconfiggere i Proci per poi ricongiungersi con l’amata Penelope.
Nel disprezzo, così come in altre opere di Moravia, viene riproposto il tema della classe borghese italiana, quella che emerge prepotentemente nel secondo dopoguerra, desiderosa di conquistare una “felicità artificiale”, di trovare un appagamento dal possesso di beni, come nel romanzo appunto in cui Molteni aspira ad acquistare una casa nuova, una macchina, sacrificando le proprie aspirazioni lavorative al “dio denaro” e diventando in qualche modo schiavo del potere di un produttore cinematografico che non ha scrupoli nel piegarlo ai propri voleri. La stessa Emilia, sebbene intensamente amata e desiderata, viene descritta dal marito con parole non certo lusinghiere, pare anzi essere la causa delle scelte professionali di Riccardo (“non avevo sposato una donna che condividesse e comprendesse le mie idee, i miei gusti e le mie ambizioni; avevo invece sposato, per la sua bellezza, una dattilografa incolta e semplice, piena, come mi pareva, di tutti i pregiudizi e le ambizioni della classe dalla quale proveniva”) tanto che verso la fine del storia, viene inquadrata da Molteni come una “donna non civilizzata”, che incarna in sé atteggiamenti “primitivi”, degli archetipi, in cui la figura dell’uomo, del marito, assurge a quella di capo branco che dovrebbe essere in grado di difendere la propria compagna anche con la forza se necessario.
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Da Bologna a L'Aquila
Sarti Antonio di professione "questurino", è protagonista dell'ennesima avventura scritta dal suo creatore Loriano Macchiavelli. Questa volta il poliziotto con la colite cronica, operativo presso la Questura di Bologna dovrà risolvere un intricato caso, ambientato tra la solita e immancabile Bologna e la città de L'Aquila, con tutti i problemi non ancora risolti legati alla ricostruzione post-terremoto. Tutto ruota attorno al furto di un quadro del pittore settecentesco Francesco Malagoli intitolato "La scimmia che ride" e che sembra interessare a molte, troppe persone appartenenti ai servizi segreti di diversi Paesi tra cui l'Italia, il Regno Unito, la CIA, tutti pronti a non fermarsi davanti a nulla ed a nessuno pur di mettere le mani sull'opera che sembra portare dietro di sé un segreto troppo importante da svelare e che trova la sua origine nei meandri della Seconda Guerra Mondiale.
Si tratta di una classica lettura estiva consigliata a chi ama i gialli intricati e conosce già il Commissario Sarti, o magari desidera avvicinarsi per la prima volta a questo personaggio sicuramente molto normale ed anche molto meno dotato di quell'acume indagatore che invece altri celebri detective della letteratura gialla e noir sembrano possedere . Questa volta poi la trama risulta avvalorata da una vicenda che scorre parallela nel passato durante la guerra, che riguarda molto da vicino la storia italiana del periodo fascista, e che si rivelerà fondamentale per comprendere le dinamiche dell'indagine. Altro aspetto degno di nota sono inoltre i continui rimandi all'attualità dei nostri giorni, la denuncia dei ritardi imputabili alla politica ed alla burocrazia italiana che non ha saputo reagire prontamente al disastro provocato dal terremoto a L'Aquila nel 2009 con i conseguenti disagi per la popolazione (il libro è stato scritto nel 2012 circa 3 anni dopo il terremoto quindi).
Gli elementi che invece potrebbero non essere apprezzati sono rappresentati da una certa farraginosità nel meccanismo narrativo che a lungo andare potrebbe stancare e appesantire la lettura in quanto solo nelle ultime pagine sarà possibile avere una visione d'insieme, oltre al fatto che l'autore spesso e volentieri infarcisce la vicenda con opinioni personali, battute sarcastiche, digressioni per raccontare più approfonditamente alcune sfaccettature dei vari personaggi. Ma questi aspetti rappresentano comunque il "marchio di fabbrica" dell'autore, per chi lo conosce.
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La storia si ripete
Indubbiamente, come già letto in diverse recensioni, questo ideale seguito del “Buio oltre la siepe” di Harper Lee (almeno dal punto di vista cronologico anche se probabilmente è stato scritto prima) è da considerarsi un’opera un po’ deludente da tanti punti di vista: la storia di per sé, i protagonisti che appaiono più appannati e sembrano avere perso quei tratti così caratterizzanti che avevano in precedenza, il meccanismo narrativo basato su flash back e ricordi del passato evocati da Jean Louise, forse più fini a sé stessi che significativi nell’ambito della narrazione.
Sicuramente la più grande delusione è rappresentata però dalla figura di Atticus Finch, il padre di Scout-Jean Louise, l’avvocato difensore del ragazzo di colore accusato di stupro nel “Buio oltre la siepe”. Qui Atticus è un’altra persona, sembra essere stato contaminato da qualche virus razzista, non apparendo così diverso dalla popolazione della contea di Maycomb alla quale si è allineato. Insomma sembra proprio possedere i crismi del classico sudista conservatore che ritiene di dovere preservare e salvare la propria specie dal pericoloso avanzare della popolazione di colore, dalla loro incessante richiesta di ottenere i diritti civili.
Tuttavia credo che la forza del libro stia proprio in questa scoperta, nel dialogo serrato e drammatico tra padre e figlia, nello svelamento delle diverse e inconciliabili posizioni tra una ragazza progressista emigrata “al nord”, nella città di New York, che sembra ormai avere acquisito la cultura e la visione tipicamente yankee, e un vecchio e stanco signore del sud che lotta per la conservazione di uno status quo. In queste pagine infatti è contenuta una universalità che va oltre la vicenda di questo romanzo, ci sta una visione complessiva dell’umanità che fa capire quanto la Storia (quella con la “s” maiuscola appunto..) tenda a ripetersi ciclicamente, quanto gli uomini anche a distanza di anni pur cambiando il contesto tendano ad avere le stesse paure e ripetere gli stessi discorsi. Perché molto spesso, come chiosa il fratello di Atticus verso la fine, “Il pregiudizio e la fede…hanno qualcosa in comune: cominciano entrambi là dove finisce la ragione”.
In ogni caso alle frasi seguenti basterebbe sostituire la parola “negro” ad esempio, con “migrante” ed il gioco è fatto, ognuno tragga le proprie conclusioni.
“Vuoi vagonate di negri nelle nostre scuole, nelle nostre chiese e nei nostri teatri? Vuoi che facciano parte del nostro mondo?..........Vuoi che i tuoi figli frequentino una scuola il cui livello è stato abbassato per accogliere i piccoli negri?.....Cosa succederebbe se a tutti i negri del Sud venissero improvvisamente concessi i diritti civili?......Ti piacerebbe che il governo dello Stato finisse in mano a persone incapaci di amministrare?......”
