Opinione scritta da silvia t
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Sorgo Rosso
Se quella cinese è una realtà oscura e sconosciuta Sorgo rosso è il libro adatto a colmare questa lacuna, infatti, non vi è narrata solo una storia, vi è narrata una mentalità, una cultura. Il racconto non potrebbe essere svolto da nessun altra parte, in nessun altro paese.
Mo Yan ci scaraventa con violenza in un mondo a noi lontano per usi e costumi e lo fa apparire vicino e comprensibile, attraverso uno stile asciutto, ma lacerante che non concede sconti a nessuno; ci sono momenti in cui l'abile penna di Mo Yan scava così in profondità da creare nel lettore una stretta al cuore così forte da togliere il respiro, così forte da costringere a prendere una pausa e ritornare nel proprio mondo. I personaggi sono caratterizzati così bene, con pochi tratti, da aver l'impressione di averli sempre conosciuti attraverso i racconti degli anziani; diventano, pagina dopo pagina parte integrante del bagaglio culturale, esempio e guida morale; la loro personalità è forte e ricca di sfaccettature, Mo Yan non ne nasconde nessuna, né le più eroiche, né le più meschine, spesso presenti nella stessa persona; proprio per questo appaiono quanto mai reali e vivi.
L'originale io narrante è il nipote che racconta le vicende dei nonni e del padre in un tempo che è sospeso, un continuo ondeggiare tra passato, presente e futuro; molte morti sono raccontate subito, per poi scoprire l'antefatto molto dopo, creando una spinta propulsiva che non ha eguali.
Osservatore silenzioso e discreto il Sorgo cresce tutto intorno e si fa di volta in volta utero, tomba, cibo, vino, arma diviene simbolo della vita e della morte, dell'amore e dell'odio, nasconde e svela, ma è sempre presente a ricordare a tutti la vacuità della vita e di quanto essa possa essere importante; sembra di udire il lento sbattere dei fusti al vento, generando un suono che dona tranquillità e quiete anche quando fuori c'è la guerra e la distruzione, fino a quando il Sorgo rosso popolerà la distesa di terra scura la vita esiterà, fino a quando riuscirà a germogliare anche una sola pianta ci sarà speranza per gli uomini. Ciò che più colpisce, in un insieme di parole che per sua stessa natura sono spine che si conficcano nella carne, è la capacità di trasmettere nello stesso istante dolore e speranza; si riesce a provare pietà e odio, insieme e non si riesce a capire come sia possibile; la natura è quasi venerata, attraverso al descrizione degli animali, cani, volpi, muli, che sono così ben descritti nei loro comportamenti che sembra impossibile possano essere cosa diversa dall'uomo. Una marea montante di emozioni sopraffà il lettore, come succede in “Cent'anni di solitudine” niente è inutile, non un nome, non una parola, tutto è fonte di una ispirazione superiore, di un disegno ben presente nella mente di chi scrive, sono gli odori che si fanno colori, i suoni che fanno immagini in un caos di sensi che lascia senza fiato e privi della capacità di giudizio, schiacciati da quel destino che si abbatte sul villaggio per giocare un gioco troppo complicato per essere compreso, troppo perfetto per essere criticato; ecco che la guerra, la distruzione, le armi assumono quel significato profondo che da polito-sociale si fa catarsi della singola persona; nel sangue delle vittime attraverso di esso la purificazione è possibile, ma non completa, solo la morte, forse porterà la vera pace, nel Cielo che tutti accoglie, sarà possibile la vita eterna.
E' difficile riuscire a trasmettere quello che si prova, è come se avvolti dal sorgo, accucciati alla sua ombra, nascosti, tra l'odore di putrefazione e di nuove piante, tra ossa di uomo e cane, osservassimo tutta la vicenda, come se dalle pagine immagini oleografiche si manifestassero lasciandoci quel senso di impotenza di fronte al fallimento di ogni nostro tentativo di essere lì, a combattere contro i diavoli gialli, a parteggiare per i cani che vogliono cibarsi di cadaveri, a comprendere la paura e lo sfinimento di coloro che per i morsi della fame non riescono più a distinguere il reale dal falso.
Non è solo questo, però, Sorgo Rosso, è un'opera che scava un solco in chi la legge, un solco profondo che farà vedere la Cina con occhi diversi, con una prospettiva che cambia del tutto il punto di vista. Mo Yan è riuscito in questo compito, far conoscere il suo popolo, far comprendere la sua cultura, un Nobel più che meritato per un romanzo che non dovrebbe mancare nella biblioteca di nessuno.
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Un delitto in Olanda
Se questo giallo dovesse essere sintetizzato con un aggettivo questo sarebbe: veloce.
Il dono della sintesi è solo dei più grandi e Simenon può essere annoverato tra costoro, il lettore che si avvicini per la prima volta alle vicende del famoso commissario non rimarrà spaesato, non si sentirà estraneo in casa d'altri, anzi avrà la sensazione di essere invitato come spettatore invisibile alla risoluzione del caso.
Un delitto in Olanda, uno dei primi gialli prodotti dal prolifico autore, è lineare, con un intrigo di semplice risoluzione, ma allo stesso tempo ricco di tutti quelli elementi che pur racchiusi in pochi personaggi riescono a descrivere l'atmosfera gravida di ipocrisia che la trama necessita per essere tessuta. Lo stile asciutto e minimalista non si perde in descrizioni che renderebbero la lettura pesante e lenta, ma caratterizza ogni personaggio, Maigret in primis, utilizzando le caratteristiche fisiche e psicologiche per arricchire la trama, non sono mai elementi fini a se stessi, ma sempre importanti per la risoluzione del caso. La forma fisica di Maigret non è mai raccontata, gli elementi della sua costituzione sono sottolineati per tutta la durata del racconto da avvenimenti e nella mente del lettore la sua immagine si costituisce piano piano, elemento dopo elemento fino ad avere una visione d'insieme del personaggio. Lo stesso accade con l'enigma, i veri indiziati e testimoni sono presentati in modo lento e la loro psicologia è indagata più con i silenzi che con le parole, più con ciò che non è detto rispetto a ciò che è palesato.
Nel caso specifico ognuno degli indiziati è odioso, non suscita empatia, fa desiderare che sia il colpevole perché violento, perché ipocrita, perché, codardo o solo perché odioso.
Molto più di un giallo, perché sfrutta il puzzle da risolvere per far riflettere su quanto una verità debba essere svelata, quanto questa materializzandosi, possa arrecare più danni della morte stessa.
Maigret è un poliziotto e deve adempiere al proprio dovere, non può esimersi, ma il lettore può decidere, cosa avrebbe fatto al suo posto, di sicuro la curiosità porta fino all'ultima pagina, in cui l'assassino viene svelato, incastrato, umiliato.
L'unica cosa che appare ancora acerba, ma che col tempo diverrà più fluida è la ricostruzione che risulta macchinosa e legnosa, ma senza dubbio efficace.
In estrema sintesi, buon giallo per chi come me ne ha letti pochi e non ama il genere, ha il grande pregio di incuriosire e di spingere a leggerne altri gettando un seme affinché questa passione possa germogliare.
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Un bel sogno d'amore
Un piccolo paese di provincia, l'inizio degli anni settanta, la società che sta cambiando, questi gli ingredienti che compongono l''ultimo romanzo di Andrea Vitali.
Leggendo l'ingannevole quarta di copertina si ha l'impressione di trovarsi in mezzo ad una divertente ed ironica contesa tra fazioni rivali: bigotti contro progressisti; motivo del contendere la proiezione di “Ultimo tango a Parigi”, che, in realtà, occuperà ben poco spazio nell'economia del romanzo, così come poco spazio occupa l'analisi sociologica o l'allegra vitalità delle comari di paese. Ciò che riempie le tante pagine del romanzo sono personaggi, più o meno ben caratterizzati, che intrecciano le loro vite, creando una storia divertente e non del tutto banale, ma inutile nella sostanza. Il piano narrativo è ben strutturato, non ci sono falle o salti logici; non si può parlare di un genere, ma di più generi che si alternano dando vita ad almeno tre filoni principali, i quali si sfiorano, a volte in modo più deciso a volte solo con un labile sguardo, ma rimangono indipendenti uno dall'altro, gestiti bene, con ritmo incalzante che incuriosisce e intriga.
Lo stile con cui è scritto è lineare e asciutto con un lessico accessibile a tutti, dialoghi credibili e descrizioni quasi assenti, forse qualche volgarità gratuita, che stona nel contesto generale fatto di quell'antica educazione che si andava perdendo nelle città.
