Opinione scritta da Laura V.

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Narrativa per ragazzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    27 Giugno, 2022
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Un libro è per sempre

Pubblicato nel 2018 dalla casa editrice Valentina Edizioni, "La montagna di libri più alta del mondo" è un libriccino per bambini (anche cresciuti) davvero molto, molto carino che ho scoperto, e così cercato, grazie alla sempre preziosa rete di segnalazioni tra lettori!
Una pubblicazione di pregio, sia per il contenuto che per la delicata bellezza delle illustrazioni, che parla di amore per la lettura e quanto esso possa far volare in alto la nostra anima che ha un bisogno smisurato di nutrirsi di bellezza e conoscenza. Non servono ali, "ci sono altri modi per volare", e nessun aereo potrà mai portarci tanto lontano quanto le pagine di un libro.
L'autrice, Rocío Bonilla, nata a Barcellona nel 1970 e dedita alle illustrazioni per l'infanzia, trasmette un grande messaggio attraverso la piccola storia di Lucas, il giovanissimo protagonista. Ho sempre sostenuto la necessità di regalare libri, in particolare ai bambini. Un libro è per sempre, ancor più di qualsiasi diamante!

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    27 Giugno, 2022
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L'Italia tra longobardi e franchi

Italia, seconda metà dell'VIII secolo. Il regno longobardo giunge al capolinea e, sotto i due sovrani Desiderio e suo figlio Adelchi, sta per esalare ormai l'ultimo respiro a causa dei contrasti insanabili con il re dei franchi Carlo Magno; quest'ultimo non soltanto si è fatto tradizionalmente sostenitore del papa che reclama terre ora in mano ai longobardi, ma ha per di più ripudiato la moglie Ermengarda, figlia dello stesso re Desiderio, la quale, infelice, viene rispedita come un pacco alla corte paterna nella città di Pavia, capitale indiscussa del loro regno. A tutto ciò si aggiunga il fatto che la vedova e i due giovanissimi figli del fratello minore di Carlo, Carlomanno, avevano trovato ospitalità proprio lungo le sponde del Ticino, sotto l'ala protettiva di Desiderio e famiglia che forse miravano a far incoronare con tutti i crismi dal sommo pontefice i due ragazzini ai danni dello zio Carlo. Insomma, brama di potere e fredde logiche di dominio sono alla base della guerra che, a un certo punto, non può che esplodere tra franchi e longobardi.

Pubblicato nel 1822 e portato in scena per la prima volta a Torino a distanza di poco più di vent'anni, il testo teatrale “Adelchi” racconta tali vicende con originalità e alcune "libertà" rispetto alla versione storica ufficiale. Alessandro Manzoni, in queste sue pagine, dà vita a un notevole intreccio di fatti e personaggi che, per quanto collocabile senza dubbio in un passato ben lontano, si presta probabilmente anche a una lettura in linea con l'attualità del tempo, cioè dell'epoca dell'autore, quando una parte d'Italia stava sotto il dominio asburgico; i temi della patria “calpesta e derisa” e dell'occupante straniero, non a caso, non sembrano essere per nulla estranei all'opera in questione, tant'è che in più di una nota a margine del testo ho letto di interventi da parte della censura austriaca (non si dimentichi che quello del 1820-1821, proprio mentre il Manzoni procedeva con la stesura dell' “Adelchi”, fu un periodo delicato in Europa in generale e pure in alcuni stati italiani per quanto riguarda moti e tentativi di insurrezione).
In tal senso, il coro alla fine del terzo atto, si rivela piuttosto esplicito: il popolo dei latini, ridotto a misera condizione servile sotto i longobardi, non avrebbe dovuto farsi illusioni in merito alla vittoria dei franchi su questi ultimi poiché gli oppressori, infine, sarebbero stati due:

“[...] Il forte si mesce col vinto nemico,
Col novo signore rimane l'antico,
L'un popolo e l'altro sul collo vi sta.
Dividono i servi, dividon gli armenti;
Si posano insieme sui campi cruenti
D'un volgo disperso che nome non ha.”

Quello del protagonista si rivela un personaggio ben riuscito: generoso, timorato di Dio, nobile e mite d'animo, sebbene dichiari intenzioni decisamente poco cordiali nei confronti del cognato “vile offensor d'Ermengarda”, sua sorella che, distrutta dal dolore, morirà di lì a breve nel monastero di San Salvatore a Brescia, dove viveva la sorella monaca Ansberga. Nei confronti dei due sfortunati fratelli, andati incontro a un drammatico destino, l'autore posa uno sguardo compassionevole che sembra riconsiderare almeno in parte la loro "colpa" di discendere da “rea progenie degli oppressori” (i longobardi), come viene messo in bocca al famoso coro del quarto atto (“Sparsa le trecce morbide...”).
Le scene conclusive del quinto e ultimo atto della tragedia sono alquanto significative: colpito a morte e ormai prossimo alla prematura dipartita, Adelchi viene condotto nella tenda di Carlo sotto Verona, dove rivede per l'ultima volta il padre Desiderio ormai sconfitto e prigioniero. Si compie, dunque, quanto lo stesso giovane ha tempo addietro profetizzato per se stesso:

“La gloria? il mio
Destino è d'agognarla, e di morire
Senza averla gustata. [...]”

Nemmeno l'Adelchi reale personaggio storico, che pare abbia finito i suoi giorni a Costantinopoli almeno una quindicina d'anni dopo la caduta di Pavia e Verona, gusterà la vera gloria prima di morire.
Nel complesso, un'opera importante che ha riscosso un apprezzamento unanime da parte della critica. Per quanto mi riguarda, sarò sincera: ne ho trovato la lettura piuttosto pesante; per di più, le note nell'edizione che ho avuto a disposizione (un volumetto della casa editrice Signorelli dei primi anni Ottanta) sono state riportate in caratteri quasi microscopici, cosa che, pertanto, non mi ha certo alleggerito il lavoro. Insomma, ho faticato a giungere alle battute finali. Tuttavia, consiglio di non tralasciare questo testo, anzitutto per il fatto di poter così rinfrescare e approfondire quel capitolo importante di storia che interessò la penisola, in riferimento particolarmente al dominio dei longobardi.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    21 Giugno, 2022
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Più amarezza che miele

Sullo sfondo della Tangeri degli ultimi decenni si svolge la vicenda al centro del nuovo romanzo di Tahar Ben Jelloun pubblicato in Italia, lo scorso aprile, da La nave di Teseo all’interno della collana “Oceani” e presentato di recente all’ultima edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il famoso scrittore maghrebino ritorna nel nostro paese con una dramma familiare che, in verità, finisce per inserirsi in un altro, ormai incancrenito, di lunga data, raccontando al tempo stesso uno spaccato della società del Marocco, sempre ostaggio delle proprie contraddizioni più laceranti.
È straordinariamente abile Ben Jelloun a scandagliare gli angoli reconditi dell’anima della propria terra che lui, nativo di Fès, lasciò una cinquantina d’anni fa per prendere stabile dimora in Francia da dove, tuttavia, non ha mai rinunciato a gettare il suo sguardo attento sull’altra sponda del Mediterraneo. Ancora una volta Tangeri, città cosmopolita da cui sognano di partire i giovani, affascinati dalle luci d’Europa al di là dello Stretto, accoglie una storia che viene narrata attraverso più voci. In quelle alterne dei coniugi Mourad e Malika, principali protagonisti, domina l’infinita amarezza di una esistenza precipitata giorno dopo giorno nel baratro irreversibile dell’infelicità domestica; a esse si aggiungono le voci dei tre figli, soprattutto quella di Samia, adolescente che ama rifugiarsi nei libri e nella poesia e che sul principio degli anni Duemila subisce un abuso sessuale da parte di un insospettabile e rispettato editore che adesca giovani vittime con la promessa di pubblicazione sulla sua rivista letteraria. La “tragedia”, come viene ripetutamente chiamata, si abbatte imprevista sui genitori che finiscono per seppellirsi, come in una sorta di tomba precoce, nel buio seminterrato della loro casa “costruita quando tutto andava bene”. Il dolore per quanto accaduto, l’astio reciproco e l’amaro rimpianto per i tempi in cui l’amore tra loro era forse esistito (nei limite in cui questo possa nascere nei matrimoni imposti dagli usi locali) li accompagnano fino agli anni della vecchiaia, quando nella loro solitudine e nello spazio angusto del seminterrato fa la sua comparsa un giovane immigrato mauritano la cui voce si aggiunge alle precedenti in un intreccio narrativo ben riuscito dalla prosa intensa e coinvolgente.

“Il miele e l’amarezza” è indiscutibilmente un romanzo di denuncia attraverso il quale Ben Jelloun punta il dito non soltanto sul crimine dello stupro, in particolare ai danni di minorenni, ma anche sul quel misto terribile di rassegnata passività, ipocrisia e intima vergogna con cui esso viene vissuto dalla società marocchina in generale che preferisce far finta di non vedere, non parlarne e aggrapparsi ostinatamente a un senso dell’onore che, a tali condizioni, risulta già disonorato in partenza; in tutto questo schifo, inoltre, attecchiscono bene gli abusi da parte di chi, come i sauditi, arriva con borse piene di soldi e pensa di sfruttare l’altrui miseria, comprando a poco prezzo donne, uomini e, purtroppo, pure bambini.

“[…] La gente parla, ma nessuno fa nulla contro questo sistema di prostituzione che non si dichiara come tale […]”.

La denuncia dell’autore, come già in tanti suoi lavori, tocca senza mezzi termini anche altri aspetti del paese nordafricano: la corruzione, ben radicata e diffusa a livello capillare, in primis nell’ambito della pubblica amministrazione, e ormai considerata normale pratica poiché il cosiddetto “bakhshish” consente di rimpolpare modesti stipendi e garantirsi così una maggiore disponibilità economica (nella trama, Mourad, funzionario presso un ministero, viene costretto dalla moglie e dall’ambiente di lavoro a venir meno ai suoi principi e a piegarsi alla logica perversa delle bustarelle); l’immigrazione degli africani subsahariani, in transito verso la penisola iberica, e il razzismo da parte dei marocchini, i quali in molti casi, a quanto pare, si sentono meno africani degli altri; una sorta di irrigidimento dell’Islam, culminante da tempo nella costruzione di moschee e in un sempre maggior numero di donne velate negli spazi pubblici, mentre la scuola musulmana di diritto vigente in Marocco e nel Maghreb più in generale – quella malikita – è sempre stata tra le meno rigide in assoluto per quanto riguarda l’interpretazione dottrinale.

“[…] Un paese dove si costruiscono più moschee che scuole o ospedali è un paese finito. Non ne uscirà niente di buono. Possiamo pregare a casa, possiamo anche pregare dentro di noi, non abbiamo bisogno di una moschea. Mia madre, che era malata, ha pregato seduta per gli ultimi dieci anni della sua vita. Era molto religiosa. Diceva le sue preghiere in silenzio e non disturbava nessuno. Al giorno d’oggi, quelli che credono vogliono farlo sapere a tutti. Che orrore! Che arroganza […]”

Attraverso le parole di uno dei suoi protagonisti (che a tratti dà quasi l’impressione di essere il suo alter ego), Ben Jelloun esprime considerazioni del tutto condivisibili. Il suo è un linguaggio schietto su più fronti, sesso incluso, scevro di inutili edulcorazioni di sorta, probabilmente esecrabile in patria secondo certe ottiche ipocrite e bigotte anche se i suoi testi non vengono banditi dalle librerie del regno, ed è proprio per questo chiamare le cose con il loro nome che amo in modo particolare la sua scrittura; inoltre, ogni volta in cui leggo un suo libro, ho come la sensazione di ritornare nel Marocco che ho conosciuto e vissuto per diverso tempo in passato, ritrovando tra le pagine non soltanto luoghi, ma persino mentalità e modi di vivere della sua gente. Al di là della vicenda di fantasia, dunque, anche il romanzo in questione si rivela perfettamente aderente alla realtà locale.
Una lettura scorrevole, molto istruttiva e interessante. Non sarà forse il migliore Tahar Ben Jelloun, se paragonato a quello di diverse pubblicazioni precedenti, ma si tratta comunque di una prova più che buona dello scrittore marocchino che, come di consueto, non manca di suscitare nei lettori emozioni e riflessioni non di poco conto, anzitutto sul senso dell’umano vivere al di là di ogni possibile contesto culturale. E anche stavolta, infine, il miele è poco e l’amarezza tanta.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    06 Giugno, 2022
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La resa dei conti

Era dallo scorso tardo autunno che il commissario Michele Balistreri mi teneva buona compagnia. Una compagnia inquieta, troppo spesso rabbiosa e pregna di dolore. Con questo volume termino ora la lettura della “Trilogia del Male” di Roberto Costantini, la cui scrittura si è rivelata per me una gran bella scoperta, una delle migliori degli ultimi tempi. Complice l’ambientazione libica di circa mezzo secolo fa del secondo romanzo, da cui ero partita grazie a una svista fortunata, mi sono ben presto appassionata alle vicende del protagonista lungo un percorso tormentato che attraversa i decenni da Tripoli all’Italia e viceversa.
Prendendo le mosse dagli avvenimenti del 2011, poco prima della caduta del regime di Mu'ammar al-Qadhdhafi (Gheddafi) di cui ci ricordiamo tutti, questo terzo romanzo ripercorre in parallelo i fatti passati narrati nel precedente “Alle radici del male”, sia riportandone ampi stralci sia dando voce ex novo a vari personaggi già noti che contribuiscono quindi a ricostruire quanto accaduto per arrivare infine alla verità sull’ultimo mistero che ancora attendeva sulla scogliera della piccola isola della Moneta. Un grande puzzle dove gli innumerevoli tasselli dettano anche una resa dei conti che non avrebbe potuto attendere oltre.
E così passato e presente s’intrecciano inevitabilmente svelando, in realtà, tanti retroscena alla luce dei quali non si potrà che restare stupiti. Quando pensavo che stavolta la narrazione, seppure piacevole e coinvolgente, fosse un poco al di sotto rispetto a quella degli altri due titoli, ecco che nell’ultimo centinaio di pagine si concentra una serie di colpi di scena che inducono a divorare letteralmente la parte restante del libro. La penna dell’autore è stata abilissima: la verità stava lì, davanti agli occhi di Mike/Michele, davanti alla sua antica e rovinosa rabbia, ma confusa tra bene e male. Già, perché nella sua vita, come lui stesso scoprirà dopo tanto tempo, non vi era stato solo il male; e di quello stesso male è rimasto alla fine qualcosa che al cuore dà pace e futuro. Un epilogo davvero molto bello e indimenticabile! Il capitolo conclusivo di una trilogia da non perdere!

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Consigliato a chi ha letto...
... i precedenti due romanzi della trilogia: "Tu sei il male" e, soprattutto, "Alle radici del male".
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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    22 Mag, 2022
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Notte al museo

Il lettore che si accosti a questo libro nella convinzione di immergersi nella lettura di un romanzo – come la sinossi potrebbe, in parte, indurre a credere – rischierà di restare deluso. Infatti, nonostante le pagine iniziali abbiano il tono convincente di un’ “entrée” da narrativa, già il secondo capitolo insinua il dubbio, più che fondato, sulla natura di questa pubblicazione dell’algerino Kamel Daoud uscita lo scorso mese di gennaio con La nave di Teseo.
Vincitore nel 2019 del premio annuale della prestigiosa Revue des Deux Mondes, “Il pittore che divora le donne” si rivela in definitiva un saggio piuttosto complesso, anche se attraversato da qualche lieve venatura da romanzo, per così dire, in divenire. L’io “narrante” è quello dell’autore stesso che trascorre un’intera notte all’interno del Museo Picasso di Parigi al cospetto delle opere (di alcune in modo particolare) del grande Maestro spagnolo, mentre tutt’intorno la metropoli, cuore di un Occidente spesso sfuggente per chi proviene da altri mondi, dorme il suo sonno inquieto fatto di luci al neon, taxi e gente per le strade.

“Questa notte di ottobre al museo […] ho, in qualche modo, percepito come un uomo può, realmente, divorare una donna, dipingere il suo crimine, confessarlo ed essere ammirato per questo cannibalismo destabilizzante. […]”

La donna “divorata” era una diciottenne, Marie-Thérèse, che Picasso, classe 1881, incontrò proprio nella capitale francese all’inizio degli anni Trenta. “Picasso 1932, anno erotico” è il titolo esplicito di una delle esposizioni presenti in quelle immense sale museali rese ancor più suggestive dall’atmosfera notturna, anche per via dell’assenza di visitatori. Le tele esposte, come una sorta di diario, raccontano una pagina intensa della vita dell’artista, affondando in un erotismo e in una antropofagia, di tipo erotico appunto, che Daoud procede a poco a poco a scandagliare meticolosamente nel corso di quella che per lui diviene la “notte del destino”, espressione – come ben sa qualunque studioso del mondo islamico – carica di richiami alla vicenda del Profeta. Prende così avvio un discorso molto articolato sull’erotismo in quanto rito di caccia, nel quale il cacciatore finisce per farsi divorare dalla preda giungendo a una sorta di “cannibalismo suicida”. La collezione in questione espone una carnalità che turba e affascina nel contempo, rappresentata fin nelle ossa del corpo bramato e fino alla prova che “ogni amore è cannibalismo”.
È a questo punto che lo scrittore e giornalista maghrebino, spettatore solitario e privilegiato per un’intera notte, inizia a immaginare un racconto sconcertante nella sua semplicità: “un jihadista venuto dalla Siria o da Timbuctù o da Algeri o dalla periferia parigina, incaricato di ferire l’Occidente nel cuore del suo cuore: le sue collezioni d’arte. […] Estendere la catastrofe di Palmira ovunque, la distruzione di tele, arte e sculture, segni e curve, ‘fino a purificare la terra di Dio da ciò che non è Dio’, secondo le grida dei fanatici.[…] Il mio personaggio si chiamerà, quindi, Abdellah, lo Schiavo di Dio, mostro nato da carne morta di cadaveri della nostra epoca, il figlio di una sventura che lui perpetua. Un mostro solitario […] che resterà, come me, in piedi, qui, affascinato dai dipinti di questo museo […]. Tentando di cominciare il saccheggio per curiosità prima di intraprendere la sua missione: sfigurare l’Occidente.”

Che cos’è, dunque, l’Occidente, seguendo questi ragionamenti, se non un corpo femminile, una nudità mostrata ed esibita ovunque a più livelli? “Una decomposizione morale, una ricomposizione artistica”. Ecco quindi che i dipinti di Picasso, osceni secondo l’ottica e i parametri di valutazione del suo personaggio, diventano per Daoud, che giunge da un villaggio a trecento chilometri da Algeri, occasione per affrontare e approfondire tutta una serie di interessanti tematiche legate all’Islam: il corpo della donna e i rapporti tra i due sessi, i tabù, l’arte e la rappresentazione della figura umana, il paradiso con le sue perenni vergini (le huri), l’estremismo religioso che sfregia la bellezza artistica e uccide senza pietà alcuna immolando i suoi medesimi strumenti di martirio, le profonde contraddizioni esistenti all’interno delle società arabe e, più in generale, islamiche. Il proprio bagaglio culturale viene analizzato, passato al setaccio e non sempre l’argomentazione che lui porta avanti è facile da seguire. Emergerà, alla fine, il ritratto di un mondo arabo in collera (insanabile?) con quello occidentale, scandalizzato ma anche attratto dalla libertà di costumi, a disagio dinanzi alla nudità dei corpi che viene da esso interpretata come insulto alla sfera divina. L’intensa rappresentazione della carne della giovane Marie-Thérèse, rappresentata da Picasso, così gravida di clandestinità, desiderio, orgasmi incessanti, arriva a coincidere con l’Occidente che è, in breve, un corpo femminile nudo; per questo l’immaginario jihadista Abdellah intende in un certo qual modo convertirlo e, quindi, salvarlo attraverso una furia iconoclasta che esplode rabbiosa contro cose e persone.

