Opinione scritta da Antonella76
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Preziose cicatrici
Yoshie è un sopravvissuto.
Era ancora un bambino quando, insieme a suo padre, si trovava a Hiroshima il giorno in cui fu sganciata la bomba atomica.
Era solo un bambino quando si è ritrovato, senza più un padre, in quel luogo, in quel nulla senza contorni, in cui "tutto era mescolato con tutto".
Era solo un bambino quando, poco dopo, la bomba su Nagasaki si portò via il resto della sua famiglia.
Non rimase più nulla.
"Sua madre e le sue sorelle erano irrintracciabili persino come morte: smisero di esistere due volte".
Yoshie cresce con gli zii, studia e poi cerca di cominciare un'altra vita...e passa tutta la vita a cercare di cominciare altre vite, cambiando continuamente luoghi e persone (da amare), cercando un posto dove poter risultare irraggiungibile a se stesso, dove poter seminare i ricordi, nella speranza di cancellare tutte le cicatrici, ben visibili e ramificate sulla sua schiena e nell'anima.
Parigi, New York, Buenos Aires e Madrid.
Rispettivamente Violet, Lorrie, Mariela e Carmen.
Le città che lo hanno accolto e le donne che lo hanno amato...e perso.
Sono loro che ci parlano di Yoshie, ci raccontano di un uomo silenzioso, solitario, uguale e sempre diverso.
Un uomo a cui manca sempre qualcosa.
E quel qualcosa forse lo troverà molti anni dopo, quando, ormai anziano, si deciderà a tornare in Giappone...e il terremoto/tsunami del 2011, con la conseguente esplosione della centrale di Fukushima, lo obbligherà a fare i conti con tutte le cicatrici che si porta addosso (e dentro) sin dall'infanzia.
Capirà che la soluzione non è nasconderle, queste cicatrici, ma come insegna il Kintsugi, impreziosirle con l'oro...perché ciò che ha subito un danno, ed è sopravvissuto, è ancora più prezioso, più importante.
E lui dovrà cercare il suo oro nei luoghi semideserti delle zone evacuate vicino Fukushima , dove, dopo tanti anni, ritroverà quel "silenzio" che non è semplicemente mancanza di rumore, ma un silenzio specifico, di scomparsa simultanea, un silenzio che è totale assenza.
Pagine dense, dalle quali traspare il lavoro immenso che c'è dietro.
Eppure...nonostante l'interesse per il tema trattato e nonostante la bravura di Neuman (di cui ho apprezzato moltissimo "Parlare da soli", "Le cose che non facciamo" e "Vite istantanee"), ho trovato questo libro a tratti noioso.
Forse il mio limite, perché sicuramente è un limite mio, sta nel fatto che questo non è solo un romanzo, è anche un po' un saggio, indagine giornalistica, ricerca storica, politica, antropologica...mentre io forse cercavo principalmente il risvolto psicologico di un uomo che ha passato la vita a cercare di ricomporre i pezzi della sua identità, di sanare quella frattura interna che lo ha segnato nel suo cammino attraverso un secolo e un mondo ferito.
Comunque un libro importante, che prende posizione e non lascia indifferenti.
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Notti insonni e latte caldo...
Un meraviglioso romanzo sulla perdita...o meglio su quello che arriva dopo, su come procedere "nonostante", sulla possibilità di andare avanti.
Su quanto possa essere diverso il modo di affrontarla, da parte di chi rimane, e su quanto possa essere importante trovare un appiglio per non affondare, per non annegare nelle domande senza risposta, soprattutto quando la persona amata (e perduta), che credevi di conoscere benissimo, ha coscientemente scelto di porre fine alla propria vita.
Così, all'improvviso.
Mirko.
Bambino difficile e studente brillante.
Mirko e le notti insonni con suo padre e il latte caldo.
Mirko e la natura, Mirko e l'amore per la montagna.
Mirko e Caterina.
Mirko e quella maledetta ultima notte di Capodanno.
Preparativi in corso per un cenone che non c'è mai stato...
Non sarà però Mirko il fulcro di questo romanzo, ma i suoi frammenti, ciò che lui ha lasciato dietro di sé, intorno a sé...dentro le persone che lo hanno amato.
“Le notti blu.
Questo gli ha lasciato, suo figlio.
Notti insonni in cui farsi del latte caldo che non può nemmeno bere.
Le notti blu.
È un bel modo di chiamarle, dopotutto.”
Michele e Larissa, padre e madre che si trascinano da cinque anni, uniti, dentro un dolore che non dovrebbe esistere, che non si può reggere, e che, se non uccide, lascia per sempre dentro una quotidianità dai contorni sfocati, dove è impossibile trovare pace.
Il dolore della perdita di un figlio non si allevia con il tempo, ma si moltiplica.
“Mirko Mirko Mirko Mirko. Non c’è modo di svuotarlo, questo nome. Farlo diventare un suono che assordi meno, un peso che si sollevi un po’, per un momento.”
Cosa fare, allora, di fronte alla possibilità di una luce che filtra, di fronte alla vita che irrompe inaspettata?
C'è chi non può fare a meno di capire, conoscere, scoprire, cercare in quella scia luminosa le risposte mai arrivate, cercare sotto altre forme, per altre vie, parte di quell'amore perduto.
Ed emozionarsi ancora.
E poi c'è chi si chiude, non vuole vedere, non vuole sentire, non vuole credere, non accetta la possibilità che le persone amate siano diverse da come hanno sempre immaginato.
Per paura di soffrire ancora. E ancora.
Una scrittura bellissima, asciutta, secca, bruciante...come ciò che racconta.
Un libro che fa male, ma che si apre al domani, al futuro, all'amore che vive e che sopravvive.
Sempre.
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La possibilità di un amore impossibile
Limpido, pulito, morbido...questo libro è stato esattamente così, sotto tutti i punti di vista, della storia e della scrittura.
Arpino è pacato nello scegliere le parole, niente slanci o voli pindarici, esattamente come il suo protagonista, Antonio, un uomo medio, direi proprio mediocre, uno di quelli che si lascia vivere, che non chiede, non pretende, non si fa domande.
Uno che non morde la vita.
E che non ha mai "osato" nulla.
Impiegato quarantenne, impegnato in una relazione scialba, incolore, priva di amore e di qualunque interesse, ma che procede placida, sospinta dall'inerzia che governa ogni sua giornata.
(Spesso, durante la lettura, ho avuto l'impressione di essere con un altro "Antonio", quello nato dalla penna di Buzzati in "Un amore"...).
La scrittura è chiara, pulita, proprio come il sentimento che lega Antonio a Serena, la giovane suora appena ventenne che non vuole prendere i voti, e che dopo un lungo gioco di sguardi e di attese alla fermata del tram, gli chiede affetto, tempo e parole.
Parole pronunciate piano su un pianerottolo buio, di notte, attraverso un uscio semiaperto...
La possibilità di un amore che germoglia proprio nella sua impossibilità.
Un amore sussurrato che giorno dopo giorno invade ogni pensiero.
Per la prima volta nella sua vita Antonio "vuole" qualcosa, e per la prima volta si troverà nella condizione di dover agire, prendere una posizione, decidere.
L'atmosfera del libro è soffusa, morbida, anche durante i tormenti di Antonio...
Ogni pagina è caratterizzata da una luce livida, crepuscolare...in una Torino degli anni '50 fredda e scura.
Un racconto tenero, ma intenso e trascinante, pieno di poesia.
Arpino, grande scoperta per me (tardiva, lo so).
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Tormentato, possessivo e spregiudicato
IL DIAVOLO IN CORPO (Raymond Radiguet)
La lettura di Japrisot ("La cattiva strada") mi ha portato inevitabilmente a questo romanzo...
I libri sanno sempre come concatenarsi, praticamente decidono per te.
Anche Radiguet (come Japricot) scrisse questo libro non ancora diciottenne, ed anche lui ci racconta una storia di amore e di passione non socialmente accettabile a cavallo della Guerra Mondiale, stavolta la Prima.
Una storia forse parzialmente autobiografica, che vede nuovamente protagonisti un adolescente ed una donna più grande (benché la donna in questione abbia solo 18 anni, ma agli inizi del '900 era considerata già "adulta").
Stavolta niente tonaca per lei, ma un matrimonio ed un marito al fronte, e poi ancora il desiderio e la sfrontatezza che non viene meno neanche di fronte ai giudizi della gente, e poi di nuovo la guerra a fare da "complice" alla felicità degli amanti.
Radiguet scrive di un amore tormentato, sorpendentemente possessivo e spregiudicato se si considera la situazione e la condizione del ragazzo, un sedicenne con l'intraprendenza e il cinismo di un uomo maturo e l'egoismo smisurato proprio della sua giovane età.
Una storia intensa e intensamente tragica, dove ho percepito uno strano squilibrio ed una forma di amore "sottomesso" da parte di lei che, personalmente, ho trovato poco credibile.
Comunque un romanzo audace e, considerando gli anni in cui è stato scritto e quelli del suo autore, non mi sorprende fosse considerato scandaloso.
Purtroppo appena due anni dopo aver scritto quest'opera, Radiguet morì di febbre tifoide, a soli 20 anni...il ragazzino capace di scrivere come un adulto, il ragazzino amante di Stendhal, Rimbaud e Proust, il ragazzino fondatore (con Cocteau) della rivista d'avanguardia "Le Coq"...non diventerà mai un uomo.
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Credi nella vita...
Japrisot, appena diciottenne, scrive, negli anni '50, questa storia proibita, scandalosa:...la storia di un amore, di una passione bruciante, tra un ragazzino di 14 anni ed una suora di 26.
Lo scontro tra etica e sentimento, tra morale e pulsioni, nonché tra religione e desiderio, percorre tutto il libro, senza che si riesca a trovare un punto d'incontro, senza che si riesca a decidere quanto sia lecito difendere l'amore ad ogni costo.
Ma inevitabilmente tu, lettore, vuoi questo amore.
Io sì, di sicuro.
Forse perché i due grandi "ostacoli", ovvero la differenza d'età (che qui sconfina nel reato!) e la tonaca di lei, vengono messi in ombra da una considerazione importante: lei, suor Clotilde, ha 26 anni, è vero, ma è come se ne avesse quattordici come Denis, non ha mai vissuto veramente, non ha mai scelto nulla, tantomeno la vita monastica che le è stata imposta dalla famiglia fin da bambina...non conosce la vita, non sa cosa sia l'amore.
Eppure quando se lo ritrova davanti lo sa riconoscere, nonostante si senta dilaniata dai sensi di colpa, verso Denis e verso Dio, lei riconosce questo sentimento che non le dà scampo, un sentimento prepotente, immorale, che le invade ogni pensiero...e che la fa sentire, per la prima volta, viva.
Impaurita, inesperta, terrorizzata...ma viva!
E piano piano inizia a combattere la sua personalissima guerra contro l'abito che indossa, contro la rabbia dei genitori di lui, contro i giudizi della gente, la cui cattiveria raggiunge vette inenarrabili.
"Dio è morto? Esiste qualcun altro oltre a noi? A noi due insieme? Dio è morto.
Esistiamo solo noi."
CREDI NEL TUO DIO SE PUOI,
MA CREDI SOPRATTUTTO NELLA VITA.
SE LA TUA VITA DIMENTICA IL TUO DIO,
TIENITI STRETTA LA VITA.
SE IL TUO DIO TI IMPEDISCE DI VIVERE,
ABBANDONA IL TUO DIO.
LA TUA VITA È L'UNICA COSA CHE HAI
E, CHIUNQUE TU SIA,
IL TUO DIO NON È IL MIO.
Un romanzo fatto di dettagli, dall'erotismo appena accennato e mai volgare.
Sullo sfondo la Francia occupata dai tedeschi, il pane razionato, la fine della seconda guerra mondiale, il rigidissimo ambiente scolastico gesuita, il freddissimo ambiente famigliare in casa, l'amicizia sigillata a suon di botte e quella che salta in aria con le mine...
Scrivere tutto questo a 18 anni è prodigioso.
Leggerlo è un vero piacere.
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Anatomia emotiva...
Un libro poetico, triste e disperato, dove la cura e la scelta delle parole delineano alla perfezione la forma del dolore, il suo colore, la sua voce.
Parole precise, compresse, prosciugate come sangue rappreso su una ferita...così come prosciugato è il corpo della protagonista, custode di una disperazione muta.
Ossa di bambina offerte in cambio di un barlume di vita, di uno sguardo, un fiato e un calore che possa ricordarle, anche solo lontanamente, quello dell'uomo chiuso nella stanza di sopra, immobile, senza più promesse, senza più parole, senza.
Suo padre.
Lui che le ha tradite (lei e sua madre) sdraiandosi in quel letto per non alzarsi più, che ha smesso di fare colazione, di andare al cinema, di bere vino rosso, di essere padre, marito...impedendo a lei, Ester, di poter continuare ad essere sua figlia.
Non ci riesce più. Non sa come farlo.
Non riesce ad oltrepassare la soglia di quella stanza in cima alle scale.
È rimasta imprigionata nella bambina che è stata, che per 5 anni, per soli 5 anni, ha conosciuto la felicità.
Ed ora che di anni ne ha 15, e sente il peso schiacciante di quel corpo inerme caduto dal ponteggio, cerca di usare il suo (corpo) per liberarsi e insieme proteggersi dal vuoto che la attraversa come vento freddo, attraverso baci senza significato, mani distratte che la esplorano, toraci forti in cui affondare la testa, concessioni indesiderate che la rendono ancora più fragile.
Io non so se posso considerare questo libro un romanzo, forse potrebbe sembrarlo, ma non lo è.
È l'anatomia emotiva di una ragazza che vede la propria famiglia disgregarsi e, quasi come forma di ribellione, riproduce questa disgregazione dentro di sé.
La voce che si sprigiona dalle pagine è roca, impastata, lenta...
Un libro che ho sentito sottopelle, che mi è "arrivato" attraverso tutti i sensi.
- La vista...subito, nell'incipit...la scalinata di casa che, ad un certo punto della giornata, verso le sei di sera, è ancora illuminata dal sole, ma porta con sé già l'ombra e la malinconia della giornata che finisce.
