Opinione scritta da enricocaramuscio

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    26 Luglio, 2019
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Un'isola in un fiume che scorre

Strade che puzzano di concia e di stallaggio. Famiglie che cercano di tirare avanti con stipendi di venti lire al giorno. Panni alle finestre. Bambini che giocano con le biglie di terracotta sul gradino della casa di tolleranza. Padri che indugiano presso l'osteria. Siamo nella Firenze degli anni Trenta, nel quartiere Santa Croce, una sorta di piccola repubblica nel centro della città. Gente comune, che porta la povertà con orgoglio, a cui basta un piccolo gesto per scatenare odio o amore, rabbia o tenerezza, speranza o sconforto. Un'isola in un fiume che scorre, creature che per uscire dalle loro strade, dalle loro piazze, si preparano come se dovessero fare un viaggio dall'altra parte della Terra. "Ma entrate nelle nostre case, nell’anno di grazia 1932, dopo tanta letteratura che se n’è fatta; vestite i nostri panni; ingoiate la miseria che ci assiste notte e giorno, e ci brucia come un lento fuoco o la tisi. Resistiamo da secoli, intatti e schivi. Un uomo cade, una donna precipita, ma erano secoli che resistevano, eternità che stavano in piedi con la forza della disperazione di una speranza – e questa gli è venuta meno dentro il cuore tutto a un tratto. Noi non abbiamo scampo alle nostre debolezze; o si sta in piedi aggrappati disperatamente ai nostri cenci, alla nostra zuppa di cavolo, o lunghi distesi nella mota, irreparabilmente. Non abbiamo armi da usare contro qualcuno: non siamo stati noi a dettare le Leggi che ci governano. Siamo gente difesa soltanto dall’inerzia". In questo contesto conosciamo un gruppo di amici legati da un sodalizio fortissimo, impegnati in uno dei passaggi più impegnativi ed importanti dell'esistenza di ogni uomo: quello dall'adolescenza all'età adulta. Un passaggio che significa abbandonare i giochi per cominciare a lavorare, cambiare i calzoni corti con quelli lunghi, quasi sempre quelli smessi dal papà, guardare le ragazze che fino al giorno prima si consideravano come sorelle con altri occhi e con altri intenti. Valerio, voce narrante, Giorgio, il più saggio e più maturo, Carlo il sanguigno, Maria, bella ed ingenua, e poi Luciana, Marisa, Olga, Arrigo, Gino. Berto e Argia, più grandi degli altri, ma non per questo meno amici. Amori che fioriscono e portano a matrimoni, nascite, traslochi, altri che sbocciano per poi spegnersi subito, altri troncati dall'opposizione dei genitori. Serate di balli, cinema e passeggiate che si alternano ad accese discussioni politiche, a litigi, a scazzottate. Rivalità che non pregiudicano mai il rispetto, modi diversi di vedere la vita che uniscono invece di allontanare. C'è chi finisce in galera a torto, chi a ragione. C'è chi parte per la leva perché obbligato, chi si arruola volontario per la guerra senza capire bene a cosa va incontro. Chi abbandona l'amore per seguire strade alternative. Pratolini ci regala pagine di grande letteratura, scritte come sempre in maniera divina e cariche di pathos e di significato, in cui le figure maschili e femminili, descritte con tratti precisi ed efficaci, sono al tempo stesso protagonisti e contorno di una storia che mette al centro, più che i personaggi, l'ambientazione. Il quartiere, più che un semplice agglomerato di strade, piazze, negozi e abitazioni, appare come un essere dotato di vita propria, in cui ogni abitante si riconosce e al di fuori del quale non riuscirebbe a vivere, come fosse un pesce fuor d'acqua. Un ente a se stante, che anche quando subisce i colpi del progresso sotto forma di sfratti, abbattimenti, modifiche, non smette di vivere ma continua la sua esistenza spinto dall'istinto di sopravvivenza, con la diffidenza dell'animale ferito. "Tornammo. Spingevo il carretto con una mano. Era oltre mezzogiorno, e in piazza Santa Croce i tipografi e i mosaicisti si godevano il sole seduti sulle panchine. Sciamarono i ragazzi dalla scuola agitando le cartelle, le squadre da disegno impugnate come pistole. Marisa mi aveva preso a braccetto. Andavamo, tacendo, alta la testa, per le strade del Quartiere popolato della sua gente. Nel piazzale delle demolizioni la giostra girava deserta e fragorosa, simile ad un grande carillon animato: v’irruppero di corsa gli scolari. E Marisa disse: «Hai trovato diverso il Quartiere. Ma la gente c’è ancora tutta, lo sai. Si è ammassata nelle case rimaste in piedi come se si fosse voluta barricare. Quei pochi che sono andati ad abitare alla periferia, dove c’è l’aria aperta e il sole, nel Quartiere li considerano quasi dei disertori». «Infatti» le risposi. «Anche l’aria e il sole sono cose da conquistare dietro le barricate.»"

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    22 Luglio, 2019
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Una sanguinosa zuffa tra cani

"Ragazzo, forse dove sei nato tu le cose sono diverse. Ma qua non basta un pezzo di carta per stabilire chi spara e chi no. Da ’ste parti, la gente si divide in due categorie: quelli che c’hanno una pistola in casa... e quelli che c’hanno un fucile!" L'avidità dell'imprenditoria senza scrupoli, appoggiata dalla politica e dalla malavita, le esigenze di tutela ecologica della neo eletta Riserva Naturale, le abitudini e l'attaccamento alla terra di chi non riesce a vedere altro mondo all'infuori delle quattro case diroccate di Torre Languirina, sono gli elementi alla base del libro d'esordio di Omar Di Monopoli. Interessi diversi che vedono coinvolte persone diverse, una guerra ancestrale tra ricchi e poveri, tra onesti e mafiosi, tra potenti e reietti, in cui gli uomini si ritrovano coinvolti in una sanguinosa zuffa che ricorda i combattimenti tra cani, finendo per confondersi con essi, travalicando il confine tra essere umano ed animale. Siamo in un angolo di costa ionica di cui il cielo sembra essersi dimenticato, lontano parente delle acclamate località turistiche tanto in voga, dove le autorità si fanno vedere solo quando lo richiedono gli interessi economici, dove civiltà e benessere sono concetti astratti, dove la gente si spezza ancora la schiena per tirare su un raccolto su un pezzo di terra dura come gli scogli. Un raccolto che la prima grandine può distruggere. Una terra, curata per anni, che sta per essergli sottratta per la salvaguardia di qualche uccello, mentre a pochi passi viene innalzato un mostro ecologico nel nome del progresso e del turismo. Un contesto crudo e realistico, che l'autore rende ancora più credibile infarcendo i dialoghi di espressioni dialettali rozze, sgrammaticate, spesso blasfeme, caratterizzando i personaggi con pochi ma significativi tratti, dimostrando di saper raccontare le storie degli ultimi, dei disadattati, degli sconfitti dalla loro stessa prospettiva. "Enrico, affossandosi ancor più sullo schienale della poltrona, fissò il donnone stupito, come se non l’avesse mai vista prima. … Quello che non vi entra in testa, dotto’, continuò la donna in tono dimesso ma severo, è che la gente di qua non riuscirà mai a digerire l’idea che ci si possa preoccupare tanto per un paio di uccelli e qualche albero, dotto’, mentre ci stanno cristiani che non ce la fanno ad arrivare a fine mese, mentre ai contadini basta una brutta grandinata per vedersi sfumare un anno di fatica sciancaossa, mentre la conclusione dei lavori dello stadio comunale passa da più di dieci anni di giunta in giunta senza soluzione, e intanto in paese non esiste una biblioteca, un cinema o un circolo ricreativo, né un diavolo di bar dove i giovani possono incontrarsi senza pagare il pizzo a qualcuno… Ma, benedetto Signore, queste sono cose che potremmo ottenere proprio grazie a… Dotto’, lo interruppe ancora la grassona, qua a bbàsciu, dove ormai pure le lacrime e i sorrisi c’hanno rrubàto, non ci possiamo proprio credere che qualche papera spennacchiata c’abbia più diritto di noi a vivere una vita degna di questo nome".





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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    07 Luglio, 2019
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I ragazzi del King William's

Seduti al tavolo di un ristorante berlinese, due ragazzi inglesi evocano le storie, vecchie di decenni, dei loro genitori ai tempi del liceo. Un racconto appassionato che tira fuori un preciso e interessante affresco storico dell'Inghilterra degli anni Sessanta, un paese irrequieto, in cui la questione operaia trova sfogo in una serie di scioperi troppo spesso repressi con violenza sanguinosa, in cui forze politiche conservatrici conducono battaglie xenofobe generando un clima di odio, dove in ogni luogo e in ogni momento può scoppiare una bomba piazzata dall'IRA o da altre organizzazioni terroristiche. In questo clima seguiamo la vita di un gruppo di studenti del prestigioso King William's, un liceo esclusivo, un tempo appannaggio dei rampolli delle classi più agiate, ora aperto anche a ragazzi meritevoli che tentano di riscattarsi dal ceto di appartenenza. Siamo a Birmingham, città industriale che ruota quasi esclusivamente intorno allo stabilimento industriale di Longbridge che, tra dipendenti e indotto, dà da mangiare a più di mezza popolazione. I riflettori vengono puntati su Duggie Anderton, Philip Chase e Benjamin Trotter. Famiglie diverse, caratteri differenti, accomunati da obiettivi simili, interessi comuni e da un legame di amicizia che va al di là di ogni possibile differenza. Tra un compito in classe e una serata davanti a qualche birra, tra uno scherzo del loro incontenibile compagno Harding e un riff di Eric Clapton, tra una riunione al giornale della scuola e le difficoltà a casa, seguiamo le vite di questi ragazzi, la loro formazione, le loro esperienze. I problemi tipicamente scolastici, le cottarelle giovanili, i sogni e i progetti da liceali ci riportano indietro nel tempo, a quelle dinamiche prettamente adolescenziali che si scontrano poi con il mondo degli adulti. Quello delle guerre, delle lotte di classe, della politica nazionale ed estera. Quello delle famiglie che tentano di stare su anche quando uno o entrambi i genitori hanno relazioni extraconiugali. Quello del lavoro, della violenza, del sesso. Non sempre i ragazzi lo comprendono, non sempre davanti ad espressioni tipo "Guerra fredda", "Muro di Berlino", "Watergate" sanno precisamente di cosa si sta parlando. Non sempre sanno come reagire all'adulterio dei genitori, ad episodi di intolleranza o sopraffazione, alle bombe nei pub. Studiano in una scuola che li prepara al futuro senza spiegargli il passato e il presente. Seguono le loro passioni con ardore, dalla musica alla letteratura, dall'arte al giornalismo, sognando di farle diventare un vero e proprio lavoro. Guardano il mondo degli adulti con l'espressione dubitosa di chi non capisce e con gli occhi sognanti di chi vi ripone grandi speranze. "...e in quel preciso momento Benjamin si trovò a pensare che forse le ambizioni che coltivava erano tutte sbagliate, il desiderio di diventare uno scrittore, il desiderio di diventare un compositore, mentre quella del comico, di colui che porta le risate alla gente, era in realtà la più sacra delle vocazioni, e si domandò se non dovesse puntare invece a diventare un grande comico o soggettista; poi però quel sentimento passò, lo sketch finì, fu il turno di un cantante mortalmente noioso e Benjamin seppe che in realtà era soltanto un adolescente come tutti gli altri; un normalissimo adolescente in una normalissima famiglia; anche il volto di suo nonno gli sembrò normalissimo, alla fin fine, e Benjamin si accorse per la prima volta che Lois non aveva riso insieme a loro, e quel senso di accecante chiarezza se n’era davvero andato, e ancora una volta tutto nella sua vita gli sembrò pesante, complicato e incerto".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    14 Giugno, 2019
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L'uomo che aveva seni da donna

"Adesso questa storia è dentro di voi. Occuperà i vostri giorni e le vostre notti. Scaverà il suo letto nel vostro corpo e nel vostro spirito. Non potrete piú sfuggirle. È una storia che viene da lontano. Ha vissuto in intimità con la morte. Da quando l'ho raccontata mi sento meglio, mi sento piú leggera e piú giovane. Vi lascio un tesoro e un pozzo profondo. Attenzione, non bisogna confonderli: ne va della vostra lucidità." Ambientata in Marocco, in un tempo imprecisato, Creatura di sabbia è la storia di una donna che, appena nata, diventa uomo per volere dei suoi stessi genitori, disperatamente alla ricerca di un erede di sesso maschile dopo la nascita di sette figlie femmine. L'ottava bambina viene quindi presentata al mondo come Mohamed Ahmed e vive la sua esistenza come legittimo successore del padre, nascondendo a tutti il suo vero sesso, mortificando il suo corpo, modificando la sua voce, comandando e godendo di tutti i privilegi che la società marocchina riserva agli uomini. Arriva perfino a sposare una cugina. Ma il richiamo della natura è troppo forte, i turbamenti tormentano la protagonista facendola impazzire, costringendola ad una vita di clausura e penitenza, portandola infine ad abbandonare la sua condizione, i suoi privilegi, quella che è stata finora la sua identità e andare libera per il mondo non più come Mohamed ma come Zahra. Ma potrà mai essere veramente libera dopo aver passato gli anni migliori ad impersonare un essere diverso? Potrà adattarsi al ruolo che il suo mondo riserva alla donna dopo aver goduto di tutto ciò che è appannaggio esclusivo degli uomini? Scopriamo la vita di Mohamed-Zahra, "l'uomo che aveva seni da donna", "la donna con la barba mal rasata", attraverso un intricato gioco di alternanza dell'io narrante. Il testimone passa da un cantastorie ad alcuni dei suoi ascoltatori, da un bibliotecario cieco alla stessa protagonista e ad un suo corrispondente segreto. L'enfasi folkloristica del cantore da strada si scontra con la formale eleganza del carteggio epistolare, la ruvida asprezza dei commenti da bar lascia il posto all'intima sincerità del diario segreto, in un infinito cambio di voci e di stili in cui il lettore viene continuamente spiazzato dai repentini cambi di direzione, dai differenti punti di vista, vedendosi spesso costretto a rivedere quanto letto precedentemente, senza tuttavia perdere mai interesse per la storia. In questo gioco altalenante verità e finzione, fantasia e realtà si combinano arrivando al punto di non essere più distinguibili gli uni dagli altri. Ad un certo punto il cerchio sembra chiudersi quando la parola torna al primo narratore. Tuttavia niente in questo libro è banale, scontato, prevedibile ed il lettore potrebbe trovarsi di fronte all'ennesimo colpo di scena. "Quando il libro fu vuotato dalla luna piena di quanto vi era scritto, all'inizio ebbi paura, ma risalgono proprio ad allora i primi segni della mia liberazione. Anch'io ho dimenticato tutto. Se qualcuno in mezzo a voi ci tiene a conoscere il seguito di questa storia, dovrà interrogare la luna quando sarà interamente piena. Io deposito qui davanti a voi il libro, il calamaio e il portapenne. Me ne vado a leggere il Corano sulla tomba dei morti!"

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    25 Mag, 2019
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Accenni di una storia d'amore

In un Giappone montano, lontano dalla vita fervente e caotica delle grandi metropoli, seguiamo la storia d'amore tra Shimamura e Komako. Lui è un ricco abitante di Tokio, di cui sappiamo soltanto che ama la bellezza in tutte le sue forme e che trova insensato qualsiasi spreco di energia, che spesso sfugge dalle catene della vita famigliare rifugiandosi nel Paese delle Nevi, una non meglio identificata località termale nipponica. Lei è una giovane geisha che comincia questo mestiere per altruismo e che poi, come spesso accade, ci rimane incatenata. Kawabata racconta la loro storia senza seguire una vera e propria trama, mettendo il sentimento che lega i due protagonisti al centro del libro pur senza mai approfondire l'argomento, limitandosi ad evocare incontri, dialoghi, sensazioni senza che questi siano legati da un reale filo conduttore, senza una concreta introspezione psicologica. Le figure dei due innamorati e i loro caratteri vengono fuori per lo più per intuizione. Vediamo così un uomo raffinato, riflessivo e un po' distaccato e una donna passionale, vulnerabile, non molto signorile. Sullo sfondo un Giappone lento, sornione, sensuale del quale, tuttavia, viene fuori un ritratto appena accennato. Dell'opera si apprezza soprattutto lo stile, caratterizzato da una scrittura fine, semplice senza mai essere banale, elegante senza spiccare per virtuosismo, il cui picco si può trovare nella suggestiva scena di apertura e in alcune gradevoli descrizioni. Per il resto la lettura scorre leggera, piacevole senza mai coinvolgere realmente, a tratti quasi effimera, fino a svegliarsi in un drammatico finale che, finalmente, regala qualche palpitazione. "Komako gli era vicina, egli non sapeva da quando. Gli prese la mano. Egli si volse a guardarla ma non disse nulla. Ella fissava il fuoco e il riverbero della fiamma colpiva il suo volto attento, leggermente arrossito. Shimamura si sentì il cuore in tumulto. I capelli di Komako si erano sciolti, e la sua gola era nuda e tesa. Gli tremarono le dita per il desiderio di toccarla. La sua mano era calda ma quella di Komako ardeva. Non sapeva perché ma sentiva incombere su di loro il momento".



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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    09 Aprile, 2019
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Le circostanze e il destino

Dal regime di Salazar ai giorni nostri, passando per la Rivoluzione dei Garofani e la guerra in Africa, Miguel Souza Tavares ripercorre circa mezzo secolo di storia portoghese attraverso la vita del giovane architetto Filipe Madruga. La nascita, la morte della madre, l'abbandono da parte del padre, la vita con i nonni paterni, gli studi, la carriera, una sconcertante verità che viene a galla. Una biografia bella e toccante che raccoglie tre generazioni, dal nonno Tomaz da Burra a suo figlio Francisco, fino ad arrivare al protagonista. Attorno a loro girano due fondamentali figure femminili, la bella Maria da Gracia, moglie di Francisco e madre di Filipe e soprattutto la nonna Filomena, moglie di Tomaz, forse il più bel personaggio del libro. Attraverso loro ci immergiamo nella vita del piccolo centro rurale di Medronhais de Sierra. L'asprezza della vita contadina, la lontananza delle istituzioni, la guerra e la rivoluzione. Ma anche le amicizie e le rivalità, gli amori e gli scandali, i punti di ritrovo come il Caffè Centrale di Manel da Toca o il Salone Moderno del barbiere Octavio, veri centri nevralgici della comunità maschile, mentre per le donne il mondo ruota attorno alla chiesa e ai sermoni di Padre Anselmo. Nel racconto la parola passa di volta in volta dai nonni al nipote, in continui salti temporali e cambi di punti di vista cui partecipano anche Francisco e Maria da Gracia in maniera epistolare. Questa è sicuramente la parte migliore del libro. Da qua in poi l'opera cala notevolmente. La scena si sposta a Odemar, dove un Filipe ormai trentenne e affermato si ritrova a dover fare i conti con un presente ed un passato difficili. Il presente lo vede invischiato in torbidi affari di politica marcia, di speculazione edilizia, di minacce e corruzione. Il passato torna a galla facendo riaffiorare una vecchia storia di alcool, abusi sessuali, omissione di soccorso, in un'alba sporca di qualche anno prima da cui il romanzo prende il titolo. Elementi che potrebbero far pensare ad un avvincente thriller mozzafiato ma che invece, purtroppo, non vengono sfruttati a dovere. Non sono male né lo stile né la caratterizzazione dei personaggi, così come il realistico disegno di una società laida e corrotta. Tuttavia i nobili intenti di denuncia sociale non sembrano andare oltre un facile perbenismo, gli eventi scorrono in maniera prevedibile e la trama, banale e frettolosa, si chiude in un finale buonista e privo di enfasi. Un vero peccato vista la qualità della prima parte e le premesse che questa portava con se. "Noi uomini siamo animali: animali sempre in calore, un calore che a volte, ma di rado, è accompagnato da qualche sentimento. Tra noi e la nostra natura, tra noi e la disgrazia, ci sono giusto le circostanze. Null’altro ci ferma, null’altro può evitare la disgrazia: solo le circostanze e il destino".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    31 Marzo, 2019
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I cento occhi della memoria

