Opinione scritta da galloway
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Pensare
Klaus Haagen nasce a Wohlau (Slesia, Germania) nel 1944. Dopo la guerra si trasferisce a Kelheim (Baviera). Le sue prime fotografie sono realizzate a otto anni con una «agfa clack». Dai 13 anni in poi ritrae i paesaggi e i fiori che incontra nei suoi viaggi in bicicletta, in Svizzera, Austria, Olanda e Italia. Visiterà poi Danimarca, Svezia, Belgio, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Norvegia. Nel 1980 lavora come research fellow presso il Dipartimento di Statistica dell’Università di Berkeley (California). Durante questo periodo, e negli anni seguenti, visita più volte i grandi parchi nazionali in America e in Alaska. All'età di 37 anni, Haagen avverte i primi sintomi del morbo di Parkinson. Nonostante la sua malattia, Haagen ha potuto continuare a viaggiare, anche grazie alle sponsorizzazioni delle case farmaceutiche. Ha presentato i risultati delle sue ricerche sul morbo di Parkinson a congressi di neurologia in India, Messico, Inghilterra, Stati Uniti e Giappone. Il progredire della malattia, che ne ha limitato la libertà di movimento, ha portato la fotografia di Klaus Haagen verso nuovi soggetti. Nelle sue foto più recenti, oggetti della vita di tutti i giorni, come bottiglie di plastica, mollette da bucato o fiori di campo, si trasformano in immagini nuove e impreviste che obbligano l’osservatore a vedere il mondo con uno sguardo nuovo. Il fotografare diventa un gioco di ombre e luci.
Attualmente Klaus Haagen è professore ordinario di statistica matematica presso la Facoltà di Economia dell’Università di Trento, e risiede a S.Orsola, nella Valle dei Mocheni. Ha principalmente orientato la sua ricerca nella direzione dei modelli stocastici con variabili latenti. I risultati delle sue ricerche sono pubblicati in numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali. Sui temi studiati ha fondato in Italia con l’editore Springer una collana di quaderni di statistica, della quale è ancora oggi co-editore. E' autore, con il neurologo Niels Birbaumer, di questo libro autobiografico che ci invita non solo a pensare ma a saper pensare.
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Miti di oggi, Miti di ieri
Posseggo il libro di Roland Barthes sui miti di allora. Eravamo alla fine degli anni cinquanta. Avevo qualche (?!) anno in meno di oggi e ricordo che quel libro mi venne regalato da un amico che aveva qualche anno più di me e che si piccava di essere un intellettuale. Si chiamava Alfonso. Da quegli anni non l'ho più rivisto, ricordo che finì da qualche parte in Sud America, emigrante. Ricordo la sua biblioteca fatta da volumi della Universale Economica Feltrinelli, dai piccoli volumi grigi della BUR, dei volumi di URANIA, dai gialli Mondadori, dai settimanali Il Mondo, dal Borghese, dall'Espresso in formato grande. Un mondo che oggi è diventato un "mito" come tutte le cose del passato che ritornano spesso sotto mutate spoglie. La lista dei miti do oggi che si ritrovano in questo libro, ovviamente, è fatta da elementi diversi, ma a ben leggere, le nuove "entrate" sono figli di quei miti di cinquantanni fa. Tutto cambia, ma niente di nuovo sotto il sole... "Plus ca change, plus c'est la meme chose".
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Le streghe di Salem
Leggete questo libro, che non è un romanzo, ma un documento storico che del romanzo ha il respiro e la scrittura. L'autrice Kathleen Kent è una diretta discendente di Martha Carrier, una delle prime donne processate a Salem, nel 1692, con l’accusa di stregoneria. "La figlia dell’eretica", è basato sui racconti familiari passati di generazione in generazione e su anni di ricerche. E' il suo primo romanzo. Ho visitato i luoghi che l'autrice descrive nel suo libro. Salem, nel New England americano, è una tranquilla cittadina moderna americana, ma a visitare i suoi luoghi, e sopratutto il suo museo dedicato alla stregoneria, ti vengono i brividi lungo la schiena. Tu pensi che le streghe e gli stregoni siano sempre persone, personaggi e storie di fantasia, ed invece qui scopri che tutto è stato vero. I documenti parlano chiaro. E l'autrice di questo romanzo ne parla da diretta interessata. Un libro da conservare, anche per ricordare le idiozie delle quali gli uomini nel corso dei tempi sono stati vittime e artefici allo stesso tempo.
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La letteratura comparata
La letteratura comparata si dedica allo studio della letteratura nel senso più ampio del termine, all’interno di ogni possibile schema di ricerca interlinguistico, interculturale e interdisciplinare.
Questa disciplina letteraria si basa sul presupposto che lo studio dei singoli testi e delle relative culture viene arricchito enormemente dalla conoscenza di altri testi e culture che li circondano nel tempo e nello spazio. Il lavoro di confronto sistematico può essere fatto attraverso diverse prospettive come quelle del genere letterario, dei periodi e dei movimenti nella storia letteraria, nei temi e nei motivi dominanti o nel contesto del reciproco impatto di due o più culture nazionali o di intere civiltà.
La letteratura comparata offre agli studiosi la straordinaria possibilità di esplorare le correlazioni tra la letteratura e altre aree come l’ideologia, il colonialismo, gli studi culturali, i film e le arti visive, gli studi dei generi culturali, quelli religiosi, il pensiero politico e le scienze naturali e sociali.
In un mondo sempre più connesso ed interconnesso la letteratura comparata offre l’opportunità straordinaria di studiare le connessioni delle varie letterature viste da diverse prospettive. Chi sceglie di studiare una letteratura nazionale o regionale avrà modo di allargare i propri riferimenti in contesti molto più ampi. Ad esempio uno studio delle opere di Shakespeare troverà un più completo respiro se inserito nel contesto dello studio del teatro delle letterature europee.
Lo studio della letteratura comparata si realizza attraverso il confronto dei testi nelle lingue originali o in traduzione dando modo agli studenti di sviluppare una coscienza ed una consapevolezza unica e non ottenibile altrimenti. Si potranno affrontare utili ed inesplorate correlazioni tra la letteratura, la psicologia, la filosofia, la storia, le scienze e l’antropologia.
Lo studio e le conoscenza della letteratura comparata permette lo sviluppo delle facoltà critiche ed analitiche attraverso l’esplorazione dei testi letterari e non. Si potrà avere in tal modo una prospettiva del mondo meno parziale e più allargata valorizzando allo stesso tempo quelle che sono le caratteristiche delle culture locali e nazionali.
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La fine è il mio inizio
"Gli accordi sono questi: quando è il momento, contattate la Croce Verde che verrà discretamente a casa per fare il necessario. Come sapete da tempo, voglio essere cremato e ho chiesto che la bara sia la più semplice possibile, bello sarebbe di assi. Verrò in quella portato nella cappellina da dove al più presto, senza litanie, canti, discorsetti, ma nel mio beneamato silenzio verrò portato al forno crematorio da dove uscirò cenere in una semplice urna che forse potrà essere consegnata alla famiglia. Con quella tornerei nella terra di Orsigna. Questo è come vorrei fosse. Fate di tutto perchè lo sia. Grazie e fatevi una bella risata. Vi abbraccio, Tiziano, anam."
Una breve lettera che il padre lascia al figlio scritta sul tavolo poco prima della sua dipartita. Sono le ultime volontà di un uomo che racconta il suo viaggio della vita. Un viaggio affascinante, narrato sul filo della memoria e trascritto per tutti affinchè la vita abbia davvero un senso. Tutto il libro di Tiziano Terzani, il suo ultimo, è in effetti, la ricerca di un "senso" che va al di là delle "cose" di cui è fatta la vita.
"Pensa, la morte tibetana, che bella! C'è il moribondo, tutti i parenti piangono e arriva il lama che li caccia tutti a calci nel culo "Fuori!" Poi si rivolge a lui e bisbiglia "Staccati, non restare attaccato. Vai, vai, ora sei libero. vai! Questa è cultura della morte. Noi l'abbiamo persa. Quando uno sta male a casa chiamiamo l'ambulanza che lo porti all'ospedale; ma quando sta per morire in ospedale lo nascondono dietro a delle tendine. Paura della morte. Perchè? Perchè si sa di dover abbandonare tutto quello che conosciamo. Niente è più tuo, non le tue case, non i tuoi figli, non il tuo nome. "Madonna, non sarò più Tiziano Terzani!" Di questo non rimane niente, niente. NIENTE. Ma se ti ci avvicini prima, se impari a rinunciare ai desideri, a distaccarti da tutto non perdi nulla, l'hai già perso, sei già morto strada facendo. Non morto, sei vissuto meglio. la sofferenza viene dall'essere attaccato alle cose. Buddha lo dice così bene. Se hai una cosa, hai paura di perderla; se non ce l'hai, la vuoi avere ..."
Un libro questo che dovrebbe essere letto in tutte le scuole, in tutte le chiese, in tutte le biblioteche. Tiziano Terzani ha raccontato a suo figlio la sua vita, ma è come se l'avesse raccontata a tutti i figli del mondo, figli che diventeranno padri i quali a loro volta dovranno raccontarla ai loro figli. Ecco perchè ogni fine è un inizio, perchè ogni padre segna la sua fine nel momento in cui la racconta a suo figlio. E quest'ultimo nell'ascoltarla impara a prepararsi alla sua per raccontarla a sua volta a suo figlio.
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Le favole di Maria di Francia
Mi è stato regalato, con tanto di dedica, un libro di favole. E’ un libro di piccolo formato che fa parte di una ricca collana di Biblioteca Medioevale. Un testo denso ed accattivante, stampato in corpo otto, pieno di favole medioevali, tradotte in testo a fronte dal francese del tempo e scritte da una “Maria di Francia” di cui non avevo mai sentito parlare prima. Una raccolta di Favole scritte possibilmente tra il 1167 e il 1189, forse uno dei primi adattamenti a noi giunti delle favole di Esopo, o a lui ispirate. Storie presumibilmente narrate dallo scrittore greco nel sesto secolo avanti Cristo, oltre duemila anni fa, quindi, scritte in greco, forse tradotte dal latino in francese da questa Maria in pieno Medio Evo, e riproposte oggi a noi, lettori del terzo millennio, dalla curatrice Roberta Morosini. Come avete letto sono diverse le incertezze che ricadono su questo libro e su chi l’ha scritto. Io vorrei, pertanto, partire da qualcosa di certo, cioè da chi l’ha scritto, che è la cosa più sicura. Spiegare cioè non solo il come ed il perché una giovane studiosa italiana, proveniente dal profondo sud della provincia italiana, si trovi ad essere docente di Lingua e letteratura italiana presso la Wake Forest University nella Carolina del Nord, ma anche il come ed il perché le favole attirano ancora e sempre l’attenzione dei lettori e degli studiosi in tutto il mondo. Comincerò dalle Favole.
102 favole precedute da un Prologo e chiuse da un Epilogo tracciano il percorso narrativo di Maria di Francia e delineano il lavoro di traduzione che la curatrice del volume ha intrapreso. Leggendo le circa quaranta pagine di presentazione sappiamo tutto, o quasi, dell’autrice delle favole, vissuta in un momento di grandi cambiamenti sia politici che sociali. Maria, che si definisce “di Francia”, mette in scena, per così dire, queste storie che, in un certo qual modo, sono dei veri e propri micro-drammi, con tutti gli umori e gli amori, i giudizi ed i pregiudizi del tempo, anzi di tutti i tempi, del sesto secolo prima di Cristo, del dodicesimo dopo Cristo e di oggi del terzo millennio. I protagonisti sono i soliti: un pastore, un cacciatore, un cavaliere, un pescatore, un falegname, un medico, un ladro, un fabbro, una strega, un eremita, un mercante, un contadino, un prete, categorie umane ancora moderne e sempre attuali, basta rimodulare qualche identità e il gioco è fatto.
Ma sono le categorie animali a prevalere. In tutto ammontano a ben 74 le favole in cui gli animali recitano ruoli ed esercitano funzioni legate direttamente o indirettamente alle categorie di cui si è detto innanzi: il lupo, l’agnello, il topo, la rana, il cane, la pecora, la gru, la cagna, la volpe, l’aquila, la lumaca, il corvo, il leone, la rondine, la scrofa, la lepre, il pipistrello, il cervo, la scimmia, il pavone, la pulce, la cicala, la formica, la cornacchia, lo scarabeo, il drago, il gallo, la colomba, l’astore, l’orsa, il riccio, il serpente, il cinghiale, l’asino, il tasso, il porco, il gufo, il passero, il bue, la vipera, il campo, il passero, il nibbio, la capra, la cerva, il caprone, il gatto, la gallina. Una fauna inesauribile, ognuna di essa una metafora di vita e di comportamenti umani, messi in scena per mezzo di piccole scene, con o senza uno sfondo morale, in cui il travestimento e la finzione costituiscono la vera e propria base di lettura delle vicende narrate.
Ecco il testo del Prologo che introduce la rappresentazione dei micro-drammi:
“Tutte le persone colte dovrebbero veramente dedicarsi alla lettura di buoni libri, scritti, esempi e massime che i filosofi si sono prodigati di scrivere e diffondere. Essi misero per iscritto i preziosi proverbi che sentirono e a cui affidarono una lezione morale affinché quelli che si prodigano per il bene potessero diventare migliori. Così fecero i nostri padri dell’Antichità. L’imperatore Romulus scrisse a suo figlio spiegandogli come fare a difendersi dagli inganni degli uomini. Esopo, che conosceva bene il suo signore, scrisse di lui alcune favole che aveva trovato e le tradusse dal greco in latino. La maggior parte delle persone si meravigliarono molto che Esopo impiegasse la sua intelligenza in un lavoro simile, ma nessuna favola è superficiale e tutte propongono nel finale, che custodisce il significato ultimo dei racconti, una lezione di saggezza. Non spettava a me, che deve mettere le favole in versi, raccontare le favole che compaiono in questa raccolta; mi è stato chiesto da colui che è il fiore della cavalleria, e dal momento che è un uomo come lui a chiedermelo, non ho alcuna intenzione di sottrarmi alla sua richiesta, sebbene mi costi lavoro e sofferenza e il disprezzo di alcune persone; comincerò dunque a raccontare la prima favola che Esopo scrisse e mandò al suo signore”.
Di qui comincia a muoversi tutta una umanità, di oggi come di ieri e dell’altro ieri: simboli, allusioni e metafore, fatti e misfatti, deboli e forti, furbi ed ingenui, uomini e bestie, mariti e mogli, preti e streghe, uomini e donne di sempre che appaiono e scompaiono sulla scena del mondo come in una giostra che continua a girare sul palcoscenico della vita. E’ facile ed è possibile anche per noi, uomini e donne del terzo millennio, ritrovarsi in antiche e moderne identità, in sembianze umane o animali, convinti come siamo tutti sulla scena del mondo a recitare una parte scelta consapevolmente, o che la stessa condizione umana ci impone di interpretare.
Maria di Francia così chiude il suo lavoro nell’Epilogo:
“Alla fine di quest’opera che io ho composto e scritto in francese, mi menzionerò per farmi ricordare dai posteri: mi chiamo Maria e vengo dalla Francia. E’ possibile che alcuni chierici, tanti in verità, rivendichino come proprio il mio lavoro. Io non voglio che venga loro attribuito: che dimentica se stesso agisce in modo insensato. Ho cominciato a scrivere questo libro e a tradurlo dall’inglese in francese per amore del Conte Guglielmo, l’uomo più nobile di tutti i regni. Questo libro si chiama Esopo; fu infatti Esopo a tradurlo dal greco in latino e a farlo comporre. Il re Alfredo, a cui piaceva molto l’Esopo, volle tradurlo in inglese, e io, esattamente come l’avevo trovato, l’ho messo in versi francesi. Ora prego Dio onnipotente di farmi mettere mano ad un’opera che mi permetta di rendere l’anima a Lui.”
La curatrice dell’opera, Roberta Morosini, ha saputo riportare alla luce lo spirito vero del silenzioso, fervido mondo intellettuale e poliglotta dell’Europa del Medio Evo. In particolare del chiostro dell’Inghilterra anglo-normanna ha saputo gettare una luce moderna su Maria di Francia. In un’epoca come quella in cui quest’ultima visse le favole servivano a mascherare la realtà di un mondo che spesso era incomprensibile ed inaccettabile, alla stessa maniera di come continua ad esserlo oggi, anche se forse in modo diverso.
Ai suoi studenti dell’altra parte del “nuovo mondo” Roberta offre la possibilità di accedere con il suo libro ad un “mondo” ad essi completamente ignoto e tutto da esplorare, fatto di echi e risonanze antiche, provenienti da luoghi lontani e culture diverse dalle quali lei stessa proviene. Dalle aule dello sconosciuto liceo del suo piccolo paese della provincia meridionale italiana, al grande campus dell’università americana in cui insegna da diversi anni, Roberta fa rivivere, vivendola lei stessa, la “favola” di una piccola italiana diventata “professore” e “cervello italiano” all’estero che onora degnamente la cultura italiana nel mondo.
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La pelle di zigrino
Raphael de Valentin è un giovane scapestrato che non resiste al fascino del gioco. Una sera perde tutto ciò che possiede e decide di suicidarsi. Attirato nel negozio d’un antiquario, vi scopre un misterioso talismano, una pelle di zigrino, che sarebbe in grado di soddisfare tutti i desideri del proprietario, ma, al tempo stesso, si restringerebbe ogni volta causando una proporzionale riduzione della sua vita. Appena acquistato l’oggetto, Raphael s’imbatte nell’amico Emile, aspirante giornalista, con il quale si reca ad un’orgia, durante la quale Raphael racconta ad Emile la storia della sua vita: pentitosi degli eccessi dell’adolescenza, Raphael si era votato ad un ritiro da eremita in casa della giovanissima, dolce Pauline, dove aveva scritto un trattato sulla volontà; la piccola s’era invaghita di lui, ma lui era stato a sua volta sedotto dalla fatale Foedora, la donna più bella e più amata di Parigi, pesentatagli dall’amico Rostignac. Raphael si era distrutto in quell’amore impossibile per una donna egocentrica e crudele, e Pauline ne aveva segretamente sofferto; infine, se n’era andato, approfittando della somma procurata da Rostignac, ma soltanto per darsi al vizio. Al termine del racconto, Raphael decide di continuare a vivere, e di diventare ricco. Grazie alla pelle di zigrino il desiderio s’avvera: incontrata Pauline, anche lei ricca e non più ragazzina, desidera sposarla, ed anche questo desiderio si realizza; la pelle s’è però ritirata di molto e Raphael cade ammalato. Nessun medico o scienziato sa venire a capo del mistero e Raphael continua a peggiorare. Conscio di dover morire, decide allora di risparmiare l’agonia a Pauline e se ne va in Italia. Lì si toglie la soddisfazione d’ammazzare in duello un prepotente che lo voleva scacciare e di umiliare tutti coloro che lo perseguitano (temono che la sua malattia sia contagiosa). Rapahel torna poi in Francia, ma evita ancora Pauline, della quale non legge neppure le lettere. Si rassegna a morire, ma il vecchio e fedele servitore Jonathas gli organizza una festa a sorpresa; vista Pauline, Raphael viene colto dal desiderio di possederla e quel desiderio fa scomparire il talismano e lo uccide.
Romanzo romantico (amore fatale per Foedora, talismano con poteri soprannaturali, destino); è un poema dell’egoismo, dell’insaziabilità.
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Un'opera pionieristica...
Una documentatissima analisi, un'opera di critica tematologica che dopo 80 anni dalla prima edizione continua a scintillare di inossidabile lucidità. Praz enumera i temi trasversali che più ricorrono nell'immaginario decadente: la bellezza medusea del malinconico, il doloroso piacere, la giovinetta perseguitata, il vampirismo, la donna fatale, l'androgino, l'esotismo, la languida sensualità. Un libro da tenere a vista, da leggere e rileggere, anzi da studiare.
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Il sociopata della porta accanto
Lo incontri salendo le scale e ti saluta con deferenza. Lo vedi cedere con discrezione il posto alla vecchietta sul bus. Ti guarda con un occhio assente ma ficcante mentre fai la fila alla cassa del supermercato. Incroci il suo sguardo attraverso il finestrino della macchina mentre fai benzina. Si aggira con circospezione tra i banchi della frutta del quartiere. Sfoglia lentamente le pagine del libro nella libreria all’angolo, sollevando il suo sguardo verso il tuo come se aprisse le tende di un balcone. Si siede silenziosamente accanto a te sullo stesso banco della chiesa semideserta nella quale sei entrato casualmente per riflettere. Lo scopri seduto a non leggere ma ad osservarti col giornale tra le mani sulla panchina dei giardini mentre fai giocare tua nipote sull’altalena. Indovina chi è?
Nulla di particolare nel suo aspetto. Vestito normale, taglio dei capelli ordinato. Giacca sportiva sul maglione a girocollo. Poche parole dette con distacco e sicurezza. Ti sorride di un sorriso di ghiaccio mentre al bancone del bar di sotto bevi il caffè. Indossa gli occhiali scuri, ma solo se c’è il sole forte. Si direbbe giovane, sui trenta, ma forse ne avrà di più. Dall’aspetto sembra di buona famiglia, certamente non di estrazione plebea. Abita da anni al sesto piano, ma non lo vedi mai prendere l’ascensore, da quello che dice la signora del terzo piano. Raramente qualcuno è con lui. Ma chi è? Lo riconoscerete guardando la sua foto sulle pagine dei giornali e nei tg domani sera, se sarete fortunati perché a lui scampati. E’ il sociopata della porta accanto. Quello che ha fatto fuori le signora tagliandola a pezzettini e conservandone i resti nel garage del palazzo. Sì, proprio quella del terzo piano.
“Mio Dio, era tanto gentile. Così discreto ed educato. Mai avuto un dubbio su quella persona. Ma come è possibile? Mi ha offerto anche il caffè. Una volta mi ha aiutato a entrare nell’ascensore con la borsa della spesa. Lui è salito al sesto piano a piedi. Eppure è indagato per avere fatto a pezzettini la signora del terzo piano che era scomparsa da diversi giorni. Sembra che l’abbia fatta a pezzettini nel garage e conservato i resti per quasi una settimana. Qualcosa l’ha tradito e ora lo tengono sotto torchio. Sembra che sia stato lui…”. Ecco uno scenario che si ripete spesso al giorno d’oggi e che ha fatto nascere la figura di un nuovo personaggio horror: il sociopata, da non confondere con lo psicopatia, fratello maggiore di una sindrome diffusa in molti soggetti della nostra società moderna.
Tu pensi di conoscerlo, ma non sai davvero chi diavolo era. Può essere il tuo ex fidanzato, la tua ex amante. Il tuo vecchi insegnante di ginnastica della scuola o della palestra. Il tuo principale. Il tuo collega sempre così gentile ma che una volta ti rubò quell’idea e tu fosti sorpreso. Tutte figure complesse di personalità sociopatiche le quali potenzialmente non sono criminali, o lameno non lo sono ancora diventati fino a quando non esplodono. Non hanno una piena coscienza della loro identità, in termini di controllo, morale, senso di colpa, rimorso. Possono fare qualunque cosa e non sentire rimorso o colpa.
Ma come si fa a riconoscere questa loro mancanza di senso di colpa e di rimorso? La loro personalità emana un certo fascino silenzioso di mistero, come di fascino e di carisma che attirano gli altri nel tempo, seducendoli con la loro discrezione e riserbo. Essi non possono mostrarsi troppo per non esporsi in quanto incapaci di amare. Ma come si fa a capire chi è un sociopata? Può essere difficile, ma può essere utile dare dei modelli storici di sociopatia in personaggi come: Hitler, Stalin, Rasputin, Eichmann, Pol Pot, John Gotti... Siamo tutti a rischio "borderline"
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Un libro contro corrente
Solo gli inglesi sanno scrivere libri del genere, libri che si basano soltanto sulle regole che scaturiscono dalle famose "wh-questions". Saper rispondere e documentare ciò che si dice, infatti, basandosi esclusivamente sulle fondamentali: chi-cosa-dove-quando-perchè significa avvicinarsi alla verità, se non è proprio possibile comprenderla tutta. Duecento cinquanta pagine di fraintendimenti, cantonate, bugie che abbiamo sempre scambiato per pura verità. Nulla esce indenne da questa curiosa enciclopedia degli errori. Cultura, storia, geografia, scienza e zoologia sono rivoltate come un calzino. Vengono demolite antiche certezze, dimostrata la nostra e l'altrui ignoranza fatta di leggende metropolitane, inesattezze letterarie bibliche, comodi luoghi comuni, dati scientifici che scientifici poi non sono affatto. Voi avete sempre saputo, ad esempio, che il cervello è grigio? Sbagliato! Il suo vero colore è rosa!
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I libri perduti
Un bibliomane che si rispetti deve sapere che esistono anche libri che non sono stati scritti, ma che sono letti, o almeno di essi si parla e si scrive come se esistessero. Libri che sono stati perduti o distrutti, che avremmo voluto leggere e che invece, per una ragione o l’altra, non ci è possibile farlo. Bene, su questi libri che non esistono, che non si possono trovare in libreria o in biblioteca, ma che hanno fatto e fanno tuttora “letteratura”, è stato scritto un libro, una specie di storia della letteratura. Una letteratura mai scritta. In questo affascinante volume, l'autore racconta le decine di modi tragici o bizzarri, in cui un capolavoro può scomparire. L'unica raccolta completa delle tragedie di Eschilo andò bruciata con il resto della biblioteca di Alessandria nel 640, a causa di un califfo che riteneva blasfeme le opere in contrasto con la Parola di Dio, e superflue le altre. In preda ad un delirio religioso, Gogol bruciò lui stesso, in due occasioni, il seguito delle Anime morte (dopodichè smise di mangiare e si lasciò morire). Le memorie di Byron invece furono distrutte dal suo editore, per paura delle conseguenze che avrebbero provocato. Nel 1922, la moglie di Hemingway fu derubata di una valigia contente tutto quello che il marito aveva scritto sino ad allora, tra cui un romanzo sulla Prima Guerra Mondiale. Un libro che rende giustizia, insomma, alle tante opere distrutte, scomparse o dimenticate.
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Distruggere i libri
Questa è l’introduzione ad un libro che nessun bibliomane/bibliofilo dovrebbe mancare di leggere. Quella che state per leggere è una storia infinita. Comincia qualche migliaio di anni fa (5.000, 6.000, di più?) con i primi libri dell'umanità e le loro immediate, precoci distruzioni. Perché da subito ogni guerra e tutti i conquistatori, mentre si appropriano di terre e massacrano uomini, coltivano l'insopprimibile impulso e la tracotante necessità di cancellare le culture nemiche — la memoria custodita da tavolette, rotoli, papiri, codici, nei supporti e nelle forme che la genialità umana ha via via inventato per registrare, raccontare, lasciare traccia di sé, investigare il proprio destino. Ma quella che state per leggere è una storia infinita per una ragione più inquietante: non finisce mai. I distruttori hanno cambiato strumenti e tecnologie, quello che un tempo faceva il fuoco oggi è prodotto dalle censure della Rete, dal digital divide, dalla distruzione degli archivi elettronici: pratiche che per così dire integrano ma non eliminano le più tradizionali, come raccontano le cronache a noi contemporanee. Il caso della fatwa globale contro I versi satanici di Salman Rushdie è solo il più clamoroso e "mediatico" - e comunque ha lasciato sul terreno almeno una vittima, il traduttore giapponese Hitoshi Igarashi, che non andrebbe dimenticato.