Un'immagine che ha tutto il sapore del Sud, sapore di casa.
- L'olfatto...la stanza di sopra con il suo odore stantio di malattia, di medicine, di vita che si è fermata.
- Il gusto...che Ester non ha più. Non mangia più perché nulla ha più sapore.
-Il tatto...attraverso le mani e il corpo degli uomini a cui Ester concede se stessa, sperando quasi che possano riuscire a trovare dentro il suo corpo quella scintilla di vita che lei non sente più di possedere.
-L'udito...nella scena finale che non vi dirò.
Che esordio...?
La Postorino mi era già piaciuta molto ne "Il corpo docile".
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Chi si perde e chi si ritrova
Ci sono due donne...molto diverse fra loro, per età, storia, lingua, nazionalità, ma legate allo stesso uomo, figlio di una e compagno dell'altra,
Due donne che in qualche modo si specchiano...
...e mentre una si perde, l'altra si ritrova.
Mentre Annie (ottantenne affetta da demenza senile) dimentica parole, volti, nomi...Alessandra (quarantenne con un passato irrisolto) si scopre a pronunciare i vocaboli in dialetto della sua terra, riaffiorano ricordi e immagini della sua infanzia, seppelliti da troppi anni insieme al rancore verso suo padre.
È come se, dopo aver perso sua madre, Alessandra avesse deciso di diventare orfana di tutto il suo passato.
Si può scappare da un luogo, ci si può allontanare dalle persone, chiudere i rapporti famigliari, ma mai seppellire la propria storia.
Quella torna. Torna sempre.
Il cervello di Annie, invece, vorrebbe restare e non ce la fa...è diventato come una grande casa, in cui, a poco a poco, si spengono tutte le luci, fino a quando non si resta al buio.
E allora, cosa rimane di noi quando perdiamo noi stessi?
Chi siamo quando i ricordi svaniscono?
Cosa si salva?
...i "residui di sé", la percezione di un'affettività e una familiarità ineffabile.
E poi resta l'amore, quello che va oltre la malattia, oltre l'assenza di memoria.
E più Annie perde contatto con la realtà, più Alessandra ha bisogno di appigli.
Più Annie smarrisce la sua identità, più Alessandra sente il bisogno di ritrovare la propria.
Più in Annie si propaga il vuoto della memoria, più Alessandra cerca di colmare quello lasciato dalla morte di sua madre.
Una si sgretola e l'altra raccoglie i pezzi, tenendoli insieme per ricostruire la vita di chi non riesce più a raccontarla e per ricostruire se stessa.
Tema delicatissimo, che la Marzano maneggia con rispetto e profondità, con levità e attenzione, lasciandoci addosso quegli interrogativi che tendiamo a non porci, almeno fino a quando la vita non ci impone di farlo.
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Pesante e dispersivo
Subito, senza giri di parole: non mi è piaciuto, per niente.
Dopo 340 pagine e 8 mesi (ebbene sì) sono ancora qui a chiedermi cosa avrà voluto dire l'autrice con questa storia (quale storia?!? non c'è una storia!) e sto ancora aspettando che accada qualcosa.
Confuso, senza inizio né fine, senza ritmo, stancante, noioso e ripetitivo.
Sono stata tentata di abbandonarlo più volte, l'ho messo da parte per leggere altro, poi l'ho ripreso, lasciato, ripreso...volevo arrivare in fondo, perché sono testarda, e anche per capire il motivo di questa mia insofferenza nel leggerlo.
Le premesse erano buone...ovvero quanto il passato, l'infanzia e la famiglia di origine (in particolare la storia dei nostri genitori) riesca ad influenzare la nostra "età adulta", la formazione del nostro Io.
La protagonista è una donna di 48 anni, omosessuale, sposata con una donna (in carriera) che ama, è una scrittrice, ma per sua scelta anche colei che si prende cura della casa e dei loro due bambini.
Il 90% della narrazione si concentra sul suo affaccendarsi per riuscire nell'impresa di crescere questi figli, col terrore di non esserne all'altezza...probabilmente a causa di suoi traumi infantili che cerca di analizzare tra il fare la spesa, infilare gli stivaletti alla figlia e trovare le forbici per dissossare il pollo...
Viene fuori che da piccola ha sofferto di cisti ossee al braccio (congenite o da trauma?), che la madre, attualmente colpita da demenza senile, abbia subito molti aborti (e conseguenti depressioni) e che lei porta il nome di una sorellina nata morta.
Il coming out della sua omosessualità è stato un momento duro e difficile da metabolizzare per suoi genitori, e tremendo per lei che ha visto vacillare il suo rapporto con l'amato padre.
Insomma gli ingredienti sono tanti e tutti buoni...ecco perché non mi capacitavo di non riuscire ad apprezzare questo romanzo.
Ne deduco che il problema non sia stato il cosa, ma il come.
Non mi è piaciuto il modo, lo stile, la scrittura, la struttura...
Peccato.
(Magari dico una stupidaggine, ma su di me ha avuto lo stesso effetto de "Le Correzioni" di Franzen...pesante e dispersivo, incapace di procurarmi alcuna emozione. Glaciale nella sua bravura.)
Spero con tutto il cuore che sia stato un episodio circostritto a questo romanzo, perché desidero leggere il suo "Chiedi perdono"...
Vedremo.
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Frammenti
Mi sono avvicinata a questo libro perché era in corsa per lo Strega (cerco di capire la scelta delle varie candidature)...ed ora che non lo è più, sento di poter affermare che sarà un grande assente.
Meritava di più. E soprattutto più visibilità.
Una scrittura piena, in eruzione.
Si sente che ogni parola non è stata messa lì per caso, che è il risultato di un lungo processo di scelta, di cura del dettaglio.
La struttura del romanzo è originale, Vaccari ci parla di un prima e di un dopo, lasciando un buco nero centrale, dal quale ci fa inghiottire per gradi.
Le descrizioni...di Marassi, del cibo, di Milano...sono pazzesche; io confesso di non amarle molto in generale, ma non posso non ammettere che siano fatte in modo strepitoso.
Ma è la maniera in cui affronta la perdita, il rifiuto della stessa, la sua non-elaborazione, ciò che mi ha più colpito.
Vaccari è riuscito ad indagare un dolore senza essere minimamente sentimentale, ma riuscendo a farti percepire esattamente il senso di smarrimento e disperazione di chi si ritrova privato di una parte importante di sé.
Sì, perché Ferdinando e Patrizia, pur essendo in due, in realtà costituivano un unico "sé", e non in senso propriamente romantico...ma come se avessero paura, timore di affrontare la vita, incapaci di guardare fuori dalla finestra delle proprie abitudini, incapaci di muoversi autonomamente nel mondo come singole entità.
Loro si bastavano.
Si alimentavano della loro routine.
Si saziavano dei loro gesti sempre uguali.
Si realizzavano unicamente nella gestione della loro rosticceria...anche questa, come loro due, chiusa alla modernità, sostenitrice della tradizione, immune al cambiamento, luogo per "i patiti dell'antiquariato gastronomico".
Si sentivano sicuri solo dentro le regole e i doveri che si erano autoimposti all'inizio, e ripetuti meticolosamente ogni giorno, tutti i giorni.
Sempre uguali negli anni.
Ossessionati da un amore, il loro amore, chiuso, solido come una roccia, eppure estremamente fragile, bisognoso di proteggersi da qualunque cambiamento che potesse rompere gli equilibri.
Ferdinando, alle soglie dei 50 anni, lo fa...chiede una boccata d'aria fresca, un'uscita fuori dai binari prestabiliti...rigorosamente insieme per carità, ma lontano dal quotidiano.
Solo due giorni.
7 e 8 Dicembre. Milano. Una vacanza.
Ecco la paura.
La paura di scoprirsi diversi, di avere voglia di altro, di guardarsi intorno, di stupirsi, di ritrovarsi cambiati, di non riconoscersi più.
Rimanere saldi, non lasciarsi entusiasmare troppo, questa è l'unica vera regola.
Un mantra da ripetere e ripetere.
Ma Ferdinando e Patrizia sono destinati ad esplodere, a diventare frammenti.
Una mano li prende e li scaraventa lontano.
Per la prima volta, lontani.
Soli.
Un romanzo denso di significati, in cui c'è tanto (perfino la distopia)...dall'analisi del rapporto di coppia al terrorismo, dalla paura del cambiamento all'importanza dei valori (primo fra tutti il lavoro), dalla normalità del quotidiano alla spettacolarità mediatica, dal privato al pubblico, dall'amore alla morte.
Un libro potente, dove il senso di vuoto e di perdita (dell'amore, delle abitudini, delle certezze, del senso d'identità) deflagra come un'esplosione.
Una bomba quando meno te l'aspetti.
Poi...i frammenti...
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Spazi di intimità da preservare...
Ovvero...
...quella parte di noi che teniamo custodita nel profondo, e che non vorremmo mai affiorasse in superficie, che non riusciamo ad affrontare, a raccontare, ma che continua ad esistere, nonostante l'imbarazzo.
È un libro che parla di "spazi di intimità da preservare, nascondigli per azioni incoerenti, fughe, sguardi, libertà particolari, il trucco che nasconde l'evidenza, pozze in cui saltare a piedi scalzi, regali senza mittente, errori, vendette. Persone amate."
È un libro che dà voce a chi è capace di reinventarsi, a chi non ha paura di trasformarsi attraverso il rapporto con gli altri, a chi si domanda quanto è disposto a cedere di se stesso, di quella sua metà oscura, nel difficilissimo gioco della reciprocità.
È un racconto a più voci, esistenze sempre in bilico tra la difficile realtà quotidiana e le illusioni, quelle illusioni necessarie a sopravvivere, perché sono bugie raccontate (a noi stessi) per prolungare i sogni quando non si è disposti ad ammettere la disfatta.
Il personaggio di Matilde, maestra in pensione e badante per necessità, mi ha insegnato che bisogna saper indossare tanto gli abiti quanto i difetti, gli anni e i pensieri, quelli giusti, quelli capaci di farci sentire bene dentro la nostra esistenza, che non sarà mai perfetta, ma almeno che sia di una misura comoda.
Mi ha fatto capire l'importanza di percepirsi come degni di amore, a dispetto di tutto, a prescindere dall'età e dalle condizioni (madre, moglie, nonna, vedova), anche di fronte ad un passaporto ed una valigia già pronti e mai usati.
Perché non sempre è necessario barattare i sogni con la verità.
Non serve a nessuno.
Un romanzo bellissimo, denso di malinconia e di amarezza, pieno di solitudini e di sogni infranti.
(Bellissime le pagine sulla situazione delle badanti straniere in Italia...toccanti ed illuminanti.)
Paola Cereda (grande scoperta che approfondirò) riesce a dare spazio e corpo a tutti i personaggi del suo romanzo (compresa Torino), anche quelli apparentemente secondari hanno una loro tridimensionalità e diventano protagonisti nell'impeccabile intreccio di vite che la scrittrice ci ha mirabilmente donato.
Ognuno, con i propri affanni e con le proprie debolezze, partecipa al grande quadro della vita nella sua impossibilità di essere vissuta senza ombre.
Abbiamo tutti una fotografia nella tasca della giacca, una cartolina sotto la calamita del frigorifero, affetti dimenticati o da dimenticare.
Abbiamo tutti diritto "a vivere per essere felici almeno un po', e a morire per non essere infelici per sempre".
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Ipnotico e sensuale
Due soli aggettivi: ipnotico e sensuale.
Ti lascia addosso una sensazione impalpabile come il leggerissimo tessuto di cui tratta, delicato e raffinatissimo.
È come se, anziché leggere questa storia, io l'avessi solo percepita, come un'esperienza sensoriale, un viaggio alla fine del mondo, dove "l'inspiegabile spettacolo, lieve, della vita" può essere osservato sulla superficie dell'acqua di un lago.
È la storia di un uomo che ha l'atteggiamento di chi non ha il coraggio di vivere davvero la propria vita, ma solo guardarla da lontano.
È la storia di un amore, anzi...di due: uno conosciuto, silenzioso e tenace nel tempo, ed uno sconosciuto, inarrivabile, sfiorato e mai vissuto.
Si può morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai?
Non c'è altro da aggiungere, il resto bisogna "viverlo" leggendo...
Non sono una grande conoscitrice di Baricco, precedentemente avevo letto solo "Oceano mare" che, dopo un iniziale spaesamento, mi aveva molto affascinata, coinvolta, incantata.
Qui ho ritrovato le stesse sensazioni rarefatte, la stessa prosa asciutta, ma anche poetica...che spesso si ripete, si avvolge su se stessa, quasi come un mantra.
Percepisco in lui la capacità di usare le parole come un musicista fa con le note...
Un racconto emozionale e suggestivo che, proprio come la musica, non si può descrivere, ma solo sentire (e non con le orecchie).
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Dolore, tra rabbia e religione.
Ho iniziato a leggere questo libro divorando le prime pagine, trovando un autore capace di descrivere il dolore come pochi, uno disposto a mettere in discussione tutto, persino Dio, per cercare di capire il perché accadano certe cose...ma da un certo punto in poi ho capito che mi stavo sbagliando, tutti i dubbi e le domande (scomode) della prima parte erano solo il pretesto per elaborare una tesi cristiana volta a confermare la volontà di Dio.
Da diario intimo e personale, bellissimo nella sua tragicità, si è trasformato in un noioso saggio religioso...e lì mi ha perso.
Lewis si sposò a cinquant'anni con una donna di nome Helen, che morì per un tumore alle ossa non molti anni dopo il matrimonio.
Queste pagine sono dedicate al dolore che la sua morte ha provocato in lui, al ricordo di lei, ma soprattutto alla religione.
La perdita della persona amata gli provoca smarrimento, paura, attesa...attesa che succeda qualcosa.
Si sente spogliato di tutto, del suo passato, e anche di tutte le cose che non hanno potuto fare insieme.
L'assenza di lei si stende sopra ogni cosa...come il cielo.
