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68 Opinione inserita da 68    04 Mag, 2024
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Invisibilità manifesta

Il signor Cui è un uomo invisibile che costruisce e smercia altoparlanti, preda di se’ e di un vago sentimento nostalgico, un’ ombra che sa di malinconia in attimi rarefatti di serenità, attraversato da una consapevolezza effimera, impossibilitato a scavare nel profondo preferendo sostare in superficie, intriso di ricordi rarefatti di chi non c’è più, percorso da esili presenze-assenze in una Cina rivolta al capitalismo con retaggi di un passato recente.
Vive una condizione di solitudine acuita dal tentativo della sorella di cacciarlo di casa, si sottrarre all’ appellativo di audiofilo preferendo il termine “artigiano” che nella contemporaneità è un po’ come essere un mendicante.
Tuttora sconta l’ asfissiante presenza di un matrimonio finito tristemente conducendo un’ esistenza piatta in un angolo di mondo, ignorando e ignorato dalla società, un peso doloroso appresso, impaurito dalla propria ombra, immagini di una tristezza che vorrebbe dimenticare.
Intellettuali e imprenditori costituiscono i suoi abituali clienti, ama il proprio lavoro meticoloso, ossimorica presenza in un presente dominato dal caso e dal caos, poche tracce scoperchiano preziosi reperti della vita passata agitando la sua memoria sopita, eco di suoni da tempo dimenticati.
Per lui il reale si fa insostenibile, rassegnato al non protagonismo, nutrendo un desiderio di indipendenza e di solitudine da incastrarsi in un affare che potrebbe sistemarlo per sempre ma anche invischiarlo in una vicenda di mistero vestita.
Nel frattempo sopravvivono e riemergono echi di un luogo chiamato casa, il pensiero ai genitori scomparsi, il senso di esclusione e di appartenenza, la sorella vorrebbe vederlo maritato per liberarsi della sua presenza, il cognato cinico e violento, un vecchio amico macchiatosi di un’ imperdonabile colpa, un enigmatico imprenditore che vorrebbe possedere l’ impianto Hi Fi più bello del mondo, una donna avvolta nella propria menomazione.
Tutto scorre lentamente tra realtà e sogno, desiderio e rassegnazione, un vuoto evidente alternato a dolci note interiori, il mistero di chi realmente ci si trova di fronte, fantasma riemerso da una vita che potrebbe cambiare forma. Attorno a Cui il mondo percuote poche certezze rilasciando un tono di voce improvviso estraneo anche a se stesso…

…” Posso esprimere il mio modesto parere sulla questione? Se lei non fosse particolarmente intento a cercare il pelo nell’ uovo e ad andare alla radice di ogni questione, se imparasse a chiudere un occhio e la piantasse di lamentarsi sempre degli altri per i soliti problemi, potrebbe scoprire d’ un tratto che , in realtà, la vita è fottutamente bella. Non è forse così?”….

“ Il mantello dell’ invisibilità “ è un breve e intenso romanzo di sottrazione con un respiro di rassegnato umorismo nel cuore di una socialità violenta, nebulosa, indifferente. Una nebbia stratificata ricopre pagine di reale e digressioni di immaginario, una cupa presenza aleggia e sovrasta il protagonista, colonna sonora di un mondo sommerso e tristemente certo che disperde significati per acquisire una neo consapevolezza, consegnando il substrato emozionale a una riflessione profonda, quel senso apparentemente insensato che riguarda il proprio vivere.

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68 Opinione inserita da 68    04 Mag, 2024
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Rinascita

…” L’ amore, l’ amore vero, arriva solo una volta nella vita. Ma se tenti o meno di trattenerlo, di stringerlo a se’, ci sfugge sempre”…

