Opinione scritta da Cristina72
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"Un bel popolo siamo!”
Romanzo incompiuto - doveva essere in cinque atti come una sinfonia, ma la scrittrice, deportata ad Auschwitz, non ebbe il tempo di finirlo – consta di due sole parti: la prima è quasi una cronaca in presa diretta dell'entrata dei nazisti a Parigi e il conseguente, disperato esodo dei parigini di ogni estrazione sociale, la seconda ha invece come sfondo un villaggio francese occupato dai tedeschi, ospiti non invitati nelle case degli abitanti, e l'idillio amoroso tra un ufficiale tedesco ed una donna francese.
La prosa è fluida, arguta, elegante (si avverte chiaro l'influsso di Proust), e c'è l'urgenza di raccontare persone e cose mettendo nero su bianco idee e sensazioni proprie ed altrui, con un'analisi psicologica degna di nota.
Non ci sono eroi, ma solo gente più o meno nobile, più o meno meschina, che si arrangia di fronte ad una guerra che mette a dura prova la forza e la dignità di tutti.
Il lettore osserva i fatti attraverso continui cambi di prospettiva che movimentano la narrazione, anche se la mancanza di riferimenti ai crimini di guerra dei soldati della Werhmacht e i pochissimi accenni alla persecuzione degli ebrei non danno una visione del tutto esaustiva del periodo storico.
Sembra una guerra dove i tedeschi, vincitori, prendono possesso del paese vinto senza troppo infierire:
“I tedeschi... branco di carogne... Però, dobbiamo anche essere giusti... E' la guerra...”.
La Francia sottomessa al nemico è fiera solo in apparenza: la sensazione generale e inconfessata della maggior parte è che in pugno alla Germania si sta al sicuro da pericoli forse maggiori.
Del resto, la vita fa il suo corso nonostante tutto: lo si vede dal risveglio della natura a primavera e da quello dei sensi: “Nemici? Certo... Ma uomini, e giovani...”.
La storia d'amore, anche se tutto sommato splendidamente delineata, assume a volte contorni da romanzo rosa, ma gli appunti della stessa autrice riportati alla fine del libro rendono abbastanza l'idea dei suoi piani e di un lavoro ben lontano dall'essere terminato.
Nei capitoli che ci sono pervenuti pochi personaggi saranno capaci di conservare la propria libertà interiore, e le pagine più forti sono quelle che descrivono una quotidianità sconvolta da fatti drammatici e straordinari dove uomini e donne lottano solo per la sopravvivenza, estranei ad atti di eroismo e solidarietà:
“...in tutti, ricchi o poveri che fossero, confusione, viltà, vanità, ignoranza! Un bel popolo siamo!”.
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"Io sono un uomo, Eccellenza!"
A dispetto del titolo un po' lugubre, “Anime morte” è un libro carico di ironia, beffardo verso l'intero sistema sociale della Russia ottocentesca, un tantino noioso a volte, per un eccesso di digressioni che forse l'autore non ha fatto in tempo a sfoltire.
L'opera, incompiuta, doveva essere la prima di un “poema in prosa” in tre parti e non manca di capitoli magistralmente scritti, caratterizzati da un'arguzia che lascia intendere senza dire, che lusinga per canzonare, oltre che da pagine di interesse gastronomico non irrilevante, tra pranzi a base di storione, pasticcini ripieni, salmone, caviale e ogni altro ben di Dio innaffiato da vodka a cui i vari personaggi, anche quelli oppressi dai debiti, difficilmente rinunciano (lo spirito di ospitalità russo del tempo sembra davvero impareggiabile).
Seguiamo il protagonista Cicikov - “un uomo molto ammodo, comunque lo si rigirasse” - attraverso il suo viaggio a caccia di anime morte “in buchi sperduti, in angoletti remoti dell'Impero” dove pigrizia e apatia vanno per la maggiore, luoghi lontani dai fasti di Mosca e Pietroburgo ma non meno corrotti.
“Anime” erano i contadini servi della gleba che lavoravano per i proprietari terrieri, e acquistare da questi ultimi quelli deceduti ma ufficialmente ancora in vita in base all'ultimo censimento sembra a Cicicov un affare vantaggioso, sebbene ai limiti della legalità.
La sua idea è quella di ipotecare le anime passate a miglior vita, una volta venutone in possesso in cambio di pochi rubli, per comprare terreni, realizzando così il sogno di diventare proprietario di una discreta tenuta.
Gogol descrive paesaggi, ambienti, persone e cose infondendo a tutto l'insieme un soffio vitale, trasformandoli in qualcosa che il lettore ha quasi l'impressione di avvertire con i cinque sensi.
Ne esce un gustoso ritratto d'epoca della Madre Russia e dei suoi figli, dai toni talvolta un po' enfatici e moralistici (soprattutto nell'ultima parte) ma di grande efficacia quando lo scrittore “castiga ridendo mores”.
Il romanzo è anche un interessante viaggio nel tempo, tra usi e costumi che non esistono più e vizi sorprendentemente attuali, connaturati all'essere umano.
Cicicov è fondamentalmente un briccone neanche tanto intelligente, è vero, ma chi è senza peccato...
“Tutta la mia vita è stata un vortice turbinoso o una nave fra i marosi, in balia dei venti. Io sono un uomo, Eccellenza!”.
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“Lasciatemi stare, perché mi offendete?”
Gogol' è un Maestro della letteratura e lo dimostra in un racconto perfettamente cesellato che si legge in un'ora e lascia attoniti, col sorriso sulle labbra e un senso di pena nel cuore.
Racconta di una solitudine assoluta nel gelo pietroburghese con un'ironia sottile e ben calibrata che stempera ad arte i tratti drammatici della storia, esaltandone per paradosso la tragicità.
Akakij Akakievic Basmackin è un umile impiegato con mansioni da copista, felice a suo modo e zelante nel lavoro fino al ridicolo:
“Si metteva a letto sorridendo in anticipo al pensiero del domani, di quel che l'indomani Dio gli avrebbe mandato da copiare”.
Basmackin è innocuo e di poche pretese, ma sembra che la vita si diverta a tormentarlo, proprio come i colleghi che non perdono occasione per burlarsi di lui con scherzetti di bassa lega:
“Lasciatemi stare, perché mi offendete?”, è la sua unica, sporadica protesta... Il lamento di un agnello tra i lupi.
Il fatto è che il povero Basmackin dà l'impressione di essere nato per quello: per essere tormentato da uomini e cose.
Lo seguiamo per le vie di Pietroburgo, perfettamente descritte tra squallide scale di servizio e appartamenti dei quartieri alti, tra proletari dediti all'alcol e tronfi burocrati che hanno fatto carriera.
La necessità di un cappotto dà una sferzata alla sua misera esistenza, funziona da diversivo e da sprone: con qualche sacrificio, starà al caldo e si libererà della logora “vestaglia” oggetto dei lazzi di tutti gli altri impiegati.
Le sue precarie condizioni economiche lo portano ad una serie di tragicomici buoni propositi (“procedere quasi in punta di piedi, per non consumare prima del tempo le suole”), e lo scrittore, attraverso il motteggio, ci dà come meglio non si potrebbe la misura dello stato miserabile dell'uomo: il pensiero del nuovo cappotto lo rende più ardito e colma un vuoto, come se “una gradita compagna avesse acconsentito a percorrere al suo fianco il cammino della vita”.
La svolta surreale sorprende in un contesto così tanto realistico, ma non fa perdere mordente alla storia, che resta quella di un omicidio a più mani, di un colpo mortale inferto dal più forte al più debole, tra indifferenza e meschinità.
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Vivere o morire
Il romanzo non mi ha entusiasmato, per una carenza sostanziale di contenuti originali.
Si legge e si dimentica, si fa un po' fatica ad interessarsi alla trama, lenta e sfilacciata come i pensieri di Betty, la protagonista.
Il profilo psicologico che lo scrittore ne traccia è abbastanza preciso: Betty prova un certo gusto a voltolarsi nel fango, sbronzarsi e accettare le avances di tutti gli uomini per narcotizzare il dolore.
La separazione dal padre, l'unico uomo da cui si sia sentita autenticamente amata, segna in qualche modo la sua esistenza, condannandola alla perpetua ricerca di un punto d'appoggio:
“Era sporca, faceva pietà, e non c'era nessuno, nessuno al mondo”.
D'altronde, sgualdrina e alcolizzata lo è forse per inclinazione naturale, con una certa tendenza a distruggere o ad autodistruggersi.
Se sbronza e ferita è come una bambina inerme (impeccabile la descrizione dello stato abulico dovuto ai fumi dell'alcol), lucida e ritemprata cambia decisamente registro, diventando una predatrice decisa a prendersi ciò che ritiene le spetti per diritto.
Betty non è donna da mezze misure: vivere o morire, insorgere o arrendersi.
Di grande effetto la sua esile figura in penombra che, un dito sulle labbra, impone un silenzio complice all'uomo che ruba ad un'altra per una sorta di istinto di conservazione.
Lei è tutta lì, ribelle, seducente, viziosa...
Ma resta un'impressione di incompiutezza, qualcosa di non ben amalgamato né approfondito, come se l'autore si fosse limitato ad assemblare idee e immagini senza lavorarci troppo sopra, sintetico per un verso, prolisso per un altro.
Passabile tutto sommato, ma di Simenon si può leggere certamente di meglio.
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- sì
- no
Ciò che è vero non è verosimile
“Dicono che recitare è soltanto finzione. Questa finzione è la sola realtà”.
Parole di Julia Lambert, la migliore attrice d'Inghilterra, uno fra i personaggi più enigmatici e affascinanti usciti dalla penna di Maugham.
Il romanzo procede su differenti livelli di lettura: c'è il punto di vista privilegiato del lettore, che sa esattamente cosa passa per la testa di Julia (delizioso il contrasto tra i suoi pensieri e ciò che dichiara a voce alta), e c'è lo sguardo dei suoi tanti ammiratori, non troppo diverso da quello di marito, amici e amante.
Chi è Julia Lambert?
Si potrebbe considerarla a buon diritto una donna narcisista e superficiale, capace di imitare alla perfezione una vasta gamma di sentimenti (“Tu non esisti”, è l'accusa che un giorno le rivolgerà il figlio).
Ma Julia è molto più di questo: è un'eletta con il dono della recitazione, dono che le permette di scrollarsi di dosso qualunque sofferenza gli altri (i “commedianti” della vita) possano infliggerle.
Il suo talento è uno strumento di libertà che le consente di elevarsi al di sopra delle miserie umane, trasformandole in arte.
Julia è un'intoccabile - lo capirà a sue spese chiunque cercherà di metterle i bastoni fra le ruote - ed è una vincente, che calca le tavole del palcoscenico smascherando senza pietà il bluff di una realtà che ha tentato di smascherarla.
Con una regola inderogabile: sul palco i sentimenti devono sembrare veri ma non devono assolutamente esserlo, altrimenti non saranno verosimili.
Splendide le ultime pagine, affrancate dall'amaro fatalismo pirandelliano e cariche di gioia di vivere, esaltate ed esaltanti:
“Cos'è l'amore in confronto ad una bistecca con le cipolle?”.
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"Piccola mia...".
“O mia povera bambina con l'anima pesta. Io ti amavo. Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo”.
Può una perversione esprimersi con il linguaggio dell'arte e uscirne in qualche modo sublimata? Certo che sì, come ha dimostrato Nabokov nel suo celeberrimo romanzo.
Un po' troppo prolisso per essere definito stilisticamente perfetto, “Lolita” possiede tuttavia quella bellezza immortale che solo un grande scrittore può conferire ad un'opera.
Il tono di molte pagine è sarcastico, crudele, talvolta di un cinismo autoflagellante:
“Com'era carino portarle il caffè e poi negarglielo finché non aveva compiuto il suo dovere mattutino!”.
Pochi hanno osato scorgere anche solo un briciolo d'amore nella pulsione sessuale di un adulto verso una dodicenne, sia pure “ninfetta” già votata ai piaceri della carne, eppure la struggente dolcezza di certi passaggi, goccia distillata di un sentimento puro e disperato che sembra affiorare dal fango, finisce per incantare il lettore:
“... e la guardai, la guardai, e seppi con chiarezza, come so di dover morire, che l'amavo più di qualsiasi cosa avessi visto o immaginato sulla terra...”.
E' necessario sospendere ogni giudizio morale nei confronti di inaccettabili appetiti per scrutare gli oscuri recessi dell'anima, dove si annidano i più amari e inconfessati tormenti, dove Bene e Male si mescolano indissolubilmente.
I ruoli di carnefice e vittima si alternano in un vortice perverso mentre la bambina spezza senza pietà il cuore dell'uomo indegno che si prostra ai suoi piedi e le spezza la vita:
“E c'erano momenti in cui sapevo come ti sentivi, e saperlo era l'inferno, piccola mia”.
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Tutte quelle vite...
“Tutte quelle vite”, disse. “Tutte quelle storie che non sapremo mai”.
Le storie che ci racconta Elisabeth Strout hanno il sapore dolceamaro della vita vera, sono frammenti di esistenza che fanno male e confortano.
Olive Kitteridge è presente in ogni racconto, a volte come protagonista altre come semplice comparsa, ma sempre emana da lei un'energia che la distingue dagli altri, capace com'è di slanci improvvisi di umanità alternati a battute al vetriolo nei confronti del prossimo.
Un marito buono ed affabile, un grande amore che rimane platonico, un figlio chiuso in se stesso che non le perdonerà la sua condotta di madre e le sue mancanze, come quella di non riuscire a chiedere mai scusa: sta racchiuso in tutto questo il nucleo affettivo di Olive, e la sua fragilità.
Siamo a Crosby, cittadina del Maine, e conosciamo i suoi abitanti attraverso l'occhio curioso della scrittrice che sbircia sempre più a fondo fino a toccare cervello, nervi e cuore dei suoi personaggi.
Sappiamo come vivono, ciò che sentono e ciò che hanno vissuto e poi li scopriamo dal di fuori, con l'opinione non sempre lusinghiera che ne hanno amici e conoscenti.
Ed è proprio in questi momenti che avvertiamo, insieme ad Olive, “la forza disperata” con cui ogni essere umano lotta per ottenere ciò di cui ha bisogno, la sua fatica di stare al mondo:
“Chi credevo che fosse? (E poi: e io? Chi credevo di essere?)”.
La prosa della Strout procede gentile e tagliente, senza sbavature sentimentali. Finita una storia, si sente l'esigenza di passare subito ad un'altra per avvertire ancora l'odore di caffè e ciambelle del bar vicino al molo, sbirciare nelle vite degli altri e riconoscersi (talvolta con sgomento) in qualcuno di loro.
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Nessuno conosce mai veramente qualcuno
E' l'America contemporanea in particolare e l'umanità in generale ciò che la Strout scruta con occhio acuto e compassionevole, mentre racconta una storia che è un mix sapiente di quotidianità e profonde riflessioni.
“Nessuno conosce mai veramente qualcuno”, si legge nelle prime pagine, e sembra essere proprio questa la peculiarità del romanzo: ciascun personaggio è descritto in modo diverso a seconda del punto di vista di chi lo giudica e sta al lettore afferrarne la vera essenza.
Si entra subito in empatia con Bob, il fratello imbranato e strapazzato dalla vita, simile ad un grande orso di peluche, così diverso dal brillante Jim, quello che ce l'ha fatta.
C'è chi ha vinto e chi ha perso, fino a quando si scopre che qualcuno ha barato e che il passato presto o tardi presenta il conto: “Niente è mai tanto tempo fa”.
