Opinione scritta da kafka62

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    27 Novembre, 2020
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UN ADORABILE PERDENTE

“Perché non lasciare alla gente i suoi dispiaceri personali? Il dolore, mi domando, non è la sola cosa al mondo che la gente possegga davvero?”

Chi è Timofej Pnin, l’eponimo eroe (o forse sarebbe meglio dire antieroe) del romanzo di Vladimir Nabokov? Lo scrittore di San Pietroburgo utilizza nel corso della narrazione, per descrivere il personaggio e le sue azioni, termini come “pniniano” o “pninizzare”, e l’adozione di questi bizzarri neologismi ci fa già comprendere quanto egli sia singolare e originale, unico e imparagonabile. Chi è, dunque, Timofej Pnin? Apparentemente è un ometto buffo, insignificante, impacciato e distratto, sempre in lotta con l’ambiente circostante (“la sua vita era una guerra senza quartiere contro oggetti insensati che cadevano in pezzi o gli si rivoltavano contro o si rifiutavano di funzionare, oppure scomparivano per pura malignità nel momento stesso in cui entravano nella sua sfera di esistenza”), un ambiente in cui cerca in tutti i modi, da immigrato qual è, di adattarsi e di integrarsi, ma che gli rimane sempre un po’ estraneo e ostile (è emblematico il modo in cui, dopo tanti anni di permanenza in America, continua a storpiare la lingua inglese). E’ un uomo che viene spontaneo prendere in giro per la sua goffa solerzia, la sua antiquata seriosità, la sua mancanza di umorismo, e un suo collega si specializza addirittura nel farne la caricatura per divertire gli amici durante le serate mondane. All’inizio del libro Pnin ci viene presentato mentre si reca a una importante conferenza ma prende a sua insaputa un treno sbagliato, e, giunto dopo svariate peripezie a destinazione, si accorge di aver portato con sé non già il manoscritto del suo intervento ma il testo di un diverso simposio; più avanti lo vediamo mentre cade rovinosamente dalle scale o guida con comica imbranataggine l’automobile appena acquistata o distrugge le sue scarpe con la suola di gomma mettendole in lavatrice. Non è un caso che, quando vi furono delle trattative per una riduzione cinematografica del romanzo (poi non concretizzatasi), i nomi degli attori a cui si pensò per impersonare Pnin furono Peter Sellers e Jacques Tati. Sarebbe oltremodo riduttivo però trattare il personaggio di Pnin alla stregua di una macchietta, di un soggetto da barzelletta. Egli è infatti molto più complesso di quello che appare: se per Nabokov gli esseri umani si suddividono in solidi geometrici e numeri irrazionali, Pnin appartiene senza alcun dubbio ai secondi, tanto è difficile inquadrarlo in una categoria predefinita. Pnin è, come abbiamo appena visto, maldestro e impacciato, e oltretutto è un misantropo dai rigidissimi principi, esigente e sospettoso, ma allo stesso tempo è un uomo che possiede una grande e appassionata cultura (sa decifrare senza fatica il complesso andamento cronologico di “Guerra e pace” o trattare tematiche come la similitudine ridondante in Omero e in Gogol), è benevolo, generoso, sensibile e romantico. E’ innamorato dell’arida e opportunista Liza, che lo tradisce ripetutamente e senza scrupoli di sorta, addirittura sfruttando cinicamente la sua buona fede per permettere a lei e al suo nuovo marito di espatriare in America, ma ogni volta è sempre pronto a riprenderla con sé, perdonandole ogni disonestà e addirittura dichiarandosi pronto ad adottare il figlio della donna. C’è in lui una fondamentale bontà d’animo, che non deve essere confusa con la dabbenaggine: Pnin ha infatti una grande dignità, che non lo fa mai scendere a compromessi e lo porta perfino a rifiutare la pietosa proposta dell’amico narratore, che lo salverebbe dal rovinoso licenziamento ma che lui giudica degradante. Pnin è sì un fallito, ma non indulge mai nell’autocommiserazione ed è sempre pronto a ripartire da zero, cade a ripetizione ma sa ogni volta rialzarsi, è un esile giunco che si piega ma non si spezza. Nabokov guarda con grande simpatia e indulgenza a questo personaggio, e nel suo ritratto non si sa se prevalga il gusto divertito di fare una satira sul mondo accademico statunitense e sugli émigrés russi fuggiti dal bolscevismo, oppure un inconscio e non ben dissimulato desiderio di immedesimazione.
Uno dei più considerevoli aspetti della personalità di Pnin è il suo peculiare rapporto con la propria infanzia e con la madrepatria perduta. Il presente di Pnin è infatti permeabile, poroso, e il passato vi penetra come una doppia, fantasmatica realtà. Il protagonista è spesso colto da improvvise, sinestatiche visioni: mentre si sta accingendo a tenere una conferenza, egli scorge tra il pubblico, come se fossero presenti in carne ed ossa, i genitori, una vecchia zia e alcuni ex compagni di scuola, tutti morti ormai da più di trent’anni; e un malore, che lo costringe ad accasciarsi sulla panchina di un giardino pubblico, lo fa ritornare con la mente, in una vera e propria riproposizione del passato che è ben più di un semplice ricordo, a un delirante attacco febbrile subito durante l’infanzia pietroburghese. In questi momenti di vivida e angosciosa illuminazione Pnin sperimenta la “spaventosa sensazione di affondare e fondersi nel proprio ambiente fisico”, fino a riemergere in un altro tempo, in una dimensione parallela, in cui è normale che i genitori siano quietamente assisi a pochi passi da lui mentre leggono una rivista, o un amore giovanile, morto in un campo di sterminio durante la guerra, riemerga dolorosamente dal passato. I defunti, come in romanzo di Rulfo o di Garcia Marquez, rivendicano una loro incontestabile, straziante realtà, e l’ateo Pnin, che non crede in un Dio autocratico, è portato invece a credere, confusamente, in una “democrazia di fantasmi” (“Le anime dei morti, forse, costituivano dei comitati, e questi, in seduta perpetua, presiedevano ai destini dei vivi”). L’intensa nostalgia per il passato russo avvicina curiosamente Pnin al Fyodor de “Il dono”, scritto da Nabokov venti anni prima, alla vigilia del suo trasferimento in America. Entrambi i personaggi non a caso cullano il proposito di scrivere un libro sulla cultura russa (là una biografia di Cernysevskij, qui una “petite histoire” su curiosità, aneddoti, usi e costumi della madrepatria), entrambi frequentano, un po’ controvoglia, il gruppo chiuso dei loro connazionali (gente tragicomica alla ricerca di un’integrazione nel nuovo mondo che sempre sfugge loro di mano, incompresi da una società che è all’oscuro e tutto sommato nemmeno vuole sapere nulla delle vicende della rivoluzione da cui sono fuggiti) ed entrambi, soprattutto, sono preda di fulgide visioni ed epifanie che li estraniano dalla realtà per tuffarli inopinatamente nel lontano passato, un paradiso perduto da sognare ad occhi aperti.
“Pnin” è indubbiamente un’opera minore nella produzione nabokoviana, racchiusa com’è tra lo scandaloso successo planetario di “Lolita” e i fuochi d’artificio linguistici di “Fuoco pallido” e “Ada o ardore”. Lo stile di Nabokov, che oscilla tra un minuzioso realismo (il modo analitico in cui l’autore descrive le varie stanze prese in affitto da Pnin, il ritratto fisiognomicamente preciso dei personaggi), una capacità evocativa quasi proustiana e un virtuosismo da formidabile calembourista, ha qui una levità, una sospensione, una assenza di gravità, assai maggiori di quelle a cui lo scrittore russo-americano ci ha abituati nei suoi capolavori. Questa leggerezza, che Italo Calvino considerava uno dei valori irrinunciabili non solo della letteratura, ma della vita stessa, non è qui un limite, un sinonimo di inconsistenza e di superficialità, ma un incontestabile valore aggiunto. Lo stesso Nabokov, nel suo saggio dedicato a Gogol, aveva del resto argutamente sostenuto che “la differenza fra il lato comico e il lato cosmico delle cose dipende da una sibilante”. Certo, al di là della sua alternanza tra il ridicolo e il sublime, il romanzo soffre un po’ di un andamento spezzettato, aneddotico, non pienamente concluso, ma in esso vi sono passi incredibili, assolutamente inattesi, come quello in cui il narratore si domanda dove può essere finito – perché da qualche parte sicuramente esiste ancora – il granello di polvere che quarant’anni prima era entrato nel suo occhio di bambino. Se “Pnin” è un romanzo leggero, abbiamo però anche visto che esso ha momenti di trasognata tristezza, di incantata malinconia, che lasciano nel lettore un retrogusto un po’ amarognolo. Del resto, Nabokov stesso afferma di odiare il lieto fine: “Il fallimento è la norma. Un destino funesto non dovrebbe incepparsi”. Coerente con questo assunto, l’autore sceglie un finale aperto, sospeso, lasciando Pnin al suo destino, solo e indifeso, alla caparbia e non rassegnata ricerca di un suo posto nell’America egoista e indifferente, loser commovente e coraggioso per cui ogni lettore di buona volontà non può non parteggiare con tutto il cuore.

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"Il dono" di Vladimir Nabokov
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Novembre, 2020
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PLAY IT ONCE, MICKEY

“Sì, sì, sì, provava una incontrollabile tenerezza nei confronti della propria merdosissima vita. E una ridicola brama di averne ancora. Ancora sconfitte! Ancora delusioni! Ancora inganni! Ancora solitudine! Ancora artrite! […] Ancora disastrosi impegolamenti in qualsiasi cosa. Per la pura sensazione di sentirsi tumultuosamente vivi, non c'è niente di meglio che il lato canagliesco dell'esistenza. Non sarò mai stato un idolo delle platee, ma dite di me quel che volete, la mia è stata una vita veramente umana!”

Questa è la storia di Mickey Sabbath, “puttaniere, seduttore, sodomizzatore e sfruttatore di donne, distruttore della morale, corruttore della gioventù”, secondo il sardonico ritratto che, in una sorta di necrologio anticipato, il protagonista fa di se stesso. Sabbath è un personaggio che fin dall’inizio appare agli occhi del lettore nella sua veste più sgradevole, un essere ributtante, libertino, scandaloso, immorale (“se non ti interessano le più vistose depravazioni del genere umano, allora cosa diavolo ci fai a questo mondo?”), che si dedica “ad accumulare l’antipatia di chiunque come se si trattasse di una battaglia per difendere i propri diritti”. Una sorta di Cyrano di Bergerac in negativo, quindi, con la stessa ossessione di spiacere dell’eroe di Rostand (“non aveva mai perso quel semplice gusto… di mettere a disagio le persone, soprattutto quelle che erano a loro agio”), ma senza la sua nobiltà e grandezza d’animo; ma anche una versione deformata e grottesca di Don Giovanni, completamente assorbito com’è nella ricerca compulsiva di ogni occasione possibile di godimento sensuale, con qualsiasi donna gli capiti a tiro. Insofferente di lacci e laccioli imposti dal buon gusto borghese e dalle convenzioni sociali, Sabbath è una bomba ad orologeria impazzita, pronta a far esplodere ad ogni istante le fragili impalcature della morale corrente. All’amante Drenka, che lo implora di esserle fedele, Sabbath risponde sostenendo che la fedeltà non è altro che “puritanesimo repressivo […] che cerca di imporre agli altri le proprie norme reprimendo moralisticamente il lato satanico del sesso” e che “non esiste punizione troppo dura per il pazzo criminale che se ne è uscito fuori con l’idea della fedeltà”. Eppure, quest’uomo osceno e provocatore, ossessionato dal sesso (oggi si direbbe “sex addicted”), viene ritratto da Philip Roth come un personaggio umanissimo, titanico, esuberante, incommensurabile, al tempo stesso tragico e buffonesco, istrionico e patetico, come un novello Falstaff.
Nell’epopea di Sabbath si incarna alla perfezione l’eterno dualismo eros-thanatos. Fin dalla citazione shakespeariana posta in esergo (“Un pensiero su tre lo rivolgo alla mia tomba”), la morte incombe come una presenza ineludibile sul romanzo. Ben presto, attraverso i continui andirivieni temporali sollecitati dalla vibratile memoria di Sabbath (“non c’era più niente che fosse soltanto quel che era: ogni cosa gliene rammentava un’altra, passata e perduta o sul punto di perdersi”)., veniamo a conoscenza del terribile trauma da lui subito in giovanissima età, la morte in guerra dell’adorato fratello maggiore, avvenimento che ha causato la rovina della sua famiglia, incapace di reggere a un simile colpo della sorte. Della propria infanzia il protagonista conserva un nostalgico ricordo di purezza, di innocenza, di infinità, fatalmente infrantesi contro gli scogli della cruda realtà. La vita del Sabbath attuale nasce da questo tradimento originario (“non c’è mai niente che mantenga quel che promette”), nasce in quel fatidico 1° dicembre 1944 che, per un lapsus freudiano, l’uomo pone, nel suo finto necrologio, come sua data di nascita, posticipando quella reale di quindici anni. La sua nuova esistenza scaturisce dalle esperienze fatte a diciassette anni, dopo essersi imbarcato su una nave mercantile diretta in Sudamerica per sfuggire all’opprimente e funerea atmosfera che si respirava in una famiglia perennemente in lutto. Da lì in avanti si snoda un frenetico amarcord erotico, dapprima attraverso i bordelli dell’Avana e di Bahia, dove avviene la sua iniziazione sessuale, e poi in alberghi ad ore, talami coniugali, giacigli improvvisati e dovunque lo spinga la sua incontenibile, libidinosa voluttà, come un Casanova del nostro secolo costretto a replicare all’infinito le sue arti seduttorie. La memoria di Sabbath, giunto ormai alle soglie della vecchiaia, va incessantemente alla ricerca delle cause che lo hanno portato a essere un uomo alla deriva, senza più casa, né moglie, né lavoro, né amante, con la prospettiva del suicidio come unica, paradossale, ragione di vita. La stessa madre, tanto amata in gioventù e il cui fantasma si materializza nei momenti più impensati, durante gli amplessi con Drenka o mentre è al volante della sua auto, lo incita senza giri di parole a darsi la morte. Quella del suicidio diventa per Sabbath una vera e propria idea fissa, che le tragiche morti autoinflitte del padre di Roseanna e del suo vecchio amico Lincoln e la pila di libri sul trapasso che egli accumula sul comodino rafforzano inesorabilmente, e che prende letteralmente vita alla stregua di una presenza spettrale che lo perseguita senza tregua (“Il desiderio-di-non-essere-più-vivo accompagnò Sabbath giù per la scala del metro e, quando comprò il biglietto, gli si incollò alla schiena seguendolo attraverso il cancello automatico; e quando salì sul treno gli si sedette in grembo, rivolto verso di lui, e cominciò a contare sulle dita contorte di Sabbath i vari modi in cui lo si poteva soddisfare. Il primo maialino si taglia le vene, il secondo maialino usa un sacchetto di plastica, il terzo maialino prende dei sonniferi, e il quarto maialino, nato vicino al mare, corre fra le onde e lì si annega”). In questa tristissima elegia della terza età Sabbath si sente arrivato alla fine della corsa, e tutte le sue scelte sembrano autodistruttivi tentativi di addivenire al redde rationem con se stesso (“Tutto fugge, a cominciare dalla tua identità, e a un certo momento, un momento imprecisabile, arrivi quasi a capire che quel tuo antagonista spietato sei sempre tu”) senza più avere alternative di sorta. In lui, in fondo, c’è una sorta di vanità del fallimento, uno spericolato orgoglio di camminare sul filo, con il vuoto sotto i piedi, senza alcuna rete di protezione. Rinunciando ai normali tentativi che tutti gli uomini mettono in atto ogni giorno per sopportare, riparare e appianare, Sabbath butta all’aria la sua vita, si fa cacciare di casa prima dalla moglie Roseanna e poi dall’amico Norman che lo ha accolto sotto il suo tetto, come se volesse tagliare tutti i ponti alle sue spalle e non poter permettersi alcun ripensamento. Eppure, miracolosamente, la vita riesce a riservare a Sabbath, nonostante tutti i suoi insuccessi e le sue disfatte, un irresistibile potere seduttivo. Il Sabbath che, trovatosi a dormire nella stanza della figlia adolescente di Norman, rovista i cassetti della ragazza in cerca dei morbosi piaceri che la biancheria intima femminile è in grado di procurargli, mi hanno ricordato il Boudu del film di Jean Renoir, il senzatetto parigino che, dopo essere stato salvato dal suo tentativo di annegamento da un ricco borghese, si insedia in casa del suo benefattore e, senza riguardo per l’uomo a cui deve la vita, ne seduce la cameriera e la consorte. Per Sabbath il fascino dell’universo femminile è parimenti irresistibile. Consapevole di essere giunto al suo ultimo giro di giostra, egli brama con concupiscenza ancora una amante, ancora un’ultima esperienza sessuale, non importa se sia una studentessa che potrebbe essere sua figlia, una domestica messicana grassa e ignorante oppure la moglie dell’unico amico rimastogli.
Sabbath è un burattinaio, o almeno lo è stato fino a che l’artrite deformante alle mani lo ha costretto ad abbandonare la sua attività. Egli è comunque rimasto un burattinaio nell’animo, un “maestro di inganni, di artifici e di irrealtà”. L’intera sua vita in fondo è stata una recita, non si sa mai se egli sia una cosa o il suo opposto, se pensi una cosa o la simuli solamente, se il suo desiderio di morte sia autentico o solo l’ennesima finzione. In Sabbath sembrano risuonare i famosi versi del “Macbeth” shakespeariano: “La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si agita su un palcoscenico […], un racconto narrato da un idiota, pieno di rumori e strepiti che non significano nulla”. Quando, raccontando a Norman la sua vita, Sabbath scoppia a piangere, non sa neppure lui se le sue lacrime siano una simulazione oppure la reale misura della propria infelicità, se siano il frutto di una astuta recita volta a commuovere l’amico e carpirgli il permesso di dormire a casa sua per qualche notte oppure lo sfogo sincero di un uomo che, avendo toccato il fondo, non ce la fa più. Quella dell’attore è una seconda pelle, una doppia natura: quando di notte, tra le tombe del cimitero di Madamaska Falls, viene arrestato dalla polizia, Sabbath scambia la torcia che gli viene puntata negli occhi per le luci di un palcoscenico e crede di essere tornato il guitto di una volta, “un pagliaccio per l’esercito dei morti” trovatosi a recitare “un vaudeville per fantasmi”. Il teatro è onnipresente, non soltanto nel titolo del romanzo. “Il Teatro degli Indecenti” è lo spettacolo di strada che il giovane Sabbath allestisce per le vie di New York, e a teatro conosce la prima moglie Nikki, una ragazza fragile che riesce a vivere la realtà solo nella finzione scenica, mentre fuori della recita si perde nell’irrealtà. “Il giardino dei ciliegi” di Cechov, che Sabbath aveva allestito in gioventù con la moglie, è poi una perfetta metafora dell’intensa nostalgia per il passato e della disintegrazione del presente che pervadono l’esistenza del protagonista. E, ancora, il “Re Lear” è l’opera in cui il deragliato burattinaio si identifica di più, fino al punto di immaginare che la ragazza seduta vicino a lui in un vagone della metropolitana, e che lo aiuta a ricordare i versi della tragedia shakespeariana, possa essere la figlia di Nikki (e quindi in qualche modo anche la sua), la figlia della moglie scomparsa tanti anni prima senza lasciare tracce (sparizione di cui Sabbath si sente oscuramente responsabile, al punto da confessare a più di un interlocutore di averla uccisa con le proprie mani). Sabbath nell’intimo resta sempre un artista, e quindi un manipolatore di coscienze. Della stessa adorata Drenka, indimenticabile compagna di trasgressioni, Roth dice che “dentro quella donna c’era qualcuno che pensava come un uomo, e l’uomo in questione era Sabbath”. Eppure il burattinaio scopre a sua volta di essere un burattino. Quando seduce una studentessa di vent’anni, inconsapevole che la cosa verrà scoperta e lui licenziato in tronco dall’università dove lavora e additato al pubblico ludibrio, egli è un carnefice in procinto di diventare una ridicola vittima delle sue trame perverse. “Anche mentre iniziava ad avvolgere il mulinello, dolcemente, senza fretta, prendendosi tutto il tempo del mondo per tirarla a riva, tutta grande, lentigginosa e saltellante di vita, dentro di sé Sabbath era così eccitato che non si accorse neanche lontanamente di essere lui a farsi guidare attraverso chilometri di lussuria grazie all'amo con cui lei lo aveva catturato; non aveva idea, lui che da un mese appena aveva compiuto sessant'anni, che era lui a essere abilmente catturato e tirato a riva e che un giorno ormai molto prossimo si sarebbe trovato svuotato dei visceri, imbalsamato e appeso come un trofeo sulla parete dietro la scrivania della preside”. Giunto al crepuscolo dei suoi giorni, Sabbath si rende amaramente conto di non essere affatto, come pensava, l’artefice del proprio destino (“Tu sei il burattino. Tu sei il grottesco buffone. Tu sei il Pulcinella, il burattino che gioca con i tabù!”).
Sabbath è un personaggio rabelaisiano, rodomontesco. Trascinato dal suo sfrenato vitalismo, egli si getta spericolatamente contro tutto ciò che è opportuno, decente, conveniente e vantaggioso. Le sue filippiche contro tutto e contro tutti (i paladini della morale e i giapponesi, il matrimonio e la religione ebraica, i rehab e gli Alcolisti Anonimi) sono delle trasgressive e iconoclaste esibizioni di uno spirito talmente libero da essere perfino libero dal desiderio di piacere. L’uomo che tocca l’apice della blasfemia arrivando a sostenere che “Dio incarna tutti gli orrori del mondo” è in realtà un personaggio che ispira una profonda compassione. Sabbath, che è assediato costantemente dalla morte ma ha sempre respinto ogni tipo di autocommiserazione, si domanda a un certo punto: “C’è qualcosa di religioso in me?”. In questo “panegirico vivente dell’oscenità”, in questo santo invertito che si dedica “a fottere nello stesso modo in cui un monaco si dedica a Dio”, forse cercando nel sesso un surrogato di eternità, c’è in effetti un inaspettato senso del sacro. Le scene in cui onora la memoria di Drenka masturbandosi sulla sua tomba sono rivoltanti e oltraggiose, ma sono anche a loro modo strazianti espressioni di un sentimento puro e primitivamente innocente, che mai ci si aspetterebbe in un uomo cinico e ostinatamente ribelle contro tutte le regole borghesi: l’amore. L’amante dissoluta con cui ha condiviso anni di sfrenata lussuria tradendo ripetutamente la moglie, la sua “gemella genitale”, è l’essere umano con cui Sabbath ha creato un’autentica complicità e comunione di anime. La loro spregiudicata relazione, il loro “contromatrimonio”, è qualcosa di saldo e indistruttibile, che in qualche strano, illogico modo sfiora la trascendenza e la spiritualità, e la morte prematura della donna, dovuta a un male incurabile, è un lutto tale da lasciare Sabbath come un guscio vuoto e inutile abbandonato sulla spiaggia da una mareggiata. Varcata la soglia della senilità, “colpito dal miracolo di essere sopravvissuto per tutti quegli anni in mano a una persona come se stesso”, a Sabbath non è rimasto altro se non una bandiera americana e una kippah (simboli forse dell’inevitabile permanenza dei retaggi della società e della religione anche nell’essere più anticonformista), una scatola con i ricordi del fratello morto da conservare e una fredda tomba da onorare con lacrime e sperma. Dall’infinità dell’infanzia al nulla del presente si snoda questa lacerante parabola di vita che, nelle sapienti mani di Roth, diventa l’emblema stesso di una umanità sballottata dal caso, in cui l’erotismo (come l’alcolismo per Roseanna o il miraggio di una vita agiata e senza più sorprese per Norman) è un modo come un altro per allontanare la disperazione ed il senso tragico della provvisorietà dell’esistenza.
Nella produzione di Philip Roth si sono sempre alternate due componenti, una apollinea (forse quella più conosciuta, da “Pastorale americana” a “La macchia umana”) e un’altra dionisiaca (“Lamento di Portnoy”, ad esempio). “Il teatro di Sabbath fa parte indubbiamente di quest’ultima. L’incontestabile grandezza dispiegata dall’autore in quest’opera è stata quella di aver saputo creare con un materiale prosaico e volgare, a tratti addirittura al limite della pornografia, un autentico capolavoro. Lo stile di Roth è qui incredibilmente sfaccettato e barocco. Incurante delle regole della simmetria narrativa, lo scrittore americano non si preoccupa di abbandonare la storia principale, fino ad arrivare a farci quasi dimenticare le peripezie attuali del protagonista, pur di abbandonarsi, per lunghe e densissime pagine, alla seduzione sottile delle sirene del passato. Sabbath si crogiola continuamente in sensazioni, immagini mentali e odori che gli richiamano il paradiso perduto dell’infanzia e della gioventù. Per esempio, egli si reca spesso da Flo’n Bert’s, un locale fatiscente, sudicio e sporco, per il solo motivo che il suo odore di marciume gli ricorda quello di una vecchia drogheria dove da bambino andava a comprare il pane per la mamma. Oppure, quando si corica sul letto della figlia di Norman, egli cerca di assorbire, attraverso l’impercettibile impronta lasciata dal corpo della ragazza sul materasso, quel senso impalpabile di giovinezza che lo possa riportare ai suoi mitici diciassette anni delle sue prime, spensierate, esperienze erotiche. In questo senso, “Il teatro di Sabbath” può essere addirittura visto come una versione triviale e oscena della “Recherche” di Proust. Con il suo gusto del pastiche e con il suo spirito ribaldamente postmoderno, Roth dimostra di non temere affatto il confronto con i mostri sacri della letteratura, siano essi Nabokov o Gaddis. In un passo del libro c’è perfino un monologo interiore di chiara impronta joyciana (e che la citazione non sia casuale lo si intuisce da un irresistibile neologismo, il verbo “mollybloomare”). Ne “Il teatro di Sabbath” del resto le citazioni, non solo letterarie, abbondano, dal dipinto “Origine della Via Lattea” del Tintoretto alle tragedie di Shakespeare, da “Santuario” di William Faulkner ad “Anna Karenina” e “Madame Bovary”. Nel romanzo aleggia anche un sapido umorismo di chiara derivazione ebraica. Certe battute sembrano uscite pari pari dai film di Groucho Marx e di Woody Allen: “Ciò che conta davvero nella vita è l'odio profondo. […] Una volta, seguendo il consiglio di mia moglie, ho provato a farne a meno per un'intera settimana. A momenti ci restavo”; oppure “Si sentiva […] come Emma Bovary quando andava a cavallo con Rodolphe. Nei grandi capolavori, quando commettono un adulterio poi si ammazzano sempre. Lui desiderava di ammazzarsi quando non ci riusciva”. L’abilità di Roth è quella di trapassare in continuazione, senza sforzo apparente, dai momenti di divertita e disinvolta leggerezza (il passo sulle erezioni mattutine e l’inno al clitoride – “se qualcosa poteva servire a Sabbath per dimostrare l'esistenza di Dio […] erano le migliaia e migliaia di orgasmi danzanti sulla capocchia di quello spillo” – sono davvero irresistibili) a quelli di struggente malinconia, dalla commedia alla tragedia, spesso addirittura nella stessa frase (quando, ad esempio, crede di essere morto ma anziché vagare per i Campi Elisi si ritrova in un altrove che è il vialetto di casa sua, Sabbath si domanda comicamente di chi mai possa essere l’automobile posteggiata accanto a quella di sua moglie). L’immensa statura artistica di Roth, quella che rende “Il teatro di Sabbath” l’opera forse più memorabile della sua produzione, è comunque rivelata, più di qualsiasi altra cosa, dall’aver saputo creare un personaggio incredibile, strabiliante, dalle mille sfumature, strabordante di originali riflessioni sull’esistenza e pregno di feconda ambiguità, in cui non avrei mai pensato di potermi identificare, ma che alla fine è riuscito a strapparmi lacrime di autentica commozione. Per un personaggio così smisurato ben si adatta, credo, la “Smisurata preghiera” di “Anime salve”, e mi piace terminare questa recensione affidandola agli indimenticabili versi di Fabrizio De André e di Ivano Fossati: “Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria / Col suo marchio speciale di speciale disperazione / E tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi / Per consegnare alla morte una goccia di splendore / Di umanità, di verità / […] / Ricorda Signore questi servi disobbedienti / Alle leggi del branco / Non dimenticare il loro volto / Che dopo tanto sbandare / è appena giusto che la fortuna li aiuti / Come una svista / Come un'anomalia / Come una distrazione / Come un dovere”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    31 Ottobre, 2020
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L'ALTRA VITA

“Possiamo vivere nell’errore continuo, credere di avere una vita comprensibile, stabile e afferrabile, e poi scoprire che tutto è insicuro, melmoso, sfuggente, che non abbiamo un terreno solido su cui poggiare; o che tutto è una rappresentazione, come se fossimo a teatro convinti di vivere la realtà e non ci fossimo resi conto che si sono spente le luci e si è alzato il sipario e che per di piú siamo sul palcoscenico e non… sotto, tra gli spettatori.”

Nel quarto atto dell”Enrico V” di William Shakespeare, il re inglese si aggira in incognito, nella notte che precede la battaglia di Azincourt, all’interno del proprio accampamento, al fine di sondare l’umore delle truppe. Approfittando dell’anonimato, ha modo di parlare con alcuni soldati i quali, non sapendo di essere ascoltati proprio dal sovrano in persona, lo maledicono per aver deciso di mandarli a morire contro un esercito, quello francese, superiore per numero e per freschezza. Questa scena, che non è esattamente tra le più famose e memorabili del Bardo, viene utilizzata nel corso di un dialogo tra Berta e Tomas, i due coniugi protagonisti del romanzo di Marias, per affrontare il tema della liceità etica del comportamento di colui che agisce sotto mentite spoglie per carpire subdolamente la fiducia altrui, dell’infiltrato che occulta la propria vera identità per esibirne una fittizia e simulata allo scopo di ricavare un tornaconto personale, insomma della spia, quale Tomas effettivamente è, al punto di trincerarsi per anni dietro la consegna del silenzio e tenere segreta alla moglie la propria vita fuori delle mura di casa. Ho scelto questo esempio per asseverare il fatto che Javier Marias fa nei suoi libri un utilizzo delle citazioni letterarie non solo insolitamente abbondante e copioso, ma addirittura, se così posso esprimermi, quintessenziale rispetto alla propria poetica. Le citazioni di Marias non sono un mero sfoggio di cultura, e neppure (se non in alcuni casi, come quando scopriamo che il libro letto da Janet dopo aver fatto l’amore con Tomas è – guarda caso - “L’agente segreto” di Conrad) strizzatine d’occhio a beneficio dei lettori più avveduti, ma un modo per alludere sottilmente alla vicenda narrata e irradiare così, in una continua alternanza tra finzione e realtà, echi e rimandi di inusitata suggestione. Come ben sa chi ha già letto altre opere dello scrittore spagnolo (si pensi a “Domani nella battaglia pensa a me”, che fin dal titolo rinvia al “Riccardo III” di Shakespeare), Marias ama puntellare le sue storie con il richiamo di precedenti letterari illustri, i quali, lungi dal far apparire la sua opera poco originale, le permettono di riverberare i temi trattati con sfumature sempre più nuove e sorprendenti. In “Berta Isla” questo metodo è utilizzato alla massima potenza, e tra le citazioni palesi (lo Shakespeare a cui ho già accennato, “Il ritorno di Martin Guerre”, il Balzac de “Il colonnello Chabert), quelle espresse solo a metà (il racconto “Wakefield” di Nathaniel Hawthorne) e quelle implicite (il parallelo non detto ma evidente con l’”Odissea”, con Tomas nel ruolo di Ulisse e Berta in quello di Penelope) spiccano, come autentico filo conduttore del libro, i “Quattro quartetti” di T.S. Eliot. Questi poemetti, i cui versi letti distrattamente per la prima volta da Tomas in una libreria di Londra mentre attende l’ora del fatidico appuntamento che determinerà il suo destino, e poi riemergenti in maniera quasi inconscia, come fossero degli arcani vaticini, in tutti i momenti topici della vita di Tomas e Berta, suggellano alla perfezione (soprattutto il quinto movimento dell’ultimo quartetto, “Little Gidding”) il senso del romanzo, costituendo per il lettore una sorta di atlante per riuscire a decifrarlo appieno. Innanzitutto, ci si trova di fronte a una vera e propria dichiarazione di poetica. “Quando ogni parola è al suo posto,/ e fa la sua parte per sostenere le altre,/ … / la parola comune esatta senza essere volgare,/ la parola formale precisa ma non pedante,/ in armonia perfetta, come compagni di danza”: sembra proprio che lo stile di Marias, elegante e raffinato ma mai appariscente ed affettato, minuzioso e profondo ma al tempo stesso estremamente accessibile, si ispiri e si adegui a queste indicazioni. In secondo luogo, la circolarità della vicenda è presagita dai versi: “Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine/ e finire è cominciare./ La fine è là donde partiamo”, e ancora: “Non cesseremo di esplorare/ e alla fine dell’esplorazione/ saremo al punto di partenza/ sapremo il luogo per la prima volta”. La permanenza del passato nel presente è invece adombrata nella strofa “Noi moriamo con quelli che muoiono:/ ecco, essi partono, e noi andiamo con loro./ Noi nasciamo con i morti:/ ecco, essi tornano, e ci portano con loro”. Si perviene infine alla atemporalità di “La storia è una trama di momenti senza tempo” e “Su, presto, qui, ora, sempre…”, e a quello che a Tomas, all’inizio del libro, appare come una sorta di predizione, di responso oracolare di ciò che sarà da quel momento in poi la sua vita: “Ed ogni azione/ è un passo verso il patibolo, il fuoco, la gola del mare/ o verso una pietra illeggibile”.
Berta e Tomas si amano e si desiderano, ma sono condannati a non riuscire a vivere la quotidianità del rapporto di coppia, la routine delle famiglie normali. I viaggi di lavoro di Tomas, che lo fanno assentare per periodi ogni volta intollerabilmente più lunghi, sono dei veri e propri buchi neri in cui l’esistenza di tutti i giorni collassa e quasi si interrompe, come un’onda che si ritira lasciando al suo posto solo la schiuma dell’attesa. L’attesa diventa così la condizione normale, addirittura auspicabile se solo si vuole cercare di scongiurare l’azione del tempo e rimandare sospirato ma temibile il redde rationem del reincontro. Il tempo (sarà un caso che i migliori romanzi degli ultimi cento anni parlino tutti, in un modo o nell’altro, del tempo, che – per citare Richard Powers – “è l’autore degli autori”?), il tempo – dicevo – fa cambiare inesorabilmente le persone. Non appena esse si allontanano da noi, la loro identità incomincia gradualmente a sfumare e a essere sostituita da istantanee statiche e immutabili, che giocoforza non corrispondono più al soggetto (come Berta sperimenta durante il “mancato” appuntamento con Esteban Yanes, l’uomo con cui venti anni prima aveva perso la verginità, il quale si presenta all’incontro con sembianze che non solo non coincidono, ma sono addirittura antitetiche – ora egli è obeso e quasi calvo – con i ricordi della donna). Allora il tempo, che consuma e corrompe, e la memoria, che non trattiene e lascia evaporare, fanno sì che le persone spariscano dalla nostra vita e dalla nostra mente, relegate a vivere in una dimensione parallela e fittizia, che la prolungata e immotivata assenza di Tomas, che scompare da Madrid senza più dare notizie di sé, ipostatizza fino a farla diventare una condizione umana universale. Ciò porta Marias a interrogarsi sul problema dell’identità, esplicitato fin dalle prime, emblematiche parole del romanzo: “Per molto tempo non avrebbe saputo dire se suo marito era suo marito”. Gli esseri umani sono destinati a rimanere indefinibili, imperscrutabili, se perfino chi ci dorme a fianco e condivide la nostra intimità è un impenetrabile enigma. Come già aveva detto Dickens, opportunamente citato nel romanzo, “ogni creatura umana è destinata a costituire un profondo e segreto mistero per tutte le altre”. Per sviluppare questo concetto, Marias sceglie pirandellianamente di fare del marito un agente segreto, una persona obbligata per definizione a un codice del silenzio e della riservatezza che lo trasforma in un irrisolvibile rompicapo. In “Domani nella battaglia pensa a me” Marias aveva scritto che “solo ciò che può essere raccontato esiste”. Tacendo e occultando quello che fa, Tomas si condanna all’inesistenza (“Ci siamo ma non esistiamo, o esistiamo però non ci siamo”), trasformandosi in un fantasma, una presenza impalpabile capace di contraddire perfino la sua concreta e tangibile presenza (“Sarò chi non sono, sarò fittizio, sarò uno spettro che va e viene, che si allontana e ritorna. E accadrò, sarò mare e neve e vento”). Parallelamente e in ragione di questa opacità e indecifrabilità degli altri, la protagonista a sua volta si sfalda, si disgrega, si scompone in innumerevoli frammenti (“una vita insieme finita e non completamente cominciata, nubile e vedova e sposata insieme, una vita sospesa o interrotta o stranamente rinviata”).
Se gli altri sono inconoscibili, altrettanto incomprensibile è la realtà, posizione che avvicina Marias a certe posizioni della filosofia contemporanea e postmoderna, le quali negano, nel loro relativismo, che la ragione umana possa giungere alla verità e alla comprensione del mondo. Se Marias affida a Berta il tema dell’identità, la riflessione epistemologica, non meno importante, sul senso della vita e sulla impossibilità di arrivare a conoscere una verità oggettiva e affidabile viene riservata a Tomas, il quale, pur avendo meno pagine a disposizione rispetto alla moglie, riveste una pari dignità di protagonista. Appare strana pertanto la scelta di intitolare il romanzo alla sola Berta Isla, quando forse meglio sarebbe stato – a mio parere – chiamarlo “Berta e Tomas”. E’ vero che a Berta è riservata, dal terzo capitolo in poi, la prima persona e a Tomas la più impersonale terza persona, ma questo, anziché essere una contraddizione con quanto appena sostenuto, è perfettamente calzante con la natura del personaggio, dal momento che Marias suggerisce un interessantissimo parallelo tra la professione di spia e il ruolo del narratore in terza persona di un romanzo, che c’è ma al tempo stesso non esiste, che è onnisciente ma invisibile, indiscernibile. Tomas, costretto a entrare obtorto collo nei servizi segreti britannici, i quali hanno intravisto nella sua straordinaria capacità di imitazione e di apprendimento delle lingue un eccezionale potenziale da sfruttare, sperimenta che la vita è labile, ambigua e sfuggente. Peggio ancora, essa è eterodiretta: noi crediamo di dirigerla, di governarla, di tenerla saldamente nelle nostre mani, e invece stiamo solo recitando un copione scritto da chissà chi, percorrendo una strada da cui non si può in alcun modo uscire, neppure quando si vorrebbe tentare di fuggire, e che “condiziona i nostri movimenti e i nostri avvelenati passi”. Il carismatico professor Wheeler propone a Tomas di entrare nei servizi segreti per non rimanere un “reietto dell’universo”, per poter incidere almeno in parte sul mondo. Beffardamente, a Tomas verrà però riservato lo stesso destino del personaggio di Hawthorne, che Wheeler aveva preso a emblema dell’uomo-oggetto, passivo e insignificante, invisibile e inesistente agli occhi di tutti. Vivere la finzione di essere due persone allo stesso tempo è una fugace illusione, una stolida vanità, una imperdonabile presunzione, insomma una condanna. Come dice minacciosamente Kindelan a Berta, quello della spia “è un mestiere da cui si esce sempre male, … squilibrati o morti. E quelli che non vengono giustiziati e non impazziscono del tutto, finiscono per non sapere più chi sono”. Rispetto a Berta il lettore è in una posizione privilegiata: lui conosce, a differenza della donna, il motivo per cui Tomas è entrato a far parte del MI6 e ha scelto una professione i cui frutti, seppur ben remunerati, sono ignorati e misconosciuti da tutti, e che per di più gli impedisce di vivere una vita familiare normale, vicino alla moglie e ai figli. Il lettore lo sa, come ovviamente lo sa Tomas. Eppure anche la verità individuale, custodita da ciascuno di noi nello scrigno della nostra anima e che ci rende agli occhi degli altri un mistero insondabile, anche questa verità è parziale, effimera e fallace, e Marias ce lo ricorda con un inatteso, sorprendente colpo di scena a poche pagine dal termine del libro, che rovescia completamente, come in un giallo ben confezionato, le aspettative dei lettori.
Con “Berta Isla” Javier Marias ha costruito un romanzo avvincente, che non disdegna affatto, come ho appena accennato, gli spunti e le astuzie della letteratura di genere. Come in “Domani nella battaglia pensa a me”, che si apre con la morte improvvisa e inesplicabile dell’amante, la quale getta il protagonista nel più totale sconcerto, anche qui c’è un evento clamoroso che fa sterzare la storia su una strada di ineluttabile fatalità. “Berta Isla” è così una spy story, con tutti i crismi che hanno sempre caratterizzato il genere, da Graham Greene a John Le Carré, ma allo stesso tempo è un romanzo filosofico, alterna momenti di trepidante suspense a pause di riflessione teorica, l’ingenuo piacere del lettore di feuilleton alla speculazione intellettuale, il thriller all’esistenzialismo. E’ un romanzo che, screziato solo da un impercettibile accenno di manierismo, affascina per il suo carattere originale e polimorfo e che, parafrasando Durrenmatt e il suo “La promessa”, si potrebbe a buon diritto sottotitolare “Un requiem per il romanzo spionistico”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    03 Ottobre, 2020
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LA SCALA DI GIACOBBE

“La scienza non c’entra con il controllo. C’entra con il coltivare un’eterna condizione di stupore davanti a qualcosa che diventa sempre più ricco e ingegnoso della nostra ultima teoria su di esso. […] Lo scopo della scienza è quello di perderci nel desiderio del mondo.”