Note suadenti nel romanticismo di un amore sottratto alla noia e indirizzato all’ eterno, dolci cadenze nel cuore di un ménage famigliare limitato alla bellezza di un angolo di paradiso, al lago, al giardino, alla grande casa bianca con le persiane verdi.
La sponda del lago è un luogo segreto dove Luna viene a rigenerarsi dopo una giornata di faccende domestiche, impegnata a gestire il bad and breakfast di famiglia, una vita ordinaria, tre figli, un marito impegnato altrove per buona parte della giornata, il desiderio abbandonato alla noia, lo stupore alla ripetitività, il sogno a una rassegnata malinconia.
Ore di solitudine poco gratificante in un luogo dell’ anima che sa di trascuratezza, a quarantacinque anni ci si può accontentare, essere madre e moglie fedele è un modus vivendi, tralasciando domande e risposte inevase.
Un giorno, d’ improvviso, il gelido inverno sentimentale lascerà il posto a una leggera brezza primaverile, un incontro unico, bello, suadente, il suo nome è Raphael, fascino, discrezione, intelligenza, modestia, altruismo, sensibilità, un amore sconfinato per l’ arte, un lavoro intrigante come restauratore, il bisogno di un posto dove alloggiare.
Sarà un’ attrazione fatalmente esposta, un viaggio sensoriale, volo pindarico che profuma di giovinezza, soffio gaudente, la riscoperta di se’ e dei propri sogni.
I giorni si coloreranno di un’ intimità sempre più manifesta, un’ inarrestabile aura erotico-sentimentale, nuovi significati, una parte ignara di se’, brezza poetica, ipnotica, spensierata, totalizzante, dispersa nella grandezza di un sentimento profondo e inafferrabile.
Chi è l’ altro, un ideale estremizzato, la parte più oscura di se’, un’ unicità che rende la propria anima più bella? Incontri segretamente rubati, spazi condivisi, intimità, la promessa di un amore per sempre, reale e immaginario si fondono e si confondono, miscela di sogno e desiderio, il senso di colpa rivisita il peso di una vita a lungo annullata e sottratta.
Luna si lascia travolgere da riflessioni protratte immerse nel quotidiano, gesti sublimi che sfiorano l’ eterno, ipotesi di un futuro mai nato, per contro l’ onta gravosa del tradimento, assenze prolungate, la convivenza forzata, il senso di libertà avallato dai propri figli, una prolungata lotta contro apatia, solitudine, noia. Che cosa resta di lei, come rinascere, costruirsi una vita altrove, abbandonarsi ai propri desideri più intimi?
C’è chi si nutre di indifferenza per rivelarsi più fragile dell’ evidenza, legandola a scelte egoistiche, impossibilitato a rinunciare alla sua presenza.
E allora la propria idea di futuro rivede se stessa sostando nell’ intensità del ricordo, in pensieri ricorrenti, nel profumo di una presenza, nella luce di un sorriso, nel rimpianto di un’ assenza definitiva, riabbracciando i momenti condivisi, l’ intensità degli sguardi, parole sussurrate, mani sfiorate, fotogrammi impressi in un cuore toccato per sempre.
“ Se solo tu mi toccassi il cuore” è un romanzo breve dalle sfumature difformi, soffio di romanticismo esposto a un desiderio inespresso, rivisitazione poetica di una vita smarrita nel sapore dei giorni, viaggio nel cuore di una donna sottratta a se stessa, sogno a occhi aperti, lunga lettera d’ amore, diario dei sensi sopiti, monologo condito di dolcezza e speranza, un’estate infinitamente ( nella percezione personale ) breve ( nel tempo trascorso) destinata a cambiare una vita per sempre.

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68 Opinione inserita da 68    01 Mag, 2024
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Tormento irrisolto

”Sono Tollak di Ingeborg. Appartengo al passato. Lungi da me l’ idea di trovare il mio posto da qualsiasi altra parte”…

