Opinione scritta da Bruno Elpis

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Romanzi autobiografici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Giugno, 2018
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In inglese si chiama sexual addiction

Gli Uomini di Elda Lanza sono Virgilio, il primo fidanzato, l’artista Gérard, il marito Alessandro, e altri ancora.

Di loro, l’autrice ha un’opinione complessivamente negativa.

A partire da un’esperienza infelice con il padre, i tradimenti del marito (“In inglese si chiama sexual addiction. L’individuo ha bisogno di aumentare i comportamenti sessuali o la loro intensità per mantenere l’effetto in modo ossessivo…”) inducono Elda a maturare un senso di sfiducia che culmina in un doloroso episodio di violenza subita (“Senza riuscire a cancellarlo dalla mia testa e dal mio corpo, sarà il mio segreto per sempre. Il mio modo di odiare per sempre gli uomini”).

Giudizio finale: elencativo, misandrico, contrappositivo.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Giugno, 2018
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Il palazzo dei matti

Gli annientatori di Gianluca Morozzi appartengono alla strana famiglia dei Malavolta (“C’è gente strana. Gente che si è sposata tra cugini”).
In questi strani personaggi incappa Giulio Maspero, scrittore di moderato successo, già autore di Zanne e artigli, titolare di una scuola di scrittura con l’ossessione del nuovo romanzo da scrivere: una storia che sfocia nell’assassinio di Kennedy, sulla quale incombe l’incubo della pagina bianca.

I Malavolta occupano cinque dei sei appartamenti di un edificio che si erge in una periferia surreale di Bologna (“Si percepiva davvero un piccolo stacco, tra la parte di strada prima del parco e quella dopo, dove sorgeva il palazzo e scorreva il Reno”) e lì Giulio Maspero, grazie all’offerta di un fumettista, finisce in modo rocambolesco per sfuggire all’endemico problema che lo affligge: sbarcare il lunario, in attesa di agguantare un successo sfuggente ed evanescente.

Tra esperienze erotiche venate di noir (“Veronica amava i film in cui un essere umano subiva un’orrenda e sorprendente trasformazione fisica”), visioni grafiche (“i disegnetti sozzi di Mauro Britos”) e passatempi (“Il puzzle non era servito a sbloccarmi”) nei quali forse si nasconde la chiave di un mistero dinastico, Giulio si dirige verso il centro di un incubo crudele e angosciante.

Giudizio finale: orrifico, chirurgico, spietato.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    19 Mag, 2018
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Le cose straordinarie arrivano in punta di piedi

Il mio commento a Un ragazzo normale attraverso l’intervista realizzata con l’autore, Lorenzo Marone

D - Lorenzo, facciamo due conti insieme: sei nato nel 1974, Un ragazzo normale è ambientato nel 1985 e ha per protagonista il dodicenne Mimì… Quanto assomiglia Mimì all’adolescente Lorenzo?
R – Abbastanza, io non ero così nerd però :-). Ma i libri che ama Mimì sono i miei, i fumetti e i supereroi pure, quel modo di vivere l’adolescenza, sotto casa a giocare con il pallone, è il mio modo, il nostro, di noi ragazzi di quegli anni.

D - “Ho capito che le cose straordinarie, quelle che resteranno per sempre nella tua vita, arrivano spesso in punta di piedi e all’improvviso, senza tuoni e particolari avvisaglie”. I tuoi romanzi sono costellati da queste riflessioni ad alta voce, che diventano una cifra stilistica. L’amore arriva in punta di piedi e non con il fragore del colpo di fulmine?
R – Dipende, credo certamente nel colpo di fulmine, per qualsiasi cosa, anche per una passione, però l’amore è un’altra cosa, ha bisogno di tempo, di essere consumato quotidianamente, per espandersi.

D - “Il grazie più grande lo devo a una donna. Mia madre”, confessa Mimì. Anche tua madre – come quella di Mimì – ti procurava la materia prima per le tue letture?
R – A lei devo il mio essere curioso, l’amore per i libri, per la cultura, per l’arte in generale. Il mio sguardo sul mondo è certamente quello che mi ha trasmesso lei.

D - Il romanzo è pervaso dalla nostalgia diffusa per un’epoca, quella degli anni Ottanta con la colonna sonora di Vasco Rossi. Ritieni che questa nostalgia sia dovuta ai pregi di quel decennio, al fatto che gli anni Ottanta abbiano ospitato la tua adolescenza o al raffronto con i vuoti del decennio presente?
R – Di pregi gli anni ottanta, in realtà, ne avevano pochi, però io nel romanzo li guardo con gli occhi di Mimì, un ragazzino, che poi erano i miei occhi di allora, perciò quasi mi sembra siano stati anni romantici, spensierati, anche se so che non è del tutto così. Sono stati gli anni del disimpegno, l’inizio di una deriva culturale che non sembra avere fine in questo Paese. Se ci avessero detto allora che oggi saremmo addirittura arrivati a rimpiangerli, ci saremmo fatti una risata…

D - “Se vuoi scrivere, devi anche imparare a farti leggere.”
“Non aver paura di cambiare… anzi, fallo spesso, nella scrittura e nella vita”.
“Il finale… potresti lasciarlo aperto a più possibilità. Mica devi per forza trovare una soluzione per far contento il lettore, non tutte le storie hanno un buon finale.”
Sono alcuni consigli che il Giancarlo Siani del romanzo dà a Mimì. Qual è l’incoraggiamento che un autore affermato come te darebbe a un ragazzo che volesse coltivare il sogno di diventare scrittore?
R – Sempre le solite cose, che possono apparire banali, ma sono vere: leggere sempre e tanto, scrivere innanzitutto per se stessi, essere caparbi, sicuri di sé ma mai presuntuosi, e imparare ad accettare le critiche, anche le più feroci, quelle gratuite (e quante ce ne sono). Questa è la cosa più ardua.

http://www.brunoelpis.it/le-interviste/1648-cinque-domande-a-lorenzo-marone

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    12 Mag, 2018
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Far credere al mondo che ce la farai

Suscitano rabbia gli uomini disegnati da Sara Rattaro in Uomini che restano: incarnano lo stereotipo dell’egoista (il Sergio di Valeria), dell’eterno indeciso e irrisolto (il Lorenzo di Fosca) e hanno i loro antipodi nella perfezione paziente e disponibile del medico Ale e del ragazzo-padre Fabrizio.

In un ping pong narrativo tra Valeria e Fosca, le lacrime e i drammi di due donne abbandonate (“La vita è così crudele da sembrare disegnata apposta, così assurda da diventare ridicola”) si dispiegano tra massime prêt à porter (“Ascoltare gli altri occupa il cervello”) ed effetti speciali (“Non puoi distinguere il cielo dal mare se non ti hanno spiegato che cos’è un orizzonte”) a risolvere il quesito di fondo (“Non ci sono abituata… Agli uomini che restano”) di un sistema androcentrico ove la donna oscilla tra isterismi, debolezze e ribellioni sullo sfondo di dilemmi esistenziali (“Lo facciamo tutti in continuazione. Ammazziamo il tempo. Guardiamo film che non ci interessano, aspettiamo che il sole tramonti, navighiamo su internet alla ricerca del nulla. Poi, un giorno, ci guardiamo allo specchio, i capelli sono ingrigiti, i figli cresciuti e improvvisamente ci piacerebbe riavere indietro tutto il tempo che abbiamo buttato”).

In alcune pagine inquietanti vengono raffigurate la tragedia della malattia (“Far credere al mondo che ce la farai. Ecco che cos’è il cancro”) e le contraddizioni di una città (“Mi chiedo se gli uomini che hanno interrato i fiumi siano gli stessi che oggi… Io sono la Superba. Io sono Genova”), mentre alcune rivelazioni finali recano la conclusione apodittica: “Non esiste una sola verità, ne esistono tante versioni. Dipende da cosa sappiamo, da quello che riusciamo a vedere e da quello che abbiamo voglia di ascoltare”.

Giudizio finale: una lettura piacevole che scorre fluida tra gli stereotipi e le loro negazioni.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    08 Mag, 2018
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Commento interattivo

Il mio commento in questa intervista all’autrice del romanzo.

D - Abbiamo dialogato con Ilaria Tuti in occasione del Gran Giallo Città di Cattolica. La ritroviamo oggi autrice di successo con un esordio scoppiettante. Quali sono i sentimenti che ti hanno accompagnato in questa avventura? Che impatto ha avuto sulla tua vita l’attenzione che ti è stata riservata dal pubblico?
Quando da Longanesi mi hanno comunicato l’intenzione di pubblicare il romanzo, nei giorni seguenti sono stata accompagnata da un unico pensiero: speriamo che non cambino idea! Questo per farvi capire quanto riuscissi a crederci.
L’entusiasmo si è accompagnato da subito a un certo timore: timore di non essere in grado di farcela, di ritrovarmi sotto la lente di ingrandimento di molti, di essere parte, da un giorno all’altro, di un mondo che non conoscevo e che era molto distante dalla mia quotidianità. La paura, però, ha lasciato spazio quasi subito a una gioia immensa. È qualcosa di molto intimo, che attiene ai sogni più cari, quelli da cui dipende la felicità vera, la realizzazione e il compimento di una vita.
Vita che è cambiata, si è fatta certo più complicata, ma anche più piena (di valori, di stimoli, di esperienze, di incontri, di gratificazioni). L’attenzione che di colpo si è riversata su di me è stata destabilizzante, perché per natura sono riservata e solitaria, ma mi ha fatto crescere, imparare cose nuove, mi ha messo alla prova. Mi ha dato l’opportunità straordinaria di creare un ponte con i lettori, così ho modo di “sentire” le emozioni che “Fiori sopra l’inferno” ha dato loro.


D - “Fiori sopra l’inferno” si connota per uno spiccato interesse per la criminologia (“La prima è la fase aurorale… La fase puntamento… La terza fase sarebbe quella chiamata di seduzione… la cattura… l’aggressione. L’ultima è la fase totemica: l’assassino cerca di protrarre il più a lungo possibile il piacere”) alla ricerca delle cause profonde di un dolore che accomuna investigatore e ricercato, bambini e adulti, uomini e animali, con un sottofondo di compassione (intesa in senso etimologico). Che origine ha questo interesse?
R - Racconto storie e nella mia testa ho iniziato a farlo molto prima di scrivere i miei primi racconti. Se vuoi raccontare storie devi essere curioso nei confronti della vita e delle persone. Mi interesso agli altri, mi chiedo sempre quale sia la loro storia, da che passato siano stati forgiati, che futuro stiano immaginando e quali passioni li muovano.
La criminologia è una luce potente a nostra disposizione per illuminare le zone più buie e misteriose della mente umana, che è ancora un universo quasi sconosciuto. Mi sono appassionata alla psicologia criminale leggendo i romanzi di Carrisi. È diventata anche una mia passione ed è il motivo per il quale amo scrivere thriller: tra le righe, indago la vita e l’essere umano, i suoi abissi come le vette che può raggiungere.


D - Tra i temi principali e le caratteristiche di “Fiori sopra l’inferno”, l’effetto cromatico delle descrizioni è una cifra del tuo stile: giochi molto sul contrasto bianco-rosso (“Lacrime purpuree scendevano lungo l’intonaco e raggiungevano la neve”) e la neve macchiata dal sangue è un contrasto ricorrente… È una tendenza che deriva dalla tua vocazione artistica anche per le arti figurative?
R - Sì, ho cercato di dipingere con le parole e per farlo ho usato anche tecniche pittoriche: l’alternanza dei colori freddi a quelli caldi per creare contrasti drammatici ma anche tridimensionalità, l’uso delle ombre e delle luci per disegnare quasi a “sbalzo” il paesaggio e i personaggi, l’opposizione tra un colore primario e il suo complementare (il rosso del sangue e il verde del sottobosco) per appagare l’occhio del lettore… Per me è naturale riprodurre con le parole una scena (un quadro) che ho già in mente.

D - Per tua stessa ammissione finale, la natura dei luoghi non è soltanto teatro delle vicende o sfondo: è tessuto vitale (“La foresta millenaria di Travenì risuonava di gocciolii d’acqua e fruscii sommessi, quelli provocati dalla neve che scivolava dalle fronde troppo cariche…”), sorprendente (“La neve aveva cambiato il volto dell’orrido dello Sliva. La gola in cui scorreva il torrente era diventata un regno di ghiaccio”), dolomitico e sfidante il limite (“I laghi gemelli di Flais e poi il confine”). Qual è il tuo rapporto con natura e paesaggio friulano?
R - È un amore riscoperto in età adulta, ma che è nato nella mia infanzia. Ho descritto luoghi reali, che mio padre amava molto e che hanno fatto da sfondo a molti episodi felici di quando ero bambina. Ora che sono adulta mi sono riavvicinata a questi paesaggi e li guardo con il senso di meraviglia di quando ero piccola. La natura è potente, è un cuore pulsante, è mistero che ci circonda. Ho sentito l’esigenza di trasmettere al lettore la mia fascinazione, il legame profondo che sento con la mia terra. Spero di esserci riuscita.

D - Nel romanzo c’è poi una sorta di attrazione per l’essenzialità primitiva, che viene ricercata sia nell’uomo (“Echi di culti della fertilità pagani… Secondo la leggenda, la notte di San Nicola i Krampus vagavano alla ricerca dei bambini cattivi”), sia nella natura, sia nel riferimento culturale al “mana”: è indice di pessimismo, desiderio di ritorno alle origini, o che altro?
R - È quanto di più lontano dal pessimismo: è forza, potenza, energia primigenia. È un invito a riscoprire ciò che in noi è ancora intatto e puro. Il “mana” è la forza creatrice, vitale. Sondare le origini – anche nel senso di lato più istintivo e meno addomesticato – non significa fare un passo indietro, ma scoprirsi più forti: quando le radici affondano in profondità, siamo più saldi.
Significa conoscersi, accettarsi, convogliare le energie in un processo creativo e costruttivo. Siamo qui per lasciare qualcosa e quel qualcosa non può reggersi in piedi se le fondamenta non sono solide. Paradossalmente, è proprio la parte più legata alla sua natura a elevare l’essere umano spiritualmente, a fargli desiderare l’”infinito”.

http://www.brunoelpis.it/le-interviste/1647-cinque-domande-a-ilaria-tuti

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    10 Aprile, 2018
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La sera è la parte più bella della giornata?