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L'immaginario del fuoco purificatore continua a circolare, se è vero che in forme per ora grottesche sfiora bestseller come Harry Potter e Il codice da Vinci. A parte le polemiche intorno al libro di Ariel Toaff Pasque di sangue che hanno portato al suo ritiro dalle librerie, libricidi veri e propri si commettono ancora in molte parti del mondo. Al fondo c'è la stessa banale intenzione di ridurre l'area della conoscenza, perseguitare l'alterità, sopprimere le differenze, cancellare le memorie altrui.
Del resto quella che state per leggere è anche una storia ininterrotta: non c'è stato regime, ideologia e religione immune da questa ossessione distruttiva. Hanno bruciato libri i reazionari e i rivoluzionari, i seguaci delle tradizioni minacciate e gli adepti di nuovi culti ansiosi di cancellare i vecchi, le inquisizioni cattoliche e le ortodossie ebraiche, i califfi islamici e i pastori protestanti, i nazisti e i comunisti ma anche le democrazie liberali, almeno in certe loro periferie ideologiche. Sono stati bruciati i libri degli illuministi e subito dopo quelli dei nemici della Rivoluzione francese. Nel Novecento totalitarismi diversi hanno applicato la stessa radicale cura del fuoco che è affiorata perfino nella più nobile delle lotte, quella contro l' apartheid.
E infine lo sterminato elenco di distruzioni che Fernando Báez ha raccolto con una sorta di partecipazione dolorosa e maniacale racconta una storia circolare. Non solo perché inizia e (per ora) finisce là, in Iraq, nella Mesopotamia dove tutto, anche la scrittura, cominciò e dove oggi guerre e terrorismo non risparmiano le biblioteche, gli archivi, i quartieri del libro. Ma perché nei modi reiterati di una disperante coazione a ripetere sembrano riproporsi gli stessi impulsi e le stesse motivazioni: si distruggono libri perché non si accettano idee e memorie diverse dalla propria. In nome della fissazione per l'uniformità che già nella Cina del II secolo a.C. trasformò l'augusto sovrano Shi Huangdi in uno dei più grandi distruttori della storia: migliaia di libri "non legalisti" distrutti, oltre quattrocento letterati sepolti vivi. Secondo il principio lucidamente rivendicato dal califfo Omar davanti alla biblioteca di Alessandria: «Se i libri contengono la stessa dottrina del Corano, sono inutili in quanto ripetizioni; se i libri non sono in accordo con la dottrina del Corano, non è il caso di conservarli». Parole che potrebbero essere pronunciate da altre migliaia di burocrati del terrore culturale sparsi in tutte le epoche e religioni. Perché i libri (i buoni libri, quelli che si conquistano l'onore della distruzione) non sono mai "in accordo" con la Verità, la Fede, il Progetto, la Missione. A chi scrive (e a chi legge), le Verità uniche, le Fedi obbligate, i Progetti sbandierati e le Missioni salvifiche non piacciono o non bastano. Per questo scrivono o leggono. Questo rende loro e i loro libri dei Nemici.
La prima vittima di una distruzione di libri a seguito di un pubblico decreto tu il sofista Protagora, che nell'Atene del V secolo a.C. «gli dei affermava di non sapere né potere capire quali fossero né se davvero esistessero, mantenendo una posizione misurata e cauta». Protagora pagò «il suo relativismo epistemologico» - accusa che a noi oggi suona sinistramente familiare. Ma bisogna sfuggire simili tentazioni. Non tutte le epoche e le distruzioni sono uguali. Quando un libro non era tecnicamente riproducibile, la sua eliminazione aveva ovviamente effetti fatali. E qualunque democrazia – compresa quella che con facile fiducia definiamo elettronica – per il tanto o poco di pluralismo che comporta, permette ai libri da qualche parte e in qualche modo di sopravvivere.
Del resto gran parte delle distruzioni che Báez racconta hanno cause naturali: terremoti e inondazioni, incendi e uragani. Ma la distinzione non risulta in realtà così netta e decisiva. La fragilità dei libri è infatti resa più vulnerabile dall'indifferenza colpevole che li circonda: come giudicare l'immobilità delle truppe americane a Bagdad nei giorni del saccheggio delle biblioteche, degli archivi e dei musei? E come definire la scomparsa della straordinaria biblioteca del Centro culturale ebraico di Buenos Aires nell'attentato del luglio del 1994? Solo l'effetto collaterale di una bomba che ha provocato quasi cento morti? L'indifferenza è più pericolosa del fuoco, pensava Josif Brodskij: «non leggere i libri è peggio che bruciarli» – e a me torna in mente l'irrilevanza così peculiare confessata dall'editore napoletano Tullio Pironti quando in Libri e cazzotti racconta degli abili scippatori di piazza Dante costretti a rimettere al loro posto i volumi che avevano sottratto alla sua libreria, per l'impossibilità di piazzarli remunerativamente altrove. Ma l'indifferenza ha ben altre dimensioni e altre colpe. La storia più drammatica e attuale che questo libro contiene è quella della Vijecnica, la splendida biblioteca di Sarajevo, distrutta in tre giorni, a partire dalla dieci e mezza di sera del 25 agosto 1992, dai colpi di 25 obici serbi. Nel cuore d'Europa, in epoca contemporanea, sotto gli occhi e nel silenzio del mondo, pure già istruito dall'infallibile profezia di Heinrich Heine («Dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini»). A Sarajevo l'odio per i libri ha consapevolmente sintetizzato l'intreccio di memorie ferite, rivendicazioni identitarie, disprezzo per le altrui culture, travestimenti ideologici e religiosi che forma la terribile miscela dei conflitti contemporanei (e qualche pagina dopo Báez nelle poche righe dedicate alla Cecenia senza libri mostra quanto velocemente questa tragedia sia destinata a ripetersi).
Non so se il libro e la lettura siano antidoto e terapia sufficienti di fronte all'odio. Nell'affascinante immaginario dialogo di due unni davanti alla biblioteca di un monastero in un romanzo ottocentesco che Báez cita, uno dei due barbari irride così i colti: «una mano che ha impugnato il calamo non sarà mai in grado di impugnare una spada». Questo paradossale elogio pecca però di ottimismo. Dalle biblioteche escono anche i massacratori, ci ricordava Bertolt Brecht. Diverse dittature hanno magari retoricamente provato a intrecciare libri e moschetti (dimostrando poi scarsa pratica di entrambi). Accademie zeppe di letterati hanno benedetto le più atroci stragi etniche del nostro tempo. Il culto del libro non può che essere relativo. Leggere è una attività critica ma anche autocritica: già il primo eroe della lettura, il grande Don Chisciotte, mette in scena la più sarcastica ironia verso la propria stessa passione. È per questo infine che ai libri – o meglio: a quello che nella storia dell'umanità finora è stato nei libri – non possiamo rinunciare.
Da questo punto di vista, la storia dell'odio per i libri finisce per diventare una paradossale, rovesciata storia dell'amore per la lettura. Cosa combattono infatti i biblioclasti? Quella trama di relazioni che ogni lettore tesse. Il legame con «lo spirito diabolico del passato», come lo chiamava Goebbels, e quello altrettanto tenace con altri uomini, sentimenti, esperienze e sogni che minaccia l'incontestabilità di ogni realtà e autorità presente. La semplice idea che (quasi) ogni libro contiene l'esistenza di un Altro e di un Altrove magari immaginati come migliori indebolisce fedeltà e obbedienze dogmatiche. Leggere è dunque un gesto scismatico, che separa e mette in discussione il presente nello stesso momento in cui mette in connessione e avvicina altri uomini, altre epoche, magari lontane e nemiche.
La quantità di spiegazioni che Fernando Báez mette in campo per cercare di capire la furia dei distruttori – dall'indagine sui miti apocalittici alle teorie complottiste di Jacques Bergier, a quelle psicoanalitiche di Gérard Haddad – è suggestiva. Ma al termine della lettura rimane la sensazione che l'ossessione della tabula rasa e della negazione dell'Alterità sia sufficiente a spiegare gran parte delle distruzioni. Forse sarebbe a questo punto più interessante studiare e finalmente rivalutare le ragioni dei pochi o tanti che a Qumran sul Mar Morto, a Mogao nel deserto del Gobi, a Nag Hammadi in Egitto – ma anche a Firenze nel 1966 –, più simili agli Uomini-Libri di Bradbury che a dei bibliotecari veri e propri, hanno salvato qualcosa: un rotolo, una tavoletta, un manoscritto, una storia, una memoria. Coloro che hanno custodito, nascosto, curato quella delicata e vulnerabile fede nel futuro che da qualche migliaia di anni – sì, è davvero una storia infinita – noi uomini affidiamo ai libri.
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La vita è un fascio di "file"
Un file può essere qualsiasi cosa, una canzone o una fotografia, un film, il testo completo di un libro o un programma che costa migliaia di euro. Poiché un file è costituito di dati elettronici, comunque, riempirà spazio sul vostro disco fisso. Oggi i dischi fissi di grandi dimensioni sono abbastanza economici, il che significa che potete riempirli di molti file a un costo relativamente contenuto. Salvare e conservare tutto ciò che desiderate non è un problema. I file possono essere anche copiati con accuratezza perfetta e trasferiti senza errori praticamente in qualsiasi computer nel mondo. Nella maggior parte delle industrie tali qualità sarebbero ammirabili, ma nell'industria informatica significano guai per i detentori dei diritti di copyright. Se è possibile copiare canzoni, libri o programmi quasi gratuitamente, che cosa impedirà alle persone di copiare qualsiasi dato in loro possesso e passarlo a tutti gli amici?
La risposta è semplice: nulla. Questo significa guai per l'industria dei computer. Naturalmente, copie illegali di cassette e CD musicali sono realizzate da anni, ma questi supporti non erano così semplici da distribuire come un singolo file che può essere spedito per posta elettronica o su una rete di scambio, permettendo a milioni di persone contemporaneamente di scaricarlo.
Allo stesso modo, le fotocopie hanno spaventato i copyright sui libri, ma fotocopiare un intero libro è in genere più problematico (e costoso) che vantaggioso. Inoltre, la maggior parte delle persone preferisce libri rilegati, piuttosti che un insieme slegato di fotocopie non sempre di buona qualità.
Lo stesso può essere detto delle videocassette, che hanno permesso la copia dei film, ma come per le cassette audio, ogni copia realizzata risulta di qualità inferiore rispetto all'originale. Inoltre, è semplicemente troppo problematico per l'utente medio duplicare video e distribuirli in massa.
Una volta salvato qualcosa in un file, su un computer, copiarlo diventa improvvisamente facile e veloce per chiunque. Invece di chiedere "Può essere copiato?" la domanda è diventata "Dove posso trovarlo?". La risposta, di solito, è "Da qualche parte online", dove le persone possono copiare e distribuire file velocemente. Probabilmente, tutto ciò che poteva essere copiato lo è già stato e il solo problema è sapere dove cercare in Internet. Anche se la maggior parte delle persone la immagina come un insieme di siti e posta elettronica, Internet è soprattutto una rete che connette computer.
Internet ha rivoluzionato il modo di condividere i file, attività che un tempo significava passare fisicamente la copia di un floppy disk a un'altra persona, mentre oggi può comportare semplicemente premere un pulsante. Dal momento che condividere i file è diventato così semplice, la condivisione non richiede più conoscenze tecniche quanto, piuttosto, motivazioni. Alcuni condividono i file perché amano l'idea di "farla pagare" alle grandi corporazioni non acquistando i file protetti da copyright che duplicano e condividono. Altri condividono perché vogliono una copia di una particolare canzone o di un programma e non vogliono o non possono permettersi di pagarla. Altri ancora condividono nell'ignoranza che duplicare file protetti da copyright è illegale.
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“Una iena col reggiseno”: Mary Wollstonecratft
Da poco è uscito in Inghilterra una ennesima biografia di Mary Wollstonecraft la scrittrice inglese del 18°, secolo autrice di questo famoso trattato sui diritti delle donne, moglie del filosofo William Godwin e madre di Mary Shelley, autrice dell’altrettanto famosa storia di Frankenstein. Negli anni settanta il movimento femminista internazionale ebbe come slogan, tra i tanti, anche questo: “The personal is the political”. La vita di Mary fu, appunto, un fatto personale che diventò poi un fatto politico, uno slogan che ha il carattere di un “mantra”, un’energia, una vibrazione nel significato della parola indiana, una “politica” nel significato culturale occidentale.
Mary mise al centro della sua filosofia la “casa”, la sua vita e il suo lavoro furono regolati dalla lotta per l’emancipazione delle donne. Purtroppo il fatto che tutti fossero a conoscenza che lei se la faceva con due amanti e che ad essi aveva rivolto l’offerta di un “vita a tre”, che avesse una figlia illegittima e che avesse tentato il suicidio, tutti questi fatti distrussero la sua reputazione. Fu solamente verso gli anni settanta del novecento, ben due secoli dopo, che Mary riemerse come l’antesignana e la madre del femminismo.
Molti critici e storici ritengono che il genio di Wollstonecraft vada ricercato nella sua vita. Secondo un’altra grande femminista inglese, Virginia Woolf, la sua genialità va ritrovata nel fatto che sin dall’inizio la sua fu una vita sperimentale. Figlia di uno sfaccendato ubriacone imparò subito a come vivere da sola scegliendosi uno dei mestieri più impossibili per quel tempo vale a dire: la scrittrice.
Troviamo la diciannovenne scrittrice Mary camminare da sola per Londra di notte di ritorno da una serata letteraria col suo editore Joseph Johnson e altri membri del circolo radicale frequentato da uomini come Paine, autore dei “Diritti dell’Uomo”, di William Blake, poeta e pittore immortale, Erasmo Darwin, il grande pittore Fuseli. Frequentazioni e conoscenze fatte in nome di una chiara indipendenza esistenziale e culturale, impensabile a quel tempo, in quel tipo di società del 18° secolo inglese.
Era l’epoca nella quale le donne non si sarebbero mai sognate di studiare botanica a causa dei riferimenti sessuali femminili delle piante negli studi di Darwin, un’epoca in cui le donne non avevano diritto a fare carriera, non potevano avere accesso al loro denaro, non possedevano il proprio corpo dal punto di vista strettamente fisico, i figli non appartenevano loro. Insomma, erano solo dei giocattoli nelle mani degli uomini. Il matrimonio non era altro che “prostituzione legalizzata”, come la stessa Mary ebbe a dire nel suo famoso libro sui Diritti.
“I Diritti delle Donne” venne pubblicato nel 1792 e le diede immediata fama. Fece andare su tutte le furie poeti classici e conservatori come Horace Walpole il quale la defini”una iena col reggiseno”. Fece impallidire molti presunti radicali, sia politici che scrittori e opinionisti di una stampa che era solo maschile e conservatrice. Mary, nel libro, sosteneva con violenza il diritto delle donne all’istruzione, all’emancipazione, alla liberazione da uno stato di una umiliante servitù maschile affermando che non era vero che gli uomini fossero esseri dotati di ragione e le donne di solo emozioni. Lei sosteneva invece che il matrimonio fosse la giusta fusione equilibrata tra i due sessi, pietra d’angolo per mantenere le relazioni tra i sessi e quindi le fondamenta della società civile.
Pur avendo scritto romanzi, manuali e antologie educative, il saggio sui “Diritti delle Donne” è il suo vero e proprio testamento intellettuale. Mary non è soltanto una icona femminista del tutto nuova ed inaspettata sullo scenario inglese della fine del settecento. Essa ben si inserisce nella corrente dell’Illuminismo europeo che sfocia liberamente nel Romanticismo per mutarsi e trasformarsi in Politica culturale. Una donna che conobbe a fondo il dr. Johnson, il famoso autore del primo Dizionario della lingua inglese e che sarebbe diventata suocera del grande poeta romantico Shelley.
Nella sua vita appassionata e sofferta la confluenza dell’Illuminismo nel Romanticismo divenne una vera e propria battaglia sanguinosa come si evince da una sua lettera: “Io sono un vero animale e le emozioni istintive troppo spesso mettono a tacere le suggestioni della ragione…Sono ben consapevole che la vita è solo un gioco, spesso solo un incubo, eppure ogni giorno sono alla ricerca di qualcosa di serio, che vale, ma resto sempre disillusa”. La lettera fu scritta dopo il rifiuto di Fuseli a convivere in tre. Una Mary esasperatamente romantica nella sua essenza, sostanzialmente cruda nella sua esasperazione ma profondamente seria nel suo illuminismo razionalistico.
Mary fece della sua vita un continuo esperimento. Respinta da Fuseli, se ne andò dall’Inghilterra e andò a seguire la Rivoluzione Francese nei giorni del Terrore, come una moderna giornalista che va al fronte. Intraprese un viaggio nei paesi scandinavi e si ritrovò con una figlia a scrivere le sue straordinarie lettere dalla Scandinavia, Svezia, Norvegia e Danimarca. Furono queste lettere che trasformarono il filosofo William Godwin da suo ammiratore in amante. Il matrimonio fu il suo ultimo ma “fruttuoso esperimento”, come lo definì Virginia Woolf. Una vita di “esperimenti” fatti sulla propria pelle.
Mary Wollstonecraft è il ritratto di una donna coraggiosa, irritante, attraente, appassionata, istintiva, a volte brutale, ma giammai intellettuale o saccente. La sua fama venne enormemente danneggiata dalle rivelazioni che lo stesso Godwin impunemente fece quando pubblicò nelle sue Memorie pubblicate nello stesso anno delle Memorie di Mary, alcuni particolari privati, discreditandola agli occhi delle femministe fino alla metà del secolo scorso. In fondo, molti biografi moderni tendono a pensare che lo sforzo di Mary fosse rivolto a dare alle donne non solo una nuova e diversa condizione fatta di riscatto e di ricerca di identità, quanto anche a concorrere a “creare” un “uomo nuovo”, visto nel gioco delle relazioni e degli equilibri tra i due sessi.
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L'urlo della vita
Il quadro di Eduard Munch che riproduce l'urlo mi ha sempre affascinato per la sua mobilità, il suo realismo, la sua imprevedibilità. La mobilità sta tutta nelle sue forme senza forme. Se lo guardi in momenti diversi e in sequenza, scoprirai che non è mai lo stesso. Si dilata, si allunga e si distende all'infinito in maniera sempre contrastante. Il suo realismo è tanto reale e soggettivo che diventa chiaramente ossessivo nella sua ripetitività modulare e cadenzata, quasi lo tocchi con mano perchè lo senti nella tua mente. Senza dubbio è imprevedibile perchè non sai da dove viene, come nasce e si sviluppa, ma sopratutto non sai come finirà, fin dove quell'urlo sarà in grado di arrivare e a chi. Senza nemmeno chiedersi poi il perchè di tanto urlo: follia, rabbia, dolore, invocazione, epifània di un accadimento senza una identità precisa? Interrogativi che devono restare senza risposte perchè la domanda già la contiene e la mantiene nella sua perfetta drammaticità.
Eduard Munch è, per i critici, un grande pittore, ma presso il pubblico è noto quasi esclusivamente grazie a un quadro, L'urlo, da cui sono irresistibilmente attratti squilibrati, maniaci ed esibizionisti d'ogni sorta; ne esistono varie versioni (il nostro cofanetto ne presenta due): quelle esposte alla Nasjonalgalleriet e al Munchmuseet di Oslo sono state oggetto di furti, anche recenti. Ma L'urlo è del 1893, Munch è nato nel 1863 ed è morto nel 1944, attraversando con la sua opera tutti i passaggi e le svolte fondanti dell'arte moderna, dall'iniziale naturalismo al simbolismo e infine all'espressionismo, per il quale L'urlo - assurto ad icona dell'angoscia esistenziale - rappresenta uno vero "manifesto" programmatico.
In un profilo del pittore norvegese che sarà necessariamente essenzialissimo non possiamo non dare uno spazio di riguardo al rapporto che egli ebbe con lo scrittore svedese August Strindberg (1849-1912). I due si conobbero a Berlino negli anni della giovanile bohème e legarono subito in una fervida amicizia e comunanza di idee. Il sodalizio si interruppe nel 1896, ma ancora pochi anni prima Strindberg aveva dettato un articolo assai elogiativo di Munch in occasione di una mostra che il pittore teneva a Parigi. L'articolo ci è prezioso per avviare un giudizio su Munch: "Alcuni dei suoi quadri ricordano le visioni di Swedenborg...".
Emanuel Swedenborg è il grande scienziato e mistico svedese del XVIII secolo e dunque, citandolo, Strindberg mette in luce la fortissima impronta letteraria, filosofica e persino "nordica" presente nell'opera di Munch. Più che ispirarsi ai pittori della tradizione europea, da lui lontani se non altro per ragioni geografiche, il giovane aspirante artista assorbì una cultura di matrice letteraria in sintonia con l'eccezionale risveglio artistico-culturale dei paesi scandinavi, dove in un breve giro di anni apparivano scrittori quali lo stesso Strindberg, i norvegesi Henrik Ibsen (1828-1906), Knut Hamsun (1859-1952) e l'anarchico Hans Jaeger (1854-1910) che di Munch fu molto amico, senza peraltro trascurare il pittore Kristian Krohg (1852-1925), l'illustratore Olaf Gulbransson (1873-1958), l'architetto finlandese Eliel Saarinen (1873-1950), o magari il musicista Edvard Grieg (1843-1907). Evidente è il richiamo extrapittorico di L'urlo.
Pittore-letterato, dunque, il nostro. Ma cosa significa questo? Perché può interessarci? Semplicemente perché Munch, in qualità di letterato prima che da pittore, è stato creatore di "immagini". L'urlo è una immagine intensissima, che si imprime nelle coscienze al di là del suo valore "pittorico". Non è - come si ripete - una immagine della modernità, perché troppo risente ancora di naturalismo e di positivismo, ma quella figura che avanza su un simbolico ponte seguita da due tristi figure, minacciose (o sentite come tali dal personaggio in primo piano), circondata da un mare e/o da un cielo immersi in un colare di cupe striature, fuoriesce dalle nostre coscienze come un incubo. L'uomo di oggi deve molto a questa immagine, e dunque a Munch.
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Il piacere dei libri
Leggere per leggere. Molti lo fanno ed è un piacere che solo chi lo prova può davvero apprezzarlo. Leggere cioè non per studio, ricerca, critica o altro. Ma solo per piacere di vagare da pagina a pagina, senza un compito ed una meta precisi, senza un assillo, senza una impellenza. Il piacere di farlo tanto per farlo, per uscire dalla condizione mortale in cui ogni uomo è costretto a vivere. Thomas Carlyle addirittura affermò che ci fosse in ogni uomo il “Diritto di leggere” “una crudele ingiustizia se lo si priva di farlo”. E’ vero che, comunque, leggere non è e non può essere un “dovere” e perciò se è un piacere, tanto meglio, altrimenti è solo una perdita di tempo. Orazio ebbe, a dire con grande intelligenza, “Lectio, quae placuit, decise repetita placebit”, “ciò che leggiamo con piacere lo rileggiamo con lo stesso piacere”. Questo perché il desiderio dello spirito non è mai soddisfatto e fine a se stesso, ma continuamente aumentato quando questi desideri vengono condivisi con gli altri. E allora, come chi viene invitato ad una festa a mangiare, lasciamoci tentare dalla scelta, decidendo di leggere ciò che ci piace.
Senza al dolcezza di questo piacere i libri non potranno mai essere gustati, perché la letteratura, dopo tutto, non ci migliora. Piuttosto siamo noi che proviamo il piacere di migliorarci leggendo. Shakespeare dice nella “Bisbetica domata”
“Perdonatemi, gentile padrone,
In queste cose io la penso come voi,
lieto che così confermiate la vostra decisione
di succhiare le dolcezze della dolce filosofia.
Solo, buon padrone, mentre noi ammiriamo
Questa virtù e questa disciplina morale,
non siamo stoici né stolidi, vi prego,
consegnandoci alle pastoie di Aristotele
fino a fare di Ovidio un reietto sconfessato.
Esercitate la logica coi vostri conoscenti,
e fate pratica di retorica nel parlare quotidiano;
per ricrearvi, usate musica e poesia;
e a matematica e metafisica
dedicatevi quando ne provate voglia.
Non si dà profitto là dove non si prova piacere.
In breve, signore, studiate quello che più vi è congeniale.”
(I.i)
La stessa idea è sostenuta da molti e da ciò ne deriva che se un libro non è piacevole, cioè dà gioia, godimento e divertimento, non è affatto leggibile, e quindi viene meno alla sua funzione. Tutto dipende, comunque, da ciò che il lettore cerca nel libro che ha tra le mani. In fondo tutta la letteratura sembra esistere per arrecare piacere, alleggerire all’uomo la fatica di vivere, il peso dei suoi peccati, farli dimenticare, insieme alle sue speranze perdute, tutte quelle cose che si appellano al suo cuore. Questo piacere nei libri può, comunque, variare nel tempo e nello spazio. E, soprattutto se questo piacere non è alimentato dalla varietà: “jucundum nihil est, nisi quod deficit varietas”.
La biblioteca personale di ognuno di noi deve essere simile ad un giardino, con i suoi scaffali, i suoi percorsi, anfratti e spiazzali, poggi e terrazze dai quali cogliere i frutti desiderati, rose, spezie ed altre voluttà. A seconda di come si sente il nostro spirito scegliamo alcuni frutti invece di altri, decidiamo per certi gusti al posto di altri. Più grande è la varietà, maggiore è la scelta ed il godimento. Ci lasciamo guidare anche dal nostro stato d’animo, dalle nostre aspettative, ansie, problemi, sofferenze che ci accompagnano e dal libro scelto ci scegliamo un amico a cui lasciarci andare, confidarci, accompagnarci. Bisogna, però, sempre ricordare che c’è una grande differenza tra chi desidera davvero leggere un libro per far viaggiare la sua mente e il suo spirito e chi, essendo stanco, cerca di rilassarsi leggendo un libro.
Non sarebbe male pensare che per leggere, e leggere bene, ci sono delle regole da seguire. Gorge Gissing si pose questa domanda e così rispose: “Perché leggo e mi sforzo di ricordare? È davvero una domanda sciocca alla quale non si può dare una risposta. Si legge per il gusto ed il piacere di farlo, per rinvigorire il proprio io e riempire la propria solitudine. Solitudine dentro e solitudine fuori che solo i libri possono aiutare a far scomparire. E allora, bisogna dire che la regola d’oro per saper leggere consiste nella consapevolezza che non ci sono regole per leggere. Solo quando si decide di aprire le pagine di un libro si saprà esattamente quale direzione, senso e significato assumeranno quelle parole nella mente di chi legge, così come sono state scritte dal suo autore. Sarà allora che il libro scritto e stampato ritornerà in vita e si rigenererà, diventando “altro”, trasformandosi in un altro libro, tanti altri libri, quanti saranno i suoi lettori!
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Ci sono cose in un silenzio...