Un grande amore posseduto dall’ eros e imbrattato di una solitudine che rasenta la follia, vissuto con un impeto tracimato nella solitudine più nera.
Che cosa rimane dopo la sua dissolvenza, prevista e prevedibile, un se’ braccato dalle forze demoniache che glielo hanno sottratto, immobilizzandolo nel passato, pervaso da una rabbia atavica, un tardivo e inutile pentimento, stentando a riconoscersi, vita e monologhi condivisi con un’eco lontana.
Tollak è un uomo burbero, funestato da una rabbia cieca, giorni insopportabili nel profumo dell’ alcool, l’ esigenza di stare solo, figlio di una famiglia vissuta di dissidi e di sangue amaro. Da anni l’ amata moglie Ingeborg, donna dolce, dai bei lineamenti, con una voce profonda, leggera, forbita, e’ scomparsa, uscita di casa per non farvi ritorno, mistero irrisolto, tormento irrisolvibile, la propria ombra inseguita dai cani neri.
Due figli lontani, rapporti tesi, lacerati, dissolti, il cortile, la stalla, la segheria, i boschi del Vestmarka, le alture del Sorfjellet, sono questi i paesaggi e l’ ambiente che accompagnano Tollak da sempre.
In lui una dicotomia manifesta, figlia della propria storia, addolcita e ammansita solo in parte da Ingeborg che sa come prendersi cura dell’ altro, che riconosce il senso di un amore vissuto con pienezza e la necessità di preservare spazi incondivisibili, aderendo a se stessa, all’ idea di una vita che non sia una prigione di sopravvivenza.
Tollak al contrario sosta in un concetto di amore egoistico, in una gelosia prevaricatrice e totalizzante, in un isolamento sociale ed emotivo, inviso ai figli, ai vicini, ai parenti, persino a se stesso.
C’è un prima e un dopo la scomparsa di Ingeborg, un modo diverso di guardarsi e di leggersi dentro, la sofferenza della solitudine, l’ isolamento autoimposto, sguardi perplessi, indagatori, accusatori, un ragazzo che si è fatto uomo ma che non è come gli altri, ( Oddo ), pallido, dagli occhi impauriti, che sta nella stalla tutto il giorno, che ha ribaltato tutto ciò che si era, di cui prendersi cura e a cui volere bene.
Che cosa significa fraternizzare con se stessi, quanto tempo per conoscersi, tollerarsi, conviverci, quante volte Tollak ha letto e visto dentro di se’ un uomo diverso, furente, attraversato da una rabbia cieca

…Alla fine avevamo trovato il nostro modo tranquillo e silenzioso di vivere, il mio”…

Gli anni a venire amplificano solitudine, isolamento, rimpianti, oggi il suo comportamento sarebbe stato diverso, in lui il desiderio di un riavvicinamento alla progenie, scoprendo il proprio volto.
Alla fine permane l’ intollerabilità di un gesto, nessuna richiesta di assoluzione, quanti comportamenti scorretti e deliranti nei confronti di chi ci stava accanto, ci amava, era la nostra famiglia.
“La mia Ingeborg “ è un testo crudo, reale, torbido, Tore Renberg costruisce un thriller psicologico e affettivo imbevuto della solitudine più vera. La rabbia di Tollak lo ha accompagnato da sempre, siede al suo tavolo, giorni violenti, assenze protratte, notti insonni, attimi imbevuti di paura, per anni disinnescata dagli occhi dolci e dalle parole suadenti di un amore che credeva eterno, una rabbia pronta ad esplodere, preservando se stessi, un affetto negato, il passato irrisolto.
E allora non c’è più niente in cui sperare e per cui vivere all’ interno di una prigione autoimposta, anni trascorsi nel buio e nella trasandatezza di una lenta agonia, convivendo con un se’ ritrovato e rinnovato, una vocina che alimenta coscienza e verità imprescindibili.
Perdono imperdonabile, amore dissolto, il fuoco della disperazione e della follia, una certezza tardiva:

…” Ti amo, e sarò per sempre: Tollak di Ingeborg”…

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68 Opinione inserita da 68    01 Mag, 2024
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Desiderio di essere

…” L’ unica cosa che volevamo era essere amate. Amate così come eravamo, tutto qui. Senza doverci censurare, ne’ adattare ne’ sottomettere. Ne’ coperte ne’ fameliche, solo con i nostri corpi, che siamo noi, con i nostri caratteri, i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre ferite, quelle cicatrizzare e quelle ancora aperte. Nient’altro”…

Amare ed essere in giorni ricoperti di niente, due giovani arabe emigrate a Barcellona, nuclei famigliari vicini e contrapposti, da una parte la censura genitoriale e la religione quale rigida appartenenza, dall’ altra la libertà espressiva in un contesto chiacchierato dove essere se stessi. Anime e corpi uniti da ciò che non li accomuna, specchio inverso, la voglia di fuggire dal proprio mondo per stare nel mondo, ogni lunedì il ritorno a ciò che non appartiene.
Un lunga lettera ricordando la forza di un amore, forse l’ unico, un altro se’ per salvarsi dalla disperazione assoluta e dalla pazzia.
La giovane protagonista del romanzo è in fuga dal reale per proiettarsi in un mondo di desideri, libri, amore, sesso, libertà, la lettura fedele compagna per imparare a vivere e per paura di vivere, vogliosa di guidare il proprio destino.
In lei la contraddizione di un se’ punito per i propri desideri, solo, schiavo di una tradizione che tutto prende, la voglia di essere altro, l’ asfissia del presente contrapposta alla sfrenata libertà individuale, fotogrammi del passato che ritornano, la difficoltà di immaginare altre vite oltre la propria, la scrittura come dolce riparo.
Una vita indirizzata altrove, tentativo di fuga denominato amore, un ‘ amicizia che e’ salvezza, diversità, libertà espressiva.
Quando la solitudine si accompagna alla sofferenza, pronti a morire nel sonno, stanchi di indossare una maschera, si auspica un riscatto per ritrovarsi sposati a diciotto anni, una giovane donna araba, immigrata, povera, sola, mentre gli anni accompagnano il dolore della rinuncia interrogandosi su un senso di normalità estraneo a una madre ventenne che ha lasciato a metà i propri studi universitari.
Quella libertà così a lungo inseguita, duramente conquistata, sfocia in una neo dimensione cosciente, ma che cosa significa essere liberi, amare, essere amati, e