Il maggiordomo Stevens – protagonista assoluto di Quel che resta del giorno di Kazuo Ishiguro - rivede la propria vita trascorsa al servizio di Lord Darlington quando la prestigiosa proprietà viene rilevata da un ricco americano nel secondo dopoguerra: in quest’epoca di sconvolgimenti sociali (“La nostra generazione… vedeva il mondo non come una scala, ma come una ruota”) la professione di Stevens subisce contraccolpi e vengono messi in discussione il ruolo e l’identità di un uomo che della fedeltà, della dignità e del sacrificio ha fatto essenza di vita.

Così, al mondo popolato da lacché (“il problema della lucidatura dell’argenteria”) e gentiluomini e sotto il dominio imperante di Sua Signoria si oppone la nuova visuale che si dischiude a Stevens durante un viaggio-premio da Oxford alla Cornovaglia, in un paesaggio inglese che è misura e compostezza in antitesi a “quegli spettacoli naturali… che si offrirebbero all’attenzione dell’osservatore oggettivo come inferiori proprio per quel loro indecoroso esibirsi”. Il viaggio ha una meta finale: l’incontro con la ex governante di Darlington Hall, una donna che rappresenta la rinuncia all’amore, consumata da Stevens in nome di un ideale superiore (“Fornire il miglior servizio possibile a quei grandi gentiluomini nelle cui mani è riposte davvero il destino della civiltà”).

Il senso della misura e della dignità in qualche modo amplificano, nella percezione del lettore, l’impatto dei sentimenti sempre controllati e soffocati da Stevens: l’amore per il padre (“Come se si augurasse di ritrovare un gioiello prezioso che aveva perduto in quel punto”) da praticare con ostinazione nonostante la decadenza fisica del genitore e durante gli impegni del convegno del 1924; la fedeltà verso lord Darlington anche quando sul nobile aleggiano sospetti politici infamanti (“Sir Oswald Mosley, la persona che fu a capo delle camicie nere, era stato ospite a Darlington Hall, io direi, in non più di tre occasioni…”).

Il finale del romanzo è particolarmente triste e struggente, fitto di domande che irradiano una luce malinconica sulle prospettive di un’esistenza il cui senso vacilla pericolosamente (“Dopotutto che cosa c’è mai da guadagnare nel guardarsi continuamente alle spalle e a prendercela con noi stessi se le nostre vite non sono state proprio quelle che avremmo desiderato?”) sotto i colpi della crisi d’identità.

Giudizio finale: finemente struggente, potentemente malinconico, sottilmente ironico.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Aprile, 2018
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Il Vangelo secondo Maria

Lei è Maria, “Sede della Sapienza, Causa della nostra letizia, Tempio dello Spirito Sabto, Tabernacolo dell’eterna gloria, Rosa mistica, Regina dei martiri…”, affrescata da Mariapia Veladiano nella sua essenza di donna, che vede il Figlio non come divinità, ma come essere umano – un neonato, un bambino, poi un giovane originale e particolare - nel ruolo di madre.

Eventi evangelici come la strage degli innocenti, la fuga in Egitto (“Sono stata straniera in Egitto. Clandestina, ricercata dalle guardie di erode, ogni ombra era una minaccia. La notte tenevo il Bambino attaccato al seno perché nemmeno un gemito turbasse il silenzio… I predoni… hanno alzato il pugnale ma poi i loro occhi si sono posati sul Bambino e allora hanno lasciato cadere il pugnale ai suoi piedi e sono scappati lontano”), la disputa con i dotti del tempio di Gerusalemme, l’eremo nel deserto… sono narrati da questa particolare angolatura, umana e mistica al tempo stesso, che – pur cogliendo la straordinarietà del Bambino – anela a una dimensione di normalità (“Chiedo una vita normale, per te una vita normale”) che tuttavia confligge con il destino assegnato dal mistero religioso e con la storia.

La forma mista dell’esposizione, sempre oscillante tra prosa e poesia, soffonde la narrazione di atmosfera sacrale.

Giudizio finale: materno, sofferente, evangelico.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    31 Marzo, 2018
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Tutto è in vendita, me l’ha detto il babbo

La storia del matrimonio tra Constance, L’estranea di Patrick McGrath, e Sidney è la confluenza di due opposti bisogni: da un lato (Constance) il desiderio di avere un padre da amare e mitizzare, protettivo, rassicurante; dall’altro lato (Sidney) la voglia di riscattare una duplice esperienza coniugale fallimentare, di assegnare una madre al proprio figlioletto, di salvare dal precipizio una personalità fragile e confusa (“Ma non sapeva ancora cos’aveva fatto, o cos’era, cosa rappresentava per lui, se non un’estranea che casualmente viveva sotto il suo stesso tetto: una trovatella”).

Se le nozze sembrano la foce naturale di queste esigenze convergenti, nella realtà il rapporto tra Constance e Sidney – entrambe voci narranti – si avvita su se stesso tra il senso dell’estraneità (“C’era un’atmosfera di rabbiosa intoccabilità, che mi interessava molto, e che secondo me nascondeva uno spaesamento e una ingenuità intimoriti”), i fantasmi del passato che aleggiano sulla vita di Constance, le furie della vendetta, dell’invidia (“Io dovevo prendere il posto di Iris e Constance avrebbe smesso di esistere”) e della rivincita, i lutti concatenati che affliggono Constance – ma anche Sidney - con sinistra ricorrenza.

Il romanzo scorre tra la doppia prospettiva che assume i toni ora della confessione, ora dell’analisi, ora della cronistoria biografica (“Continuo a non capire questa tua rabbia… Non so. Non ho voluto studiare medicina”), sullo sfondo della solita casa gotica (“La vecchia casa con la sua torretta su una collina lungo il fiume, e quella bellissima ragazza, chiaramente in fuga da chissà quali orrori patiti laggiù”) onnipresente nei romanzi di McGrath a rappresentare il sinistro e nebuloso passato che ha impresso traumi e lividi.

Giudizio finale: estraniante ed estraniato, alieno, psicanalitico.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    21 Marzo, 2018
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L’uomo fa progetti, Dio ride

Qual è l’Origin dell’uomo?
E qual è il destino antropologico?
Possiede le risposte a questi due enigmi cosmogonici, esistenziali e filosofici Dan Brown o meglio il futurologo ateista Edmond Kirsch, protagonista del romanzo insieme al professore Robert Langdom (“Kirsch gli aveva chiesto lumi sui principi fondanti delle varie religioni del mondo, in particolare sulle differenti teorie della Creazione”), questa volta appaiato ad Ambra Vidal, futura regina di Spagna, nell’indagine che porterà a svelare la password dietro la quale vengono custodite le risposte ai due quesiti chiave dell’umanità terrestre (“Quindi l’annuncio vero e proprio è preregistrato? Come l’introduzione?”).

Da dove veniamo? Panspermia? Abiogenesi? E come mai l’esperimento di Miller-Hurrey ha fallito nel riprodurre in laboratorio la genesi del mondo a partire dal brodo primordiale?
Come vedete, i dilemmi non sono di poco conto.
E lo sviluppo tecnologico, sempre più consegnato alle intelligenze artificiali, come interferisce con il futuro dell’uomo?
Se le domande sono voluminose, le risposte di Dan Brown alias Edmond Kirsch saranno altrettanto aliene dalla banalità?
Una cosa è certa: le risposte implicano un inasprimento del conflitto tra religione e scienza (“Innumerevoli dei hanno colmato innumerevoli vuoti… a mano a mano che le lacune nella nostra conoscenza del mondo scomparivano, il nostro pantheon cominciò a ridursi”), con sacrifici umani sul campo di battaglia (“L’evento… un attacco frontale alla religione e … un omicidio in diretta”), come già avvenne ai tempi di Galileo e Giordano Bruno…
Le risposte inoltre richiedono abilità cruciverbial-enigmistche da solutori più che abili, perché la password d’accesso sembra essere nascosta in un verso di William Blake.

Giudizio finale: complottista, deista, scientista, iberico.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    17 Marzo, 2018
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Io ti chiamerò col mio

Chiamami col tuo nome di André Aciman è la fenomenologia del rapporto omoerotico tra Elio, diciassettenne figlio di un professore che nel periodo estivo ospita studenti nella propria villa in riviera ligure, e Oliver, ventiquattrenne americano che fin da subito colpisce le attenzioni dell’adolescente.
La prima parte (intitolata “Se non dopo, quando?”) è dedicata a pensieri, emozioni e scoperte che portano Elio a realizzare di essersi innamorato di Oliver (“La risposta… mi colpì dritto in faccia come uno di quei pupazzi a molla dal sorrisetto malefico che schizzano fuori dalla scatola appena la apri. «Dopo.»”).

La seconda parte (“La collina di Monet”) analizza l’esplosione della passione tra riti estivi, passeggiate (“Qui… ci veniva Monet a dipingere”), dialoghi, letture e nuotate. Il sentimento si carica delle tinte forti della gelosia, del feticismo, dell’identità fusionale tra gli innamorati (“Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio”).

Nella terza parte (“La sindrome di San Clemente”) Elio e Oliver vivono gli ultimi giorni della passione e della vacanza estiva a Roma (“Il sogno era esatto, era come tornare a casa, come chiedersi: Dove sono stato finora?”). I giorni a loro disposizione stanno per terminare…

La quarta parte (“I luoghi dello spirito”) narra il resto della vita dei due ragazzi: alcune occasioni per ritrovarsi, il significato dell’esperienza vissuta in gioventù, il valore dei ricordi (“Svolazzina. E riconobbi anche il costume da bagno. Rosso”)…

Giudizio finale: analitico, generalmente struggente ed elegiaco, in alcuni punti esplicito e rovente.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    10 Marzo, 2018
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Un kit perfetto. Da Ikea dei clandestini

Il piccolo Enaiatollah lascia l’Afghanistan per sfuggire le persecuzioni alle quali sono sottoposti gli hazara ad opera di talebani e pashtun. Custodisce nel cuore pochi consigli che la mamma gli ha impartito: “Tre cose non devi mai fare nella vita… La prima è usare le droghe…. La seconda è usar e le armi… La terza è rubare.”

Il romanzo è il racconto che il piccolo riversa sullo scrittore Fabio Geda e narra il lungo, pericoloso viaggio attraverso Pakistan, Iran, Turchia, Grecia, per raggiungere l’Italia con il miraggio di un futuro migliore.

È una selezione spietata quella che designa la sopravvivenza dei migranti. Il piccolo Enaiat la vince grazie all’intraprendenza, alla determinazione e a qualche piccolo espediente.

L’avventura è coinvolgente, non può lasciare indifferenti e induce riflessioni sui mali e sulle sperequazioni che affliggono il nostro pianeta. Particolarmente toccanti sono il viaggio attraverso i monti della Persia e della Turchia e la traversata di un drappello di ragazzini verso la Grecia, su un gonfiabile che è “Un kit perfetto. Da Ikea dei clandestini”.

Dopo tanto peregrinare, perché fermarsi in Italia? “Come si trova un posto per crescere, Enaiat? Come lo si distingue da un altro? Lo riconosci perché non ti vien voglia di andare via.”

Giudizio finale: commovente, emozionante, ci sprofonda nella vergogna e ci rinfaccia lo scandalo che quotidianamente si consuma nell’indifferenza o, peggio ancora, nel razzismo. Ci interroga infine sull’utilità di certi libri, che magari hanno anche successo commerciale…

Bruno Elpis

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Libri per ragazzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Marzo, 2018
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Il futuro lo fa

Armando è un ragazzo che narra di sé, del primo amore, della crisi coniugale di papà e mamma, del fratellino Andrea, un bambino con mille interessi personali, ma con scarsa propensione a relazionarsi agli altri. Andrea vive in un mondo tutto suo e ama il wrestling perché a questo sport riconduce la schematica rappresentazione della contrapposizione tra buoni (“Gabriel in arte Wild Angel comparve al centro del ring”) e cattivi (“Hellbroke, il nemico del buono, il rivale dell’ho-sempre-ragione-io”).

E proprio quando il piccolo Andrea ottiene di assistere al match che vede il suo idolo contrapposto al cattivo di turno… per una caso la mamma viene ingaggiata come lottatrice e da lì parte un’avventura che rivoluziona gli schemi e mette in dubbio le certezze dei ragazzi (“E meno male che la passione per i manga è solamente un ripiego!”).

L’avventura – tra le registrazioni clandestine dei dialoghi tra adulti (“Cosa avremmo trovato dentro quell’accidenti di registratore?”) e le vicissitudini del gatto Arcangelo – converge verso Un grande spettacolo in territorio pugliese, ove i ragazzi avranno modo di verificare sentimenti e ruoli.

Patrizia Rinaldi conduce la narrazione senza rinunciare al proprio desiderio di esprimere per bocca dei bambini idee (“Il successo è sopravalutato”), emozioni, considerazioni e trovate (“Il futuro ci avrebbe sorpresi. Il futuro lo fa”).

Giudizio finale: pugilistico, polarizzato tra buoni-cattivi e adulti-bambini, mai convenzionale.