Mentre leggevo “Canone del desiderio”, il cui bellissimo ma purtroppo intraducibile titolo originale (“The gold bug variations”) richiama ovviamente, oltre allo “Scarabeo d’oro” di Edgar Allan Poe, una delle composizioni più famose di Johann Sebastian Bach, le Variazioni Goldberg, mi sono soffermato a riflettere sulla curiosa influenza che il grande musicista tedesco del ‘700 ha esercitato su tante opere contemporanee extra-musicali. Una delle più rilevanti di esse riporta addirittura il nome del compositore nel titolo: mi riferisco a “Godel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante”, scritta nel 1979 da Douglas Hofstadter. In questo meraviglioso e godibilissimo saggio, che indaga temi filosofici e scientifici come il funzionamento della mente, il significato della coscienza e la natura del linguaggio, con grande rigore teorico ma anche con innegabile arguzia (chi lo ha letto si ricorderà sicuramente i dialoghi tra Achille e la Tartaruga),ogni capitolo è costruito ispirandosi a un’opera di Bach, tra cui – ça va sans dire – le Variazioni Goldberg, anche qui oggetto – come nel libro di Powers – di un gioco di parole nel capitolo “Variazioni Goldbach” (il quale si rifà a uno dei problemi di teoria dei numeri noto come “congettura di Goldbach”). Powers ha sicuramente letto il testo di Hofstadter, che è uno dei capolavori delle scienze cognitive del XX secolo, così come deve essere stato ispirato da altri due capisaldi della biologia molecolare e della scienza dell’evoluzione, ossia “Il caso e la necessità” di Jacques Monod e “Il gene egoista” di Richard Dawkins, usciti rispettivamente nel 1970 e nel 1976, le cui argomentazioni sono ampiamente condivise dallo scrittore dell’Illinois. Chi conosce Powers ha imparato del resto a familiarizzare con la presenza nei suoi romanzi di una grande mole di riferimenti culturali, che in “Canone del desiderio” spaziano dalla genetica alla musica, dall’informatica alla pittura, dalla semiotica alla storia dell’arte, da Rainer Maria Rilke a Herri met de Bles, da Gregor Mendel a Edgar Allan Poe. La cosa non deve però spaventare il lettore, in quanto da un coacervo di materiale culturale estremamente eterogeneo, Powers è capace di distillare miracolosamente un concentrato di purissima letteratura. Nonostante che in esso si parli abbondantemente (e, non lo nego, anche in maniera a tratti abbastanza ostica, almeno per chi – come me – la scienza l’ha solo approssimativamente assaggiata nei lontani anni delle scuole superiori, e la musica la apprezza solamente da ascoltatore ignaro di cosa si nasconda dietro a quei misteriosi e indecifrabili simboli negli spartiti) di argomenti scientifici, come i tentativi del protagonista di decifrare, nella seconda metà degli anni ’50, la struttura del DNA, e musicali, come le sorprendenti e quasi mistiche analogie che legano le Variazioni Goldberg al DNA, quasi che la musica di Bach sia “la metafora migliore per il gene della vita”, nonostante ciò – dicevo – in “Canone del desiderio” non c’è nulla che possa assomigliare a quell’intento meramente divulgativo che è presente – che so – in libri come “Il mondo di Sofia” e che li rende del tutto insignificanti da un punto di vista artistico. Al contrario, il romanzo di Powers, nonostante lo si possa tacciare di freddezza e di scarsa originalità (“Canone del desiderio” può essere in fondo visto come una nuova versione di “Possessione”, pubblicato appena l’anno prima, giacché le due storie d’amore parallele tra Stuart e Jeanette e tra Jan e Franklin ricordano quelle, anch’esse vissute a distanza di molti anni, tra le due coppie protagoniste del libro di Antonia Susan Byatt), è un autentico capolavoro di stile e di maestria narrativa. Basti pensare al sapiente gioco di simmetrie e di metafore elaborato, con l’ausilio del genio “matematico” di Bach, da Richard Powers: le sessantaquattro note delle Variazioni come i sessantaquattro codoni del DNA, con la melodia originale che riecheggia nelle trenta variazioni a fare la funzione del gene regolatore, l’inconfondibile scala a spirale del DNA che, nel sogno ad occhi aperti di Ressler, evoca l’episodio biblico della scala di Giacobbe (“La strada a due corsie verso regni più elevati. Gli angeli vengono sorpresi mentre scendono e salgono in due solenni e immobili colonne opposte. […] Quattro varietà di angeli per rivelare le quattro basi del DNA”), la storia d’amore tra la narratrice e Franklin che riprende quella tra Stuart e Jeanette di venticinque anni prima, e così via.
Come non è facile apprezzare al primo ascolto la raffinata arte geometrica del maestro di Eisenach, allo stesso modo la lettura di Powers può sconcertare chi vi si avvicina per la prima volta e si trova ad affrontare il suo stile erudito, forbito, persino un po’ ampolloso (non ho trovato alcuno scrittore delle generazioni precedenti a cui accostarlo, se non – alla lontana, ma questa è un’opinione personalissima e molto opinabile – Henry James), con un largo uso di termini specialistici e di giochi di parole da iniziati. Powers fa entrare la scienza un po’ dappertutto, persino nella valutazione della bellezza femminile, come quando la protagonista, parlando di sé, afferma che “il mio era uno splendore di percentile medio, che si trovava esattamente sul rigonfiamento della curva normale del diagramma”, o quando l’autore suggerisce che la seduzione esercitata da Jeanette su Stuart “non sia più di un’eccitazione causata da carboidrati complessi, sistemi cibernetici che si reinseriscono l’uno nell’altro, un ciclo di istruzioni dowhile infinito”. Eppure questo scrittore apparentemente algido e lezioso, complesso e inavvicinabile, è quello che, nella letteratura contemporanea, forse più si è avvicinato all’ideale che auspicava Italo Calvino, ossia un linguaggio capace di esprimere “la molteplicità conoscitiva del mondo in cui viviamo”. Basterebbe limitarsi a leggere quella che è una delle pagine più avvincenti e sensuali non solo del romanzo, ma – senza tema di esagerare – della letteratura d’amore di tutti i tempi, ossia la descrizione dell’amplesso di Stuart e Jeanette, in cui l’autore, pur non rinunciando alla sua prosa iper-complessa, sa descrivere alla perfezione l’esplosione e la consumazione di un desiderio erotico a lungo trattenuto e procrastinato. I due giovani amanti si fanno travolgere da un’urgenza fisica che recupera tanto una atavica ferinità antica come il tempo (“Lei emette gemiti secchi e sommessi come i rumori di una foresta […] I lievi piagnucolii di un piccolo mammifero si condensano diventando violenti […] All’improvviso, riprende forsennatamente a muoversi, a sfuggire agli inseguitori […] Avanza verso di lui, le cosce dapprima morbide e delicate come quelle di un felino […] Il viso di Jeanette, quando sopraggiunge lo shock dell’ultima spinta muscolare, è sorpreso, uscendo allo scoperto con un’espressione di stupore ancestrale”) quanto l’inevitabilità chimica e biologica del sesso /”Le pieghe fluide di quell’infinito passaggio premono contro l’intruso, gli danno il benvenuto con tutta l’ingegnosità del progetto […] A turni, il corpo di lui è una conduttanza alimentata dal coito e qualcos’altro – la germinazione spontanea e autonoma delle piante […] Questa donna è stata da tempo inscritta nel suo genotipo. Rappresenta la sua elaborazione, il suo testo che si è fatto carne, che si è fatto enzima […] La base del cervello di Ressler viene inondata di interruttori chimici che non recupererà mai più”), riuscendo nondimeno a restituire una naturale e a suo modo poetica (benché tutt’altro che romantica) bellezza del gesto (“Il suo sforzo si propaga come i parossismi di un barometro che si arrende all’occhio del ciclone […] Qualcosa di più del sesso: uno scavo, in direzione della crosta terrestre, metrico e insufficiente, ogni volta sempre più giù, più vicino a un centro richiamato alla mente […] Per una breve eternità, il ricordo molecolare dell’azione persiste nei muscoli, si attenua lungo le spalle, il busto, gli arti, il sistema limbico come le note fondamentali di un immenso organo a canne che si diffondono nel duomo barocco per un periodo infinito prima di tornare al livello della navata centrale”). E’ un brano di travolgente bellezza, che riverbera i suoi effetti nelle restanti pagine del romanzo, così come nell’animo ardente e puro del protagonista. Anche se si parla di alleli, nucleotidi, enzimi e codoni, di ricerche di laboratorio in vitro e di scale musicali, i personaggi che emergono da “Canone del desiderio” non sono certo sbiadite e monodimensionali silhouette al servizio di una teoria, ma figure di sconvolgente concretezza, fatte di carne e di sangue, che amano e soffrono, e si fanno tragicamente carico delle conseguenze delle loro scelte di vita. La stessa scienza non è per Powers fredda e asettica, ma equivale alla vita stessa, e – come per la vita – il suo scopo è “quello di far rivivere e coltivare uno stato perpetuo di meraviglia”. Il desiderio del titolo non è quindi tanto – o perlomeno non solo – quello che scaturisce dall’amore tra due esseri umani, quanto quello dello scienziato che, esplorando il creato, anche quello invisibile a occhio nudo, si imbatte in un regno incantato e miracoloso e rimane a fissarlo pieno di stupore, di desiderio appunto, intuendo che nulla di quello che potrà realizzare in laboratorio sarà in grado di eguagliare la perfezione, la ricchezza e l’ingegnosità che milioni di anni di selezione naturale hanno prodotto.
Nella copertina (anche quella dell’edizione originale) del libro si cita una frase del Washington Post che suggerisce un parallelo tra “Canone del desiderio” e “L’arcobaleno della gravità”. Ebbene, non ci sono in realtà autori più diversi di Thomas Pynchon e di Richard Powers. Il caos entropico, la narrazione centrifuga, l’umorismo smodato, la scanzonata leggerezza e il rifiuto di farsi portavoce di una chiara posizione ideologica del più famoso degli autori postmoderni non appartengono all’universo letterario di Powers, colto e citazionista sì, ma strutturato in forme rigorosamente geometriche, serio e ponderato, e soprattutto tenacemente massimalista. Nei romanzi di Powers è sempre presente un chiaro messaggio morale e politico. In “Canone del desiderio” Stuart Ressler, interrogandosi sugli esiti delle sue ricerche, si preoccupa di come l’industria potrebbe sfruttare in maniera eticamente discutibile le sue disinteressate ricerche. “La manipolazione genetica è piena di tentativi di sostituire un denso, diversificato, eterogeneo assortimento di ceppi con uno superiore. C’è qualcosa in noi che è attratto dalla riduzione: vogliamo l’unica soluzione che allontanerà tutte le altre. […] Il mercato umano ha le stesse probabilità di migliorare il lavoro della selezione naturale di un dattilografo per diem di migliorare il Bartlett”. L’uomo contemporaneo pecca di hybris, volendo sostituirsi alla natura nel suo compulsivo desiderio di crescere e di creare, generando fatalmente una progressiva distruzione dell’habitat. “Un milione di specie perse irrimediabilmente per quando lui morirà, un’accelerazione della carneficina che può essere ignorata solamente con uno sforzo della volontà. Una specie al giorno, presto una all’ora, una al minuto. Non è colpa della ricerca in sé, ma è collegato allo stesso desiderio distruttivo di crescere, di essere di più. E in cambio – lui non riesce a cogliere lo scambio grottesco – qualche altra nuova specie che, per la prima volta nel creato, può essere firmata dall’artista”. Powers conferisce al suo protagonista, che agisce negli anni ’50, una strabiliante preveggenza, ma è lungimirante lui stesso, se si pensa che nel 1991 i progressi della genetica non si erano manifestati del tutto, e la pecora Dolly, per citare solo uno dei casi che avevano fatto più scalpore nel secolo scorso, era ancora di là da venire. Consapevole che è necessaria “una nuova scienza per salvare la creazione dall’impulso creativo”, Stuart decide, a un passo dal coronamento delle sue ricerche, di fare un passo indietro e di ritirarsi dal mondo scientifico. Perduto il suo amore e a un passo dalla celebrità, la sua è, oltre che un rifiuto di accollarsi le responsabilità di un cattivo uso delle sue scoperte, anche una paradossale affermazione della propria individualità. Consapevole che il suo io è una menzogna, schiacciato tra il cieco egoismo del gene (citando Dawkins, “noi siamo macchine da sopravvivenza, robot semoventi programmati ciecamente per preservare quelle molecole egoiste note sotto il nome di geni”) e il gretto conformismo della popolazione (che porta a negoziare le proprie idee e la propria conoscenza in cambio di fama, soldi e potere), Stuart sceglie di sprofondare nell’oblio e di vivere una sorta di esistenza monacale, esiliandosi in un qualsiasi centro di elaborazione dati di New York, lontano dai riflettori del mondo, anonimo e misconosciuto, almeno fino al momento in cui la caparbia curiosità di un collega di lavoro e di una bibliotecaria deciderà di riportare in luce il suo passato e ristabilire in extremis la sua ignorata grandezza. Stuart è un personaggio autenticamente tragico, un moderno Prometeo che spinge il fardello celibe e privo di discendenza della sua vita come l’eroe del mito faceva con il suo gigantesco masso, con una virile dignità e una umile fierezza. L’uomo per Powers è un mistero, forse il più grande dell’universo. Lungi dal ridurlo a una mera risultante di geni capricciosi, lo scrittore americano lo descrive come un affascinante enigma, qualcosa di misteriosamente diverso e superiore al prodotto di stringhe di nucleotidi autoreplicanti e di complicati meccanismi neurologici.
“Può una cosa così eterogenea come la curiosità essere rivelata da un set di equivalenze?”, si domanda a un certo punto la narratrice. Possono, aggiungo io, sentimenti come l’amore, l’amicizia, la fedeltà essere descritti con il linguaggio della chimica e della biologia? Questo è l’originale esperimento che Powers ha tentato in “Canone del desiderio”, un romanzo che è uno strano ibrido, volta a volta saggio sulla scienza e sulla musica, storia d’amore e perfino quest investigativa (chi è realmente Stuart Ressler e perché ha rinunciato a svelare il segreto del DNA quando era ormai a un passo dal traguardo? E dove è finito Franklin, la cui unica traccia lasciata a Jan dopo essere partito è la cartolina di un dipinto del pittore fiammingo Herri met de Bles? E, ovviamente, quale segreto è nascosto nel DNA, quale è il codice da utilizzare per decifrare il suo crittogramma, non dissimilmente dalla mappa del tesoro scritta con l’inchiostro simpatico del racconto “Lo scarabeo d’oro” di Poe?). Strutturato in diverse fasi temporali (non a caso Powers, secondo cui “il tempo è l’autore degli autori”, è un maestro delle sovrapposizioni cronologiche), “Canone del desiderio” è un romanzo che sembra obbedire al principio che “tutte le cose che potrebbero essere, possono essere”, anche che un personaggio morto da diversi mesi possa tornare a parlare, per mezzo di un “benevolo” virus informatico, dall’altoparlante di una postazione bancomat, e che una storia d’amore fallita nel passato possa rinascere ed essere coronata dalla felicità, grazie alla demiurgica intercessione di un marito e di un padre mancato, venticinque anni dopo. “Le parole sono un insidioso sestante, una mediocre controfigura della cosa che rappresentano”, si legge in “Canone del desiderio”. Ma le parole di Powers riescono nondimeno a essere un prodigio di tecnica, di raffinatezza e di sensibilità, una gioia ineguagliabile per il lettore più esigente, anche se è triste pensare che solo la recente vittoria del Premio Pulitzer con “Il sorriso del mondo” ha permesso di veder pubblicato in Italia per la prima volta, a distanza di quasi trent’anni, un simile capolavoro. Negli anni ’50 c’era una pubblicità con Virna Lisi che diceva più o meno “Con quella bocca può dire ciò che vuole”. Ebbene, con l’autore di “Canone del desiderio” si può affermare più o meno la stessa cosa: che si tratti della composizione dell’acido desossiribonucleico o della descrizione di una fuga musicale, con la sua ispiratissima penna, Powers può permettersi davvero di scrivere tutto ciò che vuole.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    01 Settembre, 2020
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PATRIE E PERSONE

“Tutti i bei ricordi le si presentarono di colpo […] come quelle foglie con una faccia di un colore e l’altra di un altro, una di un verde brillante, piacevole a vedersi, l’altra di un verde più pallido che era il verde della colpa e dei rimorsi. Si guardava le mani e si pentiva di essere stata giovane; o peggio, di essere stata felice.”

“Patria” di Fernando Aramburu è stato uno dei più grandi e inaspettati successi della narrativa europea del XXI secolo. Mi è parso interessante verificare, a distanza di quattro anni dalla sua pubblicazione, se i motivi che hanno portato il romanzo a ricevere il plauso quasi unanime del pubblico internazionale (spesso appannaggio esclusivo della letteratura più commerciale) fossero suffragati da valide ragioni di natura più prettamente artistica. La prima cosa che mi viene da dire è che “Patria” è un’opera innestata in una realtà molto circoscritta (un piccolo paese basco dove gli abitanti esprimono con fierezza ambizioni indipendentistiche, dove tutti parlano la lingua “euskera” al posto del castigliano, dove imperversa la lotta armata dell’ETA contro uomini e istituzioni dello Stato spagnolo), ma che ha risonanze tali da poter essere considerato un libro praticamente universale. Il lettore italiano, nello scorrere le vicende delle due famiglie del Txato e di Joxian, dapprima amiche per la pelle e poi irreparabilmente divise dalle sanguinose ferite inferte dal terrorismo basco, può riandare con la mente agli anni di piombo, quello britannico al periodo della guerra dell’IRA, e tutti probabilmente pensare a quanto il conflitto dell’ETA contro lo Stato spagnolo assomigli all’Intifada palestinese. “Patria” tocca perciò corde ampiamente condivisibili dalla vasta platea dei suoi lettori. In più lo fa con una struttura narrativa molto originale, partendo cioè da un punto della storia dove quasi tutto (l’omicidio del Txato, l’arresto di Joxe Mari) è già avvenuto e andando avanti e indietro nel tempo per ricostruirla in maniera per così dire a-cronologica, seguendo, nel corso di brevi e concisi capitoli, le vicissitudini alternate dei suoi sette personaggi. “Patria” diventa così un complesso libro sul tempo e sulla memoria, dove il film dei ricordi si dipana rapsodicamente in scene che sono “frammenti di vetro come una bottiglia caduta a terra. E in ogni coccio, un ricordo, un episodio, le ombre e le figure disperse del passato”. Il passato viene evocato a partire da fatti insignificanti (il riflesso della luce mattutina sulla bicicletta del marito per Miren, il rosso del sangue di un prelievo per Xabier, con l’effetto di far riaffiorare rispettivamente il confronto violento con il figlio nella cucina di casa per la prima e l’avvertimento di correre subito a casa perché era accaduto qualcosa di grave a suo padre per il secondo), come a sancire che certi ricordi rimangono inesorabilmente “a risuonare dentro in un presente interminabile, bruscamente congedato dal fluire del tempo”. Pur essendo un romanzo apparentemente ondivago, “Patria” ruota ossessivamente, compulsivamente, intorno a un nucleo centrale, che è l’omicidio del Txato, come se quell’avvenimento avesse cristallizzato tutto, bloccandolo in un eterno presente, da cui, come in sortilegio maligno, è impossibile liberarsi. Si può dire addirittura, con le parole di Xabier (“Ho finito l’università sette mesi prima di, ho partecipato a quel congresso a Monaco nove anni dopo che”), che tutti gli avvenimenti sono accaduti a una determinata distanza di tempo dall’assassinio del padre, il quale diventa perciò un fatidico spartiacque, proprio come la nascita di Cristo rispetto agli avvenimenti storici. Anche gli altri personaggi del romanzo, attraverso i loro ricordi, riflettono incessantemente le ripercussioni di un tragico accadimento che ha cambiato la vita di tutti, una volta per sempre, come un terremoto che ha distrutto case e scavato voragini. La difficoltà di elaborare il lutto (anzi, i lutti, perché l’arresto di Joxe Mari pareggia in un certo senso la morte del Txato), di riconciliarsi con il passato (Nerea rinfaccia al fratello: «Siete emotivamente bloccati. Tu e l’ama siete in un buco di pena e di rancore e di malinconia dal quale non potete uscire e da cui non so se volete uscire»), di sbrogliare l’ingarbugliata matassa dei rancori reciproci (ognuno si sente in qualche modo vittima, anche la madre del terrorista, che afferma: «Siamo vittime dello Stato e adesso siamo vittime delle vittime»), rinchiude la vicenda in un circolo vizioso, in cui le emozioni, i sentimenti, i sogni e le speranze sono condannati a implodere e a non riuscire a trovare uno sfogo, una via di uscita. Come in una faida, le due famiglie (una volta amiche, e ora ognuna dalla parte opposta di una invisibile barricata eretta da assurde e aprioristiche ideologie di cui non si riesce mai ad afferrare pienamente la logica) sono costrette a vivere in uno stato bloccato di odi e di recriminazioni, diventando i simboli di tutti quei conflitti storico-politici-sociali che negli ultimi decenni hanno contrassegnato, con la loro irriducibilità, la storia del mondo contemporaneo, lasciandosi alle spalle innumerevoli sofferenze e sventure. L’assassinio del Txato diventa così un simbolico buco nero in cui non solo collassano le sorti delle due famiglie protagoniste, ma precipita anche la coscienza dell’intera collettività. E’ solo l’intervento coraggioso di chi non ha più nulla da perdere (e che è quindi capace di ragionare non per partito preso, non con pregiudizi e opinioni prefabbricate, ma seguendo la semplice forza dei sentimenti), e cioè una donna costretta sulla sedia a rotelle da un ictus e capace di parlare solo per mezzo di un iPad, una madre malata terminale di cancro e conscia di avere pochi giorni da vivere e un terrorista condannato a 120 anni di carcere e in crisi di identità, a permettere di cambiare le cose e far sì che gli strappi, poco a poco, si ricuciano e le distanze, sia pure a fatica, si riducano, riportando, se non la serenità, almeno il conforto del pentimento e della riconciliazione.
Teso come un thriller (chi ha sparato al Txato?), avvincente come un romanzo storico, umanamente variegato come una saga familiare, “Patria” riesce a mantenere livelli altissimi per la gran parte delle sue pagine. Purtroppo il finale non riesce ad essere all’altezza del resto, non tanto per il suo tono buonista e consolatorio, quanto per la sua prevedibilità (gli ultimi capitoli risultano praticamente pleonastici) e per la sua ansia di volere a tutti i costi far quadrare i conti e chiudere il cerchio (come recita anche il titolo del terzultimo capitolo) della storia, quando forse avrebbe giovato una maggiore incompiutezza, quasi che volere sigillare la vicenda e suggellarla con una morale facilmente leggibile tra le righe togliesse quel pathos dovuto all’imprevedibile, all’ingovernabile e all’indeterminato. E’ un po’ come quando ci si accinge a fare un puzzle, consapevoli che il fascino del passatempo consiste nel vedere comporsi dal nulla, poco a poco e a fatica, il disegno complessivo, mentre gli ultimi pezzi mancanti scorrono via in maniera quasi automatica, senza alcuno sforzo gratificante. Nonostante questa riserva, Aramburu dimostra di possedere quella equanimità, quella obiettività, quella capacità di mantenere la distanza emotiva dagli scottanti fatti narrati, che solo i grandi autori hanno (un solo, significativo, esempio: il Vasilij Grossman di “Vita e destino”). Inoltre lo scrittore spagnolo, pur sapendo perfettamente calarsi nel clima storico, non perde mai di vista i suoi personaggi, ritratti affettuosamente nelle loro normali occupazioni, con i loro tic, i loro difetti e le loro idiosincrasie. Il climax drammatico viene così stemperato di frequente da momenti più leggeri, soprattutto nella rappresentazione della vita domestica delle due famiglie (i battibecchi tra Bittori e il Taxto o tra Miren e Joxian sono impagabili), determinando quella alternanza tra tragedia e commedia che da sempre (penso ad esempio a Shakespeare) caratterizza tutti gli autentici capolavori. Lo stile di Aramburu è semplice e scorrevole, teso a riprodurre un tono il più possibile prosaico e colloquiale (cosa che gli si fa perdonare espressioni altrimenti orribili del tipo “Nerea era innamorata dalla testa ai piedi e ritorno”). Da questo proposito derivano alcuni inconfondibili vezzi stilistici, come l’alternanza, persino nella stessa frase, della terza e della prima persona (“Bittori, gli occhi asciutti, perché io d’ora in avanti non piangerò nemmeno se me li sfregano con la cipolla, pensò che la prossima volta che entrerà luce in questo buco sarà quando seppelliranno me”), la preoccupazione di definire in maniera psicologicamente precisa una sensazione o una situazione, usando prima un aggettivo e subito dopo – in forma dubitativa, con il punto interrogativo – un secondo aggettivo (“D’altra parte le era difficile, impossibile?, cancellare otto anni di ricordi dolorosi”), oppure accostando due aggettivi divisi tra loro da una barra obliqua (“Il timore… era là, dentro di lei come dolore sordo/vago ma non per quello meno bruciante”), l’abitudine di usare all’interno di una frase una domanda (“A Bittori non era sfuggito un gesto dell’ospite. Quale? Be’, che credendo che nessuno la vedesse, …”), l’uso di piccole ellissi nei discorsi indiretti (“Stava perdendo la pazienza, alzava la voce, gli disse che e lo minacciò di”), ecc. C’è in “Patria” una naïveté, una immediatezza stilistica, che non deve trarre in inganno, dal momento che dietro ad essa è facile intuire una profonda consapevolezza da parte dell’autore dei propri mezzi espressivi. Di “Patria” si conserva al termine della lettura una impressione molto vivida: personaggi fieri, severi, eppure teneri dietro al loro costante cipiglio, come Miren e Bittori, oppure ripiegati in un autodistruttivo dolore, come Xabier (che ritiene “indegno cercare di strappare alla vita pezzi di felicità” dopo la morte del padre, provando “una specie di repulsione nei confronti dell’allegria”), non si dimenticano facilmente, così come incisa profondamente nelle pagine appare l’umanistica convinzione dell’autore che nessuna causa, per quanto importante e giusta, nessuna guerra, per quanto santa (e Aramburu si guarda bene dall’entrare nel merito delle rivendicazioni dell’indipendentismo basco o delle ragioni della repressione dello Stato spagnolo), può far dimenticare le sofferenze e le ingiustizie patite dai singoli individui, e che assai più che le patrie (labili concetti dietro a cui spesso si nascondono interessi ben poco nobili) a contare sono alla fin fine, soprattutto, le persone.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    12 Agosto, 2020
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SULL'ALTARE DEL DESIDERIO

“À l’ombre des jeunes filles en fleurs” è il bellissimo titolo, evocativo, poetico, musicale, del secondo capitolo della “Recherche”, in cui Proust racconta l’adolescenza del protagonista, una stagione impregnata di desiderio e di sensualità, di eccitazione e di profumi, dei primi piaceri sparsi quasi per caso durante il gioco con una compagna e delle sensazioni dionisiache che per la prima volta rendono le ragazze più attraenti dei quadri e dei monumenti. Certo, non manca in questa seconda parte l’impagabile rassegna di tipi del bel mondo, attraverso un’osservazione inesausta, acutissima e raffinata, la quale, ai limiti della satira di costume, mette alla berlina i vizi e le idiosincrasie dei contemporanei: l’insopportabile snobismo aristocratico, la rozzezza e l’ignoranza nascoste sotto i titoli nobiliari e l’alto lignaggio, l’ostentazione di amicizie e di conoscenze prestigiose (e spesso fasulle) al solo scopo di farsi un nome in società, via via fino ai malori inventati per non dover dare a vedere di non essere stati invitati al ricevimento del marchese Caio, il disprezzo per la duchessa Tizia che ha l’unico difetto di frequentare l’amica Sempronia, la quale potrà poi rivalersi e vantare con tutte questa preferenza, con strascichi penosi di invidie e recriminazioni, la competizione tra salotti rivali, e poi ancora odi dissimulati, malignità sussurrate alle spalle, veleni propinati con eleganza, ecc. ecc.
E’ però con l’entrata in scena dell’amore e dell’innamoramento, non più raccontati in terza persona (come in “Un amore di Swann”), che prende corpo il nucleo centrale di “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Anzi, il romanzo può essere visto come una ricca e doviziosa trattazione della fenomenologia del desiderio (e dell’annesso dispiacere) amoroso. Gilberte e Albertine sono i due poli di attrazione tra i quali il nostro oscilla, con una dedizione sentimentale assoluta ed una sensibilità capace di cogliere miracolosamente tutte le più lievi sfumature di un sentimento reso acerbo solo dalla personalità in continua maturazione dell’adolescente, non certo dalla sua minore intensità. Tra le due muse, vi sono però decine di altre ragazze che il narratore magari incrocia fuggevolmente per strada e che gli lasciano intravedere, attraverso un processo di sublimazione cui non sono estranee l’impossibilità di realizzazione, la brevità dell’esperienza e la labilità del ricordo, abissi di felicità; ragazze che, come le amiche di Albertine, sono come fiori tra i quali il protagonista, come un’ape attratta dal polline, indugia con voluttà, innamorato di tutte e, in fondo, innamorato di nessuna; ragazze la cui immagine egli insegue incessantemente, senza mai ritrovarla uguale (clamorose sono, ad esempio, le “metamorfosi” di Albertine, che ogni volta si ricompone sotto lo sguardo del giovane “emergendo dal pulviscolo del ricordo”) perché sono in un’età in perpetua e costante trasformazione. Le pagine dell’estate a Balbec sono pagine solari, paniche, in cui perfino le differenze di classe vengono meno, e gli obblighi sociali sono facilmente sacrificati di fronte alla Bellezza, pagine che descrivono un'età irripetibile come quella della prima giovinezza e nelle quali, nonostante tutto, si insinua un sottile velo di malinconia, giacché in quelle divine creature si intuiscono già i tratti che, di lì a poco, si irrigidiranno definitivamente, facendo sfiorire definitivamente il loro irripetibile fascino.
Questa considerazione mi riporta a quello che è il tema principale della “Recherche”, vale a dire la dialettica temporale. Molto spesso l’opera di Proust è stata analizzata solo in relazione alla dimensione del passato in rapporto al presente. E’ questa, certo, una parte fondamentale della filosofia proustiana: il passato, in tutto l’arco della “Recherche” viene sublimato, evocato minuziosamente (persone, luoghi, odori, ecc.) fino a giungere a formare un “nuovo” presente, un presente parallelo, eterno e non più modificabile, grazie alla sua cristallizzazione nel piano “perfetto” dell’opera d’arte. Ma c’è anche dell’altro nella complessa dialettica temporale di Proust. In particolar modo è importante sottolineare come il presente venga influenzato non solo dalle madeleines del passato, ma anche dal futuro. Non è solo una questione di desideri, di sogni e di aspettative, e della coscienza che essi si realizzino o meno. E’ qualcosa di metafisico, se così si può dire. Il presente viene infatti avvelenato dal pensiero che le persone che oggi amiamo domani non ci saranno più (pensiero della morte) o non ci ameranno più (pensiero della transitorietà dell’amore). Fin qui nulla di particolarmente originale e innovativo. In realtà, ciò che ci fa soffrire di più è la consapevolezza che anche noi saremo talmente cambiati da non sentire più la loro assenza. Il protagonista si allontana da Gilberte per far sentire di più in lei la propria mancanza e ravvivare così il suo amore, ma sa benissimo (ed in ciò sta il vero strazio) che così facendo sarà lui un domani a essere disamorato (“la felicità ci arride quando, ormai, ci lascia indifferenti”). Così il pensiero che la perdita dei propri cari sarà elaborata, e la vita (anestetizzata dall’Abitudine) procederà normalmente senza di loro, ci provoca un’ondata di sdegno, in primo luogo contro noi stessi.
L’impossibilità della felicità è sancita dal fatto che forziamo il tempo per cambiare il nostro destino (anche semplicemente crescendo, uscendo dall’infanzia per diventare uomini), pur sapendo (ed è la coscienza di ciò a farci soffrire di più) che così facendo anche noi cambiamo, e i termini della nostra felicità sono sempre diversi da prima, e quindi perennemente, malinconicamente irraggiungibili se non nella dimensione della creazione artistica. Ma anche questa, forse, è un’illusione, dato che se è vero che l’opera è destinata a durare per sempre, il creatore non può goderne, in primo luogo perché essa è apprezzata e compresa appieno solo dai posteri e quasi mai dai contemporanei, e in secondo luogo per l’implacabile intervento della morte, la quale, proprio nel momento in cui abbiamo “recuperato” il tempo passato, che diventa perciò tempo “ritrovato”, ce lo toglie inesorabilmente di mano. In tale ottica, non è neppure possibile una visione religiosa della vita, perché il nulla e l’eternità sono sotto questo aspetto identici, nel senso che entrambi ci portano via quello che nell’arco della nostra vita abbiamo faticosamente conquistato. Da qui deriva un pessimismo molto particolare, che non ha nulla della negatività e del ribellismo di Kafka o Leopardi, ma che pure è totalmente sconfortante, raggiungendo con toni più malinconici e sfumati le loro medesime conclusioni, persino nella constatazione della fugacità e della precarietà del desiderio. Quando infatti il narratore si invaghisce delle fanciulle incontrate fuggevolmente per strada, è costretto a rendersi conto dell’illusorietà del suo desiderio, che è alimentato – come si è già detto - proprio dall’inaccessibilità della persona intravista ma che, qualora l’incognito venisse meno, sarebbe destinato a dissolversi in un istante. In tal modo il desiderio delle cose che non possediamo (e che pure è l’unico a rendere più interessante la vita) diventa analogo a quello che un moribondo sente verso i giorni futuri che gli sono negati, anche qualora questi fossero, come il più delle volte succede, squallidi e meschini.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    12 Agosto, 2020
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LA RESURREZIONE DEL TEMPO

Usando il procedimento della sineddoche (ossia, la singola parte che spiega il tutto), si può affermare che il primo dei sette romanzi che compongono “Alla ricerca del tempo perduto” riproduce alla perfezione l’intero universo artistico proustiano. Esso è infatti tanto un romanzo sulla memoria e sul tempo (“Combray”) quanto un romanzo sulla società dell’epoca (“Un amore di Swann”). Ambedue le ambiziose tematiche, impregnate di filosofia (soprattutto Bergson e i suoi studi sul sogno e sulla memoria inconscia) e di acute notazioni psicologiche, sarebbero di per sé sufficienti a garantire all’opera di Proust la patente di capolavoro, assolvendola altresì in anticipo da qualsiasi eventuale accusa (peraltro ingiustificata, come si vedrà più avanti) di calligrafismo e di eccessiva ricercatezza formale. Infatti lo scrittore francese compie una vera e propria operazione di magia, facendo riaffiorare nelle sue pagine la memoria del tempo che fu, in una rappresentazione del passato minuziosissima non solo nei dettagli fisici ed esteriori ma anche e soprattutto in quelli immateriali, come un odore o un sapore (“Ma quando di un lontano passato non rimane più nulla, dopo la morte delle creature, dopo la distruzione delle cose, soli e più fragili ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore permangono ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”). Così una semplice madeleine (la celeberrima madeleine proustiana, gioia e tormento di intere generazioni di studenti liceali!) permette all’autore di recuperare come per incantesimo il passato della sua infanzia a Combray (“E come in quel gioco, che piace ai giapponesi, di buttare in una ciotola di porcellana piena d’acqua dei pezzettini di carta a tutta prima indefinibili che, non appena immersi, si stirano, assumono contorni e colori, si differenziano diventando fiori, case, figure consistenti e riconoscibili, così, ora, tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di casa Swann, e le ninfee della Vivonne, e la brava gente del villaggio e le loro piccole abitazioni e la chiesa e tutta Combray e la campagna circostante, tutto questo che sta prendendo forma e solidità è uscito, città e giardini, dalla mia tazza di tè”). La bravura e l’originalità di Proust consiste specialmente nel coniugare l’involontarietà del processo di affioramento del passato, opera di sensazioni improvvise e incontrollabili e di un meccanismo eminentemente inconscio o casuale (“E’ uno sforzo vano cercare di evocarlo (il passato), inutili i tentativi delle nostre intelligenze. Se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata, in qualche insospettato oggetto materiale… Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure che non lo incontriamo mai”), con l’artificiosità di un progetto lungamente meditato ed elaborato a tavolino, con lucido e disincantato raziocinio. Da questa aporia deriva il fascino di Proust, il quale naviga in miracoloso equilibrio tra mondo sensoriale e mondo razionale, tra istinto e intelletto, tra coscienza e cervello. In questo modo, mentre salvaguarda la purezza e l’innocenza delle emozioni del fanciullo, riesce a conservare intatte le facoltà critiche dell’adulto.
C’è una pagina in cui si coglie appieno quanto detto sopra, vale a dire quella in cui l’autore bambino, durante la consueta passeggiata postprandiale con i suoi genitori, si accorge per la prima volta del “disaccordo fra le nostre impressioni e la loro espressione abituale”. Il sole che, dopo la pioggia, illumina coi suoi riflessi le tegole dei tetti e le acque dello stagno incontrati durante il cammino strappa infatti al protagonista una banale esclamazione di entusiasmo. “Ma immediatamente sentii che sarebbe stato mio dovere non accontentarmi di quell’opaca esclamazione e cercar di vedere più chiaro nel mio trasporto”. Diventato adulto, Proust ha riversato nella “Ricerca” quella sua originaria esigenza, mettendo in opera il più grandioso, il più meticoloso, il più analitico sforzo mai tentato prima d’allora di restituire sulla pagina scritta, e nonostante gli anni passati, le più piccole e insignificanti sfumature delle sue esperienze giovanili, anche le più fugaci e transitorie (come l’influsso che i biancospini primaverili risvegliano nell’animo sensibile ed eccitabile del fanciullo o l’esaltazione provocata dalle solitarie passeggiate “dalla parte di Swann”, esacerbata dal turbamento adolescenziale di una apparizione femminile da lui evocata), arricchito in più da una matura e ponderata capacità di decrittarle alla luce dell’esperienza degli anni trascorsi. Il lettore ha così la possibilità di assistere al titanico tentativo dell’autore di restituire fedelmente la verità oggettiva che è nascosta dietro ogni cosa vissuta nel passato e che nel passato è stata solo intuita, vissuta come mera emozione, attraverso un sofisticatissimo processo di razionalizzazione e rielaborazione del ricordo, il quale giustifica appieno l’impegnativa affermazione che “la realtà non si forma che nella memoria”.
Collocato subito dopo la fantasmatica evocazione dell’infanzia di “Combray”, “Un amore di Swann” sembra appartenere ad un altro romanzo. Qui Proust lascia temporaneamente da parte l’intimismo delle pagine precedenti per dedicarsi all’analisi dei rapporti sociali, facendolo non solo con la consueta maestria ma anche con quell’impareggiabile ironia che già in “Combray” gli aveva permesso di tratteggiare alcuni impagabili “tipi” come zia Leonie e Legrandin. Reciprocamente accostati dall’autore grazie alle contemporanee frequentazioni del personaggio principale, Swann, l’aristocrazia e il demi monde sono dipinti impietosamente, con tutti i loro snobismi, tic, ipocrisie e meschinità, ma mai con acredine e cattiveria, senza cioè la volontà di demistificare una classe sociale cui Proust - non dimentichiamolo - apparteneva. Al contrario, i “fedeli” del salotto Verdurin e i nobili amici di Swann sono visti con una arguzia bonaria che non sfocia mai nella comicità triviale o nella satira da vaudeville, consentendo nondimeno all’autore di scrivere, con la sapida rappresentazione della serata mondana organizzata da Madame de Saint-Euverte, pagine così deliziose da rivaleggiare con (e forse superare) i maggiori capolavori della letteratura umoristica di tutti i tempi.
Inserita all’interno della descrizione del bel mondo parigino di fine ‘800 e abilmente intrecciata con essa (come si può vedere nella lunga sequenza in cui Swann cade in disgrazia agli occhi dei Verdurin e contemporaneamente Odette mostra di preferirgli un loro blasonato ospite) c’è poi la storia d’amore tra Swann e Odette, la quale, per profondità di analisi e spessore psicologico, può essere considerato un mirabile e accuratissimo trattato sull’innamoramento e sul rapporto amoroso. La parabola dell’amore di Swann per Odette passa attraverso le varie fasi della sublimazione dell’essere amato, dell’esclusivo desiderio del suo possesso, della cristallizzazione del sentimento nelle abitudini quotidiane, della gelosia devastante come una malattia e infine della delusione quieta e rassegnata, tutte esposte nelle loro più microscopiche sfumature psicologiche. Il rapporto tra i sessi è visto come una sottile e quasi diabolica lotta di potere, a stento camuffata dalle convenzioni e dal bon ton, in cui a cedere è inesorabilmente il partner più innamorato, ma l’amarezza di questa constatazione è stemperata dalla lontananza temporale della storia e dal fatto che sappiamo già dalle pagine iniziali del romanzo come essa sia finita. In questo senso, la chiusa di “Un amore di Swann”, con l’apparentemente definitiva e liberatoria presa di coscienza da parte del protagonista di aver perso anni della sua vita dietro a una donna inferiore che non lo merita affatto, suona ironica e beffarda alla luce del successivo matrimonio tra i due.
Nelle cinquecento pagine di “Dalla parte di Swann” lo stile di Proust non ha mai una caduta, mantenendosi su livelli prodigiosamente alti. Il suo stile, fatto di interminabili periodi dilatati a dismisura dalla presenza di numerose subordinate e parentesi, rompe definitivamente con la tradizione del romanzo ottocentesco, prima ancora e forse più radicalmente di Joyce. Negli anni in cui Monet e i suoi colleghi impressionisti cercavano di trasferire sulla tela tutte le modulazioni della luce su un particolare soggetto (ad esempio, le numerose vedute della cattedrale di Reims alle diverse ore del giorno), Proust può anch’egli a buon diritto essere definito “impressionista” per la sua virtuosistica capacità di descrivere, con parole mai udite prima, l’indistinto apparire dei raggi del sole sulla superficie del balcone oppure una semplice sonata musicale (“al di sotto della tenue linea del violino, esile, resistente, densa e direttrice, aveva visto a un tratto cercar d’innalzarsi in un liquido sciabordio la massa della parte per pianoforte, multiforme, indivisa, piana e internamente ribollente come l’agitazione color malva dei flutti incantati e bemollizzati dal chiaro di luna”. Le sensazioni, i moti psicologici e i fremiti della natura non sono solo descritti da Proust nel loro minuzioso, soggettivo, emergere alla coscienza, ma anche per mezzo di analogie e paragoni che li oggettivano, li reificano in un affascinante processo di carattere simbolico. Il parlare per analogie è una caratteristica peculiare della scrittura proustiana, un vero e proprio leit motiv (un solo esempio pescato tra i tanti: “…i rumori più distanti, quelli che dovevano venire da giardini situati all’altro capo della città, si percepivano in dettaglio con una tale finitezza che sembravano dovere un simile effetto di lontananza unicamente al loro “pianissimo” come certi motivi in sordina eseguiti dall’orchestra del Conservatorio così bene che l’ascoltatore, pur non perdendone una sola nota, ha l’impressione di sentirli risuonare dal di fuori della sala, e tutti i vecchi abbonati… tendevano l’orecchio come se stessero ascoltando il remoto clamore di un esercito che, avanzando nella sua marcia, non avesse ancora svoltato per rue de Trévise”), oltre che uno dei vari motivi stilistici i quali, insieme alla raffinata levigatezza delle frasi, alla ineguagliabile profusione di aggettivi e alla originalissima varietà lessicale, fanno di “Dalla parte di Swann” un caposaldo della letteratura del ‘900, tanto più importante perché non è altro che il primo capitolo di un progetto (“Alla ricerca del tempo perduto”) molto più ampio e composito.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    31 Luglio, 2020
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MISERIA E SPLENDORE NEL BAYOU

“Now, when I was just a little boy
Standin' to my Daddy's knee
My Poppa said "Son, don't let the man get you do what he done to me"
'Cause he'll get you
'Cause he'll get you now, now”
(da “Born on the bayou”, Creedence Clearwater Revival)

Nel suo memoriale del 2013, “Men we reaped” (di prossima pubblicazione in Italia presso l’editore NN), Jesmyn Ward parla del suo fratello minore, ucciso nel 2000 da un autista ubriaco, e di altri quattro ragazzi di colore della sua cittadina natale, DeLisle, morti nello stesso periodo per cause diverse (un omicidio, un’overdose, un suicidio, un incidente automobilistico), ma tutte quante in qualche modo legate alle tristemente note condizioni in cui la popolazione nera vive ancora oggi in America. La Ward, la cui vita per certi aspetti è già un romanzo (lei e la sua famiglia cercarono di sfuggire nel 2005 all’uragano Katrina, ma rimasero incagliati con l’automobile in un campo pieno di trattori, e, quando furono ritrovati, si videro rifiutati l’assistenza e il rifugio dai proprietari bianchi del terreno), ha sempre inserito nei suoi libri temi come la violenza, il razzismo, la povertà. “La linea del sangue”, che chiude la trilogia di Bois Sauvage (ma che in realtà ne è il principio, essendo il romanzo d’esordio della scrittrice), non fa eccezione, raccontando un mondo in cui un giovane di colore trova di fronte a sé, una volta conclusi gli studi, due sole prospettive: un lavoro faticoso e mal pagato come cameriere a un McDonald’s o come scaricatore al porto (se è fortunato) oppure un futuro da piccolo spacciatore o da tossicodipendente (se la fortuna invece non gli arride). Per rappresentare questa tragica alternativa la scrittrice di DeLisle sceglie come protagonisti due gemelli, Joshua e Christophe, una coppia indissolubile fin dalla più tenera età (come il bellissimo prologo evidenzia alla perfezione, con la lirica immagine dei due ragazzi che si tuffano abbracciati, saltando da un ponte nel fiume sottostante) ma che le circostanze della vita si incaricano di dividere crudelmente. Niente di particolarmente originale – si dirà -, la cultura occidentale è piena di storie di fratelli dai destini opposti, da Caino e Abele a “Rocco e i suoi fratelli” alla “Trilogia della città di K.”. A fare da originale sfondo alla vicenda è però questa volta il bayou, una terra poco frequentata dalla letteratura statunitense e che la Ward descrive impressionisticamente, facendo percepire al lettore il calore ubriacante che cuoce le cose e le persone, la polvere argillosa che penetra nelle rughe e nelle narici, il tanfo salmastro delle paludi, il rumore sfrigolante degli insetti, i latrati dei cani randagi, lo strisciare dei serpenti nella macchia, lo scorrere impetuoso delle nuvole nel cielo e l’abbagliante fiammeggiare dei tramonti: una terra ostile e inospitale, spazzata periodicamente da violentissimi uragani (che sembrano rappresentare ipostaticamente la condizione esistenziale dei suoi abitanti), ma che pure (come pensa più volte Christophe, incantato da quel paesaggio primordiale da cui non vorrebbe mai allontanarsi) possiede una strana, inspiegabile bellezza, quella stessa armonia che percepiamo ogni volta che ci accingiamo ad ascoltare i blues aspri e ferrigni di un Howlin’ Wolf o di un Muddy Waters. Non è stata facile la vita per Joshua e Christophe, cresciuti fin dai primi anni dalla nonna materna, in quanto i genitori (la madre allontanatasi da casa per cercare fortuna ad Atlanta, il padre tossicodipendente) sono sempre stati assenti dalle loro vite. Quello delle famiglie disfunzionali è un vero e proprio leitmotiv della trilogia (ricordiamo la famiglia Batiste di “Salvare le ossa”, con la madre che ha lasciato orfani Esch e i suoi fratelli dopo essere morta di parto e il padre violento e prevaricatore, oppure quella di Jojo in “Canta, spirito, canta”, con la madre anaffettiva e con problemi di droga e il padre rinchiuso da tempo in carcere). Nonostante la colpevole assenza dei genitori, i vincoli familiari riescono ugualmente nei romanzi della Ward a ricomporsi e a trovare un nuovo equilibrio, con nonni e fratelli maggiori a fare da padre o da madre (come Randall con il fratellino Junior o Jojo con la piccola Kayla). Ne “La linea del sangue”, nonostante le proteste di Cille (“Eppure quella più importante per loro sono io, sono sangue del mio sangue, figurati se non li conosco, sono io la madre”), è la nonna Ma-mee ad essere la figura affettiva di riferimento. Quando Cille viene in visita a Bois Sauvage per qualche giorno, la Ward architetta una atroce scena familiare in cui la cortesia di facciata e il finto interesse per il futuro dei figli non riescono a nascondere l’egoismo e l’indifferenza della donna (“Ma-mee sentì una corrente d’aria fredda passare tra lei e la figlia […] e avvertì la preoccupazione evaporare dalla voce della figlia come pioggia sul fianco caldo di un cavallo”), la quale se ne sta seduta discosta sul divano, arrotolandosi distrattamente le ciocche dei capelli per vincere l’imbarazzo che grava nella stanza. La figura del padre, il tossico Sandman, che si aggira per le strade di Bois Sauvage come uno spettro lurido e barcollante, è anche peggiore, e la sua inquietante ricomparsa dopo anni di assenza fa addirittura precipitare tragicamente gli eventi. Jesmyn Ward ama però visceralmente i suoi personaggi, e non vuole togliere loro, come forse farebbe la vita nella realtà non romanzata, la speranza. Il mondo è duro, l’esistenza non fa sconti a nessuno, ma Joshua e Christophe sono forniti di una dote fondamentale, la resilienza, che li fa piegare ma mai spezzare del tutto. Nella stupenda e metaforica immagine finale, la Ward li paragona a quei pesciolini che, presi all’amo e ributtati feriti nel fiume, sanno sopravvivere, “danneggiati e scaltri”, alle “cicatrici lasciate dal morso degli ami” per “ricordare la breve permanenza nel deserto rarefatto dell’aria, le labbra che insegnano ai figli l’odore del metallo nell’acqua, il pericolo.”
“La linea del sangue non possiede il ritmo incalzante e la suspense irresistibile di “Salvare le ossa”, e neppure quell’originale e potente commistione di realismo e soprannaturale capace di elevare “Canta, spirito, canta” dalla prosaicità della storia raccontata, eppure è ugualmente un romanzo del tutto maturo e soddisfacente. L’inconfondibile stile della Ward, caratterizzato da una carica metaforica che permette di fondere i personaggi con la natura che li circonda, è già in grado qui di dispiegarsi in tutto il suo lirico splendore. Nelle pagine del romanzo le similitudini e le analogie scaturiscono con una straordinaria immediatezza e spontaneità, come se la sovrabbondanza di odori, suoni e sensazioni del bayou costituisse un motivo irresistibile di ispirazione. Frasi come “Sospirò, e sentì il viso e la voce di sua madre staccarsi e volar via dal suo cervello come il petalo di un fiore” ci fanno credere che la poeticità della Ward non sia frutto (almeno in apparenza) di una complessa ed elaborata costruzione teorica, ma sgorghi semplicemente, naturalmente, senza mediazioni intellettuali, dal paesaggio stesso. E così i nugoli di moscerini ronzano intorno alle teste come aureole, il dolore per la morte del marito è per Ma-mee “un incendio che l’aveva attraversata da capo a piedi, lasciandola annerita e sterile come un tratto di foresta arsa da un fulmine”, la strada all’interno del bayou si snoda “come una vena lungo il corpo del paese”, il dolore che Christophe sente al petto alla vista del padre è “un uccello ingabbiato che sbatteva le ali”, i capelli di Laila sono come un covone di fieno, ascoltare Al Green è “come tuffarsi nel fiume per la prima volta dopo un inverno gelido”, e così via. Jesmyn Ward non arretra neppure di fronte ai simbolismi, correndo consapevolmente il rischio di apparire didascalica: le ferite alle mani che Joshua si è procurato al lavoro assomigliano alle stimmate di un santo, mentre il taglio sulla lingua che Christophe si è inavvertitamente inferto con una lametta mentre cercava di assaggiare della coca sembra connotarlo diabolicamente (la lingua biforcuta del demonio). In realtà, i personaggi della Ward non rimandano ad altri che a se stessi, sono esseri fatti di pelle, di carne, di sangue, e la scrittrice ce li descrive matericamente, con i corpi solcati dal sudore, invasi dal sonno e dalla fatica, eppure sempre protesi a trascendere la loro condizione per proiettarsi nella tenace e innocente speranza di un futuro migliore. Jesmyn Ward, come ho già detto prima, li descrive con affetto, tenerezza e una smisurata empatia, soprattutto senza mai giudicarli, neppure quando commettono dei passi falsi e imboccano, come Christophe, una cattiva strada, conscia che, come diceva il mai abbastanza rimpianto Fabrizio De André in “Khorakhanè”, può essere nella posizione di condannare soltanto “chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”.