…” si può amare se non si è mai stati amati come si deve?”…

In realtà la libertà non pone fine alla sofferenza nel ricordo e nell’ immagine di

…” quel letto a castello di metallo rosso a due palmi dal soffitto”…

La ferita personale, invisibile, ancestrale che ci si porta dentro riguarda molte donne, una verità svelata ai propri occhi e che

…” nulla ha a che vedere con lo scontro tra due culture o con l’ integrazione, ne’ con il fatto di essere a cavallo tra due mondi e nemmeno con tutto ciò che ci preoccupava tanto”….

Il romanzo di Najat El Hachmi è un viaggio formativo in un reale indigesto che una giovane donna araba immigrata vive sulla propria pelle. Voce femminile, di tutte le donne, recluse in una vita negata, indesiderata, costrette all’ accettazione di una anormale a normalità, a una segregazione coatta eletta a legge, a lottare per la propria dignità, indirizzando una vita che sia esente da violenza e ignoranza, per

…”essere, essere essere”...

Una ricerca quotidiana, di tutte e per tutte le donne, ma anche individuale. E allora il proprio se’, investito dagli eventi, invischiato in un ideale giustamente esposto, in una lotta indistinta, rischia di perdere spezzoni di storia, quella dimensione interiore e intima che non ha saputo riconoscere e soccorrere i reali bisogni altrui, ritrovandosi soli a rimpiangere quello che non è stato, che non si è detto e non si è fatto, relazioni intime offuscate da un desiderio di libertà acciecante.

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68 Opinione inserita da 68    22 Aprile, 2024
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Attesa vivente

….” Siamo in perenne lockdown, ognuno di noi lo e’. Solo che non lo sappiamo, tutto qui. Ma facciamo del nostro meglio. La maggior parte di noi cerca solo di arrivare in fondo”…

…” e ho sentito dentro la scossa leggera di un presentimento, un presentimento che riguardava me e il mondo intero. E mi sono aggrappata a quell’ uomo come se fosse l’ ultimo essere umano rimasto sulla Terra, triste e bellissima com’è”…

Duemilaventi, inizio della pandemia, la scrittrice Lucy Barton lascia l’ amata New York per trasferirsi nel Maine con l’ ex marito William, il futuro è imprevedibile, uno stato di isolamento lontana dai propri affetti più cari, una quotidianità sconosciuta e poco rassicurante, in lei un’ ansia che declina in nostalgica malinconia.
Il Maine è per i newyorkesi un luogo dove essere disprezzati e considerati alla stregua di untori, per Lucy si prospetta distanziamento sociale, solitudine indotta, lunghi giorni piovosi in cui sostare all’ interno di se’ condividendo l’ isolamento con un uomo che appartiene al passato. Il suo futuro prossimo potrebbe definirsi infausto, il presente rivestito di altro, un percorso circostanziato in compagnia delle proprie umili origini, riconsiderando affetti lontani, relazioni perdute, decisioni definitive, come moglie, madre, scrittrice.
Non si tratta del bilancio di una vita ma di un nuovo inizio con la paura di perdere una parte di se’, amori, inclinazioni, aspirazioni.
Il cambiamento è necessario per sopravvivere, forse è un atteggiamento egoistico, uno stato di incertezza, ansia, insonnia in un tempo dilatato da una stasi protratta, il cuore di Lucy è diviso tra il passato, New York e l’ex marito David, e il presente, il Maine e la convivenza con William,
Riflessioni malinconiche si susseguono invischiata in una condizione che le appare come

…” una distesa di ghiaccio da attraversare ogni giorno”….