Bruno Elpis

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Romanzi storici
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    18 Febbraio, 2018
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Quell’ordine di cui siamo meri strumenti

Biografia romanzata ed epistolarizzata del primo imperatore di Roma, Augustus di John Williams muove l’azione dalla notizia dell’assassinio di Giulio Cesare, che raggiunge il figlio adottivo Ottaviano in Grecia, ove il giovane si trova con gli amici Agrippa e Mecenate (“Faremo come dice Mecenate… salperemo per l’Italia il più in fretta possibile”).

Nei primi due libri dell’opera, le lettere di molteplici mittenti delineano giudizi (Cicerone: “Il ragazzo non vale nulla, e non dobbiamo temere alcunché”) sulla figura dell’imperatore, espressi da antagonisti (Antonio: “Comunque, almeno in parte, è idiota per davvero: perché si dà delle arie dannatamente presuntuose per essere un ragazzo, per giunta nipote di uno strozzino e con un cognome preso in prestito… Non capirò mai cosa abbia spinto il grande Cesare a fare di quel giovane l’erede del suo nome, del suo potere e della sua fortuna”), amici e letterati.

Nelle stesse epistole, vengono delineati gli eventi (“La posizione di Antonio… è troppo ambigua. Vuole vendicare il delitto, come noi? O vuole solo prendere il potere?”) che dal triumvirato di Ottaviano-Antonio-Lepido (“So che non agisce mai per passione o per capriccio. Ha il sangue freddo di un rettile, e per questo dovrei quasi ammirarlo”), attraverso le battaglie di Filippi e Azio contro la flotta di Cleopatra, vedono Augusto divenire il signore di un impero che ebbe un precedente pari forse soltanto in quello conquistato da Alessandro Magno.

Introverso (“Non hai trovato la felicità… pur avendola data agli altri”), dotato di grande senso della politica, della diplomazia e del compromesso, Ottaviano concepisce anche la vita privata al servizio di quella pubblica, al punto da congegnare i matrimoni suoi (con Scribonia e Livia) e della figlia Giulia (con Marcello, Agrippa e Tiberio) in funzione della ragion di stato (la sorella Ottavia: “Ciò che chiamiamo matrimonio, tu m’insegni, è solo una schiavitù necessaria”). Particolarmente intenso, il profilo di Giulia si staglia dall’esilio sull’isola di Pandataria (“Io, Giulia, figlia dell’imperatore, venni accusata di adulterio al cospetto del senato, nonché di aver violato le leggi sul matrimonio che mio padre aveva promulgato con un editto quindici anni. Addietro. Ad accusarmi fu mio padre stesso…”), ove Ottaviano la confina (“Non verrai processata per alto tradimento. Ho scritto una lettera che leggerò in Senato. Sarai accusata di adulterio in base alle mie leggi, e verrai esiliata da Roma e dalle sue province. È l’unico modo. L’unico modo per salvare te e Roma”) a scontare la sua pena d’amore per il cospiratore Iullo Antonio (“Venni condannata all’esilio: e in tal modo mi fu risparmiata l’accusa di alto tradimento nei confronti dello Stato, che avrei pagato con la morte”).

Il profilo di Ottaviano rimane in controluce nei primi due libri, con il suo amore per le lettere (di Tito Livio, Orazio, Tibullo, Virgilio, Ovidio) e per Roma, ma poi si afferma nel terzo libro (“L’imperatore soffrirà come si conviene a un imperatore. Ma cosa ne sarà del dolore dell’uomo?”) nella lunga lettera che l’imperatore scrive a Nicola di Damasco durante l’ultimo viaggio verso Capri (“Quando leggo quelle opere e scrivo di me stesso, mi pare di leggere e di scrivere di un uomo che portava il mio nome ma che quasi non conosco”) per delineare “la caricatura di se stesso in cui ogni uomo finisce col trasformarsi”.

Giudizio finale: epistolare, romanzato, celebrativo.

Bruno Elpis

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Arte e Spettacolo
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Febbraio, 2018
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Le uccisioni vecchie e nuove

Affabulazione di Pier Paolo Pasolini è una tragedia nella quale si amalgamo gli echi del dramma sofocleo, l’esperienza personale del difficile rapporto che il poeta di Casarsa ebbe con il padre (“I due casi più comuni: cioè quello in cui il padre ignora, e quello in cui il padre odia il figlio…. Restano da considerare ora i padri che non ignorano né odiano i loro figli. Ce n’è di due specie: coloro che fingono di amarli in modo diverso da quello in cui li amano; e coloro che fingono di amarli semplicemente perché non li amano”), la sensibilità epocale per i contrasti tra generazioni.

“Non gliene importava niente di me,
e di tutte le uccisioni, vecchie e nuove,
che legano un padre e un figlio…”

Pasolini sovverte lo schema classico del conflitto edipico: l’amore incestuoso muta il proprio verso, orientandosi in linea retta discendente dal genitore al figlio anziché in direzione ascendente, e ribalta il senso del complesso psichico, che nel dramma intercorre tra congiunti dello stesso sesso anziché di sesso opposto.

“I padri, sappilo, sono tutti impotenti: qualunque
sia la loro espressione e il loro portamento
altro non leggi nella loro persona
che la coscienza non ammessa della loro impotenza.”

Pasolini infrange i tabù delle violazioni primarie, i principi della tradizione familiare e l’ordine generazionale, sfidando ogni limite della proibizione etica e dell’interdizione sociale, varcando i confini della sacralità intangibile dei vincoli familiari, delle regole sociali, della vita stessa.

Giudizio finale: figlicida, dinastico, disperato.

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Febbraio, 2018
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Dal severo profilo di una forca

La città fantasma di Patrick McGrath è composto da tre racconti (L’anno della forca – Julius – Trade Center), uniformati dall’ambientazione newyorchese in tre epoche (1780 – 1859 - 2001) parimenti spettrali (guerra per l’indipendenza – guerra di secessione – twin towers).

Ne L’anno della forca il narratore rivive la tragedia della condanna capitale della madre, accusata di tradimento (“La sua conversazione con il generale Washington”) e catturata insieme ai figli (“L’ufficiale le chiese il motivo del viaggio a Newark”) dalle giubbe rosse inglesi. Il rimorso per non averla salvata (“Se io non mi fossi lasciato intimorire e avessi raccontato all’inglese una semplice bugia, tutto sarebbe finito bene”) proietta il fantasma della madre (“Incontrai lo spettro della mamma – e non solo una volta, ma ripetutamente”) nella realtà difficile del figlio sopravvissuto.

In Ground Zero la voce narrante è quella della psicanalista che cura Dan (“L’impatto dell’attacco terroristico sulla sua psiche era stato talmente distruttivo da riportarlo a uno stadio di organizzazione libidica primitiva. Non si limitava a pagare il sesso, ma remunerava anche una sorta di intimità emotiva spuria con una donna più disperata di lui”), innamorato di una prostituta (“Mi sentivo impegnata in una lotta all’ultimo sangue con la prostituta Kim Lee, una battaglia per la salute mentale di Danny Silver”) nell’atmosfera buia dei giorni successivi all’attacco al Trade Center, quando ci si interroga (“Provai rabbia: la cieca e primitiva rabbia distruttrice che forse aveva spinto quegli individui ad attaccarci in quel modo”) e si vive sotto una minaccia perenne (“In America siamo oggetto di un attacco bioterroristico”).

Giudizio finale: spettrale, diacronico, preferisco il McGrath romanziere.

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Febbraio, 2018
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Il “giovane pintor grande, la sua pirata”

Vera Savage e Jack Rathbone (Il “giovane pintor grande, la sua pirata”) sono anime inquiete: si sono conosciuti a Londra e, dopo aver fatto tappa a New York, riparano a Port Mungo, Caraibi (“Vagava per i Caraibi insieme a una donna difficile, con la quale aveva una rovente e complicata storia d’amore”), alla ricerca dell’ispirazione artistica che consacri al successo definitivo l’ambizioso ed esibizionista Jack.

La relazione burrascosa e tormentata tra i due artisti viene narrata da Gin, sorella di Patrick, di lui infatuata (“Si era presa l’uomo che amavo”).
A Port Mungo Jack elabora una tecnica pittorica primitiva (“I suoi quadri malarici”), essenziale (“Ricordavo i colori spessi e fragorosi dei dipinti di Port Mungo, lo sguardo rozzo del primitivista, o meglio del tropicalista”) e violenta, ispirandosi a un modo di vivere rudimentale (“L’odore della carne macellata si mescolava alla fragranza della papaya e del mango”) e selvaggio (“Osservai un uomo sventrare un’iguana con un machete”), mentre Vera dà libro sfogo al suo temperamento infedele e vagabondo, tra fiumi di gin e rum.
Così su Jack incombono i doveri familiari nei confronti delle due bimbe nate dall’amore tormentato.
Ma la primogenita Peg muore tragicamente e la sua morte ricorre come ossessione (“Sogno dell’acqua bassa”) nei quadri del padre (“Posizione di Narciso”) in un nuova fase creativa (“La violenza con la quale aggrediva le tele: praticamente le violava”).
La secondogenita Anna, sottratta alla potestà per manifesta “irresponsabilità criminale” dei genitori dopo la morte di Peg, torna a New York dal padre, determinata a scoprire la verità…

La storia che racconta Gin corrisponde a verità?
E Jack è davvero il grande artista che la sorella tratteggia (“Aveva creato uno stile chiamato tropicalismo”)?
Come sempre, Patrick McGrath indaga i rapporti umani e le trappole della psiche con ambivalenza narrativa, diffondendo sulla storia chiaroscuri gotici e ombre proiettate da rielaborazioni e distorsioni dei complessi di Narciso, Elettra (figlia-padre), Mirra (padre-figlia), Antigone (sorella-fratello).

Giudizio finale: tropicalista, bohèmien, inquietante.

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Febbraio, 2018
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Le mucche inventano giochi

È uno dei titoli dei paragrafi de La vita segreta delle mucche di Rosamund Young, opera foderata con l’albero genealogico di mucche, vitelli e torelli che si sono avvicendati nella fattoria Kite’s Nest, un bell’esempio di come un allevamento sostenibile possa contrapporsi con successo alla crudeltà degli allevamenti intensivi che troppo spesso sono veri e propri lager ove i poveri capi vengono maltrattati e sono costretti a vivere in condizioni vergognose (“Ricordate che gli animali sono infelici solo quando è l’uomo a renderli tali” - W.H. Hudson).

Per notificare al mondo che non serve essere aguzzini per condurre un allevamento, dopo una prefazione che induce il lettore a leggere il resto dell’opera animato dalla compassione verso gli animali seviziati a fine di lucro, l’autrice decide di passare dalla tradizione familiare orale a quella scritta (“Tra i primi ricordi che ho ci sono i miei genitori che raccontano storie di cui sono protagonisti mucche o maiali, galline o uccelli selvatici. Spero di continuare in questo libro quanto è iniziato come tradizione orale”).

La filosofia di fondo della fattoria è improntata al rispetto dell’animale (“Trattare tutti i membri della mandria come quegli individui diversi e stimolanti che effettivamente sono”) e del suo istinto (“Sono abbastanza sicura che, quando ce n’è bisogno, i nostri animali vadano alla ricerca di quelle piante che possono aiutarli a guarire da una malattia o in caso di lesioni”), con generale fiducia nelle soluzioni naturali (“Gli animali tendono a mangiare grandi quantità di foglie di salice se hanno subito una lesione o sono feriti: una preferenza forse collegata all’origine dell’aspirina, che infatti è a base dell’acido salicilico").
Vengono riportati episodi, abitudini, eventi – spesso parti - che hanno come protagonisti gli animali domestici, sempre individuati per nome (Cuffietta) e per carattere (“Per tutta la sua lunga vita è riuscita a rivolgerci una gran quantità di domande con una vasta gamma di sguardi”).

Chiudono il libro quattro rubriche: le venti cose da sapere sulle mucche (“Le mucche sanno essere gentili”), sulle galline (“Le galline hanno bisogno di avena nella loro dieta”), sulle pecore (“Le pecore hanno la memoria molto lunga”), sui maiali (“Ai maiali piace farsi aspettare”).

Giudizio finale: biologico, zoomorfo, georgico.

Bruno Elpis

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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Febbraio, 2018
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Contos pro mannos e monores!

Il venditore di metafore di Salvatore Niffoi è “un contadino bovaro che all’improvviso decide di camparsi andando in giro a raccontare storie.”
Girovaga attraverso la Sardegna più selvatica, di tappa in tappa in una Barbagia talvolta trasfigurata, spesso crudele e blasfema. Quando arriva in un paese si annuncia con un grido da imbonitore (“Conros, contos pro mannos e monores! Avvicinatevi gente! Mille storie in una sola, tutto il mondo in punta di parola!”) e attira le attenzioni della gente.

Il personaggio del cantastorie Matoforu è l’espediente narrativo per una rassegna di racconti infarciti di espressioni sarde. Si alternano così le figure del sacrestano costretto a vivere da eremita dalle maldicenze che lo ritraggono sacrilego e scellerato, del carabiniere stolto (“unu maccu in divisa”), del “su cariadore”, l’aggiustatore di ossa dal cuore infranto e tanti altri personaggi con le relative storie.

I nomi dei luoghi sono immaginari (Bruccunei, Bidulasa, Gulasicca…), spesso sono toponimi come Thilipirches (cavallette).

Il cantastorie trae continui spunti dal suo girovagare, dalle persone che conosce e dall’esperienza del viaggio. Per concludere il suo ciclo vitale, Il venditore di metafore dovrà tornare da “Anzelina Bisocciu sa cantadora”.

Le storie sono coinvolgenti? Sì, a giudicare dall’attrattiva che esercitano sul pubblico dei paesani…

Giudizio finale: barbaricino (aggettivo caro all’autore) e ogliastrino, folk, itinerante.

