Opinione scritta da Molly Bloom
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Oblomov in America
"Il mio nome è Timofej" disse Pnin (...). Seconda sillaba pronunciata come "uff", accento su ultima sillaba, ej, come in "sei", ma un po' più allungato. Timofej Pavlovic Pnin, che significa Timoteo figlio di Paolo. Il patronimico ha l'accento sulla prima sillaba e sul resto si glissa - Timofej Pahlc."
...ricorda qualcosa? Forse un famoso incipit? LO-LI-TA... Certo che sì, considerato che l'autore è lo stesso, Vladimir Nabokov. "Pnin" è il romanzo che pubblicò dopo "Lolita", a distanza di due anni, nel 1957.
Nabokov è decisamente tra i miei scrittori amati e dei quali ho l'intenzione di leggerne tutta l'opera, mi affascina, è un prestigiatore che ipnotizza e stupisce. Nei suoi libri non c'è mai una parola fuori posto o un dettaglio insignificante. Se viene introdotta nella scena una palla da calcio che Pnin vuole regalare a Victor, quella palla avrà una sua storia e ce la ritroveremo più avanti nella narrazione, è un maestro nel giocare con i dettagli che inserisce, come un giocoliere che ama stupire il suo pubblico. Stessa cosa fa con determinate situazioni: se all'inizio ci viene narrata una situazione che stuzzica la curiosità del lettore per sapere come andrà a finire, ma viene troncata senza svelare la conclusione, essa verrà poi ripresa verso la fine e riepilogato il risvolto.
Pnin è un goffo ma simpaticissimo professore che tiene un corso di lingua russa ad una università americana. Emigrato dalla Russia, la terra madre, in Europa e successivamente in America, Pnin sembra essere in un continuo pellegrinaggio senza mai trovare un posto dove deporre le radici. Cambia spesso la casa in affitto e quando si ha l'impressione di un certo desiderio di stabilità, il destino si dimostra avverso. Carico di elementi biografici, l'autore crea con Pnin un personaggio molto vivido, forte e che vive di vita propria nel romanzo creando anche un mondo pniniano intorno a lui con le sue abitudini, i suoi tic e le sue paranoie. In fin dei conti è tratteggiato con poche linee e ombre ma talmente incisive ed espressive che rimane impresso e prende vita nell'immaginazione del lettore:
"Mirabilmente calvo, abbronzato e rasato con cura, aveva un inizio piuttosto imponente, con la gran cupola brunita del cranio, gli occhiali cerchiati di tartaruga (che mascheravano un'infantile assenza di sopracciglia), il labbro superiore da primate, il collo solido e il torso muscoloso serrato in una giacca di tweed attillata, ma una fine un po' deludente, con due gambette sottili (al momento rivestite di flanella e accavallate) e due piedi dall'apparenza fragile, quasi femminei."
"la voce baritonale, lenta e monotona, che sembrava inerpicarsi su per le scale usate da chi ha paura degli ascensori."
Attraverso Pnin si penetra nel mondo accademico americano, che sarà il background del libro seppur non in maniera tale da sovrastare la sua storia personale, che, attraverso i ricordi, copre episodi della sua intera vita e non si focalizza solo sul presente. Questo sfondo assicurerà però la vena ironica e divertente, attraverso vari aneddoti che controbilanciano il dramma interiore del personaggio.
"Certe persone- e io sono di quelle- odiano il lieto fine. Ci sentiamo truffati. Il fallimento è la norma. Un destino funesto non dovrebbe incepparsi. La valanga che interrompe la sua avanzata a pochi metri dal villaggio rattrappito dalla paura si comporta in modo non soltanto innaturale, ma anche immorale."
Prevale il tema dell'adattamento a un nuovo stato e a una nuova cultura, con tutte le difficoltà del caso, dalla lingua al comportamento delle persone e le usanze locali, ma anche l'impossibilità di una fusione armoniosa per quanto desiderata, si rimane sempre stranieri in una terra non propria. Ovviamente questo è un aspetto biografico di Nabokov che nonostante si sia adattato meravigliosamente alla vita americana, di certo non gli sarà stato facile e il cuore sarà rimasto senz'altro in Russia". Tema molto caro a lui è anche il rovescio della psicanalisi, che non apprezzava molto, infatti li chiama nel libro "psicasinini" - "Non è nient'altro che una specie di microcosmo del comunismo - tutta quella psichiatria", non a caso i suoi personaggi psicanalisti sono anche le persone più squilibrate e superficiali. Tema altrettanto predominante è la letteratura russa, infatti le pagine pullulano di Tolstoj, Turgenev, Puskin, Dostoevskij, Cechov etc. sia attraverso aneddoti biografici sia attraverso aspetti critici verso le loro opere.
Non credo che sia il caso di aggiungere altro sullo stile di scrittura, i piccoli frammenti citati parlano da sé. Rimane armonioso, affascinante e venato di comicità, malinconia e cultura, pieno di metafore esplosive e di dettagli ben calibrati, una ricetta insomma in cui le dosi degli ingredienti sono perfettamente bilanciati. Riserva inoltre minuziosa attenzione ai nomi e alla loro composizione e metamorfosi.
La voce narrante è particolare, parte come narrazione onniscente in terza persona che poi si scopre man mano essere un amico di Pnin e che diventa personaggio nella parte finale del libro. Nei brevi incontri tra i due, però, Pnin sembra negare tale conoscenza- infatti anticipa lo stile di "Fuoco pallido", libro scritto subito dopo "Pnin": non sappiamo se è Pnin a non ricordarsi dell'amico o è l'amico/voce narrante a inventarsi le cose.
Un libro magico in cui Nabokov come al suo solito, incanta, gioca, fa vedere, nasconde, lascia intendere e avvolge nel mistero. I trucchi li sa solo lui, noi godiamoci lo spettacolo!
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Storia di un'ossessione
Avete presente il racconto "Morte di un impiegato" di Cechov? Ecco se vi capiterà di leggere "Kaddish.com" troverete in Larry (o Rab Shuli), lo sfortunato e ossesso impiegato. Per una cosa da nulla, pensate, uno starnuto! perseguita con insistenza una "Sua Altezza" per scusarsi di avergli bagnato/sputato involontariamente la testa calva con i droplet -passatemi il temine in auge- del proprio starnuto. Non contento dalle scuse accettate in fretta, con la brama russa di "spiegarsi meglio", l'impiegato finisce per assillare questa "Altezza" e mano a mano che le risposte diventano più scoccianti anche il suo impegno nel voler chiarire la cosa diventa sempre più ossessivo fino a causarli una morte di crepacuore. Per uno starnuto non esaustivamente spiegato e scusato dall'impiegato. Qui, abbiamo la stessa situazione paradossale che, più che kafkiana (nota presa dalla copertina) trovo sia per l'appunto, "cechoviana".
In "Kaddish.com" si ha la stessa situazione: Larry ragazzo trentenne e nonconformista, dovrebbe recitare il kaddish per l'anima di suo padre che viene a mancare, ossia una preghiera ebraica di lutto, più volte al giorno, per la durata di unici mesi, come primogenito maschio. Ma da ebreo non praticante non ci pensa minimamente a imbattersi in una tale impresa quindi delega un estraneo, sul sito Kaddish.com a farlo nel suo posto dietro pagamento. La situazione si complica e diventa paradossale quando, vent'anni dopo, Larry- ormai Rab Shuli fedele ebreo che vive una vita secondo tutte le regole e usi del caso, diametralmente cambiato, si rende conto dell'errore commesso e quindi cerca di rintracciare sul vecchio sito la persona che aveva pregato al posto suo, per riprendersi i propri diritti di primogenito per la sua serenità spirituale. E da qui parte l'aspetto "cechoviano" del libro: più cerca e più si inabissa nelle sabbie mobili, per una questione talmente da nulla, proprio come lo starnuto dell'impiegato. Certo, qualcuno dirà che non è proprio una cosetta da poco, per un fedele tenace rappresenta una cosa importante e sono d'accordo, ma il motivo perde in valore e importanza per via di tutte le trasgressioni morali e non solo, che Rab Shuli commette in questa sua ricerca. Fa cose ben peggiori per salvaguardare un ideale nel quale forse non crede nemmeno lui e che sta diventando solo un'ossessione compulsiva, fino a raggiungere un epilogo tragicomico nel finale, in cui la porta ad uno stato parossistico.
A mio parere l'autore è ancora acerbo, l'idea di base è carina ma il modo in cui è stata sviluppata non mi ha soddisfatto. Mi sono mancati i dettagli della sua evoluzione come personaggio principale: nella prima parte troviamo un Larry concupiscente e ateo per poi ritrovarlo nella seconda parte come Rab Shuli sposato con due figli e che segue scrupolosamente la sua fede ed è lontano da ogni mezzo elettronico senza dire molto sul perché di quella evoluzione o quanto meno con un minimo di introspezione. Con la stessa facilità lo ritroviamo nella terza parte smanettare sul PC e "sporcare" l'anima candida di un dodicenne che lo aiuta nella sua assurda ricerca. Nemmeno gli altri personaggi sono descritti meglio e domina anche una certa contraddizione per quanto li riguarda e se è stata voluta, non ha saputo però evidenziarla. I dettagli non sono ben curati, anche se su alcuni sì è impegnato di più a inserirli con un certo criterio e simmetria (vedi il numero delle anime servite su kaddish.com). La comicità è debole, la prosa non riesce a raggiungere l'ironia e la scioltezza necessaria a far scattare la risata come per esempio succede nel "Lamento di Portnoy"di Philip Roth, dove si ha a che fare sempre con un personaggio ebreo, giovane e ribelle come Larry, siamo lontani anni luce dalla prosa frizzante e brillante di Roth. Un'altra cosa che non mi è piaciuta è stata l'abbondanza di termini ebraici, troppi, tradotti nel glossario a fine libro e non a piè di pagina (questo però dipende dall'editore ovviamente ed è alquanto scomodo interrompere la lettura per andare a fine libro e cercare l'elenco alfabetico la parola). Volendo si può anche farne a meno perché non di rado vengono tradotte proprio nel testo e si può intuire ma altre volte no.
Per concludere, un libro curioso, molto "ebraico" sia per la terminologia utilizzata ma anche per le varie descrizioni, con una seconda parte decisamente più piacevole rispetto alla prima e anche con qualche spunto interessante sull'attualità, ma frutto di uno scrittore che, a mio avviso, ha ancora un po' di strada da fare.
"Per svelare i segreti della Torah occorre essere disciplinati. Occorre lavorare e pensare. Ma questo? Basta sapere come rivolgere la domanda, e tutto il sapere diventa pigramente tuo.(...)E qui in queste macchine si trova quella conoscenza esatta - perché i pubblicitari, i governi e quelli con buone e cattive intenzioni possono usarla come ritengono opportuno. E' tutto accessibile, necessità e sogni, peccati e segreti, tanto che Gavriel, battendo sulla tastiera, può scoprire dove si trova una persona in quell'istante, un'umile persona che non vuole farsi trovare."
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Non un libro ma una sfida letteraria
Credo sia stata la lettura più frustrante che abbia mai fatto. Tormentata, spesso difficile da seguire, non di rado incomprensibile, lenta e trascinata per più mesi ma nonostante questo che prosa, che pensieri, quanta cultura e quanto garbo! Per me questa non è una lettura ma un'esperienza, così come lo è stata Ulisse di Joyce o Infinite Jest di Wallace, e un'esperienza arricchisce sempre, lascia il solco oltre a farti provare delle forti emozioni. Perché se è vero che da un lato è stata una lettura sofferta dall'altro mi ha offerto delle forti emozioni come pochi autori sono riusciti. Queste emozioni sono state suscitate più dalla bellezza della prosa che dal contenuto in sè: un po' come il rimanere incantati davanti a un quadro che magari rappresenta una banale scena ma lascia ammagliati. La prosa è un ibrido tra la raffinatezza proustiana e il realismo magico caratteristico della letteratura latino-americana, è molto corposa,scende lenta, come lava da un vulcano lasciando il lettore spiazzato davanti a tanta potenza e fascino. Ma nemmeno i contenuti sono da meno, anzi, li ho trovati fin troppo complessi e non nego che in molti passaggi ho fatto delle vere e proprie cadute nel vuoto buio e mi dispiace non aver potuto seguire l'autore ma non ne faccio una colpa a lui, semmai sono le mie lacune a portarne il peso. José Lezama Lima spazia nei riferimenti culturali, artistici, storici, filosofici, spirituali e via dicendo in maniera talmente titanica, collegandoli e inserendoli negli argomenti trattati attraverso dei dialoghi altrettanto titanici, che qualsiasi lettore si troverà fuori dalla "confort zone", chi più chi meno. Prima parlavo di garbo: c'è molta eleganza nei dialoghi di questo libro che non sono mai "secchi" o "brevi", sembrano più monologhi, discorsi che i personaggi si fanno l'un l'altro davanti a un pulpito invisibile, carichi di arte oratoria e senza nessuna presunzione o competizione malsana, ma sono sempre complementari e costruttivi.
Nonostante sia letteratura cubana, ho trovato questo libro molto europeo, complici sicuramente i riferimenti letterari e filosofici per la maggioranza europei ma anche per via della somiglianza con lo stile narrativo di Proust, oltre che alla vasta similitudine di argomenti e personaggi, infatti per me Paradiso è la Recherche cubana. Lo annovero tra i libri "irraggiungibili" e quindi frustranti in qualche modo perché seppur letti, sfuggono. Ma il profumo rimane.
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Lasciate libero il mio pippino
Portnoy-oy-oy-oy-oy… ma finalmente ti conosco! Anzi, finalmente leggo la tua delirante e divertentissima e drammatica confessione.
Philp Roth è un autore che ho iniziato a leggere da poco, questa è la mia terza lettura ed è stata sicuramente quella decisiva che mi ha fatto apprezzare appieno il suo talento. Già “La macchia umana” mi aveva segnata in qualche modo e con il Lamento, P. Roth ha avuto la meglio su di me. Un libro a dir poco brillante, con uno stile frizzante e dei contenuti scabrosi è riuscito a tenermi viva l’attenzione per l’intera durata della lettura. So che è un libro scritto agli inizi della sua carriera e sicuramente più vivace e giovane rispetto al maturo “La macchia umana” ma non per questo più acerbo! La differenza sta, a mio avviso, nello stile. Ho apprezzato moltissimo la freschezza del linguaggio, l’ironia e l’autoironia che regna in ogni pagina, la velocità nell'esprimersi e nel narrare gli avvenimenti come se fosse una valanga ma anche i contenuti seppur altamente erotici da sfiorare quasi i scritti di Henry Miller. Però l'insieme non mi è mai risultato fastidioso o volgare o scandaloso etc, e ciò per via dell'utilizzo dell'ironia che trasforma tutte le scene in una delirante commedia pregna però di tante piccole verità.
Per un lettore più attento, però, c'è anche molta tristezza e dramma in queste pagine lamentose, perché come lo si indica già dal titolo, è un continuo lamento di Alex Portnoy, una esplosione vulcanica di tutti i suoi "rovelli", sin dall'infanzia e che determinano senza ombra di dubbio l'uomo di domani, e se Alex possiede oggi questa vita sfrenata all'insegna della concupiscenza e l'impossibilità di amare una donna e farsi una famiglia, non è tanto perché è un maniaco sessuale ma la ragione sta nel come è stato educato in famiglia. Infatti, gli esilaranti racconti erotici vanno a braccetto con i tormentati aneddoti della sua infanzia in cui i due "imbottigliatori di colpe", e soprattutto "Mammina", cercano di dare il loro meglio nell'allevare il figlio ebreo perfetto! Il troppo amore, la troppa attenzione, il prendersi cura di troppo, la troppa invadenza, nuoce altrettanto quanto la sua assenza e da qui l'aspetto drammatico del libro in cui spesso la risata viene intrecciata con il senso di claustrofobia.
Prima dicevo che non lo trovo un libro più acerbo rispetto agli altri ma solo più fresco come stile. Mi spiego: in questo libro le tematiche importanti ci sono ed esse vengono approfondite in modo soddisfacente solo che in modalità diversa: se in romanzi più tardivi lo fa attraverso passaggi diretti introspettivi che accompagnano la trama, qui invece sono gli eventi a gridare forte e chiaro il loro messaggio e riuscirci non credo che sia così scontato per uno scrittore. L'impronta dell'infanzia sull'adulto, i pregiudizi, l'uomo perfetto fuori ma con le sue macchie interiori, la reciproca scontrosità ebreo- non ebreo, la difficoltà di un rapporto sentimentale tra due persone che provengono da strati sociali e culturali molto diversi tra loro, il prendere coscienza della propria vita e di quello che si desidera, l'odio ma anche l'amore delle proprio radici, la necessità di allontanamento ma anche di ritrovo di queste radici che continuano sempre a richiamare in un sordo eco.
Roth ha dimostrato la sua bravura anche nella struttura: seppur delirante come prima impressione, e con discorsi acrobatici che ora prendono una strada e ora deviano per poi far ritorno, la forma dell'opera risulta molto solida, matematica e riesce con grande armonia a riprendere le redini del filone centrale dopo aver divagato un po' a destra e sinistra e immettersi sul binario centrale. Ora sono incuriosita più che mai di Roth e non voglio assolutamente farmi mancare "Il teatro di Sabbath" - che dovrebbe essere un "Lamento di Portnoy" maturo - e "Pastorale americana".
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Una Justine contemporanea
Joyce Carol Oates è una scrittrice di spicco nel panorama letterario americano, sia per la sua prolificità ma anche per la qualità della sua prosa. Questo romanzo è il secondo che leggo, dopo "Scomparsa" che mi era piaciuto molto, e le mie alte aspettative non sono state deluse. Caso vuole, sfortunatamente, che la sua uscita in Italia coincida con un periodo di intense proteste in America dovute all'uccisione di George Floyd e quindi la lettura di questo libro è stata ancor più sentita per quanto mi riguarda.
Cosi come in "Scomparsa", anche qui la protagonista è una ragazzina, Violet Rue, che rappresenta anche la voce narrante e che per buona parte del libro è quasi una Justine di De Sade. Una vittima della società, della sua famiglia, dell'ambiente che frequenta e infine del suo amante. Tutte le volte che sembra essere "al sicuro", il malvagio è dietro la porta. Allontanata dalla sua famiglia all'età di dodici anni, intraprende un percorso di sofferenze ma anche di crescita e quindi di nuove consapevolezze. Il romanzo è suddiviso in tre parti: nella prima viene descritta la situazione scatenante, la "deflagrazione della bomba", nella seconda le macerie e infine, nella terza, si cerca una ricostruzione di ciò che è rimasto.
Dopo un bellissimo incipit che presagisce il dramma, e che verrà poi ripreso nel finale con una struttura quindi circolare, Oates riesce a delineare perfettamente una società, una famiglia e infine un individuo. I temi trattati sono molti ma nonostante ciò non si ha mai l'impressione di "troppa carne sulla brace" perché si concatenano con armonia, come se fossero un "causa-effetto". La moglie sottomessa al marito, tradita e trascurata vista quasi come se fosse solo una fabbrica di figli nonché la serva della casa; la rigida educazione cattolica ma anche la sua ipocrisia che inevitabilmente spicca fuori; i pregiudizi dei bianchi verso le persone di colore o dei bianchi più ricchi di loro, per contro, i pregiudizi delle persone di colore dei confronti dei bianchi; gli abusi sessuali, l'amore che inizia a trasformarsi in odio, il disgusto e l'indifferenza verso la propria persona, l'autopunizione, il razzismo, l'utilità e i modi riformativi delle carceri; ma, nonostante tutto e tutti, il forte richiamo delle proprie radici.
I personaggi sono tutti ben delineati e dal carattere forte e determinato, come per esempio il padre di Violet, e se possiamo leggere soltanto la voce introspettiva di lei, attraverso i suoi occhi riusciamo a distinguere bene e a capire anche i personaggi circostanti. Con uno stile di scrittura fluido e accurato, carico di flash-black e di momenti di riflessione si rivela essere un romanzo corposo ma anche movimentato, con un colpo di scena finale che, se da un lato è inaspettato, dall'altro è un confronto atteso e temuto per l'intero romanzo.
Concludo con qualche frammento che mi è particolarmente piaciuto:
"Loro erano cattolici, i matrimoni duravano anche quando l'amore si consumava, si sfilacciava come un tessuto lavato mille volte dal quale le macchie non vanno più via. Finché morte non ci separi - cazzate come tutto ciò che riguarda la Chiesa eppure, lui e Lula stavano insieme. Ciò che li aveva tenuti insieme è stato il perdono di Lula. E ciò che permetteva a lei di perdonare era l'amore. Il punto debole della donna, l'amore a prescindere. L'amore senza dubbi. L'amore come ossigeno che aspireresti anche da una cannuccia sporca e rotta, per il quale ti metteresti in ginocchio nel fango, qualsiasi cosa pur di sopravvivere perché senza di lui non puoi vivere."
"Come sono silenziose le persone maltrattate. L'intimità del silenzio ti è naturale. Tu sai quanto possono essere aspre e abrasive le parole, per chi è ferito. Meglio restare in silenzio finché non verranno le parole giuste."
"Caldo precoce di maggio, un sole biancastro cade diritto sul mio viso, non ho ancora messo tende, veneziane. Fuori dalla finestra c'è un balcone, una ringhiera che proietta sbarre d'ombra contro i vetri, sul letto, sulla mia faccia mentre sono distesa a letto svegliata dal buffo cagnolino che vuole soltanto baciarmi."
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Pillole bernhardiane
"L'imitatore di voci" è una chicca per chi già conosce Thomas Bernhard, quindi avviso già i lettori a digiuno di Bernhard che non è assolutamente un testo con il quale iniziare la conoscenza, ma bisogna lasciarlo in coda più a lungo possibile: è come il vino, più invecchia e più e buono, più opere di Bernhard si sono lette prima e più diventa gustoso questo libricino di appena cento pagine.
I suoi lettori affezionati, lo conoscono come uno scrittore perfezionista dello stile, che crea moltissimi cerchi concentrici di ripetizioni e variazioni fino a dare le vertigini al povero lettore, si intestardisce su un concetto e va a battere chiodo sempre lì fin quasi allo sfinimento, nei suoi romanzi le trame sono scarne, i personaggi ancor di più, eppure riesce con grandissima arte narrativa a sollevare un polverone, il maggior delle volte polemico, e a far danzare le sue idee in un romanzo di decine e decine di pagine. Qui no. "L'imitatore di voci" è una raccolta di racconti-lampo, i più brevi di appena qualche riga, i più lunghi una pagina scarsa, ma in ognuno descrive quasi la trama di un romanzo compiuto. In questo libricino Bernhard mi ha dato l'impressione di voler giocare in modo simpatico con i suoi lettori in una specie di "dolcetto scherzetto", e contemporaneamente in modo polemico e ironico con la critica.
La voce narrante, comune a tutti i racconti, e che si definisce "un cronista giudiziario che non si stupisce più di niente", descrive vari fatti accaduti principalmente in Austria con uno stile di prosa povero, semplice e limitato ai fatti essenziali. Non fosse per le assurde trovate che soltanto lui potrebbe inventare, non avrei nemmeno sentito di leggere un Bernhard. Infatti la prosa e ridotta all'osso ma si fa ugualmente notare per ciò che descrive ed è proprio in questo che sta il bello del libro, superata la sorpresa dello stile. Situazioni assurde, macabre, per lo più tragicomiche, quasi tutte con una con una morale finale. Due sindaci di Pisa e Venezia che volevano all'oscuro di tutti scambiare la torre di Pisa con il campanile di San Marco e che vengono alla fine rinchiusi in manicomio- ovviamente quello di Pisa a Pisa e quello di Venezia a Venezia, un pompiere che mentre era in servizio e assieme ad altri suoi quattro colleghi tenevano teso un telo per un tizio che si voleva buttare dalla finestra tira via di forza il telo quando l'uomo si butta con il risultato di un suicida sfracellato a terra e quattro gravi feriti, un ascensore gremito di persone che cadde giù dal sesto piano, turisti inglesi che delusi dall'angosciante panorama austriaco buttano nel burrone la guida locale per poi suicidarsi uno alla volta, etc...insomma domina l'assurdo e la tragedia messa in scena da commedia. Vi voglio fare due esempi, due racconti (interi) estratti dal libro:
1. Hotel Waldhaus
"Eravamo stati sfortunati col tempo e anche con gli ospiti seduti con noi a tavola, che erano ripugnanti da ogni punto di vista. Ci hanno fatto passare perfino la voglia di Nietzsche. Anche quando, avendo perso la vita in un incidente con la loro automobile, erano ormai chiusi nelle bare esposte nella chiesa di Sils, noi non abbiamo smesso di odiarli."
2. Un autore caparbio
"Un autore il quale ha scritto un unico lavoro teatrale che non doveva essere messo in scena se non un'unica volta in quello che a suo giudizio era il miglior teatro del mondo e soltanto da colui che, sempre a suo giudizio, era il miglior regista del mondo e soltanto da quelli che, sempre a suo giudizio, erano i migliori attori del mondo, si era appostato, già prima che si alzasse il sipario per la première, nel punto della galleria più adatto alla bisogna ma assolutamente invisibile al pubblico, e aveva puntato la sua mitragliatrice, espressamente fabbricata a questo scopo della casa svizzera Vetterli, e dopo che si era alzato il sipario aveva sparato un colpo immancabilmente mortale in testa a quello spettatore che a suo giudizio rideva nel momento sbagliato. Alla fine della rappresentazione erano seduti in teatro soltanto spettatori da lui mitragliati e dunque spettatori morti. Durante tutta la rappresentazione gli attori e il direttore del teatro non si erano lasciati distrarre neanche per un istante da quel autore così caparbio e da ciò che era accaduto per causa sua."
Ora che avete inquadrato lo stile, chi ha letto qualcosa di Bernhard riconoscerà in questi racconti le sue idee riprese in altri romanzi, questi racconti sono delle allegorie dei suoi pensieri. Come per esempio nel primo racconto: Bernhard è dell'idea che la morte non deve condizionare il giudizio che abbiamo di una persona, se prima la odiavamo bisogna continuare a farlo e non santificarla in qualche modo. Così anche nel secondo racconto: spesso Bernhard è stato vittima di accanimenti critici velenosi per aver detto e scritto scomode verità, non potendo contare su nessun sostegno in patria ma ripudiato da tutti. Quindi è proprio per questo che lo consiglio ai lettori navigati nelle acque bernhardiane, solo loro possono apprezzarlo e rendergli onore.
PS: Ho dato 3 stelline allo stile solo perché volutamente dall'autore, risulta essere semplice e distaccato, rispetto al suo stile usuale.
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Siamo tutti ridicoli, vi ringrazio!
"non c'è nulla da lodare, nulla da condannare, nulla da denunciare, ma molto è ridicolo; tutto è ridicolo, se si pensa alla morte.(...) Lo Stato è un entità condannata al continuo fallimento, il popolo un'entità condannata all'incessante infamia e alla demenza. La vita è disperazione in cui trovano appoggio le filosofie, in cui tutto in ultima analisi è costretto alla pazzia. Noi siamo Austriaci, siamo apatici; siamo la vita intesa come ignobile disinteresse nei confronti della vita, siamo, nel processo naturale, la megalo-mania intesa come futuro.(...) Non occorre che ci vergogniamo, però noi siamo davvero niente e non meritiamo nient'altro che il caos. A mio nome e a nome degli altri premiati ringrazio questa giuria, ed espressamente tutti i convenuti."