Situazioni e stati d'animo sono resi con realismo perfetto sullo sfondo di una cittadina puritana del Maine, lacerata tra diffidenza e tolleranza di fronte ai suoi nuovi abitanti provenienti dalla Somalia.
Poi c'è New York, affrescata in modo impeccabile, e la bolla immobiliare che di lì a poco scoppierà mettendo in ginocchio l'economia di una nazione “buona e generosa per un verso, sprezzante e crudele per altri”.
L'amore fraterno e coniugale è il sentimento predominante e attraversa la narrazione come l'unica certezza, come una corda robusta che si assottiglia ma non si spezza indicando sempre la direzione da prendere.
Andare oltre i pregiudizi senza fermarsi alle apparenze, accettare il semplice fatto che non esiste un modo perfetto di vivere e prendere consapevolezza del “carattere prismatico del nostro sguardo sugli altri” è il messaggio che passa tra le righe, anche tramite i pensieri di un uomo somalo che prima di arrivare negli Stati Uniti aveva immaginato che la neve fosse fredda e bianca:
“Ma la neve non era così. Era silenziosa, intricata, pieno di mistero”.
E' un romanzo da assaporare pagina dopo pagina, intenso e corroborante. Farà del bene a chi lo legge.
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Sull'orlo di un dirupo
Non mi sembra un romanzo perfetto, né per stile né per contenuti, e tutto sommato non è troppo lontano dalla verità chi lo ritiene sopravvalutato.
C’è Holden Caulfield, il protagonista, adolescente di buona famiglia in crisi esistenziale espulso dall’ennesima scuola prestigiosa, e c’è la New York degli anni Quaranta, caotica, accogliente, corroborante come un whisky e soda.
Lo stile è quello informale e menefreghista di certa letteratura americana (Twain, Kerouac, Fante), ma decisamente meglio di Salinger hanno fatto i suoi tre connazionali.
Lo scrittore riesce a colpire nel segno con l'arguta descrizione di certi personaggi e col messaggio finale, che trasmette senza scadere nel melenso la forza salvifica dell’amore più puro, ma le ripetizioni si sprecano: non passa pagina senza che qualcuno o qualcosa venga definito “maledetto”, “stramaledetto”, “dannato”, mentre gli “eccetera eccetera” spuntano ogni due righe e frasi della serie “mi lasciò secco”o “è deprimente” sono spalmate ovunque.
Il tutto alla lunga stanca e fa perdere spontaneità e freschezza alla narrazione, che in certe parti appare anche un po’ ruffiana e autoreferenziale.
L’immagine del ragazzo burbero e dal cuore d’oro, allergico all’ipocrisia sociale, rischia di inciampare in pieno proprio in quella stessa ipocrisia quando l’io narrante se ne esce con riflessioni del tipo: “Io sono di un’ignoranza crassa, ma leggo a tutto spiano”, oppure, intenerito da due suore povere, “Cominciavo a pentirmi di aver dato soltanto dieci dollari per la questua”.
Anche le riflessioni su Gesù e la religione, che fecero tanto scalpore all'epoca in cui il libro uscì, suonano più banali che anticonvenzionali.
La paternale ricca di buon senso che gli propina un professore mezzo sbronzo, forse pederasta, è una fra le parti più significative del libro, e sono gustosi certi siparietti vagamente demenziali con compagni di scuola detestabili e con eccentrici tassisti newyorkesi.
Cosa vuole Holden?
Lo confida alla sorellina Phoebe, bambina saggia e intelligente: “Sarei soltanto l'acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l'unica cosa che mi piacerebbe fare”.
Acchiappare al volo sull'orlo di un dirupo bambini che giocano in un campo di segale e che corrono senza guardare, salvarli per salvare se stesso, in definitiva, nel passaggio insidioso dall'infanzia all'età adulta.
Il clou del romanzo sta nel rapporto del protagonista con la piccola Phoebe, che con la sua purezza infantile riesce ad “acchiappare” in corsa il fratello.
Grazie a lei Holden capirà che l'amore perfetto è quel calore trasmesso da chi si preoccupa di metterti un berretto in testa se inizia a piovere, e sentirà la gioia semplice e infinita di veder felici le persone che ami.
Mentre fanno un giro su una giostra, per esempio, senza un brutto pensiero al mondo:
“Dio, peccato che non c’eravate anche voi”.
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Nebbia
“I loro sguardi si incrociarono per la prima volta, ansiosi, pieni di stupore, incapaci di staccarsi l'uno dall'altro”.
Riconoscersi per la vita e per la morte, incontrarsi e scontrarsi nella nebbia fitta, sullo sfondo di un mare verde velenoso, mentre si fa largo la consapevolezza che nessuna forza di volontà potrà arrestare il corso degli eventi.
Non è la storia di un amore tormentato, ma Simenon usa più volte per vezzo stilistico una fraseologia dal sapore romantico per raccontare il punto di svolta nella vita di Louis Maloin, scambista alla stazione marittima di Dieppe.
Dall'alto della sua cabina Maloin fuma la pipa e beve il caffè preparato dalla moglie per tenersi sveglio nelle ore di lavoro, controlla l'arrivo dei treni e osserva l'attracco dei traghetti provenienti dall'Inghilterra col loro carico di uomini e merci.
Vede anche altro, una notte, qualcosa che interrompe il corso monotono dei suoi pensieri e della sua esistenza.
Chi è quell'inglese con la faccia scavata e lugubre? Chi dei due diverrà la preda e chi il predatore? “Non sapeva niente, ma lo conosceva!”
Una valigetta piena zeppa di denaro che è costata la vita ad un uomo può avere lo stesso effetto travolgente di una passione malata, e può fare affiorare un sorriso maligno anche sul volto più bonario.
In un'atmosfera cupa e carica di presentimenti lo scrittore belga tratteggia il ritratto di un uomo perbene trascinato dalla seduzione del male, che fa presa sulle sue piccole e grandi frustrazioni.
E' una guerra tra poveri (“Disgraziati, poi, non lo erano forse tutti?”), un bubbone che deve scoppiare per lasciare spazio al pentimento, alla ritrovata lucidità, con il ricordo di una quotidianità che da fonte di insofferenza assume i contorni nostalgici di un bene perduto.
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Cos'è questo romanzo?
“Cos'è questo bambino?”, si chiede Harriet, la protagonista, pochi mesi dopo la nascita di Ben, il suo quinto figlio.
Allo stesso modo viene da chiedersi: “Cos'è questo romanzo?”.
L'intento è forse quello di raccontare una società che rifiuta ciò che oltrepassa il confine dell'umano, ma il messaggio non arriva, sia per certi passaggi inverosimili sia per lo scarso approfondimento psicologico del figlio “alieno”, che rimane un personaggio irrisolto.
“La gente di Ben aveva vissuto sottoterra, ne era certa, in caverne buie illuminate da torce”.
Ben è violento e anaffettivo, più umanoide che umano, con un aspetto di gnomo malefico.
E' un elemento destabilizzante che riesce a minare dalle fondamenta una famiglia solida e felice ancor prima di nascere: “Il nuovo feto la stava avvelenando, disse”.
La trama si sviluppa in modo abbastanza prevedibile, con uno stile discreto a servizio di un contenuto piatto e a tratti insulso, in cui gli elementi di sapore fantascientifico stridono col resto della narrazione.
Gli scrupoli della madre, che sacrifica il benessere degli altri quattro figli per tenersi in casa Ben, hanno poco a che vedere con l'amore materno e sembrano piuttosto dettati da una generica pietà, oltre che dal “cocente desiderio di saperne di più su di lui, su quell'essere che aveva messo al mondo portandolo in grembo otto mesi a costo di morirne”.
Da un certo punto in poi il libro scivola nella banalità senza approdare a nulla che sia degno di nota: non un guizzo emotivo, né un avvenimento lieto o tragico che smuova un po' le acque.
Né carne né pesce, insomma: chi si aspetta la profondità di un buon romanzo (stiamo parlando di una scrittrice premio Nobel) o quantomeno i brividi di un fanta-horror rischia di restare deluso.
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Troppo umani, troppo veri
A volte la scrittura è l’elaborazione di un dolore proprio o altrui da cui lo scrittore riesce a prendere le distanze, trasformandolo in frutto prelibato.
E' il caso di questa raccolta di racconti, piccolo gioiello della letteratura contemporanea in cui la perfezione dello stile - serio o scanzonato in varie modulazioni - si adatta a personaggi e situazioni come un abito dal taglio impeccabile.
Intensa la prima storia, quanto può esserlo quella di una donna annientata, madre di tre bambini uccisi dal loro stesso padre.
Sorprende lo sviluppo emozionante e paradossale della trama, spiazzano le parole del genitore assassino, il suo amore per i figli, le agghiaccianti, struggenti certezze di chi ha toccato il fondo:
“Il Paradiso esiste. Ho visto i bambini. Li ho visti e ho parlato con loro”.
La fine del racconto chiude in qualche modo un cerchio doloroso, ma eccone un altro, ecco un’altra esistenza che si dispiega sotto gli occhi del lettore che a poco a poco scopre pensieri, emozioni, errori contro cui è impossibile puntare il dito: troppo umani, troppo veri.
C'è la donna che lasciata dal marito guarda avanti senza rancore verso un nuovo inizio e quella che con un po' di vergogna si scopre nel ruolo “dell'amante giovane, della spensierata rovinafamiglie”, mentre il destino riserva qualche imprevisto.
Magistralmente costruita la cronaca del delitto perfetto che non ti aspetti, consumato da due bambine spinte da un odio inesorabile (“...il culmine esistenziale del nostro essere noi”), e di grande impatto il confine tra la vita e la morte, tratteggiato con sfumature delicate che sfociano quasi nel surreale: la vita che se ne va con un senso di vertigine, la morte che arriva in punta di piedi rendendo vana ogni cosa terrena.
L’ultimo racconto - quello che dà il titolo alla raccolta - possiede la grazia delle atmosfere dei grandi classici russi ed è un omaggio a Sof’ja Kovaleskaja, brillante matematica vissuta a fine Ottocento.
Un'intelligenza fuori dal comune, un amante invidioso dei suoi successi (ma in cui lei si ostina a credere), qualche amico sincero, un’immensa voglia d’amore, di libertà, di vita.
“Troppa felicità” - sembra siano state le sue ultime parole - estremo luccichio di una stella solitaria.
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La fine di una vita
Ivan Il'ic è un giudice istruttore intelligente e perbene, che rispetta le regole, ama mescolarsi con gli ambienti altolocati e ci tiene a vivere “in modo piacevole e decoroso”.
Lo conosciamo già cadavere, circondato da colleghi compunti, accomunati da un sentimento inconfessato di gioia: “Accidenti, è morto; io no, invece”.
E’ palpabile e quasi comico il disagio dei vivi di fronte ad una situazione tragica da cui cercano di tenere le debite distanze, ma sono soprattutto le parole della vedova a darci la misura della solitudine disperata di un uomo moribondo: “Ha gridato per tre giorni interi, giorno e notte, senza smettere un momento. Era una cosa insopportabile”.
L’ombra sinistra della morte continua ad aleggiare anche nei successivi capitoli, almeno nella percezione del lettore che sa che il giovane vivace e di belle speranze Ivan Il'ic un giorno giacerà rigido, con il viso giallo e cereo.
La sua esistenza per vent’anni non subisce particolari scossoni: un lavoro di responsabilità svolto nel migliore dei modi, una moglie più o meno amata, due figli.
E poco importa se col passare del tempo la vita coniugale si fa insostenibile: ci sono sempre le soddisfazioni professionali e soprattutto le gioie certe di una partita a “vint” con gli amici.
La Morte lo fa cadere da una scala mentre sistema il drappeggio di una tenda (era tanto orgoglioso dell'arredamento di casa...), e anche se non si può razionalmente affermare che sia andata così, Ivan Il'ic è certo che quel sordo dolore al fianco sia iniziato proprio da quella caduta.
E' l'inizio della fine, e da questo punto in poi le pagine si fanno dolorose, di un'acutezza psicologica e di un realismo sorprendenti.
E' un calvario (“Perché, perché mi tormenti così orribilmente?”), un quadro a tinte fosche tratteggiato con la lucida descrizione dei tormenti fisici e morali di un malato incurabile.
La causa della malattia sembra alla fine concentrarsi su una frase formulata nell'acme della sofferenza, assunto inaccettabile per chi, come lui, si è sempre vantato di vivere secondo le regole:
“E' stato tutto sbagliato”.
Pochi scrittori sono capaci di passare dalla commedia, alla farsa, alla tragedia senza sbavature, e Tolstoj in questo piccolo capolavoro ci riesce pienamente.
Graffia ed emoziona con stile asciutto, attento a spiegare e ribadire i concetti più importanti, raccontando non tanto la morte di un uomo quanto la fine di una vita:
“Si può, si può fare qualcosa di giusto. Ma che cosa?”.
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Quando il giallo diventa giallognolo
L’idea di fondo non è male: un condominio milanese con una variegata galleria di personaggi, un tappezziere in pensione appassionato di indagini fai da te e cronaca nera, un presunto rapimento negli ambienti della Milano bene.
Seguono molteplici siparietti sul filo degli equivoci, alcuni un po’ stiracchiati a dire il vero (stile Pierino e la maestra, per intenderci), ma tutto sommato gradevoli.
Lo scrittore si diverte a muovere le fila degli eventi sviluppando la narrazione su diversi fronti, tutti più o meno collegati fra loro. Peccato che la situazione da un certo punto in poi gli sfugga di mano, trasformando l’insieme in un polpettone farraginoso che annoia e non convince. Imbastire una trama più lineare (ed anche meno inverosimile) avrebbe giovato al romanzo, che nella prima parte promette bene: apprezzabile, per esempio, l’omaggio alle potenzialità inespresse ed ai sentimenti spesso ignorati degli anziani, custodi di un genuino sentire. Il tutto all’insegna di un certo humour e senza concessioni al lacrimevole.
Gustosa anche la figura della pettegola patologica, la falsa invalida del condominio che si picca di sapere tutto di tutti: “Occorreva rinforzare la sorveglianza, incrociare i dati, non dormire mai”.
Niente è ciò che sembra, almeno nelle intenzioni dello scrittore che però non riesce a stupire, sia per le conclusioni sconclusionate che per i ghirigori con cui si arriva alle stesse.
La necessità di riepilogare più volte i fatti per chiarire quello che nel libro stesso viene definito “un guazzabuglio” ne mette ulteriormente in evidenza i limiti e lo rende per giunta prolisso. In questo quadro scarno di efficaci colpi di scena - giallognolo più che giallo – un errore di sintassi del periodo ipotetico (capita evidentemente anche nelle case editrici più solide) non fa che confermare un lavoro di revisione un po’ approssimativo.
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- no
Una montagna dalla cima piatta
Lo stile è efficace, con pause ad effetto che sono il marchio di fabbrica dell'eloquio di Lucarelli, l'ironia non manca e le atmosfere esotiche sono ben descritte anche dal punto di vista storico-linguistico.
L'Eritrea di fine Ottocento colonizzata dagli italiani spicca vivida e le folate di caldo africano sfiorano il lettore, insieme all'aroma dei chicchi di caffè tostati, ma la trama di questo giallo con venature da intrigo internazionale è debole e ingarbugliata e la noia avanza inesorabile man mano che si procede nella lettura.
La soluzione poi, malgrado tutto l'ambaradan che sta dietro, è il trionfo della banalità e ricorda quella dei delitti della Settimana Enigmistica.
Nulla da rilevare sui due protagonisti, il capitano Colaprico e il carabiniere indigeno Agbà, a parte il baffo del primo e la perspicacia del secondo, Sherlock Holmes abissino che dice “Berghèz” - “Ovvio” - invece di “Elementary my dear Watson” (le similitudini, a dire il vero, si fermano qui).