Stanco, anziano, disilluso, Gesualdo, affacciato alla finestra della sua stanza d'albergo in una Roma fredda e piovosa, affida la sua salvezza alla scrittura, ripercorrendo l'unica estate della sua vita in cui si sia sentito giovane e felice. Guardando nel suo passato come un Argo dai cento occhi, il narratore, chiaro alter-ego dell'autore, ritorna al 1951, alla fine di un anno scolastico in cui, trentenne, ha insegnato italiano a Modica, "un paese in forma di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri". Estraneo ai piaceri dell'amore che non siano quelli voluttuosi presi in affitto nelle case di piacere, invaghito di quella che è stata la sua città per la durata di un anno scolastico, incline alla malinconia e all'autocommiserazione, il nostro eroe racconta i tormenti sentimentali, carnali e poetici di quello spaccato della sua esistenza, ma anche le serate di baldoria, i balli, le consuetudini, le incertezze di un lavoro che dopo ogni estate non si sa dove lo porterà. Il suo cuore è tanto impaziente, talmente desideroso da riuscire ad amare più donne contemporaneamente, senza tuttavia essere corrisposto, bruciando di una passione feroce che sfoga scrivendo versi. Musa irraggiungibile di cotanto ardore è l'irrequieta Maria Venera, cui si alternano, si sovrappongono, si confondono altre procaci pulzelle come l'ingenua Isolina o la navigata Cecilia. "Pensavo ai miei amori, dicendomi ch'erano infatuazioni, prima che per una donna, per me stesso; e che potevano essere tanti nel medesimo tempo, perché in ognuna amavo me solo. Bisogna prima innamorarsi di sé per potersi innamorare di un'altra". La penna barocca del grande autore siciliano è capace di incantare il lettore con un uso sapiente delle parole, di entusiasmarlo facendogli provare i sentimenti che tormentano il protagonista, di interessarlo con colte citazioni che cadono a puntino. In questa sorta di diario tardivo, Gesualdo guarda al passato sguinzagliando i suoi cento occhi ma questi, ormai stanchi, non sembrano distinguere bene tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere, tra i fatti reali e le fantasie letterarie di un vecchio malinconico, arrancando nella fitta nebbia del tempo che offusca inevitabilmente la memoria e finendo per rendere cieco il nostro novello Argo. "...e avrei voluto vivere in carne e ossa un mistero di Parigi; giocare una volta alla roulette russa; ricevere una lettera di Mano Nera, firmata con una croce. Ancora oggi tutto quanto contiene una minaccia m'attira. Persino il gusto del fantasticare, questo spasso mio del teatro ad occhi chiusi, sono felice ogni volta che posso pervertirlo in un rischio della mente. Quasi volessi emulare da fermo il sonnambulo che passeggia su un davanzale largo due palmi e ripeterne nel pensiero le fatali anestesie".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    16 Marzo, 2019
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L’uomo è una imprevista anomalia

"Io sono un essere logico, e lo sono ancora di piú quando la mia mente impazzisce per effetto della depressione maggiore. Questa è la parte piú difficile da far comprendere a chi non si è mai ammalato di depressione, ma è anche il piú subdolo degli inganni. Per un malato di depressione la visione è netta, senza nebbie. Una persona non affetta da depressione invece ha una visione sfocata, lavora di fantasia, interpreta, completa le forme come un bambino alle prese con i primi esercizi di geometria. L’opacità è dei sani. Lo è perché il non vedere l’esatta forma delle cose è il dispositivo di natura attraverso il quale ci salviamo da noi stessi". Con delicatezza, precisione e una consistente dose di autoironia, impreziosendo la narrazione con interessanti citazioni che spaziano dal cinema alla letteratura, Andrea Pomella, autore e protagonista del libro, racconta i suoi anni alle prese con un nemico subdolo e sfiancante, un piccolo essere che vive dentro lui occupandone ogni spazio ed impedendogli perfino di respirare: la depressione maggiore. Pomella non si risparmia, non si nasconde, non lascia spazio all'immaginazione. La sua cronaca, o reportage, o memoir che sia, pur essendo scritto con la prosa e la sensibilità del romanzo, rappresenta un interessante e dettagliato viaggio nei meccanismi di un malessere invadente ed invalidante che, partendo dalla mente, raggiunge ogni parte del corpo rendendo difficili, a volte perfino impossibili, anche i gesti più semplici e banali. L'autore si mette a nudo senza alcun pudore, raccontando una storia che comincia dalla sua infanzia, con la separazione dei genitori e termina ai giorni nostri. Un susseguirsi di alti e bassi che convincono Andrea ad affidarsi alle cure di un professionista e anche, di conseguenza, alla chimica. Se l'inizio della terapia sarà poco incoraggiante, pian piano l'aiuto della medicina, in concomitanza ad un piacevole cambiamento nella vita del protagonista, porterà i suoi frutti e Pomella, dopo anni di sconfitte, riuscirà finalmente a segnare un punto decisivo nella sua lunga lotta contro il terribile nemico, consapevole tuttavia del fatto che, in questa come in tutte le guerre, non si può mai abbassare la guardia, anche quando tutto sembra andare per il meglio. "L’uomo è una imprevista anomalia verificatasi nel corso del processo evolutivo della vita, non il risultato a cui l’evoluzione doveva necessariamente portare. È mai concepibile infatti che l’officina della natura mettesse determinatamente in circolazione un animale nello stesso tempo debole, intelligente e mortale, cioè inevitabilmente infelice? Fu una specie di sbaglio, un caso quasi inverosimile che ragionevolmente non ha motivo di ripetersi in nessuno dei pianeti i quali presentano condizioni ambientali uguali alla terra".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    20 Febbraio, 2019
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Lui, lei, Istanbul

Lui, lei, Istanbul. Tre sono i protagonisti di questo breve ed intenso viaggio. Un regista di origini turche trapiantato in Italia che torna nel paese natale per dire addio alla casa dove è cresciuto prima che venga abbattuta lasciando il posto ad un moderno condominio. Una donna in carriera, Anna, in un viaggio a metà tra lavoro e piacere con il marito e una coppia di amici e collaboratori. La città cosmopolita per eccellenza, da sempre ponte tra diverse culture, Istanbul o anche Costantinopoli, Bisanzio, Dersaadet, Bab-i Ali, la porta della felicità, la porta sublime, la "seconda Roma". Lui rievoca i ricordi dell'infanzia, la lunga assenza del padre e poi il suo ritorno, l'affetto della madre, della nonna e delle zie, i giochi, i primi amori e i primi pruriti, la passione per il cinema nata ancor prima di compiere sette anni e divenuta ragione di vita. Lei scopre i tradimenti del marito e la sua vita calcolata, programmata, sempre sotto controllo subisce una rivoluzione totale. Ma non c'è sofferenza dopo la rabbia iniziale, lì dove in molti vedrebbero la tragedia lei trova una rinascita personale, uno stravolgimento positivo delle priorità, degli obiettivi, del suo animo più profondo. Istanbul, il punto di incontro tra Oriente ed Occidente, città divisa tra un'irrefrenabile voglia di progresso e un inevitabile desiderio di preservare la storia, la cultura, i luoghi e riti che la rendono unica. Correnti contrarie che si scontrano e il cui impatto si trasforma in cortei, proteste, idranti e manganellate. Per lui la città rappresenta un tempo che non tornerà mai, i rimpianti per ciò che poteva essere e non è stato. È il classico modo di guardarsi indietro a distanza di anni e percepire il passato sempre meglio di come era realmente e di come si vede oggi il presente. Per lei invece è morte e rinascita, è un mondo nuovo in cui costruire una nuova vita, una cultura da conoscere pian piano non nei luoghi e con i tempi della turista, ma negli hamam scrostati e umidi di vapore, nei negozi polverosi di robivecchi, nei dolci bicchieri di nane, nei racconti degli anziani, nelle piazze in cui ferve la rivoluzione. Ozpetek si cimenta con la letteratura ottenendo un ottimo risultato. Le atmosfere che si percepiscono durante la lettura sono le stesse che si respirano nei suoi film, i personaggi simili ai protagonisti delle sue pellicole, gli argomenti gli stessi proposti al cinema: l'amore al di là del genere sessuale, dell'età, dei legami; i ricordi cui guardiamo con piacere ma anche con un pizzico di tristezza; la speranza che riponiamo in un futuro nel quale non possiamo mai sapere cosa ci aspetta e che a volte ci incute paura. Lo stile di scrittura è fine, raffinato, malinconico. Le due storie scorrono indipendenti ma inevitabilmente si incrociano. La parte autobiografica mette in evidenza quanto di se stesso e delle sue esperienze l'autore metta nelle sue opere. L'amore per la sua città, cantato come un inno o come una serenata, si percepisce in ogni pagina, in ogni riga, in ogni parola. "Istanbul è il blu e rosso, che paiono riuscire a fondersi solo in certi tramonti sul Bosforo. E il rosso, il rosso dei carrettini dei venditori ambulanti di simit: le ciambelle calde ricoperte di sesamo che sono la prima cosa che compro quando arrivo. Il rosso fiammante dei vecchi tram: oggi ne è rimasto solo uno, con cui i turisti attraversano il cuore della città. Il rosso-arancio con cui erano decorati i piattini del tè che una volta ti porgevano nei kahve: tè bollente, servito nei bicchieri di vetro. Il rosso dello smalto sulle unghie di mia madre, lei che ha sempre amato i colori pallidi, delicati. Il rosso della tuta Adidas che mi ha chiesto in regalo, e che le porto in valigia; lei che ricordo sempre solo in tailleur, tailleur grigi, carta da zucchero. Ma ora è il rosso che vuole, è il rosso a renderla felice. Forse dovrei essere triste oggi, e la mia Istanbul dovrebbe essere in chiaroscuro, in bianco e nero".

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Gialli, Thriller, Horror
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    19 Febbraio, 2019
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One Man Show

Perché accontentarsi di essere amico dell'affascinante e facoltoso Dickie Greenleaf, vivendo alla sua ombra e dipendendo dai suoi umori, quando si può diventare Dickie Greenleaf a tutti gli effetti? È quello che si chiede Tom Ripley, un vagabondo che campa di espedienti, di piccole truffe e di lavoretti saltuari, un balordo indefessamente dedito alla menzogna ed al raggiro. Il grande talento del protagonista, cui fa riferimento il titolo, è quello di saper simulare qualsiasi sentimento, di riuscire a trasformarsi in qualsiasi altra persona acquisendone  l'accento, il modo di muoversi, l'aspetto estetico. Il nostro perdigiorno parte da Boston per raggiungere l'Italia, dove ha il compito di convincere Richard, rampollo di un'importante famiglia di costruttori navali, a tornare a casa. Il giovane ha infatti abbandonato genitori e lavoro per vivere di rendita nel Bel Paese, nell'immaginaria Mongibello, nel sud della Campania, inseguendo il suo sogno di diventare pittore e trascinandosi oziosamante tra mare, alcol e divertimenti. Il padre ingaggia Tom, suo sedicente amico, per cercare di riportarlo a casa. Ma la sua missione fallisce miseramente non appena il protagonista entra in confidenza con Dickie, comincia ad apprezzare il suo modo di vivere, i suoi vestiti, i suoi gioielli. Non solo rinuncia al proposito di convincerlo, decide addirittura di restare in Italia con il nuovo amico e unirsi a lui nella sua pigra e rilassante esistenza. Ad un certo punto però l'amicizia tra i due si inceppa, i soldi di Tom stanno per finire e sembra esserci solo un modo per continuare a condurre quella vita: diventare egli stesso Richard Greenleaf. Inizia così una nuova vita, fatta di lusso, viaggi, abiti firmati, costosi accessori. Ma anche di bugie, sotterfugi, depistaggi e delitti. Basterà il suo talento a permettergli di farla franca? La sua coscienza gli permetterà di godere dei frutti delle sue malefatte? Per scoprirlo non possiamo far altro che imbarcarci insieme a lui e partire per questo viaggio psicologico nella mente di un criminale. Patricia Highsmith ci conduce infatti nei recessi più bui del suo animo, sviscerandone gli insani ed insoliti pensieri, dando un senso ai sui pur riprovevoli comportamenti, portando il lettore ad immedesimarsi nel criminale pur mantenendone le distanze. Se l'aspetto psicologico è quello che desta maggior interesse nella lettura, un altro punto a favore dell'opera sono le splendide ambientazioni. Si scappa dal grigiume di una Boston cupa e priva di interesse, dove la vita scorre monotona e senza prospettive, dove farsi una bevuta nel solito locale è ciò che di meglio può capitare, per immergersi negli ameni paesaggi marini di casa nostra, nell'arte e nella storia che si respirano in città affascinanti come Roma e Venezia, sognando poi di raggiungere le isole greche, polizia permettendo. Pur non spiccando particolarmente per virtuosismo, lo stile dell'autrice risulta adatto alla storia narrata, freddo, calcolato, semplice, come il modo di pensare di Tom. La trama, pur molto semplice, non appare mai banale o scontata, anche se a volte si cade un po' troppo nell'inverosimile e la vera suspense si percepisce forse soltanto nel finale. Un noir che, pur non essendo un capolavoro, può benissimo essere apprezzato anche dai non patiti del genere, con un protagonista che non ispira certo simpatia (di personaggi simpatici, invero, in questo libro non se ne vede neanche uno) ma che coinvolge, nel bene o nel male, con il carisma dell'antieroe ed il talento da One Man Show.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    17 Febbraio, 2019
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Il Nino Bueno e la Nina Mala

Lily la Cilenita. Arlette la Guerrigliera. Madame Arnoux. Mrs Richardson. Kuriko. Otilia la Peruanita. Chi è davvero la donna di cui è perdutamente innamorato Ricardo Somocurcio? Qual è la vera identità della Nina Mala, la ragazza cattiva che dà il titolo al libro? Perché continua a comparire e scomparire dalla vita del povero protagonista, ora ammaliandolo, seducendolo, illudendolo, ora scaricandolo, offendendolo, spezzandogli il cuore? Per scoprirlo potrebbe non bastare compiere una sorta di giro del mondo che parte da Miraflores, quartiere di Lima, e passa per le principali capitali europee, con puntatine anche in Estremo Oriente, nel cuore dell'Africa e nella Cuba rivoluzionaria. Potrebbe non essere sufficiente un'intera vita, dall'infanzia alla vecchiaia, passando per l'adolescenza, la giovinezza, l'età adulta. Per conoscerla veramente non basterà amarla alla follia, tremare di paura temendo di perderla, attendere ed accettare ogni suo ritorno, perdonarle ogni cattiveria e godere di ogni sua concessione. Il nostro Ricardo, il povero Pichiruchi, il Nino Bueno, se ne innamorerà appena adolescente per non guarire mai più, passando una vita alla sua totale mercé. Vargas Llosa propone una storia d'amore a tratti tragica, a tratti esilarante, con due singolari protagonisti le cui vicende sono il pretesto per raccontare spaccati di storia peruviana ed europea, aspetto fondamentale di un libro che altrimenti potrebbe apparire fin troppo leggero, una sorta di telenovela letteraria, scritta in ottima prosa, con un piglio brillante e coinvolgente, romantica e simpatica ma con una trama tutto sommato piatta, prevedibile e caratterizzata da un sentimentalismo in alcuni frangenti eccessivo. In un arco di tempo di circa mezzo secolo, Vargas Llosa ripercorre le vicende del suo paese. Uno stato devastato da violente e sanguinose lotte intestine, che portano a ripetuti golpe militari, rovesciamenti di governi, elezioni pilotate, atti di terrorismo politico, condannando di fatto tutti gli schieramenti in campo e denunciando le disparità economiche e sociali, lo sfruttamento delle masse, la mancanza di opportunità che porta i giovani ad espatriare in cerca di un futuro migliore e condanna chi resta ad una vita di rinunce, stenti, sottomissione. L'autore ci porta poi in un'Europa in pieno fermento. Si parte da Parigi, città affascinante e piena di opportunità, centro nevralgico della vita culturale europea e culla delle rivolte studentesche sessantottine. L'attenzione si sposta poi oltremanica, in una Londra hippie anni settanta, centro di avanguardia artistica, capitale mondiale di una rivoluzione psichedelica fatta di droga, rock'n'roll e amore libero. Si passa anche per Tokio, dove all'ordine, alla sobrietà, al perbenismo che traspare dalle strade durante il giorno, si contrappone la perversione, la mondanità, l'infuocata vita notturna. Si torna nel vecchio continente, in una Madrid povera ma fervente, dove artisti di ogni genere si incontrano in locali pieni di fumo ed effluvi alcolici. In questi cangianti contesti storico-geografici si muovono le disavventure amorose di due protagosti forti ed empatici, legati da un vincolo sentimentale viscerale, morboso, malato, però, o proprio per questo, invincibile, ineluttabile, capace di resistere alla distanza, all'orgoglio, alla malattia, alla morte. "Non sei ricco, ma un povero pichiruchi, - disse, furiosa. - Se lo fossi stato, non sarei andata né a Cuba, né a Londra, né in Giappone. Sarei rimasta con te da quella volta, quando mi hai fatto conoscere Parigi, e mi portavi in quei ristoranti orribili, da mendicanti. Ti ho sempre lasciato per certi ricchi che si rivelarono una schifezza. E così sono finita, un disastro. Sei contento che lo ammetta? Ti fa piacere sentirlo? Fai tutto questo per dimostrarmi quanto sei superiore a tutti loro, quanto mi sono persa con te? Perché lo fai, si può sapere? Perché così dev'essere, nina mala. Forse voglio guadagnarmi delle indulgenze e andarmene in cielo. Potrebbe anche essere che sia innamorato di te, ancora."

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    27 Gennaio, 2019
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Romanzo distopico che distopico non è

"Poche cose sono più tediose della trattazione di idee universali inflitta da un autore o da un lettore a un’opera di narrativa. Lo scopo di questa mia prefazione non è quello di dimostrare se Un mondo sinistro appartenga o meno alla «letteratura seria» (eufemismo per la vuota profondità e per la sempre ben accetta banalità). Non mi ha mai interessato la cosiddetta letteratura di carattere sociale (in gergo giornalistico e commerciale: «libri importanti»). Non sono «sincero», non sono «provocatorio», non sono «satirico». Non sono scrittore didascalico né allegorico. La politica e l’economia, le bombe atomiche, le espressioni d’arte primitiva e astratta, l’intero Oriente, accenni di «disgelo» nella Russia sovietica, il Futuro dell’Umanità, e così via, mi lasciano supremamente indifferente". Con queste parole lo stesso Nabokov prepara il lettore ad affrontare un libro che ha tutte le caratteristiche dell'opera distopica. Un paese imprecisato, in un tempo imprecisato, caduto sotto un regime dittatoriale guidato da un capo ispiratore e leader di un'ideologia totalitaria. La prima cosa che viene da pensare è che tra la prefazione e il testo non ci sia molta coerenza. Le parole dell'autore non vanno d'accordo con un tal genere di romanzo. Bisogna tuttavia tener presente che, quando si ha a che fare con uno scrittore come Nabokov, vale tutto ed il contrario di tutto. In effetti, se pensiamo a Orwell (nei cui confronti Nabokov non ha mai dimostrato molta stima), a Bradbury, ad Huxley o a Dick siamo fuori strada. Questo libro non ha niente a che fare con le famose opere distopiche di questi autori. Sembra più che il mondo sinistro in questione sia un pretesto per raccontare altro. Adam Krug è uno stimato filosofo, la mente più brillante del suo paese. Da poco rimasto vedovo, cerca come meglio può di preservare il figlio, il piccolo David, dal dolore per la morte della madre. La sua nazione nel frattempo è finita sotto il regime di un certo Paduk, leader del Partito dell'Uomo Comune, portatore di un'ideologia, l'ekwilismo, che fa dell'ignoranza, della mediocrità, dell'omologazione i suoi punti cardine. Il nuovo esecutivo cercherà in tutti i modi di portare l'esimio professore dalla sua parte, affidandogli incarichi prestigiosi in cambio di appoggio e propaganda. I continui rifiuti del protagonista porteranno il governo a ricattarlo usando l'unica vera arma a disposizione: David. Le conseguenze saranno catastrofiche. Certo, non mancano le critiche ai totalitarismi, ai dittatori e ai loro ciechi seguaci, alla società, alla violenza, alla messa alla gogna e alla soppressione di chi la pensa diversamente. Il vero tema del libro, però, è un altro: è la tenerezza del rapporto padre figlio, è la cupa disperazione che nasce dalla violenta interruzione di questo legame, è l'abissale follia in cui può sfociare il dolore, è la pazzia intesa come unico rimedio all'orrore che ci circonda. Lo stesso autore specifica che, se proprio si vuol cercare una chiave di lettura politica in questo romanzo, la si può trovare esclusivamente nella critica all'insana idea di voler a tutti i costi rendere gli uomini uguali livellandone le coscienze verso il basso. Lo stile, come sempre nei libri di Nabokov, è ricco di virtuosismi, di giochi di parole, di riflessioni filosofiche. L'autore si avventura fino a inventare dal nulla una vera e propria lingua, si spinge fino a riscrivere Shakespeare a modo suo (scelta coraggiosa quanto discutibile). Inoltre sembra divertirsi a passare spesso dalla prima alla terza persona, ma nel finale si capirà il perché di questa decisione. Tuttavia, anche se sulla scrittura e sul valore dei contenuti non c'è nulla da eccepire, la lettura pecca dal punto di vista della piacevolezza. Un po' di retorica di troppo, figure stereotipate (cosa atipica per chi ha già qualche esperienza con l'autore) ed un protagonista incapace di creare empatia anche nei momenti di maggior dolore abbassano il livello di un romanzo nato con più alte potenzialità. Krug non ispira certo simpatia, troppo compiaciuto di sé, arrogante, presuntuoso, snob, troppo freddo, disinteressato riguardo a ciò che lo circonda finché non viene toccato in prima persona. Il rifiuto di appoggiare il regime è dovuto più ad indifferenza, al disinteresse a schierarsi dall'una o dall'altra parte che ad una reale presa di coscienza, ad un deciso rifiuto nei confronti dell'ideologia dominante. Il passato scolastico da bulletto violento e dispettoso (nei confronti proprio del futuro dittatore Paduk) ne accrescono decisamente l'antipatia. Il Guy Montag di Fahrenheit 451 o il Winston Smith di 1984, pur essendo persone comuni e non i cervelli più importanti della nazione come il personaggio in questione, hanno tutta un'altra caratura e un altro spessore umano. Insomma, se cercate un vero romanzo distopico non lo troverete in quest'opera. Se volete conoscere o approfondire un grande autore leggetelo pure, tenendo però presente che dalla stessa penna sono nate opere di gran lunga migliori.