...ecco questo è uno stralcio del breve discordo che Thomas Bernhard ha tenuto in occasione dell'assegnazione del Premio Nazionale Austriaco, da lui definito "il piccolo premio" perché "ormai qualsiasi coglione scrivente aveva ricevuto". Un affronto per lui quindi questo premio, accettato solo perché corrispondente a una somma di denaro e Bernhard era abbastanza materiale e pratico in questo campo. Risultato? A fine discorso il presidente della commissione esce dalla sala paonazzo in volto e sbattendo la porta subito seguito da tutte le altre persone. In sala rimane solo Bernhard e i suoi pochi amici. Non è un romanzo come potete dedurre, ma una serie dei racconti autobiografici che Bernhard fa sulle circostanze dei suoi premi vinti e in appendice i discorsi da lui tenuti in quelle occasioni. Quindi è un libro da leggere soprattutto se già si conosce questo autore, anche se resta una godibile lettura anche per un neofita perché la scrittura si rivela molto fruibile e divertente. Thomas Bernhard è stato chiamato a lungo uno "sporca-nido" nella sua patria ed è stato in conflitto con lo Stato e le istituzioni, nonché con i cittadini stessi e con questa lettura si ha la possibilità di conoscere meglio l'uomo Bernhard e non tanto lo scrittore Bernhard. Vi vengono descritti vari episodi reali della sua vita: come per esempio l'acquisto della sua storica casa in Alta Austria che ha deciso nel giro di mezz'ora in una giornata nebbioso e nella quale avrebbe dovuto vederne altre dieci ma si è subito fermato con decisione e fermezza alla prima, l'acquisto della sua prima automobile anch'essa deciso in pochi minuti e comprata con soldi liquidi provenienti da un premio letterario, una Triumph Herald bianca con interni in pelle rossa e cruscotto in legno, auto con la quale subì un incidente frontale dopo non molto tempo, il rapporto amore-odio che lo legò a Canetti. Piccoli aneddoti e racconti che delineano e confermano il carattere forte di Thomas Bernhard, uomo irremovibile nelle sue posizioni e sempre deciso, con idee ben chiare e lontano dai dubbi, che ama fare esperienze nuove e se deve dire o fare una cosa per lui "giusta", allora la fa, come per esempio rinunciare a scrivere dopo la pubblicazione di "Gelo", il suo primo romanzo, e andare a fare il camionista per le strade di Vienna a consegnare la birra! Si dimostra essere anche un uomo estremamente pratico e attento al denaro, lucido, parecchio permaloso e autoironico. Scritto tra 1980 e 1981, il manoscritto fu assegnato da Bernhard stesso al suo editore sei mesi prima di spegnersi, nel 1989, il libro uscì postumo.
Davvero un backstage interessante godibile e divertente per un bernhardiano che mostra quanto l'uomo Bernhard sia simile allo scrittore Bernhard, che non ha mezze misure. Si scopre anche che il suo pessimismo presente nei suoi scritti e che contraddistingue le sue idee non ha intaccato mai il suo animo al punto di sopraffarlo ma al contrario, lo ridicolizzava e lo manipolava a suo piacimento e ha saputo godersi la vita e trarre felicità da essa, trasformando il tragico in comico proprio come nelle sue opere. Uomo estremamente intelligente, curioso, amante delle belle conversazioni e dei viaggi. Oltre all'aspetto autobiografico sono grandiosi i suoi tre "discorsi", metto le virgolette perché si tratta di discorsi un po' atipici considerata l'occasione ma che dimostrano che tutto è permesso quando si ha qualcosa da dire. Da leggere! Concludo con uno stralcio del discorso tenuto a Brema:
"(...) Ci troviamo sul più agghiacciante terreno dell'intera Storia. Siamo spaventati, e precisamente: spaventati in quanto immane materiale della nuova umanità - e della nuova nozione della natura e della natura innovata; tutti insieme siamo stati nell'ultimo mezzo secolo nient'altro che un unico dolore; questo dolore, oggi, siamo noi; questo dolore è adesso il nostro stato mentale. Abbiamo sistemi del tutto nuovi, abbiamo una visione tutta nuova del mondo e una nuova, e in effetti quanto mai eccellente, visione di quel mondo che sta attorno al mondo, e abbiamo una morale affatto nuova e abbiamo scienze e arti affatto nuove. Siamo colti da vertigine e sentiamo freddo.(...) Siamo spaventati dalla chiarezza di cui all'improvviso è fatto per noi il nostro mondo, il nostro mondo di scienza; sentiamo freddo in questa chiarezza; ma questa chiarezza l'abbiamo voluta, l'abbiamo suscitata noi, non possiamo dunque lamentarci del freddo che ora impera. Con la chiarezza il freddo aumenta. Questa chiarezza e questo freddo d'ora in poi regneranno sovrani.(...) Tutto sarà chiaro, di una chiarezza sempre più alta e sempre più profonda, e tutto sarà freddo, di un freddo sempre più terribile. Avremmo in futuro l'impressione di una perpetua giornata, perennemente chiara e perennemente fredda. Vi ringrazio per l'attenzione. Vi ringrazio per l'onore che oggi mi avete tributato."
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Un bellissimo Condrad
Questo è il terzo libro di Conrad che leggo. Dopo "Cuore di tenebra" e "Il caso", "La linea d'ombra" è senza ombra di dubbio il mio preferito. Complice sicuramente il protagonista e la tematica: un giovane che sorpassa la sua linea l'ombra, bellissima metafora del passaggio di un uomo da adolescente a giovane adulto, attraverso una prova che il destino gli riserva. Quindi domina lo spirito battagliero ed entusiasta del nostro personaggio che sorretto da una forza provvidenziale riesce a sconfiggere le avversità portando la sua missione a buon fine. Un libro in cui il male viene sconfitto e che risulta necessario al cambiamento interiore del giovane capitano, è un male che avvia alla maturità e non ne definisce la fine, come nel cupo "Cuore di tenebra". Con un incipit che rapisce letteralmente, Conrad non ha mai cambiato velocità in questo breve romanzo, o forse è più corretto chiamarlo racconto lungo, il lettore viene completamente assorbito in questo mondo fatto di speranze, spirito di avventura, giovinezza, una lieve dose di mistero - che altro non è se non "il caso" con cui il destino mescola le carte e lui, il mare!, protagonista assoluto nei romanzi di Conrad. La prosa è di una raffinatezza assoluta: piena di profondità e di meravigliose descrizioni marine - notevole a questo riguardo la descrizione del temporale notturno in alto mare, l'acqua che diventa tenebra e viceversa.
"c'è qualcosa di commuovente in una nave che arriva in porto dal mare e ripiega le sue bianchi ali per riposare."
La lettura mi ha evocato molto "Moby Dick" non solo per le spettacolari immagini ma anche per la descrizione della vita di un marinaio, per l'amore che lo lega al mare e su come tutto sembri senza significato sulla terra ferma, spoglio di ogni grandezza. Le accomuna anche l'ossessione verso qualcosa di misterioso e la volontà di sconfiggerlo. Per quanto riguarda invece la malattia e la grinta imprevista che un evento nefasto porta con sé in modo quasi inspiegabile e come una risposta all'istinto di sopravvivenza, mi ha ricordato "La montagna incantata" di Mann, tutti e tre grandi capolavori dei primi del novecento.
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Romanzo avventuroso
Cormac McCarthy è uno scrittore che da tempo desideravo conoscere. E con la lettura di "Cavalli selvaggi" ho iniziato col piede sbagliato questa conoscenza. Dopo un incipit che mi ha subito conquistata e che reputo tra i più belli mai letti, è subentrata una continua mancanza di armonia che non di rado mi ha spinto ad andare in rete e cercare la trama per poter fare un po' di chiarezza perché molte cose passano tra le righe e altre ancora velocemente accennate e nemmeno con i dialoghi va meglio in quanto molto scarni e freddi e i personaggi risultano molto impenetrabili a mio avviso. Se per alcuni questo può essere simbolo di uno stile originale e ammirevole, personalmente mi ha rallentato la lettura e me l'ha resa monotona e noiosa perché vissuta quasi come un resoconto veloce dell'azione. Per contro, tale velocità è bilanciata ogni tanto da squarci descrittivi di considerevole bellezza e vivacità, come se fosse una fotografia ciò che si ha davanti e non la descrizione a parole di un paesaggio o situazione. Il libro dalle tinte western, parla di due ragazzi adolescenti che vanno via dalla loro terra e dalle loro case in cerca di fortuna, un romanzo di formazione in cui i protagonisti faranno fronte a varie sfide e la maggior parte di esse superano la loro età, sembrano quasi due Don Chisciotte di Cervantes, con la differenza però che l'autore sarà il loro angelo custode, anche perché ne avranno bisogno, poverini. Un'altra aspettativa delusa è quella relativa ai cavalli: mi aspettavo una descrizione più ampia dei cavalli e del rapporto che li lega ai loro cavalieri, aspettativa accentuata ancor di più dalla scena amletiana delle prime pagine, e invece no...qualche accenno qua e là ma non ciò che bramavo.
Riassumendo, riconosco in Cormac McCarthy una penna importante e sicuramente con uno stile proprio e originale, che però in questo libro a me non ha entusiasmato per le motivazioni sopra esposte. Lo vedo invece adatto per una lettura adolescenziale maschile. Tuttavia, le belle descrizioni ma anche alcuni passaggi profondi seppur descritti con semplicità, mi hanno convinto ad approfondire la sua opera e prossima volta mi butterò direttamente sul suo capolavoro "La strada".
Concludo con un meraviglioso estratto:
"Sulla superficie ricurva della terra buia e senza luce che sosteneva le sue figure e le innalzava contro il cielo stellato, i due giovani sembravano cavalcare non sotto ma in mezzo alle stelle, temerari e circospetti al contempo come ladri appena entrati in quel buio elettrico, come ladruncoli in un frutteto lucente, scarsamente protetti contro i freddo e i diecimila mondi da scegliere che avevano davanti a sé."
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Ricostruire il palazzo di Cnosso
Profondo, introspettivo e ben scritto. Riassumerei il libro in queste tre parole: profondo perché ha come tema centrale il complesso rapporto genitore-figlio, introspettivo perché rappresenta un percorso interiore a ritroso nel tempo attraverso stralci di memoria sui fatti e soprattutto sulle emozioni provate e su come il passare del tempo le ha cambiate, ben scritto perché oltre a una prosa arricchita di belle metafore e profonda essa è pregna anche di un bagaglio culturale non indifferente.
Dostoevskij, in "I fratelli Karamazov" sostiene che ognuno di noi è colpevole nel confronto degli altri, la colpa è la nostra ombra: non ce ne possiamo liberare mai. "I colpevoli" - meraviglioso titolo più che mai rappresentativo di questa opera - ha come personaggi due colpevoli: un padre e un figlio che dopo un periodo di silenzio durato trentasette anni, iniziano a costruire un rapporto padre-figlio che non hanno mai avuto. O meglio, il rapporto c'è sempre stato perché se le relazioni sono basate sulla presenza, nel bene o nel male, l'assenza associata al rancore rappresenta un rapporto ancor più forte. L'odio e l'amore hanno la stessa forza d'attrazione.
Si inizia quindi un percorso introspettivo del figlio che va a setacciare il passato scoprendo e analizzando colpe reciproche ma anche diritti di libertà, un percorso introspettivo sorretto anche dalla letteratura, infatti sono frequenti i riferimenti letterari come per esempio a Kafka e "Lettera al padre" oppure a Leopardi che invia una dura lettera a suo padre, persino la Bibbia viene chiamata in causa, in un bellissimo passo che personalmente ho molto apprezzato:
"A ogni modo la storia e la letteratura ci dicono che non c'è peccato peggiore del tradimento di un figlio nei confronti del padre. Eppure a me sembra peggiore il tradimento del padre nei confronti del figlio, mi sembra più interessante il silenzio di Dio nei confronti di Gesù che muore sulla croce. E se la storia e la letteratura non sostengono che il peccato peggiore è il tradimento di un padre nei confronti del figlio è solo perché la dottrina cattolica non ammette che Dio sia additato come il sommo traditore. Tutto ciò che siamo culturalmente deriva da questa incapacità di porre Dio sul banco degli imputati."
I riferimenti letterali e culturali sono numerosi come dicevo prima: ho avuto l'immenso piacere di imbattermi anche in Thomas Bernhard, autore tra l'altro rinnegato dal padre e sempre accusatorio verso i genitori nelle sue opere, viene citato Dante, Tolstoj e Kant, la "Pala di Brera" di Piero della Francesca ma anche alcuni musicisti che denota probabilmente la passione per la musica dell'autore, riferimenti sempre ben citati e correlati alla narrazione in modo armonioso.
Andrea Pomella si mette a nudo in questo libro dalle forti tinte autobiografiche, ma leggendolo si scopre che a nudo non è tanto il suo personale rapporto con il genitore quanto il rapporto universale tra genitore e figlio in questa delicata situazione in cui la famiglia si disfa e che per un figlio rappresenta un dramma, un peso da portare nel tempo e a volte anche una colpa ingiusta, soprattutto quando il padre diventa una perenne assenza. L'autore parte quindi da un fatto personale e lo allarga mano a mano nel libro dandogli il carattere di universalità, offrendo quindi al lettore la lente d'ingrandimento che permette di vedere ciò che magari sente ma non sa dargli voce.
"L'origine stessa della discordia deriva da questa insopportabile lontananza che corre tra mia madre e te. Non potevate essere un famiglia, generare figli capaci di tollerare il mondo in perfetto equilibrio fra le vostre due posizioni. Oggi me ne rendo conto più che mai. Il conflitto eterno entro cui mi dibatto deriva da questo. Tu ti sei preso un poco di vita, mia madre e io la vita l'abbiamo lasciata lì. E io, scrivendo, cerco di comprendere, o meglio di allontanarmi dalle scintille del vostro conflitto. Scrivendo, cerco di salvarmi, come un delfino imprigionato tra le chiglie di due navi in perpetua collisione."
E' anche un libro sul perdono in senso lato, moto ben illustrato e caratterizzato: il vero perdono è laddove si perdona l'imperdonabile, tutto il resto sono atti di pietà dettati dalla compassione. Un libro davvero prezioso per quanto mi riguarda e che aiuta ad allargare gli orizzonti, a vedere oltre, a comprendere, un libro attraverso il quale l'autore da voce a ciò che rimarrà muto nel nuovo rapporto padre-figlio, affinché "la vecchia vita non intacchi la nuova".
"Abbiamo attraversato molte età, abbiamo affrontato gioie e dolori, ciò che ora siamo è il risultato di questa distanza: tu e io siamo un cumulo di circostanze che non riusciremo mai a riepilogare, neppure se un dio benevolo ci concedesse altri trentasette anni da trascorrere insieme."
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Una storia di evasione
Letto in questo periodo di quarantena, è una storia carina e che mantiene vivo nel lettore il desiderio di sapere come andrà a finire. Complice anche uno stile abbastanza intrigante e comunque scorrevole, sì è rivelata per me una lettura di svago che mi ha portata in un nuova realtà. Non mancano i colpi di scena ma a uno sguardo più attendo risulta piuttosto inverosimile la situazione messa in scena e quindi i colpi attutiti. Ciò nonostante, se non si hanno grandi pretese ma se si desidera passare un po' di tempo in assoluta leggerezza e "sognare un po'" questo libro può essere un valido spunto.
La storia parla di un tradimento e delle conseguenze insolite e gravi che esso lascia dietro e che il destino decide di chiarire vent'anni dopo. Mi ha emozionata il finale.
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La grotta della disperazione
"Commetterò molti errori e imperfezioni. Evidentemente un libro voluminoso ha alcuni vantaggi. In un libro lungo uno scrittore deve dimostrare resistenza, una capacità di inventiva costante, deve avere un respiro largo e molta capacitò di affabulazione e, naturalmente, non è lo stesso concepire una casa o un grattacielo. molte volte è piu’ abitabile una casa, però per costruire un grattacielo devi essere molto bravo, visto che devi fare dei tracciati più complicati…" (Roberto Bolano in una intervista del 2000, relativa alla stesura di "2666")
"2666" è per l'appunto un grattacielo moderno, uno di quei libri-monumento, ai quali ci si approccia con impegno e dedizione ma anche con una certa dose di sacrificio perché seppur belli e intensi la strada del lettore non è sempre spianata e dovrà dare prova di una certa resistenza. E' una maratona e non un 300 metri e questo è bene averlo a mente prima di iniziarlo. Ma quale soddisfazione e ricchezza personale aver completato quei maledetti 40 km... Perché sono proprio maledette le pagine di Bolano, e lo si intuisce anche dal titolo, quelle ultime tre cifre "666" con un "2" davanti. Regna il mistero sul titolo, io però a lettura ultimata mi piace interpretarlo come un doppio inferno, proprio come il doppio orrore che descrive nella seconda parte di questo romanzo arcipelago. Un arcipelago costituito da cinque libri, apparentemente indipendenti ma che sono legati tra loro dagli eventi e da alcuni personaggi e che coprono una vasta area geografica. Dopo un inizio dall'impronta culturale e intellettuale in "Dalla parte di critici" man mano si va a inoltrarsi sempre di più nella selva oscura del romanzo che è costituita dal quarto e quinto libro, rispettivamente "La parte dei delitti" e "La parte di Arcimboldi", i due inferni di cui parlavo prima. Se negli altri libri si accenna a dei femminicidi a Santa Teresa, nel quarto libro invece si assisterà a una vera e propria rassegna di orrendi crimini nei confronti di donne giovani, dopo essere state brutalmente stuprate, l'orrore sta nel fatto che non si tratta di una finzione ma Bolano denuncia una tristissima realtà degli anni novanta: il femminicidio di Ciudad Juárez in Messico. Denuncia delle istituzioni corrotte dalle fasce, dove la polizia nella migliore delle ipotesi è indifferente e sbrigativa, nella peggiore è complice. Viene denunciata e resa colpevole in ogni omicidio narrato: sono poco meno di duecento, il che fa di questo quarto libro uno scoglio non indifferente da superare. Quasi duecento descrizioni di donne ammazzate e brutalmente abusate alle quali Bolano da un nome e una voce e l'attenzione che dalla polizia non hanno ricevuto ma che sono state invece "archiviate" con indagini inesistenti o approssimative o annoiate, annacquate da barzellette misogine e di cattivissimo gusto, da parte di poliziotti che sembrano non avere una madre o una sorella, un lavarsi continuo le mani, come Ponzio Pilato, e coscienze messe apposto per qualche sporadico assassino buttato in carcere, al quale si cerca di propinargli altri casi e liberare quindi le loro scrivanie. Ecco il primo 666.
Il quinto e ultimo libro del romanzo descrive la vita dello scrittore Benno von Arcimboldi, vita che i quattro critici letterari del primo libro cercano disperatamente di ricostruire e quindi in qualche modo si giunge a una sorta di "conclusione" del romanzo anche se si sa che i romanzi di così ampio respiro non hanno una conclusione e probabilmente non mirano nemmeno a quello. In questa parte ho ritrovato il secondo inferno: la seconda guerra mondiale e i crimini di guerra. Ci sono dei passaggi che personalmente ho faticato a leggere, come ad esempio la squadra dei bambini polacchi ubbriachi che i tedeschi ingaggiano per fucilare gli ebrei che loro non hanno più la forza di farlo.
Ma 2666 non è solo un libro sull'orrore, è anche un libro sulla letteratura, sulla formazione di uno scrittore e di un capolavoro letterario, è un libro in cui non c'è prevalentemente un personaggio o dei personaggi di spicco ma Bolano crea una miriade di personaggi e ognuno racconta la propria storia e ha un peso importante. Le storie raccontate sono davvero tante e questo rappresenta l'ossigeno per il lettore nell'andare avanti. Anche lo stile subisce le stesse trasformazioni e non è mai monocorde: ora corre veloce con frasi lunghissime e senza punteggiature, ora rallenta e diventa più descrittivo, altre volte è onirico, nel quarto libro invece spesso è sotto forma di cronaca nera -indagine poliziesca. La prosa si mantiene sempre limpida, forbita al punto giusto e nel momento giusto, con ampio utilizzo di riferimenti letterari tra scrittori, opere letterarie e persino personaggi (per esempio Tadzio) ma anche riferimenti come compositori classici oppure personaggi storici, filosofi e miti. Traspare una vastissima cultura in questo libro che ho trovato molto stimolante e appagante. Ho apprezzato inoltre l'abilità di Bolano a descrivere i vari ambienti geografici con relativi usi e costumi, una camaleonte che ora è messicano, ora americano, ora tedesco, ora rumeno, spagnolo, etc...davvero una penna abilissima che sa fermare e descrivere con l'inchiostro qualsiasi personaggio in qualsiasi luogo.
C'è un mondo racchiuso in questo libro e lo annovero sicuramente tra i grandi capolavori della letteratura che mi è capitato di leggere. Bolano dice in "2666" che la letteratura è una foresta in continua crescita, piena di alberi di ogni tipo, di erbacce, di ciuffi d'erba, ma anche di "grotte della disperazione", di fiori di rara bellezza e di maestosi alberi e nella quale le opere minori sono essenziali perché, "carne da cannone, valorosa fanteria", occultano i capolavori, li nascondono "dato che ripete, in vari modi, lo schema del capolavoro".
"Gesù è il capolavoro. I ladroni sono le opere minori. Perché sono lì? Non per mettere in risalto la crocifissione, come credono certe anime candide, ma per occultarla."
...e ne vale la pena di scendere, in questa "grotta della disperazione".
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Correggere l'incorreggibile
Che nessuno può cambiare lo sapevo già. Quando si fa un errore si promette di agire diversamente la prossima volta e spesso lo si fa anche, ma a volte è solo un'illusione, i tratti fondamentali di una persona rimangono sempre quelli e prima li accettiamo reciprocamente, meglio è. E nemmeno la parentela aiuta a mitigare la situazione, anzi, ne rappresenta spesso un fattore esponenziale alle distanze che la diversità caratteriale implica. Sono cose che le sappiamo un po' tutti, quindi "Le correzioni" non mi dicono nulla di nuovo sotto quest'aspetto, dato che parla fondamentalmente di legami interpersonali soprattutto all'interno della stessa famiglia. Ma è un libro che mi ha fatto vedere, che mi ha rapita nel suo mondo facendomi sentire parte della famiglia Lambert oppure i Lambert parte della mia famiglia. L'ho trovato abbastanza imperfetto come libro dal punto di vista della forma ma perfetto a livello emotivo in quanto mi ha letteralmente rapita con semplicità e ironia, e nonostante la mole è stato quindi molto scorrevole e leggerlo in questo periodo di quarantena è stato come bere un bicchiere di acqua fresca in una sera di calda estate.
Non bisogna aspettarsi tuffi di profondità o indagine psicologica perché non ci sono, la storia scorre in superficie, ma la trama fitta e dinamica sorretta da una prosa essenziale e ironica con personaggi ben delineati che man mano sembrano diventare sempre più "reali" per il lettore, fanno di questo un libro davvero una lettura godibile in cui magari capita di rispecchiarci in alcune scene oppure di intravedere dei nostri parenti, insomma la famiglia del Mulino Bianco è davvero rara e i Lambert certamente non lo sono, seppur mamma Enid faccia di tutto per esserlo:
"Ogni giorno si sforzava di ripulire la dizione, lisciare le maniere e sbiancare i principi dei bambini, e tutti i giorni affrontava un'altra pila di biancheria sporca e sgualcita."
Un libro quindi sulle imperfezioni, in cui scomode verità escono a galla, oltre che un bel ritratto dell'America degli anni passati in cui fare soldi era un gioco da ragazzi, bastava investire bene in azioni e il gioco era fatto, un periodo di alto consumismo e spreco che perdura tutt'oggi, e che anziché assicurare una certa felicità, paradossalmente, assicura solo depressione e problemi personali. In questo senso non posso non nominare Furore di Steinbeck: ho provato lo stesso piacere nel leggere quest'altro grande romanzo americano, un classico ormai, dove mi ha colpito moltissimo l'unione della famiglia, che in condizioni di estrema povertà e disperazione trovano consolazione nel stare insieme e nel sostenere l'un l'altra. Ricchezza dispersione e contrasti in "Le Correzioni" contro povertà, unità e amore in "Furore"... si vede evidentemente che i soldi non fanno la felicità.
Passando alle cose che non mi hanno convinta inizio dal dire che ho trovato molta carne sulla brace seppur Franzen riesce benissimo a non annoiarti, certe scene le ho viste inutili e noiose (come ad esempio la parentesi sulla Lituania), altre accennate ma non sviluppate a sufficienza (la storia del licenziamento di Chip e il guaio con Melissa) anche la struttura del romanzo suddiviso in cinque parti ognuna dedicata ad un personaggio non mi ha convinta, l'ho trovata "facile", anche se mi ha ricordato la struttura di 2666 di Bolano. Una nota negativa anche per il finale, considerato l'incipit angosciante e anche l'andamento del romanzo mi aspettavo un finale un po' più forte invece no. Anzi, a tratti mi è sembrato patetico, come ad esempio la scena del Natale in cui Gary, prima della partenza, vuole imporsi sulla famiglia e fare come dice lui- gli altri accettano ma peccato perché era una decisione e una presa di coscienza già avvenuta in precedenza tra Denise ed Enid. Pertanto il finale è stato più un rallentamento naturale della storia piuttosto che uno sprint inaspettato, della morale che "nessuno può cambiare", una volta formatosi il carattere, rimarrà quello. Più che correggere bisognerebbe venirsi incontro e accettarsi.
Per concludere un libro davvero incantevole e al quale perdono piccoli nei e che mi ha fatto una bella compagnia, leggerò sicuramente altro di Franzen.
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Del niente e altre storie
Un libricino che si legge velocemente, anche in un pomeriggio volendo, e che contiene sette racconti in cui la protagonista è una donna. Donne di facili costumi come Levia, altre dedite completamente alla famiglia come Catarina, mezze streghe che preparano pozioni velenose come Giovanna Bonanno, altre donne indipendenti come Francisca o intellettuali come Ignazia, artiste come Annarcangela e badesse animaliste, tutte storie vere di donne realmente esistite tra seicento e settecento e che l'autrice rielabora riportandole alla luce della memoria. Donne che a loro tempo sono state "sopra le righe" e in un modo o un altro, ci lasciano la pelle. Siamo anche nel periodo dell'Inquisizione quindi vuoi per accusa dello stato o semplicemente perché esistono in un periodo che non consente spazio allo sbocco della propria indole (come ad esempio nel caso di Ignazia), quasi tutte e sette trovano la loro fine o bruciate sul rogo oppure affogate nella propria depressione. Solo Francisca sembra salvarsi, "masculu fora e fimmina intra", donna di grande tenacia.
Con una citazione di Marguerite Yourcenar che da inizio ai giochi (grandissima scrittrice che mi ha subito riportato in mente la bellezza e la vividezza di "L'opera al nero" ambientata anche essa in un remoto passato) è stata per me una lettura non gradevole per vari motivi. Innanzitutto la dimensione: molto brevi, il che non è un difetto, ho letto racconti di Kafka ad esempio brevissimi ma di una intensità e poesia che stordisce. Certo nomino una eccellenza quindi non incolpo l'autrice di non riuscire a toccare certe vette, MA, considerando che queste storie sono realmente esistite e quindi prese da vecchi documenti, mi aspettavo che il lavoro di elaborazione fosse più impegnativo e quindi un po' più ampio, che valesse insomma la pena di ridare vita a questi personaggi. A me invece, in questi racconti molti dei quali davvero brevi eppure suddivisi in prefazioni, parti, mini capitoli, movimenti, postfazioni ed epiloghi, è sembrato che sia stato aggiunto ben poco. Per non parlare del fatto che in un racconto spesso viene descritta tutta la vita del personaggio nonché nominati alcuni eventi storici, come per esempio il terremoto in Sicilia del 1693, ma rapportando l'ampiezza del testo alla quantità di informazioni fornite, alla fine il risultato è un mero resoconto che non appaga e non lascia nulla al lettore. Avrei preferito la descrizione di un'ora significativa della vita dei personaggi (come ad esempio l'interrogazione di Francisca davanti al giudice con la descrizione dei luoghi e delle sensazioni provate) piuttosto che quella della loro intera vita, sorvolando quindi su tutto. Secondo la mia modesta opinione di lettore, il racconto è lo squarcio su una scena, la descrizione minuziosa un fatto curioso, un tuffo nell'intimo dei personaggi, altrimenti leggo un romanzo. Non ho riscontrato nulla di tutto ciò e nessun personaggio mi è rimasto impresso proprio perché non è stato personificato, inoltre per la scarsità di dettagli nemmeno nell'ambientazione sono riuscita a penetrare.
