Opinione scritta da DanySanny
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Quando dico per me, intendo oggettivamente.
Il primus movens è una tela bianca, rettangolare, tanto neutra e piatta da sembrare metafisica. Eppure quella tela è costata duecentomila franchi, una cifra spropositata anche solo a sillabarla. A ben guardarla, da quel bianco emergono delle sottili linee oblique, fitte e appena in rilievo, e un certo sentore di rosso, più che sfocato, ma pur sempre presente. No, in effetti la tela non è bianca, è un coacervo di emozioni e risentimenti che su questo spazio vuoto scandiscono il tempo della dissoluzione. Perché l’arte contemporanea è solo il pretesto per far esplodere le ipocrisie, la rabbia, l’odio che hanno tenuto insieme i tre amici di questa storia. Un pretesto che è però tanto scarno quanto efficace, tanto muto quanto scenicamente esplosivo perché fa da controcanto alle liti che fin da subito tessono le fila della fine. E se aleggia l’atmosfera dell’assurdo, è perché a volte davvero è l’insignificante accidente del concreto, un quadro, un piatto sbagliato, un vestito poco apprezzato, a far crollare gli edifici più solidi.
Da più parti questo dramma di Yasmina Reza, già autrice di Dio del massacro, è stato definito una commedia amara, ma, a dire la verità, non si ride mai, nemmeno a denti stretti. La scrittura tagliente scava con corrosiva tenacia nelle pieghe fangose dei personaggi e ne fa risaltare le contraddizioni, costringe i tre amici in una stanza della tortura che non lascia loro scampo perché quella tela è talmente fuori da ogni logica che tutto diventa possibile. Non conosce il correttivo dell’ironica Yasmina Reza, no, piuttosto dispiega l’umorismo sfigurante, l’amplificazione teatrale della scena, per creare un vuoto in cui far risuonare, ancora di più, la caduta di quei veli semitrasparenti, impalpabili, che attutiscono le torsioni difficilissime delle relazioni umane. E anche il finale, in cui alcuni hanno visto uno spiraglio di luce, celebra invece l’eutanasia di un rapporto non più possibile.
Quello che più si apprezza di questa opera teatrale, è la scrittura intelligente di Yasmina Reza, la disinvoltura con cui scrive pensando al pubblico, la percezione di come ogni singola frase sia ideata per essere recitata e non semplicemente letta. E allora le variazioni di tono che potrebbero far storcere più di qualcuno, in realtà, si rivelano calibrate alla perfezione. L’atmosfera godottiana, la rarefatta impalpabilità della scena, ben si adattano alla semplicità della trama e, paradossalmente, riescono a rifinire un’atmosfera apparentemente spoglia. L’unico problema è che se in Beckett la sospensione è l’unico spazio possibile per l’attesa, qui invece è una sorta di gabbia che impedisce alla scrittura di sollevarsi da se stessa. Detta altrimenti, “Arte” resta un buon libro, piccolo, denso, aterogeno, ma proprio in questo suo essere ripiegato su se stesso, pensato e concluso, è in un certo senso “facile” e alla fine della lettura lascia un vago senso di insoddisfazione.
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La vita altrove
Solo chi non si lava, ha un odore. Se lo ripete Dominique, il mantra che l’accompagna dall’infanzia, la rassegnata impotenza della madre nel cerchio stretto, asfissiante, di un lessico famigliare che si nasconde dalle voragini della concretezza. Eppure la carne ha un odore, il sudore ha un odore, il sesso ha un odore. Forse nessuno si lava, Dominique, o forse gli altri vivono. La vita che sfila davanti, feroce nella sua esuberanza, il brio inesauribile di Antoinette, i gemiti compiaciuti dei due giovani che si aggrovigliano senza pudore a qualche centimetro di distanza, oltre il diaframma sottile di una parete troppo esile. Eppure ha ancora il corpo giovane Dominique, mai toccato da un uomo, la pelle alabastrina, il seno ancora alto, il viso troppo giovane per i suoi quarant’anni. Cresce dentro di lei la frustrazione, la rabbia docile, addomesticata di chi non ha la forza per vivere nel divenire incerto della vita, nel puro arbitrio delle possibilità. Non bastano i rammendi di qualche calza a suturare i vuoti della solitudine, non bastano gli sprazzi di spazio e tempo rubati alle vite degli altri. Perché mentre intorno tutto evolve, Dominique non può che restare ferma e guardare, spiare, immaginare. L’indole è un demone per l’uomo, ci avvisa Eraclito. E nessun agnello può trasformarsi in lupo. Neanche quando la spaventosa forza del ricatto bussa alla porta.
Anticipando il bel film di Hitchcock “La finestra sul cortile”, Simenon costruisce un romanzo dalle inquadrature cinematografiche. Una storia filtrata dagli spiragli, siano essi quelli di una persiana appena spalancata o di una finestra lasciata aperta per il caldo, il buco di una serratura o le soglie di qualche albergo sordido, di qualche bar mal frequentato, l’alone lattiginoso di un lampione che avvolge qualche prostituta tropo giovane. Il taglio delle inquadrature echeggia l’esclusione dalla vita della protagonista e ne fa risuonare le solitudini. Perché per Dominique, come per il lettore, la scena accade sempre altrove. In un posto afferrabile, ma sempre lontano, in un supplizio che, come per Tantalo, mortifica il desiderio. Com’è amara e triste la Dominique di Simenon se confrontata con le donne meravigliose che Madeleine Bordouxhe avrebbe descritto solo qualche anno dopo. Non c’è possibilità per Simenon, non c’è fuga dalla realtà, non c’è alcun varco nella tela intransigente della proprio passato. E come sempre, basta il primo capitolo, davvero ben scritto, a capire che la malattia non darà scampo.
Classicissimo romanzo simenoniano, La finestra dei Rouet rientra in quel gruppo di testi in cui lo sguardo di Simenon assurge alla più pura oggettività. E lo scrittore, dio lontanissimo, non ha alcun perdono da elargire. E forse proprio in questa sua classica essenza, il libro finisce per soffrire di una vaga staticità.
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OLTRE LA PERDITA
Un romanzo coraggioso, questo di Isherwood, non solo per il tema su cui si radica, la relazione omosessuale tra il protagonista George e l’oramai defunto marito Jim, capace di far storcere il naso a più di qualche persona anche oggi, ma anche perché molto della sua vita si lascia disvelare in queste pagine, il dolore, certo, ma anche le attrazioni sottili che sanno ancora incantare la sua carne. E coraggioso è l’accartocciarsi della prosa in uno spazio intimo e discreto, lontano dal patetismo televisivo della spettacolarizzazione del male. Sarebbe stato facile rendere le pagine commoventi, creare un dialogo postumo, sobillare le fragilità del protagonista contro le difese incerte del lettore, ma Isherwood confina Jim sullo sfondo, un punto quasi opaco dietro la nebbia grigia di un giorno qualunque, di una vita che accade, perché il tempo si trascina a dispetto di tutto e nonostante noi. Allora per apprezzare la malinconia sincera di questo libro, la sua sofferta ma anche vivace indole, bisogna abbandonare l’idea di una resa di conti postuma e perdonare le ipocrisie che ci vivono, le difese che si mettono in campo per ritrovarsi quando parte della propria vita è caduta in pezzi.
A single man, intitola Isherwood. In quale senso? Un uomo letteralmente “singolo”, la storia di un solo personaggio. Un uomo solo, che si ritrova ad affrontare la vita con le proprie forze, ma anche a single man, un uomo che davvero è tornato single, nel senso relazionale del termine. E proprio perché single, George può ancora sentire il morso del desiderio, l’intransigenza della carne, la seduzione di quei giovani tennisti che giocano seminudi nel campo vicino all’aula in cui insegna, il profilo dei loro muscoli, della feroce vitalità che li muove. La stessa energia naturale da cui si sente escluso e cui costantemente anela, lo spirito ruggente del mare, le onde impetuose in cui solo di disperde. Natura naturante, natura naturata, la paralisi senile si scioglie in un bagno notturno, nell’equoreo ritorno ad una primitiva essenza in cui l’età biologica collassa nell’esplosione dell’anima. A trascinarlo in questo illusorio bagno di giovinezza, il corpo seducente di un suo giovane studente, la sua curiosità spontanea, la sua inesausta ed esplosiva voglia di esistere.
Il tutto Isherwood descrive con uno stile di rarefatta eleganza, di acutissima intelligenza, una sobrietà che eccede solo quando le esigenze della scena lo richiedono e che subito si ricompone. Una certa erudizione si interseca con una sintassi a volta sdoppiata, che ben rappresenta il patrimonio culturale del protagonista e la continua dicotomia tra la mente e il corpo. E alla fine delle pagine, quello che resta, è l’inesausta malinconia di un addio alla vita che Isherwood forse sentiva non così lontano.
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Verba non volant
È impossibile parlare senza riferirsi a qualcosa che è oltre le nostre parole e che di volta in volta può nascondersi nelle pieghe della nostra biografia o nel più ampio respiro sociale dei termini. La lingua è sì mimetica, ma continuamente è anche “l’intenzione” di una rete complicatissima di implicazioni. Contemporaneamente, le moderne neuroscienze hanno oramai appurato che la psicoterapia è efficace nella misura in cui le parole da sole, in un certo modo, modificano le connessioni neurali del soggetto: verba non volant. In virtù di queste premesse (che permettono di oltrepassare il classico sterile divario tra psicologia e psichiatria perché la parola a tutti gli effetti è terapia), i termini che scegliamo di usare portano con sé un potere luminoso, taumaturgico, ma anche scuro, vischioso, negativo. In questo senso la diagnosi, esito del “tormento clinico”, nomina con una parola quello che prima era solo un malessere indefinito, incerto. E questa malattia che si fa parola ha un peso enorme sulla vita di chi la riceve: dal sospiro di sollievo di una banale influenza al dolore di una malattia cronica, debilitante, magari causata da qualcosa che ancora non consociamo, con un nome esotico, inquietante, travolgente. Le malattie spaventano perché spesso hanno dei nomi che fanno paura.
Senza andare troppo lontano, il cancro. Già Umberto Veronesi consigliava di non usare la parola cancro in ambito diagnostico, perché dire cancro significa riportare alla luce il peso sociale della patologia, il ricordo di lutti che tutti, purtroppo, hanno subito, la sua inarrestabile avanzata, la sua morsa stretta. La medicina purifica le parole, ma la società vive con i fantasmi e gli incubi che le abitano. Susan Sontag, autrice di un riflessione imprescindibile sulla malattia nella società, sostiene che le malattie debbano essere esautorate di tutte le implicazioni metaforiche che esse portano con sé. Eppure il malato non è avulso dalla società in cui vive e con questo peso metaforico deve necessariamente convivere. E allora quale parola? Tumore già è meno inquietante, ma più corretto ancora sarebbe neoplasia, più tecnico, più recente, meno simbolico. O almeno così si consiglia. Se la parola è terapia, allora dire al paziente “ha una neoplasia” o dire “ha un cancro” è certamente diverso. Ma non ancora sufficiente. La letteratura ci ricorda che chi non ha nome, chi non ha parola, automaticamente diventa spaventoso, perché la parola è anche uno strumento di razionalizzazione del reale. D’altronde nel caos primordiale è la parola di Dio che dà forma alla cose. L’Innominato di Manzoni, It di King e Colui-che-non-deve-essere-nominato della Rowling sono tutti esempi di male che permea lo spazio lasciato bianco dalle parole. E allora per vincere questo spazio scuro, occorre conoscere il nemico, parlarlo fino a non percepirlo più come soverchiante. Occorrerebbe capire che il cancro non è una questione metafisica, oscura, ma una massa di cellule che cresce in modo incontrollato e che lo fa per delle precise alterazioni genetiche che la svincolano dall’equilibrio di un organismo multicellulare. Riportiamo le parole alla loro concretezza, alla loro fisicità, smitizziamo la paura, che è un cattivo alleato nella cura. E allora certo, usiamo la parola neoplasia quando facciamo una diagnosi, ma educhiamo anche a capire cosa è una malattia. Perché non c’è coraggio senza conoscenza.
Vittorio Lingiardi, psichiatra, psicoterapeuta, docente universitario, confeziona un libro agile, ma molto ricco di spunti, che apre una riflessione essenziale sulla diagnosi, vista come il frutto di un'integrazione difficile, di un processo che è sì scientifico, ma anche indicibilmente umano. E così, tra riferimenti puntuali e stimolanti, tra le pagine di Sontag o quelle di Woolf, tra le riflessioni di Wittgenstein e gli strumenti di difesa dei pazienti, proiezioni, sublimazioni, negazioni, Lingiardi ci consegna un vademecum che ci ricorda il peso di una professione in tensione tra le istanze del paziente e le necessità del medico. Un libro che a tratti pecca di una certo gusto per la poeticità un po' "baricchiana" e forse scritto di fretta, ma che, specie nelle prime due sezioni, ci consegna gli strumenti per dare la giusta consistenza alla diagnosi. Perché a volte il furore diagnostico ce lo fa dimenticare, ma l'uomo non è la sua malattia.
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Il destino non ascolta il deisderio
Mi ero ripromesso di non scrivere altri commenti su Simenon, non perché l’autore non ne meriti, quanto per non ripetermi. Il fascino della sua scrittura è in quella che qualche critico in vena di espressioni forti ha chiamato “pleonastica maieutica dell’ineluttabile” e cioè, per dirla più semplicemente, nel rigore geometrico della trama, nell’inevitabile epilogo cui tutti i suoi personaggi giungono, nel ritmo allo stesso tempo pacato e implacabile con cui le sue storie si consumano. A inquadrarlo bene, ogni romanzo di Simenon porta alle conseguenze estreme le sue premesse perché non c’è libertà dell’autore una volta che le coordinate del testo sono state stabilite. Quando l’autore limita la propria libertà, i personaggi sono liberi di evolvere con coerenza e nessuno, tantomeno Simenon, può cambiarne il destino. Come a dire che il desiderio dell’autore non può nulla contro il futuro della realtà.
Il magnifico protagonista di questo romanzo, di cui Simenon a ragione è orgoglioso, scopre fin da subito, nel buio oppressivo di una radiografia, il torace nudo e freddo contro la macchina, che il suo cuore è avvizzito come una pera marcia. L’atrofia ventricolare fa da controcanto alla robusta figura dell’attore famoso e, pirandellianamente, mette in moto il romanzo. In fondo le persiane verdi sono la storia di una diagnosi, del momento cruciale in cui un male indefinito, una palpitazione vaga, viene battezzata dal clinico con un nome che porta con sé un destino, prognostico e personale. La diagnosi diventa qui l’occasione per ripensare la propria vita, per ripercorrere le tracce della propria carriera, gli affetti perduti e ritrovati, le scelte sbagliate, gli inganni dell’adolescenza, la fame, la gloria, la miseria, l’epica delle piccole cose meschine, il potere vuoto delle posizioni sociali. E così la storia diviene l’occasione per un romanzo di ri-formazione tutto interiore, a ritroso, popolato da fantasmi e sogni che scandiscono gli ultimi granelli della clessidra.
Mai come in questo romanzo Simenon cancella la trama e dissolve l’azione in un’intricata matassa di pensieri, monologhi interiori, impressioni e riflessioni del suo magniloquente fragile protagonista. L’autore sembra davvero muoversi senza ordine nei piani temporali più disparati, l’infanzia, il presente, l’adolescenza, il primo matrimonio, il terzo, il secondo e qualcuno potrebbe non ritrovarsi in tutto questo saliscendi. Eppure alla fine, le tessere del mosaico ritrovano un proprio ordine, ricostruiscono un loro disegno e tratteggiano un capitolo finale tra i più belli dell’autore belga. Non è facile scrivere un romanzo senza azioni e ancora più difficile è farlo senza annoiare. Il merito di Simenon è proprio quello di saper scrivere dell’uomo senza sofisticate astrazioni, ma con un’attenzione commovente per i piccoli gesti, le debolezze e i suoi retropensieri. E con questo libro sembra avvertirci che non c’è libertà senza pace dell’anima e che il destino non sempre ascolta i nostri desideri.
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La tragedia degli "ismi"
Scelta curiosa quella di Adelphi: pubblicare a breve distanza il primo e l’ultimo romanzo di Singer, i suoi Satana a Goraj e Keyla la Rossa. Una lettura tanto ravvicinata permette di avere subito un’idea dell’evoluzione stilistica dell’autore: la scrittura resta poderosa, quadrata, solida e permette di sostenere una trama che altrimenti finirebbe per cedere su più punti, ma nel corso degli anni Singer matura una certa rarefazione linguistica, una più delicata e saggia scelta delle parole e degli eventi da narrare. Di contro, il tema centrale della sua narrativa, non cambia: il rapporto tra uomo e Dio e le annose vicissitudini della cultura ebraica permeano ogni lembo di pagina e dominano le fila del racconto. Anche qui, però, è lo sguardo dell’autore a cambiare: dall’analisi della comunità, dalla descrizione del collettivo, l’occhio autoriale si fa via via più intimo e privato, la penna si ripiega su se stessa e non mancano sprazzi francamente lirici.
In questo Satana a Goraj, Singer si dimostra una penna promettente, per quanto manchi un respiro narrativo sufficiente a rendere più fluida l’azione, che tra eventi mirabili e grandiose apparizione, demoni e minuziosi riti ebraici, stanca un poco il lettore. La fatica, alla fine del libro, si sente, ma la lettura merita soprattutto per la acuta analisi degli effetti del fanatismo sulla società, ovvero di come voci vaghe, complotti millenaristici, credulità e bigottismo, sfocino in inaudita ferocia. Singer ci ricorda come abili personaggi, mossi dalla fame di potere, sfruttino abilmente paure e difficoltà economiche, ignoranza e ingenuità, per raggiungere i propri scopi e come la manipolazione dell’informazione permei, fin da sempre, la civiltà umana. E possiamo forse perdonare il tono incostante del libro per aprirci a questo mondo incredibilmente attuale, per ricordarci che ogni “ismo” ha in sé i germi dell’oppressione e le stigmate dell’atrocità. Un libro che sarebbe piaciuto a Umberto Eco, se ancora fosse vivo, perché ci insegna che gli uomini, alla fine, credono più alle parole che ai fatti, contro ogni ragionevole dubbio.
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Che bella Marie!
Tra Marie e gli oggetti c’è un’intesa perfetta, come se le sue mani, indaffarate tra la pasta d’acciaio e il legno appena incerato, sapessero parlare all’intima natura delle cose. “Ama le mani che comprendono il linguaggio degli oggetti immobili, quelle che sanno parlare alle cose vive.” Di questo magico incanto che profuma di terra e placentari cospirazioni, si ammanta la casa, il regno dI Marie, moglie e forse donna. E sono proprio gli oggetti e le stanze i primi a perdere famigliarità, a perdere calore quando il tradimento si insinua nella sua vita e il punto di non ritorno di approssima inquietante tra le nebbie grigie di queste città soffuse, i vetri smerigliati e il profumo della minestra e del caffè. Tra le macchie verdazzurre della coste francesi, Marie conosce l’intransigenza del desiderio nel corpo di un ragazzo, le spalle sottili, i fianchi stretti, le lunghe gambe abbronzate. Marie ama Jean, suo marito, di un amore che è diventato affetto e di una cura che si è fatta materna, ma Maria aspetta Marie, senza un cognome, Marie e basta, la donna oltre la moglie. In questa dicotomia impossibile, in questo sfibrarsi doloroso dell’anima, non c’è spazio per l’annichilimento, Marie non è più l’Elise della “Donna di Gilles”, è troppo intelligente, troppo onesta e indecorosamente irreprensibile per cedere al ricatto dell’etica. E allora, nello scorrere abbacinante delle pagine, tutto è amore e sospiri, desiderio, scoperta e la scrittura si libra altissima a delineare il volo semitrasparente dello spirito.
Madeleine Bourdouxhe accompagna le sue donne verso li loro destino, con i loro pensieri, le loro debolezze, la loro intelligenza. Ci sorprendono queste donne, di cui leggiamo i pensieri, nel vuoto silenzioso che le circonda, mosse sul velo impalpabile di una scrittura luminosa e tersa. Il silenzio è il protagonista di queste pagine, il sipario che continuamente si chiude e apre su queste vite, con la tenerezza infinita della comprensione. E più di tutto, a colpire, è la magia della scrittura, il fascino misterioso della penna, il cocciuto incantesimo che lega le pagine e le infila, come perle di una collana, sull'ordito fragile di queste donne, appassionate e meravigliosamente moderne. Madeleine può ancora educare sui rapporti fra uomo e donna, sul sacrificio e sul perdono, sule dinamiche di coppie malate e uomini assenti. Perché la grande sfida di queste donne, che ora falliscono, ora riescono, è quella di scoprire se stesse, oltre il maschile, oltre l'ordine che ne ha sigillato l'esistenza.
“Nella luce del mattino la città è più bianca, altrettanto tranquilla, e di una bellezza ancora più superba. Attraversano una piazza e i loro passi fanno alzare uno stormo di colombi violetti. Sugli alberi potati a volta rimane un po' di neve. Marie li guarda: difficile riconoscerli dai rami nudi intrecciati: olmi, carpini, tigli? Quando avranno le foglie..."
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Un fanciullo che gioca a dadi
“E amarono gli uomini più le tenebre, che la luce”
Inizia a ritmo di valzer quanto romanzo di Dostoevskij, terso e per certi versi grottesco, a delimitare i contorni della luce, quasi che solo il cangiante contrasto degli opposti possa preparare il lettore a tanta morbosa oscurità. Se il bene più puro e diafano fallisce nella sua volontà di redimere il mondo, se lo splendore della bellezza si scopre essere un amore astratto e narcisistico, allora è il male assoluto a combattere sulla scena per conquistare l’anima dell’uomo. Dostoevskij è crudele perché condanna l’uomo alla propria infinita, rivoltante libertà e nello spazio indefinito del possibile, lo lascia precipitare tra le fauci inappellabili delle proprie responsabilità. Tutti “I demoni”, e più in generale ogni libro di Dostoevskij, non sono altro che una continua ricerca del divino e del sacro, un dialogo esasperato con il Vangelo, a comporre una mistica che ha i tratti feroci della vita e la delicata fragilità di un bambino. Tralasciando il messaggio politico del libro, che pure ne riveste una essenziale ragione, preme più di tutto analizzare la fine declinazione del male e l’esplorazione lucida che Dostoevskij compie sui suoi personaggi-idee. È nel centrale dialogo che Stavrogin, il mefistofelico protagonista del libro, sostiene con il vescovo Tychon che l’ossatura del libro emerge in tutta la sua poderosa densità concettuale.
“Oh, fossi tu freddo o caldo! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo né caldo, io sto per vomitarti dalla mia bocca”
IL MALE CALDO - VERCHOVENSKIJ: Verchvenskij è il fastidioso personaggio che opera concretamente il male, colui che, nella realtà, dispiega ogni tipo di crimine: qualunque incendio, furto, scandalo, omicidio si muove sulla tela ingarbugliata tramata dai suoi sotterfugi e dai suoi inganni, ma proprio perché caldo e fervente è un gradino sotto al masse assoluto. Come Don Giovanni muore perché non può essere puro spirito, così Verchovenskij fallisce perché la realtà è ostinatamente oltre il suo operare. E perché come affermerà lui stesso, sarebbe una creatura senza testa, se non ci fosse Stavrogin.