“[…] Mi sono spesso posto questa domanda: a cosa è dovuta questa collera che ci impedisce di vivere e ci fa accusare il resto del mondo della nostra sofferenza? […]”

La risposta a cui giunge l’autore, al termine della sua notte insonne trascorsa in questo “tempio della carne” che si è rivelato tale museo parigino, non potrà essere univoca. Tirando le somme del lungo discorso precedente, le pagine conclusive del libro sono rivelatrici di considerazioni particolarmente sorprendenti. Un testo notevole, questo di Kamel Daoud, preciso e ricco di approfondimenti, che cerca di scavare nel cuore di una cultura intera (perché l’Islam non è solo una religione, s’insegna nei corsi universitari di islamistica) con la quale occorre più che mai confrontarsi. La sua è una voce interna molto interessante, figlia di quella stessa cultura, che si interroga in modo costruttivo ed esige persino di trovare risposte.
Tuttavia, a mio parere, non si tratta di una lettura consigliabile a tutti; obiettivamente, occorrono anzitutto nozioni precise che consentano di comprendere appieno certi riferimenti (storici e dottrinali), nonché di addentrarsi meglio in diversi passaggi che, altrimenti, rischiano di risultare piuttosto pesanti. Un romanzo sarebbe stato, forse, più accessibile ai più, e la veste in questo caso adottata allontana “Il pittore che divora le donne” dal coinvolgimento della prosa narrativa. Una pubblicazione, però, pur nella propria complessità, che colpisce e getta semi importanti, parlando di erotismo, “la legge più antica del mondo” (e per niente sconosciuta agli arabi, aggiungerei), e di arte come via possibile per superare la violenza senza tempo che, purtroppo, continua a scandire la storia del genere umano.


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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Aprile, 2022
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«Non si può ripetere il passato»

Tra i classici del Novecento più famosi, “Il grande Gatsby” venne pubblicato quasi un secolo fa divenendo oggetto, nel corso degli anni, di ben più di una trasposizione cinematografica. In Italia, la prima traduzione risale al 1936; io ho avuto modo di leggere il libro attraverso quella molto conosciuta e diffusa di Fernanda Pivano del 1950.
L'autore, Francis Scott Fitzgerald, classe 1896, fu tra le penne più significative della cosiddetta “età del jazz” e, nonostante il successo letterario ottenuto, nel 1940 morì in parte dimenticato e in condizioni di salute poco invidiabili.

Un romanzo, il suo The Great Gatsby, che offre senza dubbio una lettura piuttosto scorrevole e, in generale, anche coinvolgente, sebbene a tratti il grado di coinvolgimento – mi pare – tenda a venir meno: la trama, in cui si muovono personaggi ben caratterizzati, scivola via attraverso una voce narrante partecipe direttamente della vicenda che essa stessa racconta. Quella con al centro il misterioso Jay Gatsby pseudonimo di un uomo impeccabile e sfavillante al pari dei suoi ricevimenti, si rivela presto una storia d'amore, solitudine, illusione. L'epilogo, con due precisi avvenimenti che si succedono a distanza di un assai breve lasso di tempo, giunge improvviso e amarissimo, forse concentrando così nelle pagine conclusive il vero valore del romanzo.
Non può non colpire l'ostinato e ingenuo convincimento di Gatsby che ciò che è ormai trascorso possa ripetersi, una sorta di non accettazione della realtà del presente dalla quale non vi sarà nemmeno il tempo materiale di “rinsavire”.

[...] «Non pretenderei troppo da lei» arrischiai. «Non si può ripetere il passato.»
«Non si può ripetere il passato?» fece lui incredulo. «Ma certo che si può!» […]

Così come danno da pensare le miserie e meschinità umane su cui Fitzgerald con la sua bella prosa sembra voler porre l'accento, mentre le ombre si allungano struggenti e sinistre dopo le luci abbaglianti del sogno.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    14 Aprile, 2022
Top 50 Opinionisti  -  

L'insospettabilità del male

Che magnifica scoperta, per me, Roberto Costantini e il suo commissario Michele Balistreri!
Dopo essere partita da “Alle radici del male”, secondo bellissimo volume della cosiddetta “Trilogia del Male”, ecco ora che concludo anche la lettura del romanzo con cui sia lo scrittore che il suo più che riuscito personaggio hanno fatto il loro esordio, nel 2011, sulla scena letteraria nostrana.
Voto complessivo, pure in questo caso, di oltre quattro stelle.

Sebbene mi sia sentita coinvolta maggiormente dalla trama e dall'ambientazione nordafricana del secondo titolo, dove si ripercorre la vicenda familiare e la crescita di Balistreri a Tripoli, ho trovato questo primo tassello della trilogia in questione un giallo/poliziesco/thriller di tutto rispetto, in grado di catturare fin dall'incipit l'attenzione di chi legge. L'autore dimostra una straordinaria abilità nell'intrecciare eventi e personaggi, senza tralasciare il minimo dettaglio né annoiare; la sua prosa è decisamente fluida, entusiasmante, ricca di tutti quegli ingredienti che contribuiscono a istigare il lettore a fare addirittura le ore piccole pur di non interrompere l'evolversi della vicenda narrata. Era dai tempi in cui lessi avidamente “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson che nel cuore dela notte non riuscivo a staccarmi dalle pagine di un libro, e io, come dico sempre, non sono una lettrice abituale di gialli e sottogeneri vari.

Impossibile riassumere in poche righe la complessità della trama che si svolge sullo sfondo di una città come Roma tra il 1982 e gli anni Duemila. Fatto sta che mentre il cerchio finalmente si stringe, niente sarà certo, anche quando l'esito delle indagini sembrerà ovvio e scontato, fino al gran colpo da maestro con cui Costantini fa calare il sipario definitivo sull'assassinio della giovane Elisa Sordi, crimine che per ben ventiquattro lunghi anni resterà una spina nel fianco di un Balistreri bello, dannato e fiaccato dal peso dell'esistenza. Il male può annidarsi ovunque, in un viso deforme così come nel sorriso più angelico e disarmante, persino nel bene stesso.
Sono molto contenta di aver cominciato dal secondo volume, una fortunata svista che mi ha permesso di comprendere meglio diverse cose che vengono anticipate in questo primo romanzo, nonché di valutare nell'insieme la figura qui più matura del commissario. Pregusto già la lettura del terzo atto della trilogia, con la segreta speranza che si faccia ritorno in Africa dove ancora attende una scogliera e il suo mistero!

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Racconti di viaggio
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    11 Aprile, 2022
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Tra mito e attualità

Pubblicato lo scorso autunno da Feltrinelli, “Canto per Europa” si svela subito al lettore come un libro originale e inconsueto, sorprendentemente sospeso tra prosa e poesia, tra mito e storia, tra passato e presente.
L’autore, Paolo Rumiz, fin dal proemio “Il mare era in principio”, incipit preannunciante il prima e il dopo della vicenda, intraprende una narrazione che spesso, anche per la struttura del testo, sembra seguire la via dei versi, oltre che quella del mare, dipingendo con grande abilità il ricordo di uno straordinario itinerario senza tempo.

“[…] Oh Petros, Ammiraglio delle anime
ogni tuo gesto era un inno di lode.
Quando prendevi tranquillo il timone, triremi di Pelasgi e di
Liburni ti passavano accanto e le Nereidi cantavano per te
dolci canzoni.
[…]”

Un racconto, un viaggio, un’avventura, lungo le cui rotte benedette e illuminate dalla luna s’incontra “una storia d’argento e zaffiro/ profumata di donna e gelsomino”. Un animato navigare attraverso il Mediterraneo e le sue meravigliose costellazioni di isole, dalle coste del Vicino Oriente a quelle della nostra penisola, a bordo di Moya, una vecchia massiccia imbarcazione dei mari del Nord dalla vela rossa e dai grandi occhi dipinti a prua, insieme a un equipaggio di quattro uomini “tutti di frontiera, quattro conquistatori dell’inutile”. Come novelli protagonisti di un canto di aedica memoria, una volta approdati in terra fenicia, loro accolgono sulla barca una misteriosa ragazza che in principio non proferisce parola, ma esprime chiaramente la volontà di andare verso ovest, verso una meta che porta infine il suo stesso nome: Evropa / Europa. La giovane è una figlia dell’Asia, una siriana che fugge dalla guerra, dal fango dei campi profughi del Libano, dalla miseria e dallo sfruttamento dei bordelli.
Ed ecco, dunque, che da queste belle e intense pagine riaffiora d’improvviso l’antico mito greco di Europa che tutti conosciamo. Esso, tuttavia, non resta fine a se stesso e finisce per attualizzarsi, intrecciandosi inevitabilmente all’oggi e alla disperata speranza delle sue storie di emigrazione transitanti per mare, ai naufragi dai morti insepolti e agli orrori bellici che stuprano terre di cui ai cosiddetti grandi del mondo, in verità, nulla importa; anche la profanazione delle acque del mare a opera di rifiuti e mostruose navi da crociera viene additata senz’appello.
Un dolore profondo segna questo viaggio, mentre note d’infinita amarezza s’insinuano a più riprese nella voce narrante che s’interroga sulle vergogne e le tragedie odierne gravitanti intorno al Mare nostrum e su che cosa sia ora diventata l’Europa, politicamente intesa, sul suo essersi chiusa al pari di una fortezza per paura dell’altro in nome della sicurezza e su che cosa resterà un domani dell’Occidente, al di là della immancabile “paccottiglia di plastica e immondizia”. Che cosa può attendere, per sé e i propri figli, chi con anima martoriata approda da altri lidi?

“Oh donna, cosa cerchi dove il Sole va a morire? […]
Non ti vorrà nessuno nel mio mondo.
Il ricco vuole schiavi, non persone.
[…]
Occidente, che sai pagar salato governi innominabili e camorre
purché gli ultimi restino nel fango!
Vecchio Occidente, e il tuo onore perduto
già a Kabul, a Srebrenica e sul mare!
E tu, alleanza stellata, zimbello che oggi hai preso il nome del disprezzo!
[… ]
E tu dove sei ora, Ventotene?
L’idea di Unione era nata su un’isola dalla speranza di altri esiliati.
Oggi l’idea agonizzava in un’isola che aveva ucciso invece la speranza.
[…]”

Impreziosito dalle suggestive illustrazioni di Cosimo Miorelli, “Canto per Europa” non è una lettura leggera, di facile e sbrigativo “consumo”, nel senso che potrebbe essere non compresa appieno – e conseguentemente non apprezzata – da tutti; si tratta di un libro che, già per scelta stilistica da parte dello scrittore triestino, corre forse il rischio di disorientare più di un lettore. Ma è pur vero che, ammantando la storia narrata (o cantata, se si preferisce) di mito antico, Rumiz con la sua scrittura di notevole fascino ci esorta a riflettere, a considerare seriamente a quale deriva ormai stiamo andando incontro da tempo. E a ricordarci che il vecchio continente è “desiderio bruciante e nostalgia”, così come “anche il sogno di chi non ce l’ha”.

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Poesia straniera
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Aprile, 2022
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Nuova edizione per le poesie di Artaud

Il 4 marzo del 1948, presso una casa di cura a Ivry-sur-Seine, alle porte di Parigi, venne trovato morto, seduto ai piedi del suo letto, Antonin Artaud, artista francese di spicco della prima metà del Novecento.
Nato a Marsiglia nel 1896, Artaud fu un autore prolifico e versatile, impegnato su più fronti (teatro, cinema, letteratura) ed esponente di rilievo del surrealismo parigino degli anni Venti del secolo scorso. La sua esistenza si rivelò presto travagliata, segnata a un certo punto dalla malattia e dalla terribile esperienza dell'internamento negli istituti psichiatrici, dove venne purtroppo sottoposto a numerosi elettrochoc.
Il progetto editoriale di pubblicazione delle sue "Œuvres complètes" è stato portato avanti da Gallimard e ha richiesto ben oltre venti volumi.

Alla fine del 2021, la piccola casa editrice pistoiese Edizioni Via Del Vento, che proprio lo scorso anno ha festeggiato i suoi primi tre decenni di attività, ha pubblicato una nuova edizione, ampliata, di "Poeta nero e altre poesie" di Antonin Artaud, volumetto n. 10 della collana poetica «Acquamarina», a cura e traduzione di Pasquale Di Palmo; la precedente edizione aveva visto la luce nell'aprile del 2000, proponendo in Italia la prima antologia di questo grande poeta che nel nostro Paese probabilmente non tutti ancora conoscono.
Il volumetto racchiude poco meno di trenta testi appartenenti alla produzione poetica di Artaud che, come precisato dal curatore nella sua interessantissima postfazione dal titolo "Il suicidato dalla società", risale al periodo compreso tra il 1913 e il 1935.
Versi di indubbio fascino, quelli dello sfortunato Antonin Artaud, carichi di immagini e notevole potenza espressiva. Una pubblicazione di gran pregio assolutamante da non perdere per tutti gli amanti della Poesia!

Prima neve

Guarda dolcissima, pallida, bellissima
il giorno che viene a morire sui bianchi misteri;
e il silenzio fruscia dolcemente nella stanza
nell'occulta magia della sera agonizzante.

Noi siamo felici di sapere che ogni cosa
come noi beve questo sprazzo di luce
e con noi si dilegua verso le nuvole rosa...
E il giorno sul vetro è diventato violetto;

nella dolcezza della sera gemono i rami
talora lungo le strade agonizza un uccello;
ed ecco che il cielo assume il colore dell'acqua...
Mia sorella è il nostro amore che nevica tra i rami.

(Antonin Artaud, dal volumetto "Poeta nero e altre poesie", a cura e traduzione di Pasquale di Palmo, Edizioni Via del Vento, 2021 - www.viadelvento.it)

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Classici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    27 Marzo, 2022
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Un classico imperdibile del Novecento

Scritto tra il novembre del 1943 e il febbraio del '44, il testo satirico-allegorico “La fattoria degli animali” vide la pubblicazione in patria solo alla fine della guerra dopo la travagliata ricerca di un editore, mentre la prima edizione italiana comparve nel 1947. Fu lo stesso George Orwell, al secolo Eric Arthur Blair, a parlare della faccenda, e delle difficoltà incontrate nel proporre l'opera, in un breve saggio dal titolo particolarmente significativo, “La libertà di stampa”, che sottolinea più che altro i meccanismi di autocensura in un Paese libero e democratico come l'Inghilterra dell'epoca.
Il libro prende di mira, neanche troppo velatamente, il regime sovietico e non c'è da stupirsi del tirarsi indietro da parte degli editori inglesi interpellati, magari dopo essersi consultati con il Ministero dell'informazione, poiché Stalin era allora un alleato della Gran Bretagna nella guerra contro il nazismo. Come ben sappiamo, con la fine del conflitto mondiale le condizioni politiche mutarono. E se il primo ministro Winston Churchill pronunciò per davvero le parole “abbiamo ucciso il maiale sbagliato”, alludendo al fatto che, morto Hitler, il dittatore sovietico fosse il porco superstite, ci sarebbe da sorprendersi nel constatare come la categoria suina trovi ampio spazio all'interno di questa geniale narrazione orwelliana.

La trama in sintesi: la Fattoria Padronale del signor Jones si trasforma, attraverso un'improvvisa rivoluzione, in Fattoria degli Animali, libera dalla presenza umana e autogestista dalle stesse sue bestie. I capi indiscussi della rivolta sono due scaltri maiali, Napoleon e Palla di Neve; il primo finisce per fare le scarpe al secondo e da quel momento la rivoluzione inizia a prendere per davvero una bruttissima piega. Slogan, discorsi retorici e menzogneri, marce e parate, sempre più duro lavoro e razioni di cibo insufficienti per gran parte dei “compagni” che, per quanto “eguali”, non sono però eguali allo stesso livello di altri. A tutto ciò, si aggiunge a poco a poco il culto del leader, cioè del verro Napoleon che, dopo essersi sbarazzato a tradimento del potenziale avversario con cui non aveva intenzione di dividere il potere, impone un regime basato sul controllo e sulla paura, circondandosi oltretutto di fedeli cani ferocissimi. Infine, l'avvicinamento sempre più palese da parte dei maiali alle abitudini umane segna (in peggio) il destino della rivoluzione.

Una critica dissacrante, quella di Orwell, un'aperta condanna della società comunista e stalinista. La prosa è molto scorrevole e, inizialmente, strappa anche qualche risata che, però, lascia ben presto il posto a sorrisi piuttosto amari, sino a giungere all'epilogo a dir poco inquietante che rivela tutto il dramma di una realtà politico-sociale che, come la Storia ha dimostrato, non poteva che crollare ignominiosamente su se stessa.
“La Fattoria degli animali” è senz'altro un classico imperdibile del Novecento, adatto sia ai lettori più giovani sia a quelli meno giovani: ai primi offrirà una sorta di favola allegorica da cui trarre i giusti insegnamenti; ai secondi, invece, un ritratto impietoso di ciò che è stato e del totalitarismo che, a prescindere dal comunismo in sé, resta un pericolo sempre in agguato.

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Racconti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    25 Marzo, 2022
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Prose inedite

In chiusura dell'anno del suo trentennale, la piccola casa editrice di Pistoia Edizioni Via del Vento ha riportato all'attenzione dei lettori italiani un celebre autore mitteleuropeo di cui nel nostro Paese ancora tanto materiale attende di essere conosciuto: Hugo von Hofmannsthal (1874-1929).

Pubblicato lo scorso autunno, “Il soldato Schwendar” è un volumetto – il n. 83 della bellissima Collana «Ocra gialla» – assai prezioso e di particolare fascino che raccoglie alcuni testi inediti di questo scrittore, poeta e drammaturgo viennese noto anche per le sue collaborazioni in campo musicale con il compositore tedesco Richard Strauss. Vengono qui proposte quattro prose tratte da un ricco corpus che, come ci informa nella sua attenta postfazione la curatrice dell'opera, Claudia Ciardi, alla quale si deve per di più un impeccabile lavoro di traduzione, è stato divulgato dopo la scomparsa di Hofmannsthal; tra queste, spicca anzitutto “Storia di soldati” (Soldatengeschichte), da cui è stato estrapolato il titolo redazionale “Il soldato Schwendar” assegnato all'insieme della breve raccolta: un racconto rimasto forse volutamente incompiuto di ambientazione militare, dove è possibile rinvenire traccia dell'esperienza dell'autore in veste di sottotenente dei Dragoni in uno dei territori dell'allora impero asburgico. Pagine la cui stesura risale al 1895-1896 e contraddistinte, fin dall'incipit, da una scrittura fluida, intensa, coinvolgente, tutt'altro che priva di introspezione psicologica.