Oltre alla dimensione e alla struttura, neanche la prosa lascia il segno. Sicuramente l'impegno ci sarà stato perché un leggero sforzo l'ho avvertito tra le righe, ma non ho avuto la sensazione di una prosa fluida e armoniosa perché l'introduzione di termini datati, allora in uso, stonano con l'utilizzo di altri moderni, di oggi (tipo "pub" o "discoteche" ma poi le donne "sgravano" o usa termini come "Coriosità", "hominigno", "bresbigio"). La parola è molto elastica, in un testo si può mettere di tutto e l'ho visto fare in molti libri, ma secondo una ricetta, una logica, altrimenti l'insieme non è piacevole.
Infine la morale della storia, che è debole pure essa. Certo si parla di altri tempi e bisogna contestualizzare il tutto perché le situazioni presentate non sono più attuali. Ci unisce a quei tempi la forza delle donne e la volontà di combattere ma è debole come messaggio se unito a quello che ho descritto sopra.
Concludo con una nota positiva, una delle due frasi che mi sono piaciute nel libro e che ho sottolineato:
"La vita- ripeteva alle donne che maliziosamente gli chiedevano quando si sarebbe deciso- è bella solo se raccontata. Dentro le parole non c'è freddo, né carestia, né paura: Gli uomini possono soffrire senza dolore, mangiare senza pane, morire senza morte." (tratto dal racconto "Correva l'anno 1698...")
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Una commedia sull'arte
Uno spumeggiante Bernhard in questo suo penultimo libro, una tragicommedia sull'arte e sull'uomo, che come consueto nella prosa bernhardiana è costruita su contrasti, probabilmente perché per creare un intero, una visione completa delle cose bisogna unificare tutto, ma anche perché tutto è fondato su contraddizioni e la vita stessa è una serie di nonsense.
Tre personaggi dentro un museo: Reger - il personaggio principale, Alzbacher- confidente e portavoce di Reger nonché colui che racconta la storia e infine Irrsigler il portinaio del museo. Alzbacher osserva Reger che osserva "L'uomo dalla barba bianca" di Tintoretto e Irrsigler, che è il rappresentante della mediocrità, che osserva entrambi i rappresentanti degli eletti: Reger musicologo e in generale studioso dell'arte e Alzbacher scrittore e filosofo. In questo gioco di specchi si dipana l'azione e la trama del libro, che altro non è che un continuo palleggiare di idee contrastanti, fino ad arrivare a un autogol clamoroso e inaspettato nel finale. Arte o non arte, bravura o non bravura, morte o vita, perfezione o imperfezione, amore oppure odio, solitudine o comunità? Dove sta la verità e dove la salvezza? Dove cercarla? Di questo parla Antichi Maestri, con un tono estremamente frizzante, ironico, intelligente e provocatorio ma anche nostalgico e divertente. L'azione di Bernhard è sempre nel movimento delle sue idee, non sono i personaggi a interagire tra loro ma fondamentalmente il personaggio è uno solo e sono le idee a fare a pugni tra loro e a rapire il lettore nel loro vortice, di risucchiarlo con molta forza per la loro potenza ma anche bellezza. Leggere un libro di Bernhard è come rannicchiarsi comodamente in un angolo e mettersi ad ascoltare il soliloquio di una persona estremamente intelligente e ironica, senza mai diventare logorroica, e che diventa quasi un dialogo, dato che il discorso è pieno di contradizioni in cui si esamina diritto e rovescio delle cose. La lettura di Antichi maestri è un assistere a una sfilata di artisti e opere letterarie, molti di essi criticati duramente, pochi salvati e nel quale si cerca di demolire l'arte ma nello stesso tempo non si può non salvarla, per quanto sterile e vuota essa sia a confronto di ciò che davvero serva a un essere umano: ovvero un altro essere umano da amare e con il quale condividere la vita. Quest'ultima infatti è la gioia e la fortuna suprema nella vita. Bernhard sventola nelle sue opere sempre la misantropia e l'odio per gli umani per arrivare però sempre alla stessa conclusione: ci vuole amore per sopravvivere, da soli non ci si salva.
I temi presenti sono tipici di chi conosce Bernhard: in primis non spreca occasione per attaccare lo Stato e le sue istituzioni e la Chiesa, punti fermi e sui quali non ha mai opinioni contrastanti come le può avere per l'arte oppure per i sentimenti. Le sue accuse sono ferme e identiche e le sue posizioni al riguardo chiarissime. Sono accuse prevalentemente rivolte allo Stato austriaco ma spesso allargate a livello europeo se non mondiale e leggendolo non gli si può dar torto. E' sempre stato duramente criticato per questo suo imbrattamento della terra-madre ma lui ha risposto sempre con dosi ancor più rincarate di veleno e non è mai stato ipocrita ma fedele e coerente ai suoi pensieri.
Se dovessi esporre la trama di questo libro suonerebbe così: Reger, che da otre trent'anni osserva a giorni alterni, seduto su un panchina nel museo, il quadro di Tintoretto, da appuntamento ad Atzbacher per chiedergli una "perversa follia" che verrà divulgata solo nell'ultima pagina. Molto "movimentata" come trama no?...eppure, cosa non riesce a smuovere la sua penna?! La prosa è potente, musicale per via delle varie ripetizioni, e segue un ritmo accelerato dovuto alla sua esagerazione: parte sempre da un dettaglio per poi continuare a ingrandirlo fino a farlo diventare gigante per poi renderlo ridicolo e assurdo. Un po' come gonfiare un palloncino, man mano cresce e quando è al massimo delle sue capacità, si prende un ago e lo si buca: così fa Bernhard nei suoi lunghi periodi stilistici, e lo fa a mio parere anche con un intero libro: per esempio questo.
Un'altra cosa che mi piace nei suoi libri è la modalità di gestire la voce del narratore. Qui, come in altri suoi libri, si inizia con una narrazione in prima persona, è Alzbacher che narra ciò che sente e vede e soprattutto ciò che Reger gli ha narrato, ma nelle pagine finali l'io narrante cambia e diventa una terza persona, come se Bernhard intervenisse per accomiatarsi dai suoi personaggi, che altro non sono che suoi alter-ego: "divida con me il piacere di questa perversa follia, caro mio Atzbacher, disse Reger, scrive Atzbacher."
Mi sono divertita moltissimo in questa lettura e ho goduto appieno della modellazione della parola. Per me Bernhard rientra tra gli oratori che Settembrini di Mann elogia in "La montagna incantata": oltre a ciò che si dice bisogna usare l'arte anche nel modo in cui lo si dice, l'arte della parola è altrettanto importante quanto l'idea in sé. Le citazioni che ho segnato sono una moltitudine, ne ripesco una a caso per concludere:
"La mente dev'essere una mente che cerca, una mente che cerca gli errori dell'umanità, una mente che cerca il fallimento. Una mente diventa effettivamente una mente umana soltanto quando cerca gli errori dell'umanità. La mente umana non è mai veramente umana se non si mette alla ricerca degli errori dell'umanità, diceva Reger. Una buona mente è una mente che cerca gli errori dell'umanità e una mente straordinaria è una mente che trova questi errori dell'umanità, e una mente geniale richiama l'attenzione sugli errori che ha trovato, e con tutti i mezzi di cui dispone segnala questi errori."
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Il tormento di esistere
"La febbre frugava in fondo a me e di laggiù tirava fuori esperienze, immagini, fatti, di cui non avevo saputo nulla; giacevo là, sovraccarico di me, e aspettavo il momento in cui mi sarebbe stato comandato a rimettere di nuovo a posto tutto dentro di me, per bene, in ordine. Cominciavo ma tutto mi cresceva fra le mani, opponeva resistenza, era troppo. Allora mi prendeva la rabbia, e ammucchiavo tutto dentro di me e lo schiacciavo; ma non riuscivo a rinchiudermici sopra. E gridavo, semiaperto com'ero gridavo e gridavo."
Quale altro buon inizio a questo commento se non le parole di Rilke estratte da questo meraviglioso e difficile romanzo. Si intuisce l'oppressione, la sofferenza, la paura e la disperazione che impregna l'intera opera? Spero di sì, perché l'atmosfera è proprio questa durante tutta la lettura. Un romanzo senza trama, con una forma simile a quella di un diario, in cui il protagonista, Malte, in preda alla paura della morte, trova il suo sfogo nella scrittura ma essa prende il sopravvento e i ruoli si invertono ben presto: "Ma questa volta io sarò scritto. Io sono l'impressione che si trasformerà." La prosa diventa un magma rovente che si modella attraverso ricordi dell'infanzia e racconti surreali molto simbolici. La morte e le maschere dei volti fanno da padroni, quasi una ossessione per il narratore che da piccolo viene a contatto con entrambe. Con la prima, attraverso la morte prematura della madre e con le maschere attraverso un travestimento da carnevale mentre giocava da solo nelle stanze della sua casa in un pomeriggio: una scena fortissima, kafkiana, in cui il ragazzo Malte, provandosi addosso un travestimento, una volta guardatosi nello specchio, ha quasi una specie di metamorfosi e Malte perde la propria identità sentendo sempre più la forza del travestimento e nonostante i suoi sforzi per toglierselo di dosso non ci riesce, finendo per perdere i sensi. Questo accaduto è profetico per la moltitudine di maschere che i volti degli adulti saranno condannati a indossare nella vita e quindi a perdere a poco a poco, la propria identità: "Scopriamo, sì, che non sappiamo la parte , cerchiamo uno specchio, vorremmo struccarci ed eliminare il falso, ed essere veramente. Ma qua e là ci resta ancora attaccato un pezzo di travestimento, che dimentichiamo. Una traccia di esagerazione rimane nelle nostre sopracciglia , non notiamo che gli angoli della nostra bocca sono piegati. E andiamo in giro così, zimbelli e creature dimezzate né uomini veri, né attori."
Rilke nasce come poeta e questo fa sì che la prosa sia altamente poetica e piena di simboli, ogni frase manda echi di interpretazioni e alcune comunicano con altre più lontane nel libro, infatti le note del testo sono molto utili in questo, ma sono utili anche per capire alcuni personaggi: infatti ne fa un bellissimo elogio a Beethoven e Ibsen senza però mai nominare i loro nomi.
Un grido straziante questo libro, come il grido della morte che vi viene descritto, una ricerca della verità, dell'essenza dell'io in mezzo al marasma di maschere, una ricerca dell'identità ma anche una lunga osservazione del presente e del passato, un guardare di un uomo, Malte, che "sa" o che "inizia a sapere" qualcosa in più sulla vita: "L'ho già detto? Io imparo a vedere. Si. incomincio. Va ancora male. ma voglio mettere a profitto il mio tempo.". Tuttavia, la poesia della prosa e il suo contenuto metaforico, nonché il suo stile di esprimersi che trovo molto moderno per il tempo in cui il romanzo fu pubblicato - 1910 - rende la lettura molto godibile nonostante il contenuto cupo.
"La strada era troppo vuota, la sua vacuità si annoiava e mi tirava via il passo di sotto i piedi e se lo portava in giro sonante, qui e là, zoccolante. La donna si spaventò e si trasse su da sé, troppo in fretta, troppo di forza, così che il volto le rimase fra le mani. Potevo vederlo giacere in esse, la sua forma cava. Mi costò uno sforzo indescrivibile mantenere gli occhi su quelle mani e non guardare ciò che s'era strappato da esse. Provavo orrore a vedere dal di dentro un volto, ma ancor di più temevo levare gli occhi su una testa piagata a nudo, senza volto."
Chi ha letto e ha apprezzato Proust, Kafka, Pirandello e Pessoa, non può perdersi questo Rilke che richiude dentro tutta la loro essenza.
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Bene ma non benissimo
Questo è il secondo libro di Marai che un po' mi delude, dopo "L'Eredità di Estzer" e fondamentalmente per gli stessi motivi: lo trovo ripetitivo sia negli argomenti che nello stile. Mi sembra di aver letto una forma embrionale di "La donna giusta" nella prima parte e di "Le braci" nella seconda. Anche ne "L'Eredità di Estzer" trovai molto di "Le braci", suo capolavoro e che ho amato dall'inizio alla fine. Ma se un lettore comincia a conoscere Marai da questa sua opera, probabilmente correrà il rischio di annoiarsi con alcune delle sue opere antecedenti, cosa che a me sta appunto succedendo.
Libro molto armonioso, "Divorzio a Buda", scritto con la caratteristica prosa limpida ed elegante, nulla da dire ma nel complesso non mi è piaciuto perché non mi ha detto nulla di nuovo. La prima parte parla della vita borghese viennese che è ormai in declino e si ricordano le fortunate generazioni passate - cosa ripresa e studiata minuziosamente in "La donna giusta", la seconda invece diventa un faccia a faccia tra due uomini legati dalla stessa donna (donna che anche qui Marai fa fuori), e quindi il triangolo amoroso di "Le braci" non tarda a far capolino nella memoria del lettore. Stesso mistero e stessa tensione che mano a mano aumenta durante questo dialogo che spesso è in realtà un monologo, una confessione da parte dell'uomo ferito cioè del marito ingannato, sempre con i modi pacati e intelligenti, da gran signori. Ovviamente anche l'inganno, il tradimento, è nobile, sottile, psicologico e non fisico, tutto è fatto con classe nelle storie di Marai, non si sporca mai le mani con bassezze e tutto ha una sua dignità. Ma alla fine mi ha stancato. Nemmeno il finale mi è piaciuto molto. Credo che va benissimo per chi si approccia all'autore per le prime volte e ancor meglio per osservare i progressi che lui fa nelle sue opere precedenti per arrivare a quella forma e a quel contenuto perfetto che "Le braci" rappresenta, oppure per chi semplicemente ama la scrittura di Marai.
"Il tessuto dell'anima è ormai carbonizzato, nessuno sarà mai in grado di porvi rimedio."
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La pelle- la nuova bandiera da sventolare
"Non ha alcuna importanza" disse Jack "se quel che Malaparte racconta è vero, o falso. La questione da porsi è un'altra: se quel ch'egli fa è arte, o no."
Già, perché lo scrittore non è mai sincero e i suoi scritti sono sabbie mobili per chi cerca la verità dei fatti o ideologica: per chi cerca di capire chi era l'autore uomo e non l'autore artista, diventa invece terreno stabile per chi cerca la bellezza e la perfezione letteraria. Sotto questa lente ho letto "La pelle" e mi si è rivelata in tutto il suo splendore. Ambiguo il filo ideologico, molte cose che hanno stonato anche alle mie orecchie ma ingiustamente, perché mi focalizzavo su ciò che dovevo lasciare andare. Per fortuna ho raddrizzato la mia attenzione su ciò che davvero conta, perché ogni scrittore è figlio del suo tempo, spesso sporco dalla storia crudele.
Un'altalena continua questa lettura, sempre in bilico tra pietà e cinismo, solidarietà o accusa, fierezza e vergogna, vincitori e vinti, e che dipinge in maniera cupa ma nello stesso tempo allegra una città vinta, un paese vinto, un continente vinto. Napoli rappresenta lo stato d'animo e la situazione di tutta l'Europa, ha solo la (s)fortuna di essere tra le prime città "liberate". La libertà però è più forte dell'uomo che non la sa gestire, e infatti ne descrive lussuriosamente le conseguenza.
E' un libro in cui Dio manca, in cui ci si rifiuta di essere cristiani, in cui il Dio si cerca nella natura, nel Vesuvio, e Gesù lo si cerca tra coloro che sono morti nella guerra perché se non ce ne fossero allora tutto è stato inutile:
"Oh Jimmy, perché non vuoi capire che tutti quei morti sarebbero inutili, se non ci fosse un Cristo fra loro? perché non vuoi capire che vi son certamente migliaia e migliaia di Cristi, fra tutti quei morti? Lo sai anche tu che non è vero che Cristo ha salvato il mondo una volta per sempre. Cristo è morto per insegnarci che ognuno di noi può diventar Cristo, che ogni uomo può salvare il mondo col proprio sacrificio. Anche Cristo sarebbe morto inutilmente, se ogni uomo non potesse diventar Cristo e salvare il mondo."
Ci sono molti capitoli inquietanti. Alcuni per la miseria e la bassezza del popolo descritta, altri per le scene macabre e surreali, alcune delle quali si rivelano essere degli scherzi di cattivo gusto, altre delle messe in scena di tradizioni antiche, altre ancora di carattere misterioso ma nonostante questo, ho trovato la lettura agevole per via della preziosa prosa. I capitoli descrittivi sono delle perle vere e proprie in cui la ricchezza del vocabolario non diventa mai barocca, o fine a se stessa ma si intreccia a umanità con il risultato che resta impressa nel lettore:
"Il mare mi guardava fisso con i suoi grandi occhi imploranti, andando come una bestia ferita, ed io rabbrividii. Era la prima volta che il mare mi guardava in quel modo. Era la prima volta che io sentivo lo sguardo di quegli occhi verdi gravare su di me con una così pesante tristezza, con una tale angoscia, con un dolore così deserto. Mi guardava fisso, ansando, era proprio come una bestia ferita, aggrappata alla riva, ed io tremavo d'orrore e di pietà."
Impressionante il penultimo capitolo con la scena dei feti in laboratorio, un processo in cui viene accusato un feto mostro, che altro non è che Mussolini, e nel quale forse si legge un pizzico di dispiacere e desiderio di essere perdonato ma l'ambiguità domina anche questa scena e quindi difficile da interpretare ma bello e ingegnoso da leggere. Per me è un'opera d'arte e tanto basta per considerarlo uno dei romanzi migliori mai letti, soprattutto nel panorama italiano.
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L'uomo contro la natura
Il respiro dei classici, ampio, profondo, dettagliato e immortale, ripaga sempre. Era da un po' che non ne facevo ritorno seppur prima leggevo praticamente solo classici e snobbavo i contemporanei. Poi sono passata dall'altra sponda, allontanandomi dalle opere del 1950 in giù, figuriamoci da quelle ottocentesche come questa, però la mancanza si è fatta sentire ed eccomi qui con Victor Hugo, "I lavoratori del mare" pubblicato nel 1866.
Un classico! Poco noto o meglio, poco letto nel panorama letterario di Hugo, sono altre le opere che godono di maggio successo e fama ma non per questo meno bello o meno importante. Anzi. Di cosa parla questo libro? Già il titolo è significativo, si parla dell'uomo e della natura e quindi del rapporto tra i due, spesso una lotta. Ma si parla anche di amore e delle caratteristiche dell'uomo, nonché della geografia della Manica, della popolazione che abitano le isole e dei venti che in quel stretto agitano le acque. Come vedete, non ci si annoia. Andiamo per ordine.
Innanzitutto leggendo questo libro non ho potuto non ricordarmi di Moby Dick di Melville! Mi assumo la responsabilità di affermare che "I lavoratori del mare" rappresenta una sorta di "Moby Dick" europeo, tra l'altro scritto poco prima: la natura e in particolare il mare e gli scogli, l'uomo e il suo ardore e le sue ossessioni o passioni, la sfida che un singolo uomo lancia alla natura (Achab vs. Gilliat), la lotta di esso con la natura e con creature che ne fanno parte (lotta con la balena vs. lotta con la piovra), e dulcis in fondo l'epilogo di questa passione. Questo però è solo una struttura comune, uno scheletro a opera scomposta, l'insieme gode ovviamente della sua unicità e bellezza e si discosta dall'opera americana.
Scritto in seguito all'esilio dell'autore che ha dovuto passato un bel po' di anni sull'isola Guernsey, questo libro è una sorta di inno a quelle terre, un omaggio a quelle isolette della Manica e ai loro abitanti. Ma anche un inno dedicato alla natura in generale e la cosa che mi ha molto colpito è che già allora Hugo ha previsto il danno che l'uomo porta alla natura con l'avvio della prima rivoluzione industriale, che Hugo sottolinea molto accuratamente. Il primo battello a vapore, diavolo e fonte di guadagno e ottimizzazione: a partire da quei tempi la natura non ha più avuto tregua e se certe ipotesi a Hugo sembravano impossibili, oggi sono diventate quasi realtà e qui mi riferisco al cambiamento climatico. Attualissimo sotto quest'aspetto.
Poi abbiamo il fascino della natura, che Hugo la impersona: da padrona fa il Mare che colloquia, litiga, aiuta, diventa furiosa, ammonisce e compatisce l'uomo, Gilliat. Due forze che si scontrano, una per la sua stessa natura, l'altro per le sue passioni. Un uomo che compie un'azione impossibile eppure Hugo la rende verosimile attraverso i dettagli. Gilliat è il superuomo di Hugo, così come lo è stato Jean Valjean ne "I Miserabili". Gilliat lotta contro la natura, Jean Valjean contro la società, una più spietata dell'altra.
Infine c'è l'amore, la passione, che rappresenta il motore che mette in scena tutta questa faccenda. Dietro ogni grande impresa abbiamo l'amore e la passione e, soprattutto in Hugo, il sacrificio.
Sulla prosa c'è da dire poco: rassicurante, colta, intelligente e profonda, alcune volte pecca un po' per i troppi dettagli e per i sinonimi che Hugo usa per fissare un concetto ma nel compresso è ineccepibile. Grande lettura.
“L'uomo spaventa il mare: ma questo diffida di lui e gli nasconde ciò che è e ciò che fa. Tra gli scogli è tranquillo: L'uomo non ci arriverà. Il monologo dei flutti non sarà turbato. Il mare lavora intorno allo scoglio, ne ripara i guasti, ne aguzza le punte, lo fa irsuto, lo rimette a nuovo, lo conserva in buono stato. Intraprende il traforo della roccia, disgrega la pietra tenera, mette a nudo quella dura, toglie la carne, liscia le ossa, fruga, disecca, fora, buca, costruisce canali, fa comunicare tra loro i condotti, riempie di celle il granito, imita in grande la spugna, scava l'interno, scolpisce l'esterno. Esso si fabbrica, in questa montagna segreta, antri, santuari, palazzi. E vi possiede una strana vegetazione, insieme splendida e schifosa, composta d'erbe galleggianti che mordono e di mostri che si abbarbicano; tutta questa orrenda magnificenza esso tiene nascosta nell'ombra dell'acqua.”
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Per i vivi e per i morti, salvezza.
"Maria ho perso l'anima!
Aiutami Madonnina mia!"
E' questo il ritornello di questo libro, che è un canto che implora salvezza, dalla prima all'ultima pagina. Un canto in prosa, pervaso di poesia e di tanta umanità e pietà e che si propone di lanciare dei forti ma semplici messaggi soprattutto ai giovani. Daniele, il narratore di questa storia, rappresenta una grande fetta di adolescenti di oggi: a vent'anni è già depresso, con accessi di rabbia, che già da qualche anno fa uso di stupefacenti, incompreso dai genitori e in generale dalla società. A seguito di un episodio di una forte manifestazione della sua furia interiore, viene ricoverato in un istituto per un trattamento sanitario obbligatorio per una settimana. E' da lì che questo canto ci arriva e rappresenta la sostanza del libro: viviamo assieme a Daniele per sette giorni la sua esperienza, chiusi in una stanza assieme ad altri cinque pazienti che condividono un destino e fanno comunità, l'unica via della salvezza o quanto meno quella che li fa stare meglio e li aiuta ad aiutarsi, perché in fondo chi ha perso l'anima non sono i pazzi, ma i sani.
Innanzitutto ho visto una leggera critica dell'autore alla superficialità con la quale un adolescente viene subito catalogato come depresso, non appena lui si pone delle domande un po' più profonde come sul senso della vita o su Dio, ciò mette subito in allerta genitori e/o docenti e quindi di corsa dagli psicologi, aumentando in questo modo probabilmente il disagio del giovane. Oggi ci si aspetta che ogni adolescente sia felice per il semplice fatto che lui abbia vent'anni, ma ciò non basta. A vent'anni si è anche sensibili nonché abbastanza intelligenti per capire cose più profonde, soprattutto nella società di oggi in cui siamo avanti in tutto:
"(…) un ragazzo de vent'anni dovrebbe esse felice, tu invece vai avanti a tristezza, non sapemo più che fa' pe' lavattela de dosso.(…) Io vorrei vedette felice".(…)
"Ma io non so infelice, non se tratta de felicità, me sembra d'esse l'unico a rendese conto che semo tutti equilibristi, che da un momento a un altro uno smette de respira' e l'infilano dentro 'na bara, come niente fosse, che er tempo me sembra come n'insulto, a te, a papa', e me ce incazza. Ma io in certi momenti potrei accendere le lampadine co' tutta la felicità che c'ho dentro, veramente, nessuno sa che significa la felicità come lo so io." (pag.22)
"Ormai tutto è malattia, ma vi siete mai chiesti perché?(…) Perché un uomo che s'interroga sulla vita non è più un uomo produttivo, magari inizia a sospettare che l'ultimo paio di scarpe alla moda che tanto desidera non gli toglierà quel malessere, quell'insoddisfazione che lo scava da dentro. Un uomo che contempla i limii della propria esistenza non è malato, è semplicemente vivo." (pag.106)
Daniele ci porta per mano in un mondo fragile, ma non per questo meno umano, un mondo che è vittima non solo del proprio destino ma un po' anche dal sistema: corpo sanitario distaccato e freddo e a volte anche genitori colpevoli, come nel caso di Valentina o Gianluca. L'unica possibilità di sollievo in quel ambiente crudo è fare comunità, legare umanamente con gli altri pazienti, gli unici in grado di capirsi a vicenda e di poter discutere tra loro ciò che con i medici era impossibile.
So che questo libro è stato proposto per il premio Strega 2020, non so se vincerà ma l'ho trovato molto istruttivo oltre che ben scritto, pertanto spero che avrà una buona possibilità perché se lo merita .Deliziosa la parte dialettale con la quale vengono costruiti tutti i dialoghi e profonda e poetica la penna dell'autore che non a caso, prima ancora di essere uno scrittore è un poeta.
Un libro che consiglio soprattutto ai giovani ma anche agli adulti perché fa da ponte tra loro. Insegna di come sia importante nei nostri giorni social ma pieni di solitudine fare gruppo "fisico" e sostenersi a vicenda, parlandone. Insegna ad apprezzare la propria realtà che non è così atroce come si presenta e che probabilmente ci sono delle altre ancor più crudeli per cui ci si può ritenere fortunati. C'è un bellissimo episodio che insegna un'altra importantissima lezione: prestiamo attenzione a ogni nostro gesto e mai, dico mai fare del male per scherzo, anche innocentemente, perché le ripercussioni possono essere più gravi di quello che immaginiamo. Questo soprattutto per i giovani ma non solo. Un libro che a mio avviso rende più consapevoli sulla vita, scritto in modo impeccabile e con molti affondi di approfondimento sulle tematiche.