Come spesso accade, però, non è la tecnica e un buon soggetto a rendere un romanzo un buon romanzo, ma la capacità di trasmettere un'emozione o lasciare una riflessione e questo non accade, quando il volume giunge alla sua conclusione rimane quel retrogusto di vacuità che pervade, invero, tutto il libro che invoglia, questa volta sì, a considerare di cosa sia deficitario.
La sensazione che si ha è che questo micromondo sia sospeso in una bolla di vetro a mezz'aria del tutto privo di quel magico substrato popolare fatto di bisbigli, chiacchere e facezie che avrebbero dovuto costituire le fondamenta su cui erigere la struttura narrativa; così non è stato, il paese è popolato solo dei personaggi descritti, se si escludono concerti rock in cui, però, la folla è costituita da giovani, che non creano quell'atmosfera tipica e determinante se si vuol scrivere un intrigo di paese. Le strade sono vuote, non esistono figure caratteristiche, non conosciamo il paese con i suoi figuranti, esistono solo i personaggi che lo vivono e lo popolano, ma soprattutto e cosa più importante, non si approfondisce la tematica sociale che sarebbe stato un valore aggiunto, non un accenno agli anni di piombo o alla politica e neppure alla rivoluzione musicale, dato che nel succitato concerto il massimo del rock è una cover di “Non è Francesca” nel tripudio del pubblico, una storia come questa sarebbe potuta essere scritta in qualunque periodo senza subire sostanziali danni.
Mentre le pagine scorrono veloci la mente non può non andare a Guareschi, gli occhi si riempiono, in assenza di altro, delle sue fitte descrizioni della società del tempo, dell'ironica lievità con cui un'Italia fragile, ma combattiva si è fatta icona nell'immaginario collettivo, non viene chiesto un capolavoro a Vitali, non viene chiesto di eguagliare il grande Guareschi, ma di prenderne spunto e utilizzare la ricchezza che possiede, fatta di quotidianità ambulatoriale per lasciare traccia di ciò che crea un piccolo agglomerato, ciò che ne è l'essenza, i suoi tanti abitanti che ne creano la spina dorsale.
In conclusione una lettura piacevole, perfetta per trascorrere un pomeriggio rilassante, ma un'occasione persa per la realizzazione di un buon romanzo popolare.
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Regole e rappresentazioni
Può un saggio essere interessante, colto e allo stesso tempo riuscire ad appassionare pur trattando di argomenti ostici e non comuni? Chomsky riesce nell'impresa tutt'altro che semplice, riunendo in un unico volume sei conferenze da egli tenute riguardanti la linguistica.
Il contenuto è molto tecnico e per gli addetti ai lavori, soprattutto nella parte centrale, ma attraverso uno stile asciutto e sarcastico riesce ad essere comprensibile a tutti, forse non del tutto,ma il senso generale si riesce a carpire e soprattutto riesce con poche parole ad aprire un mondo nuovo o meglio una visione del mondo diversa. Ciò di cui tratta è, in poche parole, la grammatica universale e come il linguaggio sia una prerogativa innata dell'uomo, codificata dal genoma. Il concetto non è del tutto nuovo, già Socrate per mano di Platone aveva spesso parlato di maiutetica, ma quello che rende affascinante questo viaggio è la capacità di riconoscere i propri limiti di conoscenza, ma allo stesso tempo di studiare e analizzare con metodo scientifico una proprietà mentale allontanandosi molto dalla psicologia che si basa su astrazioni e anche dalla filosofia, ma queste due discipline sono presenti e molto ben conosciute da Chomsky.
Quello che però rende particolare questo saggio non è l'indubbia professionalità e competenza del suo autore, bensì la sua capacità di scrivere in modo fluido e coinvolgente; è incredibile come riesca trasmettere la sua passione per questa materia, incuriosire il lettore irretendolo e non lasciandolo andare più via, facendolo diventare conscio del suo potenziale e intenzionato a esprimerlo.
Una visione completa e “dall'alto” di tutta la conoscenza umana, non è sufficiente specializzarsi in un argomento, l'importante è avere una visione d'insieme, quello è il vero valore aggiunto, quello rende un saggio qualcosa di più di un trattato di nicchia.
Una volta conclusa la lettura si diviene più colti senza dubbio, ma anche più consapevoli della propria ignoranza o meglio del proprio potenziale inespresso, carichi di quella voglia di conoscenza e pronti a riflettere su ogni parola, ogni gesto, ogni suono che crea quella meravigliosa qualità umana che è il linguaggio.
Consigliato a tutti, ma come sempre soprattutto a chi vuole scrivere, che non può esimersi dal conoscere l'esistenza di un mondo del quale la lingua parlata non è che la punta dell'iceberg.
Unica pecca di questo volume è la traduzione di Giuseppe Gallo, infatti presenta non poche imperfezioni, che per un libro di linguistica non è proprio il massimo.
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La vita istruzioni per l'uso
Non si può non rimanere affascinati da un'opera come questa, per la complessità della struttura, per la ricchezza del lessico e per la magnifica profondità del contenuto. Lo stile scelto è semplice e lineare, ma è l'architettura che lo sostiene ad essere molto elaborata e contorta. Membro dell'OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero "officina di letteratura potenziale"), Perec utilizza tutti i mezzi a sua disposizione per limitare e circoscrivere la propria libertà di espressione, utilizzando schemi di narrazione e vincoli che sono decisi a priori; per fare un esempio: ci sono nel romanzo quarantadue liste di dieci oggetti ciascuna, riunite in dieci gruppi di quattro elementi e due gruppi contenenti liste di "coppie". La vicenda si svolge in un condominio di dieci piani, in ognuno dei quali sono presenti dieci stanze, Perec immagina di poter togliere la facciata e di poter vedere la stanza che si affaccia sulla strada. L'idea è semplice e geniale, partendo da un elemento della vita di tutti i giorni, presente nell'esperienza di chiunque, si snoda un dedalo di storie, ramificate e intrecciate che dal milleottocentotrentatre arriva sino al millenovecentosettantacinque, più di un secolo di storia racchiuso in quelle quattro mura. Quello che si potrebbe pensare è che costretto da tali rigide regole l'essenza del romanzo ne risenta, ma non è così, come i poeti riuscivano a creare opere d'arte nonostante la metrica, così Perec riesce a generare un poetico insieme di esistenze fatte di vite normali, vite straordinarie, vite inutili. Se nella storia principale, quella di Bartlebooth, si condensa tutto il significato della Vita nella sua vacuità, nelle altre si possono scorgere elementi di ordinarietà, fatti di tanti piccoli gesti, tante piccole manie che non possono non commuovere. Così tante sono le storie raccontate e le vite passate in rassegna che diviene difficile farne una cernita, ma la chiave di lettura sta nel titolo: La vita istruzioni per l'uso. L'autore ci dà la possibilità di capire, di penetrare in quella che è la domanda che tutti si pongono: qual è il senso della vita? Quando si arriva all'ultima pagina, all'ultima lettera, per una frazione di secondo si ha l'impressione di averlo colto, di stringerlo nel pugno chiuso, quasi a proteggerlo, quasi impauriti di questo grande privilegio, ma è un attimo appunto, quando la mano si schiude non rimane niente a testimoniare quello che è stato, solo quella sensazione del risveglio dopo un sogno, la stessa frustrante impossibilità di ricordare e a niente servirà rileggere quelle pagine, proprio come la madeleine di Proust non riuscirà mai più nel miracolo della rievocazione del tempo perduto, così dovremo tenerci stretta quella sensazione, quell'unico istante in cui il senso della vita appare chiaro nella nostra mente per perdersi ancora e per sempre nei suoi meandri oscuri. Un capolavoro del novecento, che si rende indispensabile nella comprensione di un secolo così importante e così drammatico, così ricco di idee e di voglia di rompere gli schemi in tutti i settori, quasi a voler distruggere per poi ricostruire; come fu per gli altri autori anche in quest'opera la quantità di informazioni è incredibile, la cultura di Perec è enciclopedica, ma non è ostentata, va a imbibire le pagine ed è impossibile non rimanere affascinati da un sapere che sembra oltrepassare le porte dello scibile.
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Sindbad torna a casa
Un tuffo nella malinconia della giovinezza ormai sfumata e con essa tutto quello che la popolava.
Sandor Márai realizza un romanzo molto particolare per stile e contenuto, riesce ad unire una bella prosa a delle emozioni profonde. Il peregrinare per Pest è di Joyciana memoria, come Ulisse anche Sindbad si trova in un sol giorno a vagare per le vie della città vecchia, ormai solo ombra di ciò che era, solo vuoto guscio di un mondo lontano, quando gli scrittori erano anima e i libri vita, quando Sindbad era giovane e rispettato per quello che scriveva.