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"Salvare le ossa" e "Canta, spirito, canta" di Jesmyn Ward
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    25 Luglio, 2020
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IL TEMPO E LA MEMORIA

“– Gesine, svegliati. Dov’eri? – Indietro di qualche anno.”

365 capitoli, uno per ogni giorno dal 21 agosto 1967 al 20 agosto 1968, 365 capitoli a comporre un anno “dalla vita di Gesine Cresspahl” (come recita il sottotitolo de “I giorni e gli anni”, in originale “Jahrestage”, letteralmente “Gli anniversari”). Chi pensasse che la tetralogia di Uwe Johnson sia una sorta di diario della protagonista cadrebbe però in un clamoroso equivoco, perché la componente diaristica (la descrizione della vita quotidiana di Gesine e di sua figlia Marie a New York), seppur presente, risulta alquanto marginale, rimanendo quasi sempre sullo sfondo. Ne “I giorni e gli anni” c’è infatti molto altro: ci sono i ricordi dell’infanzia e della giovinezza “tedesca” di Gesine e la narrazione (parecchio romanzata) del passato della famiglia di origine, c’è la Storia (la Repubblica di Weimar, l’ascesa del nazismo, la guerra, l’occupazione sovietica) e la cronaca, in attesa di diventare Storia, che trapela dalle pagine del New York Times di cui Gesine è un’assidua lettrice (i disordini razziali, la guerra in Vietnam, gli omicidi di Martin Luther King e di Robert Kennedy, la contestazione giovanile, la Primavera di Praga: il 1968 è stato un anno davvero cruciale nella storia del Novecento!), ci sono le riflessioni filosofico-intellettuali (ad esempio quelle, illuminanti, sulla rimozione collettiva dell’Olocausto) e tanto altro ancora (sogni, dialoghi mentali con i defunti, fantasie infantili, ecc.). “I giorni e gli anni” è un’opera incredibilmente complessa e stratificata, dalle mille sfaccettature, un libro che non è paragonabile a nessun altro, un unicum nella storia della letteratura moderna (ed è probabilmente questa singolarità ad aver fatto sì che Uwe Johnson rimanesse un autore relativamente poco conosciuto al grande pubblico, rispetto ad altri scrittori suoi connazionali, come Gunther Grass o Heinrich Boll). E’ – soprattutto – un capolavoro sul tempo e sulla memoria, come prima di esso solo Proust con la sua “Recherche” è stato in grado di realizzare. Gli andirivieni temporali de “I giorni e gli anni” creano un elaborato ordito, in cui si avverte ad ogni pagina l’orgoglioso, titanico tentativo di restituire il volto del tempo in tutte le sue sfuggenti, impalpabili e “impossibili” sfumature. Ma a differenza di Proust, che medianicamente, era riuscito a resuscitare il passato, integro e intatto grazie all’epifanica capacità dell’opera d’arte di annullare ogni barriera cronologica, in Johnson c’è piuttosto la sconsolante consapevolezza della fallacia della memoria di far rivivere il passato. La memoria cerca sì di riempire con i ricordi il vuoto di ciò che è stato, “di ciò che un tempo fu realtà, sensazione viva, fatto accaduto”, ma invano. I ricordi sono infatti come “lacerti, schegge, spezzoni, filacci che andranno a ricoprire a caso l’immagine depredata e priva del suo contesto, calpesteranno le tracce della scena che si voleva ricostruire, e così siamo ciechi ad occhi aperti. Quel pezzo di passato che ci appartiene perché c’eravamo rimane nascosto dentro a un segreto impenetrabile […], inavvicinabile nel suo gesto di rifiuto, privo di parola e affascinante come un enorme gatto grigio dietro al vetro della finestra, visto da molto in basso come con occhi di bimba”. Il ricordo ha i suoi trucchi (ad esempio, generare da se stesso, magari partendo da un tono di voce, una frase che un personaggio avrebbe potuto dire, e da qui costruire un intero dialogo che magari non si è mai svolto nella realtà, almeno non con quelle parole), ma non è in grado di garantire l’accesso al tempo trascorso; se ogni tanto si accende per qualche istante qualcosa che ci piacerebbe spacciare per passato, questa è solo un’intermittenza del ricordo destinata inesorabilmente a scomparire, senza neppure l’illusione del potere taumaturgico di una parola poetica in grado di compiere il miracolo di fissare per sempre questi evanescenti momenti. Conscio di questa incapacità, Uwe Johnson adotta una sorta di originalissima visione “prismatica”, che cerca di sopperire alla inaffidabilità della memoria: i fatti del passato sono visti da varie angolazioni e punti di vista. Quello di Gesine è solo uno di questi, è al più una “congettura” (non a caso il suo romanzo d’esordio, che cercava di ricostruire “rashomonicamente” la morte di Jakob, un personaggio che ricorre anche ne “I giorni e gli anni”, si intitola “Congetture su Jakob”), perché nella poetica di Johnson a un massimo di realismo corrisponde paradossalmente un massimo di indeterminatezza, alla verità viene pragmaticamente sostituita la verosimiglianza. Siccome i ricordi travisano la realtà, Johnson fa alternare spesso, a volte nella stessa frase, la prima e la terza persona, per separare il punto di vista di chi ha vissuto un’esperienza nel passato da quello di chi la rielabora nel presente (cosa che fa oscillare il romanzo tra immedesimazione soggettiva e distanziazione oggettiva). A proposito delle voci con cui si trova di frequente a parlare nella sua testa (voci di persone defunte, come il padre Heinrich, la madre Lisbeth o Jakob), Gesine coglie bene questo aspetto, quando afferma che “mi sento parlare non soltanto dalla posizione reale del soggetto (nel passato) ma anche dalla prospettiva del soggetto attuale di trentacinque anni. Nell’udire capita anche che la mia propria posizione di ragazzina quattordicenne si scambi con quella di me partner attuale, che però non posso in nessun modo aver rivestito”. Questa situazione si amplifica se si considerano gli avvenimenti che vengono ricostruiti senza neppure averli vissuti (ad esempio gli anni prima della nascita di Gesine o la prigionia di Heinrich Cresspahl), i quali sono sempre passibili dell’accusa di falsificazione (e la figlia Marie assume nei dialoghi sul passato della madre proprio la funzione di mettere criticamente in discussione la verità di quanto rievocato, cercando di trovare nei suoi racconti falle e punti deboli, oppure di svelare quei ricordi che hanno surrettiziamente preso spunto da fatti ben più recenti). E’ significativo che prima di morire Uwe Johnson, la cui opera ha girato sempre intorno agli stessi luoghi e personaggi (oltre al Jakob citato poco innanzi, anche il Karsch de “Il terzo libro su Achim”), stesse pensando a una sorta di romanzo su Heinrich Cresspahl, il padre di Gesine, quasi volesse dare anche a lui la possibilità di dire la sua, dopo quello che la figlia ne aveva raccontato ne “I giorni e gli anni”. L’opera di Uwe Johnson è una costruzione che, quasi fosse una sorta di elaborazione in chiave letteraria del principio di indeterminazione di Heisenberg, più si avvicina realisticamente ai fatti e meno diventa oggettiva. L’ossessione di Gesine per quella che considera “la prova dell’esistenza di questo giorno”, ossia la letteratura quotidiana del New York Times (che lei chiama affettuosamente “zia Times”, dando al giornale le fattezze di una “anziana signora onusta d’anni e di dignità”, che “ha girato il mondo in lungo e in largo” e “ha guardato la vita in faccia”, che sa stare al passo coi tempi e non alza mai la voce, e “non chiama il presidente col nome di battesimo, tutt’al più le vittime di un omicidio”, insomma una affidabile “polena sul vascello della morale”) è forse il tentativo di ancorare la propria vita a una qualche istanza di verità superiore, tentativo peraltro destinato anch’esso al fallimento, dal momento che neppure la cronaca giornalistica del presente è esente da quei problemi di soggettività e di interpretazione che Gesine sperimenta nelle sue elucubrazioni sul passato.
Il problema della memoria si riflette anche nelle considerazioni più propriamente politiche del romanzo. Un esperimento dell’Università di Princeton del secolo scorso era addivenuto alla conclusione che l’uomo tende a dimenticare ciò che è legato ad esperienze spiacevoli, in quanto il dolore e il ricordo sono correlati. Paradossalmente Gesine, la quale soffre dell’incapacità di far rivivere con la memoria il proprio passato personale e familiare, è schiacciato (in quanto tedesca, anche se all’epoca solo una bambina) dalla memoria storica dell’Olocausto, quella “sensazione di incubo, la cieca e inane autodifesa di chi dorme e lotta con qualcosa che nessun risveglio riuscirà a fugare del tutto”. Una colpa inconscia che diventa vergogna quando ci si rende conto di come con gli anni ci sia stata in Germania una vera e propria rimozione collettiva, al punto che, nonostante la “denazificazione” operata dalle potenze vincitrici nel dopoguerra, molti personaggi compromessi con il nazismo siano tornati ugualmente a ricoprire cariche politiche di prestigio. Del resto, il senso di colpa ereditato da Gesine appare del tutto comprensibile alla luce del fatto che la famiglia Papenbrock (cioè i nonni e gli zii di Gesine) è una ipostasi quasi perfetta della società tedesca degli anni trenta che si è resa complice dell’avvento della dittatura: Horst, la SA, l’ingenuo e rozzo nazista della prima ora, viene ben presto soppiantato dal cinico fratello Robert, destinato a diventare un sonderfuhrer in Ucraina durante la guerra, mentre il capofamiglia Albert, facoltoso commerciante agrario, rappresenta l’alta borghesia e l’industria tedesche che si sono illuse di poter utilizzare a proprio vantaggio quella apparentemente innocua masnada di zotici in camicia bruna al seguito di Hitler e che troppo tardi hanno scoperto l’esiziale volto del Terzo Reich. Se il giudizio di Johnson è impietoso anche nei confronti dei sovietici, che nel dopoguerra governano spietatamente per qualche anno la parte orientale della Germania (e i cui campi di concentramento non sono poi molto differenti dagli omologhi lager nazisti), e della R.D.T. comunista, dove la ragione di Stato, o meglio quella di partito, ha la supremazia su tutto, dove a scuola le lezioni di “educazione all’attualità” ottenebrano le menti delle giovani generazioni, dove quello del delatore “è un lavoro come un altro” e – a differenza dei tempi del nazismo in cui vigeva il motto “il nemico ti ascolta” – è l’amico ora a poterti tradire e spedire ai lavori forzati con l’accusa di sabotaggio, di attività controrivoluzionaria, o semplicemente di possesso di letteratura antidemocratica, il giudizio di Johnson – dicevo – non è benevolo neppure nei confronti dell’America, dove solo la libertà di pensiero e di parola riesce a compensare parzialmente la sostanziale iniquità della politica imperialistica e del sistema economico-sociale capitalistico. Hans Magnus Enzensberger aveva avanzato un provocatorio parallelo tra gli Stati Uniti della fine degli anni ’60 e la Germania della metà degli anni ’30, sostenendo che in entrambi i casi c’era una razza svantaggiata e perseguitata, e così come la Germania si era immischiata nella guerra contro la rivoluzione spagnola, così gli U.S.A. avevano fatto in Vietnam (“Il Vietnam è la Spagna della nostra generazione!”). Anche se Uwe Johnson non è mai stato troppo tenero con le posizioni ideologiche del connazionale Enzensberger, non c’è dubbio che la particolare dinamica temporale de “I giorni e gli anni” (quel passare nella stessa pagina da un’epoca all’altra) autorizzi il lettore a convincersi della liceità di una simile correlazione.
“I giorni e gli anni” è una imponente tetralogia di quasi duemila pagine, che Johnson ha impiegato ben quindici anni a realizzare. Se l’opera è sicuramente importante da un punto di vista “intellettuale”, il lettore non è mai privato del piacere popolare della saga familiare. La Jerichow e il Meclemburgo in cui Gesine vive la prima parte della sua vita, così provinciali e appartati, con la sua schietta umanità e il suo dialetto (il “plattdeutsch”, che i traduttori hanno restituito utilizzando il vernacolo toscano, cosa che all’inizio mi ha lasciato un po’ interdetto, ma che successivamente mi è sembrata una scelta tutto sommato appropriata), Jerichow e il Meclemburgo – dicevo – mi hanno ricordato la Schabbach e l’Hunsruch dell’epocale capolavoro cinematografico “Heimat” di Edgar Reitz, un autore che, come Johnson, non ha mai avuto paura di allargare smisuratamente i propri orizzonti, fino a realizzare, tra storia, autobiografia e immaginazione, il ritratto di un mondo e di un’epoca nel suo incessante fluire generazionale. “I giorni e gli anni” alterna tragedie immani e momenti sottilmente satirici (Uwe Johnson amava dire di sé: “Sono un umorista misconosciuto”), riflessioni esistenziali e ritratti umani indimenticabili, spirito saggistico e afflato lirico (i primi tre volumi, ad esempio, iniziano curiosamente con suggestivi incipit che hanno a che fare con l’acqua e con luoghi acquatici: il mare del New Jersey, la piscina di Manhattan e il lago artificiale nello Stato di New York), cronaca giornalistica e pagine di metaforica bellezza (come quando, nel capitolo dedicato ai rumori di New York, le caldaie che vengono accese all’inizio dell’autunno vengono paragonate a un vecchio tossicchiante e catarroso). Da tutto ciò nasce il fascino ambiguo ed obliquo di un’opera strana e spiazzante, che avvince e distanzia allo stesso tempo, che invita il lettore all’immedesimazione e contemporaneamente lo innalza ad altezze tali da renderlo osservatore distante e distaccato degli avvenimenti. Sebbene leggerlo nella sua interezza non sia una impresa da intraprendere alla leggera, “I giorni e gli anni” è uno dei capolavori imprescindibili della letteratura di tutti i tempi, che meriterebbe una fama ben maggiore di quella che la sua mole poco appetibile al lettore contemporaneo da una parte e le esigenze dell’industria editoriale dall’altra (in Italia il terzo e quarto volume, a lungo inediti, sono usciti solo nel 2014 e nel 2016, pubblicati da una piccola casa editrice, “L’Orma”) gli hanno potuto garantire.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Luglio, 2020
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AMORE MALATO

Attenzione: la recensione contiene spoiler!

“L’amore fatale” è costruito secondo la tipica struttura dei romanzi di McEwan: la prima parte, una sorta di prologo, espone l’episodio il quale mette in moto il meccanismo che, nel prosieguo, darà vita alla storia vera e propria, e che con l’episodio originario ha poca o nulla attinenza. Se si prende “Sabato” come termine di confronto si possono così notare straordinarie somiglianze drammaturgiche: qui l’incidente della mongolfiera, là l’aeroplano in fiamme che attraversa il cielo notturno di Londra; qui lo stalking di uno psicopatico nei confronti di Joe, là l’analoga irruzione di un teppista nella tranquilla e ben organizzata vita familiare del protagonista; in entrambi i casi la vicenda trova lo sfogo naturale in una conclusione violenta, in cui l’uomo borghese deve tirare fuori il suo primordiale istinto di combattente per sopravvivere e garantirsi il diritto di poter continuare a godere del suo privilegiato status sociale. Detto questo, rimarcata cioè l’impronta inconfondibilmente alla McEwan de “L’amore fatale”, non posso non sottacere un piccolo senso di delusione per come la trama è stata sviluppata. Il fatto che la storia sia narrata in prima persona dal protagonista, e che le reazioni degli altri personaggi non collimino sempre con le sue, induce ad un certo punto il lettore a una sospensione del giudizio gravida di interessantissimi sviluppi. La persecuzione subita da Joe ad opera di Jed Parry sembra cioè frutto delle proiezioni paranoiche di una mente stressata e alla disperata ricerca di un aiuto. Clarissa, la compagna di Joe, sembra quasi sospettare che le lettere d’amore che egli riceve ogni giorno siano frutto della sua immaginazione, così come gli appostamenti di Jed sotto la sua abitazione. Perfino per il fallito attentato al ristorante c’è una spiegazione che contrasta con le deduzioni del protagonista, dal momento che l’uomo ferito al posto suo è un politico già vittima in passato di un episodio simile. Sembra di essere dalle parti del “Giro di vite” di Henry James, dove una apparentemente plausibile storia di fantasmi (plausibile perché narrata da un personaggio maturo e razionale come la governante) viene pian piano smontata dalle evidenze per rivelarsi una allucinazione psicotica di una personalità disturbata. Purtroppo McEwan non osa tanto, e chiude il romanzo con un finale abbastanza scontato, in cui tutte le paure del protagonista si rivelano fondate e a lui, che invano aveva cercato la protezione della polizia, tocca l’ingrato compito di sbrogliare la matassa (non dissimilmente da ciò a cui è chiamato anche il protagonista di “Sabato”). L’armonia borghese della upper class londinese è salva, e l’intrusione del pericolo esterno è, sia pure a caro prezzo (vedi il ricorso a un’arma da fuoco, il cui acquisto presso una comunità di ex figli dei fiori è forse l’episodio più debole del libro), respinta. L’happy end, pur con condivisibili motivazioni sociologiche e perfino didattiche (il romanzo si chiude con la minuziosa descrizione clinica della sindrome di de Clerambault, della quale Jed Parry si scopre essere affetto), è garantito, ma è troppo facile, per non dire banale, e non ci soddisfa.
Quella che invece è come sempre straordinaria è la maestria della scrittura di Ian McEwan. Si consideri ancora l’incipit: qui l’approccio profondamente razionalista dell’autore sviscera in tutti i suoi minimi aspetti l’episodio di partenza, operando una sorta di “ralenti” narrativo, alla ricerca meticolosa e quasi pedante di quegli invisibili snodi del destino capaci da soli di cambiare per sempre, in un beffardo quanto ineluttabile meccanismo di causa e effetto, le esistenze dei protagonisti. La scrittura di McEwan è un microscopio in cui i comportamenti e le motivazioni dei personaggi vengono analizzati entomologicamente, con estrema precisione psicologica, col risultato di far risaltare la distanza che separa la natura dell’animale uomo da tutte le sovrastrutture morali, culturali e sociali con cui egli ammanta e giustifica le proprie azioni. Anche se il risultato non raggiunge forse la perfezione di “Espiazione”, lo stile è talmente profondo e ricco di considerazioni acute e originali (soprattutto nella descrizione delle oscillazioni nel rapporto tra Joe e Clarissa) da garantire un autentico piacere estetico e da far perdonare volentieri una trama un po’ diseguale e squilibrata, in cui non si riesce purtroppo ad allontanare del tutto la fastidiosa impressione che il romanzo nel suo insieme sia inferiore alle singole parti che lo compongono.

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"Sabato" di Ian McEwan
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    06 Luglio, 2020
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IL MALE INVINCIBILE

Il killer Chigurh è, a vent’anni di distanza da “Meridiano di sangue” e dal suo mellifluo e mefistofelico giudice Holden, l’ennesima incarnazione mccarthyana del male che imperversa nel mondo. Proseguendo nel paragone lo sfortunato protagonista Llewelyn Moss è un po’ il lontano parente del ragazzo che si aggrega alla banda di cacciatori di scalpi del comandante Glanton e che alla fine del romanzo viene ucciso proprio per mano del giudice. C’è però una differenza che salta subito agli occhi confrontando i due romanzi. Mentre la storia di “Meridiano di sangue” era una cronaca fredda e asettica di orrori e crudeltà assortiti e le rare riflessioni religiose erano messe in bocca a comprimari che avevano lo spazio di poche pagine, quella di “Non è un paese per vecchi” ha nel personaggio dello sceriffo Bell un punto di vista privilegiato, dal momento che l’autore affida a lui una nutrita serie di considerazioni etiche e filosofiche, che rendono la morale del libro quella più “spiegata” e “didascalica” di tutta la carriera di McCarthy. Il destino dei personaggi non cambia, il male trionfa per l’ennesima volta e non lascia spazio ad alcuna concreta speranza, però è come se McCarthy, come dimostrerà anche il successivo “La strada”, volesse dar voce a quella parte sana e retta dell’umanità che da qualche parte alligna ancora in America, e non importa se la sua assomiglia più a una senile rievocazione dei bei tempi andati e a una disillusa reprimenda di come le cose negli ultimi anni hanno preso una brutta piega. Quello che differenzia Chigurh e Bell non è, come molti pensano, il fatto che il primo è un pazzo psicopatico e il secondo un uomo saggio ed onesto, tutt’altro. Lo spietato assassino è infatti a suo modo un uomo di principi, che ha addirittura un’etica (ovviamente non condivisibile) relativa al proprio lavoro, che egli non esercita con avidità, slealtà o sadismo, mentre lo sceriffo nel corso della sua esistenza non ha sempre avuto una condotta esemplare (nell’episodio della Seconda Guerra Mondiale che gli è valso una medaglia d’oro egli è in realtà fuggito al nemico abbandonando i compagni feriti). La vera discriminante tra i due è la coscienza: mentre Bell porta sempre con sé il peso e la responsabilità delle proprie azioni, pagando con il rimorso e il senso di colpa i propri sbagli, Chigurh semina sangue e distruzione senza scrupoli né emozioni, come una macchina da guerra. Ciò che rende più umano lo sceriffo lo rende però anche più debole, più vulnerabile, incapace di opporsi al dilagare del male di cui il killer è l’inquietante simbolo. Eppure l’unica speranza per McCarthy (quella che lo scrittore americano non ha voluto negare neppure ai randagi sopravvissuti de “La strada”) consiste proprio nella pietas, nella compassione per i propri simili, e in un’etica che faccia sì che il proprio comportamento e il proprio lavoro venga proiettato in un futuro che trascenda, in un’ottica quasi religiosa, la propria vita, proprio come l’uomo, citato nel finale del romanzo, il quale ha fabbricato, pur in mezzo alle guerre e alle avversità, un abbeveratoio in pietra destinato a durare millenni. Cormac McCarthy resta uno scrittore pessimista, che (anche non volendo avvalorare l’ipotesi che lo sceriffo sia il suo alter ego) non è più disposto a riporre molta fiducia nei suoi contemporanei, eppure i suoi libri la porta alla fiducia nel futuro non la chiudono del tutto, preferendo lasciare aperto, anche in pieno oscurantismo morale – e perfino all’alba di una catastrofe planetaria -, un piccolo ma importantissimo spiraglio.
Concentrando l’attenzione da un punto di vista più squisitamente compositivo, ferma restando la consueta fenomenale naturalezza di McCarthy nella costruzione dei dialoghi e la meticolosa descrizione di ambienti (il deserto soprattutto) ed azioni, si riscontra per la prima volta il ricorso a un genere letterario, il thriller, che promette al lettore una trama molto più appassionante, tra fughe, inseguimenti e sparatorie, di quella orizzontale, erratica e senza una serrata evoluzione degli eventi che hanno caratterizzato tutti i suoi romanzi da “Meridiano di sangue” in poi. L’intento di McCarthy non è però quello di avvincere il lettore con il climax narrativo di un normale libro poliziesco. Esemplare è infatti la sorte di Moss, il quale viene fatto improvvisamente morire (oltretutto fuori scena, si direbbe al cinema) a due terzi del romanzo, mentre Chigurh scompare nel nulla poche pagine più tardi. Per lo scrittore americano lo spunto giallo è quindi solo uno specchio per le allodole, un puro pretesto formale per raccontare, e facendolo molto bene peraltro, il suo solito mondo: che sia ambientato nel 1850 o in un futuro post atomico, è sempre un mondo in via di dissoluzione, in cui all’uomo è assegnato l’immane compito di non perdere, a dispetto di tutte le evidenze, la speranza, di andare avanti “per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo”, per non fare sentire soli quelli che verranno dopo.

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"Meridiano di sangue" di Cormac McCarthy
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    27 Giugno, 2020
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UN ORRORE DIABOLICO

“Quando Dio ha fatto l’uomo doveva avere il diavolo accanto”

Ho percorso la parabola artistica di Cormac McCarthy a ritroso, in quanto dei suoi libri ho letto per primo “La strada”, poi la “Trilogia della frontiera” e infine “Meridiano di sangue”. Da questo approccio anti-cronologico ho potuto evidenziare come l’ultimo McCarthy, per quanto cupo, apocalittico e disperato, è un autore ottimista se paragonato a quello degli esordi. “Meridiano di sangue” è infatti il romanzo più dannatamente atroce che abbia mai letto: quello che McCarthy vi descrive è un mondo maledetto, selvaggio, dominato dalla violenza e dalla sopraffazione, in cui scene di massacri, di omicidi gratuiti e di abiezioni assortite si susseguono con sconcertante assiduità e, soprattutto, senza speranza di redenzione alcuna.
Il protagonista è un ragazzo di 14 anni, che l’autore non chiama mai per nome e che sembra un po’ l’antenato di John Grady e di Billy Parham, i personaggi principali della “Trilogia”. Ma se questi ultimi avevano un codice etico molto preciso e una legge morale incapace di scendere a compromessi, benché – codice e morale – fondamentalmente istintivi e destinati a scontrarsi dolorosamente con la cruda realtà, “il ragazzo” non può a prima vista essere inequivocabilmente considerato un personaggio positivo. Egli scompare per intere pagine, mescolato alla folla di esseri umani che lottano crudelmente per la sopravvivenza per tutte le 340 pagine del libro. Fin da quando egli, poco più che bambino, va via da casa e inizia a peregrinare tra Stati Uniti e Messico non sussistono illusioni di sorta. La vita è una lotta darwiniana per non soccombere, e ciò che più colpisce è che egli la accetti con rassegnazione e apatia, come una cosa ineluttabile a cui non ci si può sottrarre per il semplice fatto di essere nati. Non c’è traccia di psicologia in “Meridiano di sangue”, ma solo bruta animalità, una coazione a ripetere gratuitamente gesti di violenza e a spostarsi senza motivi apparenti per lande ostili e desolate, cosa che è un po’ il tratto caratteristico di tutta la narrativa mccarthyana. Il ragazzo uccide al pari dei suoi compagni della famigerata banda di rinnegati del comandante Glanton (un personaggio, si badi bene, realmente esistito), ma a differenza loro non lo fa mai per bieco sadismo o animalesca crudeltà; quando ha l’occasione di chiudere i conti con il giudice non lo uccide perché si rifiuta di sparargli alle spalle; c’è ancora in lui, fievole ma non spento del tutto, un piccolo barlume di umanità, miracolosamente sopravvissuto ad anni di costante contatto con l’orrore. E’ vero però che opporsi al male non si può, perché il male sembra ontologicamente onnipresente e invincibile. La figura del giudice Holden, uomo enorme in tutti i sensi, diabolico, cinico e senza scrupoli pur nella sua cultura e “savoir faire”, ne è un po’ l’emblema, finendo per diventare il principale deuteragonista.
Il giudice è probabilmente l’invenzione narrativa più notevole di “Meridiano di sangue”. Non è un caso che egli sembri immortale e ubiquo. Il ragazzo lo incontra nelle prime pagine del romanzo, mentre diffama e fa quasi linciare dalla folla un predicatore, lo ritrova nella banda di Glanton, e poi ancora fino agli anni della sua maturità, sempre uguale a se stesso, sia che si aggiri nudo nei notturni bivacchi nel deserto sia che si comporti da cittadino elegante e rispettabile, sempre a suo agio in tutte le situazioni più torbide, mellifluamente amichevole e paternalistico, ma fondamentalmente privo di sentimenti. Con una interpretazione neanche troppo azzardata, il giudice potrebbe essere il diavolo incarnato, e la sua onnipresenza rappresentare l’inevitabilità del male, della violenza e della guerra (la cui necessità egli propugna con appassionata enfasi oratoria). La sua figura è fagocitante, titanica, e il suo contraltare ideale, lo spretato Tobin, il quale cerca di portare il ragazzo dalla sua parte con il velleitario richiamo alla saggezza divina, è troppo debole per sperare di non soccombere nell’impari duello.
“Meridiano di sangue” trae la sua forza dall’essere contemporaneamente sia un romanzo simbolico, che riflette sui grandi temi etici dell’umanità, sia un romanzo estremamente concreto. Delle violenze che il protagonista attraversa al lettore non viene infatti risparmiato nulla. E’ anzi probabile che in nessun altro libro contemporaneo si siano visti tanti cadaveri, di uomini e di animali, e tutto questo con uno stile asciutto e anti-sentimentale, anche quando a morire in maniera atroce ed infamante sono esseri inermi e innocenti come i bambini. Sangue, sudore, odore di polvere da sparo, puzzo di decomposizione: tutto questo è “Meridiano di sangue”, ma anche, come a far da contrappeso, una natura ostica e selvaggia, che scorre inesplicabile e bellissima davanti agli occhi degli uomini, incapaci di coglierne la magnificenza ma anche di sottrarsi al suo enigmatico fascino (di qui la loro ostinazione a rimettersi in viaggio alla prima occasione, non importa per dove o per quanto tempo). E’ un grande privilegio del lettore di McCarthy perdersi con i suoi personaggi per deserti sterminati e montagne impervie, di fronte a tramonti di fuoco o nel mezzo di tempeste terrificanti o ancora nel silenzio di notti stellate trascorse all’addiaccio, sublimando la lentezza e l’apparente ripetitività della narrazione in un’esperienza, spirituale ed esistenziale piuttosto che meramente artistica e letteraria, unica e irripetibile.

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"Trilogia della frontiera" di Cormac McCarthy
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    18 Giugno, 2020
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LA PARANOIA E LA RESISTENZA

Arrivare alla fine delle mille pagine de “L’arcobaleno della gravità” è un’impresa estenuante, quasi epica. Tra i vari “libri-mondo” che hanno segnato la storia della letteratura moderna (“Ulisse”, “Alla ricerca del tempo perduto”, “L’uomo senza qualità”, “Infinite jest”, ecc.) quello di Pynchon è il più ostico, indecifrabile, quello che richiederebbe una continua consultazione di Wikipedia per riuscire a capire tutti i riferimenti storici, artistici, scientifici profusi dall’autore a piene mani. La narrazione di Pynchon è divagante, dispersiva, labirintica: dietro a ogni pagina-porta si aprono innumerevoli ramificazioni che portano lontano dal punto di partenza, costringendo a sovrumani tour-de-force per ritornare mentalmente al dunque. E’ molto difficile trovare un senso compiuto al romanzo, anche perché Pynchon indugia volutamente su un modello di letteratura “bassa”, con una struttura da musical sgangherato (le canzoncine di cui è disseminato il libro, vero e proprio leit motiv pynchoniano), un sottofondo triviale (l’ossessione dei personaggi per il sesso sado-masochistico) e un ritmo da fumetto (Slothrop che fugge in mongolfiera o travestito da maiale), facendo accadere le cose in maniera meccanica e anti-realistica (i provvidenziali e assurdi deus ex-machina che ogni volta tolgono il protagonista dai pasticci). Leggendo però, quasi alla fine del libro, la fantastica storia della lampadina Byron (una lampadina indistruttibile che si mette in testa di organizzare una ribellione di tutte le lampadine del mondo contro il cartello di industrie che ha la pretesa di farle durare non più di 1.000 ore) mi si è (perdonate il brutto gioco di parole) fatta luce su tutto: “L’arcobaleno della gravità” parla infatti dalla prima all’ultima pagina di una cosa molto attuale, e cioè della necessità della resistenza. Resistenza al conformismo, resistenza all’omologazione, al lavaggio del cervello da parte del potere, alla alienazione contemporanea, al falso mito del progresso. Slothrop, e con lui Roger Mexico, Pirata Prentice, Pig Bodine, e tanti altri personaggi ancora, rappresentano, consapevolmente o meno, i granelli di sabbia che mandano in tilt gli oppressivi ingranaggi della Storia. Perché qui non si parla solo di Seconda Guerra Mondiale (peraltro in un’ottica molto originale, quella dell’immediato dopoguerra nel caos assoluto della Zona, ossia la Germania spartita tra le potenze vincitrici), ma anche di Guerra Fredda, di imperialismo, e più in generale di una condizione storica in cui la guerra è sotterraneamente presente nella vita di tutti i giorni anche senza bombe e battaglie. E’ la guerra delle multinazionali, dei cartelli, della globalizzazione, e Pynchon (anziché ricorrere, come l’Orwell di “1984” e il Gilliam di “Brazil”, alla fantascienza per parlare di lotta dell’individuo contro il sistema) la racconta partendo dalle sue origini storiche, come un eroe no-global ante litteram, preveggente come solo un genio può esserlo. Non solo, ma racconta questa guerra senza pedanteria e senza seriosità, anzi con un umorismo anarchico e travolgente memore della lezione dei fratelli Marx, come quando Mexico e Bodine mandano all’aria un pranzo di gala elencando un fantomatico menù fatto di pietanze vomitevoli.
Il romanzo parla ovviamente di tante altre cose ancora: della paranoia, soprattutto, e del razzo, il fantomatico razzo 00000 che tutti i personaggi inseguono ossessivamente come in una rinnovata versione della ricerca del Santo Graal e che riveste una carica simbolica incredibile. L’impressione che si ricava dalla lettura de “L’arcobaleno della gravità” è tuttavia, paradossalmente, una impressione di spreco, di un resto enorme che avanza una volta terminato il ponderosissimo romanzo. Perché dietro ognuna delle centinaia di personaggi che lo affollano c’è una storia a cui Pynchon accenna solo fuggevolmente, ma che potrebbe essere facilmente il centro di un romanzo a sé stante, tanto è grande il potenziale narrativo di ciascuno di essi. Qualcuno (Bodine, Weissman) era già presente in “V.”, qualcun altro ritornerà in altri romanzi, ma l’impressione è che quello di Pynchon sia un universo vergine, inesplorato, a cui si potrebbe attingere nei secoli a venire ogni qual volta si sentisse il bisogno di abbeverarsi alle fonti della Grande Letteratura.

P.S. Vorrei citare solo due delle strabilianti prove virtuosistiche offerte da Pynchon ne “L’arcobaleno della gravità”. La prima è il sogno/fantasia/allucinazione in cui Slothrop si getta a testa in giù nella tazza del gabinetto per inseguire la sua armonica cadutagli dal taschino: è una sequenza programmaticamente sgradevole, eppure stilisticamente esaltante; un brano dall’immaginazione sfrenata, quasi uno stream of consciousness scatologico e surreale. Il secondo è lo strepitoso capitolo (pagg. 171-182) in cui Roger e Jessica si fermano ad ascoltare in una chiesa i vespri dell’Avvento, e la penna di Pynchon inizia a divagare, ispirata come non mai, in una cavalcata sul tema del Natale e della guerra, e del Natale in tempo di guerra (dal tenore giamaicano del coro al recupero dei tubetti di dentifricio, dagli abiti da sposa abbandonati prima di essere indossati ai prigionieri di guerra italiani che lavorano nelle stazioni, dalle navi da crociera abbandonate sulle spiagge alle ragazze del NAAFI incaricate di conservare nelle celle frigorifere gli organi dei soldati morti): questa volta non è un mero esercizio di stile, in quanto in queste pagine si respira veramente il dramma immenso della guerra e l’acuta nostalgia per il tempo di pace e per un periodo della propria vita che è stato scippato e che non tornerà più.

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"V." di Thomas Pynchon
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    06 Giugno, 2020
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VERO COME LA FINZIONE

“Ormai, Quichotte e io non siamo più due esseri diversi, uno creato e l’altro creatore. Ora io sono parte di lui, come lui è parte di me.”

“Don Chisciotte” è generalmente considerato il primo romanzo moderno della letteratura europea, un’opera quindi seminale come poche altre e che, nonostante la sua veneranda età, è periodicamente capace di uscire dai polverosi testi scolastici e di ritornare in auge, in una maniera che potrebbe essere considerata sorprendente, ma in realtà non lo è affatto, se solo si considera quanto il Seicento di Cervantes assomiglia per molti versi a quei periodi di crisi dei valori e di crollo degli ideali che hanno percorso con ricorrente frequenza l’Ottocento e il Novecento, per non parlare poi di quell’epoca di profondo turbamento morale e spirituale che è la nostra, dove molteplici espressioni di illusoria fuga dalla realtà tentano ogni giorno un grandissimo numero di persone le quali trovano probabilmente troppo gravoso portare sulle spalle l’angoscioso fardello del presente. Opera seminale, ed anche opera citata in innumerevoli occasioni, al punto che Pierre Menard, un personaggio del borgesiano “Finzioni”, si impegna addirittura, in un’operazione di infinita e vertiginosa difficoltà, a riscriverla (non semplicemente trascriverla e copiarla, si badi bene), componendo ex novo un “Chisciotte contemporaneo” fino a far coincidere mimeticamente il suo risultato, parola per parola, con il testo originario. Salman Rushdie, tre quarti di secolo dopo Borges, con intenti del tutto diversi ma con analogo spirito postmoderno, ha voluto riprendere in mano a modo suo la storia dell’hidalgo più celebre della storia, trasferendola dalla Mancia secentesca all’America contemporanea. Anziché i romanzi cavallereschi, a ottenebrare la mente del protagonista e a rendergli sempre più confuso il confine tra verità e menzogna c’è questa volta la televisione (“a volte si scopriva incapace di distinguere la realtà dal reality, e aveva cominciato a considerarsi cittadino naturalizzato di quel mondo immaginario al di là dello schermo a cui era così devoto […], come una Dorothy dei giorni nostri che mediti di trasferirsi in pianta stabile a Oz”), mentre la Dulcinea di cui egli si invaghisce e a cui dedica cavallerescamente la propria vita diventa una popolare conduttrice del piccolo schermo. A bordo di una comunissima Chevrolet, che sostituisce Ronzinante, e in compagnia di un Sancho prodigiosamente generato in una notte di stelle cadenti, con la sola forza del suo desiderio e con “la grazia del cosmo”, Quichotte parte alla conquista dell’amata, in una picaresca avventura “on the road” piena di incontri, sorprese e contrattempi, nel corso della quale gli Stati Uniti trumpiani, quelli a noi ahimè ben noti dell’”America first”, rivelano il loro volto più intollerante, facinoroso e razzista. Chi si aspetta una versione 2.0 del “Don Chisciotte” cervantesco rischia però di incorrere in una cocente delusione. Se l’organizzazione formale del romanzo di Rushdie omaggia sotto molti aspetti quella dell’opera originaria (ad esempio, le didascalie presenti all’inizio di ogni capitolo che riassumono in poche parole quello che il lettore andrà a leggere, la moltiplicazione dei narratori, in una struttura a matrioska, a scatole cinesi, comune peraltro a tanti altri romanzi del passato, come il “Manoscritto trovato a Saragozza” di Jan Potocki o il “Frankenstein” di Mary Shelley), man mano che esso procede la vicenda del “cavalier cortese” viene letteralmente soverchiata (e ciò non dovrebbe sorprendere affatto chi conosca un poco il genio fantastico e debordante dello scrittore di Bombay) da un’infinità di altre storie, suggestioni e citazioni. La stessa centralità di Quichotte viene messa in discussione già nel secondo capitolo, quando scopriamo che egli è un’invenzione di Sam Du Champ, alias Fratello, un mediocre scrittore di libri di spionaggio, che decide dopo tanti anni di letteratura commerciale, di scrivere un romanzo in cui riversare le proprie ossessioni e le proprie paranoie. Le storie si duplicano, si ramificano, si confondono come in un vertiginoso ed helzapoppiano gioco di specchi, e gradualmente accanto alla figura di Quichotte, che testardamente, maniacalmente persegue la sua irrealizzabile missione, incurante di ogni avversità, foss’anche l’imminente fine del mondo, fino al punto di sembrare al termine, paradossalmente, il più equilibrato e normale tra tutti, accanto alla sua figura – dicevo – altri personaggi, altri deuteragonisti, dalle molteplici e imprevedibili sfaccettature esistenziali, sgomitano nella testa del loro autore per prendere il sopravvento e catturare irresistibilmente (come in una moderna versione dei “Sei personaggi in cerca di autore” di Pirandello) l’attenzione del lettore. Personalmente sono rimasto affascinato dal personaggio di Sancho: nato come per partenogenesi dalla mente di Quichotte, tal quale Pinocchio dalle mani di Geppetto, tormentato dalla sua condizione di paria (inizialmente è addirittura un essere in bianco e nero, poco più di un ologramma), inevitabilmente incatenato al suo padre-creatore, sua ombra e suo clone (persino “i miei ricordi sono i suoi”), egli è terrorizzato dalla costante, paranoica percezione che ci sia qualcosa di pericolosamente sballato nel mondo (come un qualche errore nello spazio-tempo che fa sì che non si possa neppure essere sicuri di risvegliarsi nello stesso posto in cui ci si è coricati); la sua ostinata ricerca di autonomia e di indipendenza è quasi commovente nel suo adolescenziale candore, e ciò lo rende, pur essendo la più improbabile delle creature, il personaggio più umano e autentico dell’intero romanzo, se non addirittura la sua coscienza critica. Mentre si sforza caparbiamente di “umanizzarsi” (conquistando gradualmente il colore come i personaggi di un vecchio film della fine del secolo scorso, “Pleasantville”), laddove invece Quichotte vuole solo “angelicarsi”, Sancho riflette spesso su chi ci sia dietro il suo creatore, intuendo che dietro ogni autore c’è sempre un altro autore, dietro ogni dio c’è sempre un altro demiurgo; e così, senza darlo apparentemente troppo a vedere, Rushdie passa da Collodi a Borges (la nascita di Sancho e la scoperta della natura fittizia di Quichotte mi ha inevitabilmente richiamato alla mente il suo memorabile racconto “Le rovine circolari”) e di qui alla metafisica e alla teologia, sia pure in forma sarcastica (“Forse lui e io, Dio e io, potremmo capirci, potremmo discutere amabilmente, perché sì, insomma, siamo entrambi immaginari”).
Il pirotecnico virtuosismo stilistico di Rushdie alterna e intreccia ineludibilmente i piani del racconto, fino al punto di arrivare a sospettare che “a volte la storia raccontata la sapeva più lunga di chi la raccontava”. In un paradossale rovesciamento delle parti (alla “Rosa purpurea del Cairo”, per intenderci), il personaggio immaginario acquisisce uno status di realismo addirittura superiore a quello del suo creatore (“Lo stesso Quichotte, se avesse saputo dell’esistenza di Fratello, avrebbe potuto affermare che in realtà era la storia dello scrittore a essere una versione alterata della sua, invece che il contrario, e avrebbe potuto sostenere che la sua vita immaginaria era di certo la narrazione più autentica tra le due”). Nell’Era rushdiana del Tutto-può-succedere, dove un figlio può essere procreato per puro sforzo di volontà e un vecchio idealista un po’ tocco coltivare il sogno di far innamorare di sé l’inavvicinabile regina dei talk show, la fascinosa erede di Oprah Winfrey, i confini tra arte e vita, tra verità e finzione, vengono clamorosamente meno, e si può legittimamente essere posseduti “dalla stolta convinzione secondo cui le fantasie delle persone creative potevano traboccare dai confini delle opere stesse e avevano il potere di entrare nel mondo reale e trasformarlo”. Come nei romanzi di Murakami (ma va detto che Rushdie, nella mia personalissima opinione, sta a Murakami come Umberto Eco sta grosso modo a Dan Brown), al lettore è richiesta una notevole sospensione dell’incredulità. Il realismo “irreale” di Rushdie, con improbabili portali che permettono di accedere a universi paralleli, città “mammuttizzate”, statue e pistole che parlano, non è facilmente digeribile da un lettore che al massimo si aspetterebbe qualche strampalata battaglia di un vecchio pazzo contro l’equivalente moderno di un mulino a vento. No, qui è l’intero mondo a essere deragliato nella follia, il tempo stesso a essere shakespearianamente “uscito dai cardini”. Rushdie si comporta come uno spericolato giocatore d’azzardo, e quando non si accontenta di creare un parallelismo tra Sancho e Pinocchio, ma addirittura fa comparire inopinatamente in scena un grillo parlante italiano e una fata turchina grassa e malvestita, rischia di cadere nel ridicolo più grossolano. Confesso di essermi più volte aspettato da un momento all’altro il crollo rovinoso della pericolante costruzione da lui messa in piedi. Eppure, miracolosamente, alla fine tutto torna, il fantasy più sfrenato trova una sua plausibile quadratura, e le due storie che a lungo procedono parallele riescono alla fine, con un colpo di scena ispirato a un racconto poco noto di Katherine MacLean, a fondersi con inaspettata credibilità.
“Quichotte” è pieno di citazioni, dalla prima all’ultima pagina. L’ossessione del protagonista per Salma R. è paragonata a quella melvilliana di Achab per Moby Dick, l’apocalisse che avanza mentre la conclusione del libro si avvicina è ripresa dal racconto di Arthur C. Clarke “I nove miliardi di nomi di Dio”, il surreale soggiorno nella fantomatica cittadina di Berenger è ispirato a “Il rinoceronte” di Eugene Ionesco (tra l’altro il nome della città è uguale a quello del protagonista della pièce di Ionesco). Rushdie non è un autore spocchioso, che se la tira con il suo sapere enciclopedico. Le sue citazioni coinvolgono tanto la cultura alta quanto quella bassa e popolare, le grandi opere dell’antichità così come i format televisivi, i videogiochi, i film di animazione, e Giasone alla ricerca del Vello d’Oro può benissimo stare a fianco del principe Rama in cerca della sua sposa Sita, e Dante Alighieri accanto a Mario l’Idraulico. Inoltre i suoi innumerevoli riferimenti, che a volte sono dei veri e propri prestiti letterari, non vengono mai occultati cripticamente, ma sono spesso e volentieri svelati, magari in qualche capitolo successivo, a uso e consumo anche del lettore intellettualmente meno smaliziato (un po’ come nella Settimana Enigmistica la soluzione dei rebus e delle sciarade è riportata qualche pagina dopo, a beneficio di coloro che non sono in grado di risolverli con le proprie forze). Rushdie ironizza spesso sulla spazzatura culturale che frastorna i cervelli americani, facendone addirittura il suo bersaglio preferito, ma, proprio come il suo protagonista, che nel suo ascetico cammino di purificazione per rendersi degno dell’amata non disdegna di ispirarsi alle serie televisive più kitsch e corrive, così egli fa largo uso dell’immaginario di Google e di Wikipedia, riconoscendone la pervasiva ineluttabilità nel momento stesso in cui lo rende oggetto di critica.
Cos’è quindi “Quichotte”, alla fine dei conti? E’ sicuramente un’opera che denuncia la crescente disumanizzazione della società contemporanea (stiamo “perdendo la bussola morale per diventare creature uscite da un passato barbarico, preumano, violento e, al contempo, mostri capaci di tormentare il presente umano”), ma è anche un melodramma familiare, una storia d’amore, un romanzo di viaggio, un racconto di formazione, una satira di costume. E’ un romanzo che, mettendo il realismo molto, molto sullo sfondo, adotta i meccanismi narrativi della favola, del fantasy, della sci-fi e persino della spy story, in un pastiche assolutamente originale e sorprendente. In questa proliferazione di storie, “la vera storia è che non c’è più alcuna storia vera”. Allora, forse, il realismo “irreale” e fantasmagorico di Rushdie può diventare l’unico modo rimasto, ai nostri giorni, per riuscire a decifrare questa nostra realtà “disintegrata”, consapevoli che “il surreale e persino l’assurdo possono oggi come oggi offrire gli elementi più adatti a descrivere la vita reale”. Ho parlato di pastiche poc’anzi, e difatti “Quichotte” è un’opera annoverabile a pieno titolo nel postmodernismo. Come altri autori postmoderni prima di lui (penso soprattutto al Pynchon di “V”, con le sue didascalie all’inizio di ogni capitolo, e a quello di “Mason & Dixon”, con il suo uso dei sostantivi con la maiuscola, come nelle edizioni originali di Jonathan Swift), Rushdie adotta alcuni degli stilemi dei romanzi del ‘700 e dell’800, ma poi li rovescia con una visione fortemente meta-narrativa. “Quichotte” è infatti, nel suo già citato saltare da un piano all’altro della narrazione, una profonda riflessione sul lavoro dello scrittore e sul rapporto dell’autore con le sue creazioni. Per Fratello l’invenzione romanzesca è, sotto la sua superficie, un inconscio processo di espiazione delle colpe del passato, di elaborazione dei rimpianti e di sublimazione dei desideri inappagati, un modo per realizzare attraverso la fantasia i sogni impossibili e pacificare la propria coscienza. Non deve sorprendere pertanto che “il mondo che Fratello aveva inventato si era trasformato in realtà”, perché lui è Quichotte, lo era già prima di immaginarlo, e mentre con il procedere del romanzo si delinea pian piano il destino del personaggio e dell’universo che lo circonda, in modo speculare l’autore impara a decifrare se stesso (“Forse questa storia bizzarra era una versione trasfigurata della sua”). Rushdie fa coincidere la fine del mondo con la fine del suo libro (“Il mondo non ha altro scopo che la conclusione del tuo libro. Quando l’avrai finito, le stelle cominceranno a spegnersi”) e, narcisisticamente, si pone nella posizione di quei monaci che credono che l’universo avrà raggiunto il suo obiettivo e smetterà di esistere quando il supercomputer installato nel loro monastero avrà contato tutti i nove miliardi di nomi di Dio. La morte di Don Chisciotte di Cervantes (che è anche, e soprattutto, la morte delle illusioni e della capacità di nutrire nobili ideali) si trasforma così nella morte dell’autore moderno (e del sogno impossibile di Quichotte e di Salma). Potrebbe essere, per Salman Rushdie, un’opera-testamento perfetta con cui uscire di scena, anche se, egoisticamente, non ce lo auguriamo davvero. Trentotto anni dopo la dissoluzione di Saleem Sinai in una miriade di pezzi simboleggianti la nazione indiana, Rushdie chiude infatti alla perfezione il cerchio raccontando, con la sua solita vena sarcastica e grottesca, ma anche con un pessimismo inedito, la inarrestabile e sconvolgente disintegrazione del mondo, come se tutto ormai sia già stato detto o, il che è in fondo lo stesso, sia impossibile dirlo altrimenti, con parole nuove.