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Noir al ritmo di Bob Dylan
Giallo, noir, thriller: è un po' tutto questo shakerato, il libro di Robecchi, che rappresenta la genesi del personaggio Carlo Monterossi. Autore televisivo di successo, creatore del programma televisivo cult "Crazy Love" (cinico esempio di tv spazzatura, la cosiddetta "tv del dolore"), condotto dalla star Flora de Pisis, evidentissimo clone di una Barbara d'Urso dei nostri giorni.
Il Monterossi si trova, suo malgrado, coinvolto per sbaglio, per sfortuna o per destino, in una vicenda di vendette personali che si incrociano con loschi affari di un esaltato criminale neo nazista un po' pasticcione, ricercato per motivi diversi da due sicari professionisti e da due zingari. Sullo sfondo la Milano delle periferie, dei campi rom, che si alterna alla Milano borghese e apparentemente sicura dove vive lo stesso Monterossi.
Robecchi riesce a confezionare una storia abbastanza avvincente nella quale non mancano scene forti, un po' pulp, alla maniera di Tarantino (gli interrogatori condotti da zingari e sicari per ottenere certe informazioni) e con chiari riferimenti alla realtà dei nostri tempi. Ulteriori ingredienti degni di nota sono:
- una certa dose di sarcasmo ed umorismo che non guasta mai ("non è che Cristiano Ronaldo va a giocare nella Ternana...", oppure "Il PM è alto, magro, sui 40 con la barba appena accentuata. Pantaloni di velluto,gilet di velluto,mezzo toscano di velluto,occhiali di velluto,ventiquattrore di velluto e Clark beige ai piedi. Se i magistrati vogliono smettere di farsi dare dei comunisti sarà meglio che comincino a vestirsi in modo diverso").
- le parole dei testi delle canzoni di Bob Dylan - di cui Monterossi è grandissimo fan ed intenditore- che ritornano ciclicamente nella narrazione per sottolineare alcuni passaggi rilevanti.
Forse alcuni aspetti potevano essere trattai diversamente: ad esempio la Polizia, che ad un certo punto scompare e non ritorna più nella narrazione, oppure il finale della storia, la resa dei conti in cui si trovano riuniti tutti i personaggi principali benché di un certo effetto è un po' esagerato, irreale, o ancora il fatto che killer esperti, abili e professionisti si facciano fregare così facilmente come viene raccontato. Tuttavia si tratta di aspetti marginali a mio avviso che non inficiano la gradevolezza complessiva del romanzo.
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W Benjamin Malaussène
Piacevole ri-lettura di questo quarto libro della "saga dei Malaussène", volutamente rispolverato dalla libreria per rinfrescarmi la memoria in concomitanza della recentissima uscita del nuovo romanzo di Pennac. Ritrovare questa strampalata famiglia allargata che vive nel quartiere parigino multietnico di Belleville, è sempre un piacere: il capofamiglia Benjamin, "capro espiatorio" per antonomasia, la sua compagna Julie, il "Piccolo", Jeremy, le sorelle Clara, Therese, e il cane epilettico Julius, più gli altri immancabil personaggi di contorno.
In questa storia Benjamin è in attesa di diventare padre, e non esita a palesare i suoi tormenti e dubbi attraverso un fantasioso dialogo, quasi un "botta e risposta" con il futuro nascituro. La sua compagna Julie infatti è rimasta incinta e la narrazione è in gran parte concentrata attorno a questo evento.
Come già avvenuto nei romanzi precedenti, anche questa volta Benjamin finirà nell'occhio del ciclone di un'indagine giudiziaria, lui e Julie risulteranno essere i principali indiziati per una serie di omicidi misteriosi che coinvolgono un cinefilo, il figlio ostetrico ed una serie di prostitute tatuate. Ed ovviamente, saranno gli immancabili tutori della legge (il commissario Rabdomant ed i suoi assistenti Titus e Silistri) a dimostrarne l'estraneità dai fatti e trarlo d'impiccio.
Pennac anche questa volta costruisce un racconto che si muove tra le linee del surreale e grottesco senza trascurare il filone giallo-noir, ed inserendo una serie di rimandi e riferimenti agli episodi precedenti, la cui lettura risulterà indispensabile per capire a fondo il presente romanzo.
Libro indubbiamente consigliato, ma non a chi ama i gialli classici e razionali, in quanto qui di razionale e lineare, vi è ben poco!
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Il mio nome è Burma, Nestor Burma
Piacevole scoperta questo noir dell’autore francese Léo Malet, creatore di romanzi seriali con protagonista il detective privato Nestor Burma, personaggio gradevole anche se caratterizzato con i tratti spesso un po’ troppo abusati nel cinema e nella letteratura “di genere”: aria da (finto) duro, solitario, non insensibile al fascino femminile, ma allo stesso tempo abile investigatore. Burma in questo breve romanzo che si svolge ovviamente a Parigi, in gran parte attorno al XV arrondissement nella zona conosciuta come “Javel”, attraversata dalla Senna, deve risolvere il mistero di Demessy, un uomo che conosce da lungo tempo improvvisamente scomparso senza lasciare traccia, abbandonando (per codardia ?, per trarsi d’impiccio?) la sua attuale compagna rimasta incinta di diversi mesi e che si rivolge proprio all’investigatore privato per chiedere il suo aiuto a ritrovarlo. Gli elementi a disposizione di Burma sono scarsi per cui la sua indagine appare nebulosa e comincia necessariamente rivolgendosi a quelle poche persone che risultano avere avuto contatti con lo scomparso Demessy, vale a dire una sedicente veggente alla quale si era rivolto su indicazione dello stesso Burma, ex colleghi di lavoro ed una misteriosa ed affascinante ragazza che risiede nel medesimo condominio dell’uomo. Man mano che l’indagine prosegue il detective metterà a rischio la propria vita, facendo emergere loschi traffici che vedono coinvolti alcuni arabi e scoprendo altresì che la soluzione dell’enigma deve essere cercata nel passato di Demessy.