Il rumore sta diventando un'arma di marketing, per tenere sotto controllo la nostra attenzione. Nei bar, nei locali, nei supermercati, ovunque la musica è sempre più assordante e il suo volume viene alzato affinchè la gente parli di meno, beva e spenda di più, si concentri sempre meno. La musica viene usata per creare un'atmosfera di festa e far vivere di impulso. Aeroporti sempre più grandi, stessa cosa per stadi, supermercati, palestre e altri luoghi di convenzione sociale. Secondo l'autore anche i grandi palazzi e gratta cieli strillano perchè nei giorni di vento le lame di vetro e acciaio vibrano a frequenze altissime. In generale le costruzioni molto alte creano attorno a sè gorghi e vortici di rumori sibilanti e stridenti. Sempre più persone sembrano avere bisogno fisico di rumore e azione. Adorano interagire per essere animali sociali e senza rumore non possono competere. Si creano stati d'animo da cui non si fugge. Se il silenzio è troppo questa gente fugge perchè altrimenti impazzisce. Abbiamo quindi bisogno di silenzio, uno stato d'animo ed una condizione della mente e dello spirito che ci faccia recuperare la dimensione dell'infinito alla quale apparteniamo.
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L'Italia come mito
Ricordo di aver letto tempo fa che uno storico tedesco ha scritto che l'Italia comincia dalla Sicilia e che gli italiani si sono diffusi risalendo la penisola e popolandola dei vari usi e costumi a seconda delle condizioni ambientali che trovavano nei loro inserimenti. Ma quando nasce il suo mito? Il mito dell'Italia in età moderna nasce e prospera nella prima metà del Cinquecento, contemporaneamente al suo declino politico: quando le guerre per la conquista della penisola vedono sullo scenario internazionale le maggiori potenze del mondo - Francia e Spagna - contendersi a colpi di archibugio il territorio della penisola diviso in Stati e staterelli l'un contro l'altro armati e disponibili a tutto pur di prevalere sull'altro.
Ma fu proprio attorno a quegli anni di lotte cruenti, con Francesco I e Carlo V in campo, che l'Italia tornò ad essere il centro dell'Europa, il baricentro della civiltà occidentale. Non che si fosse mai del tutto appannata la fortuna della civiltà italiana, ma è a partire del XVI secolo che essa assume nuove forme e si configura secondo modelli inediti o in gran parte rinnovati.
Proprio nel momento delle sue massime sventure politiche l'Italia ed il suo genio viene assunto a metafora e epitome dell'intelligenza, della creatività scientifica, filosofica e artistica, ma anche del buon vivere e dell'eleganza. In queste pagine provo a raccontare questa storia con quel poco di esperienza che ho – in taluni ambiti - della cultura europea. Essa attinse a piene mani a quel cantiere senza confronti e a quel serto di tesori che è l'Italia alle soglie dell'età moderna...
Quella che si indica come civiltà del Rinascimento ha, nel senso etimologico, l'idea e il mito di una rinascita a una nuova vita, a una nuova arte, a un nuovo concetto dello Stato e a un nuovo sentimento delle relazioni umane, dei rapporti economici e sociali. Pertanto il legame ideale con il mondo antico greco-romano è solo un segmento di questo vasto movimento, che principia nella prima metà del XV secolo e si conclude con la fine del XVI secolo: senza entrare qui in una discussione nella quale la periodizzazione rimane un irrisolto problema storiografico, conviene subito dire che un concetto assolutamente simmetrico è quello della scoperta – e conseguentemente del viaggio come esperienza concreta – motivata eminentemente dal nuovo spirito laico inaugurato dal pionieristico Liber civitatis di Filippo Villani, dall' Italia illustrata di Flavio Biondo, dagli scritti di letterati quali Leonardo Bruni e di un pittore, architetto e scrittore come Leon Battista Alberti.
Questa tradizione avrà il suo riscontro nell'opera di Erasmo da Rotterdam, modello esemplare di un nuovo tipo di intellettuale, assunto a principe degli umanisti d'Europa quando era ancora in vita. Costoro tra i primi si pongono alle spalle lo spirito millenaristico che domina tutto il mondo medievale, ma senza recidere le radici con questa tradizione religiosa.
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L'uomo qualunque
Tutti sanno chi è l'"uomo comune" eppure nessuno ci ha mai parlato. Gli anglosassoni lo chiamano "the man in the street" - "l'uomo della strada". Un tempo da noi lo chiamarono "l'uomo qualunque", che corrisponde all'inglese "everyman". Lo puoi incontrare all'alba sul primo treno semivuoto che va da qualche parte e lo vedi entrare nella carrozza, sedersi e iniziare a seguire il viaggio dei suoi pensieri. Lo trovi seduto nei giardini pubblici, col giornale tra le mani che non legge. Lo segui nella fila davanti allo sportello della posta, senza che faccia un lamento o una imprecazione per l'attesa. Lo vedi in chiesa seduto con la testa tra le mani immobile senza mai sollevarla verso l'altare. Ti siede davanti al ristorante mentre guarda la pizza che ha davanti, che si raffredda e non la mangia. L'"uomo comune" appartiene alla categoria della gente comune che si sa che esiste ma non si sa dove vive. Quella gente di cui tutti parlano e scrivono, fanno le statistiche, compilano le ricerche, calcolano le entrate e le uscite, fanno la media e tirano le somme senza mai averla vista, incontrata, interrogata. "Uomini comuni" contro "gente comune", anonimi senza volto, volti senza nomi. Pino Caruso ci ha scritto un libro sopra.
"L'ideale sarebbe non scrivere nulla. Ma se proprio non se ne può fare a meno, il ripiego migliore è scrivere di nulla. Anche se non è facile come non scrivere nulla. Le persone che non scrivono nulla sono milioni, mentre quelle capaci di scrivere di nulla non esistono: per quanto si sforzino, finiscono sempre con lo scrivere di qualcosa. Per scrivere di nulla è necessario, intanto, cominciare col descrivere tutto, persino quello che potrebbe esserci e non c'è; poi toglierlo e... quello che resta è nulla.
Ma non è tutto, bisogna anche fare attenzione a non scrivere di qualcuno. Ma chi veramente può essere indicato come nessuno? Scartiamo, per ovvi motivi, le persone esistenti e consideriamo, a tal fine, improponibili anche le persone immaginarie: don Abbondio non si può dire che sia nessuno; magari non sarà una persona fisica, ma qualcuno è - a meno di non sostenere che Manzoni non sia mai esistito. Chi resta, allora? Non resta nessuno. È questo il punto.
Per descrivere una persona che non è - che è, cioè, nessuno -, per darne idea precisa, occorre, come per descrivere il nulla, elencare tutte le cose che non è. E, forse, nemmeno basta, poiché ogni persona è tutto quello che non è, meno lui. Quindi, uno che non è nessuno, non dovrebbe essere nemmeno se stesso. E, comunque, arrivare all'idea di nessuno è impossibile senza parlare di tutti. Che in un posto non ci sia nessuno, è pensabile soltanto se potrebbe esserci qualcuno. Se al mondo non ci fosse qualcuno, sarebbe inconcepibile il concetto stesso di nessuno. Nulla e Nessuno sono concepibili in quanto contrari di Tutto e Qualcuno.
Almeno, io ragiono così; anche se scrivere di nulla e di nessuno non mi è ancora riuscito. E se ora ne parlo è perché sono convinto che, se non si trova presto un sistema, non ci si riuscirà mai. Certe cose o le trovi subito o non le trovi più. Il tempo è contro di noi: fa sparire oggetti e persone in modo irreversibile. Figuriamoci se non è capace di fare sparire il nulla!
Detto questo, rimane da sapere se questo benedetto nulla esiste o non esiste (anzi, adesso che ci penso, è la prima cosa da stabilire). Razionalmente, saremmo portati a pensare che esista, che da qualche parte debba pur esserci: non è possibile che tutto sia qualcosa e che non ci sia niente che non è nulla. Ma, in quanto a prove, non ne abbiamo. Al momento, il nulla, non si sa né che cosa sia né se c'è: sono anni che scienziati di tutto il mondo cercano e non trovano nulla."
Certo è che, se non esiste, è segno che c'è un impedimento permanente che gl'impedisce di esistere.
Da quanto ho capito, il nulla esiste e non esiste. Oscilla. Oscilla, cioè, tra l'essere e il non essere. Ma come può essere?, direte voi, una cosa è o non è. C'è o non c'è. Una "cosa"! Non il nulla, che è elemento vago. Vaghissimo.
Mi spiego: a un uomo basta se stesso per esistere; anche se è solo, su un'isola deserta, sa di esistere. Ma il nulla che ne sa? Da solo (e per se stesso) non può esistere (soprattutto se esiste). Ci vuole quindi qualcuno che, trovandolo, lo identifichi e lo faccia esistere. Ma chi? È questo l'impedimento permanente.
Il nulla, se non è infinito, non è un vero nulla; bensì, "qualcosa" che collega a "qualcos'altro"; o lo separa. Occorre, di conseguenza, cercare un nulla, oltre il quale non ci sia più nulla. Ma chi può trovare un nulla simile? Chi può andare "eternamente oltre" a controllare che non ci sia più nulla? Nessuno! E un motivo c'è: il nulla, essendo infinito, richiede anche un tempo infinito. Il che presuppone l'esistenza di qualcuno che non abbia nulla da fare. F magari uno così lo si trova. Ma se non ha nulla da fare, è segno che non vuol fare nulla e sarà dunque impossibile indurlo a fare qualcosa.
Inoltre, l'inafferrabilità del nulla vanifica in partenza ogni tentativo. Trovarlo, significherebbe, in pratica, non trovare nulla. E non sapremmo mai se l'abbiamo trovato o no. Tuttavia non bisogna disperare. Il nulla è rintracciabile. Basterà cercare altrove; per esempio, non fuori, ma dentro la propria testa. E si sospetta che qualcuno lo abbia già trovato. Purtroppo – proprio per questo – non può dirci nulla.
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Il tempo e la sua geografia
Io credo che la parola più affascinante, ed allo stesso tempo più misteriosa, che sia stata inventata nel lessico umano sia proprio la parola “tempo”. In origine significava “tagliare-dividere” ed è da questa idea che si deve partire per cercare di comprendere quanto l’uomo sia coinvolto: passato-presente-futuro, epoca, era, evo, data, lasso, momento, periodo, durata, intervallo, ciclicità, intermittenza, sequenza, circostanze, possibilità, volta, stagione, clima, fase, gradino, stadio, atto, parte, cadenza, ritmo… Questi sono solo alcuni dei sinonimi che tentano di dare un volto, una definizione, una identità al “tempo”. Ma io penso che l’antica espressione latina “hic et nunc” sia quella che più la definisce nelle sue possibili dimensioni, che non sono le classiche “spazio-tempo”, ma vanno ben al di là di esse. Un libro sul tempo, allora, non è che un altro libro che si aggiunge alla lunga lista che dal principio di tutti gli inizi l’uomo ha cercato, cerca e continuerà a cercare di collocarsi. Ed è proprio qui che il “tempo” sembra incontrare l’altra terribile, misteriosa ed affascinante parola che al tempo si accompagna: lo “spazio”. Ma per ora leggetevi alcune considerazioni che sul "tempo" vengono fatte in questo libro davvero prezioso.
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Il libro degli odori
Anche gli odori hanno una loro dimensione, anzi due e più: buoni o cattivi, piccoli o grandi, forti o deboli, inconsistenti o persistenti, veri o falsi. Tutti conosciamo gli odori, la loro memoria, lo spessore, la consistenza, la provenienza, la durata, il senso, il significato, il sapore. Insomma gli odori sono presenze che affermano la loro inconsistenza quando meno te lo aspetti e nella maniera più incerta e misteriosa. Ricordo gli odori di certe strade di Londra di notte, camminando lungo il Tamigi, o per la City, nella metropolitana, inseguendo la corrente del vento oppure controvento, una mescolanza di cipolle e di salsicce. Certi odori della campagna scozzese là dove la verbena si confonde col letame e col concime. L'odore dell'erba appena tagliata fresca dei prati inglesi, quello delle lenzuola fresche del calore liquido del sesso, della moquette spolverata o quello del cretonne delle tende che Joyce fa sentire a Evelina nel suo racconto dei "Dubliners". Insomma, odori, sapori, ricordi, immagini, epifànie dell'esistenza. Eccovi un libro sugli odori.
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I giornali delle caste
Una parola di moda oggi in Italia è “casta”. Una casta è ciascuno dei gruppi sociali che costituiscono una gerarchia rigida in alcune società del passato. In società di questo tipo, per un individuo appartenente ad una casta è molto difficile o impossibile entrare a far parte di una casta diversa, in particolare se di rango più elevato. Il concetto di casta si riferisce originariamente alla società indiana, ma è utilizzato per estensione anche in altri contesti ed in senso improprio anche per riferirsi a qualsiasi gruppo sociale chiuso anche in società che non sono ufficialmente divise in caste. La parola "casta" - che in portoghese significa puro, non contaminato, che si avvicina anche all'italiano "casto" - raggruppa due concetti legati tra loro, ma differenti e talvolta antagonisti, nella società indiana. Questo libro parla della casta dei giornali in Italia. Ma siamo sicuri che le caste ci sono solo nel nostro Paese. Non è che queste sono dappertutto e che fanno parte del genere umano?
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I fatti della Fera
Ho trascorso dei mesi a leggere con passione e trasporto le oltre mille pagine di questo immenso libro che lascia davvero sgomenti e senza fiato. Sgomenti perchè non credi sia impossibile che un uomo possa scrivere quello che D'Arrigo ha immaginato nella sua mente e registrato su carta nel corso di tanti anni di lavoro. E' come se avesse tentato di "scrivere il mare" sempre diverso eppure sempre lo stesso. Questo non è un libro "normale", non ha un principio, uno svolgimento, una conclusione. E' un continuo divenire, un costante andare, un eterno ritorno. Parole, idee, ricordi, suoni, immagini, fantasie, colori, sapori, dolori, passioni sono tutti là dentro, in quella profonda gola narrativa che è "L'Orca".
La storia personale di Stefano D'Arrigo é strettamente intrecciata con quella del suo poema epico moderno, Horcynus Orca. Un lavoro che ha impegnato l'autore per quasi vent'anni in continue riscritture e aggiunte, invenzioni stilistiche e lessicali, rimandi all'epica classica e alle nuove tecniche di scrittura del '900. Un impegno costante che ha contruibuito a trasformare "I fatti della fera" (questo il titolo originario) in un mitico ed epico poema della metamorfosi. Horcynus Orca é una lettura che manifesta l'immensa ricchezza tematica con cui Stefano D'Arrigo ha voluto caratterizzare la sua opera. Le scelte lessicali misteriose, i parallelismi tra i suoi personaggi e quelli dei grandi poemi epici, come l'Odissea e l'Eneide, l'Orca vista come simbolo accostabile al Leviatano o a Moby Dick, sono tutti elementi che affascinano e costringono il lettore ad addentrarsi nella grandiosa costruzione su cui D'Arrigo ha trascorso una vita.
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L'ombra di se stesso
Pirandelliano è stato definito questo romanzo di Unamuno ed infatti esso costituisce un chiaro precedente dei "Sei personaggi in cerca d'autore" e di "Questa sera si recita a soggetto" di Pirandello che, nel 1928 fece rappresentare in Italia dala sua compagnia "Todo un hombre" di Unamuno. Anche in "Nebbia" (1914) Unamuno porta in scena se stesso come farà Pirandello, creando lo stesso rapporto, tra poesia e assurdo, tra autore e personaggio. "Povero uomo nei sogni, sempre cercando Dio nella nebbia": forse niente di meglio di questi versi di Antonio Machado serve a spiegare il titolo del romanzo: Augusto Perez, quando è messo di fronte, senza pietà, alla sua inconsistenza di personaggio, di "ente di finzione" come fanno del resto tutti i personaggi di Unamuno che si trovano a vivere una esperienza simile alla sua, cerca qualcosa al di là di se stesso che lo faccia "uscire dalla nebbia", cioè Dio.
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Marta e Firmino
E' di questi giorni il sospetto che Savage abbia tratto ispirazione, se non copiato i temi del suo libro, da quello di uno scrittore napoletano autore di un libro "La bibliotecaria" edito da Guida anni orsono. Su Qlibri troverete la sua presentazione. Ciccarone ha dichiarato, riassumendo la situazione: "Entrambi i protagonisti rischiano di essere uccisi dai proprietari delle librerie dove vivono; entrambi si rendono conto che non tutti gli umani sono cattivi; entrambi rischiano ch il loro mondo (il quartiere per Firmino, tutto il globo per Marta) sia distrutto. E, poi, in entrambi i libri si parla di fantascienza, della seconda guerra mondiale, della rivoluzione, ci sono scene ambientate in un bagno. Firmino vuole scrivere un libro e Marta ne scrive uno." Si tratti di plagio oppure no, forse sarà deciso in tribunale. Quel che importa a Ciccarone adesso, è che "i lettori prendano in mano la mia Marta e giudichino". Ciò detto la nostra lettura è rimasta influenzata dalla notizia e non possiamo essere del tutto positivi nel giudizio. A voi la parola. fatto è che "Firmino" vende e ha venduto, "La Bibliotecaria" spera di recuperare.
A lettura del libro ultimata e meditata mi sento di dire che, tutto considerato, Firmino non è granchè. A dire il vero l'idea che un topo possa essere il personaggio del bibliofilo mi fa un poco schifo. Sono animali che strisciano e lo fanno in tutti i luoghi e in tutti modi. So bene che è una metafora, ma non mi convince come lettore e amante dei libri. Come tutti gli animali roditori, rodono soltanto, e del loro rodere non resta niente. Oppure l'autore ha voluto forse dire che i libri non vanno letti come fanno i topi e come fa Firmino. Vanno letti e meditati, conservati e ricordati, non rosi, corrosi e distrutti.
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"Il banchiere dei poveri"
L’autore di questo libro non è un utopista, un idealista, un sognatore, uno che lava i cervelli alla gente con le sue idee progressiste sulle quali da secoli i furbi e i politici, o forse meglio, i politici furbi, senza dimenticare gli intellettuali, ci marciano a vele spiegate, insieme anche a tanti religiosi che della religione fanno un comodo mezzo di trasporto. Se date una occhiata al suo sito scoprirete che questo signore è noto come il “banchiere dei poveri”, ha fondato infatti in Bangladesh, nel 1976, la Grameen Bank. Grameen è una banca rurale (“grameen” in bengalese significa “contadino”) che concede prestiti e supporto organizzativo ai più poveri, altrimenti esclusi dal sistema di credito tradizionale.
Fino a oggi la banca ha concesso prestiti a più di 2 milioni di persone, il 94 per cento delle quali donne. Grameen ha attualmente 1.048 filiali ed è presente in 35.000 villaggi e in diverse città nel mondo. Grameen non solo presta denaro ai poveri ma è posseduta da questa stessa gente, che nel tempo è diventata azionista della banca.
Fondata in Bangladesh , Grameen , è ora un modello anche per la Banca Mondiale. Ha fondato così una nuova teoria economica detta il “microcredito” per la quale avrebbe dovuto avere il Premio Nobel in economia. Ed invece glielo hanno dato per la Pace. Il che fa lo stesso. Il microcredito è praticato in cinquantasette nazioni, fra cui anche gli Stati Uniti, dove ne usufruiscono i poveri dei ghetti di Chicago.
Come è stata possibile una crescita tanto spettacolare? Con una serie di regole ferree che hanno consentito ai suoi fautori di superare ogni volta difficoltà apparentemente insormontabili. Anzitutto la richiesta ai poveri di radunarsi in gruppetti di cinque persone al momento di ottenere un prestito, assumendo ciascuno la responsabilità anche per gli altri, per rafforzare l’impegno a rimborsare la sua somma. In secondo luogo, il meccanismo di rimborso. Anziché attendere tutto il rimborso dopo una lunga scadenza, Grameen chiede ai suoi clienti di restituire il denaro in piccolissime rate ogni settimana. "Il denaro - spiega ancora Yunus - è una sostanza adesiva, si attacca al suo possessore. Se il rimborso deve avvenire dopo sei mesi o un ano dalla concessione del prestito, anche se il debitore avrà in tasca il denaro proverà inevitabilmente un certo dispiacere a staccarsene. Il segreto consiste nelle brevi scadenze".
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Quali sintomi onomaturgici avvertite?
Non avrei mai pensato che i sintomi delle malattie viaggiano come i treni, e con questi sintomi viaggiano le parole che ad essi si riferiscono. In effetti, a pensarci bene, il linguaggio, tutti i linguaggi dell’esistenza umana, seguono percorsi che portano alla nascita di nuovi termini che diventano tecnici e specifici nel momento in cui descrivono situazioni nuove e diverse. Nascono a tale scopo rapporti e confronti con il nostro modo di vedere oggi e quello degli antichi, mettendo in evidenza differenze tra vecchi e nuovi modi di parlare, sia all’interno della stessa lingua che in rapporto alle altre lingue. E’ il caso della lingua dei medici, i più indicati a leggere sintomi ed individuare terapie nella rincorsa dei malanni che affliggono noi pazienti.
Il nuovo libro del prof. Luca Serianni, Ordinario di Storia della lingua italiana presso l’Università “La Sapienza” di Roma, esplora il linguaggio dei medici e della medicina sotto diverse angolazioni, tra presente e passato, segue i percorsi che portano alla nascita dei termini tecnici, aiuta il lettore a comprendere la tipologia dei tecnicismi ed il rapporto che intercorre tra il nostro modo di vedere le cose e quello dei medici antichi, evidenzia la differenza tra i vecchi e i nuovi ciarlatani e la corretta divulgazione, soppesa, infine, la relazione tra lingue nazionali ed inglese, ormai diventato idioma ufficiale della comunità scientifica.
Quella dei medici – sempre sospesa tra comunicazione verbale e scrittura – è una lingua che dovrebbe essere massimamente analitica, precisa, rigorosa, ma non nasconde mai le sue componenti umanistico-letterarie. Una diagnosi indecifrabile, infarcita di sigle arcane, può servire a tenere a distanza i profani, ma può anche nascondere una realtà drammatica dietro il velo dell’eufemismo. Non è dunque un caso se in nessun’altra scienza le parole hanno avuto tanta importanza quanto nella medicina: basta guardare il numero dei lemmi medici ospitati in un vocabolario italiano.
“Un treno di sintomi” è una lettura insieme istruttiva e ricca di sorprese, che affronta l’intreccio tra il nostro corpo e le parole che usiamo, con la certezza che essere consapevoli della lingua con cui descriviamo e studiamo dolori, malesseri, patologie, diagnosi e cure possa senz’altro servire a migliorare l’intesa tra medico e paziente.
Detto ciò è vero che il linguaggio dei medici rigurgita tecnicismi a ogni pié sospinto. E se a fare la parte del leone ci si potrebbe attendere che fossero i tecnicismi in senso stretto, in altre parole i "termini medici", si scopre che in realtà il vero grande peccato della lingua dei medici sono i tecnicismi collaterali, "che svolgono una funzione simile a quella che, in anatomia, il tessuto connettivo svolge rispetto ai singoli organi: un'impalcatura di termini a debole tasso di tecnicità per collegare le varie parti del discorso in un insieme di registro omogeneo".
Ed è qui che si entra nella galleria degli orrori che farebbero accapponare la pelle al buon Graziadio Isaia Ascoli, tanto per restare in epoca manzoniana e per citare un linguista che si occupò della cosa. Qualche esempio? Il paziente sente un dolore, ma per il medico lo accusa o lamenta; il paziente va di corpo ma per il medico l'alvo è regolare. E qui inizia una serie di osservazioni di cui fare tesoro, tanto più vere quanto più difficili da estirpare perché, come un virus, hanno ormai infettato gran parte della popolazione in camice bianco e qualunque tipo di vaccino sembra impari alla lotta.
Si comincia con gli aggettivi di relazione, per cui si parla di manifestazioni anginose invece che di angina, di patologia abortiva invece che di aborto, per proseguire con la microsintassi per la quale si ha l'elisione dell'articolo, per cui la lingua diventa anonima e più simile a una lista della spesa: forse i medici non si accorgono, ma sopprimono quasi sempre l'articolo indeterminativo (un esempio? "basse concentrazioni di ozono possono determinare ostruzione delle vie aeree" in cui l'articolo un' è considerato pleonastico).
E non va meglio per le preposizioni e le locuzioni preposizionali, il cui uso o è scorretto (per esempio a con valore modale al posto di di o da) oppure inutile (per esempio a carico di, a livello di, del tutto pleonastici, questi sì). Ma a giocare il ruolo di ariete sono i tecnicismi collaterali lessicali, quasi sconosciuti nei testi medici fino al Settecento e via via più presenti, fino all'epidemia odierna. Qualche esempio? Nel libro i più frequenti sono snocciolati nell'arco di una quindicina di pagine in cui il lettore potrà trovare da pregresso a paucisintomatico, da impegno a remissione, da sostenuto a conclamato.
Tanta varietà (o tanto imbastardimento della lingua?) nasce anche dalla onomaturgia dei medici, coniatori a getto continuo di termini derivati per lo più da radici di altre lingue. Sono sei quelle contemplate da Serianni, che vengono a innestarsi sull'albero linguistico medico in periodi successivi e con alterne fortune: grecismi, latinismi, arabismi, francesismi, germanismi e inglesismi.
A differenza di quanto si potrebbe pensare la componente greca come radice di termini medici è moderna, risalendo per lo più all'Ottocento e Novecento, mentre nei testi medioevali e fino al Settecento a giocare il ruolo più rilevante è il latino, peraltro lingua ufficiale per i libri di testo del tempo rivolti ai medici in tutta Europa.
L'influenza degli arabi, invece, presente nel Medioevo tende ad annacquarsi già nel Seicento, tanto che oggi le parole arabe usate in medicina si possono contare sulla punta delle dita di una mano. Ruolo ben diverso è quello svolto dal francese che, dominante nell'Ottocento, segna tuttora la lingua tecnica medica per lo più attraverso i cosiddetti xeno-latinismi e xeno-grecismi, ossia parole francesi derivate da radice latina o greca e importate in Italia (tanto per fare un esempio: cardiologia o lipidi).
Discorso a parte meritano il tedesco - la cui influenza è stata fugace - ma soprattutto l'inglese, divenuto ormai la lingua ufficiale della scienza e anche di quella medica, il cui influsso è talmente vivo oggi da considerare parte della nostra lingua parole d'oltremanica usate tale e quali nella lingua comune. Senza considerare che forse l'influsso più negativo non viene tanto dai lemmi ma dalla costruzione delle frasi, dall'ordine delle parole, per cui si tende a preporre il soggetto al predicato quando non necessario: per esempio "i seguenti effetti indesiderati sono stati descritti durante l'uso..." al posto di "sono stati descritti i seguenti effetti...".
Imbarbarimento, si diceva? I dubbi vengono e riguardano anche la fonetica e gli accenti. Se si facesse un questionario i medici probabilmente si spaccherebbero in questo caso in due partiti, l'un contro l'altro armato: "si scrive eziologia o etiologia? si pronuncia èdema o edèma? si dice lo asma o la asma?". Nelle pagine si trova la risposta a questi dubbi che hanno accompagnato il cammino di ogni studente di medicina e che l'hanno portato a difendere a spada tratta l'accentazione, il genere o la grafia indicatigli dal professore che più si ricorda tra quelli avuti.