Intrigante, invece, la figura della “ualla” la “monella” seduttrice ma non propriamente prostituta che muove indirettamente le fila degli eventi con l'unico scopo di godersi il più possibile la vita, a volte giocando col fuoco.
Non ci sono però abbastanza elementi per definire interessante un romanzo che si legge per forza d'inerzia e si fa presto a dimenticare, del tutto privo com'è di suspense e mordente.
Una montagna dalla cima piatta, proprio come quelle eritree.
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La parabola discendente della signora A.
Se dovessi liquidare questo romanzo con due parole non avrei dubbi sul termine da usare: una lagna. Ma forse lo stile e i contenuti di Paolo Giordano meritano qualcosa in più, al di là della modesta piacevolezza dell'opera.
La scrittura è scorrevole e non priva di qualche spunto originale, ma le emozioni non arrivano, personaggi e trama mancano di verve, restano piatti e non riescono a saltare fuori dalla pagina scritta. I dialoghi sono pochi e il monologo per lo più ininterrotto dell'io narrante appesantisce ulteriormente l'insieme.
La figura della signora A. (l'iniziale spersonalizza e scoraggia da subito ogni trasporto nel lettore) suscita stranamente più insofferenza che simpatia, malgrado venga più volte ribadito il suo ruolo di quasi-nonna e quasi-madre nella famiglia in cui lavorerà per diversi anni.
Chiamata affettuosamente Babette, è la balia tuttofare di Emanuele, figlio di una giovane coppia non troppo bene assortita: lui fisico con un incarico universitario a tempo determinato, lei architetto; lui che si crogiola nel suo umor nero, lei “argento fuso, il più bianco fra i metalli, il migliore fra i conduttori, il riflettente più spietato”.
Sarebbero state interessanti le dinamiche di un matrimonio dove il marito si definisce attaccato alla moglie “come una sanguisuga che succhia la vita altrui”, peccato che la struttura portante del romanzo resti l'onnipresente signora A., che oltre ad occuparsi del bambino e del ménage domestico finisce per diventare l'elemento di stabilità fra i due coniugi, quella che appiana i diverbi prendendo decisioni al posto loro.
Il cancro che colpisce Babette e il suo conseguente declino fisico e psicologico (le drammatiche fasi della malattia vengono scrupolosamente descritte) mettono in luce tutte le crepe di un rapporto che senza la solida e rassicurante presenza della donna tende ad arenarsi:
“A lungo andare ogni amore ha bisogno di qualcuno che lo veda e riconosca, che lo avvalori, altrimenti rischia di essere scambiato per un malinteso”.
Spiegazione peraltro contraddetta verso la fine da una frase più realistica e carica di disillusione:
“Eravamo, a dispetto delle nostre speranze, insolubili l'uno nell'altro”.
La crisi resta comunque in condizione sospensiva, visto che ciò che più preme raccontare allo scrittore è la parabola discendente della signora A., tra l'osservazione dell'uomo di scienza, con tanto di termini tecnici, e l'emozione impacciata di un padre e un marito non sempre all'altezza:
“Le persone si allontanano, le persone se ne vanno e basta. Per sempre”.
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- sì
- no
“Cosa c'è di più spaventoso di uno specchio?”
“Cosa può capitare di meglio a una ragazza che finire nelle mani di un mostro?”
Provocatoria Amélie, che ci racconta con leggerezza apparente, trasfigurandone i contenuti, la storia di un sequestro di persona e di un abuso fisico e psicologico.
La ragazza si chiama Hazel ed è impregnata dell'amore ambiguo e totalizzante del suo carnefice-benefattore, un vecchio settantasettenne che le ispira affetto e ripugnanza.
Affetto, perché l'uomo sembra proteggerla dalle insidie del mondo esterno isolandola nel lussuoso palazzo di una piccola isola, ripugnanza, perché la possiede anima e corpo.
Un manuale di psicologia non potrebbe spiegare meglio il subentrare di certi meccanismi patologici in una relazione, e gli effetti del veleno di un manipolatore vengono assorbiti anche dal lettore, che non distingue più così nettamente il confine tra colpa e innocenza: la colpa del carnefice si illumina di generosità, l'innocenza della vittima si macchia di ipocrisia.
Liberarsi dalla grinfie di un oppressore - ci viene spiegato tra le righe - potrebbe significare dover fare i conti con se stessi, smettere i panni di martire e misurarsi con le proprie forze.
E' più rassicurante sottomettersi ai desideri altrui e vedersi solo con gli occhi di chi dice di amarci e ci propina le sue verità. Meglio non guardarsi, meglio non vedere:
“Cosa c'è di più spaventoso di uno specchio?”
Il culto della bellezza portato all'estremo, in un folle desiderio di possesso esclusivo, è uno dei punti cardine del romanzo, ma c'è dell'altro: c'è l'amore che finisce per somigliare all'odio (“quando si ama davvero qualcuno non ci si può impedire di fargli del male”) e c'è, da parte della persona oggetto di quest'amore, la necessità di dare un volto umano e gentile all'amante carceriere, fino a ricambiarne il sentimento.
Il romanzo ha due diversi finali: nel primo prevale la razionalità, la vita fuori da quel palazzo così simile ad un castello stregato, nel secondo ha invece la meglio il lato più cupo e inquietante della passione, che travolge inaspettatamente chi ne sembrava immune.
La scrittrice - che in simili dicotomie con se stessa spesso si dibatte sfogandole in dialoghi serrati - non è riuscita a prendere una decisione, tentata dalla logica “perturbante e implacabile” di una favola a tinte oscure.
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La macchia rossa di un berretto da bambino...
Romanzo di paesaggi fiamminghi e atmosfere malsane, come i personaggi che lo popolano.
Rimasta senza genitori dopo la morte del padre, Edmée si trasferisce da Bruxelles in un villaggio delle Fiandre, a casa di zii e cugini.
Al suo arrivo trova la famiglia in lutto per la morte dello zio, tragedia che segna in qualche modo l'inizio di un progressivo decadimento di cose e persone.
Pallida e sottile, Edmée ne è la causa primaria, algida in apparenza ma animata da pensieri ardenti e spesso contraddittori. E' ghiaccio e fuoco, ed è vicino al fuoco che adora indugiare per ore «fino a farsi venire le vertigini».
La giovane osserva l'ambiente nuovo che la circonda con occhio critico e sprezzante («Siete tutti geneticamente degenerati. Il vostro sangue è povero, malato»), e intanto la sua figura fiera ed enigmatica cattura l'attenzione dei due cugini, Fred e Jef.
A quest'ultimo rivela i suoi sogni: «Vorrei un uomo capace di uccidere, ma uccidere veramente, a costo di rischiare la vita...» . Lo dice dopo aver scoperto lo strano fremito di attrazione e ripugnanza che le provoca la vista di uno scoiattolo ucciso e scuoiato per passatempo dal cugino, e quello dell'animale sarà il primo e non ultimo sangue innocente che macchierà la neve di un freddo inverno.
Con uno stile realistico e sobrio che ricorda i grandi classici francesi dell'Ottocento, Simenon contamina un paesaggio fiabesco - caratterizzato da filari di pioppi e canali d'argento - con elementi che creano tensione e un sottile senso di minaccia.
Lo stesso avviene per l'anima dei personaggi principali, che discendono una china inesorabile, mentre la macchia rossa di un berretto da bambino sotto la neve li rende complici di un delitto...
Non è sempre chiaro neppure al lettore cosa passi per la testa di Edmée e le sue azioni restano sul filo dell'ambiguità: si potrebbe affermare che sia presa da una smania autodistruttiva, ma anche l'esatto contrario.
«Be', la risposta è sì», è l'ultima frase pronunciata dalla ragazza poche pagine prima della fine del romanzo, con la tranquillità di chi è giunto a una decisione irrevocabile.
La sua sarà una scelta di vita e di morte.
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Mazzantini a briglie sciolte
Sconsiglio, innanzitutto, di affrontare questo romanzo se non si è ancora letto niente della Mazzantini: di sicuro non è qui che la scrittrice esprime il meglio di sé e - sebbene non sia del tutto da scartare - il libro dà l'impressione di essere materia grezza su cui lavorare di lima.
La prima parte è surreale e demenziale nella descrizione di una famiglia strampalata, in particolare di Anemone e Ortensia, due gemelle eterozigote, due facce della stessa medaglia.
Bella, formosa, boccolosa e senza un pensiero al mondo la prima, brutta, rinsecchita, pelosa e fobica la seconda. C'è poi un tacchino antropomorfizzato che fa un po' effetto cartoon e tutta una serie di personaggi secondari sopra le righe, compresa la psicanalista freudiana fuori di testa (la critica satirica ai metodi psicanalitici ispirati a Freud è abbastanza esplicita).
“Io adoro le chiacchiere, adoro il suono delle cose a vanvera, dei barattoli spinti da un piede, a caso”, rivela la gemella Anemone a Manola, maga silenziosa a cui entrambe le sorelle si rivolgono per avere consiglio.
E il libro all'inizio altro non è che un insieme logorroico di situazioni assurde e riflessioni, non esenti peraltro da luoghi comuni.
Si riprende nella seconda parte, con una buona dose di ironia tagliente che punta l'indice su certe fragilità femminili, come la tendenza a vedere un principe azzurro anche dietro un rospo, con annessi e connessi di sapore masochistico che la scrittrice riesce a riportare in maniera esilarante e talvolta anche brillante. Nei momenti migliori ricorda la Nothomb ma - ahimé - senza il dono della sintesi.
La scrittura è scoppiettante e variegata, con frasi articolate, volutamente ridondanti, ed espressioni gergali: “La casalinghitudine è così densa di emozioni. Ho appena lavato i boxeroni di Poldo, e nel bagno ho vissuto un momento inebriante”.
Forse questa è l'opera in cui in cui la Mazzantini rivela più senso dell'umorismo, ma la prolissità e l'esasperazione di certi contenuti smorzano l'efficacia del messaggio di fondo.
Piuttosto di bassa lega la trovata finale di un autobus pieno di neri che liberano l'ex racchia (perché i ruoli a un certo punto si rovesciano) della sua ingombrante verginità: “...ho sentito che quello che stava accadendo era l'archetipo di ogni desiderio femminile”. Mah.
Il destino dell'altra sorella - va da sé - non sarà altrettanto appagante: effetto delle arti magiche di Manola o incontro di due estremi inaspettatamente vicini?
Spetta al lettore capirlo, ammesso che abbia voglia di fare un tuffo nell'immaginazione a briglie sciolte della scrittrice.
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- no
Line
“Mia madre era la ladra, la mendicante, la puttana del villaggio”.
La lama di un lungo coltello conficcata nella schiena di un uomo con l'intento di trafiggere anche la donna addormentata sotto di lui: un'immagine di furia omicida contrapposta alla passione carnale.
In Tobias c'è l'intelligenza di quest'uomo e la bellezza selvaggia di questa donna, il suo animo è una ferita aperta, la sua mente un caos in cerca di pace.
Tobias aspetta la vita vera mentre trascina una squallida esistenza da operaio emigrato, apatico e solitario. Aspetta Line, con un'ostinazione che è quasi follia:
“Si chiama Line, è la mia donna, il mio amore, la mia vita. Non l'ho mai vista”.
Si sbaglia su tutti i fronti, ma lo scoprirà soltanto dopo averla incontrata e amata di un sentimento disperato, puro e depravato.
Scoprirà che si può sopravvivere anche facendo a meno dei sogni, con la soddisfazione arida di quelli che, a fine giornata, “chiudono le loro porte a doppia mandata e aspettano pazientemente che la vita passi”.
Forse, se ci fossero solo loro due al mondo l'amore sarebbe possibile, ma Line è la felicità di un'infanzia incontaminata che non può tornare, quella di un bambino che guarda la luna e crede ancora che tutto sia argento e luce, mentre in realtà “ci sono solo campi morti e fangosi”.
La prosa asciutta e a tratti amaramente ironica di questo brevissimo romanzo diventa poesia per esprimere un dolore sordo che non trova altro sfogo, poesia che restituisce la libertà di un volo immaginario ad un uccello dalle ali spezzate, dal cuore infranto.
Si corteggia la morte, ma si continua a vivere:
“Io conosco campi meravigliosi. Se tu potessi raggiungerli, ignoreresti il tuo cuore”.
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“Quattro litri di aceto bianco...”
“Tre giorni dopo che zia Valérie era arrivata a casa nostra, ho capito che mi odiava”.
Le lucide impressioni di Jérôme, bambino di sette anni, rendono questo romanzo ricco di spunti di riflessione sulla varietà dei rapporti che si instaurano tra gli esseri umani e in particolar modo tra genitori e figli.
Jérôme - lo si capisce quasi subito – è amato e accudito, ma per certi versi trascurato e lasciato a se stesso da genitori troppo impegnati nell'ambito del commercio: la madre ha una merceria proprio sotto il loro piccolo appartamento, il padre vende e acquista tessuti girando per le fiere.
L'arrivo in casa della zia grassa e bisbetica, che occorre tenersi buona per questioni di eredità, sconvolge gli equilibri domestici esacerbando situazioni già precarie.
Il bambino dovrà cedere la sua stanza e condividere con la donna gran parte della giornata, che passa guardando da una finestra che si affaccia sulla piazza del mercato (di rado va a scuola).
La parte migliore del libro è proprio l'analisi dello stato d'animo di Jérôme e del bisogno d'affetto che lo spinge a crearsi un amico quasi immaginario: il bambino malato dell'appartamento di fronte, a cui non ha mai rivolto la parola.
Nulla sfugge alla sua acuta intelligenza, neppure l'atmosfera pesante causata dagli scioperi che imperversano nella cittadina normanna, disordini che culmineranno in un attentato: “...tutto era nero, ostile, malvagio...”.
Notevole anche la piega proustiana che prende la narrazione quando si rievoca un giorno felice attraverso parole apparentemente insignificanti: “Quattro litri di aceto bianco...”.
E' uno di quei giorni in cui il protagonista va a fare compere con la madre, figura descritta con vago disprezzo nelle prime pagine ma che in quell'occasione di relativo svago sembra riabilitarsi diventando oggetto d'amore.
Null'altro da segnalare in un romanzo sicuramente ben scritto (impeccabile la descrizione della piazza del mercato sotto la pioggia e di certi personaggi) ma che dà una sensazione di incompiutezza e non può annoverarsi tra i migliori di Simenon.
Si accenna spesso a qualcosa che sta per accadere ma di fatto succede poco, si citano episodi futuri di una certa rilevanza che non verranno mai sviluppati, come se lo scrittore avesse lasciato il lavoro a metà con un finale affrettato.
“Continuava a piovere...”, si ripete spesso, e la monotonia della pioggia, sia pure con qualche schiarita, finisce per insinuarsi anche tra le pagine compromettendo il piacere della lettura.
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Guardarsi negli occhi
Strano romanzo, ammantato di apparente banalità ma caratterizzato da profonda indagine psicologica e da una tragica verità non rivelata in modo esplicito.
La prima notte di nozze di una coppia di ventenni inglesi degli anni Sessanta diventa una sorta di commedia dalle sfumature drammatiche e farsesche: il dramma scorre in profondità, legato soprattutto al passato, la farsa resta in superficie, rafforzata da gustosi inevitabili equivoci.
Lui, Edward, giovane con ambizioni letterarie, ha poca esperienza con le donne in generale e con la neosposa in particolare, di certo innamorata ma estremamente riservata e pudica.