"Oggi so che non sono io a vedere grandi le cose, ma sono loro a esserlo, io mi limito a guardarle nella loro reale dimensione. Ogni singola giornata è costellata di azioni, visioni, degne di un'epopea straordinaria." (pag.167)
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Storie di legami
Questo libro mi ha lasciato molte perplessità, dovute al fatto che non l'ho trovato affatto caratterizzato dagli aggettivi che gli vengono addossati: "scrittura audace, delizioso umorismo, declinazioni dell'amore, saggio, astuto, etc", mi chiedo se ho letto lo stesso libro! Escluso questo dubbio e tenendo presente che c'è un'inevitabile dose di soggezione nell'interpretazione di qualsiasi cosa, libri inclusi, cercherò di esporre la mia di impressione.
Il libro parta di legami affettivi (o che si presumono tali), da quello coniugale a quello fraterno o genitoriale e si propone di approfondirli attraverso i personaggi e le varie situazioni che Elisabeth J. Howard crea.
Premesso che il libro è uscito nel 1969 e che l'autrice ha avuto un'infanzia traumatica oserei dire e una vita in seguito burrascosa, mi sarei aspettata da lei una profondità e saggezza maggiore rispetto a quello che ho incontrato in questo romanzo, pieno di cliché. Certo, qualche perla di saggezza si intravede qua e là e guadagna la fiducia del lettore, ma non possono, da sole, reggere a lungo l'intero romanzo.
"Elisabeth per parte sua scoprì in quel momento che si arriva presto a un punto in cui ogni cosa che si fa o si prova acquista un che di falso; ti sembra di abbracciare o accarezzare un albero anziché una persona; ogni cosa che dici sembra denunciare che non hai capito il problema oppure che non te ne importa."
I personaggi femminili presentano una debole personalità, spesso lasciandosi vittime delle circostanze o sfuggile passando dalla padella alla brace, i personaggi maschili invece, tranne due sui quali ho qualche riserva (Oliver e John) sono meschini, misogini e subdoli. Le situazioni invece che delineano la trama del libro le ho trovate in gran parte inverosimili e con alcuni cliché molto scivolosi, il che da un tocco di futilità e noia al tutto.
Anche la prosa non è delle più brillanti e la cosa che più mi ha lasciato in bianco sono stati i dialoghi mancati. Mi spiego: i dialoghi ci sono e in alcuni spunta fuori anche una leggera, ma molto leggera battuta di spirito, ma quando le cose sembrano prendere una piega interessante e profonda, il dialogo cessa facendo largo a una narrazione riassuntiva in terza persona che elenca gli argomenti (interessanti) successivamente trattati nel dialogo. Un po' una delusione, quasi come una pigrizia dell'autrice a impegnarsi nella costruzione del dialogo, oppure, brutto a dirlo, magari anche incompetenza. A questo punto meglio evitare di andare a toccare certi tasti se poi rimangono lì fini a sé stessi, noi lettori siamo piuttosto attenti ai dettagli. Oltre a questo sono rimasta un po' insoddisfatta anche da come le storie sono state riunite tra loro: mi è mancata una certa armonia e ho avuto l'impressione di leggere un libro abbastanza frammentato. Anche la sfumatura noir della parte finale la si capisce molto prima e l'effetto sorpresa finale viene un po' a scemare. C'è però una scena nelle ultime pagine che ho trovato grottesca e che nella sua "tragicità" diventa quasi comica.
I legami di questo libro sono per lo più legami tossici, sbagliati, se ne salvano solo due: il legame fraterno tra Oliver ed Elisabeth, che si dimostra tenero e costruttivo seppur ha le sue imperfezioni e quello del "vero amore" tra John ed Elisabeth (metto le virgolette a quest'ultimo perché lo considero inverosimile). Tutti gli altri sono legami malati in cui i personaggi si legano a persone chiaramente sbagliate nella speranza di sfuggire la loro condizione insoddisfacente, ma immancabilmente nessuno garantisce loro la salvezza e meno che mai una persona che già in partenza si dimostra inappropriata, così non si fa altro che appesantirsi ancor di più l'esistenza.
Nel complesso è un libro che si fa leggere ma non bisogna avere moltissime aspettative, intrattiene in maniera delicata e anche gradevole ma senza lasciare particolari impronte nel lettore, prevalentemente un libro dal tono triste.
--"Una soluzione provvisoria. E' questo che possiamo essere gli uni per gli altri." E siccome Elisabeth parve ricominciare a piangere, si corresse: "Questo non vale per le persone che si amano davvero."--
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To be or not to be...
Thomas Bernhard non è uno scrittore confortante. Non descrive paesaggi bucolici e nemmeno grandi sentimenti. I suoi sono degli antieroi apatici, malati, pieni di odio e possibilmente sull’oro della pazzia e che vivono immancabilmente in un contesto ambientale ostile. Ovviamente anche i titoli di questi scritti non possono essere diversi. Questo che mi accingo a presentare si intitola “Cemento” e già qui l’impatto è duro. Trasmette freddo, durezza, solitudine, loculo. Ed effettivamente le troveremo tutte dentro.
Il personaggio principale e voce narrante, Rudolf, attende con trepidazione la partenza della sorella venuta da lui in visita, per poter iniziare il suo lavoro intellettuale, ormai in gestazione da dieci anni: un saggio sul compositore Mendelssohn Bartholdy sul quale ha accumulato nel tempo una infinita serie di documentazioni. Ora, rimasto solo, alla sua scrivania e con il vergine e candido foglio di carta davanti, la prima frase incipit del lavoro stenta ad arrivare. La sua concentrazione scivola su altri pensieri, soprattutto su quelli riguardanti la sorella, che aveva destabilizzato la sua routine, dandole la colpa di questo suo blocco letterario. Cambia posto e inizia a passeggiare per la casa, da una stanza all’altra e da una poltrona all’altra e nel suo peregrinare come uno fantasma in una casa abbandonata, ripercorrerà in un maestoso soliloquio tutte le sue paure, delusioni, esperienze, criticherà come suo solito tutti e tutto compreso sé stesso.
In Bernhard però, nonostante prevalga la cupezza come anticipato, il tono della narrazione non è mai monocorde, infatti, nonostante il titolo duro “Cemento”, il personaggio si dimostra invece molto fragile e desideroso di vita. Rispetto ad altri scritti di Bernhard in cui l’amore viene espresso generalmente solo verso la sua terra natia, qui sembra far capolino un amore universale verso l’umanità. Ho scoperto in questo libro dal titolo più che significativo un Bernhard che esce fuori dal suo guscio, dimostrandosi in tutte le sue debolezze e incertezze. Dico Bernhard e non Rudolf perché il libro è carico di elementi autobiografici così come la maggior parte dei suoi romanzi. Il personaggio di questo libro si ritrova a fare i conti con una solitudine che ha cercato e che si è costruito per tutta la vita, ma della quale inizia ad avvertire la freddezza delle sue pareti che gli si stringono intorno creando una sorta di loculo. Inaspettatamente, vuole uscirne, vuole riprendere a vivere e a viaggiare, e a scrivere, vuole salvarsi, cosa insolita in Bernhard. Addirittura la narrazione si apre all’esterno con la descrizione del viaggio a Palma di Maiorca che Rudolf intraprende e con l’inserimento di altri personaggi. Tendenzialmente l’autore punta su un unico personaggio in un ambiente stagnante che racconta di sé e della sua famiglia senza altre storie personali. Invece qui c’è un cambio di rotta, il personaggio cerca di salvarsi intraprendendo questo viaggio ma dovrà far fronte con un caro conto da saldare.
Quando questo libro è uscito per la prima volta nel 1982, la critica lo ha accolto con titoli diffamatori, perché tutti i suoi libri contengono immancabilmente critiche rivolte anche alla società e ai politici di allora, verso i quali non usa mezzi termini, anzi, in “Cemento” l’ho trovato ancor più diretto:
“Dover leggere quotidianamente i giornali e la loro spazzatura di politica locale, la loro stupida porcheria economico-politico-culturale. Non essere capace di sottrarmi a questi giornali e alle loro vomitevoli creazioni, perché d’altra parte sono costretto a divorare quotidianamente questa merda giornalistica con tanta frenesia proprio come se soffrissi di una perversa voracità gazzettistica. Soprattutto, sebbene ne abbia la volontà, realmente volontà di sopravvivenza, non essere capace di sottrarmi a questa voracità nei loro riguardi, a tutti questi perversi racconti dell’orrore da Ballhausplatz, dove un cancelliere che è diventato un pericolo pubblico impartisce ordini ai suoi ministri del cazzo altrettanto pericolosi. A tutti questi bollettini parlamentari da far rizzare i cappelli che mi assordano quotidianamente e insultano il mio intelletto e sono impacchettati nell’ipocrisia cristiana.”
Un Bernhard che demolisce in ogni suo scritto l’immagine paradisiaca dell’Austria, e ogni volta la critica lo dilaniava, c’è sempre stata ascia da guerra tra loro, che annebbiati dalla questione politica del contenuto non prestavano e non rendevano onore a tutta la parte restante in cui l'autore scavava nel profondo dell’animo umano e che rimane l’aspetto più incisivo e principale della sua opera:
“Vediamo il declino dove ci aspettiamo l’ascesa, vediamo la disperazione dove nutriamo la speranza, questo è il nostro errore, la nostra sventura. Pretendiamo sempre tutto là dove è naturale ci sia ben poco da pretendere, e questo ci deprime. Vogliamo vedere l’uomo sulla vetta e quello già fallisce nella bassure, vogliamo realmente ottenere tutto e realmente non otteniamo niente. E naturalmente poniamo a noi stessi le richieste massime e ultramassime, trascurando del tutto la natura umana che per queste massime e ultramassime proprio non è tagliata. Lo spirito universale sopravvaluta per così dire quello umano. Noi falliamo sempre anche perché abbiamo posto la misura troppo di qualche centinaio di percentuali più alta rispetto a quanto ci si addice. E vediamo, se vediamo, ovunque e in qualsiasi direzione volgiamo lo sguardo, solo dei falliti che hanno posto la misura troppo in alto.”
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Declino
Sandor Marai è un grandissimo signore nei suoi romanzi. “La donna giusta” credo che sia il mio libro preferito di Marai per quanto riguarda la descrizione ambientale e storica. Quattro monologhi scritti in un ampio arco temporale, di quattro persone che si sono amate e che hanno cambiato l’uno la vita dell’altra. C’è un primo piano di lettura sull’argomento dell’amore, del matrimonio, della passione, tema molto caro a Marai e ben sviscerata con la sua innata eleganza e profondità di pensiero. E poi c’è il contesto storico e sociale che intreccia armoniosamente a quanto detto prima e rappresenta l’aspetto che più mi è piaciuto. E’ la descrizione del declino della classe borghese “vera”, che è ricca a prescindere dai soldi e che mantiene viva la fiamma della cultura pura e dell’arte. Ho trovato la voce di Marai (attraverso i personaggi di Peter e Lazar) molto malinconica e dispiaciuta nel descrivere questo tramonto per far poi spazio all’alba di nuove forme di “false” borghesie ritte soltanto sui soldi, gente grezza che crede di poter comprare tutto, o quasi. Non possono comprare quell’innata signorilità e cultura del vero borghese che al tempo stesso era anche un custode di questo modo di vivere.
La prosa è molto profonda e da luogo a molte riflessioni, forse l’unico difetto che gli posso trovare è la ripetitività, certe idee vengono spesso riprese, fatto che unito all’assenza della trama e a questo duopolio tematico può rendere la lettura un po’ più lenta nella seconda parte. Nonostante questo, resta il mio preferito.
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Storia di un vagabondo
Prima di tutto questo è un romanzo russo. E non perché sia stato scritto in russo originariamente, ma perché trasuda di amore e nostalgia per la Russia. Di impronta autobiografica, il romanzo narra la giovinezza e la formazione di Martin, ragazzo di lontane origini svizzere, nato e cresciuto in una colta e benestante famiglia russa ma che, per via della rivoluzione bolscevica dovrà abbandonare la patria per salvaguardarsi, iniziando così un lungo viaggio che il finale dimostrerà essere concentrico.
"Durante il fastoso autunno svizzero per la prima volta capì chiaramente di essere, alla fin fine, un esule, condannato a vivere lontano dalla patria."
E' un romanzo fortemente descrittivo in cui i riflettori puntano più l'esterno, l'ambiente e le vicissitudini storiche e si concentra meno sull'indagine psicologica dei personaggi però la maestria di Nabokov sta nel riuscire comunque a farla emergere indirettamente, attraverso questa espressività che non diventa mai logorroica ma rimane sempre equilibrata e soprattutto metaforica:
"Il compito era arduo: trovare un'armonia tra erudizione e prosa stringata ma espressiva, per offrire il ritratto perfetto di un millennio orbicolare."
C'è molta grazia in questo libro, che sa di fresco e di fanciullezza, di prime speranze, il primo amore, il primo lavoro e la voglia di realizzare concretamente le proprie fantasie! Martin ne ha tante di fantasie e costruirà il suo carattere, coraggio e determinatezza fino a prendere una decisione folle per alcuni, sentimentale e malinconica per altri, ma sicuramente indispensabile per il protagonista. Decisione che viene già anticipata all'inizio del libro, in una bellissima fantasia in cui Martin penetra dentro il quadro della sua cameretta, raffigurante un sentiero che si perde dentro un fitto bosco. Quindi, anche la struttura del libro rimane particolare con molte dicotomie.
"Si diceva che la Russia fosse l'unica cosa al mondo che quell'inglese amasse. Molti non capivano perché non vi fosse rimasto. La risposta che Moon invariabilmente dava a domande del genere era: "Chiedete a Robertson" (l'orientalista) "perché non è rimasto a Bibilonia". A chi obiettava, con assoluta ragionevolezza che Babilonia non esisteva più, lui replicava annuendo con un muto sorriso sornione. Riteneva che l'insurrezione bolscevica rappresentasse un taglio netto. Pur essendo disposto a concedere che, un po' alla volta dopo le fasi iniziali di barbarie, nell'"Unione Sovietica" si sarebbe potuta sviluppare una forma di civiltà, sosteneva tuttavia che la "Russia" era conclusa e irripetibile, che la si poteva sollevare fra le braccia come una splendida anfora per metterla sotto vetro."
Leggendo questo libro mi è venuto in mente Hans Castorp e il fragile Marcel, sicuramente Martin avrebbe legato parecchio con questi altri due personaggi.
Ps: non do il massimo dei voti solo perché rispetto ai suoi altri capolavori si sente una sfumatura creativa leggermente acerba, che presto verrà maturata.
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Libro dalla serie Doccia Fredda
E’ successa una cosa strana con “Serotonina”, non mi è piaciuto per nove decimi del libro, mi ha annoiata, l’ho trovato poco armonioso e molto politico, ma poi arriva alle pagine finali e mi stende al tappetto. Recupera con una scarica unica e potentissima tutto ciò che prima mi è mancato e ti lascia, come lettore, esausto e senza forze. Se la prima parte era un po’ divertente, man mano che si va avanti rimane solo il cinismo e la tristezza, una profonda tristezza dovuta a una impossibilità di reagire davanti ad un male di vivere creato soprattutto dalla società sempre più omologatrice. Il tema della depressione è molto ben sviluppata e a mio parere è l’aspetto che più scuote nel libro, solo con David Foster Wallace in “infinite Jest” ho provato un così forte coinvolgimento del lettore nello stato del protagonista.
Dostoevskij dice che “la bellezza salverà il mondo”. Houellebecq invece non se ne fa niente della bellezza intesa come arte, cultura, intelligenza o semplicemente il culto della bellezza astratta, per lui è solo l’amore ad avere una possibilità a salvarci. Possibilità che è una su mille perché la società odierna con i suoi meccanismi, l’allontana sempre più.
Bellissimo finale con il duello ideologico tra Proust e Thomas Mann, i due scrittori che più mi hanno arricchita. Grande autore Houellebecq che in questo libro sembra aver giocato a carte con me in modo molto astuto: quando pensavo di aver la vittoria in mano e lo avevo ormai quasi bocciato ecco che tira fuori tutte le carte vincenti e chiude in vittoria.
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Io sono Zeno
Penso che tutti noi siamo un po' Zeno dentro, c'è chi più e c'è chi meno. Abbiamo debolezze, dipendenze da vizi, desiderio di rincuorare la nostra coscienza modificando magari la realtà (che è sempre modificata dal nostro filtro e non corrisponde mai a quella oggettiva), siamo gelosi, competitivi, indifferenti ed egoisti, abbiamo bisogno d'amore e di considerazione, tradiamo a volte la fiducia dei nostri cari. Ma perché guardare solo i lati negativi?! Zeno in fondo è stato anche il migliore uomo della casa Malfenti, un ottimo marito, nonostante tutto e un buon amico per Guido.
Ho trovato Zeno un uomo di potentissime capacità, ma con una bassa autostima, magari acquisita nella sua infanzia con un padre non molto esemplare. E questa mancanza di autostima porta al suo disagio psicologico e necessità sempre al suo fianco di una figura più sana e forte, che possa rappresentare per lui un esempio e possa quindi migliorare... Questa è un'altra lezione che si impara: nessuno cambia per mano di terze persone, ma solo per mano propria, infatti, cambia prospettiva solo in seguito alle sue convinzioni ed esperienze. Viene colpito dalla guerra e capisce la futilità dei mali quotidiani di fronte al male più grande che per lui è la vita stessa, malattia che porta sempre alla morte.
Mi è piaciuto molto anche il personaggio di Carla. Fanciulla fragile e onesta, che desiderava solo un po' d'amore e una vita tranquilla, e fortunatamente l'ha avuta, e questo per merito del suo mite carattere, deciso e fermo e soprattutto onesto.
Il messaggio finale che ho colto è che solo verso la fine della vita capisci veramente cosa essa sia e spesso si vive da “sani malati”. Inoltre, dov'è la linea che separa la realtà dal sogno, la verità dalla menzogna, il bene dal male? Queste categorie sono così vicine tra loro che si fatica a distinguerle e non di rado capita di confonderle. Un grande e potente romanzo italiano che mi rimarrà nel cuore.
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"Non eravamo cani rabbiosi prima di..."
Romanzo potentissimo, a partire dal titolo, che racconta la guerra coloniale portoghese in Angola sotto il regime di Salazar. Ma è una definizione marginale perché racchiude dentro soprattutto la fragile esistenza dell'uomo e l'impatto forte che una guerra ha sui combattenti ma anche sui civili. Ogni guerra lascia mutilazioni non solo fisiche, quelle sono il minimo, ciò che pesa ancor di più è la mutilazione psicologica, i traumi che ogni soldato si porta dietro.
Antonio Lobo Antunes, medico di professione e inviato in Angola nella guerra, è un testimone diretto degli orrori descritti, guerra voluta e dettata dal regime salazarista che l'autore critica senza mezzi termini. In rare occasioni mi è capitato sottomano un testo di così nuda e cruda disperazione, un urlo, un grido rivolto al mondo, con la speranza che esso possa comprendere ciò che lui ha vissuto, una denuncia piena di rancore che cerca motivazioni ma non ne trova se non nell'incoscienza degli invasati che l'unica cosa che puntano e sanno puntare è il dito.
Ciò che lo rende però un grande libro e che maggiormente stupisce il lettore è lo stile! Antonio Lobo crea delle immagini innovative facendo utilizzo di metafore fuori dall'uso comune, parole che prese singolarmente non dicono nulla e non sono letterarie ma lui le mette assieme creando metafore insolite di rara bellezza e originalità. Il libro è tempestato di queste immagini alternative che esprimono con grande potenza ciò che l'autore vuole trasmettere:
"Chissà se non concluderemo la notte facendo l'amore, io e lei , furibondi come rinoceronti col mal di denti, fino a che il mattino non venga a rischiarare lividamente le lenzuola sfatte dalle nostre cornate disperate? I vicino del piano di sotto penseranno stupiti che ho portato a casa due pachidermi che si divorano a vicenda in un concerto di grida di odio e di parto, e chissà se una tale novità non sveglierà in loro umori da molto tempo assopiti, e non lì porterà ad agganciarsi come i pezzi di quei puzzle giapponesi impossibili da separare senza l'infinita pazienza di un chirurgo o il coltello sbrigativo di un castratore."
"fumavamo senza parlare, poiché ci pareva che le parole fossero inutili come una barca in città, come un acquario in mare, come una finzione di orgasmo durante l'orgasmo"
"un'altra mezza bottiglia e crederemo di essere Vermeer, capaci come lui di tradurre attraverso la semplicità domestica di un gesto, la toccante e inesprimibile amarezza della nostra condizione."
"A quell'ora, nella mia città castrata dalla polizia e dalla censura, la gente si coagulava per il freddo alle fermate degli autobus, soffiando dalla bocca il vapore in palloncini con le didascalie di un fumetto che il Governo proibiva."
.....non so voi, ma personalmente sono rimasta sbalordita da questi affreschi "verbali" e tutto il libro va avanti in questo modo, leggendolo è come visitare Roma: a ogni angolo che giri e in ogni pagina e paragrafo trovi una meraviglia e ti fermi a guardare, a rileggere e a ammirarne la bellezza.
La forma del romanzo si presenta come un lungo monologo-confessione che l'io narrante fa in un bar di Lisbona davanti a una donna sconosciuta mentre bevono un bicchierino di whisky. L'alcool sembra quasi che faccia da carburante per poter mandare avanti il discorso, per trovare magari il coraggio di dare voce al passato:
"A ogni ferito da imboscata o da mina mi occorreva la stessa afflitta domanda, a me, figlio della Gioventù Salazarista e dei giornali "Novidas" e "Debate", nipote di catechiste e intimo della Sacra Famiglia che ci faceva visita a casa sotto una campana di vetro, spinto verso quell'incredibile polveriera in uno stupore infinito: ma sono i guerriglieri o Lisbona che ci vogliono assassinare, Lisbona, gli americani, i russi, i cinesi, quel cazzo di figli di troia tutti assieme per fotterci nel nome di interessi che non afferro, ma chi mi ha ficcato in questo culo del mondo di polvere e di sabbia (...), ma chi mi spiega l'assurdità di tutto questo, le lettere che mi parlando di un mondo che la distanza ha reso straniero e irreale, i calendari che imbratto di croci nel calcolare i giorni che mi separano dal mio ritorno con davanti a me un tunnel interminabile di mesi nel quale mi precipito muggendo, il ferito che non capisce, che non capisce, che non riesce a capire e finisce col ficcare il triste muso bagnato nelle ossa di pollo con i maccheroni del rancio, allo stesso modo, capisce, che qui, in sua compagnia, mi sento un cavallo con le narici infilate nel paniere di vodka, mentre mastico il fieno aspro del limone?"
Un grande autore che parla di storia e di problemi esistenziali, che apre l'animo umano e analizza pezzo per pezzo i sentimenti contenuti, le paure, i desideri, descrive il cambiamento che inevitabilmente si presenta dentro noi stessi e nel tempo porta a cinismo, rassegnazione e insonnie. Pagine intense sull'amore, vissuto in tutte le età, amore che arriva e se ne va, che man mano nel tempo si finisce per non crederci più e diventa solo un esercizio ginnico con donne incontrate ogni tanto per caso "nell'angolo di un sofà di una serata da amici, come quando si scoprono degli spiccioli inattesi in una tasca della giacca invernale", che finisce dentro lo scarico di un bidet "dove le grandi effusioni svaniscono a forza di saponetta, rabbia e acqua tiepida."
Questo è il secondo libro che leggo di Antonio Lobo Antunes e rispetto al primo, "Lo splendore del Portogallo" l'ho trovato molto più scorrevole come stile in quando la voce narrante rimane la medesima e non cambia come nell'altro. In termini di bellezza e approfondimento sono sullo stesso piano, forse "Lo splendore del Portogallo" ha una marcia in più perché risulta essere più impegnativo per la coralità delle voci e i flussi di coscienza, per questo motivo consiglio, a chi vuole avvicinarsi a questo autore, di iniziare magari da questa lettura, fluida ma carica del suo stile inconfondibile. Uno scrittore vivente, tra i massimi scrittori portoghesi e che spero davvero tanto possa vincere il Nobel per la letteratura perché le sue pagine sono di un lirismo e di una profondità che in pochi hanno saputo creare.
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Storie di avventurieri
Vendo tutto e mi trasferisco su un'isola tropicale, aprirò un bar o qualche altra attività e mi godrò la vita in infradito, costume e una bevanda fresca in mano ammirando su una spiaggia bianchissima le tonalità di blu di un mare incontaminato. Lì la vita è più semplice, il costo della vita basso etc etc... Eh, in quanti non l'abbiamo pensato almeno una volta nella vita?! Pensiero frequente, soprattutto nei momenti più difficoltosi in cui si vuole cambiare radicalmente la propria vita... ecco, se dovesse far nuovamente capolino questo pensiero intimo, leggete questa breve raccolta di racconti e presto cambierete idea. Apprezzerete le difficoltà attuali e sicuramente vi aiuterà a reputarvi fortunati.
"Sono storie di gente che quando era partita era piena di entusiasmo, di vita, di speranze, di progetti, e che i tropici hanno ridotto in uno stato che... Che cercherò di spiegarvi più avanti! Capite allora perché, durante i miei viaggi, mi è rimasto un debole per gli adorabili falliti in Francia? Quasi dei falliti da commedia, falliti fortunati, insomma, in confronto ai falliti dell'inferno..."
Con uno stile asciutto ma anche agghindato di immagini poetiche e nostalgiche, la presente raccolta di Simenon, frutto dei suoi viaggi "esotici" in cui è stato testimone diretto o indiretto delle sventure raccontate, si presenta come una raccolta molto compatta, quasi come se fosse un breve romanzo sviluppato sul tema della sfortuna (da cui si collega anche il titolo "La cattiva stella") che spesso accompagna chi si avventura in queste imprese, infatti l'autore preferisce chiamarli avventurieri e non falliti perché "Erano uomini che aspiravano a una vita più vasta, più libera, e che non hanno esitato a lasciare tutto per tentare l'avventura.". In molti scritti oppure nelle leggende, questi avventurieri tornano in patria ricchi, da eroi insomma ma nei suoi viaggi Simenon non ne ha incontrati nemmeno uno, anzi, tutto il contrario.
"Non c'è niente di più triste per me che vedere, in una regione popolata di negri, di indios o di canachi, un bianco, uno dei nostri, ridotto in uno stato più miserabile del più miserabile degli indigeni. In questi casi si crea una solidarietà di razza. Ti vergogni per l'Europa, per te stesso."
Una sorta di inno agli illusi avventurieri che, nonostante il coraggio e la tenacia, non hanno minimamente realizzato i loro progetti ma sono andati o andranno incontro a una morte ignobile. Un velo di tristezza alleggia dunque tra le righe ma riesce a essere smorzato da situazioni che risultano comiche perché paradossali e grottesche, come ad esempio l'usanza delle donne indigene (tra l'altro bruttissime) di salire in cima a una palma per far vedere le loro "grazie" nel minimo dettaglio per conquistare l'uomo che desiderano, che a sua volta dovrebbe arrampicarsi a raggiungerle. C'è anche del macabro in alcune scene e l'ambientazione si presenta spesso soffocante dall'umidità e dalla calura, fitta di foreste impenetrabili e di insetti inclementi che non danno mai tregua, un ambiente respingente e selvaggio contro il quale è difficile vincere. Non solo l'ambiente è ostile ma lo è anche la società che seppur selvaggia è comunque presente, costituita da leggi, gendarmi ed esattori e tu da straniero parti svantaggiato. C'è chi ce l'ha fatta, ma molto pochi e la differenza rispetto a chi fallisce a Parigi o a Londra è che nel primo caso il fallito è morto, impazzito o rinchiuso in qualche galera tropicale, nel secondo caso magari non farà grande carriera ma almeno potrà diventare un uscire o un venditore di biglietti autobus e vivere in una città colorata da luci di caffé, godere del sorriso di una bella ragazza e contemplare una bella giornata primaverile.