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"Giles ragazzo-capra" di John Barth
"1Q84" di Haruki Murakami
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Mag, 2020
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LA TRILOGIA DI McCARTHY, UN WESTERN KANTIANO

Se un libro dell’ultimo quarto di secolo può vantare il diritto di essere considerato un classico della letteratura questo è senz’altro la “Trilogia della frontiera” di Cormac McCarthy. Fatto di rudi amicizie virili, cavalcate solitarie e bivacchi sotto le stelle, deserti polverosi e montagne innevate, villaggi abbandonati e (rare) sparatorie, è un western crepuscolare clamorosamente fuori tempo massimo (ambientato com’è negli anni intorno alla Seconda Guerra Mondiale), eppure assomiglia a certi epici film di John Ford, innervato in più da sorprendenti squarci onirici e folgoranti riflessioni metafisiche. E’ composto da tre romanzi autonomi, ma profondamente interrelati per via del fatto che i protagonisti dei primi due (John Grady e Billy Parham) si ritrovano entrambi nell’ultimo tomo (*). Il tema portante della trilogia è sicuramente l’attraversamento di quella “linea d’ombra” che separa conradianamente l’adolescenza dalla maturità: in “Cavalli selvaggi” John Grady e l’amico Lacey Rawlins fuggono dal presente senza speranza con lo scopo di inseguire “romanticamente”, lungo le stesse piste che percorrevano le tribù indiane molti decenni prima, una vita nobile e indipendente, costruita con le proprie forze e capacità (che è poi né più né meno che il sempiterno mito del “self made man” americano), oltre la frontiera che divide il Texas dal Messico; in “Oltre il confine” (in cui l’attraversamento della frontiera è prefigurato già nel titolo) Billy Parham si reca invece in Messico una prima volta per restituire al suo mondo una lupa catturata vicino al ranch del padre, successivamente insieme al fratello Boyd per ritrovare i cavalli rubati alla sua famiglia e infine per riportare in terra americana le spoglie del fratello morto. Entrambi, John e Billy hanno diciassette anni (anche se le vicende del secondo romanzo si svolgono alcuni anni prima), e non è un caso che McCarthy abbia scelto come protagonisti dei suoi romanzi due adolescenti. In un mondo profondamente tragico qual è quello della “Trilogia”, sono loro, i giovani, che la durezza della vita non ha ancora reso ottusi e insensibili, ad avere l’impegnativo onere di portare avanti un percorso di formazione che passa inevitabilmente per l’abbandono della casa natia e della famiglia e l’esplorazione di un ambiente selvaggio e ostile, in cui a una natura grandiosa e magnifica seppur spietata si contrappone la società degli uomini, crudele e spregiudicata anche se capace a volte di slanci di insospettata umanità.
L’universo di McCarthy è decisamente manicheo: in ballo ci sono sempre e comunque il Bene e il Male, senza sfumature e senza ambiguità. John e Billy non sono nati per essere paladini del Bene, ma sono costretti a diventarlo per non volere accettare il compromesso di tollerare il Male. McCarthy sceglie di collocare geograficamente il Male nel Messico, ma è chiaro che non c’è nessun intento sciovinistico in lui, in quanto il Messico è, prima ancora che un luogo geografico, un’entità simbolica, emblema di quello che nelle favole dell’infanzia era il bosco lontano da casa, ricco di attrattive ingannevoli e di pericoli fatali, e che qui è l’arena in cui guadagnarsi, attraverso lutti e sofferenze, cicatrici nel corpo e soprattutto nell’anima, il difficile diritto di considerarsi uomini. Questa lotta, eterna e ontologica, tra Bene e Male è melvillianamente rappresentata, in “Città della pianura”, nel duello all’ultimo sangue tra John Grady ed Eduardo, e non è un caso che lo scontro non lasci sopravvissuti: contro il Male non si può infatti uscire vincitori, ma alle sfide contro il Male non ci si può nondimeno sottrarre, pena la disumanizzazione, la corruzione morale o l’atarassia dei sentimenti.
Ecco che allora il destino degli uomini è quello di convivere con il dolore, inevitabile e insopprimibile, come ben sanno i poveri abitanti del Messico che John e Billy incontrano lungo le loro peregrinazioni, oppressi oltre ogni immaginazione dalle soverchierie e dalle violenze di soldati, guardie, latifondisti e banditi, eppure sempre pronti a dividere il loro scarsissimo cibo con i due forestieri o ad aiutarli con abnegazione ad uscire dalle difficoltà anche a rischio della loro stessa vita (come i contadini che aiutano Boyd ferito a sfuggire agli inseguitori). Il popolo messicano è un’entità manzoniana, umiliato, calpestato e sofferente eppure dignitoso nella sua miseria. Ma, a differenza che in Manzoni, nel mondo di McCarthy Dio, se pure esiste, è lontano, nascosto, un fantasma che aleggia in controluce. Non è su di lui che i suoi personaggi possono fare affidamento, ma tutt’al più sulla oscura e indecifrabile legge morale che essi hanno scolpita nei loro cuori, labile traccia di una lontana nostalgia di divino. I protagonisti di McCarthy sono in fondo mossi da quello che Kant ha definito “imperativo categorico”. Aiutare una persona incontrata per strada (il ragazzo di “Cavalli selvaggi”, la giovane messicana di “Oltre il confine”), così come restituire mezzo dollaro ricevuto in prestito molto tempo prima, diventano un dovere imprescindibile, senza che le conseguenze dell’atto possano assumere rilevanza nella decisione da intraprendere. In questo senso i romanzi di McCarthy sono intrinsecamente filosofici (o religiosi), senza che l’autore si allontani mai da una narrazione “terra terra”, fatta di fatica, sudore, polvere e sporcizia. Scrive Baricco che “la musica di McCarthy suona una sola canzone e sempre quella. Racconta di gente che con pazienza infinita cerca di rimettere a posto il mondo. Di riportare le cose dove dovrebbero stare. Di correggere le impurità del destino. Che sia una lupa, o dei cavalli rubati, o un cadavere, o un bambino perduto: quello che fanno è cercare di riportarli al loro posto. E non c’è spazio per la ragionevolezza o il buon senso: è un istinto che non conosce limiti, un’ossessione incurabile. Se occorre la violenza, si usa la violenza. Se bisogna morire, si muore. Con la ferocia e l’ottusa determinazione di un giudice che deve riequilibrare i torti della sorte, gli eroi di McCarthy vivono per ricomporre il quadro sfigurato del mondo.” “Non è sempre una buona idea fare quello che si può fare” dice Billy al fratello Boyd, però l’adesione istintiva e disinteressata a un codice morale fa sì che i personaggi di McCarthy lo facciano sempre, anche arrecando a loro stessi un danno o uno svantaggio. E’ questo codice morale che essi rispettano ostinatamente, pur vivendo in un mondo spietato che non concede nulla ai buoni e agli onesti, a essere il “messaggio nella bottiglia” lasciato dallo scrittore alle generazioni future: un flebile raggio di luce e di speranza nell’oscurità più buia e spaventosa.
Qual è allora il senso dell’esistenza per i personaggi di McCarthy? Quello che lo scrittore sembra suggerirci è che l’uomo per realizzare se stesso deve perseguire caparbiamente uno scopo la cui finalità ultima gli sfugge ma a cui non può sottrarsi (come ad esempio accompagnare una lupa al di là del confine per restituirle la libertà o sposare una prostituta intravista in un bordello messicano). Lui non capirà mai a cosa serve il suo adoperarsi per correggere le ingiustizie che la vita e il destino disseminano lungo il suo percorso, saprà solo che dovrà farlo senza guardare alle sue conseguenze pratiche, anche a costo di soffrire e perdere tutto ciò che ha di più caro. Il senso della vita va oltre quella vita, sarà trasmesso a qualcun altro, non si sa chi né quando (penso ad esempio al padre e al figlio de “La strada”, che vagano in un mondo desolato e apparentemente privo di umanità, non solo per sopravvivere a qualsiasi costo, ma per portare avanti, insensatamente, un ultimo barlume di umanità). Se è il prete che il Billy di “Oltre il confine” incontra nella città abbandonata ad aver ricevuto dall’anacoreta il senso della sua folle ricerca e a sua volta trasmette al protagonista il testimone della propria esperienza col suo lunghissimo racconto, allo stesso modo i personaggi di McCarthy vagano apparentemente senza meta per i paesaggi desertici e senza tempo della frontiera per potere a loro volta (anche se a loro insaputa) trasmettere il senso ultimo della vita. Al lettore è concesso questo privilegio, di poter discernere, in mezzo a una prosa scarna ed essenziale, apparentemente meccanica e ripetitiva, preziose e folgoranti gemme di filosofia e addirittura di metafisica.
Arriviamo qui a parlare del particolarissimo stile di Cormac McCarthy. Nei suoi romanzi non c’è traccia di psicologia, dei suoi personaggi non conosciamo mai i loro pensieri, ma solo le (poche) parole che pronunciano e i gesti che compiono. Eppure essi si imprimono indelebilmente nella nostra mente, fino a diventare nostri preziosi compagni di viaggio. Come fa McCarthy a realizzare questo miracolo? Il segreto di McCarthy è il “tempo narrativo”. Lo scrittore americano inventa un tempo tutto suo per raccontare le vicende di John e Billy, un tempo dilatato, ripetitivo, spesso e volentieri non essenziale (quanti tempi morti!), apparentemente noioso, eppure alla fine così essenziale e necessario da far riconoscere che simili storie potevano essere raccontate solamente così e in nessun altro modo. Prendiamo ad esempio il lungo viaggio di Billy con la lupa ferita: sono decine e decine di pagine di minimi gesti quotidiani, di avvenimenti banali, di osservazioni incolori, eppure in quelle pagine, impercettibilmente, il rapporto tra il ragazzo e l’animale lentamente cambia, evolve, si trasforma, e alla fine scopriamo che quanto abbiamo letto, apparentemente dimesso e prosaico, è di una poesia e di una delicatezza commoventi. Anche la natura che circonda i protagonisti, in apparenza sempre uguale nei suoi avvicendamenti stagionali e meteorologici, in realtà regala a distanza di tanto tempo ricordi unici e indimenticabili (come gli aironi intravisti da Billy in un campo allagato nel Messico, “grigie figure allineate l’una accanto all’altra come monaci incappucciati in preghiera”), fino a diventare essa stessa protagonista, senza prepotenza, ma con la forza incomprimibile di una presenza muta e costante.
McCarthy sembra non fare nulla per appassionare il lettore: la mattina del giorno in cui Billy trova la lupa ferita e si allontana con essa alla volta del Messico scrive che “uscì dal cancello ancor prima che il padre si alzasse e non lo vide mai più”, e lo stesso accade prima dell’ultimo incontro di John con Magdalena. A lui non interessa avvincere il lettore con la suspense o altre strategie abusate, anzi ci tiene a sottolineare che in fondo tutto è già stato determinato in anticipo, che la fine è già nota, e non può esserci alcun colpo di scena, e men che meno alcun lieto fine. Il determinismo di McCarthy è profondamente tragico (se concede a John e Rawlins una parentesi idilliaca in un ranch messicano è solo per farli sprofondare subito dopo nell’inferno della più bieca e sordida lotta per la sopravvivenza in un carcere messicano). Nonostante ciò, pur sapendo come va a finire, speriamo ugualmente, a dispetto di ogni evidenza, che l’amore e la giustizia trionfino, e che la giovane prostituta messicana riesca a sfuggire alla schiavitù del suo aguzzino. Se lo facciamo è perché non riusciamo a rassegnarci, come in fondo dev’essere, alla vittoria del Male, ma McCarthy non gioca sporco, non fa trucchi, non usa la suspense e il melodramma come facili espedienti narrativi, non è mai consolatorio. McCarthy è talmente grande che sembra che parli a ognuno di noi personalmente, che ci racconti la vita come essa veramente è, senza eufemismi e senza abbellimenti posticci. Così la narrazione può trascorrere sonnacchiosamente grigia e dimessa per decine di pagine per poi magari accendersi in momenti di lancinante drammaticità e di pregnante violenza; oppure i dialoghi essere a lungo poco più di monosillabi, o addirittura scritti in spagnolo, e poi di colpo diventare fluviali racconti (* *), i quali possono essere un compendio della storia messicana meglio di un libro di storia, o soffermarsi sul concetto di verità come un volume di filosofia, o rievocare picaresche avventure alla Alvaro Mutis (come nella storia narrata dal bizzarro gruppo di zingari che vagano trascinandosi dietro il relitto di un aeroplano).
La “Trilogia della frontiera” non arriverebbe però a essere un libro così bello e struggente e triste (e tante altre cose ancora, ma soprattutto triste, infinitamente triste), se alla base non ci fosse una profondissima fede nell’uomo (e anche in ogni creatura vivente, come si intuisce dal ruolo che nel romanzo hanno cavalli, lupi e cani, e che richiederebbe un saggio a parte). McCarthy è un autentico umanista, uno degli ultimi grandi umanisti della nostra epoca, che ha il coraggio, dostojevskijano oserei dire, di non ritrarsi di fronte alle inestricabili ambiguità dell’esistenza, e soprattutto il merito di credere che “ogni uomo è più di ciò che lui ritiene di essere”.

(*) E’ illuminante che già nel secondo libro una zingara legga la mano a Billy e gli dica che lui ha due fratelli e che avrà una vita lunga ma dolorosa, con ciò anticipando il rapporto fraterno che verrà instaurato nel romanzo successivo con John Grady e la sua sorte di vecchio cowboy che continua nelle ultime pagine a vagabondare senza una meta per le strade dell’America.

(* *) I racconti che i protagonisti ascoltano da altri personaggi (la zia dell’hacendado, il prete del villaggio abbandonato, il vecchio cieco, ecc.) hanno la funzione sia di intercalare il loro monotono e indefesso peregrinare, quasi sospensioni oniriche di una realtà fin troppo materiale, pause affabulatorie di un mondo che all’apparenza si nega alla narrazione, sia di rimarcare la crudeltà e la cattiveria, direi quasi ontologica e senza speranza, dell’esistenza, in cui le sofferenze dei giovani protagonisti trovano un’eco e un’anticipazione in quelle dei loro interlocutori.

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"Meridiano di sangue" di Cormac McCarthy
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Mag, 2020
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ALL'INSEGUIMENTO DI UN EMBLEMATICO MISTERO

“Dentro V., dentro di lei, c’è molto più di quanto nessuno abbia mai sospettato. Il problema non è tanto sapere ‘chi’ è, ma ‘che cosa’. Che cos’è? Dio non voglia che io sia mai chiamato a fornire questa risposta”

Sgombriamo subito il campo da un equivoco: anche se difficilissimo da trovare, esiste, all’interno delle sue innumerevoli trame e sottotrame e dei suoi continui salti temporali, un significato, un trait-d’union nel romanzo di esordio di Thomas Pynchon. Non sto parlando soltanto del fantomatico personaggio di V. che dà il titolo all’opera, ma di un senso unificante, di una morale in grado di definirla e di valorizzarla. Ma andiamo con ordine, partendo dalla trama, che è effettivamente ingarbugliata oltre ogni dire e che si cristallizza intorno a due personaggi principali, Benny Profane ed Herbert Stencil. Il secondo, un avventuriero inglese di mezza età, è colui che si imbarca nella strampalata ricerca di V., un nome trovato per caso nella corrispondenza del padre defunto, e fa di questa ricerca lo scopo stesso della sua vita. Stencil, che parla bizzarramente di sé usando la terza persona, approda a New York e qui congiunge le sue vicende a quelle di Profane, l’anti-eroe del romanzo, uno schlemiel che si lascia vivere senza alcun progetto esistenziale, tra risse, sbronze, domicili irregolari e rapporti (anche sentimentali) casuali e svogliati (non a caso viene presentato dall’autore dicendo di lui che fa lo yo-yo, una pratica che consiste nel sedersi in un convoglio della metropolitana e fare su e giù, da un capolinea all’altro, senza mai scendere). Se Stencil è il massimo della concentrazione, della determinazione a perseguire un obiettivo, per quanto folle esso sia, è il suo opposto, Profane, il vagabondo, il border line, a dettare i tempi e a dare il tono al romanzo, che risulta essere svagato, errabondo, centrifugo. Tanti sono infatti i personaggi che circondano i due protagonisti, sia nella parte contemporanea (Paola Maijstral, Rachel Owlglass, Esther Harvitz e il resto della Banda dei Morbosi, il chirurgo estetico Schoenmaker, il dentista Eigenvalue, il musicista jazz McClinton Spere, il marinaio Pig Bodine) sia, ancor di più, nei flashback ambientati, non però in questo ordine, nel 1898 in Egitto, nel 1899 a Firenze, nel 1913 a Parigi, nel 1919 a Malta, nel 1922 in Namibia e negli anni della Seconda Guerra Mondiale a Malta. Alcune figure ricorrono più volte nelle varie epoche (Stencil padre, i due Godolphin, Maijstral, padre Fairing), trasformando il libro in una sorta di puzzle, di cui V. costituisce l’unico elemento unificante. C’è di che perdere la testa per star dietro a tutte le tracce seminate da Pynchon con l’apparente scopo di confondere il lettore, ma l’impresa non è impossibile. Bisogna anzitutto leggere “V.” come un mix tra romanzo ottocentesco (le didascalie presenti all’inizio di ogni capitolo sono indicative al riguardo) e romanzo post-moderno (il gusto per il pastiche, l’alternanza di registri, il polistilismo), cercando di metabolizzare l’intenzionale dispersione del racconto, la struttura spesso a scatole cinesi (si pensi ad esempio al capitolo di Mondaugen, all’interno del quale si inserisce, come un racconto a se stante, la rievocazione da parte di un secondo personaggio dello sterminio della tribù degli herero; oppure la scena in cui Profane sta cercando di impedire che Pig violenti Paola, ricordandogli di essere in credito con lui per avergli salvato la vita anni prima quando entrambi erano in marina, a cui segue la lunga rievocazione dell’episodio e dei suoi antefatti). A questo effetto-matrioska, si devono aggiungere tutti gli episodi assolutamente superflui (uno per tutti, la visita di Profane all’appartamento dei suoi genitori, che in quel momento si trovano fuori casa), gli innumerevoli personaggi che vivono solo per qualche riga e che poi ritornano nel buio da cui sono spuntati (l’inventore di un bordello a gettoni che festeggia la sua settantaduesima invenzione respintagli dall’ufficio brevetti; il musicologo che ha dedicato tutta la vita alla ricerca del fantomatico concerto per kazoo di Antonio Vivaldi, il monaco che passa il tempo allevando scorpioni giganti, ecc.) e gli altrettanto numerosi aneddoti e singolarità di cui sono costellate le quasi seicento pagine del romanzo (la storia di padre Fairing, che si era messo in testa di convertire i topi di New York andando a vivere e a predicare nelle fogne della città, la caccia agli alligatori albini nelle fogne di New York, che riprende una diffusa leggenda metropolitana, l’espressionismo catatonico di Slab, che dipinge formaggi danesi come Warhol le bottiglie di Coca Cola, la psicodonzia di Eigenvalue, ecc.). Il talento enciclopedico di Pynchon si sbizzarrisce senza freni inibitori, attirato dalle stranezze, dalle pieghe inesplorate della Storia, dalle coincidenze e da una perversa logica per cui “tutto si tiene” e quindi tutto (ma proprio tutto!) può diventare materia di romanzo, in una visione onnicomprensiva che decenni più tardi è diventata il marchio di fabbrica di uno scrittore come David Foster Wallace. E’ necessario pertanto fare la tara di tutte le digressioni e di tutte le estemporaneità dell’opera per riuscire a filtrare il suo nucleo centrale. E in questo nucleo l’identità di V. è forse la cosa meno misteriosa. V. è infatti una donna che scopriamo quindicenne in Egitto e a Firenze con il nome di Victoria Wren, e poi via via a Parigi, La Valletta, Namibia con i nomi di Veronica Manganese o Vera Meroving, fino a ritrovarla nelle sembianze del Prete Cattivo a Malta quasi mezzo secolo dopo. A fare da trait-d’union tra le varie V. ci sono un pettine d’avorio che raffigura i volti di cinque uomini crocifissi e un occhio finto che nasconde al suo interno nientemeno che un orologio a molla. Quello che è davvero misterioso, e che non viene del tutto svelato, non è tanto se essa sia o meno (come viene fatto intuire nelle ultime pagine) la madre di Herbert Stencil (o addirittura la madre di Fausto Majistral e la nonna di Paula), ma cosa sta dietro a V. e ai personaggi che le ruotano attorno. In questo senso V. è un’entità molto più emblematica ed astratta di quanto appaia a prima vista. Dove c’è lei, per qualche oscuro motivo, si agitano turbolente le acque della Storia, vera o inventata: la crisi di Fashoda in Egitto, l’insurrezione di rivoltosi venezuelani a Firenze, i moti di marzo a Malta, la rivolta delle tribù del Sud-Est africano contro il dominio coloniale tedesco, i bombardamenti dell’Asse a Malta, il tutto legato da un filo conduttore rappresentato da una ipotetica cospirazione universale cui non è estranea l’immaginaria terra di Vheissu scoperta dall’esploratore Godolphin. E’ qui che si gioca la credibilità narrativa di Pynchon: c’è un nesso autentico che lega tra loro i vari personaggi del romanzo e i suoi episodi storici e pseudo-storici, oppure in fondo a tutto si può solo scorgere la vena beffarda dell’autore, capace di far balenare scampoli di trame avvincenti come in un romanzo spionistico o di avventura o ancora di horror alla Edgar Allan Poe, per poi lasciare il lettore con un palmo di naso e non portare alcunché a compimento? Il dubbio a mio avviso si scioglie se si pensa che tutto il romanzo è pervaso dall’inquietante e minacciosa presenza del mondo inanimato. E’ soprattutto Profane, lo schlemiel, ad essere in perenne lotta con le cose, che lo ossessionano e perseguitano senza tregua (ad esempio, perde il posto di lavoro perché la sveglia, pur essendo caricata, non suona all’ora dovuta). Per Profane, quanto mai inadeguato a vivere nel tecnologico mondo contemporaneo, appare legittimo domandarsi se esiste la possibilità che, quando si è al telefono, le parole cambino di senso mentre percorrono i cavi sotterranei. Ed è sempre lui a intrattenere paradossali dialoghi esistenziali con i manichini del centro in cui lavora durante i suoi turni da guardiano notturno. Ma il mondo inanimato si incarna in diverse altre sfaccettature nel corso del romanzo. Esther si fa operare al naso dal dottor Schoenmaker, che vorrebbe andare oltre e manipolarla come farebbe uno scultore con un blocco di marmo per tirare fuori la vera essenza della ragazza; Melanie, l’oggetto parigino del desiderio di V., sogna di essere un automa e che un uomo le infili una chiave tra le scapole per farla funzionare; e in una sorta di manichino si trasforma la stessa V. che, nelle sembianze maschili di un prete, viene letteralmente “smontata” da una banda di bambini dopo essere rimasta ferita nel corso di un furioso bombardamento aereo. Il grosso rischio che corre l’umanità contemporanea, sembra voler dire Pynchon, è la sua progressiva disumanizzazione, la sua reificazione, la sua riduzione a cosa tra le cose. E’ questa forse la fantomatica cospirazione universale che si paventa in “V.”, e che trova in quell’Eldorado immaginario che è Vheissu un simbolico e utopico contraltare di primitiva e genuina purezza. Sotto questo aspetto, lungi dall’apparire vacuo e disimpegnato, Pynchon risulta essere un autore addirittura “politico”, in quanto “V.” mette in scena, sia pure in forma quanto mai criptica, un’appassionata difesa della naturalità dell’uomo contro l’oppressivo e alienante dilagare della tecnologia, oltre a mettere alla berlina, attraverso la descrizione di pagine dimenticate della storia mondiale del XX secolo (come lo sterminio della tribù africana degli herero, una sorta di prefigurazione dell’Olocausto), la violenza insita nella politica e nella diplomazia delle grandi potenze per cercare di accaparrarsi il dominio del mondo.

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"Infinite jest" di David Foster Wallace
"Le perizie" di William Gaddis"
"L'arcobaleno della gravità" di Thomas Pynchon
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    05 Mag, 2020
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HERZOG CONTRO TUTTI

Saul Bellow è un po’ come Italo Svevo: nei suoi romanzi, pur in varie forme e declinazioni, ha sempre dato vita a personaggi che ben si potrebbero definire “inetti a vivere”. E il suo “inetto a vivere” più famoso e riuscito è sicuramente Moses Elkanah Herzog. Apparentemente Herzog è una figura, se non proprio di successo, discretamente inserita nella società: intellettuale, accademico, scrittore, due matrimoni – pur sfortunati – alle spalle, una giovane e sensuale amante che lo vorrebbe portare sull’altare per la terza volta, una famiglia solida alle spalle, un tenore di vita discretamente agiato. Bellow coglie però Herzog in un momento di passaggio, di crisi, quando cioè sta annaspando disperatamente per non sprofondare nel baratro dopo il tempestoso divorzio dalla seconda moglie Madeleine. Herzog è difatti un uomo solo apparentemente granitico, tutto d’un pezzo, affidabile e razionale; in realtà la distruttiva esperienza della separazione lo sgretola e disgrega a poco a poco. Oltre che un uomo di pensiero e di lettere, Herzog è infatti anche un sentimentale, un romantico, un idealista, e Bellow sembra dirci che quando mente e cuore entrano in collisione l’esito è particolarmente infausto: sofferenza, vulnerabilità, dissoluzione morale e persino follia. Bellow segue il suo protagonista passo passo nel suo calvario e, pur usando la terza persona, in sostanza tiene sempre in primissimo piano le sue azioni, i suoi pensieri e le sue lettere. Sì, perché nel suo itinerario di progressiva alienazione dalla realtà Herzog diventa un accanito grafomane, o meglio un “epistolomane”, riempiendo ogni momento della sua esistenza di missive indirizzate a personaggi a lui vicini, ma spesso anche a persone ormai defunte o addirittura a uomini illustri del passato come Spinoza o Nietzsche; lettere che ovviamente non vengono mai spedite, e spesso neanche scritte, perché quando non ha carta e penna sotto mano Herzog immagina semplicemente di scrivere (“Lui sapeva che il suo scribacchiare, la sua epistolomania erano ridicoli. Erano involontari. Le sue eccentricità lo avevano in pugno. C’è qualcuno dentro di me. Sono in suo potere. Quando ne parlo, me lo sento dentro il cervello che batte perché vuole ordine.”). La sua mania diventa nello stesso tempo il tentativo di ristabilire un ordine alla propria vita e il segno più tangibile della sua pazzia: più l’equilibrio psichico vacilla, maggiore è la tentazione di rifugiarsi nella sua corrispondenza immaginaria. La personalità di Herzog è comunque estremamente complessa, e non riducibile solo a quella di un intellettuale un po’ “picchiato”. La sofferenza interiore di Herzog è infatti fonte di un indicibile disagio, ma è altrettanto vero che egli sotto sotto se ne compiace, come se il dolore gli desse qualche privilegio speciale nei confronti del suo prossimo; prossimo che – è vero – in qualche modo disprezza (soprattutto quando lo identifica nell’ipocrita arrivismo e nella volgare vitalità dell’amico Valentin che lo ha sostituito al fianco di Madeleine), ma che è anche inesauribile oggetto dei suoi idealistici e fiduciosi slanci palingenetici. Herzog è una persona infantile, sentimentale, egocentrica, ma pretende anche con tutto se stesso di aspirare al bene: il duro confronto con la realtà (il trauma del divorzio, il tradimento dell’amico, l’episodio al Palazzo di Giustizia in cui assiste per passare il tempo ad alcuni processi contro ladri, pederasti ed assassini, e infine l’incidente automobilistico che egli stesso involontariamente provoca con la figlia a bordo) determina però un vero e proprio crollo delle sue illusioni etiche. La fatiscente casa nelle Berkshires, piena di sporcizia e di escrementi di topi, dove Herzog si rifugia al termine del romanzo, è un po’ il simbolo della sua anima, terremotata e in rovina (non è peraltro l’unico simbolo: basti pensare alla vecchia pistola del padre che si porta goffamente in tasca, la quale rappresenta sia la propria impotenza ed incapacità di agire, sia il peso condizionante dell’eredità paterna). A Herzog comunque l’autore vuole riservare un finale aperto: forse la guarigione dalla sua ossessione per le lettere è foriera di una più generale guarigione psichica e di un ritorno alla normalità. In linea con il tono “leggero” e anti-drammatico del romanzo, Bellow lascia pertanto, se non proprio spalancata, almeno socchiusa la porta della speranza.
Tanti sono i temi affrontati nel romanzo. Ci sono i rapporti familiari problematici e castranti (ad un certo punto emerge tra i ricordi la scenata che il vecchio padre fece a Moses con la pistola in pugno, che rimanda al famoso schiaffo del padre di Zeno Cosini sul letto di morte), l’aspirazione continuamente disattesa ad una vita priva dei vincoli e dei condizionamenti sociali, magari in un impossibile e privatissimo rifugio edenico (la casa nelle Berkshires), le invettive contro la religione (l’ipocrita conversione al cattolicesimo della wasp Madeleine), contro la società materialistica e contro la scienza e la filosofia moderne (ree di fuorviare ed umiliare la naturale condizione umana). Non manca neppure la Chicago e il milieu ebraico da sempre ricorrenti, per motivi anche autobiografici, nell’opera di Bellow. Pur essendo una minuziosa analisi della dissoluzione in atto di una mente e di un’anima, e quindi in apparenza un libro introspettivo e antitetico al picarismo de “Le avventure di Augie March”, “Herzog” in realtà non se ne distacca completamente, perché, grazie ai salti temporali nel passato del protagonista (che ricorda l’infanzia grama e stentata in uno dei più squallidi quartieri di Montreal, con un padre un tempo benestante nella Russia zarista e ora contrabbandiere senza talento), finisce per essere anche il romanzo di una intera vita. La complessità dei piani temporali si riflette anche nella complessità dello stile. Vi sono in “Herzog”, spesso intimamente intrecciati (come sono intrecciate la terza e la prima persona della narrazione), quattro piani di racconto: c’è innanzitutto la realtà esterna (anche se gli avvenimenti memorabili sono pochi, e si condensano principalmente intorno all’episodio dell’incidente automobilistico della seconda parte); ci sono poi le lettere scritte o pensate (e la frequenza delle stesse è direttamente proporzionale all’aggravarsi dei sintomi di malattia mentale del protagonista); ci sono ancora i pensieri che interagiscono e si intrufolano all’interno delle lettere o del racconto; e infine i ricordi relativi a situazioni e personaggi del passato di Herzog. Tutto ciò rende il romanzo estremamente vario e affascinante, spesso persino problematico o provocatorio, denso com’è di spunti e di riflessioni culturali, di simboli e di raffinatezze linguistiche, senza però che per questo venga mai persa quella riconoscibilissima leggerezza tipica di Bellow, che è fatta di ironia e di umorismo ebraico, ma anche di una sottile e spesso struggente malinconia.

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"La coscienza di Zeno" di Italo Svevo
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    27 Aprile, 2020
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UN RISO CHE SI STROZZA IN GOLA


Si narra che Samuel Beckett, ai tempi in cui curava il primo allestimento di “Aspettando Godot”, era talmente consapevole della natura provocatoria della sua opera che si preoccupava quando vedeva troppo pochi spettatori che si alzavano ed uscivano durante lo spettacolo. Il tempo passa, ed è curioso constatare come “Aspettando Godot” sia nel frattempo diventato un classico del teatro del ‘900, frequentemente rappresentato sui palcoscenici di tutto il mondo. In effetti si tratta di un’opera di grande tensione, concentrazione e drammaticità, che non dimentica però mai il lato comico, la clownerie che doveva essere tanto cara a Beckett (“Non c’è nulla di più comico della tragedia, aveva scritto il grande commediografo: in questo senso Vladimiro ed Estragone sono come la coppia di un buddy movie del secolo scorso e certe sequenze, come quella dello scambio di cappelli, sembrano uscire proprio da un film dei fratelli Marx). Una scena fra tutte è stata soprattutto capace di strapparmi lacrime di puro, allucinato divertimento: è quella in cui Lucky, fino ad allora muto, inizia a sproloquiare come un fiume in piena, senza che nessuno, né il padrone Pozzo né i due protagonisti, che si agitano burattinescamente senza sapere cosa fare, riesca a fermarlo.
Si narra anche che Beckett rifiutasse l’equazione Godot = Dio (che in inglese – guarda caso – è proprio God). Eppure ritengo più che plausibile l’ipotesi che la stolida e inappagata attesa di Vladimiro ed Estragone sia in qualche modo metafisica. Vladimiro ed Estragone non conoscono l’identità della persona che ha detto loro di aspettarlo presso il grande albero, il ragazzo che annuncia per due volte che il “padrone” non verrà per quel giorno ma sicuramente si presenterà l’indomani sembra un angelo, quando si domandano cosa faranno con Godot quando l’avranno incontrato ciò che viene loro in mente è “una supplica, una preghiera”, e infine il motivo che Vladimiro adduce circa il perché non smettono una buona volta di aspettare il fantomatico Godot è che questi “potrebbe punirli”. Quindi Godot potrebbe legittimamente essere Dio, ma è altrettanto vero che il significato dell’opera non cambierebbe di molto se il misterioso personaggio del titolo venisse semplicemente interpretato alla stregua di una delle molteplici illusioni che l’uomo si crea per dare un senso qualsivoglia alla propria vita, quasi un alibi per continuare a vivere (o a sopravvivere) senza assumersi alcuna responsabilità, neppure quella di farla finita e suicidarsi. La mira di Beckett è molto alta: “Aspettando Godot” parla, in maniera astratta e stilizzata ma inequivocabile, della condizione dell’intera umanità. Ed è una umanità degradata, afasica, alienata, incapace di comunicare e in cui lo stare insieme è una questione più di abitudine (Vladimiro ed Estragone) o di brutali rapporti di forza, da schiavo e padrone (Pozzo e Lucky), che di cameratismo, solidarietà e compassione.
In un mondo deprivato di sentimenti, in cui la felicità è forse possibile solo sognarla, e oltretutto i piedi dolgono e l’incontinenza assilla, non c’è neppure il conforto della memoria (i personaggi non ricordano neppure ciò che hanno fatto il giorno prima) o della cultura (come dimostrano i vaniloqui dei due amici o le farneticazioni pseudo-dotte, da computer impazzito, di Lucky). Tutto appare inutile, e questa sensazione di inanità e di forzosa ripetitività non fa che accentuare la escheriana circolarità del testo. Sui personaggi un albero spoglio e spettrale incombe per tutto il tempo come il simbolo di un fato impassibile e imperscrutabile E’ però da questa scenografia, da questo albero praticamente morto, che promana l’unico, vago barlume di ottimismo della commedia: all’inizio del secondo atto spuntano infatti sui rami alcune foglioline verdi che prima non c’erano. Non hanno forse alcun significato preciso, come del resto quasi tutto il resto, eppure è come se con esse l’autore non avesse voluto negare del tutto ai suoi grotteschi eroi uno spiraglio, per quanto improbabile, di speranza.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    20 Aprile, 2020
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MISTERI SENZA SOLUZIONE

“2666” (titolo criptico quant’altri mai) è, al pari de “I detective selvaggi”, una falsa detective story, una vicenda di misteri e di investigazioni che non portano a nulla e che, al termine delle sue mille ostiche, estenuanti ma ugualmente avvincenti pagine, sembrano soltanto il pretesto utilizzato dall’autore per sfogare il suo bisogno di raccontare storie. La caratteristica del romanzo che salta subito agli occhi è infatti il suo essere un libro-mondo, un libro-labirinto in cui, una volta entrati, ci si può facilmente perdere mentre si seguono le innumerevoli traiettorie che borgesianamente si ramificano senza nessun apparente motivo (si pensi, per fare solo un esempio, alla storia dell’ebreo Ansky all’interno di quella di Reiter, e dello scrittore Ivanov all’interno di quella di Ansky). Il meccanismo è un po’ simile a quello a scatole cinesi del “Manoscritto trovato a Saragozza”, e l’effetto per il lettore può facilmente far scaturire una certa frustrazione quando egli si accorge che alla fine i misteri sono destinati a rimanere irrisolti. Ma se ci si abbandona alla miriade di stimoli e di suggestioni disseminate con incredibile dovizia, alle sotto-storie in cui ogni personaggio secondario porta in dote una nuova storia che non c’entra niente con la trama del romanzo (ma qual è in realtà la sua trama?), allora si è in grado di apprezzare appieno l’incredibile, omerica perizia narrativa di Bolaño. Ecco allora sfilare, apparentemente non necessari eppure a loro modo fondamentali nell’economia del titanico racconto, un organizzatore culturale svevo che aveva conosciuto il giovane Arcimboldi nel corso di una serata con una ricca vedova che aveva rimembrato una giovanile crociera a Buenos Aires; un barbone londinese che fabbricava tazze; un pittore che ha dipinto il suo autoritratto con la mano destra automutilata e imbalsamata; il proprietario di una galleria d’arte, nonché ex-spia, che sente di notte il fantasma della nonna; un tizio che naufraga di notte in un lago e viene salvato perché un aereo precipita vicino a lui; Epstein e la nascita degli snuff movies; e altre centinaia di personaggi che qui non citerò (il quinto libro – “La parte di Arcimboldi” – ne è particolarmente ricco, con quel suo andamento di cronaca picaresca che attraversa un secolo di storia tedesca). Il meglio dell’arte di Bolaño si trova proprio, a mio avviso, negli interstizi della storia principale, nelle digressioni che possono tranquillamente andare dal fantomatico libro “O’Higgins è araucano” fino ad arrivare a Sisifo (quest’ultimo è un gustosissimo exploit che lascia a bocca aperta: lo scrittore cileno paragona le espressioni e le opinioni che gli uomini si portano dietro tutta la vita al leggendario masso di Sisifo, e il mito viene raccontato addirittura per tre pagine – chapeau! - ma con un’unica lunghissima frase piena di spassose notazioni aneddotiche).
Romanzo contenitore di storie (e di sogni, un altro leit motiv dell’arte di Bolaño, che in altra sede sarebbe interessante approfondire), come forse solo Italo Calvino era in grado di scrivere, ma non solo questo. Infatti in “2666” ci si allontana tantissimo dal punto di partenza, ci si trova a viaggiare in epoche e paesi lontanissimi tra loro, eppure alla fine tutto torna. Come nei film sceneggiati da Guillermo Arriaga (anche lui latino-americano, non a caso) un filo conduttore esiste sempre, e Bolaño, dopo avercelo nascosto fin quasi a farci perdere la speranza, lo estrae nelle ultime pagine come il coniglio dal cilindro di un prestigiatore. Il cerchio che si era aperto con i tre critici che girano il Messico seguendo le tracce del loro idolo Arcimboldi, si chiude con il misterioso scrittore che parte per il Centro America, dove si trova incarcerato, accusato di una serie di omicidi, il nipote Klaus (che era comparso nel terzo e soprattutto nel quarto capitolo, quello dei delitti). Ma la rivelazione è solo apparente. I due principali misteri in “2666” non si svelano in realtà del tutto. O meglio, il primo mistero, quello sulla vita e l’identità di Benno von Arcimboldi, viene sviscerato in tutti i più minuti dettagli di una biografia, ma solo per giungere alla conclusione che tra il mito e la persona, tra la figura pubblica e quella privata, tra la proiezione idealizzata ed il suo prosaico prototipo, c’è uno scarto che non è mai possibile riempire, perché l’uomo e la leggenda sono troppo lontani tra loro, addirittura inconciliabili. A questa conclusione Bolaño era già giunto ne “I detective selvaggi”, con il viaggio di Arturo Belano e Ulises Lima alla ricerca della fantomatica poetessa Cesarea Tinajero, che al termine i due trovavano (ben diversa da come avrebbero potuto immaginarsela) solo per vederla morire tra le loro braccia. Non diversamente i quattro critici inseguono un simulacro, un’apparenza che la realtà distruggerebbe se fosse costretta ad uscire allo scoperto e ad annunciarsi al mondo. C’è in questo una sorta di morale meta-letteraria: la verità sulla vita di un artista può essere forse conosciuta (o meglio intuita) da un altro artista (lo scrittore Bolaño, in questo caso), ma mai dai critici (il cui snobismo viene irriso nell’episodio in cui Pelletier ed Espinoza picchiano a sangue un tassista pachistano, rivelando la miseria etica e la brutalità che si nascondono dietro la loro maschera di intellettuali raffinati) o dal pubblico (Belano e Lima nel romanzo precedente).
Del secondo mistero, quello delle brutali uccisioni di donne nella città di Santa Teresa, vicino alla frontiera con gli Stati Uniti, neppure la letteratura può invece darci la chiave. Bolaño elenca col puntiglioso e un po’ pedante stile da redattore di inventari centinaia di omicidi, senza far seguire alla sua entomologica precisione alcuna soluzione, alcun disvelamento. Poliziotti, magistrati, detective, giornalisti, politici e persino medium si aggirano per Santa Teresa e lo stato del Sonora alla ricerca dei colpevoli, ma dei colpevoli non c’è traccia, e solo un innocente capro espiatorio rischierà di pagare per tutti. In realtà, se il plot poliziesco lascia insoddisfatti (mi è tornato alla mente un film coevo come “Zodiac”, di David Fincher, il quale aveva un andamento analogamente frustrante), non di solo fumo si tratta, ma di un ben sostanzioso arrosto. Infatti, leggendo in controluce i capitoli “messicani” (e confrontandoli con gli episodi inquietanti, e in questo caso purtroppo reali, verificatisi qualche anno prima a Ciudad Juarez), si intravede un chiaro atto di accusa nei confronti della illegalità diffusa, della corruzione, della connivenza tra politica, forze dell’ordine e criminalità organizzata, che allignano in Messico. Non c’è quindi un colpevole (o alcuni colpevoli), ma ad essere colpevole (o connivente) è un marcescente sistema di potere che erige un vero e proprio muro di gomma di fronte ad ogni serio ed onesto tentativo di modernizzare e moralizzare il Paese, e che rende la fuga e l’esilio (come quello della figlia di Amalfitano) l’unica alternativa realmente percorribile. Tutto questo è lungi dal trasformare “2666” in una sorta di pamphlet ideologico, perché le ambizioni di Bolaño vanno molto al di là della semplice denuncia, e mirano ad esempio a riflettere (ovviamente col suo sguardo frammentario e destrutturato di cui si è detto, quindi anti-sistemico e anti-filosofico) sulla ineluttabilità e sulla banalità del male. Ciò che avviene a Santa Teresa non è poi così dissimile da quello che si è avuto modo di riscontare nel corso della Seconda Guerra Mondiale: e cioè che la violenza è profondamente insita nella storia dell’uomo, e che gli efferati assassini del Sonora e i nazisti che sterminavano gli ebrei nei lager differiscono solo per il numero dei loro crimini da tutti coloro che, all’apparenza brave persone come il montanaro Leube o l’ex funzionario Sammer, hanno pure essi ucciso continuando a vivere come se niente fosse. In questo senso “2666” è un’opera profondamente pessimista (anche se di un pessimismo che non esclude la leggerezza e l’ironia), probabilmente influenzata dall’approssimarsi di Bolaño alla propria fine, e neppure l’arte o la scienza paiono in grado di ergersi a panacea di tutti i mali, perché i tanti personaggi del libro che bazzicano per esempio l’ambiente della letteratura sono ben lungi dal rappresentare una soluzione ai problemi del mondo e possono al massimo (come nel caso del libro di Ansky trovato in un nascondiglio da Reiter-Arcimboldi) offrire un aiuto meramente individuale.