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Romanzi autobiografici
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    14 Gennaio, 2019
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L'amore per la scrittura

Grazia Maria Cosima Damiana Deledda, qui semplicemente Cosima, ripercorre le tappe fondamentali della prima parte della sua esistenza attraverso un romanzo che in realtà è una vera e propria autobiografia raccontata in terza persona. Prosa impeccabile, favolose descrizioni paesaggistiche di una terra bella e spietata come la Sardegna, capacità di raccontare l'animo umano sono gli elementi alla base di quest'opera, pubblicata postuma e in parte censurata dagli eredi. Spicca la destrezza dell'autrice, ormai matura, di descrivere il mondo in maniera diversa a seconda dell'età, quasi riuscisse ad immedesimarsi nella se stessa di tanti anni prima e guardare, giudicare, esporre attraverso quegli occhi. Conosciamo la scrittrice così piccola da non avere neanche l'età per andare a scuola, curiosa, intelligente e alle prese con uno dei più affascinanti misteri della vita: la nascita, in questo caso di una nuova sorellina. La lasciamo ormai tanto cresciuta da poter abbandonare il nido materno per inseguire il suo sogno letterario, scrittrice in erba sull'onda dell'entusiasmo per i primi successi editoriali. Nel mezzo tante piccole tappe che compongono il cammino di crescita della protagonista segnato, come per ognuno, da gioie, dolori, amori, lutti, speranze, delusioni, momenti di giubilo e altri di sconforto. Su tutto un'unica costante: l'amore per la scrittura, la capacità di trarre storie dalla sua fervida fantasia ma anche di rielaborare su carta le tante vicende che si susseguono all'interno del proprio nucleo familiare o di cui soltanto sente parlare nel microcosmo chiuso e spesso intollerante della piccola realtà di provincia in cui vive. Nel talento di Cosima però non sono in molti a credere. Fermatasi alla quarta elementare, più avvezza al dialetto che ad un italiano che, a pochi anni dall'unità d'Italia, resta quasi una lingua straniera, la ragazza troverà nel fratello Andrea, ormai capofamiglia, un fervido sostenitore. Grazie a lui potrà continuare a coltivare la sua passione, anche contro le malelingue che circolano in paese sulle donne che si dedicano ad una simile attività, barriere ideologiche ancora oggi difficili da abbattere. Troverà editori disposti a pubblicarla, ma anche detrattori le cui critiche sembrano più vicine ad una discriminazione di genere che a vere e proprie analisi letterarie negative: "Torni, torni, la piccola grafomane, nel limite dell'orticello paterno, a coltivare i garofani e la madreselva; torni a fare la calza, a crescere, ad aspettare un buon marito, a prepararsi ad un avvenire sano di affetti famigliari e di maternità". Ma la nostra eroina non si lascerà scoraggiare da niente e nessuno e per lei arriverà il momento di abbandonare Nuoro e andare incontro ad un avvenire pieno di successi e riconoscimenti che la porterà fino al premio Nobel. "Il profumo quasi violento delle rose, e il loro colore, le parvero vivi, caldi, sanguinanti: più che dal coro delle fanciulle e dal ronzio delle musiche della strada, sentì da quell'alito quasi carnale venirle incontro la vita: ma quando si decise a prendere il mazzo dalle mani del garzone che la guardava con occhi maliziosi, si sentì pungere da una spina acuminata: e pensò che la vita anche sotto l'illusione delle cose più belle e ricche, nasconde le unghie inesorabili'.


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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    31 Dicembre, 2018
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Futti futti che Dio perdona a tutti!

In Italia la stragrande maggioranza della popolazione usa definirsi cristiana cattolica. Ma quanti sono quelli che realmente vivono seguendo i precetti della loro tanto sbandierata religione? Pif prova a chiederselo e a darsi una risposta attraverso l'esperienza di Arturo, trentacinquenne protagonista di questo piccolo romanzo che è impossibile leggere senza sentire nella propria testa la familiare voce dell'autore raccontare con la nota enfasi, la simpatica cadenza e lo stralunato incedere. Siamo a Palermo, ai giorni nostri. L'eroe del libro è un agente immobiliare di trentacinque anni, single incallito, trascinato da amici e colleghi in passioni che non sente sue. La sua di passione, invece, cioè i dolci, non importa praticamente a nessuno e ogni volta che Arturo cerca dei  compagni per le sue scorribande nelle pasticcerie della città, si vede rispondere inevitabilmente picche. Un giorno, finalmente, conosce una ragazza che, oltre ad essere bellissima, ha la sua stessa passione. Anzi, ha proprio una pasticceria tutta sua. Tra i due nasce un dolce (è proprio il caso di dirlo) sentimento che li unisce in un rapporto che si fa pian piano più serio. Finché viene fuori il problema della religione. Flora, questo è il nome dell'affascinante pasticcera, è infatti una fervente cattolica, mentre Arturo lo è per convenzione, ricorda poco dei vangeli e smozzica le preghiere. La questione diviene fonte di incalzanti polemiche e continui litigi, tanto da portare Arturo a prendere una decisione tanto sperimentale, quanto provocatoria: trasformarsi, per un periodo di tre settimane, in un vero cattolico. Vero nel senso che metterà fedelmente in pratica gli insegnamenti delle scritture, della Chiesa, del Santo Padre. "Osservai con attenzione il Calendario di frate Indovino appeso accanto al frigo, mi avvicinai e ragionai: “Lei mi vuole cattolico praticante. Bene, allora praticherò la strategia dell’opossum 2.0! Oggi è il primo del mese, da oggi fino a tutto il mese… no, forse è troppo… da oggi fino alla terza settimana del mese io sarò un uomo profondamente cattolico. Sarò più cattolico dei cattolici medi, perché praticherò ogni santo giorno la parola del Signore e seguirò gli insegnamenti dei cinque evangelisti!”. Ed evidenziai le prime tre settimane. Solo dopo mi ricordai che gli evangelisti erano quattro." La cosa, prevedibilmente, avrà esiti grotteschi quanto drammatici e la sua vita amorosa, sociale e lavorativa subirà un durissimo contraccolpo. Con una prosa semplice, verrebbe da dire" televisiva", Pif affronta il delicato tema della religiosità avvalendosi della consueta e consistente dose di comicità e di pungente ironia, dimostrando grande intelligenza nel gestire con equilibrio e simpatia un argomento spinoso che troppo spesso sconfina in diverbi e polemiche. Alternando amatoriali partite di calcetto, sentite disquisizioni su dolciumi, rapporti di coppia e stratagemmi per piazzare un appartamento, l'autore si avvale di personaggi emblematici per mettere alla berlina l'ipocrisia di chi usa la fede come un distintivo da ostentare sul palcoscenico della vita, senza poi mettere in pratica i precetti indicati dal proprio credo, anzi, troppo spesso comportandosi in maniera diametralmente opposta agli insegnamenti di Cristo. Andare a messa, appendere un crocefisso nelle case, negli uffici, nelle scuole, recitare preghiere a memoria non significano niente se poi mancano la volontà di donare, accogliere, perdonare, sacrificarsi per gli altri come indicano i Vangeli. Vengono in mente le celebri parole di Benedetto Croce "non possiamo non dirci cristiani". Arturo, con la sua esperienza, sembra voler timidamente rispondere: "va bene signor Croce, però non possiamo dirci cristiani se poi non ci comportiamo come tali". "La fede ti porta ad avere una vita retta, in piena conformità alle regole, rispettosa del prossimo. Ma guardi un attimo questo paese che si dichiara cattolico. Mi sembra acclarato che non sia così. Se fosse vero, saremmo un paese civile. Perché il pensiero fondamentale che accompagna le azioni degli italiani è: futti, futti, che Dio perdona a tutti! C’è sempre la misericordia di un Dio misericordioso che ci salverà. Se la vivi così, la fede, è molto facile essere cristiani. Abbiamo preso tutto quello che ci interessa, la parte più facile, e abbiamo lasciato quella più impegnativa. Tanto il prete ci perdonerà”.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    05 Dicembre, 2018
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Umorismo scandinavo

A bordo della "Saetta della Morte", lussuoso e potente Pullman della ditta di autotrasporti Korpela, uno squinternato gruppo di aspiranti suicidi finlandesi, ribattezzatisi "Morituri Aninimi", gira in lungo e in largo per l'Europa in cerca di un dirupo adeguato dal quale lanciare il mezzo a tutta velocità e mettere fine a questa triste e dolorosa esistenza. Depressione, delusioni amorose, insuccessi professionali, manie di persecuzione, guai giudiziari e ogni sorta di mal di vivere possibile accomunano questa comitiva di simpatici disgraziati, decisi a risolvere i loro guai nel modo più drastico possibile. Durante il viaggio tra i membri del singolare sodalizio si creano legami forti, solide amicizie, inaspettati amori. E i problemi, si sa, si affrontano diversamente quando c'è qualcuno con cui condividerli, una spalla cui appoggiarsi, una mano da tenere nel difficile cammino della vita. Ma basterà questo barlume di speranza ad annullare la triste e irrevocabile decisione? Con un umorismo tutto scandinavo, Arto Paasilinna, partendo dalla Finlandia e valicando i confini nazionali, ci porta in viaggio per le tortuose strade dell'esistenza umana, facendosi beffa sia della vita che della morte. Il sarcasmo dell'autore si scaglia in ogni direzione, puntando la società, la storia, la politica, affrontando un tema delicato come quello del suicidio con originalità e simpatia. Impresa ancora più ardua se si pensa che, statisticamente, la Finlandia è lo Stato con la più alta percentuale di suicidi in Europa. Un popolo di professionisti, verrebbe da dire. Come verrebbe da pensare che la grottesca storia raccontata in queste pagine potrebbe non essere in fondo tanto inverosimile dalle parti di Helsinki. La simpatia e l'originalità tuttavia non bastano a fare un buon libro. Se la trama sembra promettere bene nei primi capitoli, man mano che si procede nella lettura viene meno l'entusiasmo iniziale e si finisce per girare in tondo sugli stessi argomenti. Anche la presentazione dei personaggi appare incompleta, frammentaria, disordinata, le loro storie sono appena accennate e i pochi indizi vengono ripetuti in una tediosa ridondanza. La prosa è inappuntabile ma piatta, asettica, fatica a trasmettere emozioni e a legare il lettore alle pagine. Tra le note positive spicca il ribaltamento dei ruoli tra l'essere umano e la morte. Il tristo mietitore, da sempre visto come un implacabile e onnipresente cacciatore, nelle pagine di Paasilinna diventa una preda inafferrabile che i Morituri Anonimi inseguono senza sosta per chilometri e chilometri, a volte vanamente, altre volte guardandola con la coda dell'occhio e facendo finta di non vedere, perché lo spirito di conservazione, per fortuna, ha spesso la meglio su qualsiasi difficoltà.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    09 Novembre, 2018
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Una strana amicizia

Un piccolo centro di pescatori sulla costa cilena fa da sfondo alla breve ma coinvolgente storia della strana amicizia che lega uno dei più grandi poeti di tutti i tempi ad un giovanotto sfaccendato. Il primo non ha bisogno di presentazioni, basti sapere che di nome fa Pablo e di cognome Neruda. Il secondo è tal Mario Jimenez, figlio di pescatori che, per sfuggire alle fatiche dell'attività di famiglia, si fa assumere come postino. Armato di bicicletta e borsa di cuoio, ogni mattina parte per consegnare la posta. Il suo giro tuttavia dura poco, visto che la maggior parte della popolazione è semi analfabeta e l'unico a ricevere corrispondenza è il grande poeta. L'arrivo di Mario è un fulmine a ciel sereno per il vate, rifugiatosi lì per concentrarsi sulla poesia e condurre una vita di isolamento e discrezione. Tra una lettera e un verso, tra una metafora ed un telegramma, il postino, con la sua bonaria invadenza, la sua bizzarra simpatia e la sua stralunata voglia di vivere, riuscirà a vincere la ritrosia di Neruda e ad instaurare con lui un solido rapporto di amicizia che accompagnerà i due fino alla fine dei giorni dell'artista. Tra la prima lettera consegnata e l'ultimo respiro di Don Pablo, ne succedono di tutti i colori. Innamoramenti, matrimoni, clamorose vittorie politiche, premi Nobel, nascite, partenze e ritorni. Antonio Skàrmeta mescola con grande maestria comicità e poesia, amore ed erotismo, storia e politica, intervallando pagine di riflessione ad attimi di puro divertimento, regalando bellissime descrizioni e dipingendo simpatici personaggi tra i quali spiccano la bella Beatriz, la vulcanica Rosa vedova Gonzàlez e il bonario Don Cosme. Se il mare, con i suoi colori, i suoi suoni e i suoi profumi, è tra i protagonisti indiscussi di questa piccola ma intensa opera, la politica gioca un ruolo meno poetico ma altrettanto fondamentale. Aspetto inevitabile, visto che siamo in un periodo storico particolare per il Cile, dalla campagna elettorale che culminò con la vittoria di Allende fino al golpe militare, e visto che Neruda fu uno dei maggiori esponenti della sinistra dell'epoca. Dopo tante risate, dopo feste e momenti di gioia, è proprio la politica a segnare le ultime, commoventi pagine del libro, così come ha segnato gli ultimi istanti di vita del vate che non ha lasciato questo mondo abbastanza in fretta da non vedere il Generale Pinochet calpestare i suoi ideali, il suo paese, la democrazia e la legalità. "La sua casa di fronte al mare e la sua casa d'acqua che ora lievitava dietro quei vetri, che erano acqua anch'essi, i suoi occhi che erano anche la casa delle cose, le sue labbra che erano la casa delle parole e già si lasciavano felicemente bagnare dalla stessa acqua che un giorno aveva squarciato il feretro di suo padre dopo aver attraversato letti, balaustrate e altri morti, per accendere la vita e la morte del poeta come un segreto che ora gli si rivelava e che, con la casualità propria della bellezza e del nulla, sotto una lava di morti dagli occhi bendati e dai polsi insanguinati gli deponeva una poesia sulle labbra, che egli non seppe se recitò, ma che Mario udì quando il poeta aprì la finestra e il vento sguarnì le penombre: «Io torno al mare avvolto dal cielo, il silenzio tra l'una e l'altra onda stabilisce una sospensione pericolosa: muore la vita, si acquieta il sangue finché irrompe il nuovo movimento e risuona la voce dell'infinito»".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    31 Ottobre, 2018
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La guerra, l'amore, la storia

"Rosso era il sangue dei fratelli assassinati nel Nord; nero era il lutto per la loro morte; verde, il colore della prosperità a venire del Biafra e, infine, la metà di un sole giallo indicava la gloria futura del paese". Chimamanda Ngozi Adichie ci presenta uno spaccato di storia troppo spesso taciuto, ignorato, in cui sangue, fame e prevaricazione si mischiano all'orgoglio, al senso di appartenenza, alla forza di un popolo. Siamo nella Nigeria degli anni Sessanta, un paese appena riscattatosi dalla lunga dominazione britannica, che scopre quanto sia difficile, dopo anni di sopraffazione, imparare a camminare con le proprie gambe. Uno Stato creato sulla carta e in base agli interessi dell'Occidente, con confini artificiali entro i quali etnie diverse convivono in una pace che non sembra destinata a durare in eterno. Scopriamo questa pagina nera attraverso tre voci narranti, tre personaggi diversi, con storia, cultura e sensibilità differenti, che fanno parte dello stesso nucleo familiare, che patiscono gli orrori di un conflitto insensato vivendoli ognuno a suo modo e subendone in maniera diversa le conseguenze. Olanna, donna di grande fascino e cultura, benestante figlia di un pezzo grosso nel campo delle costruzioni, che per amore del rivoluzionario Odenigbo abbandona agi e ricchezze. Ugwo, il suo giovane e sveglio domestico, ligio al dovere e desideroso di imparare, di studiare, di riscattarsi e crescere, smanioso di affrontare la vita. Richard, inglese bianco innamorato della lingua, della cultura, della terra che lo ospitano e che lui ormai considera sue, nonché della bella sorella di Olanna, la marmorea, sarcastica e risoluta Kainene. Le loro tranquille esistenze sembrano indirizzate verso un futuro pieno di opportunità, di serenità, di benessere. Finché gli animi non si scaldano, i mitra cominciano a sparare, il sangue scorre come fosse acqua. Finché uomini che fino al giorno prima vivevano in pace, che condividevano la stessa terra e lo stesso destino non si fanno sopraffare da un odio privo di qualsiasi senso. Finché lo scontro fratricida non sfocia in guerra civile, in secessione, in cieca e spietata violenza. Intanto l'Occidente guarda facendo finta di non vedere, ascolta facendo finta di non sentire, si schiera simulando un'ipocrita neutralità. Ma non c'è solo la storia, non si parla solo di guerra, non è tutto negativo in questa bellissima opera. C'è lo spazio per l'amore. Un amore che va oltre le differenze razziali e quelle di classe, che perdona e sa farsi perdonare, che brucia i corpi e appaga i cuori. Poi c'è l'amicizia, quella che lega persone che condividono obiettivi e ideali ma riesce anche ad unire chi appartiene a mondi differenti o la pensa in maniera diversa. C'è la cultura, la cui importanza è messa sempre in primo piano. Ci sono le tradizioni, che lottano contro una modernizzazione troppo spesso di stampo occidentale, provando a difendersi con il loro affascinante bagaglio e portandosi inevitabilmente dietro strascichi di pregiudizi e superstizioni. C'è una prosa dolce che accompagna egregiamente i bei momenti e attenua l'orrore dei passaggi più cruenti. Ci sono bellissime descrizioni, piacevoli divagazioni, interessanti notizie storiche. Ci sono personaggi ricchi di carisma, di fascino, capaci di entrare nel cuore del lettore. C'è una storia che in pochi conoscono e che invece dovrebbe essere di esempio per i popoli di tutte le razze, le religioni, le convinzioni politiche, una sorta di monito a che certi fatti non si verifichino ancora in futuro. C'è un'autrice ricca di talento e sensibilità, che ama la sua terra e la sua gente e che, proprio per questo, non può fare a meno di raccontare tristi e scomode verità.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    17 Ottobre, 2018
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Un viaggio reale ma anche simbolico

"Ma ecco, alla fine, quando il sole incominciò a calare, la steppa, i colli e l'aria non sopportarono più l'oppressione, ed esaurita la pazienza, tormentati sino all'ultimo, tentarono di gettare via il giogo. Di là dai colli, inattesa, comparve una nuvola grigio-cenerina ricciuta. Essa scambiò occhiate colla steppa, come per dire «io sono pronta», e diventò cupa. Improvvisamente nell'aria ferma si ruppe qualche cosa, con violenza passò il vento e con rumore e fischi turbinò per la steppa. Immediatamente l'erba e la stoppia dell'anno prima si ribellarono, sulla via una nuvola di polvere s'attorcigliò a spirale, irruppe di corsa e, trascinando con sé le paglie, le cicale e le piume, come una nera colonna rotante si alzò verso il cielo e offuscò il sole." Lasciate da parte i personaggi e le loro storie per immergervi in una lettura nella quale conta soltanto l'ambientazione. Cechov ribalta quella che è la normale struttura di un romanzo in cui uomini, donne, bambini sono al centro dell'attenzione e il paesaggio è mera scenografia, mettendo quest'ultimo sul piedistallo e relegando il resto a ruoli di secondaria importanza. Protagonista indiscussa dell'opera del grande scrittore russo, come si può dedurre già dal titolo, è infatti la steppa. Un orizzonte lontanissimo racchiude un paesaggio immensamente ampio in cui lo sguardo umano si perde. La natura regna incontrastata, distese infinite di erba intervallata da piccoli arbusti e qualche raro alberello, animali di diverse specie che si affacciano di tanto in tanto, intenti a seguire il proprio istinto. All'improvviso, inaspettato, appare un piccolo specchio d'acqua, o un fiumiciattolo. Il sole picchia forte ma in un attimo il cielo può rabbuiarsi e improvvisi arrivano i tuoni a preannunciare un violento acquazzone. Oltre a descrivere in maniera affascinante un ambiente che spesso e a ragione, nell'immaginario collettivo, è legato ad immagini poco amene, l'autore fa in modo di trasformare la steppa in un vero e proprio essere vivente, in cui i vari suoni si uniscono in una sola voce, le piante si fondono in un unico corpo attraversato, come fosse il sangue che scorre nelle vene, da animali, uomini, corsi d'acqua. In questo contesto, a far da pretesto alle magnifiche descrizioni, seguiamo il viaggio del giovane Iegorusca, un ragazzino orfano di padre che la madre manda lontano da casa a studiare, con la materna, amorevole speranza di fargli avere un avvenire sereno. Lo accompagnano lo zio Ivan Ivanic, avaro mercante con la testa persa sempre e solo negli affari, e padre Cristoforo, pacifico e affabile vecchietto sempre pronto ad avere una buona parola per tutti. Durante il cammino, il giovane incontrerà personaggi di ogni risma che scateneranno in lui diverse emozioni. Mercanti, tavernieri, conducenti, vagabondi, pastori, cacciatori. Un'accozzaglia di gente che più che vivere tenta di sopravvivere agli stenti, alla fatica, alla noia, affidandosi ai ricordi e spesso trovandosi costretta ad inventarli, in un mondo ostile, arido, indifferente di cui la steppa sembra una vera e propria allegoria. Ma i sentimenti che più animano Iegorusca per tutta la durata del viaggio sono la nostalgia per la vecchia vita e la paura e l'incertezza per quella a venire, che torturano il suo animo portandolo spesso alle lacrime e segnando questo suo cammino che, oltre ad essere reale, fisico, è anche un percorso simbolico nel lungo, impervio, inesorabile viaggio che è la vita. "Quando fu sulla porta della corte, Ivan Ivanic e il padre Cristoforo, agitando l'uno il bastone curvo, l'altro il bastone da prete, svoltavano già la cantonata. Iegorusca sentì che con quelle persone per lui svaniva per sempre, come fumo, tutto ciò che finora era stata la sua vita passata; e cadde accasciato sopra un sedile e con lacrime amare salutò la nuova ignota vita che adesso incominciava per lui... Come sarà quella vita?"