Quanto la trama è semplice e lineare tanto profondi sono i temi toccati e molto attuali, nonostante il romanzo sia stato pubblicato nel 1940, interpretabili a più livelli.
Il protagonista Sindbad, ovvero Gyula Krúdy, si fa essenza della scrittura stessa, trasmette la passione, l'ansia di esprimere le proprie emozioni, l'amore per la propria patria e la malinconia di qualcosa che finisce in modo definitivo, l'alito della morte che aleggia sulla vita e facendosi soffio porta via tutto quello che è stato. Ciò che rende questo piccolo libro speciale si trova nella parte centrale, dove l'autore, mentre Sindbad pranza, sopraffatto dai ricordi, ci ricorda perché egli scrive e sono pagine di una intensità profonda che l'allievo dedica al proprio mentore, in cui lo eleva a musa e guida, ad impersonificazione dell'ispirazione e di quella forza che si impadronisce di un uomo e lo trasforma in artista. Ogni aspetto della vita diviene spinta propulsiva a scrivere per lasciare testimonianza di quell'attimo, di quella sensazione irripetibile e determinante.
Quel ripercorrere le tappe dei caffè letterari e trovare desolazione e superficialità nei giovani scrittori orfani della passione e della capacità di provare emozioni, di quel riuscire a trasmetterle solo con la penna, è un elevare la propria arte, ma soprattutto la propria giovinezza, quando non esisteva una casa, perché questa erano i profumi del bagno dove a settanta gradi si discuteva con gli altri intellettuali dei fatti del mondo per renderli arte oppure il gusto del caffè unica e vera bevanda dello scrittore.
Il ritorno a casa è struggente e foriero di nuovi pensieri e della presa di coscienza di un'epoca andata, finita, dissolta, ma anche della certezza rinnovata che il proprio passaggio nel mondo non è stato vano, un'infinitesima traccia è stata lasciata e questo basta per dare un senso alla vita, quasi a descrivere il destino di ogni scrittore la cui opera sopravviverà in eterno.
Tutti questi fili sono tenuti insieme da una scrittura fluida, scorrevole in cui Márai sostiene Sindbad e lo caratterizza in modo preciso, non nascondendone i molti difetti, ma mettendoli al servizio del suo genio. I personaggi secondari sono appena accennati e tutto il viaggio è pervaso di citazioni di scrittori vissuti in Ungheria all'epoca di Krúdy, che rendono ancora più struggente questo viaggio di Sindbad in una costosa carrozza.
Scritto come omaggio al proprio maestro, utile a tutti quelli scrittori che hanno smarrito la passione e la ragione per rendere vive le pagine su cui scrivono.
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V.
Non stupisce che l'opera prima di Thomas Pynchon sia stata un successo di critica e di pubblico nell'ormai lontano 1963; esemplare prodotto della corrente post-moderna, racchiude in se stesso la percezione in toto di un'epoca, in cui confluiscono passato, presente e futuro.
«[...] Dentro V., dentro lei, c'è molto di più di quanto nessuno abbia mai sospettato.
Il problema non è tanto sapere "chi" è, ma "che cosa". Che cos'è? Dio non voglia che io sia mai chiamato a fornire questa risposta, né in questa sede, né in qualsiasi rapporto ufficiale.[...] »
Così come dentro V. c'è qualcosa di più di quel che appare, così dentro al romanzo c'è un mondo di difficile comprensione raccontato con uno stile semplice e immediato, privo di virtuosismi letterari, ma con un lessico ricco e ricercato. I personaggi sono caratterizzati in modo attento e ognuno ha un ruolo fondamentale nella struttura del racconto, la quale può ad una lettura superficiale, apparire confusa e casuale, ma che, al contrario, è precisa e mai ridondate. In sintesi la trama è composta da due fili: il romanzo di Stecil che ricerca V. e il romanzo di Benny che cerca di sopravvivere con stenti e privazioni in un'America ormai priva di una guida e di valori, egli uomo inetto che si troverà a far parte della "banda dei morbosi" in cui ogni individuo vive di espedienti, felice di farlo. I due fili si intrecciano in un modo che appare casuale, ma quasi prestabilito da una Storia che si riflette in se stessa ripetendosi in un ciclo infinito e immutabile. I personaggi secondari sono le fondamenta su cui si poggia tutto il romanzo, creano la base forte e resistente che sostiene il peso di concetti inespressi, ma tangibili. Attraverso di essi Pynchon urla a gran voce il suo pensiero, antirazzista contrario ad ogni forma di oppressione, utilizza avvenimenti storici, come la rivolta e lo sterminio degli Herero rappresentandoli come irreali, descrivendo la barbarie e l'inumanità della vicenda, producendo un senso di straniamento nel lettore che non comprende più ciò che è reale e ciò che non lo è, poiché l'autore si diverte con esso, lo confonde, lo pone di fronte alla sua ignoranza.
Proprio questa impertinenza è la forza del romanzo, perché non si limita a citare, in un nozionismo sterile, spiega, racconta , descrive, arricchendo il lettore, ma confondendolo, poiché se privo della cultura necessaria, dovrà documentarsi per comprendere qual è la verità e quale la finzione.
Un gioco di specchi in cui ogni personaggio si riflette nell'altro vedendo i propri difetti e rifuggendoli, ma senza riuscire a liberarsi di essi, in cui gli eventi non riescono a riconoscersi e a cambiare, l'olocausto degli Herero richiama quello degli ebrei, la rinoplastica di Ester, giovane dall'adiato naso adunco, si fa metafora della condizione del popolo ebraico e gli esempi potrebbero continuare senza soluzione di continuo per molto tempo.
Una bellissima immersione in un mondo fin troppo reale, in cui gli odori si sentono, l'oscurita e lo squallore si vedono, in cui niente è solo ciò che è rappresentato, ma si fa metafora di un concetto universale, in cui ogni tassello serve a comprendere la complessità di V., che è tutto ed è nulla, evanescente ed inutile come solo la vita sa esserlo. Forse alla fine V. non è altro che l'essenza dell'esistenza, quell'inseguire uno scopo che non esiste, quel cercare significati a ciò che significato non ha.
Opera cardine della corrente post moderna che non può mancare al bagaglio culturale di un lettore, ma che deve seguire, senza ombra di dubbio, un senso cronologico, deve essere posta al suo giusto posto nella disgregazione, tutta novecentesca, del romanzo classico, altrimenti appare vuota e incomprensibile.
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Lo Hobbit
Una fiaba per bambini, dolce e tenera come solo un padre potrebbe ideare ed è proprio Tolkien che utilizza il meraviglioso mondo che ha in mente per addormentare i propri bimbi e popolare i loro sogni con nani, elfi, hobbit e draghi. Lo stile utilizzato è molto semplice e diretto, Tolkien spesso si rivolge al lettore anticipando vicende che avverranno nel futuro e nei momenti più difficili rassicurandolo sulle sorti di Bilbo, il protagonista; è proprio questo fluire di parole che accarezzano e coccolano, che accompagnano e rassicurano in tutte le vicende che il piccolo hobbit in compagnia di alcuni nani affronta, a rendere delizioso il cammino. Si entra in punta di piedi in un mondo fantastico e pieno di esseri fantasiosi, ma non per questo incomprensibili; ci sono momenti in cui tale è l'empatia con Bilbo che i morsi della fame sembra di sentirli e i piedi inziano a far male, così si spera che tutto vada bene, che la dea bendata passi da quelle parti e che con la sua cornucopia sparga un po' di fortuna intorno alla piccola compagnia e spesso questo desiderio si avvera.