Lei, Florence, violinista non meno ambiziosa, nutre un'inconfessata e patologica repulsione per il sesso, forse a causa dell'educazione ricevuta, o perché la passione totalizzante per la musica ne esclude a priori ogni altra, relegando l'artista in un mondo incontaminato.
Questo almeno, è ciò che sembrerebbe dalle prime battute, ma a bloccare la donna, vittima in modo molto più amaro dell'ipocrisia alto borghese, è in realtà qualcosa di «ben più atroce e del tutto incontrollabile», ricordo vergognoso rimosso almeno in parte dalla memoria.
Ed ecco la verità nascosta che sfugge ad una lettura poco attenta e che lo scrittore - per altri versi senza peli sulla lingua - lascia intendere al lettore attraverso frasi ben ponderate e allusioni neanche troppo velate.
Fulcro della vicenda è il rapporto tra genitori e figli e le conseguenze inesorabili sulla personalità e sulle scelte di questi ultimi, condannati a scontare in una spirale viziosa traumi infantili e adolescenziali.
La narrazione procede con qualche digressione di troppo (limite di McEwan è senz'altro la prolissità) ma è notevole la sistematica dissacrazione di sesso e amore, che ha inizio con la meticolosa e asettica descrizione di baci accompagnati da riflessioni che fanno a pugni con l'erotismo:
«Le passò per la testa un pensiero assurdo: e se gli avesse vomitato in bocca?».
Lo scrittore sceglie di adottare in molti passaggi il registro ironico, e persino il sentimento puro esce malconcio sotto i colpi sferzanti dell'irrisione:
«Continuarono a guardarsi negli occhi: in questo non li batteva nessuno».
La luna di fiele avrà il suo epilogo nel letto a baldacchino «dalla candida sopraccoperta tesissima» che fin dalle prime pagine - insieme alla penosa tensione degli stessi protagonisti - lascia presagire il disastro.
Una spiaggia al tramonto inutilmente romantica, il crepuscolo di ogni speranza, ciò che avrebbe potuto essere e non è stato...
L'amore è più forte del sesso? La risposta è racchiusa tra le righe di questa storia.
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“Un giorno dovrò far capire a qualcuno...”
Se la vita non può esplodere rigogliosa implode rabbiosa, diventando mortifera.
Dominique indossa da anni lo squallido vestito della solitudine cucitole addosso come un precoce sudario dal destino, un vestito che le sta sempre più stretto - glielo dice il suo corpo di vergine quarantenne che non si rassegna alla pace dei sensi, un corpo ancora bianco e morbido che nell'afa d'agosto suda copiosamente, forse piange, a suo modo.
Vive di lontani ricordi, Dominique, figlia di un generale morto da un paio d'anni (che tortura accudire fino all'ultimo un padre che non si è mai amato!) e non dimentica le sue origini altolocate, malgrado la povertà umiliante con cui da tempo deve fare i conti.
Ogni tanto muove le labbra mormorando qualche parola, nel desiderio di comunicare, di raccontarsi (“Un giorno dovrò far capire a qualcuno...”), o sbircia con un misto di attrazione e repulsione dal buco della serratura i rapporti sessuali della giovane coppia a cui ha dato in affitto una camera del suo appartamento.
Assiste con un'esaltazione che è quasi gioia ad un delitto nel palazzo di fronte, di proprietà dei Rouet, testimone silenziosa di una morte che sembrerà accidentale.
Da quel momento, per diverse pagine e in una sorta di film senza sonoro, il lettore osserva con gli occhi della protagonista i movimenti degli inquilini del palazzo ed in particolare di Antoinette, la moglie assassina, intuendone le parole dai gesti concitati.
Antoinette, che ha lasciato morire il marito malato per liberarsi di un peso morto e l'ha fatta franca, finisce per diventare, con la sua forza vitale, con i suoi appetiti di femmina sensuale, ciò che Dominique non ha mai avuto il coraggio di essere, ed è da lei che la donna sorbisce furtivamente ogni giorno il dolceamaro nettare della vita, controllandone le mosse, pedinandola senza nemmeno preoccuparsi di non farsi notare, desiderando ardentemente che le rivolga almeno una volta parole complici: “Tu che sai tutto...”.
E' diventata una maniaca, forse...
L'indagine psicologica che spesso caratterizza le opere di Simenon raggiunge in questo romanzo livelli freudiani, con bizzarri sogni erotici – scaturiti dai pensieri di una natura repressa – che lo scrittore lascia all'interpretazione di chi legge.
Sullo sfondo c'è Parigi nel succedersi delle stagioni, con la folla e il traffico e i vicoli oscuri che trasudano vizi nascosti, bassi istinti sfogati al riparo da occhi indiscreti.
Un quadro tutto sommato miserabile, ma vivo di vita vibrante e proibita, banchetto avvelenato e invitante per chi ha fame e sete:
“Ma perché il suo sguardo si inoltrava negli ingressi degli alberghi, aperti sulla strada come bocche tiepide?”
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Paura del vuoto
Il romanzo inizia bene, lo stile è scorrevole e non mancano passaggi arguti ed ironici, anche se l'espediente della sigaretta come pensiero ricorrente di un ex fumatore non è tra i più originali.
L'io narrante, avvocato Guido Guerrieri, dà subito l'impressione di uno che ha molto da dire e raccontare, un gran chiacchierone alquanto pieno di sé che mette in mostra le sue fragilità col chiaro intento di catturare le simpatie del lettore.
Nel caso specifico, è la paura di lanciarsi nel vuoto, un blocco che risale all'infanzia con tutti i risvolti psicologici utili per dare il solito tocco di malinconia al protagonista (“Potevo essere tante cose che non saranno, perché non ho avuto il coraggio di provarci”).
Poi c'è la trama principale, un caso di violenza e stalking per il quale Guerrieri accetta di costituirsi avvocato di parte civile col rischio di rimetterci la carriera (l'imputato è uno della Bari bene, figlio di un pezzo grosso negli ambienti giudiziari).
La narrazione, dicevamo, non brilla certo per originalità, i personaggi hanno poco spessore e la noia arriva inesorabile dopo una cinquantina di pagine, soprattutto per chi nutre poco interesse nell'apprendimento delle fasi di un processo penale con relative nozioni giuridiche.
I giochi d'astuzia in aula del Perry Mason all'italiana sono talmente triti che si potrebbe anche riportarli senza spoilerare più di tanto e i cliché sono spalmati un po' ovunque, mentre si indugia troppo in nostalgici ricordi personali che non hanno niente a che vedere con l'argomento.
Ci sono scene che diventano “in bianco e nero” tutte le volte in cui si vuol far capire quanto siano d'impatto, e non può mancare la svolta finale, poco verosimile ma indispensabile per buttare tutto in caciara in un caso altrimenti senza uscita.
Uno scrittore di razza avrebbe affrontato temi drammatici come la violenza su donne e bambini trasmettendo più emozioni e meno nozioni, qui invece tutto ruota fondamentalmente intorno alla figura di Guerrieri con i suoi gusti sofisticati, che si dà del “coglione” per far intendere quanto in realtà sia figo, che rivela piccole debolezze per mettere in risalto grandi qualità, con frasi da film cult americano:
“Perché sei diventato avvocato?”
“Non sapevo cosa fare. E se lo sapevo, ho avuto paura di provarci”.
Già, la paura del vuoto, lo stesso in cui rischia di precipitare la letteratura italiana contemporanea.
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"Non aveva fatto niente...”
Questo giallo ha i contorni di un thriller psicologico ed acquista velocità catturando lettore e protagonista in un vortice fatto di immagini, oscure sensazioni, frasi rivelatrici.
Spencer Ashby è un pacifico professore che vive con la moglie in una cittadina del Connecticut, con l'abitudine di rilassarsi in uno stanzino/laboratorio dove fuma la pipa, beve un paio di scotch, corregge i compiti dei suoi allievi e realizza al tornio piccoli oggetti in legno.
Lo si potrebbe quasi definire un pantofolaio, ma forse quegli spazi che si ritaglia solo per sé denotano un bisogno represso di libertà, un modo di evadere dalle regole della comunità, regole che la moglie Christine - figura per molti versi materna – si vanta di rispettare scrupolosamente.
L'omicidio della giovane Belle, ospite dei due coniugi ritrovata morta nella sua stanza, si rivelerà una deflagrazione non tanto per il solido (almeno in apparenza) ménage domestico, quanto per l'equilibrio mentale dell'uomo.
“Perché provò un senso di colpa? Non aveva fatto niente...”.
Eppure qualcosa gli si appiccica addosso dal momento in cui gli viene mostrato il corpo seminudo della ragazza violentata e strangolata, e il turbamento sessuale che gli provoca la visione di “una pelle straordinariamente bianca”, mai provato quando Belle era ancora in vita, lo riempie di vergogna e fa riemergere il tormentoso ricordo di un'adolescenza vissuta all'insegna del perbenismo, con una vita erotica e sentimentale molto limitata.
Ed ecco che il cerchio si stringe inesorabile, tra le domande degli inquirenti, i sospetti della gente e l'impressione che persino la moglie abbia dei dubbi sulla sua innocenza.
Ormai l'uomo sembra essere il solo sicuro del fatto che il colpevole sia qualcun altro della comunità, forse un insospettabile, uno che la domenica canta tranquillamente gli inni in chiesa senza sentirsi come lui gli occhi puntati addosso e il vuoto intorno.
“L'assassino era in mezzo a noi”, dice all'uscita di una funzione domenicale particolarmente penosa a Christine, che lo invita subito a tacere.
Ma è solo la società che gli si è schierata contro o è anche lui, per qualche motivo, ad averne preso le distanze?
Ashby subisce una metamorfosi che ricorda quella del celebre personaggio kafkiano trasformato in repellente scarafaggio: si prova nei suoi confronti la stessa pietà e la sensazione di un pericolo incombente che lo minaccia, un nemico silenzioso che non si sa esattamente da che parte arriverà.
La narrazione procede su due filoni: l'indagine sull'omicidio, che sembra non approdare a nulla, e l'analisi psicologica del protagonista, sempre più vicino ad uno stato di psicopatia.
Impeccabile il modo in cui Simenon si destreggia tra i chiaroscuri della psiche umana, inserendo con cadenza ossessiva precisi segnali che si riveleranno strettamente connessi al finale dal sapore pirandelliano, tragico e liberatorio:
“E, forse per via di quel rivolo rosso che gli faceva sembrare la bocca più larga, pareva quasi che sorridesse”.
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Topi e scugnizzi
La morte di uno scugnizzo napoletano sta al centro delle vicende di questo romanzo e delle indagini del commissario Ricciardi, uomo affascinante e malinconico con un segreto che lo condanna alla solitudine.
Lui vede quello che gli altri non vedono, vede i morti che hanno lasciato questa terra in modo violento, e riesce a sentirne gli ultimi pensieri, pensieri di vita a volte incongrui con il momento tragico, perché «morendo si va verso il nulla guardando indietro».
Non vede però il fantasma di Tettè, orfano ritrovato morto per strada, un corpicino inerme che racconta in silenzio una sofferenza troppo grande per lui e sembra immolato sull'altare del dolore.
Niente di così strano in apparenza nel decesso del bambino: gli scugnizzi della Napoli degli anni Trenta muoiono come le mosche, anzi come i topi dei bassifondi.
Eppure qualcosa reclama una verità taciuta: gli occhi di un cane randagio, innanzitutto, unico amico di Tettè e solo al mondo come lui.
La prima metà del romanzo è la più intensa, poi la narrazione si fa po' ripetitiva e il finale a sorpresa è forse un tantino forzato. Da rilevare anche una svista su un dialogo, non del tutto trascurabile trattandosi di un giallo.
Ma lo stile è fluido e vivace, ambienti e personaggi sono delineati con efficacia e il ritmo abbastanza incalzante, condito di interessanti flashback, tiene desta l'attenzione del lettore.
Le pagine dedicate al bambino e al suo cane immersi in una quotidianità fatta di violenze e soprusi sono le più toccanti e ricordano i racconti di Dickens in salsa partenopea: le due creature derelitte sembrano incarnare l'emblema dell'innocenza oppressa.
Tutto attorno c'è un mondo crudele, meschino, avido, che accomuna palazzi signorili e quartieri bassi, e c'è una città che sotto l'incessante pioggia autunnale rivela il suo lato oscuro, mentre la sua solita teatralità diventa menzogna.
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“Dillo ancora, un'altra volta sola”
“Rincaserai per la cena?”
Il viso sporco di cioccolata, intenta a completare una delle torte che vende per mandare avanti la famiglia, Mildred rivolge la domanda al marito con tono pacatamente aggressivo.
Ci appare così per la prima volta, inflessibile e agguerrita, mentre decide una volta per tutte di mettere alla porta il consorte fedifrago.
E' una brusca virata nella sua vita, un'esistenza spesso in salita che la donna affronta con il passo spedito delle sue gambe voluttuose:
“Era implacabilmente decisa a farsi in qualche modo strada”.
Ma Mildred non è tutta d'un pezzo come si potrebbe credere, e la parte tenera del suo cuore si rivelerà il suo punto debole, la falla di un sistema che avrebbe tutte le carte in tavola per sfondare nel mondo degli affari.
Vorrebbero divorarsela, quella parte tenera, gli uomini infidi e inetti che si sceglie per amanti, ma ad una sola persona lei la consegnerà con totale abnegazione: la figlia Veda, amata con una passione cieca.
Veda ha la musica nell'anima - ammesso che un'anima ce l'abbia - è bella, intelligente, superba e non ama che se stessa. Il suo personaggio salta fuori dalle pagine e ruba quasi la scena alla madre, che al suo cospetto ingrigisce, patetica e adorante.
Veda è una “cattiva” a tutto tondo e solo quello che di amaro esce dalla sua bocca corriponde a ciò che in realtà pensa. Tutto il resto è pura e calcolata finzione, nel desiderio “freddo, crudele, volgare, di torturare sua madre, di umiliarla, soprattutto di ferirla”.
Ma sarebbe riduttivo e banale ritagliare a Mildred solo il ruolo di vittima, perché la figlia rappresenta la sua parte oscura, ciò che lei – non abbastanza sicura di sé – ammira nel profondo pur condannando in apparenza.
Del resto, tra il demone e l'angelo che il destino le toglie prematuramente la donna avrebbe comunque scelto il demone, per il quale ha sempre avuto una predilezione.
Ed è un sollievo colpevole quello che prova al momento della perdita della sua bambina più buona, un senso inconfessabile di gioia per avere ancora accanto l'altra, quella dal portamento altero e dai capelli ramati.
Il romanzo cattura fin dalle prime battute l'interesse del lettore per la sua immediatezza, e lo stile un po' approssimativo di certi passaggi non ne pregiudica la scorrevolezza.
Lo scrittore statunitense ribalta il cliché della sacralità insita nell'amore materno, trasformandolo in un sentimento morboso impregnato di egoismo e fragilità:
“Ti voglio tanto bene mamma. Sul serio”.
“Dillo ancora, un'altra volta sola”.
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“Lei era imperdonabile”
“Ogni persona è, tra le altre cose, un oggetto facile da rompere e difficile da riparare”.
Questa storia, romanzo nel romanzo, è innanzitutto il resoconto dettagliato e struggente di due vite distrutte, di un amore spezzato, resoconto redatto da una mano colpevole in un maldestro e forse inutile tentativo di riparazione:
“Lei era imperdonabile”.
Lei è Briony, tredicenne aspirante scrittrice che dirà addio al mondo incantato dell'infanzia nel modo peggiore.
Il velo di apparente leggerezza che caratterizza le prime pagine si dirada sempre più fino a mettere impietosamente in luce la meschinità umana in tutte le sue forme.