E' questa la parte più curiosa e attraente del volume, che appare invece carente sotto l'aspetto dell'analisi del linguaggio medico usato nella divulgazione sia verso il grande pubblico sia verso i professionisti della salute. Si rimane infatti a una patina superficiale, a uno studio non approfondito rispetto al resto del libro, oltre a trovarsi di fronte ad affermazioni semplicistiche che è difficile condividere, specie quando si sostiene con candore disarmante che ci si concentrerà solo sulla pubblicità medica di inizio Novecento e non sull'attuale perché questa "è regolata da una legislazione molto severa, al punto che non si può parlare di vera e propria propaganda commerciale: il pubblico ne è destinatario (con molte restrizioni) solo per i prodotti vendibili senza prescrizione medica e, anche quando è rivolta allo specialista, la pubblicità di un farmaco è filtrata dalla rete capillare degli informatori scientifici che, per l'appunto, sono professionisti che svolgono la funzione di aggiornare il medico, sia pure nell'interesse di una casa farmaceutica". A parte il colpo di coda finale, si trascura tutto il potere delle aziende farmaceutiche che arrivano al grande pubblico attraverso operazioni di comunicazione ben più subdole e quindi difficilmente contrastabili della pubblicità diretta.
Merita invece un cenno la conclusione del lavoro di Serianni, in cui il medico, sotto il profilo della lingua, viene avvicinato più a un giurista che ai suoi colleghi scienziati delle altre discipline: come il giurista è infatti attento a calibrare il significato dei termini che usa, ricorre a vocaboli che poi ricadono nella lingua comune e usa molti tecnicismi. E, si potrebbe aggiungere, ama egualmente stupire l'uditore per le parole che usa. D'altra parte non si può non essere affascinati ricordando che il volgare formicolio può essere etichettato come "mirmecismo": ma nessuno più lo sa. L'autore di questa recensione una volta scrisse questo termine come motivo di richiesta per una visita neurologica di una paziente. La visita è stata fatta ma il collega neurologo a mano ha appuntato una nota sul foglietto tornato indietro con la paziente: "Che cos'è questo mirmecismo? Ma soprattutto, chi è che usa questi termini?".
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Il fascino della Bibliomania
I libri antichi, e non solo quelli, esercitano sempre un fascino irresistibile al quale ogni bibliofilo/bibliomane che si rispetti non sa resistere. Ti prende come una sorta di inarrestabile orgasmo quando ti trovi tra le mani un volume antico o moderno e ti metti a sfogliare le sue pagine. Prima lo giri e lo rigiri tra le mani, guardi attentamente il fronte ed il retro. Poi vai al dorso, ne osservi il taglio, la rilegatura, la cucitura, godi dell’attesa del piacere che proverai tra poco allorquando lo aprirai. Ma titubi ancora qualche attimo per prolungare il piacere della scoperta, quasi per prepararti nel modo giusto ad un incontro atteso o inaspettato, a seconda della situazione. Se il libro, infatti, è la fine della vigilia di un incontro che stai per esaudire perché quel libro era da te atteso ed è finalmente arrivato e puoi studiarlo, allora sei quasi preparato a dargli il benvenuto, sei predisposto all’incontro, alla discussione, alle scoperte alle quali quel nuovo incontro ti porterà. Se, invece, quello stesso libro che ti ritrovi tra le mani è una scoperta inaspettata, non sai cosa effettivamente contiene, chi l’ha scritto, quando è stato stampato, chi l’ha posseduto, qual è la strada che ha fatto prima di finire tra le tue mani, allora ti senti come sospeso dall’ attesa di saperne di più.
Il titolo scolorito, nel caso del libro antico, il nome dell’autore, come l’editore impressi sul dorso, ti dicono ben poco della sua identità. E tu hai quasi timore ad aprirlo, a scoprire quel mondo che si nasconde dietro quella spessa copertina rilegata in pelle marrone mal ridotta dal tempo e maltrattata dagli uomini. Gli spigoli sono consunti, il tempo e gli uomini si sono accaniti contro di lui, alcune macchie circolari ricoprono il suo retro, forse i segni di una tazza o di un bicchiere posato su di esso. Il suo autore sarà ridotto in cenere e riposerà nella polvere del tempo, ma si sente quasi come un fremito che esce dalle pagine, come se le parole, i pensieri, le idee, volessero rivedere la luce al di là del tempo trascorso.
Finalmente sollevi la pesante copertina ed è come se una finestra si aprisse davanti ai tuoi occhi: la sguardia incollata, la sguardia libera, l’occhietto, il frontespizio. Continui a sfogliare e ti inoltri nei sentieri del libro, segui l’autore, lo insegui e quasi arrivi al suo cuore, lo senti palpitare. Si presenta nella prefazione, scorrono i capitoli, le immagini, i disegni, le idee. Le sue idee, quelle dell’autore, i suoi segni quelli del suo stampatore che gli ha fornito gli attrezzi per arredarle, rivestirle, abbellirle e presentarle al lettore.
Ma ci sono anche altri segni, diversi, aggiunti dopo, da altri lettori che si sono succeduti nel tempo e nei luoghi. I più diversi possibili: a casa, all’università, in biblioteca. A matita, a penna, di fianco, sotto le righe, richiami a colori, segnalibri tracciati per ricordare, segnalare, evidenziare, ma anche ferire, lacerare, tormentare il testo, quelle idee, pro o contro l’autore, senza pietà e senza bontà.
Scorrono le pagine, ne senti il profumo, ne riconosci le parole, ti inoltri anche tu per quei sentieri che sono percorsi fatti altrove ed appartenuti ad altri. Li fai tuoi. Ti siedi al tavolo, depositi il libro che pesa. Il peso del tempo, degli anni, delle idee, delle parole passate che rivivono a nuova vita nella tua mente. Ecco il piacere di avere tra le mani un libro antico. Solo eguagliato dall'avere tra le meni uno moderno.
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Cose meravigliose di cui nessuno parla
Breve nota sull’autore: Jon McGregor è nato alle Bermuda nel 1976. Dopo aver studiato a Bradford, vive oggi a Nottingham. Questo è il suo primo romanzo selezionato nella long-list del Booker Prize e scritto sulla barca sulla quale McGregor ha vissuto per due anni. Anche il secondo romanzo “Diversi modi per ricominciare” è stato pubblicato da Neri Pozza. Dalla critica è stato acclamato come il nuovo Ian McEwan.
Come riportato nel retro del libro dalla citazione del Glasgow Herald (“un romanzo che ci restituisce il miracolo della vita”), è un libro molto originale nello stile che narra di vicende quotidiane, accadute in una parte periferica, o meglio una via, di una città inglese. Ma il giovane scrittore inglese lo fa con uno stile che conquista frutto di una suddivisione in capitoli di 4-5 pagine dove si alterna una narrazione, forse principale, in prima persona ad una prosa oggettiva, quasi fotografica, che pian piano ricostruisce una vicenda che all’inizio del libro ci viene solo accennata per risultarci svelata al termine, coinvolgendo ovviamente anche la protagonista femminile, ossia colei che è la voce narrante in prima persona…
Svelare la trama è un’operazione che non piace, perché l’apprezzamento di un libro è una questione quanto mai soggettiva. In questo caso poi si tratta di una operazione non così sintetica, poiché pur essendo un romanzo di poco più di 250 pagine, nello stesso vi sono raccolte più storie che l’autore è bravissimo a riportarci con flasback o piccole parentesi nella narrazione che non appesantiscono la lettura, ma che anzi la rendono più stimolante.
Non scoraggiatevi, chi volesse cimentarsi con la lettura di questo romanzo, se nelle prime pagine doveste trovarvi un po’ disorientatati, confusi da più personaggi e più situazioni… vedrete che poi la storia si svilupperà e saprà conquistarvi…
Il libro l'ho letto in inglese e nella lingua originale conserva tutto il fascino particolare che purtroppo in traduzione svanisce. Se potete, leggetelo in inglese.
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Delitti vittoriani
Giallo storico che ci descrive una Londra di fine '800 con un investigatore eccezionale: Oscar Wilde. Siamo nel 1889 e il grande Oscar Wilde si trova coinvolto in un assassinio e nella
necessità di investigare in merito. L'autore è inglese, classe 1948 e' stato anche parlamentare e supervisore governativo lavorando come
autore per la radio, la televisione e il teatro. Al suo attivo ha un grande numero di scritti tra saggi, biografie e romanzi. Con il protagonista Oscar Wilde è prevista una serie e per il 2008 uscirà il romanzo dal titolo: Oscar Wilde and the Ring of Death. Il romanzo è indubbiamente un giallo storico calato in una realtà vittoriana assai ben descritta, in una Londra con i suoi splendori e le sue miserie e inizia con la morte di un giovane modello.
Londra, fine agosto 1889. In Cowley Street, in una stanza oscurata da pesanti tende e pervasa da una fragranza d'incenso, un uomo scopre il
corpo nudo di un sedicenne. Ha la gola tagliata da un orecchio all'altro e giace in un lago di sangue, circondato da candele ardenti.
L'uomo è Oscar Wilde, poeta e drammaturgo, fenomeno letterario del suo tempo, mentre il giovane è Billy Wood, un ragazzo di strada come
tanti. il giorno dopo, Wilde si risolve a denunciare il fatto a Scotland Yard, ma la polizia, giunta sui posto, non trova la benché minima traccia dell'orribile crimine.
Sicuro di ciò che ha visto e spalleggiato dall'amico Robert Sherard, lo scrittore decide di investigare da solo, incarnando suo malgrado
quel nuovo personaggio di Sherlock Holmes che tanto ammira e che tanto gli assomiglia per la brillantezza d'intuito.. Punteggiata dagli
inimitabili aforismi del celebre dandy, un'avvincente detective story
che, nell'affresco di una Londra inquietante, i cui vicoli risuonano dei passi di Jack lo
Squartatore, esplora il mondo segreto di Oscar Wilde, le sue sorprendenti amicizie, il complesso matrimonio e gli insoliti legami sentimentali, mescolando l'intrigo del classico omicidio misterioso con l'irresistibile ritratto d uno dei più grandi interpreti dell'età
vittoriana.
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I "Canti" di Blake
I “Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza” di William Blake
William Blake nacque a Soho, un quartiere di Londra, nel 1757. All’età di otto anni vide un albero pieno di angeli che risplendevano dai rami come stelle. Pittore, incisore, poeta, stampatore, bibliomane avanti lettera, Blake restò visionario tutta la vita, morì cantando in un bugigattolo dello Strand londinese fatto di due piccole stanze nel 1827. La sua poesia si manifesta principalmente nei “Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza” pubblicati nel 1794, considerati il suo capolavoro poetico anche a distanza di tanto tempo. Durante la sua vita vendette solo trenta copie delle sue composizioni. Wordsworth lo considerò matto; Coleridge lo ritenne un genio e d’allora i critici continuano ad essere divisi su chi fu veramente William Blake. Io, modestamente, lo considero uno degli spiriti poetici più illuminati di tutti i tempi, punto di riferimento per tutte le età e le stagioni della vita.
I “Canti” sono una combinazione di estrema semplicità nella loro forma, pur impregnati di significati complessi e misteriosi. Per capirli è necessario conoscere qualcosa di questo uomo enigmatico che descrisse se stesso come “Autore & Stampatore” e che restò incisore, disegnatore, illustratore di piccolo calibro per tutta la vita. All’età di 23 anni sposò Catherine Boucher, bellissima figlia di un giardiniere alla quale insegnò a leggere, scrivere, dipingere ed ad aiutarlo a mescolare i colori e preparare le tele per le incisioni. In molti disegni di William si intravede la sua immagine sfuggente e misteriosa. Non ebbero figli e la cosa è abbastanza strana se si pensa che i “Canti” erano diretti sopratutto ai bambini. L’unione fu molto felice nonostante la grande povertà ed i periodi di depressione che dovettero entrambi affrontare.
A Lambeth, dove William compose gran parte delle sue poesie, una volta lo trovarono nel piccolo giardino sul retro della casa, seduto nudo al sole sotto un albero insieme a Catherine intenti a leggere il “Paradiso Perduto”. Invitò l’amico che era venuto a visitarlo ad entrare dicendogli di non preoccuparsi, che essi erano soltanto Adamo ed Eva. Un altro amico, poco tempo dopo, descrisse l’approccio visionario alla poesia come qualcosa di molto diverso dalle allucinazioni o dalla follia. Egli mise in evidenza che quella di Blake era solo un’originalità geniale, piena di senso visivo. In una frase descrisse il pensiero di Blake come “peopled Thoughts”.
In effetti la percezione del mondo che aveva Blake era quella di un simbolista. Parlando con l’amico William Hayley, in occasione della morte del figlio scrisse, che egli doveva convincersi che ogni perdita mortale è una conquista in immortalità. “Le rovine del tempo, egli scrisse, costruiscono residenze nell’eternità”. Fu un lettore vorace sin da piccolo e cominciò a scrivere all’età di tredici anni, camminando per le strade di Londra, andando nei i villaggi vicini, ed incontrando angeli che lavoravano nei campi. Egli spiegò che la sua ispirazione avveniva “oltre il suo occhio corporeo o vegetativo, attraverso la finestra della vista”. Auto-didatta, dinamico, pieno di immaginazione, Blake elaborò le sue visioni poetiche in un sistema di conoscenze simboliche, una sorta di filosofia profetica, in parte religiosa, in parte politica, in parte ancora, politica. Influenzato dalle speranze della Rivoluzione Francese e dal misticismo cristiano di Swedenborg e Jakob Boheme, Blake si ribellò contro le istituzioni della Chiesa e dello Stato. Sfidò le idee convenzionali dell’educazione e della morale sessuale e scelse vie ed opinioni libertarie per le quali “tutto ciò che vive è sacro”.
Tutti questi elementi, sia originali che eccentrici, non è un caso che si ritrovino nelle “Songs” in forma di idee sovversive e strane indirizzate ai bambini e che “ogni fanciullo possa gioire di sentire”. T. S. Eliot ha detto che la filosofia di Blake è simile a “mobili fatti in casa” con colorate illuminazioni a disegni, simili a qualcosa di estremamente familiare e comune. Ma man mano che le stesse vengono studiate, esse si impossessano dell’immaginazione assumendo una maestosità ed una grandezza che incute paura per la forza che dalle stesse si scatena.
Blake aveva un carattere buono e gentile, un uomo generoso, affatto pacifista e mai convenzionale. Il suo corpo possente non era mai fermo, i suoi capelli sembravano lingue di fuoco sulla testa; i grandi occhi accesi fuori dalle orbite; nelle mani sempre una penna, un pennello o un incisore che si passava tra le dita. “Le mie dita emettono scintille di fuoco di attesa delle opere future” scrisse una volta. Era solito isolarsi a lavorare per intere settimane, oppure camminare per decine di chilometri in un solo giorno. Catherine una volta disse: “Vedo ben poco il sig. Blake e godo poco della sua compagnia. E’ sempre in paradiso”.
Ma il paradiso di William era spesso turbolento. Nel 1780 si unì ai Gordon Rioters che incendiarono la prigione di Newgate; nel 1789 indossò il berretto rivoluzionario della libertà nelle strade di Londra; per tutti gli anni dopo il 1790 si unì ai radicali politici come Thomas Paine, l’autore dei “Diritti dell’uomo” ed alla femminista Mary Wollstonecraft, autrice dei “Diritti delle donne” e antesignana del movimento femminista; prese spesso parte a Lambeth a dimostrazioni contro la violenza sulle donne e i bambini, e tanti altri episodi simili che si trovano di riflesso nelle sue poesie, insieme agli aspetti arcadici della sua vita trascorsa accanto a Catherine. Sensibile agli affetti intimi ed a quelli sociali, rimase sempre contro ogni forma di ingiustizia ed oppressione.
In termini puramente letterari Blake concepì le sue poesie alla stessa maniera dei canti trascritti e pubblicati nei libri e nei manuali per bambini, in forma colloquiale secondo una tradizione molto diffusa nel 18° secolo. La prima parte dei “Songs of Innocence” si realizza in un ambiente pastorale infantile, pieno di giardini e villaggi. Temi centrali sono la gioia, il comfort, la tenerezza, la sicurezza divina e dei genitori. La seconda parte, “Songs of Experience” ha per scenario un ambiente cupo, fatto di incubi, sprazzi di foreste scure e città d’ombra. Un senso di caduta, minaccia e crudeltà aleggia sulle poesie. Le idee centrali sono la gelosia, la rabbia, le gelosia, l’ingistizia e una costante protesta contro l’infelicità del mondo. Le due parti si controbilanciano si di un repertorio poetico di immagini bibliche e disegni per l’infanzia quali il Pastore, la Mamma, la Nurse, l’Agnello, l’Uccello, il Leone, la Tigre, la Mosca, temi che diventano personaggi e che Blake impiega con grande abilità poetica, in versi melodiosi ed incantati. Riecheggiano tradizionali ballate popolari, salmi religiosi, nenie, voci di strada. Diventano orecchiabili poesie, facili da memorizzare, scritti in una lingua che sembra provenire da una sorta di folklore popolare universale.
Blake lavorò alle poesie per oltre dieci anni, limando i suoi versi, dipingendo, incidendo, disegnando lettere per i versi, scene, ambienti e situazioni che diventano opere d’arte a sé. In effetti l’edizione dei “Songs” dalla quale la Folio Society pubblicò in facsimile la sua edizione, è la riproduzione in ottavo originale che la vostra Guida possiede. Un vero e proprio gioiello editoriale che la moglie di William vendette all’arcivescovo di Limerick nel 1830 per dieci ghinee, che finì poi nelle mani del romanziere americano E. M. Forster il quale la regalò al King’s College per il suo ottantesimo compleanno.
I “Canti dell’Innocenza e dell’Esperienza” stanno ad indicare le due contrapposte condizioni e stati d’animo dell’essere umano. In effetti descrivono lo stato d’animo interiore del poeta, la sua ricerca spirituale, e forse anche il suo matrimonio con Catherine. Segnalano anche il cambiamento di atteggiamento nei confronti della Rivoluzione Francese a causa degli eccessi di Robespierre con gli eventi del 1792 i quali avevano oscurato i principi dei diritti individuali e della libertà. Blake fa suo proprio il linguaggio infantile per comunicare agli adulti il ciclo della visione umana dell’esistenza basata sull’amore, la libertà, la giustizia, la crudeltà, la forza divina e creativa che possono trovarsi nell’universo. Viviamo, secondo questa visione, in un mondo che contiene sia l’Agnello che la Tigre. La semplicità dei versi e delle immagini rilancia una corrente continua di dubbi che provocano ironia e ambigui simbolismi. Nel corso degli ultimi anni ci sono state interpretazioni di vario genere sul significato delle poesie. Studiosi freudiani, marxisti, neoplatonici, buddisti, cristiani gnostici, junghiani hanno tentato di interpretare le poesie dai vari punti di vista. Tutte interpretazioni plausibili e possibili.
Qualcosa bisogna dire anche a proposito della tecnica adoperata da Blake nelle incisioni ed in particolare l’impiego che egli fa dell’acido su rame per ricavarne un’immagine specchio in qualche modo esemplificazione della sua arte. Una volta ebbe a dire che le sue incisioni erano “stampa col metodo infernale fatta a mezzo di corrosivi che nell’inferno sono salutari e medicinali in quanto sciolgono le superfici mettendo in luce l’infinito che vi era nascosto dietro”.
Per quanto poi riguarda il concetto dei due opposti stati dell’animo umano, queste opposizioni non sono opposti convenzionali ma qualcosa di dinamico e di mistico. Il concetto iniziale di un universo luminoso, spirituale e dinamico, Blake probabilmente lo ricavò da Swedenborg ed ha una lunga storia nascosta nel pensiero cristiano delle antinomie fatto proprio dal suo carattere ribelle. Le poesie, in effetti, sono quasi tutte costruite su modelli contrari: l’Agnello e la Tigre; il Bambino Perduto; Giovedì Santo; lo Spazzacamino; la Poesia della Nurse; Gioia Infantile e così via. Poesie che sviluppano le stesse immagini e spesso perfino le stesse parole, da una condizione di gioia e contentezza, ad una di dolore e protesta. Ma i contrari vanno anche più in profondità. Essi esistono all’interno delle stesse poesie ed emergono con sempre più forza man mano che il ciclo si sviluppa. Vere e proprie mbiguità impreviste o energie di contrastante significato .
“The Songs of Innocence and Experience” è un libro che a prima vista può sembrare eccentrico, infantile, con illustrazioni ingenue e primitive. In effetti ad una lettura approfondita il libro si rivela una delle più grandi opere poetiche di tutta la letteratura romantica inglese per la sua qualità di epica filosofica associabile a quella di poeti come Milton o Wordsworth. Non a caso tra i seguaci di Blake si annoverano Swinburne, Yeats e Allen Ginsburg. Le sue poesie ci fanno rileggere la fanciullezza e la nostra presunta maturità e ci avvertono della possibile presenza degli angeli e di tutto ciò che eventualmente essi tentano di dirci.
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La voce di Gulliver
Questa è una recensione di Gulliver in audiolibro. Ascoltare i classici in audiolibro fa bene. Ecco perchè:
"... ascoltare audiolibri fa bene agli automobilisti e ai camionisti, spesso penosamente in coda per ore nel traffico caotico italiano e per di più assediati, quando accendono l’autoradio, da musiche aggressive, banali e ripetitive, dai messaggi pubblicitari, dalle stupidaggini dei vari DJ... tutti stimoli uditivi ‘tossici’ che le radio commerciali propinano quotidianamente. Ad onor del vero si salvano molte trasmissioni radiofoniche della RAI come “Farhenheit”, “Ad alta voce” e diverse altre, ma il problema è sempre la sincronizzazione dei propri tempi con gli orari dei palinsesti. Inserire invece un audiolibro nel player dell’autoradio quando si desidera, significa entrare in contatto, forse per la prima volta, con la grande letteratura o la migliore saggistica, fonti sicure di piacere e di conoscenza. Se un automobilista, che passa, mettiamo, 10 o 20 ore in auto ogni settimana, utilizzasse questo tempo per ascoltare un intero audiolibro, alla fine dell’anno avrebbe imparato un sacco di cose e “letto” almeno una cinquantina di libri. Il che non è male per una popolazione che in media legge 1 o 2 libri all’anno.
E questo vale anche per chi fa lavori domestici o ripetitivi, per chi fa jogging, ginnastica, in palestra o altrove, per i pendolari che non hanno nemmeno lo spazio fisico per leggere un giornale, per chi va in aereo o per chi porta ogni giorno fuori il cane, per chi semplicemente fa spesso una passeggiata a piedi. Sarebbe bello pensare ad una popolazione non solo alfabetizzata ma anche con una cultura di un certo livello, conquistata facilmente solo utilizzando i tempi ”morti” della loro giornata.
Ascoltare audiolibri fa bene ai bambini piccoli e alle famiglie. Si sa come i bambini siano affamati di storie e spesso i genitori non sanno o non possono accontentarli, perché non sono abituati a leggere ad alta voce. Dovrebbero semplicemente imparare, e il modo più semplice e più divertente di farlo è di ascoltare insieme un audiolibro di fiabe, di racconti fantastici, di storie di vita, in casa, in auto o alla scuola materna! Con l’audiolibro i bambini fantasticano, imparano sempre nuove parole e nuove frasi, spesso si calmano se sono nervosi; poi… specie se ascoltano in cuffia, si addormentano, con grande sollievo dei genitori. Insomma l’esperienza di ascoltare audiolibri diventa un “affare di famiglia” che coinvolge tutti, rafforza i legami affettivi, i bambini fanno domande sulle storie che ascoltano e quindi la comunicazione con gli adulti diventa più ricca, meno banale e consuetudinaria. “Provare per credere”, diceva mio nonno che la sapeva lunga sul raccontare storie ai nipotini.
Ascoltare audiolibri fa bene ai bambini che vanno alle elementari perché, oltre che godere delle storie, acquisiscono inconsciamente una maggiore competenza linguistica che poi verrà automaticamente utilizzata per leggere e scrivere. Maestri e genitori saranno sorpresi di vedere i loro rapidi progressi scolastici dopo che hanno ascoltato alcuni audiolibri. Per anni i pedagogisti hanno insistito sull’importanza di leggere ad alta voce ai bambini come fattore cruciale per il loro apprendimento delle basi linguistiche. Sia leggere che ascoltare stimola lo sviluppo del cervello con enormi progressi nell’arte del pensare, dello scrivere, del parlare.
Ascoltare audiolibri fa bene agli studenti delle medie e delle superiori, non solo per le ragioni già dette per i bambini, ma anche perchè sono in grado di seguire con molta più attenzione, interesse ed accuratezza le lezioni di letteratura e di lingua italiana. E’ nella norma che uno studente ‘detesti’ i grandi capolavori della letteratura italiana, per esempio “I Promessi Sposi”, e ciò dipende anche da come vengono proposti dagli insegnanti. Se questi ultimi suggerissero agli studenti di ascoltarli in audiolibro, letti da attori professionisti, vale a dire consigliassero di utilizzare gli iPod o gli altri lettori mp3 non solo per ascoltare musica ma anche per prendere confidenza con i grandi scrittori e assaporare la bellezza dei testi che devono studiare, è sicuro che il disinteresse, l’apatia e la noia sparirebbero come per incanto. Non solo, ma l’opportunità di ascoltare la grande letteratura dà ai giovani la possibilità di perfezionare le loro domande esistenziali e di ottenerne alcune risposte; perché che cosa raccontano i grandi scrittori se non storie della vita umana viste da innumerevoli prospettive diverse? Da questo punto di vista l’iPod è un’invenzione geniale, un mezzo per trasferire informazioni importanti, per far conoscere meglio sentimenti ed emozioni, mattoni per la costruzione della stima in sé stessi. Il rinforzo a livello uditivo comporta poi sempre un miglioramento della memoria con i conseguenti progressi sul piano del successo scolastico.
Ho già detto che ascoltare audiolibri fa bene ai privi di vista, agli ipovedenti e a tutte le persone che hanno gravi problemi di motricità perchè altrimenti come farebbero ad aggiornarsi, a studiare, a godere della bella letteratura? L’allungamento della vita nella popolazione italiana è sicuramente un eccellente risultato dell’ultimo secolo, ma comporta anche nuovi problemi per gli anziani, soprattutto per coloro che hanno sempre amato leggere e che per un motivo o per un altro adesso fanno molta fatica a farlo. Ascoltare non è solo un surrogato del leggere un libro, contiene anche informazioni che catturano l’attenzione emotiva, impegnano il cervello in modi molteplici, incrementano la memoria. Tutti elementi che tendono a far restare attivi e sani gli anziani, che siano ipovedenti o no.
Ascoltare audiolibri fa bene ai bambini dislessici perchè sono molto aiutati nel loro sforzo di superare i problemi di lettura e scrittura. Si sa infatti che questi bambini, che, ahinoi, sono di più di quanto si temesse, hanno delle difficoltà di apprendimento proprio perchè per loro leggere è particolarmente difficile. Esperienze ormai consolidate in altri paesi dimostrano come rimpiazzando, anche solo temporaneamente, il testo scritto con la lettura ad alta voce e con audiolibri, migliori sensibilmente le loro prestazioni scolastiche e in generale il loro apprendimento.