Si ritrova senza appigli se non quello della fede (lui è fortemente cristiano, grazie a Tolkien di cui era grande amico) che però sente vacillare, vivendo questa "separazione" come la volontà di un Dio cattivo, sadico...
"Mi dicono che H. ora è felice, mi dicono che è in pace.
Da dove traggono questa certezza?
? Perché è nelle mani di Dio?.
Ma se è per questo, lo era anche prima, nelle mani di Dio, e io ho visto quel che esse le hanno fatto qui."
Con il tempo questa disperazione, questa rabbia si sgonfia...e lui torna a pensare che l'unico modo per salvarsi, e continuare a vivere senza di lei, sia tornare a lodare il Cielo e lodare Dio...
Personalmente ho trovato tanto interessante la prima metà, quanto noiosa la seconda.
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- sì
- no
Le 6:16...per sempre
Oh Ida, Ida, Ida...
Ida che è rimasta bloccata, ferma alle 6:16 di una mattina dei suoi 13 anni.
Ida che non è mai cresciuta.
Ida che non ha mai superato la perdita del padre, facendone un'ossessione.
Ida che, forse, non ha mai perdonato sua madre per non essere morta di dolore.
Ida che non ha mai perdonato se stessa per non essere riuscita a salvarlo, per non averlo saputo trattenere, per non essere stata abbastanza importante...
"Non vuoi sapere che sono diventata grande, non ti interessa?, chiedevo, e nessuno rispondeva".
Suo padre non è morto, non ha lasciato una tomba su cui piangere, non ha detto loro neanche una parola...è solo andato via, in compagnia della sua depressione, senza fare più ritorno.
Via da lei, da sua moglie, dalla loro casa, dai suoi libri, dalla sua vita che non voleva più.
E loro due, mamma e figlia, non sapendo come riparare quel dolore, hanno deciso di "abitarlo"...non parlandone più, non pronunciando più il suo nome, evitando di creare una tomba fatta di parole e di pianti, e riuscendo, in questo modo, a far sì che la sua bara fosse dappertutto.
Ida ha fatto della "mancanza" la sua galera, barricandosi nella paura e negandosi la possibilità di essere libera, schiava di un'unica immagine ricorrente: un uomo, una sveglia ferma, una cravatta, una bava di dentifricio sul lavandino...
Fino al giorno in cui, per mezzo di un ragazzo, per mezzo di un altro dolore, un dolore estraneo ed ingiusto, non riuscirà a piangere tutto quello che non ha mai pianto, a dire addio a ciò che aveva segretamente custodito per ventitré anni...e a far spostare la lancetta di un minuto.
Le 6:17...finalmente.
Un libro che ho sentito nella testa e nella pancia.
È stato un viaggio intenso, un viaggio all'interno di un dolore non mio, un dolore che non conosco, ma di cui ho sentito il peso.
Chapeau.
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La realtà attraverso gli occhi di uno che corre...
Difficile dire di cosa parli questo libro...un po' romanzo, un po' autofiction, un po' cronaca, un po' saggio filosofico.
Covacich si mette a nudo e diventa protagonista di se stesso...o forse solo "veicolo" per parlarci di altro.
Lui corre, nonostante la scoperta di un problema cardiaco, non riesce a rinunciare ai suoi chilometri, alle sue scarpe da corsa, al piacevole contatto con il tessuto tecnico dell'abbigliamento sportivo, e se pur con un'andatura più tranquilla, ci porta con sé per le strade di Roma Nord e nei suoi pensieri, nei suoi ragionamenti.
Troviamo i senzatetto che si stordiscono nel vino a buon mercato per arrivare a sera, gli spritz e i lupini consumati in un bar del Villaggio Olimpico, gli zingari con i loro accampamenti, i lavavetri e i loro modus operandi, i topi, gli alberi, le donne...
Covacich prende la sua vita e ne estrapola momenti, donandoci riflessioni, storie, appunti, domande.
Perché il ragazzino in gita scolastica precipita dal balcone dell'albergo?
E perché lui riesce a percepirne quasi il sollievo?
Il cane legato alla catena, soffre? Oppure si sente padrone assoluto e soddisfatto del suo mondo che finisce esattamente dove lui riesce ad arrivare?
Siamo davvero come alberi, piantati a caso uno accanto all'altro?
Siamo davvero così soli?
Sarà vero che la morte arriva solo quando la vita decide di lasciarle un po' di spazio?
Ma, soprattutto, chi è quell'uomo che di notte fuma in casa sua e che vede soltanto lui?
L'alter ego dell'autore si materializza in una sorta di Zuckerman grasso, nudo e osceno.
Un libro che si assapora piano.
A volte spietato, ma anche dolce e ironico.
Reale e realistico, ma ricco di iperboli mentali.
Una lettura che non presenta nessun cedimento, nessun momento noioso, che ci fa guardare la realtà circostante attraverso un filtro nuovo, attraverso occhi attenti e indagatori.
Covacich si conferma, per me, un acuto osservatore del nostro vivere quotidiano, un uomo che non ha timore di ammettere le proprie debolezze, i propri limiti e in grado di trasformare qualcosa di molto intimo in qualcosa di molto universale.
Un libro senza una storia, ma pieno di storie.
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La verità ci lascia nudi...
La Cenciarelli ha scritto un libro in cui non salva proprio nessuno, ha costruito dei personaggi indigesti con il "peggio" degli uomini e delle donne e li ha fatti interagire fra loro, dando vita ad una sorta di esperimento sociale in cui tutti perdono.
La verità è che puoi essere intelligente, indipendente e realizzata quanto vuoi, ma se soccombi psicologicamente ai giochetti infami di uomini anaffettivi senza dignità alcuna, allora hai perso.
La verità è che puoi essere brillante, fascinoso, seducente e colto quanto ti pare, ma se ti manca il coraggio delle tue azioni e se sei affetto da machismo con degenerazioni narcisistiche, allora hai perso.
La verità è che puoi essere stata ferita, stare dalla parte della ragione e urlare la tua sete di giustizia al mondo con tutta la voce che hai, ma se per farlo sei disposta a giocare sporco, allora hai perso.
In queste pagine tutti perdono tutto, chi la dignità, chi il lavoro, chi la vita...
Quanto più sei rigido nei confronti del mondo, quanto più rifiuti di prendere coscienza del tuo corpo, tanto più andrai in frantumi al primo tocco.
Quanto più cerchi di coprire le tue fragilità con spesse coperte di cinismo e distacco, tanto più ti ritroverai nudo, a terra, tremante e ghiacciato dalla stessa freddezza che hai sempre elargito al tuo prossimo.
Quanto più cercherai di usare la debolezza altrui, tanto più sarai usato...e umiliato.
Una legge del contrappasso che non perdona nessuno.
Un libro che parla di vendetta, di odio, di potere, di malattia e di malaumanità.
Un libro che parla dei nostri limiti, oltrepassando i quali, rischiamo di ritrovarci nudi, indifesi, e di guardare in faccia quella parte di noi che ci fa paura perché non sapevamo neanche ci appartenesse.
Estremamente realistico, nel senso proprio di un realismo portato all'eccesso.
E la scrittura è schietta, diretta, apparentemente semplice, ma dura...esattamente come coloro che popolano il libro.
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Piccoli frammenti...
Sembrerebbero dei racconti, ma non lo sono.
Si tratta di piccoli frammenti di situazioni vissute, annotazioni, immagini che passano veloci, riflessioni, ricordi, sogni...
Brevissime considerazioni a volte nostalgiche, a volte ironiche e sarcastiche, a volte oniriche, a volte cupe.
Sempre argute.
Piacevoli e scritte bene, con la semplicità e l'eleganza che lo contraddistingue.
Sono come delle pilloline (di tre pagine l'una)...così piccole che vanno giù anche senz'acqua.
Perdibili?...per qualcuno forse sí, ma non per me.
Per me Carofiglio vale sempre la pena, anche in questo formato "piccoli pensieri in libertà".
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Il diritto agli spazi felici...
"Ogni spazio felice è figlio o discende da separazione."
(Rilke)
Questo è un libro sull'amore, ma soprattutto un libro sulla resistenza dell'amore.
Amedeo si ritaglia degli spazi felici solo quando si separa da se stesso, dalla sua vita, dalla sua realtà fallimentare, ed inizia a immaginare storie, vite alternative alla sua, atti di eroismo, amori dolcissimi e travolgenti...
Sono dei piccoli spazi tra abisso e luce, tra felicità e disperazione.
Possono durare 5, 10, 15 minuti al massimo...poi rientra in se stesso, torna ad essere un sessantaquattrenne in pensione, sposato da 20 anni con Ada, alcolizzata, padre adottivo di Sonia, incinta e abbandonata dal futuro padre, e di Alex, morto a 13 anni.
Sarà proprio la morte di Alex a sfaldare l'unità familiare, come spesso accade il dolore divide invece di unire, o come in questo caso...isola.
Dal quel momento ogni componente della famiglia si spezzerà, si ripiegherà su se stesso e cercherà di elaborare il lutto chiuso nella propria stanza di dolore.
Ma mentre Amedeo (con i suoi rimpianti) e Sonia (con i suoi amori sempre sbagliati) provano a rialzarsi, Ada non ce la fa...
Preferisce abbruttirsi, annientarsi, per non sentire più nulla.
Sempre chiusa in casa, in vestaglia, sempre con la bottiglia in mano e una parola cattiva per tutti.
La sua condizione si alterna tra...sbronza, non ancora sbronza, già sbronza, poco sbronza, molto sbronza.
Amedeo, col passare degli anni, si è accontentato di guardare la moglie distruggersi, frantumarsi a poco a poco...assolvendo solo al compito di raccoglierla da terra.
Ogni volta.
E ancora. E ancora.
Chi è Alberto Schiavone? Non lo so, non lo conoscevo, ma mi è piaciuto.
Mi è piaciuto il suo modo di raccontare una storia drammatica senza essere drammatico, mi è piaciuto il suo tocco delicato, ma profondo.
Malinconico e realista.
Mai banale, senza essere sensazionalistico.
Intimo, ma non invadente.
Mi piace l'idea della fuga mentale, il diritto agli "spazi felici", anche piccoli, brevi, ma necessari per vivere un altrove temporaneo dove sentirci liberi da ogni condizionamento, pressione, responsabilità e senso di colpa.
Un rifugio per l'anima.
A volte è necessario uscire da se stessi, per potersi ritrovare.
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Il difensore dell'alba d'argento ha perso...
Questo libro è la cronaca di due solitudini che si sfiorano.
Perché la vita va proprio così, spesso ci si incontra senza vedersi, ci si scontra senza davvero toccarsi, ci si guarda senza avere il tempo di riconoscersi, e forse quel che sarebbe potuto accadere non accadrà mai.
Mathilde e Thibauld, quarantenni parigini, stanno vivendo un momento difficilissimo della loro vita: lei vittima di un mobbing spietato e crudele, lui che lascia, suo malgrado, la donna di cui è innamorato perché non corrisposto come vorrebbe.
Non si conoscono, ma per 24 ore noi seguiremo i loro passi, la loro angoscia, la disperazione di chi è troppo stanco di lottare e vorrebbe solo due braccia a cui sostenersi e una spalla su cui abbandonarsi...
Due anime disperate che soccombono sotto il peso di una vita che sembra averli abbandonati.
La De Vigan è bravissima a farci vivere tutta l'angoscia e la tensione di Mathilde, la cui storia è terribilmente attuale: dai piani alti ai gabinetti è davvero un passo, soprattutto se ti permetti il lusso, anche solo per una volta, di commettere un piccolissimo atto di ribellione, ovvero di dissentire da chi detiene il potere...anche quello di distruggerti.
La sua sarà una lotta che la consumerà nel profondo...e neanche il "Difensore dell'Alba d'Argento" riuscirà a proteggerla dall'ingiustizia subita, dall'insopportabile isolamento a cui è stata confinata.
E la descrizione che ne fa l'autrice è feroce, ferocemente esatta e dettagliata.
Fa male.
La storia di Thibauld, a mio parere, è più debole, meno incisiva.
Ma in fondo sono complementari, due voci che ci raccontano due diverse forme di dolore, quello pubblico e quello privato.
Lavoro e amore.
Un libro che ci mostra il lato più buio di Parigi, quello dei sotterranei della metro dove se non sei veloce, se non stai al passo con la folla trascinante, devi fare un salto di lato, metterti da parte...
Mathilde e Thibauld non ce l'hanno fatta, non sono riusciti a tenere il passo, hanno ceduto, lasciato la presa.
Per non morire.
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Un inciampo...
Ian McEwan mi piace, tanto.
Ho letto diversi suoi libri e continuerò a farlo, ma questo è proprio un no.
Per carità, scritto bene, benissimo (come lui sa fare), nessuna sbavatura...ma questo racconto (breve, brevissimo) mi ha lasciato veramente poco, sia in termini di originalità della storia, sia per le riflessioni scaturite durante e dopo la lettura.
McEwan per me è ben altro.
È quello che mi si è appiccicato addosso con Il giardino di cemento, quello che mi ha inquietato con Cortesie per gli ospiti, quello che ha fatto delle parole uno strumento potentissimo con Espiazione, è colui che mi ha turbato con Bambini nel tempo, è quel geniaccio che ho trovato Nel guscio...insomma niente a che vedere con questo appena letto.
E il breve saggio sull'Io che segue il racconto, sicuramente per un mio personale limite nei confronti dei saggi (in generale), mi ha annoiato.
Certo, dimostra quanto lui sia bravo a scrivere, ma questo lo sapevo già...
Forse c'era solo bisogno di pubblicare qualcosa in occasione del suo settantesimo compleanno, non so...
Insomma, un piccolo inciampo, che dimenticherò in fretta e che di sicuro non mi impedirà di continuare a leggerlo.
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Una fine che non finisce
Non credo di essere in grado di parlare di questo libro, ma posso dire cosa ho provato nel leggerlo: malessere, disagio, freddo, solitudine, fame, disgusto, disperazione...
Ho trovato gli echi apocalittici della strada di McCarthy, la fame avvolgente di Knut, la bestialità del condominio di Ballard, la disperazione dei ciechi di Saramago, la voracità dei Cariolanti di Naspini...