"Ecco ciò che più mi premeva dire, ciò che secondo me bisogna dire: è finita l'epoca in cui il mondo era troppo grande per l'uomo. Il mondo è diventato troppo piccolo, e in Africa come in Asia, nel Pacifico come in pampa, l'avventuriero si sente stretto all'angolo. Gendarme ed esattore! Tutto il resto è letteratura, e cattiva letteratura perché manda allo sbaraglio tanti bravi ragazzi, che meriterebbero di meglio."
Un penna sapiente quella di Simenon che crea il giusto equilibrio tra descrizioni ambientali, approfondimenti psicologici e sociali, personaggi ben descritti a volte in pochissime righe ma molto incisive, utilizzando una prosa limpida e priva di retorica.
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Storia di amore e odio
Truciolo, materiale di scarto, spazzatura, ma anche il nome di una palla pelosa con un cuore che batte e che in una nevosa vigilia di Natale viene portato in una casa borghese come dono per la signora da parte del marito. Sandor Marài si conferma ancora una volta uno degli autori mitteleuropei più bravi e profondi del panorama ‘900 e in questo breve romanzo, costruisce con eleganza, ironia e profondità una “banale” storia di un cane, Truciolo. Le virgolette perché esse si riferiscono a un primo livello di lettura, il più immediato e anche quello espresso dall’autore già nelle prime pagine. Marài però non può soffermarsi qui, e va a scavare in profondità dando alla luce un altro piccolo saggio sulla natura umana che non perde mai di vista e Truciolo è solo un mediatore, una superficie di riflessione tra autore e l’oggetto principalem, l’uomo.
Scritto nel 1932 e ambientato nel ’28, in un periodo difficile e pieno di carestie, in cui i soldi scarseggiano e la borghesia è in declino, un signore in età adulta, ne giovane ma nemmeno anziano, giornalista e disilluso dalla vita e dalla società osserva con occhio critico la “scenetta” di Natale, che si ripete da anni ormai e alla quale vorrebbe tanto sottrarsi: usi, costumi, pranzi in famiglia, frasi dette e ridette, doni! Cos’è un dono? Come dev’essere? Perché farlo? Si parla della giovinezza, della vecchiaia, della difficoltà ad amare un estraneo in sofferenza e accoglierlo in casa propria preferendo a lui un cane, quando il nostro istinto dovrebbe indurci ad aiutare e amare i nostri simili e non esseri inferiori come cani, ma perché lo si fa?! egoismo, villania? Si critica la psicoanalisi attraverso una bellissima parodia in un omonimo capitolo:
--- “Ah, sanno proprio tutto, vedono tutto, nel passato e nel futuro! Vanno e vengono, suonano alla porta, di casa in casa, di quartiere in quartiere, vanno in analisi e a loro volta analizzano i loro pazienti, e tutte le mattine, quando si incontrano, si dicono l’un l’altra che significa se qualcuno dimentica le chiavi a casa, e quante volte e perché no e con chi.(…) Sai, a volte mi viene il sospetto che questi qua siano convinti di aver scoperto qualcosa che, in definitiva è semplice conoscenza ed esperienza, e fa parte dell’abbiccì del genere umano sin dagli albori della nostra civiltà…Quel che sa questa gente è poco più di quanto non sia il saper leggere e scrivere rispetto al lavoro del letterato.”---
e anticipa come un profeta, involontariamente o forse no, il nazismo e la sterminazione degli ebrei:
---“(…)bisognerebbe “eliminarlo” immediatamente. Si era espresso proprio in questi termini. Per “eliminare” intendeva naturalmente “ricorrere all’accalappiacani” e lo diceva con la fredda determinazione dell’esperto che non esita a ricorrere a mezzi estremi per difendere i princìpi e gli ideali della purezza.”---
Parla dell’amore e dell’odio e della loro incredibile somiglianza, della libertà e del guinzaglio che si finisce per accettare, sia per cani ma anche per uomini, catene che garantiscono un piatto di zuppa e un tetto sopra la testa, e magari una coscienza che si cerca di tenere pulita, parla della solitudine.
Come si può vedere, non è un libro su un simpatico cane di nome Truciolo ma soprattutto un libro sull’uomo e sulle sue complessità. Libro potente e scritto con prosa armoniosa che presenta anche delle parole e frasi “motivo” e che vengono ripetute a distanza di pagine con il risultato di amplificare i messaggi, di amalgamare il contenuto con eleganza e anche di dare un certo ritmo piacevole e simmetria alla prosa. Infatti negli altri libri di Marài che ho letto non ho mai incontrato questo stile e mi ha piacevolmente sorpresa.
---“Senti un po’,” gli dice spesso il suo padrone “delinqui pure, rosicchia, concediti tutti morsi falsi che vuoi – ma sta’ zitto. La sincerità di cui tanto si predica non è il metodo migliore per affrontare questioni del genere. La gente si stufa. Anch’io l’ho provato. Non la tollerano. Un giorno si finisce per diventare malvagi e meschini, ma sicuramente più discreti. Da’ pure tutti i morsi falsi che vuoi, ma sta’ zitto! Lo so che quanto ti suggerisco non è molto nobile, ma arriva un momento nella vita in cui non si può fare altrimenti; e la vita è una faccenda tutt’altro che nobile! E se pure sei un accanito rosicchiatore, cerca di non rendere per questo la vita impossibile a quelli che ti stanno attorno! Rosicchia e taci…”
A fine lettura il mio cuore è stato sia con Truciolo ma anche con il padrone, non ho trovato ne vincitori e nemmeno vinti. I finali di Marài sono sempre imprevedibili, aperti, a volte incomprensibili e si svolgono nelle ultime frasi, una resa dei conti breve e concisa tra i personaggi, un "duello". Anche il finale di Truciolo non ne fa eccezione se non per il fatto che ha un finale chiuso e una morale specificata dall’autore stesso.
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Viaggio in Giappone
"Le antiche famiglie di luoghi remoti, comprese quelle prive di una storia illustre, custodiscono leggende e tradizioni uniche tramandate di generazione in generazione."
Inizia con questa frase "La foresta d'acqua" dello scrittore giapponese Kenzaburo Oe, premio Nobel per la letteratura nel 1994. Ambientato tra Tokyo e una "piccola valle immersa nella foresta" dell'isola Shikoku il libro, fortemente autobiografico e scritto in prima persona, parla dell'intenzione di uno scrittore ormai oltre settantenne, Choko Kogito alter ego di Oe, di scrivere un ultimo romanzo sulla prematura scomparsa del padre decine di anni fa, annegato nel fiume in piena. In realtà questa sua intenzione lo tormenta da anni ma è sempre stato bloccato dalla madre, custode di una valigia in pelle rossa contenente tutto il materiale appartenente al marito e che per il figlio avrebbe rappresentato il materiale necessario per la creazione del "romanzo dell'annegamento". A dieci anni della morte della madre finalmente ne entra in possesso... Questo è il filo conduttore, il sentiero d'ingresso nella foresta di Kenzaburo.
"Un particolare che ho notato man mano che passano gli anni e si invecchia è che si viene pervasi sempre più del desiderio di sistemare le cose nel miglior modo possibile senza lasciare niente di irrisolto." Kogito ha un passato irrisolto, trasformato in un sogno che lo tormenta da una vita - o forse un incubo?- in cui suo padre si trova in una barca nel fiume in piena e il figlio non riesce a raggiungerlo. Un padre "amato disperatamente", visto come un eroe negli occhi del figlio, fa un gesto incauto, incompreso e come conseguenza finisce come preda di un fiume vorace. A questo tormento interiore cerca di mettere fine attraverso appunto la scrittura di un romanzo, ma sarà forse la via più efficace e migliore per tutti? "Pensavi, grazie al tuo nuovo romanzo, di restituire l'onore al nostro povero padre e di cancellare il senso di colpa del ragazzino che quella notte tornò disperato a riva nuotando come un cagnolino? In che modo, in concreto? E nutrivi forse la vana speranza di ottenere come per magia una chiave per risolvere tutti i problemi semplicemente passando in rassegna il materiale contenuto nella valigia di pelle rossa?"
Non viene sviluppata soltanto la storia del padre di Kogito e del loro rapporto ma anche quella del legame fragile che unisce Kogito e suo figlio Akari, affetto da una malformazione sin dalla nascita. A questi si aggiunge un altro personaggio cardine, l'attrice teatrale Unaiko, anche lei alle prese con la resa dei conti di un passato turbolento e che porta come tematica la lotta contro l'abuso sulle donne e sui bambini, sviluppata nella terza e ultima parte del romanzo. La forza e l'importanza delle donne per la famiglia e per gli uomini in generale, viene notata durante tutto il percorso del libro, Kenzaburo dandole ampia voce.
La cosa che più mi è piaciuta in questo libro è stata l'ambientazione. Mi sono sentita letteralmente trasportata in Giappone ogni volta che aprivo il libro, come se facessi un viaggio e in più con una guida turistica perché oltre alle belle descrizioni paesaggistiche vengono spesso narrati anche miti locali, tradizioni e storia, elementi saldamente legati agli abitanti. Si respira anche un'atmosfera calma, rispettosa e i personaggi sono sempre pacati ed educati nonostante ci sia qualche momento di alta tensione eppure non perdono mai l'equilibrio interiore, tra sussurri e inchini hanno luogo tempeste. Credo che Kenzaburo sia un ottimo veicolo della cultura autoctona giapponese per il resto del mondo. Un'altra cosa che mi ha piacevolmente colpita di Kenzaburo è la sua vasta cultura europea e i suoi frequenti riferimenti letterari, cita addirittura Céline con una sua frase "Teniamo alta la testa, su, coraggio!", autore che per stile e argomenti lo trovo diametralmente opposto a Kenzaburo eppure...
Ci sono però degli aspetti che personalmente ho gradito un po' meno e mi hanno reso la lettura un po' faticosa. A partire dallo stile. Sebbene sia scritto in prima persona, l'autore da pochissimo spazio ai suoi pensieri espressi in modo diretto (e quindi più coinvolgente per il lettore) ma crea piuttosto delle situazioni di dialogo tra lui e i vari personaggi e sono questi ultimi a esprimere ciò che secondo loro l'autore prova o ha provato in passato. Quindi la voce dello scrittore, nonostante sia il personaggio principale, si fa sentire attraverso le altri voci con le quali lui dialoga: la moglie, la sorella Asa, Unaiko e così via. A un certo punto anche uno dei personaggi glielo fa notare. "Tu non dici granché e resti perlopiù in silenzio ad ascoltare, non riesco mai capire cosa ti passi per la testa.", si "tira le orecchie" da solo in pratica. Sebbene sia una modalità valida come tutte le altre a me ha reso la lettura meno coinvolgente di quanto sperassi proprio perché non sono riuscita a entrare in empatia con il personaggio principale. Altro aspetto che ha peggiorato ulteriormente la situazione è stata la prosa che, seppur elegante, troppo artefatta, "burocratica" quasi a piccoli tratti come se fosse un compitino, che allontanava ancor di più i miei tentativi di raggiungere la mente del personaggio e di sentirmi coinvolta. Questa prosa lineare, pacata, sì elegante ma che non osa quasi mai, nel bene o nel male, determina un ritmo di lettura costante e prevalentemente lento.
Alto elemento per me disturbante, oltre allo stile, è stato l'egocentrismo dell'autore. Tutto ruota attorno a lui, ai suoi bisogni e alle sue opere. Addirittura è presente una compagnia teatrale di cui Unaiko appunto ne fa parte, che si occupa di mettere in scena esclusivamente la sua opera leggendo e rileggendo tutti i suoi testi, come se fossero una Bibbia. La moglie, la sorella, Unaiko, tutte in punta di piedi attorno a lui a servirlo e riverirlo anche quando viene meno ai suoi doveri di marito e padre, preoccupate sempre a fare in modo che lui stesse bene e se qualcosa gli viene rimproverato il rispetto e la reverenza non mancano mai. Stessa cosa succede quasi con tutti gli altri personaggi, tant'è vero che ho pensato "Dio esiste ma tranquillo, non sei tu!". L'egocentrismo va benissimo, ma poi quando è sorretto dallo stile sopramenzionato, diventa noioso, fastidioso, inutile e si tende a perdere l'interesse per continuare la lettura. Alto aspetto per me negativo è la ripetizione, dettata più da questo suo egocentrismo che da una esigenza stilistica: intere scene vengono continuamente ripetute appesantendo la narrazione.
C'è un momento all'interno del romanzo in cui mi sono detta "ecco che ci siamo! ora si decolla!" perché l'autore si lascia un po' andare e mi richiamava le crisi epilettiche di Dostoevskij fonte di ispirazione, la memoria involontaria di Proust e in generale il rapporto arte-malattia nella letteratura:
"Quei farmaci erano molto potenti, perciò cercavo di farne uso il meno possibile ed ero consapevole che avrei fatto bene a smettere al più presto. Quando riaprivo gli occhi prima dell'alba, a distanza di poche ore dall'assunzione, mi ritrovavo in preda di un prodigioso "risveglio della memoria" (...). Non potevo fare a meno di chiedermi se quel enorme attività cerebrale fosse in qualche modo collegata all'energia stupefacente che si accompagnava agli attacchi di vertigini, e avevo la netta sensazione che quel recente malessere racchiudesse in sé un più ampio significato."
...però il ritmo non è mutato di molto. Ho trovato invece molto poetico il finale, che, seppur tramite un terzo personaggio comparso nella seconda metà del libro, chiude a cerchio il tema dell'annegamento del padre, trasmettendo nelle righe finali un senso di risoluzione e sollievo.
Per concludere lo vedo adatto a chi vuole viaggiare con la mente in Giappone e vuole immergersi sulla sua cultura e la sua storia, a chi ha già letto Kenzaburo perché dentro si ritrovano tutte le sue opere, ma anche a chi ha letto "Il cuore delle cose" di Soseki, libro ampiamente trattato all'interno di questa opera.
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In crociera con Wallace
Tutte le recensioni a questo libro-reportage di Wallace sono positive. Io sarò la voce fuori dal coro: mi ha annoiata molto. La copertina preannuncia "un libro che non si smette di leggere nemmeno quando ci si lava i denti" il che trovo fuorviante almeno per quanto mi riguarda. Si, ha delle scene comiche (la più comica per me è stato l'aneddoto di un marito sulla moglie risucchiata dal water ad alto tiraggio, bello anche lo stile descrittivo, praticamente una frase unica lunga due pagine e mezzo), ti fa vivere l'esperienza della crociera con molto realismo il che vuol dire che è onesto, non fa di certo pubblicità al mercato delle crociere, anzi, questo lo si evince già dal titolo, ma nell'insieme l'ho trovato piatto e non vedevo l'ora di finirlo.
Ma c'è un perché dietro a questa mia opinione anomala: ho conosciuto Wallace con Infinite Jest. Il genio di Wallace incontrato in IJ, che lascia a bocca aperta, è molto lontano da ciò che ho letto in questo libricino. Stessa cosa è successo anche con altri racconti di Wallace che ho provato a leggere successivamente come per esempio "La ragazza dai cappelli strani" e "Considera l'aragosta". Niente, non scatta l'empatia. Sicuramente la sua intelligenza spicca evidente così come il suo stile narrativo ma non riescono a soddisfarmi come lettore. Per me Wallace è Infinite Jest, uno dei libri contemporanei più belli che abbia mai letto. Ho in attesa di lettura "La scopa del sistema", magari mi farà cambiare opinione, anche se sicuramente non raggiungerà IJ. E' strano perché con altri scrittori, pur leggendo loro capolavori, successivamente non mi hanno lasciata così indifferente le loro opere minori.
Ritornando al reportage, esso è un racconto ironico di una crociera-regalo di Wallace sulla nave Zenith (ribattezzata Nadir nel libro). Sicuramente è indicato a chi una crociera l'ha già fatta, forse dissuaderà coloro che hanno intenzione di farla, ma che comunque tirerà fuori un po' di verità scomode su questo mercato turistico, alcune di esse già intuite, altre invece no. Contiene una lieve critica anche verso gli americani e ho apprezzato davvero l'onestà di Wallace che lo contraddistingue. Lui addolcisce la sua prosa con l'ironia e con il humor, mai con le menzogne che cercano di vedere il lato bello delle cose, è principalmente un autore depresso nella sua comicità.
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La Recherche di Bernhard
Per me ci sono due libri sulla ricerca del tempo passato. "Alla ricerca del tempo perduto" di Proust, La Recherche per abbreviazione, ed "Estinzione" di Bernhard. Sono due libri che si assomigliano molto eppure sono completamente opposti. In entrambi viene descritto il desiderio di scrivere un libro, che appunto ne è il risultato, in Proust per ricordare il tempo vissuto e trasformarlo in eternità, conservandolo, in Bernhard invece per ricordarlo ed estinguerlo, in quanto "vuoto assoluto". Consolazione con una possibile eternità da una parte, feroce rassegnazione al vuoto dall'altra. Visioni opposte per via di opposte esperienze di vita. Hanno però in comune l'essenziale: essere artisti e le loro opere sono opere mondo che si completano.
Thomas Bernhard, nato da una ragazza madre, mai riconosciuto dal padre, cresciuto con poco affetto materno in un clima nazionalsocialista nel periodo della seconda guerra mondiale per poi passare a uno cattolico molto simile al precedente, vissuto quindi in un clima e in una società, persino in una famiglia che lo ha respinto, è contraddistinto nelle sue opere dall'odio nei confronti di chi gli ha reso l'esistenza un inferno. Non è un odio malvagio del quale sono capaci gli stupidi, ma di un odio cinico, schietto, sincerò, che non si ferma dinanzi a nulla. Nella sua opera troviamo sofferenza, solitudine, amarezza, odio, rassegnazione, il tutto ben calibrato da una grande dose di ironia e autoironia che rende la sua lettura godibile e a tratti comica. Non è un autore che soffre del "mal di vivere", come tanti nel novecento, lui ama la vita e ama godersela, soffre piuttosto di mal di ipocrisia delle persone e della società che esse formano. Proprio per questo la sua lettura non demoralizza e ne alleggerisce la cupezza.
In "Estinzione", il personaggio principale e voce narrante Murau, alter ego di Bernhard, stabilito a Roma da diverso tempo, riceve un telegramma che lo informa della morte dei suoi genitori e del fratello maggiore, imminente il bisogno di ritornare a Wolfsegg, la sua casa natia. Questa notizia da avvio a uno scorrere continuo di ricordi e vengono ripercorsi i travagliati rapporti di Murau con i genitori, con il fratello, con le sue due sorelle ma anche con tutte le altre persone che Maurau ha conosciuto. Diventa un viaggio introspettivo e di memoria che lo porterà alle conclusioni che ho anticipato all'inizio. Non è soltanto un viaggio individuale, che riguarda solo Murau, ma si trasforma in uno collettivo in cui chiunque sì può ritrovare. Da grande scrittore, Bernhard parte da un esempio, il suo, per poi delineare una regola di vita generale:
"Cerchiamo dappertutto l'infanzia e dappertutto non troviamo altro che il famoso vuoto assoluto, pensai, quando entriamo in una casa in cui nell'infanzia abbiamo trascorso ore o addirittura giorni tanto felici, crediamo di guardare dentro quell'infanzia e invece guardiamo solo dentro quel famigerato vuoto assoluto, pensai.(...) Svendiamo la nostra infanzia come se fosse inesauribile, ma non lo è, pensai, si esaurisce molto presto e non ci lascia altro che quel famoso vuoto assoluto. Ma non accade solo a me, pensai, succede a tutti e mi fu di momentaneo conforto il pensiero che giungere a quella cognizione non viene risparmiato a nessuno, in quel momento concedevo quella cognizione a tutti. Visitare l'infanzia quando siamo diventati più vecchi o vecchi, non significa altro che guardare dentro il famigerato vuoto assoluto, del quale abbiamo un orrore senza uguali."
Approfitto di questo frammento per parlare velocemente della prosa, a mio avviso molto bella. A scuola ci hanno sempre insegnato che ripetere non va bene, bisogna sempre usare parole differenti. Nel campo letterario, paradossalmente, un buon scrittore sa come usare questo "difetto" per amplificare le sue parole, sa trasformare l'odiosa ripetizione un megafono per il suo messaggio. Solo i più bravi ne sono capaci e Bernhard in questo eccelle! Personalmente l'ho trovato portare a estremo questa tecnica in "Correzione", dove il testo diventa un delirio progressivo ripetitivo. Richiede impegno Bernhard, è stancante, faticoso da leggere, lui stesso lo sa e lo fa di proposito, lui è questo e chi lo vuole conoscere è libero di seguilo oppure di cambiare strada. Si autodefinisce un maestro nell'arte dell'esagerazione perché l'arte richiede esagerazione, l'esagerazione è il suo appagamento. Il linguaggio invece è forbito al punto giusto, senza diventare troppo pretenzioso ma nemmeno semplice, traspare una grande intelligenza e un ammirevole lavoro di pensiero, privo di retorica e vittimismi, puntando il dito contro se stesso nella stessa misura in cui lo punta contro gli altri.
In "Estinzione" Murau distrugge tutto e tutti, a partire dai suoi genitori, i suoi familiari sino allo stato austriaco e all'Europa per estensione. Viene distrutta persino la letteratura tedesca degli ultimi tempi, considerata "letteratura da ufficio" una "poesia piccolo borghese da funzionari" i cui maestri sono stati Thomas Mann e Musil e l'unico scrittore tedesco che effettivamente ha scritto pagine di letteratura pura è stato proprio l'Impiegato Kafka, tutti gli altri hanno solo "trasformato i giornali in una mensa per i poveri della cultura, dove continuano a far bollire e ribollire fino alla nausea errori che gridano vendetta". In questa feroce e anche spassosa critica verso gli scrittori che vengono chiamati "compilatori di verbali" perché oggi "chiunque scriva cartoline si definisce uno scrittore", lui, il narratore, si definisce "solo un mediatore di letteratura, per la precisione di quella tedesca" che desidera scrivere un "schizzo dell'esistenza" che chiamerà "Estinzione" e che si augura che sia "qualcosa che si presenti bene" perché "ci comportiamo come se fossimo capaci di tutto, anche di cose eccelse e somme, e poi non siamo neanche in grado di prendere la penna in mano per mettere per iscritto anche una sola parola di quella nostra annunciata immensità e irripetibilità" . Sono pagine di intensa ironia e di bellezza in cui si sviscera anche il rapporto scrittore-opera, il primo spesso repellente e di pessimo carattere al contrario della sua opera di genio che spesso viene annientata se si cerca di spostare l'attenzione dall''opera al suo autore , amare l'opera, si, ma non il suo autore, mai confondere e mischiare le due cose.
Viene smantellata anche la Chiesa cattolica come istituzione e suoi sacerdoti che li chiama "principi della Chiesa" che recitano da tempi una commedia in cui hanno i ruoli principali, viene smascherata la somiglianza dell'austero regime cattolico con quello nazista che Bernhard ha provato sulla propria pelle nel collegio e che gli ha cambiato per sempre la vita, considerando l'influenza dell'educazione cattolica distruttiva sulle persone e ancor di più sui bambini. Grande osservatore, Bernhard ci descrive in modo frizzante varie scene della vita, incluso il funerale dei genitori. Ci sono dei frammenti spassosissimi che descrivono il matrimonio come scenetta comica e ridicola in cui "il sì decide solo il giorno del matrimonio" e non le promesse fatte, matrimonio tenuto da un prete piuttosto ubbriaco che dimentica anche i nomi degli sposi.
Però, le origini fanno parte di noi, belle o brutte che siano e ogni tanto, inevitabilmente, l'amore e l'attaccamento per la terra e per la casa natia, la fierezza per le bellezze paesaggistiche austriache spuntano fuori come i raggi di sole filtrati dalle nubi dense di un cielo coperto e sono bellissime da vedere. Ecco, nella sua opera il sole dell'amore si intravede solo attraverso questi effimeri raggi.
"Estinzione" è un tornado, che inizia a scatenarsi dalla prima pagina, e che con stile, ironia e pensiero profondo continua in modo sempre più infuriato passando su tutto e tutti fino a scaricarsi completamente ed estinguersi nelle ultime pagine. Va letto. Assolutamente.
Se avete ancora voglia di un altro piccolo assaggio, sotto uno dei frammenti finali all'apice della sua furia, prima di placarsi nella risoluzione finale:
"Oggi l'Austria è un paese governato da affaristi senza scrupoli di partiti senza coscienza, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta. Questo popolo austriaco defraudato di tutto, ho detto a Gambetti, cui negli ultimi secoli, nella maniera più infame, cattolicesimo, nazionalsocialismo e pseudosocialismo hanno estirpato dalla testa l'intelletto, Gambetti, ho detto a Gambetti, pensai ora. Meschinità è la parola d'ordine, bassezza il motore, menzogna la chiave di quest'Austria di oggi, Gambetti, ho detto a Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta. Senza sosta torno a dirmi che amiamo questo paese, ma odiamo questo Stato, Gambetti. A Roma, e ovunque nel mondo, Gambetti, pensai ora, ho detto a Gambetti, quest'Austria non ci riguarda più. Ovunque andiamo in quest'Austria di oggi, entriamo nella menzogna, ovunque guardiamo in quest'Austria di oggi, guardiamo solo dentro la menzogna, con chiunque Lei parli in quest'Austria di oggi, Lei parla con un bugiardo, Gambetti, pensai ora davanti alla fossa aperta."
Bernhard, coerente con le sue idee, nel suo testamento ha vietato severamente qualsiasi pubblicazione delle sue opere e qualsiasi rappresentazione teatrale delle sue opere nei confini dello stato Austriaco, estromettendolo completamente dal suo lavoro letterario. Purtroppo, o per fortuna, dopo circa dieci anni ciò fu possibile per la concessione da parte di suo fratellastro.
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Non aprite quella porta
"Fendevo l'acqua con il corpo, filando da un'estremità all'altra della vasca come una macchina ben oliata, azionata da gesti precisi, perfettamente concatenati. Quando toccavo la parete facevo una capriola e puntavo i piedi per spingermi nell'altra direzione.(...) Il vigore che mi gonfiava i muscoli mi rallegrava, inanellai le vasche senza contarle. Alla fine, sott'acqua, braccia lungo i fianchi, mi lasciai andare. La testa sbucò dalla superficie, con la bocca aperta per respirare l'aria, le mani trovarono il bordo e, sfruttando lo slancio, effettuarono con scioltezza un sollevamento per tirare fuori dall'acqua il corpo grondante."
Un uomo biondo, una donna bionda con lo chignon, un'altra con i cappelli corti corvini, un bambino biondo, un uomo bruno e una donna formosa dai cappelli rossi, questi sono i personaggi dell'ultimo libro di Jonathan Littell. Niente nomi, solo caratteristiche fisiche. Sette capitoli circolari, in cui viene descritta la stessa storia, però da più prospettive: l'io narrate è ora l'uomo biondo, ora la donna bionda con lo chignon, ora il bambino biondo. Iniziano tutti con l'uscita di un corpo grondante dalla piscina per poi concludersi sempre lì con un preciso tuffo. Nel mezzo, una ricerca, una fuga del narratore dentro un lungo e contorto corridoio buio contente tante porte che danno su vari scenari di vita. In tutti i sette capitoli, questi scenari sono gli stessi e si succedono nella stessa ordine: la vita di famiglia, due amanti in albergo, un monolocale dedicato alla solitudine, una festa di gruppo e infine una scena di guerra. Mutano i personaggi, gli oggetti e le situazioni, penetrano da uno scenario all'altro e subiscono metamorfosi, si sdoppiano, un grido di una scena avrà l'eco in un altra. Ad esempio, nella scena famiglia il bambino biondo gioca nella sua cameretta con dei soldatini giocatolo uccidendoli, nella scena guerra invece il bambino biondo viene crudelmente ucciso dai soldati.