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"I detective selvaggi" di Roberto Bolaño
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    15 Aprile, 2020
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STORIA DI UNA DONNA PERDUTA

“La signorina Giulia” è un atto unico recitato, nel rispetto delle unità aristoteliche di luogo, di tempo e di azione, da tre soli personaggi, anzi quattro, se si considera anche quello del conte che, in absentia, è metonimicamente rappresentato dagli stivali presenti in un angolo della scena. La figura del conte aleggia silenziosamente su tutta l’opera e il suo viaggio, che coincide con la festa di San Giovanni (una di quelle ricorrenze dei paesi del Nord per cui vale il detto “semel in anno licet insanire”), è l’occasione per una inaudita e scandalosa abolizione delle differenze di censo e di classe tra la figlia del conte, Julie, e il suo domestico Jean, in un serrato e sensuale gioco di seduzione cui partecipa anche, nel ruolo di terzo incomodo, Kristin, la fidanzata dell’uomo, nonché cuoca in casa del conte. Con la sua spietata e pessimistica visione della vita Strindberg tratteggia un personaggio che percorre nell’arco di poche pagine tutta la parabola discendente che dalla sfrontata e odiosa sicumera di nobildonna conscia dei propri privilegi la conduce fino all’infamante degradazione di femme perdue, stretta tra l’onta per aver tradito l’onorabilità della famiglia e il disprezzo di chi, dopo averla usata e fatto balenare in lei la prospettiva di una esistenza nuova, la ricaccia nella disperazione più totale e senza altra via d’uscita che quella del suicidio. In fondo Strindberg anche qui non fa altro che analizzare, al di là delle differenze sociali, l’eterna lotta tra i sessi, anche se, contrariamente a tante altre opere, ad essere sconfitto questa volta non è l’uomo ma la donna. Il drammaturgo svedese ci dice che chi in amore si espone mettendo a nudo i propri sentimenti senza fingimenti e senza calcoli è inevitabilmente destinato a soccombere, vittima sacrificale di un mondo in cui vige hobbesianamente la legge del più forte.
Il dramma strindberghiano ha nei simboli e nelle metafore uno dei propri punti di forza (degli stivali del conte ho già detto, ma si pensi anche all’ingravidamento della cagna del conte da parte di un bastardino, allo sgozzamento dell’uccellino freddamente perpetrato da Jean il quale, qualche minuto più tardi, offrirà cinicamente il coltello a Julie come unica soluzione per rimediare all’insostenibile situazione creatasi, con ciò mettendosi in disparte e lavandosene vigliaccamente le mani). E’ però con gli incubi dei due protagonisti che questo procedimento simbolico raggiunge gli esiti migliori: Julie, che sogna di essere in cima a una colonna da cui vorrebbe scendere senza saperlo fare a causa dell’altezza, e Jean, che al contrario agogna ad arrampicarsi su un enorme albero liscio, con il ramo più vicino troppo in alto per essere afferrato, sono infatti una chiara immagine delle contrastanti aspirazioni dei due, che alla fine troveranno una contraddittoria realizzazione, Julie precipitando verso la propria rovina e Jean riuscendo a farla franca e a continuare a vivere, sia pure da servo, come se nulla fosse successo proprio grazie al provvidenziale sacrificio della ragazza. Come in altre sue opere (“Il padre”, ad esempio), Strindberg rovescia beffardamente la situazione di partenza e trasforma l’energica e sensuale protagonista in un personaggio commovente, fragile e indifeso, facendo percepire come in controluce, ma con ineluttabile chiarezza, la tragica sorte che il destino ha spesso riservato, da Didone a Francesca ad Anna Karenina, alle anime troppo nobili e appassionate.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    10 Aprile, 2020
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TRA SADE E MASOCH

Ho letto da qualche parte che James Joyce considerava la sua commedia “Esuli” alla stregua di una “rissa tra il marchese de Sade e il barone Sacher von Masoch”. In effetti, Joyce indaga qui il sentimento dell’amore portandolo alle sue conseguenze più libertine ma anche più masochistiche e autodistruttive. Il protagonista, lo scrittore Richard Rowan (per molti aspetti autobiografici un doppio dell’autore), getta letteralmente sua moglie Berta tra le braccia dell’amico di antica data Robert: lo fa, come sostiene Berta, per poter a sua volta consumare senza sensi di colpa adulterio con l’istitutrice del figlio Beatrice, o, come ipotizza Robert, per punirsi dei tanti tradimenti coniugali da lui perpetrati in passato? O forse, emulo moderno di Madame de Merteuil, vuole, approfittando della sincerità della moglie che gli confessa volta per volta tutto quello che accade tra lei e Robert, manipolare le esistenze altrui? O chissà, magari Richard, è un personaggio meno meschino e più puro di quello che si potrebbe inizialmente pensare, e la sua stanchezza finale è la fatica di chi ha preferito cercare l’amore “non attraverso la tranquillità della fede, ma attraverso la fede del dubbio”, concedendo un’estrema libertà al coniuge per poter sperimentare, utopisticamente, un sentimento più autentico. La cosa più paradossale di questa appassionante commedia psicologica è che a un massimo di sincerità (tutti i personaggi sono qui a conoscenza dei tradimenti degli altri) non deriva un massimo di chiarezza narrativa, ma al contrario l’ambiguità si ispessisce sempre di più, a partire dallo stesso snodo della storia rappresentato dall’appuntamento notturno tra Berta e Robert (i due sono stati o no a letto insieme?). Joyce si dimostra un abile indagatore dei sentimenti umani, architettando un dramma borghese di cui si percepisce ancor oggi lo scandalo che deve aver suscitato sulle scene europee al suo apparire, percorso com’è da sotterranee correnti di erotismo, di sensualità e di desiderio. L’istituzione matrimoniale si rivela assai fragile, perché, una volta legittimata la soppressione delle leggi di fedeltà e di esclusività del rapporto coniugale che la morale borghese considerava, forse non del tutto a torto, sacre, si scoperchia il vaso di Pandora, e le pulsioni più sfrenate (anche in un ambiente eminentemente intellettuale) fuoriescono senza più limiti e controlli, lambendo perfino il territorio dell’omosessualità (il bacio saffico tra Berta e Beatrice).

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    05 Aprile, 2020
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CAPOLAVORI DISSACRATI

“L'arte, anche se la malediciamo e se a volte ci sembra del tutto pleonastica, e se anche siamo costretti ad ammettere che essa in realtà non vale un accidente, […] malgrado tutto non c'è nient'altro che salvi la gente della nostra fatta se non proprio quest'arte maledetta e dannata, e spesso funesta e disgustosa da far vomitare.”

“Antichi Maestri” ha come sottotitolo “Commedia”. Come tutti i sottotitoli di cui Bernhard ama corredare le sue opere, anche questo è significativo, in quanto l’autore, con le sue iperboliche e parossistiche invettive (che qui, oltre ai consueti bersagli – lo Stato austriaco, la Chiesa cattolica e la famiglia – coinvolgono anche gli insegnanti e gli storici dell’arte, gli scrittori contemporanei e gli architetti dello Jugendstil, e perfino il Prater e le toilette viennesi), muove spesso il lettore al sorriso, proprio perché l’esagerazione è portata a livelli talmente estremi (il protagonista Reger si professa musicologo, ma pur essendo un esperto dell’arte della fuga, definisce Bach un “ciccione puzzolente”) che l’ininterrotto monologo polemico di duecento pagine assomiglia a volte più al delirio etilico di un ubriaco che a una critica razionalmente motivata. Eppure il sottotitolo di “Antichi maestri” è anche ingannevole, perché, se è vero che il mondo bernhardiano è una caricatura grottesca e che “le cose più atroci sono sempre anche comiche”, man mano che il romanzo procede si insinua in esso un’impalpabile aria da tragedia, e il sorriso si trasforma progressivamente in una smorfia di dolore. L’ottantaduenne Reger, che da più di trent’anni si reca, rigorosamente a giorni alterni, al Kunsthistorisches Museum di Vienna per trascorrere l’intera mattinata davanti all’”Uomo con la barba bianca” di Tintoretto, è infatti un individuo profondamente solo e sofferente, che probabilmente si disprezza per essere riuscito, nonostante che le sue reiterate affermazioni passate lasciassero supporre il contrario, a sopravvivere alla morte dell’amata consorte, e che affronta il crepuscolo della sua esistenza con un animo esacerbato e offeso. Reger, che è un evidente alter ego dell’autore, ha confidato per tutta la sua vita nell’arte, appoggiandosi a Shakespeare, a Kant e a tutti gli Antichi Maestri dello spirito, ma nel momento del bisogno si è amaramente accorto di essere stato ingannato. “Tesaurizziamo gli spiriti magni e gli Antichi Maestri credendo di poterli utilizzare in seguito per i nostri fini nel momento decisivo per la sopravvivenza, […] ma quando l’apriamo, la cassaforte dello spirito è vuota, la verità è questa, siamo lì, davanti alla cassaforte dello spirito vuota e ci accorgiamo di essere soli e privi in effetto di qualsiasi risorsa”). L’ambivalenza morale del romanzo (che si può compendiare nella frase “Cosa non pensiamo e cosa non diciamo nella convinzione di essere competenti, eppure non lo siamo, questa è la commedia, e quando ci chiediamo, e poi? quella è la tragedia”) si riflette sullo status stesso dell’opera d’arte. Fin dalle origini del mondo l’uomo va in cerca del perfetto, dell’eccellente, del sublime, e i capolavori della pittura, della musica e della letteratura hanno sempre rappresentato la meta ideale di questa ricerca. Reger, come detto, non fa eccezione, ma pur avendo venerato e ammirato in passato i grandi artisti, si è reso infine conto di non essere più in grado di tollerare altro se non un frammento dei loro lavori (“Il piacere più grande ce lo danno i frammenti, e non a caso nella vita proviamo il più grande piacere quando la vita stessa ci appare come un frammento, e come il tutto è per noi raccapricciante, com'è orribile, in fondo, la perfezione di tutto ciò che è compiuto. […] Il tutto e il perfetto ci risultano insopportabili, diceva. Così in fondo anche tutti questi quadri, qui al Kunsthistorisches Museum, io li trovo insopportabili […] Solo dopo aver constatato ripetutamente che il tutto e il perfetto non esistono, solo allora ci è dato di continuare a vivere”). Reger, che professa di essere, più che un lettore, uno sfogliatore (“E' senz'altro meglio, di un libro di quattrocento pagine, leggere solamente tre pagine, ma leggerle in profondità”), che disprezza le opere dei grandi maestri perché, dopo averle studiate accuratamente, rivelano desolatamente di essere “la rappresentazione della sprovvedutezza, dell’inettitudine, del fallimento, la parte abborracciata del mondo”, che si domanda perché i pittori dipingano dal momento che c’è già la natura (“Eppure anche l'opera d'arte più straordinaria è solo un misero tentativo, completamente assurdo e vano, di imitare, o addirittura di scimmiottare la natura. Che cos'è il volto della madre di Rembrandt, da lui dipinto, di fronte al volto vero di mia madre?”), Reger nonostante ciò non può fare a meno di ricorrere all’arte come l’estrema risorsa per poter sopravvivere alla disperante mancanza di senso della vita. In questa aporia è contenuto tutto l’angoscioso dramma della condizione umana. Reger, che cerca compulsivamente gli errori palesi nei quadri degli Antichi Maestri, pur non riuscendo a smettere di subirne il fascino, è un po’ come un ateo il quale, dopo aver passato la vita a distruggere le prove presunte dell’esistenza di Dio, sia costretto alla fine a riconoscere a malincuore che alla divinità non può rinunciare per dare un senso all’esistenza (oppure come Pascal che, nella sua famosa scommessa, pur ritenendo ammissibile l’inesistenza di Dio, giunge alla conclusione che in fondo a Dio conviene credere). Quella rappresentata da Bernhard è quindi una sofferenza ontologica, che investe la condizione umana tout court, anche se, per mezzo della sua lucidità e del suo acume intellettuale, lo scrittore austriaco non rinuncia ad affrontare con ironia e leggerezza importanti questioni estetiche. E’ emblematica ad esempio la riflessione sui concetti di copia e di originale che egli fa a partire dal divertente episodio del turista inglese che si reca al Kunsthistorisches Museum perché a casa sua possiede un quadro di Tintoretto uguale fin nei minimi dettagli a quello oggetto delle maniacali osservazioni di Reger. Dal momento che l’opera d’arte imita la natura, essa per Bernhard è sempre per definizione una copia, quindi non ha più senso distinguere tra l’originale e la sua riproduzione.
“Antichi Maestri” è scritto con il consueto stile bernhardiano, fatto di ossessive ripetizioni (si prenda ad esempio quel passo in cui le parole “volgare”, “ipocrita”, “bugiardo”, “malvagio”, “abietto” e “stupido” ruotano vorticosamente per diverse pagine, variamente combinate tra loro, per connotare non solo lo Stato, la società e le istituzioni austriache, ma l’intera umanità, in un grottesco carosello sulla scelleratezza umana), in una successione ipnotica e priva di interruzioni di sorta. Mi piace sottolineare, al di là della sua apparente semplicità, la complessità della scrittura di Bernhard, sia dal punto di vista spazio-temporale che da quello del ritmo. Per quanto riguarda lo spazio ristrettissimo che fa da teatro alla vicenda (due sale attigue del Kunsthistorisches Museum), esso è esaltato dal geometrico gioco di sguardi che si intreccia tra i vari personaggi: Reger nella sala Bordone contempla il dipinto di Tintoretto, Atzbacher spia Reger dalla sala Sebastiano, mentre a sua volta il custode Irrsigler osserva sia Reger che Atzbacher. Dal punto di vista temporale, invece, la brevissima durata della storia (poco più di un’ora) è dilatata dalla contemporanea rievocazione mentale dei colloqui (che in realtà sono dei monologhi, dal momento che Atzbacher è, al pari del Gambetti di “Estinzione”, la vittima consenziente e silenziosa della logorrea di Reger) avuti in passato dal narratore con Reger. Infine, il ritmo di Bernhard si rivela straordinariamente musicale. Non mi sembra un caso che in “Antichi Maestri” si citi l’arte della fuga, perché i romanzi di Bernhard procedono proprio come delle “fughe”. La melodia iniziale (pjer fare un esempio, l’invettiva contro gli insegnanti) viene ripresa e imitata, ma sempre con una piccola differenza, un esiguo scarto (se ci si fa caso, Bernhard non ripete mai la stessa precisa espressione, la cambia sempre un pochino, magari impercettibilmente), e così via, fino a sfociare in una nuova melodia (sempre per seguire l’esempio di prima, la polemica contro la scuola di Stato, e poi contro gli artisti di Stato, ecc.) e in nuove risposte. Le famose ripetizioni di Bernhard risponderebbero così a un criterio per così dire contrappuntistico, che conferisce a mio parere quel carattere così inconfondibilmente musicale alle sue opere. Oscillando tra seriosità e understatement, lo scrittore austriaco avvince il lettore con una non-storia di ben duecento pagine. Con impareggiabile astuzia narrativa, egli fa anche balenare lungamente la possibilità di un colpo di scena conclusivo (l’ignoto motivo della convocazione di Atzbacher il giorno dopo il precedente incontro tra i due, cosa quasi inconcepibile per l’abitudinario Reger, che si reca al museo un giorno sì ed uno no!), ma arrivato al dunque scioglie beffardamente il mistero con sottile humour, rivelando che non c’è mai stato alcun vero mistero: Reger vuole semplicemente invitare Atzbacher ad assistere insieme a lui ad una rappresentazione teatrale de “La brocca rotta” di von Kleist, perché alla sua età non se la sente più di andare a teatro da solo. “La sera mi recai effettivamente con Reger al Burgtheater a vedere La brocca rotta, scrive Atzbacher. Lo spettacolo era tremendo.” Chapeau.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    31 Marzo, 2020
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LA VIOLENZA E LA FOLLIA

Pirandello deve essersi ricordato di “Re Lear” quando nell’”Enrico IV” ha fatto scegliere al suo protagonista la follia come unico rimedio per sfuggire all’assurdità e al male del mondo. “Re Lear” è infatti la tragedia della follia per antonomasia, così come “Otello” lo è della gelosia. La follia vi è qui declinata in tutte le sue varianti: oltre alla follia “regale” e dignitosa di Lear, vi è la follia “animalesca” e sconcia di Edgar, quella finta e studiata del conte di Kent e quella trasgressiva e irriverente del “fool”. Sull’altra sponda personaggi barbaramente malvagi ordiscono macchinazioni e complotti in spregio dei più naturali vincoli familiari e sociali (il rapporto tra padri e figli e tra anziani e giovani viene infatti stravolto, rovesciato e sottomesso più e più volte a inenarrabili violenze) e mossi solo da ipocrisia, avidità, brama di lussuria e sete di potere. Mai come nel “Re Lear” c’è stata in Shakespeare una tale distanza tra personaggi positivi e negativi, distanza che a forza di essere tirata verso gli opposti estremi della pazzia e della malvagità contro natura giunge a negare qualsiasi ricomposizione dialettica. La classica strage che chiude la tragedia non ha perciò qui nulla delle melodrammatiche forzature da teatro elisabettiano, perché è il logico e inevitabile suggello di una lotta senza quartiere tra bene e male, la quale non ci risparmia nessuna delle più inimmaginabili efferatezze (come nella scena in cui Regan e suo marito strappano gli occhi dal volto del conte di Gloucester). Quello che rimane è la rappresentazione di un mondo dove si agitano incontrollabili forze oscure, selvagge e irrazionali, le quali, se per un qualche motivo magari banale (come la negligente stoltezza di un vecchio re) si dà loro spazio, rischiano di invadere e sopraffare tutto ciò che prima era pietas, saggezza e cultura (cosa che purtroppo più volte – basti pensare al nazismo – abbiamo avuto modo di riscontrare nella storia).

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Marzo, 2020
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I PARADOSSI DELL'ETICA

Intelligentemente didascalica (come del resto tutta l’opera di Bertolt Brecht), “L’anima buona del Sezuan” è una profonda riflessione sui rapporti tra il bene individuale e l’ambiente sociale in cui esso si esplica, tra la morale privata e l’interesse collettivo, e – in senso lato – sulla linea di demarcazione, così difficile da determinare, tra ciò che è buono e ciò che non lo è. La protagonista Shen-te, un personaggio che ricorda per candore la Cabiria felliniana (non a caso all’inizio dell’opera lei pure è una prostituta), viene prescelta per la sua bontà da tre dei discesi appositamente dal cielo con il compito di provare che non tutti al mondo sono cattivi ed egoisti, che almeno un’anima buona esiste sulla terra, e premiata con mille dollari. La sua vita può finalmente cambiare, e la donna aprire un piccolo esercizio commerciale, ma la sua disinteressata filantropia, che attira come mosche disoccupati, senzatetto e altra povera gente alla ricerca di un aiuto, finisce per mandare tutto in malora. La bontà di una sola persona non può cambiare il mondo, anzi produce degli effetti paradossalmente peggiori, alimentando parassitismo, improduttività e ingratitudine, quando non addirittura la rovina di persone in buona fede (come la coppia che presta a Shen-te i soldi dell’affitto, che lei usa invece per aiutare l’aviatore di cui è innamorata a “pagare” l’ambito posto di lavoro a Pechino). Di fronte a cotanto fallimento, e alla prospettiva che il figlio che porta in pancia possa un giorno essere costretto a procurarsi il cibo rovistando nella spazzatura come i bambini che vede intorno a sé, Shen-te è costretta a vestire i panni di Shui-ta, il cinico ed efficiente cugino senza scrupoli, dalla mentalità manageriale e capitalistica, e abiurare ai suoi buoni sentimenti. Messa di fronte ai tre dei, nella scena finale, Shen-te è costretta ad ammettere che le prescrizioni morali e i comandamenti sono troppo rigidi e ambigui per essere applicati tout court al mondo degli uomini, ma alla domanda su come è possibile rimediare a questo ossimoro etico (il bene che provoca il male, e quest’ultimo che risulta più utile del suo contrario), i tre dei se la danno a gambe, lasciando la donna sola con i propri interrogativi e con le proprie ineludibili responsabilità.
Brecht sa destreggiarsi molto bene tra i tanti paradossi dell’etica (che ben conoscono coloro che si occupano di filosofia e che si trovano di fronte a tante formulazioni diverse di etica, quella cristiana, quella kantiana, quella utilitaristica, ecc.) e, rispettando tanto le esigenze della favola quanto quelle dell’insegnamento pedagogico, cala le sue provocazioni in un contesto molto concreto, quello di una regione povera che assomiglia moltissimo alle tante periferie del mondo alle prese con la crisi economica attuale. Ciò permette di allargare l’angolo visuale ad altre importanti questioni, come quella sui sistemi economici maggiormente desiderabili (socialismo, capitalismo o solidarismo) o quella sull’influenza delle religioni sull’operato sociale degli uomini (qui si intuisce agevolmente l’allergia di Brecht per i fondamentalismi religiosi). Incongruamente sospeso, in apparenza, tra cineseria e opera a programma, “L’anima buona del Sezuan” è in realtà un testo del tutto coerente con il senso ultimo dell’arte brechtiana, sempre pronta ad affondare il bisturi della sua impietosa analisi teatrale nella realtà sociale contemporanea.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Marzo, 2020
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VISIONS OF JO(H)AN(N)A

“E fu tanto corpo da essere puro spirito. Immateriale, attraversava gli avvenimenti e le ore, scivolandovi in mezzo con la leggerezza di un istante.”

Cosa ha in comune Clarice Lispector con Mary Shelley, la creatrice del celebre “Frankenstein”? E “Vicino al cuore selvaggio” con “Altre voci, altre stanze” di Truman Capote o “I Buddenbrook” di Thomas Mann? La risposta, al di là dell’apparente eterogeneità degli accostamenti, è abbastanza semplice. Stiamo parlando di alcuni degli scrittori più precoci della storia della letteratura mondiale e dei loro insigni romanzi d’esordio. Clarice Lispector ha infatti pubblicato “Vicino al cuore selvaggio” a soli ventitré anni, ma la scrittura del libro risale addirittura all’anno precedente, e la sua ideazione è ancora anteriore. Sorprendentemente, l’opera con cui la Lispector si è affacciata nel 1943 nel panorama letterario brasiliano non ha nulla del debutto giovanilmente acerbo, ma rivela al contrario un’inoppugnabile e stupefacente maturità. Il magistero stilistico dell’autrice, la sua padronanza del linguaggio e dell’elaborazione poetica delle immagini, sono talmente elevati che non a caso è stata definita dalla critica la “Woolf amazzonica”. Mi ero ripromesso di non utilizzare nella mia recensione il riferimento a Virginia Woolf, ritenendolo troppo ovvio e scontato, un cliché quasi. Il paragone è però a tal punto calzante che alla fine non ho potuto esimermi dal proporlo. Frasi come “Mi sento sparsa nell’aria, penso dentro le creature, vivo nelle cose al di là di me stessa”, oppure “Le parve di sentire avvicinarsi sordamente da lontano il fragore della vita, densa, copiosa e violenta, le onde alte che squarciavano il cielo e che si avvicinavano, si avvicinavano... per sommergerla, per sommergerla, per affogarla asfissiandola”, sembrano proprio uscite dalla testa della Rhoda de “Le onde”. Pare quasi impossibile che la Lispector – come lei ha più volte affermato – non avesse mai letto prima la Woolf, tanto affine appare la loro sovrumana sensibilità artistica, quel comune, miracoloso “chiudere gli occhi e sentire l’ispirazione rotolar giù come una cascata bianca”, quel medesimo inanellare “parole pure come gocce di cristallo”; ma la letteratura – a quanto pare – è piena di questi insondabili misteri, della telepatica somiglianza che unisce tra loro geni appartenenti a epoche e culture diverse, permettendo a volte – come in questo caso – di realizzare una sorta di ideale, ancorché involontario, passaggio di testimone spirituale.
La protagonista di “Vicino al cuore selvaggio”, Joana, è una donna dotata di sensibilità estrema, quasi morbosa, che le consente di collegarsi alle cose in un rapporto esclusivo ed escludente, come attraverso impercettibili e arcani filamenti creati dalla sua rabdomantica coscienza: capace di “sentire il silenzio muoversi”, così come di domandarsi se un triangolo nasca prima come idea oppure come forma, quando cerca di immaginare “dove si nasconde la musica quando non suona” può solo concludere, vinta dalla fatale impossibilità di una risposta, “che facciano un’arpa con i miei nervi, quando sarò morta”. La Lispector ce la presenta dapprima bambina, mentre scopre stupefatta e affascinata il potere magico e demiurgico del pensiero, capace di fare addirittura esistere le cose. Il pensiero ricrea in continuazione la realtà, e questa si presenta a Joana come qualcosa di misterioso, di segreto, di ignoto, di vergine, da imparare a conoscere ogni volta come se fosse la prima. Joana si sente una persona infinita, libera e potente, in grado di “possedere ogni momento”, ma questa consapevolezza si rovescia spesso in un opposto, subitaneo sentimento di fallimento e di sconfitta, allorquando la ragazzina intuisce l’incapacità di tradurre il pensiero creatore nella realtà, anche solo di esprimerlo compiutamente in parole (“E’ curioso che non sappia dire chi sono […] perché nel momento in cui tento di parlare non solo non esprimo ciò che sento ma ciò che sento si trasforma lentamente in ciò che dico”). Crescendo e diventando adulta, Joana sperimenta così anche la parte dolorosa di quella ipertrofia del pensiero che la caratterizza e che le rende paradossalmente più difficile godere pienamente, semplicemente della vita. Non è un caso che la ragazza arrivi a provare invidia per una donna incontrata fugacemente (“la donna della voce”), dal momento che quest’ultima non è abbastanza intelligente per non capire la vita, condizione che invece la dotatissima Joana è costretta a provare a ogni istante sulla sua pelle. Il pensiero diventa per lei uno schermo, una barriera tra l’io e la realtà, impedendole un rapporto spontaneo con le cose e le persone. Fredda, raziocinante e libera (talmente libera, però, da essere estranea a tutto, perfino a se stessa), Joana si scopre un essere debole e sofferente (“la mia desolazione è profonda come un pozzo”, “la mia disperazione è asciutta come le sabbie del deserto”). Il dolore è un passo che è inevitabile accettare se si vuole tentare di afferrare il mistero della vita (quella vita che ha talvolta l’impressione che “le scorresse dentro spessa e pacifica, gorgogliando come un caldo lenzuolo di lava”), di cogliere anche solo per un attimo quello squarcio fatidico in cui “ciò che aveva già vissuto e ciò che ancora avrebbe dovuto vivere” si fondono in un “tutto confuso ed eterno”. Il problema è che così facendo, oscillando come un pendolo tra passato e futuro, il presente scompare, riducendosi a un “senza-tempo che scivola lungo le mie pareti, tortuoso e cieco”. Pur essendo sposata con un uomo, Otavio, Joana vive ripiegata nel proprio edenico passato (“ancora non si era liberata del desiderio-potere-miracolo di quand’era piccola”), che in tal modo diventa conforto e zavorra al tempo stesso. A differenza di Proust, la Lispector non ricerca affatto il tempo perduto, dal momento che il tempo, in realtà, per lei è come se si fosse fermato per sempre, accumulato “in un lago scuro e tranquillo” che tanto assomiglia a una esiziale e malsana palude. La vita non evolve per lei in una crescita progressiva e graduale di esperienze e di consapevolezza, ma implode in una lunga e inesausta successione di “cerchi di vita”, di avvenimenti chiusi in se stessi, senza nessun reale collegamento tra loro, e soprattutto senza alcun senso ultimo e definitivo, capaci – è vero – di offrire qua e là rare epifanie, lampi di felicità, ma di una felicità dolorosa, di una allegria triste, e in fin dei conti inutile. L’estrema tentazione, alle cui lusinghe Joana sembra sul punto di cedere, è la morte, che sola è apparentemente in grado di garantire il ritorno agognato all’infanzia. Ma la morte è una non-soluzione, uno sterile inganno. Joana capisce al termine del libro che deve liberarsi da quel passato “che corrode il futuro”, affrancarsi finalmente dall’infanzia per poter realizzare se stessa (“verrà un giorno in cui ogni mio movimento sarà creazione, nascita, riuscirò a rompere tutti i no che esistono in me, proverò a me stessa che non c’è niente da temere, […] un giorno innalzerò dentro di me quello che sono, a un mio gesto si leveranno poderose le mie onde, acqua pura a sommergere il dubbio, la coscienza, […] quel che dirò suonerà fatale e completo!”).
Con questa sorta di dichiarazione di intenti, dal carattere inequivocabilmente autobiografico, la Lispector ha voluto terminare questo criptico romanzo, quasi prefigurando il suo luminoso, anche se sofferto, destino di artista. “Vicino al cuore selvaggio” non è comunque un’opera da cui è facile trarre un significato univoco e definitivo. Suddiviso com’è in brevi capitoli introspettivi, frammenti sparsi e disorientanti di un’esistenza dolorosamente scissa tra orgoglio e sofferenza, allucinato percorso di formazione in cui alla classica terza persona del narratore onnisciente si alterna un ostico stream of consciousness, con cui l’anima della protagonista viene mirabilmente indagata fin nei suoi più intimi recessi, il libro spiazza continuamente il lettore, a cui è richiesto uno sforzo considerevole per coglierne l’organica struttura, nascosta in una scrittura visionaria, immaginifica, caleidoscopica. La fatica della lettura è comunque ampiamente ripagata dalla bellezza delle splendide epifanie disseminate nel romanzo (l’episodio di Joana davanti al mare, quando al cospetto dell’immensità dell’oceano la bambina realizza per la prima volta che il padre è morto e viene attraversata da molteplici sensazioni contrastanti, un’illogica gaiezza che si sovrappone al dolore, la paura che si alterna a un senso di attesa – “come dentro una chiesa” – di cose che devono avvenire, mi ha ricordato alla lontana il pirandelliano “Ciaula scopre la luna”), nonché dall’algido incanto che, come ghiaccio bollente, promana dalla sua ermetica poesia. La scarsa decifrabilità del romanzo, la sua oscurità, non devono pertanto trarre in inganno. La Lispector si ferma intenzionalmente alle soglie della comprensione, della piena intelligibilità, lasciando il lettore spaesato e interdetto, perché ella non vuole, dopo averlo magicamente evocato con il suo stile ossimorico e sinestetico, rovinare il fragile mistero della vita. “Per poter discernere determinate cose è necessario un certo grado di cecità. È questo, forse, il tocco dell’artista. Qualunque uomo può sapere più di lui e ragionare con sicurezza, secondo verità. Ma proprio quelle determinate cose sfuggono alla luce accesa. Al buio diventano fosforescenti.”

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"Le onde" di Virginia Woolf
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    06 Marzo, 2020
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LA LOTTA DELL'UOMO CON L'ETERNO FEMMININO

“Il padre” è, insieme a “Chi ha paura di Virginia Woolf?”, il dramma in cui la guerra tra i sessi è descritta in tutta la sua più lacerante e crudele durezza. Ma, al contrario dell’opera di Albee, dove marito e moglie si distruggono a vicenda, lasciandosi alle spalle solo le macerie dell’istituzione familiare, in quella di Strindberg non c’è mai dubbio su chi sarà la vittima predestinata a soccombere. Pur partendo da una questione estremamente banale (un dissidio in merito all’educazione della figlia Berta), “Il padre” allarga il suo raggio di azione fino a diventare il teatro di un conflitto molto più ampio, che investe non solo il Capitano e sua moglie, ma l’Uomo e la Donna stessi, per assurgere addirittura a riflessione e metafora sul senso ultimo della vita. Opera datata nella sua collocazione cronologica (risale infatti alla fine dell’Ottocento), “Il padre” riesce a recuperare grazie a questa modernità di accenti la sua credibilità di messa in scena. Essa infatti, più che dell’ontologica inconciliabilità tra i due sessi, parla del tema universalissimo del Potere (“E di che altro se non di potere si è trattato in tutta questa lotta per la vita e per la morte?”), fino a sfiorare temi psicanalitici ancora di là da venire all’epoca di Strindberg (il Capitano viene sconfitto e muore perché in fondo cede al richiamo della donna-madre - “Piangi, bambino mio, così avrai di nuovo tua madre vicina. […] Sì allora era così, e per questo ti amavo come un figlio. […] La madre ti era amica, ma la donna nemica“). Egli desidera nel suo intimo di perdere la partita, aspirando inconsciamente a una regressione allo stato infantile, a un ritorno all’utero materno, che è poi una sorta di Paradiso Perduto. La Donna è perciò destinata a vincere e dominare in quanto possiede le chiavi della fertilità, ma non tanto perché (sarebbe banalmente riduttivo) solo lei può avere la certezza di essere la genitrice della sua prole (questione che apparentemente porta il protagonista alla follia), quanto perché lei è, nella sua proteiforme personalità, madre e sposa allo stesso tempo. Ricordo che, nell’allestimento de “Il padre” a cui assistetti una dozzina di anni fa (con Umberto Orsini nei panni del protagonista maschile), il regista Massimo Castri sottolineò questo risvolto del testo con intelligentissime scelte di regia, tra cui la più importante fu quella di vestire e acconciare nell’ultimo atto i personaggi femminili (la balia, Laura e Berta) tutti e tre alla stessa maniera, facendone un’unica proiezione dell’eterno femminino: con tale stratagemma penso che egli abbia colto alla perfezione la natura sottilmente simbolica di questo testo amaro ma sorprendentemente bello.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    02 Marzo, 2020
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IL CANTO DELLA VITA (ONDA SU ONDA)

“A volte penso di non essere una donna, ma la luce che cade su questo cancello, su questa terra. Sono le stagioni, a volte penso, sono gennaio, maggio, novembre, il fango, la nebbia, l’alba.”

Coniugare l'istante e l'eternità, far convivere nelle stesse pagine il passato, il presente e il futuro, è davvero un'impresa immane, titanica, sovrumana quasi, ma Virginia Woolf, con “Le onde”, è riuscita a portarla magistralmente a compimento. Opera sperimentale come poche altre, la Woolf stessa, mentre la componeva, la considerava “astratta, mistica, senz'occhi (eyeless)”. Definirla un romanzo è invero riduttivo e fuorviante: si tratta piuttosto di un poema in prosa, in cui quella che scrive, più che a una penna, assomiglia a una magica antenna capace di captare e di percepire le impressioni più sottili, sfumate e impalpabili della realtà. “Le onde” non ha una trama (l'autrice ha sempre sostenuto del resto di non scrivere “a trama” ma “a ritmo”), bensì una elaborata struttura in cui nove interludi lirici, nei quali viene descritta nei suoi infiniti riflessi atmosferici e naturali una intera giornata, dal sorgere del sole al calare delle tenebre, si alternano ai soliloqui di sei personaggi, dalla prima infanzia fino alla loro vecchiaia. Negli interludi, il progressivo avanzare della luce e il contestuale ritirarsi dell'oscurità, l'emergere di forme, colori e contorni delle cose a scapito delle ombre, il risvegliarsi cinguettante degli uccelli e – soprattutto – il tonfo sordo, ovattato e costante delle onde del mare, sono espressi con una prodigiosa, strabordante, minuziosissima ricchezza di dettagli, restituendo in toni di alta poesia l'immanenza di una natura indifferente, insensibile, inumana, una “sinfonia di armonie e dissonanze, di melodie in superficie con un complicato basso di fondo”, che si ripete dall'inizio della creazione, sempre uguale eppure sempre misteriosamente, indecifrabilmente, diversa. Del tutto differente è la dimensione dei monologhi interiori dei sei personaggi, nei quali si riflettono le aspirazioni e le paure, gli ideali e le idiosincrasie, gli slanci e le sofferenze, le passioni e i rimpianti, vale a dire tutte le mutevoli, variegate ed imperfette sfaccettature dell'animo umano. Uomo e vita, destini effimeri e transeunti da una parte e impersonale ed eterna forza della natura dall'altra, si mescolano, si amalgamano, dando in tal modo corpo a pagine immaginifiche e colme di una vibratile e ineffabile sensibilità, eroicamente capaci di abbracciare e contemplare l'intera sfera del tempo. I sei personaggi, tre uomini (Bernard, Neville e Louis) e tre donne (Rhoda, Susan e Jinny), amici fin dal periodo dell'infanzia eppur così dissimili tra loro, sono in realtà parti di un medesimo io, come petali di un unico fiore o gocce d'acqua di uno stesso, identico mare. In essi Virginia Woolf ha riversato un'infinità di caratteristiche autobiografiche, dall'ansia di scrivere di Bernard allo snobismo intellettuale di Neville, dalla solitudine e dallo straniamento di Louis alla ipersensibilità e al terrore del mondo di Rhoda. E' proprio Rhoda, fragile sognatrice e vittima degli shock provocati dalle sensazioni (“Devo avanzare circospetta per non cascare dall'orlo del mondo nel nulla”), a suscitare le maggiori emozioni, prefigurando con il suo suicidio (“Ci buttiamo giù nel precipizio […] Il mare mi rimbomberà nelle orecchie […] Travolgendomi, le onde mi spingeranno sotto. Con un tremendo scroscio tutto precipita, io mi dissolvo.”) il tragico destino della scrittrice. La Woolf ha messo molto di sé ne “Le onde”, fino al punto di apparire all'interno stesso del libro, nella figura della signora che, nel giardino-eden di Elvedon, Bernard e Susan bambini spiano mentre è intenta a scrivere, seduta al tavolo tra due porte-finestre: sembra proprio, similmente a quei personaggi ai margini del quadro, confusi tra la folla, nei quali certi pittori rinascimentali ritraevano se stessi, l'autoritratto dell'autrice, in pratica una sorta di firma autografa posta, anziché in epigrafe, nel corpo del romanzo. L'immagine della donna che scrive ritorna più volte nel libro, così come diversi altri leitmotiv: la falena che sbatte contro il vetro di una finestra nel tentativo di uscire all'aria aperta, la pozzanghera che Rhoda non riesce ad attraversare e – ovviamente – le onde, che si infrangono senza sosta come gli zoccoli di un cavallo che scalpita. Presenza costante de “Le onde” è soprattutto la morte, che mina con la sua ineluttabilità (incarnata nel personaggio di Percival, che muore nel fiore degli anni cadendo da cavallo) la futile ricerca di un senso della vita da parte dei sei amici. Dalla spensierata sicumera dei primi anni (“non ho ancora intaccato il mio tesoro”, ripete spesso la sensuale Jinny, pensando al proprio futuro che immagina luminoso e illimitato) si passa gradatamente, sconsolatamente, al vuoto, al tedio, all'infelicità. A tratti, la monotona e immutabile superficie del mare della vita viene rotta dalla pinna di un pesce, metafora della fugace e passeggera felicità umana, che emerge per qualche attimo. Ma poi tutto ritorna come prima e il tempo, che all'inizio sembrava una distesa sterminata, riprende il suo consueto stillicidio (“Il tempo fa cadere la sua goccia. La goccia che s'è formata sul tetto dell'anima cade. Dal tetto della mia mente il tempo gocciola. [...] La goccia che cade è il tempo che si assottiglia fino a diventare un punto. Il tempo, che è un pascolo assolato inondato di luce danzante, il tempo, che è vasto come un campo a mezzogiorno, si stacca, si assottiglia, diventa un punto. Come da un bicchiere stracolmo la goccia, così il tempo cade.”). C'è a tratti il desiderio di fermarsi per sempre nel presente, nel qui e ora (“se quest'attimo durasse per sempre”), ma poi prevale la necessità di andare avanti ad ogni costo, avvinghiati a quel cavallo selvaggio che è la vita, aiutandosi con il patetico trucco del tran tran quotidiano (“al lunedì segue il martedì”), del lavoro e della famiglia. Con la prosaica e volgare realtà esterna e la fastidiosa e invadente presenza degli altri a zavorrare le ambizioni individuali diventa sempre più difficile, per la Woolf, trovare un senso di compiutezza e di autenticità nell'esistenza. E' per questo che la lotta contro l'impermanenza e la mancanza di significato della vita conserva un che di tragico, di eroico. Pur essendo destinato inesorabilmente a soccombere, all'uomo non resta, per non affogare, che cercare di contrastare le implacabili e incessanti onde della vita, in uno sforzo che ricorda il supplizio di Sisifo (“Anche in me l'onda si leva. Si gonfia, inarca la schiena. Ancora una volta sono consapevole di un nuovo desiderio, qualcosa che si solleva sotto di me come il fiero cavallo che il cavaliere prima sperona e poi frena. Quale nemico avvertiamo ora avanzare verso di noi, di te e di me che ti monto, mentre fermi su questo tratto di selciato scalciamo impazienti? E' la morte. La morte è il mio nemico. E' contro la morte che cavalco lancia in resta e capelli al vento come un giovinetto, come Percival, quando galoppava in India. Dò di sperone al cavallo. Contro di te mi slancio invitto e invincibile, oh morte!”).
“Le onde” è un libro meraviglioso, in cui la realtà concreta, fattuale, materica, trasfigura costantemente in una dimensione immateriale. Quello che descrive è un mondo magico in cui ogni cosa diventa il segno di qualcos'altro, in cui tutto si metamorfizza e si trasforma in altro da sé (“La mia mano sembra la pelle di un serpente. Le ginocchia sono delle isole rosa galleggianti. La tua faccia è un albero di mele”). La capacità della Woolf di costruire metafore e similitudini è ineguagliabile. Prendiamo ad esempio il primo interludio, in cui viene mirabilmente descritta l'alba: “L'onda si arrestava, poi si ritirava sibilando, come chi respira lento, regolare e incosciente nel sonno. Pian piano la striscia scura all'orizzonte si fece più chiara, come se in una vecchia bottiglia di vino il sedimento fosse calato a fondo lasciando il vetro verde trasparente. E dietro, come se […] il braccio di una donna distesa sull'orizzonte avesse sollevato una lampada, anche il cielo si schiarì...”. Allo stesso modo, per fare un altro esempio, in un orologio a muro “le lancette sono dei convogli che marciano nel deserto. Le tacche nere sul quadrante sono delle oasi di verde”. E' assai difficile poi togliersi dalla mente la sconvolgente immagine con cui la vita irrompe nella mente di Rhoda, “con sensazioni violente, intermittenti e improvvise come il balzo di una tigre”. La miracolosa sensibilità di Virginia Woolf prende ne “Le onde” la forma di uno stile di trascendente purezza, con frasi che brillano come gemme (“inondando le pareti della mente, il giorno si versa copioso, smagliante”) e immagini di strabiliante levità (“Ho tagliato a fette le acque della bellezza”). Certo, “Le onde” non è un libro facile: l'assenza di una trama, la sovrabbondanza di riferimenti eruditi e di citazioni colte, lo stream of consciousness onnipresente, mettono a dura prova il lettore. Del resto, la stessa Woolf, riferendosi a una lirica dell'amato Eliot letta da Neville, avverte che “per leggere questa poesia si dovrebbero avere migliaia di occhi, […] Bisogna mettere da parte antipatie e gelosie e non distrarsi. Bisogna avere pazienza e un'attenzione infinita, perché il suono leggero dei piedi delicati del ragno sulla foglia, o dell'acqua che gorgoglia in qualche conduttura ci giunga all'orecchio. […] Bisogna essere scettici, ma gettare al vento le cautele e quando la porta si apre accettare qualunque cosa senza riserve. A volte anche piangere; […] E lasciare che la rete affondi sempre più giù e poi delicatamente tirare e riportare alla superficie quello che ha detto lui, o lei, e farne poesia”. Sembra un vero e proprio manuale di istruzioni che l'autrice abbia nascosto tra le pieghe del romanzo al fine di mettere il lettore nelle condizioni di affrontarlo nella maniera più appropriata, una bussola gentilmente messa a disposizione per non smarrirsi nel suo labirintico interno. Tutto ciò non deve però spaventare nessuno: la lettura di quest'opera senza eguali nella storia della letteratura di tutti i tempi è infatti in grado di offrire momenti di squisito, paradisiaco godimento estetico e di far toccare le vette più alte e immacolate cui un amante dei libri può mai sperare nella sua vita di raggiungere.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    24 Febbraio, 2020
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LA VIOLENZA INDIVIDUALE E LA VIOLENZA DEL SISTEMA