“[...] Si alzò. La luce lunare splendeva sulle due lunghe file di letti uguali e ombre tetre e pesanti separavano i corpi dei dormienti come abissi. Le macchie scure che si stendevano sotto gli occhi e le labbra conferivano ai loro volti qualcosa di straniante, sproporzionato. […] La camerata diveniva sempre più luminosa, e lui era sempre più oppresso dalla vicinanza di queste persone che giacevano avvolte nei loro corpi addormentati ignorando i suoi tormenti. […] Nella luce che riempiva quasi tutta la stanza di un lucore pacato, stava avvenendo un cambiamento. Durò solo un attimo: sembrava una cosa sorta lì, ma avrebbe potuto anche venire da fuori. Non era altro che un tremolio, come l'ondeggiare di una luce lontana. Poi quella luce si dissolse e tutto fu come prima. Ma la sua anima fu presa con soprannaturale rapidità dal presentimento, dalla certezza che fosse stato un segno, un segno per lui, il riflesso del cielo squarciato, il riflesso di un angelo che scivolava sull'edificio. [...]”

Di chiari echi autobiografici appare intrisa, in generale, l'opera di Hofmannsthal, qualcosa che affiora, per riprendere le efficacissime parole della Ciardi, “nell'inafferrabile mescolanza di vita e slancio fantastico, di superficie e immersione, lampi che lasciano dietro di sé la scia di un prodigio.” Anche il breve testo “Il paese di montagna”, del 1896, ritrae un ambiente di cui chi scrive sembra avere conoscenza diretta, sia per quanto concerne il luogo in sé sia il tipo di gente che vi si ritrova, mentre sapienti pennellate malinconiche e poetiche impreziosiscono queste righe.
Al nuovo secolo, invece, appartengono gli appunti che completano il volumetto, raccolti sotto i titoli de “Il parco” e “L'uomo della sera”. Non meno profonda e coinvolgente si rivela la loro prosa, in particolare quella del primo scritto, dove la dimensione onirica si intreccia a quella reale e la memoria si smarrisce lungo il fluire ineludibile del tempo e delle stagioni umane. L'anima del poeta sembra seguire percorsi mentali tutti suoi che si perdono in mille rivoli, tra passato e presente.

“[...] Ma com'è che ora l'angoscia si fa più intensa? C'è la consapevolezza che la strada, i muri del parco siano così vicini e che là dietro non si vada da nessuna parte, presto calerà il sole [...]”

“Der Dichter hat woanders seinen Weg”, recita un verso dello stesso Hofmannsthal che ritorna alla mente d'un tratto leggendo queste pagine. Il poeta ha certamente altrove la sua strada, un altrove sfuggente e precluso ai più.

Una pubblicazione di grande importanza, questa dedicata a Hugo von Hofmannsthal, come del resto tutti i lavori delle Edizioni Via del Vento il cui catalogo completo può essere visionato sul sito web www.viadelvento.it

Appassionata studiosa, scrittrice, traduttrice, saggista, Claudia Ciardi ha curato numerosi volumetti per le Edizioni Via del Vento: il suo “cuore greco-berlinese” l'ha condotta, solo per citare alcuni nomi, a Thomas Mann, Robert Musil, Lou Andreas Salomé e Konstantinos Kavafis. Al seguente link, sul sito della casa editrice, la sua scheda biobibliografica: http://www.viadelvento.it/chisiamo/autore.php?id=81

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Marzo, 2022
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Eden perduto

Se siete rimasti affascinati dalla splendida scrittura di Abdulrazak Gurnah in “Sulla riva del mare”, difficilmente potrete non amarla ancora di più in “Paradiso”, secondo dei dieci romanzi in corso di ripubblicazione presso la casa editrice La nave di Teseo che, dalla fine dello scorso anno, si è attivata per far meglio conoscere nel nostro Paese le opere del Premio Nobel 2021 per la Letteratura.
Una prosa notevole, intrisa di poesia e della malia degna di antichi cantastorie, quella dello scrittore ultrasettantenne originario di Zanzibar ma residente ormai da una vita in Inghilterra, che anche in questo libro non manca di sorprendere e incantare il lettore, trascinandolo con sé all’interno di una vasta porzione dell’Africa orientale di più di un secolo fa, crocevia cosmopolita dove risuonano arabo e swahili e i confini sono ancora fluidi in attesa degli stravolgimenti imposti dalla successiva storia coloniale.

Pubblicato in lingua originale nel 1994 e finalista al britannico Booker Prize, “Paradiso” vede protagonista delle sue pagine il piccolo Yusuf che, all’età di dodici anni, si ritrova d’improvviso inconsapevole “rehani”, dato cioè in pegno a causa dei debiti del padre. A portarlo via dalla famiglia un giorno in apparenza come tanti è un ricco mercante della costa, zio Aziz, dall’ “odore strano e insolito, un misto di cuoio e profumo, caucciù e spezie, oltre a qualcosa di meno definibile che evocava […] l’idea del pericolo”. Ad attenderlo si profila una vita di lavoro al servizio del “seyyid” (signore) che lo conduce nella città dove ha casa ed emporio, presso cui lavora già un altro ragazzo più grande di lui, un altro “rehani”, che lo istruisce minuziosamente sul da farsi e con il quale la notte condivide la stuoia per terra, sotto la veranda davanti al negozio, mentre cani randagi e affamati insidiano il loro sonno. Ma più che agli affari l’attenzione del fanciullo è ben presto rivolta allo splendido giardino cinto da mura dell’abitazione del mercante, con i suoi aranci e melograni, canali, aiuole, suoni d’acqua, colori e profumi che lo rendono per davvero un giardino dell’anima, un piccolo paradiso sulla terra. All’improvviso, giunge però il tempo di distaccarsi pure da esso e partire alla volta dell’entroterra, al seguito delle colonne dei portatori delle lunghe spedizioni di Aziz, per imparare l’arte del commercio e “la differenza tra selvaggi e uomini civilizzati”.

Un meraviglioso romanzo di formazione in piena regola, ma anche di avventura e molto altro, capace di coinvolgere ed emozionare oltre ogni prevedibile aspettativa attraverso una sublime narrazione densa di scenari, fatti, personaggi. “Paradiso”, prova di altissimo livello di Abdulrazak Gurnah, supera – a mio parere – “Sulla riva del mare”, già di per sé notevole, e permette di comprendere ancora meglio perché la scelta dell’Accademia di Svezia lo scorso autunno sia caduta proprio su questo scrittore africano forse rimasto, a livello internazionale, troppo a lungo e immeritatamente nell’ombra. Anche queste pagine, come quelle dell’altro volume, non mancano di toccare, e non certo in modo superficiale, il tema del colonialismo, uno dei cardini della scrittura di Gurnah: alla vigilia della Grande guerra, i bianchi incombono minacciosi anche su quella parte del continente nero, anzi sono già lì, a partire dai poco amati tedeschi ritenuti senza scrupoli. Sono comunque gli europei nel loro insieme a fare una pessima figura (“Le cose che non si sentono sul loro conto!”); diversi passi del libro si soffermano sulle voci e l’immagine che di loro circola tra mercanti e gente del posto e così la vergogna di ciò che è stato affiora senza remore come giusta condanna da non tacere. “Europei e indiani si prenderanno tutto” fa sentenziare profeticamente a zio Aziz l’autore, sottolineando con amarezza il brulicare avido e famelico che corrode la zona.

Ed eccola lì, dunque, l’Africa, l’altra grande, immancabile protagonista del romanzo. Bellissima e innocente al pari di Yusuf, immenso giardino paradisiaco ricco di meraviglie, come quello della casa del mercante, ormai prossima a divenire per sempre un Eden perduto per le proprie genti e a precipitare in un’interminabile stagione d’inferno da cui sembrano fuggire con orrore persino i jinn (gli spiriti della tradizione islamica) e le antiche favole.
Una pubblicazione di indiscusso pregio, per la quale un plauso riconoscente va all’editore che ha riproposto in Italia tale gioiello. Una storia da leggere e amare. Un romanziere tutto da scoprire!

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...a chiunque ami l'Africa e voglia scoprirne i suoi mondi.
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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    11 Marzo, 2022
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Nuove voci poetiche

È una scrittura di grande profondità, quella che affiora tra i versi della raccolta "Uno più uno fa uno" di Valentina Casadei, pubblicata nel 2020 dalla casa editrice romana Edizioni Ensemble. Una scrittura ricca d’immagini, fluida e molto spesso lapidaria che, pressoché affrancata dalle rigidità della punteggiatura, sembra muoversi agilmente tra presente e memoria.

“La nostalgia del grigiore dei giorni tutti uguali/ Sbatte nella memoria/ Come ante degli armadi col vento/ […]La nostalgia/ – canaglia –/ È serpente che s’avvinghia al cuore”

L’io poetico, tuttavia, rivendica un presente che “è tutto ciò che ho”, mettendo radici nei singoli luoghi incontrati e rinnovandosi di volta in volta ogni giorno. L’amore, il distacco, la lontananza, il susseguirsi delle stagioni (in primis quelle dell’anima), la solitudine si intrecciano in versi che, grazie a un abile uso della parola, sanno affascinare il lettore e lo invitano a soffermarsi con attenzione fin da quel primo “Voglio andare a Ovest e vedere le balene […]”, incipit curioso e di notevole impatto che denota, da parte della giovane autrice, non soltanto spirito di libertà e determinazione, ma forse anche il desiderio di stupirsi e provare meraviglia al cospetto del mondo, malgrado il subdolo e “irrisolto” dolore dell’esistenza. La stessa poesia da cui è stato tratto il titolo dell’intera pubblicazione dà l’impressione di ribadire una decisa individualità, non disposta ad accettare compromessi nemmeno nel rapporto di coppia.

“Tu vuoi partire/ Io restare/ Spezziamo come cracker/ Il nostro amore/ Che parte/ Che resta/ E si dimezza/ Uno più uno fa uno”

Il travagliato racconto poetico "Tu e io" chiude un’opera nel complesso molto interessante e degna di nota, trainata soprattutto dalla bellezza particolarmente coinvolgente delle liriche della prima parte, dove la magia delle parole sa rendere la libertà addirittura “un gatto perso”.

Poetessa e sceneggiatrice, Valentina Casadei è nata a Ravenna nel 1993. Ha conseguito una laurea al Dams di Bologna e un master a Parigi in sceneggiatura e regia. Tra il 2018 e il 2020 sono state pubblicate anche le sue raccolte poetiche intitolate "Tormento Fragile" (Bertoni Editore) e "Il passo dell’Inerzia" (SaMa Edizioni). Attualmente, lavora tra Italia e Francia.

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Fumetti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    06 Marzo, 2022
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Un libro a fumetti non solo per ragazzi.

Pubblicato in Francia nel 2017 e tradotto in Italia l'anno dopo per Mondadori, "La guerra di Catherine" è un libro per ragazzi molto interessante ben adatto anche agli adulti. Le autrici, le francesi Julia Billet (1962) e Claire Fauvel (1988), rispettivamente scrittrice e illustratrice dell'opera, hanno firmato un romanzo a fumetti (o graphic novel, come si usa dire oggi) che nasce come adattamento dell'omonimo testo della stessa Billet edito nel 2012 ("La Guerre de Catherine", L’École des loisirs).

La trama trascina il lettore nella Francia della seconda guerra mondiale, quella del governo di Vichy e dell'occupazione tedesca. Nella Maison d'enfants di Sèvres, scuola-alloggio alle porte di Parigi, vengono accolti clandestinamente numerosi bambini ebrei sottratti alla deportazione nazista. Anche l'adolescente Rachel Cohen, i cui genitori sono scomparsi, è ospite presso la struttura; la sua passione è la fotografia e non si separa mai dalla sua Rolleiflex, un modello di macchina fotografica diffuso all'epoca, nemmeno quando, all'improvviso, è costretta a fuggire e a cambiare identità.

«Adoro guardare il mondo attraverso il mirino. Fermare il tempo con un clic.»

Grazie all'attiva rete della Resistenza, Catherine (questo il suo nome di copertura), al pari di tanti altri ragazzini, attraversa la Francia da un luogo all'altro per tutta la durata del conflitto, prima trovando nascondiglio in un convento di suore, poi a casa di una famiglia di contadini e ancora presso un orfanotrofio, fino al rifugio di una coppia di partigiani da dove si rimetterà in marcia allorché la liberazione di Parigi sarà ormai cosa certa. Un lungo e periglioso viaggio verso la salvezza e la libertà che segna profondamente la crescita della protagonista, la quale sarà già una giovane donna al rientro a Sèvres al termine della guerra. Alla fine, non tutti avranno la sua stessa fortuna e alcune assenze risulteranno vuoti pesantissimi. Tuttavia, il male non ha avuto la meglio e i tanti scatti collezionati con la fedele Rolleiflex, durante quell'inevitabile cammino, testimoniano quanto il bene incontrato strada facendo sia stato senza dubbio più forte. Dalla piccola Alice alla combattiva Cristina, dal fotografo Étienne privo di una gamba al giovane soldato tedesco che sogna di fare il regista, non sono pochi i personaggi che rimangono impressi, primo fra tutti quello molto ben tratteggiato della medesima protagonista.

Vincitore nel 2018 del prestigioso Premio Andersen come miglior libro a fumetti, La guerra di Catherine racconta una piccola storia, una delle tante che si perdono tra le drammatiche pieghe della grande Storia del Novecento, secolo macchiato in modo irrimediabile dagli orrori bellici. Ottimamente narrata e disegnata (davvero belle le tavole della Fauvel che “traducono” in immagini il dramma della narrazione), essa si basa su fatti realmente accaduti, quelli vissuti in prima persona dalla madre della Billet, una delle allieve a cui la Maison di Sèvres salvò la vita proprio come fece con tanti altri bambini ebrei che, con buona probabilità, se fossero stati portati via dai tedeschi, non avrebbero fatto ritorno dai campi di sterminio dell'Est. I fondatori della Casa dei bambini, i coniugi antimilitaristi Yvonne e Roger Hagnauer (soprannominati rispettivamente “Gabbiano” e “Pinguino”), ben presenti tra queste pagine, furono insigniti della medaglia dei “Giusti tra le Nazioni” qualche decennio dopo quegli eventi; la loro scuola, funzionante dal 1941 sino ad anni recenti, rappresentò anzitutto un modello innovativo in campo pedagogico, aspetto sottolineato anche nell’opera in questione. Sul sito ufficiale https://www.lamaisondesevres.org/ è possibile reperire varie informazioni relative alla storia della struttura, nonché visionare l'interessante archivio fotografico risalente proprio al periodo tra il '41 e il '45.

Una lettura emozionante e appassionante fino all'ultima pagina, perfettamente adatta anche agli adulti, come detto all'inizio, sebbene il pubblico principale sia rappresentato dai ragazzi, perché, quando si tratta di Storia, niente sarà mai ripetuto abbastanza; del resto, la memoria di ciò che è stato si rivela un patrimonio assai fragile e prezioso che esige vigile custodia e da cui trarre i giusti insegnamenti dinanzi alla purtroppo impenitente violenza del mondo.

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Classici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    02 Marzo, 2022
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Classico tra i classici

Che cosa si può dire a proposito di "Alice nel paese delle meraviglie" che non sia già stato detto da oltre un secolo e mezzo? Che cosa aggiungere a quanto già scritto su questo libro? Nulla o ben poco, è chiaro.
Classico tra i classici, l'opera di Lewis Carroll vide la sua prima pubblicazione nel 1865. In Italia la prima traduzione risale già agli anni Settanta dell'Ottocento.
Come nel caso di "Piccole donne" di Louisa May Alcott (giusto per citare uno dei titoli più celebri, ma l'elenco di certo non è breve), anche questo è uno di quei libri senza tempo che non si può non leggere. A volte ci si arriva tardi, magari con qualche decennio di ritardo rispetto all'età in cui ci si dovrebbe preferibilmente immergere in queste pagine, ma è anche vero che tali letture non hanno scadenza e non passano mai di moda; semmai cambiano le prospettive e le emozioni vissute nelle varie stagioni della vita.

Naturalmente, un po' come tutti, ho visto infinite volte la celebre trasposizione cimematografica della Disney, attraverso le cui immagini, credo, le avventure di Alice sono conosciute in tutto il mondo. Se non ricordo male, la versione animata, per quanto molto fedele, tralascia qualche passo che invece è un peccato perdere; nel libro, infatti, mi è parso di trovare qualcosa di nuovo. Sebbene si pensi di conoscere tutto di Alice e delle sue avventure, credo che la lettura non possa essere ritenuta superflua; anzi, essa rivela le sue belle sorprese. Anche la caratterizzazione della stessa protagonista è una di queste, così come suscita meraviglia più di un personaggio scaturito dalla penna di Carroll. Una lettura che ci ricorda quanto la fantasia sia preziosa e in un mondo ipertecnologico come quello attuale, dove chissà se i bambini sognano ancora, ciò si rivela di straordinaria importanza.

Ho avuto il piacere di leggere l'opera in una bella e curata edizione Einaudi, impreziosita dalle famose illustrazioni (a colori) di Sir John Tenniel che, se non erro, accompagnarono, però in bianco e nero, già la prima edizione del libro.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    26 Febbraio, 2022
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Relazioni pericolose

Ancora un'indagine sullo sfondo dell'America di fine anni Quaranta al centro della bella prosa di Franco Porchetti, autore del thriller storico "Windy City", pubblicato di recente dalla 0111. Di suo, già lo scorso anno, avevo letto, e molto apprezzato, il noir "Black Angel".
Ora tra le pagine di questo nuovo romanzo ho ritrovato lo stesso stile molto accattivante e coinvolgente, la medesima scrittura curatissima senza sbavature di sorta, l'immutato senso dell'umorismo che rende la lettura decisamente piacevole, strappando addirittura una sana risata in più di un'occasione; mi sono infatti divertita seguendo le vicende del povero (si fa per dire) Frank Modigliani, detective privato dalla battuta pronta e i modi spicci tutt'altro che insensibile al fascino femminile, personaggio ben riuscito che, nella propria spregiudicatezza, risulta subito simpatico, anche per via del suo rivolgersi spontaneo e diretto al lettore in qualità di voce narrante del romanzo.
La trama di "Windy City", che ci conduce nella ventosa Chicago dove esplodono le lotte intestine della malavita organizzata dell'epoca e prende le mosse dalla misteriosa scomparsa di una donna, forse non cattura al pari di quella del precedente "Black Angel", ma il libro – ripeto – offre una lettura nel complesso di buona qualità che non dispiace affatto. Anzi, sarebbe bello trovare di nuovo lo scaltro Modigliani alle prese con nuove avventure investigative (e non solo) in un possibile sequel.

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    26 Febbraio, 2022
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Voci da isole d’Africa

“[…] L’uomo da cui ebbi l’oud-al-qamari era un mercante persiano del Bahrain che era venuto nella nostra regione con i musim, i venti monsonici, lui e centinaia di altri mercanti dall’Arabia, dal Golfo, dall’India e dal Sind, e dal Corno d’Africa. Lo facevano ogni anno da almeno mille anni. […] Essi portavano con sé i loro beni e il loro Dio e il loro modo di vedere il mondo, i loro racconti e le loro canzoni e le loro preghiere […]”.

