Opinione scritta da archeomari
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E IO PAGO!
“Una vita intera di stenti, di difficoltà, di lotte... Un giorno la ricchezza, il giorno dopo più nulla... (…) quel tempo era solo un piccolo ebreo smilzo, rosso di capelli, dagli occhi chiari e penetranti, gli stivali bucati, le tasche vuote... Dormiva sulle panchine, ai giardini, nelle notti buie del primo autunno, così fredde...”
La vita può cambiare da un giorno all’altro, questo lo sa benissimo David Golder che non dimenticherà mai il cammino fatto per arrivare alla posizione che ha adesso: uomo di affari, impegnato nell’alta finanza, nel settore petrolifero:
“GOLDER & MARCUS
COMPRAVENDITA DI TUTTI I PRODOTTI PETROLIFERI
BENZINA AVIO, BENZINA LEGGERA, PESANTE E MEDIA
WHITE-SPIRIT. GASOLIO. OLI LUBRIFICANTI. New York, Londra, Parigi, Berlino”
Una moglie che non lo ama, che gli spilla denaro per mantenere l’amante giovane, per continuare a vivere tra bei vestiti, pellicce, gioielli. ***INIZIO SPOILER***Una figlia, che scoprirà poi non sua, ma di Hoyos, l’amante della moglie, ma che continuerà ad amare fino alla morte. ***FINE SPOILER
Primo romanzo firmato Irene Némirovsky , talento letterario prolifico, intenso, ma, purtroppo, dalla vita breve. Il protagonista, scioccato dal suicidio di Marcus, suo socio in affari, vedrà in poco tempo lo spettro della morte incombere su di lui.
Lascia sorpresi il modo in cui l’autrice, giovanissima, ma già esperta di stile, di scrittura, e dell’animo umano dipinge dalle prime pagine con pochi tratti il dialogo serrato tra David Golder e Marcus, quest’ultimo gli chiede aiuto al primo in quanto indebitato fino al collo. Le battute secche, la descrizione di un gesto della mano, del viso, di un angolo della bocca caricano di drammaticità le prime righe del romanzo.
La descrizione della terribile notte passata da Golder dopo i funerali di Marcus: un dolore lancinante al petto, il fiato corto, la stanza buia che aggrava l’angoscia che l’uomo prova. Tre-quattro pagine in cui descrive magistralmente il terrore che gradualmente si insinua nel cuore di Golder. Ma alla fine:
“Era già per metà invaso dal sonno quando, a un tratto si sollevò, esclamando: «Ecco che cos’è. Adesso capisco... È Marcus. Perché?». Ripeté: «Perché?». In quell’istante gli pareva di vedere dentro di sé con una lucidità straordinaria. Era... una specie di rimorso? «No, non è colpa mia». A voce più bassa, più rabbiosa, aggiunse: «Non mi pento di niente».
A casa la moglie, chiede sempre denaro, “appena lui entrava, lei nascondeva precipitosamente il libretto degli assegni, come fosse un pacco di lettere d’amore”, la figlia Joyce gli chiede denaro per comprare un’auto nuova fiammante con cui girare il mondo con Alec, nobile decaduto, squattrinato.
Il mondo degli affari, del successo e del denaro non può esistere senza la presenza di un contesto familiare, che ho trovato anche ne “Il vino della solitudine” e ne “Il ballo”: il padre ebreo arricchito, la moglie che chiede denaro per mantenere una vita di lusso, “una parte di felicità nel mondo”.
Scoprendo e riscoprendo recentemente la bibliografia dell’autrice ho notato la presenza costante di alcune tematiche: la rivalità/odio nei confronti della madre, il rispetto verso la figura paterna. Sono due filoni tematici, uno materno e l’altro paterno, come ha fatto anche notare il critico Caterini (“Nuovi Argomenti, ottobre 2017) che portano con sè un gruppo di motivi ricorrenti.
Libri come “Il ballo” e “Il vino della solitudine” sono incentrati sull’odio verso la madre, vista come l’eterna nemica, verso cui consumare con spietata lucidità la vendetta: in che modo si vendica? precisamente o rovinandole il ballo, oppure facendo innamorare di sè l’amante di lei.
La madre vede nella figlia come in uno specchio rovesciato: nota in se stessa, impotente, l’inarrestabile decadenza fisica ed estetica, mentre vede crescere nella giovine figlia la bellezza e la minaccia.
Questo filone materno tratta tematiche quali la passione, l’ amore, il lusso sfrenato, l’inganno, la vendetta.
Il romanzo “David Golder “ è invece incentrato sulla figura paterna, come altri racconti o romanzi della Némirovsky, ad esempio “I cani e i lupi”.
Il padre, è sempre una figura molto stereotipata, spiace dirlo, è il classico ebreo riconoscibile dai capelli rossi, dalla magrezza, dal fuoco nello sguardo, dal fiuto per gli affari, ora ricco come un Creso, ora ridotto sul lastrico per l’azzardo sfortunato in borsa. Il finale del romanzo rappresenta un importante riscatto morale, forse quasi obbligato.
L’infanzia e l’adolescenza rappresentano lo scrigno dell’immaginario e delle tematiche da cui attinge per le sue opere, sempre molto autobiografiche.
Innegabile il confronto con altri autori suoi contemporanei: Proust, Joyce, Mann, Céline sicuramente di livello superiore, tuttavia nei racconti brevi la Némirovsky si stacca un pò di più dalle vicende autobiografiche, smonta lo schema di famiglia che troviamo quasi in ogni opera e scopriamo una grande e prolifica penna che avrebbe potuto lasciarci sicuramente altre opere di qualità letteraria innegabile.
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UNA PEDINA SULLA SCACCHIERA
Narrazione “al chiuso”
Narrazione al “chiuso”
Dalle prime pagine ti aspetti qualcosa di grande che sembra avvicinarsi, ma non arriva. Mi è sembrato di rincorrerlo, di cercarlo dietro l’orlo della pagina…ecco, l’ho preso. No, quel qualcosa di grande, di particolare, che rende un libro indimenticabile, non sono riuscita ad afferrarlo.
L’impianto, basato su una narrazione avente ambientazioni al chiuso, le case, appunto, da cui il titolo, è la particolarità dell’opera.
Ogni ambiente dà il nome anche al paragrafo: Casa di Parenti, Casa delle pietre, casa sopra i tetti, etc…seguita da una data, che scandisce i momenti salienti della vita del protagonista, Io.
La sua storia, ambientata in varie case o stanze al chiuso, segue vari binari temporali, prosegue per flashback e ritorni al presente.
A questa interessante e, per me, originale struttura narrativa si aggiunge anche uno stile scorrevole, sincopato, tipico dei poeti che a me piace tanto.
Tuttavia non sono stata in grado di apprezzarlo in pieno e me ne spiace tanto.
Si sente da mille miglia che Bajani sa scrivere molto bene, ha una penna interessante e sicura, ma a parte la progettazione per spazi chiusi, non sono stata coinvolta.
Mi meraviglia inoltre la doppia candidatura (non solo sua) sia allo Strega che al Campiello.
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- sì
- no
La volontà e i sogni muovono il mondo
“Oh, che meraviglia è vivere e inventare!”
“Memoriale del convento” è il libro più bello da me letto finora quest’anno. Me ne sono accorta ben prima di terminarlo, come succede a quei libri che ti catturano: più si avvicina la fine del libro e più cadi nell’angoscia della domanda”…e adesso cosa potrà sostituirlo?”.
Sono di fronte ad una lettura dalla grandezza irripetibile. Già “Cecità” era stata una rivelazione, con quest’altro romanzo Saramago, non a caso Premio Nobel 1998, diventa uno dei miei autori preferiti, del cuore.
E’ un romanzo storico, con personaggi e luoghi veramente esistiti: il convento di Mafra, la costruzione del quale è il pernio attorno a cui ruotano le vicende principali, il musicista Domenico Scarlatti, Giovanni V di Portogallo, padre Bartolomeu Lourenço de Gusmao, che inventò prima dei fratelli francesi Montgolfier una macchina aerostatica.
È un romanzo ricchissimo di tematiche, di descrizioni, di enumerazioni di nomi di chiese, di santi, di dialoghi/monologhi/flussi di coscienza senza la punteggiatura canonica. Meravigliosa ricostruzione di un ricco mondo settecentesco dove la realtà storica si intreccia col “fantastico possibile”. E’ un mirabile affresco di un grande impero coloniale, quello portoghese,le cui vicende si intrecciano con quelle del popolo, degli umili e dei potenti. Di conseguenza anche lo stile prosegue su un doppio binario, quello della parlata popolare e quello della parlata colta.
Protagonisti indiscussi dell’opera sono Balthasar Sette Soli e Blimunda Sette Lune, uniti in matrimonio proprio da padre Bartolomeu Lourenço, che conosce le caratteristiche insolite dell’uno e dell’altra. Balthasar ha un uncino al posto della mano e lo utilizza al meglio, lavorando più di un uomo dotato di entrambi le mani; Blimunda, dai tratti somatici nordici, bionda e dagli occhi cangianti, ha il potere di vedere “dentro” le persone e quindi, poiché si è posta l’imperativo di non guardare mai dentro al compagno, la mattina appena sveglia, mangia un pezzo di pane, gesto rituale per offuscare la sua specialissima vista.
Torna, quindi, anche se con caratteristiche e funzioni diverse, rispetto a “Cecità”, la tematica del vedere oltre, insieme anche ad un’altra cara all’autore: l’ironia anticlericale.
“ (…) è ben vero che Dio sceglie i suoi favoriti, pazzi, difettosi, eccessivi, ma non ufficiali del Santo Uffizio”.
Ancora: Bartolomeu Lourenço, riferendosi al pericolo di venire additato come eretico poiché ha scoperto come far volare “l’uccellaccio”, ovvero la sua macchina aerostatica, dice : “Non è peccato, che io sappia, né eresia voler volare, ancora quindici anni fa ha volato un pallone a palazzo e non ne è venuto alcun male, (…) lo sapete bene che, se lo vuole il Santo Uffizio, sono cattive tutte le buone ragioni e sono buone tutte le ragioni cattive e quando mancano le une e le altre, ci sono i supplizi dell’acqua e del fuoco, del cavalletto e della puleggia, per farle nascere dal nulla e a discrezione”.
Questo inventore è davvero il simbolo, l’incarnazione dello spirito settecentesco, dove il sapere tecnico si mescola a conoscenze “meno tecniche”, alchemiche, magiche, se vogliamo. Scienza, magia, eresia…chi più ne ha, più ne metta!
Bartolomeu Lourenço chiede a Blimunda di imprigionare in ampolle di ambra, resina “che risponde bene al calore del sole”, la volontà delle persone, racchiuse dentro di loro come un una nuvola. La giovane obbedisce e, grazie all’intenso lavoro manuale per la costruzione dell’”uccellaccio” e alla volontà cumulativa degli uomini e delle donne, la prima macchina volante si alzerà da terra e raggiungerà la volta celeste…
La costruzione del convento di Mafra, come si è detto, è stata realmente realizzata per volontà del re del Portogallo, Giovanni V come voto per avere un erede maschio dalla consorte, la regina Maria Anna d’Austria. Esso doveva essere grande e imponente quanto la basilica di San Pietro a Roma. Per la sua realizzazione vennero letteralmente “arruolate” persone, anche con la forza, da Mafra e dai villaggi vicini e molte di esse perirono sotto gli enormi massi da costruzione. L’autore non ci risparmia scene raccapriccianti e crude, si potrebbe anche dire che spesso lo vediamo completamente freddo nei confronti delle vicende dei suoi personaggi e tutto questo potrebbe lasciare il lettore straniato. Ma, d’altronde, lo dice lo stesso autore nel romanzo” le lacrime non sono monete da dogana”.
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Interessante l’accostamento al realismo magico degli scrittori sudamericani.
Troppo tardi per perdonare
(…)vorrei un affetto sicuro e sereno... Eppure non sono più una bambina, ho l’età in cui si tagliano con orrore i vincoli affettivi più dolci... Sì, ma a me questa dolcezza è mancata... E poi, non essere stata una bambina quando era il momento di esserlo forse fa sì che non si possa mai maturare come gli altri; si è appassiti da un lato e ancora acerbi dall’altro, come un frutto esposto troppo presto al freddo e al vento...”.
Nella Némirovsky, scrittrice strappataci anzitempo, storia e autobiografia si intrecciano inestricabilmente in molte sue opere.
Anche qui, come ne “Il ballo”, che ho letto giorni fa, torna l’eterna tematica del conflitto con la figura materna che si traduce spietatamente nel detto Mors tua, vita mea.
La piccola Hélène, protagonista de “Il vino della solitudine”, si pone come obiettivo di vita quello di vendicarsi della madre, della sua freddezza, dell’amore e dell’affetto mancati nell’infanzia. Hélène vuole dimostrare a sua madre Bella che anche a lei spetta una piccola “fetta di felicità nel mondo”, le strapperà anche l’amante, se necessario, sarà la sua terribile rivale.
Tale conflitto, tale spietato odio, oserei definire contro natura nel rapporto madre-figlia, ricorre in più opere della Némirovsky e diventa sempre più crudele e irreversibile.
La figura paterna è l’unica figura amata, anche se non sempre presente, perché lontana per viaggi di affari: solo dal padre Hélène accetta baci e manifestazioni di affetto.
“Hélène assomigliava solo a lui, ne era il ritratto fedele. Da lui aveva preso il fuoco degli occhi, la bocca grande, i capelli ricci e la carnagione scura dal colorito che tendeva al giallognolo non appena la bambina era triste o sofferente.”
Boris Karol, papà della protagonista, ha però tante debolezze: la più grande è l’amore verso la moglie Bella. Le perdona i capricci, le sfuriate, l’incostanza: è l’unico che mantiene la famiglia, porta “milioni, milioni, milioni” in casa che servono alla consorte per avere gli abiti più costosi di Parigi e per fare doni al suo giovane amante, Max. Una relazione adultera, una delle tante, di cui lui fingerà di non essersi accorto. Boris ha anche il vizio del gioco e della scommesse: perde interi patrimoni, anche se a volte riesce a recuperare denaro con azzardi in Borsa.
La madre, Bella, è una donna leggera, frivola e fredda, che considera la figlia dapprima come un fardello, poi come oggetto da maltrattare, “stai dritta, stai composta”, mai un gesto o una parola affettuosa. Ama i viaggi, adora Parigi, le avventure clandestine, legge giornali di moda, sogna ad occhi aperti di
“Stringere fra le braccia un uomo di cui non sapeva da che paese provenisse né come si chiamasse, un uomo che non l’avrebbe mai più rivista, questo soltanto le dava quell’emozione forte che cercava. E pensò: «Ah, non sono nata, io, per fare la brava mogliettina borghese placida e soddisfatta, con un marito e una figlia!».”
Il lettore si imbatterà in uno stile secco, asciutto, che lancia fendenti nell’animo, descrizioni efficaci tratteggiate sapientemente con pochi tratti essenziali.
Abusi, debolezze, sesso, ricchezze, nell’aria vento di guerra imminente, spostamenti continui da Pietroburgo a Parigi. Questi ultimi biograficamente si traducono nel bilinguismo dell’autrice: la Némirovsky non scrive nella sua lingua madre,il russo, ma in francese, la lingua della patria adottiva, da cui spera di ottenere la cittadinanza.
È il romanzo della borghesia del tempo, legata ai precari e sfuggenti meccanismi della Borsa: quotazioni, azioni, perdite profitti che ora ti coronano d’oro e diamanti ora ti spogliano di tutto e gettano famiglie onorabili sul lastrico.
“Tutti si arricchivano. L’oro sembrava sgorgare a fiotti, e quella fiumana aveva un corso talmente capriccioso, impetuoso, tumultuoso da spaventare persino quelli che vivevano sulle sue rive e vi si abbeveravano. Tutto era troppo rapido, troppo facile... Appena si era entrati in possesso di un titolo di Borsa, ecco che si vedeva il suo valore schizzare alle stelle. Intorno a Hélène non si sparavano più, festosamente, delle cifre: adesso si sussurravano. Non erano più «milioni» quelli che sentiva, ma «miliardi», pronunciati con voce esitante, bassa e ansimante, e lei non vedeva attorno a sé che sguardi avidi e smarriti”.
Questo senso di esaltazione e di precarietà però sembra solo sfiorare Hélène, presa com’è dall’attesa di diventare donna, e di mostrare alla madre di conoscere già tutte le sottili arti della seduzione e di prendersi una rivincita su di lei. Per questo motivo non si prova compassione per Hélène, nè riusciamo a capire questo odio terribile che prova verso la madre. Tuttavia il disgusto che prova verso di lei, lo proverà ben presto anche verso se stessa, perché si renderà ben presto conto che lo stesso fuoco che brucia nella madre, brucia anche in lei. Le somiglia più di quanto sia capace di ammettere.
Ci saranno brevi e intensi guizzi di compassione verso la madre, ormai sfiorita, che paga giovani e aitanti gigolò per illudersi di una giovinezza ormai dipartita, ma tali barlumi di tenerezza durano pochissimo. Hélène sa che è ormai troppo tardi, conosce troppo bene se stessa e sa che è incapace adesso di perdonare. È stata educata ad offendere, a tradire, a abusare, a ingannare.
Vendicarsi è il suo ineluttabile e spietato destino.
Non c’è spazio per riflettere e parlare, non c’è tempo per perdonare.
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Tutte le opere dell’autrice
La felicità lascia l’amaro in bocca
Sorprende sapere che questo romanzo breve sia stato il primo scritto dell’autrice: aveva vent’anni. Sorprende non soltanto per lo stile già riconoscibile, con i suoi affondi, con il suo rapido tratteggiare i personaggi in maniera efficace, ma soprattutto per la lucida consapevolezza dei rapporti umani, per la disillusione nei confronti dell’amore, che raramente si riscontrano a quella età.
“Il malinteso” è la storia dello smantellamento di un amore nato in vacanza, sulle spiagge di Hendaye, in terra basca: ambientazione familiare nelle opere più tarde, ma anche località dove la stessa autrice passava le sue estati con il marito e le figlie.
Non si tratta della solita storiella estiva, “mordi e fuggi”: lei sposata ad un uomo ricco che stravede per lei, da cui ha avuto anche una dolce bambina, e lui giovane e aitante rampollo caduto in miseria. Colpo di fulmine, passione nata e bruciata nel giro di qualche settimana.
No, non sarebbe un’opera della Némirovsky. Ne “Il malinteso” , l’autrice tesse saggiamente il momento il cui Yves Harteloup, giovane in vacanza, spensierato del quale “tutti i piaceri e tutte (le sue) preoccupazioni dipendevano dal tempo” mette gli occhi addosso alla graziosa Denise, che sta giocando in riva al mare con la figlioletta Francette. Scopre subito che Denise è moglie del facoltoso signor Jessaint. Lui se ne innamora subito o forse si innamora di ciò che prova per lei, lo capisce da quell’ansia particolare quando, dopo aver condiviso con lei tutte le mattine in spiaggia con la piccola, - il marito era lontano per affari - non la vede arrivare.
“Forse fu per questo che, non appena la perse di vista tra la folla dei bagnanti, Yves provò una lieve, del tutto fugace, sensazione di angoscia – uno di quei piccoli dispiaceri che stanno ai grandi dolori come una puntura di spillo sta alla ferita inferta da un coltello”.
Yves era un giovane a cui non facevano difetto rapide avventure amorose, “era nato nel 1890, in piena fin de siècle, epoca d’oro in cui a Parigi c’erano ancora persone che potevano permettersi di non fare niente, in cui si assecondava il capriccio con applicazione e il vizio con orgoglio”.
La loro storia scorre placida fino a quando dopo le vacanza estive, di ritorno in città, lei lo trova cambiato: non è più il giovane sollecito e appassionato che aveva conosciuto, ma lo vede stanco, trascurato, nonostante quando esca con lei vesta sempre in maniera elegante.
Cosa è cambiato?
È cambiata la vita del giovane, è caduto in miseria, è costretto a lavorare e lo stipendio non gli basta per soddisfare il bisogno del superfluo che non l’ha abbandonato.
Interessante questo piccolo spaccato della vita degli impiegati che ci offre la Némirovsky, specchio anche di una società che cambia e i vecchi rampolli decaduti abituati al dolce far niente, non riescono ad apprezzare l’onestà del lavoro:
Entriamo nello studio con Yves:
“Il ticchettio delle macchine per scrivere, l’odore dell’inchiostro... La nuca dolorante, le spalle ingobbite, le palpebre pesanti... Sfilze di cifre incolonnate che aumentano sempre... Una pila di lettere che non si esaurisce mai, come il leggendario sacco d’oro dei coboldi, gli spiritelli della mitologia nordica – un sacco che bisognava vuotare e riempire senza sosta, per migliaia e migliaia di anni, come punizione per aver sorpreso il vecchio Reno mentre giocava al tramonto con le pagliuzze d’oro delle onde... Quelle facce, sempre le stesse, di impiegati diligenti chini sulle loro scartoffie...”.
E Denise?
Lei è preoccupata solo di farsi bella, di pensare a cosa indossare per uscire con lui, è completamente cieca ai bisogni e alle necessità di lui. Stessa cosa dicasi per Yves: due egoismi che non hanno spazio per la comprensione, completamente ciechi, presi soltanto dalle proprie necessità. La necessità di sentirsi amata e corteggiata di Denise, la necessità di riposare (e anche risparmiare) di Yves.
“La loro relazione, insomma, gli rendeva solo la vita più faticosa. Bisognava essere affettuosi, innamorati e ardenti a ore fisse; preoccupato per le mille noie quotidiane che lo assillavano come mosche in un giorno d’estate, gli toccava dire frasi gentili, sorridere, accarezzare; mentre l’emicrania lo tormentava(…)”
La sollecita mamma di Denise apre gli occhi alla figlia:
“Prova a immaginare, per esempio, il diverso stato d’animo con cui arrivate ai vostri appuntamenti... Tu, la cui unica preoccupazione fin dal mattino è stata quella di scegliere il vestito che potrebbe piacergli di più; lui, angustiato, stanco, contrariato, nervoso, dopo una giornata trascorsa a penare per guadagnarsi il pane... Hai una vaga idea di quel che significa, bambina viziata? E ti stupisci di qualche dissapore! Egoista... Ah, mia cara... l’amore è un sentimento di lusso».
Bisogna imparare che la felicità è tale, anche quando lascia l’amaro in bocca. Denise lo imparerà, ma…
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L’ULTIMA REGINA NORMANNA
Avevo conosciuto la scrittrice con il romanzo “L’acquaiola” e mi era molto piaciuto per l’ambientazione, il crudo realismo, il forte carattere della protagonista. “La sposa normanna” è incentrata su un personaggio femminile forte, determinato e storico: Costanza d’Altavilla, madre dello stupor mundi, ossia Federico II.
L’opera comincia quando Costanza, ignara degli intrighi di corte, è già in convento a seguire la sua vocazione religiosa quando le viene strappato il sacro velo per unirsi in matrimonio con Enrico di Svevia.
Lei, una donna non più giovanissima, (quasi trentatrè anni) probabilmente non adatta a procreare, nata presso una corte che onora la cultura e la bellezza, che va in moglie ad un uomo più giovane di lei, un diciannovenne rozzo e semianalfabeta!
Ma lei è l’ultima erede al trono normanno e Guglielmo d’Altavilla, suo nipote, per contrastare lo strapotere del papa Clemente III, è costretto a stringere un’alleanza con la casata sveva e l’unica soluzione è richiamare dal convento Costanza, che nel frattempo si è fatta chiamare Suor Maria Veronica.
Costanza è di “indole molto docile e remissiva, plasmata dalla rigorosa disciplina della clausura. Questo è ciò che ci occorre “dice l’imperatore di Svevia al figlio Enrico “ una sposa obbediente, mite, timorata di Dio, che privilegi la preghiera, il raccoglimento, la vita contemplativa e aborrisca le cure dello stato e l’esercizio del potere. Alla morte di re Guglielmo non ti costerà nessuna fatica estrometterla dal governo e regnare al suo posto.»
Una donna sola contro tutti: contro Enrico, suo sposo, attratto prepotentemente da lei, ma che la disprezza, debole e mal consigliato, Gualtieri di Palearia che vuole farla fuori, lo stesso papa.
Splendide ed accurate le descrizioni della Russo. Ecco uno stralcio riferito al giorno della celebrazione del matrimonio reale:
“Davanti all’altare maggiore, sotto un baldacchino di porpora e oro, sedeva il vescovo, che indossava la mitria e la pianeta delle occasioni solenni, doni preziosissimi dei re di casa Altavilla. Gli facevano corona i prelati, i parroci delle chiese palermitane, i diaconi. Alle loro spalle, era schierato il coro, in tunica rossa e camice bianco. Un tappeto di velluto scarlatto, ricamato in oro e argento, segnava il cammino fino al trono riservato al re, davanti al quale, sopra un prezioso cuscino intessuto d’oro e perle bianche di fiume, posava l’ampollina con l’olio consacrato, la corona e lo scettro. Gioielli di valore inestimabile, tempestati di un numero incalcolabile di pietre preziose: granati, turchesi, ametiste, smeraldi, zaffiri, rubini, perle. Creati da artisti che lavoravano solo per la casa normanna e non lasciavano mai la reggia, abitando e lavorando in un’area interamente riservata a quello scopo”.