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    10 Ottobre, 2018
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Gesù e arivato

Un sole malato, cocente, implacabile brucia la terra, le piante, la pelle e lo spirito di uomini e donne. All'orizzonte colonne di fumo cancerogeno vengono sputate nel cielo dalle ciminiere dell'Ilva, intossicando l'aria. Nel sottosuolo rifiuti tossici, nascosti dalla criminalità organizzata in cambio di denaro, appestano la terra. Veleni che inevitabilmente si trasmettono alle persone, contagiandone non solo il fisico ma giungendo ad ammorbarne perfino l'anima. Omar Di Monopoli ci porta a Rocca Bardata, fantomatico paesino dell'entroterra Tarantino, per seguire le vicissitudini dei fratelli Della Cucchiara, Gimmo e Michele. Due ragazzini che, nel corso delle loro brevi esistenze, ne hanno dovute subire di tutti i colori. Cresciuti con il nonno Nuzzo, sorta di santone laico dedito alla preghiera e a fantomatici miracoli, tra stenti e sporcizia, malvisti dai compaesani, vessati dai coetanei. Alla morte del nonno seguirà il ritorno a casa del padre, Tore, noto malavitoso datosi alla macchia in seguito alla scomparsa della moglie, di cui si sospetta sia l'assassino. Perché è tornato? Per prendersi cura dei suoi figli, come spera Michele? Per prendersi le proprietà del suocero, come sospetta Gimmo? Per regolare dei conti in sospeso, come teme Carmine Capumalata, boss locale ed ex socio di Tore? Lo scopriamo pian piano, in un continuo alternarsi di "prima" e "dopo", capitoli che ora parlano al presente, ora al passato. La verità vien fuori poco alla volta, di pagina in pagina mettiamo insieme i tanti tasselli di un piccolo mosaico che vanno a comporre una storia tanto realistica quanto amara. Un libro senza eroi, senza buoni, senza vincitori, ambientato in un borgo dimenticato da Dio e dallo Stato, dove a governare realmente è solo la criminalità, dove la gente si arrangia come può per vivere, affidandosi alla fede, al sudore della fronte, alla speranza o ad un'arma da fuoco. Un lessico forbito, ricercato, elegante si mescola alla spontaneità, al folklore di un dialetto spesso rozzo, triviale, blasfemo, creando un linguaggio ibrido ed affascinante che da un lato delizia il lettore con sprazzi di letteratura di prim'ordine e dall'altro lo avvicina alla storia e ad i suoi protagonisti rendendo tutto più realistico. I personaggi sono caratterizzati con pochi tratti ma sufficienti a delinearne il carattere, le esperienze, l'anima. Sullo sfondo una Puglia lontana anni luce da quell'immagine turistica tutta mare, tamburelli, buon cibo e buon vino. "GESÙ E ARIVATO" recita uno sgrammaticato quanto ottimista cartello all'ingresso della fatiscente proprietà di 'mpa Nuzzo. "Dio non c’è. Siamo soli. Viviamo come capita e poi tutto finisce. Non c’è altro" recita invece scoraggiata, rassegnata, avvelenata, sua figlia Antonia, madre dei protagonisti. Chi dei due avrà ragione in questa sporca, brutale, disperata, perfida terra di Dio? "Quando le autorità ebbero espletato tutte le procedure previste, lasciandolo solo e ribollente d’ira, l’uomo, al pari d’un vitello marchiato a fuoco, s’abbandonò a un lungo e terribile urlo che non sembrò minimamente scuotere né glorificare la squassata fissità di quel microscopico lembo della perfida terra di Dio. Rimase tutto tale e quale, e alla fine il silenzio senza peso del tempo calò unanime e indifferente a riguadagnare il proscenio".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    25 Settembre, 2018
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Ammaniti in tono minore

Un party epico in una delle location più affascinanti di Roma è il pretesto usato da Ammaniti per dipingere un moderno spaccato di vita mondana nell'Italia dei nostri giorni. L'imprenditore immobiliare Sasà Chiatti, personaggio che definire di dubbia onestà è un eufemismo, dopo aver comprato e ristrutturato a modo suo la bellissima Villa Ada, polmone verde della Città Eterna, decide di organizzare una sorta di festa di inaugurazione. Gli invitati ovviamente non sono gente qualsiasi: politici, calciatori, star del cinema e della televisione, scrittori, chef stellati e ogni sorta di vip del Bel Paese e non. Il povero lettore, non avendo ricevuto alcun invito, non può far altro che vivere l'evento attraverso chi ci è stato. Eccolo allora intento a seguire Fabrizio Ciba, scrittore di punta del panorama letterario italiano, e Saverio Moneta detto Mantos, impiegato presso la ditta del suocero nonché capo spirituale della sgangherata setta satanica che risponde al nome di Belve di Abbadon. Due personaggi diametralmente opposti: famoso, affascinante, sicuro di sé fino a diventare spocchioso il primo; frustrato, vessato continuamente da moglie e suocero, scoraggiato dai continui insuccessi il secondo. Fabrizio entra a Villa Ada dalla porta principale, quale invitato di grande importanza. Saverio è costretto invece ad imbucarsi, insieme ai suoi adepti, travestendosi da cameriere. I due sono accorsi all'esclusivo party per motivi diversi, trovandosi però interessati alla stessa persona, la cantante Larita, ex rockettara satanista convertita al cattolicesimo. Ma mentre Ciba vuole conquistarla, Mantos e i suoi seguaci vogliono sacrificarla a Satana per poi terminare l'impresa in un suicidio di massa. Chi dei due riuscirà nel proprio intento? Le aspettative degli invitati riguardo alla festa saranno soddisfatte? E quelle del lettore nei confronti del libro? Per avere risposta alle prime due domande è necessario leggere il romanzo, alla terza si proverà a rispondere qui. La risposta, purtroppo, non è positiva. Se fin dalle prime battute appare chiaro che ci si trova davanti ad un Ammaniti in tono minore, la lettura, al netto di qualche eccesso di volgarità e qualche luogo comune di troppo, scorre piacevole per buona parte dell'opera, aiutata da una scrittura veloce, briosa, moderna e da una dose di simpatica comicità. L'autore da un lato mette in ridicolo gli eccessi, le trivialità, le ipocrisie del mondo dello spettacolo, della politica, dell'editoria. Dall'altro, nelle parti dedicate alle Belve di Abbadon, si sofferma sulla noia, le frustrazioni, i problemi della gente comune, alle prese con una vita quotidiana mai facile e che troppo spesso regala pochissime soddisfazioni e soffoca sogni, aspirazioni, desideri. Ma più si va avanti nella lettura più appare lampante una certa confusione da parte dello scrittore che non si capisce bene dove voglia andare a parare, fino ad avere il sospetto che il libro diventi vittima delle sue stesse critiche,  impantanandosi poi nella patetica storia degli uomini talpa sfuggiti al regime sovietico e culminando in un finale bruttino, banale e incapace di trasmettere emozioni. Ammaniti ci ha abituati a ben altro.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    20 Settembre, 2018
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L'amore è un grande inganno

Un triangolo amoroso, ambientato nella bellissima Budapest, raccontato dai tre personaggi che lo hanno vissuto sulla propria pelle. La penna raffinata, delicata, amaramente ironica di Sandor Marai ci regala una storia piena di sentimenti e con un approfondimento psicologico degno dei più grandi scrittori. Ma attenzione, non dovete pensare di trovarvi davanti ad un semplice, se pur magnifico, romanzo sentimentale. L'opera del maestro ungherese è infatti molto più complessa e si sviluppa su più livelli di lettura. Ci sono la lotta di classe e l'amicizia, ci sono l'arte e la cultura, la patria e l'emigrazione. C'è un quadro storico-politico preciso ed interessante che racconta di una nazione vittima del nazismo prima e dello stalinismo poi, dell'ascesa vertiginosa della borghesia culminata poi con una roboante caduta, di spaccati di vita
di una delle epoche più difficili e tormentate della storia europea e mondiale. I tre protagonisti, in altrettanti monologhi con interlocutori esterni alla vicenda (uno dei quali sarà la quarta ed ultima voce narrante nell'epilogo), raccontano in prima persona la propria versione della stessa faccenda, esternando i propri sentimenti, la delusione, la disillusione, giungendo infine, chi per una strada, chi per l'altra, alla  conclusione che l'amore è soltanto un grande inganno. Lei, Marika, donna fine, affascinante, di buona famiglia, profondamente devota ad un marito che ama in maniera incondizionata. Ma la sua devozione non viene ricambiata in pieno. Il suo rapporto con Peter, sotto una parvenza di felicità e appagamento, nasconde una pecca, una lacuna. Marika si rende conto che c'è qualcosa di irraggiungibile, di profondamente segreto e impenetrabile nell'animo del suo compagno. Quando proverà in tutti i modi a scoprire l'arcano segnerà definitivamente la fine del suo matrimonio e delle sue illusioni. “Non c’è nessuna persona giusta. Non esiste né in terra né in cielo né da nessun’altra parte, puoi starne certa. Esistono soltanto le persone, e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna c'è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto questo, e non esiste quella certa figura, l'unica, la meravigliosa, la sola che potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce”. Lui, Peter, sposato con una donna senza difetti, se non uno: non è la persona che lui ama. Già, perché Peter, borghese di alto rango, colto, ricco, raffinato, con un profondo animo d'artista pur senza nessun talento particolare per qualsiasi tipo di arte, è innamorato della sua cameriera, Judith. Alla fine la sposerà, dopo aver divorziato da Marika, ma le cose non andranno come lui sperava. "La passione non ha niente di festoso. Questa forza truce, che incessantemente crea e distrugge il mondo, non interpella coloro che tocca, non chiede se a loro fa piacere o no, non si preoccupa granché dei sentimenti umani. Dà tutto e tutto pretende; esige uno slancio senza condizioni, alimentato dalla stessa energia primordiale della vita e della morte". L'altra, Judith, la figlia di contadini che ha passato l'infanzia in una fossa tra fango, topi e scarafaggi, la giovinezza a fare la cameriera nelle case dei ricchi e infine, nell'età adulta, si trova dall'altra parte della barricata, tra quei borghesi che a lei sono sempre sembrati irraggiungibili. Sposa l'uomo che ha servito per anni, ma non è l'amore a spingerla. Per lei sposare Peter è un atto politico, un gesto rivoluzionario. Significa prendersi, anche a costo del sotterfugio, dell'inganno, del più calcolato cinismo, una rivincita sulla vita, sulle iniquità del sistema, sul destino beffardo. Ma anche lei dovrà ammettere la sconfitta quando capirà che ciò che ha fatto non è servito a niente. "Ti confesso che il motivo principale per cui odiavo i ricchi è che riuscivo a portargli via soltanto i soldi. Il resto, che poi è il vero senso e il segreto più profondo della ricchezza, quella diversità che mi stregava tanto quanto il patrimonio... quest'altra cosa non me l'hanno voluta dare. L'hanno nascosta talmente bene che nessun rivoluzionario riuscirà mai a strappargliela... L'hanno nascosta meglio della roba preziosa dentro le cassette di sicurezza delle banche estere, meglio dell'oro sotterrato nei loro giardini".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    14 Settembre, 2018
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Le strane direzioni della giustizia

Indagare su un omicidio a sfondo sessuale e ritrovarsi immischiati in uno spinoso caso politico non è poi così strano nella Cina dei primi anni Novanta. Il regime di Deng Xiaoping è alle prese con i postumi della caduta del muro di Berlino e con quelli della tragica estate del 1989 che resero tristemente celebre piazza Tienanmen. Inoltre sul Paese comincia a soffiare un vento nuovo che mina le basi del vigente sistema di ispirazione marxista. Un vento capitalista pronto a rivoluzionare, non è poi tanto chiaro se in meglio o in peggio, la vita di molte persone. Muoversi in questo contesto è veramente difficile per i protagonisti di questa storia, il trentacinquenne ispettore capo Chen Cao ed il suo più esperto braccio destro, Yu Guangming. Due origini diverse, esperienze e culture differenti, caratteri diametralmente opposti. Colto, raffinato, esperto di letteratura e poesia e poeta a sua volta, astro nascente della politica nonché raccomandato il primo. Poliziotto vecchio stampo figlio di poliziotto, costretto ad una gavetta infinita per mancanza di conoscenze, dal carattere irascibile e senza peli sulla lingua il secondo. La loro indagine parte dal ritrovamento, in un canale nei pressi di Shanghai, di un cadavere avvolto in un sacco nero per l'immondizia. Si tratta di una donna, secondo l'autopsia è stata violentata, strangolata e gettata in acqua. Un normale caso di cronaca nera a prima vista. Se non fosse che le prime indagini portano a galla la scomoda identità della vittima: si tratta di Guan Hongying, Lavoratrice Modello della Nazione, fiore all'occhiello della propaganda del Partito. Se non fosse che il primo indiziato è Wu Xiaoming, figlio del più famoso ed importante Wu Bing, il Ministro per la propaganda di Shanghai. Se non fosse che politica e giustizia, non solo in Cina ma a qualsiasi latitudine, non sempre vanno d'accordo. I due colleghi, nel corso delle indagini avranno modo di conoscersi meglio, di abbattere differenze e divergenze, di diventare amici e di impegnarsi anima e corpo per far sì che la giustizia faccia il suo corso, remando insieme contro corrente in un fiume di ostacoli, veti, avvertimenti e minacce. Il lettore, da parte sua, avrà la possibilità di immergersi in fascinose atmosfere orientali, di fare un viaggio in una cultura totalmente differente da quella occidentale, di conoscere spaccati di storia tutto sommato recenti ma non sempre conosciuti e retroscena politici troppo spesso celati. Qiu Xiaolong è bravo a tenere vivo l'interesse per la storia pur senza infarcirla di clamorosi colpi di scena, inseguimenti, sparatorie e americanate di vario genere. Se dal lato poliziesco l'indagine appare abbastanza semplice e si arriva presto a supporre la verità, più intricato, pericoloso e interessante appare invece giungere a conclusione senza rompere le uova nel paniere a quel partito la cui salvaguardia deve essere sempre l'obiettivo principale, anche a discapito della giustizia. L'autore è poi bravo ad inserire nel canovaccio storie di vita quotidiana che avvicinano il lettore ai personaggi e lo fanno entrare nel vivo della situazione storica e sociale. Interessanti e gradevoli anche gli intermezzi poetici e filosofici, con citazioni che spaziano da Confucio a impronunciabili poeti di arcaiche dinastie, nonché quelli culinari, con esotiche ricette in cui convivono gli ingredienti più impensabili. Nel complesso un bel libro, sicuramente diverso dai gialli di tipico stampo occidentale, in cui si alternano ironia e tristi verità, momenti di evasione e altri di approfondimento, cultura, cucina e storia, il tutto raccontato da una buona penna e con un finale che lascia qualche interrogativo sul valore di una giustizia che a volte non c'è e che, quando c'è, non è mai veramente chiaro in che direzione voglia realmente andare.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    06 Settembre, 2018
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Un diario dall'aldilà

"Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo: Susie. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973. Negli anni Settanta, le fotografie delle ragazzine scomparse pubblicate sui giornali mi somigliavano quasi tutte: razza bianca, capelli castano topo. Questo era prima che le foto di bambini e adolescenti di ogni razza, maschi e femmine, apparissero stampate sui cartoni del latte o infilate nelle cassette della posta. Era quando ancora la gente non pensava che cose simili potessero accadere". Un giallo in cui seguire le indagini pur sapendo già chi è l'assassino. Una storia di spietata violenza, di crudele omicidio, di un'esistenza stroncata proprio nel momento in cui cominciava a fiorire. Spaccati di vita ordinaria di chi sopravvive alla tragedia lottando ogni giorno contro il dolore, la rabbia, la rassegnazione. Una panoramica impietosa su una società troppo spesso incapace di proteggere i suoi membri e di consegnare alla giustizia chi si macchia di tremendi crimini. Amabili resti di Alice Sebold è tutto questo ma anche di più. È il mondo visto attraverso gli occhi di un'adolescente. È la frustrazione di una madre che ha sacrificato i suoi sogni per il bene della famiglia e ad un certo punto non ce la fa più e decide di scappare. È un libro scritto con grande sensibilità, con una buona prosa, con la giusta dose di fantasia e originalità che aiutano a stemperare il clima di tensione, di tristezza, di rabbia che permea la storia. Siamo nella provincia americana, negli anni Settanta. La tranquilla vita della famiglia Salmon è sconvolta da un triste episodio: una sera di dicembre Susie, la primogenita di Jack e Abigail, nonché sorella di Lindsey e Buckley, non rientra a casa. Le ricerche della polizia portano soltanto al ritrovamento di un gomito, di un cappellino fatto a maglia e di una pozza con molto, molto, molto sangue. Indizi inequivocabili che lasciano poche speranze. Sul possibile assassino, invece, niente di niente. Ma noi sappiamo tutto, conosciamo ogni minimo particolare della tragedia perché è la stessa vittima a raccontarci ogni cosa. Ed è sempre lei, dall'alto del suo cielo, a seguire la vita di chi è rimasto laggiù e cerca di dare un senso alla sua scomparsa, di sopravvivere alla sua assenza. È Susie a soffrire vedendo il suo carnefice a piede libero, la sua famiglia sgretolarsi, i suoi cari impazzire, la polizia impotente in assenza di prove. È Susie, attraverso frequenti flashback, a raccontarci i piccoli episodi di vita quotidiana vissuti prima della sua morte precoce. È sempre lei a fantasticare su quella che sarebbe potuta essere la sua vita, a cercare di viverla attraverso le esperienze di una sorella che, dal primo bacio fino alla maternità, percorrerà tutte le tappe tipiche della vita di una donna che a lei, purtroppo, sono state negate. Un diario scritto dall'aldilà, in cui l'autrice è brava a trasmettere i tratti tipici dell'adolescenza. Perché Susie, anche in quella sorta di limbo che è il suo cielo personale, continua ad essere ciò che era prima della sua dipartita: una semplice ed ordinaria ragazzina, con tutti i pregi e i difetti che ciò comporta. Ma dipingere la protagonista a tratti frivola, capricciosa, in alcuni frangenti un po' antipatica, non fa altro che renderla più normale, più realistica e per questo più amabile. "Queste erano le bellissime ossa cresciute intorno alla mia assenza: i legami - a volte esili, a volte stretti a caro prezzo, ma spesso meravigliosi - nati dopo che me n'ero andata. E allora cominciai a vedere le cose in un modo che mi lasciava concepire il mondo senza di me. Gli avvenimenti cui la mia morte aveva dato luogo erano semplicemente le ossa di un corpo che in un momento futuro imprevedibile sarebbe divenuto intero. Il prezzo di quel che ormai vedevo come un corpo miracoloso era stato la mia vita".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    04 Settembre, 2018
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Chi è l'originale?