IL MALE FREDDO - KIRILLOV: Dostoevskij incarna in Kirillov la più lucida e coerente disamina dell’ateismo e a lui fa trarre le modernissime conseguenze della sua fede. Prima di Nietzsche, Kirillov affronta il vuoto orrifico che si spalanca sotto l’uomo dopo la morte di Dio, perché se Dio manca, allora tutto è possibile e l’unico modo per non restare schiacciati dal peso della necessità e dall’imperturbabile ordine del tempo, per non essere stritolati dal crepuscolo degli idoli, è farsi Creatore di un tempo che è un cerchio collassato sul centro. In Kirillov il male non è male semplicemente perché l’ateismo è un nuovo teismo, giusto un passo sotto la fede più fervida. Come avrà da dire Lou Salomé a proposito di Nietzsche, “nessuno più di lui aveva forse il senso del sacro”
IL MALE TIEPIDO - STAVROGIN: Stavrogin è il punto oscuro attorno a cui ogni personaggio ruota, colui che ha ispirato il male nel più assoluto disinteresse. Stavrogin è in questo il male assoluto, puro e genetico, oltre la realtà e prima del Paradiso, in un limbo che non è vita e non ancora morte. Il regno dell’ignavia e dell’indifferenza, l’assoluta equipollenza delle cose, perché solo in questo caotico moto il male può essere male. Il paradosso Dostoevskijano è appunto che il male, al suo massimo grado, è tiepido e quindi solo un altro accidente negli affari del mondo. Il male è tiepido perché per essere puro può solo svuotare se stesso e di Stavrogin, alla fine, non resta altro che un guscio vuoto, inane, una passione spenta.
Quello che si salva è il senso del Sacro, nella sua forma più pura. “Il sacro non è sacro perché divino, ma il divino è divino perché sacro” avrà da scrivere Heidegger un secolo dopo. Quello che si salva è il pugno di una bambina che nella sua fragilità, nella sua innocenza in frantumi, sfida il male con la sua commovente consistenza, perché oltre il dovere e oltre la volontà, la bambina semplicemente è. E c’è qualcosa di davvero divino in questo Dostoevskij, qualcosa di così crudelmente bello che resta solo da leggerlo e amarlo.
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Non la luce, ma il fuoco
“Non della luce abbiamo bisogno, ma del fuoco”.
Quando Georg Buchner muore, nel 1837, forse di tifo, forse per una meningite, ha da poco compiuto 23 anni. Una vita brevissima e fulminante, condotta all’estremo delle cose, lungo l’orizzonte sottile che separa il genio dalla follia, là dove l’anima sfarina in cenere e qualche necessità invidiosa celebra troppo presto l’eutanasia dello spirito. Di questa autore meraviglioso, ingiustamente dimenticato, eversivo, modernissimo e capace di una crudele commozione, ci restano tre drammi plastici e tremendi, scenicamente perfetti, illuminati da una luce dura e fredda e dominati da un angoscioso senso della fine: la morte di Danton, amara riflessione sulle delusioni che la rivoluzione francese ha portato con sé, il Leonce e Lena, gattopardiana e solenne rappresentazione della decomposizione della nobiltà tedesca e lo struggente Woyzeck, tragedia umanissima di un uxoricidio che scosse la società dell’epoca. Stupiscono in questo ragazzo una tanto insopportabile sensibilità e una così affilata scrittura tanto che resta da chiedersi di quale materia vivano questi personaggi, di quale oscura forza siano animate le parole e quali misteriose architetture tengano le redini delle spinte centrifughe che si muovono sotto la superficie del testo.
In uno spazio più metafisico che reale, trasfigurato dalla spirale allucinata che muove la scena, Woyzeck, un umile stalliere, vive come in una pentola a pressione, sotto un cielo “così liscio che viene voglia di piantarci un chiodo e impiccarsi”, torturato dalle beffe della moglie infedele, usato come cavia dal medico del paese, dileggiato dell’amante della stessa e sull’orlo di continue deflagrazioni. Dalla terra di questo dramma prendono forma demoni e sinistre presenze, a consumare, granello dopo granello, la clessidra della fine, epifanie ataviche e genetiche che accompagnano la discesa agli inferi di questo uomo lacerato da una tanto macerante lucidità. In questo chiarore nervoso, nell’epilettica ipersensibilità del reale, anche l’ultimo lembo di senso è stritolato dal dolore e tutto è balbettio, sussurro, frammento. Perché mai come qui il confine tra colpa e innocenza è stato così sdrucciolevole.
Woyzeck non è un personaggio semplice e riflette le contraddizioni del suo autore. Buchner è stato, tra le altre cose, studente di medicina e rivoluzionario, autore di un pamphlet social-utopista che animò una protesta duramente repressa. Lo stesso Buchner che da un lato professa la violenza come unico mezzo per raggiungere uno scopo e che nelle lettere all’amata fidanzata riesce a scrivere: “Il singolo è solo schiuma sulle onde, la sovranità del genio una commedia di burattini. Ho abituato il mio occhio al sangue, ma io non sono la lama di una ghigliottina… cos’è che in noi mente, uccide e ruba?”. E del magma pastoso di questa feroce contraddizione vive il suo Woyzeck, dilaniato dal dubbio e torturato dal labirinto fangoso della mente. Questa atroce dicotomia prende la forma di una battuta felicissima che accompagna il compiersi del dramma e anzi ne circoscrive l’akmé: “Soll ich? Muss ich?” Per due volte Woyzeck si chiede se sia giusto uccidere la moglie e qui il tedesco non è traducibile in italiano. Non è semplicemente un tentennamento, ma piuttosto la ricerca dell’intima ragione del gesto. Mussen significa dovere, un dovere soggettivo, personale, autonomo. Anche sollen significa dovere, ma è un dovere eterodiretto, esterno, dettato dalle circostanze e dalla necessità. E allora questa iterata domanda apre in realtà uno squarcio esistenziale e filosofico sul destino dell’uomo e sulle leggi dell’universo. “Sono io a volerlo o è necessario che lo faccia?”. Questo si chiede in realtà Woyzeck, in un tripudio martellante di psicosi e tragica fragilità. Perché Buchner fa proprio questo, scortica l’uomo per gettarlo sulla scena, preda degli elementi, solo e senza scampo sotto il peso del cielo. Eppure, ancora più straordinario, è che in mezzo a tanto sangue, a tanta cupa desolazione, tutto è placido in questo dramma, tutto giace in un’anomala tranquillità, in una calma miracolosa, la “pace di un campo di grano”. Perché Buchner, come il migliore Leopardi, sa che solo l’arte e la parola possono librarsi sul peso del mondo e che solo il canto della scrittura può opporre un velo di luce sul nero abisso del nulla. Perché come avrà a dire Rilke, “quest’uomo, suo malgrado, sta nell’universo, sotto l’infinito manto di stelle”.
Leggete Buchner, non lasciatevi scoraggiare dalla frammentarietà del testo, dall’espressività esasperata, lasciatevi incantare da questa arte altissima e rara, che, come la Speranza, viene dal fondo del vaso di Pandora.
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Il coraggio e l'impotenza
Di fronte ai leoni senza testa di Micene, guardiani consumati del tempo, sulle rovine macerate di un rocca inespugnabile, passo dopo passo su un tappeto di porpora e sangue, sotto un cielo smaltato e indifferente, atrocemente silenzioso, Cassandra, la profetessa, va incontro alla morte. Il tempo che la separa dalla fine e dalla luce della liberazione, diventa la materia malleabile e consistente per un lungo monologo, liquido e sussurrato, a ripercorrere l’inizio della fine, il ratto di Elena, la caduta di Troia, la partenza di Enea. E la memoria di Cassandra ci si dispiega davanti con la sua cocciuta irrequietezza, col suo moto ribelle e odissiaco, la malinconia e la tristezza, il coraggio e l’incoercibile solitudine cui le sue visioni la costringono. Nei suoi ricordi, nel suo dialogo postumo con gli uomini e le donne della sua terra e della sua giovinezza, prima che Troia fosse bagnata di sangue, prima che la cecità e la paura prendessero il sopravvento sulla ragione, Cassandra consegna la sua commovente fragilità al lettore, in una demistificazione del mito che non è solo parodia e sarcasmo, ma l’occasione per ritrovare le radici intime di quello che è stato e forse la ricerca di una palingenesi semplice e sofferta.
Il tema portante di questa Cassandra è il conflitto fra maschile e femminile, il tramonto del matriarcato e la presa di potere degli uomini, con la loro incoercibile violenza, con la dialettica fallica del sillogismo e dei principi di identità e non contraddizione. In questo maschile che non conosce il correttivo dell’apertura e della comprensione, nessun uomo si salva: né Agamennone, che sessualmente impotente, sfoga la sua rabbia con la violenza, né Paride che nella sua bellezza trascina il suo popolo in una guerra lacerante, né Achille, che anzi è l’emblema della bestialità più cruda, né Ettore o Priamo. E quella Elena per il cui tragico splendore questa guerra si è combattuta, null’altro è che un fantasma forse disperso in Egitto, così che la ragione ultima del conflitto evapora nell’inconsistenza nebbiosa di un ectoplasma, in un significativo svuotamento di senso di ogni lotta armata. A questo principio maschile si piegano anche le donne del libro, Polissena che si prostituisce per sopravvivere nel campo nemico, Pentesilea, l’amazzone che accecata dal fuoco della vendetta, combatte come una furia in battaglia e le varie serve e donne che via via appaiono. E quando la guerra costringerà gli uomini all’azione, quando la reggia di Priamo diventerà una dispotica e distopica fortezza di sospetti, spie e inganni, militarizzata dalla sete di potere di Eumelo (prefigurazione drammatica della DDR in piena guerra fredda), resterà un porto sicuro per Cassandra la comunità che Anchise, padre di Enea, ha fondato poco fuori della città. Lì, in quella oasi di pace, oltre la dicotomia tra uccidere o morire, la strada scelta è quella della vita, con le donne e gli uomini che intrecciano cesti di vimine, reti, legami e nodi per difendersi dalla grandine delle cose. E qui, dove la materia fisica si fa occasione di resistenza contro il mondo, Cassandra matura consapevolezza delle scelte che l’hanno portata a essere profetessa, pur non potendo essere creduta da nessuno. Perché nel regno del maschio, Cassandra sceglie di parlare con la propria voce. E non è un caso che questo dono-anatema le viene proprio dal rifiuto di giacere con Apollo, da una violenza mancata dell’uomo sulla donna.
Christa Wolf ci consegna un libro difficile nello stile, ondivago, ellittico, sfuggente, fluido e opaco, una scrittura cui ci si abitua poco a poco e che alla fine diventa perfetto nel segreto incanto che gelosamente custodisce. Il mito diventa l’occasione per una accorata riflessione sulla sostanza ostinata che tiene legato l’uomo alla vita, sulla distorsione della verità quando la guerra scardina la logica delle cose, sulla resistenza della donna e la violenza dell’uomo, sull’assoluta arbitrarietà del potere, ma anche sulla malinconica impossibilità dell’amore. Perché Enea, l’unico uomo che si salva, l’unico capace di dimostrare sensibilità e rispetto per le donne (significativa la sua astensione della sverginamento rituale), deve seguire il suo destino, deve essere un eroe, fondare Roma e forse una nuova civiltà. E Cassandra, che pure lo ama, non lo può seguire. Il suo destino è la scure di Clitemnestra, la donna che in realtà non è donna, come ci avverte Eschilo nell’Agamennone, sulle porte di Micene. E a chiudere il cerchio narrativo, di nuovo dinnanzi ai leoni, a tremila anni di distanza, Cassandra cammina verso la fine, i suoi passi rimbombano sotto la volta vuota e cupa del cielo, senza Dio, senza voce, mentre il vento indifferente spira su queste pagine, che portano ancora con loro il sapore di salsedine del Mediterraneo.
Letto tre volte, profondamente amato.
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Il paradosso Moravagine
Strano libro, questo Moravagine e strano il suo autore, Blaise Cendrars, avventuriero giramondo e scapestrato, a suo agio tanto nella Legione Straniera, che lo segnerà, oltre l’apparenza, nel profondo, quanto nei bordelli dell’Europa orientale, nelle foreste più profonde dell’America e sulla Transiberiana, carismatico e curioso viveur in perpetua fuga dalle convenzioni. E se tutta la spirale vertiginosa della sua vita ammanta l’uomo di un certo mistero, la sua scrittura non si sottrae alla continua esacerbazione dei limiti, alla continua scoperta dell’enormità e della magniloquenza. Tutto trabocca nelle pagine di questo romanzo, nell’horror vacui sfiorato e deriso, strabordano i personaggi con le loro esagerazioni, eccedono le parole, affabulanti arabeschi soggiogati da una retorica ferma, eruditissima, capace di plagiare il lettore e oltrepassa ogni limite di misura lo stesso Blaise Cendrars. Colto autodidatta svizzero, naturalizzato francese, Cendrars è lo pseudonimo "di cenere e fiamme" che l’autore si sceglie, perché scrivere è bruciare e risorgere, scrive. E se l’avesse detto chiunque altro, ci avremmo anche potuto credere, ma nulla sembra autentico in questa ostentata professione di fede e nessuna verità esce da queste pagine. Sia chiaro, ci sono momenti bellissimi in questo Moravagine e l’autore sa scrivere, saltando repentinamente da un genere all’altro, il trattato, la poesia, la commedia, il dramma, la lirica. Basti a titolo esemplificativo questo estratto:
“Avrei voluto spaccare con le labbra il quarzo profumato e bere l’estrema goccia di miele primordiale che la vita delle origini ha deposto in quelle molecole vetrose, quella goccia che va e viene come un occhio, come il globulo di una livella ad acqua”
Il punto, il drammatico difetto di questo romanzo, è che non c’è respiro a sorreggere la trama, non c’è chiarezza, non c’è trasparenza, emerge soltanto il gusto per l’ostentazione, per l’eccentrico, l’esacerbata ricerca della sorpresa, come nel barocco peggiore. I personaggi si muovono zigzagando da un capo all’altro del mondo, con le loro nefandezze, con la loro inconsistente gravità e tutto si spegne nel bagliore misero di un fiammifero. E il peccato, davvero capitale, è che l’autore spreca quanto di buono c’è nel suo acume, quanto di provocatorio, centrifugo e rivoluzionario c’è nelle pagine, tutto soccombe all’istrionismo dannunziano della penna e si frammenta in un labirinto senza senso di azioni che non conducono da nessuna parte. E confesso di non essere riuscito a finire il libro*, nonostante sia indubbiamente migliore di altri romanzi letti, perché l’autore scrive per se stesso, per il suo proprio gusto e le pagine non valgono lo sforzo della decifrazione. Il paradosso di Moravagine è che in esso coesistono indubbie qualità e al contempo vizi di forma del tutto antiletterari. Questa “mort à vagin”, “morte dalla vagina”, insomma, nell’ansia di stupire, perde qualsiasi interesse. E davvero disturba la sfinita misoginia dei personaggi, la sfilata indefinita di donne stuprate e uccise nell’inverosimile espiazione di un fantasma che deve aver tormentato l’autore per anni. Un libro come Moravagine non può non essere pubblicato, perché dirompente e in un certo qual senso seducente, ma siamo certo liberi di scegliere se leggerlo o meno. Il curato apparato critico e il diario dell’autore, al solito proposti da Adelphi, aiutano a ricostruire il moto ondivago del libro e, almeno per me, sono stati più godibili di Moravagine stesso.
*Curiosamente l'unico altro libro che non sono riuscito a finire in vita mia è "Orgoglio e pregiudizio", lasciato a metà. Attrazione degli opposti.
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Dopo l'amore, la morte
L’ippocampo, un piccolo ricciolo di corteccia cerebrale sepolto nelle pieghe temporali dell’encefalo, presiede alla memoria episodica, ai ricordi dei volti e dei fatti del nostro passato. Sempre nell’ippocampo è rappresentata una mappa dello spazio che circonda, come a dire che è lo spazio a codificare i nostri ricordi. Ed è proprio quando di ritorno dalla vacanze Vanda e Aldo ritrovano la propria casa messa a soqquadro che gli argini della memoria si aprono e la loro vita sfila fotogramma dopo fotogramma a ricostruire la genesi della catastrofe, a riannodare i nodi che li hanno condotti fino alla dissoluzione. Perché a legarli non è l’amore, ma tutto il resto. La rabbia, il rimorso, l’odio, il rancore, l’ostinato masochismo con cui continuano a torturarsi. E allora le pagine si schiudono con il loro dolore, gli ingranaggi che hanno distrutto i figli, i silenzi che hanno disinnescato una minaccia costante, i ripensamenti, i dinieghi, l’ipocrisia. Starnone insegna che se non è facile mantenere una coppia, ancora più difficile è lasciarsi. Perché ci vuole coraggio a riconoscere che forse il bene è lontano dal noi, che a volte la vita impone di scegliere e che non sempre possiamo salvare sia la madre, sia il bambino. E più di tutto ci vuole coraggio a sostenere il dolore che si arreca quando si lascia qualcuno, la sua delusione, il suo sentirsi tradito, perché è da santi non dire nemmeno un vaffanculo e contemporaneamente è umano, ma stupido, rinfacciare che tutto allora è stato un inganno, che nulla è stato vero. Il mito dell’amore per sempre, la pretesa che l’altro sia la nostra metà e non una persona intera, con la sua completezza, è il grosso equivoco dell’amore moderno e alla base di quella distruzione reciproca che spesso accompagna la fine di una relazione. Certo i sentimenti sono irragionevoli e non c’è spazio per la dialettica nel dolore. Eppure in un’epoca come la nostra, in cui al tradimento può seguire l’omicidio, in cui la libertà non è libertà, il prezzo di questa diseducazione sentimentale è elevatissimo. E se il cerotto tiene insieme i genitori, sono i bambini a restare impigliati nei lacci della discordia, nella ragnatela tessuta dall’odio. Troppo vicini per non ferirsi, troppo lontani per amarsi.
Starnone prova là dove altri si sono cimentati, all’essenza di una coppia, di una relazione, nel modo più scarno e doloroso possibile. Già la Mazzantini con il suo Nessuno si salva da solo aveva fatto breccia nella resistenza inutile dei legami e prima ancora Simenon con la rete di perversa malignità che imprigiona i protagonista de Il gatto. Starnone sceglie una strada semplice e incisiva, con la storia ripercorsa prima da Vanda, poi da Aldo e ancora dalla figlia della coppia. Ognuno pronuncia le parole del suo dolore e lascia trapelare le sue ragioni, umanissime ragioni, ma ognuno di loro gira come una mosca cieca, in circolo su se stesso. E se a volte la narrazione risente di una certa piattezza, è nell’ultima parte del libro che il tono si alza e al lettore si palesano le macerie di quello che è stato. Perché la vita va avanti, ma a quale prezzo?
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DI un cornuto e una puttana
Trascurata e negletta opera shakespeariana, il Troilo e Cressida fa la sua comparsa nel 1601, appena dopo l’Amleto. Il perché questo dramma abbia riscontrato poco successo è presto detto: l’azione è scarna, pretestuosa, del tutto inutile, il testo è verboso, martellante, del tutto pleonastico. Eppure questo Troilo così sfinito e sfibrato, inconsistente e leggero, ha molto da insegnare sul teatro di Shakespeare e sugli albori del teatro moderno. Innanzitutto il Troilo non è propriamente una commedia, perché tutto è marcio, oscuro, fangoso, ricatto e sopraffazione e d’altro canto non è nemmeno una tragedia, perché nessun personaggio ha il giusto calibro per reggere il tragico. In fondo tutto non è che parodia: parodia dell’Iliade e dei modelli della letteratura, parodia delle sue opere precedenti, degli abissi di Amleto e dell’amore di Romeo e Giulietta e alla fine parodia del teatro stesso. Perché Shakespeare non fa null’altro che portare l’estremo la commedia e, nel farlo, la svuota di senso. Ogni discorso, ogni parola, ogni frase si libra come una bolla di sapone ed esplode senza rumore nel mare dell’indifferenza. La guerra di Troia, la guerra che “infiniti dolori indusse agli Achei” è null’altro che una questione che gira “intorno a un cornuto e una puttana” e davvero nessuno dei personaggi si salva dalla catastrofe. Quello che Shakespeare scopre è “lo strappo nel cielo di carta”, il crepuscolo degli idoli e il funerale della morale, perché in guerra, così come nel mondo moderno, è l’etica la prima a saltare. La Londra del ‘600 appare, trasfigurata, nelle pieghe fangose di una realtà barocca, ingannevole, illusoria, dove l’uomo deve districarsi nei labirinti fisici e metafisici della perdizione. E detta altrimenti, è la scoperta di un mondo ariostesco, orizzontale, in cui, come ci avverte Ulisse, il degree, l’ordine, è definitivamente away, lontano. Perduta la verticalità gerarchica del medioevo, perduto il discrimine, la distinction, fra giusto e sbagliato, tutto è perduto. Bulgakov, nel suo maestro e Margherita, recupererà il tema e affermerà che “un ordine deve per forza esserci”.
E a tessere questo labirinto etico si erge la parola, melliflua, leggera, seducente ed eversiva. Perché Shakespeare conosce il potere della parola, i lacci e le ombre che essa sa costruire perché in fondo il teatro null’altro è che potere della parola. E in questo senso ogni personaggio perde se stesso nei propri discorsi, afferma, nega, si contraddice, perché nessuno ha il timone, perché una mente semplice può non farcela a districarsi nel rococò spasmodico delle cose. E allora, estremo simbolo di questo universo capovolto e moderno, di questa classicità distorta dal nuovo, appare l’amore, corroso, infangato, cirrotico. L’amore di Troilo per Cressida e di Cressida per Troilo, l’unico fiore che sembra nascere sulla cenere del mondo. Eppure quando Cressida viene ceduta ai Greci e capisce che null’altro potrà fare se non la schiava, flirta e si cede a Diomede. E Troilo, che assiste alla scena, ci vede “doppio”. Bifold dice Shakespeare, piegato due volte, Troilo vede due Cressida, ma perché in effetti due sono le donne: la Cressida che lo ama e la Cressida che ama Diomede, perché in guerra il brutto è bello, il bello è brutto e perché in fondo, in una straordinaria anticipazione dei tempi, nessuna persona è davvero unica. Detto altrimenti, Troilo scopre che uno più uno non fa due e che anzi, il più della volte, fa zero. Non resta nulla dell’amore decantato, della morale, degli ideali perché tutto è umano, troppo umano per reggere la nobiltà del dramma. E quando si chiude il sipario, non è il corpo di Ettore trascinato dai cavalli a comparire, ma il vile Pandaro, servo di Troilo, a lamentarsi dei reumatismi. Perché in questo enorme Satyricon, non c’è spazio per nessuna redenzione.