Il romanzo d’esordio di Vargas Llosa è una storia, in parte autobiografica, ambientata in un collegio, il Leoncio Prado di Lima, retto da militari, dove i giovani cadetti vivono immersi quotidianamente nella violenza: violenza nei rapporti interpersonali, basati sulla sopraffazione e – si potrebbe dire, con linguaggio da caserma – sul “nonnismo”, e violenza dell’istituto, che con una disciplina rigida e soldatesca tarpa e comprime l’adolescenziale spontaneità dei ragazzi. La vicenda è semplice, c’è il furto di un esame, una spiata, un’inevitabile espulsione, una sanguinosa vendetta e una finta inchiesta che mette a tacere le cose, cose che potremmo trovare tanto in un giallo di Sciascia quanto in un qualsiasi romanzo di formazione adolescenziale, in cui il protagonista cresce e si trasforma, prendendo coscienza che nulla può essere più come prima e che il mondo dei grandi è cinico e spietato. Il meccanismo per così dire “giallo” è quasi grossolano, non abbiamo alcun serio dubbio circa la paternità dell’assassinio che gli ufficiali vogliono (e riescono a) far passare per incidente. A Vargas Llosa interessa soprattutto, contrapponendo i cadetti da una parte (che, nonostante il dispotismo e la corruzione imperanti tra loro, sono visti tutti con simpatia e affetto) e gli alti ufficiali dall’altra (i quali col pretesto della difesa del decoro e della rispettabilità della scuola non esitano ad insabbiare l’inchiesta sulla morte del cadetto Arana, facendo forti pressioni su chi cerca onestamente di far emergere la verità), rimarcare polemicamente come la violenza peggiore non sia quella istintiva e animalesca degli individui, ma quella cieca, opportunista e fanatica della istituzione del collegio, probabile ipostasi di un più generale degrado in cui versa l’intera società peruviana.
Ma anche il condivisibile discorso sulla violenza, intesa in questo senso pervasivo e quasi ontologico, non riesce a esaurire il fascino del romanzo, che secondo me va ricercato nel particolare stile dell’autore, il quale verrà poi sviluppato in maniera ancora più audace e ambiziosa nel libro successivo, “La Casa Verde”. Qui a spezzare la linearità della storia vi sono numerosissimi salti temporali, la frequente alternanza della prima e della terza persona, il cambio di personaggi che di volta in volta assumono il ruolo del protagonista (Alberto, lo Schiavo, il Boa, il tenente Gamboa e, celato anonimamente nel flashback a lui dedicato, il Giaguaro), l’intersecazione di episodi diversi (ad esempio, la violenza alla gallina e la fallita spedizione notturna nella camerata dei “cani”), lo stream of consciousness che fa affiorare pensieri diversi senza apparente coerenza, la presenza di personaggi, come quello di Teresa, che fanno un po’ da raccordo tra le varie vicende individuali. Alla fine resta un convinto senso di ammirazione per quello che è un crudo ma raffinato, disordinato ma elegante, capolavoro sulle profondità dell’animo umano (soprattutto quello degli adolescenti), sulla disparità dei destini e sulla fatalistica onnipresenza della violenza nei rapporti sociali.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    18 Febbraio, 2020
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VIVERE IL VANGELO ALLA LETTERA

Il dramma (incompiuto) di Tolstoj, uno dei pochissimi testi teatrali da lui scritti nel corso della sua lunga carriera artistica, narra la vicenda di Nikolaj Ivanovic Saryncev, un possidente terriero con moglie e sette figli, il quale ad un certo punto, attratto dal messaggio del Vangelo, decide di spogliarsi di tutti i suoi beni per donarli ai poveri. Nel primo atto – il migliore, anche se di chiaro intento didascalico – il suo trasgressivo atteggiamento si scontra con quelli, ovviamente opposti, dei familiari, degli amici e delle stesse istituzioni religiose, costringendo il lettore/spettatore a prendere posizione sui delicatissimi temi in discussione: in particolare, se le parole di Cristo debbano essere prese alla lettera e seguite fino alle estreme conseguenze, in una ricerca della perfezione e della santità che possa, per così dire, portare il Paradiso in terra, o se invece debba fare fede la posizione meno rivoluzionaria e socialmente più accettabile della Chiesa secondo cui la ricomposizione delle disuguaglianze e delle ingiustizie, imperscrutabilmente assegnate e volute da Dio nella nostra vita terrena, potrà avvenire solo nell’aldilà. Non sono certo questioni che riguardino solo le miserevoli condizioni dei servi della gleba della Russia ottocentesca di Tolstoj, in quanto la situazione dei ricchi proprietari fondiari che vivevano del lavoro mal retribuito dei loro contadini non è in fondo dissimile da quella degli opulenti Paesi occidentali che nel globalizzato e civilizzato XXI secolo assistono con indifferenza alla morte per fame di milioni di persone del Terzo Mondo. Cosa fare quindi di fronte al Discorso della Montagna o al detto che “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno dei Cieli”? La nostra posizione oscilla in fondo tra quella – mistica e fanatica – di Nikolaj e quella – maggiormente umana e di buon senso – della moglie Marja, e la loro dialettica contrapposizione provoca un disagio tale che è quasi una paradossale ammissione della profonda, reciproca inconciliabilità di Dio e del mondo.
Alla fine Nikolaj è costretto a cedere alle pressioni delle persone che lo circondano e a firmare la cessione della sua proprietà alla moglie. Da questo momento – che segna una sorta di parallela diminuzione dell’interesse del testo, in quanto a prevalere ora è un’atmosfera patetica e melodrammatica che trova il suo climax nel conclusivo colpo di pistola con cui la principessa Ceremsanova uccide l’uomo colpevole con le sue idee di aver rovinato la vita del figlio – Nikolaj è costretto ad assistere impotente allo sgretolamento dei suoi ideali: non può più aiutare i contadini cedendo loro la terra, i suoi tentativi di vivere del lavoro delle sue braccia si scontrano con la sua ridicola incapacità nelle attività manuali, e perfino la sua fuga notturna per andare a vivere in mezzo al popolo è fatta fallire dall’intervento di Marja. Anche i suoi discepoli subiscono una analoga sorte: Boris viene rinchiuso in un manicomio per aver rifiutato di prestare il servizio militare, il giovane prete Vasilij abbandona la tonaca ma poi è costretto a subire l’umiliazione di tornare sui suoi passi. E’ chiaro che in questa religiosità radicale e senza compromessi Tolstoj ad un certo punto della sua vita abbia visto una possibile soluzione ai dubbi che lo tormentavano. Anche se “Svet” non può essere considerata un’opera autobiografica, appare chiaro come Tolstoj abbia messo molto di se stesso nel personaggio di Nikolaj, e il suo fallimento – pur ragionevole e addirittura auspicabile sotto la maggior parte dei punti di vista, non ultimo quello del toccante personaggio di Marja, a cui va da subito la simpatia del lettore – debba aver costituito in un certo senso anche il fallimento dello scrittore.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Febbraio, 2020
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L'ESTINZIONE DEL TEMPO PERDUTO

“La mania di persecuzione è finita, pensai. Sono morti. Sei libero.”

Non è facile penetrare nell’universo di Thomas Bernhard, soprattutto se – come è accaduto a me – lo si legge per la prima volta e senza conoscere quasi nulla della sua biografia. Il mondo dello scrittore austriaco è infatti ostile, freddo, rancoroso, un mondo, almeno in apparenza, privo di luce e di qualsiasi barlume di speranza, in cui il lettore non viene mai messo nella posizione di sentirsi a proprio agio, anche perché i suoi libri non assomigliano a niente che si sia mai letto prima. All’inizio il personaggio di Murau, che accoglie con totale apatia e indifferenza il telegramma recante la notizia dell’improvvisa morte dei genitori e del fratello, mi ha fatto pensare allo Straniero di Camus, ma è stata solo una pista falsa, ingannevole. Dell’esistenzialismo camusiano c’è infatti soltanto la presenza continua, asfissiante della morte (emblematicamente sottolineata già dalla citazione posta in esergo), ma ogni possibile parentela tematica finisce qui. Senza alcun saldo e tranquillizzante punto di riferimento a fare da guida, ho fatto una terribile fatica a districarmi nelle sabbie mobili della prosa paratattica e ossessivamente ripetitiva, scabra e quasi catatonica, di Bernhard. Col trascorrere delle pagine, dopo essermi più volte chiesto se Bernhard c’era o ci faceva, mi sono però trovato ad essere irresistibilmente catturato, quasi ipnotizzato, dal suo originalissimo modo di scrivere, e questo personaggio francamente antipatico, livoroso, senza peli sulla lingua e moralista fino al midollo, è riuscito alla fine a ritagliarsi, nella mia personale classifica, un posto tra i grandi polemisti della storia della letteratura (accanto, se non addirittura sopra, all’uomo del sottosuolo di Dostojevskij o all’Herzog di Saul Bellow). “Estinzione” è infatti, prima di ogni altra cosa, un romanzo all’insegna dell’invettiva. Bernhard non risparmia niente e nessuno e lancia acuminati e velenosi strali contro tutto e tutti, contro la fotografia (che egli definisce nientemeno che la più disumana di tutte le arti) e i critici d’arte, contro i diplomi e i titoli accademici, contro gli insegnanti e i giudici, contro gli architetti e i politici austriaci, e addirittura contro i mostri sacri della letteratura tedesca, Wolfgang Goethe (alla cui figura riserva epiteti come “acchiappatopi della filosofia”, “becchino dello spirito tedesco” e “filisteo della filosofia che coltiva il suo orticello di periferia”) e Thomas Mann (che avrebbe composto, secondo lui, una letteratura piccolo borghese, da funzionari). Soprattutto l’astio di Bernhard si rovescia sulla Chiesa cattolica, inesorabilmente compromessa – secondo lui – con il nazionalsocialismo e direttamente responsabile dell’infelicità dell’uomo in generale, e del popolo austriaco in particolare (“La Chiesa cattolica ha sulla coscienza l’uomo distrutto, restituito al caos, in definitiva infelice fino al midollo”). Come un fiume in piena, l’invettiva bernhardiana travolge gli argini della civiltà contemporanea, dalla religione alla politica e all’arte, fino a minare irreparabilmente il caposaldo stesso, il fondamento più naturale di ogni società, ossia la famiglia. Nei confronti dell’istituzione familiare, intesa come prigione dello spirito e trappola che tarpa inesorabilmente lo sviluppo della personalità dell’individuo, Bernhard esprime il più profondo disprezzo, la più irrevocabile repulsione, che neppure il fresco lutto riesce a mitigare (“Una cosiddetta tragedia familiare non giustifica il fatto che di quella famiglia si falsi radicalmente l’immagine. Che si ceda ad un repentino sentimentalismo e, addirittura, ci si annulli più o meno in esso”). Così la morte dei genitori e del fratello diventa l’occasione per un fedele e impietoso resoconto (è proprio questo il termine, burocratico, notarile e al tempo stesso significativamente simile nell’etimologia a “resa dei conti”, che l’autore utilizza quando parla del libro che Murau intende scrivere al suo ritorno a Roma), un resoconto – dicevo - degli anni di silente oppressione, di subdola tirannia, di plagio spirituale che hanno rovinato la vita del narratore, trasformandolo in un essere arido, tormentato e anafettivo. Ipostasi di questa non-vita è Wolfsegg, il feudo di famiglia, “ignobile inferno di provincia”, “roccaforte dell’ottusità”, le cui finestre non vengono mai aperte, quasi per paura di fare entrare, insieme all’aria fresca e pulita, anche il vento dei tempi nuovi, e le cui cinque, ricchissime biblioteche rimangono stolidamente chiuse a chiave, a preservare e custodire per chissà quale posterità un tesoro tanto prezioso quanto sterile. Tornare a Wolfsegg è per il protagonista, che da Wolfsegg si era faticosamente affrancato anni prima per seguire la propria vocazione artistica e intellettuale, una pena infinita, che neppure il profluvio di odio che egli vi riversa riesce a placare.
C’è una tale quantità di insofferenza, un tale accumulo di disgusto nelle pagine di “Estinzione”, che il lettore fa veramente fatica a non farsi sopraffare dalla furia iconoclasta del narratore, a credere fino in fondo all’obiettività delle sue parole (tanto è vero che egli stesso a volte prova orrore per i suoi pensieri, pur ammettendo che quei pensieri “dovevano essere pensati”), fino ad arrivare a dubitare della sua stessa sanità mentale, come se di fronte avesse uno psicotico monomaniaco in preda a continue idee fisse (come quella, per fare un solo esempio, di aprire di fronte a tutti la bara della madre, dove è stato composto il suo corpo orrendamente mutilato dall’incidente). In realtà Bernhard è perfettamente consapevole di esagerare, anzi si proclama un artista dell’esagerazione. “La mia arte dell’esagerazione io l’ho sviluppata fino a vette incredibili. Per rendere comprensibile una cosa dobbiamo esagerare, solo l’esagerazione dà alle cose forma visibile, anche il pericolo di esser presi per pazzi non ci disturba più”. In queste pagine, Bernhard scopre le sue carte e rivela con inattesa sincerità che la sua arte dell’esagerazione gli è indispensabile per rendere sopportabile l’esistenza, “per salvarmi dalla miseria della mia disposizione d’animo, del mio tedio spirituale”. Attraverso le sue stesse parole riusciamo a intuire che la sgradevolezza di Murau, la sua crudele assenza di ipocrisia, il suo manicheismo fanatico nascondono una sofferenza autentica, un’anima sensibile e sanguinante che la spessa corazza di cinismo e di indifferenza che si è costruita addosso lascia trapelare a stento. Solo così siamo in grado di comprendere la profonda umanità di questo spirito puro dal pessimo carattere e dall’inflessibile inclinazione al fallimento, solo così possiamo intuire quale incalcolabile devastazione un ambiente retrogrado e bigotto abbia prodotto sul carattere fragile di un bambino indifeso, solo così siamo capaci di accettare nel suo significato più profondo, e non solo polemico e oppositivo, le pagine agghiaccianti sulla madre (“incarnazione del male”, “una persona di assoluta anticultura”, avida, brutale, calcolatrice e senza scrupoli, di cui persino il ricordo infantile del bacio della buonanotte ispira sentimenti di ripugnanza) o quelle non meno spietate (e oggetto di tante risentite accuse da parte dei suoi connazionali quando lo scrittore era in vita) sulla patria (“La mia esistenza è la perpetua liberazione da quello spirito nefasto dell’Austria”). L’unica soluzione è allora, attraverso la rievocazione onesta e priva di compassione del passato, quello di estinguerlo, di distruggerlo, di disintegrarlo, pur nella consapevolezza che ciò significa fatalmente anche la disgregazione e l’estinzione del proprio io.
Quale abissale differenza c’è tra Bernhard e Proust! Laddove lo scrittore francese nella sua “Recherche” ambiva a rievocare il passato per consegnarlo all’eternità, l’autore austriaco disseppellisce sì gli anni della sua infanzia, ma solo per annientarli, conscio che, una volta esauriti e per così dire svenduti per due soldi, tra le dita non può che rimanere la polvere del vuoto assoluto. Come in una singolare riedizione del mito di Orfeo ed Euridice, “quando ti volti, non vedi mai altro che il vuoto assoluto, non solo per quanto riguarda l’infanzia, qualsiasi cosa, quando è passata, non è mai altro che vuoto assoluto. Per questo è un bene se non ti volti più indietro, non devi più voltarti indietro, se non altro per salvaguardare te stesso”. Visto in quest’ottica, il colpo di scena conclusivo (la rinuncia all’eredità di Wolfsegg, che viene donata, in un estremo atto di espiazione, all’amico Eisenberg, rabbino capo della comunità ebraica di Vienna) è l’unico finale possibile di un libro che tocca i più oscuri e tormentosi abissi del nichilismo. Si sbaglierebbe però a pensare che quella di Bernhard sia una lettura depressa ed angosciante. In “Estinzione” non mancano infatti pagine di geniale sarcasmo, come quelle in cui chiama ripetutamente il cognato con il semplice appellativo di “fabbricante di tappi per bottiglie da vino di Friburgo”, anziché con il suo vero nome. Lo stesso stile bernhardiano, tanto particolare da non riuscire a trovarne di simili nell’intera storia della letteratura, ha l’effetto di creare un controcanto ironico alle invettive del narratore. Si pensi alle continue, insistenti e ossessive ripetizioni (c’è un brano in cui l’espressione “far nulla” ricorre addirittura ventidue volte in soli sei periodi!), che all’inizio infastidiscono e quasi offendono, in quanto sembrano farsi beffe di qualsiasi elementare regola di buona scrittura, ma che poi si rivelano semplicemente perfette, oltre che per ridicolizzare i destinatari delle feroci critiche di Murau (come il refrain sulle “facce beffarde” delle sorelle nella vecchia foto che egli conserva nella sua casa romana), anche per creare un ritmo sinuoso, ipnotico e quasi musicale. Lo stesso si può dire delle frequenti anafore, le quali mentre contribuiscono a scolpire in maniera icastica i concetti (repetita iuvant!), danno alle frasi un andamento lirico e sincopato (si legga ad esempio il seguente brano: “Nella tomba, si rivolterebbero, se potessero riaprire gli occhi e vedere tutto ciò che, con la loro nobile parola socialismo, oggi viene spacciato e diffuso fra i popoli. Nella tomba, si rivolterebbero, se potessero vedere che razza di scempio viene fatto in Europa e in tutto il mondo di quella loro nobile parola. Nella tomba, si rivolterebbero, per questo abuso politico, il più colossale di tutti. Nella tomba, si rivolterebbero, nella tomba, si rivolterebbero, avevo ripetuto più volte a Gambetti”). Un’altra particolarità della prosa di Bernhard è il singolare uso dei tempi verbali. Spesso la narrazione è infatti al tempo presente, ma riferita al passato, il che produce curiosi effetti anacronistici: quando il narratore si reca a Wolfsegg per il funerale dei familiari morti, sentiamo pronunciare espressioni come “Johannes si sposerà” (cosa impossibile, visto che il fratello è morto), perché esse corrispondono ai pensieri avuti qualche giorno prima, in occasione delle nozze della sorella; oppure, quando ricorda il sogno raccontato tempo prima a Gambetti, Bernhard inanella tempi diversi uno dietro l’altro (“…dice Eisenberg, dissi a Gambetti”). Va detto, a questo proposito, che l’espressione “dissi a Gambetti” o “avevo detto a Gambetti” ricorre praticamente dalla prima all’ultima pagina del romanzo, costituendo una sorta di cantilenante e bizzarro leitmotiv (che mi ha ricordato alla lontana il “sostiene Pereira” di Tabucchi). In un libro di infelicità e di solitudine, di ostilità e di morte, l’incessante bisogno di ricorrere all’amico-allievo Gambetti (che non compare mai – si badi bene – come personaggio, se non nei ricordi di Murau) ha quasi un valore catartico e idealizzato. A pensarci bene, Gambetti potrebbe anche non esistere, non corrispondere a un personaggio reale, ma essere solo, all’interno di un testo profondamente nichilista ma che pure rifiuta di consegnarsi alla disperazione più assoluta, una fiammella di speranza la quale, a dispetto di ogni evidenza, non si vuole rinunciare a tenere viva, o addirittura una sorta di psicanalista immaginario che, nella testa del protagonista, lo guida in un algido e astioso, ma anche a suo modo commovente, processo di elaborazione e di rimozione degli irreparabili traumi provocati da un terribile, ignominioso passato.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    11 Febbraio, 2020
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UN TEATRO CIVILE

Arthur Miller sembra tornato di moda negli ultimi anni (penso ad esempio al recente film di Asghar Farhadi, “Il cliente”, ispirato niente meno che a “Morte di un commesso viaggiatore”), e rileggerlo è a mio avviso quanto mai opportuno e necessario, dal momento che le problematiche etiche del vivere civile e dell’agire politico ed economico, che sono al centro di tutta l’opera del drammaturgo americano, sono di scottante attualità. Pur non essendo il suo testo più popolare, “Erano tutti miei figli”, datato 1947, è ormai diventato un classico del teatro moderno, costruito com’è in maniera tesa e avvincente, senza cadute di ritmo e con una progressione drammaturgica esemplare. Il didascalismo tipico di Miller è ben presente nella tesi che l’uomo ha una responsabilità collettiva che non può ignorare e che va ben al di là del suo angusto ed egoistico interesse individuale e di quello della sua famiglia; ma tale didascalismo non è mai una palla al piede per la commedia, al contrario si incarna in personaggi estremamente autentici e credibili, oltreché ammantati di una notevole ambiguità psicologica, che l'arrivo di un nuovo personaggio nel secondo atto e il colpo di scena della lettera nel terzo fa deflagrare con esiti tragici. Per esempio, il commovente personaggio della madre di Larry, che attende con stolida e testarda ostinazione il ritorno del figlio dato per disperso tre anni prima in guerra, è in realtà connivente con il segreto delitto del marito (che ha venduto all’aeronautica militare pezzi di ricambio difettosi causando la morte di ventuno giovani piloti), e la sua assurda sicurezza materna è in realtà un modo implicito per assolverlo (“perché Dio non può permettere che un padre uccida suo figlio”). Lo stesso padre è convinto in cuor suo di essersi comportato in maniera naturale e non censurabile (e la comunità che lo riaccoglie nel suo seno dopo il processo sembra dargli ragione), dal momento che suo figlio non volava sugli aerei che utilizzavano i pezzi difettosi usciti dalla sua fabbrica, e solo la scoperta che Larry si è suicidato, sconvolto dal delitto del padre, lo richiama alle proprie responsabilità. Perfino Chris, l’idealista fratello di Larry, non è esente da colpe morali, giacché la sua fiducia nell’innocenza paterna può essere in realtà vista come incapacità di voler vedere al di là della superficie del perbenismo borghese del genitore. La responsabilità dell’uomo per il suo prossimo è quindi il messaggio etico di Miller, che si conferma autore di profondissimo impegno civile. Se le vecchie generazioni sono in gran parte compromesse, spetta ai giovani (soprattutto Chris, che è il vero protagonista, amleticamente incerto su dove stia la verità ma ancora in possesso di valori autentici in cui credere, oltre alla ex fidanzata di Larry, ora promessa sposa di Chris, e a suo fratello George) cambiare mentalità e affrontare il futuro con spirito rinnovato, anche a costo di andar contro ai propri interessi materiali e di sconvolgere i consolidati equilibri familiari.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    04 Febbraio, 2020
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MORTE DEL SOGNO AMERICANO

Chi è Willy Loman? E’ solo il commesso viaggiatore che, dopo una vita di duro lavoro all’inseguimento del successo e della ricchezza, è costretto, alle soglie della vecchiaia, a constatare amaramente il proprio fallimento, oppure è il rappresentante di una categoria umana più vasta? Arthur Miller, pur senza voler fare nel suo testo una critica sociale di stampo brechtiano, propende sicuramente per la seconda risposta, una risposta che, per la modernità dell’opera, coinvolge direttamente anche noi lettori/spettatori contemporanei. Loman sarebbe cioè una figura archetipica, espressione di un sistema di valori che esalta il successo individuale come unico scopo della vita e unico mezzo per raggiungere la felicità, un sistema su cui si è imperniato nel secolo scorso il mito dell’”american way of life” e del “self made man”, ma che oggi, in un’economia sempre più globalizzata e consumistica, ben può essere esteso a qualsiasi società capitalistica occidentale. Loman è quindi l’uomo medio che antepone ad ogni considerazione etica e spirituale la realizzazione (economica e materiale) di se stesso e dei propri figli, e che giudica la bontà della propria vita esclusivamente secondo il metro di questi valori. Egli è non a caso un commesso viaggiatore, cioè un venditore, un uomo che è abituato a dare un prezzo ad ogni cosa: in una società mercificata, egli stesso diventa una merce, e questo processo di reificazione (che altro non è se non un’equivalente della alienazione marxista del proletariato) si spinge a tal punto che, quando Loman vede crollare sulla sua testa il mondo per cui aveva combattuto tenacemente per decenni, egli ricorre all’ultima cosa in suo possesso che gli permetta di credere di valere ancora qualcosa, anche se paradossalmente a costo della sua stessa vita: la polizza assicurativa stipulata anni prima per garantire alla famiglia un indennizzo nell’eventualità della propria morte.
“Morte di un commesso viaggiatore” è un’opera profondamente tragica, non solamente perché si conclude con un suicidio e, soprattutto, non nel senso classico del termine. Se nella tragedia classica, l’eroe soccombeva, dopo una strenua lotta, di fronte a qualcosa troppo più grande e forte di lui (ad esempio il fato), nel dramma milleriano la dimensione è infatti molto più mediocre, in quanto Willy Loman è vittima di un sistema di cui lui è sostanzialmente, pateticamente, connivente. Egli non giunge mai, nemmeno in punto di morte, a prendere coscienza di un meccanismo perverso che spreme gli uomini fintantoché sono in grado di assicurare profitti e li getta via come stracci quando invece non servono più. Il suo suicidio non è affatto un gesto di estrema ribellione, ma solo uno stratagemma per permettere ai figli di realizzare, grazie all’indennizzo assicurativo, quello che non è riuscito a lui. Il sistema rimane così sostanzialmente assolto, immune com’è da ogni messa in discussione dal suo interno (e questo chiama in causa un’altra problematica, quella del conformismo, evidenziato dall’ossessione di Loman di piacere alla gente).
Loman è un personaggio dalle mille sfaccettature, volta a volta euforico o depresso, mite o arrogante, orgoglioso o umiliato, energico o allo stremo delle forze, lucido e calcolatore o vaneggiante come un demente. Per la sua complessità, oscillante tra humour e dramma, è’ senza dubbio uno dei più straordinari personaggi della storia del teatro, e non stupisce che ad interpretarlo, sulle scene teatrali così come davanti la macchina da presa, siano sempre stati attori di grande carisma, come Lee J. Cobb, George C. Scott, Frederic March, Dustin Hoffman e, in Italia, Paolo Stoppa ed Eros Pagni.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    27 Gennaio, 2020
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IL SEGRETO DEL MONDO O L'EPIFANIA DELLA PAZZIA

“Mi sentivo come dentro un incubo ricorrente. Quando mi sarò svegliato, pensai, mia madre mi preparerà un panino alla mortadella e andrò al liceo. Ma non mi sarei svegliato.”

“La letteratura nazista in America”, scritta da Bolano nel 1996 con un taglio enciclopedico di stampo inequivocabilmente borgesiano (penso soprattutto al Borges di “Finzioni” e di “Storia universale dell'infamia”), è un'antologia totalmente inventata della letteratura di estrema destra prodotta in America nel XX secolo. Nell'ultimo capitolo si narra la storia di Ramirez Hoffman, “l'infame”, un poeta-performer futurista, divenuto popolare nel Cile di Pinochet per le sue poesie aeree scritte nel cielo con le scie di fumo rilasciate dal suo monoposto, ma anche per aver torturato e ucciso decine di oppositori del regime militare, ritraendoli poi in macabri scatti con la sua macchina fotografica. “Stella distante” riprende pari pari (a parte il francamente superfluo cambio dei nomi: Ramirez Hoffman diventa Carlos Wieder, le sorelle Venegas diventano le sorelle Garmendia, Cecilio Macaduck diventa Bibiano O'Ryan, e così via) questa vicenda e, allargando la prospettiva storica, ampliando il panorama culturale di riferimento, inserendo nuovi personaggi e nuove sotto-storie al suo interno, trasforma quello che era un racconto di poche pagine, scarno ed essenziale, in un romanzo vero e proprio. Confesso di essermi emozionato scoprendo che il narratore della storia di questo poeta-aviatore-serial killer altri non è se non Arturo Belano, il futuro protagonista del meraviglioso “I detective selvaggi” nonché alter ego dell'autore in svariati altri racconti (un po' come il Nathan Zuckerman di Philip Roth). Ciò mi ha portato istintivamente a fare tanti parallelismi, a rintracciare tante somiglianze, con “I detective selvaggi” e con “2666”: anche in “Stella distante” c'è infatti in primissimo piano il mondo della poesia d'avanguardia e sperimentale (con tanto di seminari di poesia tenuti in aule universitarie di medicina che puzzano di formalina, di reading letterari semi-clandestini, di “poeti sperduti” nel deserto, di strampalate correnti pseudo-artistiche e di personaggi che stanno “sempre lì a discutere di poesia anche se il Cile andava a remengo”); c'è anche la descrizione esaltata e a suo modo romantica della giovinezza (un romanticismo che si potrebbe definire “alla Kerouac”, se solo Kerouac fosse stato più intellettuale), un periodo spensierato in cui si parla di tutto, di poesia, di politica, di arte e di lotta armata (“la lotta armata che ci avrebbe dispensato una nuova vita e una nuova epoca, ma che per la maggior parte di noi era come un sogno o, più esattamente, come la chiave che ci avrebbe aperto la porta dei sogni, gli unici per cui valesse la pena vivere. E sebbene vagamente sapessimo che spesso i sogni si trasformano in incubi, questo non ci importava.”); c'è il nomadismo di chi gira il mondo per necessità (il Cile degli anni '70 non era infatti il “migliore dei mondi possibili” in cui vivere) o per vocazione; e infine c'è la violenza, una violenza sadica, brutale, immotivata, espressione di un male assoluto che, in un mondo privo di valori, viene persino perseguito, da menti malate come quella del protagonista, alla stregua della più pura e catartica espressione di bellezza e di verità. La violenza storica (quella del regime militare di Pinochet) si intreccia a quella privata, e si ipostatizza in un personaggio, quello di Carlos Wieder, dalla torbida e terrificante ambiguità. La glaciale imperturbabilità di quest'uomo, il suo fascino amorale e perverso incarna alla perfezione la banalità del male, diventando al contempo il simbolo stesso della sua pervasività e della sua immanenza. Come un cancro, i mostri come Wieder si occultano nelle piaghe marcescenti della società, aggirandosi come inquietanti fantasmi che scompaiono e riappaiono nei luoghi e nei momenti più impensati (e i delitti seriali di “2666” sembrano originare proprio da questo romanzo seminale). Il male che Bolano descrive non si può affrontare facilmente, perché è viscido e sfuggente: l'amico intimo del narratore, Bibiano O'Ryan, si impegna per tutta la vita a rintracciare Wieder, attraverso tracce sempre più labili, indizi sempre più inconsistenti e frammentari, ma inutilmente (“Bibiano tenta di non battere ciglio affinché il suo personaggio non gli svanisca sulla linea dell'orizzonte, ma nessuno, e tanto meno in letteratura, è capace di non battere ciglio per un lasso di tempo protratto, e Wieder svanisce sempre”). Il narratore sogna una notte di naufragare a bordo di un galeone e, aggrappato a un pezzo di legno, vede a pochi metri da lui Wieder: “Capivo in quel momento, mentre le onde ci allontanavano, che Wieder e io avevamo viaggiato sulla stessa nave, solo che lui aveva contribuito a farla affondare mentre io avevo fatto poco o nulla per evitarlo”. Bolano esprime così i sensi di colpa di una generazione di intellettuali che, seppure non collusa col potere, è nondimeno incapace di arginare la violenza della Storia. Non è un caso che a ritrovare e a uccidere Wieder non sia Belano e neppure Bibiano, ma un ex poliziotto cinico e dai modi spicci, i cui occhi non più innocenti hanno imparato a non farsi ipnotizzare dall'orrore (con sublime ironia, Bolano rovescia il racconto biblico, facendo uccidere Caino da Abele – Abel è infatti il nome di battesimo del poliziotto-giustiziere).
Bolano utilizza, come ne “I detective selvaggi” e in “2666”, una trama da romanzo giallo, ma il suo è un finto giallo (un po' come finti gialli sono certi racconti di Borges e di Durrenmatt). L'occhio del lettore infatti non ha mai il diritto di entrare nei luoghi dei delitti, nelle camere di tortura, e neppure nella stanza dove, con inaudita impudenza, Wieder allestisce per i suoi amici e colleghi una mostra fotografica dove sono presumibilmente esposti gli scatti delle vittime dei suoi brutali omicidi; neppure ha modo di seguire l'evoluzione delle investigazioni della polizia o dei detective privati. Quello che a Bolano interessa è descrivere una violenza ontologica, inestirpabile, e il suo stile straniato e antiemozionale produce proprio, paradossalmente, l'effetto di accrescere l'orrore nel lettore, che si trova di fronte a crimini tanto più insopportabili quanto più normali, privi di ogni carattere di straordinarietà (in questo senso la monotona descrizione dei delitti, che trova il suo apice nella quarta parte di “2666”, dove vengono sciorinati uno dopo l'altro, come in una macabra litania, gli innumerevoli omicidi di Santa Teresa, è quanto mai funzionale ad incrementare la sensazione che il male è dappertutto, oscuro e impenetrabile, e in esso, se solo si sapesse guardarlo – ma l'arte, ahimè, è per Bolano pateticamente incapace di farlo - “c'è nascosto il segreto del mondo”).
Insieme all'inspiegabilità del male, c'è in “Stella distante” il tema dell'impossibilità di decifrare la verità. Tutta la storia di Carlos Wieder e degli altri personaggi del romanzo è costellata di espressioni dubitative, come “tutto quanto finora raccontato forse accadde così […] Ma forse tutto accadde altrimenti”, “seppi da un amico (pur non sapendo se la storia sia vera)...”, “più della metà delle storie vengono falsificate oppure sono soltanto l'ombra della storia reale”. La realtà resta, nonostante tutti gli sforzi dei suoi interpreti, impenetrabile ed enigmatica. Proprio come nel principio di indeterminazione di Heisenberg, non appena si tenta di afferrarla, la verità, lungi dal palesarsi, si occulta sempre di più (basti pensare al beffardo finale de “i detective selvaggi”, in cui gli amici realvisceralisti cercano per tutto il romanzo la poetessa Cesarea Tinajero, ma, quando finalmente la trovano, ne provocano involontariamente la morte). In “Stella distante” ci sono tanti esempi di questo paradossale assunto: ad esempio, quando Bibiano, dopo aver cercato dappertutto tracce della epica carriera da guerrigliero di Juan Stein, scomparso dopo il golpe militare ma periodicamente riaffiorante tra i rivoluzionari sandinisti in Nicaragua, tra i combattenti internazionalisti in Angola, tra i componenti del commando che assassina Somoza in Paraguay, e infine tra i caduti del Fronte Farabundo Martin in San Salvador, quando Bibiano – dicevo – tenta di mettersi in contatto con la sua famiglia d'origine, scopre – forse – che l'uomo è morto senza mai essersi mosso dal Cile. Ma quella di Juan Stein è solo una delle tante micro-storie presenti in “Stella distante”. Bolano si conferma infatti uno straordinario inventore di storie, che nel romanzo proliferano, si moltiplicano e si ramificano, dando origine a una costruzione narrativa particolarissima, strabordante di riferimenti culturali (autentici o fittizi) e inconfondibile nel suo stile oscillante tra fredda e cronachistica asetticità e narrazione mitologica (troviamo così le vicende parallele dei poeti-amici Juan Stein e Diego Soto, dai destini divergenti eppure così tragicamente simili, quella di Lorenzo, il ragazzo senza braccia il quale, avendo capito che “uccidersi, in questa circostanza sociopolitica, è assurdo e ridondante”, decide di trasformarsi in un poeta segreto, quella della setta degli “scrittori barbari”, i quali cercano, defecando, orinando e masturbandosi sui capolavori letterari del passato, di ottenere una magica fusione con essi, e tante altre ancora). “Stella distante” ha pertanto un andamento perennemente centrifugo, cui neppure l'inesorabile finale riesce a dare un senso di compiutezza, e la stessa storia di Wieder appare volutamente irrisolta, sfrangiata, fuori fuoco (“era la storia di qualcosa di più, anche se allora non sapevo di cosa”), una storia che è probabilmente l'emblema di una follia che, come un incubo sognato ad occhi aperti, ha segnato come una maledizione tutta la prosa inquieta e ironicamente dolorosa di questo lucidissimo e imprescindibile autore.

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"I detective selvaggi" di Roberto Bolano
"Finzioni" di Jorge Luis Borges
"Storia universale dell'infamia" di Jorge Luis Borges
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    22 Gennaio, 2020
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MADRE CORAGGIO, VITTIMA DELLA STORIA

“La guerra trova sempre una soluzione. Perché mai dovrebbe finire?”, dice il personaggio del cappellano a Madre Courage. Eh sì, purtroppo l’esperienza dei secoli passati e la cronaca di questi ultimi anni dimostrano a sufficienza che la guerra non ha mai fine, non solo, ma che spesso essa è paradossalmente vista come un mezzo per arricchirsi e per risolvere i problemi dell’economia (negli ultimi tempi mi è capitato più volte di sentire negli ambienti finanziari la cinica considerazione che quando vengono lanciate le prime bombe le borse schizzano sempre su, e non è un mistero – la storiografia più seria ce lo ha abbondantemente insegnato – che spesso le guerre hanno avuto il prioritario, se non addirittura l’esclusivo scopo di dare uno sfogo alla manodopera in eccesso, di incrementare la produzione industriale, di entrare in possesso di materie prime e di altre risorse economiche non disponibili nella madrepatria). Le Madri Courage, queste donne indomite e ostinate, abilissime nell’arte della sopravvivenza e del mercato nero, che tirano avanti la loro carretta in qualsiasi circostanza e a costo di qualsiasi sacrificio personale, incuranti di morali e ideologie, sono quindi sempre esistite, esistono tuttora, e presumibilmente esisteranno ancora in futuro. Il grande merito di Bertolt Brecht è di avere inventato un personaggio universale, un “tipo” destinato a rimanere impresso a lungo nella memoria e nella coscienza degli spettatori, trascendendo il didascalismo insito nel testo.
Questa Madre Courage non è mai un personaggio totalmente negativo. Anche se i figli le vengono strappati in parte per sua colpa (il primo si arruola mentre lei è assorbita da una lucrosa compravendita, il secondo è ucciso perché lei cerca di mercanteggiare il prezzo della sua liberazione, la terza viene violentata mentre si sta recando ad acquistare le scorte di cui il suo commercio ha bisogno), Madre Courage fa più pena che rabbia: essa è in fondo una vittima della Storia, e il suo cinismo non è altro che la patetica espressione di quell’atavica arte di arrangiarsi che il popolo ha sempre coltivato nell’illusione di non farsi sopraffare dal caotico succedersi di guerre, carestie, pestilenze e cambiamenti di regnanti, governi e religioni. Ciò che Brecht, da autore marxista qual è, le imputa è l’assenza di una consapevolezza politica, di una coscienza di classe. Madre Courage non capisce che la guerra, lungi dall’essere la sua fortuna (com’ella stolidamente crede, al punto che quando “scoppia” la pace non esita a vestirsi a lutto), è la vera causa delle sue disgrazie, e che a vincere alla fine è sempre e solo chi sta in alto. La protagonista della commedia brechtiana, senza saperlo (infatti ella è convinta di destreggiarsi sempre per il meglio tra le difficoltà della vita, di manovrare a suo vantaggio tutte le circostanze, più o meno avverse, che le si presentano lungo il cammino), è così l’involontario complice di quell’imperialismo senza valori, di quel capitalismo guerrafondaio, di quella borghesia sfruttatrice, che sono destinati a schiacciarla come un insetto.
L’opera di Brecht è innegabilmente e volutamente dissonante e tende a spegnere il pathos e l’emozione per mezzo dei più vari accorgimenti drammaturgici (la suddivisione della storia in tanti capitoletti enunciati in maniera fredda e impersonale da un ragazzino, le canzoni che spezzano il climax narrativo, il programmatico didascalismo dell’autore che privilegia lo straniamento e la riflessione intellettuale rispetto al coinvolgimento e all’immedesimazione). In ogni caso, anche se in alcune sue parti risulta ruvido, ostico e obiettivamente difficile, si tratta sicuramente di un grande testo, che io ho avuto anni fa la fortuna di vedere rappresentato a teatro con la straordinaria, indimenticabile Mariangela Melato.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    17 Gennaio, 2020
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LA VERITA', VI PREGO, SULL'AMORE

ATTENZIONE, LA RECENSIONE CONTIENE SPOILER

Di Carl-Emmanuel Schmitt avevo visto qualche anno fa “Il visitatore”, un’opera a due voci nella quale – attraverso il pretesto di un misterioso personaggio (in realtà lo stesso Dio) che si introduceva nottetempo nella casa di Freud – venivano posti e affrontati affascinanti interrogativi etici. Il substrato filosofico-esistenziale e la formula a due personaggi ricorrono anche in “Variazioni enigmatiche”, una commedia ottimamente congegnata, che procede di sorpresa in sorpresa, spiazzando continuamente lo spettatore e consentendogli, oltre che di entrare progressivamente nella natura dei personaggi, di mettere gradualmente a fuoco, al di là della lettera del testo, le reali intenzioni dell’autore.
Ma andiamo con ordine. Un famoso scrittore, che si è ritirato a vivere in un’isola sperduta del Nord Europa, accetta di essere intervistato dall’inviato di un piccolo giornale di provincia. Lo scrittore ha appena dato alle stampe un libro basato sulla corrispondenza tra un uomo (alter ego dello stesso autore) e una donna, i quali, un tempo amanti, hanno deciso di continuare a vivere il loro amore in forma esclusivamente epistolare. Il giornalista cerca di indagare se dietro al personaggio femminile si nasconda una persona in carne e ossa. Lo scrittore dapprima nega, ma poi – prima sorpresa – è costretto ad ammettere che, sì, la figura del suo romanzo è una certa Hanne, la quale abita nel medesimo paese del giornalista. E’ proprio per consegnargli una lettera da recapitare alla fantomatica donna che lo scrittore ha in realtà convocato il giornalista, il quale però non è colui che credevamo ma – seconda sorpresa – si rivela essere nientemeno che il marito. Lo scrittore, che in tutti questi anni non aveva subodorato nulla, apprende la notizia con sgomento, ma ancora più costernato rimane quando il suo ospite lo informa – terza sorpresa – che la donna è morta, non solo, ma che è morta – quarta sorpresa – da ben dieci anni. A questo punto l’ultima sorpresa è facilmente intuibile. Il marito, scoperta la platonica tresca, si è sostituito per tutto questo tempo alla moglie, continuando a scrivere le lettere al suo posto nell’illusione di farla sopravvivere. In un finale paradossale, anche lo scrittore si convincerà a proseguire la sua relazione epistolare, chiudendo gli occhi sul fatto che il destinatario delle sue lettere d’amore non sarà più (ma del resto non lo era stato, a sua insaputa, già da dieci anni) l’oggetto del suo desiderio bensì il fedele consorte.
“Variazioni enigmatiche” ha, come si può notare, un andamento in crescendo, nel corso del quale i rapporti reciproci tra i due protagonisti mutano in continuazione, fino a giungere ad una inaspettata situazione di uguaglianza. Il lento e inesorabile svelamento della verità ultima mette implacabilmente a nudo le loro anime, ma soprattutto, come si accennava all’inizio, rivela la natura essenzialmente illusoria dei sentimenti. L’amore (come dimostra la scelta dello scrittore di viverlo a distanza, platonicamente) è, più che un fatto fisico, una costruzione mentale, una idealizzazione della persona amata, anche quando c’è la chiara consapevolezza (come nell’esperienza paradossale vissuta dai personaggi della commedia) della finzione e dell’autoinganno. Questa considerazione suggerisce altresì una seconda lettura, per così dire metaforica, in quanto, posto in tal guisa, l’amore è del tutto simile all’arte, i cui mezzi, pur innegabilmente artificiosi e frutto dell'invenzione umana, si pongono l’ambizioso traguardo di rappresentare la realtà in una versione più vera del vero, nei casi limite addirittura di sostituirla. Ciò che la commedia arriva a dire non è solo che l’uomo sublima la realtà e l’amore attraverso l’invenzione fantastica, ma che addirittura li ricrea per supplire alla loro inadeguatezza ontologica. Quando lo scrittore afferma che il suo libro è un’opera di pura fantasia, egli crede di mentire (sapendo che la corrispondenza epistolare che il libro contiene è autentica), e invece a sua insaputa dice la verità: l’arte e l’amore sono infatti una finzione, una mistificazione, che però l’uomo, in un incessante gioco di autoconvincimento, continua a prendere per veri. Non si tratta più – è ovvio - dell’errore dei prigionieri della caverna di Platone (che subiscono l’inganno dalla nascita), ma il risultato, ossia la sostituzione dell’ombra delle cose alle cose stesse, è in fondo il medesimo. Anche un premio Nobel misantropo e solitario («Non si annoia tutto il tempo da solo?» «In mia compagnia? No di certo!») ha un disperato bisogno dell’illusione, e la pena che alla fine proviamo per la sua sofferenza e la sua vulnerabilità lo trasforma nel simbolo stesso di una più universale condizione umana, illuminando in tal modo l’intera commedia di una inattesa luce di laica compassione e di solidaristica fratellanza.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Gennaio, 2020
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L'INCANTO SEGRETO DELLE PAROLE

“La definizione è per sua natura finita, è limite e confine, mentre io voglio il lontano, […] cerco l'infinità in cui tutto, tutto si riunisce.”