Immaginate di mettervi comodamente in poltrona a guardare un film senza pretese, leggero, con la speranza di farvi strappare qualche sorriso, magari una risata, e di passare un'ora e mezza senza troppi pensieri. Come reagireste se, ad un certo punto della pellicola, comparisse sullo schermo un attore minore, una comparsa di cui a volte non appare neanche il nome tra i titoli di coda, che vi assomiglia in tutto e per tutto? Una copia spiccicata di voi stessi che potrebbe essere la vostra stessa immagine riflessa in uno specchio. Riuscireste ancora a dormire la notte? Riuscireste a condurre una vita normale? Non sentireste un impulso irrefrenabile a cercare nome, cognome, data di nascita, indirizzo e qualsiasi altra informazione utile o inutile che sia, riguardo al vostro sosia? Ma una volta incontrato il vostro doppio la vostra vita che direzione potrà prendere? Saramago prova a rispondere a queste domande attraverso l'esperienza di un trentottenne professore di storia di scuola media, Tertuliano Maximo Afonso, depresso, solitario, con alle spalle un matrimonio fallito ed ora invischiato in una relazione senza futuro. Guardando un film si imbatte in un attore che si rivela la copia precisa di se stesso. A questo punto la sua vita viene stravolta radicalmente. L'uomo ha in testa un solo obiettivo, conoscere il suo clone, incontrarlo, confrontarsi. Più di tutto gli importa sapere chi dei due è nato prima, chi cioè è l'originale e chi invece un banale duplicato. Dopo un'estenuante indagine, telefonate ai limiti dello stalking, discussioni e precauzioni, il nostro mite professore riesce ad incontrare il suo "gemello". L'incontro però per Tertuliano si rivela una delusione e decide di chiudere ogni rapporto con il sosia. Tuttavia la sua ricerca ha ormai innescato una serie incontrollabile di eventi e la tragedia, purtroppo, è dietro l'angolo. Saramago si cimenta in un tema, quello del doppio, che viene spesso proposto in letteratura ma che non sempre viene trattato nel migliore dei modi. In questo caso, data la maestria della penna in questione, il risultato è ottimo. L'autore riesce ad affrontare l'argomento con originalità, tenendo la storia sempre in bilico tra l'assurdo ed il possibile, tra l'onirico ed il reale. Con la sua solita prosa caratterizzata da una punteggiatura a dir poco stravagante e la sua grande capacità di raccontare le esperienze e i pensieri umani, il maestro portoghese riesce a trasmettere perfettamente tutte le emozioni che prova il protagonista, dal suo marasma interiore iniziale alla sorpresa per la scoperta del doppio, dall'ansia della ricerca alla paura dell'incontro, dall'affetto per la madre ai sentimenti contrastanti che caratterizzano la sua relazione con Maria. Ogni aspetto della mente di Tertuliano viene sviscerato, messo in luce, ogni cambio di umore, ogni perplessità, ogni timore viene percepito dal lettore ormai immedesimatosi perfettamente nel personaggio. Se per due terzi il libro può apparire lento, ridondante, a tratti noioso, nella restante frazione si trasforma in un tumulto di emozioni che giustifica il possibile tedio precedente e che culmina in un finale inaspettato. Ma ecco che, quando tutto appare concluso, il genio di Saramago estrae dal cilindro l'ennesima sorpresa. “Ogni secondo che passa è come una porta che si apre per far entrare ciò che ancora non è successo, quello a cui diamo il nome di futuro, ma, sfidando la contraddizione con quanto si è appena detto, l’idea corretta sarebbe forse che il futuro è solo un immenso vuoto, che il futuro non è altro che il tempo di cui l’eterno presente si alimenta.”

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    31 Agosto, 2018
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Un uomo in fuga

Un uomo di mezza età, benestante e affermato professionista, scompare all'improvviso senza lasciare traccia, un pomeriggio di giugno, in una grande città italiana non meglio identificata, lasciando parenti e conoscenti in preda allo sgomento, al dubbio, allo sconcerto. Inizia così una caccia all'uomo che per molti dei personaggi della storia diventa una sorta di ricerca di se stessi, raccontata con ottima prosa dall'autore che però spesso si perde in ripetuti eccessi di retorica e sovrabbondanti ricorsi ad aforismi, metafore, paradossi. Per tutto il libro Pontiggia ci dice ben poco del protagonista. Più che una persona appare come un vuoto, un'assenza, una sorta di fantasma. Non arriviamo neanche a conoscere il suo nome. Una figura diafana, indeterminata, sul cui conto riusciamo a farci una vaga idea da quel poco che traspare dai racconti, dai ricordi, dalle allusioni degli altri. Sono questi invece i soggetti su cui è puntato l'obiettivo. Fratello, cognata, nipote, moglie, amanti, soci, colleghi. Un discreto numero di personaggi che gravitano intorno alla vicenda, che si impegnano nelle ricerche o si limitano a seguirne gli sviluppi. Che si chiedono che fine abbia potuto fare il loro caro abbandonandosi ad ipotesi, congetture, probabilità più o meno verosimili. La penna di Pontiggia traccia, per ognuno di loro, un preciso ritratto sia dei rapporti con lo scomparso che della loro personalità, del modo di pensare e di agire. Sogni irrealizzati, aspirazioni frustrate, trasgressioni, segreti, colpe, paure. Ogni aspetto di queste persone viene portato alla luce del sole, mostrando dei volti completamente diversi dalle maschere che la vita, la società, le circostanze costringono ad indossare. Quello che ne viene fuori è un quadro spietato, freddo, inevitabilmente pessimistico dell'Italia degli anni Novanta, la cui deriva di ideali continua ancora oggi senza soluzione di continuità, come una sera infinita, una grande sera che pian piano, ineluttabilmente, ci porta verso il buio sempre più cupo della notte.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    05 Agosto, 2018
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Omaggio al Portogallo

"Oggi per me è un giorno molto strano, sto sognando ma mi pare che sia vero, e devo incontrare delle persone che esistono soltanto nel mio ricordo". Una domenica estiva di caldo soffocante. Un uomo si appisola sotto un albero ad Azeitào, nell'Alentejo. Ad un tratto si ritrova in una Lisbona semi deserta, a mezzogiorno, sul molo di Alcantara, preda di un'allucinazione, di una visione onirica, di qualcosa che lo trasporta, anima e corpo, su quel labile confine che divide la realtà dal sogno. Parte così un vagabondaggio per le magiche strade della capitale lusitana in cui l'io narrante, di cui non conosciamo il nome ma soltanto le origini Italiane ed un viscerale legame con il Portogallo (un chiaro alter ego di Tabucchi), si imbatte in una serie di strani personaggi alcuni reali, altri immaginari, alcuni piacevoli, altri importuni. Taluni viventi, talaltri defunti ma ancora vivi nel ricordo del protagonista. Fino all'appuntamento finale, quello più importante, che lo riporta al punto di partenza, il molo di Alcantara, a mezzanotte, ad attendere il fantasma del grande poeta (Pessoa?). Requiem è un romanzo atipico, che non segue un filo logico, che non ha un vero finale, che forse non ha neanche un vero protagonista se non Lisbona, città dal fascino indescrivibile, onnipresente nelle pagine di questo libro e di gran parte della produzione dell'autore. "Ma, prima di tutto, questo libro è un omaggio ad un paese che io ho adottato e che mi ha adottato a sua volta, ad una gente cui sono piaciuto e che, a sua volta, è piaciuta a me." Tabucchi scrisse il libro in portoghese, convinto che un requiem come si deve non può essere scritto nella propria lingua madre. Allora quale altra lingua poteva usare il nostro compianto maestro, se non quella che per lui rappresentava "un luogo di affetto e di riflessione"? Comunque sarà la dimestichezza con il portoghese, sarà merito della traduzione, sarà che quando uno scrittore sa scrivere scrive sempre e comunque bene, ma anche questa volta Tabucchi conquista il lettore con la sua prosa curata, con i suoi arguti dialoghi, con le sue dolci descrizioni e con quella capacità di creare sempre un'ambientazione ricca di fascino ed una certa immedesimazione da parte del lettore. Un libro intenso, piacevole, leggero, che si legge in poco tempo ma che, tuttavia, non si dimentica facilmente. "Se qualcuno osservasse che questo Requiem non è stato eseguito con la solennità che a un Requiem si deve, non potrei che essere d’accordo. La verità è tuttavia che ho preferito suonare la mia musica non con un organo, che è uno strumento proprio delle cattedrali, ma con un’armonica, che si può tenere in tasca, o con un organetto, che si può portare per strada. Come Drummond de Andrade, ho sempre amato la musica a buon mercato; e, come egli diceva: non voglio Handel come amico, e non ascolto il mattinale degli arcangeli. Mi basta quel che la strada mi ha portato, senza messaggio, e, come ci perdiamo, si è perduto".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    30 Luglio, 2018
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Un noir politico e filosofico

Nella Spagna post franchista il Partito Comunista Spagnolo è pronto ad uscire dall'illegalità in cui lo ha costretto per anni il regime. Ancora fortemente diffidenti nei confronti delle istituzioni e delle forze dell'ordine, da cui per anni sono stati costretti a subire una forte repressione, speranzosi di poter essere finalmente protagonisti alla luce del sole della scena politica nazionale e non, i compagni si danno appuntamento per una riunione del Comitato Centrale, a Madrid. A presiedere, ovviamente, c'è il carismatico segretario, Fernando Garrido. Nel bel mezzo del suo intervento, però, c'è un blackout. Garrido, anche al buio, continua con la sua brillante dialettica a sfornare battute. Tuttavia, quando si riaccendono le luci, il segretario viene trovato senza vita. Assassinato. Un colpo tremendo per il Partito e per la nascente democrazia. Le indagini vengono affidate al famigerato commissario Fonseca, il cui curriculum sotto il franchismo non dà certo garanzie alla parte lesa. Per questo i compagni decidono di aprire un'inchiesta parallela. A chi affidarsi se non a lui, Pepe Carvalho, investigatore più famoso di Spagna nonché a sua volta ex militante del partito e già vittima, all'epoca, dell'aguzzino Fonseca? Nonostante remore di natura politica, ripetute ed inquietanti minacce, incontri-scontri con personaggi poco raccomandabili e difficoltà di ogni sorta, il buon Pepe accetta e porta a termine l'incarico, lasciando Barcellona, il fedele Biscuter e la bella Charo per raggiungere temporaneamente la capitale. In un intreccio di storia, politica, filosofia, donne e buona cucina, seguiamo Carvalho alle prese con un caso spinoso e delicato in cui buoni e cattivi si confondono e la punta rovente di una sigaretta mai accesa può essere fondamentale per scoprire l'identità dell'Assassino. Manuel Vàzquez Montalbàn è un vero maestro del poliziesco, capace di fondere la buona letteratura e un pizzico di sana ironia con storie avventurose e casi intricati di non semplice soluzione. Tuttavia, se in generale i suoi libri vanno spesso oltre l'aspetto "giallo", questo in particolare fa passare quasi in secondo piano il lato noir per rendere protagonista la situazione storica e politica di una nazione all'alba di una ricostruzione tanto necessaria quanto difficile. Nei piani alti si fa fatica a togliersi di dosso la puzza, la mentalità, il modus operandi tipici del regime. Tra la gente serpeggiano sentimenti contrastanti, dalla speranza alla paura, dalla voglia di ripartire alla stanchezza per quello che è stato, fino ad un'indolenza frutto dell'idea che, comunque vada, le cose non cambieranno mai. Contraddizioni che si riflettono inevitabilmente nel Partito Comunista, già diviso da punti di vista diversi, da obiettivi non sempre comuni, da correnti filosofiche divergenti e che ora, persa la propria guida, rischia lo sbando. Tuttavia i compagni sapranno ritrovare un minimo di compattezza quando dovranno affrontare il colpevole che Pepe Carvalho consegnerà loro. "Niente somiglia di più a un ex comunista di un ex prete. Peccare contro la Storia o peccare contro Dio, che differenza c'era? La letteratura si era impegnata a fare una classificazione di casi possibili. Koestler o il rinnegato. Orwell o l'apostata. Bukharin o l'autoimmolato. Il caso di Carvalho non sarebbe mai stato motivo di studio, forse perché rappresentava un caso più che normale in tempi in cui la Storia si vive senza eccessivi drammatismi, e in cui, in aggiunta, uno rompe con il proprio mondo orientando la sua vita in funzione di prospettive diverse."

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    16 Luglio, 2018
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Vent'anni di rabbia, dolore ed emozioni

La ventunenne Argentina Luz Iturbe sbarca a Madrid con marito e figlio al seguito. Il suo non è un viaggio di piacere, piuttosto la degna conclusione di una serrata indagine sul suo passato. L'obiettivo è quello di incontrare un certo Carlos Squirru, unica tessera mancante nel mosaico storico che la giovane è riuscita comporre. Dopo un primo contatto telefonico, troviamo l'uomo e la ragazza ad un tavolino del Café Comercial. È qui che comincia il racconto dei vent'anni di Luz. Le parole della ragazza ci rimandano nella Buenos Aires del 1976, dove il nascente regime militare reprime con mezzi poco convenzionali ogni tentativo di opposizione. Chiunque venga sospettato di essere un possibile sovversivo viene arrestato, carcerato, torturato, umiliato, per poi sparire nel nulla come se non fosse mai esistito. È la triste storia dei "desaparecidos", persone che hanno pagato a caro prezzo l'impegno per costruire un mondo migliore, più giusto. "I libri della facoltà messi da parte, la luce accesa fino all’alba, e le storie che leggo e leggo senza potermi fermare e che mi sconvolgono. Una galleria di aberrazioni: quei centri clandestini, quegli uomini e donne, ragazzi, vecchi, torturati con la corrente elettrica, appesi, bruciati con gli accendini, allungati, bendati, ammanettati a mani e piedi, scuoiati, sporchi, coi pidocchi, indifesi nelle mani degli aguzzini. Non mi ero mai sognata che l’uomo potesse essere così malvagio con un suo simile. Cosa credevo che fosse la malvagità fino a oggi?" Tra i sovversivi ci sono anche Carlos e Liliana, innamorati ed in dolce attesa. C'è l'ennesima retata, Carlos viene avvertito per tempo, Liliana no. Il ragazzo non può far niente per impedire l'arresto della sua amata e, una volta perse le speranze di ritrovarla, abbandona l'Argentina. Liliana viene tenuta prigioniera per tutto il periodo della gravidanza ma sembra che gli spietati carcerieri le riservino un trattamento di favore. In effetti è proprio così, ma non è Liliana che gli aguzzini vogliono preservare, quanto la vita che ha in grembo. Una vita che vedrà la luce ma che continuerà lontana dalle braccia materne. Una bambina che per vent'anni chiamerà mamma e papà due impostori, nonna un'ipocrita perbenista e nonno l'assassino di sua madre e di tanta altra gente. Ma Luz ha sempre sentito dentro di sé di essere diversa da quelli che dovrebbero essere i suoi parenti. Qualcosa dentro di lei ha sempre e irragionevolmente tenuto le distanze da una famiglia a cui, senza sapersi dare spiegazioni, ha sempre sentito di non appartenere. Fino a che la ragazza non decide di fare chiarezza e intraprendere un'indagine che la porterà a conoscere le sue vere radici ma anche tutto il torbido che si nasconde nella storia del suo paese. Elsa Osorio colpisce il lettore due volte. La prima con la storia toccante di una ragazza che ha fame di verità e che l'autrice racconta con grande pathos, con uno stile di prim'ordine e personaggi di grande spessore, creando intrecci, suspance, empatia. La seconda con la storia di una nazione, di un popolo martoriato da uno dei regimi più cruenti del ventesimo secolo. Gli orrori dei colonnelli, troppo spesso taciuti, troppo superficialmente graziati dalla squallida "legge dell'obbedienza dovuta", vengono raccontati senza filtri né remore. Pagine cruente che scatenano sentimenti cupi nel cuore di chi legge, che tuttavia devono raccontare ciò che è stato con la speranza che l'uomo impari dai suoi errori. Una lettura consigliata a tutti, a chi ama le storie di gente coraggiosa, a chi ama scoprire, tramite la letteratura, verità scomode di cui si parla poco, a chi non ha paura di soffrire, arrabbiarsi, piangere perso dentro le pagine di un ottimo libro. "Ho un nodo alla gola, la sensazione di essere sul punto di piangere. E avanzo ancora, in un’altra direzione. Gli occhi cupi di quest’uomo che intona le strofe con rabbia, forse è quello che è riuscito a sopravvivere ma che, giorno dopo giorno, continua a sentire le grida della moglie, torturata, stuprata sotto i suoi occhi. Prego che nessuno si renda conto di chi sono io, chi è mia madre, mio nonno. E proprio in quell’istante una mano forte mi prende per un braccio, trasalisco. Ramiro. Lui sì che lo sa. Mi guarda fisso e io mi vergogno di essere lì. Suo padre l’assassinato, il suo sangue, da una parte; mio nonno l’assassino, il mio sangue, dall’altra. Come può pulsare insieme il nostro sangue?"

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    10 Luglio, 2018
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Rette parallele

"Varcare l'oceano su una barca lava via ogni ricordo e tu cominci una vita tutta nuova. E' così. Non c'è passato. Non c'è storia. La barca attracca al molo e noi scendiamo giù per la passerella e ci troviamo immersi nel qui e ora. Comincia il tempo. Cominciano a ticchettare gli orologi." Bolivar, Ines, David e lui, Simon. Anime disperate che hanno unito le loro solitudini per costruire quella che a prima vista può apparire come una normale famiglia. Una coppia di genitori, un bambino di sei anni vispo ed intelligente, un cane fedele. Un'immagine da copertina, da pubblicità di biscotti. Ma Ines e lui, Simon, non sono una coppia, così come David non è realmente figlio di nessuno dei due. C'è una nave che sbarca piena di gente che vuol ricominciare. C'è un bimbo disperso. C'è un uomo che lo aiuta a ritrovare sua madre. La madre non c'è, ma c'è una donna disposta a prendere il suo posto. In fuga dalla polizia, decisi a sfuggire all'imminente censimento, senza lavoro né fissa dimora, i nostri eroi trovano impiego e rifugio in una fattoria di Estrella. È qui che li conosciamo. La vita scorre serena finché non sorge il problema dell'educazione del piccolo David. La scuola pubblica è esclusa, i precettori privati risultano inadeguati. C'è però un'accademia di danza e il piccolo decide di provare a frequentarla. Quando il bambino varcherà la soglia della sua nuova scuola darà inizio ad una serie di avvenimenti che cambieranno radicalmente le sorti dell'improvvisata famigliola. Cinico, essenziale, disincantato, Coetzee toglie al lettore ogni riferimento temporale e geografico, ambientando la sua storia in un luogo e in un tempo imprecisati, in una civiltà in cui il potere costituito cerca di curare e colmare le lacune, le pecche, le inadeguatezze della società umana. La prosa dell'autore è fredda nelle descrizioni, distaccata nel raccontare i sentimenti. Il clima che permea il libro è cupo, i personaggi per lo più negativi, la disillusione ha un ruolo di primo piano. In questo ambiente si muove il piccolo David, novello Gesù bambino alle prese con un mondo cattivo, incomprensibile, imperscrutabile. David con le sue domande, con le sue ossessioni, con le sue paure. David con i suoi perché, con la sua fame di crescere, con un'innocenza infantile che cozza inevitabilmente con la violenza, i tradimenti, le riprovevoli condotte degli adulti. Al suo fianco c'è lui, Simon, forse il vero protagonista del romanzo. Il Simon che si fa carico delle domande, dei problemi, dei tormenti del piccolo e cerca di indicargli la giusta via e di spiegargli nel modo più chiaro possibile come funziona questo mondo sballato. Ma la mente troppo fredda e razionale dell'uomo contrasta con la fantasia e l'ingenuità del piccolo e le loro anime, pur legate l'una all'altra, sembrano due rette parallele destinate a non toccarsi mai.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    07 Giugno, 2018
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L'arte, l'amore, la storia

Auvers-sur-Oise, Francia, 1890. In una società in cui gli ideali di uguaglianza sbandierati un secolo prima durante la rivoluzione sono solo un miraggio, le donne sono relegate al ruolo di cittadine di seconda classe. Per la diciannovenne Marguerite Gachet le cose non sembrano stare meglio. Le speranze di diventare pittrice sono tarpate dal divieto imposto alle donne di frequentare l'Accademia delle Belle Arti. Il bisogno di indipendenza è minacciato continuamente da un matrimonio di interesse concordato dai genitori quando lei era ancora bambina. Il sogno di abbandonare la Francia per trasferirsi in America resta chiuso a doppia mandata in un cassetto, in attesa della maggiore età e di racimolare l'ingente capitale necessario. L'assenza della madre morta ormai da anni ed il pessimo rapporto con il padre medico fanno il resto. Un giorno però si presenta alla porta di casa uno strano individuo che lei scambia per un semplice bracciante agricolo. L'aspetto trasandato, l'espressione stralunata, i modi spicci nascondono in realtà uno dei più grandi geni della storia. Dietro il cappello di feltro, la giacca di coutil azzurra, la camicia bianca che esce dai pantaloni, le spighe di grano tra i capelli, si cela infatti un certo Vincent Van Gogh. "Sono a quattro metri da lui, quando vengo folgorata. O colpita da un tremendo ceffone. O scossa da un terremoto che stia per inghiottirmi. Esistono parole per esprimere la sensazione che provo vedendo per la prima volta un quadro di Vincent? Rimango sbalordita, muta, pietrificata, come se avessero appena aperto l’Arca dell’alleanza e io avessi avuto la rivelazione, come se avessi infine scoperto ciò che mi era stato da sempre tenuto nascosto." Tra Vincent e Marguerite nasce un dolce rapporto di amicizia che sfocia presto in travolgente passione. Ma quello che vivono i due protagonisti si rivela da subito un amore impossibile e, come spesso accade in casi simili, la tragedia sarà difficile da evitare. Guenassia propone un tenero racconto a metà tra verità storica e fantasia che, sfidando luoghi comuni, dicerie popolari, improbabili supposizioni, presenta un ritratto del grande pittore come mai si era visto prima. Le tesi della malattia mentale del genio olandese, del suo suicidio, del morboso rapporto con il collega Gauguin, vengono sminuite, oppugnate, levigate dall'autore che invece presenta un artista felice della sua esistenza e della sua produzione, propenso ai rapporti sociali, pieno di vita e di progetti, capace perfino di innamorarsi ma pronto a mettere l'arte davanti a qualsiasi cosa. Il Van Gogh di Guenassia è un fiume in piena che travolge con il suo fascino chiunque lo conosca, sia come artista che come uomo. Non può che esserne travolto anche il lettore, complici poi una prosa impeccabile, un'intensa storia d'amore che fa da corollario ad una trama coinvolgente e uno sfondo preciso ed interessante che l'autore tratteggia alternando al racconto reali spezzoni di articoli di giornale dell'epoca, che aiutano chi legge a calarsi nell'atmosfera storico-politica della Francia di fine Ottocento. Bellissimi anche gli intermezzi costituiti da stralci di missive (anch'essi reali) che Vincent scambiava in particolare con l'amico Gauguin e con il fratello Theo, mercante d'arte e suo primo ammiratore. Lettere piene di riferimenti artistici ma anche di profondi pensieri sulla vita e che mettono in risalto un insospettabile talento del protagonista anche per la scrittura. "Sono sempre più convinto che non si debba giudicare il buon Dio per questo mondo, perché si tratta di uno studio che non gli è venuto bene... Questo mondo è stato buttato giù in fretta e furia in uno di quei brutti momenti in cui l’autore non sapeva più cosa faceva, oppure non ci stava più con la testa." Un bellissimo libro consigliato a chiunque ami la buona letteratura, le storie d'amore e le vite di gente che ha fatto la storia, in cui protagonista incontestabile, al di là dei singoli personaggi, è l'arte in tutte le sue infinite manifestazioni. "L’arte è così ricca che, se soltanto una persona riuscisse a tenere a mente ciò che ha visto, avrebbe sempre di che nutrire i propri pensieri e non sarà mai davvero sola, mai più sola."