Ascoltare audiolibri fa bene a chi soffre d’insonnia perchè una voce calda e amica può portare dolcemente attraverso una storia a conciliarsi con il sonno e magari a dormire e sognare tranquillamente. Se poi ci si risveglia in piena notte e non si riesce più ad addormentarsi, ecco che il rimettersi gli auricolari dell’ iPod e continuare l’ascolto interrotto ti calma ancora e ti predispone ad un sonno sicuro fino al mattino. Provare per credere! (sempre per citare il nonno).
Ascoltare audiolibri fa bene agli immigrati stranieri che brucerebbero le tappe nel loro percorso di apprendimento della lingua italiana e comprenderebbero molto più profondamente gli elementi fondamentali della cultura che li accoglie. Questo è valido soprattutto per i bambini stranieri sempre più numerosi nelle nostre scuole e che faticano nel loro apprendimento linguistico per mettersi alla pari coi loro compagni italiani. L’Italiano infatti non è la loro lingua madre ed è urgente per loro acquisire nel breve periodo una quantità di parole e di modi di dire che li mettano in grado di comunicare al meglio con la gente.
Ascoltare audiolibri fa bene ai degenti degli ospedali e a tutti gli ammalati costretti all’immobilità per periodi più o meno lunghi, specialmente bambini e anziani. Darebbe loro un grande sostegno morale, un aiuto psicologico a volte decisivo per non cadere nella depressione e nell’apatia. Essere accompagnati nella loro sofferenza dalle parole di un grande autore che può incoraggiare, divertire, spiegare, insegnare loro che il dolore e la noia sono presenti in tutti e che vanno affrontati con pazienza e saggezza è sicuramente un grande sollievo fisico e mentale.
Ascoltare audiolibri fa bene agli insegnanti, soprattutto di Italiano, perchè , se la lettura è di grande qualità professionale come quella fatta da attori o narratori preparati, li aiuta a ripassare le lezioni di storia della letteratura, di comprendere meglio i significati più profondi di un testo, o, più semplicemente, a ricordare con chiarezza l’argomento della lezione che stanno preparando. Ma forse anche li stimolano e li esercitano a leggere a loro volta ad alta voce in classe ai loro studenti con evidente soddisfazione di entrambi: per gli studenti perchè, affascinati dal racconto, non tirano più aereoplanini di carta verso la cattedra e per gli insegnanti perchè riescono per un po’ a conquistare la corale attenzione della classe con esiti benefici per il loro orgoglio professionale e umano messo a così dura prova ultimamente nelle scuole.
Ascoltare audiolibri fa bene agli stranieri che studiano la lingua italiana. E sono molti per la verità, sempre di più, in tutto il mondo. In USA l’Italiano, dopo Spagnolo e Francese, sembra essere la lingua seconda più studiata e questo è probabilmente vero anche in altre regioni del mondo, Europa compresa. Nell’apprendimento della lingua Inglese l’utilizzo di audiolibri, soprattutto di letteratura, è praticamente uno strumento indispensabile e quotidiano nelle scuole, nei colleges, nelle università, sia in Italia che all’estero. E questo perchè è ormai dimostrato senza ombra di dubbio che leggere un testo a stampa e contemporaneamente seguirlo attraverso l’ascolto in audiolibro aumenta di molto la ritenzione mnemonica del lessico, della grammatica e della sintassi della lingua e inoltre aggiunge una notevole quantità di informazioni sulla cultura, sulla storia e sul costume. Alcuni studi americani calcolano che l’incremento dell’apprendimento linguistico dovuto all’uso di questo metodo dell’ascolto-lettura sia anche del 30-50%.”
Lo dice il Presidente Maurizio Falghera della nuova Associazione Editori Audiolibri –
http://www.ilnarratore.com/index.php?tid=27
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Don Benedetto, "diavolo" e "bibliofilo"
Benedetto Croce: filosofia e bibliofilia
Il bibliopola napoletano Raimondo Di Maio, con bottega in Donnalbina a Napoli, il 28 maggio del 1989 festeggiò i primi 365 giorni del figlio Giancarlo, stampando un interessante, ed oggi introvabile, opuscolo-plaquette sulla bibliofilia di Benedetto Croce, scritto dalla sua fedele bibliotecaria Dora Marra. Una biblioteca costituita da oltre centomila volumi che è un vero e proprio monumento letterario oltre che umano e scientifico. I caratteri pratici ed etici del modo di essere bibliofilo ci interessano particolarmente in questo intervento che è centrato sull’amore per i libri e che, come si sa, Croce portò con sé per tutta la vita.
Benedetto Croce non fu un maniaco raccoglitore di libri, opuscoli e manoscritti, né solo un abile cercatore di edizioni rare, né tanto meno un frenetico collezionista di cimeli e trofei tipografici. Tutta la sua ricerca e il suo amore per i libri erano subordinati alla sistemazione dell’edificio filosofico e letterario dove egli costruiva e rifondava il suo sapere in maniera chiaramente concentrica e significativa. Eppure, “Don Benedetto” fu anche un amante del libro nella sua fisicità e perciò stesso disposto ad una relazione per niente esteriore e fittizia con le lusinghe e gli intrighi che caratterizzano la bibliofilia.
Dora Marra ricorda dei suoi anni vissuti accanto a lui il suo voler andare in giro per le botteghe piccole e grandi dei librai antiquari napoletani, e no solo a Napoli. Era solito soffermarsi ad ogni banco e dare uno sguardo rapido ai titoli, poi la mano si stendeva a prendere con decisione il testo o l’opuscolo per infilarlo nella tasca del cappotto riservandosi poi più tardi il gusto di studiarselo a fondo, Era come l’attesa di un evento che aveva nell’attesa, appunto, la sua parte migliore. Una volta a casa si apprestava a fare una scheda scritta, in una calligrafia minuta, su di un foglio o addirittura sul risvolto del libro, una nota descrittiva. Si stendeva, così facendo, la storia intima della sua bibliofilia strettamente legata alla sua formazione spirituale, alla sua visione del mondo, ed alla sua personalità di filosofo, letterato e storico.
Ogni volume, ogni opuscolo, ogni testo concorreva, e lo verifichiamo ancora oggi, a tessere il filo conduttore di una storia intima, un ricordo storico o letterario, uno spunto umano e sentimentale di un futuro lavoro, oppure un documento nuovo di un tema già svolto o da approfondire. Quelle note diventavano notizie bibliografiche che potevano essere sviluppate poi in articoli che concorrevano a tenere vivi i suoi interessi ea conservare la sua memoria.
Amatore di libri, dice Dora Marra, Benedetto Croce lo fu sin dalla nascita, se possibile. Nel suo libro “Contributo alla critica di me stesso” egli ricorda quando, accanto alla madre, donna dotata di fine gusto artistico, di appena sei-sette anni, coltivava l’affetto per i libri nella loro materialità, “l’odore della carta stampata gli dava una dolce voluttà”. Un piacere che con gli anni si andò intensificando, diventando erudizione. La sua grande biblioteca venne formandosi spontaneamente, senza alcuna programmazione o intento, in una crescita costante ed inarrestabile, come un fiume che alimentava la sua conoscenza e che si concretizzava in una profonda cultura che spaziava da un ramo all’altro della conoscenza. Nel periodo in cui fu ministro della P. I. i suoi interessi si rivolsero alla rivoluzione napoletana del 1799. La storia e la politica si intrecciano e si intersecano nella importantissima collezione degli scrittori del seicento, ricca di edizioni rare ed esemplari classici dedicati, per esempio, ai poeti minori del quattro e cinquecento dell’Italia meridionale.
Accanto ai libri, alla documentazione a schede ed agli articoli, va messa la collezione di importanti manoscritti come ad esempio la “collectio viciana”, vale a dire la più completa raccolta di esemplari delle opere di Gianbattista Vico molto rare, e a volte unici, con correzioni autografe. Tutto amorosamente custodito, collezionato e studiato come si può leggere dalla introduzione al suo saggio sull’Estetica del Baumgarten, nella quale scrive:
“Da più decenni cercavo, invano, in cataloghi e presso librai antiquari, una copia della rarissima “Aestetica” del Baumgarten, da me letta e studiata a suo tempo per prestito ottenutone da una biblioteca tedesca, ma che avevo vaghezza di possedere come primo libro recante il titolo di una scienza alla quale molta parte della mia vita intellettuale è legata. E, quando non ci pensavo più, o quando meno ci pensavo, or’è qualche settimana, uno dei librai, che tenevano in nota la mia richiesta, mi annunciò di mettere a mia disposizione, per tanti e tanti franchi svizzeri, un bell’esemplare delle due parti, che difficilmente si trovano insieme, di quell’opera. Mi affrettai a scrivere che accettavo l’offerta; e per alcuni giorni stetti come chi “teme di qualche impedimento spesso, che tra il frutto e la man non gli sia messo”. Ma il libro giunse, l’esemplare era veramente bello, freschissimo, due volumetti in dodicesimo con graziosa legatura settecentesca di tutta pergamena bianca dai tasselli di pallido rosa ed impressi caratteri d’oro; e io li voltai tra le mani e li contemplai con gioiosa soddisfazione”.
Una lettura attenta del testo ci porta facilmente a scoprire quanto grande fosse da parte di Croce la passione, l’amore, si direbbe , il rispetto e la reverenza, per i libri, il libro in quanto tale. Sentimenti coi quali si manifestava anche l’ordine che regnava nella sua biblioteca, la cura con la quale preparava le note e le indicazioni sui libri che dovevano essere rilegati, per le incisioni, i vari allestimenti, per la conservazione e la classificazione. Il suo amore per i libri era un vigile amore per tutte le cose del passato che si estendeva dai libri ai quadri, alle stampe, agli oggetti curiosi, insomma a tutto ciò che dà forma ai ricordi che ruotano intorno ai libri, il mondo al quale i libri si sono rivolti, chi li ha scritti, in una sorta di serie infinita in forma di anelli che formano la personalità dello scrittore, che viene così alla luce nella sua vera identità di scrittore, politico, filosofo, letterato, pensatore. Il vero Bibliofilo, insomma.
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Il mondo in breve
Il sogno di ogni bibliomane è quello di abbracciare, o meglio, percorrere leggendo, la storia del mondo attraverso la lettura di tutti i libri. Un sogno irrealizzabile perché, anche se fosse possibile possedere e leggere tutti i libri del mondo, sarebbe del tutto incredibile impossessarsi della storia di tutti gli uomini, specialmente la storia dei vecchi. Un vecchio è, infatti, un testamento vivente, il depositario dell’epoca da lui vissuta, soffrendo e gioendo il suo tempo, la quale, a sua volta, fa parte del tempo universale, il tempo di tutti. Quando l’autore di questo libro, E. H. Gombrich, morì nel 2001, aveva 92 anni. Dopo d’essere scappato a Londra dalla Vienna occupata da Hitler, portò con sé il bagaglio culturale di un’intera civiltà, incapsulato in un altro libro di grande valore: “La Storia dell’Arte”.
“Una Breve Storia del Mondo” è un libro solo in apparenza per bambini. In effetti è un microcosmo mentale, come quella sulla Storia dell’Arte, con la sintesi del progresso e del regresso umano dall’uomo di Neanderthal alla bomba atomica. E’ difficile non pensare a questo libro come l’analisi retrospettiva di un vecchio che aveva tentato di comprimere i quarantamila volumi della sua biblioteca che ancora riempiono la sua casa di Hampstead in Inghilterra. Egli lo scrisse nel lontano 1935 ed era solito leggerne le scorrevoli pagine alla futura moglie durante i fine settimana, passeggiando per i giardini di Vienna, prima che arrivasse il Tedesco Hitler.
Sebbene il libro avesse un successo immediato, i Nazisti subito lo misero al bando per il suo deciso pacifismo. Vennero fatte diverse traduzioni, come quella in Turchia, ma Gombrich esitò molto prima di fare un’edizione in Inghilterra, sua patria di adozione. Egli pensava che gli Inglesi, isolani e introversi, non sarebbero stati molto interessati alla storia del mondo, mondo al quale essi pensavano di non appartenere. Sua nipote Leonie, sua erede letteraria, espresse questa opinione in diverse occasioni.
Gombrich comincia il suo libro affermando che la “Storia” è “storia” prima di diventare tale, vale a dire la trasmissione dell’esperienza da generazione a generazione. Ecco perché, egli dichiara, è importante chiedere ai vecchi di raccontare ciò che ricordano. Il processo è simile a quello di bruciare un pezzo di carta e gettarlo in un pozzo buio senza fondo. La fiamma illumina il passato man mano che scende.
“La Breve Storia del Mondo” non è un libro “leggero”, anzi spesso è triste, anche se l’autore opportunamente attenua e diluisce i marosi della scrittura dei fatti narrati per non ferire troppo i suoi giovani lettori. Egli protesta sulle guerre di religione di cui parla e afferma di averne scritto il meno possibile. Verso la fine si scusa perfino di non avere neppure nominato Adolf Hitler.
Gombrich in diverse occasioni si sforza, attraverso l’ironia, di dare qualche giudizio personale sui fatti che narra, come quando, parlando di Pietro il Grande, dice che “non era affatto un uomo piacevole”, oppure che Marx aveva “la pensava in maniera diversa”. Egli non fa altro che cercare di addolcire l’amara considerazione che egli aveva sugli uomini, esseri appartenenti ad una specie crudele i quali, in nome della fede, hanno commesso ripetutamente delitti su delitti.
Nonostante il suo sostanziale pessimismo, Gombrich fece di tutto per addolcire la Storia che raccontava con nonchalance tutta Viennese. Era critico ma non troppo. Spesso malinconico ma pur sempre convinto dei lati positivi che la stessa Storia presentava agli uomini. E per questa ragione amava rifugiarsi nella musica e nell’arte. Sua nipote Leonie ha detto che, ogni qualvolta i nonni ascoltavano un disco, tutta la casa doveva essere silenziosa, come se si fosse ad un concerto. Non si poteva nemmeno tossire, se non tra un movimento e l’altro.
Durante la Guerra i Gombrich si trasferirono da una parte all’altra dell’Inghilterra. Andarono anche in America portandosi appresso sempre il loro pianoforte Steinway. Questo strumento fu quell’importante simbolo di immagini e idee che tutti i profughi che scappavano da Hitler si portavano appresso in esilio. Come un altro simbolo importante fu la biblioteca dei libri d’arte all’Istituto Warburg del quale Gombrich fu Direttore.
Quando scoppiò la Guerra, Gombrich e sua moglie istintivamente lasciarono Londra insieme al figlio. Fu allora che egli si rese conto di quanto fosse importante l’idea dell’insularità che gli Inglesi avevano di se stessi e quindi della loro imbattibilità difensiva che risaliva al 1066. Egli fu sempre riconoscente agli Inglesi per averlo ospitato, ma si sentì comunque uno straniero e per questa ragione pensò che il suo libro non poteva essere apprezzato e capito dagli Inglesi.
Quando nel 1945, alla radio, durante il suo turno di monitoraggio delle trasmissioni in lingua tedesca presso la BBC, egli sentì suonare la marcia funebre di Bruckner, capì che Hitler era morto. In un’intervista in occasione dei suoi 90 anni, quando gli fu chiesto se avesse gioito a quella notizia, egli disse di no, e lo disse col suo solito tono solenne. Secondo lui era la caduta di un grande popolo e di una grande civiltà. Ora i “banditi” erano arrivati anche a Londra, l’Inghilterra al tempo dell’intervista, il tempo della Thatcher.
Non poteva fare a meno di condannare i tagli e gli attacchi alla cultura che il governo inglese del tempo stava, secondo lui, perpetrando. Egli considerava la “Lady di Ferro” una ignorante, una che andava messa tra i “cattivi” della sua “Breve Storia del Mondo”, cattivi e vandali come quelli che incendiarono la biblioteca di Alessandria, o come quell’Imperatore cinese che distrusse gli scritti di Confucio col fuoco, insomma i nemici della storia. Il suo messaggio era semplice: se non sappiamo nulla della Storia, saremo costretti a ripetere gli stessi errori. Gombrich fu un uomo di grande cultura, con una grande visione. Egli amava la bellezza del cervello umano. Il suo libro mette in luce la maturità della sua cultura, oltre che il suo sterminato sapere.
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Il posto dove si cura l'anima
Il posto dove si cura l’anima. Ecco il luogo in cui le dimensioni dello spirito umano trovano la loro giusta collocazione: è la Biblioteca come Mito, Ordine, Spazio, Potere, Ombra, Forma, Caso, Officina, Mente, Isola, Sopravvivenza, Immaginazione, Identità, Casa e Ricordo. Non sono solo delle semplici e pretestuose classificazioni quelle che Alberto Manguel impiega in questo libro che si presta poco ad una tradizionale recensione.
Più che un libro potremmo dire che è una celebrazione della lettura e della persistenza della parola scritta nel tempo. Ha il fascino di una enciclopedia nel senso che lo si può leggere dall’inizio alla fine, com’è tradizione di tutti i libri, ma lo si può anche leggere qua e là, senza un preciso ordine, per scoprire cose note e sconosciute, familiari e dimenticate.
Alberto Manguel è scrittore, saggista, traduttore e curatore di fama internazionale, autore di molti libri vincitori di premi, tra cui il famoso “Manuale dei luoghi fantastici” e “Una storia della lettura”.
Nato a Buenos Aires, si è trasferito in Canada nel 1982, e ora vive in un piccolo villaggio della Francia, dove è stato nominato Ufficiale dell’Ordine delle Arti e delle Lettere. Uno che di libri se ne intende, con un respiro internazionale.
Il libro comincia con il ricordo della sua biblioteca personale costruita nella Valle della Loira, una stanza idillica in cui la conoscenza e la memoria sono profondamente legate. Il suo tempo favorito da trascorrere tra quelle mura è quello della notte quando “il mondo può essere re-immaginato in tutta tranquillità” anche se egli è pronto ad ammettere che Montaigne rifiutava di stare nella sua biblioteca di notte.
Ho detto che Manguel affronta lo studio delle biblioteche da quindici punti di vista diversi, e se ci pensate bene, sono le tipiche prospettive da cui il bibliofilo/bibliomane osserva il mondo, che è allo stesso tempo il suo e quello degli altri, visto attraverso la lente dei suoi libri. Cambiano, allora, di volta in volta, nel tempo e nello spazio, i suoi pensieri, le idee, opinioni, interessi, obiettivi. Una lente visiva succede all’altra, le visioni si accavallano, si sommano, fino a deformarsi, perchè è la realtà stessa che è deforme. Un libro da leggere e rileggere, conservare e consigliare. Per il perfetto bibliofilo.
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Il commercio delle idee
“Il commercio delle idee: del libro e della libreria”
Liber: pellicola situata tra la corteccia e il legno, tra il cortex e il lignum, tra il pensiero esposto e l’intimità nodosa, interfaccia del fuori e del dentro, essa stessa né fuori né dentro, volta verso l’uno come verso l’altro, mentre volge l’uno verso l’altro, rivolta l’uno nell’altro. Qualunque cosa il libro possa diventare – digitalizzato, smaterializzato e virtualizzato così come rilegato in cuoio e foglie d’oro – non è possibile che non rimanga, per quanto sottile possa diventare, “per il lettore blocco puro – trasparente” attraverso il quale non accediamo ad altro che a noi stessi, gli uni agli altri ma in ciascuno come in geroglifico.
La vera proprietà del libro, la sua “virtus operativa” o la sua “vis magica”, ciò che si potrebbe chiamare la sua “librarietà”, si trova solamente nel rapporto che esso stabilisce e mantiene tra la sua apertura e la sua chiusura. A differenza della porta del proverbio, non è necessario che un libro sia aperto o chiuso: è sempre tra i due stati, passa sempre da uno all’altro.
Questo passaggio continuo e incessantemente reversibile – il libro aperto infatti si richiude proprio mentre il libro chiuso si apre – dipende dal fatto che il libro non può essere considerato né semplicemente come un “contenente” né propriamente come un “contenuto”. Il libro non è l’oggetto che è possibile riporre su uno scaffale o posare su un tavolo, e non è nemmeno il testo che risulta stampato sulle sue pagine. Ma va piuttosto dall’uno all’altro, o meglio si mantiene nella tensione tra i due: apre questa tensione, la suscita e non smette di alimentarla con il susseguirsi delle sue pagine, affidandola al suo volume come ad una sorta di repositorio…
Un omaggio al libro, a questo strano oggetto, o merce, a al luogo in cui esso viene messo in vendita, la libreria, affidato alle cure di quel singolare commerciante che è il libraio, a cui spetta non solo vendere, ma innanzitutto scegliere, esporre, offrire il libro alla curiosità del lettore. Una curiosità che si rivolge in prima battuta alla “materia” del libro, che si manifesta nel contatto sensibile con le sue pagine, la sua copertina, il suo formato. Solo qui si espone l’Idea del libro: un’idea o un “senso”, inseparabili dalla materialità. Il libro è per Jean-Luc Nancy l’elemento distintivo della nostra cultura, in quanto privo di un senso giò dato, di una verità assoluta e unitaria, che precede la sua esposizione, sempre particolare e finita e quindi sempre plurale.
Parlando del libro, Nancy riprende così i temi fondamentali del suo pensiero: la materialità o la corporeità del “senso”, il suo darsi sempre in una superficie, nelle pieghe e nelle aperture che la attraversano, nella sua costitutiva impurità. E lo fa con una scrittura singolare che nella sua straordinaria densità, contamina linguaggio filosofico e poetico, termini tecnici e gergali.
L’autore del libro Jean-Luc Nancy è uno dei filosofi contemporanei più originali ed innovativi. Insegna all’università di Strasburgo.
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La scrittura elettronica
Un altro pezzo di fantascienza si è avverato. Sono arrivati gli ‘alieni’! L’invasione dei libri elettronici. Gli “E-Books” sono tra noi. Sono libri le cui dimensioni e il cui peso corrispondono a quelle di un normale volume, ma con caratteristiche e vantaggi impossibili per la carta stampata. La pagina è uno schermo a cristalli liquidi la cui luminosità è regolabile secondo le esigenze. Si consente così la lettura anche in ambienti completamente al buio. Non c’è bisogno della luce. Per voltare pagina, in avanti o indietro, oppure per sottolineare una frase che si vuole ricordare, basta premere degli appositi pulsanti. Quando il lettore è arrivato all’ultima pagina e decide di smettere di leggere, non ha che da archiviare il volume e passare ad altro. Tutto ciò può avvenire via computer, su di un dischetto, su una penna ottica, su un palmare oppure direttamente su Internet. In altri termini, il libro elettronico non offre solo la possibilità di leggere un volume con la massima comodità, ma anche un’intera biblioteca. L’acquisizione di una nuova opera è semplice. Basta collegarsi alla rete. Si compone un numero apposito e l’opera richiesta entra nel libro elettronico. Lo puoi leggere al computer o sul tuo palmare, ovunque con o senza fili. Se ti scoccia leggere puoi scegliere l’opzione di lettura. Qualcuno lo leggerà per te.
Un percorso fatto di millenni. Straordinario il cammino percorso dal libro. Una storia affascinante che si affianca alla storia dell’uomo nella notte dei tempi. In essa si racchiudono altre storie che si intersecano, si intrecciano, si incrociano, si integrano. Storie che in un discorso sulla comunicazione creativa, dentro o fuori di un blog, non si possono ignorare, e che riguardano alcune delle attività più nobili dell’uomo: il pensiero, le idee, la fantasia, la scrittura, la lettura, le immagini, la memoria, il disegno, la pittura, la tipografia, la carta, passando per Gutenberg ed il suo torchio, fino ad arrivare alla linotype, al telefono, alla televisione, al computer. Sono tutte componenti di un unico discorso che corre verso la comunicazione tra gli uomini.
Nel XIV secolo a.C., in una località della Siria chiamata, guarda caso, Biblos, esisteva una scrittura cuneiforme che utilizzava solo ventidue segni, tutte consonanti. Le vocali non trascritte, vennero ristabilite successivamente in base alla fisionomia delle parole. Tutto lascia supporre che questa sia stata la prima scrittura alfabetica. Mille anni più tardi, verso il quinto secolo a.C., l’alfabeto greco comparve sulla scena e comprendeva 24 lettere. Con i Greci, la scrittura raggiunse il massimo della sua fioritura, segno che l’uomo, attraverso l’alfabeto, aveva trovato il sistema migliore per convogliare i suoi pensieri: dalla storia alla filosofia, dal teatro alla narrativa, dalla poesia alla scienza, la scrittura veniva ad occupare così il centro della comunicazione umana. La sua ‘forma’ si afferma per millenni in maniera materiale, concreta: sull’argilla, sulla roccia, sul marmo, sul legno, sui papiri, fino ad arrivare alla carta. Si realizza in forma artistica, personale, ornamentale, fantastica ma sempre in modo artigianale, soggettiva.
La scrittura immateriale. Oggi, con l’avvento del computer, la scrittura diventa immateriale, si affida, cioè, all’onda invisibile degli impulsi elettrici. Nasce la scrittura elettronica che sconvolge abitudini secolari, presenta vantaggi imprevedibili di cui non se ne più fare a meno ma costringe il pensiero umano ad organizzarsi in maniera diversa. E siamo arrivati alla domanda cruciale alla quale interessa trovare una risposta adeguata: qual è la differenza tra la parola stampata e la parola elettronica, cioè quella che appare sullo schermo? Si tratta di un semplice cambiamento di forma o di genere? E’ possibile che man mano che la comunicazione elettronica si sostituisce a quella meccanica, la scrittura, e quindi il pensiero, diventi qualcosa di diverso da quello che sia l’una (la scrittura) che l’altro (il pensiero) sono stati per millenni? Se pensiamo alle definizioni che si danno degli ‘ipertesti’ è lecito chiedersi se le innumerevoli mutazioni tecnologiche in atto debbano essere viste come delle semplici risposte a bisogni e desideri collettivi, oppure come sviluppi logici nell’inesorabile evoluzione tecnologica.
Gli ‘ipertesti’ rappresentano, forse, l’inconscio bisogno dell’uomo di liberarsi dalla prigione di una tradizione che vede la comunicazione come ingabbiata nella linearità, nella univocità, nell’individualità stilistica, oppure essi sono un prodotto secondario, uno sfogo passeggero, un effimero contemporaneo? Possono essere la prima ondata di un mutamento epocale che sommergerà poi tutto sul suo cammino? Se l’ “ipertesto” è davvero un bisogno sentito, il riflesso di una volontà di uscire da parte di chi scrive da un lungo isolamento, per definire i termini del processo della comunicazione, allora tutto ciò potrà voler significare un’epica battaglia che trasformerà non solo il modo di leggere, di scrivere e di pubblicare, ma anche di pensare e, quindi di essere.
La parola è una ‘manifestazione’. La parola stampata sulla pagina è una ‘cosa’. La configurazione di impulsi sullo schermo è una ‘manifestazione’, una entità indeterminata, sia in particella che in onda, un arrivo ectoplastico (periferico, ai margini) ed una partenza. La parola stampata occupa una posizione nello spazio, sulla pagina, in un libro. E’ là, ed è rintracciabile. La parola sullo schermo, una volta materializzata, digitalizzata e salvata in memoria, non si può dire che esiste come prima. Ha un potenziale, ma non ha un ‘luogo’. Qualcuno potrà obiettare che il ‘bit’, (l’unità minima di informazione), esiste e può essere tirato fuori in ogni momento. La sua dislocazione, comunque, non è reperibile se non in situazioni assistite. La parola stampata è fuori, visibile; l’altra è dentro, invisibile. L’una è una “cosa”, l’altra, “l’idea di una cosa”.