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Febbraio, 2018
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Aveva una doppia vita

Per Manuel, scrittore di successo (“Sei un ottimo scrittore, per la tua capacità di nasconderti nel tuo palazzo dalle infinite stanze e, da lì, tirar fuori una storia dietro l’altra”), è doloroso scoprire in occasione della prematura morte dell’amato Alvaro che questi gli ha sempre mentito (“Aveva una doppia vita”).

Risalire nel passato della persona amata può riservare spiacevoli sorprese (“Un’azienda enorme, una famiglia aristocratica, un cattolico praticante e un puttaniere”) e svelare segreti angosciosi. Soprattutto se le radici familiari affondano in un terreno minato dall’ipocrisia delle convenzioni nobiliari e se i componenti della famiglia - il marchese Muniz de Davila e sua moglie detta “il corvo”, Santiago e Catarina, Fran ed Elisa - nascondono segreti inconfessabili e nutrono sentimenti equivoci. Soltanto il piccolo Samuel sa effondere un po’ di sincerità verso il nuovo erede universale designato dal testamento dello zio defunto.

Ma Manuel vuole a tutti i costi dissipare i sospetti d’infedeltà (“Non portava la fede?”) per riabilitare la memoria del suo rapporto amoroso (“E all’improvviso un cane bastonato, una vigna ripida e una puttana con la faccia da bambina erano un balsamo che leniva il dolore”). L’operazione è complicata perché la tenuta As Grileiras è dominata dagli intrighi di famigliari e servitù (“Lavorano alla tenuta: il custode e il veterinario, l’aiutante di Catarina nella coltivazione delle gardenie, Herminia, la governante… e Sarita che l’aiuta nelle faccende domestiche”).

Tanta carne al fuoco, tanti colpi di scena, tanti morti. Sicuramente troppi. In una famiglia ove l’amore sembra dimenticato da Dio e dagli uomini.

Giudizio finale: intrigante, troppo intrigante, attenzione a non cadere vittima degli intrighi…

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    30 Gennaio, 2018
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La vita è uno stato mentale

Il maestro Corrado Lazzari, protagonista del romanzo di Francesco Carofiglio, è la solita storia d’amore – filone piuttosto sfruttato nella narrativa, ma anche nelle canzoni – tra docente e discente?

Corrado Lazzari è stato un grande in campo artistico e, per l’egocentrismo tipico di molti artisti, ha forse distrutto la sua storia d’amore con Francesca.
Si ritrova solo (“Non tornerà mai in scena”), anziano, a rimpiangere i fasti (“Ripiegata accuratamente tra i fogli, ritrova la locandina dello spettacolo”), il prestigio (“Quella volta andò a vederlo anche Sartre”), il carisma (“Una volta incontrò anche Genet”) e il successo del tempo che fu.
Alessandra è una giovane studentessa (“Faccio una tesi sulla storia della messa in scena di Shakespeare in Italia”), porta il pranzo al maestro e uno squarcio di sentimento (“Alessandra è il suo pubblico”) nella solitudine del vecchio.

Il sottofondo è malinconico e amaro (“Non è mai presto. Quanto tempo perduto a immaginarsi il futuro. Quanto tempo passato a consegnare la vita a un futuro perfetto, mai avverato. Non è mai presto, ma è tardi. Te ne accorgi quando è tardi”), la storia è imbastita sulle opere di Shakespeare e sorretta da citazioni (“La fantasia è un posto dove ci piove dentro” - Calvino), lo stile ha i toni della sceneggiatura, è molto dialogato (con frequente ricorso alle sospensioni del tipo «…») e con qualche frase d’effetto (“La vita è uno stato mentale”).

Ma allora, riprendendo la domanda iniziale, è la solita storia tra docente e discente? Sì, secondo me manca qualche guizzo che potrebbe differenziare la storia...

Giudizio finale: sceneggiato, agrodolce, citazionista.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Gennaio, 2018
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Una ghirlanda mirabile calata sulla testa

Cosa combina Aldo Busi ne Il Decamerone di Giovanni Boccaccio? Risponde lui nella prefazione: “Ho tradotto il Decamerone di Giovanni Boccaccio, non ho scritto il mio”. Il fine è quello di rendere il Decamerone fruibile a tutti, soprattutto a coloro che storcono il naso dinnanzi all’idea di leggere un libro scritto nel volgare del ‘300.

L’orditura dell’opera è nota: a Firenze infuria la peste, ciascuno si protegge (“Schivare e tenere alla larga gli infetti e le loro cose”) e si difende come può (“L’unica medicina contro un male così radicato era alzare il gomito più che si poteva, godersela a squarciagola in giro dando sfogo a tutte le voglie”). Sette fanciulle (Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile, Elissa) e tre giovani (Panfilo, Dioneo, Filostrato) di buon lignaggio si rifugiano in un’amena villa sui colli fiorentini e lì si trastullano e trascorrono il tempo raccontandosi storie.

Ogni giornata ha il suo sovrano (“Una ghirlanda mirabile che, una volta calata sulla testa, fu in seguito considerata il simbolo della sovranità dell’uno sugli altri”), che sceglie l’argomento delle dieci narrazioni quotidiane. Così, ad esempio, nella sesta (“Sotto la reggenza di Elissa, si parlerà di chi ribatté una provocazione con un sol colpo di spirito e di chi con una rispostina pepata o con un immediato raggiro mise rimedio a una perdita, a un rischio o a uno scorno”), nella settima (“Sotto la reggenza di Dioneo, si parlerà delle beffe che le donne, o per amore o per non vedersela brutta, organizzano contro i loro mariti, senza che questi se ne accorgano o no”), nell’ottava (“Sotto la reggenza di Lauretta, si parlerà degli scherzi che una donna gioca a un uomo, o un uomo a una donna, o un uomo a un uomo”) e nella decima giornata (“Sotto la reggenza di Panfilo, si discorre di chi ha fatto qualcosa di nobile e di generoso in faccende d’amore o in altri campi”), ma non nella nona quando “sotto la reggenza di Emilia, ognuno racconta quello che gli pare e piace”.

Il risultato? La traduzione di Busi pullula di inglesismi (“Con tutti quei falsi status simbol in giro”), neologismi (“Molto chic”), forzature linguistiche (“Cane della Scala… è stato dei VIP più in vista”) e ardimenti lessicali (“Un maniaco dell’alta gradazione, neanche fosse Veronelli”) che sono in attrito con lo spirito e il costume trecentesco (“L’insolito taglio punk”).
Boccaccio, che si rivolti nella tomba o che plauda alla diffusione della sua opera, guarderà comunque con benevolenza all’anticlericalismo (“Se va a Roma, alla corte papale, e vede che vita da bagasce fanno questi preti”) e all’erotismo di Aldo Busi?

Giudizio finale: enciclopedico, reviviscente, meritorio.

Bruno Elpis

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Il Decamerone di Boccaccio
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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    20 Gennaio, 2018
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Tutte le vite meritano compassione

Manuale per ragazze di successo è una silloge di racconti di Paolo Cognetti nei quali la donna è narratrice o comunque protagonista dei disagi, delle evoluzioni sociali del rapporto di coppia, dei successi economici o delle difficoltà che la generazione dei cosiddetti millenials deve affrontare.

Così, nel primo racconto (Educazione e cortesia in mare) la giovane narratrice analizza la fine del rapporto con Nicola durante il viaggio che la coppia intraprende verso il sud per partecipare al matrimonio della madre. I rapporti falliscono per il classico dilemma tra uguali e opposti? (“Due persone devono avere almeno una decina di cose importanti in comune, per stare davvero bene insieme… Tutti siamo affascinati dal nostro opposto, ma quella è attrazione erotica, ma… due veri amanti devono essere uguali…”).

Nel quarto racconto (Fare ordine) Sara è una photo editor che cerca invano di partecipare i propri problemi lavorativi al compagno, che invece l’ha appena tradita e s’interessa piuttosto dell’auto che intralcia il percorso del tram (“La campana del tram batte quattro colpi a ripetizione. Din din din din”).

In “Tre bambine non possono giocare insieme”, una giovane ereditiera alla vigila della maggiore età, con la propria compagna e nell’agriturismo paterno, ripercorre il ciclo economico di una famiglia del nord est. Il nonno ha venduto le sue terre e si è imbarcato in un’impresa fiorente: partito come ciabattino, ha commercializzato prima anfibi e poi ha fatto fortuna brevettando scarpe di gomme. I figli hanno venduto l’azienda e hanno fallito. Toccherà a lei riscattare le sorti familiari?

“Orientarsi con le stelle” è ambientato nell’autogrill di Modena Nord: ai ritmi del traffico sulle due carreggiate dell’autostrada, il compagno gommista assiste alla carriera di Bet (“Date a una donna una carriera e vedete quello che succede”) e ne paga le conseguenze.

“La ragazza che sei stata” (“Avevo un lavoro a Malpensa, oltre a un paio di amanti: consegnavo le valigie smarrite…”) decide di cambiare vita e interrompe con violenza la sua relazione con Marco, quando l’insoddisfazione finalmente scatena in lei il desiderio di reagire (“Cercavo un buon ricordo nella mia vita adulta. Non mi veniva in mente niente”).

Un sottofondo di tristezza, d’incompiutezze e di angoscia pervade l’opera sino alla conclusione (“Tutte le vite meritano compassione. Se c’è qualcosa di buono, è che ogni vita perdente è una storia e questa è la mia”).

Giudizio finale: generazionali, vagamente sociopatici, questi racconti stanno forse alla base della fuga in montagna di Cognetti?

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    13 Gennaio, 2018
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Harry si era schierato con i ribelli

Con Martha Peake, Patrick MacGrath sperimenta il tentativo di coniugare horror e romanzo storico. Ne esce un feuilleton eterogeneo, a tratti barocco.

La storia narra le vicissitudini di Harry (“Gli erano cresciuti i capelli e la barba, e pareva un selvaggio, una grossa creatura pelosa e ingobbita, dallo sguardo ardente ed esagitato”), poeta maledetto e sfortunato (“L’americano nello spirito”), che fugge dalla Cornovaglia a Londra, ove campa con l’amata figlioletta Martha esibendo in pubblico la propria deformità (“Harry lasciò cadere il mantello, si aprì la camicia e scoprì le spalle, e tutti videro stagliarsi contro l’oscurità quella strana struttura ossea, le punte e le creste che gonfiavano e deformavano la colonna vertebrale”). Ma quando il passato riemerge e scatena i rimorsi, Harry si abbandona al gin e alla follia. Martha prima si rifugia a Drogo Hall, poi emigra in America presso una zia, nei dintorni di Boston, sognando un futuro di integrazione per il figlio che porta in grembo. Ma in America è tempo di rivoluzione e di Giubbe Rosse…

La voce narrante è Ambrose (“Lo zio mi passò le lettere… iniziavano già a sbriciolarsi”): si reca a Drogo Hall (“Il ritratto di Harry Peake appeso sopra il camino”) dal decrepito zio William, che è stato l’assistente di un celebre anatomista dedito a pratiche discutibili (“Collezionava anomalie”), forse illecite (“Fare di Harry l’attrazione principale del Museo di Anatomia”), sicuramente macabre, per procurarsi la materia prima dei suoi esperimenti (“Qualche povero diavolo che aveva da poco conosciuto la corda di re Giorgio”). La proprietà, che Ambrose deve ereditare, è sinistra (“A Drogo Hall l’aria era spesso permeata da strani odori”), abitata dai fantasmi e custodisce nei suoi penetrali segreti empi (“Il cuore oscuro di una casa maligna e agonizzante, dove era custodito il tesoro di Drogo, il bottino ammassato nel corso di una vita di saccheggi perpetrati in nome della scienza”). In questa ambientazione retrò (“Accesi con la con la mia candela il candelabro e venni premiato da una fiamma crepitante e catramosa”) e nelle descrizioni dell’atmosfera castellana (“Percy che si affannava attorno al padrone come una vecchia dama”) e paludosa sta, a parer mio, la parte più riuscita del romanzo, quella che meglio corrisponde all’autentica vocazione di McGrath.

Giudizio finale: transatlantico, composito e irredentista, riecheggia vagamente Frankenstein.

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Gennaio, 2018
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Da quando c’è Spike

Il morbo di Haggard è un’opera nella quale ricorrono temi e ambienti cari a Patrick MacGrath: l’ossessione amorosa che sfocia nella mania, l’ambiguità sentimentale, l’ambientazione clinica e la spiritualità migrante si mescolano nella figura del medico Haggard, che si strugge d’amore per Fanny e, quando l’amante muore, trasferisce le sue attenzioni sul figlio della defunta: James, pilota di Spitfire in tempo di guerra contra la Germania nazista.

La treccia del romanzo viene imbastita con tre fili narrativi: l’ambientazione gotica in una villa (“Elgin sembrava ancora più grigia del solito… sottile e aguzza, tutta spigoli e sporgenze, tutta punte e angoli”) a strapiombo sul mare in tempesta (“Eravamo in cima alla scogliera, esposti agli elementi, e ricordo quanto la notte mi inebriassero gli ululati e i lamenti, gli improvvisi schianti, fragorosi e inspiegabili, e le possenti folate che facevano tremare le finestre e fischiavano giù per i camini…”); l’essenza di un dolore fisico (la zoppia di Haggard è personificata da una presenza costante “da quando c’è Spike” ) e psicologico, che neppure la morfina riesce a sedare; l’indulgenza al raccapriccio (“La tua presenza, ricordo, a volte mi sembrava un misterioso sussurro di negromanzia, come se in qualche modo infondesse spirito in un cadavere”) con venature accennate di necrofilia (“Sento l’umore dolce e fresco, la lingua ancora viva…”). Anche le circostanze e i particolari sono elegantemente macabri: Haggard conosce colei che diverrà la sua amante a un funerale e vede per la prima volta il figlio James al funerale di Fanny; per l’anniversario Fanny regala al giovane medico uno strano talismano: “Un pezzo di vetro dal fondo piatto, con una mosca dentro”.