Da lontano New York assume un’ aria spettrale, continue immagini televisive di morte con la preoccupazione per la sorte delle proprie figlie, di un fratello lontano, eppure il ricordo non riesce ad allontanarla affettivamente dalla metropoli.
Ciascuno esprime la propria storia, un’ intrinseca diversità in un mondo da subito violento e incurante, ciascuno pretende di essere ascoltato, vorrebbe sentirsi importante, gradirebbe un abbraccio.
Lucy Barton attraversa il proprio flusso di coscienza, rivede e ricorda, pervasa da una tristezza ondivaga sovrapponibile alle maree, l’ incertezza della pandemia la confronta con il pensiero della vita e della morte.
Scruta l’ oceano e ne trae conforto, ricorda la propria infanzia, quella madre assente e crudele ma sempre e comunque sua madre, della quale inventarsi un’ immagine buona, guarda William considerandone il senso di solitudine, pensa alle due figlie lontane interrogandosi sul loro destino, si scioglie nella tenerezza di un abbraccio e nelle parole gentili di un amico, condivide una vicinanza solidale con una donna intrisa del proprio sentire.
Nel frattempo l’ isolamento si protrae, il virus si allarga, i morti riportano al proprio senso di appartenenza, i vaccini ridanno speranza.
Il viaggio stanziale di Lucy genera in lei una nuova consapevolezza, la solitudine dell’ infanzia, quel lockdown in cui ha vissuto e che mai l’ abbandonerà, accusata di egoismo dalla sorella Vicki, affranta dal suo stesso senso di solitudine, ripensando a perdite definitive, al distacco dalla casa della propria infanzia, tutti elementi che le fanno credere di avere reciso con il passato.
William pare lontano ma in fondo lo è sempre stato, il ricordo di David le scivola dalla mente inspiegabilmente, l’ amara verità le dice che non ci sono risposte definitive, solo ipotesi e sensazioni mutevoli nello scorrere di una vita che ignora il proprio futuro.
E allora si interroga proprio essere scrittrice e su quanto effettivamente i suoi libri abbiano aiutato la gente, comprende la diversità tra William e David, riconosce essere giusto che le proprie figlie navigano al largo, con il presentimento che la vita trascorsa e’ finita per sempre.
In una vicinanza condivisa Il dolore rimane un sentimento del tutto personale, uno stato di solitudine, chiedendosi quanto le nostre scelte ci appartengono realmente.
Un romanzo profondo, necessario, arguto, doloroso, reale, inserito in una prosa fluida, colloquiale, una donna ditata dell’ unicità tipica dei personaggi della Strout ( a questo proposito ricordiamo Olive Kitteridge peraltro presente nel testo).
La pandemia è un respiro asfissiante che genera una neo dimensione relazionale con un forte senso di disadattamento e di ansia sociale, ma anche personale.
È il racconto di una solitudine infantile incollata addosso, di un senso di inutilità e di scarso valore non scalfito dalla propria dimensione di notorietà, un viaggio stanziale tra domande, riflessioni, memoria, incertezza, vita vissuta, aggrappandosi al poco o al tanto rimasto.

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68 Opinione inserita da 68    13 Aprile, 2024
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Sospensione relazionale

…” Sarebbe bello se una volta morti si potesse uscire da se’ stessi per sedersi nel cinema deserto in cui è stata proiettata la propria vita. Sarebbe bello potere piegare il tempo in due, come se fosse un pezzo di carta, farci un buco e congiungere il presente con il passato”..

Lo scorrere di una vita può assumere colorazioni difformi, insidie, imprevisti, legami costruiti faticosamente, la felicità condivisa di un amore, la fine di un amore, un lutto improvviso, l’ inizio di altro, il dolore della perdita, rifiuto, rabbia, un processo di auto annientamento in una solitudine protratta, la nostalgia del ricordo, un’ abulia del presente in giorni ricoperti di niente.
Fotogrammi del passato in una quotidianità fatta di gesti e di parole condivise, la progressiva elaborazione della perdita, una progettualità ridefinente in un tempo scandito dalle sfumature della dimenticanza e ora indirizzato al nuovo, matrimonio, famiglia, figli, il ritorno alla vita, all’ amore, del passato solo pochi dettagli sfumati.