Il punto di vista di Briony e di altri personaggi, tratteggiati con notevole capacità analitica, permette di cogliere la realtà sotto varie sfumature, determinando nella loro sommatoria un quadro completo dei fatti oggettivi.
E' un luminoso mattino d'estate del 1935 nella quiete della campagna inglese, una giornata particolarmente calda in cui tutti perderanno, in qualche modo, la loro innocenza.
La sua luce bianca e pura resterà impressa nella memoria di qualcuno come l'ultimo giorno di felicità e il primo di un'inesorabile discesa agli inferi.
Il tocco originale dello stile sta nelle immagini simboliche inserite a tratti nella narrazione, che danno la misura di ciò che accade con un sapiente effetto rallentato dal sapore quasi onirico.
Il lettore si ritrova così a guardare un “gigante” che emerge dalla nebbia per accorgersi, poche righe dopo, che si tratta solo di un'illusione ottica: il gigante in questione è un giovane innamorato e pieno di speranze per l'avvenire, che tiene sulle spalle un bambino e sta per essere accusato ingiustamente di un crimine infamante.
E' Robbie, che ha da poco scoperto di amare Cecilia e di esserne riamato.
L'atrocità della guerra aggiungerà orrore al triste spettacolo della verità dilaniata, appesa esangue ad un albero proprio come il corpo di un piccolo innocente fatto a pezzi da una bomba.
Dopo aver letto alcuni passaggi che pulsano di vita reale ed emozionano come versi poetici in prosa si perdona facilmente allo scrittore una certa tendenza alla prolissità, e si perdona l'inganno che verso la fine viene tessuto ad arte, amplificando sensazioni penose che si credevano ormai superate.
Ma è un inganno compiuto in nome di un ideale elevato, in nome del potere che ha la letteratura di realizzare ciò che nella vita è rimasto incompiuto, immortalandolo, mentre lo scrittore sulla carta stampata si sostituisce a Dio.
Del resto, non è facile per un colpevole affrontare le conseguenze funeste di un misfatto e riportare la realtà nuda e cruda: cosa resta se viene meno anche la dolce illusione di un lieto fine?
Restano brevi ritagli sottratti al destino, pochi preziosi minuti di intimità e frasi da rievocare nei momenti più duri: “Tu sei il mio amore, la mia ragione per vivere”.
Resta la corrispondenza di due giovani amanti infelici, il loro sogno cristallizzato:
“Ti aspetterò. Torna da me”.
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"Chi sei?"
“Si chiede quando sono diventati così pesanti...”.
Piombo come le parole che cadono ad una ad una su un amore in agonia e come le frasi che annichiliscono. Piombo come il fallimento, il triste spettacolo di un sogno che si sgretola.
Ripercorrere gli avvenimenti del passato per capire quando è iniziata la fine - e soprattutto perché - è un percorso difficile e insidioso.
Forse tutto comincia dalla sgradevole sensazione di convivere con un'estranea:
“Chi sei? Perché devo sciropparmi tutto di te?”.
O forse il vizio è di fondo e sta nell'illusione da cui ci si lascia consapevolmente cullare nei primi tempi della passione, quando ci si sente ancora così diversi dagli altri, così unici.
Con uno stile asciutto e caustico punteggiato di turpiloquio, la scrittrice sviscera i sentimenti e li lascia lì ad imputridire, senza pietà.
Non fa sconti, né sull'amore coniugale con tutti i suoi inganni né su quello per i figli, che a tratti appare quasi dissacrato.
Il romanzo trasuda rabbia e disincanto, mentre la speranza di un riavvicinamento che ogni tanto fa capolino finisce per gettare una luce ancora più squallida sulle macerie.
Delia e Gaetano, due che da un pezzo tirano a campare con le ambizioni appese al chiodo, ma che insieme proprio non ce la fanno.
Lei non lo ama più, avvelenata dal rancore:
“Mi hai fatto entrare nel tempio e poi mi hai fatto strisciare”.
Lui forse ci crede ancora: “Hai sempre comandato tu, grande puttana, grande sogno perduto”.
Chi può salvare una coppia che sta sull'orlo di un baratro?
Nessuno, perché entrambi sanno dove colpire per fare il più male possibile, non risparmiano colpi bassi e si spingono giù a vicenda in un abbraccio mortale, “vittime e assassini nello stesso buco di cucina”.
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Disastro in cucina
Non riesco proprio a capire perché questo romanzo abbia avuto tanto successo: forse per la scrittura semplice e rassicurante (volendo usare un eufemismo), o per i bei sentimenti dispiegati a profusione, o per il fascino del Sol Levante. Sta di fatto che stile e contenuto ricordano solo gli sfoghi un po' ingenui e adolescenziali di una ragazza sensibile e provata dalla vita.
Non si discutono le buone intenzioni dell'autrice, ma la letteratura di qualità sta decisamente da un'altra parte.
Il vento di primavera che soffia sul viso, il cielo perennemente azzurro, la luce abbagliante o le stelle che brillano (a seconda dell'orario) possono trasmettere un minimo di emozione una o due volte. Alla terza, però, suscitano qualche perplessità e più di uno sbuffo di noia.
La protagonista è sempre sul punto di piangere per nostalgia e solitudine o per gioia e gratitudine, a fasi alterne, e i personaggi bidimensionali (l'unica analogia con i fumetti manga citati nella prefazione) sono per lo più freddi in apparenza, ma fondamentalmente gentili e generosi, anche per la buona educazione ricevuta – concetto, questo dell'educazione, evidentemente fondamentale che viene ribadito un paio di volte.
La questione dell'omosessualità (o transessualità, non è dato sapere), viene liquidata con questa candida frase: “Solo e con un bambino piccolo, non sapeva proprio che fare. Allora decise di diventare donna”. Una donna bellissima e affascinante tra l'altro - il lettore non può più avere dubbi al riguardo dopo averlo letto per la ventesima volta.
“Non c'è posto al mondo che io ami più della cucina”, è la frase iniziale del libro.
Ma allora perché non cimentarsi in un libro di ricette? Il risultato sarebbe stato di sicuro più interessante.
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"Lei c'era già.”
I personaggi di questo romanzo escono dalla pagina scritta scuotendo mente e cuore, entrano nella memoria come gente realmente incontrata e vi restano.
Non si dimentica un amore così ingombrante, improbabile, politicamente scorretto, non si dimenticano Timoteo e Italia, un chirurgo e una spiantata, raccontati dallo stile sanguigno della Mazzantini.
Sorprende la capacità della scrittrice di declinare al maschile pensieri e percezioni, ed
incanta il sapiente gioco di flashback, con il futuro che sorride pietoso all'ignaro passato invitandolo a godere dell'attimo, ricordandogli che ciò che deve accadere accadrà comunque, che al dolore non si sfugge ma neanche alle gioie impreviste.
Il primo strappo ad un'esistenza ovattata alto-borghese è uno stupro, una foia bestiale che affonda le sue radici in un buco dell'anima, trasformando brividi di disgusto in fremiti di desiderio:
“Che posso farci, sposa mia, questa sera ho voglia di infilarmi nel corpo di una donnetta, di strofinarmi addosso la sua testa di rafia”.
L'amore sboccia inaspettato sotto gli occhi stupiti del lettore, emerge dal fango di un'attrazione che sembrava sordida, rende a tratti poetica la prosa:
“La amo come un mendicante, come un lupo, come un ramo di ortica. La amo come un taglio sul vetro. La amo perché non amo che lei, le sue ossa, il suo odore di povera”.
Italia è “l'altra”, brutta, squattrinata e disillusa quanto bella e rampante è la moglie, giornalista in carriera.
Italia per Timoteo è la vita che si rivela, vita vera che spegne ogni altro rumore, che fa male e guarisce:
“Curami, curami...”.
Nella casa di lei, tugurio e rifugio, così diversa dagli ambienti ricercati a cui lui è abituato, si celebra il rito sacro e profano di una passione nascente, seguito da una quotidianità che è già condivisione:
“Ti faccio un piatto di spaghetti?”.
Gli spaghetti più buoni mai mangiati, come quella “dose” di arancini fritti e gustosi consumati in un'osteria all'insaputa della moglie. Perché sono poche le cose che restano nella vita, “giusto quattro stronzate. Ecco, tra quelle quattro stronzate, per me, c'è un piatto fondo da osteria con tre arancini dentro”.
Le emozioni del protagonista arrivano a getto continuo, crude e senza filtri, le sue lacrime ci bagnano, la sua debolezza indigna e impietosisce.
E mentre il cerchio tra passato e presente si chiude, sappiamo che tutto in qualche modo era scritto da tempo nella carne incisa da un bisturi, nel sangue che fuoriesce, nella paura di un giovane studente di Medicina:
“Lei era in quel taglio. Il sangue che temevo era il suo, così come avevo temuto il suo amore. Lei c'era già”.
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Nulla, solo la noia
Inutile girarci intorno: non è un romanzo riuscito, ma solo l'esperimento di un bravo scrittore alle prime armi.
La lentezza, innanzitutto, il soffermarsi su ogni cosa ribadendo gli stessi concetti e allungando un brodo che stanca fin dalle prime pagine.
L'apatia con picchi di angoscia del giovane Arthur, alle prese col male di vivere per qualcosa di tremendo accaduto nel suo passato, gira troppe volte su se stessa e sembra non arrivare mai al sodo.
Dopo un po' ci si chiede perché lo scrittore si accanisca a plasmare un'argilla che cade da tutte le parti senza acquisire una forma compatta, tra una serie di situazioni stereotipate che sono solo l'imitazione di una brutta copia dei libri di Fante e Fitzgerald, a cui quest'opera è stata paragonata.
L'autore scomoda anche Proust, con un flashback di Arthur bambino che si strugge ogni sera nel desiderio del bacio materno della buonanotte:
“Quello era il mondo reale – lì, al sicuro, nel tempo perduto”.
In effetti non si capisce bene quale sia questo benedetto mondo reale, visto che il ragazzo (quasi sempre con gli occhi serrati o socchiusi) tende a fuggire dalla realtà inseguendo i ricordi, fino a quando anche la memoria gli gioca un brutto tiro, rivelandogli l'evento traumatico che forse aveva rimosso.
E allora meglio tornare al presente, ma ecco la vocina “che continuava a ripetergli che tutto ciò che sapeva, o sentiva, o vedeva, non esisteva affatto, che era tutto un incubo, tutto irreale”.
Insomma, non se ne esce, e il buio è l'unica cosa che sembra distendere i nervi del protagonista, purché accompagnato dal silenzio, cosa che accade di rado nella narrazione per il tormento suo e del lettore.
L'incomunicabilità tra gli esseri umani e la loro solitudine sono i temi predominanti del romanzo, spalmati maldestramente qua e là attraverso personaggi banali che si esprimono soprattutto per luoghi comuni.
Si salva a tratti qualche passaggio che ben descrive uno stato d'animo, o qualche situazione rappresentata con efficacia. Tutto il resto è noia.
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Ma anche no...
Sono quattro racconti d'amore dalle ali deboli, che non riescono a spiccare il volo e si dimenticano facilmente.
Non è tanto il linguaggio antiquato, a cui dopo un po' ci si abitua, ma la mancanza di una struttura narrativa che abbia sostanza al di là dei soliti momenti di struggimento ed esaltazione.
Nel primo racconto, il più lungo, i personaggi ben delineati fanno ben sperare, l'analisi psicologica è notevole e la lucida descrizione della nascita di una passione funziona, sia pure con qualche ridondanza.
Ma la narrazione perde efficacia nella seconda parte, lasciando l'impressione desolante di trovarsi di fronte ad un palcoscenico con bravi attori diretti da un mediocre regista.
I concetti si ripetono fino al delirio (per usare un termine caro alla scrittrice) e dopo due o tre pagine di tormenti sviscerati in tutte le salse ci si augura che il protagonista, “esausto dallo sforzo di vivere” per una motivazione al limite del ridicolo, si decida a farla finita.
In effetti non farà neanche quello, lasciando la storia in condizione sospensiva come il suo tribolato stato d'animo.
Due volte un personaggio femminile è indicato con un nome errato (per non parlare della presenza di altri refusi) a riprova del fatto che è mancato un adeguato lavoro di revisione dell'opera.
Va meglio nel secondo racconto, dialogo ben costruito tra un uomo e una donna che si attraggono e si respingono, si cercano e si allontanano in un gioco d'amore che tanto amore non è.
Nulla da segnalare sugli altri due, nulla cioè che non si possa leggere altrove e scritto meglio.
Le riflessioni sul mondo dei sentimenti dicono in generale tutto e il contrario di tutto nella veste austera di massime di saggezza:
“...egli ha ritrovato, non so in quale pozzo, la Verità; ed Essa gli ha detto una cosa antichissima: solo l'amore vale la pena di vivere”.
Ma anche no:
“La vita nella sua più alta espressione, che è l'amore, non è che un vano miserabile sogno”.
Al lettore l'ardua sentenza...
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Portnoy-oy-oy-oy-oy!
Dalle pagine di questo libro emerge assoluta sincerità e una sensazione palpabile di vita interiore tormentosamente vissuta, mentre sul lettino di un analista l'io narrante, Alexander Portnoy, srotola un monologo di pensieri, ricordi e impressioni conflittuali.
Ben poco sembra inventato e i personaggi spiccano subito con estremo realismo nei loro tratti peculiari.
La madre, innanzitutto, dispensatrice di cibo kosher e sensi di colpa con il suo affetto opprimente, la sua bontà posticcia e inacidita, i discutibili metodi educativi.
Era lei, per esempio, che vagamente minacciosa impugnava un coltello quando il figlio si rifiutava di mangiare, ma sempre a lei è legato il ricordo struggente e poetico di un cielo autunnale:
“Vedi? Vedi come è viola? E' proprio un cielo d'autunno”.
E poi il padre, zelante e frustrato agente di assicurazioni perennemente alle prese con problemi di stitichezza:
“Oh, questo padre mio! Questo gentile, ansioso, stitico padre mio che non riusciva mai a capire niente!”.
Ma era con lui che ogni anno, a novembre, andava a comprare vero sidro di mele per il Giorno del Ringraziamento, rituale necessario che li legava per tacita intesa.
“Perché ho disertato la mia famiglia?”.
Alex non sembra guadagnarci molto dal fatto di avere un'intelligenza al di sopra della media, e porta come una zavorra le sue origini ebraiche.
A quanto pare il perenne senso di inadeguatezza che lo tormenta proviene tutto da lì, e sbattere in faccia agli amati-odiati genitori il suo ateismo condito di idee socialiste è il primo gesto di ribellione adolescenziale - se si escludono le sue assidue pratiche onanistiche:
“Sono il Raskolnikov delle pippe”, afferma, visto che come il personaggio dostoevskiano i suoi “delitti” li consuma pericolosamente, a rischio di essere beccato.
Disabile sentimentale sempre a caccia di avventure sessuali, da adulto vagheggia un ideale di focolare domestico con moglie e figli, ma nel suo animo intollerante e invidioso, oppresso dalla vergogna e dalla colpa, l'amore non può attecchire.
I conti decisamente non tornano nella sua esistenza di avvocato trentatreenne irrisolto e deluso: “Non è mai abbastanza per me. Mai! Bisogna che io abbia. Ma avere che cosa?”.
Tenendo fede al titolo, il romanzo indugia un po' troppo sul piagnisteo in progressione tra rabbia, rimpianti e rimorsi, e soprattutto nella seconda parte diventa un tantino prolisso e ripetitivo.
Ma lo stile resta pur sempre diretto ed efficace, carico di sarcasmo.