È una sorta di fine e antica poesia quella di cui appare intrisa gran parte della narrazione racchiusa tra le pagine del romanzo “Sulla riva del mare” dello scrittore africano naturalizzato britannico Abdulrazak Gurnah, ripubblicato in Italia sul finire dello scorso anno da La nave di Teseo.
Nativo del lontano arcipelago di Zanzibar, nell’Oceano Indiano di fronte alle coste della Tanzania, Gurnah, classe 1948, è pressoché fresco di Premio Nobel. È la quinta volta che, per la Letteratura, il prestigioso riconoscimento dell’Accademia di Svezia approda in terra d’Africa e soltanto la seconda che lo si assegna a un autore africano dalla pelle nera (il primo fu il nigeriano Wole Soyinka negli anni Ottanta); una rappresentanza indubbiamente ancora troppo esigua rispetto a quella di altri continenti, che si spera possa però divenire più consistente poiché da lungo tempo il mondo letterario africano è ricco di interessanti e straordinarie voci meritevoli d’attenzione.
Questo libro ne testimonia appieno la vitalità e il valore, consacrando il continente nero come scrigno di storie affascinanti che attendono solo di essere ascoltate al di là del Mediterraneo e degli oceani. Un romanzo dai toni delicati e i contenuti grevi, denso di vicende che si intrecciano inconsapevolmente tra loro sullo sfondo di una Storia troppo spesso traditrice, ingiusta, spietata. L’ultrasessantenne mercante di mobili, che fa sua un’altra identità per poter partire in cerca di asilo, non immagina di ritrovare all’estero un più giovane conterraneo, non certo sconosciuto, con il quale condividere la medesima condizione di rifugiato. La casualità dell’incontro permette il confronto e l’incastro dei tasselli di un puzzle infelice e drammatico, mentre a poco a poco emerge ed esplode tutta l’amarezza di chi vive la realtà dell’emigrazione e, nel contempo, tutto ciò che l’esilio, volontario o meno, comporta.

Gurnah ci conduce pertanto nella sua Zanzibar, da cui lui stesso in passato, al pari delle due voci narranti, si vide costretto ad andare via. La sua si rivela fin da subito una prosa fluida e pacata, ben capace di conquistare il lettore trasportandolo di colpo dalla riva del mare di una piccola città inglese a quella “di un caldo oceano verde” battuto dai venti monsonici, i musim, che portano da secoli uomini e merci. Ed ecco, dunque, che l’abile penna dell’autore consente di leggere tra le righe anche la storia profumata di spezie di quell’angolo d’Africa della costa orientale, dove elementi arabi e persiani si mescolarono con il sostrato originario locale dando vita a una cultura molto particolare, quella swahili, che evoca antichi e duraturi rapporti con l’Oman e rotte persino al di là della zona del Golfo; e, naturalmente, essa non tralascia di fare i conti col colonialismo che, se da un lato concedeva istruzione e a scuola esaltava la resistenza alla tirannide, dall’altro non esitava a incarcerare “gli autori dei pamphlet a favore dell’indipendenza”. A tal riguardo, riflessioni molto significative pesano come macigni sulla coscienza sporca dell’Occidente, la cui partenza nei decenni scorsi fece posto al dispotismo e alla corruzione dei governi postcoloniali.
Un gran bella pubblicazione che sussurra, dice e urla moltissimo a chi abbia cuore per ascoltare. Nell’ultima parte, forse, si accavallano troppe vicende secondarie che, a tratti, sembrano confondere e discostarsi da quella principale, rischiando di far perdere alla narrazione tutta la bellezza precedente, sebbene risultino anch’esse infine funzionali alla comprensione dello svolgimento dei fatti. Di pregio i colti riferimenti letterari, a partire da quello all’indimenticabile scrivano di Melville, assurto a simbolo di una umanità sconfitta, ma che ancora conserva dignità, coraggio e forza per esclamare, dinanzi al male dell’esistenza, “I would prefer not to”.

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...a chiunque ami l'Africa e voglia scoprirne i suoi mondi.
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Fumetti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    22 Febbraio, 2022
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Chiacchiere tra signore

Adoro Marjane Satrapi, i suoi disegni dal tratto asciutto e deciso, i suoi testi arguti e imprevedibili. Fin dai tempi di “Persepolis” leggo molto volentieri questa fumettista iraniana, ormai da anni residente in Francia, e trovo le storie che racconta, anzitutto la sua, di raro incanto.
Anche “Taglia e cuci”, pur non avendo l’ampio respiro dell’opera sopraccitata che le diede fama internazionale, si rivela una bella conferma, regalandoci un vivace spaccato della Teheran di inizio anni Novanta, quando l’autrice non si era ancora trasferita definitivamente in Europa. Un pomeriggio tra donne, riunite davanti a una tazza di tè, diventa occasione per un intenso scambio di confidenze, opinioni e tanti (troppi) pettegolezzi. Naturalmente, qualsiasi presenza maschile viene bandita da simili riunioni femminili.
“Sparlare degli altri è tonificante per il cuore…”, afferma sicura del fatto suo la nonna della Satrapi, grande protagonista anche in queste tavole. Di certo, le chiacchiere mettono di buonumore e ognuna delle presenti finisce per raccontare di sé o di parenti e amiche. Non sorprendono gli argomenti trattati: amore e disinnamoramento, matrimonio e divorzio, sesso a non finire; il tutto senza pudori di sorta né falsi moralismi. Nessuna meraviglia: del resto, perché le donne musulmane non dovrebbero parlare in privato anche di tutto questo?
Insomma, proprio un bel libro a fumetti che ci propone una realtà ben lontana dal nostro immaginario, nel caso specifico dell’Iran, dominato da ayatollah barbuti (dinnanzi ai quali, all’occorrenza, corriamo a coprire per pudore artistici nudi marmorei) e donne imprigionate nel lutto perenne del chador.

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... "Persepolis".
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Racconti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    17 Febbraio, 2022
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Un “artigiano del lógos”

Pubblicato alla fine del 2020 dalle Edizioni Via del Vento, il volumetto dal titolo Una notte a Kalinteri di Kavafis (n. 81, collana «Ocra gialla») amplia e arricchisce la conoscenza dell’opera del celebre autore greco nato e scomparso ad Alessandria d’Egitto (1863-1933), proponendo una serie di sorprendenti prose rare che ben testimoniano la versatilità dell’intellettuale in questione. Come precisa la curatrice Claudia Ciardi nella sua gran bella postfazione, esse sono parte di “[…] una produzione meno nota e dispersa in edizioni fuori stampa o troppo frammentata nelle poche ristampe.” Un corpus, dunque, ancora cospicuamente da esplorare negli archivi, uno studio tutto in divenire che preannuncia risultati molto interessanti.
Dai testi qui raccolti, per lo più brevi articoli, annotazioni, riflessioni, emerge una scrittura degna di nota e assai coinvolgente che cattura ben presto il lettore accompagnandolo in un viaggio particolarmente affascinante. Spicca, tra queste pagine, il racconto fantastico Alla luce del giorno, estratto da una edizione risalente al 1896, del quale si offre una nuova traduzione in lingua italiana.

“[…] La stanza era buia. Ho acceso la luce. Il sogno era così reale, così vivido che sono rimasto sbalordito e sopraffatto. Ho avuto la debolezza di andare a vedere se la porta fosse chiusa a chiave. Chiusa come sempre. Ho controllato l’orologio: erano le tre e mezzo. Mi ero coricato alle tre in punto. […]”

La trama, animata dall’elemento soprannaturale, se non addirittura demoniaco, che sembra mescolare con abilità realtà e sogno, viene impreziosita da vivide atmosfere mediterranee che le fanno da sfondo.
Avvezzo a un’esistenza riservata, emblematicamente rischiarata dalla luce delle candele nella propria abitazione egiziana (come ci ha raccontato a suo tempo la penna del compianto Guido Ceronetti, che definì Konstantinos Kavafis un “artigiano del lógos”), il poeta nel 1910 di sé scriveva:
“La mia vita scorre in voluttuose fluttuazioni, in pensieri inclini all’erotismo che talvolta arrivano a realizzarsi. La mia opera è invece governata dal ragionamento. Va bene così, forse. […] Opero come gli antichi. Costoro hanno discettato sulla storia, la filosofia, composto drammi a partire da radici mitologiche ed erano – molti almeno lo erano – malati d’amore, esattamente come me.” (dal brano “Vita e arte”)

Colpiscono, inoltre, i suoi ragionamenti in Le parole (1902) in merito all’importanza dell’esprimersi in vari contesti, anche al fine di dare forza a idee che possano un giorno cambiare il mondo:

“[…]Un uomo semplice […] ha un’idea, critica un’istituzione o un’opinione generale; sa che la stragrande maggioranza pensa il contrario, quindi tace […] È un errore grossolano. Io mi comporto diversamente. Critico ad esempio la pena di morte. Non appena si presenta l’occasione, lo dico, non perché penso che gli Stati la aboliranno domani, ma perché sono convinto che dichiarando la mia contrarietà contribuisco al trionfo della mia opinione. Non importa se nessuno è d’accordo con me. Il mio discorso non è perso.[…]Altri avranno il coraggio dell’azione. […]”

Un passo di notevole profondità che si commenta da sé.

Un’altra preziosa pubblicazione, "Una notte a Kalinteri", della piccola grande casa editrice pistoiese, la quale, proprio lo scorso anni, ha festeggiato i suoi primi trent’anni di attività (www.viadelvento.it). Una lettura di certo imperdibile per gli appassionati del poeta alessandrino, ma ottima e utilissima anche per chi desiderasse iniziare a conoscere la straordinaria figura di Konstantinos Kavafis che ci ha lasciato Itaca e altre liriche meravigliose.

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    17 Febbraio, 2022
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Giovani voci poetiche

Pubblicata nel 2020 dalla casa editrice Nulla die, all’interno della collana “I Canti, Sussurri”, Poesie dell’indaco è la quarta raccolta poetica del giovane autore marchigiano Andrea Sponticcia. La silloge è stata premiata lo scorso anno con una menzione d’onore alla IX edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi”, sezione libro edito.

“Quel che di me è andato perduto/ è quanto la poesia ha salvato.”, recita il testo più breve (“Manifesto”) tra quelli racchiusi in questo volumetto che si legge in un soffio, ma che invita a continui ritorni per soppesare parole, rimarcare espressioni, cogliere al meglio sfumature e prospettive.
È una scrittura sorprendente, quella di Sponticcia, che fin dalle prime pagine sa accostarsi garbatamente al lettore attraverso un linguaggio spontaneo, coinvolgente e ricco di immagini. I suoi versi sembrano scandagliare i fondali di un io poetico che affronta, non senza dolore, i temi del ricordo, della lontananza, dell’amore, della morte e, immancabilmente, del senso dell’esistenza e dello scorrere inarrestabile del tempo che, in un inestricabile intreccio, si snodano lungo i sentieri meditabondi della fragilità umana.

“[…] Capita a tutti/ di passar di mano. Finire smarriti. Sprecati. […]”: la palla da basket, che dà il titolo a una lirica molto significativa, diventa una metafora originale e ben riuscita che sembra trasmettere alla perfezione la precarietà dell’umano vivere (“[…] Non ho scopo/ fuori dal campo,/ eppure esisto/ e a volte sono felice. […]”), eternamente in balia di regole del gioco subite e mai decise. Semplicemente,“[…]Un disegno ancora in corso” da cui non esiste possibilità di fuga.
E mentre si sta “[…] stesi a guardare/ il cielo passare/ e le stagioni fluire […]”, si cade in silenzio “[…] pur di non intaccare/ la precaria stasi del mondo […]”. Affiora spesso tra i versi una sorta di rassegnata e amara disillusione, dalla quale prendono voce un senso profondo di solitudine e un’assenza che, in un certo qual modo, diviene presenza; l’immagine della casa che si svuota di colpo degli affetti, nella poesia dal titolo “Dopo la fine”, restando “spoglia e incolore”, si rivela di notevole incisività e si mostra in tutto il suo afono vuoto ineluttabile, allorché le parole sbiadiscono e si ritrovano anch’esse sole come accade al mare al cospetto della stagione invernale. La morte sfuma nella vita del ricordo che evade dalle cornici delle stanze ormai svuotate di mobili e invade così gli spazi sconfinati della solitudine.
Intanto, l’amore si scopre fatto di tenebra e pronto a mordere “più dei cani”.
“[…] quanto vorrei stringerti/ e farti sentire il sangue/ di queste lacrime,/ quanto vorrei saperti mia/ come la disperazione.” (“Mia”)

Una scrittura in versi particolarmente affascinante, impreziosita da ritmo e musicalità, che suscita, come del resto deve essere quando si legge un’opera letteraria, emozioni e riflessioni. Una pubblicazione di gran pregio, Poesie dell’indaco, che testimonia come la Poesia, anche grazie a voci fresche e di talento come quella di Andrea Sponticcia, continui a mantenersi ben viva e, per fortuna, a regalarci profonda bellezza a dispetto della superficialità e delle brutture del nostro tempo.

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Fantasy
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    13 Febbraio, 2022
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Un grido di dolore

Non leggo solitamente romanzi fantasy né, in tutta franchezza, mi sento in particolare sintonia con questo genere letterario. Ma per Isabella Liberto, giovane scrittrice siciliana che ho scoperto qualche tempo fa e che stimo molto, non potevo non fare una eccezione. Dopo una serie di gialli e thriller pubblicati dalla 0111 Edizioni a partire dal 2017, il suo Il pianto del corvo, uscito la primavera scorsa con la medesima casa editrice, sorprende e incuriosisce non poco: si tratta, infatti, del suo primo fantasy, per di più dalle sfumature romance.

La trama trova principale ambientazione in un limbo che altro non è che il Purgatorio dove transitano le anime in attesa di ricordare le proprie colpe e, quindi, di perdonarsi o perdonare. Anche l'anima di Jane si ritrova all'improvviso in questo luogo decisamente poco ameno (“un bosco malato”); in vita, lei era stata una ragazza prossima alla laurea, deceduta a seguito di un incidente.

“Il mio nome è Jane Logan, e sono morta da sei mesi.”

C'è qualcosa, però, che non riesce a emergere e non le permette di passare oltre tutto quel dolore che stranamente continua a provare. Il Purgatorio, in aggiunta, è il regno di una sorta di principe, “un essere tormentato, oscuro e spietato, non un angelo”, che si trasfigura in un corvo dal pianto straziante. Ma chi è e, soprattutto, chi era stato il Corvo? Qual è il mistero che si nasconde nel dolore acuto del suo lamento?

Quella della Liberto si conferma una gran bella prosa, capace di coinvolgere e appassionare il lettore dalla prima all'ultima pagina, anche grazie al ricorso a un io narrante molto convincente. Colpiscono le descrizioni accurate di questo al di là di espiazione, popolato da guardiani dal corpo per metà umano e metà animalesco, ninfe e anime rinnegate, così come non passa inosservato l'intreccio di vicende che si svelano a poco a poco e, fantasy a parte, hanno molto a che fare con tristi e dolorose realtà di questo mondo. Da quelli principali (protagonista in testa) a quelli secondari, i personaggi sono tutti ben caratterizzati e lo stile narrativo dell'autrice è come sempre notevole. Finale inatteso, anch'esso degno di nota: in fondo, la forza dei sentimenti resta il più grande mistero che travalica ogni tempo e luogo, sopravvivemdo persino alla morte.

Per chi volesse conoscere meglio Isabella Liberto e le sue pubblicazioni, segnalo il link del suo sito ufficiale: https://isabellalibertoofficial.wordpress.com

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Politica e attualità
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    10 Febbraio, 2022
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Voci da una terra senza più terra

Che grande scrittore, Tahar Ben Jelloun!
Nel corso degli ultimi anni ho fortunatamente avuto occasione di leggere diversi suoi lavori (dai saggi a vari romanzi) e il breve “Jenin” spicca in modo particolare per il suo collocarsi, a mio parere, tra la poesia e la prosa; anche quest'ultima, in verità, ha molto di poetico.

Titolo evocativo e fortemente significativo, quello del volumetto in questione, che di colpo scaraventa il lettore nella martoriata Palestina, tra le macerie della storia e di un dramma senza fine. Alto e straziato, il grido di una donna ricoperta di polvere si leva tra quelle rovine, fino a farsi voce corale del campo profughi di Jenin, teatro di un efferato massacro, e di un popolo intero, nonché di una terra santa e dannata che ancora oggi si domanda quando potrà ritornare a essere semplicemente una terra d’ulivi.
Intanto, i suoi figli sono costretti a partire, a disperdersi in nuove infinite diaspore nei lontani quartieri dell’esilio, tra i profumi vagabondi di sesamo e timo, sorte comune a molti palestinesi; tra loro anche Mahmud Darwish, l’ormai compianto poeta della resistenza, la cui voce brilla tristemente in mezzo alle altre che in queste pagine piangono.
Una toccante prova dello scrittore marocchino, la cui intensità ritrovo in questi giorni tra le pagine de "La remontée des cendres" (in lingua francese) che sto leggendo al momento.

“[…] qui il diritto non esiste, è come un fiore: non ci sono più fiori nei nostri campi, non ci sono più giardini, più sorgenti. Hanno distrutto tutto. Il diritto? È il diritto del più forte. Il diritto abita in un tank, un carro, un bulldozer, un cannone puntato sui civili…”

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... altri libri sulla questione palestinese, ma non necessariamante.
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Poesia straniera
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    07 Febbraio, 2022
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Una breve raccolta

"Sempre, benché conosciamo il paesaggio d'amore
e il piccolo cimitero con i compianti nomi
e il segreto sgomento dell'abisso dove altri
incontrano la fine: sempre di nuovo in due
vaghiamo sotto gli alberi antichi, di nuovo
tra fiori ci stendiamo, di fronte al cielo."

Molto bella questa breve, ma significativa raccolta di poesie di Rainer Maria Rilke (1875-1926), celebre poeta praghese di lingua tedesca che, negli ultimi anni di vita, scrisse anche in francese. Pubblicato diversi anni fa dalle Edizioni Via del Vento, il volumetto fa parte della collana di poesia “Acquamarina”, dedicata alle liriche, per lo più inedite nel nostro Paese, di importanti poeti stranieri, noti e meno noti.

Come da consueta cura editoriale della casa editrice di Pistoia, la pubblicazione si rivela preziosa, molto utile anche per iniziare a conoscere questo grande nome della poesia europea a cavallo tra Otto e Novecento, dalle cui pagine è possibile farsi un'idea dei temi della scrittura rilkiana: la solitudine (“[...] una torre diventerà il mio cuore, / io stesso ne abiterò la cima [...]”), la fragilità dell'esistenza, la morte; sullo sfondo di questi versi a tratti d'una profondità insondabile, una natura che, dalla terra agli astri, culla con abbraccio malinconico il poeta (“[...] cantano oltre il tempo stelle radiose,/ noi stiamo in silenzio/ in compagnia di dolorose cose.”).