“Un vero scrittore dovrebbe infischiarsene di tutti i lettori salvo uno: il lettore futuro.”

Che bella sorpresa, quale inatteso regalo è stato per me leggere “Il dono”, il cui titolo mi appare retrospettivamente quanto mai appropriato e allusivo, dal momento che ho terminato questo ultimo romanzo russo di Nabokov proprio durante le recenti festività, praticamente tra il panettone di Natale e lo spumante di Capodanno! “Il dono” è un'opera straordinariamente eclettica, dalle mille, proteiformi, facce: è un romanzo parzialmente autobiografico (dal momento che il protagonista, checché ne dica l'autore, condivide con esso svariate esperienze di vita – l'esilio a Berlino, l'essere rimasto orfano del padre – e altrettante intime peculiarità – ad esempio, l'amore per l'entomologia e il gioco degli scacchi), una satira sul mondo degli intellettuali russi emigrati all'estero dopo la Rivoluzione, un'invettiva venata di beffardo sarcasmo contro il bolscevismo, ma anche – e soprattutto – un magnifico libro sulla nostalgia: per la madrepatria (una nostalgia “che si è attaccata come argentea sabbia di mare alla suola delle scarpe, che vive negli occhi, nel sangue, che dà spessore e profondità allo sfondo di ogni speranza”), per il padre scomparso (un uomo che conosceva “due o tre cose che nessun altro sapeva”), per la letteratura del passato, con i grandi scrittori russi (Puskin in primis) a fare da esigenti muse ispiratrici. Banalmente, si potrebbe riassumere “Il dono” come la storia di Fedor Konstantinovic Godunov-Cerdyncev, che si barcamena come meglio può tra le ristrettezze economiche di un esiliato (squallide camere in affitto, lavoretti saltuari di traduzione, pochi spiccioli in tasca) e le aspirazioni artistiche di un letterato non disposto a scendere a compromessi con la prosaica realtà che lo circonda (siamo nella Germania pre-nazista degli anni '20, “questo paese opprimente come un'emicrania”, dove ”la famosa bonomia tedesca con tanta facilità e naturalezza può divenire in qualsiasi momento rabbioso ululato”). Ma “Il dono” è molto più complesso e articolato di quello che una succinta epitome potrebbe mai lasciare intuire. In fondo quello che si legge nelle quasi cinquecento pagine del libro è la lenta, progressiva maturazione in Fedor Konstantinovic della decisione di scrivere il libro stesso che abbiamo davanti agli occhi, è quindi il processo creativo di un'opera raccontata – se così si può dire – nel suo farsi (non a caso “Il dono” si apre con il protagonista che, assistendo a un trasloco nel quartiere dove abita, commenta: “Sarebbe un buon inizio per un bel romanzo lungo, di quelli che si scrivevano una volta”). Ci troviamo di fronte a un testo dalla forte impronta meta-letteraria, quasi sperimentale, pur nella classicità di uno stile meno barocco e pirotecnico di quello a cui Nabokov abituerà il lettore durante il periodo americano (ma non manca anche qui qualche singolare fuoco d'artificio verbale, come quando, guardando un'insegna colorata in cui le lettere luminose si accendono una alla volta, obliquamente, come su una scala, Fedor Konstantinovic immagina quale parola potrebbe mai raggiungere il cielo, e così facendo inventa un caleidoscopico neologismo, “adamantinopalebanocramarantaranciaccesolivastrazzurroltremarindacobaltavorio”). La struttura de “Il dono” è particolarmente elaborata e composita, anche se a prima vista non sembrerebbe. Al suo interno, come in un gioco di scatole cinesi, c'è un capitolo (la “Storia di Cernysevskij” scritta da Fedor Konstantinovic) che è un romanzo all'interno del romanzo. Inoltre il libro sul padre – che la madre del protagonista lo incita a scrivere ma che egli non si sente all'altezza di realizzare – è in fondo contenuto subliminalmente nella lunga digressione del secondo capitolo, interamente dedicata all'adorato genitore e dove egli immagina di partecipare ad uno dei suoi avventurosi ed esotici viaggi scientifici (Nabokov si diverte cioè a fare il prestigiatore, svelando con una mano ciò che fa finta di nascondere con l'altra). C'è poi una curiosa commistione tra fantasia e realtà, se si pensa che il quarto capitolo (quello dedicato alla “velenosa” biografia di Cernysevskij) è stato a lungo censurato, e di conseguenza espunto dalle varie edizioni che si sono succedute fino a quella definitiva del 1952, allo stesso modo in cui nella finzione narrativa esso viene rifiutato dalla casa editrice di Vasilev.
Di arditi paradossi e di sorprendenti mises en abyme è pieno il capolavoro nabokoviano, ma quello che da esso maggiormente traspare è l'amore smisurato per la letteratura, sia quella del passato, con ispiratissime citazioni e rimandi culturali che purtroppo non sono facilmente comprensibili dal lettore occidentale (che conosce sì Puskin, Turgenev, Gogol e Lermontov, ma che ignora probabilmente chi siano Belyi, Bunin o Esenin e mai immaginerebbe che il “Che fare?” di Cernysevskij sia stato al centro di una accesa disputa ideologica tra i fautori dell'arte per l'arte e quelli dell'arte materialista e rivoluzionaria – va da sé che Nabokov, il quale con il suo protagonista giudica “Che fare?” “un riassunto da scolaro, un'infantile valutazione delle più ardue questioni morali”, si colloca tra i primi), sia quella che Fedor Konstantinovic, assecondando la sua impellente vocazione, cerca di creare in ogni ora delle sue giornate. Egli è letteralmente imbevuto di arte e vive costantemente in funzione della poesia, guardando ad ogni evento anche minimo della sua esistenza, ad ogni successione casuale di fatti, come a uno spunto potenziale da conservare e da riportare nelle sue strofe. Il mondo per lui è un'entità da assorbire e riplasmare in continuazione, al solo fine di ricavarne l'ispirazione per i suoi versi. Si potrebbe pensare che egli viva la vita solo in maniera indiretta, un po' come quei fotografi che non riescono più a vedere le cose con i loro occhi, ma solo attraverso l'obiettivo della loro macchina fotografica. In realtà la sua ambizione è nientemeno che quella di ricreare il suo passato, di restituirne intatte e con l'originaria vividezza la più sottili sfumature, le più impalpabili nuances. Come il suo omologo borgesiano Funes, ma con ben diversa consapevolezza (là dove c'era la sofferta impossibilità di sopportare una mole smisurata di ricordi, qua c'è l'esaltazione “per il barattolo di latta su un terreno vago, per la figurina di un pacchetto di sigarette calpestata nel fango, per la povera parola colta al volo, ripetuta da una persona buona, debole, amorosa, che è stata appena rimproverata senza motivo, – per tutto il pattume della vita che [...] si trasforma in qualcosa di prezioso e eterno”), Fedor Konstantinovic fruga come un rabdomante nella sua memoria per ritornare al paradiso perduto della sua infanzia. Egli arriva in tal modo a rompere le barriere del tempo: si immerge in maniera talmente profonda nei lontani ricordi del passato che al lettore sembra di stare passeggiando con lui nel parco della sua villa avita (con tanto di minuziose osservazioni sulle pozzanghere del selciato o sui riflessi della luce che trapela dagli alberi), quando invece all'improvviso un brusco richiamo della realtà sgretola le immagini ricostruite fedelmente dalla memoria per farlo ripiombare nel mediocre presente berlinese; oppure, con un procedimento specularmente contrario, riesce con inaudita intensità di forme e colori a trasfigurare uno squallido vicolo della capitale tedesca nel piazzale della villa russa di un tempo, davanti alla quale la famiglia sta in posa come nella fotografia ingiallita che egli conserva gelosamente nella sua stanza. Il protagonista de “Il dono”, come Proust, è alla continua ricerca del tempo perduto (è solo un caso che il suo libretto di liriche si apra con una poesia su un pallone perduto e si chiuda con una poesia su un pallone ritrovato?), ma mentre per lo scrittore francese il tempo resuscita come per un involontario miracolo dalle lontananze del passato, quello del poeta nabokoviano è un recupero frutto di un indefesso e ostinato sforzo di volontà teso a non far svanire le impressioni di una volta e restituirle nella maniera più fedele possibile nei versi delle sue composizioni. Con analoga abnegazione Fedor Konstantinovic si dedica al compito di trasfigurare la realtà, cercando di decifrare il suo codice segreto (“le cuciture e gli squarci del giorno primaverile, le scabrosità dell'aria, i ruvidi fili di suoni confusi che si incrociavano a casaccio – non era altro che il rovescio di un tessuto magnifico sul cui diritto si andavano formando e un po' per volta prendevano vita immagini a lui invisibili”).
E' impossibile non voler bene a Fedor Konstantinovic, personaggio che pur non amando troppo mescolarsi agli altri e pur conscio della sua superiorità intellettuale, non manifesta mai superbia o alterigia. Certo, egli, nonostante la sensibilità cui cerca di improntare la sua vita, soffre di umanissime debolezze, prova invidia per l'affermato collega Konceev (con il quale riesce solamente con l'immaginazione, in due diverse circostanze, a intavolare un appassionato dialogo filosofico tra anime elette) così come gelosia nei confronti del precedente fidanzato di Zina, la ragazza, figlia dei suoi locatori, di cui è innamorato. Ma Fedor Konstantinovic ha anche una grande dignità, e quando Vasilev respinge il suo manoscritto avvisandolo che tutti gli volteranno le spalle, egli risponde con una frase memorabile: “Io ho un debole per le nuche”. Nabokov si diverte a metterlo in situazioni scabrose: per ben due volte perde le chiavi e rimane chiuso la notte fuori di casa, quando d'estate si reca al parco per prendere un po' di frescura gli vengono rubati i vestiti ed è costretto a rientrare vestito del solo costume da bagno. Ma Fedor Konstantinovic affronta queste prove, così come la precarietà abitativa o l'indigenza, con una encomiabile fierezza, quasi come se l'arte, grazie alla quale cerca di conquistare un suo spazio nel mondo (e una improbabile immortalità tra i posteri), fosse una protezione sufficiente a fargli superare qualsiasi delusione e qualunque difficoltà, mettendolo al riparo dalle tempeste dell'angoscia e del dubbio. In lui si esprime un incondizionato e, trattandosi di Nabokov, anche parzialmente inaspettato, amore per la vita (“come è intelligente, com'è squisitamente maliziosa ed essenzialmente buona la vita!”), un fiducioso abbandono alle sfide del destino. Tutto “Il dono” è pervaso di ottimismo e di vitalità: dello stesso Puskin, morto come si sa in giovane età in seguito alle ferite subite in un duello, si dice “come desiderava vivere!”. Mi piace pertanto terminare la recensione di questo libro, capace di offrire un sofisticato e raffinatissimo godimento intellettuale ai lettori più esigenti, proprio con una poesia di Puskin, citata da Fedor Konstantinovic.
Oh no, la vita non mi tedia:
io amo vivere, mi piace.
Ignoro il gelo dell'accidia
anche se il cuore vuole pace.
Al sole mi riscalderò
di genio e di bellezza.

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"Evgenij Onegin" di Aleksandr Puskin
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    07 Gennaio, 2020
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QUESTO GIOCO E' UN LABIRINTO

Ci sono delle pagine di orrore puro e assoluto ne “Il gioco del mondo”, e per la precisione sono quelle in cui Oliveira prima, e gli altri amici del Club del Serpente dopo, si accorgono che il figlio della Maga, da giorni in preda a una fortissima febbre, è morto, ma nessuno trova il coraggio di fare alcunché (“Adeguarsi allo stereotipo… Urlare, accendere la luce, fare il finimondo di rito. Perché?… Fare secondo lo stampo quel che si deve in questi casi. Ah, no, basta. A che scopo accendere la luce se so che non serve a niente?”), e tutti aspettano che sia la madre a scoprire da sola la disgrazia, continuando a parlare come se niente fosse di arte e filosofia, con il cadavere del neonato a pochi metri. In queste illuminatissime pagine si sintetizza quello che è uno dei leitmotiv del romanzo: l’incapacità dell’intellettuale di agire, la distanza incolmabile e inesorabile tra intelletto e azione, tra mente e corpo, tra arte e vita, tra cultura e natura, istanze inconciliabili di cui sono rappresentanti Oliveira e la Maga. Se il primo è un loico che ama far precedere la riflessione all’azione, la Maga è puro istinto: ad esempio, per Oliveira il disordine stesso in cui egli vive nella soffitta di rue de la Huchette è il risultato di un metodo, di uno stile di vita intenzionalmente adottato, mentre nella Maga non c’è questa consapevolezza o progettualità, ma un abbandono cieco al fluire della vita. Ma non si tratta solo di questo. Oliveira, “sempre timoroso di perfezioni”, non è solamente uno dei tanti intellettuali inetti a vivere cui ci ha abituati la letteratura dell’ultimo secolo; egli è anche un cercatore, un indagatore, quasi un mistico se non fosse che l’oggetto della sua ricerca non ha nulla a che vedere con il divino e con un aldilà trascendente. Egli cerca nientemeno di reinventare la realtà, di fare tabula rasa di tutte le sovrastrutture sociali, culturali e psicologiche che da millenni ce la fanno apparire come un qualcosa di dato e di immutabile, per farla infine risorgere vergine e incontaminata. In questo senso “Il gioco del mondo” sembra anticipare nientemeno che il ’68 e la sua ansia di rinnovamento della società, ed è forse per questo che il romanzo ha avuto un enorme successo tra i giovani di tutto il mondo. La ricerca di Oliveira porta però con sé due conseguenze negative: la perdita e la nostalgia. Per reinventare la realtà e trovare il mitico Centro, il “kibbutz del desiderio” in cui tutto si fonde e addiviene ad armonia ed unità, Oliveira è costretto a distruggere tutto, l’amore, l’amicizia, la rispettabilità, e a lasciare dietro di sé soltanto macerie. Soprattutto Oliveira è costretto a soffocare i sentimenti più umani, come la compassione, e ciò lo trasforma in un eroe tragico, nel momento in cui si rende conto dell’importanza di ciò che ha perso, e cerca inutilmente di recuperarlo, riconoscendone troppo tardi la purezza e il valore inestimabile (è il caso dell’amore per la Maga, abbandonata senza mezzi di sussistenza e con un figlio malato per non dover soccombere ai valori borghesi del dovere e della pietà). L’esito dell’utopistico progetto di Oliveira è uno solo: il fallimento (non è un caso che il romanzo dedica molte pagine ad altri velleitari progetti palingenetici, come l’intransigente riforma anti-tradizionalista della letteratura di Morelli e la bislacca Società delle Nazioni di Ceferino Piriz). Oliveira subisce a Parigi le umiliazioni più degradanti, viene ignominiosamente espulso e, tornato in patria, regredisce inesorabilmente, come un personaggio di Pirandello, nella pazzia. Nelle pagine ambientate a Buenos Aires il senso di perdita ed il rimpianto sono accresciuti dalla frequentazione di Traveler e di Talita, i quali sono dei veri e propri “doppi” di Oliveira e della Maga e col loro dimesso ma ugualmente felice tran-tran di coppia fanno intravedere quello che Oliveira avrebbe potuto diventare se non si fosse intestardito nel perdersi nella sua solipsistica e autodistruttiva condizione di prometeica solitudine. Il tentativo di creare rapporti, di allacciare contatti (il simbolo del ponte che ricorre in tutto il romanzo, dai ponts parigini alla precaria passerella che i due amici costruiscono per far sì che Talita possa portare il mate da una finestra all’altra dirimpetto) naufraga quindi nell’aridità e nell’inconsistenza delle sue teorie superomistiche.
Si è parlato tanto della struttura formale de “Il gioco del mondo”, delle sue due modalità di lettura (quella normale e progressiva, e quella, suggerita dall’autore, che costringe il lettore a saltare da un capitolo all’altro – dal numero 113 al numero 30, dal 57 al 70, e così via – seguendo un ordine solo in parte comprensibile), che distruggono la totemica unitarietà del libro come la si è sempre intesa. In realtà, la seconda modalità di lettura non cambia quasi nulla il senso del romanzo, ma ne accentua la sua costitutiva frammentarietà, permettendo ad aneddoti, elzeviri e riflessioni varie di insinuarsi ed ampliarne le prospettive in una direzione prevalentemente meta-letteraria. Quello che invece appare davvero rivoluzionario è lo stile di Cortazar, uno stile capace di reinventare letteralmente il linguaggio (basti pensare alla spassosa invenzione del gliglico, una lingua immaginaria che si pone come beffa del linguaggio razionale utilizzando parole senza significato, oppure a quel capitolo vagamente joyciano in cui si alternano, riga dopo riga, le prime frasi di un romanzo di Perez Galdos e i pensieri a ruota libera del protagonista), attraverso una assoluta padronanza dei mezzi espressivi, una sintassi originale e ironica, una creazione di dialoghi spericolatamente profondi e mai banali e, in fondo a tutto, la sensazione costante che ciò che si sta leggendo non sia rigidamente predeterminato dall’autore in tutte le sue sfaccettature, ma lasci al lettore un’ampia libertà di interpretazione. Insomma, Cortazar è stato un vero scrittore di avanguardia, a cui la successiva generazione di narratori latino-americani (basti pensare a Roberto Bolaño) deve moltissimo.

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"I detective selvaggi" di Roberto Bolano
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    30 Dicembre, 2019
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ROSITA MUTABILIS

A volte la vita realizza casualmente (casualmente?) delle coincidenze sorprendenti. A poche ore di distanza ho avuto infatti modo di assistere al film “Vincere” di Marco Bellocchio e alla commedia teatrale “Donna Rosita nubile” di Federico Garcia Lorca: due storie che, al di là dello spirito diverso (quasi espressionista, e di grande impegno politico e civile il primo, cechoviano, musicale e poetico il secondo), hanno in comune due figure di donna che, per rimanere fedeli al loro amore giovanile, sprecano entrambe la loro esistenza in attese estenuanti e illusioni destinate a rimanere irrealizzate. Se “Vincere” ha un deuteragonista maschile, il Duce, di titanica, seppur negativa, grandezza, “Donna Rosita nubile” è invece un’opera intimamente femminile: lo è perché i personaggi maschili (il cugino, lo zio, il maestro) sono figure meschine o imbelli o mediocri, mentre quelli femminili risaltano di molteplici sfaccettature drammatiche, ma lo è anche, e soprattutto, perché allarga il suo discorso poetico ben al di là della sua protagonista, per parlare della condizione della donna in un mondo fallocratico che la espone alle umiliazioni e sofferenze di una posizione sociale che è sempre subordinata all’essere moglie, madre o figlia di un uomo. Donna Rosita è una eroina emblematica di questa condizione, fin dalla simbolica similitudine con la “rosa mutabilis” che lo zio coltiva con maniacale passione, ed il cui colore passa da uno sgargiante rosso fuoco a un pallido bianco serale, fino a perdere i petali al sopraggiungere della notte. Il testo suggerisce che Rosita, apparentemente ignara dell’inganno del suo fidanzato e fiduciosamente in attesa del realizzarsi della promessa di matrimonio fattale in gioventù dal cugino, sia in realtà consapevole dell’inutilità delle sue speranze. Buttare via la propria giovinezza, sprecare la propria vita diventa allora l’unico atto di ribellione possibile per rimarcare la superiorità morale di un essere che non ha alcuna voce in capitolo, al di fuori di un matrimonio “onorevole”, per far valere i propri diritti, pur consapevole che la sua inesorabile trasformazione da “manola” a “zitella” la espone al ludibrio o alla pietà di chi la circonda. Insieme alle donne (memorabile il terzetto composto da Rosita, dalla zia e dalla governante), il protagonista è, come si può intuire, il tempo. Il trascorrere degli anni, che Garcia Lorca rende con ellittica eleganza, è il più ostinato avversario di Rosita, la quale ad un certo punto smette di uscire di casa per evitare di vedere, nel cambiamento delle persone intorno a lei, lo sgretolarsi crudele delle sue speranze. Eppure, nonostante l’innegabile tristezza dell’opera (accomunabile a quella di altri capolavori del teatro, come “Il giardino dei ciliegi”, “Zio Vanja” e “Tre sorelle” di Cechov, e “Zoo di vetro” di Tennessee Williams), “Donna Rosita nubile” è anche una commedia piena di brio, di musica, di danze e persino di notazioni umoristiche (ad esempio, la scena della visita delle zitelle, con quei ventagli che ossessivamente si aprono e si chiudono a mascherare disagi e imbarazzi), che diverte e commuove allo stesso tempo.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    23 Dicembre, 2019
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CONFESSIONI DI UN GIUDICE-PENITENTE

“In fin dei conti, è proprio questo che sono, rifugiato in un deserto di pietre, di nebbie e d'acqua putrida, profeta vuoto per tempi meschini, Elia senza messia.”

“La caduta” è una lunga, ininterrotta conversazione che si sviluppa, per la durata di sei capitoli corrispondenti ad altrettante giornate, tra il protagonista, Jean-Baptiste Clamence, e un anonimo interlocutore incontrato in un sordido bar di Amsterdam. Siccome l'improvvisato compagno di Clamence non apre mai bocca, o se lo fa Camus lascia sempre sottintese le sue rade parole, il dialogo assomiglia tanto a un incessante monologo. La memoria letteraria non può che andare ad altre famose opere del passato, da “La tana” di Kafka a “Memorie dal sottosuolo” di Dostojevskij, accomunate a “La caduta” non solo dall'analogo procedimento stilistico (l'uso della prima persona singolare) ma anche – soprattutto la seconda – da un analogo impianto filosofico. Apparentemente le differenze tra i loro protagonisti non potrebbero essere più grandi: mentre quelli di Dostojevskij e di Kafka sono personaggi del sottosuolo (anche letteralmente, se si considera l'animale de “La tana”), frustrati, inappagati e diffidenti, Clamence si presenta fin dall'inizio come un uomo ben inserito nella società in cui vive, soddisfatto di sé, moralmente irreprensibile, dalla parte del giusto e – guarda caso – amante dei luoghi elevati (“alla metropolitana preferivo l'autobus, ai mezzanini le terrazze”). Egli è a prima vista quello che Dostojevskij definisce polemicamente un “homme de la nature et de la vérité”, la cui esistenza è improntata esclusivamente a meschini e conformistici principi come l'utile o il piacere. Ciò non gli impedisce però di lasciarsi andare ad appassionate requisitorie contro gli aspetti più ipocriti della società del tempo, come l'amicizia (“ci salvi il cielo dall'essere collocati troppo in alto dai nostri amici!”), la famiglia (“i parenti sanno la parola che ci vuole,... ma è una parola proiettile;... e mirano giusto, i traditori!”), il matrimonio (“orgia burocratizzata”, “monotono carro funebre dell'audacia e dell'inventiva” che “ha ridotto il nostro paese in pantofole”), la morale religiosa (“ci sono persone per cui la religione consiste nel perdonare tutte le offese, e le perdonano effettivamente; ma non le dimenticano mai”), ecc. L'istintiva simpatia e la disarmante sincerità di questo ex-avvocato parigino induce il lettore, nonostante la sua fastidiosa logorrea (è un po' come il troppo loquace compagno di viaggio in treno che ti impedisce con le sue chiacchiere di leggere in santa pace il tuo libro) e una sorta di malcelata ambiguità che trapela dalle sue parole, a empatizzare con lui, a condividere la sua irresistibile, vitalistica, anche se vagamente contraddittoria, volontà di “épater le bourgeois”, convinto che egli è, come il bombarolo di Fabrizio De André, “se non tutto giusto, quasi niente sbagliato”. E così le tirate polemiche contro i francesi (“mi è parso che i nostri concittadini avessero due frenesie: le idee e la fornicazione”), gli intellettuali da caffè (che si scandalizzano, contorcendosi “in preda alle convulsioni come il diavolo sotto l'acqua santa”, di fronte alle opinioni illiberali e reazionarie), ai romanzieri atei (che per partito preso professano nei loro libri idee anti-religiose, ma non riescono a evitare di adottare un moralismo altrettanto ipocrita dei pensatori cristiani, in una sorta di “satanismo virtuoso”: una frecciata dell'autore all'amico-nemico Jean-Paul Sartre?), gli uomini di fede e i ministri del culto (che “hanno installato il Signore in un tribunale, nel fondo di loro stessi, e picchiano, e giudicano, soprattutto giudicano […] col perdono sulle labbra e la sentenza nel cuore”), e perfino Dio (che non è più necessario come entità garante della morale, al punto che oggigiorno l'unica funzione della religione sarebbe quella di essere “una grande impresa di lavatura”) e la società contemporanea (dominata dalla cieca violenza del potere e dall'hobbesiano principio che “homo homini lupus”), queste tirate polemiche – dicevo – funzionano come altrettante trappole che, abilmente predisposte da Camus, catturano poco alla volta il lettore, trasformandolo a sua insaputa in un complice del protagonista, una sorta di suo “doppelganger” (“La caduta è in fondo come uno specchio in cui, guardando l'immagine riflessa, egli vi si riconoscesse e, parafrasando la famosa frase di Flaubert, fosse costretto ad ammettere: “Clamence c'est moi!”)
Quando, verso la metà del romanzo, il gioco finalmente si scopre, è ormai troppo tardi. A fare da linea di demarcazione tra la chiacchierata spensierata tra due compagni di bevute e la discesa agli inferi di un'anima ferita ed esacerbata è un episodio fatidico, il classico evento del quale si può dire che dopo di esso niente è più come prima. La notte d'autunno in cui Clamence, passeggiando lungo la Senna, sente distintamente una persona, presumibilmente una donna fugacemente incrociata pochi attimi prima, gettarsi dal ponte che ha appena attraversato e non fa nulla per salvarla o per chiamare i soccorsi, fa irruzione nella sua vita la coscienza, sotto forma di una beffarda risata che lo perseguiterà negli anni a venire, risuonando nei luoghi e nei momenti più inaspettati. La risata, oltre che la coscienza, rappresenta anche l'assurdo che fatalmente entra senza preavviso nella vita dell'uomo, mettendo a nudo la sua falsità e la sua ipocrisia. Le certezze acquisite da Clamence iniziano così a vacillare, facendo trapelare l'egoismo alla base delle sue scelte di vita (“Sono sempre stato pieno di vanità da scoppiare. Io, io, io, ecco il ritornello della mia cara vita”) e lasciando come ineliminabile scoria di una esistenza di dissolutezze e di sterile ricerca del piacere un sordo, disperante disagio. Ma l'uomo non vuole sentirsi in colpa e non ammette di essere giudicato in alcun modo (“Vorremmo nello stesso tempo non essere più colpevoli e non fare lo sforzo di purificarci. Non abbastanza cinismo e non abbastanza virtù”). L'unico modo per evitare il giudizio (“Il problema è... di evitare il giudizio. Non dico evitare il castigo. Il castigo senza giudizio è sopportabile […] No, si tratta invece di sfuggire al giudizio, di evitare d'essere sempre giudicati senza che mai venga pronunciata la sentenza”) e non essere più dalla parte del torto è quello di giudicare a propria volta gli altri. Camus modifica impercettibilmente la massima di Kafka (“La colpa è sempre fuori discussione”), trasformandola nella più confortevole formula “la colpa degli altri è sempre fuori discussione”. Ma siccome non si possono condannare gli altri senza giudicare immediatamente se stessi, bisogna fare la strada inversa: incolpare se stessi per avere il diritto di giudicare gli altri. Ecco quindi Clamence trasformarsi da avvocato in giudice-penitente. Cosa significa essere un giudice-penitente? La spiegazione risiede in tutto quanto si è letto fino ad allora, in una sorprendente e inattesa mise en abyme. La confessione di Clamence (il racconto apparentemente franco e privo di reticenze della propria vita) è il meccanismo da lui studiato per provocare l'immedesimazione degli altri (“Non mi accuso grossolanamente, a pugni sul petto. No, navigo con destrezza, moltiplico le sfumature e digressioni, insomma adatto il discorso all'ascoltatore, lo induco a rincarare la dose. Mescolo quel che mi concerne e quel che riguarda gli altri. Prendo i tratti comuni, le esperienze sofferte insieme, le debolezze che abbiamo entrambi, le buone maniere, l'uomo d'oggi insomma. […] Quando il ritratto è terminato... lo mostro, tutto sconsolato. “Ahimé, ecco chi sono.” La requisitoria è finita. Ma in quel preciso istante il ritratto che mostro ai miei contemporanei diventa uno specchio. […] Poi, inevitabilmente, passo nel discorso dall'io al noi. Quando arrivo all'”ecco che cosa siamo”, il gioco è fatto, posso dire a ciascuno la sua verità. […] Il vantaggio è chiaro... Più mi accuso e più ho il diritto di giudicare”). Con questo sistema il processo intestato a se stessi si rovescia come un guanto e coinvolge gli altri. Camus capovolge quindi il famoso grido di Ivan Karamazov citato nel suo “L'uomo in rivolta” (“Se non sono salvi tutti, a che serve la salvezza di uno solo!”) in una sorta di “Se non sono condannati tutti come si riesce a realizzare la felicità di uno solo?”. Ne “La caduta” il protagonista, come un demoniaco demiurgo, si auto-assolve dai suoi peccati, si ripulisce la coscienza, o meglio dimentica di averne una, sfugge la responsabilità di un vero pentimento e abdica alla propria libertà in cambio di un po' di smemorata tranquillità. Clamence usa il suo stratagemma come un anestetico, che non fa sentire il dolore della vita ma ottunde i sentimenti più profondi, rendendolo in fondo meno umano. La morale de “La caduta” è profondamente pessimistica: Clamence rinuncia, insieme alla sua angoscia, anche alla sua libertà e quindi, dal momento che Kierkegaard e Heidegger ci avevano insegnato che l'uomo è condannato a essere libero, rinuncia alla sua unica possibilità di una vita autentica. Come ne “La leggenda del Santo Inquisitore” di Dostojevskij, la libertà è per l'uomo un fardello insopportabile (“alla fine di ogni atto di libertà c'è una sentenza: per questo la libertà pesa troppo”), ed egli è disposto a cederla in cambio del servaggio (“L'essenziale è di non essere più liberi e di obbedire, nel pentimento, a qualcuno più furfante di noi. […] Tutti uniti, finalmente, ma in ginocchio, e a capo chino”). Se “Il mito di Sisifo” e “La peste” avevano, dopo il nichilismo de “Lo straniero”, gettato un barlume di speranza nella filosofia esistenzialista di Camus, esaltando il primo la sopportazione, l'accettazione del proprio destino, sia pure quello di rotolare un masso per l'eternità, la seconda la solidarietà umana (di stampo, oserei dire, leopardiano) come gesto di ribellione nei confronti dell'assurdo, ne “La caduta” si registra un netto passo indietro: l'uomo prende sì coscienza dell'assurdo, ma non cerca mai – sia pure in modo velleitario – di lottare contro di esso; al contrario egli si sforza di evitare il giudizio con la dimenticanza e di sfuggire alle responsabilità facendosi scorrere sopra le cose, in tal modo sprecando la sua libertà e la sua possibilità di scelta, e decretando in tal modo lo scacco della filosofia esistenzialista (le ultime parole - “Adesso è troppo tardi, e sarà sempre troppo tardi, per fortuna!” - sono fin troppo emblematiche).
“La caduta” è un libro lucido e incalzante, caratterizzato da una densità filosofica inusitata. Dalla prima all'ultima delle sue ottanta pagine, Camus non dà un attimo di tregua al lettore, incalzandolo con domande esistenziali di ineludibile urgenza, fino al delirante e quasi satanico finale. La costruzione del romanzo, scritto con uno stile di limpida e adamantina chiarezza, è eminentemente astratta e mentale: tutto è proiezione dell'io ipertrofico del protagonista, e lo stesso interlocutore potrebbe essere benissimo una sua invenzione (e del resto ciò non è così importante, dal momento che – come abbiamo visto – Clamence è come se parlasse a tutti noi, con un meccanismo analogo a quello cinematografico dello sguardo in macchina, quando cioè in un film un personaggio comunica rivolgendosi direttamente alla cinepresa). Clamence passeggia nelle viuzze del Ghetto Ebraico e lungo i canali di Amsterdam oppure naviga nello Zuiderzee alla volta dell'isola di Marken, ma l'Olanda stessa è null'altro che un luogo fantomatico, utile tutt'al più come pretesto di eleganti metafore (i canali concentrici della capitale assomigliano ai girono dell'inferno, le dune e le spiagge livide davanti al mare color lisciva fanno pensare a una terra morta e spopolata, e gli stessi olandesi, “costretti in un piccolo spazio di case ed acqua, assediati da nebbie, da terre fredde e da un mare che fuma come un bucato”, sono espressione della duplicità della natura umana, essendo come degli spettri, qui e altrove nello stesso istante). Tutto ne “La caduta” è ambiguo, segnato da aporie e contraddizioni, e il lettore deve imparare a destreggiarsi tra verità e menzogna (“E' molto difficile districare il vero dal falso in ciò che racconto... In fin dei conti che importanza ha? Le menzogne finiscono per mettere sulla strada della verità”). Alla fine di questa lettura, al tempo stesso esaltante e ostica, splendida ed estenuante, veniamo come risucchiati dall'inesauribile vortice delle sue riflessioni e finiamo per sentire sulla nostra stessa pelle il disagio del protagonista e per patire i suoi medesimi rovelli mentali, come insetti catturati nella sua mitrabile ragnatela, accomunati a lui da una ineffabile sensazione di torbida e vergognosa connivenza. “Pronunzi lei le parole che da anni non hanno smesso di risuonare nelle mie notti e che finalmente dirò per bocca sua: “Fanciulla, gettati di nuovo in acqua perchè io abbia una seconda volta la possibilità di salvare entrambi!”. Una seconda volta, eh, che imprudenza! Supponga, caro avvocato, che ci prendano in parola? Bisognerebbe decidersi”. Noi che decisione prenderemmo al suo posto? Ci butteremmo in acqua rischiando la vita per salvare un suicida o gireremmo la testa dall'altra parte, facendo finta di nulla?

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"Memorie dal sottosuolo" di Fedor Dostojevskij
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    19 Dicembre, 2019
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ASPETTANDO IL MARCHESE

In un delizioso giardino settecentesco, tra bianche panchine, statue di marmo e cinguettii di uccelli, i sei personaggi femminili di “Madame de Sade” non fanno altro, per tre lunghi atti, che mettere in scena un’assenza, quella del “divino marchese”, continuamente evocandolo nelle loro conversazioni, allusioni e ricordi. Appare subito chiaro che Sade è una figura simbolica, uno stratagemma narrativo (vagamente simile al Godot beckettiano) il quale, grazie alla sua componente mitica, fa agire e interagire, come in un laboratorio in vitro, le sei donne, mettendone in luce le più recondite inclinazioni. Come un dio blasfemo e nefando ma oscuramente pieno di fascino, Alfonse riverbera su di esse il suo influsso, apparentemente identico eppure per ognuna così diverso e personale: la suocera lo demonizza anche se non esita ad aiutarlo per salvare l’onore della famiglia o a sfruttare la sua nuova reputazione per sopravvivere alla Rivoluzione, la moglie lo sublima rimanendogli fedele e sforzandosi di elevare la propria virtù, novella Justine, all’altezza (o meglio sarebbe dire alla bassezza) della sua depravazione, la baronessa di Simiane lo espunge dalla propria vita attraverso la sua scelta monastica, la contessa di Saint-Fond diventa invece un suo vero e proprio alter ego al femminile. Se a prima vista è Sade a vivere esclusivamente nell’immagine e nelle parole delle sei donne, in realtà sono queste ultime a trovare la propria ragion d’essere nel marchese, come ben comprende Renée quando dice, quasi parafrasando Flaubert, “Alfonse sono io”.
“Madame de Sade” è una “conversation piece” astratta e stilizzata, in cui Mishima assegna ad ogni personaggio, didascalicamente, una precisa connotazione caratteriale. Anche la differenziazione stagionale dei tre atti (estate, autunno e inverno), richiamando le tre diverse età della vita, è perfettamente conforme a una lettura simbolica della commedia, la quale trova il suo coronamento nel paradossale rifiuto finale di Renée di incontrare, dopo ben diciannove anni di attesa, il marito appena uscito di prigione, quasi a voler rivendicare con questo gesto proto-femminista (e con la successiva scena in cui le donne giocano tra loro tirandosi le palle di neve) la raggiunta e auspicabile autonomia dell’universo femminile nei confronti di quello maschile.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    16 Dicembre, 2019
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ETICA E GIUSTIZIA

A quattro secoli di distanza dalla loro stesura originale, le commedie di Shakespeare conservano ancora, nelle messe in scena più sensibili e intelligenti, una grande attualità di argomenti e contenuti. Pur non essendo la più conosciuta e rappresentata, “Misura per misura” è un’opera emblematica di questa sempreverde attualità: temi come la legge e la sua applicazione, la pena e la sua congruità, il potere e la sua legittimazione, sono infatti affrontati in maniera straordinariamente problematica e dialetticamente complessa. Si consideri la scena in cui la novizia Isabella va a implorare presso il vicario Angelo la grazia per il fratello Claudio, condannato alla pena capitale, ed Angelo la ricatta offrendogliela solo in cambio di una notte d’amore con lei. Potrebbe essere il classico, odioso sopruso del potere nei confronti dell’individuo inerme (avvalorato dalle parole che l’uomo dice alla ragazza quando lei minaccia di rivelare a terzi il ricatto: “Bada che il mio falso è più vero della tua verità”). Ma Shakespeare non si ferma qui. Angelo infatti rovescia provocatoriamente su Isabella le accuse di spietatezza e di insensibilità mossegli dalla donna: dal momento che Isabella ha nelle proprie mani l’alternativa se mandare a morte il fratello o salvarlo sacrificando la propria verginità, rifiutando la seconda opzione è forse lei meno spregevole del giudice che applica rigorosamente, asetticamente la legge? E ancora, la legge va applicata comunque anche se si sa che altri, e forse lo stesso giudice, l’hanno trasgredita? Come si può vedere, la semplice trama si arricchisce di tanto numerose sfaccettature che all’improvviso non siamo più così sicuri di sapere dove stiano il bene e il male. I “pesi” delle scelte etiche che i personaggi mettono sulla bilancia della loro vita sono talmente incerti e aleatori che è difficile valutare se sia peggiore l’occhiuto e ipocrita moralismo di Angelo o la virtù irreprensibile ma incapace di abnegazione di Isabella, l’egoistico attaccamento alla vita di Claudio, che non esita a chiedere senza mezzi termini alla sorella di concedersi ad Angelo, o l’opportunismo politico del duca, il cui esilio volontario è dettato (oltre che dalla nobile motivazione di voler osservare dall’esterno “se è vero o no che il potere rovina l’anima”) anche dal fatto che egli non si sente in grado di imporre misure restrittive e impopolari, pur giudicandole necessarie, e per fare ciò, vigliaccamente, si affida a un sostituto che gli tolga le castagne dal fuoco.
La morale di “Misura per misura” è che le leggi civili e i comandamenti religiosi sono monoliticamente intoccabili solo fintanto che rimangono chiusi nei codici e nei testi sacri, ma quando devono entrare in contatto con i casi concreti, essi rivelano inesorabilmente il loro relativismo e la loro approssimazione. Per Shakespeare è perciò sempre bene guardarsi da coloro che si propongono come esseri senza macchia e senza peccato e che in base a questo codice filisteo pretendono di voler giudicare l’umanità, perché la varietà della vita è troppo grande (e i sentimenti umani troppo sfaccettati) per poterla circoscrivere e ingabbiare, e al fondamentalismo rigido e incorruttibile di santi e censori bisognerebbe sempre sostituire, nell’applicazione di ogni norma e regolamento, il buon senso, la tolleranza e persino la pietà.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    09 Dicembre, 2019
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VIAGGIO POETICO E SENTIMENTALE

“C’è una letteratura per quando ti annoi. Fin troppa. C’è una letteratura per quando sei calmo. Questa è la letteratura migliore, io credo. C’è anche una letteratura per quando sei triste. E c’è una letteratura per quando sei allegro. C’è una letteratura per quando sei disperato. Quest’ultima è quella che volevano fare Ulises Lima e Belano.”