Tutto condensato in un paio di centinaia di pagine.
Troppo carico, troppo disperato, troppo cupo, troppo tutto.
O forse io non ero preparata a dover incassare così tanta violenza.
Esposito ha voluto raccontare la fine di un mondo che non finisce, un tempo fermo che va avanti all'infinito, un inverno senza fine che inghiotte tutto ciò che prima era "umano".
E lo ha fatto attraverso una narrazione fredda come la morte, priva di pathos, dove tutto accade perché deve accadere, senza spiegazioni, senza stupore.
Ma c'è anche della poesia in tutta questa drammaticità.
Ci presenta Giovanni, che, dopo aver perso un fratello (morto di freddo) e il padre (impazzito), inizia a vagabondare, solo e sperduto, in una terra spettrale, con la sola compagnia di un'ombra e di una voce proveniente dal buio, che pronuncia parole a lui incomprensibili, parole di silenzio che lo conducono verso il vuoto, il nulla...
Giovanni non è portatore di nessun messaggio, di nessun fuoco...sarà soltanto chiamato ad essere testimone della fine dell'umanità.
Non c'è una collocazione temporale, né geografica...tutto è sospeso, anzi...tutto è in caduta libera, fagocitato dal vuoto.
"ANCHE QUESTA FINE NON FINISCE E NON FINENDO FINISCE.
UN TEMPO SMASCHERATO TORNA A FLUIRE."
Un libro disperato e disperante, terribilmente duro.
Un esordio potentissimo, feroce e incisivo, ma che, secondo me, risente troppo del confronto con chi lo ha preceduto.
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...è pur sempre una vita
Jelloun affronta, con grande maestria, eleganza e profondità di pensiero, quello che rappresenta, forse, il più grande incubo dell'immaginario maschile: trovarsi a dover scegliere tra una vita con un tumore ed una senza, ma privati della sfera sessuale.
Una vita da impotenti.
Niente più libido, niente erezioni.
Ad un uomo di 56 anni, un matematico francese, vedovo e padre di un figlio, viene diagnosticato un tumore alla prostata e consigliata una "ablazione", ovvero l'asportazione totale dell'organo (la prostata in questo caso).
Imparare a convivere con la mutilazione (benché non visibile) di una parte di sé considerata fondamentale nella percezione che un uomo ha di se stesso, sarà un percorso difficile, insidioso, che nasce dall'incredulità, passa attraverso la depressione e il rifiuto di percepirsi "malato", si crogiola nella malinconia del ricordo e trova sbocco nello schiudersi di una nuova possibilità: una vita senza sesso, ma pur sempre una vita.
Questo libro è un viaggio dentro l'intimità di un uomo, un faccia a faccia con la malattia, un andare a ritroso nel proprio passato, ma soprattutto è la consapevolezza di dover apprendere un nuovo linguaggio.
"Stavo diventando analfabeta.
Le parole, una dopo l'altra, mi abbandonavano, se ne andavano altrove.
Non avevo alcuna presa su di loro.
Le cercavo, mi imbattevo in qualcuna di esse, poi la lasciavo lì.
Il linguaggio è spietato."
L'ablazione genererà una mancanza, non solo fisica, che s'impossesserà di ogni suo istante, prenderà posto nel letto ogni notte accanto a lui e scaverà un solco profondo nei pensieri e nel corpo.
Imparerà a non desiderare più.
Le donne abiteranno lo sfondo di un mondo nuovo, come ombre, nuvole di fumo...
"Non abiterò più il loro cuore, non prenderò più il loro corpo, non entrerò più nelle loro speranze, non mi insinuerò più nei loro progetti".
Scrittura eccellente, limpida, elegante ma anche realista, che non ha timore di fare male.
Un libro onesto, sincero, drammatico senza però mai piangersi addosso.
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I non conformisti
Connecticut, anni '50.
Cosa succede ad una giovane coppia che non riesce a comunicare?
Oggi come allora...
Un libro disperato e struggente, che urla in ogni sua frase, in ogni dialogo, in ogni descrizione, la voglia di un cambiamento, la voglia di strapparsi di dosso i comodi vestiti del conformismo e cercare una strada che sia in linea con i propri desideri, il proprio sentire, il proprio temperamento.
April e Frank sono giovani, ma hanno alle spalle una serie di fallimenti: carriere mancate, ambizioni represse, belle speranze che si sono perse per strada, nei sobborghi della periferia di New York.
Sono alla ricerca di un futuro che forse neanche loro riescono ad immaginare, ma sanno bene cosa non vogliono più.
Si scontrano, si respingono, si urlano in faccia tutta la loro frustrazione, ma continuano a cercare un equilibrio, una posizione che, per quanto scomoda, permetta loro di "sembrare" perfetti, perfettamente integrati nei ruoli che la società ha stabilito per loro.
Anticonformisti solo in apparenza.
Pronti a criticare, accusare e deridere un certo tipo di middle class di cui loro stessi fanno parte.
La soluzione sembra essere solo una: andare via, lasciare Revolutionary Road, l'America e tutti i loro sogni infranti, e ricominciare altrove, in Europa, a Parigi, per ritrovare l'entusiasmo perduto, rivedere i propri ruoli, recuperare un rapporto ormai soffocato dall'insoddisfazione.
April è decisa, combattente, pronta a tutto pur di sentirsi nuovamente viva...Frank vorrebbe essere come lei, ci prova, ma in fondo è un vile.
Poi le cose si complicano...i sogni rientrano nel cassetto e ricomincia la recita.
Fino a quando le parole apparentemente folli di un folle non rompono il muro dell'ipocrisia e tutta la facciata crolla, miserevolmente.
Quasi 500 pagine che non contengono neanche una sbavatura, un minimo cedimento, una parola fuori posto.
Dialoghi che tolgono il fiato, tra i più belli, veri e appassionati che io abbia mai letto.
Yates è spietato con i suoi personaggi, non li salva dalle difficoltà e nemmeno da loro stessi, non li consola e non consola il lettore.
Un libro che mi ha toccato e scosso profondamente.
Un libro che, da brava lettrice, avrei dovuto leggere già da tempo, ma che, come tutti i buoni libri, arriva sempre al momento giusto.
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La figlia "meno amata"
È il primo libro che leggo della Ciabatti, non ho letto (ancora) "La più amata" perché troppo influenzata dai tanti commenti (per lo più negativi) che imperversavano in quel periodo...(quando c'è di mezzo lo Strega poi, è tutto un delirio).
E non mi piace leggere quando non mi sento mentalmente libera...
Così eccomi qui, scevra da ogni pregiudizio, a parlare di "Matrigna".
Giocando un po' sui titoli (gioco facile) viene da dire che questo romanzo racconti di una figlia "meno amata".
Noemi ha nove anni quando stringe la manina di suo fratello Andrea, di sei anni, per le vie del paese durante una festa di Carnevale, mentre la loro mamma è impegnata a parlare con dei fotografi.
Ma tra i coriandoli e la confusione quella manina, chiusa in una manina di poco più grande, le sfugge...e Andrea scompare.
Da quel momento la sua vita si spezza, si ferma....passano gli anni ma tutto resta immutato, lei è condannata ad avere sempre nove anni, ad essere per sempre la "sorella di", quella testa castana inquadrata per sbaglio dalle telecamere del telegiornale...
È stata la prima ad essere sospettata, ma l'ultima di cui preoccuparsi.
Andrea era quello bello bellissimo, biondo biondissimo, amato amatissimo, quello più fragile, quello da proteggere, l'amore della mamma.
Lei dovrà farcela da sola, capirà che l'unico modo per salvarsi, per non impazzire, sarà quello di "mettere distanza" fra se stessa e quel che rimane della sua famiglia, soprattutto da quella madre che l'aveva sempre messa in secondo piano, prima ancora di essere una madre ferita e quindi "giustificata" nel suo immenso dolore.
Crescerà lontano, studierà, si innamorerà...ma continuerà a sognare il fratellino nascosto in una scatola in cantina.
Il passato torna sempre.
Ma questo non è un libro sulla scomparsa, qui la Ciabatti esplora il rapporto madre/figli, scoperchiando il tabù delle "preferenze", spauracchio di ogni madre che si rispetti.
Nessuna vuole essere sbilanciata, creare scompensi, diventare "matrigna", non nel senso di nuova moglie del papà, ma "cattiva madre".
Ci riusciamo davvero? Sono madre, mi ci metto anch'io.
Riusciamo ad amare i figli, tutti allo stesso modo?
Gli unici a cui poterlo chiedere davvero sono proprio loro, i figli.
Ma un po' per amore, un po' per pudore...non ce lo diranno mai.
(A meno che, un giorno, non diventino scrittori...)
La scrittura della Ciabatti mi ha tenuta sospesa per tutta la narrazione, spesso mi ha confusa, spiazzata...è una scrittura dal ritmo sincopato, discontinuo, il flusso di parole a volte si interrompe bruscamente, poi riprende con ritmi diversi.
Insomma, una volta iniziato non ho potuto sospenderne la lettura...non so se ciò sia dovuto ad una reale bellezza dello stile oppure per la tensione che è riuscita a provocare in me.
In ogni caso, per me è un sí.
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Libro "maschio"...
Questo è un libro maschio, scritto da un maschio cresciuto in una comunità di maschi ossessionati dal pensiero maschile di dover agire e comportarsi "da maschi".
Questa è la storia di "un" Francesco Piccolo, della sua formazione sentimental-sessuale vissuta sempre in bilico tra ciò che lui sentiva di essere e ciò che gli altri, ovvero l'occhio sociale degli uomini, si aspettavano che lui fosse.
È la storia dell'animale che alberga dentro di lui, ancora adesso.
Ogni uomo ne ha uno.
A volte si acquieta e sembra sparire, altre volte trova varchi attraverso cui manifestarsi.
È la "bestia" che vive nell'uomo, quella parte virile da sempre in lotta con quella sentimentale, la parte che non si evolve.
È un animale che fin dall'adolescenza si nutre degli sguardi degli altri maschi, delle regole implicite, tacite, del pensiero comune, stereotipato e provinciale (e meridionale), di quel mondo maschile che lo vuole assoggettato ad un certo tipo di comportamento...virile, violento, brutale.
Piccolo fa spogliare l'uomo, lo fa confessare, gli fa raccontare le sue debolezze, le sue ossessioni, il continuo oscillare tra sentirsi realizzato e potente (o come dice lui "stocazzo") e sentirsi l'ultimo degli ultimi, fragilissimo...ancora dodicenne seduto su una panchina a piangere per ore perché Federica lo ha lasciato.
A noi arriva quasi il suo senso di vergogna per essere il maschio che è, ma anche la consapevolezza di non poter essere diverso, nonostante ci abbia provato.
Alla fine, "la fame" arriva sempre...e lo fa alzare da quella panchina per andare a mangiare.
Un romanzo, o meglio un'autofinzione che è funzionale per sviluppare una sorta di saggio sul controllo collettivo, sul giudizio sociale in base al genere sessuale...e lo fa anche avvalendosi di tante citazioni letterarie ("Le tigri di Mompracen", "L'amica geniale", "Le particelle elementari", "Amore senza fine"...) , cinematografiche ("Malizia", "Il Padrino", "Before Midnight"...) e musicali (Battiato...)
Ne viene fuori un'opera che fa pensare e diverte allo stesso tempo , esplicita nel linguaggio e durissima nel contenuto.
Niente di nuovo? Forse sì, ma non importa.
Sicuramente "rischiosa", sempre ad un passo dal poter cadere nel banale, nel volgare o nel grottesco...ma, a mio parere, non lo fa.
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Chiudi quel telefono...
Quando l'ossessione amorosa si sposa con la tecnologia si entra in un vortice di follia che porterà, inevitabilmente, all'autodistruzione.
E quando accade, non c'è nulla che possa proteggere dall'idiozia, non l'intelligenza, non la cultura, non l'esperienza...niente.
Ci si ritrova danneggiati.
Disfunzionali.
Nudi...spogliati anche della propria dignità.
Prigionieri di un meccanismo perverso che mangia dall'interno, consumando tutto ciò che c'era di buono.
S'innesca una sorta di elaborazione dell'abbandono che punta a colpire l'oggetto del dolore, ma che alla fine si rivela autolesionistico e autoumiliante.
La dimensione virtuale ci priva del corpo e, automaticamente, ci svincola dalla nostra identità e dal senso di responsabilità.
Senza il nostro corpo da tutelare possiamo abbruttirci, umiliarci, perpetrare comportamenti vergognosi con tutta la consapevolezza che siano tali, ma non per questo evitabili.
"Il corpo è l'unico principio di responsabilità che abbiamo".
E spesso, alla fine, è proprio il corpo a salvarci.
Si ammala, crolla, urla, ci stordisce...ma quando meno ce lo aspettiamo ci porta via, ci mette al sicuro.
Ci salva anche da noi stessi.
Anna, la protagonista del romanzo, ci fa un po' pena, prendiamo le distanze dai suoi comportamenti deliranti, ridiamo della sua follia...ma sotto sotto sappiamo di non essere poi così diversi.
Questo libro è figlio del nostro tempo, usa un linguaggio che conosciamo bene, schietto, e non si preoccupa di sembrare volgare, perché lo è, perché lo siamo.
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Il triangolo quadrato
Piccolo libro dalle molte sfaccettature.
All'apparenza un giallo, ma più che un giallo un noir o forse un dramma famigliare...molto psicologico, con tante sfumature ironiche, quasi sarcastiche, che presenta e poi massacra una famiglia borghese argentina in tutta la sua ipocrisia.
Quel volersi aggrappare a tutti i costi all'idea che tutti gli ingranaggi del tuo matrimonio funzionino alla perfezione anche quando è evidente che il meccanismo si è ormai danneggiato.
Quel voler, ostinatamente, vivere solo "di facciata", mentendo a te stesso e al mondo intero, pur di non guardare in faccia il fallimento.
Quell'ossessione di salvare il salvabile che ti rende cieco nei confronti di una figlia che, in casa tua, proprio sotto i tuoi occhi, sta vivendo un dramma dalle proporzioni inestimabili e si ritrova sola e spaesata, costretta a diventare adulta da sola, e tu neanche te ne accorgi.