I testi sono stati tradotti e curati dal poeta e filosofo Roberto Carifi, il quale ha firmato, in chiusura del volumetto, una interessantissima nota al testo da cui traspare una vasta conoscenza della vita e dell'opera di Rilke, autore “segnato dall'inevitabilità dell'Abschied”, cioè di quell'addio di cui sembra essere ineluttabilmente intrisa la nostra condizione umana.

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Classici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    07 Febbraio, 2022
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Non semplicemente Ghost story

Un piccolo grande classico della letteratura americana, pubblicato ben due secoli fa. Lungo soltanto poche decine di pagine, il racconto offre una lettura coinvolgente e, nel complesso, godibilissima.

L'autore, Washington Irving (1783 - 1859), si esprime attraverso una gran bella prosa, molto fluida ed elegante, nonché caratterizzata – è impossibile non notarlo fin dalle primissime pagine – da un linguaggio sapientemente (e gustosamente) ironico. Eppure, come qualcuno giustamente potrebbe notare, il testo in questione dovrebbe rientrare nel genere fantastico, con tanto di inquietanti fantasmi, nell'ambito del quale scriveranno poi anche altri celebri autori statunitensi. Tuttavia, più che indurre a tremare per la paura o ad accelerare all'improvviso i battiti cardiaci, la lettura de "La leggenda di Sleepy Hollow" suscita copiosità di sorrisi, se non di risate vere e proprie! Il personaggio di Ichabod Crane, pedagogo sui generis e protagonista indiscusso della storia, si rivela uno spasso e tutta la narrazione in generale trasuda ilarità, a dispetto dell'acefala figura del cavaliere il cui spirito lugubremente cavalca durante la notte nei pressi della chiesa e del cimitero della valle addormentata, luogo fecondo di superstizione, in cui trova ambientazione la vicenda.

Chi ha visto la trasposizione cinematografica di Tim Burton di fine anni Novanta prima di leggere questo volumetto, rischia forse di restare un po' deluso dal momento che il film punta più che altro sulla leggenda del cavaliere senza testa, fantasma di un combattente della cavalleria assiana decapitato da un colpo di cannone durante la guerra d'indipendenza, mentre il racconto irvinghiano dà spazio anche al non disinteressato sogno d'amore di Crane per una bella e giovane ereditiera della zona. Epilogo tutto da gustare!

Un paio di curiosità degne di nota sullo scrittore, che fu anche ambasciatore degli Stati Uniti in Spagna: Irving, scomparso intorno alla metà dell'Ottocento, riposa proprio nel cimitero di Sleepy Hollow (com'è stato ribattezzato il villaggio dello Stato di New York dove si svolge la trama del racconto) e una statua che lo ritrae si trova addirittura a Granada, molto probabilmente per rendere omaggio al fatto che aveva visitato a lungo la città andalusa, interessandosi alla sua storia, e pubblicato un'interessante e fortunata opera dal titolo "I racconti dell'Alhambra".

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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    05 Febbraio, 2022
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"Il diavolo è un uomo come gli altri.”

Dopo aver letto negli ultimi anni diversi suoi lavori (alcuni dei quali anche in lingua francese), è sempre piacevole tornare a Tahar Ben Jelloun, la cui scrittura ha per me qualcosa di indefinibilmente affascinante e “familiare”. Pubblicato una ventina d'anni fa, il racconto in questione, per quanto breve, offre una prosa molto scorrevole e coinvolgente che trascina il lettore di nuovo in quel Marocco così caro all'autore, immancabile terra di memorie, affetti, tradizioni che la vita in Europa non riesce a oscurare, tanto da essere sempre, in un modo o nell'altro, al centro delle sue innumerevoli narrazioni.
Per il protagonista di queste pagine, un musicista maghrebino di successo residente ormai da tempo a Parigi, la terra natia ricompare all'improvviso all'orizzonte di un'esistenza che si scopre d'un tratto fragile e in balia della maldicenza e cattiveria altrui.

"Nella nostra buona società ci si lascia sempre più andare alla maldicenza. In tal modo è facile mascherare le proprie incapacità. La gente si annoia e passa il tempo a giudicare gli altri, innalzando forche e diffondendo pettegolezzi."

Soltanto attraverso il recupero delle proprie radici e delle sane abitudini di una volta, come quella di frequentare l'hammam (elemento fondamentale dell'urbanistica arabo-islamica) dove ci si dedica alla pulizia e al benessere del corpo, l'uomo riuscirà a venire a capo di una strana malattia della pelle che, nonostante i continui lavaggi, lo tormenta facendogli continuamente sentire un odore insopportabile. L'antica medina di Fes con i suoi vicoli labirintici (e chi ha avuto occasione di visitarla almeno una volta la riconoscerà senza alcun dubbio) e soprattutto il vecchio hammam frequentato negli anni della giovinezza, per non parlare di alcuni personaggi caratteristici che ancora animano quei luoghi, primo fra tutti l'anziano massaggiatore Bilal detto “il filosofo”, impreziosiscono una trama in apparenza semplice, ma in realtà densa di significati.
Un gran bel racconto che parla di false amicizie, dell'invidia e del male che da esse possono scaturire, nonché dell'importanza di saper dimenticare e procedere oltre. Presto o tardi, come mostra l'epilogo di questa curiosa vicenda narrata con inconfondibile maestria, la resa dei conti arriva e la vita ritrova così i suoi equilibri, a condizione che si sappia voltare pagina fino in fondo.

“Come lottare contro le carogne? [...] Il loro scopo è demolirti. Non importano le ragioni. Ma non fare il loro gioco. È meglio che ti vedano vivo, non intaccato dalle loro porcherie, anziché rassegnato, abbattuto e finito. La tua esistenza, il tuo talento, il tuo successo li disturbano. E allora tu disturbali con più grinta, con genio!"

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... altri libri di Tahar Ben Jelloun, ma non necessariamente; questo volumetto può anche essere un primo valido incontro con l'autore, per chi fosse interessato a farne la conoscenza.
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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    05 Febbraio, 2022
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Aforismi a mo' di versi

“I poeti sanno/ quando devono/ smettere di scrivere”: si chiude con queste parole di grande saggezza il libro dal titolo Aforismi e magie dell'indimenticabile Alda Merini, tra le massime voci poetiche italiane del secolo scorso, e non solo.
Pubblicato da Rizzoli in prima edizione nel 1999 (precedendo così di dieci anni la scomparsa dell'autrice), esso raccoglie non soltanto testi poetici veri e propri, alcuni in modo particolare di notevole bellezza e profondità, ma soprattutto una nutrita serie di aforismi – “il meglio” sottolinea Benedetta Centovalli, all'epoca alla direzione letteraria della casa editrice lombarda – comparsi a partire dall'inizio degli anni Novanta per lo più in diverse edizioni fuori commercio e in tiratura assai limitata; si trattava delle numerosissime plaquette edite pressoché artigianalmente da Pulcinoelefante, minuscola realtà editoriale con sede a Osnago (in provincia di Lecco) a cui nel 1982 aveva dato vita Alberto Casiraghi, classe 1952, scrittore e illustratore.
Non a caso, la raccolta in questione è impreziosita proprio dai disegni di quest'ultimo, che la stessa Merini considerava “uno dei più originali pastellisti del Novecento”. Un connubio artistico e umano, il loro, assai fecondo che ha creato oltre cinquecento piccole preziose pubblicazioni, addirittura esposte in mostra al Castello Sforzesco di Milano in anni passati.
La lettura di questi aforismi, riportati a mo' di versi, è molto piacevole e scorrevole, sebbene tanti fra essi invitino spesso a soffermarvisi più a lungo e a riflettere. Come afferma la Centovalli nella sua nota introduttiva, quella della Merini, anche stavolta, si rivela una scrittura capace di “imprigionare in una breve frase tutta l'armonia o tutto il disincanto del mondo.”
Una scrittura, a seconda dei casi, intrisa pure di ammirabili ironia e senso dell'umorismo che sembrano scandagliare e prendere in giro la vita, a dispetto delle amarezze, disillusioni e torti che essa immancabilmente non ci risparmia. Un buon numero di scritti è riservato alla Poesia e ai poeti, un altro all'amore, pure con qualche nota erotica, così come non vengono dimenticati follia e malattia in generale, Dio e la religione, tempo e morte attraversando le stagioni dell'esistenza.
Tra i tantissimi che ho apprezzato, cito i seguenti:

“Ho il colon
ustionato
dai versi.”

“Io amo
ciò che non
si dice.”

“La casa della Poesia
non avrà mai porte.”

“Non cercate
di prendere i poeti
perché vi scapperanno
tra le dita.”

“Anche la follia
merita i suoi applausi.”

“Lo sconforto
non tiene mai conto
del firmamento.”

“Non esiste
né un principio
né una verità:
l'unica cosa che può fare l'uomo
è di sopravvivere all'universo.”

“È un filosofo puro il poeta,
che va sulle montagne
a cogliere l'ultima stella.”

Consiglio a tutti di farsi dono di questa lettura, un doveroso omaggio alla Poetessa dei Navigli.

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... a chi ama la poesia di Alda Merini, a chi desideri avvicinarsi a essa per la prima volta.
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Classici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    03 Febbraio, 2022
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Meglio tardi che mai

Con un vergognoso ritardo di qualche decennio, ho potuto finalmente leggere uno dei grandi classici per eccellenza, peraltro in una bella edizione illustrata della fine degli anni Cinquanta recuperata tra vecchi libri destinati con buona probabilità al macero.
Pubblicato nella seconda metà dell'Ottocento, "Piccole donne" è per davvero uno di quei romanzi senza tempo che può indirizzarsi a bambini e adolescenti così come a un pubblico più adulto. Perchè i grandi classici, in fin dei conti, non hanno scadenza d'età e la loro lettura non è mai fuori moda né fuori tempo massimo.
Ovviamente, la vicenda narrata va inquadrata nella sua epoca, con tutto ciò che questo comporta; l'intento pedagogico dell'autrice non passa inosservato e i valori tradizionali, anzitutto quello della famiglia, trovano senz'altro posto tra le pagine del libro. I personaggi risultano ben caratterizzati, a partire da quelli delle quattro sorelle March, e la trama suscita più di una riflessione. Si respira aria da romanzo di formazione, credo sia innegabile; e infatti, nell'arco temporale di un anno, si assiste alla crescita più che altro interiore delle giovani protagoniste e anche dell'amico Laurie, tutti impegnati a maturare e migliorarsi caratterialmente attraverso una serie di eventi che tenderà a metterli alla prova.
Felice di questa lettura. Da ragazzina avevo letto l'immediato seguito, "Piccole donne crescono", tuttavia mi mancava proprio questo primo tassello della storia; un po' come tutti, avevo anche visto alcune trasposizioni cinematografiche, ma, come spesso accade, i film non riescono a sostituire del tutto la versione originale cartacea da cui essi sono stati tratti.

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    02 Febbraio, 2022
Top 50 Opinionisti  -  

Che meriggio lungo,/ immobile, feroce ci corteggia

Pubblicata nel 2020 dalla casa editrice pugliese Manni, questa raccolta poetica di Alberto Rollo offre certamente una lettura affascinante, ma anche non semplice e, pertanto, di comprensione non immediata. Una scrittura senza dubbio di grande profondità e ricca di vivace musicalita dà voce a una figura imprecisata - difficile dire se si tratti solo di un anziano o di un malato - confinata all'interno di una torre anch'essa non bene identificata (carcere, nosocomio?), mentre il muto interlocutore dell' "io narrante" poetico si identifica, pur in tutta questa vaghezza, con quella di un probabile infermiere-carceriere.

"[...] Più dura
questa lunga malattia più vi sottrae,
meravigliose fantasie, futuro.
Vi cercherete ciechi sopra il muro,
come timidi gechi pattugliando
il giorno e i suoi improvvisi
nidi di ombre."

Recentemente nella terzina finalista (per la sezione Poesia) dell'edizione 2021 del prestigioso Premio Napoli, "L'ultimo turno di guardia" ha ricevuto anche altri importanti riconoscimenti letterari; i suoi versi danno vita a una sorta di poemetto in cui la segregazione diviene occasione per ricordare e liberare emozioni. Nel complesso, un'opera di grande qualità che ho avuto occasione di leggere poiché l'autunno scorso ho preso parte al lavoro dei giudici lettori del Premio Napoli.

L'autore, classe 1951, vanta una lunga carriera nel mondo editoriale; ha tradotto romanzi inglesi e americani, tra cui "A sangue freddo" di Truman Capote, e scritto anche per la narrativa, il teatro e la televisione.

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Racconti
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    01 Febbraio, 2022
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Non solo romanzi

Molto bella e ben assortita questa raccolta di novelle di Grazia Deledda. A parte “Chiaroscuro”, che dà il titolo al libro, e pochi altri, la maggior parte dei testi qui presenti brilla per l’incanto della trama e l’alta qualità letteraria di una prosa che scivola spesso nella poesia.
Attraverso un realismo sociale di non poco conto e una psicologia dei personaggi a tratti inquietante, la scrittura deleddiana si popola di una umanità molto variegata: nobili e miserabili, padroni e servi, giovani e vecchi, illusi e disincantati dalla vita. Piccole storie che potrebbero aver avuto luogo ovunque tra fine Ottocento e primo Novecento, poco importa che gli scenari siano quelli sardi del Nuorese; gli stessi, del resto, immortalati dall’autrice nei suoi romanzi più celebri. Non soltanto questi ultimi le valsero il Nobel per la letteratura nel 1926, ma tutta la sua vastissima produzione letteraria di cui fa parte a pieno titolo anche l’impressionante numero di circa quattrocento novelle.
Non solo romanzi, dunque; noi italiani (isolani suoi conterranei inclusi) dovremmo forse imparare a leggere di più Grazia Deledda e ad apprezzarne anche le opere, per così dire, minori.
Tra i titoli contenuti in questa raccolta, una assai esigua rappresentanza della complessiva produzione novellistica della scrittrice nuorese, segnalo soltanto “Le tredici uova”, “Un grido nella notte”, “Il cinghialetto”, “La cerbiatta” e, in modo particolare, “La porta chiusa”.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    15 Gennaio, 2022
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Il bene e il male

È maledettamente labile, e mai netto, il confine tra bene e male che emerge fra le pagine di questo sorprendente romanzo di Roberto Costantini. Scopro quasi subito che si tratta del secondo volume di una trilogia, ma procedo comunque nella lettura, pur essendo ignara dei contenuti del primo, perché anzitutto l'ambientazione ha su di me una presa immediata: la Libia degli anni Sessanta, dove la toponomastica di Tripoli ancora tradisce il passato coloniale e il ghibli soffia “il suo alito infuocato di sabbia”.
È laggiù che cresce Michele Balistreri, chiamando casa quella torrida terra nordafricana su cui a poco a poco iniziano ad addensarsi le nubi minacciose della Storia. Una vita agiata all'ombra di un nome che conta, quella vissuta dall'adolescente protagonista, senza peraltro farsi mancare esperienze che definire delinquenziali suona in verità riduttivo; un vecchio patto di sangue tra amici lascia una cicatrice indelebile sul polso e ancor più nell'anima, mentre delusione e rabbia approdano infine sull'altra sponda del Mediterraneo per continuare ad avvelenare un'esistenza che non sembra possa trovare requie né perdono.

La lunga vicenda narrata si divide in due parti, delle quali la prima, catturando il lettore fin dall'incipit, è forse quella meglio riuscita. Personalmente, ho trovato una prosa davvero molto coinvolgente, capace di muoversi con abilità attorno a un mistero agghiacciante di cui soltanto l'epilogo, dopo vari depistaggi ad arte della penna dello scrittore, svelerà retroscena e crudeltà dinanzi a cui la giustizia umana, quella al di fuori dei tribunali, non può tentennare. Trama complessa da raccontare in breve; occorre leggere e lasciarsi trasportare dalle inquietudini di un personaggio molto ben riuscito come quello di Balistreri e sferzare dal ghibli che proviene da quegli umani, insondabili deserti dove luce e ombra spesso si confondono e il male mette silenziose radici.

Valutazione complessiva, dunque, di quattro stelle e ½, per la storia in sé e lo stile narrativo, nonché per l'ambientazione libica (e la breve parentesi egiziana) che dimostra una conoscenza diretta da parte dell'autore (non a caso, Costantini è nato a Tripoli nel 1952) di luoghi e società araba locale.

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... secondo me, non necessariamente soltanto a chi ha letto il primo romanzo della trilogia di Costantini. La vicenda narrata è autonoma e godibilissima.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    01 Dicembre, 2021
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Game over

Stavolta, a differenza delle valutazioni degli altri romanzi della serie legata al personaggio di Mila Vasquez, non riesco ad arrivare a più di tre stelle e 1/2.
Non che questo libro, anch'esso bello corposo al pari dei precedenti, non sia nell'insieme di buona qualità; la lettura è infatti scorrevole e presenta anche diverse pagine piuttosto coinvolgenti, oltretutto occorre pure notevole fantasia per imbastire una storia di questo genere.
Tuttavia, ho trovato alcune parti un poco noiose e credo che in un thriller ciò non sia una cosa positiva. In altre parole, non ho riscontrato tra queste pagine la stessa suspense avvertita al massimo grado tra quelle dei precedenti titoli, soprattutto de "L'ipotesi del male" e, in particolare, de "Il suggeritore", primo romanzo (del quale sono fresca di lettura) al cui confronto l'ultimo della serie finisce ora per impallidire irrimediabilmente.
Oltre a qualche parte un po' noiosa, come detto, alcuni passaggi mi sono sembrati troppo frettolosi e la valutazione complessiva non può non risentirne. Peccato, la trama, sullo sfondo di un malefico mondo virtuale. non mi è apparsa del tutto perfetta e coinvolgente come quella degli altri volumi, facendomi rimpiangere la figura del primo suggeritore. Resta comunque un romanzo che svuota la mente e vale la pena di leggere per continuare a seguire le vicende dell'ormai ex agente Mila Vasquez, affascinante e complesso personaggio creato dalla penna di Carrisi.

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Consigliato a chi ha letto...
...i precedenti romanzi della serie legata al personaggio di Mila Vasquez.
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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    25 Novembre, 2021
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Una storia di radici e un autore indimenticabile

All’inizio pensavo si trattasse di una storia d’emigrazione, una di quelle che, da figlia curiosa di un ex "Gastarbeiter", mi sento in dovere di leggere. Ben presto però mi è apparso chiaro che i discorsi della notte berlinese non conducevano ad altro luogo se non in Sardegna e al piccolo paese dove attendeva una tomba, chiusa e vuota, al pari di una vecchia ferita, aperta e piena di domande che devono essere fatte, “anche quando non sperano risposta”.
"Il sale sulla ferita" di Giulio Angioni (1939-2017) una storia di radici e di un mondo contadino fatto di padroni e servi, di occupazione di terre, di contrapposizioni da secondo dopoguerra e di rapporti umani che sapevano andare oltre queste ultime.
Una narrazione emozionante, coinvolgente, ammaliante che procede attraverso un passo avanti e due indietro, un dire e non dire, chiacchiere e ricordi che non sempre s’incastrano perfettamente come i pezzi di un puzzle.
Un mondo per buona parte svanito, perso nella colonna di fumo avvistata all'improvviso una sera d’estate dalla collina delle ombre o dietro il volo libero dei falchi che tanto amava il giovane Benito Palmas, martire consacrato tale dalle distorsioni della memoria collettiva e personaggio che non è più possibile dimenticare.
E che cosa rimane dunque alla fine? Un morto male, come afferma qualcuno, e un grande romanzo che induce a riflettere.