Per certi versi quest’opera di Malét ricorda Simenon -di cui è contemporaneo tra l’altro- e le indagini del Commissario Maigret, a partire dall’ambientazione che è piuttosto simile: Parigi, sullo sfondo la Senna che scorre attraversata da barche e chiatte, alcuni luoghi di periferia lontani dai fasti del centro storico e l’ambiguità di certi personaggi di contorno. Malét tuttavia non è Simenon e rispetto all’autore belga non approfondisce la dimensione psicologica dei personaggi, non si pone l’obiettivo di scandagliarne l’anima come fa Maigret attraverso le sue silenziose riflessioni e lo sguardo attento, il giallo non è un pretesto per parlare d’altro. Malét è molto più pragmatico: vuole scrivere un noir, concentrarsi esclusivamente sull’indagine e per fare questo ricorre spesso al discorso diretto tra personaggi, elimina qualsiasi fronzolo, non eccede nelle descrizioni ma si focalizza sullo svolgersi degli eventi nudi e crudi. Chi narra la vicenda è il suo protagonista, in prima persona, che pare quasi confessarsi, a posteriori, al lettore. Le acque torbide di Javel è pertanto un soddisfacente noir, sebbene alcune scelte dell’autore in cui il detective Burma conduce in porto l’indagine (e salva la propria pelle!) affidandosi alla fortuna e ad un intervento provvidenziale giunto dall'esterno al momento giusto, potrebbero non piacere a tutti. Ha inoltre l’indubbio pregio di presentare una Parigi degli anni cinquanta che, allo stesso tempo, sembra così attuale e simile a quella che conosciamo, in cui il tema della presenza straniera, ed in particolare islamica, araba, è assolutamente vivo, tanto da mettere in bocca al suo ispettore alcune riflessioni che paiono trarre spunto dalla cronaca quotidiana: “Da qualche tempo a questa parte, in effetti, siamo tutti inclini a riversare sui nordafricani un mucchio di colpe”.
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Con l'amaro in bocca
Ci sono libri che possono raccontarci molto di più di quello che in apparenza potrebbe sembrare. Libri che magari vengono classificati come polizieschi, noir, perché hanno tutti i crismi del genere, ma che poi sviscerati più in profondità ci parlano anche e soprattutto d’altro.
Il presente romanzo di Alessandro Robecchi, incentrato sulla simpatica figura dell’autore televisivo di programmi spazzatura Carlo Monterossi, “detective per caso” e grande appassionato di Bob Dylan, assolve proprio a tale scopo.
Nel libro esistono tre filoni narrativi, tre storie che riguardano personaggi differenti le cui vite piano piano cominceranno ad incastrarsi: poliziotti impegnati a risolvere un’indagine per trovare il famigerato “killer dei sassi”, il già citato Monterossi coinvolto con un amico fidato nella ricerca di una preziosa collana rubata alla madre di un’amica, ed un ragazzo che vive precariamente, in un casermone della periferia di Milano attorniato da indigenti, immigrati e bande criminali.
Man mano che si procede nella lettura si ha l’impressione che l’elemento del giallo, l’indagine di polizia, ceda progressivamente il passo ad altre considerazioni, altre riflessioni che riguardano la città di Milano, specchio di tutto quello che succede nel resto d’Italia. Infatti il romanzo di Robecchi funge da lente di ingrandimento, mettendoci sotto agli occhi tematiche estremamente attuali che riguardano il tema dell’immigrazione straniera, delle case popolari che vengono occupate abusivamente, e più in generale delle periferie urbane degradate, abbandonate e lasciate soffocare e che pertanto diventano terreno fertile per la criminalità. Contrapposta a questa realtà si specchia la parte di città che rimane indifferente a tutto questo, la Milano borghese, ricca e benestante che si chiude in sé stessa, nelle zone residenziali del Centro Storico in cui scorre denaro a fiumi (senza porsi troppe domande su come è stato guadagnato) e dove “…non basta farsi belli con l’annata del vino” perché “devi sapere anche quella del mobilio”. L’autore sembra poi scavare ulteriormente, stabilendo un ipotetico collegamento tra la precarietà di alcuni dei suoi protagonisti ed il passato che li coinvolge, che richiama alla memoria la seconda metà degli anni ’70, la lotta di classe e la contestazione (anche) armata e violenta della sinistra extra parlamentare.
In definitiva, a lettura ultimata di questo gradevolissimo libro, rimane una sensazione di tristezza, di impotenza, in cui sembra che effettivamente tutti quanti possano avere torto marcio (esattamente come nel titolo del romanzo), favorendo altresì riflessioni sul tema della giustizia, al fine di valutare se questa assolve perfettamente alla sua funzione o se invece dimostra delle falle per cui, alla fine, vincono sempre i più forti ed potenti.
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L’impresa eccezionale è essere normale
Ho deciso di leggere questo libro per curiosità, influenzato dalle innumerevoli recensioni positive trovate in rete, dal passaparola diffuso su social network e sui vari blog letterari. Conoscendo a grandi linee la vicenda narrata, ben sintetizzata dall’autore nell’incipit: “William Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910………gli fu conferito il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università, dove restò a insegnare fino alla sua morte..” mi solleticava il pensiero di comprendere le ragioni di tutto questo successo, trattandosi della narrazione di una vita tutto sommato piatta, routinaria, forse anche banale, di un uomo che nasce, vive e muore senza mai allontanarsi dai luoghi della propria infanzia. Poi ho capito, proprio come nei versi di una celebre canzone, che “l’impresa eccezionale è essere normale”, e ciò che affascina è la facile similitudine e l’immedesimazione tra la vita di Stoner e quella di molti di noi.
Pertanto merito indiscusso al suo autore John Williams, nell‘essere riuscito ad emozionare e creare empatia nei confronti di questo protagonista. Ho trovato molto interessanti le parti del libro, in cui viene descritta minuziosamente la carriera universitaria di Stoner (ben conosciuta dall'autore che nella vita era infatti docente universitario): le lezioni, i seminari di letteratura inglese tenuti all’Università di Columbia nel Missouri- in cui l’autore dà sfoggio della sua conoscenza in materia, in particolare il periodo del romanticismo inglese-, i momenti di tensione e scontro vissuti con un collega professore. Le ho trovate pagine molto realistiche in cui sembra veramente di assistere come spettatori allo svolgimento della vita accademica, entrando ad esempio in punta di piedi nella commissione di valutazione riunitasi per decidere sull’ammissione al dottorato di uno studente.
Non mancano poi riflessioni significative così plausibili e comuni a molti esseri umani, riflessioni che almeno una volta nella vita ognuno di noi è portato a fare: “…Era arrivato ad un’ età in cui…gli si presentava sempre la stessa domanda…Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse stata...”. La vita di Stoner alternerà infatti episodi piacevoli ed inaspettati, a situazioni conflittuali e dolorose tanto nella sfera del lavoro quanto in quella privata, personale, in cui si staglia inevitabilmente il difficile rapporto vissuto con moglie e figlia.
In ogni caso, a giochi ormai fatti, sul letto di morte, il "bilancio di vita" di Stoner non può che definirsi positivo, come ben sintetizzato dall'autore: egli infatti ha potuto ambire a tutto ciò che aveva desiderato. Ha avuto amici, amore, una carriera complessivamente soddisfacente; tutti aspetti che ci portano inevitabilmente a provare una forte simpatia nei confronti di questo personaggio, normale ma allo stesso tempo così speciale.