Costanza è ubbidiente e remissiva, ma quando diventerà madre tirerà fuori una forza e una determinazione sorprendenti, unite all’astuzia e all’aiuto dei fedeli al trono normanno sparsi per l’Italia, che non sopportano i soprusi degli Svevi e la corruzione del papa.
E’ una storia di intrighi, di vendette, di invidie, ma anche di sentimenti nobili e delicati, di passioni che covano sotto la cenere.
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SPLENDIDAMENTE CRUDELE
La scrittura d’autore si riconosce anche a distanza di mille miglia.
Avremmo potuto perdere le meraviglie letterarie della Nemirovsky se la figlia Denise non avesse ben custodito i manoscritti che la madre aveva racchiuso in una valigia prima di venire deportata come ebrea ad Auschwiz (non aveva mai ottenuto la cittadinanza francese), dove morì di tifo.
La sua penna, come un magico pennello nelle mani dell’artista sapiente, con pochi tratti è capace di rendere caratteri, atmosfere, descrizioni fisiche.
“Il ballo” è un lungo racconto o romanzo breve, che dir si voglia, che concentra molte tematiche care all’autrice, legate alle vicende dei primi del Novecento, ma anche di ogni epoca, in verità: la scalata sociale dei nuovi arricchiti, le ipocrisie del bel mondo, i tradimenti, i pettegolezzi, il conflitto con la figura materna.
Narrato in terza persona, senza salti temporali che non siano bei brevissimi flash, la scrittura scorre cristallina, piacevole e, a volte, tagliente fino a farti sanguinare.
Antoinette, la figlia, Rosine Kampf, la madre. Mai letto di un rapporto così carico di odio, dove l’amore e la tenerezza sembrano banditi sin da quando Antoinette era piccola. Rosine, arricchitasi con una mossa fortunata del marito in borsa, cambia città, si tinge i capelli di un platino chiarissimo e organizza un ballo per duecento persone altolocate di Parigi e dintorni. Solo che qualcosa va storto, ed è colpa di Antoinette, che la madre non ha voluto che partecipasse al ballo, poichè la freschezza di lei avrebbe oscurato la sua bellezza quasi sfiorita.
Antoinette si vendica, in una maniera terribile!
“Nessuno le voleva bene, nessuno al mondo... Ma non vedevano dunque – ciechi, imbecilli – che lei era mille volte più intelligente, più raffinata, più profonda di tutti loro, di tutta quella gente che osava educarla, istruirla... Arricchiti volgari, ignoranti...” questo è quello che Antoinette pensa dei genitori…da brividi!
Altri personaggi vengono tratteggiati con maestria e ne abbiamo il quadretto completo. L’istitutrice:
“L’inglesina, guance rosse, occhi spaventati e dolci, uno chignon color del miele arrotolato sulla testolina rotonda, si insinuò attraverso la porta socchiusa”
O ancora, la scena di lusso dove campeggia la volgarità dei camerieri:
“Percorse il corridoio, dove due camerieri, con la testa rovesciata all’indietro, tracannavano bottiglie di champagne. Raggiunse la sala da pranzo. Era deserta, con tutto già predisposto: il grande tavolo piazzato al centro, carico di selvaggina, di pesce in gelatina, di ostriche su vassoi d’argento, e adorno di pizzi veneziani, con i fiori tra un piatto e l’altro, e la frutta in due piramidi uguali. Tutt’intorno i tavolini rotondi a quattro e sei posti scintillavano di cristalli, di porcellane pregiate, di argenti e di stoviglie dorate”.
Tanti piccoli dettagli che formano l’idea del lusso, dell’eleganza, della volgarità di alcuni personaggi, della disperazione e della cattiveria.
Un libretto che si divora in un’ora.
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Se tutti i fiumi fusse come ‘l Po!
“Quando che senti l’acqua che ride, che gorgoglia, vuol dire che lì c’è una pietra, o il fondo basso, e bisogna starci alla larga. Se l’acqua ride, il burcio piange!”
Ganbeto è il ragazzo protagonista del romanzo, per tutta la durata della vicenda non scopriremo mai il suo nome di battesimo. Non è importante saperlo: in un mondo semplice, di lavoratori, in buona parte quasi analfabeti, di barcari che lavorano notte e giorno sul burcio, cioè il barcòn, l’imbarcazione adibita alla navigazione, per riconoscersi basta usare i soprannomi. Così il nonno di Ganbeto si chiama Caronte, lo chiamano tutti così dalle rotte padovane a Trieste; e lo stesso nome, Ganbeto, come l’autore ci spiega nel “glossario minimo dei barcari” significa “ferro ricurvo a U, dotato di perno di chiusura, utilizzato per unire due anelli, o la catena all’ancora”.
Terminata la terza media “per grazia ricevuta”, con tanto di cero acceso davanti a San Giacomo, nell’estate del 1965, Ganbeto comincia a dedicarsi all’arte del barcaro e il nonno Caronte lo assume come “morè” sul suo burcio.
Siamo in pieno boom economico italiano e Malaguti ricostruisce l’ambientazione tipica di quegli anni: l’avvento della televisione nelle case, pagata con le cambiali, gli appuntamenti del Carosello con le sue canzoni e le réclames, la voce di Mina che Ganbeto tanto apprezza, la vespa 50L, la diffusione dei bagni privati e l’utilizzo più volte improprio del bidet:
“Cossa che serve? -aveva sussurrato, indicando il recipiente basso e oblungo di porcellana bianca, con due rubinetti, vicino al vate. Scaia aveva alzato le spalle, confessando che suo papà si era vergognato di mostrarsi ignorante coi murari e col dràulico, e così non aveva chiesto niente. Alla fine avevano dedotto che era per lavarsi i piedi, e così facevano. Ogni tanto sua mamma ci lasciava i fagioli secchi a riprendersi”.
Spassosa anche la parentesi scolastica col professore di italiano, un certo, “Gatti Benito Detto Libero, per tutti semplicemente Oio” che faceva pagare 20 lire ogni errore di ortografia “Non possono più essere accettati ‘cedimenti vituperevoli’ al codice dell’ignoranza”. Ho riso di cuore quando Ganbeto ha recitato alla madre alcune strofe del Cinque Maggio del Manzoni e nè lui nè la madre conoscevano il significato di alcune parole altisonanti.
La lingua ha molti termini veneti che non sono illustrati nel glossario a fine libro, ma da napoletana non ho avuto il benchè minimo problema a comprenderne i significati o le sfumature. È indubbio che avrei avuto piacere di conoscere meglio l’etimologia di altri termini come “bocia”, “calumarsi dietro una tosa” e tanti altri, il cui significato si intuisce bene.
Nel libro sono presenti tante interessanti tematiche: lo sfondo dell’Italia anni ‘60, il mestiere dei barcari e dei cariolanti, le loro rotte, il ruolo della donna, depositaria delle conoscenze religiose e tramite coi Santi e la Madonna, le prime esperienze amorose di Ganbeto, il rapporto con il padre, la figura orgogliosa e autoritaria del nonno Caronte, che proprio non vuole rinunciare al suo vecchio burcio, la Teresina, che funziona meccanicamente coi remi per comprare una nuova imbarcazione a motore, come se ne vedono lungo il Po.
Una prosa lineare con rarissimi guizzi lirici che rendono indimenticabile la narrazione:
“Sarebbe stato un lavoro di ricostruzione certosino, stupendo e doloroso. Stupendo perchè ogni volta che tornava a varcare col pensiero la soglia del negozio, sentiva in tutto il corpo qualcosa che non aveva mai provato, e di cui pareva non potersi mai stancare.
Doloroso, perché, se ne sarebbe reso conto poco per volta, con il passare delle settimane la sua mente avrebbe operato sul ricordo della ragazza come la corrente del fiume sui sassi, che sembra accarezzarli e invece li smussa, li leviga, li modifica (…) perdendo per sempre, la pura bellezza dell’istante”.
Una bella lettura. Il libro è nella cinquina finalista del Premio Campiello. Vincerà?
Staremo a vedere.
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DUE PRESENZE
Due presenze
“Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene. E quando anche l’ultima persona che ci ha conosciuto da vicino muore, ebbene, allora davvero noi ci dissolviamo, evaporiamo, e inizia la grande e interminabile festa del Nulla, dove gli aculei della mancanza non possono più pungere nessuno”.
Modificando nella forma, ma non nella sostanza quello che Foscolo scrive nel suo famosissimo carme, questa lettura mi ha fatto pensare al fatto che la scrittura “vince di mille secoli il silenzio”. Beh, Trevi non parla di secoli, ha mire meno gloriose. “Due vite” è una breve, tratteggiata ricostruzione del ricordo di due amici suoi carissimi, scomparsi anzitempo: Rocco Carbone, morto in un incidente d’auto e Pia Pera, consumata dalla SLA.
Quest’anno è stato prolifico di libri che hanno ricostruito biografie di persone care scomparse, si è trattato in qualche modo sempre di opere celebrative.
Il libro di Trevi non cade nella retorica e nel memoriale, qui sta la sua bravura: egli ha scritto un libro in cui ricorda i suoi due più cari amici di gioventù, proponendo qualcosa di elegante e di nuovo. Niente dolore, niente rimpianti, non assenze, ma presenze e ciò grazie alla scrittura.
“La scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne, accorgendosi ben presto che il morto è attirato dalla scrittura, trova sempre un suo modo inaspettato per affiorare nelle parole che scriviamo di lui, e si manifesta di sua propria volontà, non siamo noi che pensiamo a lui, è proprio lui una buona volta”.
La scrittura come terapia dell’accettazione della perdita: non importa se durante o dopo l’elaborazione del lutto, la penna di Trevi, matura, equilibrata, sapiente ci racconta di Rocco e di Pia, uno scrittore perfezionista, una poetessa intelligente e anticonformista, così come li aveva conosciuti, indicando i momenti più importanti della loro amicizia. Attraverso la lettura di “Due vite” ho scoperto i titoli di opere meravigliose ormai fuori catalogo: gli scritti di Rocco e di Pia, raccontati da Trevi, sembrano dei capolavori perduti nelle nebbie del tempo e dell’incomprensione dell’editoria e del pubblico.
All’interno del libro c’è una foto che Rocco aveva scattato all’autore e a Pia: erano felici, forse anche un pò brilli, commenta Trevi. Quella fotografia che così generosamente l’autore condivide con noi lettori ci fa essere d’accordo con lui:
“Inspiegabilmente, alla fotografia si associa l’idea dell’«immortalare», ma è un modo di dire sbagliato, non c’è nulla che più della fotografia, in un modo o nell’altro sempre vincolata all’attimo e al presente, ci ricordi la nostra transitorietà e futilità”.
Anche la scrittura è vincolata all’attimo? Dipende, nel caso del libro, Trevi ci affida tantissimi attimi, attraverso i quali possiamo innamorarci anche noi di Pia, così fragile, ma dal carattere così forte, abile nel giardinaggio, scrittrice e poetessa senza censure. Proviamo simpatia per Rocco Carbone che nelle prime battute del libro, Trevi avvicina a Ciccio Ingravallo, celebre personaggio gaddiano “Non è affatto un’associazione arbitraria. Lui stesso si era totalmente identificato nel modello letterario, in quei primi anni di impatto e assimilazione di Roma. Fin dalla prima pagina, si era riconosciuto in quel commissario di polizia «misero e pertinace (…)”.
Ekphrasis finale, sigillo d’autore è l’elegante ed efficace chiusura ad anello del libro: il famoso e provocatorio dipinto di Courbet, “L’origine del mondo”, ammirato dal trio di amici in una mattina d’estate del 1995 al Musée d’Orsay apre il libro e, riprodotto in una cartolina un pò spiegazzata infilata tra il vetro di una credenza o tra i libri dello scaffale, ricordo di quella meravigliosa giornata insieme, lo chiude.
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L’ANASTILOSI DELL’ANIMA
“Non la luce, Cloe. Caravaggio dipingeva l’ombra, il buio. Conosceva il luogo oscuro. Ciò spiega la presenza copiosa di materia organica suppurante nei suoi dipinti. Si sporcava le mani con la vita vera, quella che gli altri non vedono perché disturba. La luce nei suoi dipinti, la luce su cui noi ci soffermiamo per indicarne il genio, è un bianco che si afferma per contrasto: se non ci fosse ombra, non lo vedremmo”.
Si fa chiamare Cloe, ma il suo vero nome è Clotilde ed è una giovane donna che per guarire dai fantasmi del passato, deve scavare alle origini del suo dolore, un processo che la dilania, ma che è necessario. E’ “un’anastilosi”, un processo lungo che ogni tanto subisce dei “soprassalti”.
Un libro che non è per tutti, una storia difficile, non soltanto per il focus, doloroso e disturbante, ma anche perché spesso può servire rileggere alcuni passaggi più ostici per la comprensione. L’anastilosi è un processo di ricostruzione e di restauro utilizzata per le rovine antiche e il lettore stesso è chiamato a partecipare al fianco di Cloe per raccogliere e mettere assieme i pezzi della storia di lei e, pagina dopo pagina, vengono forniti pezzi di storia, però solo verso la fine sarà più chiara la vicenda della protagonista. I pezzi del mosaico non si presentano in ordine.
La vicenda comincia in medias res, a Venezia, dove Cloe conosce un uomo particolarissimo e solitario, un’ anima in pena, ombra di un’anima egli stesso, che nella storia compare col nome di “professor T.”. Costui nella città lagunare tiene un corso interessante, “Estetica dell’ombra”.
Il richiamo a Borges, “Elogio dell’ombra” è palese, e, forse anche al libro di Tanizaki, “Il libro d’ombra”, ma per quest’ultimo non è detto, poiché legato prettamente al valore dell’ombra dell’antica cultura giapponese.
Il professore e Cloe sono due mendicanti dell’amore (come il titolo di una bellissima canzone che ascoltava mia madre, se non erro, degli Alunni del sole).
Il professor T. a sprazzi, brevi ed intensi, si presenterà al fianco di Cloe che gli rivelerà la sua storia, il suo passato doloroso, il senso di colpa nei confronti del suo amato fratellino Emanuel, il bisogno di essere amata, la necessità di scoprire la verità sul suo abbandono da parte della madre, che lei chiama per nome, Beatrice.
Ho amato il professor T., è il personaggio più toccante, affascinante di tutto il romanzo. La sua disperata solitudine, con cui ha imparato subito a convivere dopo essere stato lasciato dall’amata, è diversa da quella di Cloe.
Il professor T. è un uomo maturo, ha già sperimentato il dolore, lo affronta vis à vis, le sue riflessioni sono di una profondità impressionante: “Abbiamo i sensi irritati dalla luce, accecati da fonti luminose che perseguitano l’ombra. Rifuggiamo l’oscurità come se temessimo di venirne risucchiati”.
Lui conosce alla perfezione il pregio dell’ombra, ed è proprio dall’ombra che Cloe dovrà cominciare a ricostruire il suo passato, sparando colpi di luce su quei fantasmi che vengono a ghermirla ogni notte.
Ma prima di conoscere il professore, la protagonista sembra quasi crogiolarsi nel dolore, nel farsi del male, consapevole che la strada è quella sbagliata, ma cosa importa? Cambia sempre città, cambia nome, passa da un letto a un altro, perchè ha necessità di sentirsi viva e amata, perché ha necessità di racimolare briciole di amore, quell’amore che le è stato negato a dieci anni, abbandonata dai genitori. Ad un certo punto Cloe, secondo un meccanismo che non è nuovo nella nostra realtà contemporanea, frequenta i social network e si costruisce una identità virtuale.
“La mia identità frantumata trovò una temporanea ricostruzione (anastilosi virtuale) nell’identità che post dopo post mi ero costruita sul social network, al punto da convincermi che stare nelle cose del mondo significasse postare. (…) ero arrivata a convincermi che la vita si realizzasse raccontandola ad un numero sempre più crescente di destinatari”. Si sentiva finalmente percepita, approvata. Ma questa esperienza si rivelerà deludente e provvisoria.
Conoscere il professor T. e ritornare alla Collina saranno gli input per iniziare il suo doloroso e difficile cammino terapeutico, la sua anastilosi dell’animo.
“La pazzia non esiste, diceva,esistono le ferite dell’anima, esiste l’inconscio inascoltato”.
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L’UNICA, INFINITA ESTATE DELL’AMICIZIA
È la prima volta che mi imbatto in Cognetti, avevo più volte letto e ascoltato in giro recensioni positive su “Le otto montagne” e mi ero proposta prima o poi di leggerlo. L’approccio è stato di pura curiosità ed ho cominciato con l’audiolibro letto meravigliosamente da Jacopo Venturiero su Audible. Questa modalità mi ha permesso-apro questa breve parentesi - di continuare a leggere quando non avevo proprio tempo di aprire e tenere in mano un libro che non fosse quello per studiare e lavorare.
Se un libro ascoltato mi piace, mi butto a capofitto nel procurarmelo anche cartaceo. L’ho dunque fatto con “Le otto montagne”?
No, perchè, nonostante sia una bella storia, per certi momenti anche toccante, non l’ho ritenuto necessario, lo spazio in libreria mi costringe a procurarmi solo capolavori.
Questo romanzo si legge (e si ascolta) con estremo piacere, la storia non è banale, regge dall’inizio alla fine e la consiglio a tutti, in particolare a quelli che amano le ambientazioni di montagna, la vita di montagna e le storie di amicizia.
Il protagonista è Pietro ed è anche la voce narrante: fin da bambino passa l’inverno a Milano e in estate sale in montagna con i suoi genitori. L’altro personaggio chiave è Bruno, l’amico montanaro, che dalla montagna proprio non riesce a staccarsi e vive lì e (forse) non conoscerà mai la vita di città, perchè della vita urbana “non sa che farsene”.
Il libro segue una narrazione lineare, senza grossi flashback che non siano piccoli e brevi ricordi, e comincia dall’infanzia dell’io narrante: con brevi tratti di penna Cognetti delinea il carattere dei genitori di Pietro, ci racconta dei loro ricordi, del comune amore verso la montagna. Il papà, burbero e cupo, diventa un’altra persona quando sale in montagna, il suo vero habitat, dove riscopre se stesso e la voglia di vivere; la mamma, calma, dal carattere solare fa amicizia con tutti, sia in città che in montagna, sa farsi ben volere col suo altruismo e i suoi modi.
La vita di montagna affascina sin da subito il piccolo Pietro, che una mattina, aveva sui sei o sette anni, di buon’ora si fece trovare vestito di tutto punto pronto per accompagnare il papà nelle sue scalate.
“Io osservavo le case diroccate e mi sforzavo di immaginarne gli abitanti. Non riuscivo a capire come mai qualcuno avesse scelto una vita tanto dura. Quando lo chiesi a mio padre lui mi rispose nel suo modo enigmatico: sembrava sempre che non potesse darmi la soluzione ma appena qualche indizio, e che alla verità io dovessi per forza arrivarci da solo. Disse: ? Non l’hanno mica scelto. Se uno va a stare in alto, è perché in basso non lo lasciano in pace. – E chi c’è, in basso?
? Padroni. Eserciti. Preti. Capi reparto. Dipende.”
Le vette vengono citate da loro come se fossero familiari amati, ma lontani. In una di quelle estati della sua infanzia, Pietro conosce Bruno, un ragazzino della sua età, che vive stabilmente con la sua famiglia lassù, a Grana, ai piedi del Monte Rosa e da quel momento saranno entrambi uniti da profonda amicizia.
Ogni inverno in città sarà vissuto nel ricordo della montagna, cercata e ammirata nelle pagine delle guide del CAI, sfogliato “come diario” , Milano sarà “una nebbia di persone e automobili da attraversare due volte al giorno” in confronto al paradiso quasi perduto di Grana.
E quando, terminata la scuola, Pietro con la famiglia fa ritorno all’amato paesino, Bruno, che aveva sorvegliato i tornanti per controllare il passaggio dell’amico, lo chiama “senza salutarlo, nè niente”, come se si fossero visti il giorno prima, perchè “la nostra amicizia sembrava vivere un’unica infinita estate”.
Bruno troverà anche un soprannome per l’amico, lo chiamerà “Berio”, che nel dialetto del posto significa “sasso”, ma non saranno le uniche parole che l’amico montanaro gli insegnerà. Pietro apprende una nuova lingua, fatta di concretezza e l’italiano parlato a Milano, studiato a scuola, al confronto sembra astrazione. Il larice si chiama “brenga”, l’abete rosso “la pezza”, il pino cembro “l’arula”: quel “dialetto che trovavo più giusto dell’italiano”.
Il lettore si troverà a salire “per ripide balze erbose” e “per macerati e residui di nevai” , insieme ai personaggi e verrà coinvolto nelle loro vicende: Bruno è un montanaro rozzo, ma capace di grandi gesti e di sincera lealtà, Pietro è inquieto come suo padre, pur adorando la montagna, non riesce a vivere stabilmente in un posto e si allontanerà di continuo, senza costruire nessun legame autentico con altre persone, nè uomini e nè donne, viaggerà per il mondo alla ricerca di se stesso.
Pietro è un personaggio dai tratti spesso contraddittori, come la montagna:
“(...) ogni valle possedeva due versanti dal carattere opposto: un adret ben esposto al sole, dove c'erano i paesi e i campi, e un envers umido e ombroso, lasciato al bosco e agli animali selvatici. Ma dei due era l'inverso quello che preferivamo”
La montagna non è solo calma, bellezza e purezza, ma anche asperità, difficoltà, vita dura. Nel libro non c’è nessun cenno di idillio, ma è estremamente realistico, non mancano neppure tratti particolarmente crudi. Una bella lettura.
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Alla ricerca della sorella perduta
Commento questo libro a un mese circa dalla lettura e rivedere la copertina, riprenderlo tra le mani mi riporta ancora a vivide e positive impressioni.
È un libro che consiglio a tutti, uomini e donne, non solo per la storia appassionante e coinvolgente di due sorelle che vengono separate con la forza e desiderano con tutta l’anima di ricongiungersi, ma soprattutto per l’interesse storico dell’argomento.
La scrittrice vive a Londra, ma è di origini coreane, ha avuto modo di ritornare al villaggio della propria madre e di scoprire l’orrore nascosto della guerra, le ferite non ancora rimarginate della storia contemporanea: le comfort women, ossia le donne sfruttate sessualmente dai soldati giapponesi durante la seconda guerra mondiale.
La protagonista è Hana, ed è una haenyeo, ossia una donna del mare, come sua madre. Presso l’isola sudcoreana di Jeju dall’età di 11 anni sa già immergersi in profondità con la madre per pescare perle, molluschi, conchiglie da presentare al mercato e guadagnarsi da vivere.
“Sull’isola di Hana, le immersioni erano un lavoro per donne. Il loro corpo era più adatto di quello maschile ad affrontare le fredde profondità dell’oceano. Riuscivano a resistere più a lungo in apnea, a scendere più in profondità e mantenevano meglio la temperatura corporea, così da secoli le donne di Jeju godevano di un’inusuale libertà di movimento”.
Il mestiere di una haenyeo è qualcosa di più della semplice pesca ad immersione, forgia la donna, sin da bambina, la rende forte ed indipendente, orgogliosa delle proprie origini e della propria libertà. Hana è un personaggio dal carattere forte, determinato, deciso e lo dimostra sin dalla prima prova. Sua madre le aveva affidato la sorella minore, Emiko, (chiamata familiarmente Emi), le aveva fatto promettere di tenerla sott’occhio subito dopo ogni immersione, affinchè non si trovasse nelle mani dei soldati giapponesi. Su come mai bisognasse evitare di trovarsi da sole con un soldato giapponese, Hana non aveva proprio idea e lo scoprirà a sue spese non molto tempo dopo.
Hana infatti, che aveva fatto della protezione della sorellina il motivo di vita delle sue giornate in spiaggia, ad un certo punto, a sedici anni, appena sbucata dall’acqua vede arrivare un soldato giapponese. Si fionda a perdifiato verso la sorella e la nasconde alla vista dell’uomo. Questa scena mi ha tenuto con il fiato sospeso a lungo, ma la scrittrice aveva già anticipato che quel giorno Hana avrebbe per sua sfortuna conosciuto il caporale giapponese Morimoto e così mi sono preparata al peggio.
A dire la verità in tutto il libro sembra che al peggio non ci sia mai fine, è così ogni volta che c’è una guerra: perdite di vite umane, spargimento di sangue, abusi su donne e bambine. La guerra imbruttisce l’uomo, lo priva di umanità riducendolo a puro istinto animale.
Hana verrà portata dall’isola di Jeju in Manciuria da Morimoto e dai suoi soldati e rinchiusa in una casa, un bordello per soldati, diventando una comfort woman. In ogni istante della sua vita il desiderio di tornare a casa le darà la forza e il motivo per sopravvivere. Nei suoi sogni la dolce risata della sorella e il volto della madre bagnata dall’acqua di mare. Nei suoi sogni quel desiderio profondo di mare e di libertà. Una haenyeo non si arrende, con le unghie e con i denti, prova a scappare.