Preda di ossessioni castranti e del ricordo di ferite grandi e piccole mai rimarginate, Portnoy è in definitiva un bambino cristallizzato che non riesce a diventare un uomo:
“Con una vita come la mia, Dottore, mi vuole dire a cosa servono i sogni?”.
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Felici da morire
“Il grande problema, quello cruciale, era capire perché ci amavamo”.
Due solitudini che si riconoscono, due psicopatologie che si incastrano alla perfezione realizzando un legame mortifero.
Si sentono i palpiti dell'amore in questo romanzo, ma sono inesorabili come la morte.
Con stile fluido ed essenziale Charles - protagonista di una storia inventata nella trama ma di sicuro autentica nelle sensazioni - scrive dal carcere al suo giudice una confessione a cuore aperto, avendo ravvisato anche in lui quella zona d'ombra che gli appartiene, quell'angolo oscuro dove va talvolta a rifugiarsi la libertà frustrata, fuori dai condizionamenti che gli altri ci impongono.
Charles è medico, padre e marito senza che lo abbia mai davvero scelto, e si ritrova a vivere in una città di provincia accettando il ruolo che qualcun altro gli ha cucito addosso.
Le avventure extraconiugali che si concede ogni tanto (non ha mai amato né desiderato la moglie) non bastano a colmare un senso di vuoto che è quasi vertigine, un anelito di vita vera che non può più essere ignorato.
L'incontro con Martine, giovane donna più civettuola che bella, possiede la forza fatale e travolgente degli eventi casuali.
La rivelazione avviene dopo un amplesso consumato in uno squallido alberghetto, quando l'uomo passa dall'indifferenza ad uno stato di estrema consapevolezza:
“Ho amato d'un tratto tutto il suo corpo, di cui sentivo i minimi fremiti”.
Sono i fremiti di un'angoscia profonda che ha portato la ragazza a darsi compulsivamente a numerosi uomini ricercandone le attenzioni, senza trarne peraltro alcun piacere.
Ma ora che l'assenza di lei è diventata perfino dolore fisico Charles la vuole solo sua, innocente e bambina, e picchia con furia la sgualdrina che potrebbe ancora essere, ne scaccia l'immagine immonda, mentre Martine, groviglio inestricabile di sensi di colpa, si sottomette remissiva.
Dopo, tornata pura come lui la vuole, trasfigurata dalla passione, la stringe tra le braccia “con infinita dolcezza” e ne consola tutte le paure, conoscendone esattamente l'origine (d'altronde non c'è più niente che ignori della sua vita).
Stretti l'uno all'altra, affrontano i fantasmi del passato di lei che ossessionano la mente di lui:
“Non sapevamo dove stavamo andando ma non potevamo andare altrove”.
Seguire le riflessioni dell'io narrante porta ad una visione chiara del suo punto di vista, talmente chiara che a volte i suoi pensieri allucinati ingannano, passando al lettore come se avessero una logica, mentre dalle pagine emerge un sentimento doloroso, divorante, paradossale.
E' l'amore di un folle, è la follia dell'amore:
“Eravamo felici da morire, Martine e io”.
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“In me tu vedi il crepuscolo di un giorno..."
Quella di William Stoner non è la storia di un uomo che ha lasciato tracce memorabili nella sua esistenza. Lo scrittore mette le cose in chiaro fin dall'inizio, gettando subito sul romanzo una luce di malinconia e disillusione.
Sono i dettagli quelli che contano in questo libro, oltre ai punti salienti di una vita che procede malgrado i numerosi fallimenti.
Dopo averne conosciuto i sentimenti più riposti ci si sente crudeli a definire Stoner un fallito, sebbene lo sia indubbiamente sotto molti punti di vista.
Ma non si dimenticano le sue mani tozze e brune, sciupate dal lavoro nei campi - le mani di un figlio di contadini poveri - che sfogliano delicatamente un libro di letteratura, non si dimentica la sua folgorazione durante una lezione all'università di Columbia:
“Shakespeare le parla attraverso tre secoli di storia, Mr Stoner. Riesce a sentirlo?”.
Li sente eccome quei versi struggenti, con un'intensità che lo stordisce e che cambierà la sua vita:
“In me tu vedi il crepuscolo di un giorno che dopo il tramonto svanisce all'occidente...”
Il campus diviene la sua vera casa, studia con passione per recuperare il tempo perduto fino a consumarsi gli occhi, e i libri resteranno sempre i suoi fedeli compagni.
Quarant'anni di vita accademica in qualità di docente, quarant'anni di matrimonio con una moglie nevrotica che farà pagare a lui un'infanzia infelice e anaffettiva, e che per gelosia e invidia ucciderà la felicità della figlia distruggendo metodicamente il suo rapporto col padre.
Stoner incassa i colpi senza reagire più di tanto, lotta con dignità per ciò in cui crede ma si lascia più volte disarcionare, mentre le sue spalle di studioso si incurvano sotto il peso del tempo che avanza e delle frustrazioni personali e professionali.
Comincerà a morire molto prima della sua fine effettiva, quando rinuncerà all'amore senza combattere.
“Non ho mai imparato”, dice ad un collega ed amico, che a differenza sua sembra sapere perfettamente come si sta al mondo.
Le ultime pagine toccano le vette del capolavoro, mentre il lettore fa suo in un certo modo doloroso l'interrogativo di respiro universale che Stoner rivolge a se stesso:
“Cosa ti aspettavi?”.
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Il centro del bersaglio
Se si potesse entrare in questa storia diventandone un personaggio di rilievo occorrerebbero nervi saldi, occhi e orecchie bene aperti e una buona dose di intuito. La capacità, insomma, di cogliere al volo i particolari e il significato che sta nascosto dietro le parole più banali.
Che possibilità restano alla giustizia?
Non molte, se si vuole prestare fede al messaggio ironico e amaro dello scrittore, che espone i fatti dettagliatamente cominciando dal presunto omicidio di un diplomatico.
Presunto, perché con un po' di buona volontà potrebbe anche passare per suicidio ed essere archiviato come una storia semplice, a meno che non si voglia andare a cercare il pelo nell'uovo.
Il pelo in questione lo trova quasi subito un brigadiere con “il vizio di intervenire”, quando si accorge di un tentativo di depistaggio improvvisato e astuto nel suo genere.
A volte basta aggiungere un semplice punto ad una frase ritrovata vicino ad un cadavere per stravolgerne completamente il significato e, nel caso particolare, “dar l'impressione che con quel punto l'uomo aveva appunto messo un punto fermo alla propria esistenza”.
Lo scrittore gioca chiaramente con le parole e deride sottilmente l'andamento stiracchiato delle indagini, con le forze dell'ordine che sono solite intervenire “al più presto possibile ma appena possibile, così collocando la possibilità in modo da non illudere sulla prestezza”.
Intanto una verità scomoda e clamorosa si fa strada per chi abbia l'onestà intellettuale di guardarla in faccia: mettete insieme un paio di guanti e due occhi “invetrati come di terrore” ed avrete l'immagine di un omicida.
I dialoghi sono una delle chicche di questo racconto, caratterizzato da arguti botta e risposta all'ultimo sangue:
“Badi che colpire il centro di un bersaglio non basta per essere considerati buoni tiratori. Ci vuole destrezza, rapidità...”.
Vince chi riesce a non farsi mettere nel sacco da chi può cambiare le carte in tavola trasformando un testimone oculare in un colpevole, e vince, è ovvio, chi ha l'accortezza di non farsi ammazzare con frasi avventate.
L'importante è non tornare sui propri passi, soprattutto se portano in questura per raccontare fatti di cui si è a conoscenza:
“E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?”.
In effetti, non sembra che restino molte possibilità alla giustizia.
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“Io sono, io sono, io sono”
Una certa sensazione di inadeguatezza aleggia fin dalle prime pagine di questo romanzo in buona parte autobiografico, malgrado lo stile leggero e informale che lo caratterizza.
Esther, promettente studentessa della borghesia di Boston, vince insieme ad altre undici ragazze un concorso letterario indetto da una rivista di moda femminile.
Il premio è uno stage di un mese presso la redazione di New York, con la possibiltà di godere gratuitamente di tutto ciò che la megalopoli offre.
La Grande Mela è lì, invitante e caotica, e non riuscire a morderne almeno un pezzo guidando la propria esistenza nella giusta direzione significa essere dei perdenti:
“Ma io non guidavo proprio un bel niente, nemmeno me stessa”.
Nel libro emerge chiara la condizione ambigua della donna americana degli anni Cinquanta: se da un lato se ne incoraggia l'istruzione invitandola a coltivare le proprie passioni, dall'altro c'è sempre per lei la meta suprema da cui non può prescindere: sposarsi, accudire il marito, avere dei figli.
La sensibilità e l'intelligenza di Esther la portano a respingere ciò che la morale comune le impone e a prendere le distanze dal ragazzo che dovrebbe sposare, cominciando a disprezzarlo dopo un episodio che le rivela la misura della sua ipocrisia.
Il disagio lascia gradualmente il posto ad un vero e proprio malessere: è l'incertezza del futuro, il fatto di non sentirsi attraente, la sostanziale solitudine della ragazza:
“Sentivo le lacrime urgere in me, e lì lì per traboccare come l'acqua in un bicchiere troppo pieno”.
Emblematici il distacco e l'indifferenza con cui le cortesi persone dell'ambiente patinato che la circonda reagiscono al suo pianto, facendola sentire “fiacca e tradita”.
I primi allarmanti segni di alienazione mentale si manifestano poco prima del suo ritorno a casa, sotto forma di strani comportamenti descritti con logica apparente:
“...tenevo il viso immobile e quando dovevo parlare lo facevo attraverso i denti senza muovere il labbro. Veramente non vedevo perché la gente dovesse guardarmi così”.
Esther non riesce più a dormire, mangiare, leggere, ha il terrore di perdere completamente la ragione, ma ciò che le fa soprattutto desiderare di morire è il fatto di non riuscire più a scrivere, lei che sogna di diventare una poetessa.
Tutto le si confonde in testa e le diventa indifferente: “...sarei sempre rimasta là seduta sotto la medesima campana di vetro soffocando nella mia stessa aria viziata”.
La falsità di una società bacchettona e tutte le ferite del passato sembrano attaccarla sotto forma di grigiume, angoscia soffocante, sedute di elettroshock, e il lettore si ritrova dall'altra parte della barricata: quella del malato mentale oggetto di sguardi diffidenti e risatine.
Ma è il dolore di una mente brillante e alienata ciò che spicca su tutto, il bisogno di Esther di trovare un appiglio, qualcuno di cui fidarsi che le tenda una mano nel suo precipitare verso la follia.
“Io sono, io sono, io sono”, è il canto disperato del suo cuore, che la richiama alla vita tutte le volte in cui corteggia la morte.
Guarire significa avere la forza di rassegnarsi, tornare ad apprezzare le piccole gioie quotidiane, dimenticare l'attrazione che esercitano su di lei gli oggetti affilati.
La sua prosa è schietta, la sua poesia disincantata:
“Morire
E’ un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammettete che ho la vocazione”.
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"Non sollevare il velo dipinto..."
“Non sollevare il velo dipinto che quelli che vivono chiamano vita” (da una poesia di Shelley).
Leggendo la trama di questo romanzo o conoscendone la versione cinematografica si potrebbe pensare ad una tormentata storia d'amore ricca di colpi di scena.
In realtà di sentimenti autentici non c'è traccia, non solo tra amanti e coniugi ma anche tra familiari, separati paradossalmente da un muro di indifferenza costituito dai ricordi in comune.
Maugham segue la crescita interiore di Kitty, che l'influsso di una madre dispotica e arrampicatrice sociale ha reso frivola al limite della stupidità.
Sposerà un uomo che non ama e partirà col marito alla volta della Cina coloniale, spinta dall'imminente matrimonio della sorella minore, la bruttina di famiglia che riesce dove lei ha fallito: trovare un buon partito.
Kitty dovrà invece accontentarsi di un medico batteriologo che la adora quasi con disperazione, consapevole di non essere ricambiato.
Gli effetti di un rapporto coniugale sbilanciato non si fanno attendere: lui, introverso e taciturno ma sempre amabile nei confronti della moglie, lei, indifferente alla passione di cui è oggetto e più o meno consapevolmente crudele, e l'altro, che incarna alla grande tutti i sogni romantici della donna.
E' interessante notare la variazione dello stile, che sembra adattarsi al mutamento della protagonista: vacuo nei primi capitoli, diventa sempre più profondo, specchio perfetto di uno stato d'animo.
Cosa cerca Kitty? Un punto fermo, una strada da seguire di fronte allo sgretolarsi delle sue certezze:
“Alcuni cercano la Via nell'oppio e altri in Dio, altri nell'alcol e altri nell'amore. Ma è sempre la stessa Via che non conduce in nessun luogo”.
Ai paesaggi fiabeschi della Cina, fra templi, risaie e boschetti di bambù, fa da contrasto l'atmosfera cupa dovuta ad un'epidemia di colera che terrorizza mietendo ogni giorno centinaia di vittime.
E la giovane coppia infelice si ritrova (per ferma e vendicativa volontà di lui) proprio nell'occhio del ciclone.
Qualcuno morirà, qualcun altro sembrerà rifiorire fra difficoltà e tormenti acquisendo nuova consapevolezza, in una sorta di tragicommedia un po' pirandelliana dove ciò che è falso, “il velo dipinto”, finirà in qualche modo per diventare reale.
Lo scrittore non è ai suoi massimi livelli - i concetti a volte si ripetono e scadono nel banale - ma questa storia offre un realistico spaccato di umanità da cui c'è sempre qualcosa da imparare.
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Tra i gabinetti e l'infinito
Raccontare un'esperienza lavorativa da incubo con autoironia e un filo di follia è sicuramente pane per i denti dell'irrefrenabile Amélie Nothomb, che in questo breve romanzo autobiografico ci regala pagine esilaranti il cui stile e contenuto, come sempre, rifuggono dai luoghi comuni senza cedere neanche per un attimo al vittimismo.
Le riflessioni le lascia al lettore mentre rivela la sua brillante scalata all'insuccesso in una multinazionale giapponese, in qualità di ultima ruota del carro di un rigido e disumano sistema gerarchico.
Ce ne sarebbe abbastanza per spezzare il cuore e la tempra di chiunque (lei il Giappone lo amava e in quell'impiego aveva riposto molte aspettative), eppure la scrittrice ha quel modo tutto suo di reagire alle umiliazioni, divertente e un tantino masochistico:
“Com'era bello vivere senza orgoglio e senza intelligenza. Mi ibernavo”.
Anche nelle mansioni più umili è irreprensibile e volenterosa, esaltata tra l'altro dall'attrazione per Fubuki, sua diretta superiore, donna bellissima e sadica che diventa la sua principale persecutrice e stronca prontamente sul nascere l'unica opportunità di carriera che le viene concessa.
Fubuki è il prodotto tipico dell'educazione impartita alle donne giapponesi, a cui fin dall'infanzia vengono tarpate le ali del sogno con una serie infinita di regole da rispettare.
Questo ci spiega la Nothomb, e c'è sempre un baluginare malizioso e sferzante, anche nelle frasi più remissive, che non concede l'onore della vittoria a chi le sta di fronte, perché Amélie è un essere vivo e pensante dotato di un arguto spirito di osservazione.
I suoi sforzi stakanovisti sono destinati fin dall'inizio al fallimento: lei, occidentale e per giunta donna, deve stare al suo posto, messa a far nulla, o ad occuparsi di cose che esulano dalle sue competenze (conosce l'inglese e parla perfettamente francese e giapponese).
E poi arrivano i bagni, accolti con un certo sollievo: “Quando si lustrano i bagni sporchi, il vantaggio è che non c'è da temere di cadere più in basso”.