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Dostoevskij: una vita sofferta ma intensa
Raccontare parte della vita di Dostoevskij sotto forma di romanzo piuttosto che come biografia, è un'idea piuttosto interessante ed originale che il giornalista-scrittore olandese Jan Brokken ha perseguito con un discreto successo a mio avviso. Più in particolare gli anni descritti sono poco più di dieci e corrispondono principalmente a quelli della deportazione in Siberia che Dostoevskij ha dovuto subire trattandosi della punizione comminatagli dallo Zar Nicola I, a seguito della sua attività di intellettuale sedizioso con idee rivoluzionarie e ostili all'ordine costituito. Peraltro lo Zar Nicola si dimostrò piuttosto crudele nei confronti del celebre scrittore russo e degli altri colpevoli in quanto fece credere loro, fino alla fine, che la punizione per il tradimento perpetrato sarebbe stata la fucilazione e solo all'ultimo secondo, quando ormai erano tutti schierati davanti al plotone di esecuzione convinti di dovere morire, vennero informati della "grazia" e della commutazione della pena con la deportazione in Siberia, nei campi di lavoro. Questo fatto ebbe notevoli ripercussioni sulla salute mentale di Dostoevskij considerato che costituì il presupposto di quegli attacchi di epilessia che lo accompagnarono per il resto dei suoi giorni, fino alla morte.
Le dure condizioni di vita nel campo di lavoro prima e l'ulteriore proseguimento della pena come servizio militare obbligatorio, rappresentarono una notevole sofferenza aggravata dal fatto che durante l'intero periodo a Dostoevskij venne proibito di pubblicare i suoi romanzi, anche se proprio in quegli anni disperati germogliarono le idee da cui nacquero capolavori, in parte autobiografici, come "Delitto e Castigo" o "L'idiota".
La vita in Siberia trascorre tra lavori forzati e giornate noiose successivamente durante il servizio di leva, sebbene alcuni eventi piuttosto importanti e assolutamente piacevoli capitarono nel decennio di confino. Il primo è rappresentato dall'intensa amicizia che legò lo scrittore al barone Alexander von Wrangel, operativo nel distretto siberiano in qualità di pubblico ufficiale, con il quale condivise intere giornate trascorse nel «Giardino dei cosacchi» che dà il titolo all'opera (una dacia in mezzo alla steppa siberiana, un rifugio di pace e serenità). Il secondo evento ugualmente importante è l'incontro con Marija, donna già sposata ma con la quale visse ugualmente un rapporto di amore tormentato e sofferto e che in seguito diventerà la sua prima moglie.
Brokken ha svolto una minuziosa attività di approfondimento della vita di Dostoevskij in quel periodo, raccogliendo parecchio materiale bibliografico rappresentato dai numerosissimi scambi epistolari intercorsi tra il barone von Wrangel e lo stesso scrittore. Ha quindi scelto di descrivere il tutto come se si trattasse di un romanzo raccontato dal punto di vista di von Wrangel, ed intervallando la narrazione con i pensieri e le riflessioni contenute proprio nelle lettere che i due si inviavano periodicamente. Indubbiamente il tema dell'amore difficile e tormentato tra D. e Marija copre buona parte dell'intera narrazione ma non mancano ulteriori aspetti degni di nota, come ad esempio il fatto che lo scrittore era perennemente in difficoltà economiche e chiedeva frequentemente denaro in prestito (poi mai restituito...) all'amico barone, principalmente con l'intento di aiutare economicamente la sua "pupilla" Marija. Oppure affreschi della società del tempo,non lesinando denunce nei confronti della classe dirigente russa ritenuta corrotta e corruttibile, i cui passatempi preferiti erano costituiti dai balli, le relazioni extra coniugali, il pettegolezzo e l'abuso di alcol.
Il libro credo abbia il merito di mostrare l'uomo Dostoevski a tutto tondo evidenziandone il talento ed allo stesso tempo le sue debolezze di uomo che dimostra di avere un rapporto di amore-odio con la patria, ma in fin dei conti come scrive von Wrangel, "Un russo vive in dissidio costante con la Russia, altrimenti non è un russo. Toglieteli però la Russia e morirà di morte lenta".
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Due libri, due vite, una vendetta
Un libro nel libro questo romanzo dello scrittore americano A. Wright. Il primo, quello dell’edizione Adelphi, si intitola appunto Tony & Susan, il secondo invece, il libro che legge la protagonista Susan su specifica richiesta e preghiera dell’ex marito Edward, si intitola “Animali notturni” (che tra l’altro è lo stesso titolo dato al film, ormai di imminente uscita, del regista americano Tom Ford, liberamente tratto da quest’opera…) e rappresenta il frutto del lavoro di Edward, risultato del suo percorso di crescita come scrittore.
Animali notturni è una sorta di thriller psicologico il cui protagonista risulta essere Tony, docente universitario rappresentante di quella “casta” della borghesia americana che ha raggiunto il successo nella vita e che all’improvviso, durante un viaggio notturno in macchina con moglie e figlia, si imbatte lungo l’autostrada, in un gruppuscolo di balordi, di criminali, che lo costringono a fermarsi. Da quel momento inizieranno i guai per Tony, inizierà il dolore, solo parzialmente attenuato dai provvedimenti adottati dalle forze dell’ordine che indagano sul suo caso, in un crescendo di situazioni che lo condurranno alla regolazione dei conti rimasti in sospeso.
I momenti di narrazione della storia di Tony si alternano con i frammenti nei quali si racconta la vita di Susan: il primo matrimonio con l’ex marito Edward autore del libro ed ossessionato dall’idea di diventare uno scrittore, il successivo divorzio ed il nuovo matrimonio con l’attuale marito Arnold, stimato chirurgo che però la tradisce. Man mano che Susan procede nella lettura aumenta la sua inquietudine, comincia a chiedersi le motivazioni che stanno alla base della richiesta del suo ex marito di leggere il manoscritto. Sembra quasi di assistere ad un parallelismo tra i tormenti vissuti da Tony e quelli della stessa Susan che intuisce di essere vittima della vendetta di Ewdward, come se il suo scopo fosse quello di rinfacciarle la colpa del divorzio e la fine della loro relazione.
Tony & Susan è un libro piuttosto scorrevole e accattivante, sicuramente molto americano per i contenuti che presenta, in particolare quando viene descritta l’indagine condotta dalla polizia, nei riconoscimenti dei criminali “all’americana” da parte della vittima così frequentemente utilizzati anche nei film, fino ai concetti di giustizia pubblica e vendetta personale, i cui confini spesso tendono a sovrapporsi, fin quasi a giustificare l’idea della legittimità nel farsi giustizia da sé.