In un altro luogo, in un’altra data, nel 2011, la quasi ottantenne Emi, non riesce ad arrendersi all’idea di cercare ancora sua sorella, quella sorella alla quale deve la vita, che le è stata strappata brutalmente. E così, da subito, la storia segue due fili narrativi, spianata su due piani temporali diversi: il 1943 e il 2011, la giovane Hana, fatta prigioniera in Manciuria, esposta agli stenti e agli stupri di gruppo e l’anziana Emi, che nonostante il cuore malato, i figli ormai adulti preoccupati per quella sua strana e insana ossessione, cerca qualche traccia della sorella, partecipando ad ogni manifestazione per la memoria delle giovani coreane rapite dai soldati giapponesi.
Un romanzo sulla forza della “sorellanza” e sulla forza delle donne.
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Il colore intimo delle persone
Da quel giorno e fino all’ultimo della sua vita, in cui anche lei sarebbe arsa (…) , Mio avrebbe sempre cercato il colore intimo di ogni persona.
Quella sfumatura unica, precisa, che la riassumeva”.
Mio è letteralmente nata nei colori: la sua famiglia possiede un atelier dove vengono tinte stoffe, cuciti su misura i kimono nuziali per le giovani spose. Dalla madre e dalla nonna apprende la sapiente arte dell’abbinamento delle stoffe, della resa dei colori e della magnificenza dei ricami, in tenera età già si incanta a ripercorrere con le dita i fili dei ricami e ad ascoltare la nonna che “parla” affettuosamente agli obi -le alte cinture dei kimono- alle stoffe, accarezzandole come se fossero bambini.
Mio è letteralmente nata nei colori. Possiede un rarissimo dono di natura: la visione tetracromatica. “…gli occhi di Mio individuavano milioni di colori in più degli altri”, grazie ad un numero elevato di ricettori del colore nella retina.
E i doni hanno un prezzo.
Mio da bambina è diversa, se ne accorge subito la madre, con molta apprensione consulta medici e tutti le dicono di stare tranquilla, sicuramente la bambina è solo un pò più pigra degli altri nel linguaggio. La piccola Mio non è ancora in grado di trovare la maniera per esprimere in modo comprensibile agli altri l’esplosione cromatica che la investe ogni giorno, perché per lei un “giallo” non è un “giallo e basta”, ma trova una miriade di colori diversi per definire il giallo del limone, oppure quello di un particolare tipo di fiore, o di una fase precisa del giorno.
Capirà fin da subito che l’ossessione per i colori la accompagnerà per tutta la vita.
Il libro si apre con l’immagine di due bambini, in spazi differenti, alle prese con dei disegni: Mio e Aoi, una bambina e un bambino. Il loro diverso comportamento di fronte ai colori dimostra da subito i due diversi approcci alla vita e alla morte dei protagonisti che conosceremo meglio da adulti. L’una si diverte a giocare con la gamma del verde, incollando sul foglio qualsiasi cosa verde che si trovi davanti, anche la finta pelle che ricopre la borsa della madre, l’altro disegna un albero usando colori poco realistici.
Attraverso le pagine scopriremo meglio la vita di Mio, da bambina (saltando l’adolescenza e la prima giovinezza) al momento in cui lavora presso un’azienda, la Pigment, che si occupa di belle arti e di colori. Scopriremo meglio il suo carattere nel momento stesso in cui si innamorerà di Aoi, che si presenta da lei per una richiesta di consulenza cromatica. Lui la affascina sin da subito e non riesce a capirne il perché, scatta in lei una vera ossessione: rispetto alle altre persone, di Aoi non riesce a individuarne il colore che lo caratterizza e poi…il suo mestiere, la attrae e la terrorizza allo stesso momento. Impresario di pompe funebri.
Lei ricorda le parole della madre: “In fondo è esattamente ciò che non sai di una persona a farti innamorare di lei. Cerca di trovare anche tu qualcuno di cui non sai quasi nulla. Ne rimarrai innamorata tutta la vita”.
Niente poteva essere più ossimorico, una storia che si costruisce sui contrasti. Da una parte Mio, esplosione di colori, rifiuto della morte e, dall’altra, lui, Aoi, che familiarizza con la morte ogni giorno e non ha un colore dell’anima definito.
Aoi rappresenta per Mio quello di cui ha bisogno: accettare la morte con calma e compostezza, quello che sinora non è riuscita a fare.
“Le vite nascoste dei colori” è un romanzo multitematico: l’amore, la passione, storie familiari difficili, l’accettazione della morte.
La storia è piacevole, la scrittrice è sicura, spedita e con una delicatezza, che non è mai leggerezza o sciatteria, sa narrare i passi più crudi e duri. In questo libro ha dato prova di grandi capacità narrative, toccando la tematica alquanto scomoda e difficile della morte e del trattamento dei cadaveri (in Giappone vengono truccati) senza indugiare in passaggi descrittivi, ma accennandoli, restituendoci, così, pagine toccanti, che non mi sono sembrate da “sentimentalismo spicciolo”.
Il libro si divide in tre parti più un epilogo ed ogni parte è contraddistinta da brevi paragrafi titolati che si leggono velocemente, introdotti da una piccola “rubrica” in corsivo che ne riassume il contenuto. Ciò conferisce alla narrazione il tono fiabesco, anche se l’ambientazione è una modernissima Tokyo, con le sue mille sfumature, la sua folla di persone, le sue contraddizioni, tanto amate dalla scrittrice, che l’ha battezzata quale seconda patria. La presenza di una città viva e reale, con i suoi luoghi specifici, i suoi giardini, i suoi negozi, la sua stazione, permette alla Messina di costruire una fiaba contemporeanea credibile che comunica insieme la magia della cultura giapponese (che non è assolutamente uno sfondo) e il dramma della storia personale di Mio.
Completa l’opera un glossario dei termini giapponesi utilizzati nel romanzo e un utilissimo inserto, “Il taccuino dei colori di Mio”, che raccoglie tutte le sfumature di colore, in realtà dei colori a se stanti, precisi e concreti, scritti in una o due parole giapponesi, ma che tradotte in italiano diventano delle vere e proprie perifrasi per rendere meglio al lettore la specificità di quel colore. E allora “seitai”non è un semplice blu, ma “un blu sobrio e profondo, picchiettato di un nero carbone e lampi di giallo castagna”, lo shikkoku non è un nero qualsiasi, ma “un profondo e brillante nero lacca”.
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Our electric bodies, ourselves
Un bel libro che consiglio a tutti, soprattutto a chi non è completamente a digiuno di femminismo e lotta alla disparità di genere.
Come recita il titolo di un pamphlet della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie, “dovremmo essere tutti femministi” , cioè dovremmo essere tutti consapevoli che la strada per la legittima parità di genere è ancora tutta da percorrere, anche negli Stati tecnologicamente avanzati “il male gaze” , lo sguardo maschile, continua ad essere dominante.
La giovane giornalista Jennifer Guerra in questo libro, il cui titolo è una citazione della poesia di W.Whitman, affronta varie tematiche che ruotano attorno alla donna, per la precisione, al corpo della donna, e ai suoi diritti, che sono anche i diritti del proprio corpo, partendo da un interessante paragrafo intitolato “il personale è politico” che ho letto e riletto, talmente ho trovato interessante.
Perché proprio il corpo?
Ma perché è il nostro corpo che fa da “tramite tra noi e il mondo”, è anch’esso linguaggio, un linguaggio da ascoltare con rispetto e di cui essere pienamente e correttamente consapevoli.
In questo capitolo, la scrittrice delinea velocemente la storia del femminismo, dalla prima “ondata”, definita “storica” fino a quelle più recenti, sostenendo che, sì, il femminismo storico ha permesso alle donne di ingaggiare una lotta contro il sistema patriarcale e paternalistico che per millenni e secoli ha imposto alle donne un ruolo marginale di silenzio e subalternità, ma poi è stata presa una strada sbagliata.
Nell’ondata immediatamente successiva al movimento femminista storico è stato fatto un passo falso: abbiamo permesso al corpo di depoliticizzarsi, siamo passati dal personale all’individuale, abbiamo voluto diventare come gli uomini, siamo entrate nella loro trappola rimarcando le differenze sessuali e il “nostro personale” è diventato egoismo, individualità.
In altre parole: è venuta a mancare la parola, la condivisione e la collaborazione tra donne per continuare quel percorso di autocoscienza femminile, dove l’aggettivo femminile, occorre specificarlo, non è legato esclusivamente alla presenza dell’utero e degli organi sessuali femminili della nascita. Sarebbe auspicabile, infatti, che il femminismo contemporaneo assorbisse anche le tutte le identità femminili e quel gender fluid , quella categoria “queer” di cui aveva parlato Judith Butler.
Perchè donne lo si diventa, diceva la grande Simone De Beauvoir , gli organi genitali non ci danno “il patentino di donna”. A Jennifer Guerra interessa, nel libro, porre l’accento sulla necessità di riprendere la parola condivisa da parte delle donne, dare la parola al nostro “straripante” desiderio di autoaffermarci, di emanciparci definitivamente dai ruoli tradizionali, realizzare tutte le nostre potenzialità e renderle manifeste nel pubblico. Internet, dice Jennifer Guerra, al di là di tutte le immagini falsate, “ultranarcisistiche del sé”, potrebbe rivelarsi un “nuovo speculum”, lo strumento che ha permesso alle donne di conoscere meglio il proprio corpo, di creare circoli di aiuto e sostegno, di creare una vera “sorellanza” e ridare valenza politica al corpo femminile.
Non basta tutto questo, occorre una rivoluzione culturale che cominci già dall’educazione delle bambine, dall’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole, dalla lotta all’hate speech (che stranamente sembra passare inosservato dai colossi dei social network che invece bannano il profilo di una celebre scrittrice indiana che posta una sua foto in cui i vestiti son sporchi di sangue mestruale), scardinando quella cultura dominante che spesso vittimizza le donne.
Il libro tocca tanti argomenti, l’hate speech, la cultura dello stupro, la bellezza della morte di una donna, il tabù delle mestruazioni, l’oggettificazione del corpo femminile.
Da leggere e far leggere anche ai giovani.
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Dio odia le donne, Giuliana Serena
Dovremmo essere tutti femministi, Chimamanda Ngozi Adichie
Le “Occasioni” di Susanna
“Alla fine siamo fatti di ingredienti semplici. Ossigeno, carbonio, idrogeno, azoto, calcio, fosforo, sodio, magnesio, ferro, alluminio - tutta roba riciclabile.
Siamo questo. Siamo il mucchio ambulante di tutto questo”.
Un libro breve, fatto di piccoli paragrafi, come piccole macchie impressioniste che compongono il tessuto narrativo. Flusso di coscienza che salta, come sempre, dal presente al passato, due fili temporali che si intrecciano magnificamente sotto l’egida di un binario stilistico che sapientemente passa da un linguaggio lirico ad uno più colloquiale e prosastico.
“Ottobre lo acchiappo, capita di sera ma non sempre, a volte ci riesco. Mi viene facile su quelle strade tra campagna e cemento, quando si sente ancora frinire qualche grillo tra i ciuffi del guardrail, viene facile e lo acchiappo”.
Susanna sa trovare piccole “occasioni”(mi verrebbe da dire “montaliane”) di vita autentica, piccole sorprese che sanno meravigliare la bambina che è in lei (una pascoliana “fanciullina” , con tutte le distanze da prendere del caso?): lei una non mamma.
Una donna non è per forza una mamma, ma lo status di madre, nella società dei nostri tempi è ancora pregnante e qualificante. È come se Susanna vivesse in una specie di limbo sospeso tra la realtà e la fantasia, tra il mondo “normale” di una donna con una vita sentimentale appagante e un lavoro che la rendono felice e un altro mondo, fantastico nascosto dietro le piccole cose, luoghi che non tutti riescono a vedere, presi dal caos della vita quotidiana, un mondo senza bambini, ma dove la bambina è lei.
“…da non mamma sono facilitata, non ho nessuno davanti e nessuno alle mie spalle. (…) Vedi come sto in piedi bene, vedi che non cado anche se il mondo si capovolge e mi fa girare la testa?”.
Una non mamma è una donna libera, “sono mia figlia e mia madre. (…) mi educo e mi vizio” e se ne va “a zonzo cercando un atomo di serenità”.
E questi atomi costellano tutto il libro, scritti in uno stile che ho trovato toccante, anche per i continui contrasti tra immagini liriche e prosaiche. La stessa ambientazione agli occhi si lei si rivela come luogo magico: Roma è sospesa e senza tempo, ma a volte il sogno e l’incanto si spezzano, rotti da qualche battuta dialettale, ma è giusto un attimo, l’epifania è dietro il nuovo angolo, laggiù sopra l’asfalto bollente, tra i versi delle cicale nascoste tra i piccoli punti di verde.
“L’estate a Roma è un pezzetto di cuore spezzato, è un pranzo di ferragosto, è un guarda che bella che è. All’angolo del parcheggio il ramo fronzuto, vigoroso nonostante la capitozzatura, offre la sua ombra rinata. Fremono le acacie dai grappoli cremosi e il ciuffo di papiri che non conoscono il Nilo. (…) Nella Roma che odora di catrame e di fiume, papaveri led si accendono tra le fratture del muretto ad indicarmi l’uscita”.
Eppure in tutto questo, la felicità non è completa, ho ravvisato tra le pagine la mancanza di quel bambino che lei ha perso prematuramente, nel wc dell’ufficio. Questa assenza riempie i suoi sogni di presenze: eccola ora è una bambina che si fa asciugare dopo aver giocato in mare, ora è sulla piccola bici rosa, ora è un bambino, Lorenzo, il vicino di ombrellone, bloccato in un fermo immagine mentre gioca a fare castelli d’acqua in riva al mare.
Bellissima lettura.
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All’origine del “rosa”
Georgette Heyer è stata una prolifica scrittrice della prima metà del Novecento, ha scritto tantissimi romanzi ambientati verso la fine del Settecento e nell’età della Reggenza. Volevo concedermi un romanzo di intrattenimento, ma che avesse una qualche legittimità letteraria: i romanzi della Heyer sono accostati a quelli di Dickens e della Austen, per quanto riguarda la ricostruzione della storia del costume e degli ambienti.
Il nome della scrittrice viene inserito nel genere “rosa”, di cui lei è stata l’antesignana. Ebbene, come mi ha fatto piacere constatare, non si tratta di un sentimentale melenso, tuttavia mi sono annoiata ugualmente, perché lungo quando ormai si era ben capito dove “si sarebbe andati a parare”. Il marchese, uno scapolo incallito, bellimbusto sciupafemmine, si innamora di Frederica, una ventiquattrenne per niente bella e per niente ricca, ma dal carattere forte, carismatico, dall’intelligenza fuori dal comune. A parte Frederica nessun personaggio mi è sembrato interessante e ben delineato, neppure il marchese, “la conversione” del quale mi è sembrata davvero poco verosimile. Non ho trovato descrizioni interessanti, il libro è prevalentemente dialogato.
Lo consiglio a chi ama queste storie ambientate nel passato, senza velleità letterarie, giusto per un puro intrattenimento.
Quanto a me, volevo esplorare l’archetipo, e tanto mi è bastato, l’autrice non mi ha esaltata e trovo esagerato che venga accostata a nomi come Dickens, Austen e qualche altro. La somiglianza è solo apparente. Ma sicuramente, se accostato a tanta narrativa di intrattenimento attuale, non è poi così male!
Indicazioni utili
- sì
- no
Neurologia dell’identità
“Il dottor P. invece pareva soddisfatto delle sue risposte e accennava un sorriso. Poi, evidentemente convinto che la visita fosse finita, si guardò intorno alla ricerca del cappello. Allungò la mano e afferrò la testa di sua moglie, cercò di sollevarla, di calzarla in capo. Aveva scambiato la moglie per un cappello! La donna reagì come se fosse abituata a cose del genere. Non riuscivo a spiegarmi quanto era successo in termini di neurologia (o neuropsicologia) convenzionale. Sotto certi aspetti egli sembrava perfettamente integro, sotto altri devastato in modo totale e incomprensibile”.
A dire la verità mi aspettavo un’altra cosa. Ignoravo totalmente chi fosse Oliver Sacks, mi ero lasciata ispirare dal titolo (in italiano,sottolineo), dall’edizione Adelphi e dal fatto che fosse un nome noto ai più (non a me, a quanto pare!).
E ho fatto bene, sono caduta in piedi, anzi (scusate la licenza lessicale)...”in piedissimo ”!
Altro che letteratura tout court, questo è un felicissimo incontro tra scienza e letteratura, un meraviglioso ed interessante prodotto della penna di un affermato neurologo che sa scrivere in modo trascinante.
L’opera è una raccolta di “racconti-casi”, di cui “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello “è il primo che dà il titolo a tutto il libro: si tratta di storie, sì storie, veramente verificatesi, casi in cui il dottor Sacks si è imbattuto nella sua lunga carriera di medico.
Sacks ammette nella prefazione di essere “attratto dall’aspetto romanzesco non meno che da quello scientifico”, di vederli “continuamente entrambi nella condizione umana, non ultima in quella che è la condizione umana per eccellenza, la malattia: gli animali si ammalano, ma solo l’uomo cade radicalmente in preda alla malattia”.
Solo l’uomo, rispetto agli altri animali, è caratterizzato dalla scissione mente-cervello: è proprio lì la misteriosa questione da affrontare. Ci sono storie di persone che convivono così bene con gli effetti collaterali della loro “malattia” (e in fondo cos’è la malattia?), come il giovane Ray “dai mille tic” che quando viene finalmente diagnosticata e trattata farmacologicamente la loro patologia (nel caso di Ray, la “sindrome di Tourette “), si sentono quasi spenti, sentono la mancanza della loro specialità. Oppure il caso spassoso e delicato della signora anziana affetta da quella che lei chiama “Sindrome di Cupido”, che la porta alla sua veneranda età a civettare con gli uomini più giovani di lei, a sentirsi sempre piena di energia. Ma questi sono casi particolari, sono storie di “eccessi”, in realtà la neurologia è affezionata ad un’altra parola, a “deficit”.
Infatti la prima parte del libro abbonda di questo termine e di paroloni con la a privativa greca: agnosia, afasia, alessia, afemia, atassia...sono tutte mancanze o menomazioni nell’integrità della nostra salute psicofisica “una parola per ogni funzione nervosa o mentale di cui i pazienti, in seguito a malattia, lesione o difetto di sviluppo, si trovino in parte o del tutto privati”.
Quello che colpisce nella lettura di questo libro, è non solo l’arricchimento culturale, ma anche quello umano, emozionale: storie toccanti di persone dalla forza di volontà fuori dal comune, così come fuori dal comune è l’interesse del medico Sacks per le storie di ognuno di loro, non casi, ma storie: identità prima di malattie.
“Le anamnesi sono una forma di storia naturale, ma non ci dicono nulla sull’individuo e sulla sua storia; non comunicano nulla della persona e della sua esperienza, di come essa affronta la malattia e lotta per sopravvivere. Non vi è «soggetto» nella scarna storia di un caso clinico; le anamnesi moderne accennano al soggetto con formule sbrigative («albino femmina trisomico di 21 anni») che potrebbero riferirsi a un essere umano come a un ratto. Per riportare il soggetto – il soggetto umano che soffre, si avvilisce, lotta – al centro del quadro, dobbiamo approfondire la storia di un caso sino a farne una vera storia, un racconto: solo allora avremo un «chi» oltre a un «che cosa», avremo una persona reale, un paziente, in relazione alla malattia – in relazione alla sfera fisica”.
Consigliatissimo! Lettura piacevole, snella, adatta a tutti.
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Forzature
In realtà, ho letto prima questo libro e poi “L’Arminuta”, che ho trovato decisamente migliore, pur se drammatico, ma comunque mi è sembrato più realistico, mentre “Borgo sud”, in generale mi ha lasciata perplessa. L’ho letto più di una settimana fa e posso ben dire che nel complesso mi è sembrata una storia un po’ “forzata”.
La conoscenza del libro precedente non inficia la comprensione di “Borgo sud”: anche in questa vicenda, la protagonista non ha nome, non è chiamata neppure “arminuta”, cioè la ritornata, poichè cresciuta, ormai affermata docente universitaria, e nei luoghi in cui è nata ci torna davvero poco, in quanto si sposta tra Pescara città e la Francia.
In effetti posso dire di non aver trovato le stesse sorelle: il rapporto della protagonista con la sorella Adriana qui è a volte più conflittuale, la vita ha fatto prendere loro strade diverse che le ha allontanate. L’io narrante se ne rende conto ben presto: è la comunità dei pescatori la vera famiglia di sua sorella, che si rivolge a lei solo perché in difficoltà, ragazza-madre innamorata di un uomo che non la merita, implicato in strani traffici.
Adriana incolta, rozza, e lei, la protagonista, che è stata sempre più fortunata, avendo conosciuto l’agiatezza, adottata da un’altra famiglia, imparentata con i suoi genitori biologici. Entrambi però accomunate dal destino di dolore: una famiglia biologica che le disprezza, uomini che non le amano abbastanza. Ho trovato qualche passaggio disturbante, ha urtato la mia sensibilità, ma ho apprezzato lo stesso la scrittura della Dipietrantonio, secca, asciutta, anche se nel complesso, come si può capire dal tono del mio commento, non mi ha esaltata.
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Sicuramente ci saranno lettori che apprezzeranno il romanzo
Orfana due volte
“Ripetevo la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni. Ero figlia di separazioni, parentele false o taciute, distanze. Non sapevo più da chi provenivo”
Indubbiamente un bel libro con una storia particolare e toccante: quella di una tredicenne che viene adottata da lattante e poi restituita alla famiglia di origine senza spiegazioni.
La protagonista, io narrante senza nome, viene indicata dalla gente del borgo con l’epiteto abruzzese di “arminuta”, ossia “la ritornata”, non senza velato disprezzo. E’ il dramma di una ragazzina che scopre non solo da un giorno all’altro di avere due madri, una adottiva e una biologica, ma che si trova abbandonata e scaraventata in un mondo che le appartiene solo per le origini, ma che in realtà le è sconosciuto, deve adattarvisi, deve entrare in una nuova logica, in una nuova visione del mondo e di sè.
Figlia unica coccolata e viziata, cresciuta per 13 anni nell’agiatezza, la protagonista si trova buttata nella casa dove è nata, dove la sua “vera” e numerosa famiglia, quella di sangue le è sconosciuta ed ostile.
Bisogna imparare ad essere sorella: sorella di Adriana, di Sergio, di Vincenzo e del piccolo Giuseppe. E non è semplice. Con Adriana nasce subito l’intesa e un forte legame (che continuerà in “Borgo sud”, altra opera della scrittrice), Sergio la disprezza e la tratta male, non riesce ad accettarla...ma il giovane Vincenzo nutre per lei un’attrazione che non le nasconde. Bisogna accettare una nuova vita, due genitori freddi, una comunità che la guarda con disprezzo quasi fosse una reietta, un borgo dove quasi nessuno parla l’italiano, ma il dialetto.
Sullo sfondo il mondo rurale di un Abruzzo senza tempo, i profumi, gli odori, i suoni di quella terra.
Secca, asciutta, la prosa della Dipietrantonio.
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La responsabilità del desiderio
“Ero qualcosa di bianco. Vago alla pari di quel colore che a me sembrava la tinta del vuoto e dell’assenza cromatica. Come lui ero indefinita e indefinibile, la mia purezza - in base a quanto mi era stato insegnato - poteva coincidere solo con lo sgombero di ogni passione o desiderio. E come lui ero invisibile.
Ora so che non esiste via più disperata di quella che vorrebbe condurti alla perfezione”.
Fa sempre piacere scoprire una nuova voce della narrativa italiana contemporanea degna di nota e la Ruotolo è una vera scrittrice, perchè scrive come si suol dire,“dannatamente bene”.
Si sente che è un’autrice che sa muoversi con disinvoltura anche sul binario della poesia, perché “Quel luogo a me proibito” ha dei passaggi a tratti urticanti, graffianti, scomodi talmente son veri ed autentici privi di ogni forma di ipocrisia e se non fosse per quella sapienza delicata e sottile della scelta delle immagini e quel brevissimo e intenso lirismo di cui lei è capace, la storia in sè potrebbe essere facilmente liquidata come quella di una donna che si è autocastrata, per educazione ricevuta.
La voce narrante, senza nome, parla in prima persona, partendo dall’origine del male di famiglia, che lei chiama “vergogna” e che comincia con le vicende del nonno paterno e delle nonna materna. Il primo aveva macchiato il suo stato di onorata vedovanza, portandosi in casa una povera donna senza carattere per poi conviverci in regime more uxorio, trattandola come uno straccio da buttare via dopo l’uso e la seconda invece, aveva cresciuto da sola, senza un uomo al suo fianco, la madre della protagonista, senza darle mai un briciolo di affetto: una madre e poi una nonna incapace di slanci verso la figlia e verso i nipoti, interessata unicamente a se stessa.
Questa è la tara di famiglia che l’io narrante quasi si autoimpone di espiare, evitando di indugiare in qualsiasi forma di piacere o di divertimento, conducendo, sin da preadolescente un’esistenza parallela a quella delle sue coetanee.
Le prime venti pagine sono storie di non-amore, di disaffezione che colpisce anche gli animali, vittime al pari dell’io narrante: non c’è un briciolo d’amore per niente e per nessuno. Dura la legge della vita.