Ci sarebbe il licenziamento, ma mollare prima della scadenza del contratto annuale sarebbe disonorevole agli occhi di un nipponico e lei tiene duro.
Un'alternativa dignitosa potrebbe essere il suicidio, visto che nel paese del Sol levante nessuno ha da ridire su quest'atto estremo.
E in effetti Amélie tutte le volte che può si lascia mentalmente cadere dall'enorme vetrata del piano in cui lavora, il quarantaquattresimo (lo chiama “lanciarsi nel paesaggio”).
La finestra diventa “la frontiera tra lo sciacquone e il cielo, tra i gabinetti e l'infinito”, e immaginare di lanciarsi nel vuoto osservando se stessa e la città è un atto di contemplazione che rimpiangerà una volta portato a termine il suo anno lavorativo:
“Finché esisteranno finestre l'essere umano più umile della terra avrà la sua parte di libertà”.
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Quattro triglie di scoglio in brodetto
“Dominivobisco”.
“Etticummi spiri totò”.
“Itivìnni, la missa è”.
Vigata, 1877: termina la messa in latino maccheronico e inizia il romanzo, con la figura di padre Artemio Carnazza che si affretta a ritirarsi in sacrestia.
Donnaiolo e usuraio, esponente minore di un clero corrotto, don Carnazza morirà presto “sparato”, e non si può certo dire che non se la sia andata a cercare, tra mariti cornuti, amanti gelose, debitori strozzati e parenti derubati ai sensi di legge.
Alla sua morte le voci di paese si rincorrono e la verità è sulla bocca di tutti, che badano però a tenerla ben chiusa.
L'ultima sua amante è la donna più bella del paese, la vedova Trisìna Cìcero (“indubbiamente una grandissima buttana”), che si concede al prete un tanto al centimetro in base ad accordi prestabiliti:
“Una vasata senza lingua, mezzo chilo di farina; una vasata con la lingua, un chilo di pasta fina di Napoli; una vasata con la lingua e le due minne nude, tre tazzine di porcellana...”.
Trattative estenuanti, ma la carne di padre Carnazza è notoriamente debole e anche il suo spirito a dire il vero lascia abbastanza a desiderare.
Sono molte le autorità temute e disprezzate a Vigata, e questo indegno ministro di Dio non fa eccezione: le pagine che Camilleri gli costruisce attorno (spassosissime tra l'altro) sembrano la versione viziosa del don Abbondio di manzoniana memoria.
Nel suo cadavere inciamperà in senso proprio e figurato Giovanni Bovara, genovese d'adozione nato a Vigata, che in qualità di ispettore capo ai mulini della zona si ritrova in un ambiente destabilizzante e arretrato, dove gli viene riservata un'accoglienza particolare.
Le acrobazie stilistiche di Camilleri in questo libro arrivano al virtuosismo: siciliano, genovese, italiano, italiano sicilianizzato... Per non parlare dei documenti ufficiali redatti con linguaggio ottocentesco dotto o popolare, a seconda dei casi.
La narrazione è comunque scorrevole grazie all'ironia e ai dialoghi arguti tra i personaggi, e il lettore viene coinvolto in una storia intrigante, spettatore di una sfida dove si vince d'astuzia, anticipando le mosse del nemico.
Le lusinghe del capomafia locale, innanzitutto, il cui nome nessuno pronuncia senza timore reverenziale, e poi le minacce velate, le mezze frasi, le metafore che nella sua inesperienza il nuovo ispettore non riesce ad afferrare.
Del resto lui, incurante di tutto, compie con solerzia il suo dovere, turbando un consolidato sistema di corruzione che arriva ai piani alti della politica.
“Questo Bovara è uno strunzo ed uno strunzo che fa il furbo”, è l'opinione generale dei suoi diretti superiori.
Lo incastrano, ovviamente, e in maniera abbastanza approssimativa, ma poco importa visto che tutti fanno finta di crederci: peggio per chi non sa difendersi e non si adatta a certe dinamiche.
Bovara capirà per istinto che l'unico modo per stendere chi lo ha messo al tappeto è imitare la sua strategia, ed è così che dimentica il genovese e comincia a parlare e pensare in siciliano, raccontando una versione dei fatti riveduta e corretta.
E' la mossa del cavallo, l'unico pezzo della scacchiera che può scavalcare tutti gli altri.
“Quello la lezione se l'imparò e ce la sta mettendo nel culu para para”.
Vivido affresco di un'epoca lontana ma per molti versi straordinariamente attuale (emblematiche le parole del capomafia, che accusa la magistratura di asservimento al potere della sinistra), questo romanzo mette realisticamente in luce forze avverse alla giustizia e impossibili da sradicare.
E' già tanto se si riesce ad aver salva la pelle, accontentandosi di mezze verità:
“Si consolò, al ristorante, con quattro triglie di scoglio in brodetto”.
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Bibbuzza mia...
Per sublimare una materia grezza e un po' sordida ci vogliono maestria, arte e magia, doti che Camilleri dimostra di possedere al massimo grado in questo romanzo, l'ultimo e il migliore della sua Trilogia delle metamorfosi.
Protagonista è Giurlà, cresciuto vicino al mare e figlio di un pescatore, che scopre di appartenere alla terra quando le necessità economiche della famiglia lo portano lontano da casa a lavorare come pastore di capre.
Il primo contatto del ragazzo con l'acqua dolce di un lago, mai assaggiata, è una rivelazione, e fa emergere una carica sensuale che sarà il leitmotiv dell'intera narrazione:
“Tirò fora la lingua, si liccò le labbra. Era acqua duci, che si potiva viviri”.
Giurlà non ci metterà molto ad ambientarsi e a capire che il suo posto è lì, tra i prati e i pascoli, ad inebriarsi di odori e colori:
“... la campagna aviva cento profumi che s'intricciavano l'uno con l'autro e addivintavano milli, dumila...”.
Svegliarsi al mattino presto con animo tranquillo, mangiare pane, formaggio e olive, lavarsi sotto la cascatella ghiacciata del lago, portare le capre a pascolare: la vita agreste fa proprio per lui, mentre diventa uomo, riceve orgoglioso la sua paga, beve per la prima volta vino e scopre il sesso.
Semianalfabeta, trova un libro nella sua capanna e resta incantato dalla lettura del poeta Lucrezio, che gli insegna a riflettere sulla vita e sulla morte, sul mutamento necessario delle cose...
Ma a fare la differenza sarà la passione inaspettata per Beba, sentimento che affonda le radici nel mistero dell'esistenza.
Ed ecco la magia, la capacità di trasformare in una storia d'amore ciò che potrebbe sembrare una depravazione ... perché Beba è una capra.
Capra sì, ma anche femmina furiosamente gelosa (le sue scenate a base di morsi e cornate sono esilaranti).
Lei lo riconosce dal primo giorno e vuole stargli sempre vicino, vuole lui, non c'è dubbio, e Giurlà finisce per volere lei e solo lei, con il cuore ed i sensi: “La tò mancanza mi maciria, mi fa la solitudini cchiù solitaria”.
Non ci sono ostacoli insormontabili in questa storia, dove creature agli antipodi si incontrano e si uniscono al di là della ragione e dei pregiudizi.
“Bibbuzza mia, beddra, soli me, cori me...”, mormora Giurlà quando crede che ormai tutto sia perduto, e il suo dolore arriva al lettore con incredibile intensità.
E' più verosimile che un capraio sposi una capra o una marchesa?
La risposta, tutt'altro che scontata, è racchiusa in queste pagine mistiche e carnali.
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Notturno in do diesis minore
Wladyslaw Szpilman è uno degli eletti, un ebreo sopravvissuto all'inferno della persecuzione nazista.
La sua storia ha dell'incredibile e merita di essere conosciuta per la straordinaria forza vitale che trasmette, malgrado parli soprattutto di morte.
L'orrore del ghetto di Varsavia, con mezzo milione di ebrei prigionieri in una piccola parte della città, è raccontato con uno stile sobrio che fa trapelare appena le emozioni e lascia soprattutto spazio ai fatti nudi e crudi.
Il ghetto, imposto dagli invasori tedeschi, è come una bolgia di dannati costretti a vivere in zone delimitate, a restare in guardia per non incrociare nazisti di cattivo umore, a tornare a casa ripulendosi dai pidocchi portatori di tifo.
E poi, mentre il cerchio si stringe, le retate, le uccisioni quotidiane, lo spettro della miseria, le umiliazioni dei sadici oppressori contro la gente inerme, i lamenti degli orfani che mendicano cibo, la sensazione costante di un pericolo che incombe.
Szpilman è pianista e compositore e continua a pigiare sui tasti anche quando il frastuono dell'artiglieria tedesca copre la sua musica, con un accanimento che ha tutta la dignità offesa della sua arte.
Costretto a nascondersi e a vivere di espedienti, porta sempre con sé le sue composizioni, insieme alle uniche cose ancora in suo possesso: un orologio e una penna stilografica.
Non c'è odio o desiderio di vendetta nelle pagine che ha lasciato, solo una pacata tristezza e il desiderio di ricordare, più per se stesso che per gli altri.
Con immagini vivide e toccanti racconta della sua famiglia scomparsa, racconta di sua madre, che non mancava mai di scodellare a tavola la minestra, assicurandosi che tovaglia e tovaglioli fossero sempre puliti e che non si parlasse di argomenti tristi:
“Passerà tutto, aspettate e vedrete”.
L'ultimo pasto consumato insieme ai genitori, alle sorelle e al fratello prima della fatale partenza (lui verrà sottratto al convoglio da un conoscente all'ultimo minuto) è una piccola crème caramel divisa in sei parti da suo padre.
Ricorda l'estremo saluto di quest'ultimo tra la folla di disperati prima di salire sul treno diretto ai campi di sterminio: “...sollevò una mano in un gesto d'addio, come se lui dall'oltretomba prendesse congedo da me, che partivo verso la vita”.
La morte gli passa spesso accanto, lo insegue ma non riesce mai ad agguantarlo.
Per qualche motivo, lui deve vivere ed andare avanti anche quando la sua stessa volontà è fiaccata dalle sofferenze.
Questo dato di fatto, percepito chiaramente dopo essersi risvegliato vivo tra i resti ancora fumanti di un edificio in fiamme, è una rivelazione che gli procura rinnovata energia:
“Una brama illimitata e animalesca di vivere a qualsiasi prezzo”.
E' ormai allo stremo delle forze e fuggiasco da anni quando un ufficiale tedesco lo aiuta a nascondersi e gli procura del cibo.
Nel bel film di Roman Polanski che ne è stato tratto, il nazista appare ammaliato e convertito al bene dall'esecuzione al piano di Szpilman.
In realtà l'ufficiale aveva già salvato diversi ebrei e l'incontro fra i due uomini è semplicemente il trionfo dell'umanità in mezzo alla barbarie, celebrato da un Notturno di Chopin che Wladek esegue con mani irrigidite e sudicie su un pianoforte scordato.
Le note fluttuano sulle macerie circostanti e tornano indietro “in un'eco sommessa e malinconica”:
è il primo spiraglio di luce, l'alba ancora timida che annuncia la sconfitta delle tenebre.
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“Perché sono tutti così gentili con me?”
“Il processo di rinascita dopo una sbornia terribile era di una bellezza paradisiaca. Non c'è niente di più bello che superare il picco del malessere”.
Hanno spesso un senso nascosto ed ambiguo le frasi di questo romanzo, “fantasia dolorosa” che la Yoshimoto ha messo nero su bianco prendendo spunto dal film “Trauma” dell'amico Dario Argento.
Lo stile è un po' adolescenziale, forse perché voce narrante è Yumiko, ragazza dall'infanzia irrisolta che conduce un'esistenza stramba e appartata.
Commercio e affari, magia e stregoneria si intrecciano in una storia che possiede una certa grazia naïf, permeata di dolcezza e gioia di vivere:
“Guardando il cielo, si ha la sensazione che il semplice fatto di esistere sia felicità pura”.
Rimasta sola al mondo dopo la tragica morte dei genitori (un caso di omicidio-suicidio durante una seduta spiritica), Yumiko si libererà con l'aiuto del cugino Shoichi, vecchio compagno di giochi, di quel “grumo di fango” che le impedisce di ricordare episodi dolorosi della sua vita. Una vita dai molti punti oscuri, dove qualcosa decisamente non quadra.
Proprio per questo colpisce l'indole positiva della giovane donna, la sua purezza interiore, e quasi impietosisce il suo continuo e immotivato bisogno di chiedere scusa.
La realtà è che Yumiko è sola di una solitudine profonda, e ne acquisterà consapevolezza dopo aver reso Shoichi partecipe dei suoi pensieri, condividendo con lui le piccole gioie della quotidianità.
A quel punto si sentirà sollevata, amata, capita:
“...osservavo con serenità, nella luce del mattino, il processo con cui le cose semplici ritornano a essere semplici”.
Non mancano nella narrazione ripetizioni e frasi superflue, ma bisogna riconoscere alla scrittrice l'abilità di usare parole che solo dopo la clamorosa rivelazione finale acquisteranno il loro reale significato.
“Perché sono tutti così gentili con me?”, si chiede Yumiko nel corso del viaggio che intraprenderà sulle tracce del suo passato.
Lo scoprirà con doloroso stupore, nostalgia e gratitudine, accettando la sua sorte senza rimpianti:
“Probabilmente amare qualcuno significa questo. Poter pensare all'altro escludendo se stessi”.
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“Dov'è dunque Dio?”
“Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto”.
La tragedia della Shoah sembra una pagina sempre aperta: quando si pensa di saperne abbastanza ecco che un'altra testimonianza aggiunge un nuovo tassello al mosaico infinito dell'orrore.
La storia di Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace, si colora a tratti di lirismo, come se oppresso da una sofferenza arrivata al limite dell'umanamente sopportabile lo scrittore si elevasse al di sopra della terra con un canto sublime.
Eliezer era un ragazzo profondamente credente che studiava con entusiasmo il Talmud e frequentava la sinagoga. Viveva a Sighet, piccola città della Transilvania, con i genitori commercianti e le tre sorelle.
La discesa agli inferi inizia lenta e costante, ignorata da chi preferisce negarla: prima le restrizioni agli ebrei, poi la deportazione e il lungo spaventoso viaggio stipati su carri bestiame, destinazione Auschwitz.
Questo nome suscita a primo impatto più curiosità che paura: “Nessuno l'aveva mai sentito dire”.
A togliere ogni illusione sul tipo di accoglienza che sarà loro riservata è la visione notturna di fiamme che salgono da un alto camino, e l'odore di carne bruciata.
Eliezer e il padre non vengono separati e l'amore che li lega li tiene reciprocamente in vita, o almeno questa è la loro illusione.
Ma scopriranno presto che in un lager aver vicino una persona cara significa soprattutto essere ancora più esposti alla crudeltà degli aguzzini:
“Avevano picchiato mio padre davanti ai miei occhi e io non avevo battuto ciglio. Avevo guardato e avevo taciuto”.
E' solo l'inizio, il primo cambiamento che suscita colpa e vergogna, l'istinto primordiale alla sopravvivenza che non conosce affetti di sorta.
Perché uccidere il corpo è ancora niente: è divorare l'anima il capolavoro del Male.
I liberatori non sono lontani e la speranza si riaccende: forse è valsa la pena resistere, forse si sopravviverà, forse...
Lasciano Auschwitz-Bikernau per raggiungere Buchenwald, un campo distante cinquecento chilometri. Il tragitto è un inferno senza fiamme, bianco come la neve che non smette di cadere mentre si marcia a ritmo sostenuto. Chi si ferma è perduto: assiderato, calpestato dagli altri o freddato dalle S.S.