Un cinico ritratto familiare, descritto con un'ironia nera e tagliente ed uno stile incalzante.
Quello che potrebbe essere un classico triangolo (qui trasformatosi in quadrato), è solo un pretesto che la Piñeiro utilizza per dissacrare il vincolo matrimoniale, mettendo alla berlina le dinamiche coniugali e le falle genitoriali, con una scrittura brillante, vivace e pungente.
Il risultato è una narrazione piacevolissima, divertente e amara, leggerissima eppure capace di farti riflettere.
Ottimo.
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Non chiamiamolo amore...
Non chiamiamolo amore...
Questo romanzo, straordinariamente bello, non è affatto un romanzo d'amore.
Semmai è il romanzo di un amore mancato, di un'ossessione distruttiva, di una vendetta esemplare.
Ma è proprio la forza trascinante di una passione mai vissuta a fare di questo libro un capolavoro, un concentrato di sentimenti fortissimi, benché sempre negativi...portatori di cattiveria, violenza, follia.
"Lo amo e non perché è bello, ma perché egli è me, più di quanto non lo sia io stessa.
Di qualsiasi cosa siano fatte le anime, la sua e la mia sono uguali."
Eppure non basta...
Non basta per coronare quello che sembra un sentimento assoluto, totalizzante.
Non può stare con lui, ma neanche senza...fino ad impazzire.
E lui...lui che non ha radici, non ha legami, non ha nulla se non lei, soltanto lei, sempre lei...lui si devasta e si abbruttisce nella sua assenza, bramando un tormento eterno pur di non rinunciare alla possibilità di vederla ancora, e ancora sentirla...
"Resta sempre con me, prendi qualunque forma, fammi perdere il senno!
Solo, non lasciarmi in questo abisso, dove non riesco a trovarti!"
Parole bellissime...bellissime e spaventose.
Deve averla a qualunque costo, sotto qualsiasi forma e in qualunque dimensione, non importa quanto dovrà aspettare e quanto male farà a chiunque si troverà sul suo cammino prima di arrivare a lei.
Siamo oltre il confine dell'ossessione, oltre quello della follia...
Un romanzo forte, che ti fa arrabbiare, che ti travolge nella sua spirale di cattiveria, che ti fa sentire addosso il vento freddo della brughiera inglese, che ti fa venire voglia di chiudere le finestre, e che ti fa percepire tutta la triste desolazione delle stanze fredde e spoglie di Wuthering Heights...
Un libro che ti inchioda alle pagine, ma...vi prego, non chiamiamolo amore.
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Paolina guarda il mondo, appoggiata al muro...
Io, Paolina, vorrei abbracciarla, portarla a casa mia, darle da mangiare (magari le meringhe con la panna e cioccolato), farla sentire amata e dirle "tranquilla, non sei sola, adesso ci penso io a te".
Perché a 15 anni ci dovrebbe essere sempre qualcuno che si occupi di te, che ti ami incondizionatamente.
Invece Paolina, di anni, se ne sente diecimila...come una montagna.
Si sente inutile, inconsistente, indegna di chiedere, di volere, di desiderare.
"Il cavolo sotto cui è nata è subito marcito"...e a lei non resta altro che "guardare il mondo, appoggiata al muro".
Ha una madre portinaia troppo occupata a leccarsi le ferite e a rimpiangere la vita che non ha avuto, per potersi occupare anche di lei...
Ha un padre "non pervenuto", che lei aspetta per anni all'uscita di scuola e di cui cerca sempre di immaginarne il viso guardandosi allo specchio.
Paolina è incinta e sola, ha un solo giorno per decidere della sua vita, tre rose rosse (tante quanti i ragazzi con cui ha fatto l'amore) e un telefonino che non le appartiene.
Ma sopratutto possiede la forza degli ultimi, quella che le permette di essere felice anche nell'infelicità, di sentirsi necessaria nella sua inutilità.
Le sue tre rose perderanno i loro petali, appassiranno nell'arco di 24 ore proprio come i suoi fragili amori, ma la sua innocenza rimarrà intatta e proprio all'alba, in una Roma che si accinge a svegliarsi, Paolina capirà che può ricominciare solo da se stessa.
Un piccolo libro denso di significato, da centellinare e assaporare in tutta la sua bellezza e profondità.
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La fabbrica delle mogli
Romanzo del 1972 (un po' thriller, un po' fantascientifico, un po' satira sociale), ma ancora attualissimo.
Quale uomo non vorrebbe per moglie una donna bellissima, con curve mozzafiato, curata in ogni dettaglio, felicemente sottomessa, con nessun interesse e piacere nella vita se non quello di svolgere le attività domestiche e compiacere il marito?
Bene signori...andate tutti a Stepford!!!
In soli 4 mesi la vostra donna emancipata, moderna e magari anche un po' femminista, si trasformerà in una sorridente e devota pin up con lo straccio in mano!
Libro agghiacciante, dal messaggio spaventoso...che affronta con sagacia ed intelligenza un tema che è un nervo scoperto nel rapporto tra uomo e donna.
Si sviluppa generando un piacevole mix di ilarità e ansia, mix che piano piano cede il posto alla paura e al sospetto e si conclude con litri e litri di bile versata sul divano.
Ma davvero il sogno segreto dell'uomo moderno è quello di avere accanto la donna incarnata dalle pubblicità degli anni '50?
Ira Levin ci presenta una realtà in cui anche il più intelligente degli uomini non è in grado di resistere alla tentazione di cadere in un certo maschilismo che vuole la donna perfetta svuotata di ogni personalità, ambizione, pensiero personale...ma la cosa che più fa rabbrividire è che, tutto sommato, questo processo di "svuotamento" risulta essere vincente.
Sì, vince la pochezza di certi uomini, sempre se di vittoria si possa parlare quando ti ritrovi per moglie la versione plastificata ed edulcorata di una donna che un tempo possedeva anche una testa pensante.
Comunque un libro molto bello, intelligente, stimolante, ironico e nero in egual misura.
Un libro senza sbavature, di quelli che non dimenticherai facilmente.
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Tra la finestra e il mare...
Juan Pablo Castel è un pittore, s'innamora di Maria e la uccide.
Ce lo dice proprio lui già nelle prime righe del suo monologo, ma sarebbe più opportuno chiamarlo "delirio", con cui cerca di spiegarci le motivazioni del suo gesto.
Come se ce ne fossero...
Come se fosse possibile spiegare la follia, l'isolamento emotivo, il sospetto patologico, e l'incomunicabilità che alberga nella mente di un uomo squilibrato, ossessionato da un'idea di "amore vero" che lo divora e lo distrugge.
Un uomo schiavo dei suoi stessi pensieri e sentimenti, nauseato da chiunque gli orbiti intorno, abituato a vivere nella sua solitudine, all'interno di un tunnel che lo protegge dal mondo reale, ma che gli consente di osservare la vita che scorre al di là del vetro...la vita di coloro che "vivono" davvero, che ridono, piangono, amano, sbagliano, cadono, si rialzano...
Maria è lì, nel mondo reale, che osserva un suo quadro ad una mostra, e con un semplice sguardo si è posizionata esattamente dove nessuno era mai riuscito a mettersi: tra "la finestrella e il mare" del dipinto...nel punto esatto in cui lui potesse vederla, toccarla e cercare di portarla con sé nel tunnel, nel vortice dei suoi viaggi (pippe) mentali, nei sentieri tortuosi del suo amore malato, facendola diventare protagonista assoluta dei suoi pensieri e della sua ossessione.
Il monologo ha una sua logica, una coerenza tutta sua, tipica di chi non conosce la differenza tra amore, gelosia e possesso.
Si condanna e si autoassolve in nome di una solitudine esistenziale che affonda le sue radici in un passato molto lontano e a noi ignoto.
"C'era un solo tunnel, buio e solitario: il mio, il tunnel in cui avevo trascorso l'infanzia, la giovinezza, tutta la mia vita".
Il tunnel è la causa di tutto e allo stesso tempo il suo alibi, la sua giustificazione.
"Devo ucciderti perché mi hai lasciato solo".
Lei era il suo unico ponte verso il mondo.
Lui non ha avuto il coraggio di percorrerlo per uscire allo scoperto, lei non ha voluto chiudersi con lui e rinunciare a vivere...ma lui ha scelto anche per lei.
Grandissimo Ernesto Sabato.
La scrittura è profonda, elegante, spesso ironica...
Ha creato un personaggio detestabile, negativo, complesso, paranoico, folle...e ce lo ha consegnato rivestendolo di logica e dignità.
Non ci chiede nulla in cambio, né empatia, né condanne, né assoluzioni...solo di ascoltarlo.
Romanzo d'esordio dell'autore argentino, del 1948...eppure sembra stato scritto oggi.
Purtroppo.
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Vergogna sociale
Nel 1952 Annie Ernaux ha 12 anni...ed assiste a quella che sarà per lei una scena indelebile, indicibile, che le "farà prendere sciagura" e che segnerà la fine della sua infanzia, nonché la presa di coscienza del suo status sociale.
In un pomeriggio domenicale di metà Giugno, suo padre, in preda ad un attacco di rabbia violenta, tenta di uccidere sua madre.
"Non è successo niente" le diranno poi...
Ma lei non riesce a dimenticare, non riesce a raccontare, non riesce neanche a scrivere (fino alla stesura di questo libro nel 1995) quello che ha visto.
Dal quel momento in poi sentirà su di sé il peso della vergogna, intesa proprio come "vergogna sociale", come un marchio che le entra sottopelle e che la relegherà per sempre al di fuori del ceto borghese a cui lei tanto aspirava.
Inizierà proprio in quel momento il lento rifiuto delle sue umili origini, che la porterà a "tradire" la sua essenza, i suoi genitori, la loro cultura, il loro essere così ben radicati in quel "qui da noi", con la loro latrina in cortile, la volgarità di suo padre, la camicia da notte macchiata d'urina di sua madre, come a sottolineare una precisa linea di demarcazione tra ciò che sono e ciò che non saranno mai.
La vergogna di vivere secondo regole bigotte e perbeniste, dove "nulla si pensa e tutto si compie" come è giusto che sia, rispettando i tempi prestabiliti per ogni cosa: fare la comunione, fare la permanente, avere il ciclo, le calze da donna, bere vino, fumare una sigaretta, lavorare, frequentare qualcuno, sposarsi, avere figli, vestirsi di nero, smettere di lavorare, morire.
Essere persone a modo.
Pregare.
Sapersi comportare.
Pregare.
Essere come tutti.
Pregare.
Non credersi chissà chi.
Pregare.
Ma soprattutto, fondamentale, porsi sempre la domanda "cosa penseranno di noi"?...ed agire di conseguenza.
In un ambiente così chiuso, regolato e giudicato sulla base di certi codici, non c'era assolutamente spazio per la scena di quella domenica di Giugno.
Annie sente di non poter più appartenere alla categoria delle persone perbene,
i suoi occhi hanno visto ciò che non dovevano vedere...
Come sempre, nel suo stile unico, lucido e preciso, la Ernaux cerca di scrivere, senza vergogna, un libro sulla vergogna...unico punto di congiunzione tra la donna che scrive queste pagine e la dodicenne che le ha vissute...e senza il quale, forse, non sarebbe mai nato in lei il desiderio di ribellarsi al suo ambiente, il desiderio di essere migliore, il desiderio di scrivere.
Ancora una volta la Ernaux ci dona una parte di sé, una parte importante, la scintilla che ha acceso la fiamma della sua personalissima rivoluzione e che l'ha resa la donna che è adesso, una scrittrice di grande talento che fa ancora i conti col suo passato.
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Questa notte è irreparabile
Una sera d'inverno, a cena, Erri invita alla sua tavola il figlio che non ha mai avuto, da quella donna che decise di abortire...
Un figlio già adulto, che gli farà dono di una paternità inesistente e darà inizio ad un dialogo tra un uomo che non è mai stato padre ed un figlio che non è mai nato, un figlio senza infanzia, senza giochi e senza febbri.
Geppetto forgia il suo bambino con il legno, lui lo fa con quello che sa usare meglio...le parole.
Quelle parole che gli hanno permesso di dare concretezza al suo mondo, di non farlo sentire solo "una persona d'aria", inconsistente, svaporata.
Ha inizio così una sorta di confessione, un bilancio di vita, quasi un testamento...
Lo scrittore ripercorre la sua "vita scivolata", la sua infanzia in una Napoli che accetta i vizi ma non il ridicolo e la goffaggine, ricorda la durezza di sua madre, le arrampicate con il padre, i primi baci, la voglia di andare via, la militanza politica, i libri letti e quelli scritti, le paure represse, il coraggio imitato, il rapporto con le parole, con la fede, con l'amore in quanto "ossigeno", con il proprio corpo...
"Ho un corpo e sono stato al gioco di viverci dentro"
Quale gioco?...il gioco dell'oca.
Un gioco di percorso in cui si lancia un dado e ci si sposta nelle varie stazioni.
Un gioco in cui la vera libertà è quella di scegliere se lanciare o meno...
Il tavolo apparecchiato per due di questa sera è la sua ultima casella.
Vuole fermarsi e lasciare il lancio a lui, a questo figlio assente che pian piano prende forma...
Ma il suo non è un'interlocutore muto, è un figlio che risponde, che mette tutto in discussione, che contraddice.
È la sua coscienza, il suo grillo parlante, è lo specchio in cui non si vuole riflettere.
È il figlio di una sola notte che sceglie di non prendere il testimone della sua vita, che preferisce sparire nel nulla letterario da cui è nato...
"Capolinea, papà, siamo arrivati.
Non esco, rientro. Ritorno nel tuo spazio, dal quale sono uscito perché mi hai fatto posto.
Rientro nel tuo corpo.
Guarda la mia mano, si avvicina alla tua.
Ecco il braccio e il resto di me stesso che si riassorbe in te.
Ci sono quasi, mancano solo gli occhi.
Chiudili, per favore."