Pur essendo scritto con uno stile così semplice racchiude in sé una potenza che a una lettura superficiale non si coglie, il bene e il male non sono rappresentati in maniera manichea, ma vengono raffigurate molte sfumature, che sono umane e che meritano una più approfondita riflessione. Le due anime, quella coraggiosa e quella più paurosa di Bilbo ne sono un esempio, il prevalere dell'una e dell'altra è calibrato in modo perfetto, oscillando da una parte e dall'altra senza che nessuna delle sue sia soffocata, quasi a rappresentare il passaggio da un' infanzia protetta tra le mura domestiche e l'età adulta in cui malgrado tutto prima o poi si dovrà accedere, portandosi dietro tutte le paure di un salto nel buio, ma che alla fine ci renderà diversi e orgogliosi di aver affrontato questa inevitabile prova. Il male è rappresentato da Gollum e da Smog, un essere triste e malinconico il primo, un drago cattivo il secondo, se senza dubbio entrambi sono esseri malvagi, le loro vicende sono narrate in modo così dolce, così soffuso che si prova pena quando la giusta punizione li colpisce; è questo l'aspetto più particolare di tutto il romanzo, la capacità di far emergere il buono che c'è in ogni persona, è impossibile essere felici per la sconfitta di Smog, perché anche nella sua perfidia e avidità quello che traspare è un'infinita solitudine e tutte le sue ricchezze sono l'unica consolazione che ha, gli unici amici di cui godere la compagnia, così come la disperazione di Gollum nell'aver perso il suo anello diviene quasi insopportabile, il suo urlo di dolore lacera il cuore e ci fa empatizzare con quell'essere malvagio che si sente perso senza il suo tesoro e allora quasi speriamo che in qualche modo Bilbo possa restituirglielo. La rappresentazione dicotomica del bene e del male è un elemento tipico delle fiabe, ma qui non è netta, ma sfumata come è davvero nella vita reale, ciò che ad una visione superficiale appare in un modo se posto sotto una luce diversa appare in altro per poi, come in un caleidoscopio, mutare la propria forma in qualcos'altro in un eterno gioco di sfumature. Il lieto fine è obbligatorio, ma una nota di tristezza accompagna il viaggio di ritorno di Bilbo con lo stregone saggio, ma lo hobbit non sarà mai più lo stesso, è diventato adulto e la vita non apparirà più ai suoi occhi come prima ed egli sarà più orgoglioso di se stesso di come non avrebbe mai potuto sognare di essere.
Una favola da leggere a tutti i bambini, perché possano internalizzare dei concetti che poi da grandi ad una seconda lettura potranno comprendere fino in fondo cogliendo sfumature che avevano solo intuito.
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Il weekend
E' la descrizione di qualcosa di impalpabile a voler essere descritto in questo romanzo breve, la tensione che si sviluppa in un gruppo di amici, subdola, sgradita, inaspettata. La trama è semplice, di fatto non succede niente in quei pochi giorni e questo incuriosisce oltremodo l'aspirante lettore. Lo stile ancora acerbo di Cameron si svela con tutti i suoi limiti nel delineare gli stati d'animo dei personaggi che appaiono eccessivi. La struttura narrativa è ben costruita, il climax è pressoché perfetto; la vicenda inizia nella calma e nella pace, sottesa la speranza di una vita dopo un grave lutto che trasmette l'eccitazione per un nuovo inizio che possa attenuare il senso di vuoto e di colpa. I personaggi sono introdotti al momento e nel ruolo giusto. Eppure manca qualcosa, manca quella magia che cattura quando l'autore non si limita a raccontare, come un bravo cronista, ma a trasmettere un'emozione. Tutto il romanzo è una ricerca spasmosica di far respirare l'atmosfera pesante che i personaggi creano con i loro rapporti, morbosi il più delle volte, ma è una ricerca vana poiché la caratterizzazione è affidata ai ricordi, anzi al racconto da parte del narratore onnisciente di ciò che è stato che svela in tutto e per tutto, quasi a giustificare, le azioni del presente, ma non basta a far empatizzare il lettore con il nucleo di amici storico, il che potrebbe ancora andare bene se ci fosse un contraltare di rilevo, ma che invece è appena accennato e non ha la forza di sgretolare le sovrastrutture che il gruppo incarna. Tutta la struttura è riconducibile, alla fine, a due entità di persone, la coppia eterosessuale con l'amico "vedovo" omosessuale e il di lui nuovo fidanzato con l'amica italiana della coppia, ma sono sbilanciate, infatti i primi vivono la loro esistenza ovattata e priva di emozioni, protetta dalle consuetudini e dalle abitudine la cui rottura porterebbe a disintegrare quel fragile equilibro esistente; dall'altra parte abbiamo la spontaneità e l'ingenuità, ma se Robert è il personaggio più riuscito e che davvero fa respirare una boccata d'aria pura trasmettendo emozioni profonde, forse foriero del pensiero dell'autore, Laura subisce lo stesso trattamento degli altri, il passato e l'inutile e noiosa descrizione della parte rimanente della sua famiglia che giustifica il suo temperamento, la privano della spontaneità che controbilancerebbe tutta la struttura.
Un ottimo esercizio di stile comunque, di cui consiglio la lettura che si esaurisce, purtroppo in poche ore, lasciano il lettore, più o meno, come lo ha trovato.
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Il deserto dei Tartari
La speranza custodita all'interno di mura sicure, protetta e coccolata, per anni e anni; la speranza che permette di aggiungere un giorno all'altro nel lungo scorrere della vita; la speranza che si materializza quando ormai non c'è più tempo, non c'è più vita. Buzzati non racconta una storia, ma descrive uno stato d'animo presente in ogni uomo: la solitudine. L'attesa dei Tartari, come catarsi, è metafora dell'inutilità della vita che risulta vera solo nell'azione e non nell'immaginazione, la ricerca spasmodica di uno scopo in qualcosa che uno scopo non ha, il lento scorrere di giorni uguali ad altri giorni, l'inverno che aspetta l'estate che aspetta un altro inverno, nell'attesa che anche l'ultimo inverno, che anche l'ultimo giorno si consumi e l'eterno possa infine avvolgere tutto. Capolavoro del novecento italiano non si limita a trattare in modo originale un argomento così intimo e importante, ma lo fa toccando corde che il lettore neppure immaginava di avere, lo fa capovolgendo i normali punti di riferimento, avvolgendo con nebbie e oscurità la vita degli altri, quella fatta di mogli e mariti, genitori e figli, birra, cibo e divertimenti, che appaiono lontani e frivoli, quasi alieni in un mondo fatto di sogno. Infatti quello che Drogo fa per una quantità di anni che appare infinita è coltivare un sogno, costudirlo e sperare di realizzarlo; è paura quella che prova quando è lontano dalle sue mura, paura che i Tartari possano arrivare e non trovarlo e non importa se nessuno ci crede più, egli ci crede e continerà a crederci, come semplice tenente sentirà questo sogno ancora evanescente prendere forma nel suo cuore, adulto lo confronterà con le gioie che potrebbe avere là nel mondo vero e da vecchio lo consolerà nella malattia. Il sogno vincerà sempre e alla fine si realizzerà, i nemici tanto attesi arriveranno, ma proprio in quel momento, come metafora della vita, si renderà conto che tutto quello che conta, che tutto quello che voleva era raggiungere con dignità l'oblio e l'eternità. Toccante, con uno stile da lasciare a bocca aperta, lascia il lettore pieno di dubbi sulla solidità della propria vita, di quanto davvero tutto il meglio sia ormai alle spalle, non importa l'età, non importa il vissuto, importa solo quanto la speranza dentro il cuore sia viva, se c'è allora si potrà anche morire con un sorriso sincero sulle labbra.
Lettura che non può mancare, lettura che lascia un segno nel cuore e nell'animo.
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Santuario
Un libro commerciale; così Faulkner definì, forse in modo ironico, questa sua opera , un mero oggetto finalizzato a far cassa in un momento in cui le poche entrate mal si conciliavano con l'aumento dei componenti della sua famiglia, infatti a se stesso si aggiungeva un lontano amore di gioventù con due figli a carico. Sceglie il genere giallo, una storia che va a cercare ciò che si nasconde sotto la melma, nell'oscuro pantano dell'america proibizionista e bigotta,uno stupro, un omicidio, più sospettati, un avvocato e tanto caos; caos che ricalca la società dell'epoca, peccatori travestiti da benpensanti. E' pura angoscia quella che pervade il lettore fin dalla prima pagina, dove un uomo si accosta a bere ad una polla e un altro uomo rimane per due ore a fissarlo in un climax di inquietudine che all'improvviso si dissolve grazie alla magistrale penna di Faulkner portando i due a camminare lungo una strada, senza che di fatto abbiamo mai iniziato a camminare, come ad anticipare il cammino parallelo che faranno, senza incontrarsi mai più. Tutti gli orrori sono contenuti in questo romanzo, la disperazione di una donna non sposata con un figlio, costretta a prostituirsi per tirare fuori dal carcere il proprio uomo, uno stupro, un omicidio, un errore giudiziario. Faulkner descrive il male che alberga come un principe nelle persone, ma non lo fa giudicando, perché non esistono personaggi buoni a fare da contraltare e ognuno ha i propri peccati da nascondere o da santificare. Come le ombre erano il fil rouge de "L'urlo e il furore", qui sono il buio e la penobra che pervadono la trama, trascinando gli attori di questa storia nelle più grottesche realtà, in vite non vissute, in sogni non realizzati, aspirazioni disattese. La vittima, giovane donna, o per meglio bambina grande, penetrata da una pannocchia come simbolo di virilità da parte di chi non la possiede, non suscita compassione, non è degna di tale sentimento; ella, forse, è il personaggio più corrotto di tutti gli altri, perché non ha un alibi per giustificare la totale assenza di una coscienza. Attraverso le suggestive descrizioni si materializzano intorno a noi, i luoghi e gli odori, la paura e la rassegnazione di una vita che non sa più come definirsi, non sa più che direzione prendere; riesce, Faulkner a trasmettere la disperazione ad ogni parola, le pagine trasudano sensazioni disturbanti, specchio dell'animo di ognuno, con cui il lettore deve in ogni caso fare i conti e riconoscersi, perché non ci sono eroi in questo romanzo solo uomini e donne che vivono un tempo difficile e che hanno difetti e bassezza comuni a tutta l'umanità. Il particolare si fa universale e dalla squallida vicenda del Sud degli Stati Uniti si espande come un fungo atomico il male si spande e si diffonde prima nella mente del lettore e poi in tutto il mondo reale, infarcendolo di una fosca luce grigia.