…” Non è più la mancanza tagliente dell’ inizio e non è neanche il dolore della perdita. È qualcosa di più diffuso, è una vaga malinconia”..

Che cosa ci appartiene e ci è appartenuto, ci ha uniti, resta di noi, giorni riempiti di un’ armoniosa presenza, cosa sarebbe se tutto improvvisamente finisse e ci trovassimo, post mortem, a osservare e a indagare la vita senza la nostra presenza, spettatori del proprio ricordo?
È questo il destino infelice che investe i due giovani protagonisti, una coppia alla vigilia delle nozze, lui vittima di un incidente stradale mortale, lei improvvisamente sola, incredula, anestetizzata nel dolore, impossibile porvi rimedio. È un lutto vivido, viscerale, lacerante, un punto esclamativo che richiama il passato condiviso caratterizzando il presente, un’ assenza ingiustificata, nessuna idea di futuro.
Non resta che constatare la propria mancanza dialogando con il ricordo, con se stessi e con l’altro in una vita che ormai non ci appartiene se non nei sentimenti più veri, convivere con un ego ferito, che nega la propria insostituibilità riversando una gelosia ingiustificata.
E se, un giorno, si potesse ritornare azzerando il passato, ripartendo da dove si aveva lasciato, tutto sarebbe come era o in qualche modo diverso e che cosa rimarrebbe di noi, del nostro essere, del passato, nel presente, quale futuro?
Che il proprio destino infausto abbia determinato la svolta, sostando nel proprio io più profondo, ridiscutendo se stessi e il proprio sistema relazionale, oppure l’ osservazione, l’ ascolto, l’ elaborazione indotta rivelano una constatazione evidente, che nessuno è così insostituibile da indirizzare una giovane vita per sempre?
Un ego ferito, affranto, destabilizzato, un’ interiorità frammentata, l’ idea che nulla sarà più come prima, una neo dimensione cosciente sospesa tra vita e morte in una elaborazione filosofico- esistenziale per nulla soddisfacente, il sentimento sostituibile di un amore che forse non aveva niente di speciale.
Chi siamo realmente, che ne sarà di noi, come ci relazioniamo con l’ altro che rischiamo di perdere, abbiamo già perso, assentandoci in una solitudine sentimentale sospesa tra sogno, illusione, certezza, mentre non resta che un silenzio parlante nella certezza di una fine.
Un romanzo lieve nel proprio mostrarsi, greve nei temi proposti, lineare nella trama definente. Se la prima parte elabora il lutto e il ritorno alla vita con una certa timbrica vivacità espositiva, nella seconda si prospetta una forma inversa, giorni inquieti e funesti macchiati da un senso insensato e da un’ idea della morte impregnata di un egoismo fagocitante sfociato in un eccesso teorico e in un caos poco definente ma definitivo.


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68 Opinione inserita da 68    09 Aprile, 2024
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Pensieri di assenza

…”Nulla si avvicina davvero e nulla se ne va per sempre”….

Sei anni condivisi attendendo il futuro, un distacco improvviso, imprevedibile, inaspettato, traumatizzante, Amos e Anna, una coppia spezzata da un’ assenza che vive di memoria sospesa, di una trama vissuta, inventata, dolorosa, trattenendo l’ altro dentro una parte di se’.
Amos un giorno è uscito per non fare ritorno, accompagnato dalla propria smemoratezza, forse per dimenticare il presente, di lui si sono perse le tracce, il dolore di Anna rimane per sempre.
Una vita indebitamente sottratta, domande, sospetti, percorsi noti, l’ amore di madre, l’ impossibilità di abbandonare il cammino intrapreso per non cedere all’ oblio della dimenticanza.
In lei uno stato indefinito, specchiandosi nella assenza dell’ altro, afferrando tutto quello che di lui resta, carte, pagine, versi, poesie, aggrappata a una memoria che cambia e corrode uno stato di attesa

…” ora so che niente è più silenzioso della memoria”…

Tra le pagine un dolore vivido che stenta a prendere forma, una vita ritratta, giorni smarriti, una donna che mai avrebbe pensato di sostare in una memoria sospesa e cancellata, sola e priva di appigli.
Come ridefinirsi in un quotidiano condiviso con l’ altro e svalutato improvvisamente, in abitudini estranee a se stessi, Anna e le figlie si proteggeranno a vicenda da un dolore mutante, gli altri hanno perso le parole, in lei un unico giorno, quello della scomparsa, attendendo il passato, il ritorno di Amos, una possibilità che le impedisce di vivere perché

…” la terra degli assenti è un luogo inaccessibile”….