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Nei dettagli si nasconde il male
I corpi di due amanti vengono ritrovati riversi su una spiaggia isolata nel Ky?sh?, isola più meridionale del Giappone. I corpi vicini, appena sfiorati dalle onde del mare, incrostati di sabbia e impiastrati di salsedine, lasciano pensare al triste epilogo di una impossibile storia d’amore. La curiosa commistione di cute cianotica e rosea, l’odore di mandorla che emana da una fiala lasciata vicino ai cadaveri, lascia pochi dubbi sulla causa della morte: avvelenamento da cianuro. Le indagini, presto chiuse, resteranno aperte per Torigai, ispettore prossimo alla pensione, e per la polizia di Tokyo, alla ricerca del motivo per cui due giovani hanno cercato la morte a migliaia di chilometri dalla capitale. La ricerca serrata porterà a scoprire le fangose trame della burocrazia nipponica, i giochi di potere e gli enormi interessi che queste morti nascondono. ?Carattere peculiare di questo romanzo, il cui titolo originale è Ten to sen, “Linee e punti”, è l’ossessivo riferimento ai treni giapponesi, alla loro impassibile puntualità, ai rigidi orari con cui essi arrivano e partono tra un estremo e l’altro del Giappone. Il piano lucidissimo, glaciale e logico che sottende al delitto si dipana come una tela dalle maglie strettissime nei numeri e negli ideogrammi delle linee ferroviarie, alla ricerca dell’incastro perfetto, di una manciata di minuti su cui si gioca il labile confine fra colpa e innocenza. ??
Quando Matsumoto Seicho pubblica questo romanzo, ridando vita al giallo giapponese, l’attenzione spasmodica dedicata ai treni e i riferimenti agli aerei e alle nuove possibilità di trasporto affascina il suo pubblico con la possibilità tutta novecentesca di spostarsi in poche ore da un capo all’altro dei 3500km di isole nipponiche. Forse in nessuna altra nazione sarebbe stato possibile scrivere un giallo tanto rendicontato, senza sbavature, in nessun altro paese una mente diabolica avrebbe potuto orchestrare con altrettanta ferocia e sicurezza un piano dalla consistenza glaciale. Semplicemente perché nessun altro paese è preciso come il Giappone. Senza scomodare il paragone con Simenon, Seicho si dimostra un buon giallista e architetta un libro affascinante, conciso e sicuramente intrigante. Il romanzo è però appesantito da tecnicismi ferroviari, confuse distanze geografiche (per un lettore italiano!), dalla tendenza tutta orientale di sgonfiare la trama sul finale. Così in una sorta di climax al contrario l’epilogo arriva spento e disinnesca la tensione accumulata. Detto altrimenti, un buon giallo, non supportato però da un’altrettanta buona scrittura e la cui superficie risulta essere minacciata dalle crepe del tempo. Un plauso ad Adelphi per aver comunque svincolato il testo dalle collane gialle, restituendogli la dignità e la fortuna che esso ha avuto in patria.
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Di famiglie e abbandoni
Un appartamento con due stanze, un secchio per i bisogni fisici e un bagno a corridoio, un marito e una bambina: basta questo per rendere felice Matilde, alle prese con la sua nuova vita, dopo la schiera triste dei suoi ricordi d’infanzia. Qualcosa di finalmente suo, soltanto suo, le guance di mela di suo marito, la messa della domenica, DIO e sua figlia nel lettino d’ottone usato, lucidato come fosse una reliquia. Lo spazio delle piccole cose basta ad illuminare la sua vita. Eppure Matilde non sa che la realtà è un grumo d’ombra pastoso, infido, che le sordide ambizioni degli uomini congiurano intorno a lei negli anfratti d’ombra dove la sua ingenuità ha concesso loro di proliferare. Principe Myskin umilissimo, ancorato alla terra, anima pura abbagliata dall’ingenuità, anni luce dalle complicazioni della filosofia, Matilde vive nel suo cantuccio di mondo, tra le strade popolari della sua Trieste. Incapace di vedere il male, lo splendore del bene fallisce dinnanzi al gretto utilitarismo del mondo, fino al dissolversi delle relazioni umane, di famiglie disgregate e spazi d’affetto impossibili. Non il marito Bruno, non la figlia Assunta, non la vecchia padrona della casa in cui lavora come cameriera, nessuno riesce a oltrepassare le barricate dell’ipocrisia e dell’arrivismo. E così Matilde, costretta a vivere sola, con i fantasmi della sua anima, abbandonata dai suoi affetti, può solo tornare un po’ bambina e un po’ fattucchiera, a giocare con le bambole e gli spilli, l’unica crudeltà di cui la sua bontà è capace.
Racconto lungo distillato, sobrio, elegante nel suo stile popolare e sincero, Tululù è il libro postumo di Mattioni, autore da riscoprire, capace di un’arte difficile. Chi scrive sa quanto può essere frustrante condensare il pensiero, quanto la parola può essere indocile alla sintassi. Eppure qui non c’è parola di troppo, frase fuori dall'essenziale, episodio inutile. Tutto è scabro e doloroso, fragile e sincero, dolorosamente reale. Perché è nella franchezza delle cose che si manifesta la verità e non si può affrontare il male se non c’è l’idea dello stesso nella propria anima. Tululù è costruito sulla dicotomia intero-esterno, tra l’intimità della casa e lo spazio feroce del mondo, oscuro e manifesto, dove la vita è in pericolo; il fuori è lo spazio della perdizione e della rovina e non basta un abito del passato, sfiorito dal tempo, per sconfiggere la perfidia delle cose. Tululù è testo da riscoprire anche per la disanima delle voci femminili, per l’indagine sul rapporto fra le donne e l’uomo e fra le donne e gli oggetti, in un tempo, quello contemporaneo, che nonostante tutto è ancora lontano dalle sue promesse di uguaglianza.
Chiudo con una riflessione del tutto personale. Fuoco centrale del romanzo, oltre alla protagonista, è la famiglia nella sua impossibile coesione, lacerata dalle spinte centrifughe della aspirazioni individuali dei suoi componenti. In questo senso la famiglia è una forma organizzativa sull’orlo della catastrofe. E non va lontano l’autore. Sempre più spesso gli anziani in ospedale, come ho potuto osservare nei turni di tirocinio, sono lasciati soli con le loro malattie, accuditi quando va bene da badanti che parlano con i medici e che promettono di riferire ai figli. Sempre più spesso gli anziani si rifiutano di riferire sui figli per fratture insanabili e affrontano da soli il loro male, riempiendo i reparti con la loro solitudine. In questo senso, nell’epoca dell'abbandono, Tululù ammonisce sulla deriva degli affetti e sul vuoto silenzioso che accompagna le nostre vite. Perché, in fondo, restare, è la strada più difficile.
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Le trame del tempo
Le coincidenze sono pensieri che si cercano nella trama del tempo.
Eleonora e Marco, Venere e Giove, ruotano sull’asse del proprio passato, lungo l’orbita misteriosa della propria natura, alla ricerca di un incastro perfetto che diradi le nubi pastose della loro separazione. Venere ha nascosto le cicatrici del tempo con la sua placida atmosfera, Giove si è circondato di tempeste, di letteratura, a nascondere il suo cuore rovente, perché i sentimenti, immagina, sono una complicazione.
Sono queste nubi ad averli separati, “senza emozione non c’è vita, senza ragione non c’è umanità”, pensa Giove quando la mente torna a Venere che se ne è andata. “Aveva compreso e memorizzato il dato. Ma non l’aveva collegato alla vita”: è da qui che si riparte.
Venere è luminosa, piccola e bellissima, rovente e silenziosa, così placida e sola ad affrontare le ombre fameliche del passato con cui ha provato a non fare i conti. Eppure il passato è sempre lì, sulla soglia, a gravare col suo peso sulla sua vita, abita negli angoli dove il tempo gli ha concesso di ristagnare, come una tela filata dalle ombre della memoria. Perché Venere parla sempre piano? Forse, se almeno una volta avesse urlato, si sarebbero salvati, pensa Giove. Forse lui avrebbe capito e quella macchia rossa che gli sconquassa l’anima avrebbe cessato di turbare la sua atmosfera.
Eleonora e Marco inciampano sull’orbita della Luna, scivolano nei propri ricordi come gocce nel lago della malinconia. Così la memoria capricciosa si ricompone, oltre il dolore, a riavvicinare le loro orbite nel vuoto infinito della solitudine. E così, nella casa delle marionette, i loro fili si cercano per un nuovo nodo. Venere e Giove, rovente l’una, un nucleo incandescente l’altro, sanno che devono cedere alla loro storia per ricomporre il presente. La solitudine della separazione ha loro insegnato che l’unica possibile felicità è nella condivisone. Ma anche solo per toccarsi, Venere e Giove, devono incontrarsi a metà, concedersi l’uno all’altro, con una punta di disincanto, con una consapevolezza nuova e sofferta: quella che l’unico incontro possibile è sulla Terra, “un piccolo pianeta dalla superficie solida”.
“Una diagonale perfetta” racconta con una bellezza semplice e trasparente la vita, quella quotidiana che capita a tutti e che spesso ci lascia tristi e silenziosi, che costruisce barricate attorno alla nostra anima. “Una diagonale perfetta” ci ricorda il terreno della comprensione e dell’ascolto, ma anche la forza del coraggio di affrontare i nostri ricordi: per permetterci di non subire chi siamo con docile indolenza, ma per scegliere chi essere, in fondo, nonostante tutto.
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Breviario dell'arte simenoniana
L’uomo che guardava passare i treni rappresenta un punto di crescita cruciale nella narrativa di Simenon. Scritto nel 1938, fa da ponte tra la linea chiara dettata dall’”Assasino”, uno dei suoi romanzi più gelidi e distonici, e lo splendido “La casa dei Krull”, apparso nello stesso anno. Kees Popinga, l’esuberante ed esausto protagonista del libro, è il più classico degli eroi simenoniani, una velleità e poco più. Classico proprio perché il guscio caldo e protetto della sua vita borghese si sgretola appena oltrepassato il vetro dell’apparenza. Kees Popinga ha esorcizzato le forze centrifughe e antisociali della sua anima con il rituale grigio e perfetto della sua vita, ha contratto la potenza eversiva della sua natura nel cerchio asettico della normalità. Eppure Simenon sa che tanto più l’uomo è vicino ad un estremo, tanto più grave sarà la sua caduta nell’altro, perché se c’è qualcosa che colpisce nell’assoluta mediocrità di questi uomini, nella loro tiepidezza, è appunto l’assoluta sproporzione delle loro azioni.Qui però la parabola discendente, il destino inappellabile che trascina la trama fino a consumarne il respiro, si avvita in una spirale tragicomica e assurda, squisitamente parigina, in cui il reticolo gelido e particellare delle azioni dei personaggi, si avviluppa nei tralci dell’assurdo.??
È un romanzo chiaro, questo Simenon, un’arte disvelata e proprio per questo, se possibile, un poco noiosa. Chi frequenta le pagine dello scrittore, non può non notare come i primi capitoli siano una continua dichiarazione di intenti, una metanarrazione che affascina nel mostrare se stessa. È proprio nella tensione fra trasparenza e ostacolo, nelle pieghe dell’ombra e dell’interpretazione, che la l’autore sfida il lettore, e forse tutta la luce, tutte le spiegazioni, tutte le sparse didascalie lasciate da Simenon, corrodono il fascino del libro. Di contro, L’uomo che guardava passare i treni è un ottimo terreno di studio per penetrare i segreti di questa arte, il congegno preciso dell’intreccio, il ritmo inappellabile della fine, per entrare in sintonia con la scrittura distillata e via via più rarefatta che rende Simenon tanto affascinante. La fortuna di questo libro tra il pubblico, in parte dovuto forse alla precocità della sua stampa, risiede forse nel compromesso che esso trova tra la natura più pura di Simenon, che si farà strada nei suoi romanzi più neri e crudi, e il fascino consueto di una narrativa più aperta e distesa. Il finale, al solito lacerante e caustico, non sorprende chi è abituato alle sue pagine, ma certamente ha il merito di strappare, una volta ancora, il velo della rivolta e mostrare il corpo nudo e indifeso dell’anima umana.
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Solo per salvare una vita
"Pinzimonio per mamma. Formaggi misti e miele per papà, Culatello, prosciutto di Parma e olive all'ascolana per me."
Una famiglia di punti fermi, di infine distanze, nel labirinto edificato da una logica che sa affettare senza lasciar sanguinare, a conquistare metri di tranquillità anche sul terreno neutro della cucina. La paura rende stupidi, decanta negli anfratti del pensiero, avvelena e annebbia la mente. L'intelligenza può essere un dono sprecato, una gabbia dorata. La purezza ha la stessa consistenza della morte, d'altronde HITLER IS DEAD. I segreti si nutrono di silenzi, di accondiscendenza, si ingigantiscono d'ombra, ologrammi e narcisi, bolle d'aria, gonfiate di spazi vuoti e di ignoranza. A volte basta una parola, Max.
Massimiliano Oderico ha tredici anni, "le pupille rivolte in alto, a inseguire pensieri troppo complicati, troppo dolorosi per la sua età", respira il vapore gelido di una quotidianità costruita tra i lacci del superfluo e la nenia ingannevole di un acume inutile. Inutile, perché la vita è più complicata, insidiosa, l'animo umano un grumo d'ombra, l'ingenuità un punto di luce. Uscire dalla gabbia ha un prezzo, un mito crollato, un'amputazione. Perdere un braccio per salvare la vita, la scelta migliore, ma la mente collassa, si incarta, spera di ricucire le distanze, fallisce.
Un libro scritto con intelligenza, registri e stili che si rispondono, peculiarmente disomogenei fra loro, calibrati ai personaggi, dissonanti e assurdi, come l'impero di cristallo che si consuma in un pulviscolo di cenere. Una famiglia bellissima è la storia di una difficile riscoperta, di una fragilità che condanna alla contraddizione, la leggerezza di un prato sotto la lente di una serra disinfettata e lucida. È la storia di una maturazione che procede a colpi di ascia, conficcati nella carne, soldatini di latta nauseati di apparenza.
Forse tutti siamo stati qui, di fronte al Minotauro, nel cuore del labirinto. Tra uccidere e morire, si può scegliere di vita. Forse.
Ma chi salvare: la madre o il bambino?
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Il destino degli uomini
Quando nel 1948 riceve la notizia della morte del fratello, arruolatosi nella Legione straniera su suo consiglio, Simenon scrive due libri nerissimi, forse per espiare le sue colpe, forse per addomesticare i suoi fantasmi. E così prendono vita La neve era sporca e Il fondo nella bottiglia. Se nel secondo la storia si tende fino alla rottura nella dicotomia insanata fra due fratelli, tra la terra rossa delle pianure americane, nel primo è invece Frank, giovane diciannovenne, a compiere la sua parabola di caduta e consapevolezza, tra le nevi stuprate di una indefinita città del centro Europa. La neve era sporca è per molti motivi un testo atipico per Simenon: la freddezza analitica e feroce, il tratto tagliente e logico della disamina dei personaggi lascia spazio, parola per parola, ad un pathos insolito, lacerante e caldo. Ed è proprio questa fiamma interna, questo fuoco contratto, a consumare gli uomini esausti di questo libro, a ridurre in cenere bianca le difese umanissime di cui si circondano. La stessa cenere bianca che si deposita come neve, impura e sporca, sulle loro vite. Perché se c’è una cosa che Simenon sa bene, è che nessuna purezza, nessun candore, è possibile nel mondo, non fosse altro che la realtà è un compromesso e, come tale, corruzione. Ed è la famiglia il cancro primitivo, l’olezzo, la fanghiglia, il degrado. Perché è nel rapporto con i genitori che si forma il dramma e diramano le metastasi della propria perdizione. Il grande tema che percorre queste pagine è, nona caso, la ricerca del padre e tutto il libro non è altro che la continua ricerca di questo maschile che continuamente sfugge. È il tentativo di riempire questo vuoto, il bisogno spasmodico di avere una guida, a muovere le azioni di Frank. E quando l’incontro finale sembra avverare questa originaria istanza, la verità è pura e semplice: “quello di un uomo è un mestiere difficile”. E allora questo romanzo, in cui tutto è crimine, l’omicidio, lo stupro, il furto, si dimostra alla fine un capovolto racconto di formazione, e cioè la compiuta descrizione di un massacro annunciato. Ed è un massacro perché Frank ha scelto che lo sarà, perché la cocciuta pervicacia che è in fondo ottusa resistenza a se stesso, null’altro è che il frutto di un’intelligenza tiepida. Non bisogna mai credere alla maturità ostentata di questo personaggio, mai cedere al mito della sua evoluzione, perché Frank è solo Frank, un diciannovenne. Anni dopo Simenon riprenderà il tema di questo romanzo in un suo altro libro, L’orologiaio di Everton, dove è il rapporto compiuto fra padre-figlio a scoppiare. Il motore narrativo è, in entrambi i casi, il superamento del limite, la soglia oltre quale tutto è troppo oltre per poter tornare in asse. È questo orizzonte, questo tranello minaccioso teso dal destino, a chiamare i personaggi di Simenon e a condurli all’estrema conseguenza delle loro scelte. Perché ogni volta, il vero protagonista, è il destino degli uomini.
E così Frank, incontro al suo destino, artefice di se stesso, consuma la sua parabola tra le sbarre di un carcere, sconfitto nella lucidità che si era imposto di mantenere, da una subitanea consapevolezza: che resistere per l’orgoglio di resistere non serve a niente. Simenon ci lascia alcune delle sue pagine più dense, più pastose, più intransigenti. E forse stona un po’ l’innaturale, incerta, ambientazione del libro, in cui Simenon, paradossalmente, non sembra trovarsi davvero a suo agio. Perché le regole del gioco valgono anche per l’autore: quando sono il dolore e la realtà a bussare alla porta, anche la neve candida della scrittura si sporca.
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DI RUGGINE SI MUORE
Dal fondo della bottiglia anche il mondo appare distorto, avviluppato in una spirale opaca che si arrampica su una luce diffusa, filtrata, smaltata; dal fondo della bottiglia la rifrangenza dell’alcol fa precipitare lo sguardo in un mare nebbioso, sfinito, allucinato; dal fondo della bottiglia anche la mente cede a se stessa e si spalanca ad una verità tanto netta da essere sordida, vischiosa, mistificata. Tutto è ruggine in questo libro, la terra rossa, polverizzata, il whisky denso, ambrato, il fiume marrone, epatitico, inesausto. Quello stesso fiume che con la sua danza sinuosa incanta tutti i personaggi, questi uomini cirrotici che si muovono come inebetiti dall’atonia nella giostra perpetua e monotona della loro quotidianità, della loro normalità e della loro fragile, inesistente perfezione. Quel fiume che scorre impetuoso e con cui tutti sono chiamati a confrontarsi: chi per riempire il vuoto della noia, quando anche l’alcol cede il passo alla realtà, chi lo impreca perché al di là sogna la propria felicità, la propria famiglia, chi lo prega per salvare la propria dignità e perché solo dall’altra parte, in Messico, negli ambienti caldi e morbidi di un bordello, ha trovato la serenità o la perdizione.
Simenon ci consegna un libro scuro e fangoso, crudele e sfiancante, nei ranch apatici che si estendono tra le promesse degli Stati Uniti e la povertà del Messico, lontano dalle placide architetture della sua Liegi e dai fasti di Parigi, in fondo al male e al dolore, mentre pagina dopo pagina, tra le ombre del ricatto, costruisce il dramma fino a farlo esplodere. Ed è all’allucinazione della sbronza perpetua che affida il destino di questi uomini, consumati dalla noia e dai miti della rispettabilità, quasi che solo in questo obnubilamento perpetuo dei sensi possano sfogarsi tanto odio, tanto rancore, tanta ferocia. Perché qui davvero non c’è calore che illumini il nero della trama, non c’è verità che riscatti la vita melmosa di questi uomini, non c’è un sentimento vero, reale, edificante: ogni relazione è finzione, ogni parola una lama, ogni bicchiere un gradino verso la dissoluzione. E anche l’unico amore per cui, a voler stringere la trama, lottano i due fratelli protagonisti, diventa strumento di rivalsa, ricatto, sopraffazione. Simenon sa che il mondo è una lotta fra lupi e agnelli, fra chi picchia e chi subisce, fra chi ha e fra chi non ha e soprattuto, con caustica, desolata certezza, sa che fin dall’inizio è stato Giacobbe, il fratello scapestrato, meno meritevole, a ricevere l’eredità di Dio. E solo con una punta di sarcasmo, come se questa ammissione gli costasse tutto il senso del libro, nota che in fondo Esaù ha perso tutto per un piatto di lenticchie.
Quando Simenon scrive questo libro, durante il suo soggiorno americano, sa di dover scontare una colpa: quella di aver consigliato al fratello minore, reo di omicidio, di arruolarsi con la Legione Straniera per fuggire. Una consiglio dettato dall’affetto, ma, forse, anche un tentativo per togliersi di torno la pericolosa reputazione del fratello, negli anni cruciali che lo stavano consacrando a rinomato scrittore. Eppure proprio seguendo quel consiglio, il fratello perderà la vita, consiglio che, la madre, non gli perdonerà mai. È proprio mettendo in scena lo scontro fra due fratelli che Simenon tenta di scavare e affogare il rimorso o il dolore, forse cercando un’espiazione, forse rassegnandosi alla natura dura e feroce degli uomini. Solo nelle pagine finali, sull’orlo del baratro, si respira la luce di una possibile comprensione, di un nodo sciolto e una trama ricucita, ma è l’illusione di un attimo che non sa redimere il mondo. Perché tutto è freddo e inaridito e, dal fondo della bottiglia, anche l’unica donna che tutto aveva capito e prima di tutti aveva intuito la fine, si chiude in un silenzio che, per nostra sfortuna, sa più di indifferenza che dolore.
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SULL'INTRANSIGENZA DELLA REALTÀ
C'è quasi una tenerezza di fondo che aleggia fra le righe di questa Everton sempre uguale a se stessa, una certa pietà che sembra sciogliere il rigore della trama e allentare il ritmo della catastrofe, un indefinito "odore di pane appena sfornato" che scalda, per una volta, la trasparenza gelida del disincanto. L'odore di un bambino che dorme nel suo lettino, quel figlio cui Dave Galloway ha deciso di consacrare la sua vita, le sue attenzioni, il suo affetto e la sua comprensione. Quando la madre se ne era andata, dopo appena un anno dalla nascita di Ben, col suo profumo volgare e le sue scarpe in disordine, Dave aveva pensato solo alla felicità del figlio. Era felice Ben? "Sì, dad" rispondeva, sempre, poche parole sempre uguali. Un bravo ragazzo, tutto sommato. Eppure quel ragazzo ha ucciso un uomo, è scappato con una ragazza ed è inseguito dalla polizia di cinque stati. Chi è Ben? Dave non se lo chiede e anzi balbetta confuso risposte vaghe ai giornalisti che lo assediano, perché quello che vuole, l'unico suo desiderio, è ritrovare il figlio e ripetergli che non è successo nulla, che non è arrabbiato con lui, che tutto si può risolvere. E in questo stupore ovattato, Dave sarà costretto a confrontarsi con un figlio che rifiuterà di vederlo.