Il sogno di prolungare l’amore spostando l’oggetto del desiderio dalla madre al figlio – oltre che il luogo da Jubilee Road a Elgin -incontra non poche difficoltà (“Non avrei potuto descriverti l’aspetto sessuale del nostro amore”) tra ambizioni mediche frustrate, deliri da morfinomane, ambivalenza di prospettiva: James patisce davvero un disturbo endocrino o non è piuttosto il dottor Haggard il vero malato? E se James è veramente androgino, cosa dobbiamo pensare di Haggard, che si aggira nel finale del romanzo indossando la pelliccia di Fanny?

Giudizio finale: ambivalente o addirittura trivalente come una vaccinazione, negromantico, lovercraftiano.

Bruno Elpis

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La guardarobiera (per il tema della trasmigrazione dell'amore), Martha Peake (per il clima gotico), Follia (per l'ambientazione clinica)... le altre opere di McGrath
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    05 Gennaio, 2018
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La vita è storta

Creazione di Nico Orengo proprio come “La guerra del basilico”, L’intagliatore di noccioli di pesca è Pietro Scullino, professore in pensione che scrive recensioni sul quotidiano locale “La riviera”. A lui è infatti affidata la critica italiana del giornale, che si avvale per la critica straniera dell’affascinante Lilli Longoni-Piva.

Il professore conduce una vita familiare di sussistenza: la figlia Lucrezia intraprende attività economicamente fallimentari, è separata nella casa dei genitori dal marito Silvio, un creativo senza arte né parte, respinge in modo clamoroso i consigli di lettura del padre (tirandogli in testa i libri della Tamaro e di Baricco). La moglie Margherita, una donna dotata di senso pratico, vive una pacata relazione con il commercialista Giovanni, che aiuta Lucrezia nell’ennesima impresa: avviare un agriturismo…

Scullino, però, ha un’intensa attività erotica con l’amante Marisa, titolare della Casa Serena di Bordighera. A Marisa si deve il titolo del romanzo: il nocciolo di pesca è infatti il nomignolo che i due amanti assegnano alla voglia che la donna reca sulla natica (“Domandarsi come stava il «nocciolo di pesca» era un loro antico gioco verbale, un’allusione erotica”). Quando il cuore del gaudente professore cede, proprio in ospedale Scullino scopre per la rivale Longoni-Piva un’attrazione che si manifesta in erezioni plateali e incontrollabili.

Intanto, tra il professore e gli amici, si è fatta strada l’idea di rivitalizzare un premio letterario (“Si vuol far rivivere il Cinque Bettole”) e qui s’innesta la parodia di Orengo, perché – come ogni concorso che si rispetti – anche il Cinque Bettole ha già il suo vincitore (“Per la rinascita del premio Cinque Bettole… pare che il vincitore sia Giorgio Faletti”), con tanto di motivazione (“È bravo il ragazzo, siamo nel consumo intelligente”) e garanzia di risultato (“Insomma, come ai grandi premi, penso a Strega e Campiello, ci teniamo un parchetto di voti che caliamo alla fine, secondo convenienza”).

Tra il surreale, il boccaccesco e il campanile (“Scullino guardò Silvio versare la pasta nei piatti fondi: era profumo di mare, c’erano gli Scoglietti e le Calandre, Muro Rosso, il Sasso Lungo e la spiaggia di Pestarino, Mamante e Capo Begliamino, l’Arma e Capo Mortola, Miruna e il Darsenone e i Balzi Rossi e poi tutta la Riviera Blu”), la storia scorre godibile, tanto più per noi che ci trastulliamo non soltanto a leggere i libri, ma anche pretendiamo di recensirli.

Nel finale mistery del romanzo quattro vele in mare distendono un drappo in mare e una scritta che fu il motto di Scullino: “La vita è storta”.

Giudizio finale: saporito, rivierasco e ponentino, tardo-erotico.

Bruno Elpis

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Religione e spiritualità
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    31 Dicembre, 2017
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L’unica banca offshore nel centro di Roma

La prefazione (Papa Francesco e le sette domande) di Peccato originale pone sette domande, alle quali tenta di rispondere Gianluigi Nuzzi nelle tre parti del saggio-inchiesta che tanto scalpore ha prodotto (principalmente per la parte terza). I titoli delle tre sezioni corrispondono a pulsioni allitterate da tre esse: Sangue – Soldi – Sesso.

La prima parte (Sangue) ha i toni del romanzo giallo e verte su due grandi misteri vaticani: la morte di papa Luciani e la scomparsa di Emanuela Orlandi. È forse la parte più avvincente, si snoda tra rivelazioni e passaggi critici che delineano la teoria dell’autore su ciascuno dei due eventi misteriosi e tragici.

La seconda parte (Soldi) è un’inchiesta documentata e argomentata sui principali scandali economici degli ultimi decenni, che vedono la banca vaticana (“Benvenuti allo Ior, l’unica banca offshore nel centro di Roma”) in pole position nella black list delle bad bank, e scusate i tre inglesismi! Queste pagine inducono una constatazione: sì, i mercanti occupano ancora il tempio!

La terza parte (Sesso), quella maggiormente anticipata dalla stampa per l’effetto scandalo, include le rivelazioni di un ex “chierichetto del papa”, che viene intervistato dall’autore. Qui sgorga l’ottava domanda: esiste una lobby gay in Vaticano?

Il saggio, tra l’altro, formula un’ipotesi che consente di meglio inquadrare la figura di papa Ratzinger e il significato della sua rinuncia al pontificato.

Giudizio finale: analitico, a tratti certosino nelle ricostruzioni di conti vaticani e truffe, intrigante.

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Dicembre, 2017
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Un’attrice che fa l’infermiera?

Le Tre donne di Dacia Maraini sono Gesuina, Maria e Lori: sull’asse di un rapporto familiare di discendenza diretta s’infilano tre generazioni e tre momenti dello sviluppo evolutivo della donna.

Gesuina – che non vuole rinunciare alla propria vitalità (“E io ho l’età che mi sento: trent’anni appena fatti…”) - sembra rappresentare l’energia più autentica, nonostante sia (o forse proprio perché è) la nonna: nel momento di difficoltà consiglia alla nipote di non mentire, sostiene economicamente la famiglia (“Un’attrice che fa l’infermiera?”), non rinuncia alla speranza.

La teenager Lori, un miscuglio di egoismo e di altruismo, incarna la superficialità umorale di una gioventù che non sa rinunciare al piacere del momento (“Questo bambino che Lori vuole chiamare Prometeo”), salvo poi pentirsi (ma non troppo).

In mezzo sta l’età della maturità, quella rappresentata dalla quarantenne Maria che rincorre, nelle traduzioni di Flaubert e in Olanda sulle tracce di Van Gogh, il proprio sogno di felicità e di amore. Su di lei si esercitano le forze contrastanti di madre e figlia. Ne sarà la vittima.

Queste dunque le Tre donne.
E l’uomo?
L’uomo di Dacia Maraini è un fantoccio in secondo piano: coreografico (“Il bel francese si è insediato in casa ed è talmente cortese e pulito e ordinato che non gli si può dire niente”), spesso (fisicamente) impotente, ciononostante impegnato a esercitare l’azione endemica del dominio (“Mi chiedo se noi donne abbiamo introiettato un senso delle convenienze, non dico sociali, ma più profonde, riguardanti il pudore e le consuetudini del sentimento, che gli uomini invece non hanno introiettato, abituati come sono ad appropriarsi dei corpi femminili a loro piacere”).

Giudizio finale: unitario nella poetica della Mariani, dualistico nella contrapposizione uomo-donna, triadico nella polarizzazione nonna-madre-figlia.

Bruno Elpis

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Racconti di viaggio
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    15 Dicembre, 2017
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Come Robinson

Il ragazzo selvatico sembrerebbe essere lo stesso Paolo Cognetti. In ogni caso è un uomo che, varcata la soglia dei trent’anni, è ancora alla ricerca di se stesso. Per ritrovarsi, si isola in una baita di montagna e si vota alla solitudine (“Ero io la popolazione. Come Robinson sull’isola deserta potevo proclamare a voce alta: Sono io il monarca di tutto ciò che vedo…. Rappresentavo, allo stesso tempo, l’abitante più in vista e quello caduto in rovina…”).

Le frequentazioni umane sono limitate a qualche montanaro, ai due ragazzi del rifugio, agli avventizi che si avventurano da turisti in montagna (“Andrea li chiamava gli effimeri”), ai maledetti cacciatori…
Più frequenti sono gli incontri con gli animali: volatili (“Rigoni Stern classificava le nevicate tardive: neve della rondine a marzo, neve del cuculo ad aprile, e l’ultima per lui era la neve della quaglia”) dall’innocuo fringuello alpino alla maestosa aquila, marmotte, volpi, camosci e stambecchi (gli stambecchi… “non sono prudenti come i camosci, non vengono cacciati ormai da un secolo e hanno smesso di temere l’uomo”).
Nella solitudine della baita, c’è spazio e tempo anche per la lettura di Primo Levi e per le poesie di Antonia Pozzi.

I sentimenti spaziano dall’armonia alla disperazione nera. Con quest’esperienza Il ragazzo selvatico forse non ritrova se stesso, ma una cosa è certa: recupera il suo rapporto con la montagna e con la natura.

Giudizio finale: ecologico, ascetico e ascendente.

Bruno Elpis

P.S. mi son fatto fotografare con Cognetti alla Hoepli, ahahah:
http://www.brunoelpis.it/le-interviste/1604-paolo-cognetti-alla-hoepli-di-milano

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Le otto montagne, naturalmente
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Politica e attualità
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    08 Dicembre, 2017
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E nessuno sa più sbrogliare la matassa

Conversazione con la mia bibliotecaria.
«Te lo ricordi? Che fine avrà fatto?»
«Sarà ancora vivo?»
Stiamo parlando di Luca Goldoni, l’autore di Cioè (chi se lo ricorda?), un libro che negli anni settanta aveva colpito nel segno, criticando il linguaggio degli italiani e la sua decadenza.
Una breve ricerca su internet ci conferma che il giornalista è vivo e vegeto.
«Ti procuro l’ultima sua opera, è abbastanza recente!». Per l’appunto si tratta di Tranelli d’Italia, titolo parodia dell’inno nazionale.

In questo saggio, Luca Goldoni scatena ancora il suo spirito satirico contro le tautologie e i nonsense dell’espressione (“Pertanto non si possono escludere rilevanti scosse future, anche se si può ipotizzare che l’attuale fenomeno sia in via d’estinzione”) parla del suo “Sentirsi emiliano”, inevitabilmente ripercorre con nostalgia alcune tappe della sua carriera (“Tornavo dai servizi di guerra con il complesso del reduce che stenta a reinserirsi”) verificandone l’evoluzione (“E così è cominciata la mia ultima avventura: l’inviato speciale dentro me stesso”), constata gli intervenuti mutamenti nella comunicazione e nella società:
“Sesso in pubblico
Mi ero riproposto un commento in stile catilinaria basato su tre elementi:
1) Definitivo tramonto degli ultimi sprazzi di pudore…
2) Espansione del suddetto fenomeno in seguito alla metamorfosi del cellulare…
3) Accorato rimpianto degli adolescenti della mia generazione costretti ad amoreggiare tra Prevert e Peynet…”

Dell’Italia, denuncia alcune cattive abitudini: la negligenza nei confronti del patrimonio artistico (“Pazzesco. Come possedere ettari di frumento e non mieterlo… Disponiamo di un formidabile apparato di polizia che ammanetta i criminali in tempi record, ma poi li lasciamo uscire dal carcere per decorrenza dei termini”), la superficialità (“Perché… l’indignazione popolare ha travolto la politica ladra e sleale e tratta il calcio con tanta indulgenza?”), e altro ancora.

La prospettiva della critica risente del trascorrere degli anni (“Non esistevano le odierne sbornie del sabato sera, una cura dell’alcol per sciogliere timidezze e inibizioni, per rivitalizzare - ci si illude - un’attrazione sessuale appannata nei maschi dall’overdose di femmine prêt à porter e dalle solitarie frequentazioni dei siti erotici di internet”) e degli acciacchi (“Angioplatsica… l’intervento sul mio cuore”).

Giudizio finale: ironico e parodistico, senescente e a tratti nostalgico.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Novembre, 2017
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Joan fissava Gustl come un basilisco

La guardarobiera: noi che conosciamo Patrick McGrath non possiamo che leggere questo romanzo esercitando l’arte del sospetto. Sospetto nei confronti di tutti i personaggi che ruotano intorno a Joan: il genero Julius, la figlia Vera, la rifugiata zia Gustl. Noi che sappiamo quanto questo autore ami ricamare i suoi romanzi sulla filigrana di una storia sotterranea, che soltanto nelle ultime pagine rivela la trama occulta. E proprio di trama dobbiamo parlare, considerato il mestiere di Joan (“Una stanzetta buia e fredda, con una macchina da cucire e tutte le sue stoffe, forbici, ditali, rocchetti di filo”), guardarobiera in doppio senso, sia per il lavoro che svolge (“Rimase seduta alla macchina da cucire per tutte le ore della notte, ridendo e singhiozzando, rievocando l’uomo che aveva perduto”), sia per il nuovo ruolo di custode del guardaroba di Gricey, attività che la donna – dopo la morte del marito attore – svolge nel proprio appartamento: “Nella sua testa, lui viveva ancora in quel guardaroba, e ovviamente coesisteva con Frank Stone, due entità distinte, in genere, ma abbastanza spesso una presenza gemella che avanzava e indietreggiava in spettrale tandem, eseguendo una specie di minuetto esistenziale.”