Questa circolarità dei singoli capitoli e la connessione delle cinque scene si estende anche all'insieme del libro. Man mano che si va avanti nel romanzo si percepisce un aumento di intensità di questa fuga nel corridoio buio e le piccole scene si sviluppano da un capitolo all'altro avendo un loro epilogo. Per quanto sia fissa e matematica l'impostazione del romanzo, con ripetizioni anche di intere frasi che il lettore ormai imparerà a memoria e rappresenterà per lui delle linee guida, tipo "tu sei qui" sulle mappe, essa contiene un gioco di specchi, di sdoppiamenti, un labirinto in qui tutto muta e si trasforma: "come il racconto di quell'evento inaudito che adesso sto cercando di costruire, facevo acqua da tutte le parti; fuggivo, ma in me stessa, per sempre libera."
La particolarità di questo romanzo non consiste soltanto nella forma ma anche nel suo contenuto che è caratterizzato da un alto tasso di violenza ed erotismo. Il sesso è presente quasi in tutti i scenari e viene descritto in tutte le sue forme, da autoerotismo a orgie omosessuali. Credo che Littell sia un ibrido tra De Sade e Henry Miller, ci sono delle scene allucinanti che però, prima ancora di disgustare il lettore, incuriosiscono perché inaudite e scritte, secondo me, bene. Eccone un esempio:
"Appoggiai le rotule sul campo di erbe del copriletto e mi voltai: il mio orifizio macchiato di sangue era al centro dello specchio, delineato da due pieghe di carne gonfie, pelose, che scostai e scrollai come vecchi cenci lerci, scoprendo le mucose rosa e l'apertura spalancata che, man mano che vi affondavo le dita, si dilatava smisuratamente, senza limiti, un organo cavo ripiegato su se stesso, senza più alcuna relazione con me. Alla fine tutta la mia mano si ritrovò al suo interno, il polso stretto fra i tessuti spugnosi e sporchi, e mossi le dita, pizzicando i nervi come corde, inviando lungo il mio sistema nervoso i trilli di una musica al tempo stesso priva di timbro e carnale, che si raggruppava qua e là in vibrazioni convergenti prima di implodere, e scoccare di rimando fiotti di luce che mi attraversavano a rimbalzi il corpo svuotato, sparpagliandolo per la stanza. Ciò nonostante il sesso non cessava di rimanere spalancato, ora occupava la maggior parte dello specchio con tutta la sua profondità aperta dalle mie due mani, nera, abissale, alla fine abbastanza grande perché ci ficcassi tutta la testa e la facessi scomparire dentro, seguita dall'insieme dei miei organi che da lì si dispersero nel grande appartamento, lasciando il corpo vuoto disteso sul copriletto verde e oro, una conchiglia bianca e liscia, senza asperità, pura superficie avvolta dal sonno."
Così come mancano i nomi ai personaggi, a loro mancano anche i pensieri, i sentimenti e lo spirito critico. In questo libro, nonostante la narrazione sia in prima persona, tutto viene descritto con assoluto distacco, c'è un silenzio totale della coscienza dei personaggi, delle loro intenzioni, di ciò che reputano giusto o sbagliato,si limitano solo a descrivere il presente "visibile", non esistono legami affettivi non esistono rimpianti o introspezioni, esiste solo "ora" in un mondo estraneo a loro. Solo nel finale, l'autore sembra rompere questo silenzio e lasciare trasparire un messaggio:
"mi sentivo invaso da un vasto senso di futilità, forse, pensavo, se avessi scorto qualcun altro, una figura umana, avrei potuto raggiungerla, avremmo camminato insieme e questo avrebbe forse alleviato un po' i nostri passi, perché anche se non ci fossimo parlati, se non avessimo scambiato nemmeno una parola, avremmo sentito il nostro rispettivo respiro e il suono delle nostre falcate, una presenza, quindi, sarebbe stata lì accanto a me e io accanto a lei, avrebbe avuto un che di vagamente confortante, ma non c'era nulla, nemmeno un'ombra (...)".
Per concludere, è un libro di forte impatto: violentissimo, freddo, osceno, sporco, immorale ma cattura proprio per questo fascino del male e per il modo in cui è stato scritto e che fa la differenza tra un bravo scrittore e uno mediocre. Trasmette un grande senso di solitudine, però, del resto, si nasce e si muore soli, e nel mentre la situazione cambia di poco.
Piccola curiosità: Il sottotitolo” Nuova versione” fa riferimento all’ampliamento del libro originale,” Una vecchia storia”, pubblicato qualche anno prima e contenente i primi due capitoli. La nuova versione ne aggiunge i successivi cinque e secondo me è un esperimento riuscito che incorpora perfettamente la versione precedente e da luce a un nuovo libro, più compatto.
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Cose di vita
Thomas Bernhard, oltre che a essere uno scrittore di grande rilievo rappresenta per me anche uno stile letterario a sé. Basta leggere una frase a occhi chiusi e, chi conosce un po' la sua prosa, lo riconosce. Contraddistinto dall'arte della esagerazione sia attraverso le dure parole utilizzate che dalla loro simmetrica ripetizione nell'interno della stessa frase ma anche lungo tutto il romanzo, nelle sue opere descrive principalmente lo sconforto umano, i drammi interiori, la disperazione umana. I suoi romanzi sono degli urli di Munch e Il Soccombente non fa eccezione. Vi si narra la storia di tre uomini, tra cui la voce narrante, Glenn Gould il famoso pianista-fenomeno realmente esistito, e il Soccombente. Tutti studiano insieme il pianoforte e tutti sono bravi, tranne Glenn che eccelle ed eclissa tutti. Ma essere soltanto bravo non basta per il nostro Soccombente, la sua competizione con l'eccellenza Glenn diventa autodistruttrice, o tutto o niente, non può accontentarsi di essere solo un bravissimo pianista, ma deve essere il migliore in assoluto. La voce narrante invece, accetta tranquillamente questa superiorità di Glenn e riconosce le sue insoddisfacenti predisposizioni artistiche verso il pianoforte dedicandosi quindi ad altro, andando avanti con la propria vita e nel libro rappresenta una bilancia tra Glenn, l'eccellenza, e il Soccombente. Osserva i percorsi di entrambi e soprattutto quello del Soccombente che duella con sé stesso per primeggiare. Artista si nasce, non si diventa e questo fatto non viene capito, nonostante il protagonista fosse un uomo intelligente, però troppo preso dal suo accecante narcisismo ed egoismo. La sconfitta non viene accettata e le conseguenze sono drammatiche. Il Soccombente non fallisce soltanto nel diventare il migliore pianista, ma fallisce anche umanamente. Questa sua mania di primeggiare non riguarda soltanto la sua passione per il pianoforte ma si estende anche sulle persone che lo circondano. Infatti, oltre all'ossessione per il pianoforte si osserva anche l'ossessione per la sorella dalla quale si aspetta la completa dedizione. Il soccombente, non sarà sconfitto soltanto nell'arte musicale ma anche in questa lotta con la sorella che si ribellerà e scapperà via, sposandosi.
Si avrà di fronte un personaggio che di certo non desterà la simpatia del lettore perché despota, intelligente ma nello stesso tempo di così anguste vedute, innalzato attraverso l'arte ma anche sprofondato nella bassezza dell'egoismo malsano e della sopravalutazione di sé, suscita il disprezzo ma anche la pietà.
Bernhard era un amante dell'arte e della musica, non ha mai suonato il pianoforte bensì il violino, e questo breve e intenso libro è anche un piccolo tributo alla musica, così come il suo "Antichi maestri" lo è alla pittura e "A colpi d'ascia" al teatro. La sua prosa è un fiume in piena, vertiginosa, intensa e ripetitiva. Non culla e non rassicura, non osserva il fiore in primavera che si schiude e non contiene amore, nemmeno la parola in sé, figurati il senso. Lui distrugge e sviscera fino allo sfinimento i suoi tenebri argomenti e chi lo legge o se ne innamora o lo abbandona. E' tra gli autori che non hanno lettori "di mezzo", neutri, ma divide nettamente così come fanno nelle loro opere. Io ne sono profondamente innamorata.
"Il bambino era stato gettato dalla madre in questo ingranaggio dell'esistenza, che implacabilmente faceva il figlio a pezzi. I genitori sanno perfettamente che l'infelicità ad essi connaturata la perpetuano nei figli, ma nella loro crudeltà vanno avanti a fare figli e a gettarli nell'ingranaggio dell'esistenza."
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Armonioso
Questo libro è il terzo che leggo di Steinbeck, dopo "Furore" e "Uomini e topi" e seppur libri diversi tra loro, hanno un filo conduttore: la bontà dell'animo umano e la speranza che il bene trionferà sul male, nonostante tutto. E' un romanzo che metterei accanto a "I Miserabili" di Hugo e "Il Conte di Montecristo" di Dumas: le vicende sono tante in un lasso temporale piuttosto ampio che copre due generazioni e i personaggi incontrati sono molteplici, dal più cattivo al più buono.
Si narra in chiave moderna la storia di Caino e Abele, i due fratelli che si "duellano" a conquistare la benedizione di Dio attraverso i loro doni ma Caino non viene visto di buon occhio, sarà perché l'agnello arrosto è più appetitoso delle patate bruciate ma fatto sta che per gelosia e rammarico Caino uccide Abele. Anche qui abbiamo situazioni simili: la lotta interiore e il tormento di Caino, del fratello che pensa di essere amato meno, di avere meno riconoscenze e attenzioni da parte del genitore che sembra preferire Abele, il figlio adorato e perfetto ai suoi occhi. E' interessante notare come Abele, nel romanzo corrispondente ai personaggi Adam Trask e Aaron Trask sia anche il figlio che ama meno il genitore, mentre Caino ( nel romanzo Charles Trask e Cal Trask) lo ami molto di più. Tutto l'amore e la cura sembra allontanare il figlio prediletto e se aggiungiamo il dover seguire una strada impostata dal genitore allora l'allontanamento è maggiore. Il libro parla quindi dei rapporti tra genitori e figli, tra fratelli e i rapporti con il mondo esterno, attraverso due generazioni. Ma non solo, verso il finale si pone l'accento anche sull'indipendenza dei figli e sul loro potere di scegliere di cambiare il proprio destino e soffocare il peccato.
Steinbeck ha una scrittura diretta che conquista subito l'attenzione del lettore, è come se il libro ti risucchiasse, facendoti prendere parte a una nuova realtà parallela e lasciando un insegnamento. Nonostante la sorte spesso avversa, l'uomo va sempre avanti con una forza rinnovata e la famiglia ha una grande importanza in tutto questo. Tra tutti i libri che ho letto, quelli di Steinbeck rappresentano la famiglia nel modo più caloroso e rassicurante, nonostante le avversità i membri riescono sempre a superarle o quanto meno ad accettarle con dignità, l'unione fa sempre la forza. Questa caratteristica di Steinbeck sarà dovuta magari anche alla sua serena infanzia, spesso gli autori che hanno una infanzia difficile in famiglie divise oppure coloro che perdono i genitori diventano dei pessimisti cronici sotto quest'aspetto e spesso la famiglia è fonte di tormento e distruzione: per esempio Thomas Bernhard.
Oltre alla trama dinamica e alla bella scrittura non mancano certo i discorsi più profondi, soprattutto tra i personaggi Samuel Hamilton, Adam Trask e l'asiatico Lee. Un classico corposo ma scorrevole, armonioso nell'insieme e che lascia l'impronta una volta terminata la lettura.
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La Recherche di Nabokov
Non so dire se questo libro di Nabokov, ritenuto uno dei suoi migliori, “il libro”, quella della maturità artistica dell’autore, mi sia piaciuto o meno. Sarà anche questo il motivo per qui scrivo il mio commento con un po’ di ritardo, l’ho finito qualche settimana fa e mi riesce tuttora difficile parlarne. Ho amato “Lolita” e ancor di più ho apprezzato le sue doti con “Fuoco pallido”, il libro più inaspettato che mi sia mai capitato di leggere. Con “Ada o ardore” è stato diverso per un insieme di motivi tra cui la difficoltà di seguire Nabokov e la lunga strada che si prospetta davanti: circa seicento pagine. Fortunatamente mi è arrivata in soccorso l’ironia intelligente, la prosa perfetta (anche se a volte un po’ troppo sperimentale) e Marcel Proust, il mio scrittore preferito e probabilmente anche di Nabokov.
Il libro, con un incipit “monello” da chiedere venia a Tolstoj, si spinge con l’immaginazione oltre “Lolita” e narra una storia d’amore incestuosa tra Ada (altra ninfetta al pari di Lolita) e il fratello Van, che dura dall’infanzia fino alla vecchiaia dei protagonisti. Nabokov è un maestro nel raccontare le perversioni insite nell’animo umano e che ogni tanto prendono possesso di certi esseri come Humbert Humbert o Ada. E’ un maestro perché lo fa sempre con eleganza, armonia e poesia e ciò che è una scena degradante della realtà, nell’immaginazione la depura di tutto l’orrore e della volgarità purificandola e rendendola per il lettore un’opera d’arte. Ad esempio, c’è persino una scena di orgia incestuosa, ma non riesce a respingere il lettore anzi lo affascina. Di recente mi è capitato di visitare la Cappella degli Scrovegni a Padova, dipinta da Giotto nel 1300 circa, e quando sei davanti al Giudizio Universale e guardi l’Inferno non puoi non rimanere estasiato di tanta bellezza nonostante le scene disgustose, stesso sentimento lo provo con Nabokov quando “si sporca le mani”, e in generale con qualsiasi artista che dalla miseria crea il sublime.
Ciò che è bello non sempre è anche immediato e facile da conquistare. La narrazione ha presentato per me alcune difficoltà. Innanzitutto il luogo: siamo nell’AntiTerra, c’è questo mondo rovesciato dove il lettore perde i riferimenti territoriali che conosce e deve entrare in quello immaginario dell’autore dove il vero si amalgama con l’invenzione creando un ambiente che a me ha confuso. Cambiano con esso anche i strumenti di comunicazione: cablofono al posto del telefono e la lingua stessa a volte subisce cambiamenti, certi termini diventando un mix di inglese e russo. A tratti la narrazione mi è sembrata frammentaria e non ho percepito una continuità, una fluidità del testo come ad esempio in “Lolita”. Contiene anche un capitolo finale intitolato “La tessitura del tempo”, che rappresenta il libro scritto da Van, il personaggio maschile. In realtà è un saggio sul tempo, argomento inafferrabile per gli scrittori, e che Nabokov lo ha inserito qui, che nel contesto, anche se non dispiace e si possono fare tanti parallelismi con “Alla ricerca del tempo perduto”, devo ammettere che l’ho trovato un po’ pesante ed estraneo al libro per la sua forte impronta accademica.
I riferimenti a “Alla ricerca del tempo perduto” di Proust sono molteplici e azzardo a dire che secondo me con “Ada o ardore” Nabokov abbia scritto la sua Ricerca del tempo perduto sul modello di Proust, nel senso che descrive la vita dei personaggi principali dai primi anni dell’infanzia, con i primi ardori, i primi amori, le ossessioni e li accompagna fino alla descrizione della loro vecchiaia e come si sono cambiati fisicamente e psicologicamente, non mancando l’argomento Tempo appunto nel capitolo La tessitura del tempo che avrei preferito fosse di più immediata comprensione, più letterario come in Proust, ma questo è un mio limite e non certo di Nabokov che è un autore geniale.
“Il lungo raggio che entrava di sbieco dalla porta finestra scintillava nel bicchiere sfaccettato, nell’acqua variopinta e sulla scatola di latta dei colori – e mentre lei delicatamente dipingeva una macchiolina o i lobi di un labello, per la concentrazione estatica la punta della lingua le si arrotolava all’angolo della bocca, e sotto gli occhi del sole la bizzarra bambina dai cappelli color ala di corvo e blu sembrava a sua volta imitare il bocciolo dell’ofride specchio di Venere. Il suo abitino inconsistente e sciolto era così scollato dietro che ogni volta che lei inarcava la schiena mentre muoveva avanti e indietro le scapole prominenti – sorvegliando con il pennello a mezz’aria la sua umida impresa o scostandosi da una tempia una ciocca di cappelli con la parte esterna del polso sinistro – Van, che le si era fermato di fianco, tanto vicino quanto aveva osato, poteva guardar giù la sua lucente ensellure fino al coccige e ispirare il tepore di tutto il suo corpo.”
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Le cose più semplici sono quelle più difficili da
"I cambiamenti climatici non sono un puzzle sul tavolino del salotto cui dedicarci quando siamo liberi e ci sentiamo ispirati. E' una casa in fiamme. Più tardiamo ad occuparcene più diventerà difficile occuparcene (...) ben presto raggiungeremo un livello critico di cambiamenti climatici fuori controllo che renderà impossibile salvarci a prescindere dai nostri sforzi."
Messaggio duro, apocalittico, che tutti noi sappiamo essere vero eppure non ci crediamo e individualmente non facciamo nulla che possa contribuire a un miglioramento dell'ambiente. Nella miglior ipotesi ne parliamo con falso pathos, come se fosse un problema di Marte e non nostro e sono sempre gli altri che devono fare qualcosa: le industrie, lo stato, le scoperte tecnologiche, cosa potremmo mai fare noi, 1 contro miliardi di persone e milioni di industrie? Rinunciare alla macchina e preferire i mezzi pubblici, viaggiare meno in aereo e ridurre il consumo di carne e derivati animali?! In primis la nostra rinuncia individuale avrà impatto zero, quindi perché farla? Inoltre, cosa non meno importante, verremo visti come fanatici, strani, incompresi e magari persino derisi dagli altri, quindi a maggior ragione non ha senso farlo - "non penserai mica di poter salvare il mondo?!" -? Siamo di fronte al paradosso del Comma 22 dell'omonimo libro di Heller: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo.». Nella nostra attualità il paradosso è: per salvare il pianeta tutti noi dobbiamo cambiare stile di vita, ma se gli altri non lo fanno allora non lo faccio nemmeno io! Un circolo vizioso che include tutti noi e il non agire è una trappola mortale per l'umanità. La soluzione c'è e nel caso dell'emergenza ambientale, l'autore ci invita a tutti a creare la ola, l'onda che travolge anche gli altri a reagire. Però questa ola deve avere un punto di partenza, un personaggio forte o un contesto forte che la scateni e gli dia inizio. Questo stesso libro può essere considerato il tentativo di creare una ola perché Jonathan Safran Foer è uno scrittore incredibilmente capace a suscitare emozioni, a smuovere l'animo con semplicità, non ha scorciatoie e va direttamente al cuore e alla coscienza del lettore che anche in questo caso non rimarrà indifferente.
Questo libro è a metà tra il saggio e il romanzo. Contiene il giusto numero di dati scientifici e tesi scientifiche senza mai annoiare il lettore perché essi sono intrecciati sia con esempi comportamentali realmente accaduti in caso di grandi disastri (esempio la seconda guerra mondiale, l'Olocausto e anche alcuni esempi biblici del vecchio testamento) sia con racconti autobiografici. Crea molti parallelismi e a costo di sembrare ripetitivo va a toccare spesso lo stesso punto ma lo fa sempre in un modo diverso, come se volesse essere capito da tutti e rafforzare bene il concetto in chi lo ha già colto, usando esempi dai più disparati: dai risultati degli sportivi alle Olimpiadi alla creazione dell'ola tra le api. Un libro che non è retorico, non incolpa nessuno e non da le solite indicazioni del tipo "comprate le auto ibride o elettriche" (sulle quali lancia un grande dubbio tra l'altro) o "chiedete ai vostri figli di rispettare il pianeta" o ancora "votate i partiti che ci tengono all'impatto ambientale". Lui prende una lente d'ingrandimento e la pone sulle soluzioni più semplici e alla portata di tutti e soprattutto su quelle che hanno maggior impatto in questa battaglia e che noi non vogliamo prendere in considerazione. Auguro al destino di questo libro di poter essere l'inizio di una ola, perché rappresenta un forte grido all'arresto di questo incontrollabile e inutile consumismo. Bel colpo anche questa volta, caro Foer.
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Il re di Zembla
La grandezza di Nabokov l’ho scoperta di recente con la rilettura di “Lolita”, uno tra i libri migliori che abbia mai letto, per poi averne conferma con “Fuoco pallido”. Nabokov è colui che affermò in veste critica che Dostoevskij non scrive bene e che è sopravvalutato, i suoi romanzi essendo lontani dall’essere dei capolavori letterari, pertanto da lui come scrittore ci si aspetta molto e a me non ha deluso, anzi.
“Fuoco pallido” è un romanzo insolito come forma perché si presenta come un articolato commento ad un poema, accompagnato dalla Prefazione e delle Note del curatore e critico di tale poema, “Fuoco pallido” scritto da John Shade. Questo induce un po’ in errore il lettore, credendo di avvicinarsi quasi a un saggio o comunque non a un romanzo con una trama stimolante e dei personaggi ben definiti, io stessa l’ho pensato. E invece non è così, “Fuoco pallido” è un romanzo a tutti gli effetti, forse unico nel suo genere per la forma insolita, ma compatto e molto intelligente. Scritto in prima persona dal curatore del poema Charles Kinbote, il libro descrive ciò che lui avrebbe voluto che John Shade scrivesse attraverso il suo poema e cioè la storia del regno di Zembla (regno immaginario) del quale Kinbote pretende si esserne il re fuggiasco, il poema autentico invece è autobiografico e in esso John Shade rispecchia la sua vita e i momenti più cruciali, senza il minimo accenno alla distorta ed erronea interpretazione di Kinbote. Anzi, il lettore si renderà ben presto conto di quanto sia disturbato e perseguitato il poeta dal suo ingombrante e pazzo futuro curatore del poema, senza dubbio affetto da qualche mania e che non da la minima sicurezza di ciò che afferma. Questa situazione parallela di realtà- fantasia tra il poema e il suo commento susciterà immancabilmente le risate perché completamente diverse. Sicuramente è anche una parodia ai vari critici letterari che spesso e volentieri ci mettono del loro e rovinano il messaggio che un’opera si propone di trasmettere e spesso lo si fa per il proprio narcisismo, mettendo quasi in ombra (Shade) l’autore e la sua opera per mettere i riflettori sulla propria visione delle cose.
Nonostante la strana forma Nabokov riesce a tenere vivo l’interesse di un lettore non solo attraverso la comicità implicita dell’equivoco ma anche attraverso le due storie che Kinbote intreccia: quella del regno di Zembla e quella della sua “amicizia” con il poeta Shade al quale la racconta, convinto di essere la sua musa; entrambe le storie vengono gradualmente avvicinate e unite attraverso un altro personaggio, Gradus, che darà una impronta gialla al romanzo. Da notare i nomi dei personaggi, tutti sono rappresentativi e cambiano anche, Gradus ad esempio in Francia si chiamerà Degré! Shade- ombra, Kinbote cambia varie volte attraverso anagrammi per esempio Botkin etc.
Il testo è anche pieno di riferimenti letterari che ho apprezzato moltissimo (soprattutto quelli a Proust e alla sua opera) e sommati alla forma strana, agli artifici letterari usati, alla bellezza della prosa, alla leggerezza dovuta alla comicità, “Fuoco pallido” risulta essere una lettura incantevole se la si prende per il verso giusto, perché secondo me gli si deve andare incontro, la si deve cercare, per leggere questo libro il lettore deve avere voglia di giocare un po’ con Nabokov, di seguirlo e di trovare gli indizi che gli lascia strada facendo in questo mondo inventato che è il regno di Zembla e non solo.
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Possente forza del caso
Libro insolito (apparso nel 1913) e unico nel panorama creativo di Conrad, dedito principalmente a opere che hanno come personaggi principali maschi; qui invece il personaggio è una donna, Flora de Barral.
Chi ha letto il suo "Cuore di tenebra" ricorderà sicuramente la voce narrante Marlow! Ecco in questo libro Conrad lo farà risuscitare, dato che muore in Cuore di tenebra e metterà in ordine tutti i brandelli della vita sventurata della protagonista, attraverso dirette testimonianze ma anche confessioni da parte di altri due personaggi, narrando quindi l'intera storia a un suo amico.
Ambientato nella prima parte sulla terraferma, per prendere successivamente, nella seconda la direzione del mare aperto, il libro parla della figlia di un finanziere, Flora, che rimane sola e in balìa alla cattiva sorte e ai pregiudizi dopo che suo padre viene arrestato (forse ingiustamente) per cattiva gestione dei patrimoni... E quando c'è di mezzo una donna c'è di mezzo anche un uomo e l'amore tra i due!... e con la descrizione della trama mi fermo qui, lasciandovi il piacere di scoprire tutto il resto, con un finale inaspettato, dettato dal caso... Tutta l'opera viene sottolineata dall'importanza del caso nella vita delle persone, caso che spesso interviene in situazioni critiche, come se la soluzione migliore soltanto lui può trovarla, cambiando le nostre vite.
Le tematiche sono molte, oltre la principale che rappresenta la condizione della donna in un mondo di maschi, che se da un lato (aspetto femminista) Conrad scivola con sincerità nella misoginia dall'altro lato però (aspetto femminile) ne canta le lodi e innalza la donna come essere superiore al maschio. Bisogna sicuramente contestualizzare tale opera perché negli ultimi anni la donna si è di molto emancipata e quindi il suo riscatto non è più attraverso un buon matrimonio, certe idee oggi sono un po' obsolete ma è solo minimo questo sguardo dell'autore verso il sociale, si va a puntare soprattutto sulla psicologia del personaggio e lì, in quanto donna, posso dire che mi ci sono ritrovata, pertanto tanto di cappello a Conrad che ha saputo dimostrare molta sensibilità e delicatezza in questo libro.
""Io definisco sincera una donna", riprese Marlow dopo avermi dato un sigaro ed essersene acceso uno anche lui, "definisco sincera una donna quando essa dice spontaneamente qualcosa di remotamente simile nella forma a ciò che vorrebbe dire in realtà, a ciò che pensa andrebbe detto davvero se non si dovesse salvaguardare la stupida sensibilità degli uomini. Il giudizio delle donne, più secco, essenziale, onesto, afferra tutta la verità, ma per tatto e diffidenza nei confronti dell'idealismo maschile esse si trattengono dal rivelarla per intero. E il loro tatto è infallibile. Se le donne dicesserò la verità noi non riusciremmo a sopportarla. Non reggeremmo. Provocherebbe infelicità a catena, col risultato di tremendi scompigli in questa mediocre, forse, ma pur sempre idealistica felicità illusoria in cui ciascuno di noi trascorre la sua piccola vita: l'unità nella somma totale dell'esistenza.""
Oltre alla condizione femminile, l'autore analizza e soprattutto critica la vita sulla terraferma:
"Ci sfioravano di continuo una, due, tre persone alla volta; gli abitanti di quella parte della città dove la vita scorre spoglia di grazia e splendore; ci passavano accanto coi loro indumenti logori, le facce smunte, macilente, angosciate o stremate, o semplicemente inespressive, in un flusso tetro, lugubre non vite ma di mere esistenze anonime le cui gioie e lotte, i cui pensieri, dolori, le speranze stesse agli occhi del mondo erano miserabili, tristi, e insignificanti,"
"Se noi in mare facessimo il nostro lavoro come la gente a terra di ogni ordine e grado fa il proprio, non riusciremmo mai a guadagnarci da vivere. Nessuno ci darebbe uno stipendio. E poi, una nave governata e manovrata col pressappochismo di questi qui quando sbrigano i loro affari non arriverebbe mai in porto."