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    31 Mag, 2018
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L'inesplicabile ritratto di una donna controversa

Nella Sicilia del secondo dopoguerra, il fantomatico paesino di Roccacolomba è scosso da un improvviso lutto. A passare a miglior vita è stata una delle donne più umili e al tempo stesso più potenti della piccola comunità agricola, ovvero la domestica, amministratrice e donna di fiducia della famiglia Alfallipe: Maria Rosalia Inzerillo, da tutti conosciuta come la "Mennulara", per la sua proverbiale abilità nella raccolta delle mandorle. Inizia così un racconto che prosegue in due direzioni diverse. Da un lato ci sono il presente e l'immediato futuro, dall'altra il passato. Sul primo versante troviamo i discendenti della famiglia Alfallipe nominati eredi dell'insospettabile ricchezza della defunta. Inizia così una rocambolesca caccia all'eredità piena di cavilli, trabocchetti e prove da superare che la Inzerillo ha predisposto prima di morire per mettere alla prova l'onestà, la correttezza e la riconoscenza di quelli che lei ha sempre considerato come suoi figli, ma da cui non ha mai ricevuto quanto dato. L'avidità, la tracotanza, l'ingratitudine giocheranno agli stessi ragazzi un brutto scherzo. Sul secondo versante, il passato, ripercorriamo la vita della protagonista attraverso ricordi, pettegolezzi, congetture di chi, per un motivo o per l'altro, ha avuto a che fare con la Mennulara nel corso della sua vita. Si scoprono le origini, l'infanzia difficile, l'adolescenza segnata da un terribile episodio, la maturità di una donna forte, corretta, intelligente, umile ma piena di dignità, analfabeta ma ricca di cultura, distaccata ma capace di amare incommensurabilmente. Opinioni divergenti, giudizi contrastanti, sentimenti diversi rendono controverso, a tratti inesplicabile, il suo ritratto. Al lettore il compito di valutare, guidato dalla delicata penna dell'autrice, calato nel fascino dei ricordi e ammaliato dalla bellezza di una terra seducente, complessa e piena di vita.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    10 Aprile, 2018
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Storia di confine

"C'erano una volta due giovani e non sapevano di vivere nello stesso palazzo. Il loro non era un palazzo da re, ma uno di quei casamenti di città che prendono luce da un grigio cortile dove le donne si contendono la corda per asciugare il bucato. Una domenica pomeriggio tutto il palazzo parve spalancarsi al suono impertinente di un ottavino..." Trieste, secondo dopoguerra. Marco e Alessandro sono due ragazzi completamente diversi l'uno dall'altro. Il primo è un profugo istriano trasferitosi a Trieste con la madre, orfano di un padre adorato il cui ricordo occupa spesso i suoi pensieri. Vive del sussidio statale, passando le sue lunghe giornate solitarie a scrivere, col sogno di diventare scrittore, incurante dei solleciti della madre a trovarsi un posto di lavoro. Il secondo è un benestante impiegato di banca, che vive con i genitori con cui però ha freddi rapporti, impegnato in una tormentata storia d'amore con un'affermata artista triestina. La loro diversità non impedisce ai due di instaurare, lentamente ma con costanza, un forte e duraturo rapporto di amicizia. Un'amicizia strana, che non poggia su solide fondamenta, che si basa più sulla stima che sull'affetto, più sulla competizione che sulla solidarietà, più sulle diversità che sui punti in comune. Un'amicizia che è quasi fratellanza ma che continua sempre ad avere un'invisibile ma incancellabile linea di confine. I due si riflettono l'uno nell'altro, quasi vedessero avanti a sé il proprio io rovesciato, quasi si compensassero a vicenda colmando ognuno i vuoti dell'altro, senza tuttavia riuscire mai a scavalcare la fatidica frontiera per avvicinarsi definitivamente. Un'amicizia basata sulla sincerità e che proprio a causa di questa subisce qualche contraccolpo quando entra in scena una donna. Riuscirà il loro singolare rapporto a reggere a questa ingombrante presenza? Tomizza racconta una storia di frontiera che parla di amicizia ma il cui vero protagonista è il concetto di confine. Quello che separa i due protagonisti, divisi dalla diversità delle origini, dalla situazione economica, da una vera e propria contrapposizione culturale. Quello che separa i triestini dai profughi, visti sempre con diffidenza, come fossero sì cittadini italiani, ma di secondo ordine. Quello che spesso gli uomini innalzano nei confronti dell'altro sesso e che, ancora più spesso, diviene per alcuni sempre più invalicabile. Temi importanti trattati con grande garbo dall'autore, capace di fondere amore, politica, arte, storia e psicologia grazie ad uno stile pulito e raffinato e ad una spiccata sensibilità che gli permette di raccontare i sentimenti umani con estrema delicatezza. "Niente si ha da temere dalla verità, se non altro per il suo grado di originalità superiore a ogni fantasia.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    06 Aprile, 2018
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Un romanzo nel romanzo

"Se l'indomani Lisbona non fosse stata immersa in quella luce d'incanto, pensò in seguito Gregorius, le cose forse avrebbero preso tutta un'altra piega. Forse sarebbe andato all'aeroporto e si sarebbe imbarcato sul primo volo per Berna. Ma la luce impediva ogni tentativo di tornare sui propri passi. La sua radianza aveva il potere di rendere il passato qualcosa di remoto, pressoché irreale, e davanti a quello splendore la volontà perdeva ogni ombra gettata dal passato e non restava che procedere verso il futuro, quale che fosse. Berna con i suoi fiocchi di neve era lontana mille miglia e Gregorius stentava a credere che fossero trascorsi solo tre giorni da quando si era imbattuto nell'enigmatica portoghese sul ponte di Kirchenfeld." Portugais. Come può una semplice parola, uscita dalle labbra di una sconosciuta, ribaltare certezze, abitudini, priorità di un impostato e abitudinario professore liceale di Berna? Come può un uomo che ha dedicato la vita allo studio e all'insegnamento, trascurando l'amore, le amicizie e perfino se stesso, abbandonare di punto in bianco la propria quotidianità per seguire le tracce di un misterioso scrittore? Come può un lettore non restare affascinato da pagine che raccontano spaccati di storia lusitana, che descrivono l'incantevole bellezza di Lisbona, che esaltano la potenza della buona letteratura? Pagine che parlano d'amore, di amicizia, di forti ideali, di dittatura e di resistenza? C'è un solo modo per avere risposta a tutte queste domande: munirsi di biglietto e salire sul "Treno di notte per Lisbona" insieme al professor Raimund Gregorius per mettersi sulle tracce del dottor Amadeu Inàcio de Almeida Prado, l'orafo delle parole, il prete ateo. Insieme al protagonista ci si avventura in un lento e ammaliante viaggio tra passato e presente, in una intensa ricerca che diviene ben presto un'inevitabile ricerca di se stessi. La storia è in apparenza semplice. Dopo il singolare incontro con una fantomatica aspirante suicida, Gregorius si imbatte per caso nell'opera postuma (e unica) di uno sconosciuto scrittore portoghese. Resta talmente incantato (come del resto il lettore) dalla delicatezza della prosa, dalla profondità delle parole, dall'inevitabile empatia che il libro trasmette, da non poter fare a meno di abbandonare il suo mondo rassicurante e metodico per partire alla ricerca del tanto stimato autore. Giunto in Portogallo si renderà ben presto conto che la sua indagine sarà tutt'altro che semplice. Il tempo ormai trascorso, la riservatezza in cui Prado ha vissuto, la ritrosia di chi lo ha conosciuto a parlare della sua vita mettono continuamente il bastone tra le ruote al nostro protagonista. Tuttavia il pacato professore avrà modo di guadagnarsi la fiducia dei suoi interlocutori, di accedere ad altri scritti inediti del dottore, di togliere un po' di polvere e ragnatele dal passato e tracciare un quadro chiaro, esaustivo, sorprendente ed affascinante di Amadeu come uomo e come professionista, della sua vita, dei suoi amori e dei suoi pensieri, della storia del Portogallo e della lotta clandestina di resistenza nei confronti del regime fascista di Salazar. Pascal Mercier regala pagine di grande letteratura sia per quanto riguarda lo stile che i contenuti, con passaggi di pura poesia e riflessioni filosofiche di grande spessore che lasciano il lettore estasiato e instaurano nella sua mente pensieri profondi, portandolo ad un inevitabile faccia a faccia con la propria anima. Un libro che emoziona e fa riflettere, scritto con passione e grande sensibilità, empatico, piacevole, in cui gli scritti di Prado rappresentano il picco più alto di qualità letteraria, veri e propri romanzi nel romanzo. "Che cosa è mai quella cosa che chiamiamo solitudine, diceva, non può essere semplicemente l'assenza degli altri, si può essere soli e niente affatto abbandonati, e si può stare in mezzo alla gente e tuttavia essere soli, che cosa è dunque la solitudine?"

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Narrativa per ragazzi
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    07 Marzo, 2018
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Non solo Mowgli

Avventura, amicizia, simpatia e una doverosa e immancabile stoccata alla razza umana sono gli elementi cardine di questa surreale e toccante raccolta di racconti con cui Kipling sveste i panni di uomo e si cala in quelli di animale selvatico. Una metamorfosi che contagia anche il lettore, pronto a ribaltare la propria prospettiva sul mondo, cominciando a guardarlo da un punto di vista completamente opposto. Entrando nella testa di orsi, scimmie, tigri, pantere, lupi, elefanti, manguste, foche, si riesce a capire quanto dura sia la vita dell'animale selvaggio, quanta fatica occorra per ricavarsi il cibo, quanto difficile sia salvarsi la pelle davanti al pericolo rappresentato dai predatori, dalle calamità naturali e da quello che rappresenta il nemico più terribile: l'uomo. Ma nessun sacrificio è vano, nessuna difficoltà è insormontabile, nessuna impresa è impossibile quando c'è di mezzo il valore primario per qualsiasi essere vivente: la libertà. Lo sa bene il sognatore Kotick, giovane foca dal manto immacolato, che non si dà pace fino a che non riesce a trovare una spiaggia per sé e i suoi simili dove l'uomo non sappia o non possa arrivare per cacciarli. Lo sa la piccola e coraggiosa mangusta Rikki-Tikki, che con l'uomo finisce per andare a viverci spontaneamente e in perfetta sintonia ma che tuttavia sa di non poter essere veramente libera finché non si sarà sbarazzata dei terribili cobra che infestano il giardino. Ne è consapevole il gigantesco elefante Kala Nag, che per l'uomo ha lavorato per decenni ma che, quando il richiamo dei suoi simili è troppo forte, non esita e spezzare le catene per andare incontro all’istituto. La libertà la sognano cavalli, muli, buoi e cammelli, animali che l'uomo usa per i suoi insensati scopi bellici e la cui esistenza si riduce a trasportare cannoni, mortai, cavalieri armati. La libertà, infine, la conosce bene il piccolo Mowgli, protagonista di quello che probabilmente è il più noto racconto della raccolta. Cucciolo d'uomo allevato dai lupi, educato da un orso (Baloo) e viziato e vezzeggiato da una pantera (Bagheera), il giovane protagonista imparerà presto cosa significa lottare per la propria vita. Quando poi rientrerà nel torbido ed insensato mondo degli uomini capirà presto come essere libero sia il migliore dei beni possibili e come il suo posto non sia una capanna in un villaggio con affianco i suoi simili ma un cielo stellato sulla cima di un albero insieme ai suoi veri e liberi amici e compagni. Cinque racconti, avventurosi e affascinanti, che terminano con piacevoli canti e poesie, caratterizzati da un'ottima scrittura, semplice e scorrevole senza mai essere banale, e da contenuti importanti che invitano alla riflessione. Kipling contrappone la società umana a quella animale, e nel confronto la prima esce indiscutibilmente sconfitta. Le guerre, le superstizioni, la caccia dettata dal guadagno, la divisione della società in classi, le varie insensatezze e complicazioni tipiche dell'uomo perdono nettamente al cospetto di un mondo animale in cui la tendenza è quella a vivere in armonia, con leggi chiare, giuste e condivise, in cui le inevitabili violenze sono dettate dalla fame o dall'istinto di sopravvivenza, non certo dall'odio, dal denaro, dalla sete di potere. "Questa è la Legge della Giungla, vecchia e vera come il cielo: e il Lupo che l'osserva vivrà lieto, ma il Lupo che la infrange morirà."

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    23 Febbraio, 2018
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Incantesimi, mistero e ipocrisia

"Non sorprese Alexandra il fatto che nonostante tutto il suo astio Jane dovesse rivelarsi la più debole nel momento di gettare l'incantesimo; perché la magia è alimentata dall'amore, non dall'odio: l'odio brandisce solo le forbici ed è impotente a tessere le interconnessioni di comprensione per mezzo delle quali mente e spirito muovono la materia." La provincia americana vista attraverso gli occhi di tre donne tutt'altro che ordinarie. Alexandra, Jane e Sukie sono al centro dei pettegolezzi della piccola e insignificante Eastwick, grazie al loro successo con gli uomini, alla loro propensione verso l'arte e soprattutto a certi poteri soprannaturali di cui sono dotate. Sembra infatti che le nostre eroine riescano a scatenare improvvisi temporali, trasformare palline da tennis in rospi o pipistrelli, assoggettare la gente ad ogni genere di sortilegio. Legate da un sodalizio indissolubile, ben più di una normale amicizia, le tre streghe, tutte uscite da un matrimonio fallito, vivono in maniera libera e disinibita, senza preoccuparsi troppo del futuro né dei giudizi della gente. Le loro vite tuttavia sono destinate a subire una serie di sconvolgimenti con l'entrata in scena del carismatico quanto eccentrico Darryl Van Horne, affascinante e misterioso milionario newyorchese che le coinvolgerà in un turbine di lusso e di lussuria, mettendo in discussione le loro certezze e la loro stessa amicizia. La situazione sfuggirà definitivamente di mano alle tre protagoniste quando subiranno una sorta di tradimento dal loro singolare cavaliere che le spingerà a incanalare i loro poteri in direzione negativa. Prosa articolata, descrizioni dettagliate, introspezione psicologica e un sano e realistico cinismo sono gli elementi alla base della scrittura di John Updike e si riflettono ampiamente anche su quest'opera in cui l'autore aggiunge, eccezionalmente, un pizzico di magia. Ma l'aspetto esoterico è solo uno stravagante corollario al crudo realismo con cui l'autore descrive una società americana piccolo borghese in cui il pettegolezzo si contrappone ad un'ipocrisia di facciata, l'adulterio sembra essere un elemento cardine della vita sociale, l'amore viene oscurato da gesti di efferata violenza, l'interesse per gli altri è legato solo e soltanto all'eventualità di ricavarne un tornaconto. Non mancano gli spunti comici né quelli passionali. L'incedere brioso del racconto è rallentato qua e là da lunghe digressioni (forse evitabili) e da piccoli e interessanti momenti di riflessione. Nel complesso si tratta di un buon libro in cui Updike, giocando con incantesimi e mistero, non perde occasione per bacchettare il perbenismo, l'ambiguità e le futili chiacchiere che caratterizzano la società del suo tempo.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    23 Gennaio, 2018
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Mio caro Malacoda

La penna di Lewis ci porta per mano ad affrontare un breve ma intenso viaggio nell'eterna lotta tra il Bene e il Male. Lo fa mettendosi dalla parte dei cattivi, immedesimandosi nel ruolo di demone e sviscerando i vari pericoli cui va incontro l'anima umana, costantemente distratta dalle mille tentazioni che la circondano. La gola, la lussuria, l'avidità, l'orgoglio, l'ira, la vanità sono i più comuni peccati in cui l'uomo può incorrere nella sua vita terrena, dannando per sempre il suo spirito e consegnandolo alle fauci del Diavolo. Con una scrittura brillante e una buona dose di ironia, l'autore cerca di spiegare come il maligno cerchi di traviare l'uomo da quella che, secondo la concezione cristiana, è la retta via. Come stia attento ad operare nell'ombra, senza azioni clamorose e appariscenti che potrebbero portare al peccato nell'immediato per poi sfociare, però, in un salvifico e sincero pentimento. La sua opera migliore consiste invece nell'insinuare nell'animo dubbi, fastidi, tentennamenti che lì per lì possono sembrare inezie ma che alla lunga portano alla totale ed irrimediabile dannazione. Berlicche e Malacoda, rispettivamente zio e nipote, sono al servizio di Satana. Il primo si presume sia un alto ed esperto funzionario, il secondo un demone tentatore, inetto ed inesperto, cui è stato affidato come "paziente" un giovane inglese, durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale. I due protagonisti tengono una fitta corrispondenza in cui il giovane mette al corrente il suo interlocutore sui progressi (ben pochi a dire il vero) dell'opera di dannazione dell'anima sotto la sua tutela. Queste lettere in realtà non vengono riportate e se ne intuiscono esistenza e contenuto grazie alle risposte dello zio, ben trentuno e tutte dal tenore vivace. L'esperto Berlicche risponde con consigli e rimbrotti, cercando di insegnare all'incapace allievo ogni genere di trucco, di tranello, di escamotage per traviare il cuore e la mente degli uomini e strappare la loro anima al "Nemico", senza risparmiare insulti e rimproveri nei confronti del ragazzo. Riuscirà il nostro caro Malacoda a raggiungere il suo scopo grazie all'aiuto del suo affezionatissimo e voracissimo parente? "Dobbiamo fare in modo che si trovi nel massimo dell'incertezza, sicché la sua testa si riempia di schemi contraddittori nei riguardi del futuro, ciascuno dei quali possa provocare paura e speranza. Non v'è nulla che equivalga alla sospensione e all'ansietà per barricare la mente di un essere umano contro il Nemico. Egli vuole uomini che si preoccupino di ciò che fanno: nostro compito è invece di farli pensare sempre a ciò che capiterà loro".

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Gialli, Thriller, Horror
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    12 Gennaio, 2018
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Il marchio dell'infamia

In una Napoli battuta da un vento impetuoso, in cui non si riesce a distinguere bene dove finisca la pioggia e dove comincino gli schizzi delle onde, si svolgono le indagini relative alla morte violenta di una donna della così detta "alta società", ad una ragazzina appena diciottenne che non esce mai da uno strano appartamento, ad una serie di suicidi a dir poco sospetti. Ad investigare su questi casi troviamo gli agenti del commissariato di Pizzofalcone, una masnada di scarti di altri distretti, poliziotti segnati da errori commessi in passato che restano impressi sulla loro reputazione come macchie di inchiostro indelebile. Ma è lo stesso commissariato ad essere bollato con il marchio dell'infamia, a causa di una brutta storia di droga messa su da chi ha preceduto i nostri eroi. Lavorare sentendosi addosso il peso degli errori, propri ed altrui, venire additati con l'appellativo di "bastardi", non è certo una passeggiata per Lojacono, Aragona, Di Nardo, Romano, Pisanelli e Calabrese, capitanati dal buon commissario Palma. Uomini e donne pieni di fantasmi e di problemi personali, che buttano anima e corpo nel lavoro per cercare di lasciarsi alle spalle, almeno per qualche ora, i guai che li affliggono. Attraverso storie di solitudine, di violenza domestica, di malattie, di ossessioni, De Giovanni ci presenta diversi spaccati di vita privata che mettono a nudo i protagonisti svelando prima le persone che i poliziotti, prima le debolezze che i punti di forza, prima il lato privato che quello, comunque ineccepibile, professionale. Un romanzo poliziesco, insomma, incentrato più sull'aspetto umano che su quello investigativo, senza intricati casi da risolvere, clamorosi colpi di scena, machiavellici intrighi. Storie ordinarie e per questo più vicine alla realtà, non prive però di un certo fascino "giallo", raccontate con uno stile semplice ma mai banale, ricco di dialoghi, scorrevole e lineare. Ottima la caratterizzazione dei personaggi, privi di qualsiasi cliché, ognuno con aspetti peculiari in cui il lettore, inevitabilmente, finisce per riconoscersi. “E già. Siamo i nuovi Bastardi di Pizzofalcone, no? Quelli che fanno schifo ai poliziotti, per diritto ereditario; ai delinquenti, perché pur sempre poliziotti; alla gente comune, un poco per diritto ereditario e un poco perché pur sempre poliziotti. A noi stessi, perché ognuno si sente ingiustamente mandato qui insieme ad altri reietti.”