“Chi siamo veramente, la reale misura dell’umano, non sono dati dal rapporto tra pari. È il riguardo per chi è più debole a qualificarci. Il nostro essere perbene è dimostrato dallo scrupolo con cui tocchiamo chi è diverso, svantaggiato oppure semplicemente nel bisogno. (...)”
I primi tentativi di approccio con l’altro sesso sono ostili e fallimentari da subito, ma la protagonista era stata messa già in guardia da sua madre:
“Non perderci tempo e testa appresso ai maschi, o la vita non sarà più roba tua”.
Quella stessa madre le diceva che il corpo era “un animale da tenere a bada” e che “troppa vita fa male”, bisognava evitare vestiti ed atteggiamenti che eccitassero pensieri impuri negli altri.
A parte indicare vergogna e disonore dappertutto, cambiare canale alla tv in certi momenti dei film, i genitori sono assenti, “hanno delegato ai libri” l’educazione all’amore e al sesso. Prima di avvertire il bisogno di vita, lei si era già allenata alla rinuncia, guardando le altre coetanee flirtare con i ragazzi, qualcuna di loro addirittura rimane incinta e abbandona la scuola dell’obbligo.
“Quel luogo a me proibito” è la storia di una donna quarantaduenne che cerca di ricostruire tramite i dettagli di alcuni ricordi del passato la radice di quella sua paura di amare, di conoscere il proprio corpo, quell’incapacità di donarsi totalmente ad un uomo che la desidera per quello che è. Quell’uomo è Andrea che risveglia in lei la consapevolezza che esista qualcosa al di là di quello che aveva creduto potesse meritare. Un percorso doloroso e travagliato, a volte disturbante, che ti graffia dentro e mai ti accarezza. Una scrittura primordiale e sensuale che sa concretizzare le immagini solo suggerendole. Ma il libro non è romantico, nè sentimentale. È la storia di un trauma, di un dramma.
L’ambientazione è poco rilevante, viene nominata Napoli per indicare la grande città lontana, ma l’opera della Ruotolo non ha alcun cenno di regionalismo folkloristico (che tanto piace ai lettori stranieri) che possono essere suggeriti, ad esempio, da scrittrici come la Ferrante o la Dipietrantonio.
Un libro che lascia dei solchi nel lettore, nel bene e nel male.
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Interessante e piacevole
Un libro che mi ha fatto compagnia per molte settimane, più di ottocento pagine, letto con vero piacere e sincero interesse. Conoscevo il nome, George Eliot, sapevo che si trattasse di uno pseudonimo e che la penna fosse di una donna, Mary Ann Evans, poiché da ragazza ero rimasta affascinata dal libro “Il mulino sulla Floss”, che aveva toccato profondamente le mie corde mi ero riproposta più e più volte di affrontare un altro libro della scrittrice.
Sono felice quindi di aver trovato il momento giusto per assaporare pagina dopo pagina le storie, lo stile, la tempra di George Eliot e l’ho fatto con il suo romanzo più famoso in Inghilterra, con il NOVEL inglese per eccellenza, vittoriano DOC.
L’opera è voluminosa, come ho subito precisato, quindi la consiglio vivamente a chi ama i romanzi incentrati su più storie che coinvolgono più personaggi e rispettive famiglie, in un medesimo, piccolo borgo di provincia, una comunità-cuscinetto in mezzo a due contee, un Middlemarch, appunto, come precisa Antonia Byatt di cui l’edizione BUR riporta un bellissimo e illuminante saggio.
Se amate il novel, cioè il romanzo, vittoriano, non romantico, questo titolo è il capolavoro del genere! Alcuni passaggi sono lenti, richiedono pazienza,ma se siete motivati troverete il libro meraviglioso ed avrete difficoltà a staccarvi dai personaggi.
Come recita il sottotitolo è “uno studio della vita di provincia”, quindi immaginatevi tante tematiche: vita di provincia implica il pettegolezzo, nascite, morti,matrimoni ben contratti, matrimoni infelici e frettolosi, famiglie rispettabili, qualche personaggio dal passato oscuro che cerca di redimersi, un piccolo campionario di figure femminili dalla psicologia ben delineata. Storie che si intrecciano ad altre, tutte legate all’ambiente di Middlemarch. Storia di un microcosmo locale e universale insieme, i cui personaggi principali sono due: Dorothea Brooke, fanciulla che desidera fare qualcosa di grande nella vita, sposando un uomo colto, dalla mente speculativa come quella di Locke, anche se più anziano di lei di oltre ventisei anni e il dottor Tertius Lydgate, accalappiato dalla vacua e vanesia Rosamund Vincy, che sposerà e che lo porterà in un mare di debiti, abituata com’è a vivere nel lusso, non concepisce come possano i soldi finire da un momento all’altro. Due personaggi accomunati da un medesimo destino: vittime di scelte sbagliate, matrimoni frettolosi.
No, non si sposeranno, nè si innamoreranno, troppo scontato...scopritelo voi.
La voce narrante onnisciente, l’impianto è quello di un perfetto entrelacement: storie che cominciano, vengono sospese, ne partono altre, sospese anch’esse e il lettore si trova nelle mani più fili che poi riprende ad intrecciare agli altri e poi sospende, per poi intrecciare: alla fine, quando avrà riannodato tutti i capi,si troverà tra le mani un bellissimo arazzo.
A me ha colpito tantissimo l’ironia quando si parla della presunta “inferiorità femminile” che impedisce alle donne di valore e ispirazione, come tante Terese d’Avila, di “appuntarsi su qualche azione memorabile”.
“ si esigeva che le donne avessero delle opinioni poco salde, ma il grande baluardo della società e della vita domestica era che non si agiva in base a quelle opinioni. La gente sana di mente si comportava allo stesso modo dei propri simili, cosicché se qualche pazzo era in libertà si poteva riconoscerlo e starne alla larga”.
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Mi aspettavo di più...
“Quando il caffè era pronto, mi sdraiavo sulla cuccetta di sinistra, ben appoggiato a un cuscino, e leggevo. Durante la settimana mi dedicavo di rado alla barca, tranne forse in primavera ed estate, quando le sere sono chiare e tiepide. (...) Niente dà la pace dell’anima di una sera d’inverno soli a bordo, con i gabbiani, il vento e le onde come unica compagnia”.
Per chi ama la navigazione, la vela, i libri che narrano di viaggi per mare è superconsigliato. Avevo letto “La vera storia del pirata Long John Silver” dello stesso autore e mi era molto piaciuto: ne avevo apprezzato l’idea di fondo, lo stile, l’ironia, quell’umorismo misto alla profondità delle riflessioni che mi ha conquistato dalle prime pagine.
Confesso inoltre che adoro il formato e la carta della casa editrice Iperborea, da anni una vera garanzia nella scelta dei migliori testi della letteratura nordica.
“Il cerchio celtico” è per certi aspetti un vero ibrido: una lunga narrazione di un viaggio per il mare del Nord, a gennaio,su una barca, il Rustica, un mistero da scoprire su una pseudo-setta che coltiva antiche tradizioni, che contemplano sacrifici umani, una storia di amicizia e una storia d’amore impossibile.
Il vero protagonista del romanzo è proprio il Rustica “un solido e marino sloop di 31’ costruito in Inghilterra negli anni Settanta - si legge nella postfazione-è stata nella vita reale la barca insieme a cui Larsson ha trascorso un periodo non breve della sua esistenza; per oltre un anno ha vissuto a bordo e con essa ha affrontato lunghe e impegnative navigazioni visitando i mari del Nord e le coste della Scozia che fanno da sfondo alle vicende narrate nel romanzo”. In fondo i libri di Larsson fanno parte della cosiddetta “letteratura di barche e di mare”, in cui si inserisce a pieno titolo.
La tematica del viaggio è ben trattata ed è coinvolgente: descrizioni di albe sul mare del Nord, burrasche, veglie notturne, manovre ed attrezzature marinare (Larsson non fa economia di termini specifici) il tutto ben diluito omogeneamente tra le pagine. Quello che non mi ha convinta fino in fondo è proprio la storia noir/thriller/mystery della setta fondamentalista celtica.
““In tutte le zone celtiche, ci sono persone che, ognuno a modo suo, si adoperano perché i loro rispettivi paesi celtici possano diventare liberi e indipendenti. Ci sono ordini druidici con decine di migliaia di membri che invocano, nelle loro cerimonie e festività, la riunificazione dei Celti. Tutti i paesi celtici hanno i loro partiti nazionalisti e i loro movimenti di liberazione armati, più o meno attivi.(...)”
Ho ponderato bene il mio giudizio, ho aspettato qualche settimana per scrivere la recensione: per quanto adori la scrittura di Larsson, cristallina e piacevole, a distanza di tempo, confermo che il romanzo non è il più riuscito dell’autore. Meglio leggere i suoi libri di viaggio, le sue riflessioni sulla libertà, sulla saggezza del mare senza sconfinare nel “genere”.
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La sisifea condanna delle donne
Del matrimonio o della sisifea condanna delle donne
“Ho cominciato a vivere in un tempo diverso. Niente più ore sospese, indolenti e spensierate ai tavolini dei bar, niente più Café Montaigne nel mese di ottobre. Le ore dimenticate di un libro continuato fino all’ultimo capitolo, delle discussioni tra amici. Morto, per me, il ritmo dell’infanzia e degli anni prima (...)Ma non morto per lui. A pranzo, la sera, il sabato e la domenica, lui ritrova il tempo dilatato, legge Le Monde, ascolta dischi, sistema la scacchiera, si annoia persino. (...)Per me ormai esiste un tempo uniformemente ingombro delle più disparate incombenze. Separare i panni da lavare, ricucire il bottone a una camicia , la visita dal pediatra, è finito lo zucchero. Una lista che non ha mai emozionato né divertito nessuno. Sisifo, con il suo masso da spingere all’infinito, almeno ha un certo stile, un uomo su una montagna che si staglia nel cielo; una donna nella cucina di casa sua, che getta il burro in padella trecentosessanta cinque giorni l’ anno, non è né affascinante, né assurda, è la vita, bella mia”.
L’ultimo libro pubblicato in Italia, dalla casa editrice Orme, della pluripremiata Annie Ernaux, è la storia di una donna che, attraverso i volti di altre donne della sua vita, zie, nonne, la sua stessa madre, si scontra contro la dura realtà della diversificazione dei ruoli maschio/femmina e che impara a criticare solo quando sarà inutile ogni tentativo di ribellione. Perché “è la vita, bella mia” si sentirà dire dalla suocera, dalle amiche già sposate e, infine, se lo ripeterà lei stessa nell’interminabile flusso di coscienza che sta alla base della narrazione, fino a farlo diventare un mantra, per ricordarsi che non c’è scampo.
Chi è avvezzo alla scrittura della Ernaux, riconoscerà dalle prime battute lo stile asciutto, cristallino, scabro ed essenziale, senza orpelli retorici: riconoscerà la fredda lama della sua penna chirurgica.
Scritto in prima persona, una (auto)biografia di una donna cresciuta in una famiglia sui generis dove i ruoli tradizionali sono praticamente capovolti
“Mia madre è la forza e la tempesta, ma anche la bellezza, la curiosità per il mondo, l’apripista sulla strada verso il futuro, che mi dice di non aver mai paura di niente e di nessuno. (...) Si porta in scia un uomo dolce e trasognato, dalla parlata pacata (...) Il mio, di padre, la mattina non esce, e se è per questo nemmeno il pomeriggio. Resta a casa. Sta al bancone del caffè drogheria, lava i piatti, cucina, sbuccia le verdure.”
L’immancabile caffè drogheria, presente nelle altre opere autobiografiche della Ernaux, il voler sottolineare la specificità del padre “il mio, di padre” rivela un non celato paragone con i padri delle altre sue amiche, che invece portano i pantaloni del dominio domestico, non si occupano di faccende e nel weekend si concedono il bicchierino fuori casa.
Non ci mette molto a capire, osservando i padri delle altre amiche e gli uomini della sua famiglia (tranne sue padre) che: “ in me si fa largo confusamente la convinzione che quasi tutti i guai delle donne siano causati dagli uomini”.
Siamo negli anni Quaranta del Novecento e anche qui, senza indicare le date, si annusano le atmosfere, le usanze di un piccolo mondo di provincia ormai scomparso.
La madre le consiglia di studiare, di diventare qualcuno, “essere attrezzate per la vita”, ma la protagonista narrante imparerà che non basta la cultura e un buon lavoro a proteggersi da tutto “incluso il potere degli uomini”.
Indottrinata per dodici anni sulla devozione della donna per la sua futura famiglia e il suo futuro marito, quando poi trova l’amore è già pronta al sublime sacrificio che le impedirà di dedicarsi nei tempi regolari al concorso per insegnanti che tanto agognava da ragazza. La vita di una casalinga madre è una fatica di Sisifo senza gloria alcuna, un continuo e infinito sacrificio, una catena di sofferenza con ben poche soddisfazioni. Una storia in cui si rispecchiano adesso ben poche donne, per fortuna, ma che fa riflettere su quanta strada le donne hanno fatto dagli anni Settanta ad oggi. Almeno in alcuni Stati del mondo.
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In memoria del padre
Bella scoperta la penna di Annie Ernaux. Cristallina, pochi tratti di penna ed eccoti resi perfettamente atmosfere e sensazioni. Sì, secondo me, se si può usare questa espressione, che ho letto altrove tra l’altro, si avverte tanto l’atmosfera, in questo libro.
Dirò anzi che, in un certo senso, nonostante la storia sia narrata in prima persona e la protagonista spesso coincide con la stessa autrice, trattandosi di un libro -come anche altri da lei scritti -autobiografico, la scrittura della Ernaux è impersonale.
Non vuole descrivere sentimenti o emozioni, ma li suggerisce, va dritto al cuore, alla coscienza. La sua penna è una fredda lama tagliente.
“Il posto” comincia con la morte del padre dell’io femminile narrante e prosegue con un lungo flashback, dalla gioventù di lui, dal suo lavoro come operaio , al suo incontro e matrimonio con la madre della protagonista e la successiva conduzione di un bar-drogheria. Il focus di tutto il libro è la forbice dello scarto generazionale che si allarga sempre più tra il padre e la figlia: fedele ai valori del lavoro manuale, lui non riesce a capire il desiderio di riscatto della figlia, che vuole studiare e diventare insegnante. Il mondo dei libri a quell’uomo, consumato irreversibilmente dalla fatica, sembra vacuo e irto di pericoli per una giovinetta. Come negli altri libri della Ernaux, il bar-drogheria è sempre pieno di gente, ma non ci si sofferma mai su nessun personaggio, sono le loro voci a farsi sentire: chiacchiere, qualche pettegolezzo, ogni tanto riportato anche tra le pagine, la semplicità di un mondo che ormai non c’è più. Tra le tante persone che passano nel loro negozio, c’è ogni giorno qualcuno che non può pagare in quel momento e fa segnare il suo nome del quaderno dei debitori. Qualcuno, addirittura, manda il proprio figlioletto per la vergogna di ammettere che non può pagare quel pacchetto di zucchero. Sullo sfondo campeggia la figura paterna, simbolo di una visione del mondo in cui la protagonista non si ritrova, la consapevolezza di quanto ideali, sogni, speranze per il futuro, valori possano dividere un genitore dalla propria figlia. Attuale e, pur se non dichiaratamente, toccante.
“Presto non avrò più nulla da scrivere. Vorrei ritardare la stesura delle ultime pagine, che siano sempre ancora là da venire. Ma non è più possibile tornare troppo indietro nel tempo, ritoccare o aggiungere fatti, e neanche domandarmi dove fosse la felicità “.
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Indefinibile
Dico subito, ex abrupto, che non consiglio questo romanzo per approcciarsi alla celebre autrice, molto meglio cominciare con “La signora Dalloway”, oppure con “ Gita al faro” (che devo ancora leggere). Perché?
Perché l’ho trovato, tenendo conto delle altre letture fatte della Woolf, tra cui “Una stanza tutta per sé” -nella fattispecie una raccolta di lezioni sulle donne e la lettura/letteratura”- diverso e particolare, se vogliamo anche “strano” con tutte le sfumature che questo aggettivo porta con sé.
Bisogna conoscere abbastanza bene non solo la produzione della scrittrice, ma anche la sua biografia, le vicende del Bloomsbury set, la relazione con Victoria Sackville-West (la saffica dichiarata, così la definì la Woolf nel suo diario nel 1923) destinataria reale o ideale del romanzo Orlando, per avvicinarsi alla comprensione di quest’opera che mi ha lasciata con la sensazione di non aver ben afferrato non tanto la trama, quanto piuttosto le intenzioni nascoste tra gli strati dei significati.
Orlando, giovane nobile di bell’aspetto, ammirato, cercato indifferentemente da uomini e donne per la sua grazia e la sua nobiltà d’animo, dopo una cocente delusione d’amore con una giovane russa che lo aveva ingannato, ad un certo punto, senza un valido motivo, si risveglia in un corpo femminile. Comincia a pensare come una donna, ad apprezzare la civetteria e a rendersi conto di quanto sia difficile per una donna pubblicare un suo scritto, poesia o romanzo, senza attraversare la fitta selva dei pregiudizi dell’epoca.
Confluiscono in Orlando, motivi cari alla scrittrice: ho apprezzato tantissimo la ricostruzione della bufera di neve delle prime pagine della storia, l’indagine psicologica sul protagonista sia nel corpo di giovane uomo che in quello di una donna (la metamorfosi avviene quando lui ha superato i trent’anni, così si narra nel libro), l’ambientazione ben inquadrata dal regno della regina Elisabetta I agli anni venti del Novecento. Ebbene sì, questo elemento sovrannaturale, che sembra connaturato alla letteratura inglese (basti pensare già ai romance del ciclo bretone delle origini oppure anche a Shakespeare, per citare solo qualche esempio più rappresentativo ) si trova in quest’opera così particolare che la Woolf definì “ un libriccino”, come dire, uno scherzo, un gioco, un divertissement: Orlando è un personaggio universale che non solo vive in epoche diverse, tutte ben caratterizzate dalla scrittrice, ma ha la fortuna di adottare due punti di vista opposti e complementari, quello maschile e quello femminile.
Veramente particolare, forse troppo. Preferisco le altre opere della scrittrice.
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DIO HA VOLUTO DISUGUAGLIANZE, NON INGIUSTIZIE
“Il liberalismo economico è l’estensione dell’ambito della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società. Allo stesso modo, il liberalismo sessuale è l’estensione dell’ambito della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società”.
L’opera di esordio di Michel Houellebecq ha un nome altisonante, richiama qualcosa di tecnico, magari uno studio sociale. Ma non è un saggio, è un romanzo breve che ha per protagonista un trentenne, un informatico che ha una buona posizione lavorativa, non è attraente, ma possiede quel minimo di fascino che gli permette ogni tanto di abbordare qualche donna. Il giovane che conoscerà all’interno della storia, un certo Tisserand , invece, verso cui la natura non è stata certo generosa con il suo aspetto fisico, è un vero frustrato dal punto di vista sentimentale e sessuale. Anche Catherine Lechardoy, la giovane informatica che conosce in una trasferta di lavoro non è dotata di bellezza: “No, non è proprio granché. Oltre ai denti marci ha i capelli di un colore indefinibile, gli occhi piccoli e rossi di rabbia. Seno e culo impercettibili. Dio non è stato molto generoso con lei.”
Tutti cerchiamo di assicurarci un po’ di affetto, nella società capitalistica anche il bambino di sette anni
“che gioca con i soldatini sul tappeto del salotto. Ti chiedo di guardarlo attentamente. Dopo il divorzio dei genitori, non ha più un padre. Vede pochissimo la madre, che occupa una posizione importante in un’azienda di cosmetici. Eppure gioca con i soldatini, e ha l’aria di appassionarsi molto a queste rappresentazioni del mondo e della guerra. Non c’è dubbio che stia già soffrendo un po’ di mancanza d’affetto;(...)
Nel caso del protagonista, voce narrante (probabilmente anche alias dello scrittore, che nella vita è stato un informatico) e dei personaggi sopracitati, la bellezza fisica ha lo stesso ruolo del denaro nella società del liberismo economico, serve a operare differenziazioni e discriminazioni: la vita è una continua lotta per sopravvivere e per accaparrarci quel minimo di affetto necessario per non disperarci nella solitudine e nella vacuità del solipsismo.
La penna di Houellebecq è sin da subito tagliente, schietta e scabra, per niente consolatoria “La scrittura non consola affatto. La scrittura rappresenta, delimita. Introduce un sospetto di coerenza, un’idea di realismo”. In alcuni passaggi le pagine trasudano malinconia, qualche accennata punta di lirismo. Spietato e sincero, a tratti snob. Disturbante.
Divorato in una giornata. Uno dei libri più belli dello scrittore francese, insieme a “La carta e il territorio”.
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Viziati fino allo stato uterino di nullafacenza
Dopo aver letto Infinite Jest, David Forster Wallace aveva segnato la mia coscienza di lettrice facendomi apprezzare il postmodernismo americano e uno stile di scrittura straordinario che non avevo ancora assaggiato. Abituata ad apprezzare i classici dell’Ottocento, con qualche capatina anche nel Novecento e nel contemporaneo, all’ inizio mi sono trovata completamente disorientata, ma poi sono riuscita ad apprezzare in pieno tutto il voluminoso libro, note comprese.
Le opinioni che qui ho letto sono abbastanza negative, il mio giudizio sarà controcorrente. Per apprezzare questo libro, bisogna dimenticare Infinite Jest, si tratta di due figli dello stesso padre ognuno con le proprie caratteristiche e la propria “fisiologia”. Fisiologia perché “Una cosa divertente che non farò mai più” è un reportage sui generis di una crociera extra lusso e non è pensato come un romanzo, una lunga storia di ampio respiro dai mille personaggi e dalle mille storie.
Intenzioni diverse, obiettivi diversi, il virtuosismo stilistico è lo stesso però. “Una cosa divertente che non farò mai più “ è breve e circoscritto, meno faticoso da leggere, molto più umoristico. A me è piaciuto veramente tanto, mi ha regalato qualche ora rilassante e tante risate! Non leggo per sorridere, ma di questi tempi ben venga la sana risata, questo libro contiene scenette esilaranti! E non si scende nel banale e nel trito, lo stile di Wallace così ironico, così tagliente nel rappresentare l’animo umano in tutte le sue sfaccettature, le sue stranezze, le sue manie. Il libro è una recensione che lo scrittore realizzò per la rivista Harper ‘s che gli chiedeva un reportage sulla crociera extra lusso Zenith (ma che l’autore battezza col nome opposto, Nadir, in barba alla compagnia Celebrity Cruises) in rotta verso i Caraibi dove ha imparato che “ in realtà ci sono intensità di blu anche oltre il blu più limpido che si possa immaginare”. Una crociera che si impone come obiettivo quello di coccolare e viziare i suoi ospiti paganti a bordo con feste, simpatici concorsi a premi, spettacoli vari e tanto tanto cibo, dalle colazioni luculliane ai Buffet di Mezzanotte.
E i personaggi che incontra? Un ricco campionario di uomini, donne, persino ragazzini, che Wallace descrive come se fossero degli esemplari unici nel loro genere. Dalle prime pagine, fa l’elenco di tutte le prime volte e le cose che ha imparato:
“Sono stato oggetto in una sola settimana di oltre 1500 sorrisi professionali. Mi sono scottato e spellato due volte. Ho fatto tiro al piattello sul mare. È abbastanza?(...) Ho sentito – e non ho parole per descriverla – una musichetta da ascensore in versione reggae. Ho capito cosa significa avere paura del proprio water. Ho imparato ad avere il «piede marino» e ora mi piacerebbe perderlo.”
Ho riso tantissimo, di cuore, quando ho letto le pagine sullo sciacquone “ad alto tiraggio” e lo spiacevole esilarante episodio successo alla signora Peterson il cui marito sembra “sempre in posa per una fotografia che nessuno sta scattando”.
Giunge però ad un certo punto il pensiero più vero e profondo di Wallace, quello che spesso lo sorprendeva e che lo ha poi portato a togliersi la vita, la depressione, l’horror vacui della solitudine più profonda e più autentica:
“In queste crociere extralusso di massa c’è qualcosa di insopportabilmente triste. Come la maggior parte delle cose insopportabilmente tristi, sembra che abbia cause inafferrabili e complicate ed effetti semplicissimi: a bordo della Nadir – soprattutto la notte, quando il divertimento organizzato, le rassicurazioni e il rumore dell’allegria cessavano – io mi sentivo disperato. Ormai è una parola abusata e banale, disperato, ma è una parola seria, e la sto usando seriamente. Per me indica una semplice combinazione – uno strano desiderio di morte, mescolato a un disarmante senso di piccolezza e futilità che si presenta come paura della morte. (...) angoscia. Ma non è neanche questo. È più come avere il desiderio di morire per sfuggire alla sensazione insopportabile di prendere coscienza di quanto si è piccoli e deboli ed egoisti e destinati senza alcun dubbio alla morte. E viene voglia di buttarsi giù dalla nave”.
Anche in questo libro le note sono parte integrante del testo, vanno lette per una conoscenza globale dell’opera, si presentano talvolta dei veri e propri racconti scritti in font più piccoli.