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Alla scoperta del vero Maigret
Tra tutte le numerose opere che Simenon ha dedicato a Maigret, il nr. 34 (secondo la numerazione adottata da Adelphi nel pubblicare le inchieste del celebre commissario), merita sicuramente una degna attenzione in quanto “Le memorie di Maigret” è un capitolo a sé stante, una vera “pietra miliare” che qualsiasi vero appassionato dovrebbe leggere. Questa volta infatti il narratore è lo stesso Commissario Maigret ormai in pensione, che decide di affidare ai posteri le sue memorie e soprattutto decide di prendersi la sua personale rivincita compiendo una piccola vendetta personale nei confronti di quel Simenon, scrittore spocchioso e un po’ arrogante che
“fumava la pipa con solennità, come se volesse dimostrare dieci anni di più per mettersi sullo stesso piano dell’uomo già maturo che io ero a quell’epoca”.
In definitiva Simenon adotta l’astuta trovata di dare una legittimazione a Maigret, inventandosi un “vero commissario”, una persona reale che rappresenta l’io narrante, un’autentico funzionario del Quai des Orfèvres dal quale ha tratto ispirazione per scrivere i suoi romanzi. Il Maigret di quest’opera si toglie qualche sassolino dalle scarpe, confessa che nonostante l’amicizia poi saldatasi negli anni, questo Simenon non gli sta particolarmente simpatico. Un bel giorno infatti costui è entrato nella sua vita, ha cominciato ad osservarlo ed a prendere nota del suo lavoro, creando un personaggio pubblico che sotto certi aspetti rappresenta una caricatura un po’ stereotipata del funzionario di polizia, inventandosi tra l'altro anche tratti fisici non proprio corrispondenti a lui: “…ero diventato più grosso, più pesante di quanto non fossi in realtà..”.
Oltretutto il “vero Maigret” denuncia le furbate di Simenon, il quale avrebbe un po’ troppo mescolato le carte nel raccontare le indagini svolte nel corso degli anni, non rispettando l’esatto ordine cronologico di numerosi eventi.
Simenon dimostra di avere uno spiccato senso dell’umorismo con questa storia, riesce innanzitutto a prendersi in giro da solo e soprattutto riesce con leggerezza a ridimensionare la figura di Maigret, come a volere evitare di rimanere schiacciato dalla popolarità del suo personaggio (chiedete in proposito a Sir Conan Doyle…). Allo stesso tempo costruisce un passato per il suo Commissario raccontandone l’infanzia, la giovinezza trascorsa a Parigi, l’incontro ad una festa con quella che diventerà la sua futura moglie, ed ovviamente la gavetta compiuta prima di diventare funzionario di polizia: gli inizi per strada con una bicicletta, quindi come guardia ai grandi magazzini, fino al periodo trascorso presso la “buoncostume”. Tutte esperienze sufficienti a formare il futuro commissario, favorendo lo sviluppo di quella intuizione ed introspezione psicologica così caratterizzante e permettendogli altresì di incontrare quell’umanità varia fatta di criminali incalliti, semplici ladruncoli, protettori, prostitute, frequentatori di locali notturni, che si troveranno copiosamente nelle pagine dei vari romanzi.
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Lui, lei e l'altra
Una coppia in crisi decide di festeggiare l’anniversario di matrimonio, e rinsaldare un rapporto piuttosto compromesso, passando una settimana di relax in una casa in riva al mare non lontano da New York, esattamente nella stessa località vacanziera dove si svolse la loro luna di miele diversi anni fa. L’atmosfera non è sicuramente molto allettante: fa freddo, siamo in inverno, piove ed il mare muggisce tempestoso, ma i veri problemi sono altri. Tanto nelle difficili dinamiche interne alla coppia, una moglie ferita dal tradimento del marito, quanto nella presenza di una giovane donna molto affascinante e misteriosa, che ben presto comincerà a turbare i già fragili equilibri in un crescendo che coinvolgerà entrambi i protagonisti.
Sembrerebbe pertanto la classica situazione del tipo “Lui, lei e l’altra” anche se il tradizionale canovaccio viene reinventato da Matheson aggiungendo alla ricetta gli ingredienti tipici del suo repertorio: mistero, tensione, soprannaturale ed in questo caso anche parecchio sesso ed erotismo.
La storia regge, è accattivante, avvinghia il lettore e crea anche una certa tensione. Tuttavia, mia personale opinione, presenta alcuni limiti. Innanzitutto ad un certo punto del libro ho provato un senso di dejà vu, ho pensato ad un qualcosa di già visto e piuttosto noto, ed ovviamente l’originale era indubbiamente meglio. Inoltre, pur ammettendo e riconoscendo una certa brillantezza nelle idee di Matheson, trovo la sua scrittura un po’ ripetitiva ed a tratti esasperante (per esprimere un concetto e farlo capire al lettore lo ripete più e più volte….troppe a mio avviso!). In ogni caso si tratta di una lettura scorrevole e ideale per passare qualche momento di evasione.
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DECENNIO DI STORIA INGLESE PUBBLICA E PRIVATA
Un prestigioso liceo sito nella città industriale di Birmingham, nella tumultuosa Inghilterra degli anni ’70, caratterizzata dalle continue lotte sindacali, dalla contrapposizione tra laburisti e conservatori e dagli attacchi terroristici dell’IRA, fa da sfondo a questo spassosissimo libro di Jonathan Coe, che racconta le (dis)avventure giovanili di alcuni ragazzi adolescenti, tra i quali spicca la figura di Benjamin Trotter. Ognuno di loro ha problemi familiari, patisce le prime delusioni amorose, ma allo stesso tempo coltiva interessi, passioni letterarie (in particolare la trilogia di Tolkien “Il Signore degli anelli”) e musicali comuni (soprattutto Eric Clapton ed il “progressive rock” tipico di quel periodo, che dimostrano la nutrita conoscenza dell’autore in fatto di musica). Il mondo adolescenziale descritto da Coe, tratteggiato con grande umorismo in pagine assolutamente godibili e spesso esileranti, è quello caratteristico dei paesi anglosassoni in cui, oltre alla formazione scolastica in senso stretto, viene dato grande risalto anche alle attività collaterali nelle quali ogni studente deve cercare di esprimere la propria personalità. Ad esempio Benjamin Trotter e i suoi amici entrano a fare parte della redazione del giornale del liceo, cominciano a scrivere articoli e recensioni che hanno a che fare con la vita della scuola, con la musica, ed anche con i fatti di cronaca dell’epoca. In particolare il giornale scolastico rappresenta un elemento centrale nella struttura della storia disegnata da Coe in quanto entra direttamente nella narrazione, considerato che molti avvenimenti sono raccontati proprio attraverso gli articoli del periodico scolastico, che nel libro hanno una veste grafica differente e ben distinta rispetto al resto della narrazione (così come avviene quando gli avvenimenti vengono raccontati avvalendosi anche di altri stili come ad esempio il diario personale).
