Opinione scritta da antonelladimartino
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Umano, anche troppo
Avevo già letto diverse opere sulla mafia, compresi il libro intervista di Michelle Padovani e il saggio di Pino Arlacchi citati in questo stesso libro. Avevo già visto anche diversi film. Questa è la prima storia a fumetti, una novità che mi ha consentito di seguire gli stessi avvenimenti da una prospettiva diversa, mi ha aiutato a collegare diversi “fili” sparsi e mi ha insegnato anche qualcosa di nuovo. Inoltre, la storia è ben scritta, ben disegnata, ben strutturata.
La prima parte non è molto scorrevole, ma probabilmente è la complessità stessa della storia rende difficile la narrazione. Le tavole acquarellate, molto belle e realizzate con cura, aiutano a caratterizzare i personaggi e l’ambientazione. Avrei preferito l’utilizzo di caratteri più leggibili, ma nel complesso la parte grafica mi sembra di qualità eccellente: immagini e parole si fondono insieme per raccontare molto di più su un passato recente che troppi non conoscono, conoscono in modo confuso o hanno dimenticato.
Ottima anche la scelta dell’ispirazione ai pupi e ai cunti (il cunto è l’antica forma di racconto orale, da cui è nato anche il racconto fiabesco scritto che conosciamo oggi) di Mimmo Cuticchiu, che consente di agganciare la narrazione a un filone più ampio. Ho apprezzato in modo particolare l’approfondimento delle storie familiari dei protagonisti, perché la società non è altro che “la famiglia della famiglia”.
La storia non è leggera e nemmeno a lieto fine: ho assegnato il punteggio massimo per la piacevolezza valutando il modo in cui è stata raccontata. Un ottimo lavoro, da non perdere.
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Chi siamo?
Sì, il film è diverso: ha una trama semplice e lineare e include elementi appartenenti ad altre opere di Dick. Il libro invece, dalla struttura molto complessa, si differenzia da altre opere dello stesso autore per l’atmosfera cupa e la mancanza di ironia. La domanda sottintesa, che tormenta i personaggi e guida la narrazione, riguarda la nostra essenza: chi siamo?
Il protagonista principale del libro, Rick Deckard, è uno sbirro senza fascino, un piccolo borghese che nutre banali ambizioni sociali, incastrato in un matrimonio infelice. Un uomo comune, insomma. Il suo lavoro è dare la caccia agli androidi che diventano pericolosi per la società. Gli androidi o replicanti che dir si voglia sono organismi “non vivi” perché mai nati, dalle capacità razionali elevate, ma poveri di emozioni.
All’inizio Deckard teme di confondere androidi e umani schizoidi, ma nel corso della storia ci accorgiamo che la differenza è sempre impalpabile: tra memorie fasulle degli androidi ed emozioni fasulle negli umani (che utilizzano macchine che regolano l’umore) non è facile distinguere un cacciatore da una preda.
Chi siamo? Nel corso della narrazione scopriamo le differenze più significative: una di queste è l’amore per gli animali. Gli animali sono diventati ormai una rarità sulla terra, quindi il loro valore, economico e affettivo, è cresciuto a dismisura. Gli androidi non riescono ad amare gli animali, gli umani autentici invece li amano, li desiderano, li usano come testimonianza dello status sociale raggiunto. Ma anche questa differenza si rivela inquietante: l’amore è interessato, si mescola troppo all’ambizione sociale. Un animale finto assomiglia alla nostra borsa firmata fasulla, quindi gli animali ci rendono differenti, ma non migliori degli androidi.
Chi siamo? Un’altra differenza, che torna anche nel film, è la durata della vita: un androide vive (ammesso che questa sia vita) soltanto quattro anni. La Rachel del libro, l’amante androide dello sbirro, dice che “è la cosa che impedisce agli umani di scappare e andare a vivere con un androide”.
Chi siamo? La scatola empatica del libro, un dispositivo che unisce gli uomini in un’esperienza collettiva di tipo mistico, nel film non c’é, ed è un peccato, perché la capacità di utilizzarla è un’altra importante differenza.