Simenon strappa i suoi personaggi dalla vita di sempre per condurli sull'orlo della fine, al punto in cui, comunque andrà, nulla potrà essere come prima. Il figlio ha oltrepassato la linea della fine, il padre si è trascinato al suo seguito per non perderlo, perché anche se è un assassino, resta pur sempre suo figlio. Da questa prospettiva, oltre la soglia del bene e del male, Simenon ci costringe a dubitare di chi pensiamo di conoscere, di chi crediamo di capire per sconfessare, ancora una volta, la nostra idea di "sapere". E lo fa nel modo più estremo e assurdo possibile, perché fino alla fine nessuno sa e soprattutto nessuno sembra chiedersi, il motivo di quel gesto. Non lo fanno i giornalisti che scavano nel sordido e nel dolore e che sanno rendere sporca anche la verità, non lo fa la polizia che al movente preferisce l'evidenza del crimine e solo alla fine lo farà il padre, ricostruendo le tracce del destino negli uomini della sua famiglia. Nonno, padre e figlio alle prese con una dicotomia cruciale e infantile insieme: superare o meno la linea tra vivere e sopravvivere. E quando il problema diventa capitale, quando il peso di nascere tra chi "è sculacciato" fa esplodere la rivalsa, l'unica via per vivere è uccidere e poi annientarsi. Perché è solo nel sordido che questi personaggi trovano la loro redenzione, perché in fondo, per chi non ha il coraggio di scegliere ciò che si è, la realtà è solo una moneta che oscilla fra uccidere e morire. D'altronde vivere, ah sì, vivere, è la parte difficile.
Rispetto ad altri suoi libri, Simenon si dimostra più indulgente, non c'è condanna, non c'è cinismo, ma anzi un rispetto sacro nell'amore di questo padre per il figlio e allora la scrittura si fa più distante, sincera ma non spietata, perché la realtà è sempre realtà, ma l'amore di Dave per il figlio assassino è, paradossalmente, l'unico sentimento onesto che Simenon ci ha raccontato. E forse è proprio questa tenerezza di fondo che ha reso "L'orologiaio di Everton" uno dei libri più letti di Simenon, anche fra chi lo frequenta saltuariamente: è pur sempre una speranza.
Fitomorfosi
Atteone, il mitico cacciatore educato dal centauro Chirone, osserva, nei recessi più intimi della foresta, la dea Diana nuda; lei, sorpresa, lo trasforma in un cervo, Atteone scappa e viene divorato dai suoi stessi cani, cacciatore prima, preda poi. È il mito di un dissolvimento brutale nello spirito della natura, è il mito di una palingenesi che ha i tratti luminosi di una verità alla fine dis-velata.
Un velo semitrasparente sembra essersi posato sulle labbra di Yeong-hye, una diafana inconsistenza che sembra attingere la propria linfa dalle radici immerse nella terra, dal lento dissolversi della materia organica, del proprio corpo, nella terra umida, scura e brillante, oltre le contraddizioni. Tutto fluisce e termina, rinasce forse, nella tensione di uno stillicidio lento, goccia di linfa su goccia di linfa, arterie verdi che impiastrano della loro appiccicosa dolcezza, il corpo, l’anima e ancora, lo spirito. Vegetalizzazione come copio dissolvi: è il vuoto orrifico spalancato al centro di un oceano verde, silenzioso, cocciutamente inesprimibile.
Si articola in tre parti questo libro, manifesto come un fiore bianco che sboccia, ma chiuso, col suo segreto, come una natura silenziosa, gelosa del suo segreto.
Parte prima: la vegetariana.
Yeong-hye fa un sogno, un volto, “nato dalla pancia”, dirà poi. È un sogno che macchia di sangue la sua vita, un senso di panico, ansia, come un peso che le impedisce di respirare, al centro del petto. Il marito ci racconta la sua metamorfosi, la sua scelta: diventare vegetariana e allontanare il sogno, liberarsi del peso. Yeong-hye è parlata, da altre infinte prospettive che rendono difficile, misterioso, coglierne le reali ragioni. Il marito la critica, non la capisce, la disdegna, ma per lei, lui “puzza di carne”. Il corpo è imperfetto: “è il tuo, puoi trattarlo come ti pare, l’unico territorio in cui sei libera di fare come preferisci, ma anche questo non va come volevi”, dirà più avanti la sorella. La chimica del carbonio è volgare, parlare è feroce. Il marito ci racconta e giudica." La vegetariana", come lui la chiama, è una condanna, una parola che circoscrive il limite della comprensione e l’infinità dell’incomprensione: la natura è solo un quadro di Arcimboldo.
Parte seconda: la macchia mongolica
La macchia mongolica è una voglia, un errore di pigmentazione, si dice, dei discendenti di Gengis Khan. Altri dicono sia l’impronta che la nonna lascia quando dà uno schiaffo al bambino per farlo respirare. La macchia mongolica ha un colore bluastro, compare spesso sulle natiche o in fondo alla schiene e scompare, poco dopo, con la crescita. Yeong-hye ce l’ha ancora, sulla natica sinistra. Ed è quella idea a eccitare il marito della sorella, un artista, quella persistente macchia bluastra. Eppure quell’eccitazione, quella voglia animalesca di possederla, si innalza poco a poco nell’estatica contemplazione dei fiori pitturati, del corpo brillante, si sublima nell’astratta geometrica perfezione di una natura che ha le forme di una quadro di Piero della Francesca.
Parte terza: fiamme verdi
Parla la sorella di Yeong-hye, torturata dal crivello dell’incomprensione. Perché la sorella, perché il marito hanno fatto quello che hanno fatto? È la fuoriuscita dagli schemi in cui è cresciuta, in cui ha creduto, è il crollo di quell’attaccamento alla vita di cui, alla fine, si chiede “perché importa così tanto vivere?”. È la storia di una comprensione e, per sua stessa natura, di una dissoluzione impossibile. La natura di In-hye, la sorella, è come un inferno di ninfee, un quadro di Monet straziato di luce, come uno spazio oscuro in cui affoga il suo pensiero. Resta solo da guardarla, accanitamente, “come a protestare contro qualcosa”, cupa e insistente.
Affascinante e misterioso, luminoso e scuro questo libro di Han Kang, all’incrocio tra oriente e occidente, in bilico tra la ricerca di un senso, di una liberazione, possibile forse solo oltre il principio di sopravvivenza, e la coercizione sociale, l’incomprensione, la clinica psichiatrica che sembra non capire. Ma in fondo dove è la verità? Perché Yeong-hye ha lasciato il filo che la lega alla vita? È malata, è un’asceta, è una mistica, è pazza? È uno stupro, è arte, è sublimazione dell’eros, ricerca platonica? Tutto sembra scivolare, sciogliersi, aperto alle inclinazioni del lettore. Non perfetto, specie all’inizio, il libro cresce, poco a poco, si impone con la sua atmosfera, con il suo velo di palpabile magia, risuona di echi primitivi, essenziali, ctonii. È un libro di ricerca e liberazione, di illuminazione e (in)comprensione, ma anche un libro che sembra affondare la sua intima ragione in una mistica nuda e cristallina, in fondo, alle radici delle piante, dove il peso della terra si dissolve alla fine in un pulviscolo di luce, il battito di una farfalla.
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Organizzato, pulito: senza vita
I romanzi di Simenon, in fondo, si definiscono come un “tutto sommato”: si costruiscono di poche svolte, azioni particellari che si agitano nel reticolo gelido, dalla trasparenza atroce, di un destino già scritto; “tutto sommato” perché anche senza conoscere l’intermezzo, alla fine quel punto d’arresto che con placida insistenza si solleva dopo ogni riga, fatalmente arriva. E’ un approdo forgiato di una necessitò filosofica stringente, di una crudeltà esatta che si abbatte su personaggi inesauribilmente colpevoli e mediocri, senza diritto di replica. Non c’è livore nella penna, non c’è condanna, ma solo un profondo disincanto.
Simenon ha la capacità di descrivere le passioni più violente congelando la pagina: non c’è amore che scaldi, non c’è unione che divampi, non c’è affetto che addolcisca il profilo spigoloso di una banalità che si trascina sempre uguale a se stessa, voluttuosa e avvinghiante. Non c’è il sole nemmeno nella Turchia idealmente tiepida dei “Clienti di Avrenos” o nell’incendio di passione dei “Complici”: solo una terra sferzata dal vento artico di una vita che sfugge dalla resa dei conti con se stessa.
La condanna che pende su Kupereus, di professione medico, accidentalmente assassino, marito tradito, mediocre notabile locale, è quella di essere per l’appunto congelato in questa terra pallida e deserta di una vita a metà, quella di non aver pro-gettato la propria fragilità di uomo, di averla barricata dietro ad un profilo rispettabile, una condotta irreprensibile, una quotidianità dalla ripetitività aberrante; la sua ingenuità, invece, è quella di non aver capito che egli stesso, senza più forze, stava lasciando scivolare via le catene (notevole ribaltamento per un prigioniero!) cui tanto avrebbe voluto essere avvinghiato. In questa dicotomia, sospeso tra le catene del noto e l’inferno dell’ignoto, Kuperus rimane in bilico in un limbo senza anima, pietrificato da un paese di mediocri che lo rifiuta e una cameriera-amante di un’assurdità alla Camus. L’esito di questa vita che non ha saputo o voluto compiere se stessa è già scritto: non potrebbe essere null’altro se non l’atonia.
Ci sono le cause del comportamento, è vero, una filosofia della complessità racchiusa in mezzo fiorino, ma in fondo, alla fine di tutto, c’è un vita rotta al suo primo tardo vagito. Un libro di ossimori e contraddizioni, tortuosi snodi dell’anima che puntano dritti dritti all’implosione.
“L’assassino” è un libro faticoso, sembra consumare fino in fondo una distonia col mondo e con la vita al cui calice esso stesso ha attinto. Dopo aver bevuto il mare salato di una ferocia inaudita (non quella di Kupereus, ma quella dell’animo umano), resta soltanto la disidratazione nauseante di una frattura con la vita, resta il bisogno acuto e insopprimibile di riconciliarsi con la realtà, magari leggendo uno di quei gialli inglesi dove alla fine movente e colpevolezza sono di una trasparenza rassicurante. Eppure, in fondo, tutto sommato, si trascina nella mente quella malinconia che no, un giallo inglese non può colmare.
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Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volo
Quando il pubblico ministero Michele Isgrò concluse la sua arringa contro Gramsci proclamando apertamente la necessità “di impedire a questo cervello di pensare per vent’anni”, certo doveva avvertire il peso non solo di una mente straordinariamente lucida, ma anche di una tempra morale che farebbe impallidire l'era post-ideologica. E non avrebbe mai sospettato che in un uomo tanto fieramente piccolo si potesse preservare un ardore tanto radicale da consumare se stesso.
Negli anni che egli sconterà in carcere, dal 1926 fino alla morte nel 1937, trasportato tra le prigioni più svariate, nelle celle più anguste, tormentato da una ripetitività ipnotica, fiaccato dalle malattie più varie, condannato ad una veglia perpetua da una mente troppo energica per dormire, e troppo orgogliosa per riposare, estenuato fino alla schizofrenia da un controllo subdolo e sinuoso, Gramsci oppone alla tragedia di una pena ingiusta, una tempra sfolgorante. Perché in fondo a nulla vale essere eroi se l'abnegazione condanna alla morte, a nulla vale proclamare la propria innocenza crogiolandosi nella propria innocenza e smettendo di sopravvivere. Non è un giudizio politico, ma un'esperienza umana.
Gramsci scrive: scrive per sopravvivere, e si avverte ad ogni lettere, ad ogni parola, ad ogni riga strappata alla censura, ad ogni frase salvata dal tempo limitato della corrispondenza, ogni periodo complesso o spezzato tanto velato da sfuggire ai controllori e al pudore della certezza che ciò che si scrive sarà letto da altri, tanto preciso da poter essere compreso. La scrittura come mezzo per comunicare, nelle ore senza tempo del carcere, mentre i libri letti a velocità impressionante segnano il passare dei giorni, mentre l'arrivo di riviste giornali tiene il conto di periodi più o meno lunghi, mentre di addensano le ombre di un tradimento, mentre il dubbio corrode le certezze mai certe e il ripiegarsi su sé fa collassare la lucidità: la mente aggroviglia la semplicità, i fantasmi di pericoli non colti lo tormentano mentre il freddo lo fa tremare, la febbre lo fiacca, mentre ingurgita farmaci e tiene il conto minuzioso della propria dipendenza. Il carcere ha ucciso Gramsci: non per le condizioni, che in fondo avrebbe potuto sopportare, ma per quella prolungata e sistematica esclusione dall'impegno politico, dalle relazioni umane, dalla propria genetica vocazione di uomo di stato, che ne corrodono lo spirito vitale. Gramsci si erge con la sua forza, ma pure con la sua fragilità, di cui solo alla fine si renderà conto.
Eppure ciò che colpisce in queste lettere, in questa opera letteraria di intima coerenza, che si pone come l'incarnarsi di quella conquista “für ewig” (per l'eternità) che egli più volte auspica, cui più volte tende, è la forza con cui, anche quando la malattia intorpidisce la mano che scrive, quando ogni parola costa uno sforzo ai limiti della sostenibilità, persevera nei suoi progetti. In queste lettere Gramsci sfolgora in tutta la sua implacabile analiticità: dai brucianti giudizi politici, ai commenti sui fatti del mondo, dagli studi su Dante, all'apprendimento del tedesco e del russo, passando per le preoccupazioni più umane e l'ironia più dissacrante, ciò che egli scrive colpisce per l'inaspettata, quanto imprevedibile quantità di temi, la rapidità delle variazioni, l'ordine nel disordine, la forza del pensiero, la logica dei giudizi, l'attacco costante e letale ai grovigli più intricati. Sono le lettere di un uomo che sa cosa significa scrivere, e che comprende nelle sue basi profonde l'importanza dell'educazione: un uomo che scrive alla moglie, a migliaia di chilometri di distanza, sull'educazione dei figli, che con una certa superbia, ma non minore dolcezza elargisce consigli sulla loro istruzione, estrapola dalle rare foto di cui ha un matto bisogno i volti di familiari che più non vede, o di un figlio che non ha mai visto, ma a cui, con inaspettata tenerezza, si rivolge con storie e fiabe, con sollecitazioni e incitamenti.
Un uomo di così elevata statura, di così estrema esperienza biografica, di così forte determinazione sta un esempio che atterrisce per la rarità, ma sfida per forza. Nella trasparenza della sua scrittura, nella ossessività minuziosa del suo narrare, a volte persino fastidiosa, Gramsci ha davvero composto un'opera per l'eternità: ha coniugato la figura dell'intellettuale organico con quella del padre, dell'amico, del figlio, del marito, del fratello, dell'uomo di stato. E lo stesso Gramsci alla fine si è arreso, prosciugato fin nel profondo, ma con una lucidità tanto più acuta quanto più feroce era il morbo: l'inizio della fine, come lui stesso nota, non è il carcere, ma il dissolversi dell'autoironia. Segno premonitore di un abbruttimento morale, Gramsci cede forse al ritmo ipnotico ed esacerbante del carcere, ma ci provoca con gran forza ad essere giganti sulle spalle di questo inesauribile piccolo uomo.
(L'Edizione completa delle lettere è quella edita da Sellerio (1996); Einaudi ha pubblicato in varie occasioni raccolte più o meno ampie dell'epistolario gramsciano, mettendo spesso in luce le lettere tra Gramsci e l'amica e cognata Tania, interlocutrice prediletta durante il suo implacabile stillicidio).
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A pugni col passato
Al principio dell'Iliade, all'origine della cultura occidentale, c'è Apollo: furente scaglia le frecce e annienta con implacabile lentezza i soldati dell'accampamento acheo. La divinità solare è crudele seminatrice di morte. Apollo è una malattia che si insinua da lontano, sinuoso come il suono della cetra e preciso come solo la lucidità sa essere. All'inizio della mitologia greca c'è il Minotauro, creatura mostruosa che nell'abominio del suo concepimento, è eletto a simbolo dell'animalità di Dioniso, principio di vita e di morte, senza mediazione, digiuno del correttivo della pietà. C'è un labirinto, tortuosità dell'animo umano, c'è un filo teso da Arianna che scioglie l'enigma, c'è Teseo, l'eroe, che trionfa e scioglie l'inganno, baciato dall'acume di Apollo, c'è Arianna, uccisa da Artemide per esser fuggita dal marito Dioniso. All'alba del Novecento c'è il fantasma di Nietzsche che cristallizza la Grecia nel manicheismo apollineo e dionisiaco. Poi c'è Colli e un invito alla modernità.
La filosofia, secondo Colli, nasce con Platone. Anzi Platone scrive, con uno straordinario corpus filosofico, di unico equilibrio tra pensiero ed estetismo, l'epitaffio della sapienza greca. La filosofia è l'amore per la sapienza, per una saggezza che non trascende l'uomo e lo stimola alla ricerca sotto la spinta di eros, ma una saggezza che è nell'uomo stesso, nella certezza dell'uomo greco che tutto fosse già imperscrutabilmente inciso nel cosmo e che tutto però potesse, nell'attimo cruciale e (romanticamente) sublime del divenire (quando un corpo è senza forma, sospeso tra due estremi, A e B), subire infinite e vertiginose metamorfosi. Per l'uomo greco delle origini la necessità non è logica stringente di causa-effetto, ma un modo di pensare: la possibilità di agire e patire, nel segno di uno spirito vitale che arde consumandosi, pur nella solidità dei destini umani.
L'uomo greco agisce nonostante tutto, nonostante sappia che ciò che deve accadere accadrà: da qui l'importanza degli oracoli, della Pizia che dall'antro di Apollo parla del destino degli uomini, nell'invasamento del Dio: è nella follia, nell'invasamento, nella manìa che l'uomo intuisce il futuro; è nello svuotamento dell'estasi mistica, che il Dio lo ricolma con la sua infinita potenza. "Enthusiasmòs": animarsi dall'interno. E' nell'equivalenza tra Dio, anima e natura che l'uomo greco trova se stesso: in Dioniso che riflettendosi nello specchio non vede se stesso, ma il mondo.
La cultura greca nasce nella sfida che l'uomo, trasfigurando in chiave ellenica il mito di Adamo, rivolge alla divinità aspirando ad un sapere che inevitabilmente gli sfugge. I sapienti greci, Eraclito, Parmenide e molti altri vivono in questo scontro col divino, vivono nel segno dell'enigma: enigma come traslitterazione (è il caso di dirlo) del labirinto in discorso, parola. E il sapiente greco trova dignità soltanto risolvendo gli enigmi che la Sfinge pone: così, racconta il mito, Omero si suicida per non essere stato in grado di risolvere un indovinello. Quando Platone scrive, la religiosità che l'uomo greco arcaico avverte come genetica si è plasmata nella forma della dialettica, dell'agonismo, dello scontro tra interlocutori: e ancora la dialettica si è fatta scrittura, dunque filosofia, eco di quel sapere arcaico definitivamente perduto. Con Aristotele, per concludere la parabola discendente, al dialogo filosofico si sostituisce il trattato, chiuso nella sua perversione linguistica, sospeso tra la dialettica e il baratro della retorica.
Il testo di Colli, scritto con uno stile affascinante, denso e complesso, ma mai insormontabile o oscuro, se non in rari punti, analizza con invidiabile acume la nascita della cultura occidentale e tra le varie riflessioni che fa suscitare, colpisce specialmente quella sull'agonismo. Agonismo come base della dialettica, scontro come base della conoscenza. In un epoca in cui la filosofia pare aver più poco da dire, in cui pare morta o esaurita nella sua pretesa etimologica, l'agonismo (mi) pare l'unico atteggiamento per rapportarsi con la classicità. Non contemplazione estatica, ma sfida serrata. Il senso della cultura classica sta là dove il lettore fa a pugni col passato, dove l'agonismo con una cultura sublime e terribile come quella greca è l'unico mezzo per instaurare nuovamente una dialettica serrata nel segno del molteplice, al di là dell'aut aut, o di qualsiasi totalitario principio unificante. E (scusate per la polemica velatamente personale) soltanto nell'agonismo (e non nelle etimologie) il liceo classico può avere ancora senso.
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Bagno di fuoco
Cioran assassina suo malgrado la vita. Con un ragionamento teso sul filo accecante della lucidità disgrega le finzioni, opacizza paradossalmente l'illusione, il compromesso della sopravvivenza. Troppo poco illuso dalla conoscenza per risultare disingannato. Cioran è un fine psicologo di se stesso, e quindi degli atri, ma quanta volgarità nelle gerarchie, nelle classificazioni, nella cristallizzazione della vita in un forma geometrica! Al culmine della disperazione, quando l'insonnia tormenta infaticabile l'uomo stremato, quando la stanchezza reclama solo il silenzio, dell'io e dell'altro, quando la mente pare precipitare negli abissi inconoscibili dell'irrazionalità (che in Cioran è sinonimo di ingenuità), allora con atroce e infallibile precisione, spietato e insensibile, il pensiero tormenta, e là dove si desidera l'oblio, si è costretti a contemplare lo spazio infinito della propria miseria. Al culmine della disperazione Cioran scrive per sopravvivere, per espellere da sé quel calore, quell'incontenibile traumatico impeto che lo conduce all'autodistruzione.
“Vivere un bagno di fuoco, subire il capriccio di un forte calore interiore, non è forse raggiungere una purezza eterea, un'immaterialità simile a una danza di fiamme?”
Ridursi in cenere, scarnificare se stessi, disperdersi nell'infinito del cosmo, sovrabbondati di vita, sinuosi come la curva vertiginosa dell'infinito, straripanti di vita, dionisiaci, indefinitivamente altri rispetto alla truce banalità, mediocrità e insignificanza della forma geometrica. Al culmine della disperazione l'unica salvezza è fustigare l'uomo razionale, abbruttirsi, rinunciare a quella tragica distinzione che segna il divario tra uomo e animale. Tornare bestia, se solo si potesse! Cioran fallisce, inchiodato dalla sua stessa ragione, drammatico proprio perché in conflitto con essa, condannato ad ogni riga ad una lucidità disarmante, feroce, ignara “del correttivo dell'ironia”: sarcasmo brutale contro se stessi, contro l'uomo, autoironia dissacrante, trasfigurazione grottesca della propria insulsa banalità. Al culmine della disperazione solo l'amore permette di restare in piedi, perché quando si ama si è già caduti. O forse l'odio, il disprezzo, ultima difesa contro un'irrimediabile e spietata solitudine. A soli ventidue anni Cioran è sospesa tra il vertiginosamente alto e il profondamente basso, inorridito dalla mediocrità che non sa affacciarsi alla vita, condannato alla dissoluzione dalla propria natura. Ciò che Cioran contempla è la vertigine, il parossismo, l'esperienza totalizzante, l'unione delle discordanze, l'estasi che sottrae alla miseria, l'incommensurabile, la spirale piuttosto che la retta. Muore e cresce allo stesso tempo, si dilata fino alla disgregazione, ruota attorno a un mondo senza centro, trascinato da una forza centrifuga che nonostante lo sforzo, malgrado la suprema consapevolezza dell'unica salvezza, lo condanna a ruotare attorno al nulla senza poterlo raggiungere, senza poter unirsi alla natura in un impeto di agghiacciante splendore.