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Classici
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    18 Novembre, 2021
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L'infelicità dei poeti

Lungo racconto o romanzo breve che sia, questo testo in prosa del celebre autore libanese naturalizzato statunitense Khalil Jibran, vissuto tra Otto e Novecento, si rivela una vera sorpresa e un piccolo gioiello, la cui pubblicazione risale a poco più di un secolo fa.
La storia narrata trova ambientazione nella stessa terra natale di Jibran (ma a Beirut, per l'esattezza) e non è da escludere che nell'io narrante del giovane protagonista si possa celare qualche risvolto dal sapore autobiografico.
Una prosa intensa, di notevole profondità e anche molto poetica che pone al centro della narrazione l'amore, quel sentimento che d'improvviso apre gli occhi e sfiora l'anima, aprendo una nuova fase della vita e ponendosi nel contempo su un piano di straordinarie purezza e spiritualità.
Affascinante il personaggio di Salma, donna di grande bellezza e nobiltà di spirito, nonché di estrazione sociale elevata, che ben incarna la figura femminile (vicino) orientale inchiodata a un destino di sacrificio; il libro, pertanto, in modo non trascurabile, mette l'accento sulla condizione della donna all'interno della societa dell'epoca di Jibran, società - si ricordi - sia islamica che cristiana.
Epilogo, come prevedibile, tutt'altro che lieto, nel quale gli obblighi di classe e la fredda logica del mercanteggiare, se così lo si vuol definire, finiscono per imporsi spezzando per sempre le ali di chi aveva iniziato a spiccare un volo di felicità.
Per quanto mi riguarda, ho di gran lunga preferito queste pagine a quelle ben più famose de "Il profeta", opera successiva datata 1923.
Non so se il volumetto de "Le ali spezzate" risulti ormai fuori catalogo, ma dovrebbe essere ancora possibile reperirlo, oltre che attraverso il prestito bibliotecario naturalmente, sul mercato dell'usato, magari proprio nella vecchia edizione (a mio parere discreta) dei tascabili economici della Newton & Compton dei primi anni Novanta. Una lettura che ho amato e che consiglio.

“[…] i poeti sono persone infelici poiché, per quanto il loro spirito si elevi, saranno sempre racchiusi in un involucro di lacrime.”

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Storia e biografie
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    15 Novembre, 2021
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«That government is best which governs least».

Pubblicato nell’ormai lontano 1849, il breve saggio “La disobbedienza civile” di Henry David Thoreau (1817-1862) offre una lettura molto piacevole e interessante, il cui contenuto si rivela di sorprendente attualità e adattabilità a ogni luogo, sebbene esso si riferisca espressamente in più punti al contesto polico-sociale statunitense dell'epoca.
Richiamando, nell'incipit, un motto rimasto celebre, il filosofo e scrittore americano imposta un ragionamento che rischia forse di far storcere il naso ai benpensanti della politica, ma del quale si deve riconoscere la validità.

«Deve il cittadino rimettere la sua coscienza – anche per un solo istante, o in minimo grado – al legislatore? [...]»

L'uomo senza coscienza rischia di ridursi a un qualcosa che non sarebbe degno della sua intrinseca natura; rinunciare alla propria coscienza dinnanzi allo Stato in molti casi potrebbe significare accettare e appoggiare l'ingiustizia, rendendosi pertanto complici di un sistema tendente ad opprimere la popolazione nel suo insieme o, come la Storia c'insegna, particolari minoranze.

«[...] In ultima analisi, la ragione effettiva per cui a una maggioranza è concesso di governare, e per lungo tratto, mentre originariamente il potere è nelle mani del popolo, non sta nel fatto che la maggioranza sia nel giusto più verosimilmente della minoranza; neppure perché si reputi corretto che la minoranza ceda; il fatto è che la maggioranza è fisicamente più forte. Ma un governo in cui la maggioranza decida su tutto non può essere fondato sulla giustizia, nemmeno sulla giustizia relativa al discernimento umano. [...]»

«[...] ma se è di tal fatta che voi dovete essere agenti dell'ingiustizia verso altri, allora, dico, infrangete la legge. Fate in modo che la vostra vita sviluppi un contro attrito e arresti la macchina. [...]»

Antischiavista e antimilitarista, disposto a entrare in un carcere pur di non cedere di fronte a ciò che reputa ingiusta richiesta dall’alto e restare così fedele ai suoi principî, Thoreau quando invita a non rispettare la legge – si badi bene – rifugge da ogni violenza e non esorta certo a far cadere la tirannia a suon di fucilate. La personale guerra che l'autore dichiara allo Stato non prende nemmeno in considerazione tale metodo, mentre lo Stato stesso si rivela armato soltanto di forza fisica e coercizione, non certo di onestà. Come egli afferma, occorre solo adottare un modus vivendi che “arresti la macchina”.
Innegabilmente, questo volumetto di Thoreau, nonostante la sua brevità, grazie a una scrittura coinvolgente ed entusiasmante si presta ancora oggi ad aprire un ampio dibattito e a fornire innumerevoli spunti di riflessione sulla materia in questione; non a caso, è stato ben citato dal critico Goffedo Fofi nel suo "Elogio della disobbedienza civile" (nottetempo, 2015) .
Davvero degna di nota, infine, la pagina conclusiva del saggio, dove ci si sofferma su temi quali democrazia, diritti umani e progresso politico passante attraverso il rispetto del singolo: «[...] Ma la democrazia, come la conosciamo, è davvero l'ultimo, insuperabile perfezionamento nel governo? […] Mai ci sarà uno Stato davvero libero e illuminato, finché lo Stato non riconoscerà il singolo come potere superiore e indipendente, da cui deriva ogni suo potere e autorità, e lo tratterà di conseguenza. Mi piace immaginare uno Stato talmente avanzato da riuscire a essere giusto con tutti gli uomini, e a trattare il singolo con il rispetto dovuto a un vicino; che non reputi incompatibile con la sua autorità che alcuni vivano in disparte […]. Uno Stato che producesse frutti di sorta, e ne tollerasse il distacco una volta maturi, preparerebbe l'avvento di uno Stato ancora più perfetto e glorioso, che pure ho immaginato, senza vederlo finora in alcun dove.»

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... "Elogio della disobbedienza civile" di Goffredo Fofi (nottetempo, 2015).
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    11 Novembre, 2021
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Ma chi è Albert?

Da tempo desideravo leggere questo libro di Donato Carrisi, autore che avevo già avuto modo di apprezzare negli anni scorsi con “L'uomo del labirinto” e, in particolare, “L'ipotesi del male”, entrambi successivi a “Il suggeritore”.
Abitualmente, non sono un'appassionata di gialli/ noir/ thriller/ polizieschi, ma se ho occasione di imbattermi in un romanzo coinvolgente del genere e sottogeneri in questione non mi dispiace affatto. E coinvolgenti si sono rivelate non poco, queste pagine: una narrazione molto scorrevole e una trama ben congegnata hanno il merito di alimentare in modo sostanzioso la curiosità del lettore, il quale fin dall'incipit in senso lato si ritrova risucchiato nell'oscuro mistero di una vicenda dai mille risvolti che, a ogni passo decisivo nel corso delle indagini, svela una nuova sorpresa, fino ad arrivare al sorprendente epilogo in cui niente è scontato e, soprattutto, come appare.
Ottima la caratterizzazione dei personaggi, a partire da quello di Mila Vasquez, l'agente specializzata nella caccia alle persone scomparse (colei che – come si scoprirà – dal buio proviene e che a quello stesso buio ogni tanto deve fare ritorno); anche i poliziotti della squadra speciale e il criminilogo che la guida trovano tutti la loro perfetta collocazione all'interno di una storia ricca di suspense e spesso dai ritmi incalzanti, raccontata con grande maestria da chi dà prova di avere un'ampia e approfondita conoscenza in materia di criminologia, psichiatria forense e medicina legale, nonché di tecniche investigative. Forse un lettore abituale di thriller potrebbe anche dare un giudizio diverso dal mio sottolineando qualche eventuale pecca qua e là, ma io, in tutta onestà, non ne trovo e sono anzi rimasta impressionata dallo stile di Carrisi che, con sorprendente abilità, intreccia singole vicende e confonde repentinamente le carte.
E in tutto ciò, dunque, chi è Albert? Non soltanto il “suggeritore” dall'identità sconosciuta che tiene in scacco la polizia disperatamente impegnata a risolvere il caso agghicciante delle bambine rapite; dietro tale nome fittizio, con cui si cerca di “umanizzare” un mostro, in realtà si cela anzitutto qualcosa d'inquietante e difficile da ammettere: il buio che ognuno nasconde dentro di sé. Perché abbiamo tutti il nostro lato oscuro, quello che potrebbe farci andare in tilt all'improvviso. Questo romanzo, premiato da un enorme successo internazionale, ce lo ricorda, senza fare sconti a nessuno.

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... eventualmente prima "L'ipotesi del male" e gli altri romanzi in cui compare Mila Vasquez, perché è da "Il suggeritore" che inizia tutto.
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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    02 Ottobre, 2021
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Diritto al ritorno

Pubblicato in lingua araba nell'ormai lontano 1969, due decenni dopo l’inizio della Nakba, “Ritorno a Haifa” è un racconto di profondo dolore. Una storia amarissima che Ghassan Kanafani (1936-1972) ha narrato con grande maestria, trascinando il lettore in un dramma familiare che va oltre la cosiddetta fiction: una coppia di Haifa, ancora nella Palestina del mandato britannico, con l'avanzare dell'offensiva ebraica è costretta, travolta dalla folla, ad abbandonare improvvisamente casa e città, e non solo; nella culla è rimasto un bambino di cinque mesi che i genitori non riescono a portare via con loro. A distanza di vent’anni, Said e Safiya, i protagonisti, hanno la possibilità di recarsi a rivedere quello che un tempo era stato il loro appartamento e lo trovano abitato da ebrei polacchi scampati allo sterminio nazista, i quali hanno occupato gli spazi e la quotidianità dei precedenti proprietari arabi; il bimbo, da loro cresciuto, è diventato nel frattempo un giovane con indosso la divisa militare che ora, per ironia della sorte, sta dall'altra parte della barricata.

“[...] il delitto più grave che possa commettere un uomo, chiunque sia, è quello di credere anche per un solo istante che la debolezza e gli errori degli altri gli diano il diritto di esistere a spese loro e di giustificare i propri errori e i propri delitti [...]”.

Quella di Kanafani è una scrittura disincantata e coinvolgente, ricca di pathos e preziosi flashback. Essa concede spazio (e forse comprensione) anche all'altro, l'occupante, il nemico, qui rappresentato “con tratti umani e civili”, come sottolinea Francesco Gabrieli nella sua nota di presentazione del libro, mentre Isabella Camera d'Afflitto, altra nostra grande arabista e traduttrice di questo racconto, firma una interessante introduzione in cui viene ricostruita la vicenda personale e letteraria dell’autore che all'inizio degli anni Settanta finì i suoi giorni a Beirut, una delle varie tappe della propria personale diaspora, assassinato dagli israeliani a causa dell'attività politica svolta in seno al Fronte popolare per la liberazione della Palestina di George Habash.
Tra i più grandi scrittori arabi del secolo scorso, Kanafani fu autore di racconti e romanzi brevi; fu il primo a parlare di adab al-muqawamah, cioè “letteratura della resistenza”, nel cui ambito “Ritorno a Haifa” si inserisce a pieno titolo. Egli portò avanti con coraggio, in questo e in altri testi, la causa del suo popolo nonostante l'esilio, reclamando tra le righe un diritto al ritorno per i profughi che non ha mai trovato riconoscimento da parte del governo di Israele nel più totale appeasement internazionale. Se la sua vita non fosse stata stroncata a soli trentasei anni, avrebbe certo continuato a puntare il dito contro l'occupazione militare israeliana della Palestina; a quasi cinquant'anni dalla morte dello scrittore, la sua terra, santa e dannata nel contempo, sembra essere ancora ben lontana dal conoscere pace e giustizia.

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... a chiunque ami la letteratura araba e abbia a cuore la causa del popolo palestinese (o inizi a interessarsi a essa).
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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    30 Agosto, 2021
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Devastazioni

Iraq del dopo Saddam Hussein. Con la caduta del ra'ìs nel 2003, le truppe statunitensi controllano il Paese, che continua tuttavia a essere devastato da esplosioni e attentati. Le città, inclusa la capitale, sono campi di battaglia in cui i morti ormai non si contano più tra i civili, spesso vittime da un lato del fuoco americano e dall'altro degli attacchi (anche suicidi) degli stessi combattenti locali. Dimenticato nel mezzo del deserto iracheno, il villaggio di Kafr Karam è rimasto a lungo incolume al di fuori di tutta quella follia, finché la guerra non irrompe brutalmente anche lì, tra la polvere e la monotonia delle abitudini senza tempo dei suoi abitanti, attraverso i marines con le armi spianate. È da qui che partirà la rabbia feroce di un giovane beduino, pronto a tutto pur di vendicare l'offesa e l'umiliazione subite.

L'abile penna di Yasmina Khadra si concentra stavolta su un altro martoriato angolo di quel Vicino Oriente dove la parola pace – come da lungo tempo ci raccontano le cronache – sembra rivelarsi pura illusione, nonostante i tentativi di esportare democrazia e sicurezza... a suon di bombe. Come farà poi in “Khalil” (Sellerio, 2018), lo scrittore algerino scandaglia con cura le devastazioni dell'animo di chi crede di non avere altro mezzo, per porre fine ad abusi e ingiustizie, se non il proprio corpo. Il protagonista, l'io narrante che accompagna il lettore, a Baghdad finisce in una rete terroristica che, ovviamente, di islamico nel senso proprio del termine non ha nulla, nella quale ritrova diversi giovani del suo stesso villaggio, tutta gente prima sfaccendata al vecchio caffè Safir. I personaggi, da quelli principali a quelli secondari, hanno la loro giusta collocazione, contribuendo a rendere la storia narrata più che verosimile; tra quelli più riusciti, Omar il Caporale, un ex militare, a Kafr Karam considerato “un malessere ambulante”. In principio volgare e apparentemente insensibile, sarà però lui a rivolgee al giovane protagonista uno dei discorsi più sensati e di cuore in mezzo alle farneticazioni di gente senza scrupoli:

“Se vuoi combattere, fallo con onestà. Combatti per il tuo Paese, non contro il mondo intero. Non uccidere il primo che passa, non sparare alla cieca. Muoiono più innocenti che farabutti. […] Il mondo non è nostro nemico. Ricorda i popoli che hanno protestato contro la guerra preventiva, i milioni di persone che hanno sfilato a Madrid, Roma, Parigi, Tokyo, in America e in Asia. […] Sono stati più numerosi che nei Paesi arabi. […] Sarebbe atroce fare di ogni erba un fascio. Sequestrare giornalisti, giustiziare membri di Ong che sono in mezzo a noi solo per aiutarci, non è nelle nostre abitudini. Non offendere nessuno. Se pensi che il tuo onore debba essere salvato, non disonorare il tuo popolo. Non cedere alla follia. […]”

Una prosa, quella di Khadra, assai scorrevole nella forma e pesante come un macigno quanto alle tematiche affrontate che trovano saldo appiglio nella crudele e incancrenita realtà del nostro tempo. Un romanzo che si legge d'un fiato, decisamente appassionante e coinvolgente sino alle pagine conclusive, quando con sollievo, nonostante il tragico epilogo, si scopre che briciole di cuore e di speranza resistono alla tempesta più atroce che vorrebbe spazzarle via.

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...non necessariamente altri romanzi dello stesso autore.
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Romanzi
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    31 Luglio, 2021
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“Non finirà finché non parliamo”

Tra le emozioni della narrativa e le nozioni del saggio, senza forse tralasciare nemmeno ricostruzioni riconducibili al genere della biografia, il libro di Colum McCann si presenta al lettore, fin dalle primissime pagine, come “un romanzo ibrido”. È lo stesso autore, nato in Irlanda e residente da tempo negli Stati Uniti, a sottolinearne la natura al termine di questa sua lunga opera che prende pian piano la forma di un poligono dal numero infinitamente numerabile di lati. “Apeirogon”, appunto, curioso, laconico, perfetto titolo preso in prestito dalla geometria.

Apparso in lingua originale nel 2020, il volume è stato pubblicato in Italia da Feltrinelli lo scorso mese di marzo. La nota introduttiva di McCann non lascia dubbi su quanta realtà vi sia nel contenuto delle sue oltre cinquecento pagine che – non è da escludere – avrebbero potuto continuare ancora a oltranza il loro racconto, proseguire seguendo una miriade di strade che si intersecano fra loro, anche perché il tema affrontato è senz’altro ricco di vicende e sfaccettature diverse. La “fiction”, dunque, si riduce a ben poca cosa attorno ai due protagonisti che si muovono sullo sfondo della purtroppo incancrenita questione israelo-palestinese, ormai da più di sette insanguinati decenni al centro delle cronache internazionali e all’attenzione, non sempre in verità così attenta, delle diplomazie occidentali che, a ben vedere, nulla hanno risolto. Bassam Aramin e Rami Elhanan, arabo palestinese il primo ed ebreo israeliano il secondo, si ritrovano accomunati dal dolore e dalla perdita: le rispettive figlie, Abir e Smadar, seppur a distanza di due lustri, sono cadute vittima della violenza e dell’odio più assurdi che generano lutti da ambo le parti. Era il 2007 quando Abir, all’età di soli dieci anni, dopo aver acquistato un braccialetto di caramelle del valore di due shekel (“le caramelle più costose del mondo”), in prossimità della scuola venne colpita alla testa da un proiettile di gomma sparato dal fucile di un giovane soldato israeliano a bordo di una jeep; Smadar, invece, era quasi quattordicenne allorché, nel 1997, un attentato suicida a opera di tre palestinesi in Ben Yehuda Street a Gerusalemme aveva reciso la sua giovane vita.

La penna di McCann si sofferma in modo particolare su questi drammatici fatti, ritornandoci a più riprese in tutto il corso della narrazione, quasi sezionandoli con estrema cura nel tentativo di estrarne tutti i dettagli, persino quelli più macabri, come il recupero delle parti dei cadaveri disseminate nell’area dell’attentato, addirittura di un bulbo oculare posatosi sulla tenda di un caffè. Ogni singolo elemento, dal giubbotto degli attentatori alle rotte migratorie degli uccelli, dallo zaghareet a “Le mille e una notte” o al Casinò di Gerico, solo per fare pochissimi e assai differenti esempi, viene sviscerato per dare subito il via a rivoli di associazioni e relative annotazioni, andando spesso a cogliere curiosità e fatti vicini o molto lontani nel tempo, anche riportando alla luce storie singolari come quella del funambolo francese Philippe Petit. Tutto questo sempre ruotando attorno alla morte delle due ragazze e alla vita dei loro padri, uniti, oltre che dalla tragedia, pure dal convincimento che un altro modus vivendi sia possibile e che il dialogo e l’accettazione dell’altro, in quanto essere umano, possano essere la sola via d’uscita dalla spirale di morte e vendetta che avvelena la Terra Santa. La trascrizione delle parole di Rami e Bassam, tratta da alcune interviste e riportata nelle pagine centrali del libro, induce a riflettere come non mai e, specie nel caso del primo, costituiscono un vero pugno nello stomaco per lo stato ebraico che dal 1948, come riconoscono anche tanti attivisti israeliani tacciati immancabilmente di tradimento, attua una vera e propria occupazione ai danni di un popolo, quello palestinese, privato della propria dignità.