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Quell‘angolo meno definito d‘Europa
Forse è il libro più famoso dell‘olandese Jan Brokken, insieme a “Il giardino dei cosacchi“ eppure, a lettura ultimata, posso dire che mi aspettavo di più e lo dico alla luce di altre letture brokkeniane meno famose come “Nella casa del pianista“ (che ho amato più di tutti) e “Jungle Rudy“, biografie rispettivamente del pianista morto di AIDS Yuri Egorov e l‘avventuriero Rudy Truffino.
“Anime baltiche“ raccoglie molte più storie di personaggi dai nomi a volte impronunciabili, anime un tempo famose, adesso dimenticate, anime da riscoprire provenienti da “quell‘elenco imparato a scuola: Estonia, Lettonia e Lituania. Una filastrocca impossibile da dimenticare”. Non una biografia, ma più biografie, forse per questo, a lettura ultimata, ho dimenticato dei particolari: ogni volta che mi immergevo in una storia dimenticavo la precedente che avevo letto, scordavo anche i nomi di alcune città, mi è sembrato dispersivo, insomma. Ma comunque un bel libro che consiglio di leggere non solo perché è un libro di viaggi, ma anche perché arricchisce con altri spaccati della storia contemporanea trattati ben poco dai nostri manuali e pertanto sconosciuti.
Anime baltiche, anime spesso di origine ebraica che hanno vissuto gli orrori del secolo scorso, deportazioni in Siberia, ghetti, campi di concentramento. Uomini e donne dal passato e dalle origini scomode che hanno fatto di tutto per riabilitarsi: Eisenstein e i suoi film e l’eterno irrisolto conflitto col padre, il violinista Kramer e la sua amicizia col ballerino Baryshnikov, quest’ultimo aveva sostenuto di essere stato “privato della mia infanzia e nella danza ho trovato una casa che la mia famiglia non mi ha mai dato”.
Toccante e avventurosa la storia dell’estone Anna Liselotte von Wrangel che, in Olanda, dopo aver perduto genitori e il fratello Claus in seguito alla seconda guerra mondiale, grazie all’impegno e al suo spirito forte da sartina diventerà modista e caporedattrice della rivista Marion. Indimenticabili le pagine dedicate ad Hanna Arendt che ho letto tutto d’un fiato, ho anche scoperto alcuni particolari della vita di Tomasi di Lampedusa: proprio tra il gelo del nord Europa ha scritto le meravigliose pagine de Il gattopardo, di cui Brokken ricorda anche la magistrale trasposizione cinematografica del Visconti.
Tante storie, da rileggere e da apprezzare, soprattutto da far sedimentare dentro di noi, perché ognuna ha con sé un importante valore storico, culturale sentimentale. Città distrutte che non esistono più come la prussiana Konigsberg, ora Kaliningrad che dello splendore originario non ha più niente, né castello, né università, né più il profumo di té nelle case patrizie. Anime baltiche che non hanno radici, anime baltiche che invece, come la dolce Loreta Asanaviciute, ne sono orgogliose :
“L‘orgoglio non ha niente a che vedere con il nazionalismo, lo sciovinismo o l‘arroganza. Essere orgogliosi del proprio paese significa credere in tutto ciò che lo rende speciale, diverso, unico. Significa aver fiducia nella propria lingua, nella propria cultura, nelle proprie capacità e nella propria originalità. Quest’orgoglio è la sola risposta adeguata alla violenza e all’oppressione”.
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Non alla prima, ma alla seconda...
lettura, ti conquista. Più volte lo rileggi, più lo apprezzi.
Il libro era in lista da tempo, ne temevo la lettura visti i pareri contrastanti, ma poi, come sempre accade, dovevo avere la mia idea e mi son tuffata a capofitto nella storia lasciando in sospeso altre letture.
Ho fatto bene a leggerlo,mi è piaciuto molto.
Le pagine mi hanno donato tante emozioni, la tenerezza in primis, mi hanno messo addosso la voglia di esplorare quei paesaggi nordici, il desiderio di mollare la vita urbana e i rapporti sociali e vivere e respirare la libertà autentica a pieni polmoni, come l‘aria fredda e rinfrancante della Lapponia. Il libro mi ha anche fatto ridere, tante volte. Un libro particolare, perché Paasilinna, il compianto scrittore finlandese fa dell‘humor molto sottile, forse è questo il più grande ostacolo in cui ci si imbatte.
Premetto che io non consiglio il libro a tutti, ma solo a chi ama la sottigliezza di certe battute, di certi contrasti e desidera conoscere la letteratura nordica senza cercare lunghe descrizioni di paesaggi innevati per sognare ad occhi aperti. “L’anno della lepre”, titolo di punta della casa editrice Iperborea che proprio con questo romanzo, uno dei più apprezzati ed importanti della Scandinavia, ha raggiunto un traguardo editoriale importante, tenuto conto comunque che si tratta di una casa editrice indipendente. In Italia il libro ha vinto un importante premio letterario, il Premio Acerbi e sono state fatte ben due trasposizioni cinematografiche. Il protagonista è un giornalista quarantenne di Helsinki, Vatanen, stanco e logorato dalle ipocrisie e dalla falsità della vita che conduce in città e che un giorno, in auto con un amico giornalista, investe una lepre. L‘uomo esce dall‘auto per soccorrere l‘animale e da allora la sua vita prende una svolta inaspettata : si inoltra nei boschi e non si fa più trovare né dall’amico, né dalla moglie (in realtà neppure lo cerca, non lo ama), né da nessun conoscente del mondo “civilizzato”. “L‘anno della lepre” è un inno alla libertà, alla riscoperta di se stessi, la storia di una scelta radicale da parte chi non vuole più scendere a compromessi con la felicità.
In questo senso Vatanen fa pensare al protagonista di un’altra grande storia, “Into the wild“, che pure abbandona il mondo urbano dei simili per vivere in solitudine a diretto contatto della natura. Avventure rocambolesche, alcool a sbafo, salvataggi in extremis di animali, incontri con personaggi bizzarri, situazioni comiche che invitano alla riflessione, l‘immensa tenerezza per animali in difficoltà che col loro silenzio ed i loro sguardi sembrano voler parlare agli uomini: un orso curioso, mucche spaventate,un corvo ladro e mangione e...la lepre. L’onnipresente lepre cui Vatanen si lega come se fosse una bambina da proteggere e tenere in braccio, amica delle sue disavventure, simbolo di un mondo semplice e schietto totalmente estraneo alla farraginosità dei rapporti umani, libero.
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Quell’insularità dell’animo...
“Isole lontane, per ragioni di metafisica, prima ancora che di geografia, cioè d’una lontananza “astratta, psicologica”, come avrebbe scritto un altro poeta: vagheggiate lungamente nei secoli, per larghe campiture d’azzurro, le più diverse e gradate, tra cielo e mare, mare e cielo. Isole lontane – è sempre l’altro poeta che parla –, perché – poco importa se distanti poche miglia da una costa molto abitata – in commercio ineludibile con la solitudine: patita, forse, da coloro che sono costretti a viverci da prigionieri, ma anelata da chi, invece, vorrebbe trovare requie, sciogliere gli ormeggi d’una greve e affollata quotidianità. Isole lontane, insomma: dove il tempo – insiste quel poeta – non è misurato dagli orologi e dai calendari, ma dalla rosa dei venti, dal ciclo delle stagioni, dalle lunazioni, dalle migrazioni dei pesci e degli uccelli. Isolitudini.”
Così nelle pagine iniziali , Massimo Onofri, originario di Viterbo, critico letterario e docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Sassari, presenta il suo viaggio per mare, come un novello Ulisse, alla scoperta e alla riscoperta di tutte le isole e dei mari, reali o immaginari, della letteratura mondiale. Un itinerario sotto il segno della Isolitudine, doppia condizione di condanna e di privilegio tipica di chi vive su di un’isola, coniato per la prima volta dal siciliano Bufalino, “Ho inventato una parolina: isolitudine. Isola e solitudine insieme. Da questo siamo dominati, noi siciliani: da una parte ci sentiamo rassicurati dal mare che ci avvolge come un ventre materno, dall’altra amputati di ciò da cui siamo esclusi. Presi da un sentimento insieme di claustrofilia e di claustrofobia. (Bufalino, 1996)
Quella sensazione di sentirsi orfani della terra, una nostalgia, una sensazione di abbandono che può sentire solo chi vive l’insularità: anche Leonardo Sciascia aveva coniato un termine simile, la ‘sicilianitudine’ . Onofri intraprende questo viaggio in quasi cinquecento pagine di puro godimento letterario, con una sua prosa affabulatrice, intrisa di retorica dal gusto retrò, che accompagna il lettore in un sogno verso terre e mari lontani, ricordandoci sempre che, come dice Melville, “i luoghi veri non esistono mai”.
Un atlante letterario, ma io aggiungerei che, per certi versi, è anche sentimentale, emozionato ed emozionante che non esclude accenni di tenerezza e nostalgia verso opere ed autori che hanno fatto la storia della letteratura e non solo.
Il libro è diviso per aree geografiche: si parte dalle isole greche, con l’opera di Durrell “Luoghi sotto spirito”, “Viaggio in Grecia “ di Scrofani , “i taccuini” di viaggio di Camus: Corfù, Creta, Mykonos, Cefalonia , Idra dove tra l’altro , Onofri, ricorda viene girato il film con una giovane Sofia Loren, ‘Il ragazzo sul delfino’. Storie di corsari, di libri, di miti, di musica greca. Da subito lo scrittore inserisce frammenti di ricordi del suo amico pittore, morto suicida a Creta, Torquato Anselmi, “ossessionato dall’azzurro”, così lo definisce rievocando i suoi dipinti . Suggestive queste parole intrise di citazioni e rimandi foscoliani:
“Non sono mai stato a Zante – o Zacinto, come struggente la invoca il poeta –, né mi sono mai immerso in quel greco mare che la bagna, da cui vergine, si sa, nacque Venere. Epperò, ero sicuro di trovarmi lì, riverso esausto sulla spiaggia immacolata a ridosso dello sperone di roccia che, come un artiglio di tirannosauro, s’incunea nel mare, quando, all’improvviso, mi è apparso il mio amico Torquato Anselmi. Non credo piangesse, ma aveva parole dolorose, di sottile recriminazione: “Tu dormi, Massimo, e ti sei dimenticato di me.”
“La letteratura genera altra letteratura” ed è vero, il libro di Onofri è un pozzo senza fondo di spunti di lettura, come ad esempio il libro di Larsson “la vera storia del pirata Long John Silver”, ispirata dalla celeberrima opera di Stevenson. Siamo nella sezione, Oceano Indiano e l’opera di Salgari , cui sono dedicate gran parte delle pagine, è d’obbligo ricordare, insieme a quella di Defoe, di Le Clézio , Walt Whitman e tantissimi altri. Nel nostro viaggio con lo scrittore troveremo anche Michel Houellebecq da lui definito “furiosamente antimetafisico ” cui dedica delle pagine quando parlerà dell’isola atlantica di Lanzarote, in cui il celebre scrittore francese soggiornò per un certo tempo e scrisse anche un libro omonimo, arricchito dei suoi scatti.
Non saprei dire quale delle cinque sezioni mi sia piaciuta di più, interessantissima è anche la parte Giappone e Russia, con luoghi e autori indimenticabili...illuminanti le pagine dedicate a Mishima, Soseki,Tanizaki, Cechov, la storia d’amore tra George Sand e Chopin....basta, non voglio dire altro, se non che il viaggio termina col ritorno al Mediterraneo, in Italia, toccando le coste sarde, liguri, laziali , campane e siciliane. E relativi sogni letterari da gustare.
Avviso: fa aumentare la wish list di letture e riletture!!!
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A chi sensibile all’ “isolitudine”, geografica o come condizione dello spirito.
Pericolosamente libera e innocente
Un libro letto velocemente, godibile per la storia e la bella traduzione.
Certamente, paragonato al “Giro di vite”, mi è sembrato meno complesso, dalla trama più semplice, complice la brevità -ma forse non è vero neppure questo.
È il secondo libro che leggo dell’americano Henri James, (scritto nel 1878) grande amico della mia scrittrice preferita, Edith Wharton, ed é proprio per via di questa amicizia che, di riflesso, ho deciso di conoscere meglio questo autore.
La storia di Daisy Miller è quella di una bella ragazza americana che va in Europa per un viaggio di piacere, insieme alla sparuta e debole madre, che nulla può contro il carattere civettuolo della figlia, il fratellino Randolph, e una guida, Eugenio,un bel giovanotto elegante che li accompagna nei loro viaggi. L’altro personaggio principale è il giovane Federick Winterbourne che conosce la giovane in Svizzera, a Vevey, in un giardino pubblico, intenta a riprendere il fratellino Randolph che, si era allontanato ed aveva attaccato bottone col giovane e nell’’intemperante spontaneità tipica dei bambini, aveva chiesto di sedersi al suo tavolo, pur non conoscendolo, a sgranocchiare zollette di zucchero e a raccontare della sua famiglia e del fatto che fossero americani.
Winterbourne rimane subito ammaliato dalla giovane: “di una bellezza ammirevole, straordinaria; affascinante creatura; gli occhi erano quanto di più bello si possa immaginare, le mani molto belle". E vestiva con molto gusto, si capiva che la famiglia fosse benestante. Ciò che colpisce il giovane dal primo istante però non è solo la bellezza, ma quella fresca spontaneità, completamente indifferente alle dicerie, appagata solo della propria libertà.
Dopo circa mezz’ora di conversazione con l’incantato Winterbourne, (americano che vive stabilmente a Ginevra) è già con lui a visitare un celebre castello nelle vicinanze, senza un’accompagnatrice come vorrebbero il costume e la decenza .
Daisy è esilarante, un uccellino che cinguetta, parla di tutto, spontanea, senza ipocrisie e fa sapere subito al nuovo amico che andrà a Roma e desidererebbe rivederlo ancora, anche in Italia. Quando ciò accade, Daisy, da diverse settimane nella città italiana, ha già stretto amicizia con un bellissimo italiano, che le fa la corte, ma lei non si concede. A lei interessa la compagnia schietta, ama farsi corteggiare. Ad un certo punto si fa vedere in strada da sola coi due giovani tra la disapprovazione generale.
Cosa succederà? Non anticipo altro.
Winterbourne è essenzialmente un uomo indeciso, che si lascia in balia ora della bellezza di Daisy ora delle dicerie e delle maldicenze della società americana in Italia (che ne ha adottato la sensibilità e i costumi più rigidi, rispetto a quelli della madrepatria). La madre di lei è un’ameba, senza autorità, né spirito, quasi degenere, preoccupata solo dei suoi mali e sembra ignorare le maldicenze cui si espone così allegramente la figlia.
Daisy è un capolavoro di ambiguità, pericolosamente civetta e così autenticamente innocente, coerente però nella sua libertà di scelta e di azione.
Per un pomeriggio di lettura di qualità.
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NON BASTA UNA VITA PER AMMIRARE L’ITALIA
Un libro interessante e godibilissimo che consiglio a tutti, sia a chi ama i classici -se mi consentite, è “imperdibile”,- sia a chi è curioso di leggere un succulento resoconto di viaggio in una Italia che, dopo gli scavi di Pompei ed Ercolano ( rispettivamente nel 1738 e nel 1748) si era riconfermata patria dell’arte e scrigno di stupendi tesori.
Un resoconto dettagliato ed interessante del Gran Tour, di moda tra i giovani intellettuali benestanti, che potevano sostare nella nostra Penisola per più di un anno per osservare, studiare, “far rinascere lo spirito” e conoscere quel popolo italiano, inconsapevole fortunato possessore dei più bei paesaggi e delle più meravigliose testimonianze storiche di un passato glorioso e impareggiabile.
E il visitatore chi è ? un curiosissimo, coltissimo tedesco, Goethe, “l’autore del Wether” - come egli stesso si sente tante volte identificare da Nord a Sud lungo tutto lo stivale: prosa di un certo livello, duttile e sensibile alle sfumature dei colori dei paesaggi, dei momenti della giornata, del carattere delle persone, attenta alla varietà delle piante, in Germania coltivate in serra, qui invece sempre a cielo aperto.
Goethe si dimostra un eletto viaggiatore, non è propriamente un giovane studente, ma un affermato scrittore, famoso in tutta Europa che ha occhi e cuore avidi di bellezza e di cultura. E quale luogo migliore dell’Italia per ammirare dipinti, affreschi, capolavori delle arti figurative? In quale posto al mondo si sposano così bene i diletti dello spirito con quelli dei sensi?
Il viaggio comincia il 1786 e termina il 1788, ma l’autore consegnò alle stampe l’articolata opera solo ventotto anni dopo. Si comincia dal Brennero, tra i disagi del freddo e i primi esperimenti del badare a se stessi senza avere gli agi dei propri domestici al seguito e della propria ricca casa, si passa a Verona, ad ammirare l’arena e poi subito a Venezia dove Goethe non si risparmia in elogi e espressioni di ammirazione nei confronti della bellezza dei luoghi e dell’armonia delle costruzioni del Palladio, i colori dei pittori veneti (Canaletto, Veronese).
Giorno dopo giorno il suo spirito ed il suo gusto si affinano sempre più, educati dal bello presente in ogni angolo della città sotto un cielo sempre luminoso che giustifica la chiarità e la nitidezza di questi famosi pittori. Ancora più entusiasta a Roma, dove si tratterrà più tempo, non solo per la presenza di amici, tra cui alcuni tedeschi, ma anche per la ricchezza della capitale del mondo antico.
Siamo letteralmente in viaggio con Goethe, il suo diario trabocca di informazioni: giornate in cui le pagine sussultano di entusiasmo e di stupore, altre in cui si lamenta di non aver avuto tempo di fare ordine nei suoi pensieri, sballottolato di qua e di là dal suo stesso desiderio di conoscenza. Brama di bellezza, voglia di sapere , necessità di conservare il ricordo. Ma all’epoca non c’erano ancora le foto ricordo e i selfie. Ecco allora che da Napoli in giù, Goethe ingaggia un artista, un certo Kniep, che lo segue anche in Sicilia e, su commissione, esegue schizzi di qualsiasi paesaggio od opera che il nostro esigente ed ammirato tedesco desideri immortalare, per poter ammirare di ritorno in Germania e da mostrare agli amici.
Interessanti e equilibrati i giudizi che esprime sugli italiani, ben lontani dai soliti cliché. Da napoletana, in verità, sono rimasta sorpresa dai lusinghieri giudizi sul popolo, per non parlare della città in generale. L’autore in quel lungo soggiorno aveva avuto modo di stare tra la gente, ammirarne la leggerezza con cui affrontavano il domani e sostiene di trovare infondate le dicerie sull’ozio e sulla pigrizia del popolo napoletano, messe in giro dai settentrionali, come lui stesso dice. Ci sono almeno tre pagine dedicate ad una attenta disamina delle varie classi sociali e di uomini e donne di qualsiasi età in cui si è imbattuto l’autore: dal frittarolo di strada al pescivendolo, all’acquaiolo, finanche ai bambini che appena imparano a camminare raccolgono ciocchi in cambio di poche monete, nessuno è sfaccendato, ognuno corre di qua e di là. I loro schiamazzi, la loro gioia di vivere è giustificata dalla fortuna di abitare in un posto baciato da Dio: tutte le gamme dei colori, i più splendidi, tutti i frutti più gustosi, tutti i fiori più profumati nascono spontaneamente da una terra generosa su cui troneggia il temibile Vesuvio.
Concedetemi questo peccatuccio campanilistico, in fondo Goethe, (che aveva notato il nostro campanilismo) a parte lamentarsi della sporcizia e della cattiva manutenzione delle strade (a Venezia!) e di qualche opera teatrale poco interessante (a Roma), ha solo da ammirare...ecco, essendo io trapiantata in altra regione, questo passo mi ha provocato i cosiddetti lucciconi agli occhi e gonfiato il petto di orgoglio:
“Ed nessun napoletano vuol andarsene dalla sua città, se i poeti locali celebrano in grandiose iperboli l’incanto di questi siti, non si può fargliene carico, vi fossero anche due o tre Vesuvii nelle vicinanze. Qui non si riesce davvero a rimpiangere Roma; che confrontata con questa grande apertura di cielo, la capitale del mondo nella bassura del Tevere appare come un vecchio convento in posizione sfavorevole”.
Non mi dilungo su tutto il viaggio, c’è tanto altro di gustoso da leggere, anche comici aneddoti. La parte relativa alla Sicilia è più turbolenta: qualche spiacevole episodio a Messina, la difficoltà di trovare comode locande, qualche momento di pericolo finito bene. Tuttavia c’è da dire che la sua formazione neoclassica, molto, anzi troppo dipendente dalle teorie del Winckelmann, non gli ha permesso di apprezzare i tesori di Palermo, in particolare la fontana di piazza Pretoria, che descrive con minuzia e che però taccia di cattivo gusto.
Quelle pagine traboccano di interessantissime considerazioni sulla Magna Grecia, sui poemi omerici a cui l’sola lo invita a pensare, sulla natura delle rocce e dei suoli, sulla vegetazione e sui templi di Segesta e di Girgenti.
Grande assente la Sardegna. Cosa avrebbe detto il celebre autore su di essa?
Vi consiglio l’edizione che la redazione QLibri ha inserito, quella della Mondadori che riporta la versione integrale, corredata da un apparato indispensabile e ricco di note, gli schizzi che Goethe aveva realizzato di suo pugno dei paesaggi e delle sculture, la corrispondenza fittissima con gli amici rimasti in Germania, il resoconto del viaggio di ritorno a Roma con la descrizione del carnevale romano, la prefazione di Roberto Fertonani, uno scritto di Herman Hesse.
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“Loro” e noi
L’ultimo lavoro del Rampini, nomade globale, giornalista eclettico, lettore instancabile è stato pubblicato quest’anno: al chiuso delle pareti di casa sua a New York causa covid19, l’autore ha dato sfogo ad un torrente di informazioni, pensieri, appunti, considerazioni frutto del suo lavoro e del suo trentennale “saccheggio” di biblioteche sparse per il mondo.
L’autore tiene a precisare che non si tratta di un libro di geopolitica, anche se l’attualità fa capolino nell’ultima parte del libro, ma di un libro di storia.
Per un cosmopolita come lui, l’Oriente è fatto di tante cose e non è molto lontano: da 11 anni vive a New York, ma 20 anni fa viveva a S.Francisco, città proiettata verso l’Asia, e inoltre ha vissuto 5 anni a Pechino.
Il nocciolo del libro, il confronto tra Occidente ed Oriente, ci accompagna, ci insegue, ci ossessiona da 2500 anni! Sì, perché 2500 anni fa comincia la civiltà orientale, coi due giganti del pensiero, Confucio e Buddha, una sorta di scienziato della politica il primo, e fondatore di una “religione atea” (così Papa Wojtyla definì con sospetto il buddismo) il secondo. Neppure 2500 anni fa l’Oriente era così lontano, tant’è che il confucianesimo arrivò fino alle coste siriane, come dire, alle porte di casa nostra, e nella filosofia greca c’è un innegabile influsso confuciano.
Furono proprio i Greci i primi a impostare l’idea della storia umana basata sulla contrapposizione Oriente/Occidente, infatti l’opera del Rampini comincia con Erodoto che racconta le guerre persiane e la tragedia di Eschilo, “I Persiani”. I conflitti vengono presentati come guerre di liberazione e lo storico greco ce le descrive proponendo un archetipo che non ci ha più abbandonato. Da un lato un Impero sterminato, con un imperatore dalle prerogative divine, e poi i Greci che sono numericamente inferiori.
In Asia il regno della massa, di qua da noi, il mondo dell’individualità.
Il concetto del dispotismo orientale (ammirato dagli illuministi del Settecento, utilizzato nell’Ottocento anche da Karl Marx ) è la base di questo scontro di civiltà.
Tuttavia il Rampini, ci tiene a sottolineare più volte, onde evitare inutili e dannose semplificazioni, che il bipolarismo Oriente/Occidente è forzato, perché bisogna tener conto che la parola Oriente (ma lo stesso discorso si applica anche al concetto di Occidente) racchiude realtà “di mezzo” diverse, come Iran, Iraq, Turchia, ad esempio. In questo bipolarismo inventato dal pensiero greco, c’è di fondo un atteggiamento di arrogante superiorità, ma, in realtà, quando nasce Roma, la civiltà cinese ha almeno duemila anni di storia! Quando Marco Polo fece il viaggio Cina, rimase sbalordito di fronte ad una civiltà così avanzata, e Il Milione ebbe conseguenze importantissime, lo stesso Colombo non avrebbe viaggiato per scoprire le Indie occidentali se non avesse letto quel libro. Marco Polo racconta ai suoi contemporanei di una Cina troppo più grande dell’Europa, molto più avanzata, scientificamente, tecnologicamente, e molti sono stati gli esploratori che hanno seguito le orme del commerciante veneto per confermare quanto raccontato da lui, perchè al momento del ritorno in Italia non era stato creduto.