Cioran è l'anti-filosofo: bandisce la conoscenza perché ne è saturo, asfissiato. Perché la conoscenza lucida ed implacabile, sull'ordito di un ragionamento in perenne contraddizione, senza speranza di soluzione, senza alcun segno di linearità, inchioda alla percezione della vacuità del mondo. Non la vacuità dell'oblio, ma della significanza. L'insonnia come mostro che perseguita, come ironia tragica che non lascia scampo. La stessa tragica ironia che ha fatto spegnere Cioran a Parigi, colpito da un Alzheimer che ne ha intaccato l'imparagonabile, sublime lucidità. Stupisce che non si sia suicidato, ma al culmine della disperazione la morte ripugna tanto quanto la vita. Il dramma di Cioran è il paradiso perduto dell'utero materno, l'Eden da raggiungere è l'infinito ampliarsi del mondo al di là della ragione, al di là della razionalità.
Non è un testo semplice, e nello stile, di rara eleganza e concretezza, e nei contenuti: come affermerà lo stesso Cioran in questo suo primo libro c'è tutto il suo pensiero, sconnesso, ordine-fobico, senza coerenza, senza consequenzialità: un'esplosione non imbrigliabile, un pensiero che trascende la filosofia, la psicologia, e contempla il mondo dall'alto della propria interiorità, animato da una lucidità lacerante nella quale si consuma il divario non colmabile tra anima e mondo. Un testo spezzato, passaggi involuti, criptici, che soggiaciono alla logica dello sfogo piuttosto che a quella della pubblicazione, della comunicazione. Pretendere di comprendere tutto è un'illusione per il lettore, la stessa che accompagna l'idea di poter cogliere la profondità di una mente sublime e dannata. Non posso non consigliarlo, non posso farlo con leggerezza. A voi la scelta di raggiungere le vette della disperazione. Da parte mia non lo rifarei.
[Non credo sia propriamente un saggio, il voto di approfondimento è rapportato agli altri].
Indicazioni utili
- sì
- no
Com-pli-ci
Com-pli-ci-tà. Sbagliato.
Com-pli-ci. Sorriso.
Lambert odia l'astratto. Pare quasi di vederlo mentre sulla sua bocca affiorano queste poche sillabe, tremendamente incosciente, insulso e frastornato da una scommessa col destino, da una scommessa con Edmond, la segretaria con cui intrattiene una relazione e la cui gonna, quando si abbassa dopo l'atto, ha il ritmo di una ghigliottina inappellabile. Un angelo di morte che accompagna a passeggio la madre con l'atroce spensieratezza di chi rifugge indisturbato la propria coscienza. D'altra parte le voci strazianti di bambini assaliti dal fuoco sono il coro perfetto, la melodia più dolce per quest'essere, questa bestia sovrumana che avvince col suo fascino, con le sue dannate forme.
Com-pli-ci. Lo statuto della loro relazione è una fredda alleanza, una guerra perenne che risveglia gli impulsi più animaleschi, la brutalità più sozza e avvinghiante. E i loro amplessi non sono accordi di pace, non sono il trionfo dell'amore (ché di questo non si è mai parlato), ma una polluzione dei propri abominevoli istinti che rompe il ritmo di questa placida intesa, una necessità fisiologica, meccanica. Rompere il ritmo, essere complici, rischiare, come imprigionati in una roulette russa in cui tutto si riduce a gioco. Correre, accelerare, essere dinamici perché:
la stasi è il matrimonio: insopportabile;
la stasi è la vita lavorativa: opprimente;
la stasi è la relazione extraconiugale: noiosa.
La stasi di una mano imprigionata tra le fauci della voluttà è la distruzione e il principio dell'implosione.
Ma quanto l'uomo è inestricabilmente solo, quanto anche il delitto, la complicità nel delitto, questo legame irresistibile e solido, questa tacita intesa, è debole dinnanzi agli interrogativi dell'anima, di fronte al giudizio insopportabile, anzi, insopprimibile, della propria coscienza che tremenda si erge a giudice della nostra malevolenza. Quanto la mente si nasconde a se stessa, quanto spesso la giustificazione, adombrando la colpa, la rafforza, la sacralizza.
Col-pe-vo-lez-za.
Sillabe che difficilmente raggiungono la superficie, a stento emergono dalla densa materia del ricordo, a stento si fanno strada negli anfratti sopiti e tenebrosi del proprio animo.
Con quale desolante squallore l'uomo corre, come i criceti, nella ruota della prevedibilità, con quale pietà lo sguardo di Simenon divelle il sarcofago che nasconde il mistero dell'uomo. Con quale coraggio, con quale incredibile intraprendenza, osserva l'abisso che l'uomo racchiude.
Simenon trae la materia della sua prolifica produzione dall'osservazione attenta del mondo, dallo sguardo nella psiche umana, dal suo superbo acume introspettivo. Uno stile lineare, senza eccessi, senza pareti scoscese, senza facili discese; un tono medio che emerge dagli esordi al centro dell'azione, percorre le immediate conseguenze, e come un fiume carsico scava i ricordi, il magma spesso e pesante della memoria, per poi presentarne un esito già preannunciato.
Un libro gelido nonostante il calore dei corpi, nonostante liquori che segnano la trama e nonostante il corpo seducente di prostitute immancabili. Simenon sembra dialogare con i suoi personaggi, intrattiene con loro una fitta corrispondenza e chiede:
chi sei?
chi siete?
chi sono, io?
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L'Io come relazione
La notte fantastica è quella dell'intuizione cruciale, l'estatica consapevolezza di sé stessi, il riappropriarsi di quell'Io crucciato dai dettami morali di una Vienna romantica e dannata in cui lo smarrimento interiore è il terrore di sé; l'odio abietto e snaturato contro le proprie pulsioni, l'inveterata arrendevolezza ad una ragione imperante che solo il dramma di una guerra immane ha saputo incrinare. La notte fantastica è la certezza psicologica della fragilità umana, la chiara e distinta evidenza del proprio essere relazione. La notte fantastica è il trionfo di Freud, della sua psicanalisi, il recuperare gli abissi del proprio animo, affacciarsi nella voragine della propria terribile e inguaribile mutilazione, per scoprire là dove le tenebre della razionalità sono più dense, il bagliore sfolgorante della propria nobiltà.
Un trionfo, dunque: la sconfitta del razionalismo cartesiano, là dove nemmeno l'appassionato, ma etereo spirito romantico aveva fallito: nasce la psicanalisi, il nucleo della produzione di Zweig, di quella penetranza psicologica in grado di scandagliare l'animo umano con quella protervia superba, leggermente ottusa, ma sublime ed entusiastica che accompagna qualsiasi nuova scoperta. E non c'è trionfo senza eccesso. Ecco che lo stile di Zweig, nella sua innaturale eleganza, nella sua impensabile ed inarrivabile empatia, si dilata in un profluvio di parole, dissolve i contorni testuali, abbatte i dialoghi, il tempo e lo spazio: tutto si uniforma e collassa nella dimensione dell'Io, in quel protrarsi dell'aggettivazione che più che autoreferenziale , più che auto-parodia, è il segno tangibile di un genere al suo esordio, della difficoltà spasmodica, anzi, asmatica, di descrivere una complessità sproporzionata alla forza della scrittura. E se la forza trascinante del testo ne risente, specialmente là dove la narrazione si allunga (come nel secondo racconto della raccolta, Notte fantastica), l'incisività è degno compenso, fintantoché non viene diluita fino all'inverosimile da un vizio che è pero necessario dazio.
La pretesa di voler conoscere ogni essere umano è eccessiva, entusiastica quasi infantile, quasi assurda, ma è l'impeto trascinante, bacchico, voluttuoso (per utilizzare una parola che dà ritmo all'intero testo) che segna il tracollo del perbenismo vittoriano, dell'ipocrisia psicologica, per rivelare la natura dell'uomo, nelle sue più sozze passioni, ma anche nelle sue più nobili virtù.
Narrativamente parlando, volendo cedere il proprio favore all'equilibrio, spicca l'ultimo racconto, Leporella, dove la terza persona è forse garante di un distacco maggiore, di una dimensione più certa e ben descritta; emotivamente parlando colpisce il primo racconto, un essere pervasi da un fuoco ardente di passioni e sensazioni, il dilatare le vene per far defluire un fiume di sangue sull'orlo dell'esplosione; psicologicamente parlando convince il secondo, ma qui la potenza è inficiata dalla lunghezza. Il terzo, infine, sebbene minore, consacra definitivamente l'ostinazione, il testardo perseverare nella propria oscena cocciutaggine.
Quello che Zweig sembra suggerirci è un nuovo paradigma ontologico dell'uomo, o, più semplicemente, un nuova spazio dell'esistere. Non più “penso, dunque esisto”, ma “mi relaziono, dunque esisto”: è nel rapporto con gli altri, nel precipitare fuori da se stessi per contemplare la propria superiore unità, in questo binomio di protendersi e di accogliersi vicendevolmente, che si realizza il trionfo dell'essere umano nella sua totalità. E l'importanza di questa conquista compensa efficacemente difetti compositivi ampiamente colmabili.
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Quando Perseo non ha lo scudo
In una Vigata sfumata, soffocante, nella quale si infiamma una tarantella inestinguibile di sospettati, comparse, erotomani, malesseri improvvisi e fedeltà fragile come soltanto l’indole umana può essere, in questa dimensione angosciante, senza respiro, senza soluzione di continuità, sull’orlo di una crisi di nervi improvvisa, Montalbano è chiamato alla soluzione di un delitto. Intuibile la soluzione, fin dalle prime battute, anche senza prove, basta l’istinto a collegare un puzzle troppo lineare di enigmi più o meno risolti, a far combaciare i dettagli, a farli soggiacere all’imperativo categorico di una qualche sensazione impellente; basta l’irragionevole pervicacia umana a cancellare i depistaggi, perché in fondo, a volte, essere testardi preclude delle vie, ma elimina i dubbi. È insomma un giallo terribile.
Eppure in questo clima sospeso, in questo frenetico movimento di corpi che si alterna alle pause di un Montalbano interrotto spinto fino all’esacerbazione, il giallo conta poco, specialmente di fronte ad un’energia pulsante che fa tentennare, inorridire, eppure attrae punto dopo punto fino a svelare l’abisso. Perché palpita al di sotto della trama, un interrogativo viscido, eppure irrinunciabile, cui la fatalità, come nel più perfetto dei drammi greci, sacrificherà una giustizia umana e civile irrimediabilmente imperfetta.
D’altra parte la tragedia greca è stata forse fonte d’ispirazione, sicuramente i parallelismi sono evidenti, fin dal titolo, nel quale si consuma e si risolve tutta la storia. Perché Montalbano, novello Perseo, dovrà affrontare Medusa, mostruosa creatura condannata da Atena (dea della ragione) per la protervia e la vanità. I serpenti, le vipere, che si agitano sul suo capo, sono l’emblema di una colpa che tormenta e che marchia per il resto dell’esistenza. Orrenda a vedersi, Medusa pietrifica chiunque osi guardarla; Medusa, ovvero perversione intellettuale. E Perseo sarebbe destinato a soccombere, se Atena non corresse in suo aiuto, donando uno scudo attraverso cui vedere l’abisso. Eppure, nel tragico consumarsi della storia, Montalbano (Perseo irrimediabilmente umano) non ha nessun aiuto, né tantomeno riesce a sostenere lo sguardo diretto del mostro. E così, nella pessimistica rivisitazione del mito, l’eroe coglie i propri limiti, quelli della ragione che non riesce a soverchiare la compassione. Ed in questo drammatico gioco di forze, il giudizio rimane sospeso, a contemplare le colpe di un’umanità sull’orlo della disgregazione. E per fuggire dal nulla, non rimane che il silenzio.
Camilleri scrive un giallo imperfetto, ma anche una storia palpitante, quasi ad estendere il nietzschiano “se tu scruterai dentro l’abisso, anche l’abisso scruterà dentro di te”, tessendo l’esile trama con uno sguardo impietoso su una vita famigliare distrutta, tra il ripugnante e l’erotico: eppure anche l’amore non ha nulla di gioioso, anch’esso è disperato, brutale, carnale, viscido, pornografico. Nessuna lama di luce, nessuno spiraglio in un universo torbido alla ricerca di redenzione.
Ammirevole l’obiettivo del testo, ambizioso il contenuto, straniante il siciliano se letto per la prima volta. L’unico errore di questo giallo, un errore strutturale, e di prospettiva, è il genere stesso: il giallo deve essere tale, non può tentare di giudicar la realtà, a rischio di svilire l’indagine. Camilleri evita una caduta, e in questo sta la sua maestria, e la sua abilità. E se la soluzione del caso non stupisce, sorprende forse come ad essa si giunga. O magari, per un Perseo riluttante ad uccidere la Medusa, un’alternativa può giungere soltanto da un deus ex machina.
Libro estremamente intelligente, di un’erudizione dissimulata, in miracoloso equilibrio tra due istanze (il giallo e la riflessione sociale/umana) che, dettate dal timore di un tema tanto grande, la ragione non riesce a riequilibrare.
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La chimera
È un romanzo che ha il ritmo circolare delle stagioni e delle epoche, è una storia dal ritmo lento ed avvolgente che con dolcezza strappa il lettore dal contemporaneo per condurlo alla nebbia novarese della risaie, caligine che ora con dolcezza si posa sulla terra a coprire i crimini dell’umanità, ora invece scompare, trafitta dalla luce della ricerca storica, a svelare eventi che la storia tradizionale tace. È una macchina del tempo articolata in descrizioni, lunghi ed eleganti resoconti tratteggiati da una penna di straordinaria raffinatezza. Una discesa nel passato che ha le fattezze sfumate di un sogno, ma la cruda brutalità dell’essere umano, un dolce sonno cui segue un brusco risveglio. E come se non bastasse l’autore accompagna per mano il lettore, a smuoverlo dal torpore narrativo per costringerlo al confronto con l’oggi; ed ecco che cambiano i nomi, ma la sostanza, l’uomo, rimane il medesimo, con le sue paure, col suo amore, con la sua corruzione, a crear un ponte tra secoli che, ammiccando a Manzoni, ripercuote tutto il suo disincanto in una contemporaneità nichilista cui ci si arrende. Ed ecco che uscendo dal rumore del moderno, vestigia antiche e riflessi ancestrali, assurgono a paragone col presente.
La trama di per sé è banale: una giovane del ‘600, Antonia, accusata di stregoneria, va incontro ad un processo. Niente di più celebre, niente di più paradigmatico. Tuttavia la discesa verso la condanna è scandita da incontri con personaggi variopinti, bigotti, sentimentalisti, audaci, innocenti, vittime e carnefici che anzi dominano tutta la prima metà del testo. In questo dipinto sfumato, dai tratti inconsistenti, eppure chiarissimi, come un sogno, come una chimera, rivivono le colpe mai espiate di un’umanità costretta a fare i conti con se stessa: le grida inutili di manzoniana memoria, la ricerca esasperata di un capro espiatorio all’irrazionale, l’esclusione, la mentalità bigotta, la corruzione clericale si rivelano baluardi insuperati e nemici di una società in disfacimento. Non c’è speranza, non c’è Dio, anzi, se proprio il libro può apparire monotono è per un ateismo sotteso, eppure così palese, su cui continuamente Vassalli ribatte in una critica feroce per contrasto: alla pacatezza dei toni, corrisponde l’umorismo sarcastico di preti grotteschi.
È, in questo senso, una visione della Chiesa a senso unico: Vassalli, nel tentativo di criticare parte della cristianità, cade nell’errore (se così si può dire) di demonizzarla. Non è questione di credere o no credere, non è questione di fede, è costatazione del messaggio del libro, nemmeno così celato. E in quest’ottica che Vassalli sembra perdere di obiettività storica, anche se è innegabile che il fanatismo della Chiesa è un elemento costante nella storia, magari eccessivamente cristallizzato nella dimensione di aspetto dominante.
Al di là però delle varie interpretazioni, e dei dissidi che possono sorgere, è innegabilmente un romanzo di grande valore, eccessivamente descrittivo (per il sottoscritto), ma stilisticamente fluido e leggero: le lunghe descrizioni non annaspano, ma rispondono ad un respiro placido e misurato che, anche quando la trama s’infittisce, rimane sostanzialmente inalterato. Certo è che il fascino di un mondo lontano, distanza/vicinanza che la lentezza e puntigliosità della prosa non manca di far notare, conserva intatto tutto il fascino di Antonia, strega di Zardino, nella consapevolezza (almeno di Vassalli) che tutto l’Universo è mosso non da Dio, ma da un’energia invisibile che, pure intellegibile, non risparmia il saggio. È in questo pessimismo di fondo che la vicenda prende forma, nel pieno fascino del mistero dell’amore e della sofferenza, insomma, della vita, nel segno di una ricostruzione storica finissima cui sottende un altrettanto mirabile sforzo creativo: là dove lo storico lascia spazio allo scrittore, la fantasia non primeggia e anzi sembra assecondare il ritmo realistico della storia.
In definitiva un testo ambiguo, debole nella trama, chiaro nei contenuti, descrittivo ma mai pedante, di piacevole lettura, avvinghiate. Quasi un qualcosa di dolce e pastoso che, dopo essere stato inghiottito, latita a lungo nell’esofago senza colmare però lo stomaco che, suo malgrado, pur riconoscendone l’elegante bontà, reclama piaceri più immediati.
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Soffrendo conoscere
Due sono i poli da cui la trilogia di Eschilo è generata: la tensione costruttiva tra Dike (la Giustizia) del sangue, matriarcale, e Dike apollinea, entrambe rappresentate da Clitemestra ed Oreste, tensione che scioglie il dubbio atroce, la scelta tra i due poli, nel riconoscimento di una Dike cosmica, superiore, che la legge del “soffrendo conoscere”.
Così Oreste, figlio di una madre (Clitemnestra) che ha assassinato il marito (Agamennone), e di un padre che ha ucciso la figlia(Ifigenia), perseguitato dalle Erinni, furiose divinità ctonie vendicatrici dei delitti di sangue, riesce a raggiungere la salvezza, proprio nella consapevolezza di una norma ben più sentita del “chi agisce, subisce” (cfr. occhio per occhio, dente per dente) che aveva guidato le sue precedenti azioni, e quella della madre. Soltanto l’Areopago, tribunale d’Atene, garante della civiltà della polis potrà redimerlo.
Nel pantano ora delirante ora sublime del pantheon eschileo, tra le vertigini delle divinità olimpiche e i brutali abissi dei demoni, in questo scontro in cui l’uomo precipita nell’animalesco per poi risorgere a nuova vita, stringente pare l’interrogazione di Eschilo sulla giustizia, la quale, nella sua dimensione umana, è condannata ad un’eterna imperfezione, che soltanto la rettitudine divina può trasformare in equità assoluta.
Tuttala poetica eschilea è basata su una fiducia incondizionata in Zeus, trasfigurato in legge cosmica infallibile: Zeus/Dike agisce in virtù di un piano d’ascesi conoscitiva cui tutti, malgrado la resistenza, sono sottoposti. L’Orestea si muove proprio in questa direzione: a saldare l’oscurità dell’animo umano nel conoscenza superiore che proviene dall’olimpico, al fine di sfuggire alla contrapposizione stringente di due elementi (ctonio - solare in tutte le loro manifestazioni) che condannerebbe ad una filosofia ancora cosmica e mediterranea: sangue in cambio di sangue. Non è d’altra parte un caso che alcuni abbiano voluto vedere l’Orestea come uno dei primi segnali di una filosofia antropocentrica come sarà in Socrate Oreste è l’emblema di un uomo che, pur soggetto alle influenze divine, può liberamente scegliere: quella di Apollo (che lo ispira a vendicare il padre uccidendo la madre) è appunto un’ispirazione, non una costrizione. Lo spazio della ragione umana rivendica autonomia, in parte ne è atterrita, ed è in questo dissidio che le divinità non si annichiliscono, ma anzi si unificano, scevre dalle loro passioni umane, in una legge universale che vuole reintrodurre il kosmos nel caos del quotidiano. Il libero arbitrio si salda al destino in un gioco pericoloso il cui esito è determinato da una sorte ben precisa, una legge a cui si è sottomessi. È in questa dicotomia radicale e capitale che si innesta la conclusione della tragedia, in questa incertezza sta la seduta dell’Areopago a condannare anche Eschilo all’irraggiungibile comprensione del mistero dell’esistenza (il giudizio umano non sa infatti decidere o meno sulla colpevolezza d’Oreste).
Eppure rimane Cassandra, profetessa invasata e tremenda, sacrificio del fato, personaggio dall’inesausta complessità, a testimoniare la ferita del mondo, a sottolineare l’effimera vacuità di una vagheggiata saggezza. E dallo scontro irrisolvibile i cui tutti i personaggi sono immersi, emerge la fiducia di Eschilo in un sentimento di phobos, paura, ritenuto ultimo baluardo contro il dissolvimento dei legami civili, ultimo espediente attraverso cui far rispettare le leggi e garantire la giustizia.
(Purtroppo la tragedia risente, per lo stile, della distanza del tempo: troppo maestoso, troppo pedante, troppo solenne per essere piacevole, considerando anche che la pagina scritta annulla magari l'effetto artistico che certamente una rappresentazione dal vivo avrebbe comportato).
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Sopravvivenza e scarnificazione
Non c’è speranza , non c’è redenzione, non c’è bellezza, soltanto disperazione. La guerra, fantasma assillante e concreto, assorbe la serenità, avvolge il mondo in un fumo denso, grigio: nel dissolvimento dei colori, la gemellarità, la nitidezza, l’inconciliabilità tingono il mondo del contrasto tra bianco e nero. L’amore non è rosso, non trionfa, anzi, perde miseramente. Ossessioni e demoni si emergono dagli abissi dell’animo a disgregare le mura della razionalità, a tentare di aggrapparsi alla serenità. E se la moneta di cambio è la verità, se il prezzo da pagare è l’invenzione poco importa: nell’ Europa in guerra pensare di vivere è soltanto un’utopia lontana che nemmeno sfiora la mente. L’unico anelito è quello alla sopravvivenza. Nel processo di scarnificazione cui la realtà è sottoposta, la brutale legge della sopravvivenza, l’intuizione di Darwin, si fa paradigma per analizzare il mondo, per difendersi, per riuscire a non soffrire. Scarnificazione delle emozioni, della libertà dell’infanzia, del gioco, dei pranzi pantagruelici, dell’intelligenza.
Non è apatia, non è crudeltà: è logica, pura fredda e solida consequenzialità. Se la guerra fa soffrire, allora è necessario abituarsi al dolore. Se l’uomo è costretto a vivere nella realtà, allora bisogna abituarsi alla verità. Se il mondo tenta di sopraffarti, allora bisogna essere crudeli. È l’intelligenza di due gemelli, lo sguardo penetrante e straordinariamente maturo di due giovani a descrivere la loro lotta in un mondo deserto, sterile. E se Dio è morto, allora bisogna apprendere cosa sia la vera solitudine.