Ho letto quest'opera in una deliziosa seconda edizione Mondadori del 1950 illustrata da Gottuso e tradotta da Paola Ojetti Zamattio.
Non certo all'altezza dell'"Urlo e il furore", ma ce ne fossero ancora oggi di "libri commerciali" a questo livello!
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Una bella sorpresa
Questo piccolo giallo contiene in sé tutti gli ingredienti per far trascorrere qualche ora di puro divertimento al lettore. Quella che si respira è la più tradizionale Toscana, con i suoi vecchietti a giocare a carte nel baretto e a leggere il giornale come se fosse il pane durante la guerra! Le caratterizzazioni sono perfette, esilaranti, vere e l'atmosfera che si crea sdrammatizza la vicenda, alleggerendola, ma senza mai farla diventare farsa. Il piano narrativo è lineare, il giallo è di facile risoluzione, ma è la caratterizzazione dei personaggi a rendere adorabile questo libretto, il protagonista è forse il più riuscito, poiché da giovane barista laureato, ma non frustrato per questo, si vuole distinguere dai quattro ottuagenari paradigma dell'ultima età della vita, ma inesorabili in esso si vedono comparire i segni di ciò che sarà e sarà inevitabile un giorno giocare a briscola in cinque con i capelli d'argento e mirare "Il Tirreno" per accaparrarselo. I comprimari sono appena accennati, elementi necessari all'indagine, ma del tutto marginali, il cuore della vicenda è il bar ed è lì che la vita del paese si svolge ed è lì che l'essenza del paese, quella vera viene custodita e protetta e come un rito antico tramandato di padre in figli, anzi di nonno in nipote.
Lo stile è semplice, i dialoghi in dialetto toscano donano un tocco comico a tutta lettura costringendo il lettore più e più volte a interrompersi per ridere di gusto, i tempi narrativi sono serrati e non ci sono falle nella trama.
Senza dubbio consigliato per respirare l'aria della mia meravigliosa Toscana.
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Cuore cavo
Quando si conclude questo romanzo anche l'ultima speranza, quella della pace dopo la morte viene infranta. La disperazione che invade il depresso non è raccontata è fatta intuire dalla delusione e dall'inutilità che la morte si rivela. Chi ha sentito dentro di sé la fredda morsa dell'angoscia, insopportabile a tal punto da far apparire dolce e rassicurante l'eterno oblio, ma le ha resistito, non può non godere nell'apprendere che la sua titubanza l'ha salvato, almeno per un po', dall'eterno attendere qualcosa che non arriverà, senza però la consolazione della morte.
Attraverso uno stile originale e fresco quello che ci troviamo a leggere è un inno alla vita, raccontato da chi quell'unico bene lo ha reciso con una lametta da barba in una vasca. Un inseguirsi di sentimenti vengono suscitati durante la lettura che trascinano il lettore in un vortice di sensazioni, spesso forzate, ma sempre intense. I pochi personaggi sono caratterizzati molto bene, attraverso dialoghi ed espressioni, nessuno di essi viene descritto in modo fastidioso, ogni volto è appena accennato lasciando libera la fantasia di immaginare. La protagonista è raccontata attraverso la morte, la disgregazione del corpo, creando un rapporto conflittuale con gli organismi che lo stanno putrefacendo. I personaggi secondari sono un po' esagerati per azioni e reazioni, ma verosimili, mai troppo estremi.
Ciò che rende questo libro molto interessante non è il piano narrativo, ma le molte chiavi di lettura a cui si presta; se ci si lascia trasportare dal sapore agrodolce che suscita, si capisce che l'autrice non ha solo raccontato una storia, ma ha trasmesso delle emozioni, proprie, le ha messe su carta e le ha liberate dal suo intimo. Lo stile se pur talentuoso è ancora acerbo, si alternano paragrafi di pura arte ad di alcuni buon artigianato. L'autrice non ha avuto il coraggio di rendere predominante l'intuizione del geniale incipit, imbibire la carta di quell'ironia tagliente che avrebbe reso questo bel romanzo in un' espressione artistica di alto livello.
Un'opera da consigliare e un' autrice da seguire e da amare.
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Suspance, intrigo, morbosità
Suspance, intrigo, morbosità rappresentano le fondamenta su cui si poggia quest'opera. L' intento dell'autrice è creare attraverso una saga familiare un micromondo e descriverlo in ogni sua sfaccettatura, cercando di creare un substrato che lo accolga. L'ambizioso e arduo compito non è di facile soluzione, infatti non è raggiunto; nel tentativo di stupire e di coinvolgere il lettore quelle che si susseguono sono immagini e situazioni estreme che risultano poco verosimili; un bel mosaico è il risultato della visione d'insieme del suo creatore non della bellezza di ogni singola tessera; La struttura del racconto è complicata, da una parte per il numero eccessivo dei personaggi che compongono la famiglia siciliana allargata e dall'altra per l'intrecciarsi delle vicende dei protagonisti. I fili che ordiscono la trama sono troppi, troppo particolari e sfuggono al controllo dell'autrice che finisce per far collimare il tutto in modo forzato. I personaggi sono mal caratterizzati, inseriti in un contesto melodrammatico e vittime del destino, ma senza che venga mostrata l'essenza del loro animo, senza spiegare ciò che ha permesso una deriva collettiva, senza creare un' empatia con nessuno di essi. Vengono descritte tutte le situazioni che più suscitano emozioni nell'animo del lettore: violenza sulle donne, sadomaso, anoressia, omosessualità, bisessualità., associazione mafiosa, sfruttamento degli immigrati e molto altro; troppo per una sola famiglia, troppo per una sola vicenda. Lo stile con cui il tutto è scritto appare ridondante e cerimonioso, infarcito di metafore che mal si comprendono; le descrizioni sono volte a fotografare e non a raccontare gli eventi o le persone, uccidendo la possibilità di avvolgere la bella villa Pedrara con quell'alone di magia regalatoci dall'originale incipit, in cui la scelta di far raccontare la storia dallo spirito della salma incuriosisce e ben dispone, ma come un banco di nebbia si dissolve via via che ci si avvicina alla conclusione. Lascia l'amaro in bocca, perché sarebbe bastato poco per rendere la lettura lieve e piacevole, un tocco di ironia col quale tentare di spiegare un destino beffardo che gioca con la vita della famiglia Carpinteri una divertente partita a scacchi, ma il velo della realtà offusca tutto, anche quei pochi barlumi di luce che tra le righe si scorgono.