In definitiva si tratta di un libro piuttosto divertente che seppur nella sua semplicità, affianca alle vicende adolescenziali dei vari protagonisti anche altri temi importanti, caratterizzanti la scena politica ed economica inglese del decennio 1970-1980 (fino all’ascesa al potere della Signora Thatcher). In particolare sono due gli aspetti approfonditi da Coe con una certa cura, quasi a ricordarci come alcuni “topics” siano da considerarsi attuali tanto negli anni ’70 quanto ai giorni nostri: gli scontri tra sindacati e classe dirigente da una parte, il razzismo e la paura verso gli immigrati e gli stranieri dall’altra. Paura cavalcata dai media e da alcuni schieramenti politici dell’epoca con l’obiettivo di raccogliere consenso popolare.
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Il Cristianesimo secondo Carrère
Non è facile classificare questo lavoro di Carrère. In parte si tratta di un’opera autobiografica nella quale l’autore ci confessa (verbo quanto mai appropriato…) il periodo della sua vita in cui era un fervente cattolico, andava a messa quotidianamente ed aveva trovato quella pace interiore così necessaria per superare i suoi momenti di crisi. Questo per tre anni, al termine dei quali qualcosa è cambiato, nuovi stimoli sono sopraggiunti, la fede ha lasciato il posto a tanti dubbi e ad un agnosticismo conclamato che rappresenta il corso del “nuovo Carrère”.Tuttavia l’esperienza vissuta ha lasciato delle tracce nella mente dello scrittore ed è emerso il desiderio di riflettere e ragionare su due figure ritenute vitali e nevralgiche nella storia del Cristianesimo: Paolo, autore delle celebri lettere contenute nel Nuovo Testamento, e l’evangelista Luca, autore di uno dei quattro Vangeli canonici oltre che degli Atti degli Apostoli.
Carrère quindi inizia a illustrare con un linguaggio accessibile e facilmente comprensibile, la vita di San Paolo, a partire dal momento della conversione sulla via di Damasco fino al suo arrivo a Roma, in attesa di essere giudicato dai romani per problemi di ordine pubblico, causati dalla sua predicazione nei territori dell’impero. Il ritratto che viene fatto di Paolo è quello di un uomo furbo, abile oratore, sobillatore di masse, dotato di un forte carisma e capacità comunicative fuori dalla norma. Tutte caratteristiche che hanno indubbiamente agevolato la diffusione della nuova fede, tanto tra gli ebrei quanto tra i “gentili”. Paolo si è fatto portatore della parola di Gesù ed anche grazie al contributo dei suoi discepoli e amici fedeli come Timoteo e lo stesso Luca, rimasto folgorato dalla sua predicazione tanto da riportarne il resoconto negli Atti degli Apostoli, ha così gettato i semi della nuova religione, in evidente antitesi al giudaismo ed al paganesimo romano imperanti nel mondo allora conosciuto.
Complessivamente trovo che l’idea alla base del libro di Carrère sia accattivante e interessante, se non altro perché lo stesso autore ammette candidamente il proprio cambiamento di punto di vista, guardandosi indietro ora che si definisce agnostico e compatendo sé stesso ed il periodo in cui era stato folgorato sulla via di Damasco. Tuttavia, nonostante i diversi riferimenti e le citazioni di esegeti biblici, il tutto può risultare eccessivamente semplificato e la visione d’insieme sulla predicazione di Paolo piuttosto parziale e discutibile. Come ammette lo stesso Carrère certi passaggi non sono supportati da verità storiche ma vengono in qualche modo romanzati, in quanto ritenuti realistici o comunque verosimili. Paolo viene descritto come la mente, è quello che ai nostri giorni potrebbe definirsi un uomo del marketing, molto abile nel vendere il suo “nuovo prodotto”. Luca invece viene rappresentato come il suo braccio, il testimone blandito che diverrà in futuro il cronista scrivendo gli Atti degli Apostoli.
Inoltre Carrère spesso e volentieri intervalla la narrazione facendo esplodere nel testo il proprio ego, decisamente piuttosto ingombrante, e manifestando al lettore il suo compiacimento per la conoscenza delle scritture e le riflessioni riportate che, ribadisco, a volte sono il risultato di speculazioni personali non suffragate da verità storica (ma almeno ha la compiacenza di ammetterlo!).
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L'amore ed il tradimento all'epoca dei social
Ho deciso di acquistare e leggere questo libro spinto sostanzialmente da due ragioni. La prima riguarda l'editore, "La nave di Teseo", la nuova casa editrice nata (anche) con il contributo di Umberto Eco, come risposta alternativa al colosso "Mondadori-Rizzoli", al fine di pubblicare liberamente opere letterarie di valore al di fuori dalle strette logiche commerciali. La seconda ragione invece va ricercata nel fatto che il suddetto libro è tra i candidati al “Premio Strega 2016" e pertanto l'ho ritenuto assolutamente degno di approfondimento.
Fatte le necessarie premesse, a lettura ultimata, credo di potere affermare che le mie aspettative siano state in parte confermate per ciò che riguarda alcuni spunti sicuramente interessanti a proposito dell'amore e del tradimento "2.0" vissuto all'epoca di Internet, ed invece in parte disattese con riferimento a certe esasperazioni narrative. L'autrice infatti per cercare di esprimere gli stati d'animo di Anna - la protagonista tradita dal compagno che vive contemporaneamente una relazione con un'altra donna - ricorre a toni decisamente forti e ad un linguaggio crudo, volutamente ed eccessivamente volgare. La narrazione avviene come se si trattasse di un racconto epistolare: Anna, a posteriori, si sfoga scrivendo all'amica Valentina, confessandole la spirale di idiozia e di nevrosi raggiunte a seguito della scoperta del tradimento subito. Anna smette di mangiare alimentandosi esclusivamente con crackers e succhi di frutta, comincia a soffrire di insonnia, interrompe la sua vita sociale ritirandosi in sè stessa e spiando il suo (ex) fidanzato tanto su Facebook (riesce a scoprire la password di accesso entrando così nel suo profilo) quanto tramite un App per telefonino, che le permette di controllare virtualmente gli spostamenti di lui e le scappatelle a casa dell’amante. Quest’ultima viene ribattezzata spregevolmente col nomignolo di "Cane", esattamente come il nome dato dalla stessa al suo cagnolino.
Ed è proprio questo atteggiamento voyeuristico, spinto all'eccesso la parte più intrigante del libro, in quanto dimostra come ormai i social network condizionino pesantemente le nostre vite permettendoci di spiare impunemente la privacy altrui senza essere visti, come ammette la stessa Anna:
“ ….Se invece ci spostiamo per intero dentro la virtualità spariscono tutti i freni, perché sparisce la nostra identità”.