Due gemelli a riscoprire le loro radici, ad inseguire un passato, una ricerca dolorosa in cui gli inganni dell’uomo sono secondi soltanto a quelli della ragione. Nella città di K., nel mondo martoriato da deflagrazioni e pallottole furenti, uomini, donne e bambini e vecchi sono carne da macello: salvezza è l’imperturbabilità, è la furbizia. Soffrire significa soccombere e non conoscere. Nel desolante panorama della città, nessuno è risparmiato e la penna si sofferma con inesausta crudezza su bimbe stuprate da soldati dimentichi del rispetto, su uomini dilaniati dalle mine, sulla follia, su animali impiccati o annegati. La guerra deturpa l’uomo, lo fa regredire alla ferinità.
Al Grande Quaderno (primo capitolo della trilogia) dell’infanzia, si sostituisce “La Prova” della solitudine, in un parossismo crescente che culmina nella vertigine improvvisa di una nuova bugia, “La terza Menzogna”. La linearità della prima parte, le frasi così brevi da morire sotto il fuoco di trincea dei punti fermi, così affilate da ferire per la crudeltà, così abilmente soppesate per colpire là dove la carne è più debole, si sciolgono in un periodare più complesso, ma mai complicato, che mantiene intatta una brutalità inestinguibile. Alla crescita dei gemelli corrispondono pensiero più sofisticati: a prezzo dell’immediatezza iniziale, si acquista profondità. Il delirio del conflitto si ripercuote nello stile convulso: alla prima persona plurale, punto di vista originario, si sostituisce la terza singolare, poi la prima singolare, in un dialogo serrato con un “tu” immaginario con cui il lettore s’identifica. E in questo gioco di sguardi, nella mostra impietosa di umanità che si dispiega nella grottesca risposta alle deflagrazioni, la chiarezza del primo scritto sembra annebbiarsi poco a poco, fino a dissolversi nella confusione dell’ultimo capitolo. Eppure il processo è contrario, alla fine è chiaro, ma ormai è troppo tardi. Lo scorticamento dell’anima che sembrava ormai concluso esige una nuova muta, una nuova metamorfosi nella consapevolezza triste, ma evidente, che l’unica possibile verità è l’inesistenza di una verità assoluta. Non è relativismo, non è nichilismo, ma semplice e pura sopravvivenza. Quando l’uomo raggiunge l’orlo del baratro i dettami morali si palesano in tutta la loro effimera consistenza: non si può giudicare, né si deve farlo. Alla fine la pelle si perde definitivamente a diventare scheletri appesi per l’eternità ad un desiderio morto, privi di difesa di fronte a un mondo che si manifesta in tutta la sua crudeltà.
E alla fine, ben ripensando, qualche dettaglio stilistico, la lieve parabola discendente degli scritti può essere perdonata, ma il primo capitolo rimane il migliore, il più doloroso e magnetico. Il ritmo placido e misurato che anima un mondo altro e nuovo dai confini imprecisati è struttura portante di una favole nera che è come una “marionetta omicida”. Sopravvivere e scarnificare: l’uno l’oggetto, l’altro il soggetto che lo plasma. Tra i due il verbo combattere.
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Limonov, che altro?
Se si volesse cogliere la personalità di Limonov in un solo sguardo, naufragare nelle pieghe più intime della sua anima, sporcarsi del fascino ora disgustoso ora magnetico di questo personaggio, rischiando magari di rimanerne incantati, basterebbe osservare quest'immagine: http://tommasopincio.files.wordpress.com/2013/02/limonov.jpg
Oltraggiosa, magari, provocatoria: Limonov nei panni di eroe nazionale, dominatore incontrastato di una donna (la moglie, una delle tante) che prostrata nuda a terra sembra venerarlo, nell'estasi di una visione divina. O almeno così, quella figura così inestricabilmente muscolosa e tenera, quella posa da squallida mitomania, vorrebbero che la foto venisse interpretata. Un manifesto della vita di Limonov, o magari il suo testamento, quell'apogeo di splendore che l'irruenza dell'uomo "d'azione" (o meglio "del sogno") ricerca: non denaro, ma semplicemente fama, rispetto, quel prestigio cui la triste mediocrità paterna ha precocemente rinunciato. Limonov è tutto qui: il terreno martoriato di un desiderio parossistico alla gloria, cristallizzato nella potenzialità dal baratro incolmabile del reale. Perché Limonov è un'anima pervicace, lucida come l'acciaio, inflessibile come una spranga di ferro, eppure così intimamente sola (nonostante gli scandalosi cori di donne, giovinetti, ragazze che lo circondano) da essere latente, tanto da reclamare uno scopo, un obiettivo che possa riaccenderla: che sia amore o gloria non conta.
Limonov è un uomo d'onore, odia mentire, vive al pieno tutto ciò che la vita offre, che sia scandaloso, che sia nobile, è uno che "odia la povertà perchè l'ha provata", è, insomma un eroe.
Tra le vertigini aristocratiche e del potere e gli abissi dei derelitti che costellano la mitologia di Carrére, Limonov è l'unico in grado di tenere a freno gli istinti feroci della storia: incisa nella vita del personaggio la storia recente della Russia, dell'ex Jugoslavia, in una carrellata di eventi, personaggi scolpiti nella loro vivida influenza sul reale. E' in questo pantano (invero sublime) di mito e storia, che Carrére si dimostra abile affabulatore, o meglio, semplicemente uomo. Il lucidissimo sguardo dell’autore che penetra nelle foschie della storia, affilatissimo, ed implacabile, si scontra con l'estasiato sguardo di un bambino, assorto nella contemplazione sorpresa del suo eroe preferito. L'eroe è il Limonov (ma attenti, quello di Carrére), il bambino è il lettore (e l'autore stesso). E con estrema abilità l'autore riesce ad evitare una deflagrazione che sembrerebbe inevitabile.
A leggere la biografia di Limonov, scevra dal romantico sguardo dell'autore, pare di leggere sì una vita avventurosa, ma che con l'eroico non ha nulla da spartire. Non dunque una biografia, ma un pretesto per scavare nella propria coscienza, trascinati da una vita volontariamente consacrata all'eccesso, sullo sfondo della storia recente. Pietà e disgusto si fondono, e rimane soltanto un magnetismo silente, che scompagina le pagine, fino al finale. Limonov è quello che tutti vogliono, quello che tutti temono: l'assoluta libertà dal comune pensare. O forse è tutt'altro, magari un uomo in rivolta disilluso dai suoi stessi desideri, magari un povero squattrinato alla ricerca di successo.
Impossibile giudicare, impossibile staccarsi dal fascino di una mitologia storica così abilmente creata, così dannatamente pregnante di fascino. Il fascino di una vita vissuta nella sua pienezza, che forse farà biasimare qualcuno per la grigia monotonia del quotidiano: il Limonov di Carrére è un sogno, quello reale, invece, un brusco risveglio.
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La prosa di Van Gogh ovvero l'epica della brutalit
Sono feroci le pennellate di Van Gogh, brutali sono le descrizioni di Gogol, quasi animalesche. Le poche pause di lirismo sembrano oasi introno al delirio che attanaglia i protagonisti di questo romanzo breve. Uno stile feroce come le battaglie in esso rappresentate, un' orgia di sangue, uomini mutilati, spade e munizioni, in un delirio bellico che poco a poco annichilisce qualsiasi spiraglio di tranquillità. Non sono uomini i protagonisti di Taras Bul'ba, sono cosacchi. Latitano in un'allegria sfrenata, continua, inesauribile, all'interno della Sec, scuola e patria cosacca. Dove poi si trovi è semplici dirlo: tra le steppe russe; se si tratti di XV o XVI o addirittura XVII Gogol non si preoccupa. Sono guerrieri ipnotizzati da un delirio circostante che non lascia spazio a nessun sentimentalismo, a nessuna tenerezza: banchetti e divertimento, soltanto per uomini. Le donne sono strumento per la figliazione. Se poi si chiede ad un cosacco quale ritenga sia la gloria più appetibile, questo risponderebbe: combattere, e morire combattendo. Quasi a far eco a quell'etico spartana, così brutale, da dissolvere anche il legame affettivo per i figli.
In questo clima di patriottismo sfrenato, allegria degenere, eppure in questa società dove l'ordine e il rispetto, quasi l'educazione vengono pedissequamente rispettate, e i crimini puniti severamente, insomma, nel regno dell'antinomia, vengono catapultati, complice lo spirito infaticabile del padre Taras Bul'ba, due giovani, Ostap ed Andrij, che ben presto si assuefanno al mondo cosacco, nel tentativo di difendere la gloria, di incrementare il proprio onore. Eppure il destino, anzi la fatalità (o forse semplicemente l'indole) soffre delle "restrizioni" del mondo cosacco, che fagocitato nel rigido isolamento di pantagruelici banchetti, e avviluppati dall'odio per i turchi, non è in grado di soddisfare i desideri di un giovane. perchè se la guerra è il primo obiettivo da perseguire, nemmeno la più rigida disciplina può placare i sentimenti, tanto più l'amore. Ma il mondo cosacco è il regno della ferocia, e le pagine scorrono rapide come rivoli di sangue, celeri come il sottile istante che separa la vita dalla morte, il tradimento dal rispetto. E' proprio dell'antinomia tra adesione ai valori condivisi e libero spirito personale che un personaggio rimarrà vittima, e per lui non ci sarà redenzione, implacabilmente punito da un etica di gruppo dimentica dei legami di sangue.
Il cuore pulsante di Taras Bul'ba sta proprio nel rapporto conflittuale tra l'affermazione di sé e una società he tende all'omologazione, che timorosa della tenerezza, distrugge l'amore, per una volta sconfitto. Fuggono le pagine, galoppando al seguito dei cosacchi e voltandosi si apre un paesaggio desolato di distruzione, morte, sangue, mentre nelle orecchie echeggiano colpi di sciabola, con un'abilità descrittiva che ricorda nello stile i poemi omerici. Eppure non si è sotto Troia, nel tentativo di vendicare un guerriero offeso, siamo al confine dell'età moderna. La guerra non è mezzo per raggiungere la gloria, ma viene dipinta in tutta la sua inaudita ferocia, in tutta la sua brutalità, nel terrore continuo di un assedio infinito: quello dell'obbligo.
Eppure anche la più brutale delle azioni sembra caricarsi di commovente fragilità dinnanzi all'abnegazione, all'adempimento di un ideale. Il ritmo serrato si scioglie soltanto alla fine, con la tragica consapevolezza, e anche tristezza, non soltanto di vite sconfitte, ma di un epoca al tramonto. Certo è che nessuno vorrebbe vivere in questo libro, ritrovarsi tra implacabili battaglie, respirare sangue, udire i gemiti della morte. Gogol non condanna, non entra nella storia, modula perfettamente lo stile, ora epico-omerico, ora pienamente ottocentesco. Inflessibilità e vendetta si mescolano inesorabilmente, sullo sfondo gli scontri tra ortodossi e musulmani, l'adesione ai valori di gruppo. Certo è che tra tanta distruzione, tra tutto questo sangue, la grigia monotonia della quotidianità non sembra così inappetibile, e stupisce che al termine della lettura si senta qualcosa di rotto , qualcosa di estremamente commovente. Forse perchè anche l'uomo, nonostante tutto, ha pietà del proprio simile, o forse semplicemente è il sollievo di allontanarsi da una brutalità dall'inesausta bellezza, che come il sublime romantico, è fonte di meraviglia. Terrore o attrazione che sia.
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Casa di bambola
Marito, casa, figli, educazione e denaro: questi gli imperativi dell'ottica borghese.
Maschilismo, ipocrisia, arrivismo: questo il retroscena culturale di una mediocrità abnorme, oscena, spaventosa.
Femminismo, il male da debellare. Anzi, l'interrogativo perennemente posticipato, la richiesta spasmodica di donne alla ricerca di libertà, indipendenza.
Dramma: lo scontro tra apparenza e essere.
Questa l'effervescente borghesia di pieno 800', un carnevale sordido, continuo; maschere sociali ed affettive, labirinto intricato tra i cui meandri si nasconde una personalità individuale, sacrificabile eppure pulsante, tanto forte non poter essere cambiata, non abbastanza per non essere mimetizzata, anzi, dimenticata. Un ricettacolo di apparenza che tra i ricami dorati della ricchezza e del progresso scientifico, è dissolvimento della dignità, rinuncia a se stessi, prostituzione dell'individualità. Moneta di cambio: la convenienza sociale, l'adesione all' "educazione della società". Cos'è poi quest' educazione sociale se non un'altra dannosa, nonché priva di significato, difesa del mondo dall' istintualità dell'uomo? Da quella ferinità connaturata così temuta, così stigmatizzata da essere ingabbiata nei dettami comuni?
Di questa società è figlia Nora. Non donna, ma bambola, creatura plasmata prima da un padre, poi da un marito, assuefatta dal fascino ipocrita della società borghese, plagiata da una natura (quella di femmina) non riconosciuta, mezzo per la figliazione, la celebrazione sociale. A questo è consacrata, una marionetta che latita in una casa mediocre, sognante per la promessa di uno stipendio più altro ovvero più prestigio sociale. Eppure le tre dimensioni in cui vive non sono altezza, lunghezza, larghezza, non è uno spazio fisico; sono marito, figli, il "cosa penseranno i vicini" lo spazio in cui vive, la prigione in cui sconta la pena di essere nata donna. Eppure per quanto la vita possa essere il frutto di un piano altrui, per quanto le proprie azioni possano esser propaggini di un'altra mente, rimane l'amore. L'emozione che non si può sopprimere nonostante tutto: sentimento che talora erompe, dettato più dalla disperazione, che dall'autenticità aprioristica, causa di azioni che nemmeno il tempo cancella. E quando il passato torna, quando la tensione fra apparire e consapevolezza di sé diviene insostenibile, quando l'io concepisce se stesso, anche solo per paura, allora la convenienza sociale crolla. L'io si sostituisce al noi, ovvero lo scandalo. Allora Nora capisce ciò che è: non madre, non moglie, ma donna. Eppure comprendere non è accettare, e il finale è solo un silenzio infranto.
Con uno stile secco, limpido, disincantato, Ibsen smaschera l'ipocrisia della società borghese, fotografa con realismo implacabile, amaro, scattante, il mondo a lui contemporaneo, la falsità di una classe sociale viziata dalle buone maniere, dal perbenismo, pronta ad occultare, a nascondere, a fingere pur di salvaguardare se stessa. Il risultato è un ritratto impietoso, che ammicca al femminismo allora emergente, senza però soffermarsi su esso. L'attenzione non gravita sui personaggi, né tantomeno sul contenuto, né sulle emozioni: polo strutturale è il dramma in se stesso, la tragedia che si consuma, inevitabile, fatale. Eppure per un lettore moderno, assediato dalla tragica cronaca quotidiana, sempre più macabra, sempre più scandalosa, infarcito di spot sulla difesa delle donne (non che non siano necessari), non può pienamente percepire le radici della rivoluzione che il libro testimonia. Troppo distante, quasi scontata.
L'attenzione invece è per l'antinomia tra donna e bambola: l'essere umano pretende libertà, la idealizza, la consacra, anzi, la mistifica, eppure ne è annichilito, terrorizzato: annientato dal peso della responsabilità delle proprie azioni. E' per questo che il vero paradiso perduto è l'infanzia: la libertà di non essere responsabili. Ma questo non è la riflessione di Ibsen, non è quella dell'Ottocento. E per evitare di condizionare erroneamente il lettore, anche questa, di riflessione, deve fermarsi qua.
(E' un'opera teatrale, il voto di approfondimento è dettato da semplici necessità di media)
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La morte a Venezia
Forze telluriche, primordiali, genetiche ribollono nella laguna veneziana, spazio fisico e dimensione interiore, assediata da esalazioni mefitiche, rifugio di demoni ctoni, irruenti, invertiti eppure attraenti. Epifanie disgustosamente magnetiche scandiscono il tempo della dissoluzione, materia che fagocita la forma. Passioni e istinti atavici cui l’intelletto, logorato e intransigente, si arrende. Tensioni distruttive, esplosive balenano improvvise a smuovere l’indolenza sempre più accentuato di una città flagellata dal colera.
Questa “La morte a Venezia”, apparizione dopo apparizione, simbolo dopo simbolo, resa dopo resa, bellezza su bellezza in una vertigine inarrestabile il cui approdo è un parossismo violento, avvinghiante e terribile, un abisso di desiderio inesprimibile soffocato da rigido controllo dell’intelletto. Dionisiaco e apollineo alla resa dei conti.
Esile la trama: un vecchio scrittore dalla fama consolidata, vinto dal desiderio di viaggiare, dopo una vita “secondo ragione”, si reca a Venezia, dove s’innamora di un quattordicenne polacco, Tadzio, da cui è avvinto, in una città dalla bellezza sfatta, matura ed indigesta, fermentata. Stile convulso, ipnotico, discesa nell’inferno della coscienza, autopsia dell’anima.
Un amore omossessuale, vero, elemento che non si può tacere: amore fisico, carnale, mai concretizzato, amore divino, supremo, contemplazione estatica della bellezza, ovvero del bene. Tadzio come mediatore tra il mondo terreno e quello ideale, “psicagogo”, come lo definirebbe Platone.
“La morte a Venezia” è essenzialmente una catarsi invertita: non purificazione dalle passioni, ma dalla ragione. Nel personaggio centrale dell’opera, Gustav Aschenbach, si realizza l’antinomia tra vita ed arte, quest’ultima intesa come frutto della malattia, del malessere. Vita in bilico tra passione ed intelletto, unione indissolubile di materia (le pulsioni istintive) e forma (la ragione, ciò che plasma). Sostanzialità umana che non si può negare, e che sarebbe assurdo rifiutare. Se Aschenbach è la razionalità, Tadzio è il sentimento, tenuto a bada per tutta la vita dallo scrittore, e infine emerso nello sguardo candido di un fanciullo, goccia che la ragione non riesce a trattenere. E’ l’innamoramento, pederastico, abominevole, eppure irrinunciabile, capace di annichilire l’ultimo spiraglio di razionalità, cancellato da un barbiere che addolcisce le rughe della vecchia, colora il bianco dei capelli, trasforma l’incorruttibile in totalmente depravato. Una passione per anni tenuta a bada, soppressa da una mente ormai logora: è il dionisiaco, l’estasi, il piacere divino che erompe, consuma se stesso, brucia la vita nell’ardore inestinguibile di un amore alla disperata ricerca di uno sfogo, di liberazione. E se il narcisismo dello scrittore, o l’ultimo bagliore di reticenza lo trattengono, l’unico modo, l’unico spazio della catarsi è il sogno, un orgia inquietante, disgustante, grida infernali, ultimo preludio della fine.
Mann, omosessuale dichiarato, eppure padre di sei figli, accoglie l’esperienza biografica, l’estremizza (o forse la rappresenta), ammiccando alla filosofia, alla psicologia freudiana, con un pathos, un’acutezza capaci di penetrare nel lettore, nella sublime ascesa alla contemplazione del bene. Eppure ciò che resta è l’inquietudine, l’insoddisfazione, una sensazione asfissiante che toglie il sonno, un vuoto che è in definitiva il mistero dell’esistenza. Tutto si trasforma nell’opera di Mann, camaleontica nella descrizione del paesaggio Veneziano in disfacimento, dinamica nel tratteggiare le sensazioni del protagonista, alla ricerca di un modo per riscattare una vita, invero monotona, il cui peso si fa definitivamente opprimente.
Sullo sfondo una Germania vicina al Terzo reich, destinata a veder infrangersi quel modello si superuomo wagneriano o nietzschiano, un uomo integerrimo, capace di incarnare in sé i valori della moderatezza, dell’intelligenza, della penetrazione critica e della morigeratezza, di cui il protagonista della Morte a Venezia è simbolo evidente. L definitiva presa di coscienza di una duplice natura che è cifra distintiva dell’uomo: apollineo e dionisiaco devono necessariamente convivere nella dimensione della contemplazione della bellezza suprema, o inevitabilmente destinata ad un fallimento, la cui esplicitazione non può non essere la morte.
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La messa senza prete
Un requiem funereo serpeggia tra le pagine di Materada, aggredendo il lettore ora nell'istintualità della folla , fagocitata dal liquido amniotico di una ristretta realtà contadina, incapace di opporsi in virtù di un'ideologia, ma soltanto merce da bistrattare e sfruttare per scopi propagandistici, ora nelle processioni compiante d esuli forzati, abbagliati dal sogno di un'Italia culla di possibilità e di ricchezza, ora nel malinconico abbandono al ricordo, al passato, non più riottenibile, ma non per questo meno tormentoso. Un requiem che è pure musica, melodia, scarnificato nello stile diretto, brutale, crudo e doloroso, o che si evolve nell'estatica celebrazione della terra, della proprietà che è in definitiva possibilità per i figli. Perchè, e Tomizza sembra suggerirlo, il desiderio di possedere è connaturato all'uomo, ma la vera questione è: fino a che punto è in grado di subordinare a sé la dignità umana, il rispetto per l'uomo, fino a che punto l'attaccamento morboso alla terra è capace di ancorare i contadini nella dimensione dell'ignoranza vigilata, custodita con gelosia dalle autorità?
Eppure Materada non è solo questo, non è il campo di battaglia della rassegnazione, contro l'accettazione o contro la ribellione, come invece accade in Silone: è il racconto epico, e nello stesso tempo straordinariamente umile, della povera gente, in grado di analizzare con impressionante acutezza i motori eterni di una mondo contadino che balena fragile tra rancori, odi e vendette, a cui sottende quella malignità genuinamente paesana che è mostro silenzioso, fatto di sussurri, eppure palese, immobile nel ricordo ossessivo di offese ataviche, che come una maledizione ineluttabile si scagliano sui figli, e sui figli dei figli. Sullo sfondo i contrasti tra Jugoslavia e Istria, ancora qui per la terra, scontro di autorità che pure ricorrendo alla violenza, incatenato nell'interesse delle alte gerarchie del potere, si ripercuote nel villaggio di Materada, e nel contrasto esemplare della famiglia Kozlovich in balia dell'arroganza e dell'ostinata tenacia di un vecchio zio, che è il simbolo di una mentalità contadina basata, in ultima istanza, sul profitto personale, e inevitabilmente, sul disinteresse verso gli altri. Ed ecco che la terra non è più la "roba" di Verga, quanto invece il ricordo romantico, quasi foscoliano, della patria, del luogo natio, smembrata eppure anelata, graffiante eppure fertile. E proprio questa tensione, che è in definitiva ricordo autobiografico, si scoglie in un amore che è ultimo disperato tentativo di sconfiggere la dissoluzione delle norme sociali, e il cambiamento, visto con sospetto; un amore che è fiamma debole, e si spegne nella passione divoratrice di un passato a cu non si vuole rinunciare.
Con una messa senza prete si chiude il libro, esito di un requiem funebre che ha ormai consumato se stesso. E l'uomo è un fedele in balia del destino, capriccioso eppure insostituibile, incapace di opporsi ad esso né affidandosi a se stesso, né ad un'autorità superiore (il prete, forse lo stato, forse addirittura Dio). E forse l'uomo si compiace anche del dominio della sorte, a volte ti colpisce e "prendere una sberla non fa male in certi casi: a volte si sente di non dovere più niente a nessuno".
E al termine del cambiamento, quando la decisione definitiva è presa, quando il dover abbandonare la propria terra è quasi imposizione del caso, rimane soltanto da seppellire i ricordi. "Addio ai morti".