Il dolore ridefinisce durata e consistenza in una percezione tinta di reale circostanziato, dimensione propria di una vita diversa.
La scomparsa è morte annunciata sperando in un ritorno, la gerarchia della sofferenza esprime gradazioni diverse, domande che reinterpretano un passato condiviso, come e’ entrato Amos nella propria vita, che cosa era prima di quell’ evento. E allora riemergono un padre inesistente e una madre scomparsa prematuramente, un vuoto riempito di libri e di idee per non precipitare

…”Vivo dentro una fine lunga e lenta che si è mangiata anche i miei inizi, perché mi ha costretto a rivederli, a ripensarli, con quel poco di speranza che mi è rimasta “….

Anna staziona all’ interno dei propri ricordi in una dimensione di sguardi, la sua attesa è paralizzante, desiderio inevaso, reale immaginato in cui sopportare una malinconica assenza-presenza, solitudine sempre più profonda, un destino collettivo che non ha alleviato il proprio dolore, un lutto vissuto personalmente.
Sei anni condivisi in cui vivere una vita intera, un’ assenza definitiva che l’ ha condotta in giusta compagnia, ascoltando un dolore inascoltabile, ostinandosi a ricordare, abbandonata da Amos, dal destino o da entrambi. Un dolore speculare in un’attesa che mantiene vivo il ricordo, l’ incapacità di raccontare il proprio padre alle figlie, un uomo che ha sottratto una parte di se’, imbevuto di una nostalgia profonda.
Il tempo non concede sconti, vecchiaia e morte condurranno a una fine immediata e definitiva, e allora si parla di viaggio e di nostalgia, di un’ immersione nei pensieri dell’ assenza, di inizio e di fine vita, di un’ immagine lontana che era promessa di futuro, di una strada percorsa e interrotta, di un vento che accompagna i pensieri di tutti e li raccoglie, di tracce che nascondono la propria origine, di onde che si spezzano al largo e non giungono a riva,
Un romanzo dai toni essenziali, lirico, intimo, struggente, scritto durante un arco temporale di sedici anni, un giusto addio alla moglie Federica scomparsa il 14 agosto 2022, un viaggio fluido nella forza sfuggente e atemporale dell’ amore.

…”:ho scritto questo romanzo per dire cosa ho perso: pezzi di memoria, frammenti di vita, ricordi non miei che andranno smarriti, perché vanno perduti i ricordi di tutti”…

Scrittura e vita si fondono e si confondono, Amos è scomparso ma potrebbe non esserlo, chi è realmente e cosa rappresenta, che la sua assenza corrisponda alla presenza dell’ autore, un destino comune sospeso, due dolori condivisi, personaggi autonomi, cangianti, imperfetti, in cui riconoscersi, distanti, tutti e nessuno potrebbero identificarsi nelll’ autore e a lui appartenere, una trama in fieri, mondi che solo in apparenza non esistono

…” perché io sono Amos, e sono anche Anna, e sono tutti loro. Li guardo e li proteggo . E più li ho guardati e raccontati e’ stata la mia vita a finire dentro un disordine da cui non so come uscire”…

Di certo la vita è un viaggio sentimentale in evoluzione continua, indefinito e indecifrabile, privo di certezze, se non che

…” nel passato, quelli che ami non muoiono”…



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68 Opinione inserita da 68    01 Aprile, 2024
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Infinito mostrarsi


Leggerezza e pesantezza, forza e debolezza, fedeltà e tradimento, anima e corpo, luce e buio, felicità e tristezza, forma e contenuto, flussi antitetici e complementari in una trama dai contenuti variegati e complessi. Un costrutto che attraversa il tempo, due coppie, unioni, intrecci , separazioni e una certezza:

..”l’ opposizione pesante-leggero e’ la più pesante e la più ambigua tra tutte”….