«Mi chiamo Rami Elhanan. Sono il padre di Smadar. Sono un graphic designer di sessantasette anni, un israeliano, un ebreo, un gerosolomitano di settima generazione. […] Quando qualcuno uccide tua figlia vuoi mettere le cose in pari. Vuoi uscire e uccidere un arabo, qualsiasi arabo […] Poi dopo un po’ cominci a farti delle domande […] E ti chiedi, Uccidere qualcuno mi restituirà mia figlia? […] Non tornerà, la tua Smadari. E a questa nuova realtà ti ci devi abituare. Pertanto, in un lento passaggio graduale e complesso, ti sposti dall’altra parte: cominci a chiederti, cosa le è successo, e perché? È difficile, è terribile, è estenuante. Come è potuta succedere una cosa simile? Cosa potrebbe portare qualcuno a essere tanto arrabbiato, folle, spietato, disperato, e così stupido e patetico, da essere disposto a farsi esplodere accanto a una ragazzina di nemmeno quattordici anni? Come fai a capire un simile istinto? Dilaniare il tuo stesso corpo? […] Che cosa lo ha spinto? […] Chi gli ha insegnato una cosa simile? Gliel’ho forse insegnata io? Gliel’ha insegnata il suo governo? O il mio governo? […] Certe persone hanno interesse nel mantenere il silenzio. Altre hanno interesse nel seminare odio basato sulla paura. La paura produce denaro, produce leggi, prende la terra, costruisce insediamenti […] Ai nostri politici piace spaventarci. A noi piace spaventarci l’un l’altro. Usiamo la parola sicurezza per tappare la bocca al prossimo. Ma non si tratta di sicurezza, si tratta di occupare la vita di qualcun altro. […] L’Occupazione non è né giusta né sostenibile. Ed essere contro l’Occupazione non è in alcun modo una forma di antisemitismo. […]»

«Mi chiamo Bassam Aramin, sono il padre di Abir. Sono un palestinese, un musulmano, un arabo. Ho quarantotto anni. […] Da bambino pensavo che essere palestinese, musulmano, arabo, fosse una punizione divina. E me la portavo dietro come un grosso peso intorno al collo. Da bambino non fai che chiedere perché, ma da adulto, di chiedere perché te lo sei ormai dimenticato. Accetti e basta. Hanno distrutto le nostre case. Accetti. Ci hanno ammassato attraverso i checkpoint. Accetti. […] Ma in prigione cominciai a riflettere sulle nostre esistenze, sulla nostra identità, in quanto arabi, e questo mi portò a riflettere anche sugli ebrei. E a quel punto compresi che l’Olocausto era reale, era successo per davvero. […] Ci sarà sicurezza per tutti quando avremo giustizia per tutti. Come ho sempre detto, è un disastro scoprire l’umanità del tuo nemico, la sua nobiltà, perché a quel punto non è più tuo nemico, non può proprio esserlo. […] Abbiamo bisogno di imparare a condividere questa terra, altrimenti la dovremo condividere nelle nostre tombe. […]»

Parole che i due genitori, stretti da vera e sincera amicizia, nonché membri di movimenti e associazioni che riuniscono famiglie appartenenti a entrambi i lati della “barricata” (“Parents Circle” e “Combattenti per la Pace”), hanno iniziato a ripetere all’infinito, portandole in viaggio ovunque, anche all’estero. Perché parlare e raccontarsi significa infine condividere il proprio dolore, che coincide con quello altrui, e contribuire così a una “lotta” non violenta a dispetto di quanto invece esigono le rispettive leadership. “Non finirà finché non parliamo” recita la scritta in ebraico sul paraurti della motocicletta di Rami, ed è vero.

“Apeirogon” non è un libro semplice, la sua lettura risulta alquanto impegnativa e lo stile adottato qui dall’autore potrebbe cogliere impreparati, ma ha il grande merito di puntare il dito anzitutto contro l’occupazione, raccontata con franchezza nella propria brutale quotidianità fatta di check points, incursioni delle jeep militari, perquisizioni e umiliazioni di vario tipo (e chi ha messo piede in Cisgiordania almeno una volta, anche per poco tempo, sa bene che queste non sono fantasie da scrittori). Trattare un simile argomento equivale a camminare su un terreno minato per tanti motivi; tuttavia, penso che Colum McCann, nonostante alcune polemiche dopo l’uscita del volume, lo abbia affrontato con onestà; il risultato è un’opera coinvolgente e di assai ampio respiro che può dare il proprio valido contributo alla conoscenza di quanto realmente avviene in Palestina e smuovere, di conseguenza, la coscienza dell’opinione pubblica in generale. Affinché nessun bambino sia più l’inerme bersaglio del fucile di un soldato, al pari di una cisterna piena d’acqua, e nessuno debba più saltare in aria per mano di quella premeditata follia suicida che non potrà mai essere la soluzione all’ingiustizia e all’oppressione. Perché anche il soldato che preme il grilletto e i kamikaze imbottiti d’esplosivo, come sottolineano gli stessi Bassam e Rami, sono vittime dell’intero sistema di guerra perenne. Una lettura decisamente consigliata!

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    20 Giugno, 2021
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Tè in compagnia

Pubblicato nel 2013 dalla casa editrice Giunti, questo libro si propone con un titolo assai infelice che, di primo acchito, trasmette un messaggio non corretto in merito al contenuto dell'opera, di certo non classificabile come romanzo rosa. Il titolo originale, "Together Tea", infatti, risulta di gran lunga preferibile a quello imposto maldestramente all'edizione in lingua italiana dal momento che il tè in questione non è soltanto quello offerto a un potenziale marito nell'ambito di possibili nozze combinate, ma è anzitutto quello – come emerge a poco a poco nel corso della narrazione – del più autentico rituale di accoglienza della tradizione persiana, lungi da reconditi scopi matrimoniali, così come finisce per essere anche il tè che una madre desidera prendere in compagnia della propria figlia diventata ormai una donna adulta.
L'autrice, Marjan Kamali, ha origini iraniane e vive da lungo tempo negli Stati Uniti. In questo suo romanzo d'esordio racconta una storia per la quale, seppur di fantasia, potrebbe aver tratto ispirazione anche dalle sue stesse vicende personali, essendo probabile che abbia conosciuto l'Iran del dopo shah.

Sullo sfondo della multietnica New York, metropoli che l'ha accolta tanto tempo prima, la famiglia Rezayi si è rifatta una vita lavorando duramente dopo essere fuggita dal regime degli ayatollah, e considera ormai gli Stati Uniti come una seconda casa; in Iran sono rimasti i lutti e le macerie della disastrosa guerra contro l'Iraq di Saddam Hussein, nonché le delusioni della rivoluzione tradita.
Mina, la figlia più giovane, a venticinque anni non ha abbandonato i suoi sogni d'artista, mentre Darya, sua madre, non rinuncia all'idea di trovarle un marito, ostinandosi a organizzare incontri con rispettabili uomini iraniani della diaspora, tutti prescelti dai calcoli dei suoi fogli elettronici. Come succede in genere a chi è emigrato, Mina s'interroga sulla propria identità e sente la sua esistenza come in bilico tra due culture molto diverse tra loro, tra un Occidente e un Oriente la cui poesia è andata in apparenza perduta.

"[...] Una parte di lei era sempre rimasta legata al suo luogo di origine, come sospesa. E se il paese e la storia che i suoi genitori amavano fossero stati ancora sepolti là? E se fosse riuscita a recuperarli? Aveva sempre desiderato conoscere l'Iran in cui era cresciuta sua madre, anziché quello da cui erano dovuti fuggire. Avrebbe potuto ritrovarlo e ricostruirlo da adulta?[...]

Per sua madre la nostalgia di casa è una certezza:

"[...]Una parte di Darya si era sempre vergognata della nostalgia dell'Iran. Come mai sentiva la mancanza di un luogo pieno di leggi spietate e di tristezza infinita? Perché non c'erano solo quelle [...]. Perché la poesia esisteva ancora. [...] E perché quel posto era casa. Casa sua. [...]"

Il desiderio di ritrovare affetti e legami spezzati, così come qualcosa di sé in patria, porterà d'improvviso le due donne a fare ritorno per un breve soggiorno in Iran, dove le regole della Repubblica islamica sono sempre state dure da sopportare. Il viaggio sarà occasione per ripercorrere le vicende passate attarverso un lungo flashback e, nel contempo, iniziare a fare i conti con una imprevedibile sorpresa. Le due coprotagoniste, madre e figlia, ognuna con il proprio modo di vedere la vita frutto di generazioni ed esperienze differenti, animano alla perfezione una trama in cui trovano giusta collocazione anche altri personaggi, da quello di Parviz, padre e marito di larghe vedute, a quello di Bita, amica d'infanzia dallo spirito ribelle che nemmeno da adulta desiste dallo sfidare le vessazioni fondamentaliste, da quelli delle amiche del ristretto circolo matematico di Darya, a loro volta immigrate, a quello della nonna Mamani, scomparsa tragicamente sotto i bombardamenti di Teheran.

A dispetto dei tanti stereotipi e pregiudizi tuttora esistenti, l'altra grande protagonista di queste pagine è immancabilmente l'affascinante terra di Persia (sebbene parte delle vicende narrate si svolga in America), con i minareri e le cupole delle sue spettacolari moschee, la silenziosa maestosità delle rovine di Persepoli, i profumi penetranti delle spezie, l'antica poesia dei suoi ghazal, il grande desiderio di libertà della sua gente di cui si fa portavoce l'ottima scrittura della Kamali.

Un libro davvero molto bello che conquista e coinvolge il lettore, sia per la storia in sé che per l'abile stile narrativo. Un romanzo che parla di sentimenti, di famiglia e dell'importanza delle radici. Lettura consigliata!
In anni più recenti, Marjan Kamali ha pubblicato un secondo romanzo, “The Stationery Shop”, di cui al momento, stando al sito della scrittrice, esistono soltanto le versioni olandese e britannica. Quando apparirà la traduzione italiana, si spera vivamente in un titolo più proponibile e aderente all'originale rispetto a quello dato a “Together Tea”...

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    06 Giugno, 2021
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Un "artigiano del logos"

Trovato per puro caso mentre curiosavo tra gli scaffali della mia nuova biblioteca comunale, ho deciso di prendere in prestito e mettere subito in lettura questo piccolo Adelphi che mi si è presentato, neanche a farlo apposta, proprio dopo aver terminato la lettura di una breve, ma gran bella raccolta di prose di Konstantinos Kavafis ("Una notte a Kalinteri", Edizioni Via del Vento).
Fino a poco tempo fa, quindi, non avevo mai letto niente di questo celebre autore greco, nato e morto ad Alessandria d'Egitto (1863-1933), il cui corpus poetico è costituito da centocinquantaquattro testi più un discreto numero di liriche rimaste a lungo segrete per volontà dello stesso Kavafis. Postuma fu la prima silloge, datata 1935.

"Un'ombra fuggitiva di piacere", a cura di Guido Ceronetti, al quale si deve una pregevolissima traduzione dalla lingua greca, racchiude poco meno di quaranta poesie che seguono una sequenza cronologica dal 1899 al 1931. Pagine intense che accompagnano il lettore nel mondo del poeta alessandrino, tra scorci della città natale ed echi di storia e glorie passate, dove i temi della poetica kavafiana s'intrecciano seguendo proprio “un'ombra fuggitiva di piacere” che diviene sostanza e realtà, come recita la lirica dal titolo “Mezz'ora” da cui è stato estratto il titolo di questa pubblicazione:

"Mio non sei mai stato né mai sarai,
Credo. Fu l'altro ieri:
Uno sfiorarsi al bar, dirsi qualcosa,
Niente di più; e già la pena provo
Del rimpianto, confesso. Ma c'è talvolta
In noi dell'Arte, di mente tale eccesso
Che un'ombra fuggitiva di piacere
Trasformiamo in sostanza, ne facciamo
Realtà palpabile. Così fu al bar,
L'altro ieri: complice in me una
Ubriacatura misericordiosa,
In rapimento erotico ho vissuto
Per mezz'ora, assoluto...
[…]"

In “Terra ionica”, altro notevole testo, ritroviamo addirittura gli antichi dei:

"E sradicati i loro simulacri
Dai loro templi li scacciammo. Eppure
Non fu morire, questo, per gli Dei.
Perché t'amano ancora, o terra ionica,
Perché in loro, ombre, è la vita
Del tuo ricordo, ancora
D'agosto, quando il mattino t'irrora,
[...]"

Sono tanti i versi che colpiscono per la loro profondità e che spesso richiedono più di una lettura; l'incertezza dell'amore e del godimento erotico, così come l'inesorabilità del tempo che fugge, l'amarezza della solitudine e altro ancora vi trovano spazio attraverso un linguaggio talvolta privo di edulcorazioni di sorta, tratteggiando al tempo stesso un ritratto affascinante di questo “artigiano del lógos”, secondo la definizione data da Ceronetti.
Sempre a firma di quest'ultimo, chiude il volume "All'accendersi delle candele", un bellissimo testo che, a mo' di breve racconto, merita davvero di essere letto e che, nel mio caso, contribuisce ad accendere la quinta stella!

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...altre poesie di Kavafis, ma non necessariamente.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    02 Giugno, 2021
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Poesia tra i pensieri

Sono pensieri che si fanno poesia, quelli che l’autrice campana Elisabetta Panico taglia e cuce in questa sua pubblicazione, “Diavolo di sabbia”, edita da Mnamon all’inizio dello scorso anno. Pensieri che raccontano l’interiorità di chi scrive, così come sprazzi della sua quotidianità fatta di abiti affrancati dai dettami della moda e “memoria che non ricorda”, dando vita, proprio come anticipa la quarta di copertina, a un dialogo con il lettore che viene presto catturato dall’intreccio di interrogativi e riflessioni che si susseguono.

“Hai già scelto la persona che ti vedrà morire?”
“C’è chi scrive di un amore che non sa provare.”
“Io mi piaccio con gli anni indefiniti che porto.”

Alcuni colpiscono per il loro essere lapidari e disarmanti, come diverse domande e sentenze esclamate a bruciapelo, mentre altri si concedono un più ampio respiro in cui emergono considerazioni profonde che rimandano al senso dell’esistenza.

“E poi,/ ci si abitua./ A sorridere, /a rioccupare spazi,/ a farne parte in qualche modo/ nuovo./ Ci si abitua/ anche/ a non avere/ e a quel che si ha./ A quel che vorremmo/ e nel tempo/ da vigliacchi lasciam dormire./ Ci si abitua/ ad abituarsi […]”

Un io, quello dell’autrice, che si muove tra le parole con disinvoltura e garbo, fissando attimi, immagini, sensazioni sullo sfondo di stagioni cariche di colori ed emozioni della vita qui dipinta anche attraverso la spontaneità di qualche parallelismo erotico o di inattese conclusioni che strappano un sorriso amaro.

“Con gli anni/ più che della morte/ cominciavo a preoccuparmi/ della pensione.”

Dunque, una scrittura minimalista, priva di fronzoli letterari, caratterizza queste pagine che offrono una lettura sì scorrevole, ma che invita spesso a soffermarsi con maggior attenzione, nonché ad ascoltare una voce poetica piuttosto originale. Classe 1995, la Panico si è laureata all’Accademia di Belle Arti di Napoli; la sua prima raccolta poetica s’intitola “Il riflesso del mondo, in una pozzanghera nel fango” (BookSprint Edizioni, 2016).

“Son nata nella terra più erotica al mondo:/ Dove la visione del tradizionale caffè che “sale”/ sembra narrarci il raggiungimento del piacere...”

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    01 Giugno, 2021
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Nulla abissale

Pubblicato nel dicembre del 2005, questo volumetto dedicato a Fernando Pessoa fa parte della collana «Acquamarina» del catalogo delle Edizioni Via del Vento, una piccola casa editrice con sede a Pistoia che proprio quest'anno festeggia ben trent'anni di attività (www.viadelvento.it). La collana, purtroppo cessata nel 2012, propone testi scelti e in nuova traduzione di grandi poeti stranieri del XIX e XX secolo.

"Sono fluito e altre poesie" è una breve raccolta che dà la possibilità di approfondire la conoscenza dell'opera di Pessoa, così come si rivela eventualmente anche un'ottima base di partenza per iniziare a leggere il famoso autore portoghese nato e morto a Lisbona (1888 – 1935), vissuto durante la giovinezza in Sudafrica e noto pure attraverso diversi eteronimi (Ricardo Reis, Bernardo Soares, etc.) che finirono per scandire l'esistenza di una personalità davvero molto particolare.

Il volumetto (a cura di Susanna Mati, che firma in chiusura un'interessante nota al testo, e con traduzione di Ivana Adelekê Araujo Belnuovo) racchiude ventidue liriche in larga parte inedite ai lettori italiani; composte negli anni tra il 1930 e il 1934, esse appartengono pertanto al periodo più tardo della produzione pessoana e offrono senza dubbio una lettura affascinante e complessa. Versi, questi di Pessoa, dai quali emerge un vero e proprio “movimento” – per riprendere le parole della curatrice della pubblicazione – “assoluto-nichilistico, volto al nulla abissale”, mentre il poeta s'interroga su che cosa egli abbia fatto della vita, “pensata, mal vissuta...”, che non fa che “trascorrere/ come un fiume senza correre."

Tra i vari testi significativi di questa piccola ma preziosa raccolta, riporto il seguente, datato 16 luglio 1934 (pag. 24), che mi ha particolarmente colpita:

[Ho in me come una bruma]

Ho in me come una bruma
che nulla è, né contiene
nostalgia di cosa alcuna,
o desiderio di qualche bene.

Essa mi avvolge
come una nebbia
e vedo rilucere l'ultima stella
sopra la punta del mio portacenere.

Ho fumato la vita. Come fu incerto
tutto quanto ho visto o letto!
E tutto il mondo è un gran libro aperto
che in lingua ignota mi sorride.

Fernando Pessoa

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... altre poesie di Pessoa e a chi ama la Poesia in generale.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    19 Mag, 2021
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Divina Roma!