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Bacchae bacchanti
Stupisce leggere Plauto. Non per contenuti profondi, acutezza sottile, ma per la vivacità di un latino che è pulsante, distante da tabelle grammaticali, vincoli sintattici. E' una lingua viva, ardente, riflesso di una società romana lontana dai palazzi del potere, dalle convenzioni religiose o politiche. E' una commedia che ha come sfondo le piccole, garbate, quasi insulse diatribe borghesi, senza assurgere a simbolo di temi esistenziali, il bene e il male, democrazia e oligarchia. E' una produzione, quella plautina, che ha un solo scopo: far ridere. Non con la sottigliezza, ma con le allusioni, i doppi sensi, i riferimenti accennati, poi taciuti, gli artifici retorici del suono che accompagnano come un vivace allegretto tutti i cinque atti del Bacchides, mentre note spumeggianti si alternano ad un ritmo indiavolato. Al di là della trama, piuttosto complessa che, chi scrive, tralascia per evitare di lambiccarsi il cervello, è interessante evidenziare alcune caratteristiche tipiche del teatro plautino.
Innanzitutto i personaggi, estremamente stereotipati in vesti che calzano alla perfezione: ci sono le cortigiane qui due, addirittura col medesimo nome, a complicare la vicenda), ammaliatrici, seduttrici, abili nel manipolare il desiderio; c'è il vecchio pedagogo rigido che inveisce esasperato contro la cupidigia dei giovani, così caricato da apparire grottesco; ci sono i giovani, invaghiti delle cortigiane, interessanti soltanto alle donne e al denaro (dirà Cecco Angiolieri nella seconda metà del duecento: Tre cose solamente mi so 'n grado, le quali posso non ben men fornire: ciò è la donna, la taverna e 'l dado; queste mi fanno 'l cuor lieto sentire, senza, naturalmente, riferimento all'opera Plautina, ma qui la si riporta a sottolineare come, in fondo, le attrattive siano sempre le stesse). Ci sono il genitore permissivo, e quello truffato, l'epulone parassita cacciato, e il soldato fanfarone comprato.
Poi c'è lui, il burattinaio, il cospiratore e l'aiutante, il truffatore e l'ammaliatore; il servo, protagonista indiscusso dell'opera plautina, che con i suoi artifici diviene trasfigurazione dell'autore stesso. Così come il secondo può dipanare l'intreccio, il primo può risolverlo, o complicarlo. E a poco servono i nomi attribuiti ai personaggi. Mnesiloco, Crisalo, Filosseno o chi altro. O forse sì, a qualcosa sono necessari: al riso. Crisalo, ad esempio, il nome del servo, significa oro, come se tutto quello che egli escogita sia prezioso, ma anche croce, e il motivo è chiaro. I personaggi sono dunque maschere. Plauto sacrifica la caratterizzazione psicologica per suscitare la risata, generata dalle allusioni al campo sessuale. Il desiderio che muove la vicenda sempre uno: la donna e, a fianco, i conquibus (sghei, denaro, che si voglia dire).
Per quanto riguarda le tematiche, oltre il chiaro riferimento ai riti di Bacco, sempre più diffusi a Roma, e che verranno poi messi al bado nel 186 a.C. perchè considerati antinomici al mos maiorum, causa orge, vino ed altro, non si riscontrano altre tematiche. Una carenza di contenuti giustificabile, e comprensibile. Quello che Plauto tenta di fare, infatti, è creare una dimensione, quella della commedia, appunto, dove regni il rovesciamento: i padri non comandano i figli, ma il contrario, i servi comandano i cittadini liberi, il costume antico di disgrega nel piacere. E' una sospensione dalla realtà, il Bacchides, in cui il rovesciamento, che non vuole assurgere a modello rivoluzionario, è necessario a suscitare il riso, arma temuta, e gradita: capace di controllare masse, e di annichilire qualsiasi timore, ad esempio, per le divinità (tema quast0ultimo non presente in Plauto, di stampo più cristiano).
Alla luce di tali elementi, dunque, vale la pena di leggere Plauto per scoprire la vivacità di una lingua considerata morta, per ridere (e non in maniere astratta, ma concreta), per lasciarsi trasportare in un mondo assurdo, paradossale, dove l'orizzonte d'attesa del lettore è soddisfatto in maniera originale e comica, lontano da critiche politiche, o questioni esistenziali. Leggerezza e risata che contrastano con quell'idea di austera rigorosità che accompagna la visione di una Roma antica, pulsante, che nei motivi dominanti, perdura ancora oggi.
(il voto sull'approfondimento è ovviamente indcativo, in quanto non si tratta di un saggio)
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Suddito e parassita
Ci sono, nella disperazione, e ancor più nell'isolamento, germi pericolosi, ingenuità necessarie alla sopravvivenza. C'è il desiderio di aggregarsi, di soddisfare il muto bisogno di affetto. A qualsiasi costo, anzi, senza pensare alle conseguenze. Quando si precipita nell'abisso dell'incomprensione , un'amicizia diventa vertigine di beatitudine. Quella mano offerta, quella parola rivolta sono ascesa verso Christo, salita luminosa e spensierata. Peccato che ci sia il chiaroscuro, il sublime e drammatico gioco degli opposti. Purtroppo c'è Antichrista, il Male.
Blanche ha sedici anni, cultura invidiabile. Incapsulata nel suo microcosmo di libri, fragile tra i corridoi dell'Università, Blanche soffre. Soffre della solitudine, del desiderio irrazionale di avere un'amica e nello stesso tempo frenata dall'impulso atavico di conservare la propria autonomia senza cedere ai mutamenti destabilizzanti dell'adolescenza. I suoi occhi incontrano Christa, seducente, popolare. Sidici anni e fascino che è calamita e calamità. Lusinghiera, acuta, disponibile, amica.
Blanche l'ammira. E' l'inizio di una convivenza desiderata. Le due condivideranno la stessa camera, quella di Blanche. E mentre lei rimane annebbiata dall'idealizzazione luminosa di Christa, quest'ultima ruba la bontà dell'altra, l'annichilisce, la trasforma in odio. Decostruisce la giovane, fragile dinnanzi alla malvagità di Antichrista, come la rinominerà poi.
Antichrista è il male, malvagità che sottrae a Blanche la lettura, l'innocenza, lo spazio di cielo e dell'immaginazione, i genitori, annebbiati dall'amore incondizionato per Christa. Burattini quasi svuotati, illusi dall'aspetto della ragazza. Ma Blanche sa che è un mostro che si nutre degli altri privandoli del bene. Antichrista distrugge, si crogiola nella deriva altrui. E' l'inizio di una lotta, serrata e drammatica. Perchè non si può combattere il male senza conoscerlo, non si può curare senza subire. E Blanche sarà costretta ad immergersi nel male, a rischio di rimanerne intaccata. Tutto in nome della verità, dell'utopico desiderio di giustizia. Il male si annida, nelle trasformazioni, nelle fragilità adolescenziali. E' una lotte terribile, male e bene ancora una volta uniti nell'eterna lotta per la sopravvivenza. Chi vincerà sarà padrone di anime. Uno specchio il confine.
Amèlie Nothomb: eclettica, fantasiosa, implacabile, destabilizzante, antitesi dell'ipocrisia. Linguaggio tra virtuosismi letterari e indagini psicologiche profonde, quasi crudeli. Analizza al microscopio, angolo per angolo dell'anima umana. Mostri terribili, malvagità inaudite si nascono dietro nell'apparenza. Amèlie incontra il Male, lo mette su carta. E' l'Inferno della razionalità, il dolore allo stomaco, la fuga della mente. E' dannazione e perversione. Antichrista è l'odio patologico, insano, è l'assenza di pietà, è la catarsi invertita.
Eppure manca qualcosa: la narrazione è troppo piatta, sporadiche creste si innalzano, ma non sono sufficienti. Il contenuto c'è, ma è diluito tra le pagine, poco concentrato. E per questo più inquietante, ma meno incisivo. E' lo stile tagliante, che avvinghia e distrugge le certezza.
Perchè Amèie raggiunge sempre questo scopo: porre in dubbio qualsiasi convinzione. Si può contrastare il Male senza annichilire il bene?
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Un Dio mancato
L’errore più grande che si potrebbe commettere nel giudicare questo capolavoro, è quello di ridurlo ad un’unica prospettiva, ad un unico orizzonte, smussando gli angoli che sembrano talmente pericolosi da poter trafiggere il lettore. Si potrebbe creare una linea interpretativa retta, senza deviazioni, correre a perdifiato seguendo una sola strada, mentre si perdono di vista dettagli, sensazioni, atteggiamenti.
Non c’è soltanto la trama, ma un universo sconfinato di uomini che lottano contro la realtà, e che tentano di ripararsi sotto i colpi della vita, attraverso l’alterigia, l’indifferenza, la ricchezza e il potere. Psicologie complesse sembrano intrecciarsi seguendo il fluire si una penna capace di incidere nella roccia viva pensieri pulsanti. Come una scultura incompiuta che sembra volersi liberare dalla roccia, quella tensione espressiva che sembra poter esplodere e combattere contro la gelida immobilità dei minerali. Corpi incatenati alla realtà, alla loro origine, che si conformano alle norme condivise piombando spesso in contraddizioni vistose, talmente pressanti da sgretolare certezze, da obliterare la speranza nel disfacimento interiore. Sono personaggi che nascondono un malessere psicologico e che la penna di Dostoevskij sembra scavare con piglio umano, ma implacabile. Strumento perfetto è il bagliore fulgente del Principe Myskin, un lampo accecante che penetra nelle profondità del cuore, della mente, e che sembra almeno per un momento dissolvere le ombre del pensiero per trasformare qualsiasi interlocutore in un bambino capriccioso, in un essere sofferente, in una donna puntigliosa. Il principe Myskin è un uomo che penetra nell’abisso dell’animo, terribilmente e pericolosamente puro in un mondo in cui la libertà è subordinata ai vincoli sociali e l’apparenza è religione. E’ una società in cui la compassione indiscriminata sembra annullarsi nella dimensione dell’idiozia.
Ma il principe è davvero idiota? Sì per la società russa che lo identifica come uno stupido, un bambino ingenuo di cui si criticano gli atteggiamenti, ma di cui non si può non ammirare la bontà. Il candore dell’ingenuità. Il principe è un uomo impreparato alla vita, la cui logica, dettata dal cuore, e quindi naturale inclinazione, è quella di soffrire insieme agli altri, di accecare nel bianco splendore della sua dolcezza il dolore che grava su chi lo circonda. E’ una semplicità quasi disumana, al limite dell’irritante, e qualche volta si pensa “che idiota!”. Forse sarebbe più giusto dire “fuori posto”. Il principe Myskin è un Dio mancato, un essere quasi privo di volontà, che sembra seguire una moralità rigida mai discussa, mai dubitata: la moralità della misericordia. Una misericordia quasi eterea e per questo incapace di liberare gli altri dalle catene della società, che la pietà stessa del principe non può conoscere senza il rischio di macchiarsi dei peccati, della corruzione degli altri. Un novello Gesù che deve sacrificarsi. Non per gli altri, ma per curare se stesso.
Una galleria di personaggi scolpiti nei dettagli più profondi riflette gli effetti dello “splendore della bellezza”, quell’aiuto disinteressato che soltanto il principe sembra poter offrire.
U capolavoro che offre una lente per osservare la realtà con altri occhi, un messaggio rivoluzionario che può segnare profondamente una mente, il quale cova in un universo appena distante dal lettore, pronto per essere colto , per passare di mano in mano attraverso i secoli. Nel principe Myskin si concretizza paradossalmente la figura dell’uomo buona, un personaggio dall’atteggiamento dilatato sino all’estremo e che si rivela inadatto per la missione che sembra dover compiere: salvare, con la sua bellezza, il mondo.
Ma è un uomo in cui non si annida il male e che dunque non può capirlo se non attraverso congetture le quali, seppur acute, restano ammantate da quel velo di luce soffusa che sembrano soltanto apparentemente cacciare le ombre dell’animo umano, per poi ricrearle come sbarre gotiche che imprigionano quel briciolo di umanità che le aveva quasi sconfitte.
Non si può annichilire il male senza conoscerlo, non è lo “splendore della bellezza” che salverà il mondo, bagliore di cui il principe è la naturale incarnazione, ma la compassione, la capacità di provare pietà (non in senso dispregiativo) per gli altri, indiscriminatamente. Il mondo sarà salvato dalla disponibilità degli uomini di macchiarsi delle colpe e delle sofferenze dei simili, di condividerle in loro e sopportare insieme agli altri il pericoloso fardello.
Dostoevskij insegna a guardare il mondo. Una società che definisce la compassione Idiozia per non doverla soppesare. E il principe Myskinè un lampo che trasforma le malvagità umane in “febbre celebrale”. Nessuno lo comprende. Tranne Nats’ja, a lui simile, gli estremi di una fragilità che conduce inevitabilmente alla distruzione. Quello di Dostoevskij non è un messaggio si speranza, ma di amara critica.
Cerchiamo la bontà, ma al suo cospetto chiudiamo gli occhi. E' forse un'idiozia?
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Qual è il tuo Sunset Limited?
E' un testo tormentato, vorticoso, implacabile.
Un dialogo ininterrotto in una poverissima cucina. Una Bibbia sul tavolo, un Bianco e un Nero ai due capi della tavola.
Non sono due etnie a contrapporsi, ma idee e mondi differenti. Sapori, visioni, vissuti che si intrecciano nell'esasperazione dello scontro tra vita e morte mentre sprazzi di tagliente disperazione e sottile ironia rimbalzano tra vertigini e voragini di illusione e disperazione.
Due concezioni antitetiche rimangono sospese nella metafisicità di un dibattito quasi etereo, eppur pericoloso come lame.
Battute tra un professore e un nero, un ateo e un credente, la morte e la vita, la disillusione e la speranza.
E' l'eterno conflitto che si agita nella mente e prende forma sulla carta, con mirabile stile, mentre pensieri baluginano diretti e profondi nella coscienza.
Un dialogo che è ombra sfiorata dalla luce, confronto i cui temi rimangono quasi inafferrabili, convulsi come la vita stessa.
Una riflessione che non offre risposte, ma solo interrogativi. Cos'è che spinge al suicidio? Qual è la molla che scatta affinché una persona possa gettarsi sopra un treno ed abbracciare la morte? Qual è lo scopo dell'uomo su questo pianeta? La vita, è davvero un campo di lavori forzati dove ogni giorno vengono prelevate persone innocenti?
Non ci sono soluzioni, soltanto spunti per riflettere, per addentrarsi nel Sunset Limited, il confine tra vita e morte, il tramonto di ognuno di noi.
Cos'è la fede? Cos'è Dio? Perchè non c'è speranza, anzi, perchè la si perde? Da dove proviene tutta questa sfiducia? Perchè si arriva ad un punto in cui l'unico desiderio è morire, diventare nulla, nemmeno cenere, strapparsi da questo atomo nell'Universo in cui l'ombra sembra spesso più forte della luce?
McCarthy indaga l'animo umano, riflette sulla società, tra sottigliezze che alternano banalità, contraddizioni e ingenuità, presenta un dibattitto che è la natura stessa dell'uomo, due visioni in cui ognuno si riconosce e su cui ognuno cerca di crearsi una propria opinione.
Qual è il passo che ci separa dal Sunset Limited? Lo spazio e il tempo che ci separano dall'abisso del suicidio?
Probabilmente la speranza in qualcosa di migliore. Una speranza che però rischia di essere illusione, una menzogna. Forse è la fede, forse è Dio, per chi crede. Ma per chi non crede è forse l'ignoranza, il non dubitare, il non porsi domande.
E allora cos succede quando ci si interroga? L'uomo di cultura, capace di riflettere, può scegliere ancora se vivere o meno, se fare qualcosa affinché tutto cambi. L'uomo di fede mette il suo credo alla prova. La luce rischia di essere oscurata.
La vera salvezza, forse, non è la speranza, ovvero l'inattiva sicurezza di un'illusione fasulla, ma la capacità di reagire, di non scendere a compromessi con la rassegnazione. La vera salvezza è il coraggio di ricominciare, di ricostruire un mondo, o soltanto una vita, che sappia opporsi al degrado, alla sofferenza, alla "disperanza". per alcuni è la vita di Gesù, per altri è una vita che non esiste. E per i secondi il Sunset Limited rischia di distare pochi centimetri. Per i primi il Sunset Limited è una consolazione, che però rischia di trasformarsi in una drammatica disillusione.
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Metamorfosi per capire
E' un racconto difficile da pentrare, il cui significato si cela sotto le coltri della pulsione, del desiderio, della follia, della cecità. E' un testo in cui la metamorfosi non è quella astratta della fantasia, ma quella inquietante, quasi metafisica, che pare a volte condensarsi nel lettore e coivolgerlo in spirali sublimi e tremende allo stesso tempo. E' il racocnto in cui paradosso e realtà si fondono fino a essere indistinguibili, anzi, il tesot in cui l'incubo sembra diventare relatà.
David kapesh, professore di lettere e uomo perverso, si trasforma in un seno, da 70 kg. Squilibrio ormonale, per i medici. Incoscienza per lui.
Perchè è diventato cieco? Perchè la sua voce arriva flebile all'esterno e il suo udito è minimo, mentre soltanto il tatto risveglia in lui desideri e pulsioni? Cos'è diventato?
Sono queste le domande che lo assillano, finchè la risposta arriva inquietante, sconcertante: una mammella.
E se all'inizio la mente rifiuta la condizione, concentrandosi sullo sfrenato desiderio sessuale che sembra ridurre in ombra tutto il resto, la piena coscienza dall'avvenimento non è subitanea, ma lunga e dolorosa. Una metamorfosi spietata, che non lascia adito all'indifferenza. Nè alla ragione.
COme si può accettare di non essere più? Come si può accettare di essere divenuto più Kafkiano di Kafka?
La mente rifugge. E' un sogno, anzi, un incubo. I dottori negano.
Tutti si sono alelati contro di lui, lo vogliono utilizzare per mostrarlo alle televisioni mondiali.
Tutti gli mentono.
Lui, professore di lettere, si è immedesimato troppo in Gogol e Kafka.
Ma qual è la verità in questo turbinio costante che sembra taloro condensarsi in un melmoso pantano da cui non ci si può salvare? Tra i fumi del delirio, sospeso nel metafisico mondo dell'irrelatà, Kapesh è alla ricerca di una giustificazione a ciò che gli è accaduto. Non accetta la sua condizione. E' una disarmonia con se stesso che annichilisce la razionalità, resta il delirio imperante che sembra sciogliersi, per poi ritornare impenetrabile.
Ne Il seno la metamorfosi è indspensabile al personaggio per recuperare se stesso, per esemplicare attraverso il paradosso, un'altra contraddizione: quella dell'uomo che seppur costretto in una determinata condizione, non l'accetta sforzandosi di rinnegare la relatà e rifuggire dal razionale rifugiandosi nell'inevitabile alienazione dal vero
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Diavolo, tentazione e tormento
E' essenzialmente un racconto sulla passione, quello di Tolstoj, su quella passione assillante che giace all'interno del corpo e corrode il cuore e la mente sino rendere un uomo svuotato di ideali, preda che soggiace alla tentazione, la cui dignità sembra disintegrarsi di fronte alle pulsioni. E' un uomo schivo, automa senza capacità di decidere. La tentazione diventa religione. La passione diventa ossessione. Esiste solo la dimensione dell'appagamento del desiderio.
Tolstoj, il grande scrittore russo, riflette sul tema del sesso, unico pensiero fisso di un uomo che nonostante l'idillio familiare non riesce a distogliere lo sguardo da una contadina. Un desiderio irrazionale che pone in discussione qualsiasi certezza, tutto si sacrifica all'obiettivo, tutto cede innanzi alla pulsione.
E' il Diavolo che tenta, il Diavolo è il male. O forse la tentazione è il vero Male, e il Diavolo la concretizzazione di una prospettiva distorta dal desiderio?
E d'altra parte, chi decide cosa è Male? La ragione non sempre, anzi, spesso soccombe alla fantasia, alla possessione, all'ossessione.
E' male ciò che trascende la normalità. Ma è sempre così? O forse la normalità è una gabbia che tenta di rinchiudere e anestetizzare le passioni in nome di un'apparente tranquillità? E' ricco di interrogativi questo racconto, nonostante la brevità, un testo che spinge a riflettere sulla normalità, sul desiderio. E' un racconto che scandaglia l'animo umano alla ricerca della causa dell’insoddisfazione.
Perché il protagonista, nonostante il denaro, una moglie, la felicità secondo il pensiero comune, rifugge plagiato da un desiderio incontenibile tra le braccia di un'altra donna?
La pulsione sessuale è l'effetto di una disarmonia con se stessi che non si vuole ammettere, dell'insostenibilità di una situazione che non si vuole modificare in nome delle apparenze. Il sesso non è il Diavolo, come può sembrare, sebbene sia visto da Tolstoj come un nemico dell'uomo in quanto è capace di annichilire coscienza, dignità in nome del desiderio. L'eros non è il male, ma lo può facilmente diventare in quanto limite, in un cero senso, alla libertà.
Ma forse, a questo punto, sorge un sospetto: forse l'Eros è Amore? Forse è l'amore che disgrega il matrimonio e la razionalità, aprendo le porte verso il raggiungimento della felicità. E l'amore no tollera ostacoli, tranne forse uno che ne eguaglia il potere: la Vergogna. Un dissidio imperituro che riecheggia tra le pagine di libri e libri, fino a riproporsi nella penna dell'autore russo, che, nonostante non raggiuga stilisticamente i livelli di Anna Karenina, porta in scena un contrasto che troppo spesso viene liquidato con diabolica e crudele freddezza dalle convenzioni sociali.
Amore e Vergogna, pentimento e rimorso si scontrano nella dicotomia di un uomo il cui equilibri galleggia pericolosamente tra i fuochi della passione, e le onde turbinanti del pentimento. E qual è l'unica soluzione? Come riacquisire la stabilità?
Tolstoj propone due finali, io ho preferito il secondo, più in linea, a mio avviso, con la personalità dell'uomo, ma anche qui il dubbio imperversa, come se la riflessione su questo racconto debba essere infinita. Ed in effetti, a ben pensarci, i tratti di questa lotta si ripresenta in continuazione, spesso obliati dal giusto e dall'ingiusto, senza che questo discernimento arbitrario poggi su basi che siano differenti da quelle delle convenzioni. Tolstoj non smentisce il suo sguardo acuto, la penna polemica che talora si sovrappone all'autobiografico. Non è un Tolstoj lucido, è un uomo che subisce su di sé lo stesso contrasto del protagonista. Il diavolo è ciò che ognuna tenta di evitare, pur essendone inevitabilmente attratto. Il diavolo è il disequilibrio, il non ascoltare se stessi.
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L'ineluttabile scorrere del tempo
Sarebbe difficile giudicare quest'opera senza tener conto del contesto storico da cui essa è stata originata. Un epoca a sè stante, a cavallo tra due secoli, in bilico sul sottile confine tra un passato ridotto a brandelli e un futuro quanto mai incerto, in subbuglio sotto il ribollire impetuoso dell'Italia Unita.