I “detective” del titolo sono Ulises Lima e Arturo Belano, i fondatori di un velleitario movimento poetico d’avanguardia messicano, autodenominatosi “realvisceralismo”, i quali, nella terza parte del libro (che in realtà è cronologicamente la seconda), vagano nel nord del Messico alla ricerca di Cesarea Tinajero, la mitica fondatrice, mezzo secolo prima, di una corrente poetica che portava lo stesso nome e che il tempo trascorso ha destinato all’oblio. Il folgorante romanzo di Roberto Bolaño è, se così si può dire, un’opera “in absentia”. A mancare è innanzitutto l’oggetto dell’investigazione, la fantomatica poetessa che ha lasciato ai posteri una sola poesia (che è in realtà un enigmatico disegno) e che i due giovani ritrovano, invecchiata, abbruttita e dimenticata praticamente da tutti, solo per vederla morire tra le loro braccia (in uno scontro a fuoco con un magnaccia che li aveva inseguiti per riprendersi una prostituta in fuga che sta viaggiando in loro compagnia). A mancare, o meglio a rimanere sullo sfondo, sono poi, e soprattutto, i due protagonisti, che non compaiono mai in prima persona, ma che il lettore segue grazie al diario di un entusiasta diciassettenne alla scoperta del sesso e della poesia (nella prima e terza parte), e (nella lunga parte centrale) alle interviste di una miriade di personaggi i quali, nell’arco di una ventina d’anni, hanno avuto la ventura di incrociarli per le strade di mezzo mondo (Messico, Spagna, Francia, Austria, Israele, Africa): culturiste, teppisti, alienati mentali, autostoppiste, omosessuali, immigrati clandestini, ereditiere anoressiche, avvocati logorroici, fotografi free-lance, scrivani pubblici, e poi – naturalmente – poeti di tutte le risme, giovani o vecchissimi, famosi (Octavio Paz) o misconosciuti, vanagloriosi frequentatori delle fiere del libro o autori che non hanno mai pubblicato un verso, tradizionalisti o avanguardisti. Da questo originale procedimento, il ritratto di Belano e Lima appare sempre un po’ sfuocato (chi sono veramente i due: sinceri idealisti alla ricerca delle radici della poesia messicana o semplici avventurieri, eroici apostoli di una stagione irripetibile dell’arte sudamericana o patetici avanzi di una boheme che con gli anni li ha relegati ad un ruolo di tutt’altro che epica marginalità?), ma quello che conta è lo sfondo, una narrazione policentrica fatta di rapidi schizzi, fugaci accenni, veloci notazioni, eppure in grado di dare corpo, come in un collage, a un mondo e a un’epoca potentemente originale e affascinante.
Alla fine quello che rimane è soprattutto il senso del tempo che passa e inesorabilmente cancella ogni traccia delle ambizioni, degli ideali e delle speranze della gioventù. Ulises Lima e Arturo Belano nel corso del libro diventano come Cesarea Tinajero, dapprima prepotentemente alla ribalta della vita (nell’età dei vent’anni e di una giovinezza che sembra non dover mai finire e può permettersi il lusso di venire sprecata con disinteressata noncuranza), e poi sempre più sfuggenti e inafferrabili, fino a diventare delle misteriose ombre in dissolvenza. Bolaño sembra dirci che il significato della nostra esistenza rimane al di là della comprensione degli altri, e che quando si cerca (come i due “detective” con Cesarea) di portarlo alla luce si finisce solo per distruggerlo (in questo senso, la morte di Cesarea altro non sarebbe che una metafora). Forse a resistere al tempo è solo la “memoria sentimentale”, arbitraria, parziale e non oggettiva, che pure sa conservare, sublimate, le uniche immagini che (meglio di qualsiasi opera o testo scritto) meritano di sopravvivere, quelle – privatissime e non tramandabili – del cuore (come avviene con Amadeo Salvatierra, il vecchio scrivano che era stato segretamente innamorato di Cesarea in gioventù). Queste considerazioni, per quanto permeate da uno svagato understatement e da un impalpabile umorismo (che sembrano essere le cifre stilistiche dell’autore), danno al romanzo un innegabile tono elegiaco, che impregna di sé anche l’altra protagonista sullo sfondo, la “messicanità”, di cui “I detective selvaggi” sembra porsi nel suo insieme come una singolare ed eccentrica allegoria.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    02 Dicembre, 2019
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UN SANGUINOSO DIVERTISSEMENT

“Si avvisa il gentile pubblico che nel corso dello spettacolo verranno esplosi molti colpi di pistola e segate molte ossa. Buon divertimento!”. Con queste parole il lettore-spettatore viene introdotto a una delle più divertenti commedie teatrali degli ultimi anni, una farsa che coniuga la comicità demenziale e nonsense dei Monty Python e il gusto trash e splatter di Quentin Tarantino, ma che al contempo non rifiuta, e anzi affronta a pieno petto, sia pure in una prospettiva volutamente dissacrante e provocatoria, problematiche sociali di notevole impegno e di scottante attualità come il terrorismo. Usare la farsa e il grand guignol per parlare di tematiche drammatiche non deve né stupire né offendere, dal momento che essi non sono per nulla generi teatrali di seconda categoria (le commedie di Shakespeare, tanto per fare il paragone più illustre, abbondano di intermezzi comici e di sanguinose carneficine: basti pensare al “Tito Andronico” o all’”Amleto”), e inoltre bisogna dare atto che l’inverosimile assurdità delle situazioni, l’iperbolica gratuità della violenza e la stupidità dei personaggi e dei loro dialoghi turpiloquianti sono lo strumento migliore per mettere alla berlina l’assurdità, la gratuità e la stupidità stesse del fenomeno rappresentato. Cosa c’è di meglio che mettere in scena un idillio romantico alla Peynet, con i due innamorati che si baciano seduti a cavalcioni di un cadavere con una croce di legno conficcata in gola e i loro scagnozzi che sullo sfondo fanno a pezzi con sega e martello altri due uomini appena uccisi, per smitizzare e togliere ogni aura di eroismo a personaggi che in nome di un ideale politico uccidono senza pietà degli innocenti? E come non accorgersi che questa forsennata faida in cui uccidere fortuitamente un gatto appare un crimine più grave che fare attentati dinamitardi o assassinare il proprio padre e in cui torturare uno spacciatore è legittimo se questi distribuisce droga a ragazzi cattolici e non anche protestanti, come non accorgersi – dicevo - che tutto ciò rivela impietosamente l’assoluta mancanza di valori di chi si definisce ipocritamente un combattente per la liberazione della patria? Allora, se si tiene presente questo, è possibile anche ridere di gusto delle sanguinose stragi di McDonagh, dei suoi terroristi pazzi che scrivono la lista dei loro obiettivi strategici come se fosse la top ten di una classifica musicale, salvo poi perderla banalmente in un autobus, o che sparano negli occhi delle mucche per danneggiare il mercato della carne. Alla fine ci si riesce comunque a persuadere che un giudizio morale esiste in quest’opera, magari incarnato in quei due fools – in realtà gli unici veri savi in una compagnia di pazzi – che nell’ultima scena rinunciano a compiere l’ennesimo omicidio felino, perché proprio non riescono a trovarci un motivo.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    26 Novembre, 2019
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IL PROUST DEI CARAIBI

“Sappiamo soltanto ciò che ricordiamo”

Julio Cortazar, nella prefazione del romanzo di Lezama Lima, si figura, con un pizzico di vanità, un club “very exclusive” formato dai rarissimi lettori de “L'uomo senza qualità” di Robert Musil, de “La morte di Virgilio” di Hermann Broch e, appunto, di “Paradiso”, ammettendo che “leggere Lezama è una delle fatiche più ardue immaginabili e spesso più irritanti”. Dette da uno che ha scritto con “Rayuela” un libro che non è propriamente il massimo della scorrevolezza e della facilità, queste parole sono oltremodo significative e rischiano di decretare il de profundis su qualsiasi volenteroso tentativo di affrontare l'ostico autore cubano. In effetti leggere fino in fondo le oltre cinquecento pagine di “Paradiso” dà la stessa sensazione di correre una maratona con le scarpe di due numeri più strette, qualcosa che assomiglia molto al puro masochismo. Non solo, ma entrare nell'universo di Lezama Lima, così smisuratamente erudito e ostinatamente ermetico, lungi dall'attribuire al lettore un'aura di intellettuale superiorità, lo fa sentire profondamente, sconsolatamente stupido e ignorante, incapace com'è di riconoscere la stragrande maggioranza delle citazioni e dei riferimenti culturali esibiti. E' la stessa sensazione che si potrebbe provare nell'essere invitati a un rinfresco e scoprire inaspettatamente, con somma e irreparabile vergogna, di essere gli unici vestiti con abiti sportivi in mezzo a una moltitudine di partecipanti tutti rigorosamente in smoking! Allora, ci si chiederà giustamente, esiste una plausibile ragione per eludere queste scoraggianti premesse e leggere “Paradiso”? Il fatto è che l'impenetrabile babele dell'opera di Lezama Lima, la quale assomiglia molto a una giungla che, a guardarla in un documentario della BBC appare magari affascinante e meravigliosa, ma quando ci si trova in mezzo risulta terribilmente inospitale, nasconde al suo interno la più strabiliante riflessione sul tempo e sulla memoria che mi sia mai stato dato di leggere dopo la “Recherche” di Proust. Come il capolavoro di Proust, anche “Paradiso” è un romanzo-mondo in cui la descrizione ironica di un ambiente (là l'aristocrazia parigina, qui la borghesia creola) e il ritratto autobiografico (il protagonista José Cemì è infatti un evidente alter ego dello scrittore, come si evince da tanti dettagli: lo stesso nome di battesimo, il padre militare, l'asma di cui soffre fin dalla tenera età, gli studi di giurisprudenza) si alternano al titanico tentativo di far rivivere gli anni perduti della propria infanzia e adolescenza. Pure “Paradiso” ha le sue “madeleines” (qui sono le Marie inzuppate in una cioccolata al latte che la madre di Cemì gli preparava nei giorni in cui non c'era scuola, rievocate dal pezzo di cioccolato che un nipote regala alla nonna), e simili sono i due protagonisti, che spesso appaiono come fuori fuoco, defilati rispetto al contesto principale, mentre a venire privilegiato è ciò che, magari inessenziale in apparenza (personaggi secondari, riflessioni filosofiche), passa rapsodicamente, per libere associazioni, davanti alla lente di ingrandimento della memoria, in alcuni casi addirittura formando racconti a se stanti (il libro di Swann, il capitolo di Oppiano Licario).
C'è però in José Cemì una componente, se così si può dire, scopofila (egli è colui che tutto osserva, magari in disparte e non visto, come nella scena del cinema, in cui dalla sua poltrona si intrattiene a guardare Focion, il quale a sua volta, qualche fila avanti a lui, sta spiando Fronesis con la sua compagna), la quale mette in evidenza una marcata differenza tra le due opere. Mentre per Proust ciò che conta è esclusivamente il tempo, da “ritrovare” per mezzo della memoria, per Lezama Lima l'essenziale appare la forma del ricordo, cioè l'immagine. “Paradiso” è un romanzo strabordante di immagini, evocate con la demiurgica forza di una fervida immaginazione poetica. L'immagine è in grado perfino di ipostatizzare i sentimenti, donando in tal modo a Cemì la felicità di un possesso puro e incorrotto, libero dal sospetto di una latente omosessualità: ad esempio, l'immagine di Fronesis (che rappresenta in questo libro un po' quello che per Proust era Robert de Saint-Loup) precorre sempre ogni suo movimento e azione, sublimando la prosaica realtà (“mentre si trovava in fila sorgeva in lui l’impulso di un’immagine, quando già il suo turno si avvicinava l’immagine salvava i suoi frammenti oscillanti sul suo volto. Quando si trovò davanti allo sportello il volto anonimo che contemplava prese l’aspetto del volto di Fronesis. La spinta verso l’immagine ruppe i vetri del volto anonimo, e quando il suo desiderio riapparve aveva elaborato l’immagine della ricerca anteriore, al disopra della realtà anonima che contemplava”). Altrettanto importante per Lezama Lima è la parola: Cemì, Fronesis e Focion esprimono proprio attraverso la dialettica verbale la loro evidente affinità spirituale, e con le loro lunghissime e appassionate conversazioni, che occupano una larga parte del libro, riescono ad appartarsi dal mondo che li circonda e a raggiungere l'intimità di una amicizia esclusiva e inattingibile. Le parole sono anche la chiave di un mondo ignoto e misterioso, e poco alla volta fanno larvatamente percepire al protagonista il fascino irresistibile di un futuro in campo letterario (“L’esercizio della poesia, la ricerca verbale di una finalità sconosciuta, andavano sviluppando in lui una strana intuizione per le parole che acquistavano uno spicco animista nei raggruppamenti spaziali, sedute come sibille in un’assemblea di spiriti”). Parlare di parole vuol dire giocoforza parlare anche dello stile di scrittura, e in questo ambito la distanza tra Proust e Lezama Lima non può essere più grande: mentre lo scrittore francese cesella le frasi come un meticoloso miniaturista, Lezama Lima adotta un approccio squisitamente poetico, al punto che parlare di romanzo risulta abbastanza fuorviante, perché in realtà “Paradiso” è più propriamente un poema, sebbene in prosa anziché in versi. Il flusso irrefrenabile delle immagini in libertà, prive di un solido filo logico, fa sì che la storia di Cemì e della sua famiglia sia più simile al sogno che alla realtà. Non a caso nella sua opera Lezama Lima, con una sensibilità simile a quella dei surrealisti (i quali vedevano nel subconscio lo strumento ideale per cogliere l'essenza intima delle cose), fa spesso ricorso ai sogni, talvolta senza neppure darsi la pena di fornire l'evidenza del passaggio dalla veglia al sonno, se non con frasi criptiche (“il suo corpo passò nella regione di Persefone”), al punto che il lettore non riesce sempre a capire immediatamente se quello che sta leggendo sia un sogno oppure la realtà (si pensi agli ultimi tre capitoli, di difficilissima intelligibilità, relativamente ai quali l'autore stesso credette doveroso intervenire per spiegare che si trattava dei sogni di Cemì dopo la morte del padre).
“Paradiso” è anche un libro di una cultura smisurata. Dentro di esso c'è praticamente tutto, dai miti indigeni a quelli greci, da Nietzsche ed Hegel ai Padri della Chiesa, da Shakespeare a Gongora, da Bruegel a Dalì, da Platone a Pascal, e molto altro ancora. E' il trionfo di un'erudizione senza limiti apparenti, che tracima da ogni pagina e rischia di affogare il lettore, inevitabilmente impreparato (a meno che non si chiami Jorge Luis Borges o non abbia Wikipedia costantemente sotto mano) di fronte a un vero profluvio di nozioni storiche, religiose, artistiche e filosofiche. Come se ciò non bastasse, lo stile di Lezama Lima è stracolmo di barocchismi, di arcaismi, di assonanze simboliche, di metafore e di similitudini (un esempio tra i tanti: “Era come se i suoi piedi scivolassero su una sabbia di roccia, come se fosse un pesce avvolto nella carta vetrata, un cigolio, un'asprezza, quel rumore di proiettore delle lucerne, quel richiamo del sigaro già consumato che comincia a bruciare la pelle”). Il suo lessico raggiunge vette di incommensurabile immaginazione, che nella mia vita ho incontrato solamente in uno scrittore come Carlo Emilio Gadda. La sua capacità di creare neologismi e perifrasi è davvero prodigiosa: un cuoco è “frittelloso”, un piatto di rame “pellirossico”, delle sopracciglia sono “polifemiche”, mentre una amicizia è “quidditaria”, i bianchi dell'alba sono “zurbaraneschi”, un insonne esce alle prime luci del giorno per “irrugiadirsi un po'”, intanto che un ragazzo “chicchiricchia” i versi di un poeta, un musicista scuote “le trippabili sonoriche della chitarra” e gli eucalipti intrecciati “concubinano”. La sfrenata fantasia dello scrittore cubano sa destreggiarsi anche nelle scene più pruriginose, dando vita alle pagine più divertenti del libro: così il grande membro sessuale di uno studente diventa volta a volta un “attributo germinativo tronitruante”, un “dolmen fallico”, una “dismisura priapica”, un “faro alessandrino”, una “lancia pompeiana”, e così via dicendo.
Nonostante qualche raro intermezzo di boccaccesca leggerezza, il romanzo risulta tuttavia di una difficoltà quasi insormontabile. Della sua indubbia grandezza sono intuibili solo sporadici sprazzi: è un po' come se ci trovassimo dentro una caverna buia e profonda e cercassimo di illuminarla con il solo ausilio di una scatoletta di fiammiferi. L'unico modo per poterlo apprezzare almeno in parte è quello di lasciarsi cullare dalla parola poetica, che se a tratti è prolissa e ridondante, riesce nondimeno a raggiungere in certe pagine vette di lirismo assoluto. Il giudizio finale è quindi giocoforza ambivalente, anche se è veramente dura sopravvivere a dialoghi così sfiancanti come quello che Fronesis e Focion intavolano sul tema dell'omosessualità. L'etichetta di libro immorale che in passato gli è stata ingiustamente appiccicata da qualche recensore, dovrebbe a mio avviso essergli attribuita per quelle interminabili e ampollose concioni sulla “trasmutazione dei valori” e sulla “ipertelia dell'immortalità” (sic) che – ahimè – appesantiscono irrimediabilmente le sue pagine e hanno sul lettore lo stesso torturante effetto di una vergine di Norimberga. Quello che Lezama Lima rappresenta è indubbiamente l'eden perduto dell'autore, popolato di figure straordinarie e imprescindibili, descritte con tenera e inconsolabile nostalgia, come quelle della madre Rialta, della nonna Augusta, dello zio Alberto o dell'amico Fronesis, ma tutto rischia di essere troppo autoreferenziale, e per il lettore comune riuscire a penetrare in questo paradiso richiede davvero la virtù e la pazienza di un santo.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    21 Novembre, 2019
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ANGELI A NEW YORK

“La vita è un baratro di orrori”, dice il cinico avvocato Roy, uno dei protagonisti del fluviale dramma di Tony Kushner, vincitore del Premio Pulitzer nel 1993. In effetti di orrori, in questa dolente ballata di fine millennio (è ambientata nel 1985 dell’America di Reagan), se ne vedono molti, dall’AIDS allora quasi sconosciuto al buco nell’ozono, che accomunano il pianeta Terra e l’umanità che lo abita a una situazione apocalittica da fine del mondo. La malattia e il disastro ambientale appaiono però solo gli effetti ultimi di una degenerazione che sta ben più a monte e che ha incrinato le basi del vivere umano: l’amoralità diffusa, la crisi dei rapporti di coppia, la perdita delle origini, il disorientamento a 360 gradi (sessuale, razziale, etico, religioso, politico) che ne deriva. Non è un caso che i personaggi del dramma vengano visitati in continuazione dai fantasmi del passato (le fotografie degli abitanti di un villaggio ebreo della Lituania di inizio ‘900 evocate dal rabbino, gli antenati di Prior), quasi a denotare la colpevole nostalgia di un “prima” (che è anche, guarda caso, la traduzione del nome del protagonista) che è stato colpevolmente tradito, e che ora viene a prendersi la sua rivincita. Accanto ai fantasmi, vi sono gli angeli, come quello che nella scena finale della prima parte (che sembra prefigurare il crollo del muro di Berlino) appare folgorante dalle macerie, ma non si riesce a capire se sono angeli di salvezza o di castigo. L’io dei personaggi si proietta spesso in sogni di palingenesi, ma questa è solo una fuga dalla cruda realtà, sia essa l’alienazione mentale di Harper (che con l’aiuto delle pastiglie di Valium si rifugia in un improbabile Antartide) o la malattia di Prior (il delicato sogno del ballo-riconciliazione con Louis si infrange contro un solitario risveglio).
“Angels in America” è stato definito – forse con un po’ d’esagerazione – “una Divina Commedia per un’età laica e tormentata”. C’è forse in Tony Kushner più Don De Lillo (nella sua ansia onnicomprensiva di voler tutto inglobare, personaggi realmente esistiti e personaggi di fantasia, per fare il ritratto di un’epoca) che Dante Alighieri, ma questo non vuol dire voler sminuire un testo che è eccitante e ricco di fantasia e di visionarietà. L’omosessualità esibita (il sottotitolo dell’opera è “fantasia gay su temi nazionali”), più che una provocazione fine a se stessa, è uno specchio deformante che permette di accentuare la solitudine, la paura, lo smarrimento e i rimorsi di personaggi che, dopo la sbornia della liberazione sessuale, dell’autodeterminazione, dello yuppismo e del liberismo, dimostrano di non essere più in grado di affrontare neppure i più elementari rapporti umani.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    18 Novembre, 2019
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UN ROMANZO DI DEMORALIZZANTE OSTICHEZZA

Devo confessare, sia pure a malincuore, che “L’uomo senza qualità” è il primo libro della mia vita che non sono riuscito a leggere fino in fondo. Non è che sia un brutto libro, tutt’altro. La raffinatezza di scrittura del suo autore e l’imponenza culturale dell’opera possono stare tranquillamente alla pari di Proust e della sua “Recherche”, di Joyce e del suo “Ulisse”, di Mann e della sua “Montagna incantata”, vale a dire degli scrittori e dei romanzi che hanno segnato indelebilmente la storia della letteratura del Novecento. Quello che mi ha reso la lettura de “L’uomo senza qualità” così faticosa e improba non sono le sue quasi duemila pagine, né tanto meno la loro difficoltà, quanto piuttosto la mancanza di una vera e propria trama, l’assenza di un solido filo conduttore, di nessi causali o cronologici che diano l’impressione di portare i personaggi da qualche parte. Tutto è spezzettato in un’infinità di riflessioni culturali, filosofiche, sociologiche, ecc., in cui è arduo delineare una qualche sintesi. Ecco, quello che a mio avviso manca è proprio la possibilità di percepire un denominatore comune, che non sia l’assoluto nichilismo di Ulrich, il quale svilisce con il suo atteggiamento scettico tutto quello che egli fa o che fanno coloro che lo circondano, siano essi intellettuali, scienziati, aristocratici, borghesi, funzionari o militari. Il rischio che secondo me corre Musil è che il relativismo del suo protagonista, che analizzerò tra poco, si trasferisca al romanzo senza riuscire a farsi fino in fondo metafora di un’epoca o di una nazione (ché la Cacania che tira a campare, illusa dal presunto perfezionismo della sua macchina statale, e che è destinata in breve all’implosione, è fenomeno che si percepisce più in virtù del fatto che noi sappiamo che di lì a poco ci sarà la Guerra Mondiale a spazzare via il tutto piuttosto che da segnali premonitori abilmente disseminati nei capitoli del libro). Nuoce probabilmente al romanzo la sua suddivisione in piccoli capitoletti autonomi (che a tratti assomigliano più a degli elzeviri che a componenti di un corpus più vasto), che si fatica a collegare in una struttura unitaria e compatta, per cui alla fine della lettura si ha un po’ la stessa sensazione che si ha dopo un risveglio, cioè che quello che si è appena sognato sia lì a portata di mano ma non si riesca ad afferrarlo con chiarezza, confuso com’è in una nebbia ostruzionistica e ingannatrice.
Chi è comunque il protagonista Ulrich? A una prima frettolosa analisi potrebbe essere confuso come uno dei tanti inetti a vivere della letteratura mondiale, come, per fare un solo esempio, lo Zeno Cosini di Italo Svevo. In realtà la personalità di Ulrich è molto più complessa. Da una parte è indubbiamente vero che il suo problema è lo scetticismo e il relativismo: tutto gli è indifferente, bene e male, giustizia e ingiustizia non sono per lui concetti assoluti ma alla bisogna intercambiabili (non è un caso che egli sia attratto dalla figura dell’assassino Moosbrugger), cosa che non gli permette una presa sicura sul mondo reale e fa sì che tutte le cose gli scorrano addosso costringendolo a una condizione di annichilente apatia. Tuttavia, la figura di Ulrich non è totalmente negativa, al contrario è funzionale a far risaltare la vacuità, il velleitarismo e l’inconcludenza degli altri personaggi, che ruotano insieme a lui intorno all’Azione Parallela. Infatti se Ulrich è il “bastian contrario” per eccellenza, l’uomo non pratico per antonomasia, non è per mancanza di qualità (come sembrerebbe suggerire il titolo), tutt’altro. Il fatto è che Ulrich è ossessionato, soverchiato addirittura, dalle infinite possibilità del reale: da qui deriva il non dare maggior peso a ciò che è rispetto a ciò che potrebbe essere, e in definitiva la sua inerzia. Inerzia che, per la propria consapevolezza critica, è ben diversa da quella, presuntuosa e verbosa, che caratterizza i vari membri dell’Azione Parallela, i quali si dimostrano fin dalle prime pagine incapaci di dare una qualche attuazione pratica all’idea di festeggiare in maniera memorabile i settanta anni di regno dell’imperatore Francesco Giuseppe e sui quali si riversa invece copiosa l’ironia musiliana. I vari Arnheim, Diotima, il conte Leinsdorf, il generale Stumm von Bordwehr e gli altri esponenti dell’aristocrazia e dell’intellighenzia austriaca sono messi alla berlina per la loro vacua prosopopea, per il loro sterile idealismo, per il loro ondivago e ambiguo oscillare tra razionalismo e irrazionalismo, tra realtà e spiritualità, tra genio e conformismo, tra trasgressione e moralismo, in quello che Wenders decenni dopo avrebbe chiamato “falso movimento”. Il conclamato immobilismo di Ulrich, nemico giurato di tutte le formule palingenetiche e slogan progressisti anche al prezzo di vivere anacronisticamente fuori dal suo tempo, è in fondo una posizione che riscuote da parte del lettore assai maggiore simpatia. Essendomi limitato alla prima parte del romanzo, non sono in grado ovviamente di dire nulla in merito a ciò che avviene in seguito all’entrata in scena della sorella di Ulrich. Le 750 pagine già lette sono comunque più che sufficienti per formulare il personalissimo giudizio di un romanzo geniale sì, ma mai coinvolgente e anzi di demoralizzante ostichezza.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    11 Novembre, 2019
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IL DESTINO IN UN LAGER

Sulle esperienze vissute dagli ebrei in un campo di concentramento la pietra miliare in letteratura è stato certamente “Se questo è un uomo” di Primo Levi: secco, dettagliato, antiretorico e impietoso. “Essere senza destino” introduce una novità nel genere concentrazionario: il protagonista è un ragazzo di quindici anni, quindi un essere immaturo, non ancora pienamente formato, in crescita. La cosa è molto interessante dal punto di vista narrativo, in quanto permette al lettore di verificare cosa succede alla mente umana, specie in una mente ancora da plasmare, priva di esperienze, in un certo senso vergine, quando viene esposta alle atrocità più mostruose e inimmaginabili. L’autore fin dalle prime righe introduce il protagonista mettendo in rilievo la sua inadeguatezza ad affrontare le insolite circostanze che si ritrova suo malgrado a vivere (“Ma forse mi sbaglio… forse non ricordo bene… Non sapevo cosa rispondere e così non ho detto niente… A dire il vero, io non ero riuscito a seguire bene il suo ragionamento… Non so esattamente. Non ricordo nemmeno le circostanze”, e così via). Gyurka vive il precipitare degli eventi (il lavoro obbligatorio alla Shell, la deportazione in Germania) senza minimamente cogliere la gravità delle conseguenze: trova esagerato che la sua vicina di casa creda che la gente la odi in quanto ebrea, anzi non crede che esista neppure un’identità ebrea che non sia quella assegnata dal caso alla nascita; il lavoro cui è costretto insieme ad altri ragazzi ebrei è “persino divertente”; l’episodio di quando viene fatto scendere dall’autobus mentre si sta recando in fabbrica è “davvero singolare”; e quando viene rastrellato insieme a centinaia di altri ebrei e condotto in una caserma gli viene quasi da ridere, per l’impressione di trovarsi in una commedia dell’assurdo senza conoscere la parte che deve recitare. Persino l’arrivo ad Auschwitz è accompagnato da espressioni di stolida soddisfazione: le SS non sembrano “per niente pericolosi”; hanno sì in mano una frusta, “ma, dopo tutto, non avevo visto farne alcun uso”; il medico della selezione ispira fiducia “perché aveva un aspetto gradevole, la faccia lunga e simpatica, … occhi azzurri…. dallo sguardo benevolo; ebbi la vaga sensazione di piacergli”; il passaggio della selezione genera esultanza; “era tutto in movimento, tutto funzionava, ciascuno era al proprio posto e faceva il proprio dovere, tutto si svolgeva in modo preciso, sereno, filava via liscio”; ci si reca alla doccia “chiacchierando e ridendo”; “quello che vidi dei dintorni nella breve strada percorsa tutto sommato mi lasciò soddisfatto”. La conoscenza degli orrori che lo attendono nei vari lager frequentati è graduale ed implacabile: è un piano inclinato che, passo dopo passo, conduce il ragazzo a una progressiva disumanizzazione, a un costante annientamento di sé, senza che quasi ci sia un vero momento di discontinuità che possa innescare una autentica presa di coscienza. Solo voltandosi indietro è possibile rendersi conto che “esistono cose che fino ad allora io non avevo compreso e che difficilmente avrei potuto credere”. Tutto avviene in maniera insensata, cioè senza che sia possibile dare un senso all’impressionante cambiamento che la fame, la dissenteria, le percosse, il sonno, il freddo, i pidocchi, le piaghe provocano nel fisico e nello spirito di Gyurka e dei suoi compagni, fino a renderli estranei gli uni agli altri (concentrati solo in una disperata lotta per la sopravvivenza, dove spesso “mors tua vita mea” – vedi ad esempio l’episodio dove il protagonista non rivela la morte del vicino di branda pur di potersi accaparrare per qualche giorno una doppia porzione di zuppa) e persino a se stessi (l’estraneità del proprio corpo, troppo rapidamente cambiato per essere ancora riconoscibile). L’arbitrio, le coincidenze, il caos governano gli eventi, la vita è letteralmente appesa a un filo, e Gyurka si salva solo per circostanze fortuite (una malattia che lo costringe in un’infermeria del lager fino all’arrivo degli Alleati). Al suo ritorno a Budapest, la città natale, un anno dopo la sua partenza, Gyurka è un ragazzo invecchiato, quasi saggio: senza rendersene conto ha subito un’evoluzione impressionante. La sua ossessiva ricerca di un senso, di un destino alla propria vita lo rende estraneo alla persone che sono rimaste e che non lo capiscono, vedendo solo le immani conseguenze di una tragedia di proporzioni bibliche, e non i piccoli, impercettibili passi che l’hanno resa possibile, rendendoci tutti corresponsabili. Il suo futuro è un’aporia, un ossimoro: proseguire a tutti i costi una vita “che non è proseguibile”, e guardare al lager quasi con nostalgia, cercando di riempire con un significato quell’enorme buco nero che altrimenti minaccerebbe di trasformarlo in un “essere senza destino”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    04 Novembre, 2019
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IL DOLOROSO MA NECESSARIO RECUPERO DEL PASSATO

“Forse bisogna fare in modo da essere vulnerabili. Altrimenti alla fine non rimane che la morte”

L’insolito titolo del dramma di Enquist è, allo stesso tempo, un’introduzione e una chiusa. Lo sentiamo pronunciare anzitutto nelle battute di apertura, nelle quali viene scandito e compitato con una sorta di titubante sacralità; acquisisce un senso compiuto, anche se ambiguamente celato in una non facile allegoria, nell’ultima scena, quando Hanne legge ad alta voce la pagina delle sue memorie in cui ricorda come, da bambina, si mettesse a lavare i lombrichi che uscivano dalla terra al cader della pioggia, pensando che cercassero di proposito l’acqua per il desiderio di essere puliti. Questa poetica immagine è qui il simbolo di un faticoso e sofferto recupero del passato, che, lontano dalle idealizzanti trasfigurazioni proustiane, deve, per essere autentico, passare anche attraverso l’accettazione dei suoi aspetti più impuri e peccaminosi (i viscidi lombrichi che sbucano dal fango).
Quello della memoria, intesa come grumo doloroso e vergognoso di ricordi, è il tema centrale del dramma. Hanne e Andersen sono infatti due “piante nate nella melma”, due umili paria che hanno raggiunto il successo solo dopo un rabbioso e travagliato distacco dalle origini. Pur accomunati da queste radici comuni, Hanne e Andersen sono diversissimi tra loro: caparbia, energica e “mascolina” Hanne, goffo, timido e “femminile” Andersen, il loro rifiuto del passato è avvenuto nel segno della totale rimozione per l’una (ma la donna calva legata alla sedia è il muto e raccapricciante simbolo dell’impossibilità di un tale tentativo) e della sublimazione per l’altro. Il risultato per entrambi è stato fallimentare. Hanne ha sposato un famoso drammaturgo che, come un moderno Pigmalione, l’ha portata al successo ma, plasmandola alla stregua di un’opera d’arte, le ha anche tolto l’amore per la vita, costringendola dentro un vuoto e freddo simulacro di perfezione, proprio come la figura di quel quadro che, appeso su una parete di casa Heiberg, la raffigura. Andersen invece, insoddisfatto di saper scrivere solo fiabe e non vera letteratura, è tremendamente solo e tormentato da una incapacità d’amare che, nonostante l’entusiastica e infantile fede nei suoi sogni sentimentali, è soprattutto paura dell’amore e delle sofferenze dell’amore.
Ne “I serpenti della pioggia” c’è un continuo rincorrersi di immagini di freddo, di ghiaccio, di morte, di immense distanze siderali. Se nella vecchia la pulsione di morte è fortissima, palpabile quasi, nei due coniugi Heiberg, a testimonianza del fatto che la forma non può surrogare la vita, essa si manifesta come annientamento morale, autodistruzione spirituale. Il rischio maggiore per i personaggi del dramma è il soffocamento delle passioni, il rifiuto dei “punti dolorosi” dell’esistenza, il cinismo: “Sapete cosa sono i punti dolorosi, signor Andersen? Sono quei punti straordinariamente vivi, che fanno male, male, male, e che ci fanno ricordare di essere in vita. Senza i punti dolorosi non siamo più nulla, siamo soltanto morti. E se vengono incapsulati incominciamo a morire”. Hanne ha incapsulato i suoi tragici ricordi di infanzia (il suicidio del benefattore Hermann, cui era legata da uno strano rapporto di amore-odio; il pogrom antisemita in cui sua madre era stata torturata davanti ai suoi occhi; le umiliazioni sopportate per farsi largo nel mondo dello spettacolo) e ha incominciato fatalmente a morire, ricoperta da una impenetrabile membrana di ghiaccio.
L’arrivo in casa Heiberg di Andersen provoca un violento sconvolgimento nel mummificato mondo borghese di Hanne e di suo marito. La sua fanciullesca vitalità, rompendo i fragili equilibri esistenziali dei due coniugi, è la molla che fa scattare definitivamente il meccanismo di autoanalisi che Hanne aveva già, senza molta convinzione, avviato iniziando a mettere per iscritto le sue memorie. E’ curioso come questo doloroso scavo interiore avvenga inizialmente sotto forma di un crudele gioco al massacro, durante il quale Hanne e Andersen si rinfacciano reciprocamente viltà e ipocrisie, senza capire che in realtà stanno solo smascherando impietosamente se stessi. I complessi di colpa latenti (“E’ forse colpa mia? Sono io la responsabile?” ripete Hanne nel secondo atto, mettendo da parte il suo glaciale autocontrollo) esplodono con inaudita violenza, e i reali rapporti tra i personaggi, deformati da insospettate connotazioni psicanalitiche (Heiberg marito-padre, Andersen amante-fratello) vengono finalmente alla luce. Ma si tratta veramente della catarsi definitiva? La ricomposizione finale del gruppo familiare, che “emana calma e tranquillità”, non deve ingannare: è vero che Hanne è uscita dal suo ruolo di opera d’arte vivente (l’autore lo sottolinea quando il quadro che la rappresenta viene raddrizzato dalla parte sbagliata) e per lei forse è in serbo la salvezza, ma per Andersen e Heiberg, la genialità e lo stile, la condanna appare irrevocabile: la solitudine per il primo, l’incomunicabilità o la pazzia per il secondo. L’irrisolvibile conflitto tra bisogno d’amore e incapacità d’amare segna la tragica sconfitta esistenziale dell’individuo, chiuso ermeticamente in se stesso come un insignificante atomo sperduto tra milioni di altri atomi. In questo universo la felicità è preclusa all’uomo, oppure se in qualche modo si realizza, è malinconicamente senza scopo, non apprezzabile nel suo giusto valore da chi la prova, proprio come le favole di Hans Christian Andersen.
Per Olov Enquist ha scritto, con “I serpenti della pioggia”, una commedia bellissima e affascinante, che oso avvicinare ai grandi drammi strindberghiani e a taluni film “da camera” di Ingmar Bergman. Come i suoi famosi modelli, l’autore parte da una situazione di apparente equilibrio e serenità, per poi rivelare progressivamente, con squarci improvvisi e taglienti, l’altra faccia della medaglia, quella del crollo delle certezze e degli ideali, dello smascheramento impietoso della vera natura umana, fatta di miseria, dolore e sofferenza. Nuocciono forse al dramma alcuni insistiti contrappunti linguistici (ad esempio, il turpiloquio e le sciocche barzellette da caserma utilizzati per sottolineare l’aggressività repressa di Hanne e il suo rifiuto dell’educazione rigidamente formalistica impostale dal marito) e l’ambiguità di certi passaggi narrativi (quando racconta la morte di Hermann, Hanne appare reticente, come se volesse giustificare il suo passato), ma nonostante questo “I serpenti della pioggia” funziona egregiamente e si rivela estremamente attuale nell’affrontare temi che coinvolgono l’uomo di oggi non meno dei personaggi ottocenteschi del testo.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    28 Ottobre, 2019
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L'EPOPEA DI UN UMANISTA AUTENTICO

“La storia degli uomini non è la lotta del bene che cerca di sconfiggere il male. La storia dell’uomo è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell’umanità. Ma se anche in momenti come questi l’uomo serba qualcosa di umano, il male è destinato a soccombere.”

“Vita e destino” è senza dubbio alcuno la “Guerra e pace” del XX secolo. Come il capolavoro di Tolstoj parlava dell’invasione napoleonica in Russia, mescolando la Storia con le vicende individuali, le grandi tragedie pubbliche e i piccoli drammi privati, i personaggi famosi con quelli inventati dalla fantasia dell’autore, così il romanzo di Grossman si propone come una grandiosa saga, la quale, dipanandosi intorno alla famosa battaglia di Stalingrado, vero e proprio snodo cruciale dell’intera Seconda Guerra Mondiale, mette in scena una miriade di personaggi, non solo sovietici ma anche tedeschi, attraverso le cui travagliate vicissitudini viene schizzato uno dei più efficaci ritratti dei due regimi in lotta, il nazismo e il comunismo, che mai siano stati realizzati da uno scrittore. La prima e maggiore differenza con “Guerra e pace” salta subito all’occhio: mentre Tolstoj non esitava ad affermare la superiorità del popolo russo e dei suoi condottieri, Grossman appare molto più realista. Pur ammettendo la necessità storica di sconfiggere Hitler e il suo piano malvagio di sottomettere il mondo intero al dominio teutonico, non nasconde che le ideologie nazista e stalinista non differiscono poi troppo tra loro, avendo entrambe tra i loro segreti propositi quello di asservire la libertà degli individui a un superiore obiettivo, quello dello Stato totalitario. L’ipostasi più evidente di questa situazione è quella dei campi di concentramento, l’invenzione più diabolica del secolo scorso, dove milioni di persone (e qui lager e gulag hanno veramente pochi punti di discontinuità) sono morte e hanno lavorato in condizioni di schiavitù.
I personaggi del romanzo appartengono alle più varie tipologie: dai militanti più fanatici ai cittadini ideologicamente meno ossequiosi, scorrono nelle sue 800 pagine tantissimi esemplari umani, tutti omologati dal conformismo del terrore, in un periodo in cui bastava una semplice battuta o una parola fuori posto per perdere il posto di lavoro o, peggio, per finire deportati in Siberia. Si respira ovunque un clima asfissiante e kafkiano, che l’emergenza bellica attenua solamente in parte, visto che anche al fronte imperversano i commissari di partito, i quali vigilano con ottusa solerzia affinché non venga mai meno nemmeno nelle trincee l’ortodossia ideologica del regime. Eppure, anche in questo clima opprimente, in cui Stalin e Hitler sono al di sopra di ogni critica, in cui le carriere, le assegnazioni degli alloggi e perfino gli approvvigionamenti dipendono dalla capacità di ingraziarsi gli alti papaveri del partito più che da meriti e bisogni reali, e in cui non si può parlare liberamente perché tutti sospettano di tutti, anche in questo clima –dicevo – serpeggia un anelito di libertà, magari sotto forma di subdoli dubbi che nascono anche all’interno delle personalità più fanatiche, facendone traballare la fede cieca (come nel caso del bolscevico tutto d’un pezzo Mostovskoj, che rimane turbato nel constatare come il suo acerrimo nemico Liss, direttore del lager in cui è rinchiuso, si ritiene sotto molti aspetti simile a lui).
Il fatto è che Grossman è un umanista autentico, e la guerra o la politica gli interessano solo in quanto costituiscono un tramite per parlare della vita (non è un caso che la parola sia finita nel titolo). La sua prosa semplice, precisa, sincera, didascalica nel senso migliore del termine, mette infatti i suoi personaggi al centro di drammatici conflitti di coscienza, tanto nell’eccezionalità di una battaglia quanto nella normalità della vita quotidiana. Ad esempio, lo scienziato Strum, la cui ramificata famiglia è al centro di “Vita e destino”, vive sulla sua pelle l’ostracismo della comunità in cui lavora, in quanto, nonostante le sue geniali scoperte nel campo della fisica nucleare, è considerato dal partito ideologicamente ambiguo (probabilmente anche perché ebreo), ma, pur caduto in disgrazia, è confortato dal sollievo di non aver voluto umiliarsi in una autoconfessione pubblica; quando però, con un vero e proprio coup de théâtre (la telefonata di Stalin), viene reintegrato nei suoi diritti e nei suoi privilegi, finalmente ammirato da tutti come un esempio di rettitudine morale, non riesce a resistere alle subdole lusinghe del partito e accetta di firmare una ripugnante lettera in cui si schiera apertamente contro alcuni onesti colleghi incarcerati con risibili accuse, con ciò condannandosi a una vita di recriminazioni e di rimorsi. Di fronte ad analoghi dilemmi si trovano anche Mostovskoj (come visto più sopra), Krymov (che da delatore per il bene della rivoluzione si trova ad essere a sua volta accusato e imprigionato), Novikov (che decide a rischio della sua carriera di ritardare di pochi minuti l’ordine di attacco giuntogli dagli alti comandi pur di salvaguardare la vita dei suoi soldati), e così via, fino al più insignificante kapò di un campo di concentramento. Tutti hanno la possibilità, per quanto infinitesimale, di cambiare il proprio destino (ecco la seconda parola del titolo) con una scelta autonoma che modifichi il corso degli eventi. Ed è proprio in questa facoltà, che è al contempo diritto e dovere di ogni essere umano, che si manifesta la sua profonda natura. Grossman è affascinato dalla eterna lotta tra l’umanità che è dentro ogni uomo e le forze, a volte potenti e soverchianti, che cercano in tutti i modi di annientarla. Il risultato non è mai scontato (e la pietà dello scrittore per chi non ce la fa lo dimostra), spesso perfino le personalità migliori sono costrette, per debolezza o viltà, a soccombere, ma – è questo il messaggio più consolante, il testamento spirituale che ci ha lasciato Grossman – l’umanità non può mai essere sconfitta definitivamente (grazie magari all’inatteso gesto di una vecchia russa che aiuta un prigioniero di guerra tedesco in difficoltà, o alla scelta del comandante Grecov di far tornare nelle retrovie, e così risparmiar loro la vita, una coppia di soldati innamorati la notte prima della capitolazione del suo avamposto, o alla commovente decisione di Zenja di rinunciare al proprio amore pur di aiutare il suo primo marito rinchiuso in prigione), e l’anelito alla libertà è troppo forte per costringere gli uomini a piegarsi a lungo sotto il giogo innaturale di dittature e regimi autoritari. All’indomani di un olocausto risorgerà sempre l’Uomo Nuovo, l’uomo che, anche senza essere mosso da ideali religiosi (Dio è quasi del tutto assente dalle pagine del laico Grossman), saprà tirare fuori dal profondo di se stesso quegli insopprimibili valori di fratellanza, di compassione e di giustizia che da millenni hanno accompagnato l’umanità lungo il suo lungo e travagliato cammino.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    22 Ottobre, 2019
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ELOGIO DELL'ANARCHIA

José Saramago è stato uno degli ultimi autentici umanisti della nostra epoca. Con i suoi apologhi sempre al limite dell’assurdo e del paradossale in ogni suo libro ha inteso affermare, appassionatamente e senza ambiguità, la priorità dell’individuo rispetto al sistema, dell’uomo sulla società, oltre che i valori sempiterni dell’amicizia, della fratellanza, dell’amore. Nelle sue opere ha sempre serpeggiato, a ben pensarci, un velato anarchismo, che in “Saggio sulla lucidità” esce finalmente allo scoperto, laddove lo scrittore portoghese immagina che in un paese immaginario ma non troppo, la maggior parte degli elettori della capitale, senza alcuna ragione apparente, si reca ai seggi per votare scheda bianca. Un simile atto di pacifica protesta riesce, meglio di qualsiasi manifestazione rivoluzionaria, a far cadere definitivamente la maschera liberale di cui si era ammantato fino a quel momento il regime, il quale, per eliminare quell’esiziale ostacolo per il sistema democratico che rischia di essere come il tradizionale granello di sabbia (anzi come un macigno, viste le proporzioni del fenomeno) all’interno di un sofisticato ingranaggio elettronico, è costretto a reagire scompostamente, dapprima decretando lo stato di emergenza e abbandonando la città a se stessa – senza governo, senza polizia, senza servizi pubblici – per punirla del riprovevole atteggiamento dei suoi abitanti, poi provocando un sanguinoso attentato terroristico al fine di seminare il panico tra la popolazione, e infine creando ad arte un capro espiatorio da additare pubblicamente come organizzatore della sovversione (è la stessa donna che alcuni anni prima, nella vicenda narrata in “Cecità”, era stata l’unica a non perdere la vista). Il clima torbido di uno stato poliziesco che controlla i mezzi di comunicazione per propinare false verità alla gente, che usa in maniera spregiudicata la retorica patriottica per creare un consenso artificioso, che è disposto a spingersi fino ad usare minacce, intimidazioni e violenze per piegare al proprio volere qualsiasi manifestazione di dissenso, è raccontato da Saramago, all’epoca splendido ultraottantenne che nonostante l’età non si è mai voluto rassegnare a ritirarsi in un olimpico e atemporale distacco dalle urgenti problematiche della contemporaneità, è raccontato – dicevo – con la chiarezza e l’esemplarità di chi vuol far capire al lettore che quello che scorre nelle pagine del romanzo non è solo finzione narrativa, ma è presente, come un tumore latente, in molte delle nostre democrazie occidentali (per rimanere alla storia italiana e tralasciando più recenti e spinosi esempi, basti pensare al periodo delle stragi di Stato, dei servizi segreti deviati, della P2).
“Saggio sulla lucidità” è una storia che vira ineluttabilmente verso la tragedia (i due personaggi principali, il commissario e la moglie del medico, muoiono, come in un romanzo di Sciascia, colpiti dalla mano occulta del potere), eppure è una storia ricca di speranza. Se per Cioran, per citare un suo famoso aforisma, “la speranza è la forma normale del delirio”, per Saramago (che al contrario del filosofo rumeno ha un’immensa fiducia nell’uomo) essa è, in una pervicace dimostrazione di ottimismo, il motore stesso della vita, la ragion d’essere dei suoi libri. E’ così che gli abitanti della capitale, abbandonati al loro destino, assediati dal resto della nazione, reagiscono con esemplare compostezza: nessun delitto, nessun atto di teppismo, nessun disordine, nessuna protesta concitata, nonostante gli sforzi profusi dal governo per far degenerare la situazione (anzi, quando questo costringe i netturbini a scioperare, al fine di rendere igienicamente invivibile la città, i lavoratori scendono per le strade senza divisa e senza salario per prendersene cura; e quando la minoranza filo-governativa che vuole nottetempo abbandonare la città viene rispedita indietro dai soldati che presidiano le frontiere, il resto dei cittadini, anziché punire i “traditori” come ci si aspettava, li aiuta caritatevolmente a riportare le cose nelle loro abitazioni). Non è dato sapere come vada a finire la pacifica sovversione dei “biancosi” (nelle ultime pagine si accenna soltanto di sfuggita alla gente che scende in piazza per protestare silenziosamente contro l’uccisione del commissario, che il subdolo ministero dell’interno ha fatto uccidere per trasformarlo in un martire della lotta contro i “terroristi delle schede bianche”), ma il messaggio di Saramago è chiaro: fino a che ci sarà almeno un uomo che, trovandosi a tu per tu con l’esigente e severo tribunale della propria anima, sceglierà di comportarsi secondo quanto gli suggerisce la propria dignità, la propria coscienza, il rispetto per se stesso e per il prossimo, i suoi sentimenti più puri e disinteressati, anziché per assecondare vigliaccamente un potere che se lo lusinga e lo adula è solo per perseguire meglio i propri subdoli scopi (Orwell docet), fino a che ci sarà un uomo simile, disposto – come il sindaco o il commissario – a mettere in secondo piano i propri egoistici interessi, la propria carriera, persino la propria tranquillità e sicurezza, pur di non offendere la verità e la giustizia, ebbene allora ci sarà, a dispetto di tutte le evidenze contrarie, ancora speranza per l’umanità, e la lucidità (magari – perché no? - sotto forma di una scheda bianca) potrà propagarsi come un’onda inarrestabile.

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"Cecità" di Josè Saramago
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