Altri temi sono la giovinezza con le sue grandi speranze spesso destinate a sfumare o a trasformarsi in illusioni, l'ipocrisia e il pregiudizio, l'egoismo, il difficile rapporto tra genitori e figli, la morte, l'onore. E' una opera ricca, scritta in modo perfetto, con un linguaggio forbito, poetico ma che non manca certo di ironia che fa spesso sorridere, infine, nonostante tutto, è anche un romanzo felice, una sorta di "Jane Eyre" moderna, con meno colpi di scena e scritta da un maschio e non da una donna, particolare importante perché sgrassa parecchio il romanticismo e le sdolcinatezze che personalmente non amo.
"E gli uomini possono essere ritenuti responsabili unicamente delle loro intenzioni. Qualsiasi cosa facciano, gli effetti ultimi sfuggono totalmente al loro controllo."
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Vita coniugale sotto l'ombra del tradimento
Eccomi alle prese con un frizzante e satirico Dostoevskij, che non è solo un maestro dei lunghi romanzi filosofici ma anche un maestro dei brevi racconti. Già dal titolo si può intuire il taglio comico e ingarbugliato che l'autore da al testo così come sì intuisce anche la tematica: il tradimento coniugale e nello specifico la gelosia. Dostoevskij non è uno scrittore romantico, non che l'amore non sia presente nelle sue opere, lo è sempre, ma è un amore universale, portatore di salvezza e di cambiamento per l'uomo, un amore molto maturo e non necessariamente tra uomo e donna, un amore che non conosce gelosie, e qui penso ad Alesa Karamazov, a Myskin, a Sonia di Delitto e Castigo. Non ho mai letto però un Dostoevskij che analizza la gelosia o l'amore coniugale come ad esempio fa Tosloj in "Anna Karenina" e in questo racconto lo fa in una maniera esilarante tirando fuori tutto il ridicolo in cui scivola spesso chi ne soffre, ma anche descrivendo l'infedeltà delle copie sposate, presente più di quanto lo si immagini. Più si cerca di scoprire se si è o meno traditi e più ci si ricopre di ridicolo, come se la gelosia fosse un passatempo inutile e per uomini deboli. Che poi, se ci pensi, è così...
Gioca da padrone il dialogo, tra ambiguità e fraintendimenti, meravigliosamente intrecciato, con un incipit che "acchiappa" subito il lettore e lo tiene stretto fino a quando è l'autore a liberare la sua stretta con le parole finali :
"E prima o poi concluderemo il racconto di tutte le sue vicissitudini e delle sue peripezie. Tuttavia, convenitevi voi stessi, la gelosia è una passione imperdonabile, anzi addirittura una disgrazia."
C'è da osservare però che è un racconto scritto da giovane, magari per questo motivo si respira questa aria fresca e allegra, piuttosto insolita in Dostoevskij. Personalmente l'ho letto nella raccolta "Racconti" edita da Oscar Mondadori, contenente anche un breve saggio di Thomas Mann intitolato "Dostoevskij-con misura".
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Tenebra e Luce
---Avviso: Contiene SPOILER---
Cosa potrei mai dire su questo libro e nello stesso tempo non rischiare di cadere nella banalità, nel "già detto"? Probabilmente nulla, se si trattasse di una prima lettura. Ma si tratta di una rilettura, gustata fin nei piccoli particolari e piena di novità per me. E' stato come riguardare un bel quadro: inizialmente ci si concentra avidamente su di esso cercando di comprendere e vedere tutti i dettagli ma immancabilmente ci restano impressi gli elementi principali. Prendiamo come esempio "Veduta di Delft" di Veermer, ad un primo sguardo di rado ci si sofferma sulle persone vicine alla barca oppure sulle due signore che passeggiano sulla riva, seppur in primo piano! e ancor di rado su "quel lembo di muro giallo" per citare Proust. C'è la potenza del panorama, le nubi protagoniste che creano ombre e punti luminosi, c'è il fiume, ci sono gli edifici che si riflettono nel fiume, ma nessuno nota i particolari ad una prima occhiata. Poi lo si osserva con calma e si ammira l'insieme. Analoga è stata la mia esperienza con Delitto e Castigo e la presente non vuol essere una "recensione" ma qualche pensiero che prima non avevo fatto.
Ho trovato molte idee comuni con le altre sue opere che poi ha sviluppato più ampiamente e ho rivalutato un personaggio: Svidrigailov. Inizialmente mi sembrava un personaggio di contorno e mi destava solo avversione, ora non più! E' il demone del romanzo, l'affascinante ruba cuori impassibile a tutto, che non ha paura, è colto ed elegante e nonostante i suoi modi falsi usati per intrappolare le sue innocenti vittime, si dimostra nel libro di una disarmante sincerità e su di me ha avuto un certo fascino nella seconda lettura soprattutto nel confronto con Dunia quando affronta la sua arma da fuoco. Certo il comportamento è da condannare, ma la sua passione traspare da ogni parola, non fosse stata così bigotta e pura, Dunia probabilmente avrebbe finito per innamorarsi di lui. Svidrigailov è molto simile a Stravogin di "I Demoni", non trovate? E nonostante tutto il male fatto, tra l'altro inconsciamente solo per puro divertimento o indifferenza, riesce a essere un personaggio affascinante, il "bello dannato" che piace! E' l'"uomo tiepido", presente appunto in I Demoni nella persona di Stravolgin, e hanno la stessa sorte: la morte tramite suicidio. L'uomo tiepido non è ben voluto da Dio, è "il male puro" al quale si preferisce persino il freddo, cioè il cattivo motivato da un'idea, da una convinzione e non dall'indifferenza: "Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca." (cit.Apocalisse) Quindi per me Svidrigailov e l'uomo tiepido e va incontro alla perdizione, Raskolnikov è l'uomo freddo che fa un crimine ma dettato di una forte convinzione e quindi infine si salva, Dio lo salva attraverso l'amore di Sonia. Rimanendo ancora a Svidrigailov, ho trovato le Lolite di Nabokov: la giovane fidanzata sedicenne di Svidrigailov, che "sta seduta sulle sue ginocchia" manda sguardi non proprio innocenti per non parlare della bimba si cinque anni che lui sogna e che si atteggia da donna di strada.
Passo a Raskolnikov, secondo me, se non avesse incontrato Sonia nel suo cammino e non gli avesse detto di "assaggiare la mela della conoscenza del bene e del male" cioè di costituirsi, probabilmente alla fine avrebbe evitato Siberia e tutto il resto. Infatti dopo la confessione lui si pente di averlo fatto. L'unico suo rimpianto è quello di essere stato debole di spirito e di non riuscire a concludere il piano. Ad un certo punto dice di non avere ucciso una persona ma un principio, cioè con la sua incapacità di tacere ha ucciso il suo principio secondo il quale alcune persone sono autorizzate (dalla propria coscienza e da una legge non terrena) a uccidere per fare grandi cose, per cambiare in meglio il mondo. Credo che solo l'amore per Sonia gli da la forza di accettare questo percorso di cambiamento, di cambiare dal "freddo" al "caldo". L'ho trovato simile a Dimitrj Karamazov, altro noto personaggio dostoevskijano: entrambi pagano e accettano un crimine non commesso (non commesso per Raskolnikov in senso figurato perché lui non lo reputa un crimine, non ha il minimo dispiacere per averlo fatto e lo rifarebbe se potesse tornare indietro) ma questa pena rappresenta per loro un percorso di rinascita e cambiamento di vita, rappresenta il passaggio dalle tenebre alla luce ed entrambi lo accettano con serenità.
Ho trovato un Dostoevskij visionario, e non solo nel sogno finale di Raskolnikov che assomiglia molto alle due guerre mondiali che sono succedute ma anche nei due sogni che fa prima della confessione: preannunciano il futuro. Ho amato le descrizioni di San Pietroburgo e delle abitudini cittadine e che dire della parte gialla del libro: psicologia che lascia a bocca aperta.
Credo di continuare con "Memorie della casa dei morti" sempre Dostoevskij, magari troverò Raskolnikov tra i detenuti in Siberia, o quanto meno me lo farà sentire più vicino.
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Non mi ha convinta
Questa è la quarta opera che leggo di Marai ed è anche quella che mi è piaciuta meno e mi ha persino annoiata. Sandor Marai è tra i miei autori preferiti, la sua scrittura impeccabile e la sua profonda analisi psicologica dei personaggi sono ingredienti immancabili della sua scrittura. Perché non mi è piaciuto L'eredità di Estzer? Innanzitutto perché ci ho visto una fotocopia di Le Braci, libro che amo, infatti è stato scritto subito dopo. La struttura è la stessa: un personaggio tradito, isolato dal mondo, in sola compagnia della cameriera anziana con la quale ormai si ha un rapporto quasi materno, viene a conoscenza della visita imminente di colui che lo ha tradito dopo moltissimi anni di attesa. Questo incontro è previsto e atteso in entrambi i casi per chiudere il cerchio e chiarire e chiudere con il passato. Ci sono presenti i temi dell'amicizia, dell'amore e del tradimento, e tutta la narrazione crea un crescendo di tensione che esploderà nel colloquio finale tra il "tradito" e il "traditore". In entrambe le opere l'autore scambia questi giudizi tra i due personaggi, guardandoli da più prospettive, il tradito può essere stato anche lui un traditore e viceversa. Infine, il finale, a libera interpretazione e come solo Marai sa fare è descritto in poche frasi, nell'ultima pagina del testo.
E' venuto meno l'effetto sorpresa e quindi mentre leggevo anticipavo le mosse di Marai, il che non va bene. Non è riuscito nemmeno a conquistarmi con l'intensità del libro, che ho trovato debole rispetto al fortunato Le Braci, dove non riuscivo a staccare gli occhi dalle pagine. Stessa cosa per la definizione e analisi dei personaggi, qui mi risultano un po' scialbi e non so se ne conserverò il ricordo. Sicuramente donne come Estzer e uomini come Lajos esistono anche nella realtà, magari non così estremi, e qui mi riferisco a Estzer che pur non essendo stupida, pur avendo intorno a lei persone che la consigliano bene e nonostante abbia ricevuto innumerevoli prove della disonestà di Lajos, cadde nella sua ultima trappola. Ma credo sia caduta consapevolmente e non da "ingannata" ma appositamente per guarire sé stessa dal passato. Lajos il "traditore" si scopre che in fin dei conti non era così malvagio e le sue intenzioni erano spesso buone, era altruista e non faceva nulla in modo premeditato per recare danno a qualcuno. Come in Le Braci, anche qui viene messo in discussione il tradimento: non sempre è come sembra e non sempre è da punire, talvolta può addirittura essere lecito, l'autore crea un limite incerto,confuso tra ciò che è permesso fare e ciò che non lo è.
So di essere una voce fuori dal coro, è un libro lodato da tutti, ma per me resta un'opera minore di Marai. Riesce a fare molto di più.
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Potente scrittura
Camminare è un romanzo breve di Thomas Bernhard pubblicato nel 1971 ma tradotto in Italia solo l’anno scorso. Finalmente… ci hanno messo di tempo, ma meglio tardi che mai. Thomas Bernhard è stato un autore austriaco (1931-1989) e si annovera tra i più grandi della letteratura del novecento, magari poco popolare tra i lettori perché non di facile lettura ma di valore innegabile per la critica. Personalmente apprezzo moltissimo la sua opera, ne sono innamorata e ho all’attivo diverse sue letture e questa è stata l’ennesima conferma della sua bravura e talento.
Il libro, scritto in prima persona, parla di una copia di amici di una certa età che, ritrovandosi a camminare per le vie di Vienna per la loro solita passeggiata settimanale, si ritrovano immancabilmente a pensare e a ripercorrere il recente dramma successo a un loro conoscente, Karrer, che è stato colto improvvisamente da una “pazzia radicale”, “improvvisamente” inteso come il momento temporale dell’avvenuta pazzia, “la brutalità di un attimo”. I due amici e in particolare Oehler, colui che ha assistito a questa scena, ripercorre con la memoria non solo quel fatale incidente determinato da un’inezia ma e soprattutto i pensieri di Karrer e gli eventi di maggior importanza che hanno determinato nel tempo il logoramento della sua mente. E’, dunque, un lungo soliloquio di Oehler in cui la voce narrante che apre il libro ha una parte passiva, da ascoltatore-testimone per il lettore, dando l’impressione di essere il lettore stesso ad accompagnare e ascoltare Oehler. L’idea centrale è il mal di vivere, spesso incontrato nei grandi del novecento, e chi non riesce a curarsi di questo male oppure non è immune finisce o suicida o pazzo.
“L'intero processo vitale è un processo di peggioramento, in cui di continuo - questa legge è la più atroce- tutto peggiora. (...) Se l'intelletto è acuto, se il pensiero è il più spietato e il più chiaro, dice Oehler, in brevissimo tempo dobbiamo dire di tutto che è insopportabile e orribile. (...) E' sempre un problema di freddezza mentale e di acume mentale e di spietatezza della freddezza mentale , dice Oehler. La maggior parte delle persone, dice Oehler, più del novantotto per cento delle persone, dice Oehler, non ha né freddezza mentale né acume mentale e non ha neppure intelletto. L'intera storia sino a oggi ne ha dato senz'altro prova.”
Karrer impazzisce, dunque non può guarire, perché l’unica via possibile per la guarigione di questo male esistenziale consiste in una sola azione che ormai non può più fare: “andare via”, cambiare sé stessi e di conseguenza cambiare tutto intorno. Non lo può più fare perché anziano ormai, con abitudini radicate, ma la soluzione proposta da Thomas Bernhard nel finale è un segnale d’allarme e propone una via d’uscita per chi è ancora in tempo ad andare via e a cambiare per non morire sopraffatto o peggio ancora impazzito dalla realtà che lo ripugna.
“Questa intera vita non è fatta d'altro che di circostanze (come condizioni) tremende e nel contempo sempre terrificanti, e se la scomponiamo si sgretola solo in circostanze e condizioni terribili, così Karrer a Oehler. E quando sì è rimasti così a lungo su una strada del genere, così a lungo da aver già scoperto da tempo che sì è invecchiati, com'è naturale, non si può più andar via; con il pensiero sì ma in realtà no, e andare via con il pensiero e non in realtà è un doppio tormento, così Karrer. Dopo i quaranta, stessa forza di volontà è già così debole che non ha senso fare anche solo il tentativo di andar via. Per una persona del mio stampo, della mia età, una strada come la Klosterneuburgerstrasse è una tomba sprangata, nella quale si sentono ormai solo cose spaventose, così Karrer.”
E’ un romanzo quindi senza un trama vera e propria, ha certo una sua struttura ma come un telaio di una macchina, la base necessaria, tutto il resto è costituito di pensieri, di osservazioni riguardanti la società, lo Stato e la persona e devi essere un autore dannatamente bravo per riuscire a combaciare e far funzionare in maniera brillante questa auto, ovvero questo romanzo, e lui riesce in modo maestoso.
I temi presenti sono dunque quelli bernhardiani, presenti ossessivamente nelle sue opere: le direzioni opposte, il suicidio, la follia, il disgusto verso l’umanità, la condanna verso i genitori colpevoli di procreazione irresponsabile, condanna dello Stato e della società, feroce critica verso i medici ritenuti dei ciarlatani, e devo dire che nel finale Bernhard mi ha sorpresa perché nonostante tutta l’angoscia si apre una via verso la salvezza.
Infine, lo stile! Tasto dolente per molti: Bernhard si definisce un disturbatore, uno scrittore che irrita, graffia, tormenta e non certo culla con la sua penna. E non disturba solo con i pensieri cupi, spesso grotteschi cadendo addirittura nel comico, ma anche con la forma. Bernhard lo riconosci, il suo stile è ossessivo, ripetitivo, martellante, ha una prosa specchiata quindi raddoppiata dal suo contrario, labirintica in cui è facile ma anche bello perdersi, sotto due esempi:
“Nulla è più istruttivo del veder camminare uno che pensa, così come nulla è più istruttivo del veder pensare uno che cammina, per cui possiamo dire senz'alto che vediamo come pensa colui che cammina, così come possiamo dire che vediamo come cammina colui che pensa e viceversa vediamo pensare colui che cammina e così via, dice Oehler.”
“Quando ci osserviamo, in fondo non osserviamo mai noi stessi, bensì sempre un altro. Quindi non possiamo parlare di auto-osservazione; o parliamo del fatto che ci osserviamo per quello che siamo quando ci osserviamo, ma che non siamo mai quando non ci osserviamo, e quindi, quando ci osserviamo, non osserviamo mai colui che avevamo intenzione di osservare, bensì un Altro. Il concetto di auto-osservazione, e dunque anche quello di autodescrizione, è pertanto sbagliato.”
…tranquilli, il libro non procede tutto a questi ritmi ma è facile trovare questi artifici, che rafforzano ancor di più la sua idea che una persona spesso finisce per perdersi nei suoi ossessivi e inutili pensieri inconcludenti che portano a nonsenso: "tutti riempiono le loro menti spietatamente e senza rifletterci e le svuotano dove vogliono, dice Oehler”, “in ogni pensiero siamo perduti, se ci abbandoniamo”.
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L'uomo che fissava lo stradone
Per me è no! Un autore che ha iniziato a dedicarsi alla scrittura in tarda età e che tutto sommato non scrive male quando si impegna, anzi, devo dire che le prime pagine sono molto belle e mi hanno catturata dandomi alte aspettative, che purtroppo sono venute meno.
Il libro parla di un uomo di una certa età, non più giovane, osserva dalla finestra del suo appartamento ereditato dal padre lo stradone sul quale si affaccia. Si tratterebbe di Via Appia a Roma e quindi lo osserva, lo fotografa e lo analizza così come fa il telescopio Hubble sulla sua porzione di universo. Lo stradone è altrettanto vasto quanto una porzione di universo, soprattutto se si considera che le descrizioni che il narratore fa ripercorre un po' gli anni della storia e non si limita solo al presente. A tutto questo affianca anche la descrizione del proprio vissuto e delle proprie illusioni infrante.
Non mi è piaciuto perché mi ha dato l'impressione che l'autore abbia messo troppa carne sul fuoco, un minestrone di pensieri e temi che non sono amalgamati tra loro in armonia, certe descrizioni lunghe e secondo me non interessanti come per esempio di come una volta veniva creato il laterizio o la descrizione dell'urbe sotto prospettiva di un architetto (infatti lui è architetto) oppure la descrizione della realtà del pubblico impiego, che a me ha annoiato, mi sembrava un saggio o un trattato su determinate cose. Anche Hugo o Melville hanno trattato argomenti magari non proprio letterari ma hanno avuto una tale maestria nel renderli interessanti per un lettore! In Pecoraro non l'ho sentita questa dote. Peccato perché alcuni frammenti sono davvero belli e la stoffa senz'altro c'è, ma manca di armonia e a volte mi cade su certe descrizioni che preferirei non leggere, come ad esempio la sua frequenza di orinare perché al mattino beve litri di acqua da sdraiato (il mare in cui annega le sue angosce, quando si dice l'ubbriacarsi con l'acqua) oppure altri suoi bisogni galleggianti, che ben vengano - soprattutto quando si parla di postmodernismo- ma se buttati lì così senza criterio solo perché fa "scena" non mi piace, dovrebbe prendere esempio da James Joyce, in Ulisse descrive una liberazione di corpo magistrale, quella sì è "pupù" letteraria.
A volte crea anche delle belle ripetizioni di parole, che ritornano come dei ritornelli in musica, ma mi rovina il tutto con l'aggiunta di "di cui parlavo prima" o "di cui si diceva/dicevo", insomma il lettore non è stupido, si ricorda ciò che hai detto e per me è stato solo irritante e ha mandato in fumo un bel effetto.
A mio avviso dovrebbe correre dietro a meno conigli, metaforicamente parlando, se non ha una strategia per catturarli tutti assieme, non basta l'intenzione.
Mi hanno divertito i vari dialoghi brevi in dialetto romano tra i clienti del bar Porcacci, punto cardine dello Stradone, che spezzano il testo, come se fosse una melodia in sottofondo per chi legge, davvero bella come idea e riuscita secondo me.
"Se il mondo mi ha voluto scagliare in basso, pensai allora, eccomi, l'ho accontentato. Mi figuravo che tutta la gente che non-era-me, cioè tutto il genere umano, si fosse divertita a darmi l'illusione di poter raggiungere, se non la vita che volevo (quale vita volevo?), almeno una collocazione, una nicchia adatta alle mie aspirazioni, alle cose che mi sembrava di amare, per poi collocare lungo la mia traiettoria una serie di trappole nelle quali ero puntualmente caduto."
Un libro migliore di tanti altri nella letteratura italiana, senza dubbio, ma prosa da perfezionare sotto certi aspetti, come per esempio meno dispersiva e più attenta a mantenere l'interesse del lettore e tenere la sua curiosità in pugno.
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- sì
- no
Un percorso tra vita e produzioni letterarie
Paul Auster è considerato tra i più validi scrittori statunitensi viventi e questo libro-saggio rappresenta il background della sua opera. Non è una autobiografia vera e propria ma un'intervista durata circa due anni da parte dell'accademica I.B. Siegumfeldt, che ripercorre tutta la sua opera letteraria ponendo quindi accento non tanto sulla sua vita privata ma su quella artistica. Certo, tra le due c'è sempre un solido filo conduttore e infatti tutti gli aspetti personali che riguardano l'autore emergono sempre in relazione ai suoi libri.
Prima di iniziare a leggerlo, mi ero fatta un'idea diversa sul contenuto, credevo che contenesse soprattutto sue filosofie di vita, pensieri articolati collegati al suo vissuto e nella prima parte del libro- dove vengono osservate le sue opere autobiografiche- effettivamente questo succede, ma in maniera abbastanza blanda e spesso ricorrendo alle citazioni vere e proprie dai libri scritti piuttosto che un suo libero pensiero modellato in modo spontaneo, che dica sì le stesse cose ma in maniera diversa, più colloquiale, più "spiegata" per il lettore. Questa non vuole essere una critica ma solo un'aspettativa un po' sopravvalutata forse, distorta. Questa è la seconda volta che mi capita di leggere un libro-intervista e nel primo caso, chi intervistava faceva spesso delle domande semplici a volte persino banali ma la risposta dell'autore era quasi sempre un interessante studio argomentato oppure delle altre domande più profonde e argute, in questo caso invece spesso succede il contrario: le domande spesso corredate da interpretazioni sono davvero interessanti e stimolanti, e alcune risposte dell'autore un po' scialbe e ripetitive.
"I.B.S.: In questa pagina (tratta dal libro "Notizie dell'interno") lei parla anche di una rivoluzione sociale: "La rivoluzione sociale dev'essere accompagnata da una rivoluzione metafisica. Bisogna liberare non solo le esistenze fisiche ma anche le menti. In caso contrario ogni conquista di libertà sarà necessariamente illusoria e passeggera. Bisogna creare armi che permettano di ottenere e conservare la libertà. Per fare questo è necessario guardare con coraggio verso l'ignoto, verso il trasformarsi della vita...L'ARTE DEVE BUSSARE CON VIOLENZA ALLE PORTE DELL'ETERNITA'..." Era una specie di manifesto?
P.A. (Ride): Non sapevo di cosa parlavo.
I.B.S.:"Le porte dell'eternità!" Non la realtà, ma l'eternità?
P.A.: Non ne ho idea.
I.B.S.: Però l'ha inserita nel libro.
P.A.: Si perché era così enfatico, così enfatico che l'ho scritto a lettere maiuscole. L'ho tenuto nel libro ma non lo capisco."
...ecco queste sue risposte mi hanno fatto un po' arrabbiare, perché come lettore cerco di dare un significato a quello che leggo, cerco di capire cosa l'autore mi dice con questa frase, per poi scoprire che non sa nemmeno lui ma suonava bene e allora l'ha scritta. Credo che sia una cosa comune in letteratura, comunque, non solo un artificio usato da Paul Auster ma di tanti altri, tra i quali magari anche classici, però il saperlo, da lettore, mi infastidisce perché mi sento un po' preso in giro. Chissà James Joyce quanto ci ha presi in giro e non tanto a noi lettori quanto ai suoi critici letterari che ancora ci lavorano su.
Archiviato questo rimprovero, devo anche dire che il testo si rivela nel complesso molto interessante sia per chi non ha mai letto nulla di Auster in quanto gli permette di entrare nel suo mondo e di essere guidato per mano tra le sue opere e quindi avere una visione complessiva sulla sua opera riuscendo poi la successiva lettura dei romanzi a interpretarla in maniera più illuminante; ma si rivela ancora più interessante per chi conosce già da tempo questo autore e apprezza i suoi scritti. In questo ultimo caso direi che la lettura è d'obbligo per meglio comprendere e completare i romanzi letti. La cosa che mi è piaciuta molto in questa intervista è che i vari personaggi prendono vita e vengono evocati come delle vere persone, hanno i loro misteri, la loro vita indipendente dall'autore, la loro parte dell'inconscio che nemmeno l'autore può penetrare, davvero un approccio interessante e vivo dove l'autore svela anche molte curiosità che altrimenti un lettore non potrebbe mai conoscere e che danno tutt'altra prospettiva. Credo che avere un testo- guida come questo sul quale potersi confrontare con l'autore, attraverso la sapiente voce di I.B.Siegumfeldt sia una grande fortuna e piacere per un lettore appassionato di Paul Auster. Si passa attraverso i suoi drammi, la sua incapacità iniziale di scrivere prosa, le sue difficoltà finanziarie e il complicato rapporto con il padre, il fallimento del primo matrimonio e rinascita attraverso il secondo, insomma Paul Auster oltre che ad essere una scrittore è un uomo ed è uno che il cammino se l'è costruito con le proprie mani (e penna) tra fatica e sacrifici, è una di quelle persone che nella vita "ce l'ha fatta" e leggerlo sicuramente contribuisce a un arricchimento.
Personalmente faccio parte della prima categoria sopra nominata e cioè da coloro che non hanno letto nulla di Auster ma ne sono incuriosite e la lettura di questa intervista-saggio mi è stata utile a capire il suo "mondo", a farmi un'idea della qualità della prosa che reputo significante e di sostanza ma anche a osservare il suo percorso di crescita artistica. Mi ha invogliata a conoscerlo meglio e approfondirò sicuramente con la lettura di qualche suo romanzo.
"P.A: Voglio rovesciare le cose. Come un architetto che costruisce una casa con tutti i tubi e i fili elettrici a vista. Sono attratto dal versante artificiale della letteratura. Sappiamo tutti che è un libro: lo apriamo sapendo che non è il mondo reale. E' un'altra cosa. Un'invenzione."
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Rinascita
La malattia non è un bel argomento, è scomodo, cupo, trasmette angoscia e tristezza e pochi scrittori si addentrano su questi sentieri letterari. Sandor Marai è uno di essi. Credo che non abbia bisogno di molte presentazioni, basta citare "Le braci" e si riconosce subito la sua grandezza. Non nomino "Le braci" solo perché è tra i suoi libri più conosciuti e belli, ma anche perché "La Sorella" ne assomiglia molto secondo me, seppur diverso.