Questa presunta libertà ed impunità tuttavia ha un impatto negativo sulla qualità della vita della protagonista. L’accesso incondizionato al profilo di Facebook dell’ex fidanzato non fa altro che aumentare le nevrosi e le isterie di Anna che rimane tramortita dalla scoperta dei particolari anatomici del corpo di “Cane”, trasmessi come allegato ai messaggi che i due si scambiano.
La donna vive il suo malessere di fronte al tradimento, prova rabbia e frustrazione alla vista delle foto che ritraggono la rivale nella sua nudità. Questa mancanza di veli, richiamata anche dal titolo dell’opera, sta a dimostrare come il corpo nudo possa in qualche modo rappresentare la fragilità mentale dell’individuo, in questo caso una donna, nel momento in cui viene messo di fronte ad un fatto così evidente e sconvolgente.
In definitiva potrei consigliare la lettura di questo libro perché contiene riflessioni assolutamente attuali e vicine al nostro modo di vivere quotidianamente il rapporto con i social network, oltre che rappresentare uno spaccato piuttosto realistico della vita di coppia e del tradimento che viene svilito nella sua gravità, come se i tempi moderni avessero in qualche modo svuotato il significato e la portata di certi comportamenti. Tuttavia, come già accennato precedentemente, non ho apprezzato in toto la scelta dell’autrice di raccontare la storia in modo così “urlato”, così eccessivamente viscerale, con la sensazione che si sia trattato di una scelta consapevole per ottenere visibilità e fare parlare del libro, magari proprio a ridosso del periodo di assegnazione del premio Strega.
Beati coloro che saranno felici
Una coppia in crisi matrimoniale litiga al supermercato sotto lo sguardo divertito di alcuni clienti, un’altra invece soffre per la nevrosi del proprio figlio che crede di essere Celine Dion, un’altra ancora cerca di sfuggire dalla routine partecipando a tornei di bridge. Sono solo alcuni esempi delle tante sfaccettature di questo libro della francese Yasmina Reza: una serie di racconti che toccano diversi temi come le difficoltà del matrimonio, l’amore, il sesso, i tradimenti, la paura della morte, la sofferenza ma anche l’importanza dell’amicizia. La scrittrice intende mostrarci il lato oscuro di personaggi che, scomodando Pasolini, si potrebbero definire borghesi. Si tratta di coppie, singles, amanti che sotto un velo di benessere, ipocrisia e serenità celano in realtà una serie di inquietudini e dolori dai quali sono attanagliati, oppure molto più semplicemente cercano di provare nuove emozioni per spezzare la banalità e la noia della quotidianità, magari concedendosi scappatelle o momenti di relax con partners compiacenti. La Reza riesce a costruire un mosaico piuttosto variegato e man mano che si procede con la lettura si comincia a capire che ogni racconto, narrato in prima persona dallo stesso protagonista, rappresenta la tessera di un puzzle: nella visione d’insieme le vicende dei vari personaggi sono in qualche modo legate e si incastrano tra loro, trattandosi infatti di rapporti di amicizia o di parentela.
Azzardando un paragone forse si potrebbe accostare l’opera ai racconti di Alice Munro, l’illustre scrittrice canadese premio nobel per la letteratura, considerato che entrambe si pongono l’obiettivo di rappresentare le gioie ed i dolori della vita. Lo stesso titolo del libro, “Felici i felici” che prende a prestito una riflessione di Borges (“Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell’amore”) sembra in qualche modo sintetizzare la filosofia della scrittrice, come a dire che alla fine di tutto la felicità è uno stato mentale assolutamente desiderabile ma difficilmente raggiungibile, un’aspirazione verso la quale tendere e non è detto che l’amore sia la soluzione a tutto.
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Un uomo solo al comando
Joris Terlinck è un uomo potente, riverito, temuto e rispettato. E' un imprenditore proprietario di una ditta che produce sigari ma soprattutto è il borgomastro della cittadina fiamminga di Furnes, il "Baas" (il padrone) come lo chiamano tutti da queste parti. Quando fissa qualcuno con la sua aria severa ed il sigaro in bocca non è possibile sostenere il suo sguardo. Gli occhi dell'interlocutore si abbassano, ed un senso di inquietudine assale ogni individuo che si trova a tu per tu con lui. Il potere ed il prestigio del "baas" sembrano addirittura accrescere quando una spiacevole vicenda familiare colpisce la figlia del suo unico avversario politico rimasto in città, il consigliere Van Hamme leader del partito di opposizione. Proprio quando Terlinck raggiunge il culmine del suo successo ecco che qualcosa cambia, che affiora in lui un rimorso, forse anche un senso di colpa, perché in qualche modo le sventure capitate alla figlia del suo avversario sono imputabili alla sua condotta, al suo modo di essere rigido e tutto di un pezzo, alla sua freddezza nel relazionarsi con le persone.
Questa situazione gli offre l'opportunità di fare delle scelte, di cambiare il suo stile di vita, il suo modo di essere, ma ben presto capirà che ciò non è possibile perchè non si può cambiare fino in fondo, si rimane in qualche modo vittime, prigionieri della propria vita precedente, incatenati alle responsabilità quotidiane dalle quali non è possibile fuggire. Ormai però è troppo tardi anche per lui, il danno è stato fatto ed il borgomastro pagherà le conseguenze della sua condotta, che toccheranno tanto lui quanto la sua famiglia.
E' questo il messaggio che Simenon vuole trasmetterci in un'ottica un po' Pirandelliana: la difficoltà nell'uscire da certi schemi, da certi ruoli e responsabilità vincolanti.
Oltre a questo, altro aspetto non meno importante, sottolineerei il disprezzo di Simenon per la classe borghese, l'importanza nel salvare le apparenze, l'ipocrisia di certi atteggiamenti. Emblema è Van Hamme, l'avversario del borgomastro, che pur di salvaguardare il proprio status quo, la sua leadership politica, non esita a ripudiare ed allontanare da Furnes la propria figlia, rea di avere macchiato la sua immagine con una condotta disdicevole. I borghesi di Simenon sono degli arrivisti, uomini senza scrupoli pronti a colpire alle spalle non appena denotano una debolezza nell'avversario. In questo caso chi subisce questi attacchi nel suo privato è proprio il "Baas", protagonista in qualche modo redento, che nel corso del romanzo evolve e migliora, che vive la propria catarsi e sembra prendere le distanze dalla massa borghese e pettegola, perchè in fin dei conti "il paese è piccolo e la gente mormora".