Un libro intimo, poetico, dall'atmosfera lieve e rarefatta...un'ipotetica gara a chi esiste di meno.
Una notte senza contorni, che nasce dal silenzio umano e prende forma in un racconto che non c'è, una notte che non si può toccare e che non resta, ma che non si può dimenticare.
"Questa notte non potrà essere tolta dal registro delle notti, fare che non sia accaduta.
È senza rimedio, come ogni azione commessa.
Questa notte è irreparabile."
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Philippe e Thomas
Philippe Besson si mette a nudo.
In questo libro autobiografico si dona completamente al lettore, non si nasconde più dietro le parole di qualche suo personaggio, ma diventa contemporaneamente autore e attore della storia.
Una storia struggente, malinconica...
Un amore giovanile intenso, difficile, pieno di tormenti e contraddizioni.
Un amore taciuto, nascosto, vissuto nella clandestinità.
Un amore omosessuale.
Philippe e Thomas si sono amati nel 1984, appena diciassettenni, in una Francia per nulla pronta ad accogliere la passione fra due giovani ragazzi.
Philippe...di famiglia borghese, destinato a studi brillanti e consapevole del proprio orientamento sessuale.
Thomas...figlio di contadini, solitario, introverso, e terrorizzato all'idea di essere quello che è.
Al riparo dagli occhi della gente, chiusi in un cinema, in una cameretta o in un ripostiglio della scuola, riescono ad amarsi, a vivere un amore esclusivo, tutto per loro...ma pur sempre "prigioniero" del pregiudizio.
A distanza di trent'anni, e dopo un incontro inaspettato e decisivo, Besson (ormai divenuto scrittore) decide di portare alla luce questa storia vissuta nell'ombra, fatta di silenzi...e lo fa senza alcuna vergogna, con l'urgenza di chi vuole dare voce a chi non ha il coraggio di dire "io sono questo".
Un libro spudoratamente sincero, che sarà costato tanto all'autore in termini di lealtà, non tanto verso se stesso, ma verso colui che ha amato ed ha vissuto tutta la vita nascondendosi, rinnegandosi...
Questo libro è per tutti quelli come Thomas, per tutti quelli che non ce la fanno, che ogni giorno, guardandosi allo specchio, mentono a loro stessi.
Una confessione bellissima.
Un autore sensibile che mi aveva già conquistato con "E le altre sere verrai?" e che continuerò a seguire...
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Amicizia tossica
Un romanzo sull'amicizia maschile.
Amicizia tossica.
Carofiglio ci accompagna passo passo in quel tipo di rapporto sbilanciatissimo e pericoloso, in cui uno dei due subisce totalmente il fascino e il carisma dell'altro, fino ad un annebbiamento della realtà e all'incapacità di riconoscere la parte "malata" della personalità così tanto idolatrata.
Attrazione, fascinazione al limite della sottomissione e capacità di manipolazione da parte di chi è consapevole di avere questo potere sugli altri.
Giorgio e Francesco.
La tranquillità e l'inquietudine.
Lo studio, l'amore e la famiglia da una parte...il poker, i soldi e il sesso facile dall'altra.
Il brivido di sentirsi finalmente protagonista della propria vita, in grado non solo di manipolare le carte, ma anche il proprio destino e quello degli altri...è un brivido che dà alla testa, che fa deviare i percorsi, rivedere tutti i propri piani.
Un poker tanto per provare, poi un giro di telesina, il gioco delle tre carte, un chilo di coca in una scatola di scarpe, novanta milioni in uno zainetto...tutto diventa "normale".
Perché lo dice lui.
Perché lui lo fa.
Ma fino a che punto?
Fino a che punto si può barattare la propria coscienza per un'amicizia?
A metà strada tra romanzo di formazione e noir psicologico, Carofiglio fa un buon lavoro di scavo, con una scrittura asciutta e pulita ci fa immergere in una Bari che tanto pulita non è...
Pochi, ma decisivi tratti, a delineare figure complesse...come quella del tenente dei carabinieri Chiti, che ho amato fin da subito.
Ormai lo sanno anche i muri quanto io apprezzi questo autore, e in lui mi rifugio ogniqualvolta io provi il bisogno di "sentirmi a casa".
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Vieni da me, stanotte?
"Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me.
In che senso?
Nel senso che siamo tutti e due soli. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare."
Colei che fa questa proposta (ad un uomo) è una donna di settant'anni, vedova, una donna che avverte improvvisamente tutto il peso "dell'urgenza", del tempo che sta per finire, dei programmi a breve scadenza.
Una donna che ha vissuto abbastanza, che ha conosciuto il dolore più grande in assoluto, ha sofferto, ha accettato (con dignità) il tiepido calore di un amore ormai spento, e finalmente si trova nella posizione di poter scegliere di non avere rimpianti, di infischiarsene dei pregiudizi e del perbenismo della gente, di chiedere sfacciatamente alla vita una cosa di cui sente di avere diritto: una piccola felicità.
Una voce dolce a cui raccontarsi la sera, una mano da stringere nel buio della notte...
Quanta dolcezza, tristezza, malinconia...e quanto coraggio.
Mica facile rimettersi in gioco quando la vita sembra già averti dato e tolto tutto, mica semplice combattere contro l'ottusità di chi, avendo ancora tanto futuro davanti, non capisce il linguaggio dell'urgenza, del "prima che sia troppo tardi".
Il finale è, per me, molto simbolico e significativo: quando sei certo di essere nel giusto, quando senti di dovere a te stesso quel che resta della felicità...alla fine un modo lo trovi.
E il freddo della notte fa di nuovo un piccolo passo indietro.
Haruf ti tocca piano, ma lascia il segno.
Anche stavolta.
(Ciao Holt, mi mancherai...)
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Atmosfera hopperiana...
Che atmosfera!
Leggi questo piccolo libro e sei davvero lì, nel quadro di Hopper che è raffigurato in copertina ("I Nottambuli"), seduto al bancone di un bar di Cape Cod, ad osservare ed ascoltare tutto quello che succede intorno a te, a respirare quel tempo sospeso, quella statica attesa che ti immobilizza...
La donna col vestito rosso e il suo martini, i gesti ripetuti e abitudinari di Ben, il barman discreto che sa ascoltare anche i silenzi mentre lucida il suo bancone, il pescatore con la sua birra giornaliera...sono tutti veri, vividi, ti respirano accanto.
Si conoscono bene, quella conoscenza generata dal vedersi quotidianamente, dal riconoscere le espressioni del viso, i messaggi muti del corpo...
Ben studia ogni piccolo gesto degli avventori del bar "Phillies", vuole bene a Louise, la donna che da nove anni consuma ogni giorno, davanti a lui, i suoi martini bianchi e i suoi amori infelici.
Non parla, non giudica...si limita a svolgere il suo lavoro e ad offrire, su richiesta, qualche sguardo eloquente, rassicurante, consolatorio.
Ma quella sera di fine estate, mentre tutto è immobile come sempre, il suono della porta del bar annuncia l'arrivo di un uomo, una vecchia conoscenza, che scombussolerà gli equilibri...ed il quadro inizierà a prendere vita sul serio.
Besson ha pennellato una storia intorno ad un'immagine, ha dipinto i personaggi donando loro colore e profondità, scavando nei loro pensieri.
È una storia che si svolge prevalentemente all'interno di loro stessi, si nutre delle loro emozioni, è fatta di piccoli gesti, di poche frasi significative che celano tutto un non-detto interiore che comunque arriva al lettore, affascinandolo.
Un libro suggestivo ed elegante, un ponte tra pittura e letteratura.
Forse col passare dei giorni potrò anche dimenticarne la storia, ma non l'atmosfera in cui mi ha avvolto.
Per me, una piccola magia.
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MISURARE, SCAVARE...E POI DIMENTICARE
Franzoso ci parla nuovamente dell'infanzia, di un bambino...non "indaco" stavolta, ma un bambino in difficoltà.
Un bambino che lotta contro il mondo degli adulti, contro le loro parole che non capisce, parole che smettono di essere leggere, parole in grado di modificare per sempre la vita delle persone, anche pronunciandole una volta soltanto.
Da alcune parole non si torna indietro.
Ci mostra subito Matteo, dodici anni, a letto, in preda ai crampi, ad un malessere che lo attanaglia e il desiderio che quella giornata non abbia inizio.
Matteo si porta dentro un dolore...e nessuno degli adulti che lo circondano riesce davvero a superare il muro che lo divide da lui, da quello che gli è successo.
Non sua madre (donna troppo ansiosa e insicura), non i nonni (così poco empatici), non la psicologa (ingabbiata nel suo ruolo), non l'avvocato (troppo autoriferito) né tantomeno il Giudice (il cui unico obiettivo è la verità "a qualunque costo").
Loro vogliono soltanto le sue parole, quelle che lui non vuole e non riesce a dire...mentre lui desidera solo andare a pescare alle chiuse, o sdraiarsi nei campi di mais, o pensare a suo padre che non c'è più.
Franzoso affronta il tema dell'abuso sui minori in un modo particolare, senza raccontare davvero, ma attraverso tutto quello che Matteo non riesce a dire, attraverso il suo disagio, attraverso dialoghi minimi, essenziali, pieni di contraddizioni tra ciò che si dice e ciò che si pensa, ma potentissimi.
Lo fa attraverso le lacrime di sua madre, con le sue frasi spezzate, che dicono tutto e non dicono niente...
Lo fa attraverso il tic-tac di un orologio/sveglia a forma di trattore che segnerà la fine del "tempo dell'infanzia" e l'ingresso nel mondo degli adulti.
Eppure i pochi accenni che ci dà, sono sufficienti a farci entrare nella storia, a farci tremare al pensiero che il male s'insidia sempre dove non dovrebbe, che il pericolo è troppo spesso nascosto sotto gli abiti della "protezione".
Un romanzo rapido ed efficace, che non giudica e non condanna, ma apre una finestra sul mondo dell'infanzia violata, sottolineando come la violenza e l'abuso possano arrivare anche da altre porte, magari proprio quelle chiamate in causa per "curare" le ferite.
Molto bello.
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Come un uragano...
Dieci racconti, tutti ambientati a Corpus Christi, in Texas...zona calda e soggetta a tempeste, ad uragani.
Dieci racconti che, proprio come gli uragani, ti spazzano via.
Emozionano, commuovono, colpiscono nel punto in cui fa più male.
Uragani che segnano l'inizio di un dolore senza fine, ed uragani che riavvicinano.
L'uragano malattia, che porta con sé dolore fisico, paura di morire e il desiderio di avere accanto qualcuno, magari un figlio, che, anche mentendo, ti dica "Non c'è nulla da temere, non ti preoccupare, ci sono qui io".
Morte e amore si rincorrono, si mescolano...
La perdita è ovunque fra le pagine, la si respira in ogni racconto, è come pulviscolo, ti entra negli occhi e li fa bruciare...
Perdita fisica che, a volte, si trasforma in perdita di contatto con la realtà, quando la mancanza e l'assenza diventano così insopportabili da portare alla follia.
C'è tanto dolore, è innegabile, ma non c'è disperazione...in ogni racconto troviamo un gesto, una frase, anche una sola parola, capaci di donare un po' di luce, di speranza.
Uomini, donne, genitori, figli, amanti...che, pur trovandosi nel cuore della tempesta e senza nessun appiglio, fanno di tutto per rimanere in piedi.
Tre di questi racconti hanno gli stessi protagonisti e costituiscono, messi insieme, un breve romanzo eccezionale che mi ha commosso profondamente.
Questa raccolta di racconti costituisce l'esordio di Johnston (precedente a "Ricordami così"), che si rivela, anche nella forma breve, abilissimo nell'entrare sotto la pelle dei suoi personaggi, e molto bravo nel donarceli nudi, in tutta la loro complessità, intimità, senza mai cadere nel sentimentalismo.
Per gli amanti dei racconti, imperdibile.
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Il peggio è eterno
Come si fa ad andare avanti?
Come si fa a non morire quando tuo figlio/fratello/nipote di 11 anni scompare?
Quando ti sparisce un figlio nel nulla, l'unico desiderio che hai è di seguirlo nel nulla in cui è scomparso.
Non c'è posto per nessun altro pensiero, non c'è più niente, la vita può anche andare avanti, ma una parte di te rimane ferma lì, in quel punto, in quel buco nero.
Un bel giorno, Justin esce col suo skateboard, e non torna più.
Rimangono una madre, un padre, un fratellino e un nonno che annaspano, che cercano di dare un senso ai loro giorni sospesi, sempre in attesa...
Ognuno prende la sua direzione, si allontana dal nucleo, si disperde.
Ma questo non è un libro sull'assenza, sulla perdita...è un libro sul "ritorno", sulla ricostruzione, sull'amore fra persone che faticano a riconoscersi...perché, dopo 4 lunghissimi anni, Justin viene ritrovato.
Era lì, a due passi, vicinissimo.
Incredulità, gioia, rinascita...non so, forse non esiste una parola in grado di descrivere quello che provoca un ritrovamento del genere, va oltre la felicità...molto oltre.
Ma adesso?
Adesso come si fa a ritrovarsi?
Verrebbe da pensare che esista un "prima" e un "dopo" la scomparsa, invece il vero spartiacque è il ritorno.
Ovunque si guardi c'è il peso assoluto e schiacciante del passato, di quei 4 anni muti, di cui non si sa niente e di cui si teme anche di chiedere, di parlare.
Tutto il taciuto pesa come un macigno.
È come se prima fossero tutti su una nave che stava affondando mentre ora sono nelle scialuppe di salvataggio, però ognuno sulla sua.
E la corrente li trasporta e li allontana gli uni dagli altri.
Da quando Justin è tornato c'è una costante ed estenuante ricerca di significato, in ogni parola, gesto, sguardo, come se tutto andasse decodificato.
Anzi, ri-decodificato.
In un clima di tensione costante, Johnston viviseziona il dolore, i rapporti familiari sfilacciati dalla paura, dai sensi di colpa, dalla ricerca continua di una normalità perduta (per sempre).
"IL PEGGIO VE LO SIETE LASCIATO ALLE SPALLE.