Nella trattazione il Rampini non tralascia talune realtà storiche, come le migrazioni, che sono sempre state da est verso ovest, più raramente il contrario, ma, quando ciò è avvenuto, in quel caso si è trattato di colonialismo, e non è un dettaglio, non è un episodio marginale. Ad un certo punto della storia, abbiamo una rottura tra i punti di forza, improvvisamente tutto si ribalta...sul finire dell’Ottocento il nostro complesso di inferiorità non esiste più, e andiamo alla conquista dell’Oriente.
Interessante anche la parte del libro dedicato al progressivo, inesorabile processo di Occidentalizzazione degli Asiatici. Lo shock delle molteplici sconfitte militari, in campo coloniale, ad esempio le guerre dell’oppio, spingerà i capi politici di Cina, Giappone (“restaurazione Meiji”) a seguire il modello di industrializzazione, di finanza, di tecnologia occidentali.
Un libro che è un viaggio trasversale che tocca tantissime ed affascinanti tematiche, dalla sessualità ed erotismo orientale e dal ruolo della donna, allo yoga - praticato dall’autore dall’età di quindici anni -alla cerimonia del tè. Ho imparato tante cose, ho dato nuova dimensione a conoscenze che già avevo.
Il pregio del libro è anche la grande capacità di sintesi del Rampini che in poche pagine racconta un intero secolo di storia riuscendo comunque a collegare vari fatti politici ad eventi culturali importanti, perché anche la cultura fa parte della storia che ci insegna che non abbiamo un solo Occidente (America, Europa) e neppure un solo Oriente (il regime cinese di XI Jimping,). Interessante l’ultimo capitolo in cui si tratta del ruolo della pandemia anche in questo rapporto Oriente -Occidente.
Lo consiglio a tutti per il linguaggio accessibile, inoltre il ricco apparato bibliografico è una miniera di idee e di spunti di lettura nuovi.
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Gli altri libri del Rampini, ma non saprei quale consigliarvi, questo è il primo libro del giornalista che ho letto.
Amore a prima vista, a ultima vista, a eterna vist
PROSA, STILE E TRADUZIONE (G.Arborio Mella): 5 STELLE CON LODE
Il primo Nabokov non si scorda mai, tant’è che, terminato, l’ho già riletto. Non mi capitava dai tempi de “La montagna incantata” di Mann. Ci sono tantissimi passi che ho trovato geniali, eleganti, originali e anche spassosi, volevo sottolinearli, farli miei in qualche modo, perché sono sicura di aver trovato “la”prosa per eccellenza. Soltanto l’incipit, che ho voluto cercare e leggere in inglese, è un tale gioco concentrato di allitterazioni, consonanze e assonanze da sembrare una danza di parole. Dopo aver scoperto Nabokov romanziere (in realtà avevo letto solo le sue “Lezioni di letteratura”) credo che sarà davvero arduo trovare un autore che superi il suo stile e la sua scrittura. Come lui dice ai suoi studenti americani:
“Lo stile e la struttura sono l'essenza di un libro; le grandi idee sono risciacquatura di piatti".
La ricostruzione di un dramma, il diario-confessione in cui il protagonista, Humbert Humbert, scava nei recessi della sua memoria da che aveva coscienza fino agli ultimi fatti della sua disordinata e dissipata vita per chiarire l’eziologia della sua psicosi, la “ninfolessi”come la chiama lui, ossia l’ossessione per le “ninfette” , bambine dai 9 ai 14 anni. In parole poveramente e brutalmente legali, Humbert è un pedofilo. Ma solo nel pensiero, scagioniamolo, in realtà, non ha avuto mai intenzione di violare fisicamente una bambina.
“Humbert Humbert si è sforzato in tutti i modi di fare il bravo, dico sul serio. Lui aveva il massimo rispetto per le bambine normali, con la loro purezza e vulnerabilità, e in nessunissimo caso avrebbe attentato all’innocenza di una fanciulla, se ci fosse stato il minimo rischio di uno scandalo. Ma come batteva il suo cuore quando, in mezzo a quella schiera innocente, egli scorgeva una bimba demoniaca, «enfant charmante et fourbe», sguardo velato, labbra lustre, dieci anni di galera se solo le mostri che la stai guardando.”
Ma Lolita non è un libro sulle memorie di un pedofilo, sarebbe fare un gravissimo torto a questo bellissimo romanzo, e all’autore che ha impiegato anni per la sua scrittura. L’ombra di Lolita aleggiava probabilmente già nelle sue prime opere e qui trova massimo compimento.
Come si sa il libro ebbe, vista la tematica, molte difficoltà editoriali, nessun editore, siamo nel 1955, voleva pubblicarlo, ci pensò un editore francese, specializzato in pubblicazioni osè.
E’ un grande e tragico divertissement , che gioca su un tema urticante e scabroso, sui nomi - il nome del protagonista, Humbert Humbert, ad esempio -che poi nella prefazione dell’autore vengono dichiarati pseudonimi, sulle parole in francese (retaggio culturale di Humbert/Nabokov), sullo snobismo e sulla vanità del protagonista che in più punti non ci risparmia sviolinate alla sua avvenenza e alla sua prorompente virilità, largamente, a suo dire, al di sopra della media.
Ma non dirò altro, la trama è famosissima, consiglio invece, di gustare la tempra di questa scrittura magica, affabulatrice, incantatrice, impostata sulla giocosità dello scherzo, sullo strizzare continuamente l’occhio al lettore e ai “signori della giuria” cui si appella spesso. C’è grande teatralità in queste apostrofi metaletterarie, un invito a farci entrare di soppiatto in certe scene, a farci partecipare a questo drammatico gioco.
C’è un continuo oscillare tra moralità/immoralità, tra comicità/drammaticità ben dosati, mai stridenti che mi ha fatta appassionare alla lettura, non mi ha stancata. Sono rimasta piacevolmente conquistata. Alla fine del 2020 ho scoperto il mio scrittore preferito in assoluto, ho capito il perché della grandezza di questo romanzo, che mi ha divertita, mi ha infastidito, mi ha amareggiato, mi ha anche commosso in certi momenti.
Indimenticabile.
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Forse la letteratura dice la verità
“Sostiene Pereira che da un po' di tempo aveva preso l'abitudine di parlare al ritratto della moglie. Gli raccontava quello che aveva fatto durante il giorno, gli confidava i suoi pensieri, chiedeva consigli. Non so in che mondo vivo, disse Pereira al ritratto, me lo ha detto anche padre António, il problema è che non faccio altro che pensare alla morte, mi pare che tutto il mondo sia morto o che sia in procinto di morire. E poi Pereira pensò al figlio che non avevano avuto”.
Le mie lacune letterarie si presentano , agli occhi della mia coscienza , come un vuoto spaventoso soprattutto quando mi capita di imbattermi in titoli considerati capolavori della letteratura mondiale che non ho ancora letto. “Sostiene Pereira” fino a qualche giorno fa mi era totalmente sconosciuto, sapevo solo dell’ambientazione: l’atlantica Lisbona in pieno regime salazariano. La fama precede il libro e questo è un problema, perché le aspettative sono altissime e si rischia di rimanere delusi. Mi è molto piaciuto il libro e, riascoltarlo nella voce del Rubini è stato splendido. Il protagonista, nella sua mitezza, nella sua semplicità, nelle sue manie conquista il lettore che non tarderà ad affezionarglisi. Tuttavia, non sono rimasta entusiasta, mi aspettavo i fuochi d’artificio.
Pereira è un giornalista portoghese che cura la pagina culturale di un quotidiano pomeridiano della città, “Lisboa” e, in particolare, predispone in anticipo necrologi per letterati ed intellettuali, in modo da non essere colti impreparati all’occorrenza. Da quando è morta la moglie di tisi, è ossessionato dalla morte, dal pensiero di essa e della questione della resurrezione dell’anima -ma, si badi, non della carne-
“Tutto quel lardo che lo accompagnava quotidianamente, il sudore, l'affanno a salire le scale, perche? dovevano risorgere? No, non voleva piu? tutto questo, in un'altra vita, per l'eternita?, Pereira, e non voleva credere nella resurrezione della carne”
Le sue precarie condizioni di salute (cardiopatia, leggera obesità) non contribuiscono a tenere lontano questo triste e malinconico atteggiamento nei confronti della vita. Evidentemente, come gli farà notare il dottor Cardoso che diventerà poi anche suo interlocutore privilegiato per parlare di anima ed io egemone, Pereira non è riuscito ad elaborare il lutto e proprio per questo non si apre alla vita, non getta via la zavorra del passato per affrontare il futuro con una nuova progettualità.
La sua vita abitudinaria, fatta di necrologi, traduzioni di autori francesi dell’800, brevi colloqui col ritratto della moglie da cui non riesce a staccarsi e che porta sempre con sè anche quando si farà ricoverare per una decina di giorni in una clinica talassoterapica, subisce una curvatura quando entrerà nella sua vita il giovane Monteiro Rossi e la sua fidanzata Marta.
Entrambi sono dei dissidenti al regime di Salazar e girano per il Portogallo con passaporti falsi, ma questo Pereira lo scoprirà dopo aver assunto il giovane come “praticante” nella stesura dei necrologi, dedicati ad autori non tanto consoni al regime . Nonostante l’inutilità dei lavori di Monteiro, Pereira non gli negherà mai i compensi, anzi, davanti alla confessione delle difficoltà finanziarie del giovane, gli anticiperà denaro senza riserve. Anche quando scoprirà la ragione di queste difficoltà, Pereira, dimostrando un coraggio che sorprenderà il lettore, non esiterà ad aiutarlo rischiando la propria incolumità.
La prosa del Tabucchi è fluida, incalzante e, come quella del Saramago, fa larga economia di segni di interpunzione. Le descrizioni sono quasi assenti, con pochi aggettivi rende vivida l’immagina di Lisbona, immersa nella luminosità e nella calura estiva, a volte rinfrescata dalla brezza atlantica. Brevissime anche le descrizioni dei personaggi, delineati invece dai loro discorsi, dalle loro parole.
Ambientazione storica precisa, senza voler essere un romanzo di genere, personaggi realistici, precisi messaggi sul valore della letteratura:
“La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità.”
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Tradimento e castigo
Ho letto questo libro senza sapere che fosse la prima opera della scrittrice e tutto questo non fa che rendere più che positiva la mia considerazione di Edith Wharton, una delle mie autrici preferite, che seguo da un pò di tempo e di cui sto leggendo piano piano tutta la bibliografia. Sono contenta che oggi è possibile trovare il libro cartaceo edito da due diverse case editrici, praticamente sconosciute, la “Landscape”e la “Collina d’oro” (quest’ultima è retta da una fondazione culturale) di cui vi invito a consultare i rispettivi cataloghi online. L’edizione “la tartaruga” del romanzo è fuori catalogo e si può solo trovare all’usato.
E’ un racconto lungo di poco più di cento pagine che si leggono con immensa piacevolezza, soprattutto per lo stile della Wharton, una lingua così elegante e profonda allo stesso tempo e così cristallina che è puro godimento per il lettore.
È la storia di un giovane, Stephan Glennard, che vende, per poter sposare la ragazza di cui è innamorato da due anni, le lettere che una sua defunta amica, innamorata di lui non ricambiata, aveva continuato a scrivergli fino alla morte. Un carteggio molto interessante poiché la donna in questione è stata una delle più importanti scrittrici dell’epoca, Margaret Aubyn, morta da tre anni.
La storia si apre con un annuncio sul quotidiano che il giovane sta leggendo, in cui si dice che un certo studioso stia cercando lettere autografe dell’esimia scrittrice poiché si sa veramente poco di lei. Dopo aver deposto il giornale sullo scrittoio alla memoria di Glennard si affaccia dal passato il volto della cara amica, innamorata senza speranza:
“La rivide come gli era apparsa in occasione del loro primo incontro, una povera intellettuale con gli occhi miopi, il viso lungo e pallido appena ammorbidito dalla grazia della giovinezza e dell’inesperienza, ma anche allora del tutto incapace di fare presa sui sentimenti”.
Una donna dalla bellezza scialba -assolutamente diversa dalla divina Alexia che tanto desidera sposare -, una donna che diventava bella solo quando scriveva e quando parlava. Pensandoci, il giovane si sente lusingato dall’amore della Aubyn, in effetti “un uomo si sente indirettamente adulato dalla superiorità morale di una donna, l’ascendente mentale di quest’ultima non è attenuato da un simile, preciso tributo al suo potere. Guardare in alto è uno sforzo per i muscoli; e Glennard cominciava a ritenere ogni giorno di più che in una donna il cervello dovesse essere solo il risvolto della bellezza”.
Senza meditarci su, decide di vendere le lettere agli editori e dai proventi di questo “tradimento”, poiché in quelle lettere la povera scrittrice aveva messo a nudo la sua anima, può sposare la sua Alexia e tirarla fuori dalla sua giovinezza indigente. Ovviamente a lei non dice nulla.
Le parole non dette o quelle dette, tutto piove sul capo del giovane come velate accuse: le copertine dei libri, le discussioni nei circoli della vita mondana, i giornali, tutti parlano del nuovo romanzo epistolare della scrittrice, pubblicato postumo. Più si parla di lei, più la vergogna punge il cuore e la coscienza del giovane amico. Le amiche frequentate dalla moglie sono attirate e indignate dalla lettura di testi così intimi, una di loro dirà che “è come origliare dal buco della serratura”.
Il rimorso non tarderà a farsi strada, stendendo un velo di ansietà, di colpa sulla serenità della nuova vita a due. Ecco la grandezza della penna della Wharton nel suo lavorio di cesello sulla psicologia del giovane Glennard, sul suo desiderio di autocastigo fino a desiderare il disprezzo di Alexia.
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Quel cieco terrore del nulla
E’ giunta l’ora anche per me di conoscere uno dei libri più intensi della letteratura mondiale; l’autore, Josè Saramago, non a caso ha vinto il Premio Nobel nel 1998.
“Cecità” è stato uno dei libri più letti di quest’anno, insieme a Spillover di David Quammen , i Promessi Sposi e La peste di A. Camus: tutti libri importanti, autori grandiosi a testimoniare il fatto che nei momenti straordinari della vita sono sempre i classici che ci aiutano a dare una risposta ai nostri “perchè”.
Perché nel mondo improvvisamente si diffonde questa epidemia? Nella fattispecie come mai tutta l’umanità diventa cieca, così, di punto in bianco?
E la risposta non arriva, ma si attiva una serie di riflessioni importanti sull’uomo, sulle relazioni sociali e i rapporti di potere.
E come nella poesia di Montale, cui ho pensato subito leggendo le prime due pagine del romanzo di Saramago:
“Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
(...)”
Così il primo personaggio che scopre di essere diventato cieco all’improvviso, un mattino, in mezzo al traffico urbano, all’accensione del verde del semaforo è incapace di far ripartire l’auto, perché non vede più niente, tranne un nulla lattiginoso, bianco. Qualcuno si offre di aiutarlo e lo accompagna a casa fino all’appartamento in cui il cieco abita con la moglie. Purtroppo quest’uomo così gentile è in realtà un ladro, che approfitta della situazione di bisogno in cui si trova quel conducente che ha perso la vista all’improvviso, per sottrargli l’auto. Dopo qualche minuto anche il ladro diventa cieco: una coltre bianca impenetrabile scende sulle sue pupille.
Di lì a poco questa cecità bianca si scoprirà contagiosa: il primo cieco si fa visitare da uno specialista che, non riscontrandogli nessuna lesione oculare, gli prescrive esami più approfonditi, ma perderà anch’egli la vista poco dopo.
Ora dopo ora sempre più persone denunciano di aver perso la vista, finché il governo, allarmato non prende provvedimenti d’emergenza: quarantena per i contagiati in una struttura adeguata. Il vecchio manicomio abbandonato. Nell’attesa che si sappia qualcosa in più su questa epidemia di cecità che viene provvisoriamente chiamata “mal bianco” - come quello che colpisce le rose- le autorità locali organizzano l’isolamento dei ciechi in questa struttura presidiandola coi militari, autorizzati a sparare su chi cerca di scappare dalla quarantena.
Le condizioni degli internati sono al limite, sia perchè non sono in grado di badare alle proprie necessità senza guida, sia perché il cibo che i militari passano loro è insufficiente.
Da un primo, sparuto gruppo di sette persone internate si arriverà a circa duecento contagiati isolati: sarà necessario organizzarsi per vivere questa nuova realtà comunitaria. Come succede nella vita reale, ci sono i buoni e i cattivi. I primi che, nella disperazione della perdita della vista, conservano pur nella sporcizia e nel degrado più totale un’ombra di umanità, e i secondi, che nonostante il male comune, pensano a sopraffare i più deboli, confiscando lo scarso cibo distribuito. Questi farabutti ricattano gli altri per ottenere denaro e poi donne in cambio di alimenti.
Saramago non ci risparmia nulla: morte, sopraffazione, violenza, escrementi lungo i corridoi, per le strade, cani che si cibano di cadaveri umani. Nulla è risparmiato al lettore, neanche lo stupro sino alla morte. Ciò che segna la svolta è infatti il trauma collettivo della violenza fisica. Non sono state offese solo le donne, ma anche gli uomini: per poter mangiare un pezzo di pane hanno dovuto sacrificare vilmente le donne.
“Cecità”, che aveva come titolo originario portoghese “Saggio sulla cecità” offre moltissimi spunti di riflessione, una lettura su più strati, dove si riscontrano reminescenze bibliche, kafkiane (processo, tribunali), tematiche legate al sogno (Calderon de la Barca, Borges) e sicuramente implicazioni che rimandano alla realtà politica portoghese dove la democrazia è arrivata più tardi che non negli altri Paesi europei. In una discussione sulla fine del mondo tra i personaggi del romanzo si parla di “morte della parola”: la fine del mondo è la cecità e la cecità è l’assenza della democrazia.
Interessante il fatto che è una donna, la moglie del medico, l’unica persona in tutta la storia a non perdere mai il bene della vista. E sarà la sua condanna, poiché:
“...non domandatemi cosa sia il bene e cosa sia il male, lo sapevamo ogniqualvolta abbiamo dovuto agire quando ancora la cecità era un’eccezione, giusto e sbagliato sono appena due modi diversi di intendere il nostro rapporto con gli altri, non quello che manteniamo con noi stessi, di quest’ultimo non c’è da fidarsi, (...) voi non sapete, voi non potete saperlo, cosa significhi avere gli occhi in un mondo di ciechi, non sono regina, no, sono soltanto colei che è nata per vedere l’orrore, voi le sentite, io lo vedo e lo sento (...)”.
Perché Saramago sceglie una donna per conferirle questa eccezione non si sa: attraverso i suoi occhi noi conosciamo la storia dell’orrore e dell’aberrazione umana. Quando la perdita del bene della vista toglie senso alle cose e all’umanità. Depravazione, abbruttimento esteriore ed interiore, egoismo, corsa alla sopravvivenza. La cecità collettiva, l’emergenza collettiva annullano millenni di civiltà, riportando la storia all’età della barbarie quando per assicurasi il cibo non si badava ai rapporti di parentela e si uccidevano i propri simili.
Per quanto riguarda lo stile il lettore si trova spiazzato di fronte all’amara ironia che gioca con le parole (prescrivere medicine alla cieca, fidarsi delle parole di un ladro cieco, non vedere via d’uscita etc...) e alle imbattibili torri di parole compatte quasi senza punteggiatura. Discorsi diretti liberi senza avvisi grafici, un fluire davvero a perdifiato in questo viaggio letterario. E i nomi? Mancano i nomi, non c’è bisogno di nomi, ma di ruoli. Anzi, di anime: “dentro di noi c’è una cosa che non ha nome, e quella cosa è ciò che siamo”. I ciechi non hanno bisogno di un nome, ed ecco come riconosciamo i vari personaggi: il primo cieco, il cieco ladro, il medico, la moglie del medico, la ragazza dagli occhiali scuri, il vecchio con la benda nera, il ragazzo strabico...persino un cane, il cane delle lacrime, che accorre appena avverte qualcuno che ha bisogno di conforto.
Tenuto conto dello stile si consiglia di privilegiare la lettura e non l’ascolto, per esperire coi propri occhi (è il caso di dirlo) la particolarissima scrittura del compianto scrittore.
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Uccellino nella trappola del pregiudizio
Un classico intramontabile, un autore al quale sono affezionata. Pur leggendo la narrativa contemporanea spesso con grande soddisfazione, devo convenire che il mio spirito e il mio cuore sono strettamente legati a questo stile e a questa scrittura vittoriana, per me meravigliosi: quando prendo in mano un libro di Hardy non rimango mai delusa.
Non mi aspettavo certamente una storia facile, una storia a lieto fine, ma il modo in cui viene narrata, con un’attenzione particolare al mondo degli umili, con le sue superstizioni, le sue chiusure mentali che ben si sposano con le ipocrisie delle classi più agiate, con i suoi personaggi grandiosamente tragici, con le sentenze profonde e colte dell’autore e ...le sue impareggiabili pennellate naturalistiche che impreziosiscono, senza mai appesantire, la narrazione, posso ben dire che “Tess dei D’Urberville” è uno dei più bei romanzi dell’epoca e l’opera più matura ed equilibrata di Hardy.
Rispetto ai romanzi precedenti dove l’autore indugia maggiormente nelle citazioni bibliche ed anche poetiche che sono state parte della sua formazione, Tess è un armonioso tessuto fluido di narrazione, dove la poesia non ha bisogno di versi nè di strizzare l’occhio alle atmosfere gotiche e alle rovine antiche, indici di un gusto neoclassico e romantico insieme.
Il destino di fatica che dall’inizio anticipa un finale tragico ha il sapore del “ciclo dei vinti” di Verga. Tess è la figlia di un contadino del Wessex che un giorno scopre di essere l’ultimo discendente dell’antica famiglia normanna dei D’Urberville. Una notizia che segna una serie di eventi negativi, spesso confermati o anticipati da strane coincidenze legate a superstizioni e credenze popolari. Muore l’asino, l’unico aiuto che la famiglia aveva per sostentarsi, suo padre John, edotto sulle sue origini si rifiuta di lavorare e con la moglie decide di mandare Tess a reclamare la parentela presso una sconosciuta zia D’Urberville che abita poco distante dal loro villaggio, contando anche sulla bellezza della figlia e sperando che la nobile parente le combini un matrimonio vantaggioso con qualche signorotto di sua conoscenza.
La fantasia sventata e incosciente,soprattutto della madre, intellettualmente inferiore alla figlia Tess - come più volte il lettore avrà modo di appurare - saranno causa della rovina della ragazza che impara a sua spese troppo presto che
“dove innocenti cantano gli uccelli sibila il serpente” (...).
La conoscenza del “cugino” Alec D’Urberville non le porterà alcun beneficio e nessun ricco matrimonio, anzi, questi, preso dalla sua bellezza, la circuisce, la seduce e approfitta di lei ignara degli uomini e della vita, rovinandola per sempre. Tess, non accetterà mai nessun aiuto, dopo mesi di sofferenza e di vergogna, tornerà in mezzo ai suoi terrazzani a raccogliere covoni, mostrandosi sorda ai mormorii invadenti e ai giudizi degli altri. Ci sarà poi una storia d’amore, ci saranno promesse di felicità con un uomo intelligente e sensibile, ma...non posso aggiungere altro.
La storia suscita sentimenti contrastanti: rabbia, tenerezza, compassione, sdegno, orrore. La narrazione si arricchisce di scene di lavoro nei campi, di mungitura delle mucche, ben descritte in ogni particolare fin quasi a rendere presenti i profumi e i rumori. La penna di Hardy è semplicemente un pennello che dipinge magistralmente animi complessi o cuori semplici
“ ...Angel Clare. Nelle remote profondità della sua indole, così gentile e affettuoso com’era in genere, giaceva nascosto un deposito di rigida logica, come una vena di metallo in un terreno molle, che piegava la punta di tutto ciò che cercava di attraversarla”.
così come fa con i paesaggi allargando e restringendo il campo visivo dove anche le mietitrici prendono vita somigliando ad esseri umani:
“Tra tutti gli oggetti rossi quella mattina, i più vividi erano due larghe braccia di legno verniciato, che si levavano dai margini di un giallo campo di grano nei pressi del villaggio di Marlott(...) .
La falciatrice meccanica lasciava cadere dietro di sè il grano in piccoli mucchi e ciascun mucchio era nella quantità sufficiente per un covone; seguivano altri mietitori per legarlo con le loro mani, erano la maggior parte donne, salvo alcuni uomini con la camicia di tela stampata e i pantaloni sorretti alla vita da cinture di cuoio che rendevano inutili i due bottoni posteriori che luccicavano ravvivati dai raggi del sole a ogni movimento del proprietario, simili ad un paio di occhi in fondo alla schiena (...)”.
Scene di vita semplici, stoccate all’ipocrisia di certi religiosi, una storia sulla fragilità dell’amore e sulla forza di una giovane donna.
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Consigliato a chi ha amato gli altri romanzi di Hardy, i romanzi di George Eliot
Chiamare è riportare alla luce
“La vita va da quando decidono che nome darti a quando quello stesso nome è solo un graffio su una lapide. Nell’uno e nell’altro caso non hai l’iniziativa, quelle lettere sono tutto ciò che hai per venire alla luce e provare a rimanerci. Forse per questo gli antichi dicevano che il destino è nel nome: che ti piaccia o no, sei chiamato a rispondere all’appello.”