Primo della trilogia dei cosiddetti romanzi della rosa insieme a "L'innocente" e a "Trionfo della morte", "Il piacere" è uno di quei libri che richiederebbero fiumi d'inchiostro e su cui si potrebbe discutere a lungo. Fu un vero successo editoriale quando venne pubblicato, mentre oggi sembra trascurato, se non addirittura intenzionalmente evitato a causa dei pregiudizi ormai ben radicati nei confronti della figura del suo autore (pure su questo i fiumi d'inchiostro non mancherebbero).
Eppure, per chi ama la scrittura dannunziana, "Il piacere" è un romanzo dal fascino indiscutibile che si conserva intatto anche nel caso in cui lo si rilegga a distanza di tanti anni, come ho fatto io.
Gabriele d’Annunzio, nella giusta considerazione della sua arte e dell’epoca cui apparteneva, rimane un grande maestro di stile nella poesia così come nella prosa. Mirabile la caratterizzazione dei personaggi, voluttuose le descrizioni delle alcove degli amanti, impietose quelle dell’aristocrazia di fin de siècle, decadente e annoiata dalle proprie miserie morali.
Al pari del giovane esteta Andrea Sperelli, Roma è l’altra grande protagonista di queste pagine con le sue piazze e fontane, i suoi palazzi storici, le vedute dal Pincio, i suoi tramonti e le notti d’infinite malinconiche stagioni, la struggente bellezza dei paesaggi dell’anima… Divina Roma!
Chi li cerca, può trovarli ancora lì, quegli stessi luoghi (come, per esempio, Palazzo Zuccari in prossimità di Trinità dei Monti), sebbene appesantiti dal tempo e dai frastuoni dell’oggi, ma pur sempre immersi nella poesia della città eterna.
Un romanzo, a mio avviso, da riscoprire.

"Il verso è tutto. Nella imitazione della Natura nessuno strumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario,moltiforme, plastico, obbediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della ce-ra, più sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più fragrante d’unfiore, più tagliente d’una spada, più flessibile d’un virgulto, più carezzevole d’un murmure, più terri-bile d’un tuono,il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi mo-ti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e pene-trare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale,l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo posse-dere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto."

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    16 Mag, 2021
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Vedova allegra

Si è rivelata davvero molto coinvolgente e, per certi versi, anche piuttosto divertente la lettura di questo breve romanzo di Jane Austen, un libriccino che avevo in libreria da tanto tempo e non mi decidevo mai a leggere!
La forma epistolare ben si adatta alla trama che, sullo sfondo dell'alta società inglese a cavallo tra la fine del XVIII e il principio del XIX secolo, mette in luce intrighi, perfidie e ipocrisie tutt'altro che improbabili in quegli ambienti. Perfetto il personaggio della protagonista, Lady Susan, fresca e consolabile vedova che vorrebbe accasare la giovanissima figliola con il miglior partito disponibile sulla piazza e, in verità, persino se stessa. Si resta di stucco leggendo in che termini parla della povera ragazza, alla faccia dell'amore materno:

"Altre madri avrebbero insistito [...], ma io non mi sono sentita di imporre a Frederica un matrimonio contro il volere del suo cuore, e invece di adottare una misura così drastica, ho semplicemente fatto in modo di renderle la vita insopportabile, cosicché sia lei ad accettarlo di sua volontà. Ma adesso basta con questa fastidiosa ragazza."

Il colpo di scena finale, come narrato, dopo una quarantina di lettere, da una voce fuori campo che non disdegna un poco di ironia, strappa un sincero e doveroso "Chapeau"! Onore all'intelligenza meschina e all'abilità spudorata di questa donna che, di certo, sa bene ciò che vuole e, soprattutto, come prenderselo.
Pubblicato postumo, il romanzo rientra nella produzione giovanile dell'autrice e, come già sottolineato da altri lettori con cui concordo, può essere un validissimo punto di partenza, anzitutto in virtù della sua brevità, per iniziare a conoscere la scrittura della Austen.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    14 Mag, 2021
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Stelle

Sì, l'autore è proprio lui: Giuseppe Tornatore, regista di Nuovo Cinema Paradiso (Premio Oscar nel 1990) e di altre famose pellicole di successo. Sebbene lui stesso lo definisca “romanzo” nella sua introduzione, questo libro, in verità, sa poco di romanzo e tanto di sceneggiatura: chi ha visto il film omonimo, infatti, non tarderà a riconoscere, capitolo dopo capitolo, l'identica suddivisione in scene del lungometraggio attraverso numerosi dialoghi e una scrittura descrittiva asciutta e veloce che scorre via dando proprio l'idea di una serie di fotogrammi.
In genere, si sa, sono i film a nascere dai libri, ma in questo caso – come il regista/scrittore precisa – è accaduto esattamente il contrario: pubblicato nel 2016, il libro La corrispondenza è tratto dal film uscito quello stesso anno. Per chi come me ha amato la versione cinematografica della storia d'amore tra Ed e Amy, il maturo astrofisico e la giovane studentessa della medesima disciplina che si mantiene facendo la stuntwoman, non potrà che apprezzare anche queste pagine, ritrovando tra le parole scritte tante emozioni e riflessioni suscitate dalla visione del film.
E sembrerà così di rivedere anche i volti degli attori che hanno interpretato in modo magnifico i due protagonisti (Jeremy Irons e Olga Kurylenko), i quali vivono una relazione clandestina a distanza che, a un certo punto, sembra sfidare incredibilmente le leggi del tempo e dello spazio. Un legame che resiste alla morte. Una storia affascinante, difficilmente riassumibile, che incanta il lettore/spettatore, anche se il libro non presenta, in definitiva, particolari pregi letterari. Un testo che consiglio di leggere, forse, solo dopo aver visto il film per poterlo apprezzare meglio.

“Possiamo continuare a vedere le stelle morte benché esse non esistano più. Anzi è proprio la loro disastrosa fine a rivelarcele...”

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    07 Ottobre, 2020
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Racconti dal Pakistan

Pubblicata nel 2018 da Bertoni Editore, la raccolta dal curioso e suggestivo titolo “L'albero delle quaglie” offre una piacevole lettura che porta molto lontano, addirittura fino in Asia, in un paese forse letterariamente qui non ancora troppo esplorato. I venticinque racconti di cui si compone il libro, infatti, sono ambientati per buona parte in Pakistan (o con esso trovano un legame), il cui nome per noi occidentali sembra evocare anzitutto un'area geo-politica fragile e complessa in cui si agitano miseria e fanatismo religioso che trovano spazio di tanto in tanto tra le cronache internazionali. Al di là di questo, tuttavia, esiste anche molto altro.
L'autrice, Elena Nicolai, ha saputo trasmettere in queste pagine il fascino d'una terra antica, dove tradizione e modernità sembrano fondersi insieme senza dolore apparente, ricomponendo memorie di viaggio e forse di vita sul posto attraverso una scrittura senza dubbio bella e scorrevole che non manca di coinvolgere sufficientemente il lettore con le sue sfumature poetiche e profonde riflessioni.

“L’uomo non può viaggiare da solo. [...] Non si viaggia da soli. La solitudine frena, indebolisce, spaventa. Non si viaggia soli. O almeno, non si dovrebbe arrivare mai soli. Eppure per brevi tratti o con altre rotte è bellissima, la voragine dell’ignoto, il confine dei propri limiti che si dilata a coprire la necessità. Il sollievo di una parola, scambiata o appresa, il sollievo di un legame iniziato, sospeso, sofferto o gradito. Ma a certi porti non si dovrebbe arrivare soli, non è previsto. E il peso del greve bagaglio non riuscirà mai a pareggiarsi, né con un balzo il corpo sfiderà il ridicolo del calcolo, del presupposto, di un ennesimo bilancio.”

Una prosa a tratti molto affascinante, nella quale, d'improvviso e quasi per incanto, compaiono eleganti aquile che fanno il nido nel cemento o il verde acceso di un pappagallino sulla spalla di un ragazzo, così come si materializzano le case dei villaggi nascosti nella gola della montagna, dove i bambini sono “colorati di terra e miseria”, e si spandono nell'aria profumi di tè zuccherato e di spezie o, ancora, l'odore inequivocabile dell’hashish; racconto dopo racconto, si animano le strade caotiche di Islamabad e quelle fangose di Lahore, ma anche i sentieri della campagna giallo verde lungo cui procedono gli asini appesantiti dai loro carichi, mentre i paesaggi scorrono via veloci e desideri di partenze s'intrecciano e confondono in un tempo talvolta senza tempo.
Scolpita nel silenzio immoto e solitario delle montagne, la gente locale, custode dell'antica poesia dei luoghi che fanno da sfondo a questi racconti, resta come avvolta da un velo di mistero, in contrapposizione agli stranieri che sembrano correre, andare di fretta e violare, in un certo qual modo, quel mistero e quel silenzio.
Una interessante lettura consigliata a chi ama i racconti e si appassiona al tema intramontabile del viaggio (reale e interiore).

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    01 Agosto, 2020
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Poesia sufi

Bellissima raccolta di poesie di tradizione sufi, questa pubblicata pochi mesi fa dalla piccola casa editrice laziale FusibiliaLibri nella nuova collana “resine”, dedicata ai poeti dal mondo. L’autrice è l’egiziana Manal Serry, originaria del Cairo e da decenni residente in Italia, dove è mediatrice socio-culturale e presidente dell’associazione Ibdart Peace che promuove lo scambio artistico tra i popoli mediterranei dando così un importante contributo alla costruzione della pace.
Tradotta ora per la prima volta in Italia, la poesia della Serry (che ha firmato anche altre raccolte in lingua araba) dona a chi vi si immerge la profonda emozione del misticismo arabo che si interroga su quello che è “il fine ultimo e nascosto” dell’Io. “Iside ha segnato il mio tempo” è un viaggio tra le sfumature di aurore e tramonti, tra sussurri, silenzi, sguardi che accarezzano il cuore o lo squassano con l’impeto rovinoso delle tempeste di sabbia; un viaggio lungo il quale si assapora l’arsura del vento del deserto e la freschezza delle acque del Nilo, mentre la memoria si smarrisce nel tempo fra le note estatiche di un flauto incantatore d’anime.

“Il sentiero è infinitamente lungo/ e le sue colonne sono oscure./ Dalla sommità delle montagne/ l’universo intero apre le braccia./ Il vento trasporta le lacrime in lontananza/ della stessa trasparenza delle stelle./ […] Le mie dita scivolano tra i raggi/ e arano con strade di sangue/ un cuore colmo di pentimento/ per averti amato/ e per essermi scissa dentro te.”


Carichi d’intensa spiritualità, i versi di Manal Serry danno vita a una silloge di raro incanto che sembra seguire le orme dell’anima, impresse e forse anche smarrite su una terra di papiri e “fierezza faraonica”. Come scrive la scrittrice e giornalista Antonella Rizzo, alla cui direzione è stata affidata la collana “resine”, è “alla quintessenza del principio creatore” che la Serry si rivolge, ma nulla impedisce di leggere questi versi in chiave diversa, più “umana”, pensando che essi esprimano un sentimento d’amore, che in ogni caso eleva lo spirito, nei confronti di una persona.

“[…] La memoria si smarrisce in un passato lontano/ quando cercavo solo te, senza tregua./ Tu sei l’uomo che manca al mio tempo. […]”

Sebbene dall’inizio degli anni Duemila si parli molto di Islam purtroppo per motivi di cronaca, il sufismo, che ne rappresenta la corrente mistica e affonda le sue radici già nei primi secoli in cui, tramite le inarrestabili conquiste arabe verso est e ovest, si diffuse il messaggio coranico, resta un tema per lo più di nicchia, particolarmente complesso, benché affascinante, pure per i cultori della materia. Sufi, dunque, è il mistico musulmano, così chiamato per via degli indumenti di lana ruvida indossati dai primi asceti (la parola araba s?f, infatti, significa “lana”). Questo genere di scrittura si presenta con i toni di una preghiera che si rivolge in maniera incessante al divino, mettendo in luce in modo particolare il senso di distacco e di lontananza: “Tu mi vedi? Mi ascolti? Mi senti?” pare gridare l’autrice, sentendosi talvolta sprofondare nell’inquietudine della solitudine, così come in un mare agitato colmo di lacrime, e non riuscendo a spogliarsi di quell’amore che continua a dimorare sotto la pelle.
Questa pubblicazione, che riconferma la consueta cura editoriale da parte di FusibiliaLibri, il cui marchio accompagna opere di grande qualità, è un piccolo grande gioiello che, a sua volta scrigno esso stesso, custodisce anche la misteriosa e feconda armonia di una femminilità non certo sconosciuta, malgrado tutto, alla cultura arabo-islamica.

“Io sono Iside, la tua adoratrice/ che con le sue ali risuscitò il cuore e la tua vita./ Il tuo animo erra dentro il mio mare afflitto./ Ho arato per anni il tuo terreno/ affinché al tuo corpo venisse ridato/ lo spirito della passione.”



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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    14 Luglio, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Un caso di omicidio del 1947

Ci porta negli Stati Uniti di fine anni Quaranta il bel romanzo “Black Angel”, pubblicato all'inizio di questo 2020. L'autore, Franco Porchetti, attivo nel mondo della scrittura già da diversi anni anche come ghost writer, ha dato vita a un noir ben strutturato e coinvolgente che sa incuriosire e catturare il lettore fin dalle prime battute.
La vicenda narrata, in effetti, colpisce subito per la sua ambientazione geografica e temporale – la Los Angeles del 1947 – e ruota intorno a un efferato caso di omicidio che si verificò realmente e di cui resta traccia nei rapporti ufficiali della polizia e nella stampa dell'epoca. Non a caso, la voce narrante del romanzo è quella di un giornalista di cronaca nera che, all'indomani del ritrovamento del corpo orrendamente mutilato di una giovane e bellissima donna, inizia a svolgere una propria indagine parallela a quella della polizia, scavando nel passato della vittima anzitutto attraverso una serie di lettere reperite inaspettatamente. Spregiudicato e abile a muoversi tra la redazione e le scene del crimine, nonché a ottenere utili informazioni dagli stessi ambienti investigativi, quello del protagonista si rivela un personaggio piacevole da seguire e molto ben costruito, al pari di quello di Angela Frost, la ragazza assassinata, soprannominata nel suo quartiere “Black Angel” e oggetto del desiderio di numerosi uomini, persino particolarmente altolocati; insomma, una "femme fatale" in piena regola a cui certi giochetti di seduzione sono infine risultati fatali, e non solo a lei.
Lettura scorrevole e stile narrativo coinvolgente, per non parlare della qualità di scrittura davvero impeccabile. Psicologia, erotismo e anche umorismo, addirittura alti riferimenti letterari, vengono dosati dall'autore con grande bravura in queste pagine. Ho apprezzato molto il romanzo; soltanto alla fine il modo di svelare l'ultimo mistero mi è parso un po' frettoloso, cosa che, tuttavia, non impedisce di valutare l'opera più che positivamente.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    14 Luglio, 2020
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Un ottimo giallo

Appassionante e geniale: se qualcuno mi domandasse di riassumere in due sole parole il romanzo “La doppia spirale” di Massimiliano Cardella, ecco quelle che utilizzerei! In fin dei conti, che altro si chiede in genere a un buon giallo perché possa essere considerato tale, se non di saper coinvolgere e stupire il lettore? Se poi a ciò si unisce una scrittura curatissima sotto ogni aspetto, allora ci troviamo di fronte a un ottimo giallo.
Pubblicato lo scorso anno dalla ZeroUnoUndici Edizioni, questo libro, che mette insieme forma e sostanza di alta qualità, si presenta fin dalle prime pagine come un'opera davvero eccellente. E non è cosa di poco conto, considerata la superficialità (anche linguistica) spesso riscontrabile di questi tempi. Di grande talento si rivela la penna dell'autore che dà vita a una trama che, in più punti, offre veri e propri colpi da maestro.
Una New York ricca tanto di luci e colori quanto di ombre fa da sfondo alla vicenda che prende avvio da un incidente d'auto in tarda ora per poi proseguire attraverso la successione di capitoli mirabilmente strutturati; anche i personaggi risultano molto ben caratterizzati, da quello che appare come il protagonista a quelli per così dire secondari, tutti perfettamente funzionali alla storia narrata. Il caso di Tuesday, l'astutissimo serial killer che firma delitti di macabra violenza ai danni di donne sole, sa tenere banco in modo avvincente e spettacolare, mentre la realtà s'intreccia e si confonde, a insaputa di chi legge, con una dimensione non meno reale che si svelerà soltanto nell'inatteso e originale colpo di scena finale, segno inequivocabile di una scrittura matura e dalle solide basi che non lascia nulla all'improvvisazione e che dimostra, in definitiva, come non sia necessaria la spettacolarizzazione eccessiva e quasi morbosa del sangue su cui puntano alcuni, con tanto di dettagli truci, per conquistare i lettori: è tutto il resto che fa la differenza.
Cinque stelle e lode!

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Poesia italiana
 
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    09 Luglio, 2020
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Buionero

È una scrittura semplice, ma profonda e piacevole, quella che Daniele Funaro offre al lettore con la silloge “L'ennesimo angolo”, pubblicata lo scorso febbraio dalla casa editrice abruzzese Daimon Edizioni. A dare il titolo all'intera raccolta è una delle sue poesie più significative, la quale evoca i limiti e le difficoltà dell'esistenza, ma allo stesso tempo anche “una nuova luce” che illumina inedite strade da percorrere.

“[...] D'improvviso/ un silenzio ancestrale,/ ai miei mille perché nessuna risposta./ Ed ecco, una nuova luce/ si accende,/ illumina uno spazio,/ quello spazio,/ l'ennesimo angolo della vita.” (da “L'ennesimo angolo”)

E di ennesimi angoli l'esistenza si rivela, inaspettatamente, non avara, come se essa fosse fatta di tanti nuovi inizi, pur in quell' “assoluta incertezza” di cui è intrisa la certezza di ogni singolo giorno vissuto. Tra i versi di Funaro affiora così un'interiorità che sente il peso dell'umano vivere, un io in bilico che deve fare quotidianamente i conti con il silenzio e il “buionero” dell'anima, così come con i ricordi e le emozioni nascoste che giungono all'improvviso lungo il “tortuoso cammino umano”; e mentre l'amore scalda cuore e pensieri, riempiendo pagine di vita, quella sorta di varano dell'anima che esiste in ognuno continua a vivere, “quasi dormiente”, dietro la bellezza di un sorriso o la serenità che si respira al cospetto dei colori della sera.
Narratore di se stesso, l'autore intreccia abilmente silenzio e frastuono, ombra e luce, animando un diario poetico intimo che porge a chi legge con raffinata spontaneità d'artista. I suoi sono testi che, pur nella propria semplicità lessicale, richiedono riletture attente e non superficiali; pagine intense e dense di immagini (alcune, peraltro, particolarmente suggestive), attraverso cui l'inquietudine e “l'agonia di ogni giorno” si fanno spesso palpabili.
“L'ennesimo angolo” è una bella pubblicazione, la seconda di Daniele Funaro, poeta nato all'inizio degli anni Settanta a L'Aquila, città in cui tuttora vive e dove si è diplomato in Scenografia presso l'Accademia di Belle Arti.

“[...] Alla sera si rimanda/ l'intimità col proprio cuore,/ […] Sono varie e sottili/ le sfumature con le quali/ ognuno di noi/ tinge di colore/ il proprio buionero/ quella fugace porzione di tempo/ illuminato dalla nostra sola coscienza.” (da “Buionero”)

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