Un clima di apparente ottimismo, esito inevitabile degli ultimi fuochi romantici che hanno animato la neonata Italia nei primi anni. Strascichi di ideali che ben presto saranno obliterati dallo sconforto, dalla sfiducia.
Il Gattopardo, famosissimo romanzo di Tomasi di Lampedusa, accoglie in sé la contraddizione insita in tale periodo, riflettendo nella progressiva decadenza dell'aristocrazia siciliana, il progressivo spegnersi della vita, l'ineluttabile, ora sublime ora terribile scorrere del tempo.
In effetti, in più punti, la trama appena accennata, costituita da pochi fatti e innumerevoli monologhi, sembra giocare sul parallelismo tra questi due elementi.
Nella figura di Don Fabrizio Salina si realizza la crisi politica e esistenziale di un uomo preso alla sprovvista dall'incedere della clessidra della vita. Riprendendo un tema caro alla precedente letteratura europea, da Proust a Mann, il tempo è il cuore ipnotico di un mondo in pieno declino.
E' un testo che appena oltre la superficie del nostalgicamente onirico paesaggio siciliano, ammantato da un sole intenso ma tenue, forte ma delicato, sfrutta l'argomento storico non solo per una riflessione politica, arguta e condivisibile, e straordinariamente attuale, ma anche per trasformare gli occhi di un uomo che si avvia alla vecchiaia, in lenti che deformano la realtà nell'imperante pensiero della morte, memento mori!
Ed ecco che i paesaggi ricalcano nella delicatezza stilistica, l'avvento della fine definitiva, sfruttando un linguaggio quasi poetico in cui ricorrono incessantemente rimandi alla morte. La campagna è sterile, i frutti secchi, la popolazione sfiorita, i sorrisi ombre di una vita che sfugge fra le mani. Il tutto mentre l'eco risorgimentale si propaga nell'entroterra della Sicilia e, paradossalmente, il vento innovativo, sarà destinato ad un esito uguale, se non peggiore, alla situazione precedente.
Perchè, ed è qui che Il Gattopardo, la decadenza e il tempo trovano connubio perfetto, in Sicilia vige un clima di "metafisica sicilianità", un luogo in cui il tempo storico si annulla nella dimensione di una fierezza che sfocia nell'orgoglio, un sentimento di vanagloriosa stoltezza che rende i siciliani refrattari alla novità, fedeli a norme di comportamento mai poste in discussione.
Il tutto mentre nessuno faccia nulla per opporsi, come Don Fabrizio con lo sguardo verso il cielo, gravato dal peso del tempo, sconfitto dai granelli di sabbia del tempo che bruciano sulla pelle fino a rendere l'uomo un guscio il cui interno è evaporato. Eppure "finché c'è morte c'è speranza", almeno quella della tranquillità.
Leggere il Gattopardo è come camminare soli in un palazzo aristocratico in declino, mentre i passi rimbombano negli ambienti sfarzosi, vani tentativi di sopperire ad un potere ormai nullo, ultimo squallido simbolo di una forza inesistente. Aggirarsi tra le stanze di un palazzo, di un uomo svuotato dagli anni, mentre i rumori dall'esterno, il clamore degli avvenimenti storici arriva attutito, e noi, fedeli al nostro spirito, ci sediamo su una poltrona aspettando di arrivare alla fine, senza opporci, mentre ci sfilano davanti, senza aver possibilità di raggiungerli, rami di discendenti che hanno perso il ricordo della propria origine.
Un testo senza dubbio consigliato, stilisticamente ottimo, che cerca, non sempre riuscendoci, un equilibrio tra decadenza e morte, un'occasione per riflettere lontano da quel lieto fine che seppur mitigato predomina le opere precedenti. Il Gattopardo è forse uno degli antipodi del decadentismo, che ancora non riesce a svincolarsi dall'appendice romantica. (Preciso di non aver letto i Viceré, quindi non posso fare paragoni).
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I fantasmi ritornano....
E' un'ironia tagliente quella di Dumas, un'ambiguità di giudizio che trapela dalle picaresche avventure dei quattro moschettieri. E' una critica storica mascherata da duelli, complotti, stratagemmi, rivolte in piazza, disamina sociale che non risparmia le sale del potere.
Leggere il secondo capitolo dei moschettieri è come afferrare le redini e sferzare i cavalli sfuggendo ad agguati, salvando regnanti, scoprendo tradimenti, cercando gli amici, riscoprendo passioni e desideri che seppur vincolati dall'amicizia iniziano a divergere.
Lo stile incalzante di Dumas pervade ogni capitolo, mai si crogiola nella stasi e tesse con l'incanto dell'inchiostro una trama di eventi storici e fantastici indistricabili e filati dal pungente sarcasmo di una critica acuta. L'abilità che traspare da quest'opera, ancor più che dalla precedente, è la mirabile capacità di costruire un'ambientazione vivace, dove eventuali imprecisioni o anacronismi sfuggono alla mente del lettore e lasciano soltanto l'ombra di un riferimento coevo alla scrittura.
Avvincente ed affascinante, crogiolo frizzante di lealtà, dolori, guerre e distruzioni. Ma c'è qualcosa che manca, un vuoto che si fa pesante. E' lei Milady, la "cattiva" più affascinante di cui io abbia mai letto, il vero fulcro della prima opera. donna capace di crudeli tranelli, di una doppiezza che sfrutta le armi della seduzione, del potere e del denaro. E' un personaggio estremamente affascinante, il cui fantasma offusca questo secondo capitolo, ma non così tanto da rendere l'ombra vivida.
Anche Richelieu scompare, nei giochi interviene Mazzarino, ma manca quell'ingegno sottile, machiavellico che aveva reso le peregrinazioni del primo volume indimenticabili.
Più avvincente, più storico, più aperto agli scenari di altri paesi, più eterogeneo: queste le differenze che caratterizzano Vent'anni dopo, ma il ricordo di Milady e Richelieu diviene un piccolo buco nero che disintegra in sé un po' dell’empatia per i personaggi. Ma come tutti i buchi neri attira inesorabilmente, anche il lettore, che precipita a poco a poco nelle mirabolanti avventure di Athos, Porthos e Arami e D'Artagnan.
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Il saggio di superficie.
"L'uomo si superficie galleggia sulla società liquida, spinto da un desiderio morto"
E' una società liquida la nostra, senza punti fermi, valori. Senza radici che affondano nella sapienza di secoli e secoli, con lo sguardo immobile sul presente. E' una società in cui il passato sbiadisce, il futuro è un monito inascoltato, il presente appare sempiterno e imperturbabile. E' un mondo diluito dalla stupidità, un filtro a maglie strette che esclude qualsiasi pensiero solido mentre si corre ad occhi chiusi su un ripido pendio che conduce inevitabilmente ad un profondo baratro.
E' la stupidità imperante che cancella l'attrito, è essa che pigia il pedale dell'acceleratore. E' una società senza freni, i cui occhi sono annebbiati dal desiderio di denaro, potere, bellezza.
E' una società che rinnega i concetti per l'incapacità di penetrare nel profondo del pensiero. Solo il concreto, l'aspetto, iniziano a contare mentre lo sguardo dell'umanità si ferma sulla superficie.
L'uomo di superficie, che non è l'uomo superficiale, ha paura del dubbio, teme di penetrare negli abissi dell'animo umano.
E anche se lo si nega, siamo anche in piccola parte schiavi del modello di bellezza imperate, nonostante i nostri sforzi siamo costretti a soggiacere ad una realtà in cui la bellezza è Dio, la cura dell'aspetto religione.
Eppure non credo che il mondo sia questo. Ne vedo i segni, ma so, o almeno spero, che ci sia qualcosa che riscatterà l'uomo, quel brivido di follia che ha aperto le strade all'Homo sapiens sapiens, a quella fragilità che trucchi, tatuaggi e vestiti tentano di nascondere.
Andreoli introduce un tema quanto mai attuale, degno certamente di riflessione.
Un saggio per capire noi stessi, per renderci conto della direzione che stiamo prendendo. C'è uno stupore continuo alle prime pagine, stupore per vedersi così legati alla società, alla civiltà attuale. Siamo dipendenti e per quanto ci sforziamo siamo compromessi. E' uno sforzo immane resistere all'omologazione di massa, e forse non si sarà ricompensati se non dalla libertà del pensiero, dalla dignità intatta. Saremo ricompensati dall'astratto, ma il potere e il denaro e la bellezza ci sfuggiranno dalle mani.
E' un tema profondamente interessante, ma Andreoli rincorre per tutto il saggio un punto che mai è approfondito. L'uomo di superficie per lo scrittore è legato quasi esclusivamente alla bellezza, al massimo alla stupidità. Ma questi sono solo segni tangibili di un degrado che Andreoli non indaga, se non "in superficie". E' il suo uno sguardo umano, che però si perde nell'autobiografia (che non sempre è utile per osservare i cambiamenti intercorsi nella società), o in un'analisi anatomica delle varie parti del corpo, abbastanza dettagliata. E' uno stile poeticamente ironico, che ritorna febbrilmente sul testo per renderlo accettabile, ma il punto centrale sfugge tra le mani. Le immagini, per quanto suggestive, crollano e lasciano un vuoto oscuro. Un silenzio che corrode l'intenzione iniziale. C'è un'attenzione smodata pe la bellezza, per l'ambito erotico, che ricorre incessantemente.
Ma ora chiedo: è veramente questo l'uomo di superficie? E' veramente questo l'ultima appendice di un'evoluzioni plurimillenaria? E' davvero un guscio vuoto, un palloncino che si copre per distogliere l'attenzione dal terribile vuoto interno che degrada la fragilità umana? No, l'uomo di superficie ha nell'amore per la bellezza un sintomo, ma non la causa. E nonostante tutti i racconti, "i mutamenti" che l'autore descrive il testo scivola e resta soltanto un ricordo vago della lettura.
L'uomo moderno ha semplicemente paura del futuro, del dubbio, e per questo rifiuta di pensare.
Un saggio che offre l'occasione di riflettere, ma non i mezzi per farlo.
"La gioia (il riscatto) si cala nel mistero che portiamo dentro", il mistero della vita. L'anelito alla speranza.
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L'anello e l'illusoria libertà.
Leggi le pagine e voli, sospinto dai flutti della fantasia, guidato dalla penna.
Voli, e sei leggero, senza fardello, se non l'incredulità. E' limitata la mente umana, ma non quella di Tolkien. Plani guidato da una forza di volontà più grande della tua, la scrittura e ti immergi tra paludi putrescenti, eserciti, nani, elfi, ombre, spade fantastiche, creature bizzarre, mentre si realizza per l'ennesima volta la tremenda e sublime lotta del Bene contro il Male.
Soffri la fame e la sete mentre l'oscurità ti ammanta, ti ferisci, guarisci.
C'è un modo che si muove di fronte a te, dinamiche da scoprire, leggende da ascoltare, magari intorno al fuoco, con un branco di giovani Hobbit che reclama la storia di Frodo dalle Nove Dita e l'anello del potere.
L'anello. La perdizione, la folli, il desiderio sfrenato, la malvagità, la corruzione. Una finestra nella Terra di Mezzo si affaccia sull'incubo della Seconda Guerra Mondiale, tra lo stupore, l'ammirazione e la sofferenza.
Voli, a bassa quota, però. Le catene della realtà non scompaiono, sono lì, a trascinarti al suolo, catene indissolubili, ora più marcate, ora quasi evanescenti. Ma la loro presenza si sente, come un velo che offusca l'avventura, come gocce di pioggia che deformano il visibile. E' la penna di Tolkien che impedisce talora di librarsi in cielo, mentre la terra diviene un foglio bianco su cui tracciare alberi genealogici, miti lontani. Piccolo difetto, non insormontabile.
Un po' prolisso in alcuni punti, nei punti sbagliati, suspense ora guastata altre volte pienamente sfruttata. E' un gioco fragile, in bilico sull'illusione di personaggi fantastici e avventure fantastiche, come alberi le cui radici si nutrono qua, nel nostro mondo, dalla nostra terra.
E' una penna acuta quella di Tolkien, capace di indagare sulla Natura dell'uomo, sulle emozioni che lo plasmano, le debolezze, la malvagità, la paura. Sopra tutti e tutto l'anello. UN potere immenso, che uccide, che rende avidi, spregevoli, che deturpa il bello infangandolo di un inarrestabile desiderio.
L'anello è l'uomo che cede la sua dignità, per dominio, per superiorità, l'Anello è l'incubo di un regime totalitario che ha plasmato il popolo sotto il segno di un'ideologia, è il simbolo di una malvagità che scruta nell'uomo, si insinua fino a dominarlo completamente.
L'Anello è la morte stessa, non solo quella corporale, ma quella dei valori che soggiacciono inevitabilmente all'odio.
Si salvano i puri, coloro capaci di sperare, di credere in qualcosa che è la Verità, la Libertà, coloro che sanno sacrificarsi, senza rimorso. Si salvano coloro che combattono l'odio non tanto con le armi, ma soprattutto con l'amore, la pietà, il controllo. E' il mistero della vita che roboante si schiude tra pagine e pagine , assumendo le tinte ora delicate ora vivide di un mondo speculare alla società del Novecento. E' un fantasy che denuncia, gridando l'invito alla speranza, alla pace. Un grido camuffato da foreste, torri, osterie, colli, montagne, plasmato da una galleria di personaggi superbi, incarnato da un'avventura senza esclusione di colpi, un richiamo alla Natura stessa, un invito a rinnegare la corruzione del corpo, dell'anima, dello spirito.
Il signore degli anelli è la metafora di un mondo onnipresente, tormentato dal Giusto e dal Malvagio, martoriato dai colpi dell'ombra, tamponato dal bene, sfregiato in parte di una dignità umana.
Molti si arrendono, molti cadono sotto il potere dell'anello e per molti non ci sarà redenzione.
Un testo unico, dai toni epici, tanto da ricordare in alcuni punti l'Iliade di Omero (descrizione delle battaglie accurata, presentazione dei personaggi per patronimici), ottimo fantasy che per contenuti è superiore a moltissimi altri testi, di qualsiasi genere.
Manca soltanto la libertà di volare in alto, di librarsi senza pensiero alcuno, ma forse, dall'alto dell’incommensurabile libertà, gli occhi sfiorano la realtà, senza addentrarcisi. Un aquila che imperturbabile plana serena mentre al di sotto covano terribili eventi. nel signore degli anelli non si è aquile, ma fedeli scudieri che talora corrono con veloci destrieri. E il brivido della velocità è come l'incedere di un destino ineluttabile, ma anche il tremito di follia che contraddistingue l'umanità
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Gli anni si fanno sentire....
Ci sono classici che dopo secoli rimangono stabili sul podio dei capolavori e anzi, acquisiscono ancora più fascino, mentre esistono altri romanzi in cui il termine "classico" è indice non della bellezza dell'opera, ma della patina antica che lo ricopre.
L'isola del tesoro, di Stevenson, getta l'ancora nella seconda categoria e una volta letto rimane l'immagine pomposa di un libro famosissimo che naviga su un mare piatto, senza increspature. Non solo a livello d'azione, ma anche a livello di approfondimento psicologico.
Ora, non che si possa sempre pretendere uno tsunami che movimenti il libro ( anche se volte un rbaltamento totale, in un libro di avventura, non sarebbe male) ma qui manca qualsiasi increspature e soltanto ogni tanto compare un'onda. Magra, anzi, magrissima consolazione.
Cosa che stupisce se si considera l'enorme materiale su cui l'autore sviluppa la trama: un tesoro nascosto, un'isola misteriosa, tradimenti, naufragi, bende sugli occhi, tranelli, pappagalli spioni, un cattivo degno di nota (sì, ma calante) , gambe di legno, insubordinati e molto altro.
E chi sta già gridando, dall'albero maestro (scusate, ma conoco solo questo di una nave, quindi accontentatevi anche dell'imprecisione, se c'è ) non "Terra! Terra!" ma "Banalità, Banalità" non ha tutti i torti anche se (un po' di dissenso non guasta) il libro è scritto nell'Ottocento ed è stato il capostipite di un genere che avrà grande fortuna nel corso della letteratura, con risultati migliori.
Certamente non si vuole sminuire l'importanza letteraria dell'opera, ma il peso dei decenni, anzi, secoli, si fa sentire. UN po' distante, (e se si considera che il testo è scritto in prima persona l'impressione accennata è grave), incapace di vivacizzare l'azione e di creare una suspense apprezzabile. E se Stevenson si salva un po' disseminando qua e là qualche virtuosismo, la piacevolezza ne risente e molto.
Manca quel piglio di pura avventura che ha fatto la fortuna di altri romanzi, chella prosa incalzante che non fa distogliere gli occhi dal libro. Qui al massimo un appasisonato di navi può trovare pane per i suoi denti, viste le logorroiche descrizioni, in cui, io, povero lettore (oh me tapino) si è perso.
Un avventura finita male questo romanzo, anzi, appena iniziata. L'innovazione resta, così come gli anni, ma qui, a parte la critica morale (l'avarizia, il tradimento, l'amicizia, il coraggio eccetera e la critica alla scoietà, che fa capolino in alcuni punti) e qualche combattimento marittimo e non, la patina dell'Ottocento si avverte e nè il conenuto nè lo stile riescono a sollevare un romanzo le cui premesse vengono ampiamente tradite.
Ma uno tsunami, quando serve, non c'è mai? Al diavolo l'ancora, vado alla deriva.
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L'occhio dell'Universo
Nell'Universo, tra le stelle che ci hanno generato, aleggia impercettibile la magia della vita.
Gli astri splendono e dipanano luce, un incanto che permette agli uomini di sopravvivere.
Oltre l'atmosfera, filtrata dalle lenti dei telescopi, la mistica essenza vitale dell'Universo si condensa in immagini, qui, sulla terra. L'energia cosmica che ci ha generato fluisce in tutti gli esseri viventi.
E' lo spettacolo della vita, dei sentimenti degli uomini, è lo stupore di una nascita, è l'amore di un padre che scrive una lettera al figlio, ancora piccolo. Scrive una lettera per un bambino che crescerà senza di lui, inevitabilmente. Perché l'incanto finisce, la vita (forse) finisce. Il resto è l'oblio della morte.
Ormai quel bambino ha quindici anni, quasi sedici, è cresciuto e la lettera, come una macchina del tempo, fa riemergere il ricordo non solo di un padre scomparso, ma anche i una storia quasi incantata, di sguardi, sorrisi, parole accennate. La storia della Ragazza delle arance.
Il passato riemerge con semplicità, spensieratezza, i ricordi impressi sulla pagina sembrano concretizzarsi finché il sogno, la serenità tornano a spezzarsi davanti alla realtà e al destino ineluttabile.
E' la lettera di un padre che non vuole lasciare il proprio figlio, è lettera di un uomo che vuole vivere, è il messaggio d'amore di un marito per la moglie. E' la memoria non trascurabile della bellezza, dopo tutto, della vita. Delle infinite occasioni perse, di quelle colte, di quelle desiderate e di quelle impreviste.
E' un libro estremamente scorrevole e semplice, che tenta di indagare sul mistero della natura, sulla giovinezza, l'amore, l'amicizia, il dolore, il rimpianto, la delusione, le dolci follie. La disperazione, lo sconforto, la malinconia. Quel legame che c'è tra un padre e un figlio, quel legame che non ha nome, è soltanto lì, indissolubile. Temi accarezzati, con dolcezza, tenerezza, sempre appena sotto la superficie, in quel punto dove la profondità sembra qualche passo distante, e la superficie ti sorregge con una corda. E lì, sicuro, leggi pagina dopo pagina lo stupore della vita, nel bene e nel male, avvolto dall'incanto cosmico, con lo sguardo verso le stelle e i piedi ancorati al terreno.
Magari vicino ad un mercato, con l'odore di arance che riempie le narici.
Un libro per i figli, per invitarli a non sprecare il tempo, a riscoprire la meraviglia e pensare all'insondabile mistero dell'esistenza.
Un libro per i genitori, per riflettere sul loro ruolo, per ribadire la loro responsabilità.
E ora chiedo: è sempre meglio vivere, pur sapendo di dover morire e abbandonare ciò che si ha, oppure rinunciare a questa manciata di anni che ci viene concessa, sapendo di dover anche soffrire? Non è semplice rispondere, ma in fondo lo spettacolo di vedere la vita che nasce, è il miglior compenso.
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Il delirio del ragno
Non è un libro per tutti.
Un pantano delirante che puntualmente ti sommerge. Una tela che ti avvolge e rende immobili davanti all'allucinazione della memoria, mentre le barriere della mente diventano cartapesta e vengono disintegrate dalla pazzia.
Un ragno tesse le fila della sua vita, fila forgiate dalla schizofrenia e rese appiccicose e rivoltanti dallo sporco. Escrementi, ratti, vermi, alcool e fumo. Tutto imprigionato in una tela mortifera di derelitti dove il disfacimento della realtà è pari al progredire della follia.
Non è un libro per tutti. Senza coordinate, schiavi di un diario fuligginoso dove frasi sbilenche si rincorrono frenetiche mentre spiriti malvagi agitano il soffitto e tormentano il cervello, i Lettori sono fagocitati dal dubbio, inermi di fronte ai rintocchi di un conto alla rovescia la cui destinazione è inevitabilmente un'infanzia negata, affogata dell'alcool del Porto e ferita dalle cinghie di una cintura.
Paranoico, destabilizzante, inquietante: in Spider si chiede la normalità, ma si ottiene la pallida imitazione -un’allucinazione -del reale.
Una cisterna di aggettivi, azioni reali assenti, dialoghi solo un ricordo, percorsi nella mente tortuosi come le condutture del gas. Gas penetrante che percorre le vie olfattive, soffoca i polmoni, raggrinzisce lo stomaco e modella l'intestino. Gas, dovunque.
Disgusto, stomaco in subbuglio, sono questi i primi effetti.
Poi la mente pesante, il pensiero attaccato dal ricordo.
Ricordo del gas? Questa volta no. Ricordo del lettore delle pagine lette, frasi che avvinghiano prima lo stomaco, poi pesano sulla mente.
I rintocchi crescono, il fondo del delirio è in vista. Dove arriva la verità? Qual è il confine tra realtà e allucinazione, tra idealizzazione e concretezza? Nella mente di un paranoico tutto è in dubbio, tutto va soppesato. Facile con un po' di attenzione? No, difficile una volta caduti nell'occhio del ciclone, un turbine di menzogne involontarie, sporco, vittime e carnefici. Qual è lo shock? Niente è come sembra. I tuoi occhi sono quelli della schizofrenia e tra te e la realtà c'è una galleria infinita di specchi. Frammenti della realtà da ricomporre. E una mente malata PUO' sbagliare.
Un libro unico, senza punti fermi, un testo dove il lettore è in ALL'INTERNO della mente di un folle. Cosa si prova? Spider, semplice no? Chiedilo alle pagine e la risposta è ancora nuovo caos.
Non è un libro per tutti, ripetere è noioso, ma fa bene. Non ci credete? Provateci, poi mi direte.
Migliore di Follia, senza dubbio, questa è l'unica certezza. Rischioso leggerlo, ma terribilmente emozionante, affascinante. Inquietante. Tremendamente destabilizzante.
(Se lo leggete ditelo a me o a Cub, le domande sul finale e su realtà-immaginazione sono dietro l'angolo.)
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