IN REALTÀ QUANDO IL PEGGIO ARRIVA, POI NON LA SMETTE PIÙ.
DIVENTA ETERNO."
460 pagine di ansia.
Strano, per un libro in cui la tragedia è già avvenuta...eppure è così.
Ma che bello...
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Ritratto di un'anima minima...
(Kansas City. Tra gli anni '20 e i '40).
Mr Bridge è un uomo duro, freddo, privo di senso dell'umorismo.
Razzista, omofobo e bigotto.
Un uomo che ritaglia e conserva un articolo di giornale dal titolo "Gli uomini non sono stati creati tutti uguali".
Fortemente capitalista.
Un uomo formale, distaccato, persino con sua moglie.
Orgoglioso del suo percorso, del suo "farsi dal nulla" e per niente disposto a tollerare qualsiasi forma di pigrizia e di deviazione dalla retta via.
Ossessionato dall'andamento dei suoi certificati azionari, dal lavoro, dai doveri, mai un colpo di testa, un azzardo, un rischio.
Mai un piacere fine a se stesso.
Assolutamente contrario ai cambiamenti "progressisti", ancorato alle tradizioni e ai suoi ideali, che ovviamente sono quelli giusti e insindacabili.
Incapace di mettersi in discussione.
Un uomo che odia ogni esibizione dei sentimenti, sia in pubblico, sia in privato.
Ama sua moglie, ma "non essendo un poeta, non è tenuto a dirglielo".
Privo di qualsiasi slancio.
Privo di gioia.
Praticamente un uomo insopportabilmente noioso.
Ma protagonista di un libro sorprendente, che fa di una vita perfettamente vuota un bellissimo mosaico di piccole immagini dal retrogusto amarissimo.
Dopo "Mrs Bridge" (esattamente 10 anni dopo), Connell ci presenta suo marito che, proprio come lei, è profondamente solo, perso nelle voragini che ha creato fra sé e gli altri, ingabbiato nel ruolo che si è cucito addosso...ma alla lunga, tutta questa rigidità, questa sorta di implosione, fanno male come uno starnuto trattenuto.
Connell è stato descritto come il "cronista delle anime minime"...credo non esista definizione migliore.
Un autore dalla vita ritirata, molto solitaria, assolutamente da riscoprire.
Uno capace di dare voce ai silenzi che s'insinuano all'interno di una famiglia.
Un autore che sa dipingere, con piccole e precisissime pennellate, un quadro tristissimo, che potremmo intitolare: "il non sapere di essere infelici".
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Smottamenti emotivi...
Parlare di questo libro non sarà affatto facile, soprattutto non sarà facile trovare parole che rendano l'idea...perché quelle usate dalla Milone sono le uniche possibili, sono quelle giuste.
Sono feroci e delicatissime.
Brutali e poetiche.
Perché in fondo è proprio su questo contrasto, su questo chiaroscuro, che si fonda il rapporto tra una donna e il suo bambino appena nato (e ancor prima che nasca).
La Milone toglie tutto lo zucchero a velo che solitamente ricopre questo momento della vita di una donna...e chiama le cose con il loro nome, senza abbellimenti sociali, senza fronzoli, senza pudore alcuno.
Dà voce ai cedimenti, agli smottamenti emotivi, al "pianto delle sette", al terrore paralizzante di scoprirsi necessari.
La nascita di un figlio, del primo figlio in particolare, ti sconquassa...e non solo fisicamente...ti spacca in mille parti.
Il parto, che la scrittrice qui viviseziona passo passo, è sconvolgente, comunque tu voglia raccontartelo...e poco importa che le donne lo facciano dall'inizio del mondo, accovacciate dietro i cespugli o su di un lettino ospedaliero, quando ci sei tu lì sopra vuoi solo che il dolore finisca presto, che il tuo corpo ritorni ad essere tuo.
E dopo quel viaggio lacerante, a nascere si è sempre in due.
"Vuole qualcosa che io non le so dare, chè anch'io, come lei, sono nuova da poco, e il fatto che io abbia le parole, abbia più tempo e capelli, più pelle, più cervello e vista, più peli e anche più grasso, che io sia la madre e lei la figlia, non serve a niente, non significa niente.
Significa solo che buona parte di me deve rinascere da capo"
Cambia la percezione del tempo.
Tempo che viene strappato via tutto all'impovviso, ma anche tempo che si dilata...non passa, diventa pesante e appesantito da quell'altro figlio che nasce insieme al tuo, il sonno.
Il sonno che diventa "persona", che prende posto nel corpo, si allarga in tutte le direzioni, lo invade, lo bracca senza pietà.
È un romanzo viscerale, corporeo, carnale...che puoi sentire, toccare, e da cui ti senti toccato.
Dentro c'è ogni donna, anche quella che crede di non esserci, c'è lo sguardo maturo di chi non ha paura di ammettere il proprio desiderio di fuggire, il proprio disorientamento.
Perché dopotutto...paura, rifiuto, sconcerto, rabbia, tristezza...sono tutti passaggi attraverso cui passa l'amore.
"CAMMINARE CON TE È BUIO, PERDERTI È L'ABISSO.
DEVO FIDARMI DEL BUIO."
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Cara India...
Cara, insopportabile, adorabile Mrs Bridge,
ti hanno insegnato ad essere una moglie devota e una madre premurosa, ti hanno insegnato a seguire le regole, a fare le cose "giuste" e a non chiederti mai perché...
Hai tanti soldi e un marito assente.
Tanto rigore e tre figli ribelli.
Tu così rigida, formale, ingessata nel tuo ruolo di donna alto-borghese, hai trascorso una vita ad apparire in un certo modo, a fingere di essere realizzata, a fingere di essere felice delle tue giornate piene di nulla, a fingere di essere interessata (ed informata) sui fatti.
Fingere, fingere, sempre fingere...
Ma non è colpa tua.
Sei figlia dell'educazione ricevuta: ti hanno detto di portare le calze anche d'estate e tu l'hai fatto, ti hanno detto di andare in chiesa e tu ci sei andata, ti hanno detto di votare per quel partito e tu l'hai votato.
Tu, cara Mrs Bridge...
Sei una donna perbene, e perbenista.
Una donna di classe, e classista.
Un po' bigotta.
E un po' razzista.
Sei una donna che non usa la porta di servizio come le cameriere, una che fa sedere la lavandaia sul sedile posteriore dell'auto, una che separa la sua bambina dall'amichetta "negra" (figlia del giardiniere).
Ma non sei cattiva, sei solo prigioniera.
E infelice.
Anche se tu non sai di esserlo.
E allora scivoli sulla superficie di un'esistenza che ti sfiora senza mai colpirti.
Io ti ho voluto bene cara India, (che nome insolito per una come te...)
A volte ho sentito un po' mie la tua noia, il tuo senso di vuoto, la tua solitudine, quella paura della vita che passa senza averla vissuta davvero.
Ho fatto il tifo per te...ho sperato tanto in un guizzo di vita, in un lampo di felicità, in un terremoto emotivo che facesse crollare tutti i muri che ti eri costruita intorno.
Ma, niente...la tua stessa vita ti ha intrappolata.
Letteralmente. Fisicamente.
Nessuna via d'uscita.
"C'è qualcuno là fuori?" (Brividi...)
(È un libro costruito sui dettagli.
È misurato, elegante, sussurrato e disperato...esattamente come la sua protagonista.
Il finale è perfetto. Proprio perfetto.
Non so se si sia capito, ma l'ho trovato davvero bellissimo!)
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More "Less" for all...
Arthur Less è un uomo che fugge.
Fugge dalla perdita del fidanzato (che si sposa con un altro), dal fallimento del suo ultimo romanzo (che nessuno vuole pubblicare), dal suo cinquantesimo compleanno (che lo terrorizza), ma più di ogni altra cosa fugge da se stesso...
Alle soglie della mezza età, non si sente ancora pronto a lasciar andare la giovinezza e quindi scappa, corre lontano per non farsi raggiungere dalla vecchiaia e dalla solitudine.
Ma si sa, puoi anche girare mezzo mondo, prendere aerei, attraversare città, deserti e tempeste di sabbia, alla fine, il "tempo" ti troverà, ovunque tu sia...e insieme ad esso anche tutti i problemi che pensavi di aver seminato.
Arthur Less è un novello Peter Pan, incapace di crescere, inadeguato, imbranato, un po' vigliacco...
La sua adorabile goffaggine, insieme ad una narrazione lieve ed ironica e ad un finale riuscitissimo, mi hanno conquistata e mi hanno fatto superare fasi della lettura piuttosto noiose.
Perché lo ammetto, questo tipo di romanzo un po' rocambolesco, non è esattamente nelle mie corde, ma sono comunque contenta di averlo letto, di aver fatto la conoscenza di questo personaggio così imperfetto, così ingenuamente inconsapevole di ciò che gli sta intorno, da riuscire a trasformare la tragedia in commedia, ogni volta.
È un perdente che alla fine vince sempre.
Questo libro, nella sua leggerezza, è un viaggio alla ricerca di se stessi, un voler dimostrare che possiamo vivere anche senza il nostro "abito blu con la fodera fucsia", quello in cui ci sentiamo sicuri, quello che ci protegge e ci identifica, e dentro il quale spesso ci nascondiamo.
Togliamoci i nostri abiti blu, spogliamoci delle nostre paure e del nostro senso di inadeguatezza, e teniamoci la nostra spontaneità, il candore con cui guardare il mondo e la capacità di amare...
E infatti questo è anche un libro sull'amore, sull'eterna diatriba tra passione bruciante e quotidianità...
"Cos'è l'amore? Una cosa buona e cara? Oppure fuoco e fiamme?"
O forse "il trucco sta nel non innamorarsi"?
Premio Pulitzer 2018, con questa motivazione: " Un libro generoso, musicale nella prosa e ampio in struttura e portata, sul diventare grandi e sulla natura essenziale dell'amore".
Sottoscrivo, ma, ad onor del vero, io preferisco il Greer de "La storia di un matrimonio", più intenso e profondo.
Indicazioni utili
Rumori di fondo...
Mah. Boh.
All'inizio ero veramente perplessa...mi chiedevo: possibile che sia davvero tutto qui?
De Silva, solitamente, mi piace molto.
Poi ho capito.
Una sorta di grande calderone pieno di frasi fatte, qualcuna divertente, molte banali (volutamente banali), aforismi 3.0 che ricordano un po' le didascalie dei meme di Facebook, i tweet...
La mia impressione iniziale è stata quella che Einaudi avesse voluto ricalcare il successo di Francesco Piccolo con i suoi trascurabili momenti di felicità/infelicità...ma lì erano raccontate delle "situazioni", Piccolo apriva una finestra sul nostro modo di essere e riusciva, con poche parole, ad "entrare" in momenti di vita vissuta...qui è tutto confuso, troppo slegato, troppo veloce.
Troppo superficiale...come da titolo.
Ed è stato proprio facendo questa considerazione che ho capito...ho compreso quale fosse lo scopo del libro: dimostrarci quello che siamo, quello che siamo diventati (stupidi) in questo mondo che corre via veloce e che ci impone di occuparci di tutto senza mai approfondire niente.
Non c'è tempo di capire ogni cosa, ma guai a non "presenziare" su tutto.
Siamo persone che restano in superficie, che si nascondono dietro luoghi comuni, battute tristemente divertenti, affermazioni perentorie, giudizi facili, conclusioni semplicistiche.
Insomma, siamo diventati dei veri campioni del pressapochismo.
E questo libricino vuole esserne la prova, la testimonianza.
È esattamente il "rumore di fondo" delle nostre giornate.
"Abbiamo cambiato il mondo, ma è venuto peggio"
Ora...il fatto che io abbia compreso il senso di questa macedonia, non significa che mi sia piaciuta.
Preferisco il De Silva dei romanzi.
Ecco, se avesse fatto dire tutte queste frasi all'avvocato Malinconico, spalmandole in una ventina di libri, sarebbe stato molto meglio, per me.
Indicazioni utili
- sì
- no
"Non sono uscita dalla mia notte"
Annie Ernaux è, per me, una voce che riesce, senza urlare e senza sensazionalismi, a fare del proprio privato qualcosa di universale, qualcosa che, pur nascendo per un'esigenza personale, diventa dono per tutti gli altri.
Lei apre le porte della sua vita, ti fa entrare in un ambiente intimo pervaso dal dolore, ma è un dolore così lucido e sussurrato, un dolore così consapevole che all'inizio non ne avverti neanche la presenza, all'ultima pagina invece sei steso, schiacciato dalle sue parole, poche, mai superflue, ma dal peso specifico considerevole.
Qualche giorno dopo la morte di sua madre, la Ernaux scrive su un foglio:
"Mia madre è morta lunedì 7 Aprile nella casa di riposo dell'ospedale, dove l'avevo portata due anni fa".
Questo diventerà l'incipit del libro, la cui stesura durerà 10 mesi e con cui la scrittrice cercherà di ricostruire la figura materna, dalla sua infanzia in una famiglia contadina e dignitosamente povera fino alla malattia che si porterà via la donna battagliera e irruenta che è sempre stata.
Parlare della propria madre è difficile, perché le madri sono figure al di fuori della storia e al di là del tempo: ci sono sempre state.
Sono la nostra proiezione nel futuro, ma anche la nostra àncora del passato.
Luogo in cui specchiarci e da cui fuggire.
Luogo a cui tornare. Sempre.
La Ernaux cerca, in queste pagine, di dare voce alla donna reale, quella che è esistita al di fuori di lei, al di là della sua condizione di figlia, ma non ce la fa...c'è un qualcosa che fa resistenza, che impone a tutte le immagini ed ai ricordi di esistere in quanto pervasi dall'amore e dalla distorsione che ne deriva.
Se nel libro "L'altra figlia", dedicato alla sorella morta e mai conosciuta, la Ernaux scrive per poterla resuscitare e (forse) uccidere nuovamente per liberarsi del suo fantasma, qui sembra scrivere per rimettere al mondo la donna che l'ha partorita, per donarle una seconda vita nel tempo e nei luoghi che lei non vedrà mai più.