La parola sulla pagina partecipa della materia. Quella elettronica, messa in memoria, invisibile, sembra avere cambiato direzione espressiva, come se fosse ritornata nel pensiero. La sua entità si è come dissolta in un potenziale neurale. La forma di una parola, nel suo aspetto fisico, è solo il suo vestito. La sua forza, la pulsazione del suo significato, resta la stessa, sia se essa è incisa nel marmo, nella sabbia, nel papiro, stampata sulla pagina o lampeggiante sullo schermo.
Ma è davvero così? La parola può esistere fuori della percezione e traduzione del suo lettore? Se non può, allora è chiaro che non possiamo ignorare il modo con il quale essa viene tramessa. La parola scolpita nella pietra porta con sé il peso implicito della intenzione di chi l’ha scolpita. E’ decifrata nel senso perché è indistruttibile. Ha peso, grandezza, vive nel tempo. La stessa parola, sullo schermo, non ha peso nella sua presentazione. Il segno è lo stesso, ma non è identico.
Le parole stampate, anche se provengono dalla forza di un’altra mente lontana, sono isolate e raccolte tra le pagine. Quelle sullo schermo sembrano arrivare da una specie di collettivo che si trova altrove, qualcosa di più profondo e più dentro, oltre la soggettività dello scrittore. Le parole scaturiscono come da un vuoto che è più profondo della stessa lingua. Questo vuoto, non chi scrive quelle parole, reclama la sua origine. La pagina è piatta, opaca.
Lo schermo ha una profondità indeterminata, la parola galleggia sulla superficie come una foglia sul fiume. Da punto di vista fenomenologico, la parola è meno assoluta. La foglia sul fiume non è la foglia colta o tenuta in mano. Le parole che appaiono e scompaiono sullo schermo sembrano essere più degli elementi costitutivi di un processo al quale sono sottoposti i fluidi. Non si tratta di qualcosa migliore o peggiore, ma di qualcosa di “diverso”.La metamorfosi della parola stampata alla parola elettronica indica il passaggio-spartiacqua che si ebbe quando si passò dalla cultura orale a quella scritta. Anche Socrate avvertì i pericoli che si presentavano in questo passaggio. Venivano cambiate le regole del gioco intellettuale. Il testo scritto poteva essere trasmesso, studiato, annotato e commentato. La conoscenza poteva diventare stabile. Il passaggio dalla scrittura alla stampa, e la successiva alfabetizzazione, rese possibile l’illuminismo. Sono oggi i computer, la vera apoteosi della razionalità, a destabilizzare l’autorità della parola stampata e a farci ritornare in qualche modo al processo di orientamento che caratterizzò le culture orali.
La parola sullo schermo è un processo in quanto genera una modifica nel rapporto tra lo scrittore e la lingua. La funzione della stampa è, invece, quella di immobilizzare e conservare la lingua. Fare un segno sulla pagina significa fare un gesto verso la permanenza della stessa nel tempo. Significa fare una scelta tra innumerevoli possibilità espressive.
Lo scrittore, una volta, durante il suo lavoro di preparazione di un prodotto che poteva essere cambiato, composto e, in maniera più o meno decisiva, inciso sulla carta, lottava continuamente con questa caratteristica primaria che aveva il mezzo. Se egli scriveva con la matita o con la penna, doveva cancellare gli errori. Se batteva a macchina, doveva o ribattere o usare qualche strumento per cancellare. Il percorso tra l’impulso e la scrittura era reso più ostico dal fatto che gli errori costringevano a fare dei passi indietro e a fare un ulteriore lavoro. Lo scrittore tendeva a correggere aiutandosi con l’orecchio prima di passare a correggere il testo scritto.
Questo costante senso di consapevolezza della fissità e indelebilità della parola stampata non fa parte più della fatica di chi scrive. Vale a dire l’elaborazione della scrittura elettronica non la richiede più. Le parole ora arrivano sullo schermo in maniera provvisoria. Possono essere, infatti, trasferite ad un semplice tocco di un tasto, oppure cancellate. E quando sono cancellate è come se non fossero state mai scritte, non fossero mai esistite. Non v’è il riscontro dell’errore fatto. La necessità di spingere in avanti la lingua è cambiata. Laddove le limitazioni del mezzo un tempo incoraggiavano una resistenza pratica al rigetto dell’espressione sbagliata, quella responsabilità è ora passata allo scrittore.
Le parole non sono le stesse. Al lettore, comunque, interessa poco se una pagina è stata scritta sullo schermo, a mano o stampata. Non ne avvertirà la differenza. Le parole sono le stesse. La differenza la fa per lo scrittore nell’atto dello scrivere. Molti scrittori che sono passati alla parola elettronica affermano che il mezzo li libera, li disinibisce. Il fatto che possono muovere, spostare, sostituire, trasportare, recuperare intere frasi, paragrafi e sezioni da un posto all’altro, li mette in condizione di collocare il proprio lavoro, o meglio il processo del lavoro di scrittura, in un ambito spaziale allargato. Questo sembrerebbe essere un vantaggio. Ma, come sempre, la realtà ha due facce. A rimetterci sarebbe lo stile, la qualità della scrittura. La consapevolezza di poter afferrare il tutto della scrittura, attraverso il mezzo a disposizione, farebbe perdere allo scrittore la cura del particolare, del dettaglio, dello stile.
La scrittura al computer favorisce il processo della scrittura nel suo insieme. Lo scrittore si sente più libero di poter muovere frasi, periodi e paragrafi, ma perde il suo riferimento fisso. Tende cioè ad essere possibilista, sa che la sua scrittura può essere variata. Lavora al suo testo considerandolo una “versione” provvisoria che può essere modificata in qualsiasi momento. La tirannica aspirazione flaubertiana alla ‘parola giusta’ tende a scomparire e l’autore non è più il creatore sovrano del testo.
Se la sua scrittura è ‘una versione’, e se il ‘prodotto’ della scrittura tende a diventare un composto di più ‘forme’ e ‘versioni’ da cui l’ipertesto è costituito, allora vorrà dire che l’idea della scrittura individuale sta per tramontare. Allorquando si passò dalla comunicazione orale a quella scritta si costituì l’idea storica della paternità della scrittura. Con la scrittura elettronica è possibile che lo scrittore spostandosi dal prodotto al processo, e con la riduzione del rigore stilistico, tende a offrire un esempio di espressione piuttosto che una realizzazione artistica oggettiva.
Appunto, un testo di scrittura che è una versione provvisoria, modificabile, transitoria. Un ritorno all’orientamento orale della comunicazione, prima che si arrivasse alla parola stampata. L’elaboratore elettronico, intervenendo sulla scrittura per mezzo dell’ipertesto, determina il processo di scrittura operando sul testo in maniera decisiva, come mai nessuno ha potuto intervenire. Il testo sullo schermo non diventa mai “forma” legata, unita, tenuta insieme, catturata e fermata nel tempo. Il testo sullo schermo scorre, scompare e ricompare, si seziona e si scompone, per poi ricomporsi ritornando dal nulla in cui era apparentemente ‘scomparso’. Le parole non si fissano sulla pagina opaca ma navigano nell’iperspazio quasi-dimensionale. Esse possono essere non solo mosse ed alterate, ma ognuna di esse può costituire, almeno in teoria, l’inizio di un altro nuovo percorso narrativo ed espositivo all’interno di un percorso a sua volta già cominiciato.
Lo stesso testo può essere programmato per occasionare partenze ed uscite collaterali, oppure incorporare elementi visivi o documenti aggiuntivi. Il lettore può interagire, può modellare il testo a suo piacimento, interrompendo la narrazione, organizzando le righe in maniera diversa, creando ‘finestre’ alla quali attingere informazioni e descrizioni a piacimento.
Un’esperienza collettiva. Questo tipo di utilizzazione può essere non solo individuale ma collettiva, interattiva e collaborativa. Questa fluidità del mezzo elettronico, che mette a disposizione scelte ed opportunità nuove, determinerà sicuramente nuovi modi di lettura e di scrittura. E’ ancora prematuro poterli definire con chiarezza. Chi lavora coi giovani, nella scuola e fuori, può gia testimoniare di nuovi modi di ‘leggere’ la realtà, spesso legati direttamente a nuovi modi di organizzare il pensiero. E’ bene non assumere atteggiamenti di sufficienza intellettuale o di scetticismo critico nei confronti di quanto sto cercando di dire, anche in maniera provocatoria, in questa sede. Desidero soltanto far riflettere specialmente chi si accinge ad usare i momenti della lettura e della scrittura non solo come mezzi di esplorazione del mondo della comunicazione ma addirittura come strumenti educativi.
Se un rischio scaturisce da questa sorta di ‘mondo nuovo’ è quello che riguarda la gestione delle informazioni, la ‘navigazione’ e le sue procedure. Come potremo muoverci in questo spazio elettronico infinito senza perderci? La strutturazione di questo spazio può essere restrittivo e può confondere tanto da assorbire il narratore e stancare il lettore. C’è inoltre il problema della selezione e della scelta dei materiali. Con un testo così instabile come quello che viene fuori dallo spazio elettronico, nel quale gli autori-lettori possono facilmente introdursi, come si può evitare tutto quanto è superfluo e triviale una volta che si è catturati in questa sorta di labirinto? Come si farà a proteggere valori letterari come la coerenza, l’unità, l’integrità, la voce e la visione di un testo?
La “forma” dovrà essere ridefinita. Il ‘testo’ ha perduto la sua tradizionale certezza. Come si potrà valutare, giudicare, analizzare un’opera che non potrà mai essere letta allo stesso modo due volte? E’ la sfida che abbiamo di fronte. Una sfida alla nostra identità di uomini che hanno nella parola la loro libertà.
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Lettera a Dio
La lettura di questo bel libro mi ha ispirato questa lettera che ho inviato al destinatario in "bits & bytes". Aspetto un risposta.
Gentile Signore,
non so se leggerà questa mia lettera. Immagino che ogni giorno sarà sommerso di messaggi, di lettere, in forma di post, recensioni, commenti, implorazioni, blog, tutti scritti a penna, a macchina, in sms, email, video e quant’altro. Sarà certamente inondato da questa corrente comunicativa ininterrotta di gente che chiede, questua, propone, attacca, richiama, rimprovera, lamenta, ricorda …
Non so davvero come Lei possa fare a gestire tutto questo bla bla. Non credo, perciò, che questo ennesimo post, su questo posto virtuale sconosciuto, di un sito per le recensioni di libri, in un piccolo paese di nome Italia, in un posto chiamato Europa, su uno dei milioni e milioni dei pianeti da cui è formato l’universo, potrà mai cadere sotto i suoi occhi.
La mia illusione sarà tanto illusoria quanto la possibilità che una cosa del genere possa avvenire. Eppure, ci provo, perchè provare è l’essenza del vivere. Provare a dire ciò che si pensa a chi non si conosce.
Mi dica una cosa, una sola cosa: perchè Lei aveva bisogno di creare l’Uomo? Per amore? per rabbia? per invidia? per sfida? per compagnia?… Si rende conto di avere creato un gran casino colorato e babelico? A che serve tutto ciò?
Qualcuno dice che tutto deve restare un Mistero. Mistero della Fede. Lei però così non è leale, perchè prima mi crea piccolo e inferiore, poi mi abbandona, poi mi minaccia del peggio, poi mi fa sperare, poi mi tormenta, poi … non intendo dire altro. Lo so che non mi risponderà, non potrà farlo, non lo vorrà fare. Ed io continuerò a sentirmi fregato. Comunque sia, il mio pensiero gliel’ho detto. Ne faccia ciò che crede.
Un saluto in ... Fede
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Il web che vogliamo: "Free as freedom"
"Codice libero",un libro che va letto tutto intero e che potete farlo qui online gratuitamente. Un libro che è tutto un inno alla libertà della lettura e della scrittura, alla possibilità di connettersi alle vie del mondo, accedendo così a quella infinita conoscenza che è la storia dell'umanità, per poi controllare il sapere del mondo nelle sue variegate differenze e diversità. Mai l'uomo nella sua storia ha avuto questa possibilità, quella di effettivamente connettersi con gli altri, accedere ai saperi della sua storia e prenderne il controllo.
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Perchè non bisogna leggere la letteratura
Questo post è l'introduzione alla recensione di un libro che pubblico integralmente in quanto la sua lettura mi ha spinto ad acquistare il libro, a condividerne il giudizio di fondo e darmi la possibilità di aggiungere qualche mia modesta considerazione da bibliomane che, come gli affezionati cinque (!?) lettori di questa guida sanno, risulta essere la somma di queste entità: lettore+scrittore+bibliofilo=bibliomane. Questo libro è il classico perfetto esempio del male che può fare la letteratura ad un povero cristo che nasce lettore, cerca di diventare scrittore, una volta deluso del tentativo, diventa bibliofilo e si illude di sopravvivere collezionando maniacalmente tutti i libri che egli pensa gli possano dare una cultura. Salvo poi scoprire, a seguito delle tante sbandate prese durante la lettura, che la bibliomania è un pianeta senza vie di uscita che porta inevitabilmente alla follia della quale non se ne può fare a meno ...
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"Che razza di libro è mai questo che ho appena finito di leggere? Il mal di Montano, autore Enrique Vila-Matas dimostra che la letteratura è veramente uno strano fenomeno, se non un fenomeno complesso. È infatti qualcosa che si può leggere con trasporto, curiosità, partecipazione, divertimento, profitto e passione anche se non si riesce a capire precisamente di che si tratta. Villa-Matas del resto è uno specialista dell’ambiguità.
Il suo linguaggio inventa sotto i nostri occhi, tra verità e bugie, la propria credibile realtà. È una finzione che suona vera, una serie di paradossi del tutto plausibili, la farneticazione di un virtuoso attore in scena che ci parla nel modo più convincente di cose che non avevamo il coraggio di dire. Si tratta di un finto romanzo in forma di diario. O forse di un diario vero che a forza di prodursi cercando la propria forma si mette a inventare se stesso diventando narrazione di idee. Le idee si mescolano al racconto di eventi per lo più inventati, ma forse non del tutto.
Essendo un libro sulla letteratura, o meglio il diario di uno scrittore che parla in prima persona dicendo di essere malato di letteratura, potrebbe essere anche letto come critica letteraria travestita da romanzo. E in effetti nella prima delle cinque parti (la cui ampiezza è decrescente) l’autore dice di essere un critico letterario il cui il figlio, di nome Montano, dopo aver pubblicato un romanzo sugli scrittori che rinunciano a scrivere, è rimasto “intrappolato nelle maglie della sua stessa finzione e, malgrado la sua compulsiva propensione alla scrittura, finì per essere uno scrittore totalmente bloccato, paralizzato, agrafo tragico”. Il racconto, per così dire, si svolge tra la fine di un millennio e l’inizio del successivo.
Siamo cioè in un momento di trapasso, o almeno (come ci è appena capitato) in un momento nel quale i numeri con cui contiamo gli anni ci comunicano che possono verificarsi trapassi e mutamenti repentini e sensazionali: prima simbolici e poi reali. Ad un certo punto, senza nessuna insistenza o enfasi, così en passant, viene citato l’11 settembre 2001, a dimostrazione che il messaggio trasmesso in astratto dai puri numeri si è “incarnato” in un’azione eccezionale di svolta. La mutazione in realtà era stata annunciata da tempo, da qualche decennio: un fenomeno graduale che avrebbe tuttavia presentato delle periodiche accelerazioni di vario tipo, tecnologiche, politiche, spettacolari, psicologiche, sostanziali e nello stesso tempo di pura superficie.
Ma l’allarme da cui è assillato il narratore riguarda la letteratura, i suoi nemici, le malefiche talpe che lavorano a suo danno, i suoi insidiosi e onnipresenti demolitori e assassini: manager editoriali, falsi autori, solerti organizzatori di festival letterari. Vila-Matas scrive perciò il suo finto diario per registrare la vita e soprattutto i pensieri di un scrittore vero, cioè veramente ammalato di letteratura. Uno scrittore che non riesce a pensare e a scrivere se non ricordando e immaginando altri scrittori, citando le loro opere e soprattutto, nel suo diario, i loro diari. Il diario infatti sembra allo scrittore Vila- Matas e al suo fittizio e verisimile alterego la forma primaria, originaria, germinale e comprensiva di ogni altra forma letteraria.
Convinzione alla quale è indotto non solo dal suo amore maniacale per gli altri scrittori, che pensano per lui e a cui lui pensa, vivendo una vita vicaria e parassita. Fondamentale per la sua fede nei diari si rivela il fatto che la madre dell’autore, una madre malata di radicale malinconia, di inimicizia alla vita, nonché intossicata di barbiturici, non amava suo marito, aveva compassione di suo figlio, il futuro scrittore malato di letteratura, sognava un’altra vita e, soprattutto, scrisse segretamente un diario in cui era facile constatare che la forma del diario è la madre di tutte le altre forme letterarie, perché può contenere narrazioni, poesie, saggi completi o appena abbozzati, pagine autobiografiche. A questa donna, madre reale e madre simbolica, l’autore (nel senso di Vila-Matas o nel senso di colui che scrive questo fittizio diario, che diventa romanzo vero) dedica le pagine più belle del libro. Per questa donna l’atto di scrivere era e doveva restare un atto rigorosamente privato e segreto: al punto che rimase del tutto indifferente all’attività letterariamente pubblica di suo figlio.
Essere scrittori per gli altri voleva dire, secondo lei, non essere più essenzialmente scrittori: uscire dalla realtà dello scrivere per sé avendo in cambio l’irrealtà di chi lo fa alle dipendenze di un pubblico. La fama letteraria sarebbe dunque la massima, più pericolosa e falsificante alienazione, perché spinge uno scrittore a credere che quello che è coincide con quello che il pubblico crede che sia. Un libro sulla vita vera, su quella falsa e sulla continuamente annunciata morte della letteratura non potrebbe che essere abitato da questi pensieri. Vila-Matas è uno scrittore “al quadrato” che del tutto seriamente, con il massimo di orgogliosa e donchisciottesca vocazione al martirio, dichiara di essere privo di qualunque passione che non sia letteraria. E dal momento che, secondo certi studi critici, i diari degli scrittori del Novecento ruoterebbero intorno alla descrizione clinica di una qualche malattia in corso, ecco che descrivere in un diario la malattia di chi riesce a pensare il mondo solo per via letteraria, può produrre il diario dei diari, il diario perfetto.
La seconda parte del libro è scritta in forma di dizionario commentato dei più amati diaristi che il nostro autore ha scelto come propri mediatori, veicoli, suggeritori, fratelli e maestri nell’arte di scrivere un diario sulla malsana arte di scrivere: o meglio su quel malato particolare che è lo scrittore visto nella sua triste figura e vita quotidiana. Tra i maestri del diario, i più citati da Vila-Matas sono Gide, Kafka, Gombrowicz, Musil. Ma non mancano Renard, Pessoa, Mansfield, Woolf, Michaux, Pavese. Ma che cosa sono i diari, a che cosa servono? “Non conoscersi mai. E’ quello che Musil credeva succedesse con i diari intimi. Lui pensava che la diaristica sarebbe stata l’ultima forma narrativa del futuro, perché contiene in sé tutte le possibili forme del discorso. Ora, questo non lo diceva precisamente con entusiasmo, anzi credeva che fosse una perdita di tempo (…) Lo stesso diario che lui teneva illustra tale sfiducia verso il diario intimo (…) Nella versione di Musil il diario era il genere senza qualità per eccellenza”.
Ma quando si arriva a definire o costruire la propria identità, ecco che cosa dice l’autore: “Così come altri diaristi, non scrivo per sapere chi sono, ma per sapere in che cosa mi sto trasformando, qual è la direzione imprevedibile – scomparire sarebbe quella ideale, anche se forse no – verso cui mi sta trascinando la catastrofe. Non è, quindi, la rivelazione di alcuna verità ciò che il mio diario va cercando, ma la descrizione cruda, clinica, di un cambiamento”. La letteratura sono gli scrittori. E’ il loro modo di prendere il contagio, di ammalarsene, di “incarnarla” per l’ennesima volta dopo Don Chisciotte. Per sapere che cos’è lo scrivere e che cos’è la letteratura si deve quindi scrivere il diario di come uno scrittore vive e si trasforma. Su cosa vuole e non vuole, cosa desidera e teme. In quali circostanze di tempo e di luogo pensa quello che pensa scoprendo idee nuove. Che cosa è capace di inventare pur di riuscire a dire la verità mascherandone una parte. Perché, come ha detto Antonio Machado, anche la verità si inventa. E se la si cerca giorno per giorno, lo strumento letterario migliore è il diario: referto clinico minuzioso che ha bisogno di una certa immaginazione ben dosata per essere sia preciso che credibile. Non sempre, mi sembra, l’invenzione della verità è ben dosata in Vila-Matas.
Credo che il difetto di questo intelligente e insolito libro sia nell’impossibilità di trasferire al romanzo i poteri letterari del diario. Un romanzo scritto nella forma di un diario fittizio perde molta della sua forza di convinzione. Resta il fatto che i veri diari, come le vere biografie, sono incomparabilmente più interessanti dei diari fittizi e delle biografie romanzate. Non ci sono né formule infallibili né teorie o tendenze letterarie migliori di altre. Il realismo non è la soluzione. Ma il formalismo nemmeno. Personalmente mi atterrei alla più semplice, disarmata e pratica delle definizioni possibili di letteratura, una definizione che poteva andare bene nel Settecento e potrebbe tornare buona oggi: Letteratura è dire nel modo più interessante qualcosa di interessante, non importa a nessuno se inventando o no."
"Il Foglio" , 26/01/2006
Alfonso Berardinelli , "Qualcuno ha assassinato la letteratura e Vila-Matas cerca il colpevole"
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Il mondo piatto
In circa 500 pagine ci ritroviamo in un mondo appiattito: giù muri, montagne, ostacoli. Siamo in piena era del C.A.C. Per chi non lo sapesse questa è l'epoca della --> Connessione se hai un filo che ti connette. In questa maniera potrai avere --> Accesso là dove prima non potevi e in maniera impensabile. Quando sei entrato potrai assumere il --> Controllo di tutto quanto potra/vorrai fare su/in questo mondo diventato improvvisamente "piatto". Un libro assolutamente da non perdere e da consultare.
Questo é un libro assolutamente da non perdere, da leggere subito perchè, nell'arco di massimo un anno, tutto quello che c'è scritto dentro sarà obsoleto. Il fatto che il mondo sia diventato "piatto" ha accelerato i cambiamenti e le trasformazioni. Non è un fatto semplice, ma nemmeno tanto difficile da capire che siamo nell'era della Connessione, dell'Accesso e del Controllo. Se state qui a leggermi vuol dire che siete Connessi. Se vi trovate in questa condizione significa che dopo di avere letto questo mio post potrete andare ad accedere dove vi pare e piace. Di là sarete in grado di assumere il controllo di tutto quanto avete intenzione di fare della vostra presenza non solo in rete ma su questa Terra che è diventata "piatta". Perciò datevi da fare sono circa seicento pagine che vi trascinano per i capelli da una parte all'altra del pianeta facendo traballare tutte le vostre conoscenze.
Se vivete negli Stati Uniti e vi fanno una radiografia, ci sono buone probabilità che la vostra lastra venga letta nel giro di poche ore da radiologi indiani a Bangalore e il referto arrivi via email direttamente sul computer del medico curante. Se vostro figlio ha lacune in matematica, potrà prendere, grazie all'e-tutoring, ripetizioni online dal suo tutor personale, uno studente che se ne sta anche lui in India, a migliaia di kilometri da casa vostra. Se dovete prenotare un volo con la compagnia aerea JetBlue, potrebbe rispondere alla vostra chiamata una delle tante casalinghe di SalT Lake city che assicurano il servizio di prenotazione in outsourcing, utilizzando il computer del loro salotto.
Sono questi solo alcuni piccoli esempi quotidiani della globalizzazione, un fenomeno che, ci spiega Thomas L. Friedman, ha ridotto il nostro pianeta alla taglia "extra small", ha livellato il terreno di gioco su cui si incontrano ( e si scontrano) multinazionali, aziende e individui di tutti i continenti, ha "internettizzato" il mondo: insomma, in altre parole, lo ha appiattito. Un processo che, osserva Friedman, "passerà alla storia come un fondamentale momento di svolta, come quelli rappresentati dall'invenzione della stampa, dalla nascita dello Stato-nazione e dalla Rivoluzione Industriale, ognuno dei quali ha determinato profondi cambiamenti nella vita degli individui, nella forma e nei compiti dei governi, nel modo in cui si facevano le guerre, nel ruolo delle donne, nell'arte e nella religione".
Numerosi sono gli eventi storici e i fattori economici e tecnologici che hanno contribuito a tale evoluzione: la caduta del muro di Berlino, la nascita di Netscape e dei motori di ricerca, la bolla della new economy e il millennium bug, oltre agli infiniti sviluppi legati all'informatizzazione (outsourcing, uploading, open-source, lifiere globali e così via). Ma l' "appiattimento" del mondo, che ci costringe a correre sempre più veloci per rimanere in gara, ha forse reso il nostro pianeta troppo piccolo e troppo accelerato per consentire a ciascuno di noi e alla società nel suo complesso di adattarvisi in modo stabile?
Nel suo saggio, ricco di intuizioni brillanti, analisi acute e aneddoti divertenti, Friedman svela alcuni dei segreti di questo nuovo, soprendente mondo, spiegando l'effetto che i mutamenti in corso hanno sulle nazioni, sulle aziende, sulle comunità e sui singoli individui e offrendo la possibilità di comprendere meglio quanto sta accadendo attorno a noi e cosa ci riserverà il futuro prossimo. "Il mondo è piatto" costituisce quindi un aggiornato e fondamentale quadro della globalizzazione, dei suoi successi e dei suoi fallimenti, tratteggiato da uno dei più autorevoli giornalisti del nostro tempo.
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Il potere e le sue leggi
Le 48 Leggi del Potere
Legge 1
Mai oscurare il Capo.
Comportatevi sempre in modo che il vostro capo si senta superiore a chi lo circonda. Per compiacerlo e far su di lui buona impressione, non dovete eccedere nel mostrare capacità e talento. In questo modo rischiate di ottenere il contrario: ispirare timore e insicurezza. Fate sì che i superiori appaiano più brillanti di quanto sono in realtà e raggiungerete il potere.
Legge 2
Non fidatevi troppo degli amici, imparate ad approfittare dei nemici.
Diffidate degli amici: vi tradiranno più facilmente perché rosi dall’invidia. Essi diventeranno individui tormentati e tirannici. Fate riferimento a un nemico di un tempo, sarà nei vostri confronti più leale di un amico, perché deve dare maggiore prova di se. Infatti, avete più da temere dagli amici che dai nemici. Se non avete nemici, fate in modo da procurarvene.
Legge 3
Mascherate le vostre intenzioni.