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Politica e attualità
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    19 Dicembre, 2017
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Madiba

I thembu, i mpondo, gli xhosa erano popoli diversi che tuttavia si ritenevano figli di un solo padre, e vivevano come fratelli, legati dall'abantu, una sorta di tacito patto di fratellanza. Per le genti native del Sudafrica non esisteva il concetto di proprietà; terra, aria, acqua erano beni condivisi che non potevano appartenere ad un solo uomo o ad una sola razza. Anche l'idea di famiglia era completamente diversa da quella occidentale, le distinzioni tra parenti non esistevano, non c'erano figliastri e figliastre, i cugini erano fratelli, i nipoti figli. Poi arrivarono i bianchi, con la loro avidità e la loro fame di terra, e tutto cambiò. In più di seicento pagine, il premio Nobel per la pace Nelson Mandela racconta la storia della sopraffazione del suo popolo ed il lento e difficile processo di emancipazione e di riscatto. Lo fa, naturalmente, in prima persona, in quanto protagonista principale di questo lungo e tortuoso percorso vissuto prima da semplice membro dell'African National Congress, poi da leader indiscusso del movimento di liberazione, fino a diventare presidente di una nazione dove finalmente libertà, uguaglianza, democrazia non sono più un sogno ma diventano basi concrete su cui costruire una società civile. Un cammino che parte da Mqhekezweni, un piccolo villaggio nelle campagne del Tanskei, per finire nel palazzo del governo di Pretoria. In mezzo ci sono infinite tappe, che il patriota sudafricano racconta con grande lucidità. Figlio di un capo Thembu, Mandela ripercorre la sua infanzia sul suolo natio, gli studi presso le scuole delle missioni cristiane, il folkloristico rito di iniziazione che lo scaraventa nel mondo degli adulti. Poi Johannesburg, gli studi universitari, la laurea in giurisprudenza, i primi impieghi duri e sottopagati, il proprio studio legale aperto insieme al collega e fraterno amico Oliver Tambo, compagno di tante battaglie soprattutto al di fuori dello studio. Lo spirito ribelle e indomito del giovane Nelson, che già nel Tanskei aveva dimostrato un innato rifiuto per la supremazia dei bianchi sulla popolazione di colore, a Johannesburg sfocia in una vera e propria presa di coscienza e di posizione che lo fa entrare nell'A.N.C. consacrando di fatto la sua intera esistenza alla battaglia nei confronti di quel sistema malato e incivile che passa sotto il nome di Apartheid. Una lotta civile e pacifica, indirizzata non alla sopraffazione del nemico, ma volta al raggiungimento di una società dove bianchi, neri, indiani e meticci vivono in pace senza distinzione di razza, di colore della pelle, di ceto sociale e di appartenenza religiosa. Una lotta che tuttavia non può fare a meno di passare per le armi e che porta Mandela ad una lunga detenzione di ventisette anni. Un periodo di tempo infinito in cui Madiba (questo il suo nome xhosa) affronta minacce, soprusi, umiliazioni senza mai chinare il capo, senza cedere al nemico ma soprattutto senza cadere nel facile istinto di odiare chi lo tiene dietro le sbarre, uscendo di prigione più convinto che mai di voler continuare la sua battaglia e pronto a vincerla. Una lettura lunga ma interessante, avvincente, educativa, ricca di particolari, di colpi di scena, di grande umanità. Pagine di sofferenza e di impegno civile, in cui uno dei più grandi leader della storia racconta se stesso narrando al contempo una delle pagine più nere dell'umanità. Difficile restare indifferenti davanti ad una storia che sembra remota ed invece è vecchia solo di un quarto di secolo. Impossibile non restare disgustati dal grado di inciviltà cui è capace di abbassarsi il "civile" Occidente. Naturale fare il confronto tra la storia del Sudafrica e tante realtà in cui ancora oggi l'apartheid è praticato con il beneplacito delle grandi potenze mondiali (la sopraffazione di Israele sul popolo palestinese ne è l'esempio più lampante). Scoraggiante scoprire quanto l'uomo impari poco dagli errori del passato. Incoraggiante pensare che sia esistito un uomo come Nelson Mandela e che una storia come la sua potrà essere di esempio a chiunque incontri sulla sua strada ingiustizia, razzismo, soprusi ed ogni genere di barbarie di cui è capace l'essere umano nei confronti di un suo simile.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    20 Novembre, 2017
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"Vivere secondo un’idea è difficile"

È sufficiente un granello o un peluzzo per dissipare nel mio animo il buono e sostituirlo con il cattivo. Le cattive impressioni, invece, con mio cruccio, non si dissolvono tanto in fretta, sebbene non sia una persona che serba rancore". Le parole con cui si presenta il protagonista di questo ennesimo capolavoro di Fedor Dostoevskij la dicono lunga su ciò che aspetta il lettore. La trama gira attorno alle angosce esistenziali del giovane Arkadij Dolgorukij, nato da una relazione extraconiugale tra la madre, Sof'ja Andrèevna e il suo padrone, il possiedente in rovina Versilov. La condizione di figlio illegittimo segna il carattere e i comportamenti del ragazzo sin dalla sua infanzia finché, terminati gli studi, il nostro protagonista abbandona un'esistenza difficile ma tutto sommato protetta per lanciarsi senza paracadute nel mondo degli adulti. Lo fa con il cuore puro ma con la testa piena di strani pensieri e progetti chimerici, nonché con l'ingenuità tipica dell'adolescente vissuto per troppi anni lontano dalla vita reale. La sua particolare condizione, gli intrighi che si intrecciano attorno alla sua strana famiglia, i singolari personaggi che incontrerà durante il suo cammino, le insidie e gli imprevisti che sono costantemente in agguato nella vita di tutti i giorni, porteranno Arkadij a immischiarsi in affari torbidi e pericolosi nei quali non sarà affatto facile districarsi. La profonda conoscenza dell'animo umano, la capacità di creare la giusta empatia tra lettore e personaggi, la prosa lenta e sublime sono inequivocabili marchi di fabbrica del grande maestro russo che, anche in questo caso, non delude i suoi estimatori regalando pagine di grande letteratura e proponendo, come sempre, importanti e profonde riflessioni sull'uomo, sulla vita e su ciò che, più di ogni altra cosa, fa girare il mondo: l'amore. In particolare Dostoevskij si sofferma sul concetto di amore filiale, quello che lega incondizionatamente Arkadij al padre naturale e che ritroveremo anche più in là, nella produzione dell'autore, grazie a "I fratelli Karamazov". Anche il tema del doppio, affrontato in questo libro sia attraverso il protagonista che grazie all'ambigua figura di Versilov, possiamo ritrovarlo, come argomento di fondo, ne "Il sosia", che lo precede di un bel po' di anni. Tra i personaggi secondari, oltre alla dolcissima madre di Arkadij, spiccano il padre putativo Makar Ivanovic, filosofo errante dispensatore di storie originali e di idee profonde, e la pragmatica Tat'jana Pavlovna, donna dalla crosta dura ma dal cuore tenero. Non mancano poi spunti di riflessione critici: le disavventure del nostro adolescente dimostrano come una società viziosa e incline alla corruzione possa deviare le giovani generazioni, affossandone gli ideali, distogliendole dai propri progetti, distraendole dalla via dettata dei propri sogni. "Perché vivere secondo un’idea è difficile, mentre è facilissimo invece vivere senza idee".

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    12 Novembre, 2017
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Dal passato non si fugge

Palermo, quartiere popolare Borgo Vecchio. I Montana, una modesta famiglia di piccoli mercanti abusivi di frutta e verdura, vengono sconvolti da un truce episodio di lupara bianca. Calogero, il capo famiglia, scompare nel nulla e alla moglie e ai due figli viene consigliato di non cercare la verità. Il tempo per indagare, d'altronde, è poco, c'è un chiosco da mandare avanti e se da un lato la vedova Mela può contare incondizionatamente sull'aiuto del volenteroso ed intraprendente secondogenito Franco, dall'altro ha da gestire la grana rappresentata dal primogenito Enzo, lavativo poco di buono dedito all'ozio, alla delinquenza e ad altri vizietti poco raccomandabili. Franco e Mela per molto tempo fanno finta di niente, lasciano che Enzo diserti il lavoro e non dimostri il minimo rispetto per i suoi familiari. Quando la situazione però si fa troppo pesante la tragedia appare scontata. A poco serve fuggire all'estero, crearsi una nuova vita, tagliare ogni ponte con le proprie radici. Il passato, con le sue ineluttabili verità, prima o poi torna a galla. Un noir semplice e realistico incentrato sul concetto di famiglia, con pochi ma ben delineati personaggi in cui è difficile distinguere la tenue barriera che separa il bene dal male. Una storia dura, spietata, cinica, in cui mafia, droga, violenza domestica si intrecciano con l'amore, il rispetto, la speranza di assicurare e se stessi ed ai propri cari un'esistenza migliore. A condire il tutto l'aria di una Sicilia terribile ed affascinante, ricca di tradizione, di folklore e di calore, delle piccole abitudini di un rione dove nessuno sa e tutti sanno e il centro del mondo è rappresentato da una piccola macelleria di quartiere. Un'aria che continua ad impegnare le pagine di questo bel libro anche quando la scena si sposta a migliaia di chilometri di distanza, quasi a ricordarci che dalle proprie radici e dal proprio passato non è possibile scappare.

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Racconti di viaggio
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    09 Novembre, 2017
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"Acqua e meditazione sono sposate per sempre"

Morten A. Stroksnes ci trascina con sé e con il suo amico Hugo, artista pescatore, in una lunga caccia nel freddo mare della Norvegia. Siamo nelle acque delle isole Lofoten e la sfida è lanciata al vertebrato più longevo che si conosca in natura: lo squalo della Groenlandia, ancestrale abitante di abissi ancora inesplorati. L'impresa non è affatto semplice e richiede un bel po' di tempo a disposizione e molta pazienza. Così, in attesa che la nostra preda abbocchi all'amo, abbiamo la possibilità di fermarci a riflettere, sollecitati dal senso di pace e libertà ispirato dal mare aperto. Anche perché, come diceva Melville, "acqua e meditazione sono sposate per sempre". È qui che il libro assume la sua reale valenza, abbandonando le futili peripezie dei due protagonisti per immergersi in un'ondata di pensieri, nozioni e citazioni. La battuta di pesca si trasforma quindi in una sorta di documentario scritto che esplora la profondità del mare, scandagliandone gli esemplari di flora e di fauna, i paesaggi e il rapporto con l'uomo. Qui l'analisi si sdoppia. Da un lato l'autore cerca di spiegare l'atavica attrazione che ci lega alla parte acquatica del pianeta e che da sempre ci avvince e ci spaventa al contempo, spingendoci ad avvicinarci al mare con un interesse quasi voluttuoso ma anche con la giusta dose di prudenza e circospezione. Dall'altra, ahimè, non può mancare il doveroso rimprovero per il modo in cui trattiamo questo elemento. Diffusione selvaggia di rifiuti non biodegradabili, pesca sconsiderata, estrazione e spargimento di petrolio, distruzione dei fondali sono solo alcune delle attività deleterie con le quali stiamo irrimediabilmente rovinando quella che, al di là di ogni progresso, rimane la nostra principale fonte di vita. "Qualcuno ha scritto che il nostro pianeta non dovrebbe chiamarsi Terra: dovrebbe semplicemente chiamarsi Mare". Non mancano poi le citazioni letterarie: dalla Bibbia a Melville, passando per Olao Magno, l'autore sviscera e interpreta scritti di ogni epoca e di ogni specie che riguardano il mare e tutto ciò che ad esso è legato. Insomma una lettura interessante più che altro dal punto di vista scientifico, ricca di informazioni (spesso fin troppo) e di spunti di riflessione ma povera dal punto di vista letterario, con una prosa schematica, fredda come le acque in cui la storia è ambientata e due personaggi privi di carisma e incapaci di creare empatia. Da questo punto di vista l'avventura alla Melville e alla Verne millantata nella quarta di copertina appare del tutto fuori luogo, sia per i contenuti che per i personaggi, sia per il modo di scrivere che per l'irrisorietà del contesto avventuroso. Con tutto il rispetto e la simpatia per Morten e per il suo amico Hugo, Achab e Neno sono di uno spessore troppo elevato per azzardare, anche solo con il pensiero, un qualsivoglia accostamento.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    25 Ottobre, 2017
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La cattiva scrittura

"A volte avevo la sensazione di non sapere nemmeno chi ero io. D'accordo, ero Nicky Balane. Ma un momento. Qualcuno potrebbe gridare: -Ehi, Harry! Harry Martel!- e molto probabilmente risponderei: -Sì, cosa c'è?- Voglio dire, potrei essere chiunque, che importanza ha? Che cosa c'è in un nome?" Dimenticate il classico stereotipo di detective americano. Lasciate da parte bravura, intuito, correttezza, bellezza, prestanza fisica. Non sperate di ritrovarvi tra pagine che raccontano indagini mozzafiato in cui il vostro compito di lettore è quello di riuscire a risolvere il giallo prima che l'autore vi sveli tutti i misteri del caso. Armatevi invece di ironia e fantasia, di un giornale che vi dia le dritte migliori sulle corse di cavalli, di una buona scorta di alcool e mettetevi al fianco di Nick Balane, l'investigatore più dritto (secondo lui) di Los Angeles. Grasso, politicamente scorretto, pasticcione, alcolizzato, solo come un cane, pieno di debiti, privo di qualsiasi talento se non quello di cacciarsi in qualche guaio. Seguitelo nelle sue indagini strampalate, senza capo né coda, all'inseguimento di scrittori morti da decenni, di inafferrabili volatili colorati, di mogli fedifraghe. Guardatelo combattere con lo stesso impegno contro alieni che vogliono conquistare la terra, creditori che battono cassa con le buone e con le cattive, baristi incapaci di servire un drink come si deve. Preparatevi alla "cattiva scrittura" di Bukowski, alle sue volgarità, alla sua visionarietà da habitué della bottiglia, alla sua pungente ironia, alle sue amare e malinconiche considerazioni. State certi che non vi troverete davanti ad un capolavoro letterario, né ad una lettura che vi renderà più ricchi dentro. Tuttavia passerete delle ore tutto sommato piacevoli, vi farete qualche risata e viaggerete con la fantasia, per poi precipitare mestamente davanti alla cruda e sporca verità che l'autore, con il cinismo, la disillusione e la mestizia di chi è prossimo alla fine del suo cammino, vi spiattellerà in faccia. "-Che cosa è troppo orribile, Jeannie?- -La Terra. Lo smog, gli assassinii, l'aria avvelenata, l'acqua avvelenata, il cibo avvelenato, l'odio, la mancanza di speranza, tutto. Sulla terra l'unica cosa bella sono gli animali, e stanno eliminando anche loro, presto scompariranno tutti, tranne i topi e i cavalli da corsa. È molto triste, non c'è da meravigliarsi se bevi tanto.- -Sì, Jeannie. E non dimenticare le nostre pile atomiche.- -Sì, siete andati troppo oltre a quanto pare.-"

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    17 Ottobre, 2017
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Donne, letteratura anglosassone e storia iraniana

Teheran, anni Novanta. La professoressa di letteratura anglo-americana Azar Nafisi è spinta a lasciare la sua cattedra universitaria dalle continue pressioni di una "Rivoluzione Islamica" che vuole infilare il naso nel suo programma d'insegnamento. Tuttavia la nostra protagonista, nonché voce narrante, non se la sente di abbandonare sul serio le sue studentesse. Inventa così una sorta di seminario privato, invitando le ragazze più valide, ogni giovedì pomeriggio, a raggiungerla nel salotto di casa sua per discutere di Nabokov, Jane Austen, Fitzgerald o Henry James. Così tra una pagina di "Lolita" e un brano di "Orgoglio e pregiudizio", tra un passo di "Daisy Miller" e una citazione de "Il grande Gatsby", l'autrice e le sue allieve trascorrono insieme due anni di intensa attività letteraria, discutendo di libri, stili e autori ma anche raccontando le loro vite, le paure, le speranze, i sogni in un paese in cui l'estremismo religioso prende pian piano il sopravvento togliendo loro dignità, diritti, velleità, privandole finanche della loro stessa femminilità. Protette dalle mura amiche, Azar e le altre possono spogliarsi da ogni velo, reale e ideologico, imposto loro dall'ottusità e dall'arroganza del regime, e sentirsi libere per qualche ora di essere se stesse, di mostrare le loro unghie dipinte, i jeans attillati, i trucchi e i monili, ma soprattutto di ridere, piangere, esprimere le proprie opinioni, lamentarsi di ciò che non va e confessare i propri desideri. Per queste donne la letteratura diviene un mezzo per evadere dalla realtà, una panacea dai mali che le affliggono, un luogo ideale in cui rifugiarsi per fuggire dal mondo che le circonda. Tuttavia i libri assumono anche un'altra funzione, divenendo uno strumento critico attraverso cui si può guardare la realtà, confrontarla, comprenderla meglio e, perché no, tentare di modificarla. "Leggere Lolita a Teheran" è un'importante testimonianza politica e culturale degli ultimi decenni di storia iraniana. Nel libro c'è posto anche per il privato, con un'eterogenea carrellata di vite ed esperienze personali delle protagoniste che, tuttavia, suscitano interesse quasi esclusivamente per il contesto in cui si trovano collocate. Il modo di raccontare di Azar Nafisi, più adatto ad un freddo saggio che ad un vero romanzo e spesso palesemente autocelebrativo, appare infatti piatto, povero di pathos, poco incline alla creazione della giusta empatia tra il lettore e le storie raccontate che, comunque, restano degne di nota. Dal punto di vista dell'analisi letteraria, l'opera punta autori di tutto rispetto, sviscerandone il meglio della produzione e proponendo un interessante confronto tra le opere e l'attualità iraniana. Peccato soltanto che l'autrice pecchi spesso di presunzione, dando per assodato la supremazia dei suoi autori preferiti su altri da lei considerati "minori". Nessuno mette in dubbio la grandezza di Fitzgerald, ma non si può far passare per verità assoluta la sua fantomatica superiorità su autori del calibro, ad esempio, di Steinbeck, protagonista assoluto del Novecento, scrittore tra i più amati a livello mondiale. Al di là di queste discutibili opinioni e di qualche piccolo difetto, il libro è comunque consigliato e se ne raccomanda la lettura soprattutto a chi ama il connubio tra storia e letteratura e a chi è interessato alla questione femminile nel mondo.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    13 Ottobre, 2017
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Vivere è come essere già morti

In questa raccolta di racconti Joyce ripercorre le tappe fondamentali dell'esistenza umana, dall'infanzia alla vecchiaia, passando per l'adolescenza e la maturità e concludendo, inevitabilmente, con la morte. Storie di malattia, abuso di alcool, sottomissione, violenza domestica, miseria, lussuria, soprusi. Sullo sfondo una città ambigua ed affascinante, la Dublino a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo, con i suoi vicoli ciottolosi, le sue birrerie ed i suoi singolari abitanti. I protagonisti, tutti riconducibili al ceto medio irlandese di inizio Novecento, rappresentano una carrellata di personaggi chiusi nel recinto di una esistenza monotona, incapaci di andare oltre ciò che concerne i bisogni basilari e le consuetudini di ogni giorno. In altre parole, gente che vive pur essendo già morta. "Meglio, del resto, trapassare baldanzosi nell'altra vita, nel pieno della passione, che appassire e svanire a poco a poco nello squallore degli anni". Qualcuno tenta di riscattarsi da questa squallida condizione, scontrandosi tuttavia contro un muro invalicabile che lo costringe ad arrendersi mestamente. Altri preferiscono non provarci nemmeno e arrendersi in partenza al loro ignobile destino, cercando illusorie ed evanescenti consolazioni in piccoli e futili gesti quotidiani. Lo stile è semplice e scorrevole e, ad una lettura distratta e superficiale, gli episodi narrati possono apparire banali e insignificanti. Tuttavia il loro significato va cercato tra le righe, tra sottintesi, metafore e finali che lasciano spazio all'immaginazione. Le storie sono completamente slegate tra loro, eppure le accomuna il fatto di essere tutte parte di un unico grande atto di denuncia dell'autore nei confronti della società e dei valori sui cui si erge. In particolare Joyce sembra puntare il dito contro la politica e la religione, cause principali della paralisi che affligge l'uomo, fonti di oppressione morale, spirituale e materiale da cui la gente comune non ha alcuna possibilità di liberarsi. Non c'è speranza, non c'è salvezza, non ci sono vie d'uscita. La vita è una gabbia che tiene l'uomo imprigionato in attesa della morte. Ma vivere in balìa di una simile esistenza non equivale ad essere già morti?