Il nuovo lavoro di Alessandro D’Avenia si ambienta tra i banchi di scuola, tra i turbolenti ragazzi di una quinta “classe sgangherata” da portare alla maturità e ha come protagonista un insegnante divenuto cieco all’improvviso da cinque anni. Come dall’incipit, nel nome è scritto il nostro destino, il professore si chiama Omero (“in greco ‘colui che non vede’...) Romeo, dove il cognome è l’anagramma del nome. Un nome straordinario per quello che da necessità diventa un vero e proprio “progetto” straordinario che rivoluziona il modo di fare scuola. Il professore torna dopo una pausa di cinque anni ad insegnare la sua passione : scienze naturali.
La scienza è la disciplina della vita per eccellenza e lui vuole che a scuola venga insegnata la vera vita e che non ci si limiti soltanto a trasmettere un astruso ed asettico sapere in cui i ragazzi di oggi non trovano senso, se non in parte. Per insegnare la vita bisogna partire da loro, dai ragazzi, uno per uno, chiamandoli all’appello, ogni mattina perché
“siamo fatti per nascere, non certo per morire. E un nome ben detto dà alla luce e dà alla luce ogni angolo dell’anima e del corpo (...) Questo è il potere di un nome proprio (...)”.
Ogni giorno si ripete quello che da semplice operazione di registrazione diventa un vero e proprio rituale che i ragazzi accoglieranno prima con un po’ di titubanza mista a curiosità e che poi pretenderanno anche dagli altri insegnanti della loro classe, con tutte le conseguenze che ne deriveranno. Il nuovo insegnante nonostante la cecità dimostra di vedere il loro ‘dentro’ molto meglio degli altri insegnanti che si limitano a vederli solo in superficie, senza neppure guardarli. Omero Romeo per conoscere bene i suoi alunni i primi giorni di scuola chiede loro qualcosa che li lascia un po’ perplessi : toccare i loro volti, conoscere le loro fattezze, la tensione dei muscoli facciali per ‘vedere’ le loro ansie, le loro preoccupazioni, la loro personalità.
Per chi è cieco (ma non solo per chi è cieco, potremmo dire), il tatto
“è il senso più importante. Quando ancora non vedevamo niente, noi toccavamo tutto ed eravamo toccati da tutto. Il destino dell’uomo è nelle sue mani. (...) Le mani danno forma al mondo in cui vorremmo vivere. È con l’uso che facciamo delle nostre mani che facciamo la vita.”
La lezione che il professor Romeo /D’Avenia vuole lasciare in questo libro è quasi rivoluzionaria, dal momento che da anni si propugna la necessità di mettere “l’alunno al centro” dell’insegnamento e di lasciare le incombenze dei programmi ministeriali in secondo piano. L’insegnante non deve “ridurre” la classe, numerosa o meno che sia, ma l’insegnante è chiamato ad “ampliare. Nei campi di lavoro si riducono le vite, a scuola le vite si ampliano: siete in tanti, ma voi ed io, insieme, faremo il possibile per arrivare fino in fondo, costi quel che costi”.
Una visione che fa del mestiere di insegnare una vera e propria missione tra mille difficoltà, anzitutto burocratiche e istituzionali e “il progetto Appello” trova favorevole risposta tra tutti gli alunni della scuola, ma anche una serie di atteggiamenti infusi di sospetto tra gli insegnanti arroccati sulla difensiva, resistenze da parte del Dirigente scolastico che teme di perdere il controllo della situazione. Tutto ciò è normale, spiega il professor Romeo, approfittando dei momenti di vita quotidiana per spiegare concetti scientifici:
“È normale trovare resistenza quando qualcosa mette in crisi un sistema: in fisica occorre vincere l’attrito prima di riuscire a mettere in moto qualcosa, figuratevi se quel qualcosa è la scuola come la si fa da più di un secolo a questa parte...”.
Un esperimento straordinario che per essere fattibile e concreto dovrebbe partire da questa considerazione che tutti gli insegnanti dovrebbero far propria : “ i ragazzi non studiano, perché l’autorità non è più riconosciuta sulla base del ruolo. L’unica autorità che i ragazzi riconoscono è quella di chi sa volere bene, oltre che a conoscere la materia”.
LA MIA OPINIONE. È stato il primo libro di D’Avenia che ho letto. Dopo aver ascoltato molte sue lezioni ed interviste su YouTube ero davvero incuriosita. È un libro che si legge velocemente, per nulla impegnativo, molto pop che arriva ad un vasto pubblico e sono sicura che piacerà a molte persone, soprattutto ai giovani e a chi probabilmente non esercita la professione di docente, in quanto chi insegna oggi in Italia con professionalità e passione è talvolta lasciato solo in un mare di confusione burocratica e obblighi e doveri extra non soltanto non retribuiti, ma anche non riconosciuti. Il mestiere di insegnante non si esaurisce certo in un’aula scolastica, cioè nel suo ‘habitat’ riconosciuto istituzionalmente, ma continua anche a casa e non mi riferisco solo all’immane lavoro che c’è dietro la didattica a distanza di cui sentiamo tanto parlare in questo delicato momento di emergenza sanitaria.
Quanto poi alla questione dell’autorità, la mia visione è più galimbertiana: sono cambiate le famiglie. E delle famiglie e dell’educazione ricevuta nel libro non si parla, in quanto le famiglie degli alunni del professor Romeo sono disastrate, si tratta di casi estremi. Ho trovato inoltre poco credibili la maturazione in così poco tempo -solo un mese- dei ragazzi (drogati, ospiti di case famiglia, ladruncoli, ragazze che hanno abortito...) e soprattutto la cultura che avevano alle spalle: citazioni perfette di Rimbaud, della Woolf, del dottor Zivago, una conoscenza indefettibile della fisica quantistica...non mi ha convinta fino in fondo. Certamente il libro è consolatorio, con happy ending, leggero e con belle riflessioni che tanto piacciono a chi fa “centoni” da copiare e incollare sui social network.
Perfetto da regalare, soprattutto per Natale e vi lascio con questo splendido pensiero che condivido in pieno:
“...non è vero che a Natale sono tutti più buoni. A Natale hanno semplicemente più fretta. Ma la fretta è proporzionale alla difficoltà di amare, perché per amare bisogna prendersi tutto il tempo che ci vuole”.
A tutti gli insegnanti che lottano contro il tempo per far quadrare i conti ministeriali e ad esercitare la loro professione con cuore e umanità.
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Il fatale pedaggio del dono artistico
Il titolo e la presentazione mi attiravano troppo per lasciare che questo libro cadesse, come tanti altri, (ahimè), nell’oblio delle mie continue wishlist non scritte.
Una ambientazione storica ben ricostruita e personaggi reali che hanno fatto la storia del nostro Rinascimento: storia ed arte, come resistere? Il genere in sé non mi attira, ma ho strizzato l’occhio a Sinoué perché adoro i libri dalla ricostruzione storica ineccepibile.
La lettura è stata piacevolissima, mi ha anche arricchito sulla pittura fiamminga e sulle varie tecniche per ottenere colori vividi: laddove i nostri grandi artisti utilizzavano ancora la tempera, Ian Van Eych, maestro del colore indiscusso in tutta Europa, usava con grande soddisfazione la tecnica ad olio.
“Ricordati la frase dell’Alberti: Nella mano dell’artista, perfino uno scalpello deve trasformarsi in pennello, uccello libero”.
L’ambientazione é doppia ed è dinamica: le Fiandre, dove il grande pittore insegna al piccolo Jan l’amore per la pittura e la tecnica per ottenere i colori dalle piante, dai minerali, e Firenze, dove è in atto una cospirazione che sembra fare vittime solo tra artisti entrati in contatto col grande fiammingo. Perché? Tra l’altro tutti trovati morti con in bocca terra colorata, terra verde di Verona.
Un thriller con tanto di omicidi seriali, inseguimenti, una mappa nascosta chissà dove, la storia del figlio adottivo di Jan Van Eyck, che, rimasto orfano una seconda volta, sogna di imbarcarsi per Venezia dal porto di Bruges portando con sé il segreto di suo padre e suo maestro. Tantissime parole tipiche dell’epoca: lo scabino, la scarsella, il balivo, il batavo, l’atanor, gregario, beghinaggio, la velenosissima segala cornuta...mi hanno stimolato a fare ricerche autonome. Così come ho cercato i vari dipinti, polittici, ritratti, nominati con dovizia di particolari da Sinoué.
Momenti piacevoli ed interessanti: il dialogo tra Ghiberti e Nicolò Cusano sullo scisma della Chiesa, il dibattito tra Petrus Christus , William Caxton e Laurens Coster sulla rivoluzione culturale derivata dall’invenzione dell’ars artificialiter scribendi, ossia della stampa a caratteri mobili di Gutenberg.
Certamente non sono d’accordo nell’accostare il libro al capolavoro di Umberto Eco (Valeurs Actuelle, rivista francese di attualità), dal momento che per quanto riguarda la trama, mi lasciano un po’ perplessa alcuni passaggi narrativi. Consiglio il libro per una piacevole lettura, arricchente dal punto di vista storico ed artistico.
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BEN VENGA MAGGIO!
Un nuovo viaggio di ritorno al paese natale, un nuovo percorso interiore che non può prescindere dai ricordi. L’austriaco Peter Handke è garanzia di qualità, indipendentemente dal lauro del Nobel. La sua penna prolifica ha un elevato peso specifico, la sua voce è quasi “ubiqua”: ora vicino al lettore, la senti quasi sussurrare nell’orecchio e contemporaneamente si allontana a narrare fatti remoti. Proseguendo nella lettura, si ha la sensazione di avere tra le mani un’opera di qualità letteraria straordinaria. Sono queste le sensazioni che suscita, dopo aver fatto esperienza di lettura handkiana con “Infelicità senza desideri” e “La ladra di frutta”.
Il richiamo a quest’ultimo romanzo è innegabile.
La preparazione di un viaggio che si dimostra un percorso interiore: l’incipit de “La ladra di frutta” ha ambientazione esterna, si apre con immagini di primavera, con la puntura di un’ape quale spinta/segnale dell’inizio di un nuovo tempo da vivere, mentre “La seconda spada” si apre in tempo primaverile, a maggio per la precisione, ma in un ambiente chiuso, col protagonista narratore che si guarda allo specchio cercando nel volto qualche indizio che gli riveli una nascosta natura di assassino e di vendicatore. Nonostante ambientazioni più urbane, come stazione, treni, alberghi, la natura torna protagonista qui come ne “La ladra di frutta”, con i suoi alberi, le cui chiome riecheggiano come “voci di bambini”, con le sue “farfalle dei Balcani” tanto care all’autore che turbinano nell’aria infuocata ai piedi della Collina Eterna, con i suoi uccelli che stavolta non sono solo ricco sfondo ornitologico, ma personaggi della stessa storia che coi loro versi diventano gli interlocutori privilegiati del narratore. Il tema del luogo di origine da scoprire/riscoprire attraverso i ricordi, una memoria involontaria di origine proustiana che scatta come una molla ad ogni profumo, ogni sapore, (anche se per captatio benevolentiae Handke sostiene “niente di paragonabile alla madeleine del tempo perduto e ritrovato di Monsier Marcel Proust”) si intreccia sapientemente all’altro tema ricorrente nelle opere di Handke, quello del sentirsi sconosciuto a se stesso, quello di sentirsi straniero in patria e contemporaneamente di appartenere a qualsiasi luogo. “Per me il senso dell’origine è molto profondo: non posso tornare indietro, ma sono sempre là…” diceva l’autore in un’intervista (E.Filippini, ediz.Castelvecchi, 2013).
Prima di partire, l’innegabile ammissione:
“Mi era sempre tornata in mente nella vita la vecchia storia, più o meno biblica, dell’uomo quale era stato afferrato da Dio o da chissà quale altra forza maggiore per una ciocca di capelli, e portato via dal suo luogo natio, da tutt’altra parte – in un altro Paese”. (pag.19)
Nel passo a pag.72 che cito come assaggio della sua scrittura ironica, a volte fredda e cristallina, torna l’immagine dello straniero di Camus, nascosto nell’io più profondo e segreto del protagonista:
“...nell’altro Paese, io, l’estraneo, lo straniero, sentendo i latrati e gli strepiti, spesso infiniti, dei cani oriundi – più oriundi di così non era possibile -nei giardini vicini, non potevo impedirmi di immaginare continuamente, scena peraltro spiacevole, di prendere un bazooka – di cui ignoro nel mondo più assoluto caratteristiche e funzionamento – per far saltare in aria la relativa casa oriunda; di livellarne il terreno, di trasformarlo in un inferno di fiamme, con tanto di lamenti di animali e uomini che ci vivevano. E un giorno o l’altro un atto di violenza lo commetterò davvero (o forse no) …”
La necessità impellente di vendicare sua madre, la sua “santa” madre, più volte ricordata nel libro, così come nell’altro, “Infelicità senza desideri”, è la spinta a percorrere questo viaggio alla ricerca di se stesso per scoprire alla fine che esiste una seconda spada.
SPOILER? Ma no, ma quale spoiler quando siamo di fronte ad un’opera a trama quasi zero, che si fa leggere per la pregevolezza dello stile e la profondità delle osservazioni sul mondo? Però vi anticipo che il libro, nel finale, si allinea a “La ladra di frutta” pur con le sue differenze, in quanto questo libro così breve, poco più di 150 pagine, rispetto al precedente dà una sensazione di compiutezza, è meno “sfuggente”.
La seconda spada, la seconda possibilità, l’alternativa alla prima, che è quella più facile ed ovvia quella della violenza e della giustizia fatta da soli. E’ una storia di rinascita, dopo aver fatto pace col passato, è la storia di una nuova primavera, già preannunciata nel sottotitolo “ una storia di maggio”, dove la natura sua interlocutrice col suo verde ed i suoi suoni, gli sussurra “Fallo”Fallo!compi la tua vendetta”, ma il vero messaggio è tutt’altro, il vero messaggio della letteratura è al limite, affermava qualche anno fa l’autore “Tutto ciò che scrivo è al limite. Solo al limite appare qualche cosa. Al limite del tempo appare l’eternità”.
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Infelicità senza desideri
le altre opere di Handke
Scherzi giovanili
Curiosissima e brevissima raccolta di racconti giovanili di Jane Austen, testimonianza di una precoce e pungente ironia che con gli anni si è poi smussata.
Scopo dei racconti è quello di divertire la famiglia, ed in effetti, "La bella Cassandra", primo racconto, diviso in dodici capitoli flash - e con "flash", voglio dire che ogni capitolo conta di una manciata di righe - riprende, nel nome Cassandra, quello della sorella maggiore di Jane.
"Dedicati a Miss Austen con il suo permesso" la raccolta rivela la vena irriverente e divertita con cui la giovane Austen vedeva la vita, gestiva i suoi rapporti con il mondo esterno attraverso il filtro della letteratura.
Giovani donne che strizzano l'occhio alla bottiglia di vino oppure che rose dall'invidia avvelenano la fanciulla più bella della corte, patricide e matricide che tra un assassinio ed un altro vengono baciate dalla fortuna (ma guarda!) e riescono a sposare subdoli ereditieri.
La prosa è già quella inconfondibile, scorrevole e cristallina della Austen dei grandi romanzi, ma con un pizzico di vetriolo in più.
Da sorseggiare con calma davanti ad una tazza di tè caldo, il libriccino si beve in meno di un'ora.
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La mia piccola grande Tokyo
Vedere Tokyo attraverso gli occhi innamorati di una italiana che ha scelto di mettere le sue radici in Giappone: questo è “Tokyo tutto l’anno”, una lettura piacevole e interessante.
Luisa Imai Messina è una giovane romana che, in seguito ad un primo viaggio, regalo post-lauream, nel magico Paese del Sol Levante, decide di restare ancora un po' e, complici prima gli studi di lingua giapponese e poi anche l’amore per Ryosuke, rimarrà soggiogata completamente dalla grande megalopoli orientale. Con la sua simpatica famigliola, il marito Ryosuke e i loro bambini Sosuke ed Emilio, la Messina ci prende per mano e ci mostra i principali luoghi di attrazione di Tokyo, come in una lunga ed affascinante gita in una qualsiasi domenica. Non ci si sente soli in questo viaggio. La scrittrice è una presenza viva, la sua voce è fresca, ricca di immagini, simpatica e riflessiva. Ora ti confida un ricordo che la lega ad un certo luogo, ora si interrompe per farti partecipe dei capricci di uno dei bambini, ora ti mostra una delle tante gothic Lolita che si incontrano nella città, un po' tenere bambine un po' giovani dark ladies.
Il libro è organizzato per mese, da gennaio a dicembre e riporta le principali festività del calendario lunare dell’antico Giappone con i rispettivi ideogrammi e la traduzione. Immancabili le parole stagionali, i kigo, un concentrato simbolico e una descrizione immediata di una stagione in cui si festeggia o si ricorda qualche evento importante. E così gennaio è il mese dedicato agli affetti, alla famiglia, febbraio è il mese “del vestirsi a strati”, marzo quella della crescita e dei primi fiori, e così via.
Le ricorrenze e le usanze sono veramente tante! Tokyo è di una complessità e di una ricchezza quasi uniche al mondo, talvolta è paradossale. Si trovano negli stessi interstizi luce ed ombra, la natura e la tecnologia, il passato e il presente, il vecchio ed il nuovo, il dentro e il fuori, lo yin e lo yang.
La natura è presenza fissa nella lingua e nella cultura di questo magico Paese. Come aveva scritto Cees Nooteboom nel suo libro che ho letto da poco : “Per i giapponesi la natura è animata, in senso letterale. Negli alberi, nei ruscelli, nelle colline vivono dei, spiriti, anime. Questo popolo ha un rapporto mistico con la natura, in nessun altro luogo è così evidente cime nei giardini zen”.
In effetti nei racconti, nelle illustrazioni su carta di riso, tornano questi spiriti, anche quelli degli antenati cui ogni casa dedica un piccolo altare, che vengono periodicamente ricordati col passare delle stagioni. Certamente il Nooteboom non è riuscito nei suoi innumerevoli viaggi a comprendere in fondo la realtà giapponese moderna, tornando ogni volta un po' deluso. Invece la Messina guarda alla città con occhi diversi, è innamorata del Giappone, è felice, è entusiasta di questa cultura così complessa e così estranea alla nostra.
È affascinata dalla creatività, dalla fantasia che divengono arte anche nell’impacchettare i regali, quasi in ogni attività, dalla cucina al giardinaggio, con la carta, con i fiori, con il cibo e trascina anche chi legge le sue pagine.
La cucina tradizionale è di una ricchezza notevole che richiede molta creatività e pazienza. Con in mano il cellulare ho cercato nel web le principali pietanze e sono rimasta colpita dalla delicatezza del colore di certi dolcetti che si preparano durante la festa delle bambine (Hina-matsuri), evento strettamente legato alla fioritura degli alberi di pesco. Non solo, ma anche tutte le pietanze di riso, di pesce, hanno in sé una spettacolarizzazione della creatività davvero unica e un richiamo alla ciclicità della natura.
“La natura ha tante parole e il giapponese dà il meglio di sé nella sua descrizione; pare espandersi all’infinito, quasi allungando al limite le braccia per accoglierla tutta: questa lingua punta sull’unica cosa destinata a restare”.
Io non ho mai visto luogo più bello del sakura-dori, il viale dei ciliegi: un tunnel rosa e bianco, di struggente bellezza. I fiori di ciliegio, quelli di deutzia, i crisantemi e tutti gli splendidi fiori che rendono questo posto esotico così magico insegnano che la bellezza è nella fragilità, nel passeggero e nelle cose destinate a terminare.
Bella la copertina rigida, con la sovracopertina illustrata da Igort, lo stesso artista che impreziosisce alcune pagine all’interno del libro. Un libro da regalare e da regalarsi.
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Una saga familiare russa
Chi ama le lunghe saghe familiari che fanno compagnia, che presentano una trama che difficilmente fa staccare il naso dalle pagine, amerà questa scrittrice, tradotta in 24 lingue e finalista a importanti premi letterari russi.
Certamente, chi mi conosce, sa che questa lettura non rientra pienamente nei miei gusti, ma la penna della Stepnova merita attenzione; ho letto il libro sia perché la trama mi ha catturata e sia perché lo stile è veramente ricco, duttile.
‘Le donne di Lazar’ abbraccia le vicende svoltesi nell’arco di un secolo, delle donne legate alle vita del genio della fisica nucleare Lazar Lindt: Marusja, Galina e Lidja.
La storia comincia con la piccola Lidocka (diminutivo di Lidja) che va al mare in vacanza con i giovani genitori che la adorano e già nell’incipit l’autrice annuncia che quella sarà l’ultima estate felice della bambina. Infatti da lì a poco, la mamma avrà un malore in acqua e, la piccola, in scene confuse e sfocate come dietro occhiali unti o della diottria sbagliata, avvertirà il gelo della disgrazia e si troverà in pochi giorni con una giovane donna sconosciuta, sua nonna Galina Petrovna. Da quel momento parte un lungo flashback sulla storia di suo nonno Lindt, un giovane ebreo povero, ma dalla mente geniale che si fa strada negli studi di fisica e nella casa piena di calore dei Caldonov, che lo accolgono come un figlio. Una mente brillante, uno spirito generoso, circondato da donne che sapevano apprezzarlo, ma Lindt per tutta la vita non riuscirà mai ad avere l’amore della unica donna che davvero desidera, Marusja, molto più grande di lui e moglie dell’accademico Caldonov. Come incontra Galina Petrovna e cosa succede alla piccola Lidja, sta a voi scoprirlo, ma vi avverto, c’è tanto dolore. Sullo sfondo, un secolo di storia russa dal 1917 ai nostri giorni.
Lo stile della scrittrice è meritevole: dialoghi inseriti nei flussi di coscienza, nei momenti descrittivi senza rispetto della punteggiatura, multipli registri linguistici, scavo psicologico, ironia che alleggerisce certi passaggi.
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La metamorfosi della vita
“Il passato è tutto, l’avvenire è niente, non esiste un altro senso del tempo. Viviamo su un pezzetto di calcare della sclerosi multipla del cosmo”.
Uno dei pochi autentici, e purtroppo quasi sconosciuti, capolavori della letteratura mondiale degli ultimi decenni, viene dalla Romania, ed è firmato da Mircea Cartarescu.
“Abbacinante” è una trilogia, imponente e geniale, che riproduce nel titolo, e ripropone in più parti, come motivo mistico-simbolico, il corpo di una farfalla: ala sinistra, corpo centrale e ala destra. Proposto in Italia da Voland, il primo volume in italiano è apparso nel 2008 e l’ultimo nel 2016.
Se dovessi delineare in poche parole che impressioni ho avuto nel leggere questo libro, direi che si è trattato di un abbagliante spettacolo di psichedelia e allucinazioni, simmetrie ed iper-simmetrie, una batteria di fuochi d’artificio con i suoi passaggi più esaltanti, i momenti dal ritmo più piano e poi una corposa terza parte che riprende il vortice allucinato di sogni e sensazioni delle prime pagine e confluisce in un finale che rimette a posto tutto le tessere e il cerchio si chiude. Ma non del tutto...la lettura del secondo e del terzo volume, ne sono sicura, renderà più chiare certe scelte narrative e i motivi della storia, la storia di Mircea Cartarescu, “questo libro illeggibile” cui ha dedicato ben 14 anni!
‘Ala sinistra’ comprende gli avvenimenti principali della sua infanzia e prima adolescenza, narrati in prima persona dal protagonista, lo stesso Mircea Cartarescu, in un lungo, ininterrotto flusso di coscienza, con notevoli salti temporali, in cui inserisce i personaggi reali dei suoi ricordi ed altri surreali, dei suoi sogni. Tra le pagine compaiono sempre delle farfalle, ora piccole, ora mostruosamente giganti, ora disegnate, ora incastonate in anelli, ora impresse nella pelle come la grande macchia rosa-violacea, un lupus eritematoso che sua mamma aveva sul fianco. La farfalla è un simbolo mistico, perché
“La mia memoria è la metamorfosi della mia vita, l’insetto adulto di cui la mia vita è la larva. E se non mi tuffo nell’abisso di latte che la circonda e la cela nella crisalide della mente, non saprò mai se sono stato o se sono una mantide vorace, un opilione sognante sulle sue zampe interminabili o una farfalla di bellezza sovrannaturale”.
“Il passato è tutto” si diceva all’inizio, citando un passo, ed è lì che bisognava investire le proprie energie, indagare come archeologi, perché “ogni scoperta è un ricordarsi”, uno scoprire se stessi. Attraverso quel continuum realtà-allucinazione-sogno- ricordo è possibile sperare di avvicinarsi ad un’altra dimensione, non meno reale della realtà presente. “Quella che chiamiamo comunemente ‘realtà’ non è che la superficie delle cose. La vita allucinatoria è vera quanto la vita ‘reale’”dice l’autore in una intervista raccolta da Vanni Santoni nella postfazione dell’edizione Voland.