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Solar
La vita di un premio Nobel è sempre avvolta da un'aura di sogno e di integrità morale; un individuo che ha messo le sue capacità al servizio dell'umanità e in questo modo donato benefici al mondo. Cosa avverrebbe però se a compiere questo pensiero fosse Ian Mc Ewan? Dopo avere letto Solar ho le risposte. La caratterizzazione del protagonista è caustica, le sue azioni spinte da un temperamento che affonda le radici nell'infanzia, ma non giustifica il comportamento dell'uomo adulto, che è per natura un cinico egoista. Su queste basi si svolge un romanzo che ha molti piani di lettura, quello narrativo, divertente e leggero, fatto di situazioni e scenari improbabili, personaggi secondari grotteschi e destinati a subire il fascino perverso del protagonista; quello sociologico, che secondo me è il più importante, di cui si potrebbe scrivere per ore, poiché descrive e analizza per mano di giornalisti, opinionisti, persone comuni, attivisti e fanatici quello che è lo spauracchio di questi ultimi anni: il surriscaldamento del pianeta. Argomento sulla bocca di molti, ma nel cervello di pochi, che ha il grande pregio di seminare il senso di colpa in chiunque, ma senza rivelare la reale portata e di far arricchire chi ne percepisce il potenziale economico a lungo e a breve scadenza. Con la naturale maestria tipica della penna di McEwan il lettore si sente parte del problema fino quasi a far germogliare il seme del senso di colpa e ripromettersi di non gettare mai più una lattina nel bidone dell'indifferenziata, ma poi tutto si capovolge, perché il punto di vista è quello di un Nobel che nel suo cinismo vede le cose per quello che sono e che riesce a trasmetterci la reale portata del problema che si manifesta più come uno specchietto per le allodole che una catastrofe imminente. Irritante come solo questo autore sa essere, poiché mostra attraverso i suoi personaggi le nostre più profonde pulsioni, quelle che millenni di anni hanno nascosto sotto la corteccia frontale, farà storcere il naso a molti, offesi e quasi inorriditi dalle azioni che percorrono il libro, ma è questa la caratteristica che distingue questo scrittore contemporaneo, uno dei migliori, da i suoi colleghi: non si può rimanere inerti di fronte al suo stile che riesce a rendere lievi anche le azioni più subdole e indecenti, costringendo il lettore a riflettere e far tesoro di ciò che ha letto.
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Rosa Candida
Una fuga dal proprio mondo, isolato e sperduto, dai legami e dai ricordi; voglia di indipendenza e di rivalsa. Questi sono i temi fondamentali presenti in questo romanzo. Il soggetto è interessante e gravido di promesse del tutto non mantenute nella stesura dello stesso.
Il difetto maggiore, forse complice la traduzione di Stefano Rosatti, è nello stile e nella scelta dell'io narrante utilizzato per raccontare e non trasmettere le emozioni del protagonista.
Tutto il romanzo è una serie di eventi, di binomi causa-effetto che lasciano poco spazio all'interiorizzazione di eventi tragici, non viene trasmessa la drammaticità delle vicende, non si riesce ad empatizzare con nessuno dei personaggi, perchè questi non sono caratterizzati, ma solo abbozzati; nessuno dei comprimari è davvero necessario o ha un peso nella vicenda del protagonista; eppure l'ambientazione si presterebbe bene alla creazione di figure di spessore. Senza citare capisaldi della letteratura che vantano tale scenario, basta immaginare quanto i monaci di un monastero possano essere sfruttati per descrivere vizi e virtù del nostro mondo; invece sono solo ombre che si spostano su un muro senza lasciare un segno.
Come sabbia tra le mani, le pagine scorrono senza alcun guizzo stilistico, senza alcun colpo di scena; forse, ma non credo fosse l'intenzione dell'autrice, con una riflessione sull' illusione del libero arbitrio. L'acqua non potrà mai cambiare la bottiglia, potrà solo plasmarsi ad essa.
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L'urlo e il furore
Faulkner ci getta di prepotenza nella vita della famiglia Compson e non lo fa raccontando le loro vicende, ma mostrandoci i loro pensieri, come questi si presentano nella loro mente.
Abile conoscitore di Joyce e del suo Ulisse, Faulkner riesce nel rendere proprio quel flusso di coscienza, a perfezionare ciò che era già perfetto, creando uno stile unico.
La famiglia diviene un'unica entità, fatta di tante sfaccettature e ognuna di queste è un mondo a sè fatto di pensieri, emozioni e contraddizioni. Ciò che rende questa saga familiare il capolavoro di Faulkner non è la trama, ma lo stile. Non è un pedissequo avvicendarsi di eventi, non è un racconto, sono i pensieri che di volta in volta affollano la mente dei protagonisti, è attraverso questi che capiamo, a poco a poco, ciò che sottende alla sventura.
L'impresa non è delle più semplici e l'autore non lo nasconde; è il primo capitolo ad essere il più complicato, poichè i pensieri sono quelli di un idiota, che si affollano in una dimensione dove il tempo e lo spazio non esistono, i piani sono sovrapposti e dove i cinque sensi hanno dei limiti sfumati e quasi si compenetrano. E' necessario abbandonare ogni logica, ogni schema e lasciar scorrere le parole in un fluire di delicate e emozioni che accompagnano in un mondo semplice, ma doloroso di un uomo senza colpa e senza coscienza di sè. Un viaggio meraviglioso dove ogni precedente visione del mondo è scardinata, distrutta, dissolta, in cui non c'è spazio per la pietà, ma l'oportunità di conoscere l'inconoscibile, di capire ciò che davvero non ci sarà mai concesso di apprendere con l'esperienza diretta: ciò che un idiota prova.
Faulkner si spinge oltre il limite del concepibile, facendoci conoscere i tormenti di un suicida che si insinuano nel quotidiano, improvvisi e repentini, ma continui, come insetti che non riesce e forse non vuole, debellare, così in ogni strada, in ogni toccante episodio di quel giorno i pensieri tornano e aggiungono angoscia all'angoscia e come un gorgo risucchiano tutto.
Le ombre che avvolgono tutto il libro, che velano e svelano la realtà, sono le vere protagoniste ed è attraverso di esse che il particolare si fa universale e che la singola famiglia diviene portavoce della miseria dell'umanità e molto lontano, forse proprio nel loro mondo, dove sono libere e padrone, che un bagliore di luce può generare la speranza che spinge gli uomini ad andare avanti.
Un'opera che lascia il segno, che come fu per L'Ulisse, non può lasciarci come ci ha trovato.
Un inno alla scrittura che si fa arte.
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Ulisse
Quali motivazioni sottendono la lettura de L'Ulisse di Joyce? Nel mio caso il desiderio di dimostrare a me stessa che sarei stata capace di raccogliere, vincendo, questa sfida. Il percorso è stato lungo e difficile, ma alla fine posso affermare di essere più ricca, sotto tutti i punti di vista. L'Ulisse di Joyce è una di quelle opere che cambia la vita di colui che ne viene a contatto; la letteratura contemporanea assume un sapore diverso, tutto sa di già letto; qualunque schema, stile e sperimentazione di scrittura è qui presente e perfetta. Joyce ha assorbito la letteratura prodotta fino ad allora e l'ha processata, maneggiata ed ha generato qualcosa di nuovo ed irripetibile, ha condensato in un unico libro la Scrittura. Durante questa giornata dublinese non accadono avvenimenti eccezionali, non si ha a che fare con protagonisti fuori dal comune, ma è la normalità di una vita mediocre e squallida nella sua quotidianità a divenire potente e unica, i pensieri, quasi tutti rappresentati come un fluire senza fine, di Bloom sono il nostro unico mezzo per comprendere la realtà che c'è intorno per gran parte del libro; ma il narratore cambia di continuo, senza alcun preavviso e questo ci consente di poter vedere la realtà attraverso altri pensieri che rendono via via più comprensibile, come il realizzarsi di un puzzle, il nostro quadro d'insieme; come una vertigine passiamo dai pensieri di un'adolescente bramosa di conoscere il mondo alla fantastica visione della città dall'alto, capitolo, a mio avviso, secondo solo al conclusivo monologo di Molly per bellezza e vivace originalità, in cui incontriamo gran parte dei personaggi e sembra di sentire gli odori, i rumori, i colori di ogni angolo, di ogni strada, senza che nessun oggetto venga descritto. La maestria di Joyce è davvero senza fine e dimostra di riuscire a trasmettere, pur utilizzando molti virtuosismi, l'infinita ignoranza che alberga in ognuno di noi; una marea montante di citazioni: della storia irlandese, di Shakespeare, di lirica, di pittura e chissà quante altre che mi sono sfuggite nonostante la guida alla lettura. Sembra impossibile, ma una volta concluso si ha l'impressione di aver solo iniziato a scavare un tunnel e che la luce sia ancora lontana, ma un'energia sconosciuta riverbera quella voglia di sfida che ha animato l'inizio della lettura in un circolo virtuoso che, forse, non avrà mai fine.
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Anna Karenina
E' l'anima di Tolstoj ad essere descritta in tutta la sua candida purezza in "Anna Karenina"; se la trama è, tutto sommato, banale non lo è senza dubbio la foma con cui essa è ordita. A differenza di quello che si può pensare la protagonista non è Anna, ella è il paradigma di un modo di essere che non può portare che alla caduta in un abisso di cui non è possibile scorgere il fondo. La magistrale penna di Tolstoj non suscita compassione per Anna, non la comprende, non la giustifica non la perdona. Esiste nella poliedrica personalità dell'autore un grande spazio dedicato al perdono, ma affinchè questo possa essere concesso è necessario il pentimento e il riconoscimento della colpa nel profondo della propria anima; Anna non diviene mai ai propri occhi colpevole, ma sempre vittima: della società, del marito, dell' amante.