Nei momenti di sosta il manto nevoso diventa invitante come una coltre calda: “Non ti far prendere dal sonno, Eliezer. E' pericoloso addormentarsi nella neve...”, è la voce accorata del padre.
Si prosegue su carri bestiame senza tetto, dieci giorni senza cibo né acqua, scheletri umani stremati e tuttavia pronti ad uccidersi fra loro per un pezzetto di pane.
Il grido disperato che l'ultimo giorno di viaggio si leva da tutti i vagoni tra i pochi sopravvissuti sembra concentrare in sé tutto il dolore dell'umanità e resta dolorosamente impresso nella memoria del lettore.
Come l'immagine del bambino dagli occhi di angelo triste, appeso ad una forca.
“Dov'è dunque Dio?”, mormora un detenuto.
Parole amare affiorano nella mente di Eliezer:
“Dov'è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca...”.
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Nino e Minica
Alcune pagine di questa storia hanno il profumo genuino delle gioie semplici e l'effetto riposante che comunica la vicinanza delle anime pure, altre il sapore del sangue.
Il linguaggio è schietto, la trama dolceamara: in qualche modo tutto sembra volgere sempre al bene, anche se non vengono risparmiati i particolari raccapriccianti di un omicidio e di uno stupro.
Protagonista è il casellante Nino, che insieme alla moglie Minica abita nei pressi di Vigata, tra mare e campagna, in una casa con annesso orticello.
Lo scorrere del tempo è scandito dal passaggio dei treni a carbone, che se la prendono comoda.
Qualche volta non arrivano a causa del bombardamento di un tratto della linea ferrata (siamo nel periodo bellico), ma più spesso ritardano per l'attraversamento di un gregge, o per il contrattempo di un passeggero.
Sì, perché il treno, già lento di suo, ha la particolarità di aspettare i ritardatari, e pochi tra i passeggeri, che sono sempre gli stessi, hanno qualcosa da ridire.
Vari personaggi popolano il romanzo: la “mammana”, esperta di parti, aborti e quant'altro, il capomafia don Simone rispettato da tutti (non si muove foglia che lui non voglia), il fascista piantagrane e il barbiere, depositario dei segreti del paese.
Quella della coppia è una vita serena, allietata ulteriormente dalla notizia dell'arrivo di un figlio atteso da tempo (le pagine dove un'esperta di erbe visita e cura Nino dalla sterilità sono abbastanza spassose).
Di indole pacifica e incapace di fare del male Nino non si aspetta certo di riceverne, ma la sua mano non tremerà di fronte al suo dovere di uomo: uccidere per fare giustizia...
Il colpo arriva dopo una disavventura che prepara il terreno alla tragedia e il dolore è troppo forte per la sua Minica, che perde il figlio che aspettava e non può più averne.
Sopravvive, ma pare uscita di senno: “Voglio fare frutti”.
Istintivamente cerca il contatto con la terra, scava una buca e ci resta dentro giorno e notte: non c'è verso di farla uscire, vuole diventare un albero e Nino finisce per assecondarla.
Camilleri si sofferma sulle incombenze quotidiane del protagonista, cariche di tenerezza, forza e dedizione, necessarie per andare avanti e non soccombere alla sventura:
“A mezzojorno e mezza priparava il mangiare, pasta per lui e dù ova per lei, poi lavava i piatti. La sira inveci cociva 'na ministrina di virdura per lei...”.
E poi il latte caldo di capra che cerca con pazienza di far bere alla moglie, dopo essersi rassegnato ad “annaffiarla” con un secchio d'acqua.
Qualcosa incredibilmente succede, una metamorfosi sembra già in atto nei piedi di Minica, come se la terra volesse accoglierla, lei però non se ne accorge:
“'Nutili”, sentenzia alla fine, e la sua è una richiesta di morte.
Ma il destino ha altri piani, e saranno i violenti bombardamenti degli alleati a portare inaspettatamente nuova vita.
Le tenebre si diradano con l'immagine di una maternità che possiede la sacralità delle cose arrivate dal cielo:
“Nella grutta, col bianco della marna, pariva che si era fatto jorno”.
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Non fare quello che vuoi. Fai quello che non vuoi.
Il libro parte come un fumettone splatter caotico e demenziale, difficilmente masticabile per chi non è abituato allo stile eccentrico di Palahniuk.
Induce ad andare avanti il fatto di ritrovarsi a ridere di fronte al dramma di una modella orrendamente sfigurata da un colpo d'arma da fuoco: è evidente che per ottenere un effetto del genere occorre possedere doti narrative non comuni.
Nessuno la guarda, sembra diventata invisibile, emette suoni inarticolati, formula pensieri disperati: “Oh, amatemi, amatemi, amatemi, amatemi, amatemi, amatemi, amatemi, amatemi. Sarò chiunque vogliate che io sia”.
La parodia della moderna società americana procede per episodi dissacranti e sopra le righe, senza una precisa sequenza temporale, tra spaccati di vita familiare dove l'ipocrisia regna sovrana e set improbabili con la protagonista che posa docile alle direttive del fotografo:
“Dammi lussuria, piccola. Flash. Dammi malizia. Flash. Dammi ennui esistenzialista distaccato. Flash. Dammi intellettualismo rampante come meccanismo protettivo. Flash.”
Niente è come sembra, si è spesso ripetuto a proposito di questo romanzo.
Ma le clamorose rivelazioni delle ultime pagine non stupiscono più di quanto già facciano certe delucidazioni sul sesso spinto snocciolate ai genitori durante il giorno del Ringraziamento o il loro regalo di Natale alla figlia: preservativi adatti a tutte le esigenze (qui l'umorismo surreale è da manuale).
C'è dietro tutta una tragedia familiare su un figlio gay, con i due coniugi che si affannano a mostrarsi omofobi pentiti, convertiti alla causa fino all'ossessione paranoica (che siano loro alla fine i veri mostri invisibili?).
Frasi argute e “fuori dalle etichette” si alternano a quintalate di psicofarmaci ed estrogeni ingoiati come mentine, mentre seguiamo in giro per gli States un bizzarro terzetto: l'ex modella mostruosa, il bel transessuale, l'ex fidanzato poliziotto non esattamente etero.
Qualcosa li accomuna e qualcuno di loro lo sa, ma forse non sa che anche l'altro sa...
In questo marasma c'è spazio per un paio di scene omosex un po' troppo vicine alla pornografia e per riflessioni che mirano a scuotere le coscienze:
“Siamo così intrappolati che qualsiasi via d'uscita riusciamo a immaginare è solo un'altra parte della trappola. Qualsiasi cosa vogliamo, siamo ammaestrati a volerla”.
Dunque: “Non fare quello che vuoi. Fai quello che non vuoi. Fai quello che sei allenata a non volere”.
Questa regola è la chiave della libertà secondo Palahniuk, che non dimentica l'importanza dell'amore incondizionato:
“Completamente e totalmente, permanentemente e senza speranza di ricompensa, solo come un atto di volontà, amerò qualcuno” (ma la volontà non era ammaestrata?).
Lo scrittore incastona le sue perle di saggezza su un materiale che è spesso troppo confusionario per risultare del tutto convincente, ed è un peccato, anche perché la narrazione risulta appesantita e la piacevolezza del romanzo ne risente.
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- no
L'attesa di Frank
L'analisi che Simenon fa di certi suoi personaggi colpisce per la capacità introspettiva profonda e ad alto impatto realistico che lo avvicina ai grandi della letteratura, e nel caso specifico a Dostoevskij in Delitto e Castigo.
Protagonista di questa storia è Frank, diciannovenne cresciuto nella casa di appuntamenti della madre in una città dell'Europa centrale occupata da truppe straniere non meglio identificate.
Quello che spicca è lo squallore dell'insieme: una galleria di personaggi equivoci sullo sfondo di un paesaggio innevato e mai del tutto candido, come l'anima del protagonista, contaminata fin dall'infanzia dal cattivo esempio materno.
La voglia di far fuori qualcuno sorge spontanea in Frank, come quella di bere o di possedere una donna, e trova radici in una vaga smania di autodistruzione.
Non gli importa farsi beccare e sfida la sorte perché dia una scossa alla sua esistenza oziosa e dissoluta, liberandolo da una madre che disprezza e da quel vuoto doloroso e inconfessabile dovuto alla mancanza di un padre.
E' un infelice che non accetta pietà e vive rumorosamente per attirare l'attenzione: non gli dispiacerebbe mettersi alla prova, curioso perfino di scoprire le sue reazioni e il suo grado di sopportazione alla tortura.
I suoi pensieri, i suoi desideri più riposti battono ossessivamente le stesse vie contorte, sfociando in due delitti e in un'azione particolarmente turpe contro una ragazza innamorata di lui.
“In qualche punto il destino era in agguato. Ma dove?”.
Finalmente il destino risponde, sotto sembianze che non aveva previsto, con una frase garbata e perentoria: “La prego di seguirmi”.
Non c'è amore in questo romanzo, ce n'è solo l'assenza e il rimpianto, non sembra esserci neppure riscatto, perché manca un vero e proprio pentimento.
Ci sono un corpo e un'anima ripiegati in se stessi, che si crogiolano in un dolore da cui sembrano ricavare una sorta di piacere: “Occorre, innanzitutto, scavarsi la tana e affondarvisi”.
E' il piacere di resistere al precipitare degli eventi in attesa di qualcosa, ma di cosa?
Una calda, preziosa certezza, che Frank alla fine riceve e si tiene stretta al petto nel timore che si dissolva, un piccolo gesto d'attenzione da parte dell'unica persona che per lui conti e che lo ha sempre ignorato.
Tutto il resto è neve sudicia.
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Ti chiamerò Rondine
Strapparsi il cuore per non soffrire più.
E' quello che fa senza difficoltà dopo una delusione d'amore il protagonista di questa storia noir, romantica e surreale:
“Mi bastò individuare l'interruttore interno e spostarlo verso l'universo del né-caldo-né-freddo”.
La Nothomb osserva pensieri e azioni di un trentenne che decide di sottrarsi al dolore annullando in sé ogni sensazione, e lo fa con uno stile dai connotati maschili, muovendosi a proprio agio nel corpo, nel cuore e nella mente di un uomo, in una parabola ascendente che va dall'apatia alla passione, passando per la perversione.
Assistiamo così alla metamorfosi di un innocuo pony express in uno spietato killer su commissione, che poche cose riescono ormai a scuotere dall'indifferenza.
Una di queste è uccidere, l'altra ascoltare alcuni brani di “Amnesiac”, l'album dei Radiohead:
“Quella musica e il mio nuovo mestiere avevano in comune una radicale assenza di nostalgia”.
E' un abile tiratore, non sbaglia un colpo, guadagna bene e finalmente “sente” di nuovo qualcosa. Incredibile la scarica di adrenalina che gli procura far saltare il cervello a qualcuno, è un'ebbrezza legata strettamente all'erotismo.
Ma non chiamatelo serial killer, è troppo volgare: ha semplicemente bisogno del suo omicidio quotidiano per sentirsi vivo. Se uccidere è potere, uccidere senza provare senso di colpa è onnipotenza.
L'ordine di far fuori un ministro e la sua famiglia sconvolge un bel giorno questa sanguinaria routine: inaspettato, arriva lo sguardo impavido della figlia diciottenne del ministro, che precede il killer uccidendo lei stessa il padre, colpevole di aver letto il suo diario.
E' una scena tragicomica, ed è una deflagrazione più potente di un colpo di rivoltella: ecco la donna che sognava! Peccato che lo capisca solo dopo averla a sua volta uccisa.
Non ha esitato un attimo a premere il grilletto contro la ragazza, eppure si fa mille scrupoli prima di aprire il suo diario, arrovellandosi nella curiosità:
“Perché pensavo a lei?”.
Lo legge, alla fine, e le sue pagine ermetiche gli provocheranno sensazioni acutissime, togliendogli il piacere di uccidere.
La chiamerà Rondine, come la rondine entrata al mattino nella sua stanza e morta di paura:
“... vorrei stringerti al cuore, io che ti ho freddamente distrutto, vorrei riscaldarti, io che brucio dal desiderio di sapere chi eri, chi sei”.
La svolta romantica sa di follia e di verità, è un delirio amoroso autentico e fuori dall'ordinario, venato di un'ironia un po' macabra.
Cercherà di riscattarsi difendendo con un estremo gesto di possesso i segreti dell'uccellino-fanciulla, senza neppure averli capiti: “Ho la certezza assoluta di vivere con Rondine”.
E' una storia d'amore?
Lui ne è convinto, come del fatto che non c'è futuro fra loro: per questo non finirà mai.
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Il canto delle sirene
Basta che Camilleri chiuda gli occhi “pi vidiri le cose fatate”, ed è così che la storia del contadino che sposa la sirena, ricordo della sua infanzia, diventa un racconto dal sapore arcaico, condito di ironia e sensualità.
Gnazio Manisco, contadino e muratore, torna a Vigàta, suo paese natale, dopo venticinque anni passati in America. Lo attende un destino insolito, perché insolite sono le due principali scelte della sua vita: la terra che acquista e la donna che sposa.
La prima, lo capisce al primo assaggio (“...pigliava ’na pizzicata di terra tra il pollice e l’indice e se la mittiva supra la lingua”), è terra buona, ma nessuno la vuole comprare: l'ultimo proprietario, svegliato una notte da un lamento, impazzì dopo un incontro ravvicinato con un mostro marino.
La seconda cruciale scelta si chiama Maruzza Musumeci, e forse perché nata su una barca in mezzo al mare ogni tanto crede di essere una sirena e sente forte il richiamo dell'acqua.
Glielo spiega la gnà Pina, vecchia un po' strega e sensale del paese, dopo mesi di proposte andate a vuoto ed un divertente siparietto di candidate.
“Stavota la cosa mi pare seria”.
Quelle dedicate alla gnà Pina, personaggio chiave del romanzo, sono pagine spassose e cesellate alla perfezione, tra battute salaci, proverbi antichi e cantilene magiche.
Le titubanze di Gnazio, che oltre ad odiare da sempre il mare teme di ritrovarsi per sposa una matta, svaniscono di fronte alla rara bellezza di Maruzza: “Era meglio di tutte le fimmine che aveva vidute nella Merica”.
E soprattutto: “Da sutta la gonna spuntavano i piduzzi che addimostravano che era fimmina e no sirena”.
Sirena o no, dal momento che l'amore si impossessa di lui nessun ostacolo gli sembra insuperabile e l'aura di stranezza che circonda la sua amata sembra accecarlo deliziosamente: “La vogliu”.
Maruzza canta in greco antico e la sua voce è un vento caldo che ammalia, annusa il suo pretendente e gli lecca la punta dell'orecchio: “Bono”, sentenzia, e ricomincia a cantare.
A certe sue stravaganze Gnazio si adatta facilmente grazie ad un matrimonio felice e alle gioie dei sensi: “Fimmina era, eccome se era fimmina! La natura fimminina era indove doviva essiri. Che minchiate gli contava Maruzza?”
Del resto, dal canto di una sirena che ama non c'è nulla da temere (la sua passionalità è anzi illimitata), ma da una che serba rancore è meglio stare alla larga.
Lo capiranno a loro spese due uomini, due “Aulissi” (lo scrittore strizza l'occhio al mito di Omero), contro cui occorre vendicarsi per un torto subito nella notte dei tempi...
La guerra e i bombardamenti arrivano alla fine della storia e turbano la quiete terrena, ma nulla possono contro quella ultraterrena. Basta accostare l'orecchio a una certa conchiglia per dimenticare il trambusto di mitragliatrici e cannoni, ascoltando un canto melodioso...
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