Lasciate gli altri all’oscuro, celando sempre lo scopo delle vostre azioni. Chi ignora gli obiettivi di un altro non sarà in grado di preparare una valida difesa. Occorre condurre l’avversario verso la strada sbagliata, avvolgerlo in una densa nube di fumo che mascheri le vostre manovre e, nel momento in cui se ne accorgerà, sarà troppo
Legge 4
Dite sempre meno del necessario
Quando si cerca di impressionare gli interlocutori con le parole, si rischia di apparire banali e si riduce il controllo. Anche se dovete comunicare qualcosa di assolutamente ordinario, sembrerà un argomento interessante se reso vago, con finale aperto e leggermente criptico. Più parlate, maggiore è il rischio di dire sciocchezze.
Legge 5
Difendete strenuamente la vostra reputazione.
La reputazione di un individuo è il pilastro del suo potere personale. Facendo leva su di essa si intimoriscono gli interlocutori e si ottiene successo. Giocarsela rende vulnerabili e attaccabili da più parti. Bisogna rendere inattaccabile la propria reputazione, rimanere all’erta e neutralizzare le minacce potenziali prima che si manifestino. Nel frattempo occorre studiare come annientare i nemici mettendo in discussione la loro immagine e poi farsi da parte, lasciando che sia l’opinione pubblica a screditarli.
Legge 6
Attirate l’attenzione a qualunque costo.
Tutto si giudica dall’apparenza; ciò che non si vede non conta. Non bisogna confondersi tra la folla o finire nell’oblio, ma rendersi visibili, a qualunque costo. Calamitate dominando la massa mediocre e manifestando un aspetto fra il brillante e il misterioso.
Legge 7
Fate sì che gli altri lavorino per voi attribuendovi il merito del loro operato.
Usate la saggezza, la conoscenza e l’impegno degli altri per favorire la vostra causa. Non solo tale collaborazione vi farà risparmiare tempo ed energia ma vi fornirà un’aura quasi divina di efficienza e rapidità. Alla lunga, i collaboratori saranno dimenticati e solo voi ricordati. Non fate quello che gli altri possono fare al posto vostro.
Legge 8
Fate sì che gli altri vengano a voi, usando un’esca se necessario.
Quando forzate le altre persone ad agire, siete voi ad avere il controllo. E’ sempre meglio far venire a voi l’avversario inducendolo ad abbandonare i suoi piani strada facendo: adescatelo con promesse allettanti, quindi attaccatelo. Siete voi a possedere le carte e a condurre il gioco.
Legge 9
Vincete attraverso le azioni, mai con il ragionamento.
Ogni trionfo momentaneo che si pensa di avere ottenuto attraverso il ragionamento, è in realtà una vittoria di Pirro. Il risentimento e il disagio che ne scaturiranno saranno più forti e dureranno più di qualsiasi altro momentaneo mutamento d’opinione. E’ meglio che gli altri condividano le vostre idee per mezze delle vostre azioni, senza che diciate una parola. Dimostrate, non spiegate
Legge 10
Evitate ogni contagio: rifuggite dagli infelici e dagli sfortunati.
Si può morire per l’infelicità di qualcun altro; gli stati emotivi sono contagiosi quanto le malattie. Potreste credere di stare aiutando l’uomo che affoga ma state solo precipitando nel vostro disastro. Gli sfortunati talvolta attirano la sfortuna su se stessi; l’attireranno anche su di voi. Associatevi alle persone felici e fortunate.
Legge 11
Rendete le persone dipendenti.
Per mantenere la propria indipendenza si deve sempre essere necessari e richiesti. Quanto più gli altri si fideranno di voi, tanto più sarete liberi. Bisogna rendere le persone dipendenti in nome della loro felicità e prosperità e non si dovrà temere più nulla. Non dovete mai insegnare loro quanto occorre a renderle indipendenti.
Legge 12
Per disarmare la vostra vittima usate un misurato grado di onestà e di generosità.
Una mossa sincera e onesta coprirà dozzine di mosse disoneste. Le offerte spontanee di onestà e generosità abbassano la guardia anche delle persone più sospettose. Una volta che l’onestà mirata avrà praticato una crepa nella loro armatura, si può ingannarle e manipolarle a volontà. Un regalo al momento giusto, come un cavallo di Troia, servirà allo stesso scopo.
Legge 13
Quando chiedete aiuto, fate leva sul tornaconto della gente, mai sulla compassione o sul senso di gratitudine.
Se avete bisogno dell’aiuto di qualcuno, non cercate di ricordargli la vostra passata disponibilità e i vostri meriti acquisiti. Troverà certamente un modo per ignorarvi. Mettete invece in luce qualcosa nella vostra richiesta o nella vostra alleanza con lui che possa tornare a suo vantaggio ed evidenziatela spropositatamente. Vi risponderà con entusiasmo se vedrà che ci guadagnerà qualcosa.
Legge 14
Atteggiatevi ad amico, agite come una spia.
Conoscere l’avversario è fondamentale. Usate delle spie per raccogliere valide informazioni che vi porranno in posizione di vantaggio. Ancor meglio siate voi stessi la spia. Nei rapporti sociali, imparate ad indagare. Ponete domande indirette che inducano la gente a rivelare le proprie debolezze e intenzioni. Non c’è situazione che non possa essere strumentalizzata per effettuare un’abile azione di spionaggio.
Legge 15
Annientate completamente il nemico.
Tutti i grandi condottieri, dai tempi di Mosè, hanno saputo che un nemico in difficoltà deve essere annientato completamente. Talvolta, l’hanno imparato a loro spese. Se un tizzone viene lasciato acceso, alla fine il fuoco divamperà. C’è più da perdere lasciando le cose a metà che procedendo a una totale distruzione: il nemico recupererà le energie e cercherà la vendetta. Distruggetelo, non solo nel corpo a corpo, ma nello spirito.
Legge 16
Usate l’assenza per guadagnare rispetto e stima.
Un eccesso di presenzialismo può far scendere le vostre quotazioni: più vi fate vedere e più si parla di voi, più correte il rischio di apparire banale. Se vi siete già affermato in un gruppo, una sparizione temporanea farà notizia e accrescerà l’ammirazione attorno alla vostra persona. Dovete imparare quando è il momento di andarvene. Createvi credito, centellinando la vostra presenza.
Legge 17
Tenete gli altri nell’incertezza: createvi una fama di imprevedibilità.
Gli esseri umani sono creature abitudinarie con un insaziabile bisogno di avere familiarità con le azioni degli altri. La vostra prevedibilità dà loro un senso di controllo. Rovesciate la situazione: siate volutamente imprevedibili. Un comportamento apparentemente senza coerenza nè scopo li sconcerterà e si esauriranno nel tentativo di comprendere le vostre mosse. Portata all’estremo, questa strategia intimorisce e terrorizza.
Legge18
Non costruite fortezze per proteggervi: l’isolamento è pericoloso.
Il mondo è pieno di pericoli, i nemici si annidano ovunque e ognuno deve proteggersi. Una fortezza sembra il luogo più sicuro. Ma l’isolamento vi espone ad un maggior numero di pericoli di quanti non vi consenta di evitare. Meglio confondersi in mezzo alla gente, trovare alleati, mimetizzarsi. La folla vi farà da scudo contro i nemici.
Legge 19
Accertatevi di con chi avete a che fare: non offendete la persona sbagliata.
Ci sono tipi diversi di persone al mondo e voi non potete essere mai sicuri che tutte reagiranno nello stesso modo alle vostre strategie. Ingannate o imponete la vostra superiorità tattica a certe persone, e queste passeranno il resto della loro vita a cercare vendetta. Esistono lupi in veste di agnelli. Pertanto, scegliete attentamente i vostri avversari e le vostre vittime - mai offendere o ingannare la persona sbagliata.
Legge 20
Non prendete posizione.
E’ folle colui che si affretta a prendere posizione. Non compromettetevi con alcuna fazione o alcuna causa, ma state solo dalla vostra parte. Mantenendo la vostra indipendenza, diventate padroni
Legge 21
Fingetevi sciocchi per mettere nel sacco gli ingenui.
Giocate la parte del finto tonto. A nessuno piace sembrare più sciocco degli altri. Fingetevi ingenui per mettere nel sacco i veri ingenui. Giocate il ruolo del finto tonto permettendo agli interlocutori di confidare nella propria sagacia; convinti di questo, non comprenderanno il vostro vero scopo.
Legge 22
Sappiatevi arrendere: trasformate la debolezza in un punto di forza.
Nel momento in cui si è deboli, mai battersi solo per amor di firma, ma adottare la tecnica della resa. Arrendersi significa disporre del tempo necessario per un recupero. Tempo che disturba e impensierisce chi sta vincendo, tempo utile in attesa del declino del suo potere. Non bisogna mai dare al vincente la soddisfazione di lottare e di causare una disfatta definitiva; prima di tutto arrendetevi. Perciò porgete l’altra guancia, cosa che lo farà infuriare e lo sconvolgerà: questo significa rendere la resa uno strumento di potere.
Legge 23
Concentrate le vostre forze.
Preservate le vostre forze ed energie per concentrarle su un punto focale. E’ possibile ricavare più risorse trovando un ricco filone e sfruttandolo a fondo, piuttosto che svolazzare da un punto all’altro di un giacimento poco profondo, perchè l’intensità prevale sempre sull’estensività. Una volta trovata una sorgente di potere utile, occorre individuare un referente, una mucca da cui mungere per lungo tempo tutto il latte che può essere ricavato.
Legge 24
Siate un perfetto cortigiano.
Il perfetto cortigiano prospera in un mondo in cui tutto ruota intorno al potere e alla abilità politica. Egli impara a destreggiarsi con maestria nell’arte della mistificazione, sa adulare, cedere ai superiori e gestire il suo potere sugli altri con modi graziosi e trasversali. Bisogna imparare ad applicare le leggi che reggono le capacità del cortigiano e non ci saranno limiti al successo nella grande corte della vita.
Legge 25
Ricreate la vostra immagine.
Non bisogna subire il ruolo che la società tende ad attribuire. Ricreare una nuova identità significa ricostruire se stessi, una persona capace di accentrare l’attenzione e che annoia mai l’interlocutore. Siate padroni della vostra immagine piuttosto che lasciare siano gli altri a definire i vostri spazi. Questo richiede che nei gesti e nelle scelte pubbliche vengano adottati accorgimenti plateali: il potere personale ne trarrà enfasi e la vostra personalità si manifesterà nella vostra interezza.
Legge 26
Preservate pulite le vostre mani.
Mostratevi come un modello di civiltà e di efficienza: le vostre mani non devono mai apparire macchiate da errori o impegnate in azioni riprovevoli. Occorre mantenere questa apparente superiorità utilizzando gli altri come inconsapevoli pedine e schermo per celare il proprio coinvolgimento personale.
Legge 27
Sfruttate il bisogno di credere degli altri per crearvi un seguito carismatico.
L’uomo ha un profondo bisogno di credere in qualcosa. Diventate il punto focale di questo desiderio dando agli altri una causa, una nuova fede da seguire. Rimanete sul vago con le parole, ma siate prodighi di promesse, insistendo sul valore della razionalità e del pensiero conseguente. Date ai vostri nuovi discepoli rituali da seguire, chiedete che facciano sacrifici in vostro nome. In assenza di una religione organizzata o di grandi cause, questo sistema fideistico vi conferirà un potere inaspettato.
Legge 28
Entrate in azione con audacia.
Se siete insicuri sulla linea di condotta da adottare, astenetevi. I dubbi e le esitazioni influirebbero negativamente sulle vostre azioni. L’insicurezza è pericolosa. Meglio agire con baldanza. Qualsiasi errore generato dall’audacia può essere facilmente corretto da una maggiore audacia. L’audacia suscita ammirazione. L’insicurezza non porta onore.
Legge 29
Pianificate tutto dall’inizio alla fine.
Il risultato è tutto. Pianificate tutto per realizzarlo, prendendo in considerazione tutte le conseguenze, tutti gli ostacoli, tutti i giochi del destino che potrebbero impedirvi di ottenerlo, vanificando i vostri sforzi e attribuendo la gloria agli altri. Se pianificate tutto, dall’inizio alla fine, non sarete travolti dalle circostanze e saprete quando è il momento di fermarsi. Guidate abilmente la fortuna e contribuite a determinare il futuro, pensando a tutto con anticipo.
Legge 30
Dissimulate la fatica.
Le vostre azioni sembrino sempre naturali e spontanee. Dissimulate la fatica e la pratica che avrete dovuto fare e così pure la furbizia e i trucchi. Quando agite, siate naturali, come se poteste fare molto di più. Non cedete alla tentazione di rivelare quanto avete lavorato duro - può solo far nascere degli interrogativi. Non insegnate a nessuno i vostri trucchi, per non rischiare che vengano usati contro di voi.
Legge 31
Controllate le alternative: obbligate gli altri a giocare con le carte che avete servito.
I migliori inganni sono quelli in cui sembra si lasci la scelta agli altri: le vittime sono convinte di avere il controllo della situazione, mentre in realtà sono burattini al vostro comando. Date agli altri alternative che si risolvano tutte a vostro favore. Induceteli a scegliere il minore di due mali che servono entrambi al vostro scopo. Inchiodateli tra i corni del dilemma: qualsiasi cosa scelgano, non avranno scampo.
Legge 32
Solleticate la fantasia degli altri.
Spesso si cerca di sfuggire alla realtà perché è squallida e spiacevole. Non appellatevi mai alla verità o alla realtà a meno che non siate disposti ad affrontare l’ira scatenata del disincanto. La vita è così dura e deludente che coloro che sono capaci di creare sogni e illusioni sono come oasi nel deserto: attraggono gente da ogni dove. Grande potere deriva dalla capacità di solleticare la fantasia delle masse.
Legge 33
Trovate il punto debole di ciascuno.
Ogni individuo ha un punto debole, un punto di minore resistenza. Questo debole è solitamente un’insicurezza, un’emozione o un bisogno incontrollabile, ma può anche essere un piccolo piacere segreto. Comunque sia, una volta trovato, sarà la molla su cui potrete agire per far muovere gli altri a vostro piacimento.
Legge 34
Siate regali: agite da re e sarete trattati come tali.
Il modo in cui ci si comporta può spesso influenzare il modo in cui si viene trattati: a lungo andare, chi appare modesto e ordinario perde il rispetto degli altri. Il re, infatti, rispetta se stesso e ispira negli altri lo stesso sentimento. Chi agisce da re, sicuro del proprio potere, appare come destinato a portare la corona.
Legge 35
Imparate a gestire il tempo.
Non mostrate mai fretta - la fretta tradisce mancanza di controllo di sè e del tempo. Apparite sempre pazienti, come se sapeste che tutto verrà a voi a tempo debito. Cercate il momento giusto; cercate di cogliere lo spirito del tempo, le tendenze che vi permetteranno di acquisire il potere. Imparate ad aspettare quando i tempi non sono maturi e a colpire con decisione quando arriva il momento.
Legge 36
Disprezzate ciò che non potete avere: l’indifferenza è la migliore vendetta.
Riconoscere il problema equivale a conferirgli esistenza e credibilità. Più si dedica attenzione all’avversario più lo si rende forte. Un piccolo errore peggiora e diventa più evidente nel momento stesso in cui si tenta di porvi rimedio. Talvolta, è più opportuno fare finta di nulla. Se c’è qualcosa che si vuole e non si può avere, meglio è far mostra di disprezzarla. meno interesse si mostra, più si è superiori.
Legge 37
Create spettacoli avvincenti.
Forte immaginazione e grandi gesti simbolici creano un’aurea di potere cui nessuno è in grado di resistere. Inscenate, per chi vi circonda, spettacoli ricchi di stimoli visivi e di simboli suggestivi che conferiscano enfasi alla vostra presenza. Abbagliato dalle apparenze, nessuno noterà ciò che state veramente facendo.
Legge 38
Pensate come volete ma comportatevi come gli altri.
Se ostentiamo il nostro anticonformismo, facendo sfoggio di idee non convenzionali e di comportamenti poco ortodossi, gli altri penseranno che stiamo soltanto cercando di attrarre la loro attenzione e che pecchiamo di superbia e troveranno il modo di farcela pagare per averli fatti sentire inferiori. E’ opportuno condividere l’eccentricità solo con gli amici più tolleranti e con coloro che sono in grado, senza alcun dubbio, di apprezzare la nostra singolarità.
Legge 39
Agitate le acque per catturare i pesci.
Rabbia ed emotività sono strategicamente controproducenti, per cui bisogna restare sempre calmi e obiettivi. Per acquisire un punto di vantaggio sull’avversario fate sì che sia questi ad irritarsi mentre voi mantenete saldi i vostri nervi. Per sbilanciare l’avversario è bene individuare i punti deboli che toccano la sua vanità, in modo da innervosirlo e tirare le fila di conseguenza.
Legge 40
Disdegnate le offerte gratuite.
Ciò che è offerto gratuitamente è pericoloso: può implicare un secondo fine o trasformarsi in un debito. Ciò che vale è monetizzabile. Pagando di tasca propria si evita il peso della gratitudine, la colpa e l’inganno. E’ spesso più saggio pagare il prezzo dovuto, poiché non esistono scorciatoie sulla strada dell’eccellenza. Bisogna manifestare magnanimità usando il proprio denaro, perché la generosità è un segno e una calamita che attrae il potere.
Legge 41
Evitate di indossare gli abiti di qualcun altro.
Ciò che viene prima sembra sempre migliore e più originale di ciò che segue. Chi succede a un grande uomo o ha un genitore importante avrà come compito quello di sforzarsi almeno il doppio di chi lo ha preceduto, per tentare di oscurarne la fama. Non bisogna seguire le orme di chi ci ha preceduto o si finirà per vivere una vita che non ci appartiene; occorre ricreare un’identità propria e cambiare il corso della propria vita. Distruggete l’ombra incombente di vostro padre, disperdetene l’eredità e conquistate il potere percorrendo le vostre strade.
Legge 42
Colpite il pastore e le pecore scapperanno.
I guai sono spesso di un singolo individuo con una forte personalità: il provocatore, arrogante e subalterno, colui che avvelena i rapporti. Se si concede spazio a tale individuo. Altri soccomberanno sotto la sua nefasta influenza. Non permettete che il danno che sa provocare, si moltiplichi; non tentate di appianare la situazione; è irrecuperabile. Un simile soggetto deve essere neutralizzato e messo al bando. Fermate il male alla radice – il pastore – e le pecore scapperanno.
Legge 43
Toccate il cuore e la mente delle persone.
La coercizione genera una reazione che a lungo andare finisce per ripercuotersi contro di voi. Dovete invece sedurre gli altri inducendoli a desiderare di procedere nella vostra direzione. La persona che avete conquistato diviene così una fedele pedina nelle vostre mani. Per sedurre occorre saper agire sulla psicologia e sulle debolezze di ciascuno. Ammorbidite dunque chi oppone resistenza lavorando sulle sue emozioni, giocando con ciò che ha di più caro e con ciò che teme. Ignorate i cuori e le menti degli altri e questi finiranno per odiarvi.
Legge 44
Disarmate ed irritate con l’effetto specchio.
Lo specchio riflette la realtà ma è anche lo strumento ideale per ordire un inganno: quando fungete da specchio per i vostri nemici, riproducendo con assoluta precisione le loro azioni, essi non riescono più a decifrare la vostra strategia. L’Effetto Specchio rifà loro il verso e li umilia, spingendoli a reagire in modo spropositato. Reggendo uno specchio di fronte alla loro psiche, li seducete illudendoli di condividerne i valori; mettendo uno specchio davanti alle loro azioni, date loro una sana lezione. Pochi sanno resistere al potere dell’Effetto Specchio.
Legge 45
Predicate la necessità del cambiamento, ma non introducete troppe innovazioni tutte insieme.
In teoria tutti comprendono la necessità di cambiare ma poi, nelle ita di ogni giorno, gli esseri umani si dimostrano creature fortemente abitudinarie. Un eccesso di innovazione può rivelarsi traumatico e condurre alla rivolta. Se avete assunto da poco una posizione di potere oppure siete un outsider che cerca di guadagnarsi il sostegno necessario per raggiungerla, mostrate chiaramente che tenete in grande considerazione il vecchio modo di fare le cose. Se il cambiamento è davvero essenziale, fate in modo che appaia come un intervento discreto il cui scopo è unicamente perfezionare l’approccio in uso nel passato.
Legge 46
Non mostratevi mai troppo perfetti.
Apparire migliori degli altri è sempre pericoloso, ma la cosa più rischiosa in assoluto è dare l’impressione di non avere difetti o debolezze. L’invidia crea nemici silenziosi. L’uomo intelligente, quindi, di tanto in tanto mostra di avere dei limiti e ammette di indulgere in qualche vizio innocente, così da allontanare l’invidia e apparire più umano ed accessibile. Solo gli dei e i morti possono permettersi di sembrare perfetti impunemente.
Legge 47
Non superate l’obiettivo che vi eravate prefissi: nella vittoria, imparate quando è il momento di fermarsi.
Il momento della vittoria è spesso quello del maggior pericolo. Nell’impeto della conquista, arroganza e presunzione possono spingervi al di là dell’obiettivo che vi eravate prefissi e, andando troppo oltre, vi fate più nemici di quante riusciate a sconfiggere. Non lasciate che il successo vi dia alla testa. Nulla può sostituire la strategia e un’accurate pianificazione. Datevi un punto di arrivo e, una volta raggiuntolo, fermatevi.
Legge 48
Spogliatevi di qualunque forma.
Assumendo una forma, rendendo visibile il vostro piano, vi esponete agli attacchi esterni. Anziché darvi una fisionomia che permetta al vostro nemico di afferrarvi, mantenetevi flessibili e in movimento. Accettate il fatto che nulla è certo e nessuna legge è immutabile. Il miglior modo di proteggervi è essere fluidi e privi di una forma propria come l’acqua; non scommettete mai sulla stabilità o su un ordine duraturo. Tutto cambia.
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Il paese sfigurato
Un libro occasionale questo di Sgarbi, voglio dire sembra improvvisato, messo su sotto la spinta di qualcosa/qualcuno che ne chiedeva la stampa. Resta comunque un libro documento sullo scempio del paesaggio italiano. Sembra che l'idea di scempio e quindi di disordine, irregolarità, illegalità, insomma il solito classico ed antico "genio e sgregolatezza" sia parte integrante della mente e mentalità degli abitanti di questo Bel Paese. Quasi come se la natura, nei secoli, e ancora oggi, faccia di tutto per rendere bella l'Italia. Di contro, i suoi abitanti fanno di tutto per distruggerla, trasformarla, violentarla. Vedremo chi l'avrà vinta, "in the long run", come dicono gli anglosassoni.
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Il labirinto dell'alfabeto
Sin da quando ero piccolo mi piaceva arrampicarmi sui grandi cassettoni della sala di composizione della tipografia dove i compositori mettevano una dietro l'altra le lettere nel compositore a mano per costruire le righe. Una dopo l'altra e tutte insieme costruivano quella che sarebbe stata detta poi la "forma". Su questa forma compatta di piombo avrebbe ruotato poi un rullo di caucciù impregnato di inchiostro. Su di essa sarebbe poi passato un foglio e sul foglio sarebbe rimasta l'impronta della pagina stampata. Un miracolo per gli occhi di un bambino che pensava di doverle leggere tutte poi quelle pagine che odoravano di piombo e di petrolio. Quella era la storia delle lettere che prendevano forma magicamente nella mia testa dando vita al pensiero. Come una magìa, appunto, è la lettura di questo libro...
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In ricordo degli "hibakusha"
"Non è solo il sonno della ragione che genera mostri, non è solo l’odio razziale che spinge l’umanità verso il baratro. C’è anche una cupa e agghiacciante razionalità che percorre le vie del Male e semina morte in nome di un Bene presunto. Tale fu l’olocausto nucleare scatenato il 6 agosto 1945 quando un bombardiere americano scaricò l’atomica su Hiroshima. Kenzaburo Oe, premio Nobel per la letteratura nel 1994, ripercorre il cammino della moderna apocalisse. Note su Hiroshima è un saggio che si presenta sotto la forma di un racconto rivolto a tutti noi, al mondo, che non solo ha dimenticato, ma che pensa all’incubo nucleare come a qualcosa scacciato per sempre dall’orizzonte dell’umanità. Oe si è recato più volte a Hiroshima tra il 1963 e il 1965. Gli appunti di viaggio ricavati sono stati poi pubblicati a puntate dalla rivista Sekai e raccolti ora in un volume.
Le cronache di quel tempo ci restituiscono intatta la memoria dei dimenticati, gli hibakusha. Chi sono costoro? Letteralmente “coloro che sono stati colpiti dal bombardamento”. I giapponesi coniarono il neologismo preferendolo a sopravvissuti o superstiti, termini che potevano suonare offensivi nei confronti dei defunti. Perché l’autore si decise a radunare i suoi scritti? C’era una ragione evidente: farsi parte attiva nella lotta al riarmo nucleare e promuovere la realizzazione di un libro bianco sui danni della bomba atomica. Quel mobilissimo intento si è trasformato in uno straordinario percorso dentro l’uomo: “A Hiroshima sono riuscito per la prima volta a impugnare una chiave che mi ha permesso di scrutare a fondo l’autenticità umana. E, sempre a Hiroshima, ho avuto modo di cogliere gli aspetti più imperdonabili della mistificazione di cui l’essere umano è capace”.
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Bloggare è una forma di vanità: si possono adoperare termini eleganti, parlare di “cambio di paradigma” o “tecnologia dirompente”, ma la verità è che i blog sono sbrodolature adolescenziali senza senso. Adottare lo stile di vita del blogger è l’equivalente letterario di attaccare nastri colorati al manubrio della bicicletta. Nel mondo dei blog “0 comments” è un dato inequivocabile: significa che una certa cosa non interessa assolutamente a nessuno. La terribile verità dei blog è che le persone che scrivono sono molte di più di quelle che leggono. (Stodge.org, The Personal Memoirs of Randi Mooney, postato il 5 maggio 2005, (14) commenti)
Nel 2005 la rete si era ripresa dal crollo delle Dot-com e, in linea con l’economia globale, si stava reincarnando nel Web 2.0. Mentre gli abitanti del cyberspazio oltrepassavano il miliardo, blog, wiki e social network come Friendster, Orkut e Flickr venivano presentati come la nuova frontiera del lavoro volontario. “Comunità virtuali” era diventata un’espressione inflazionata, «associata a idee screditate sul cyberspazio come sistema indipendente e alle idee fallimentari delle Dot-com sulla costruzione di comunità all’ombra di brand di massa, come i forum sul sito della Coca-Cola»; si parlava piuttosto di sciami, mobs e folle: i media erano diventati sociali.
Dalla produzione collaborativa di contenuti per Wikipedia al social bookmarking di Digg, c’era senza dubbio un nuovo slancio. Se i blog erano “molto 2004″, la Bbc definì il 2005 “anno del cittadino digitale”.