Il romanzo si gioca su un perenne senso del doppio, una dimensione alla quale Freud imputa il perturbante.
L’ambivalenza del rapporto con Daniel Francis alias Frank Stone, l’attore che sostituisce Gricey nel ruolo del Malvolio de La dodicesima notte di Shakespeare.
La doppiezza della relazione che Daniel (“Colse l’improvvisa fiammata nei suoi occhi, lo stupore e il piacere lupigno”) intesse con Joan e con sua figlia Vera (“Era molto nervosa… un paio d’anni prima c’era stato un piccolo attacco d’isteria…”).
La somiglianza tra madre e figlia (“I denti come avorio – mica l’accozzaglia di lapidi decrepite che si ritrovava in bocca la madre”).
L’ambiguità del profilo di Daniel: attore supplente, contenitore (“Il recipiente, come ormai lo considerava”) di un altro spirito (“Chi conteneva”).
La duplicità della patologia che Joan patisce (“Non voleva altro che ascoltare di nuovo la sua dannata voce”): sarà delirium da alcol (“La bottiglia dell’ultimo ripiano… ciao, caro zio”) o psicosi?
La scoperta della doppia vita del marito (“Era da un pezzo che le cose tra loro non andavano benissimo…”).
Il gemellaggio tra dramma personale e dramma comune nella Londra del dopoguerra, con i rigurgiti del fascismo razzista di Oswald Mosley.

Interessante la trovata del narratore collettivo, che svela la propria identità durante l’epilogo della tragedia: “Sì, una splendida simmetria, vita e teatro…. Ma noi sappiamo che cosa succede quando compaiono le simmetrie, vero, signore? Brutte notizie come se piovesse”.

Giudizio finale: gotico (“Le labbra scoprivano i denti in un rictus di indispettito sconcerto”), perturbante… ben confezionato!

Bruno Elpis

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Follia, Trauma
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    21 Novembre, 2017
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Per tutto questo mancano gli occhi

E se l’umanità venisse colpita da una pandemia che ha la forma della Cecità?
E se l’esercizio teorico-letterario di José Saramago si trasformasse in realtà?
E se l’epidemia non fosse soltanto una metafora di questo sciagurato mondo (“Senza futuro il presente non serve, è come se non esistesse”)?
Che cosa sono il progresso e la civiltà se non possiamo vederli (“E per tutto questo mancano gli occhi”)?

La mente corre a un altro esperimento letterario analogo: La peste di Camus. Anche lì si agisce su una prospettiva di morte
per ragionare su ipotesi di morte (“La pallottola che ti sostituirà una cecità con un’altra”), per scuotere chi legge, per immaginare reazioni del potere e della società.

Per tutto il romanzo il climax della preoccupazione procede parallelo al senso di oppressione. Rimango in dubbio se prevalga il primo o il secondo.
Il manifestarsi della malattia (“Sono cieco, sono cieco, ripeteva disperato mentre lo aiutavano a uscire dalla macchina, e le lacrime, sgorgando, resero più brillanti quegli occhi che lui diceva morti”) e la sua descrizione (“È come se stessi in mezzo a una nebbia, è come se fossi caduto in un mare di latte”), il tentativo di diagnosi (“Una pista, sì, lo so, l’agnosia, la cecità psichica, potrebbe essere”), il dilagare del contagio, il desiderio di isolare gli infetti (“E allora vada per il manicomio”), le reazioni violente del potere (“Nervoso, il soldato uscì dalla garrita con il dito sul grilletto…”), il degrado progressivo della società, la furia della forza distruttiva che ridicolizza la vulnerabilità dell’uomo… poi, forse, qualche flebile segnale di speranza (“Il cane delle lacrime”)…

Particolarmente efficace l’analisi della condizione di cecità (“La luce, questa luce, per lui si era trasformata in rumore”), condotta sia in senso fisiologico (“Gli occhi propriamente detti non hanno alcuna espressione, sono due biglie che restano lì inerti, sono le palpebre, le ciglia, e anche le sopracciglia che devono farsi carico delle diverse eloquenze e retoriche visive, la fama però ce l’hanno gli occhi”), sia in senso traslato (“Dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo”), sia in senso linguistico (“Botte da orbi, si suol dire”).

Giudizio finale: soffocante, potente, intimidatorio. Accecante, ma in grado di regalare visioni.

Bruno Elpis

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La peste di Camus
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Novembre, 2017
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Condividere... L’idea è partita così

Particolarmente attratto in questo periodo dal tema affrontato da Andrea Carraro nel suo ultimo romanzo (il rapporto genitore-figlio analizzato in una situazione drammaticamente al limite), ho letto Sacrificio con attenzione e coinvolgimento emotivo: l’opera narra la reazione che un padre, con la forza strenua dell’amore per la propria figlia, oppone all’immane tragedia della perdizione nella quale Carolina è precipitata a causa dell’eroina. Un nemico che sembra invincibile, perché approfitta degli spazi vuoti della vittima per tiranneggiare, soggiogare, annullare ogni volontà.

Il testo parte dai ricordi struggenti di un padre innamorato che confronta l’immagine infantile e felice di Carolina con la realtà presente e deteriorata dalla droga. Cosa può un padre di fronte a tale orrore?
Giorgio esamina la sua storia, si sente dilaniato dai rimorsi e si attribuisce anche le cause del dramma. Parimenti, esplora ogni possibilità di reazione: si sente impotente, si rifugia nella mistica, poi – deluso dalla religione che non dà esiti concreti - stringe un patto con il diavolo, tra echi letterari (“Caliban… è un personaggio di Shakespeare, certo, un mostro deforme, un essere delle tenebre, un semiuomo, figlio di una strega e di un diavolo - un diavolo! -, schiavo di Prospero, nella Tempesta”) e deliri umani. In questo modo Giorgio imbocca una soluzione estrema (“Ho pensato di condividere la sofferenza di mia figlia. L’idea è partita così”), che presuppone la condivisione totale di un’esperienza possibilmente letale.

Giudizio finale: intenso, tragico, da leggere!

Bruno Elpis

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Novembre, 2017
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Non credeva nel karma

Condurrò il commento di Punto debole di James Patterson come se fosse la dimostrazione di un teorema di geometria.

Ipotesi: “Negli Usa, ogni 15 libri venduti uno è di James Patterson, per un totale di oltre 16 milioni di copie vendute all’anno. In Italia, i suoi romanzi hanno venduto oltre 3,5 milioni di copie” (dalla quarta di copertina).

Tesi: si veda il giudizio finale.

In questo libro il detective Alex Cross si destreggia tra l’amore per la sua famiglia – composta dalla moglie Bree, da nonna Nana Mama e dai tre figli Damon, Jannie, Ali – e un caso di stragi seriali, che colpiscono i centri benessere (“Ogni due anni questi tizi compiono una strage in un bordello, ammazzano tutti tranne una prostituta che si portano via, e sequestrano due bambini, un maschio e una femmina”). Nell’ultima di queste stragi perde la vita un campione sportivo (“La strage in un famigerato centro benessere in cui ha perso la vita Pete Francones”).

Mentre Alex e sua moglie indagano e risolvono il caso delle stragi nei centri benessere, due loschi individui – lo scrittore Marcus Sunday (“… che aveva ucciso suo padre a badilate e lo aveva dato in pasto ai porci”) e la sua amante Acadia (“Siamo fatti l’uno per l’altra, Marcus… E gli aveva svelato di aver ucciso il padre, che picchiava sua madre, e averlo dato in pasto agli alligatori”) – tengono Alex sotto scacco e rapiscono tutti i membri della sua famiglia.
Per questa coppia di pazzi, James Patterson stravolge perfino il concetto di karma (“Sunday… non credeva nel karma, ma aveva la sensazione che Acadia non fosse entrata nella sua vita per caso”).

Giudizio finale (tesi): le vendite di un libro prescindono dal contenuto artistico.
Romanzo violento ai limiti del ridicolo.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Novembre, 2017
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Avevo imparato la distanza durante le violenze

La figlia maschio riconferma che Patrizia Rinaldi è voce potente e originale della narrativa italiana. Con quest’opera a quattro voci – un palazzinaro che incarna l’arroganza del maschilismo (“Da quel giorno sei diventata un’ossessione pornografica da consumare in privato”), una donna soccombente e recessiva, un intellettuale asservito al potere economico e Na, giovane donna cinese che ha patito le regole imposte da una società spietata e da un’umanità violenta – affronta temi forti, a volte intollerabili (“I padri veri o finti mi volevano, ma non come figlia… legata al mondo con il fiocco rosa dell’incesto”), con uno stile inconfondibile (“Ti portai nel sestiere più orientale, per questioni di appartenenza tua a qualsiasi oriente…”), distintivo e non convenzionale.

Ritengo accattivanti modalità e toni con i quali Patrizia Rinaldi esercita la sua critica profonda, che qualificherei neo o post femminista se non fosse riduttivo imprigionare un’essenza in una formula, nei confronti di esistenze, psicologie e modelli socio-culturali – tanto orientali quanto occidentali - che hanno perpetuato squilibri, diseguaglianze e rapporti di potere nella lotta sfrenata che ogni giorno vede contrapposti dominatori e vittime, aggressori e prede, in questo nostro mondo insensato e conflittuale.

Giudizio finale: polifonico, critico, inquietante.

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Novembre, 2017
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Ero il figlio del grande Giorgio

Il mare dove non si tocca è una sensazione che chiunque abbia imparato a nuotare ha per lo più sperimentato. Per il piccolo Fabio – sarà autobiografia per Fabio Genovesi? - si tratta di mettere in pratica il detto secondo il quale se vieni buttato in mare hai due alternative: o affoghi, o impari a nuotare.
E Fabio, tra i terrori di un bambino che vive in una città di mare, quell’estate finalmente impara a nuotare grazie all’amato padre (“Avevo dieci anni ed ero il figlio del grande Giorgio, che era arrivato sul pianeta Terra con la missione di aggiustare tutto, e invece adesso stava lì fermo su un letto meno vivo dei fiori che gli mettevano sul comodino”).

Fabio appartiene a una famiglia eccentrica, una comunità autarchica che vive nel villaggio Mancini, con una frotta di zii che pretendono di fargli da padre e da nonni, tanto più quando il vero padre – il grande Giorgio, uomo di poche parole e di molti fatti - viene ricoverato in rianimazione per un grave trauma. In realtà quegli strambi zii imbarazzano il bambino per tutte le stravaganze che compiono.

Il mare dove non si tocca è la storia – divertente (quando il bagnino causa a Fabio una frattura per esultanza eccessiva dopo un goal della nazionale, un familiare replica: “Ma figurati Rena’, son cose che capitano, e poi il gol era valido”) e commovente al tempo stesso – di una presa di coscienza del valore della diversità (“In tutto questo mondo che gira e traballa, la normalità è la stranezza più grande che ci sia”), narrata in modo credibile, per linguaggio e mentalità, dall’angolatura di un ragazzino che dall’infanzia (“Avevo scelto FungoMan”) transita nel complicato mondo dell’adolescenza (“La mia cattiveria… mi ha insegnato come si smette di essere soli e diversi, come si fa a essere uguali agli altri, quanto è facile fare schifo come tutti quanti”).

Giudizio finale: divertente, commovente, circolare come la filastrocca “C’era una volta un re, seduto sul sofà…”

Bruno Elpis

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Racconti
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Ottobre, 2017
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Partiti dagli incubi di un bambino dislessico

I diavoli custodi sono mostri che Erri De Luca commenta a partire da illustrazioni realizzate da Alessandro Mendini: “Partiti dagli incubi di un bambino dislessico, i rispettivi mostri di noi due sono sgusciati fuori da censure segrete, da pudori. Non so decidere se sono stati sprigionati oppure asserragliati in questo libro”.

Scorrono così riflessioni – più che racconti - sui mostri dei nostri giorni e dei giorni passati, con gli immancabili riferimenti biblici e alla cultura yiddish da parte di De Luca (Abramo e Isacco, l’occhio triangolare divino), gli spettri familiari (“Intorno alla mia tavola tornano a brillare per effetto del buio e del fuoco acceso nel camino”) e personali (“Non ho visto la nudità di mio padre e di mia madre. Le ho dovute conoscere nella loro morte”), e le tragedie dei nostri giorni: “À l’aurore, armés d’une ardente patience, nous entrerons aux splendides villes. Rimbaud in Una stagione all’inferno… Mi passava come un’ape intorno il verso di Rimabud mentre costeggiavo a piedi l’isola di Lampedusa.”

Chiude la rassegna di mali e incubi, la piaga sociale ed esistenziale dell’indifferenza: “Torno sul significato personale dell’indifferenza: non riconoscere la differenza tra falso e vero, tra realtà e finzione. Si assiste perciò a una violenza, a un sopruso, a un atto incivile e si resta a guardare.” Contro la quale si erge la figura tragicomica del Don Chisciotte.

Sul piano personale, ritengo riuscito un esperimento quando convince in modo completo. Erri De Luca continua a offrire spunti che, pur non essendo più una novità, inducono a riflettere. Le illustrazioni non mi hanno suscitato particolare coinvolgimento, l’abbinamento testo-immagine mi è sembrato un po’ forzato.