Mille richiami ai grandi classici della letteratura di ogni tempo: Dante, Kafka, Proust. Un edificio di ricordi dai particolari vividi, ma inseriti in contesti allucinati, la stessa Bucarest, le cui viscere ammuffite, le cui gallerie sotterranee dove avvengono fatti surreali, non è quella reale, se non in parte. Bucarest è spesso la protagonista indiscussa delle notte allucinati del piccolo e malaticcio Mircea: seduto sulla cassapanca, coi piedi sul termosifone, dalla tripla finestra panoramica la città appare come in un trittico. Luci al neon che si accendono e si spengono, i fari dei tram e delle auto, talvolta la città con quelle luci colorate si trasforma in un enorme acquario, come la stessa stanza di Mircea.
Altro motivo narrativo e simbolico di questo libro è la costruzione per cerchi concentrici , il mise en abyme come notevole illusione ottica. Nelle sue visioni Mircea immagina il suo cervello inserito in una scatola cranica, che al suo interno ne contiene un’altra, e così via, tante scatole craniche quanti i gradi di conoscenza e consapevolezza raggiunti negli anni. Ed anche i ricordi funzionano come matriosche: la borsetta rossa della mamma, che funzione come archivio di famiglia, innesca tutta una serie di ricordi involontari, odori, sensazioni, luoghi, colori. Ancora:
“Il me di oggi ingloba il me di ieri, che comprende quello di ieri l’altro, e così via a ritroso, sicché non siamo altro che un’immensa sequenza di bambole russe celate l’una nell’altra, ognuna gravida di quella che l’ha preceduta (...). L’io di ogni attimo è legato a quello precedente tramite un vigoroso cavo ombelicale, con due arterie e una vena, trasportando gli ineffabili eritrociti della causalità”.
Un linguaggio sofisticato, immaginifico, ricco di termini scientifici. Un’opera monumentale di grande bellezza, arrivata in Italia con vergognoso ritardo e che merita di essere conosciuta da un pubblico più vasto.
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What is this terror? what is this ecstasy?
Vergognosa ammissione: è il mio primo libro, la mia prima Virginia Woolf. Mi è piaciuto, l’ho trovato un piccolo gioiello della letteratura . Un concentrato di pensieri, di flussi di coscienza quasi ininterrotti, scanditi dagli orologi e...dall’orologio per eccellenza, il Big Ben. Il concentrato di una sola giornata di metà giugno.
Scorrevolissima e piacevole la lettura, soprattutto quando ci si abitua allo stile narrativo. Splendida l’apertura, luminosa, vitale proprio come la protagonista, la signora Clarissa Dalloway, che proprio per festeggiare la vita, ha organizzato un ricevimento a casa sua, cui ha invitato la crème della società londinese.
Eccola: è una creatura vivace ed energica, nonostante abbia superato i cinquant’anni, che si affretta per le strade di Londra a comprare i fiori per la serata. È mattina, la frizzante aria le ricorda quando viveva a Bourton e spalancava le persiane, salutando il nuovo giorno. Dalla prima pagina partono subito i ricordi e i flashback: i corteggiamenti del fidanzato, Peter Walsh che l’accusava di essere rigida e fredda, i loro litigi e la partenza di lui per l’India, dove avrebbe trovato un’esotica amante, mentre Clarissa avrebbe sposato il più pacato, ma soprattutto ricco, Richard Dalloway.
Ci troviamo immersi nel traffico di una Londra del primo Novecento, reale, concreta con le sue strade, tutte rigorosamente nominate (Bond Street, St.James Street, Piccadilly e Trafalgar Square, etc.) e la voce narrante, onnisciente ed esterna alla storia ci fa imbattere nel secondo personaggio del libro, il deuteragonista, il doppio di Clarissa Dalloway, il giovane reduce di guerra, Septimus Warren Smith (e già il nome Warren, ricorda ‘war’, la guerra), che non si è ancora ripreso dallo shock di aver visto morire il suo commilitone. Si alterneranno i flussi di coscienza di Clarissa (io cui nome richiama già la luminosità, la luce) a quelli dell’inaspettato Peter Walsh tornata dall’India, a quelli di tutti gli altri personaggi, anche secondari. Sono i flussi di coscienza a delineare le azioni e la trama.
Interessante il contrasto Clarissa/Septimus, l’una rappresenta la voglia di vivere, la luminosità, l’apertura, l’altro il suicidio/le tenebre/la chiusura verso “la natura umana”, che sotto le spoglie di psichiatri e medici vogliono tormentarlo, secondo lui, e allontanarlo dalla moglie Lucrezia, di origini italiane.
L’una troppo rigida, forse vuota, l’altro troppo folle, avranno una terribile illuminazione, terrore o estasi?di più non dirò.
Il Tempo , la Memoria, i Ricordi involontari sono le tematiche ricorrenti di tutto il breve romanzo, che, non a caso, aveva come titolo originario “Le ore”. I rintocchi del Big Ben, a seguire altri orologi invadono letteralmente il salotto di Clarissa interrompendo il suo flusso di pensieri e talvolta sovrastano le conversazioni . Un tempo molto elastico, ora dilatato, ora sospeso, come nella scena dell’incidente di un reale inglese al centro di Londra, ora veloce. In Clarissa Dalloway la scrittrice infonde i suoi pensieri e le sue meditazioni sulla morte, sull’amore , sulla religione.
“Amore e religione! pensò Clarissa (...) che cose odiose, odiose!(..)Le cose più crudeli del mondo, e le vide, sì l’amore e la religione, due figure goffe, invasate e prepotenti, ipocrite, furtive, gelose, infinitamente crudeli e senza scrupoli (...). Aveva mai cercato di convertire qualcuno, lei? Non voleva al contrario che ognuno restasse se stesso? (...) Anche l’amore distrugge. Tutto ciò che era bello, tutto ciò che era vero, finiva”.
Da una prima lettura, la signora Dalloway può apparire, come appare in effetti a molte persone nella storia, vuota, falsa, poco profonda. Confesso di averla trovata poco simpatica, troppo leggera. Ma nel finale...
Vi consiglio l’edizione Feltrinelli per la cura del testo e l’interessante prefazione di Nadia Fusini che ripercorre la formazione del romanzo atttaverso le pagine del diario della Woolf.
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UN ROMANZO PREPOTENTE
Chiamatelo come più vi aggrada: romanzo-monumentale, romanzo-mondo, colossal editoriale, opera torrenziale, etc. frutto della penna di un autore che è diventato un’icona, come spesso succede ai grandi artisti che si suicidano e lasciano quella dolente nostalgia subito dopo il clamore. Un libro che ha segnato un’epoca, tornato di gran voga qualche anno fa per festeggiarne il ventennio dalla prima uscita. Per me Infinite Jest è, e lo ricorderò tale, ne sono sicura, un romanzo prepotente, ma proprio prepotente sotto ogni aspetto.
Elenco le difficoltà che ho riscontrato, ma non lasciatevi scoraggiare, darò spazio anche ai motivi per cui Infinite Jest merita di essere letto.
Vissuto (è il caso di dirlo, ci ho impiegato mesi) in formato cartaceo.
Prepotente la mole: più di 1200 pagine (note ed errata corrige comprese) quasi proibitiva da portare dietro negli spostamenti. Font delle note lillipuziano, da talpizzare la vista. Prepotente la trama ricca, ricchissima e intricata con tanti personaggi disseminati tra le pagine, che, una volta nominati per nome e cognome, spariscono per poi essere indicati con sigle o anche con soprannomi a distanza di trecento pagine . Struttura prepotente, perché per me non è stato minimamente pensabile interrompere la lettura per più giorni, senza dover rileggere le pagine precedenti pena perdere la bussola della storia. Il libro impone concentrazione, se siete distratti, dovete tornare indietro. All’inizio sentirete la necessità di chiedervi: ma dove vuole portarmi questo libro? E avrete un gran da fare a chiedervelo, la risposta non arriva subito, bisogna superare quasi la metà del libro.
Ah, ma io non rivelo niente.
Non voglio parlare della trama, non riuscirei ad essere sintetica e poi la trovate ovunque. Voglio scrivere pochissimi tratti, limitandomi ad accennare le tematiche più interessanti.
L’amore per il tennis a livello agonistico, la competizione e l’ottimizzazione delle energie, la rigida disciplina degli orari, della dieta e degli allenamenti, la droga e la dipendenza, il disagio giovanile, le violenze domestiche, la solitudine, la società consumistica delle immagini e ... un pizzico di spionaggio.
Si cerca disperatamente la copia di una cartuccia filmica di intrattenimento creata dall’Auteur James O. Incandenza capace di imprigionare chi la guarda in una fissità vegetale: tale cartuccia potrebbe essere usata come arma di distruzione di massa.
Metafora dello strapotere dei media, capaci di farci il lavaggio del cervello e annichilire le nostre coscienze e la nostra volontà, generando dipendenza come le droghe.
Lo stile è un mondo di termini ipertecnici dalla correzione maniacale riferiti alla tecnologia, allo sport, alle droghe, al disagio psico-emozionale. Tantissime occasioni per riflettere e commuovervi, ma anche per ridere per le situazioni grottesche e surreali, per le parole usate nel momento giusto.
David Forster Wallace ha avuto genialità e creatività, amici stretti, quasi gemelli direi, della follia. Incredibile come sia riuscito a inventare tecnologie che sono apparse dopo la pubblicazione del suo libro, o che ancora devono essere immesse sul mercato; pazzesca la struttura di un gioco da campo con palline da tennis malmesse, chiamato Eschaton, che simula addirittura una guerra multinazionale con armi nucleari, con tanto di colori e divise ad hoc delle squadre. Originale la trovata degli anni sponsorizzati, ogni anno un marchio diverso. Geniale la guerra tra gli estremisti sulla sedia a rotelle (Afr) che vogliono separarsi dagli USA diventati la grande Concavità, una discarica di scorie radioattive annesse al Quebec.
Per me le pagine più belle sono quelle dedicate alla riflessione sulla libertà, sulla manipolazione delle coscienze “È sulle teste che stanno lavorando. Giorno dopo giorno, anno dopo anno. Un intero programma. (...) Ci danno sempre qualcosa da odiare, odiare davvero tutti insieme (...)”. Profetiche le parole dedicate alle chiamate, alle videochiamate che, con la possibilità di usare maschere per rendersi esteticamente più gradevoli, anticipano i moderni falsi e/o ritoccati profili dei social network e la paura di mostrarsi nella vita reale senza trucchi.
Spiazzante la profondità e la conoscenza del grande male della depressione, o la Cosa, detta anche anedonia, o melanconia semplice “è una specie di novocaina emotiva, questa forma di depressione, e anche se non è dolorosa la sua vacuità è sconcertante e...ecco, deprimente”. Chi ne è affetto considera l’amore, la gioia di vivere, la felicità dei termini astratti, senza riscontri reali.
Un libro che pretende motivazione, concentrazione, tempo, ma sa ricambiare benissimo. Non do il massimo della valutazione, perché mi ha procurato anche momenti di stanchezza, ho trovato passaggi inutilmente lunghi ed evitabili. Interessante il fare delle note non un’appendice, ma un micro testo integrante, necessario per capire la storia e lo stile dell’autore, ma alcune erano superflue e il font microscopico.
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Rimando alle altre recensioni dei Qamici
TRA ESTRANEITÀ ED APPARTENENZA
Per capire fino in fondo una civiltà diversa dalla nostra, bisogna liberarsi dei soliti cliché. Nessuno può dirlo con più convinzione dell’instancabile scrittore e viaggiatore olandese, Cees Nooteboom coi suoi innumerevoli viaggi in Giappone, che abbracciano circa un quarantennio, segno di un dialogo mai interrotto.
Con alle spalle, anzi meglio, nella valigia, gli inseparabili libri dei suoi amati scrittori giapponesi (Tanizaki, Kenzaburo, ma soprattutto le due grandi scrittrici, la Shonegon e, la Proust giapponese, Murasaki ), lo scrittore cerca di trovare, soprattutto nel primo viaggio fatto negli anni ‘70, le atmosfere magiche del Giappone che si sono formate nelle propria immaginazione.
Si scontra invece con una realtà che nasconde ostinatamente ciò che è sotto la superficie, una superficie scivolosa e impenetrabile allo straniero, al tanin, termine giapponese per indicare non soltanto chi non parla giapponese, ma in senso più ampio,
“qualcuno che non ha alcuna connessione reale con te. ‘Lo straniero’ di Camus è tanin, ‘L’outsider’ di Colin Wilson è tanin. Non avere nessuna relazione con qualcuno implica non essere visti, o almeno non veramente.”
Infatti la prima impressione che l’autore ha avuto nel suo primo viaggio è stato quello di sentirsi “invisibile”, non visto realmente dalle persone che si rivolgono a lui, che con fredda ed estrema gentilezza, gli servono il tè nell’albergo o lo accompagnano nei luoghi di culto in taxi.
Niente è più lontano da noi di questa civiltà! E avverte questo frustrante senso di incomunicabilità reciproca nei viaggi successivi, ogni volta che torna in Giappone, la sua ricerca della scintilla che spiega tutto è sempre più vana.
Nooteboom sostiene che un olandese come lui, anche in Sicilia, in mezzo agli avventori di un bar a Taormina, o volendo addirittura uscire fuori dall’Europa, andando a Persepoli, in Iran, avverte sempre un senso di appartenenza ad una cultura comune, dovuta sicuramente ai grandi padri greci e latini.
Tale senso di appartenenza viene meno quando si va in Giappone, la cui cultura è quanto di più lontano esista dalla via occidentale, nonostante oggi lo assimiliamo ai Paesi capitalisti.
Uno dei luoghi comuni di cui bisogna liberarsi è quello di pensare al Giappone solo come al magico paese dei giardini zen, dei templi coi tetti spioventi
“Non abbiamo a che fare soltanto con il Giappone di bunraku, ukiyo-e, kabuki e ikebana, ma anche con quello di Honda, Toyota e Mitsubishi”.
Quasi inconcepibile la convivenza tra l’estetica assoluta e la barbarie edilizia, tra ritiro intimo in un tempio o un giardino zen e l’essere trascinato dalla massa umana che ti circonda e ti incorpora in sé mentre si è sui mezzi pubblici oppure per strada. E questa realtà ossimorica ha il suo grande fascino, il fascino di una civiltà “nata e cresciuta fuori da ogni influsso occidentale”.
D’altronde, ammette che questa ricerca frustrante dell’essenza del vero Giappone è un po’ colpa sua, sia perché il suo Giappone “è un Giappone di libri”, sia perché
“Io ho il carattere sfortunato di chi vuol sempre guardare oltre la collina e non ha ancora capito che dietro non c’è altro che una nuova collina. Che cosa mi aspetto in realtà (e da così tanto tempo)?”. Il suo Giappone è un Giappone dove non corrispondono più né tempo né spazio. Rimane un fondo di amarezza in questo libro, secondo me, viaggio dopo viaggio l’autore riconosce di trovare un dialogo soltanto nel grande libro della Murasaki Shikibu, vissuta nell’epoca Heian (antico nome di Kyoto, quando Tokyo si chiamava invece Edo), autrice del millenario ‘Genji Monogatari’, opera cardine della letteratura mondiale:
“se una signora nell’anno mille scrive qualcosa che oggi mi colpisce e mi commuove ancora è perché tra la scrittrice, i suoi personaggi e il lettore si genera una tensione psichica tale che il millennio che li divideva a un tratto non esiste più. Sono cose che appartengono ai miracoli. Solo l’arte ne è capace (...).
Non solo la Murasaki, all’opera della quale dedica struggenti pagine, ma anche Shonegon Sei, autrice delle “Note del guanciale”, una sorta di zuihitsu (scritti di circostanza che ogni uomo e ogni donna compilava prima di andare a dormire e riponeva poi sotto il guanciale) è un’autrice di riferimento per conoscere un mondo così lontano dal nostro.
Si termina con l’accettazione di questa differenza come dato di fatto, l’autore, come scrive Giorgio Amitrano (i più lo conoscono perché è il principale traduttore di Murakami Haruki) nella postfazione del libro, Nooteboom oscilla tra sconfitta e riscatto: un riscatto garantito da una letteratura millenaria, dove i personaggi sono caratterizzati così bene da risssumere la condizione umana universale.
“Se mai potessi avere un’altra vita, dovrebbe essere in un paese con una scrittura diversa. Valore aggiunto: la visione estetica di un segno che, tramite il suo disegno, oltre al significato viene a significare qualcos’altro, afferma, evoca, sho, calligrafia. Vorrei fosse possibile, ma non lo è, non avrò quest’altra vita, ho già raggiunto l’età del «troppo tardi». Niente di cui lamentarsi, anche il «mai più» ha i suoi fascini amari”.
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PENSIERI E PAROLE DI UN ANZIANO POETA
È la prima volta che leggo Cees Nooteboom, pietra miliare della letteratura nord europea e me ne sono innamorata dalle prime pagine. I più lo ricorderanno soprattutto per “Tumbas”, ma la mia scelta è stata dettata dalla curiosità suscitatami dalla presentazione e dalla copertina (e Iperborea cura molto anche l’aspetto grafico delle sue edizioni).
Lo scrittore mi incuriosisce non poco e mi sono procurata ben prima di terminare “533 Il libro dei giorni “ altri suoi libri, perché la sua lucida analisi del mondo che lo circonda, degli eventi del passato comune (Nooteboom ha 87 anni!) le sue riflessioni scritte in maniera così cristallina e a volte secca, mi sono veramente piaciute. Ha al suo attivo tantissimi libri, racconti di viaggio, poesie, romanzi.
Per quanto riguarda il libro in questione, ci sono dei cactus sulla copertina: i cactus e le piante sono ricorrenti nell’opera, rappresentano una sorta di mondo interiore che bisogna coltivare, seguendo la frase di Voltaire “il faut cultiver notre jardin”, ma non ne sono l’unico motivo.
Il libro non è un romanzo, non è neppure un diario, è una sorta di raccolta di appunti, pensieri e riflessioni dell’autore:
“Non è mai stata mia intenzione fare di queste annotazioni un diario, volevo spingermi all’interno, non più all’esterno. Lì ci sono stato tanto a lungo e tanto spesso. La sensazione di essere stato espulso dal mio tempo”.
Nooteboom è olandese, ha viaggiato tantissimo da giovane facendo gli autostop e da ben 65 anni passa una parte dell’anno sull’isola di Minorca dove coltiva un giardino di cactus, surfinie, ibischi ed ha una libreria stracolma di libri, compresi classici latini e greci, Dante e Leopardi, Proust, Joyce, Gombrowicz, Bernhard, Wilde, Canetti, Nabokov e tantissimi altri.
“Tutto è come l’ho lasciato a dicembre. Per sei mesi i libri si sono letti da soli, quel che vedo è il mio autoritratto da lettore. Vago dentro e fuori dai miei libri con l’arbitrarietà di chi vuole tutto e non sceglie niente, consapevole che tutto quello che si trova qui ha fatto di me quel che sono, anche i libri che non ho letto.”
Questo libro contiene i suoi pensieri sparsi raccolti in 533 giorni passati soprattutto sull’isola spagnola e in piccola parte nel Nord Europa e riflette il suo bisogno di rifugiarsi nelle sue riflessioni a “rimuginare su se stesso”, imparando dal giardino “inaspettate forme di attenzione”. Arrivato alla sua veneranda età può permettersi di parlare del mondo e della storia che ha vissuto senza peli sulla lingua, può parlare delle opere dei vari scrittori, tra cui alcuni conosciuti di persona (Durrenmatt), facendo inaspettati parallelismi e contrasti. Può esprimere senza riserve ciò che pensa di un’Europa, che ha sempre provato a diventare un’unica realtà ma va “sfrangiandosi ai bordi”.
“La Grecia è di nuovo avvolta nei velami di una menzogna politica; così non può funzionare e lo sanno tutti, l’Europa è spezzata prima ancora di essere mai stata veramente unita, il parlamento tedesco esegue una costosa e triste pantomima per far più bella figura sul libro della storia e quello olandese lo segue danzando ipocritamente. Nella Cina postmaoista la borsa del partito pseudocomunista fa tremare le borse capitaliste di tutto il mondo, mentre la Spagna avanza costantemente e a malincuore verso la propria lacerazione per appianare i conti in sospeso con un centralismo arrogante e corrotto”.
Ma tutto questo il suo giardino non lo sa. Anzi, non gli interessa, ha ben altre preoccupazioni! Il mondo, nonostante il progresso tecnologico, è sempre uguale a se stesso perché “gli occhi vedono ciò che sono abituati a vedere”, gli eventi più importanti spesso passano inosservati e si compiono un sacco di errori. Gli stessi della storia.
Nb. Il libro contiene bellissimi scatti di piante e insetti del suo giardino, fatti da Simone Sassen. La traduzione dal nederlandese è del bravissimo Fulvio Ferrari.
Si gode al massimo se letto lentamente.
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Quella goccia d’acqua che racconta l’universo
Una monografia sentimentale completa. La prima definizione che sgorga dalla fiumana di impressioni che questo magnifico libro mi ha lasciato.
Cercavo un libro che parlasse di mare, un saggio oppure un altro romanzo, ed ho trovato questo tesoro nella mia libreria. A pagina 3 ero già stata conquistata, avvinta da un doppio incantesimo: quello dell’approccio all’argomento e quello liberato dalla penna di Michelet.
E come scrive Michelet, il cui nome campeggia su tutti i libri ed i manuali di storia francese?
Leggerlo per me è stato uno spettacolo di fuochi d’artificio nel cuore e nella mente, niente di più e niente di meno.
Ma, dal momento che la mia opinione è modestissima, vi lascio l’autorevole parere del compianto Tabucchi proprio su questo libro:
“Un libro superbo. Ha una magniloquenza grandiosa, un registro stilistico sintonizzato sulla solennità dell’elemento di cui parla” (dalla copertina).
Chi ama il mare o semplicemente il curioso che vuole leggere un libro che ne parli con tutti i crismi della letteratura, impazzirà veramente di piacere. Michelet organizza il lavoro in quattro parti, suddivise a loro volta in paragrafi non troppo lunghi: dall’importanza del mare come delimitatore di confini terrestri alle varie coste che si affacciano sui mari, senza tralasciare le desolanti distese dei Poli, dal faro quale “altare, tempio, colonna, luce soccorritrice” dei naviganti alla fecondità della vita marina, dalle scoperte di nuovi continenti e rotte marine alle attività umane che ruotano attorno al mare.
Ho amato alla follia la parte dedicata alle creature marine, alla fecondità del mare quale “grande femmina del globo, il cui inesausto desiderio, il concepimento permanente, la procreazione non si esaurisce mai”. Quelle pagine contengono autentica, vera poesia mista alle conoscenze di biologia marina. La mia esaltazione mi porterebbe a condividere con voi così tanti passi!
“Tutte queste bellezze gareggiano fluttuando sullo specchio verde nei loro colori gai e dolci con i mille incanti di un’eleganza infantile e inconsapevole: hanno messo perfino in imbarazzo la scienza che, per trovar loro dei nomi, ha dovuto chiamare in soccorso le regine della storia e le dee della mitologia. Questa è l’ondeggiante Berenice, la cui ricca capigliatura abbandonata alla acque forma un’onda nelle onde. Quella è la piccola Orizia, sposa di Eolo, la quale al soffio dello sposo lascia errare la sua urna bianca e pura, incerta, appena trattenuta dal groviglio delicato dei capelli,sovente allacciati da sotto. Laggiù Dionea, la piangente, pare una coppa colma di alabastro che lascia traboccare, in filamenti cristallini, splendide lacrime”.
Fantasmagorie dei fondali, esplosione di vividi colori che fanno impallidire i più celebri artisti. La bellezza dei coralli e delle perle, la grazia in movimento dei pesci, i tranelli del polipo, la giocosità delle focene...Questo è il mare. Una fecondità che rischia di soffocare nella sua ricchezza, diceva Michelet, ancora lontano dalla piaga dell’inquinamento!
Il libro è stato scritto nel 1861 e l’autore, difendendo quello che oggi noi consideriamo il padre della moderna oceanografia, Matthew Fontaine Maury, offre una visione sbalorditiva del mare come un essere umano con tanto di polso (correnti calde e fredde) e un cuore (l’equatore)dove avviene lo scambio delle correnti. Con grande intuito sostiene :
“Prendiamo una goccia d’acqua di mare. Vedremo riprodursi la creazione originaria (...). La goccia d’acqua, non ho alcun dubbio, con le sue trasformazioni mi racconterà l’universo. Attendiamo e osserviamo”.
Dal mare non abbiamo che trarre infinite lezioni: “non dobbiamo credere all’apparenza, ma alla verità” . Pensiamo a quelle delicatissime creature , quasi fiabesche, le meduse e le fisalie, la loro impalpabilità e leggerezza le fa apparire innocue, ma non lo sono. E le balene? Grosse quanto una montagna sono in realtà delle madri affettuosissime, partners fedeli e protettivi, dei “giganti buoni” che, mai a pensarlo, inconsapevolmente hanno i guidato i navigatori, loro cacciatori, verso nuove e sconosciute rotte!
È un libro che parla d’amore e di desiderio, perché esistere richiede enorme dispendio di energie: alcune specie marine rischiano la loro stessa vita pur di tramandare la propria specie, attraverso lunghi viaggi e grandi pericoli, e allora Michelet sostiene con convinzione che:
“L’amore è lo sforzo della vita per andare al di là di se stesso e per potere più della propria potenza”.
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