L’unico personaggio che nel libro conserva un briciolo di umanità “concreta” è John Isidore, un uomo malato, un “cervello di gallina” dalle capacità cognitive molto scarse, che oltre ad amare gli animali si innamora di una androide e usa la scatola empatica. Alla fine della storia, Isidore viene privato di tutto: gli androidi uccidono gli animali, lo sbirro uccide gli androidi e la scatola empatica si rivela una truffa. E Deckard? A lui rimane una moglie contenta di rivederlo, una tazza di caffè e un rospo artificiale: l’esistenza tipica di un americano medio.
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Mondi folli, mondi reali
Ho l'onore di presentarvi un romanzo di fantascienza stravagante e geniale, complesso e ironico, che svela e deride senza pietà i lati peggiori della società americana degli anni cinquanta.
Si parte da un interrogativo vecchio di secoli, non solo nella storia della filosofia: il mondo che ci circonda esiste o è soltanto un’illusione, creata per chissà quale motivo? Potrebbe essere lo scherzo di una divinità maligna per divertirsi alle nostre spalle, oppure, come in Matrix, un’illusione collettiva creata da macchine intelligenti. Primo Levi una volta aveva scritto (non ricordo dove, chiedo scusa) che non c’è modo di trovare una risposta sicura a questo interrogativo, ma non vale la pena di prenderlo sul serio. Sono d'accordo, ma può anche essere un'ottima chiave di lettura, utile per indagare da un’angolazione insolita il nostro mondo (reale?).
In questo suo lavoro, uno dei più divertenti, Philip Dick ha messo in scena una serie di mondi collettivi, più o meno illusori, creati da un piccolo gruppo di esseri umani ridotti in coma dopo un incidente, un assortimento interessante scelto tra esemplari della stessa nazionalità dell’autore.
Creare dal nulla un mondo decente, però, è un compito adatto alle divinità, gli uomini sono costretti a lavorare sul materiale esistente e il lavoro non riesce bene comunque. Per capirlo, basta considerare per esempio il capolavoro creato da un vecchio soldato bigotto dell’epoca maccartista: la terra è un’enorme palla al centro di un misero universo, composto da minuscole stelle, Inferno e Paradiso. Al centro del cielo domina invece l’enorme occhio di Dio, che controlla e vede tutto, punendo all’istante i peccati e premiando con le dovute caramelle tutte le buone azioni. Un mondo assurdo, che per molti uomini vissuti in quell’epoca è stato anche l'unico mondo reale.
La fantascienza non è fuga dalla realtà, anche perché dalla realtà non si può fuggire. Purtroppo.
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Un mostro banale e intelligente
Giorgio Pellegrini è il personaggio principale e la voce narrante del romanzo: un cinico senza sentimenti, senza spessore, volitivo, intelligente e determinato. Mi è capitato spesso di leggere commenti negativi (scritti da critici non qualificati) su questo bel libro di Carlotto, basate proprio sulla negatività di questo personaggio. Sono commenti che sorprendono e fanno riflettere. Certo, il personaggio è odioso, uno dei più odiosi che io abbia mai incontrato tra le pagine dei libri, ma sono dettati solamente dall’emozione, e se non “ci azzeccano” con la qualità del romanzo, possono testimoniare sulla bravura dell’autore, che ha costruito un vero mostro banale nella sua malvagità.
L’ambiente in cui vive il protagonista non è migliore di lui, che non è nato così bastardo: in gioventù è stato un cazzone e ha commesso un grave errore, ma poi ha imparato dall’esperienza ed è diventato un delinquente completo e un assassino efficiente, riuscendo infine a riabilitarsi.
Questa fiaba nera si svolge nel Nord Est italiano, ma secondo me potrebbe svolgersi con minime differenze anche in altre regioni della nostra Italia: da Palermo ed Aosta, Giorgio Pellegrini riuscirebbe comunque a raggiungere il suo lieto fine.
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