Giudizio finale: biblico, ideogrammatico, duale.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Ottobre, 2017
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Al confine delle cose

Un itinerario montano quello di Pietro Zambelli detto Zambo tra luoghi aspri e spopolati (“Il villaggio era un fantasma di pietra. Arrivarci era complicato. Se chiedevi a una guida turistica, te lo avrebbe sconsigliato senz’altro. Solo un reietto o un fuggitivo si sarebbero spinti fin lassù”). Parte da Marsiglia (quella italiana, in Liguria) in compagnia del cane Tobia, custodendo una pistola ( “La Smith & Wesson calibro 357 era ancora lucida”), nel ricordo di un suicidio scioccante. S’imbatte nel vecchio amico del padre – Dindon – e in una piccola comunità della quale fa parte Agnese, ex tossicodipendente, con la quale intreccia una primordiale relazione amorosa.

Lagdei e Lago Santo, Cerreto Alpi, Monte Sillara, Codiponte sono le tappe di un viaggio che ha per destinazione Arcidosso (GR) tra il Monte Amiata e il Monte Labbro (“Devo raggiungere una casa in Maremma”), ove il padre ex partigiano aveva una proprietà (“Sto andando al podere sul Monte Labbro”).

Il salvataggio di un lupo è preludio di ritorno a rapporti semplificati, elementari, essenziali (“Io sono venuto qui al confine delle cose”) al limite del cinismo (“Un uomo che scavava una fossa e un lupo in un villaggio che l’Italia si era dimenticata furono per poco tempo vicini come non era mai successo, come se né l’uno né l’altro appartenessero alla propria razza, ma avessero trovato un modo di vivere antico e selvatico in quel tratto abbandonato di mondo”).

Giudizio finale: nudo e crudo, grezzo e brado, selvatico.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    26 Ottobre, 2017
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Un lampo di luce nel viso scuro

I temi del razzismo, della diversità e dell’accoglienza s’intrecciano nella storia di Osei e Dee, Ian e Mimi (“Erano troppo diversi, loro due: il ras del cortile e la picchiatella”), Casper e Blanca: ragazzi leader per bellezza o per carisma in un college di Washington (“Sebbene nel 1974 Washington fosse chiamata Chocolate City a causa della sua vasta popolazione di colore, non c’erano studenti neri nella scuola di Dee, né famiglie di neri tra i suoi vicini”). Qui Osei detto O – nuovo Otello in verde età – costituisce una novità (“Ma era il colore della sua pelle a spiccare più di tutto, un colore che a Dee ricordò gli orsi che aveva visto qualche mese prima allo zoo, durante una gita scolastica”) che si spegne come un fuoco di paglia nell’arco di una sola giornata e che gli adulti – gli insegnanti – si dimostrano incapaci di gestire adeguatamente (“Pensi che dovremmo… parlare di lui agli studenti? Della sua diversità? Per aiutare ad accoglierlo?”) e senza pregiudizi.

Soltanto Dee, con la freschezza dell’età adolescente, accoglie il nuovo venuto (“O aveva dei bei denti, come un lampo di luce nel viso scuro che accese un fuoco dentro di lei”) e si abbandona al sentimento che le suscita (“Dee capì che le vere coppie non si mettono insieme, sono già insieme”).
Ma l’odio e la gelosia, con gli equivoci che determinano, prevalgono sulla purezza dei sentimenti in questa tragedia dal sottofondo young.

Giudizio finale: schematico, predeterminato, amaro.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Ottobre, 2017
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Le carampane

Con Ti meriti un amore, Alessandra Appiano getta il suo sguardo su una dolorosa vicenda della cronaca nera (quella della professoressa Gloria Rosboch) per affrontare il tema delle inquietudini delle donne non più giovani (“le carampane”), ma ancora piene di vita, desideri e sogni.

Si fronteggiano così due storie parallele: quelle di due amiche, Emma e Cinzia, che con gli anni si sono perdute di vista, ma si ritrovano, con esperienze, soddisfazioni ed esiti profondamente differenti.

Una è complessivamente realizzata e alle prese con un nuovo amore (“I posti erano incantevoli, ma a me sarebbe andato bene tutto, anche un tour nelle discariche: ero scandalosamente felice”); l’altra ha fallito su ogni fronte (“Una rottamata e spiaggiata doc”) e, anche per questo, si è incautamente aggrappata a un’illusione che prometteva di cambiare il futuro (“Nell’appassionante film a colori in cui sono entrata, forse per sbaglio o forse per disperazione, dopo anni di noiose proiezioni d’essai in bianco e nero”).

Con uno stile ironico e brillante, infarcito di citazioni letterarie (“Con mio marito vantiamo un lessico famigliare che Natalia Ginzburg ci fa un baffo”), Alessandra Appiano parteggia vistosamente e sentimentalmente per queste donne in affanno (“Com’è facile tornare giovani quando si respira l’aria dell’eccitazione”) e ancora alla ricerca.

Giudizio finale: brillante ma doloroso, ironico ma inquieto, complice ma critico.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    09 Ottobre, 2017
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L’ordine che precede il primo disordine

L’ambulante di Peter Handke si propone un fine interessante: individuare criticamente la struttura (“L’ordine che precede il primo disordine”) e i meccanismi (“La storia gialla tace il vero rapporto esistente tra gli oggetti descritti. Consiste in un gioco di possibili rapporti tra gli oggetti”) che presiedono alla composizione di un romanzo giallo, simulando in contemporanea una storia paradigmatica che esemplifichi la trattazione.

Si individuano così le fasi (“L’inizio della storia non è quindi un inizio, ma una continuazione”), le sequenze (“Il sopraggiungente scorge quest’ordine particolare, che sarà turbato dal delitto”) e le finalità (“La descrizione dell’ordine è soltanto in funzione del disordine che si genera con il primo delitto”), mentre la storia de L’ambulante si snoda atomizzata in descrizioni millimetriche e martellanti.

Obiettivo raggiunto? Nossignori, la lettura mi ha spazientito, la storia non mi ha coinvolto.

Giudizio finale: entomologico, sezionatore, asettico.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    27 Settembre, 2017
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Cursum Perficio era una casa-atelier degli anni 20

Per un malinteso l’investigatrice Madeline e il drammaturgo Gaspard finiscono per alloggiare insieme in Un appartamento a Parigi appartenuto al pittore Sean Lorenz, ex graffitaro tanto estroso quanto biograficamente sfortunato. Il nuovo romanzo di Guillaume Musso assume così i toni di una caccia al tesoro, ove gli indizi sono contenuti nei quadri dell’artista (“Ricorda la storia di Dorian Gray?...Be’, con Sean era il contrario. Il cannibale era il dipinto”) e nella sua inimitabile tecnica pittorica (“I pigmenti naturali…”) e il tesoro… il tesoro potrebbe essere Julien, il figlioletto tragicamente scomparso (“La pittura non può nulla davanti alla morte di un bambino”) nel corso di un drammatico rapimento?

I due protagonisti si lasciano coinvolgere dal consueto turbine di sorprese e capovolgimenti di fronte tipici dei romanzi di Musso (“Siamo immersi nel fango, ma alcuni di noi guardano le stelle”), sino all’improbabile finale nel giorno di Natale (“Arrivarono al cimitero marino di Staten Island”) e, mentre i due eroi sembrano travolti dal flusso inarrestabile degli eventi, hanno modo di misurarsi con i rispettivi problemi personali: lei vorrebbe diventare madre e sta tentando l’inseminazione artificiale, lui è un misantropo alla ricerca di se stesso e degli altri (“Da buon misantropo, si sentiva più vicino agli orsi, ai rapaci e ai serpenti che ai sedicenti fratelli della comunità umana”).

E il lettore? Il lettore, soprattutto quello che ha letto i romanzi precedenti dello scrittore francese, comincia a confondere una storia con l’altra, si chiede dove ha già letto questo o quel particolare e forse, forse realizza che quel particolare non l’ha ancora letto nei precedenti, numerosi romanzi.

Giudizio finale: divertente come può essere divertente lasciarsi trasportare dalla corrente; ripetitivo come quelle situazioni nelle quali hai la sensazione di aver già vissuto quel momento…

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Lo ritengo particolarmente consigliato a chi NON abbia letto i romanzi precedenti di Musso
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    02 Settembre, 2017
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Ragionevoli logaritmi

Il prologo di Né con te né senza di te di Paola Calvetti è promettente: s’ispira al François Truffaut de La signora della porta accanto. Due amanti vengono infatti ritrovati morti e si tratta di una caso di omicidio-suicidio (“Morire dopo aver fatto l’amore con chi ami: il sogno di noi romantici”).

Il romanzo ripercorre la relazione tra la scrittrice Vera e l’avvocato Nicola da due visuali alternate nella successione dei capitoli: quella della stessa Vera, quella dell’amico Francesco, architetto che viene interrogato dagli inquirenti per tentare di ricostruire la dinamica del delitto.

Promettente nelle intenzioni, oltre che nel titolo-traduzione del “Nec tecum, nec sine te vivere possum” di Ovidio, il testo inciampa in una ricostruzione delle possibili cause che disorienta, o forse semplicemente annoia il lettore. Vera non suscita compassione (“Credo che la sua ansia di vivere quell’amore fosse pari alla paura che il sogno svanisse”), la storia non riesce a trasmettere il senso della tragedia (“Sul tetto, lampeggianti da luna park gettano coriandoli”), la ricostruzione è lambiccata (“Si può temere un amore di carta?”) a fronte di una dinamica forse elementare come ipotizzato dalla mamma di Nicola (la suocera! “… Quella donna era gelosa. Lui si era stancato della relazione, lo ha ammazzato per la più scontata delle ragioni”).

Buona parte della ricostruzione viene affidata al romanzo che Vera sta scrivendo e che narra di una bambina dall’infanzia difficile, che ama rifugiarsi sotto il tavolo di casa e lì – grazie all’immaginazione - incontra Arlecchino, Giulietta e Manon Lescaut.

Lo stile è talvolta irritante (“La tua faccia è peggio di quella di Bette Davis prima di passare al trucco”), talaltra pretenzioso (“Le ciglia di Nicola sono ragionevoli logaritmi”) ai limiti del lecito (“Il nulla, penso, ha più densità di una goccia di sperma”).

Giudizio finale: non pervenuto.

Bruno Elpis

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Letteratura rosa
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    23 Agosto, 2017
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Esposti, gettatelli, nocentini

La storia di due musicisti viene affrontata in tre movimenti da Paola Calvetti ne “Gli innocenti” (“Esposti, gettatelli, nocentini – chiamateci come vi pare, tanto siamo soggetti insignificanti per pittori e musicisti”).

Nel primo movimento (ALLEGRO) si narrano l’infanzia e l’adolescenza di Jacopo (“Nell’anacronistica gerarchia dell’orchestra io ero l’ultimo tassello, mentre lui era un graduato, il violino di spalla che difende la posizione dell’orchestra con il direttore, braccio destro e punto di riferimento visivo di entrambi”) e Dasha (“Lei era una violoncellista di fila”). Lui è figlio di NN (“Questa fu per quattro secoli fino al 1875 la ruota degli innocenti segreto rifugio di miserie e di colpe alle quali perpetua soccorre quella carità che non serra porte”) e viene adottato, lei è profuga albanese che giunge in Italia nel 1991 dopo la caduta del regime albanese.

Nel secondo movimento (ANDANTE) c’è l’incontro, il terzo (VIVACE NON TROPPO) è il movimento delle rivelazioni.

La musica è sottofondo (“Quando suoniamo insieme ci sentiamo invulnerabili”) di una storia tra caratteri contrapposti, scandisce i conflitti (“Quel bambino è orfano e tu sei invidioso che sia più orfano di te”), medica le lacerazioni del passato (“Jacopo l’emofiliaco, uno al quale le ferite non guariscono mai”).

Il tema degli abbandoni e delle adozioni (“Tuo nipote sarebbe un figlio in prestito, sappi che è così che si sentono gli adottati. E io sarei un padre artificiale”) trova la sua sinfonia in una partitura: “Il doppio concerto in la minore per violino, violoncello e orchestra, op. 102 è l’ultima composizione di J. Brahms … per strumenti solisti… scrisse questo concerto desideroso di rinsaldare i rapporti con Joseph Joachim, il violinista suo amico intimo e consigliere… opera di riconciliazione…”

Giudizio finale: musicale, riconciliante, ricostruttivo

Bruno Elpis

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Scienze umane
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    11 Agosto, 2017
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Che fare per ridar speranza a un Telemaco affranto

Il complesso di Telemaco di Massimo Recalcati s’interroga sul significato che assume la figura del padre (“La domanda di padre che oggi attraversa il disagio della giovinezza non è una domanda di potere e di disciplina, ma di testimonianza”) quando il nostro tempo è paragonabile alla notte dei Proci: perché i giovani sono privi di prospettive e di desiderio (“L’esistenza di un nuovo disagio della Civiltà di cui la diffusione epidemica delle nuove forme del sintomo - tossicomania, panico, depressione, dipendenze patologiche, anoressie, bulimie, ecc. - … mette in evidenza una crisi profonda del processo della filiazione simbolica”), perché l’epoca attuale mortifica gli ideali (“In alternativa all’uomo ideologico del Novecento… ciò che lo muove non sono più le grandi passioni ideali, ma la spinta compulsiva del godimento mortale”), le passioni e i rapporti interpersonali, mentre l’ego assurge a totem (“Nuove etnie monosintomatiche delle anoressiche, dei depressi, dei panicati, dei tossicomani, ciascuna radunata intorno alla propria insegna feticistica”).