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Tipicamente Auster
Forse se dovessi essere cattivo potrei scrivere che Paul Auster è un grande affabulatore, un autore capace di raccontare storie di uomini e donne e di creare dei personaggi anche se l’ossatura della storia risulta essere un po’ gracilina: quattro persone (due uomini e due donne), ognuna con problemi economici e personali, si trovano a vivere da occupanti, abusivamente, una squallida casa abbandonata a New York nel quartiere di Brooklyn, precisamente nella zona di Sunset Park che dà il titolo a questo libro.
Tra di loro spicca la figura di Miles Heller che si porta dietro il proprio trauma giovanile, una responsabilità ed un senso di colpa legati alla morte del fratellastro, che pesano come macigni sulle sue spalle e che allo stesso tempo condizionano la vita dei suoi genitori, altri importanti co-protagonisti in questa storia.
Poi invece, pensando più approfonditamente alla narrazione, ai numerosi riferimenti sportivi (sul baseball) e cinematografici (il film del 1946 ”I migliori anni della nostra vita” sul tema dei reduci tornati in patria dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale) disseminati nel testo, all’alternarsi dei punti di vista sulla vicenda (raccontata attraverso capitoli monotematici “ritagliati” sui singoli protagonisti), si comincia a rivalutare quest’opera e ad apprezzarla maggiormente. Un libro che parla di sentimenti, gioie, dolori, amore, sesso ed amicizia e che contiene anche una bellissima riflessione in quanto il protagonista, Miles Heller, viene descritto come un malato che compra libri compulsivamente perché “alla fine i libri non sono tanto un lusso quanto una necessità, e leggere è una malattia da cui non vuole essere curato”.
Credo che tanti di noi la pensino allo stesso modo e forse è sufficiente una frase del genere per valorizzare un intero romanzo.
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L'arte dello scrivere
Un ragazzo che indossa uno strano cappello con cordicella, sale su un autobus affollato della Linea "S", inveisce contro un passeggero accusato di spintonarlo durante il sali-scendi generale, poi decide di evitare qualsiasi ulteriore scontro e si siede in un posto libero. Qualche ora dopo lo stesso ragazzo viene rivisto in un altro punto di Parigi, in compagnia di un amico che gli consiglia di mettere un bottone sul suo soprabito.
Storia finita! In realtà non si tratta di un maldestro tentativo di "spoilerare" questo libro di Queneau ma semplicemente di presentare la vicenda, perchè in questo caso quello che conta sono gli altri 98 modi diversi con i quali viene raccontata (il novantanovesimo, cioè il primo, sarebbe appunto la storia nuda e cruda sopra riportata...). Il divertimento consiste nelle varianti, nella confezione adottata di volta in volta si potrebbe scrivere, con cui sempre e solamente quella nota storia viene introdotta. Attraverso l'uso di figure retoriche (es. litote, protesi, poliptoto.....) ma anche raccontando alla maniera di un convinto reazionario ("Naturalmente l’autobus era pieno e il bigliettario sgradevole. L’origine va cercata come è ovvio nella giornata di otto ore e nei progetti di nazionalizzazione"), piuttosto che di uno scrittore di sinistra ("scusate compagni, io non sono abituato a intervenire in situazioni politiche di un certo tipo..... lo vorrei dare una testimnianza di classe di quel che ho visto ieri sull’autobus......"), come se si trattasse del verbale di un interrogatorio, o ancora come la presentazione di un teorema di geometria, piuttosto che riscrivendo il tutto sottoforma di una permutazione di parole affastellate senza senso logico, ecc. ecc ....Questi citati sono solo alcuni degli esempi adottati dall'autore che in appendice a questo divertente esperimento linguistico (tradotto in italiano dalla geniale mente di Umberto Eco) confessa di avere avuto l'ispirazione ascoltando "L'arte della fuga" di Bach, il quale, partendo da una composizione musicale molto semplice e limitata, ne ha previsto lo svolgimento con diverse varianti e modalità.
Lettura pertanto consigliata, leggera ed istruttiva anche se a mio avviso presenta due trascurabili "appunti" da rilevare: in taluni casi il titolo dato ad ogni variante l'ho trovato fuorviante rispetto poi al reale contenuto, inoltre trattandosi di un libro con testo bifronte nell'originale francese di Queneau, la traduzione adottata da Eco non sempre è fedele all'originale ma spesso viene (volutamente e necessariamente) reinterpretata.
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C'è qualcuno in quella casa?
Loursat è un avvocato ma prima di tutto è un uomo sconfitto dalla vita, che si abbandona agli effluvi dell’alcol per dimenticare un matrimonio finito male. Ha deciso di rimanere isolato dal resto del mondo- ignorando anche la sua unica figlia- e svernando all’interno della sua grande casa, piuttosto dimessa e in decadimento proprio come lui. Improvvisamente, una sera come tutte le altre, mentre si trova nel suo studio con accanto la fidata bottiglia come unica amica, sente un rumore, quindi incuriosito si alza, esce dalla sua stanza, intravvede un’ombra e…successivamente scopre un cadavere disteso nel letto di una delle tante camere della sua casa. Da quel momento in poi comincia a risvegliarsi dal suo stato di torpore prolungato, a scoprire particolari interessanti riguardo alla vita di sua figlia, venendo a conoscenza del fatto che attorno a lui, nella grande casa, si muovono a sua insaputa, silenziosamente e furbescamente, una serie di individui, “gli intrusi” appunto, che danno il titolo a questo romanzo di Simenon. Loursat a seguito di questa scoperta, ritrova pian piano la gioia di vivere riscattando anni e anni di indolenza fino a rivestire i panni dell’avvocato difensore in un processo per omicidio.
Il libro è l’ennesima prova del talento del grande scrittore belga che ancora una volta, attraverso un noir, una storia di vittime e di carnefici personificati da quella odiosa e falsamente perbenista classe borghese che Simenon dimostra di disprezzare, ci regala pagine profonde ed introspettive. La casa di Loursat, con quell’aria così sinistra e coi misteri che nasconde, non è una semplice ambientazione di sfondo ma diventa uno snodo, un elemento attorno al quale ruotano le vicende che coinvolgono i diversi individui che ben presto Loursat impara a conoscere, prendendosi inoltre quelle giuste rivincite nei confronti di vicini di casa, parenti e colleghi. Costoro pur di salvare certe apparenze ed uscire indenni da situazioni scomode, non esitano a gettare la colpa addosso ad un innocente, colpevole solamente di essere l’anello debole di una catena, di non appartenere ad una classe agiata e non avere “santi in paradiso” disposti a difenderlo.
Simenon ha il pregio di scrivere questo romanzo con quel linguaggio diretto, tagliente e feroce che spesso lo contraddistingue e che invoglia quindi a procedere speditamente nella lettura.
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