Agli occhi del lettore, che non si faccia ingannare dal romantico velo che avvolge la vicenda, Anna rimane colpevole, poichè le scelte che compie vengono decise dall' ansia di vivere che la pervade, ma non riesce a prevedere le conseguenze dei suoi gesti, le quali in un inevitabile concatenarsi di eventi la schiacciano. Anna non ama nessuno, neppure se stessa, cerca una felicità che non conosce e che non merita, abbandona tutto quello che ha in nome di una passione che risulta essere un amore puro, vero, straziante e struggente, ma non pervasivo dalla persona amata. Vroskj ama Anna, dell'amore di cui è capace, ma la razionalità che lo contraddistingue lo porta a scardinare la vita precedente e a cercare una dimensione in cui sia ancora possibile vivere alla luce del sole, senza ignominia. Egli dfende la popria scelta, di fronte al mondo, non se ne vegogna, si batte per essa, vuol vivere con Anna, non in lei; ella è fragile e delicata, difesa e costudita da tutti gli interpreti della vicenda, ma non da se stessa;il fondo dell'abisso non viene raggiunto per disperazione, ma per vendetta; se con la propria vita non è riuscita a pervadere e occupare ogni pensiero dell'amante ci riuscirà con la morte, addossando una colpa così grande a Vronskj che non riuscirà più ad essere scaldato dal fioco sole russo e donerà la sua vita per una causa che non sente, ma che lo libererà della colpa.
Sullo sfondo la Russia, chiave di lettura di tutta la vicenda. Una nazione che sta cambiando, che Tolstoj osserva e critica, che vorrebbe diversa, ma che ama con tutta l'anima e alla quale sente di appartenere e dalla quale e nella quale può esistere la vera felicità e il vero amore.
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Il vangelo secondo Gesù Cristo
Lettura interessante, in modo particolare per il tema scelto e per la composizione tipica di Saramago. Gesù è una figura piena di fascino e di carisma, nell'immaginario collettivo il figlio di Dio che si è fatto uomo; Saramago ce lo presenta nella quotidianità; non sono d'accordo sul fatto che evidenzia la natura umana, io credo che ponga i riflettori su tutto quello che nei vangeli non è raccontato, sui sentimenti di Gesù e sulle sue speranze, forse sulle sue aspettative che regalano a lui stesso e a tutti quelli che gli stanno intorno la forza di affrontare una vita che non è per niente semplice. Lo stile di Saramago è unico e indescrivibile, riesce a rarefare l'aria intorno e a far scomparire la realtà facendo comparire le vecchie stuole della casa paterna o respirare i dolci odori della camera di Maria Maddalena, sembra di vedere e toccare la vecchia ciotola nera che è un po' il fil rouge di tutto il racconto. Betlemme, Nazareth, Gerusalemme sono i luoghi che visitiamo e che riempiono i nostri sguardi in un orizzonte troppo lontano, in una realtà troppo diversa, dove il superfluo non è neppure concepito, dove il necessario è spesso negato, dove può nascere e crescere un uomo che come tutti ha le proprie aspirazioni e i propri sogni e che deve scendere a compromessi con se stesso; in mezzo ad un lago o ai margini del deserto, comunque nella solitudine della propria anima, deve fare i conti con i propri sensi. Il tempo lontano in cui si svolge la vicenda avvolge ancora più di magia tutto il racconto e le folate di vento quasi portano la sabbia dalle terre battute dai sandali ai nostri occhi, un tempo in cui tutto è capovolto, in cui il male si lega in modo inesorabile col bene, diventando un sinodo indiscindibile. Credo che Saramago abbia voluto descrivere la vita di Gesù in queste pieghe del quotidiano per renderlo più vero, per togliergli l'alone di santità e renderlo burattino nelle mano di un fato che non ha scelto e che non ha voluto, come ogni uomo anch'egli è finito sulla terra non per una sua scelta bensì per la scelta e il desiderio egoistico o meno di altri.
Il racconto mi è piaciuto e ne consiglio senza dubbio la lettura.
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Le tre bare
Su consiglio di un carissimo amico ho letto un giallo, tipo di narrazione che non rientra nei miei generi preferiti.
Ciò che amo della lettura sono le infinte e dettagliate descrizioni che invadono i meandri della mia mente costretta ad utilizzare tutti i sensi per ricreare l'immagine descritta, quando ci sono troppi dialoghi ecco che il gomitolo compatto dei miei pensieri diviene un vorticare di fili che prendono ognuno la loro strada.
Per questo motivo, credo, i gialli mi piacciono poco, questo però non mi impedisce di apprezzare ciò che di bello c'è in questo in particolare.
Per prima cosa è presente una buona dose di autoironia che rende la lettura piacevole e il protagonista simpatico, il criminologo Fell, personaggio caratteristico e a suo modo umile, riconosce gli sbagli e soprattutto vi pone rimedio. Ognuno degli attori di questo romanzo è ben caratterizzato e credibile, la trama è molto ben congeniata, insomma, c'è tutto quello che un poliziesco deve avere, compreso un finale d'impatto e con tanto di spiegazione a prova d'incapace.
Allora cos'è che non mi convince? me lo sono chiesto tante volte memtre lo leggevo e Morfeo mi trovava indifesa rapendomi e portandomi con sé; quello che a me manca in questa lettura, ma forse la traduzione ha gran parte della responsabillità, è il modo in cui è scritto, parlo di sintassi e di scelta del vocabolario. Per fare un paragone cinematografico, lo trovo come un film con due inquadrature fisse, senza il minimo guizzo da parte del regista, dove tutta la struttura è retta dalla trama; requisiti necessari, ma, a mio avviso, non sufficienti a far si che un libro possa rimanere dentro.
Credo comunque che per gli amanti del genere sia molto piacevole.
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Alla ricerca del tempo perduto
Citati le ha dedicato un saggio, molti altri autori hanno trascorso parte della propria vita nel tentativo di trasmettere ciò che solo un'emozione può spiegare.
Proust non ha composto un'opera, ha trasformato se stesso in opera.
La recherche è semplice ed essenziale, racchiude in duemila pagine, sentimenti ed emozioni, paure e turbamenti che qualunque uomo, vivendo, ha provato. Un lungo viaggio attraverso le pieghe nascoste dell'animo umano, dove il particolare si fa universale. E' impossibile mettere in parole l'emozione infinita che si prova pagina dopo pagina, ritornando bambini a Combray, vivendo le piccole paure che nel buio di una camera estiva divengono enormi, emozionandoci per la capacità di rendere reale il bacio della mamma, restituendo vita alle corde quasi dimenticate di un'infanzia ormai lontana che come d'incanto torna davanti a noi improvvisa. Ogni fase della vita viene descritta; Proust ci dona sensazioni, flussi di pensieri che generano le azioni che compie; tutto è già accaduto nel romanzo, ma tutto è sospeso in un tempo impalpabile che rischia di andare perduto, ma che viene ritrovato, ritrovato e donato a chi legge. Patrimonio dell'umanità, senza dubbio alcuno la più bella composizione letteraria che abbia mai letto, necessita di una seconda lettura e di approfondimenti critici, conoscenza della Francia di fine ottocento e inizio novecento, ma anche privi di questi requisiti, lettura squisita che impone la necessità di squarciare la propria anima e che lascia la sensazione, a lettura conclusa, di essere più ricchi, più saggi, più umani; credo che nessuna persona che abbia velleità di scrittore possa esimersi dalla conoscenza approfondita de “À la recherche du temps perdu “. La traduzione della quale mi sono avvalsa è quella Einaudi, un traduttore diverso per ogni volume, a cura di Paolo Serini; l'ho trovata ottima, seppur risalente agli anni quaranta, per niente anacronistica, ma con quella aulicità che permette di assaporare gli odori del biancospino e di cogliere i raggi di luce che squarciano la notte nella buia camera del protagonista.