Lo tsunami del giorno di Santo Stefano del 2004 mostrò in modo molto crudo il potenziale di questi strumenti, mentre pochi mesi dopo le bombe del 7 luglio a Londra e gli uragani negli Stati Uniti obbligarono a riconoscere il fatto che nella produzione di notizie i cittadini avevano un ruolo molto più grande di quanto non fosse mai accaduto prima. La Bbc ricevette per e-mail 6500 immagini e video che mostravano gli incendi al deposito di petrolio di Buncefield, qualche migliaio in più di quelle ricevute dopo le bombe di Londra. Il report della Bbc concludeva che i media cominciavano a sembrare più partecipativi e inclusivi.
Il passo successivo fu la scelta di “You” come Persona dell’anno di “Time”, che riflette l’aumento fenomenale del numero di utenti dei siti di social networking come MySpace (leggi: News Corporation di Rupert Murdoch) e YouTube (leggi: Google). Il 2007 sarà l’anno della “critica della rete”?
Sempre più persone stanno cominciando a mettere in discussione il modello economico del Web 2.0. Perché gli utenti dovrebbero continuare a pubblicare tutti quei dati privati, dai quali una manciata di aziende ricava miliardi di dollari di profitti? Perché dovrebbero cedere gratuitamente i loro contenuti mentre un pugno di imprenditori del Web 2.0 sta facendo i milioni? Che prezzo siamo disposti a pagare per la gratuità? Perché non usiamo la nostra “immaginazione collettiva” per escogitare modelli sostenibili per una cyberinfrastruttura pubblica? È ora di rompere il consenso liberista. Da sociale a socialista, il passo è breve. È tempo di tornare a essere utopisti e cominciare a edificare una sfera pubblica al di fuori degli interessi a breve termine delle corporation e della volontà di regolamentazione dei governi. È ora di investire nell’educazione, ricostruire la fiducia e svincolarsi dalla retorica securitaria post-undici settembre.
Invece delle classiche due fasi della cultura di Internet, preferisco distinguerne tre. La prima è il periodo scientifico, pre-commerciale e solo testuale che ha preceduto il World Wide Web. La seconda, il periodo euforico di speculazioni nel quale Internet si è aperta al pubblico generico, culminato nella mania delle Dot-com della fine degli anni novanta. La terza, il periodo successivo al crollo delle Dot-com e all’undici settembre, che con il Web 2.0 sta volgendo al termine. I blog, o weblog, sono un fenomeno intermedio interessante, che ha avuto inizio attorno agli anni 1996-1997, durante la seconda fase di euforia, ma sono rimasti fuori dagli schermi radar perché non avevano al loro interno una componente di commercio elettronico. Il cambiamento più rilevante che si è verificato negli anni passati è stata la “massificazione” e successiva internazionalizzazione di Internet, che nel 2005 ha oltrepassato il significativo limite del miliardo di utenti.
Per la cultura dominante anglo-americana la “globalizzazione” di Internet è stata più evidente a causa della sua ignoranza, voluta e organizzata, e della sua scarsa conoscenza delle lingue straniere. Non tutti colgono il significato del fatto che i contenuti in inglese siano scesi ben al di sotto del limite del 30 per cento. Inoltre, la crescita ha portato a un’ulteriore “nazionalizzazione” del cyberspazio, soprattutto attraverso l’uso delle lingue nazionali, in contrasto con la presunta assenza di frontiere della rete – che forse non è mai esistita: le aziende occidentali di information technology sono più che felici di aiutare i regimi autoritari con i firewall nazionali. Come si suol dire, il mondo è grande. Oggi la maggior parte del traffico Internet è in spagnolo, mandarino e giapponese. Questa fotografia si complica ancora di più se si prende in considerazione il potenziale della convergenza di due miliardi di utenti di telefoni cellulari, della blogomania in Iran, del fatto che la Corea del Sud possiela una delle più dense infrastrutture broadband e della crescita della Cina. Chi mai direbbe che Polonia, Francia e Italia sono fra le nazioni europee con più blog?
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Il monologo di Alvano
Sono Alvano, il testimone. Testimone dei cambiamenti di questa valle. Cambiamenti importanti, degni di essere studiati, analizzati, ricostruiti. Attualità e realtà di un clima che cambia e con esso la gente. Qui come altrove. Gli ultimi dieci anni in questa parte del mondo, nel cuore dell’Europa, nel meridione della penisola, ho visto salire la temperatura in estate per la gioia di tanti. Sole, mare, calore, amore, sapori che possono, però, portare ad improvvisi furori della natura. Anche dei piccoli cambiamenti nel comportamento del clima, un trascurabile aumento di qualche mezzo grado nel termometro, possono avere un grave impatto sulle nostre vite. Negli anni scorsi si sono verificate grosse catastrofi naturali nel nostro paese. Dall’altra parte del mondo improvvisi e devastanti uragani hanno ucciso decine di migliaia di esseri umani. Qui in Europa ci sono state valanghe, alluvioni, frane, sia di inverno che d’estate.Tutti sembrano concordare sul fatto che questi non sono fenomeni slegati tra di loro, ma sono collegati al surriscaldamento del pianeta. Ad esso sono da riportare i fatti di cui ho deciso di parlare, da testimone. Gli scienziati ritengono che se le temperature continuano a salire ci saranno altre forti perturbazioni atmosferiche che prenderanno varie forme a seconda dei posti dove avranno luogo.
Avvengono spesso in zone montagnose, poco distanti dal mare, o sul mare stesso. Possono essere considerate eccezionali quando accadono per la prima volta. La seconda volta non lo sono più. Se commettete l’errore, allora, di costruire un campeggio ai piedi di una collina da dove si sa che verrà giù acqua, c’è il rischio che il debole sistema di canali per il deflusso delle acque, non basterà, se ci saranno piogge abbondanti. Le variazioni climatiche sono uno dei fattori importanti da prendere in considerazione quando accadono disastri di questo tipo. Fino a dieci, venti anni fa i cambiamenti della temperatura ambientale non venivano presi in considerazione. Molti ritenevano che bastavano le norme e le direttive in uso per secoli per difendere l’ambiente. Si riteneva che se accadeva qualcosa di grosso in termini di alluvioni, frane, inondazioni era per cause naturali e il capitolo era chiuso. Difficilmente la cosa si sarebbe ripetuta. Ora, dopo alcuni tragici eventi succeduti in sequenza, in circostanze simili ed in posti diversi, non è più possibile ragionare in questo modo. Se il clima continua a cambiare, avrete estati sempre più calde, incendi più frequenti, piogge più abbondanti che non potete più considerare impreviste. Le parti più vulnerabili del sistema sono destinate a crollare. Come è successo quella notte. Vi avevo avvisato. Vi avevo inviato messaggi premonitori rimasti inascoltati.
La mia valle l’avete trasformata in una pattumiera. Il mio fiume l’avete ridotto ad una cloaca. Vesevo , che ha un carattere diverso dal mio, preferisce le maniere forti e mi rimprovera spesso di essere troppo tenero con voi. Dice che quanto prima farà sentire di nuovo la sua voce e per voi non ci sarà scampo. Io invece sono vostro amico. Amo l’atmosfera magica della mia valle. I ricchi e fertili campi arati e coltivati, i frutti rigogliosi, la gente laboriosa, i villaggi sparsi e diversi. Per migliaia e migliaia di anni vi ho osservato, amato, protetti. Ho favorito le vostre attività, i vostri commerci, i vostri traffici. Ho gioito nel partecipare alle vostre feste, nel sentire i vostri canti, nell’ammirare i vostri fuochi nelle notti stellate di agosto. Ho apprezzato il vostro lavoro, la costruzione delle grandi opere, le strade, le autostrade, le ferrovie, le grandi fabbriche. Da quassù non potevo non ammirare il vostro ingegno, la vostra voglia di vivere, il vostro amore per la vita. Ma quello che accadde quella notte non sarebbe accaduto se voi non aveste abusato, se voi aveste capito i segnali che in più di una occasione vi ho inviato. Quanti incendi sul mio corpo. Quanti maltrattamenti alla mia vegetazione. Quante violenze alle mie sorgenti. Quanti sentieri e valloni distrutti o trasformati in strade. Quante cave abusive. Quante discariche clandestine. Quante case costruite là dove solo le acque avrebbero dovuto scorrere libere verso il fiume. Quanti pozzi avete scavato succhiando acque dal mio corpo. Quante fogne avete costruito dirigendole nel mio amato fiume. Tutta quella gente non sarebbe morta, non avrebbe perso la casa, non avrebbe subito i danni e le beffe di un potere scellerato, le ambizioni e le superficialità di politici inadeguati ed inetti, l’arroganza di un sistema che non conosce umanità. Quando sfondai le pareti di quell’ospedale sapevo che medici e infermieri stavano lavorando alacremente e con coraggio a dare aiuto e conforto a chi era lì ricoverato e chi tra quelle mura era riparato in cerca di una via di scampo. Ma il mio corpo ormai stava cedendo, i miei fianchi sfiniti ed appesantiti dalle piogge, dovevano tracimare. E dentro di me sentivo la pressione delle acque salire. Ecco perché quando la frana scese aveva quella velocità. Nessuno avrebbe potuto resistere alla forza che si scatenava dalle mie viscere. Sentii le voci, le grida, le urla, i gemiti, i lamenti, le imprecazioni, i silenzi, le bestemmie, i richiami, le preghiere, le maledizioni di chi non poteva capire, non poteva sapere, non poteva vedere. Le luci si spensero, il cortile fu inondato di fango. I letti dei pazienti travolti, le scale crollate, il fragore dell’inferno, prima del silenzio della morte.
Eh, sì, l’ho sentito quel poveraccio raccontare che c’erano diciassette persone nella sua casa. Nove appartenevano alla sua famiglia e sette erano suoi vicini. Era uscito per vedere cosa stava succedendo fuori. I pompieri che passavano gli dissero cosa fare. Poi all’improvviso sentì un tremendo rumore ed ebbe paura del peggio. Pochi attimi dopo, si ritrovò nel fango. Solo fango. Un mare di fango. Ci volle poco per rendersi conto che la casa era completamente inondata. Tutti erano scomparsi. Suo figlio di dieci anni. L’altro suo figlio di sedici. E poi un altro di venti. E poi ancora il padre e la madre della moglie. La cognata ed i suoi due figli. Sua moglie. Erano stati insieme per ventidue anni.
La scena che si presentò ai miei occhi da quassù, sui due versanti, la mattina seguente, era davvero devastante. La frazione maledetta semi-sommersa dalle colate di fango. All’alba vidi gli elicotteri arrivare. Uno, ancora col buio, aveva cercato di fendere la notte per capire cosa era successo. Uccello d’acciaio dal rombo amico, apparve tardi ed all’improvviso in quella notte di tregenda di cui fui testimone. L’occhio acceso, falciava il buio di un inferno in diretta, alla ricerca di chi chiedeva aiuto. Ce ne sarebbero voluti molti per portare in salvo tutta quella gente che alle luci dell’alba livida invocava aiuto dai tetti. Ma soltanto uno era abilitato al volo notturno. Sorvolò le nostre case, le nostre teste. Verso di lui si indirizzavano le fioche luci delle torce elettriche della gente. Ai primi giri sembrò individuarci. Pensammo di poter fuggire dalla trappola di fango che ci circondava e che saliva minacciosamente.
Nella notte fonda ci lambiva sulla sinistra, verso l’ospedale. Non comprendevamo perché. Sapemmo poi che lì i morti erano molti. Alle prime luci dell’alba apparvero altri uccelli d’acciaio. Di forme varie e di colori diversi, rombavano su di noi come aquile reali. Uno, in particolare, enorme, dalle pale lunghe e vorticanti, cercò di abbassarsi. Alla ricerca di uno spazio in cui fermarsi per poter gettare le corde dell’aggancio. Un grande risucchio d’aria ci avvolse tutti mentre, con le braccia tese al cielo, gli facevamo cenno di scendere. L’uomo in tuta, col portellone spalancato, gesticolava senza che noi potessimo capire quello che diceva. Fuori dalla casa dove ci eravamo raccolti, vecchi, bambini, adulti, imploravamo aiuto. Si fermò in alto, in mezzo al cielo, in posizione di stallo. Un rumore infernale, indescrivibile, l’urlo di cento tempeste, vortici di mille venti. Tutti gli alberi vicini rabbrividivano, piegandosi al vento delle pale. Fuggimmo dentro, tutti. Come avremmo potuto affidare all’uccello d’acciaio i nostri vecchi, i bambini, i gatti, i cani, per andare verso la salvezza? Ma c i saremmo poi davvero salvati? O saremmo piuttosto andati incontro alla morte? Minuti, momenti, attimi per prendere una decisione. Chi doveva salire per primo? Nessuno si decideva. La corda con l’aggancio pendeva, oscillando nel vuoto. Chi per primo? Nessuno si mosse. Ci rinchiudemmo nella casa facendo cenno all’uccello d’acciaio di andare via. Il vento era un ciclone. Il rumore quello dell’inferno. Qualcuno telefonò col cellulare chiedendo di lasciarci al nostro destino. L’uccello si allontanò. Noi eravamo ancora vivi.
Altrove si scavava nel fango. Bisognava fare presto prima che si indurisse. Io li vedevo scavare con le mani freneticamente alla ricerca di un qualche superstite ancora vivo in quel cosa nera e immonda che era il fango. Immagini vive che il tempo non potrà mai cancellare. Chi cercava un fratello, chi una sorella. Il figlio, la figlia. Il padre, la madre. Chi il suo cane, chi il gatto. Quando tirarono fuori dopo tre giorni quel giovane mi resi conto della reale dimensione della tragedia. Le abbondanti, incessanti piogge che erano cadute per tutto il mese di maggio avevano lanciato piccoli segnali che non erano stati presi in considerazione. Qualche settimana prima, pioveva quella sera sul villaggio. Si erano alternate giornate di pioggia e di sole. L’appuntamento era sulla terrazza della congrega per la visita degli amici stranieri. I bambini avevano preparato cartelloni, disegni e striscioni di benvenuto. Due lunghe fila di ragazzi avrebbero salutato gli ospiti agitando le bandierine. La pioggia, implacabile, continuava a cadere facendo penzolare impietosamente le insegne che avevano perso i colori e le parole. Tutta l’aria intorno alla piazza del duomo era impregnata di un acre odore di terreno umido, fradicio di pioggia e di erba tagliata da poco. Ricordava i campi di Britannia e la sua atmosfera: piovosa, umida, nuvole basse ed irregolari, fino ai piedi di Alvano che quasi non si vedeva più. Squarci improvvisi all’orizzonte lasciavano intravedere nella valle i paesi, il percorso sinuoso del fiume, l’azzurro del cielo e sopra tutto e tutti Vesevo. Alvano salì rapidamente i gradini insieme a Jeff, il giornalista del Chronicle. Cercò un ombrello. L’acqua scendeva a fiotti per le scale scivolose. Tutti erano sorpresi dall’atmosfera invernale. Alcuni si rintanarono negli angoli della sala, altri si rifugiarono in chiesa dove don Antonio celebrava la messa. Durante la celebrazione sarebbe scoppiato improvviso, col fragore di una bomba, un fulmine facendo mancare l’energia elettrica. Nessuno si mosse dal suo posto e al lume delle candele la cerimonia si concluse. Quelli erano i segnali che voi non comprendeste. Non potevate immaginare che la mia rabbia stava montando. Nemmeno tu, Alvano, ti rendesti conto di quello che stava per accadere. Mentre correvi con Jeff verso l’auto vedesti il terreno sceso dalla montagna. Ti limitasti a dire: ”Non è niente. Non c’è pericolo. Accade spesso quando piove”. Sì, era accaduto tante volte, nel corso dei secoli. E’ scesa la lava, stanotte. E’ piovuto molto, stanotte. Addirittura ti fermasti nella curva, indicando le luci giù nella valle. Proprio in quel punto, una della mie tante frane sarebbe scesa con violenza lungo quello che era una volta un canalone. Ma ti avrei risparmiato, come ho risparmiato gli amici della tua cooperativa. Ottima posizione, quella per una prossima frana mirata. Invece, ti ho risparmiato perché tu possa raccontare.
Ed ora tu dici che non vuoi essere un allarmista. Dici che non ti senti sicuro. Che non vi hanno detto cosa è accaduto. Non sai cosa intendono fare di voi che vi ostinate a vivere ancora ai miei piedi. Quali sono i loro piani. Ma a che serve, caro Alvano, predire quello che accadrà se poi non sapete cosa dovrete fare? Altrove sanno cosa fare. Dovreste imparare a conoscere meglio il vostro ambiente. Non dovreste limitarvi a godervelo soltanto. Certo, non è facile pensare all’acqua quando c’è il sole. Al vento quando non si muove una foglia. Alla neve quando ci sono 35 gradi. Le previsioni su basi scientifiche servono a neutralizzare le catastrofi. L’educazione all’emergenza serve a non fare vittime. L’attenzione al territorio serve per conoscere i cambiamenti e i mutamenti, specialmente quelli secondari. Il mio amico dirimpettaio Vesevo non li fa questi discorsi. Lui non ci pensa su due volte. Riprende l’attività quando vuole. Non manda avvisi o preavvisi. Come invece faccio sempre io. Io, i messaggi, i preavvisi, le anticipazioni le avevo fatte. Non avete saputo leggerli. E poi, la vostra memoria tende ad accorciarsi. Dimenticate con facilità. I vostri figli non hanno memoria. Vivono sommersi nel presente. Non conoscono il passato e quindi non sapranno costruire il futuro. Siete ancora in tempo. L’hanno detto anche quelli della BBC quando sono venuti a girare in questi posti, inserendo il 5 maggio nella lunga lista delle catastrofi naturali che hanno colpito il mondo negli ultimi anni. Io sono il testimone del passato, non voglio esserlo per futuro.
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Estratto da: http://www.inedito.it/description_nonf.asp?DOCU_ID=1005&idd=311
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Dio che crede nell'Uomo
Questa è una recensione particolare, si basa, infatti, su un pregiudizio politico ed una previsione positiva. Mi spiego. Eugenio Scalfari lo conoscono tutti ed è opportuno ricordare i suoi trascorsi politico-esistenziali. Nel 1942 era fascista. Poi fu antifascista, nel 1945 azionista, nel 1946 vota monarchia, nel 1952 è liberale, nel 1955 radicale, nel 1963 socialista, nel 1976 filocomunista, dal 1983 al 1989 demitiano. Poi dal 1996 si è schierato con Prodi. Per essere uno che dà lezioni di politica non è che ne abbia azzeccate molte. Di lui, fra i tanti, si ricorda un indimenticabile articolo del 1959 sull’ “Espresso” in cui sosteneva la causa di Mosca: “Il cavallo sovietico si trova ormai a poche incollature dal cavallo americano. Nel 1972 l’Urss sarà passata in testa non soltanto come potenza industriale, ma anche come livello di vita medio della sua popolazione. Tutti luoghi comuni dell’efficienza privata e dello sperpero del collettivismo cadono come castelli di carta di fronte ai risultati raggiunti in quarant’anni dall’economia sovietica...”. Se questo è il pregiudizio politico, la previsione positiva si basa sul fatto di non averne azzeccata una e quindi tutto lascia supporre che anche le sue argomentazioni filosofico esistenziali sulla credenza di Dio possano essere sballate. E’ l’augurio che ci facciamo dandogli il massimo dei voti nella valutazione del suo libro che potremmo anche fare a meno di leggere.
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L'ultimo libro?
Bellissimo questo libro perchè fa non solo volare la fantasia ma la fa anche lavorare. Spesso ho pensato a chi avrà il merito, la fortuna, la sfortuna, il piacere o la disavventura di scrivere l'ultimo libro prima della fine dell'universo. Pensate a cosa potrà contenere un libro del genere: la somma di tutti i libri scritti? La sintesi di tutte le idee espresse dagli uomini nei millenni? Un pensiero unico? Un'idea trans-umana? Un testo fatto di tante pagine bianche leggibili solo da chi ne conosce la lingua? E quale sarà quella lingua? Leggetevi il libro e l'intervista che seguono e capirete il mio entusiasmo.
Rodman Philbrick, pluripremiato autore americano di fantascienza, ha scritto una fiaba noir dai toni apocalittici ambientata in un mondo alternativo e grottesco. L'ultimo libro dell'universo raffigura il nostro pianeta sotto il giogo del Caos, alla mercé di poche bellicose fazioni che si spartiscono il potere. Una catastrofe immane aveva prodotto intensi rivolgimenti, distruggendo in un sol colpo società e culture millenarie. I ricordi e le tradizioni si indeboliscono, il presente si confonde con il mito, mentre i libri scompaiono dalla faccia delle terra senza troppi rimpianti. Finché il giovane Spas, protagonista e voce narrante, non s'imbatte in un cumulo di fogli di carta di dubbia utilità e dal nome esotico di ”Libro“. Abbiamo intervistato l'autore.
D. L'ultimo libro dell'Universo prefigura uno scenario piuttosto inquietante: l'umanità è in grave declino, non ha più memoria di sé e si affida a sonde cerebrali per trattenere e diffondere il sapere. È pessimista nei confronti del futuro del pianeta? Ha buona familiarità con le nuove tecnologie?
R. In me convivono due anime. Ci sono giorni in cui mi sembra di scorgere all'orizzonte nubi sempre più fosche. Provo allora una sensazione diffusa di disagio e inquietudine per le sorti dell'umanità. Conservo tuttavia anche una visione fiduciosa e ottimistica del futuro, che mi induce a credere nella possibilità di un mondo migliore, in cui gli uomini si mostreranno meno inclini all'odio e alla violenza. Quanto alle nuove tecnologie, confesso di esserne attratto in modo irresistibile. Blog, iPod, software, microprocessori, programmi ad alta definizione: tutto questo è musica per le mie orecchie.
D. Secondo Lei quale sarà il destino del libro - classicamente inteso - nell'era digitale?
R. Si tratta di una questione aperta, in continuo divenire. Non credo però che i testi in formato digitale avranno vita facile nel soppiantare i libri tradizionali. Devono ancora inventare un e-book che si possa consultare con la stessa facilità di una pagina stampata su carta o che si possa portare in giro come un tascabile. Non ne farei comunque una questione di formato: a prescindere dal supporto - sia esso digitale o cartaceo - sarà sempre il contenuto a fare la differenza. Finché la gente avvertirà il bisogno di leggere storie, il libro sopravvivrà in una forma o nell'altra.
D. Nel suo romanzo viene immaginato un futuristico modello di società, invero rudimentale e barbarico, concepito dai sopravvissuti alla catastrofe. L'apocalisse e la conseguente ricostruzione del mondo su nuove basi è un tema forte della fantascienza e dell'horror; basti pensare ad alcuni romanzi di Stephen King come L'ombra dello scorpione o Cell, ma gli esempi potrebbero essere infiniti. Lei è in grado di rintracciare qualche antecedente letterario? Ci sono riferimenti consapevoli a opere e autori amati?
R. Ho iniziato a leggere opere di fantascienza fin dall'età di dodici anni. Molti libri hanno contribuito alla mia formazione e possono essere considerati alla base del mondo alternativo che ho ricreato nell'Ultimo libro dell'Universo. Mi riferisco al romanzo Il mondo nuovo di Huxley, al Ciclo della Fondazione di Asimov, a Un cantico per Leibowitz Miller, al Signore delle mosche di Golding. Si tratta di una lista di titoli rappresentativi, ma è bene precisare che le fonti sono ben più numerose ed eterogenee. Potrei citarne almeno un altro centinaio e forse anche qualche film, primo fra tutti L'uomo che visse nel futuro, un classico della fantascienza degli anni Sessanta.
D. La storia viene narrata dal punto di vista del giovane outsider Spas. Vuole presentarlo brevemente al pubblico italiano?
R. Spas è un orfano che cerca di ritagliarsi un ruolo all'interno del mondo oscuro e pericoloso in cui vive; un mondo dominato da bande armate che esercitano il loro potere - nei territori di competenza - in modo feroce e arbitrario. Spas è affetto da epilessia ed è questo il motivo alla base della sua emarginazione, della sua solitudine forzata. La storia giunge a un bivio quando Spas, per compiacere i Bulli Biechi, viene indotto a derubare il vecchio Tore. Tra i due nascerà una curiosa amicizia e insieme si lanceranno in una difficile missione, che li porterà in luoghi remoti oltre il Limite. Fino all'Eden.
D. Spas è epilettico. La sorellina Bean è una malata terminale. È stato difficile affrontare questioni così spinose - l'handicap, la solitudine, la malattia, la morte - in un libro di fantascienza per ragazzi?
R. Ho avuto diversi approcci con la malattia, benché non in prima persona. Ho sempre goduto di buona salute - mi ritengo fortunato - ma mi è capitato sovente di conoscere persone affette da disturbi terribili e invalidanti, dalla poliomelite a gravi forme di artrosi. Non c'è alcun dubbio sul fatto che la mia osservazione diretta di disagi e dolori abbia influito sul tipo di storie che racconto. Gli esseri umani nascono imperfetti e occorre rassegnarci a questo stato di cose, a dispetto di tutti i nostri sforzi tesi a determinare e distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Quanto alla solitudine, gli uomini sono essenzialmente creature sociali, ma tutti noi viviamo momenti di difficoltà e sperimentiamo prima o poi un senso di abbandono, di perdita e separazione.
D. Le sue storie sono destinate a un pubblico eterogeneo: ragazzi, adulti, appassionati di fantascienza. Quali sono i principali fruitori dei suoi libri?
R. A giudicare dalle lettere che ricevo, attribuirei senza esitazione la palma dei fan più irriducibili ai giovanissimi. Anche gli adulti mostrano però di gradire i miei romanzi.
D. Nel corso della sua carriera letteraria si è aggiudicato parecchi premi. Quanta importanza attribuisce a questo tipo di riconoscimenti?
R. Ne attribuisco tantissima a quei concorsi letterari in cui viene chiesto a giovani lettori di indicare quali sono i libri che hanno rappresentato qualcosa di importante nella loro vita. Quando vengono stilate classifiche di gradimento o assegnati premi in base a questi criteri, mi piazzo sempre piuttosto bene. È motivo di orgoglio sapere di aver lasciato un segno.
Intervista a cura di Marco Marangon
novembre 2006
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Come autodifendersi
“La prima cosa che dovete fare, è prendervi cura del vostro cervello. La seconda è tirarvi fuori dall’intero sistema di indottrinamento. Giungerà allora un momento in cui diventerà un riflesso naturale leggere la prima pagina del L.A. Times e riuscire a cogliere a colpo d’occhio le bugie e le distorsioni, un riflesso far rientrare tutto ciò entro una sorta di quadro razionale. Per arrivarci, dovete ancora riconoscere che lo Stato, le aziende, i media e così via vi considerano come nemici: il vostro compito è quindi imparare a difendervi. Se disponessimo di un autentico sistema educativo, esso includerebbe corsi di autodifesa intellettuale”. Questa breve citazione del più celebre linguista moderno, Noam Chomsky, apre l’introduzione a questo manuale utile all’esistenza della vita contemporanea. Ce ne sono anche altre come ad esempio questa di Poincarè: “Dubitare di tutto o credere a tutto sono due soluzioni altrettanto comode che, l’una come l’altra, ci dispensano dal riflettere”. Oppure ancora questa di Goya, famosa “Il sonno della ragione genera mostri”. Insomma un manuale di autodifesa per chi si ostina ancora a far funzionare il proprio cervello, e così intende continuare a fare ben sapendo che è destinato a soccombere.
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