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    21 Giugno, 2017
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Il piccolo universo di Via del Corno

Protagonista assoluta del romanzo è la piccola e insignificante Via del Corno, una stradina corta e stretta che sembra rappresentare un mondo a se stante nella magnifica bellezza della Firenze anni Venti. In questi cinquanta metri di svariata umanità si incrociano storie d'amore e miseria, di politica e denaro, di contrasti e amicizia. Le finestre hanno gli occhi, i muri le orecchie, ogni cosa diviene pretesto per chiacchiere, beffe e maneggi. Il tutto in un clima reso cupo e soffocante dalla povertà e dall'opprimente e costante presenza del regime fascista. Tuttavia niente sembra riuscire ad intaccare la stramba vitalità della via e dei suoi abitanti, espressione dei diversi ceti sociali, dei tanti stili di vita e delle varie visioni politiche. Aurora, Milena, Bianca e Clara sono i quattro angeli custodi, ragazze in fiore alle prese ognuna con il suo amore tormentato. Maciste, Ugo e Mario sono i sovversivi comunisti che operano nella clandestinità opponendosi alla dittatura. Carlino e Osvaldo sono invece i camerati, le camicie nere che tutti disprezzano ma verso i quali dimostrano il rispetto derivante dalla paura. Il ciabattino Staderini è il gazzettino della via, Nanni la spia, Nesi padre e figlio gli affaristi senza scrupoli. A controllare tutti, dall'alto della sua finestra, c'è poi "La Signora", un'anziana ricca e stravagante dal passato torbido e dal presente quanto meno equivoco, che conosce i segreti di tutti i cornacchiai e spesso e volentieri influisce sulle fortune e sulle sventure dei vicini. Le esistenze e le peripezie di questi e di altri svariati personaggi si intrecciano e si dipanano in un susseguirsi di avvenimenti ora lieti ora tristi, di emozioni forti, risate e lacrime, tutto narrato dal grande talento di un autore capace come pochi di raccontare i sentimenti umani e le vicissitudini della vita con una penna delicata e suggestiva. Immancabilmente la politica ha un ruolo di primo piano nel romanzo. Pratolini come sempre ha un occhio di riguardo verso le fasce più povere e più esposte alle ingiustizie, alle angherie e ai soprusi di una società spietata e materialista. A fare da scenografia alle bellissime pagine del libro c'è poi la storia italiana di inizio Ventennio, quando l'opera degli squadristi contribuisce a consolidare la dittatura e di contro organizzazioni clandestine legate alla sinistra proletaria operano nella clandestinità per provare a metterle il bastone tra le ruote. Ne viene fuori un affascinante spaccato di umanità che scatta una precisa istantanea di un paese diviso tra fascisti, sovversivi e gente che non sa da che parte schierarsi, dove il regime prende il sopravvento ma deve sempre fare i conti con gli oppositori e dove il clima avvelenato e cupo non impedisce alla gente di lottare, amarsi, ridere e, in altre parole, vivere. "Ma voler dire con questo che la strada ha perduto il suo buonumore, il gusto della cianata, significherebbe forzare la verità. Teniamo invece presente che la vita deve essere vissuta ora per ora, un giorno dopo l'altro, e settimane e mesi ed anni si rincorrono. E al cuore, vi sono mille modi per mentire. (Noi diciamo spesso cuore, ma è coscienza che intendiamo). Perciò, chi si fosse fatto un'idea dei cornacchiai schiacciati sotto il peso della dittatura, si ricreda. Non v'è stata mai, in Via del Corno, tanta bizzarria come adesso. Il piacere del pettegolezzo, della becerata e dell'intrigo infuria. È come se una volta per tutte, definitivamente, si fossero abbassate le saracinesche ai due ingressi della strada e si fosse detto buonanotte al resto dell'umanità".

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Politica e attualità
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    29 Mag, 2017
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Il limite è il cielo

Saviano si lancia nella letteratura romanzata senza abbandonare la sua peculiarità di scrittore d'inchiesta, regalandoci una storia di fantasia che non si distacca minimamente da una realtà difficile che l'autore denuncia con il solito coraggio, la consueta lucidità, il grande amore per la sua terra di cui continua ad evidenziare i problemi non per denigrarla (come stupidamente e superficialmente qualcuno continua a dichiarare) ma, al contrario, per contribuire a combattere il male che la affligge. Lo fa con uno stile pregevole, trovando il giusto equilibrio tra una prosa di prim'ordine e un gergo giovanile infarcito di coloriti termini dialettali, senza perdere minimamente eleganza neanche durante le scene più cruente e davanti alle più triviali volgarità. In uno dei quartieri più difficili di Napoli, un gruppo di adolescenti cresciuti nel mito dei grandi boss mafiosi, reali o cinematografici che siano, sognano di diventare potenti, temuti e, ovviamente, ricchi. Siamo a Forcella e loro sono Briato', Tucano, Dentino, Drago', Lollipop, Pesce Moscio, Stavodicendo, Drone e Biscottino. A capitanarli Nicolas Fiorillo, detto Maraja. Piccoli delinquenti che fin dall'infanzia seguono modelli sbagliati, che imparano a sparare guardando video tutorial su internet, che infarciscono i loro discorsi di citazioni prese da film come "Il camorrista" o "Scarface". Ragazzi cresciuti troppo in fretta, in una città in cui bisogna "nascere imparato", in cui la realtà non la conosci piano piano ma ci nasci già dentro, in strade dove uno sguardo è segno di sfida, è invasione, manifestazione di potere; dove genitori ed insegnanti non hanno nessuna autorità, vengono visti come dei falliti costretti a sgobbare per guadagnare in un mese ciò che con lo spaccio, le estorsioni, le rapine si può guadagnare in pochi minuti. La vera scuola è la strada, è lì che si può imparare tutto il necessario per diventare qualcuno. Le forze dell'ordine sembrano totalmente in balìa della criminalità, in netta inferiorità numerica, con un arsenale ridicolo in confronto a quelli dei camorristi e con a stento i soldi per mettere benzina nelle loro pantere. E quando riescono ad arrestare qualcuno vengo fischiati, insultati, strattonati da una massa solidale con i criminali. In questo contesto, Nicolas e la sua banda si barcamenano dedicandosi ad attività per niente lecite che consentono loro di comprare vestiti e scarpe firmate, smartphone di ultima generazione, gioielli, ostriche, caviale e fiumi di champagne. Ma a Maraja e soci tutto ciò non basta, loro vogliono avere il potere, vogliono il rispetto di tutti, vogliono incutere paura in chiunque li incroci sulla propria strada. Allora basta lavorare per questo o quel boss! Bisogna costruirsi una "paranza" indipendente, non appartenere a nessuno, non stare sotto a niente. "Il limite è il cielo". Ma come possono farcela dei ragazzini non ancora maggiorenni? Nicolas mente furba, spietata e dotata di un'intelligenza notevole che purtroppo incanala nella direzione sbagliata, ha le idee molto chiare. La risposta è una sola: con il terrore. "Bambini li chiamavano e bambini erano veramente. E come chi ancora non ha iniziato a vivere, non avevano paura di niente, consideravano i vecchi già morti, già seppelliti, già finiti. L'unica arma che avevano era la ferinità che i cuccioli d'uomo ancora conservano. Animaletti che agiscono d'istinto. Mostrano i denti e ringhiano, tanto basta a far cacare sotto chi gli sta di fronte. Diventare feroci, solo così chi ancora incuteva rispetto li avrebbe presi in considerazione. Bambini si, ma con le palle. Creare scompiglio e regnare su quello: disordine e caos per un regno senza coordinate".

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Gialli, Thriller, Horror
 
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    26 Mag, 2017
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Buonismo e atmosfere gotiche

Dalla Transilvania all'Inghilterra e ritorno sulle tracce di colui che non muore, il morto vivente, Nosferatu, il Conte Dracula. Il giovane avvocato Jonathan Harker viene incaricato di seguire un affare di compravendita immobiliare che coinvolge un nobile transilvano intenzionato all'acquisto di una casa a Londra. Si reca quindi nella terra del suo cliente rendendosi conto ben presto di quali orribili segreti nasconde il misterioso personaggio. Da qui ha il via una sequela di strani avvenimenti che raggiungeranno l'Inghilterra, coinvolgendo anche la fidanzata di Harker, Mina, la di lei amica Lucy, i tre pretendenti di quest'ultima e il coltissimo Dottor Van Helsing, vera figura chiave del racconto. Chi si aspetta un libro "hollywoodiano" pieno di azione e colpi di scena, di suspense e di macabri avvenimenti potrebbe subire una piccola delusione. Eventi paranormali, scene horror e atmosfere gotiche caratterizzano l'incedere della narrazione, ma incidono poco su una trama vivace ma piuttosto prevedibile e nel complesso ridondante. Il romanzo è caratterizzato da una prosa molto semplice e da pochi ma ben delineati personaggi, che si alternano nella narrazione grazie all'originale tecnica usata dall'autore, che affida il racconto a pagine di diario, missive, telegrammi e ritagli di giornale, scritti ora da questo, ora da quel protagonista, sull'onda della paura, delle impressioni, dei ricordi e delle previsioni che nascono nel loro animo man mano che la vicenda prosegue. Ciò permette una visione più ampia dei fatti, anche se fondamentalmente tutti i punti di vista finiscono per convergere verso un'idea unica e un obiettivo comune. Ciò che caratterizza veramente il libro, a dispetto del genere horror, sono invece i buoni sentimenti: amore, amicizia, rispetto, lealtà, coraggio sono i veri protagonisti della storia e questo potrebbe essere un importante punto a favore dell'opera se l'autore non avesse un po' esagerato nell'enfatizzare queste virtù fino al punto da diventare melenso. I protagonisti vengono presentati tutti come campioni di virtù, esempi di moralità privi di macchie e difetti. Ciò li rende poco credibili e li priva di quel lato umano che contribuisce a creare simpatia ed empatia. Dracula invece compare personalmente solo a sprazzi durante il racconto, e la sua figura la conosciamo attraverso le parole di chi lo combatte ma fondamentalmente non lo conosce, se escludiamo le nozioni del dotto Van Helsing che vertono per lo più sulla vita, le abitudini, i punti di forza e i punti deboli dei vampiri in generale. Del Conte, della sua vita mortale, di come sia diventato "non morto", dei suoi pensieri, del suo mondo misterioso invece ci viene raccontato poco o nulla. Eppure è proprio lui il personaggio più interessante dell'opera, quello che nasconde indicibili segreti che avrebbero meritato maggiore considerazione, quello che il lettore avrebbe desiderio di conoscere nell'intimità dei suoi pensieri. Invece Stoker, pur usando il suo nome per dare il titolo al libro, lo mette in secondo piano preferendo dare spazio ad un gruppo di ricchi e viziati borghesi di cui non smette di tessere eccessive lodi, in una lotta tra il bene e il male il cui risultato non appare mai in discussione, caratterizzata da uno stucchevole eccesso di perbenismo e di buonismo.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    10 Mag, 2017
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Dio si è scordato dei poveri

"- I negri che ha castrato erano nostri nonni o bisnonni... Il bianco viene in cerca di noi perché crede ancora che siamo suoi schiavi. - Ma I negri non sono più schiavi...- Il negro è ancora schiavo e anche il bianco è schiavo, - interruppe un tipo magro che lavorava al porto, - ogni povero è ancora schiavo. La schiavitù non è ancora scomparsa...I negri, i mulatti, i bianchi chinarono il capo. Solo Antonio Balduino rimase a fronte alta: non si sentiva schiavo, non voleva esserlo". Il Brasile di inizio Novecento visto attraverso gli occhi dei deboli, dei poveri, dei diseredati. Amado ci guida in un viaggio duro e malinconico attraverso un paese in cui la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi e la manodopera locale viene sfruttata e sottopagata da imprese straniere senza scrupoli (esplicita l'accusa in particolare nei confronti degli USA), dove la schiavitù è stata abolita soltanto sulla carta ma resta in vita, all'atto pratico, a causa della condizione di povertà, di ignoranza, di disinformazione in cui è volontariamente tenuta la maggioranza della popolazione. Nel clima di rassegnazione, disillusione e stanchezza morale che si respira un po' ovunque c'è ancora chi si rifiuta di accettare tutto ciò, opponendosi alla schiavitù economica e mentale e lottando per cercare di cambiare le cose. Per tutti però, ribelli e acquiescenti, si erge come guida il santone Jubiabà, custode della sapienza popolare e delle arti magiche, officiatore di riti religiosi e maestro di stregoneria, dispensatore di miti e di sapere. Quest'uomo senza macchia e senza tempo, pur dando il titolo al romanzo, appare saltuariamente nella storia ma ne pregna ogni pagina grazie al suo grande carisma, ad una enorme popolarità ed al carattere fortemente simbolico della sua figura. Protagonista indiscusso dell'opera è invece il negro Antonio Balduino, detto Baldo, spirito anarchico e insubordinato, assetato di libertà, insaziabile amante, gran pugile, poeta e musicista, nonché pupillo di Jubiabà. Lo conosciamo, piccolo e impertinente, alle prese con semplici giochi infantili e con il dolce rapporto di amore e timore nei confronti della zia Luisa. Scopriamo il suo lato ribelle quando, rimasto solo al mondo, fugge dalla casa dei ricchi padroni bianchi a cui è stato affidato. Lo ritroviamo, mascalzone e vagabondo per le strade più malfamate di Bahia, alla guida di una banda di malfattori diseredati. Ammiriamo le sue gesta sul ring, i suoi virtuosismi musicali, il suo successo con le donne. Seguiamo il suo percorso di crescita e viaggiamo con lui per il Brasile, sentendo montare in noi la sua stessa collera e la sua voglia di cambiamento quando constatiamo le condizioni di miseria e soggiogazione in cui vivono lavoratori e lavoratrici delle piantagioni, delle manifatture di tabacco, dei porti, delle fabbriche e dei postriboli. Ci abbattiamo insieme a lui quando ci rendiamo tristemente conto che "Dio si è scordato dei poveri". Esultiamo davanti alla sua presa di coscienza e lottiamo con lui e con i suoi compagni nel grande sciopero che viene raccontato nel finale e che rappresenta, senza dubbio, la parte migliore di questo bel romanzo che racchiude un forte messaggio di solidarietà sociale e lascia aperta la speranza perché, con la lotta e con l'unione, si possa ancora costruire un mondo migliore. "Quegli uomini, che Antonio Balduino aveva sempre disprezzato, come schiavi incapaci di reagire, avevano paralizzato tutta la vita della città. Antonio Balduino fin allora credeva che solo lui e i suoi compagni di delinquenza, tutti malandrini che vivevano con il coltello in pugno, fossero liberi, forti, e padroni della religiosa città di Bahia. Ma questa convinzione lo aveva reso triste e lo aveva spinto quasi al suicidio il giorno in cui era dovuto andare a lavorare nel porto. Adesso, invece, Antonio sa che le cose non stanno così. I lavoratori sono schiavi, ma lottano per la libertà”.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    30 Aprile, 2017
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Colonialismo e voglia di rivoluzione

Anni Quaranta. I britannici occupano l'Egitto con la scusa di voler portare civiltà, progresso, modernità. Churchill parla addirittura di dovere morale, quasi stesse compiendo un vero e proprio sacrificio. In realtà, come sempre è avvenuto e ancora avviene con il colonialismo, le vere ragioni sono molto meno nobili e più utilitaristiche: depredare le risorse, soggiogare la popolazione, controllare ogni settore del paese. Cosa fanno gli egiziani? Le alte sfere, primo fra tutti il sovrano in persona, sembrano non vedere, troppo impegnati a flirtare con gli occupanti, a frequentare i salotti più prestigiosi in compagnia di notabili europei, a sedere amichevolmente allo stesso tavolo di chi usurpa la loro terra e ne disprezza la razza, la cultura, la storia. La povera gente pare per lo più inerte, impotente, rassegnata. Ma un sentimento nazionale sembra cominciare a farsi strada nel cuore e nella mente della popolazione, voglia di libertà, indipendenza e democrazia cominciano ad affacciarsi, qualcuno inizia a lavorare nell'ombra sfidando sia gli stranieri sia quella parte di egiziani che lasciano che la propria patria venga violentata. In tale clima si dipana la trama di questo bel romanzo di 'Ala Al-Aswani. L'autore è bravissimo nel gestire gli equilibri tra la spietata denuncia sociale e politica e la delicatezza di una prosa sempre pulita, armoniosa ed elegante. La storia generale del paese viene narrata attraverso gli occhi, i pensieri e le vicende di uno svariato numero di personaggi, le cui storie private appassionano il lettore e scatenano nel suo animo un insieme di sentimenti contrastanti. Tutto ruota intorno all'Automobile Club del Cairo, un microcosmo in cui convergono soggetti eterogenei che rappresentano benissimo tutte le classi sociali, le appartenenze politiche e religiose, i diversi strati culturali del Paese, gli usi, i costumi e le convenzioni. Nell'ampio mosaico di gente che popola il romanzo spiccano gli Hamam, discendenti di una ricca e prestigiosa famiglia dell'alto Egitto andata in rovina. Dal generoso ‘Abdelaziz alla dolce Ruqeya, passando per il loro egoista primogenito Said e per il tonto Mahmud. Ma le figure più importanti sono senza dubbio la bella e intelligente Saliha e il coraggioso Kamel, che incarnano la voglia di riscatto, emancipazione, progresso che pian piano si diffonde nell'animo della popolazione e che, all'inizio del decennio successivo, porterà ad una storica rivoluzione che abolirà la monarchia in favore di una Repubblica anti-imperialista e, almeno nelle intenzioni, progressista.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    06 Aprile, 2017
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Un mucchietto di braci

"Tutti sono scomparsi; che senso può avere, a questo punto, la vendetta?... Ecco la domanda che leggo nei tuoi occhi. E io ti rispondo con questa sola parola: vendetta! È stata lei a tenermi in vita, in tempo di pace e in tempo di guerra, nei quarantun anni trascorsi, è grazie a lei che non mi sono ucciso, non sono stato ucciso e non ho ucciso - così, almeno, ha voluto il destino. Adesso la vendetta è arrivata, come ho sempre desiderato. La vendetta consiste semplicemente nel fatto che sei venuto da me, attraversando il mondo in guerra e i mari infestati di mine, sei venuto fin qui, sul luogo del tuo misfatto, per rispondermi, per chiarire a entrambi la verità. Ecco qual è la mia vendetta. E adesso mi risponderai". Superbo nella prosa, affascinante nei contenuti, elegante nel lento incedere del racconto, Sandor Marai ci delizia con una storia delicata e seducente, incentrata sui sentimenti preponderanti dell'animo umano: l'amicizia, l'amore, l'orgoglio. Il racconto parte sornione, procede adagio tirando fuori ricordi, aneddoti, avvenimenti che, come piccole tessere, pian piano compongono quel mosaico che ci permette di capire. Ma capire cosa? Capire chi sono Henrik e Konrad e cosa c'è dietro l'amicizia che li lega. Un sentimento indissolubile, disinteressato, che irradia una luce mansueta, che non chiede soccorso e non esige sacrifici. Due esseri così diversi per carattere, origini sociali e disponibilità economiche, eppure incredibilmente affini, uniti, indivisibili. Capire perché Konrad scompare all'improvviso senza dare spiegazioni, senza dare più notizie, senza che l'altro si aspettasse neanche lontanamente un simile gesto. Capire perché Henrik lo abbia aspettato per quarantun anni, sicuro che l'amico sarebbe tornato e che ci sarebbe stata l'inevitabile resa dei conti. Ed eccoci qua con i due amici, in un salone illuminato dalla luce fioca delle candele e scaldato dal fuoco di un camino, accomodati in poltrona a sorseggiare del buon vino. Ad ogni sorso una domanda, un sospetto, un perché. Più che un confronto è un monologo, Henrik parla, sciorina ipotesi, fa domande e si risponde da solo. Konrad ascolta, annuisce, scuote la testa, tace. Ma i suoi non sono normali silenzi, sono delle vere e proprie risposte. La matassa si dipana, la situazione è ormai chiara, come spesso accade quando due amici si separano c'è di mezzo una donna. Ma c'è anche altro. C'è tutto ciò che ci si può aspettare da un buon libro. Ci sono le emozioni che ogni riga sa infondere nell'animo del lettore. C'è il gusto dolce e amaro dei ricordi. C'è la capacità di entrare nella mente dei protagonisti. Ci sono la vita e la morte, l'amore e l'amicizia, la lealtà e il tradimento. E infine ci sono le braci. "Con gesto lento butta il sottile volumetto nella brace. La brace si arroventa con bagliori foschi, accoglie la sua vittima e risucchia pian piano, fumando, la materia del libro, mentre dalla cenere si levano minuscole fiammelle. I due vecchi le osservano immobili, il fuoco si anima, sembra quasi che si rallegri per quella preda imprevista, ansima, scintilla, la fiamma balza verso l'alto fondendo la ceralacca del sigillo, e il velluto giallo brucia emanando un fumo denso e acre. Una mano invisibile sembra sfogliare le pagine color avorio; d'improvviso tra le fiamme appare la scrittura di Krisztina - le lettere aguzze e sottili vergate un tempo sulla carta da una mano ormai diventata polvere -, poi subito tutto si scompone e si dissolve in cenere come la mano che un tempo riempì quei fogli. Presto non rimane che un mucchietto di braci lucide e nere, come un pezzo di raso del colore del lutto".

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