Le pagine dedicate alla malattia sono emozionanti, affilate e struggenti: ogni parola sembra portare via una piccola parte di sua madre, nutrirsi delle sue progressive incapacità, rendere indistinto il mondo circostante divenuto ormai incomprensibile, e trasformarla in una bambina desiderosa di baci e cioccolato.
Una bambina, che non crescerà mai.
Una bambina che non uscirà più dalla sua notte...
"NON ASCOLTERO' PIÙ LA SUA VOCE.
ERA LEI, LE SUE PAROLE, LE SUE MANI, I SUOI GESTI, LA SUA MANIERA DI RIDERE E CAMMINARE, A UNIRE LA DONNA CHE SONO ALLA BAMBINA CHE SONO STATA.
HO PERSO L'ULTIMO LEGAME CON IL MONDO DA CUI PROVENGO."
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Amore al veleno
"GIURATI. PRIMA CHE VI PRONUNCIATE, HO DA MANIFESTARE IL MIO RISENTIMENTO PER PURIFICARMI.
HO IMPARATO A TOLLERARE LE PERSONE CONVINTE DI STARE NEL GIRONE DEI RETTI.
UOMINI E DONNE PERSUASI DI ESSERE STATI INVESTITI DI UNA MISSIONE MORALIZZATRICE DELL'UMANITA': CATECHIZZANO, REDIMONO, CASTIGNANO E, SE NON FUNZIONA, ABBRACCIANO IL GRANDE TOTEM DEL DILEGGIO.
NOI DEL GIRONE DEI FUORVIATI NON POSSIAMO FARE ALTRO CHE GUARDARE E AL MASSIMO ESIBIRE I COCCI DELLA NOSTRA INTEGRITA' PERDUTA AL GRANDE OCCHIO DELLA LORO SUPERIORITA'."
Ho letto questo libro in un giorno, e non solo perché breve...confesso di essere stata rapita da Desiati, nonostante abbia sentito, per tutto il tempo, una nota stonata.
Mario Desiati mi era piaciuto molto nel libro "Il paese delle spose infelici", mi piace la sua scrittura precisa, la ricerca delle parole scelte con cura, quel velo poetico e malinconico con cui riveste tutte le sue storie, mi piacciono le sue ambientazioni, che poi sono le mie, la mia terra...tra Taranto e Martina Franca, con i suoi trulli, i muretti di pietre a secco e l'ombra minacciosa dell'Ilva ad oscurare il mare che s'increspa al sole.
Eppure eppure...stavolta c'è stato qualcosa che non mi ha convinto in pieno.
L'argomento è molto delicato e, quindi, facilmente attaccabile sotto tanti punti di vista, ma nel mio caso non è stato un problema di "giudizio" per il tema trattato, anzi...ritengo che l'abbia saputo "maneggiare" con intelligenza, per quanto non sia semplice parlare di un amore tra un alunno di scuola media ed una sua insegnante.
Ma la nota stonata che ho percepito io riguarda l'assenza di struttura e di intensità di quella che avrebbe dovuto essere "la scena madre" del romanzo, il momento clou in cui tutto avviene e da cui partiranno poi tutte le considerazioni successive.
Questo ha fatto sì che il protagonista (narratore) avesse un'identità sfocata, un po' liquida e che a tutta la storia mancasse un "centro".
Ho preferito le storie parallele che fanno da contorno, i personaggi secondari, a cui ha saputo dare, con pochi tratti, una forza ed una personalità maggiore.
La cosa strana però è che, nonostante abbia trovato dei difetti, alla fine il libro mi sia piaciuto, non posso negarlo.
La bellezza della scrittura probabilmente ha preso il sopravvento sul resto, l'intensità e la poesia di alcuni passaggi hanno dato solidità alle parti che io ho sentito instabili.
Insomma, un libro imperfetto...le cui imperfezioni però non tolgono fascino e bellezza alle parole contenute.
Mah, i misteri della lettura.
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Fame e alienazione
Lo dico subito: qualcosa fra me e questo libro non ha funzionato.
Siamo ad Oslo, quando ancora si chiamava Cristiania, e seguiamo le vicissitudini di un uomo, uno scrittore, completamente sul lastrico, senza più un centesimo in tasca...ed una fame che lo divora.
Ha dato tutto ciò che poteva al banco dei pegni, tutto...gli rimane giusto un vestito logoro addosso, i fogli di carta e la matita con cui scrive i suoi articoli che spera sempre di poter vendere al giornale...
Non ha davvero più niente, se non i propri pensieri sempre più assurdi, deformati dal digiuno, e la propria dignità.
Anche troppa.
Quelle poche volte in cui riesce a recuperare qualche soldo...lo spreca, lo cede, lo regala...mentre i suoi deliri provocati dai morsi della fame lo conducono lentamente alla follia.
Uno smarrimento totale, un distaccamento dalla realtà che rispecchia quanto l'uomo possa essere solo in una società spietata.
La scrittura vista come unica àncora di salvezza e di ricerca di se stessi in un mondo che non accoglie, che non ti riconosce come parte di sé.
Tutto ruota intorno alla fame, alla solitudine, all'alienazione sociale...
Fame intesa anche come fame di vita, di amore, di calore, di parole ancora da dire, e da scrivere.
Cosa non ha funzionato, quindi?...non lo so.
Per carità, ne riconosco il valore, il messaggio, lo stile è impeccabile...eppure non mi ha coinvolto, l'ho sentito freddo, anche nei momenti in cui avrebbe dovuto emozionarmi.
Il protagonista è piuttosto irritante...e l'irritazione non è esattamente il sentimento che mi sarei aspettata di provare nei confronti di chi è costretto a masticare trucioli di legno o a succhiare sassolini o a mordersi ferocemente un dito per ingannare lo stomaco dilaniato dalla fame.
Forse mi aspettavo un pathos che non ho trovato, che non ho provato.
Ma Hamsun ha vinto un Nobel, ed io non sono nessuno...quindi, se qualcosa fra noi non ha funzionato, il limite è sicuramente mio e soltanto mio.
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- sì
- no
L'accumulo...
Ero ancora alle prime pagine di questo libro quando ha preso forma nella mia mente il primo aggettivo per definirlo: denso.
E non mi ero sbagliata.
Nel procedere con la lettura ho avuto la sensazione di avere i piedi affondati in un terreno fatto di pasta lievitata, era difficile andare avanti...ma non potevo comunque staccarmene. Ci affondavo dentro.
Mi sentivo rallentata, appesantita...senza riuscire a capirne il motivo.
Poi è stato lo stesso Barnes a spiegarmi il perché.
Sono in un'età della vita in cui il tempo comincia ad avere un suo peso, in cui inizio a chiedermi se la storia della mia vita sia davvero quella che mi sono raccontata finora, in cui inizia il lento processo "dell'accumulo"...in cui realizzi che l'esistenza "non è fatta solo di somme e sottrazioni, ma c'è anche l'accumulo, la moltiplicazione delle perdite, dei fallimenti".
Mi sono chiesta quanto io sia diversa da Tony Webster, da quel suo lasciarsi vivere, procedere a casaccio, prendere le cose così come vengono, costruendo una rete di ricordi, e aggiungendo vita alla vita...per poi magari, un giorno, scoprire la differenza tra addizione e crescita.
Mi sono specchiata dentro la vita di un uomo "medio" che, lungi dall'essere un eroe, deve fare i conti con i rimpianti ed i rimorsi, gestire i sensi di colpa cercando di non soccombere e rispondere a diverse domande cruciali.
Quanto ci si può fidare dei propri ricordi?
Quanto vengono smussati dalla nostra mente per aderire all'idea che, nel frattempo, ci siamo fatti di noi?
E qual è, alla fine, il senso di tutto?
"Si arriva alla fine della vita, no, non della vita in sé, ma di qualcos'altro: alla fine di ogni probabilità che qualcosa cambi.
Ci viene concesso un lungo momento di pausa, quanto basta a rivolgerci la domanda: che altro ho sbagliato?"
Un libro non facile...profondo, disincantato, amarissimo, per certi versi illuminante.
Non è un romanzo emozionale, niente sussulti o fiati trattenuti, no...Barnes qui è cerebrale, trasuda filosofia...e una grande malinconia per il tempo (inquieto, molto inquieto) che passa, la memoria, i ricordi e i loro inganni.
150 pagine ben cesellate (io ho apprezzato anche il finale criticato dai più).
La prosa è alta, elegante, sottilmente ironica...e subdolamente ti si insinua nella testa.
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L'attesa del corpo...
Un titolo e una copertina terribili, respingenti, che non avrei degnato neanche di uno sguardo se non avessi saputo che, dentro, avrei trovato lei, la Ernaux, la sua scrittura, le sue parole lucide e precise.
Ancora una volta autobiografiche.
Annie Ernaux e la passione.
Un'ossessione per un uomo straniero, bellissimo e sposato.
E che non l'amava.
"Sin dal mese di settembre dello scorso anno, non ho fatto nient'altro che aspettare un uomo: che mi telefonasse e che venisse da me."
Non cerca di spiegarcela, la passione, non vuole risalire alle motivazioni di come nasce, nessun giudizio postumo e nessuna giustificazione.
Semplicemente ce la espone.
Non si tratta della cronaca di una relazione, non ci sono tanti riferimenti temporali, successione di avvenimenti...ma soltanto un'alternanza di vuoti e di pieni.
I vuoti dell'assenza, i pieni della presenza dell'altro.
Ci sono i "sempre", i "mai"...e le attese.
Quelle che consumano.
La dannata voglia di consacrarsi al pensiero dell'altro, rifiutando qualsiasi cosa possa distogliere da quelle sensazioni e da quegli scenari immaginari...quasi fosse un diritto.
Il cervello inizia a produrre immagini sempre identiche, pensieri già pensati, situazioni vissute e rivissute migliaia di volte (anche solo nella mente) che riescono a produrre un piacere quasi fisico, che però è anche dolore.
E, pian piano, anche i momenti di piacere veri, reali, sono destinati a diventare ricordi e quindi "futuro dolore".
Piacere e dolore si uniscono, si fondono, dando origine ad un tormento da cui si vorrebbe liberare, ma che, allo stesso tempo, è vitale, la riempie: se c'è qualcosa di peggio dell'attesa...è la certezza di non avere nulla da attendere.
Inizia a misurarere il tempo in modo diverso, attraverso il corpo.
Con la mancanza.
E quando quei giorni arriveranno, quelli in cui non aspetterà più niente e nessuno, proverà un malessere così interno, così profondo, che non riuscirà a strapparselo di dosso neanche a morsi.
Ma continuerà a vivere...utilizzando tutti i mezzi possibili.
La scrittura è uno di questi...e, a guardar bene, anche tutto ciò che le rimane.
Cercherà di dare un senso a quello che è stato, ma l'unico senso di una passione, se è davvero tale, è quello di non averne affatto.
Ecco come, in sole 70 pagine, la Ernaux ci parla di qualcosa su cui gli scrittori di tutti i tempi hanno già scritto in tutti i modi possibili, riuscendo ad essere comunque una voce intensa, diversa.
Lei riesce a mettersi a nudo pur mantenendo un certo distacco, che non è freddezza (per me), ma più che altro la capacità di raccontarsi uscendo fuori da se stessa, come guardandosi dall'esterno e donandoci tutto senza il filtro del pudore.
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Gioiellino...
Due anni fa mi trovai a leggere un piccolo libro di Charles Simmons, dal titolo "Acqua di mare"...e me ne innamorai.
Soltanto dopo ho scoperto che si trattava di un romanzo liberamente ispirato (per ammissione dello stesso autore) a "Primo amore" di Turgenev.
E finalmente oggi mi sono regalata questa lettura "madre".
Un racconto straordinario.
Un racconto di formazione sentimentale, introspettivo, psicologico e poetico.
Siamo nella Russia degli anni '30 dell'Ottocento.
Vladimir, sedicenne di ottima famiglia, s'innamora della bella e spregiudicata Zinaida, 20 anni, figlia di una principessa caduta in miseria.
Lei è piena di vita, consapevole del suo potere seduttivo, gioca col suo girotondo di uomini che la corteggiano, emancipata e intelligente, combatte contro le convenzioni del tempo e cerca un uomo capace di dominarla.
"In assenza di Zinaida languivo: non mi entrava in testa niente, mi cadeva tutto di mano, per giorni interi pensavo intensamente a lei...languivo...e in sua presenza le cose non andavano certo meglio.
Ero geloso, ero cosciente della mia nullità, da sciocco mettevo il muso e da sciocco mi umiliavo, e tuttavia una forza invincibile mi trascinava da lei, e ogni volta varcavo la soglia della sua camera con un brivido involontario di felicità."
Ma Vladimir non sarà l'unico ad innamorarsi di lei.
Al suo amore dolce e romantico, si contrappone quello maturo, passionale e peccaminoso di suo padre.
Per la stessa donna.
E qui entra in gioco, a mio avviso, la parte più bella e profonda del racconto: il rapporto padre/figlio che, a quanto pare, è anche molto autobiografico.
Turgenev ha patito la sofferenza di avere un padre bello, giovane (che ha sposato una donna molto più grande di lui solo per interesse) e che lo ha sempre trattato con grande indifferenza alternata a dolcezza.
Ora le sue mani lo accarezzavano, ora lo respingevano.
Un uomo incredibilmente tranquillo, sereno, ma anche egoista e dispotico.
Esattamente come il padre di Vladimir in "Primo amore", e proprio allo stesso modo il giovane Turgenev lo amava e idolatrava sopra ogni cosa.
La figura della madre, sia nel romanzo sia nella vita dell'autore, è terribile: una donna severa, incapace di amore, affetto e divorata da una gelosia invalidante.
Nel triangolo venutosi a creare "figlio/donna/padre" tutti perdono qualcosa...chi l'amore, chi l'innocenza, chi la vita...ma è vero anche che tutti e tre "amano" davvero per la prima volta.
Una lettura dal sapore malinconico, non soltanto per la storia in sé di un amore infelice, ma anche per i difficili legami familiari, per i ricordi di una giovinezza ormai passata, con tutto il suo carico di equilibri fragilissimi.
Prezioso.
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