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Vivere per raccontarla
Una volta che la quarta di copertina di "Vivere per raccontarla" si presenta agli occhi...il primo istinto è di ricercare la foto di Gabriel da piccolo e ricominciare da capo...la sensazione è quella di essersi persi qualcosa, di non riuscire a credere di aver concluso quella finestra sul mondo misterioso e fantastico. Rimane la voglia di concludere immediatamente la sua bibliografia e ritrovare tutti gli articoli che lui ha scritto, ricercare le oltre quattrocento "La Giraffa" che ha firmato, partire per la Colombia e non tornare più. Per chi ama Gabriel Garcia Marquez, questa sua autobiografia è un atto d'amore, un regalo che Gabriel ci ha fatto. L'atmosfera che ci ha regalato in ogni romanzo è qualcosa di magico, come magici ha reso i luoghi di cui parla, ma questa sua ultima fatica è qualcosa di più, è rendere reale la magia, rendere vero ciò che sembrava finzione, ci regala insomma la speranza e la voglia di vivere, che lo ha accompagnato per tutta la sua esistenza. "Vivere per raccontarla" non è esattamente un'autobiografia, almeno non lo è nel senso che normalmente si attribuisce a questo termine, non inizia con la nascita del suo autore per arrivare al momento in cui egli scrive in un succedersi d'eventi, bensì un magistrale flusso di pensieri che raccoglie istantanee ambrate di un'esistenza che non è stata facile, che non ha regalato nulla....Si riesce a sentire l'odore dei luoghi descritti e quello stesso odore si mischia per confondersi con l'atmosfera rarefatta degli scenari dei suoi racconti...fino a rendere un unico incanto la favola di "Cent'anni di solitudine" e la vecchia Colombia degli anni '50...
La vita di Gabito attraversa gli stessi percorsi che tutti noi abbiamo intrapreso, la scuola, il liceo, l'università, i genitori che vogliono in ogni modo un figlio dottore, senza che il diretto interessato sia d'accordo, quello che cambia è il genio insito in lui e la bussola nascosta nel suo spirito nell'orientarsi in situazioni e luoghi in cui poteva trovare amici veri che lo avrebbero accompagnato, istruito, consigliato nel migliore dei modi. La sua caparbietà nel voler imparare a scrivere, quell'ansia da prestazione che lo ha accompagnato per tutta la vita, quell'insicurezza grammaticale che conferma la grandezza del suo genio. Il continuo fluire degli eventi personali finisce per intrecciarsi in un sinodo inscindibile con gli avvenimenti politici dell'epoca per sfociare come un fiume in piena nel sanguinoso 9 aprile 1958 di Bogotà, raccontato attraverso gli occhi di un "giornalista felice e sconosciuto", con particolare attenzione ai particolari, alla folla impazzita e al lato umano del presidente Gaitan accasciato a terra morto ucciso in un attentato. In sottofondo Mercedes lo accompagna per tutta la vita, come una presenza inarrivabile, come il sogno troppo sognato, come un desiderio troppo grande che si realizza...
Si potrebbe continuare a parlare ed a scrivere migliaia di parole su un libro che descrive alla perfezione quello che Marquez rappresenta: un incantesimo.
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Completo
Una sola parola può sintetizzare settecento pagine di scrittura frenetica, ma mai ridondante o inutile: completo.
La sensazione che si ha durante la lettura e soprattutto allo scorgere dell'ultima parola de "I Demoni" di Dostojevskij è quella di avere assorbito qualcosa che alla coscienza sfugge.
Infatti la perfezione dell' Opera non si trova solo nella correttissima prosa (mi riferisco ad un'edizione Einaudi del 1946 tradotta da Polledro), ma anche e sopratutto nei ritmi che cambiano al variare della tematica, come la sinfonia che accompagna un'opera lirica.
Il tema trattato è quasi impossibile da definire, la trama si snoda intorno a una cellula terroristica formata da cinque persone più un capo, Pëtr Stepanovi? Verchovenskij . La cellula diviene mezzo del capo per arrivare ai propri scopi e i cinque le pedine che casella dopo casella porteranno il Re a realizzare i suoi desideri.
Se questo è grosso modo il filo narrativo che compone l'ordito, si snodano nel suo scorrere innumerevoli altri fili colorati che andranno a comporre la trama di un prezioso arazzo, che solo alla conclusione del romanzo si mostrerà nella sua straordinara perfezione e completezza.
C'è la Russia del 1870 che trasuda da quelle pagine, la società che cambia, da poco i servi della gleba non erano più tali; questo è ciò che più mi ha colpito: ho sentito di appartenere a quel popolo attraverso il racconto pedissequo dell' io narrante Anton Lavrentievi? G...v.
Ogni personaggio non è solo un attore di questa tragedia è anche rappresentazione a volte di una classe sociale e altre proprio di personaggi dell'epoca, un esempio per tutti Karmazinov, letterato molto in vista in città, è preso per stigmatizzare e ironizzare su Turghenev.
Insomma Dostojevskji utilizza tutta la sua arte per divertire il lettore, con moltissime scene esilaranti e grottesche, ma non lascia il tempo di empatizzare con un personaggio che subito ne svela debolezze e meschinità, metafora del suo pensiero nei confrotti della società che si trova nella sua Patria.
Non basterebbe un libro per approfondire tutti gli aspetti di questo capolavoro e il mio intento è quello di invogliare la lettura, tenedo stretto il filo che l'autore ci adagia nelle mani quando apriamo il volume portandoci a conoscere Stepan Trofimovi? Verchovenskij, padre di Pëtr Stepanovi? Verchovenskij, elemento trasversale che unisce tutto il romanzo, personaggio che fa tramite tra la vecchia società e la nuova e che ci da spesso la chiave di lettura e la giusta angolazone per comprendere gli altri personaggi.
Chi avesse già letto il libro si starà chiedendo perchè non ho menzionato il protagonista effettivo Nikolaj Vsevolodovi? Stavrogin, la risposta è presto data, Nikolaj è complementare a Stepan Trofimovi? Verchovenskij, ma nel male, è il male assoluto, rappresenta la nuova società, il nichilismo imperante che l'autore detesta, ma troppo poetica ed elevata è la caratterizzazione della sua figura che ogni mio tentativo di spiegarla non le renderebbe merito.
La lettura è senza dubbio impegnativa, ma è uno di quei romanzi che arricchiscono ad un livello che si apprezza con il tempo e che come un buon vino d'annata va lasciato decantare.
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Cecità
Se il candore abbagliante all'improvviso avvolgesse tutto il nostro campo visivo la prima cosa che verrebbe in mente sarebbe di aver guardato troppo a lungo il sole o una fonte di luce, ma se questo non avesse alcuna voglia di lasciare il posto a qualche colore o anche ad un po' d'ombra ecco che comincerebbe a farsi strada attraverso ataviche strade lastricate di paura, l'idea di non poter mai più vedere il mondo.
Questo ciò che accade ad un anonimo uomo, fermo nella sua auto, fermo di fronte al semaforo rosso ad aspettare il proprio turno; la luce verde non si accenderà mai per lui, ma sarà coperta da una asfissiante luce bianca.
Inizia così "Cecità"; un singolo individuo cade nel baratro della paura, della paura di dover dipendere da qualcuno, di non essere più autosufficiente, ma la sua solitudine durerà poco, pochissimo, di lì a breve l'intera città, l'intero paese sarà immerso in un universo lattiginoso e sul fondo di quel baratro si troverà a dover vivere.
Interessante da analizzare oltre alla trama, claustrofobica e angosciante al punto giusto, è la capacità di Saramago di legare i protagonisti uno ad uno attraverso il susseguirsi del contagio, perchè, sì, la cecità è contagiosa.
La storia è raccontata dal punto di vista di un medico oculista e di coloro che sono stati contagiati nel suo ambulatorio e della di lui moglie.
Se l'originale spunto e la tecnica narrativa non necessitano di commenti, la trama a mio personale avviso ha dei momenti di estremo realismo mischiati ad altri in cui l'estremizzazione risulta molto evidente e inutile, paradigmatico risulta essere la lunga narrazione all'interno del luogo di quarantena della fazione formata da ciechi cattivi.
Ciò che più risalta è il sottolineare ciò che dà il via alla discesa verso l'abisso: la paura; la paura dell'ignoto, la paura di essere contagiato, alla fine è Lei la grande protagonsta della storia.
I personaggi sono senza dubbio ben caratterizzati, ma di sicuro uno è quello che più spicca per completezza: la ragazza dagli occhiali scuri; il suo è un viaggio nel purgatorio, una catarsi liberatoria che la fa rinascere a nuova vita.
Il suo personale percorso è quello che più degli altri è intriso di significato e di importanza.
Difficile poter analizzare il libro senza svelare troppo della trama, ma crudele sarebbe togliere il gusto della lettura, per cui mi sento di consigliare la lettura di questo particolarissimo libro che regala tanti spunti di driflessione e delle ore di introspezione.
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