Dicevo appunto che la malattia è un argomento graffiante, urta il nostro animo e leggere un libro di questo tipo può risultare faticoso, ma l'autore lo intreccia in modo meraviglioso alla musica, e il risultato finale è delicato ed elegante. Il personaggio principale, un noto musicista Z. , si ammala improvvisamente ed è costretto a rimanere sotto intensa cura in una clinica per parecchi mesi e questo tormentato percorso viene analizzato e annottato in una specie di racconto da Z. stesso, narrando quindi in prima persona questa esperienza che lo ha portato vicino alla morte. Fortunatamente è guarito, ma non potrà mai più suonare il pianoforte e queste sue memorie - introdotte nel libro da una seconda voce narrate che è un vecchio conoscente di Z. al quale vengono assegnate dopo la scomparsa del musicista, anni dopo- rappresentano la sua ultima composizione musicale:
"Forse ci sarà chi leggerà questa storia come l'ultima composizione di un musicista, in cui la melodia è più importante persino del testo. La melodia non ha mai "senso". Eppure esprime cose che a parole non si è capaci di esprimere."
Prima ho nominato "Le braci" e la loro somiglianza. Perché? Perché nella mia interpretazione entrambi hanno un finale "partorito", liberatorio e di conseguenza gioioso, rappresenta una rinascita. Dopo un lungo periodo di tormenti e sofferenze che occupa gran parte del libro, nelle ultimissime pagine Marai mette in ordine l'intero caos con poche e simboliche frasi e gesti, che lasciano un alone di mistero e spazio alla libera interpretazione di essi da parte del lettore. La "sorella" che da titolo al libro compare come personaggio possente e determinante per la sorte di Z. solo nelle ultime pagine, rimanendo avvolta in un alone di mistero però decisiva sulla sorte e sulla totale guarigione del personaggio principale. Perché la malattia non è solo una questione fisica ma anche la conseguenza di un vissuto non appropriato, di passioni represse, frustrazioni, e abbandonare la via che porta a esse aiuta il nostro animo a purificarsi e a guarire e quindi ad essere in armonia con il proprio corpo. Infatti, queste memorie ripercorrono non soltanto gli aspetti specifici della malattia di Z. ma anche il suo vissuto e l'analisi di come esso si sia sviluppato nella malattia fisica. Sotto quest'aspetto richiama molto all'attenzione "La montagna incantata" di Thomas Mann: anche lì la malattia era una conseguenza della repressione di sentimenti, passioni, piaceri e il parallelismo tra Z.- E. e Hans Castorp- Clavdia mi ha portata a queste conclusioni.
La prosa di Marai è sempre brillante, ti cattura sin dall'inizio con facilità e ti accompagna armoniosamente per tutto il libro regalando al lettore un'esperienza unica e insegnamenti o punti di vista che rimarranno indelebili.
"Possibile che l'uomo sia tanto indifeso? L'educazione, la morale, le regole del vivere sociale, tutto questo non basta a permettergli di erigere una diga, nei momenti cruciali, per fronteggiare la passione?... E' un sentiero di sabbie mobili - pensavo -, e dove finiremo, noi europei, se ci avventuriamo lungo l'insidioso sentiero di questa anarchia?"
"(...) non si deve mai ritornare da una persona dalla quale ci siamo allontanati definitivamente. E' una regola di vita. Ci sono pochissime regole di vita, e questa è una. Certi ritorni sono pericolosissimi."
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La coscienza di Zeno
La morte di Ivan Il'ic
Ci siamo quasi...
Ogni uomo lascia sempre una sua macchia. Alcuni di essi possono lasciare anche impronte positive ma azzerate dal potere della macchia, sia essa vera o falsa, l'importante è che se ne faccia menzione perché "nulla può isolare dal più infimo livello del pensiero" e "la semplice accusa è già una prova. Ascoltarla significa crederci."
Non ho visto il grande romanzo "americano" onestamente, ma solo "UN" grande romanzo: America potrebbe essere sostituita da un qualsiasi paese e la guerra del Vietnam di una qualsiasi altra guerra, la persona di colore da una qualsiasi minoranza che viene discriminata e il risultato sarebbe lo stesso. I governi sono gli stessi, i bigotti sono gli stessi, i puritani sono gli stessi, i perseguitati sono gli stessi e le guerre sono le stesse. Le persone sono le stesse, la stessa è la voglia di cancellare le origini che crediamo non ci rappresentino in un dato momento o che sono scomode per mille motivi, la stessa voglia di scappare e di rinnovarsi come persona. Gli stessi errori, stesse vittime e carnefici contemporaneamente, stesse macchie.
Non sono una lettrice appassionata di letteratura americana perciò magari qualcosa mi sfugge ma in realtà io ho trovato un grande romanzo europeo dal punto di vista stilistico ma anche delle idee, trovo che Philip Roth si sia ispirato a molti grandi scrittori europei, mi sentivo "a casa" leggendolo. Ho trovato lo stile solilloquiale di Thomas Bernhard, il personaggio "principale" Coleman Silk ha una forte impronta kafkiana, ingiustamente accusato e incompreso, struttura del romanzo proustiana: alla fine del libro il narratore esprime l'intenzione di scrivere tutta la verità nel libro appena letto, dandone anche il titolo. Anche il contenuto mi ha mandato forti richiami bernhardiani: come ne "La cantina": la necessità di andare in una direzione opposta per poter essere felici o quanto meno realizzati: come ha fatto Coleman e Dalphine Roux in La macchia umana, l'attacco feroce contro il governo, contro l'insensatezza della guerra e contro il sistema di istruzione: tutti argomenti vivisezionati da Bernhard e carichi degli stessi difetti... Quindi per tutti questi motivi, ma anche per i numerosi riferimenti letterari europei non grido alla denuncia della società "americana" o "al romanzo americano", che sicuramente è giusto ma personalmente estendo questa denuncia a una denuncia universale, perché le cose funzionano così un po' ovunque.
Ci sono stati anche dei momenti lenti nel romanzo ma è cosa comune. Ho qualche critica da fare alla forma narrativa in quanto l'ho trovata un po' confusionaria e seppur piacevole non mi ha convinto questo mix di monologhi intimi in prima persona e narrazione nella terza persona, cioè non mi è dispiaciuta la scelta in sé ma come sono stati "incastrati" questi tasselli. Inoltre verso la fine del romanzo compaiono degli elementi nuovi e che incuriosiscono il lettore come potenziali chiavi di lettura ma poi spariscono nel nulla, come ad esempio il padre naturale di Faunia e il suo diario segreto.
E' sicuramente un buon libro e sono appagata della sua lettura, sicuramente la sua scia la lascia dentro al lettore, tuttavia Roth secondo me ha avuto paura di osare e farlo diventare un libro perfetto, armonioso. Ci è QUASI riuscito.
"Con gli occhi aperti vede il proprio disonore e con gli occhi chiusi vede la sua disintegrazione, e per tutta la notte il pendolo della sofferenza la fa oscillare dall'uno all'altra."
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Tempo, dove fuggi?
"Parole- di chi, di altri, di nessuno; le parole sono come l'aria e le stagioni, non appartengono ad alcuno. Gran confusione, troppo grande per la piccola testa che la contiene."
Una grande e duplice sfida quella di Claudio Magris: da un lato c'è lui che cerca di ordinare e mettere nero su bianco le sue idee sull'eternità, sull'incomprensibile Tempo, e dall'altra parte c'è il lettore che deve impegnarsi a seguirlo, a meno che non scatti una immediata intuizione ed empatia con l'autore. Il Tempo è un tema molto ricorrente nella letteratura perché ricorrente nei nostri pensieri, nella nostra quotidianità, il Tempo ci detta la vita a suon di tic-tac e ci ossessiona nel nostro tentativo di conoscerlo, fermarlo, prolungarlo, ma per quanto possiamo sforzarci non ne verremo mai a capo di una sua conoscenza oggettiva, universale. In fin dei conti il tempo lo abbiamo inventato noi, siamo noi che gli abbiamo dato unità di misurazione e funziona nella nostra terza dimensione, ma quando ci sforziamo di capirlo a livelli superiori, tutto il nostro sapere al riguardo non ci è più utile e si sbriciola ogni nostra fragile certezza.
Sono moltissimi i libri che si occupano dell'argomento e tra quelli da me conosciuti e ritenuti molto concentrati e con una buona, esaustiva e chiara argomentazione sono "La montagna incantata" di Thomas Mann e "Alla ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust. Li nomino perché scrivere sul Tempo non è facile, non è facile dare una forma chiara e comprensibile ad un argomento così misterioso e complesso e nello stesso tempo offrirci anche una piacevole lettura poetica e filosofica, e per me i due libri sopramenzionati ci sono riusciti. "Tempo curvo a Krems" un po' meno, fortunatamente è un libro breve, 88 pagine di lettura perciò nonostante la difficoltà, la sua brevità lo alleggerisce e lo rende abbastanza accessibile ai lettori in generale e non solo a quelli interessati particolarmente sull'argomento.
Nonostante sia una raccolta di cinque racconti, è molto compatto per via del filo comune che li unisce: il Tempo visto da chi ne ha fatto di strada attraverso di esso "prendendosi sempre più anni e cose sulle spalle, come un attaccapanni sempre più carico". Ognuno dei cinque personaggi dei racconti si trovano ad un dato momento nel tramonto della loro vita a indagare sulla strada percorsa fin lì e su come sono ora, su come erano, cosa li ha trasformati e il Tempo rappresenta l'elemento fondamentale. Ognuno di essi da una prospettiva diversa, c'è chi si sente leggero "si toglieva dalle tasche le pietre raccolte in tanti anni" perché "adesso il mondo era un cane che non poteva più morderlo ma si metteva a correre e a giocare con lui" e c'è invece chi è pieno di rimpianti e tristezza. Sono racconti intensi, che in poche pagine e in un battito di ciglia offre al lettore una fotografia istantanea del vissuto di ogni personaggio, vissuto che è fondamentale poi sulle riflessioni fatte sul Tempo. Chi è arrivato sereno al tramonto è anche colui cha ha vissuto una vita bella, circondato da agi e fatto tutto a suo tempo e nei migliore dei modi, ottenuto grandi risultati con pochi sforzi e un pizzico di furbizia nel "saper fare". Chi invece è arrivato amareggiato è anche colui che ha vissuto gli orrori della guerra e dello sterminio degli ebrei. E c'è anche uno scrittore, con un vissuto culturale e quindi la sua riflessione non può che essere la più scientifica e filosofica per così dire, anzi forse prevale più il lato scientifico cercando di esporre la teoria della curvatura spazio-tempo nel racconto "Tempo curvo a Krems", che da anche il titolo alla raccolta. Questo è il racconto che mi è piaciuto meno, nonostante la situazione descritta sia bizzarra e comica allo stesso tempo sono molto impegnative le riflessioni che fa e la descrizione quasi accademica della teoria menzionata poco fa toglie molto dal piacere della lettura e si fa fatica a comprenderlo e qui mi riallaccio al discorso di prima sui libri di Mann e Proust che nonostante siano impegnativi sono riusciti a modellare in modo armonioso e comprensibile la prosa mentre quella di Magris a tratti risulta essere spigolosa, impenetrabile e questo toglie molto dalla piacevolezza della lettura. Il mio racconto preferito invece è il primo, "Il custode".
Difficoltà a parte, che comunque gli fa onore, i racconti sono scritti con una prosa forbita, poetica e colta, che profuma di classico e quindi di eleganza, bellezza e forse immortalità.
"Sempre mentitore, perché mette in ordine ciò che non ha e non può - non deve?- avere ordine: gli anni, i minuti, le storie, le gocce di pioggia, il frangersi di un'onda, la pelle liscia e la pelle vizza."
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Il maggiolino matto matto
Se c'è un autore che si trasforma e cambia in ogni suo libro, allora lui è Thomas Mann, almeno tra quelli da me letti. Marcel Proust dice che uno scrittore scrive sempre gli stessi libri e pensandoci ha ragione. Nella mia esperienza di lettrice riesco a riconoscere un autore (già letto in precedenza ovviamente) prima ancora di sapere il testo che ho in mano e se non lo riconosco, non appena ne vengo a conoscenza della sua identità riconoscerò subito le similitudini con gli altri suoi scritti: stile o temi che siano, i libri sono stigmatizzati quasi sempre. Tranne Thomas Mann. Non ho letto tutta la sua opera e spero di poterlo fare nel tempo, ma basandomi sui quattro romanzi letti, tutte e quattro sono diversi! Grandissimo pregio per uno scrittore, che in questo ultimo mi ha sorpresa non poco perché chi se lo aspettava un Mann cosi?! Io no e anche molti di quelli che hanno tentato e poi abbandonato la lettura di questo volume.
Dico volume perché "Le storie di Giacobbe" è il primo volume della tetralogia "Giuseppe e suoi fratelli", ultima opera compiuta dall'autore e definita da lui stesso il suo lavoro migliore. In una parola riassuntiva dico solo che racconta in chiave romanzesca le vicende di Giacobbe e di suo figlio Giuseppe narrate nel vecchio testamento, e già qui tutti a pensare "che due mongolfiere multicolori" io stessa per prima! Però ti dici "Caspita, però è firmato Thomas Mann, colui che ha scritto La montagna incantata, e se lui dice di aver scritto un grande libro, addirittura superiore alla Montagna, qualcosa di buono ci sarà" e allora inizi con fiducia la lettura.... Ogni inizio è difficile e questo ancor di più, perché dopo un incipit che incuriosisce seguono pagine e pagine pesantissime di un prologo che non finisce mai e ti svena, pieno zeppo di riferimenti della Bibbia, delle nazioni di allora e dei loro déi, insomma arrivi a leggere ormai il primo terzo (che non poco) del volume e la storia non cambia. E ti chiedi a questo punto, "Ora che faccio? mollo o non mollo?" e tra i dubbi amletici ecco che finalmente la storia sembra cominciare, il motore s'avvia, un po' singhiozzante ma la macchina parte per poi fermarsi dopo qualche centinaio di metri e noi di nuovo lì a spingere e cercare lottare con il tomo. Però ancora non sappiamo che la macchina che abbiamo è un Herbie il maggiolino matto e tutt'ad un tratto parte in picchiata a nostra sorpresa, dall'idea ormai di libro noioso, carico di erudizione come se Mann ormai alla fine della sua carriera volesse pavoneggiarsi del suo inutile sapere e decisamente sopravvalutato. E invece, ta ta ta tammm sorpresa! Scopro un Mann frizzante, leggero, di un umorismo spettacolare che mai mi sarei aspettata, anche se Settembrini e Peeperkorn erano abbastanza birichini, che riscrive in chiave ironica e divertente un frammento della Genesi. E quindi passi da una noia mortale che sei lì lì a mollare ad una divertente, piacevolissima e intelligente lettura che ti tiene incollato al libro, un Herbie che speri non si fermi mai. Lo so, un commento scritto di pancia ma che riflette o quanto meno spero, la giocosità e la piacevolezza del libro.
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Valzer dei contrasti
"Ad ogni progresso essa (la vita) lega un regresso e ad ogni forza una debolezza; non dà a nessuno un diritto che non sia tolto ad un altro, non risolve un imbroglio senza creare un nuovo disordine e sembra addirittura produrre il sublime solo per ammucchiare alla prima occasione sul volgare gli onori che al sublime spetterebbero.”( Musil, L'uomo senza qualità).
Vorrei iniziare a parlare di questo libro partendo da questo citato di Musil che trovo particolarmente calzante. Che cos'è il giusto se non il torto dell'altro? o il bene se non il male dell'altro? Questo libro mette appunto uno di fronte all'altra il testa e croce di una moneta, moneta intesa qui come la colonizzazione. Da un lato c'è il Portogallo e i bianchi ricchi che sfruttano un territorio estraneo dall'altro c'è Angola e i suo popolo, cioè i sfruttati senza un passato e senza un futuro. Il libro narra il declino del colonialismo portoghese in Angola fino alla sua scomparsa attraverso le voci alternate di tre generazioni di coloni portoghesi: nonni- genitori- figli, percorrendo quindi non solo i fatti storici ma anche quelli personali, al punto tale da essere considerato anche una sorta di saga familiare, ma secondo me questo è l'ultimo piano di lettura sul quale concentrarsi. Troveremo uno splendore del Portogallo in Angola sbiadito, ricordato, posto sempre in contrasto con lo squallore e la miseria attuale che sembra avergli preso posto, e troveremo dei personaggi smarriti tra le rovine, su una terra che non è la loro e non li accetta riversando ormai su di essi proprio questi onori ormai ceduti dal sublime al volgare, come appunto si esprime Musil. E non hanno nemmeno una terra di origine, il Portogallo europeo, dove "ci guardavano come essere primitivi e violenti che accettavano l'esilio in Angola per scontare oscure condanne lontano dalla famiglia, da un qualche paese allo sprofondo da cui provenivamo, abitando in mezzo ai negri e alquanto simili a loro" è altrettanto ostile nel loro confronti.
Suddiviso in tre parti, esse vengono narrate attraverso la voce dei tre fratelli, uno alla volta a testimoniare la sua realtà, voci che vanno ad alternarsi con quella della madre presente lungo l'intero libro e che fa da eco anche ai nonni, la madre rappresentando una sorta di ponte tra il presente e il passato e che aiuta a fonderli e a capire l'intero quadro che il lettore ha il compito di comporre per trarre poi le proprie conclusioni.
Prima ho detto che concentrarsi solo sulla saga familiare è un peccato, eh si perché i fatti esposti sono narrati in esplosioni di flussi di coscienza, alternati nel tempo e nello spazio, ognuno di essi dando il suo contributo al quadro finale, completando una lacuna oppure bilanciando un contrasto, dando il proprio punto di vista che spesso è opposto a quello degli altri. E' una tecnica narrativa non amatissima dai più perché serve concentrazione e impegno da parte del lettore, che ha quindi una parte attiva nel mettere insieme i pensieri ma qui non serve allarmarsi perché Antonio Lobo a quanto pare ci vuole bene e ci viene incontro: quando durante la frase cambia la persona o il contesto, cambia anche la forma del testo o attraverso corsivo iniziando un altro paragrafo o attraverso parentesi, è sempre visivamente presente il cambio marcia, come mi piace chiamarlo. (I lettori di Ulisse di James Joyce troverà questa prosa di Antonio Lobo quasi uno scherzetto se paragonata al flusso di coscienza di Stephan Dedalus, per citare uno tra i più contorti del libro). Ovviamente l'attenzione serve sempre, anche solo per poter portare avanti i piani di lettura perché in ogni capitolo, la narrazione è "ballerina" saltando dal presente al passato, amalgamati armoniosamente con qualche leitmotiv che si ripete e si trasforma. E' davvero impressionante la penna di Antonio Lobo dove ogni parola non è a caso e ogni frase o metafora oppure espressione che lì per lì possa sembrare strana, state certi che ritornerà con più carica espressiva tra le pagine, nulla viene lasciato al caso e tutto si fonde alla perfezione in un ordine precisissimo nonostante il caos apparente. Una parola in particolare si ripete spesso: lo specchio, elemento carico di simbolismo nella letteratura e che va a rafforzare ancor di più questa danza dei contrasti e illusioni che è presente nel libro: nello specchio ogni cosa viene riflessa per il suo inverso, rappresenta l'altro lato della moneta di cui parlavo metaforicamente all'inizio.
L'autore ha visto con i propri occhi gli orrori denunciati in questo libro pertanto a mio avviso sono da prendere come reali testimonianze, vi riporto un brano molto forte e brutale e che riassume anche ciò che ho detto in merito alla sua tecnica narrativa. Non è un brano corto perché Antonio Lobo è un "diesel" della scrittura nel senso che il meglio di sé lo da su lunghe "tratte", parte lentamente per poi portarci sempre e sempre più lontano in un crescendo di espressività, tensione e rabbia:
"Avrei dovuto avere il sospetto che per me l'Angola era finita quando ammazzarono quelli che abitavano due fazendas a nord della nostra, l'uomo riverso a testa in giù sui gradini, cioè inchiodato ai gradini con un bastone da tenda infilzato nella pancia, la donna nuda bocconi nella cucina sottosopra, ben più nuda che se fosse stata viva, senza mani, senza lingua, senza seno, senza cappelli, tagliuzzata con i trinciapolli e un collo di bottiglia che le spuntava fra le gambe, la testa del figlio più grande che ci fissava da un ramo, il corpo che la sega elettrica aveva ridotto a fette sparpagliato nell'aiuola, quello più giovane nel retro
(dove il pomeriggio prendevamo il tè insieme a loro, mangiando biscottini e rinfrescandoci con ventagli di rafia)
con le budella mescolate a quelle del cane, ditate di sangue sulle pareti, i mobili ribaltati, le cornici a pezzi, le tende delle finestre spalancate che spazzavano via il silenzio e l'odore delle viscere (...)
io che avrei dovuto avere il sospetto che l'Angola per me era finita e avrei dovuto andarmene il giorno in cui il ragazzino bailundo di otto o nove anni con un sacco di fagioli rubato sottobraccio, accostato al granaio sotto il fucile del caporale, mentre mio padre, con la fondina sganciata, attenuava l'odore dei cadaveri affondando il viso nel fazzoletto e diceva al caporale
-No
il giorno in cui il ragazzino bailundo ammazzò decine e decine di bianchi (...) non masnade di selvaggi ubriachi, non gruppi organizzati dai comunisti russi o ungheresi o rumeni o iugoslavi o bulgari, mica una lega, un movimento, un partito che volesse comandare in Angola, decidere dell'Angola, sostituirsi alle compagnie, negli uffici pubblici, negli studi, impossessarsi di case e fattorie, ammucchiarci sui moli abbracciati a schifezze senza valore, cacciarci, non l'odio o la vendetta
(perché santo Dio, vendetta perché?)
o l'impotenza o la rivolta contro di noi ma solo un ragazzino bailundo di otto o nove anni con un sacco di fagioli sottobraccio, un semplice ragazzino con la chioma scolorita nascosto nella foresta come un tasso, un cucciolo di donnola, un riccio, un semplice ragazzino sotto il fucile del caporale, mio padre con il fazzoletto sul viso
-No
lì a garantirci che l'Angola per me era finita, non soltanto la Baixa do Cassanje, il nostro cotone, il nostro riso, il nostro granturco, l'Angola,l'Angola intera (...) il ragazzino bailundo lì a rovesciarci i divanetti, le angoliere, le poltrone, l'orologio, la terrina giapponese nella credenza a vetri che solo mia madre, con premure da orefice, si permetteva di pulire, il ragazzino bailundo con la chioma scolorita e la pancia dilatata dalla fame, un sacco di fagioli rubato sottobraccio, che si avvicinava a mia madre con un collo di bottiglia, le strappava il vestito, la spogliava, la rendeva più nuda che se fosse stata viva, nuda in maniera svergognata, oscena, con il caporale che tirava la culatta del fucile e io lì a bloccarlo
-No
non mio padre con il fazzoletto sul viso desideroso di sedersi, di fuggire, (...) il ragazzino che mi ha ammazzato, mi ha rincorso per ammazzarmi e ha mescolato le mie budella con le budella del cane, il ragazzino bailundo accostato al granaio a ciò che restava del granaio con il sacco di fagioli rubato sottobraccio lì a fissarmi come se accettasse
no, non come se accettasse, accettando
senza una parola un cenno un tentativo di fuga che io estraessi la pistola dalla fondina di mio padre, sganciassi la sicura
tic
puntassi
tic
ritraessi l'indice
tic
il ragazzino di otto o nove anni che continuò a fissarmi mentre scivolava lentamente contro il granaio come scivola una goccia di cera o di resina, come scivola una lacrima fino ad ammucchiarsi per terra."
...eh, che vi avevo detto? Tosto, molto tosto e questo è solo un piccolo frammento che comunque tolto dall'insieme perde molte sfaccettature, come ad esempio la parola onomatopeica "tic", oltre ad avere il significato eloquente e forte qui nel finale del capitolo, all'inizio è presentato come il rumore dell'apertura e della chiusura a perline della borsetta della madre della voce narrante, rumore confortante che la figlioletta amava particolarmente, in netto contrasto con la valenza finale.
E' un libro che ha dentro tutto: storia, una bella prosa poetica e originale, spunti riflessivi, una forma originale e intelligente che non serve solo a rendere diverso un testo ma lo accelera e rallenta, lo fortifica e rende fragile, una forma insomma che segue la sostanza e ne detta i ritmi, come ogni canzone che ha una melodia che valorizza il testo stessa cosa succede con la forma di un romanzo. Ci sono sentimenti, intrighi, c'è una nonna tradita e frivola che assieme al marito educa male la figlia che a sua volta si dimostra essere un fallimento sia come mamma ma anche come moglie, tra l'altro moglie di un alcolizzato, dei figli di cui uno illegittimo, uno epilettico e l'altra di facili costumi, con problemi caratteriali sicuramente determinati da genitori assenti che vivono nei loro drammi spesso in apatia e si nutrono di ricordi, troveremmo infine una colonia portoghese che cerca di arricchirsi sfruttando un paese debole e di nessuno, colonia che a sua volta viene sfruttata e schifata dal Portogallo europeo. Non ho trovato nessun colpevole oggettivo, identificabile ma solo vittime di un effetto domino che una colpa universale e sconosciuta ha avviato, magari un Dio vecchio come si esprime l'autore nel libro:
"il nostro male
spiegava mio padre
è che siamo nati da un Dio vecchio come altri nascono da genitori vecchi, che siamo nati quando Dio era ormai troppo anziano, egoista e stanco per preoccuparsi di noi, un Dio che ascoltava i propri organi con dolente attenzione, l'autunno dello stomaco, i lamenti del fegato, la cipolla o il crisantemo di lacrime concentriche del cuore, un Dio del tutto dimentico di se stesso e di noi che ci considerava dalla sua poltrona di ammalato con stupore sgomento
spiegava mio padre".
La lettura mi ha lasciato un senso di sconforto e tristezza e pena per i personaggi ma anche una pena generale in quanto situazioni simili esistono realmente nella vita, da "comuni" incomprensioni tra padri e figli fino ai crimini di guerra e si vorrebbe tornare il tempo indietro, ritrovare una felicità persa o aggiustare le mancanze o le colpe ma non si può, e allora come fare?
Pubblicato per la prima volta nel 1997, è un prezioso libro di un autore che è considerato dalla maggioranza il più importante scrittore portoghese in vita, più volte candidato al premio Nobel, amico di José Saramago ma non particolarmente influenzato dalla sua prosa. Questo è il mio primo libro che leggo di Antonio Lobo e da subito ho notato la similitudine con William Faulkner e in particolare con "L'urlo e il furore", utilizzando volutamente o non lo stesso stile e la stessa coralità di voci, però in maniera più semplificata, Faulkner essendo (forse) più impegnativo. In una intervista del 2014, Antonio Lobo afferma che «Il libro non è qualcosa che deve essere letto, è un oggetto che ascolta. Siamo noi lettori che parliamo con lui. Il libro è qualcosa che mettiamo contro un orecchio per udire il rumore del mondo».
Il titolo, "Lo splendore del Portogallo" è un verso dell'inno nazionale del Portogallo, infatti prima dell'incipit ne viene riportata la prima parte che lo include; che Antonio Lobo abbia voluto che questo libro sia altrettanto un inno?!... dedicato magari alle vittime e quindi al prezzo pagato per un pezzettino di storia e di gloria portoghese? Certo è il fatto che ho letto un grande libro e scoperto un nuovo e valoroso autore che meriterebbe più attenzione in Italia.
Ultima precisazione con la quale desidero concludere è che trovo meravigliosa la scelta della copertina di questa edizione! Molto bravi gli editori. Non abbiamo il Portogallo colorito di Pessoa o di Tabucchi ma un Portogallo bianco e nero, sembra una foto ricordo di tanto tempo fa o una cartolina vecchia e impolverata, dove un rinoceronte (che nel libro compare come ninnolo-ricordo in un appartamento a Lisbona) e posto faccia a faccia a un tram (anch'esso descritto brevemente nel libro), altro bellissimo contrasto a sottolineare che qualcosa o qualcuno è fuori posto.
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