È finita l’era del figlio Edipo in conflitto con il padre (“Al centro non è più la lotta tra le generazioni, il conflitto tra la Legge e la sua sovversione trasgressiva, ma la solitudine di una generazione che si sente lasciata cadere, abbandonata, che cerca il conforto con il mondo degli adulti ma non lo trova, che fa fatica a trovare degli adulti coi quali misurare il proprio progetto di mondo”) e deve tramontare anche l’età del figlio Narciso ripiegato su se stesso (“Edipo non riesce a essere figlio e la stessa sorte accade a Narciso”). Il figlio Telemaco può rappresentare uno sbocco efficace (“Egli attende il ritorno di un padre. Il suo desiderio è desiderio di ritorno del padre”), nuova speranza di un rapporto filiale e genitoriale finalmente felice e promettente, da celebrare con i versi di Omero: “E Telemaco, abbracciando il padre glorioso, versava lacrime fitte. Entrambi avevano voglia di piangere, e piangevano forte, gemendo più degli uccelli, più delle aquile o degli avvoltoi dagli artigli ricurvi a cui i contadini rubarono i piccoli prima che avessero messo le ali. Così pietosamente versava lacrime da sotto le ciglia” (Omero, Odissea, canto XVI). Non sono versi bellissimi?

Giudizio finale: mitologico, analitico, propositivo

Bruno Elpis

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Freud, l'Odissea e Recalcati
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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    04 Agosto, 2017
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Quanto di sé era disposta a sacrificare

Se mi tornassi questa sera accanto di Carmen Pellegrino è la storia di una famiglia ove il patriarca, Giosuè Pindari, con forte personalità e sottofondo ideologico, cerca di sorreggere le sorti in una terra amica e ostile al tempo stesso. La madre Nora è afflitta da un disagio psichico (“Che avesse trovato nella forma di una scrittura segreta l’ennesimo rifugio, e in questa esprimesse la sua vicinanza a un certo tipo di dolore”), la figlia Lulù (“Farò la pensatrice. Avrò un’officina tutta mia dove aggiusterò i pensieri rotti”) si sente schiacciare dalle scelte del padre e dalla patologia della madre (“Mutacismo”). Fugge lontano e la narrazione assume i toni ora dell’epistolario tra padre e figlia (“Al fiume, infatti, affiderò le lettere, ciascuna in una bottiglia”), ora del diario (“Hanno scritto declino irreversibile”).

Nella Parte prima (Di qua dalle mura) domina il Fiumeterra. Giosuè ha vissuto il crollo dell’ideologia socialista, la Grande Delusione. Nora frequenta i funerali di sconosciuti e nasconde il suo dramma scrivendo con l’inchiostro simpatico e con la scrittura speculare. Lulù intanto subisce: il taglio degli adorati capelli, s’iscrive ad agraria per assecondare il desiderio del padre, vive il primo amore (“C’era dell’affetto anche per lei nel mondo ed era gratuito, oltraggioso, persino scandaloso, ma era per lei”) tra colpa e inesperienza (“Dopo essersi tolto dal suo corpo, nel quale era entrato e subito, per certe frettolosità dell’amore, ne era uscito”). Poi si chiede: “Quanto di sé era disposta a sacrificare per non sconvolgere i finti equilibri di famiglia o – più sinceramente – per non sconvolgere se stessa?”

Nella parte seconda (Di là dalle mura) domina il fiume-cielo.
“Lulù scrutava la casa mobile che era divenuta il suo approdo.”
In questa seconda fase la vita oscilla tra libertà e riflusso (“Mio padre sognava di fondare una città sulla riva di un fiume… Quel fiume lo chiamavamo fiumeterra. Aveva pensato a tutto: case per i contadini che avessero scelto di abitare nell’Ignoto Ideale… aveva scritto anche una costituzione…”), tra difficoltà e utopia (“14. Nella nostra Città si biasima l’ubriachezza ma si fa divieto esplicito di sobrietà… 16. Durante le festività è consentito sparare agli orologi”).

Ciascuno dei personaggi di questo romanzo (il padre che vede crollare i suoi sogni, la madre che si chiude nel disagio, la figlia che subisce e poi scappa) mi ha suscitato un sentimento di malinconia profonda e variegata.

Giudizio finale: abbandonico, post-utopistico, fluviale.

Bruno Elpis

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Racconti di viaggio
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    14 Luglio, 2017
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Arrivo a Ostia con un temporale blu

La lunga strada di sabbia è un percorso geografico e letterario (“Solo, con la mia millecento e tutto il Sud davanti a me. L’avventura comincia”) compiuto nel 1959 da Pier Paolo Pasolini .

Da Ventimiglia a Trieste si susseguono le tappe.
E sono ricche di suggestioni letterarie:
“Fregene – Vado subito a salutare Moravia, ritirato alla Villa dei Pini, fresco come un ragazzo, a scrivere il suo nuovo romanzo, La contemplazione e la noia… Fellini mi ha scritto una cartolina chiamandomi «fedelissimo Paolino» (il fondo pascoliano di Fellini lo porta al diminutivo).”

Di impressioni poetiche:
Da Ostia a Napoli – “Arrivo a Ostia con un temporale blu come la morte. L’acqua svapora, tra tuoni e fulmini. I villeggianti sono stretti nei bar, sotto i capanni, con la coda tra le gambe. Gli stabilimenti, vuoti, paiono immensi… Dovevano darlo a te, lo Strega… Ma io mentalmente la tradisco già con l’altra Elsa, Elsa Morante: sono già tutto laggiù nel meridione, all’isola di Arturo.”

Di incontri:
“Ischia – Visconti mi porta un po’ a girare per Ischia… un posto dolcissimo, dove si vive senza nessuna fatica.”

Di emozioni e di ricordi:
A Ischia “Sono felice. Era tanto che non potevo dirlo: e cos’è che mi dà questo intimo, preciso senso di gioia, di leggerezza? Niente, O quasi: Un silenzio meraviglioso è intorno a me…”
“Il senso di pace, di avventura… Mi sembra il Friuli, la Carnia, l’Emilia”.

Quest’opera costò a Pasolini l’ennesima denuncia (“Cutro… è veramente il paese dei banditi, come si vede in certi western”) con relativa vertenza giudiziaria.

Giudizio finale: suggestivo, itinerante, paesaggistico.

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Luglio, 2017
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Andiamo a prenderci quello che ci spetta

Domenico è un ragazzo “difficile”: ha vissuto il trauma infantile della scomparsa del fratellino (“Vincenzo finì nella triste statistica dei bambini scomparsi … Vincenzo perso dietro al suo amico immaginario - ndr: Matito - io divorato dai miei fantasmi letterari. Entrambi perennemente assorti sulle nostre voragini interiori”), è vittima di bullismo, patisce l’emarginazione scolastica e le sfuriate di un padre che cerca di imporgli una schema di vita più “normale”; trova rifugio e conforto soltanto nella lettura (“Persuaso che le pupille che leggono tradiscono sempre una luce più tenue perché più usurata”), che pratica con accanimento.

Con queste premesse e pieno di complessi anche sessuali, Domenico intreccia una strana amicizia con Anna (“Provai un’istintiva simpatia per questa ragazza che, come me, era uscita di casa per leggere Pasolini nella penombra di una stazione, in mezzo al flusso di chi parte e di chi arriva”), rifiuta il lavoro in fabbrica che il padre gli ha procurato (“Io non c’entro nulla con questa pletora di umiliati e offesi”) e si lascia irretire dalle promesse di Agosto, losco personaggio (“Sai, ci sono due modi per liberarsi della mediocrità. Uno è l’arte e l’altro è l’azione. Sono connesse tra loro ma l’azione è su un gradino superiore rispetto all’arte. C’è stato un solo artista che l’ha capito, Rimbaud appunto. Prima ha scritto versi e poi è andato in Africa a vendere armi”), con il quale attua una vendetta ambivalente (“Lunedì. Questo lunedì. Andiamo a prenderci quello che ci spetta”).

Gli eventi precipitano verso un epilogo che in qualche modo riecheggia Lo straniero di Camus.

Giudizio finale: crudele, impietoso, sferzante

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    06 Luglio, 2017
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La soluzione di Nullo al carobenzina

Diego Marani attraverso la Vita di Nullo racconta la storia di una generazione (“Gli ultimi astanti di un bar che nessuno frequenta più”) che riconosce la propria identità per opposizione, assumendo Nullo come “la nostra vittima sacrificale, il nostro capro espiatorio. Ma la sua peculiarità era che dal sasso del sacrificio neanche a rito compiuto voleva spostarsi”.

Come spesso succede, l’importanza di Nullo esplode quando lui viene meno (“Eppure mi sento colpevole della scomparsa di Nullo”): in quel momento la coscienza del gruppo si afferma (“Ci tenevi in pugno, ci costringevi a esaudire le tue smanie e lasciavi a noi l’amara parte del carnefice”) e si celebra come nei tempi passati (“Lontano dal bar Nullo era lasciato a se stesso. Noi in qualche modo convogliavamo il suo anelito all’autodistruzione in una danza tribale che alla fine lo salvava”): quando Nullo era figura tragica sul suo Malanca Testarossa, o sulla 127 a benzina trasformata con alimentazione a metano (“… due siluri… sul portapacchi… sembrava un sommergibile…”).

“Che Nullo sia ancora vivo e vegeto ne abbiamo ovviamente la certezza”. Che sia scomparso, forse, lo si deve alla rivelazione di un segreto: la soluzione di Nulllo al carobenzina (“Nullo dice che poco gliene importa se il prezzo aumenta, tanto lui al distributore ne fa sempre solo cinquemila lire alla volta”).

Difficile stabilire il discrimine tra bullismo (“La nostra derisione era un abbraccio caldo che lo tormentava e lo consolava, che lo ripagava di ogni sofferenza e gli dava il suo esclusivo posto fra noi”) e venerazione (“Ci porterà via da questo pianeta disabitato, da questo brutto bar, da questa gente cattiva, da questo tempo che non è il nostro dove nessuno ci conosce più”).
La storia scorre tra due argini: lo sgomento per la crudeltà delle dinamiche del branco, la nostalgia per le dinamiche giovanili…

Giudizio finale: cameratesco, cinico, generazionale

Bruno Elpis

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Romanzi
 
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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    02 Luglio, 2017
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Ho prenotato in quella Locanda

La Locanda dell’Ultima Solitudine di Alessandro Barbaglia è una storia tracciata ai confini del nonsense. Vediamo se riesco a disegnarne una sinossi ragionevole.

Alla misteriosa e taumaturgica Locanda (“Ho prenotato in quella Locanda di cui ho trovato il biglietto nel suo baule”) confluiscono i percorsi esistenziali di due giovani: Libero e Viola.
Lui ha sposato la figlia del sindaco della Città Grande.
Lei abita in un paesino chiamato Bisogno e discende da una stirpe ove le donne hanno nomi di fiori (“Una volta Margherita accordava i fiori”) e sono per lo più dedite ad attività a dir poco voluttuarie: “Il mercoledì avrebbe organizzato anche un corso per imparare a piangere. Il primo livello era facile, si usavano le cipolle, ma poi bisognava fare tutto senza aiuto.” Viola ha inoltre patito un grande dolore: suo padre si è allontanato (e come non capirlo, vien da chiedersi, anche noi forse saremmo fuggiti a gambe levate da lì!).

La locanda è stata forse fondata da un ragazzino fuggito – anche lui! - ai tempi dei partigiani (“I dodici partigiani dell’Ossola l’avevano preso con loro perché era figlio di falegname… sapeva pelare patate…”) ed è gestita da un misterioso uomo con i baffi.

Poi i luoghi astratti – la Città Grande e Bisogno - si definiscono: così compare la stazione di Orta e la Locanda si materializza in zona Camogli (“Aveva ancora la forma dell’Ultima Solitudine, la forma dell’uomo che non accetta la vita per paura di morire. E abbandona tutti, per morire solo. O solo per morire”).

Tra ontologia prêt à porter e umorismo che grida vendetta (“Ma i cani non spariscono, scappano!... Forse la pipì scappa, ribatte Libero con aria stizzita”), ho stentato a sintonizzarmi con il tono di questa storia (finalista al premio Bancarella 2017).

Giudizio finale: stralunato, naïf, grottesco.

Bruno Elpis

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    02 Luglio, 2017
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Io non voglio comportarmi in modo diverso

Nel romanzo di Fabio Geda le Anime scalze sono il quindicenne Ercole Santià, la sorella Asia, il piccolo Luca: bimbi e ragazzi lasciati soli da adulti sconclusionati, incapaci di svolgere il ruolo di educatori e di guide.

Ercole è alle prese con il primo amore, quello per Viola, una ragazza di buona famiglia, che in lui coglie spontaneità e originalità. Ma Ercole deve affrontare una situazione familiare disastrosa: un padre buono, tuttavia facile all’ebbrezza; il rischio di interventi degli assistenti sociali; una madre sparita, alla quale risale grazie ad alcune cartoline che indirizzano verso Pinerolo e, da lì, a Erta.

Nella narrazione e nei dialoghi Geda assume, con efficacia di risultato, il punto di vista del quindicenne protagonista:
“E come facciamo?
Basta comportarsi in modo diverso.
Io non voglio comportarmi in modo diverso.
Allora non vuoi essere diverso da lui.
Non so. Forse no.”

La prospettiva è credibile (“Quell’estate… Un tempo a fisarmonica, con giorni lunghissimi e immobili, la polvere che galleggia nell’aria, e giorni veloci, come lepri che fuggono verso le tane, per non farsi catturare”), l’esito narrativo interessante (“Nel Cimitero Monumentale di Torino sono sepolte persone come Silvio Pellico, che ha passato un sacco di tempo in prigione; Galileo Ferraris, uno scienziato che ha dato il nome a un liceo; Ferrante Aporti, uno che si è occupato di educazione e per questo gli hanno intitolato il carcere minorile; Primo Levi, di cui ci hanno fatto leggere un libro, a scuola, che prima o poi devo rileggere perché secondo me diceva delle cose enormi e la mia testa era ancora troppo piccola; e il Grande Torino, la squadra intera morta nella tragedia di Superga…”).

Giudizio finale: generazionale, convincente, colpevolista.

Bruno Elpis

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