Praga, Tomas ama Teresa, Teresa ama Tomas, Franz ama Sabina, Sabina ha amato Franz, anni trascorsi nel cuore di digressioni socio-filosofico-esistenziali e dell’ invasione russa del 1968.
Che cosa concerne un certo modo di essere, che cosa induce a considerare l’ esistenza tinta di eterno ritorno, la pesantezza insostenibile e la leggerezza meravigliosa?
La vita è unica e come tale va vissuta, senza confronti ne’ rimpianti, ma vivere una volta soltanto è come non vivere affatto, il passato un’ essenza appiccicata addosso, un percorso non circolare che attraversa una linea retta.
Tomas è uno stimato chirurgo che sarà un lavavetri, un donnaiolo pervaso da un’ incompletezza sentimentale che ricerca la peculiarità femminile nella sessualità, il suo amore per Teresa è nato per caso, da una serie di coincidenze, un sentimento bello ma faticoso nel quale fingere, consolare, subirne le accuse, i sogni, sentirsi colpevole, giustificarsi, scusarsi, con la necessità di disamorarsi di una compassione che non ha e di cui lei lo ha riempito.
Tereza vive i tormenti di un amore sofferto, negato, assoluto, con la continua paura di perderlo, uno stato di debolezza e di rassegnata consapevolezza di essere una delle tante donne di Tomas, ricercando la propria anima in uno specchio che le riflette il corpo materno, il destino di
figlia in una colpa che non potrà mai espiare.
Franz è un professore universitario sposato e sicuro di se’, l’ amore per Sabina lo ha reso debole, vulnerabile, sottraendolo alla sua forza, rendendolo un seduttore impenitente che ha smarrito la voglia di lottare per riconquistare l’ amore.
Sabina è una pittrice innamorata dell’ intelligenza, della bellezza, della bontà di Franz, lui è tutto ciò che desidera e proprio per questo vuole distruggerlo, i due più si avvicinano e più desiderano essere lontani.
Quale comparazione tra leggerezza e pesantezza, Sabina sospinta dalla insostenibile leggerezza dell’ essere, Tereza da una pesantezza che vorrebbe scacciare per rifugiarsi con la propria anima in compagnia di Tomas.
Quante parole rincorse e ricoperte di significati, equivoche, divisive, definenti, diverse, figlie del proprio passato, ciascuno a suo modo ricerca l’ amore, la comprensione dell’ altro, la propria soddisfazione, un amore che

…” non è che il desiderio della parte perduta di noi”….


e che

…” non si manifesta con il desiderio di fare l’ amore ( desiderio che si applica a una quantità infinita di donne ) ma col desiderio di dormire insieme ( desiderio che si applica a un’ unica donna )”….


Kundera colloca i propri personaggi in un’ area di neutralità per svelarne i contenuti più intimi, li inquadra, li scruta, li analizza, elevandoli a simbolo di sentimenti incompleti e complessi che concernono un reale e un immaginario collocati in una prospettiva più grande.
Franz rientra nei sognatori, in coloro che vivono sotto lo sguardo immaginario di persone assenti, Tomas e Tereza hanno un continuo bisogno di stare sotto gli occhi della persona amata.
Il romanzo non è una semplice confessione dell’ autore ma un’ esplorazione lieve e profonda di ciò che la vita umana è e della trappola che il mondo è diventato, di certo l’ esperienza dolorosa dei protagonisti e di cio’ che rappresentano genera contrapposizioni, fusioni, incertezze, evasioni, fughe, ritorni, rimpianti, analisi e autoanalisi non definente ne’ definitiva in una Praga assediata.

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68 Opinione inserita da 68    18 Marzo, 2024
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Declinazioni difformi

Che cosa ci rende unici, diversi, apolidi, aggrappati ad un’ isola, lontani dalla terraferma, in dolce compagnia, in attesa, inesorabilmente soli, che cosa ci appartiene, a chi apparteniamo, come esprimere il proprio io più profondo? Quanto religione, genere, tradizione, identità famigliare, genia, storie, credenze popolari, invenzioni fiabesche hanno ci appartengono e ci rappresentano? Perché evadere da se stessi, allontanarsi dal luogo natio, da un’ illusione condita di falsità in uno stato assediato da odio e caos imminente? Come rendersi visibili nell’ invisibilità, indugiare nel travestimento?
“ Transizioni “ e’ una prolungata e asfissiante apnea del profondo, un giro del mondo vedendosi altrove, una fluida rappresentazione della cruda realtà circostante, un senso indefinito di perdita dell’ amore più grande, la propria identità.
Burjan e’ un giovane uomo che può essere donna, cambiare sesso, nome, nazionalità, luogo di nascita, spetta a lui decidere, gli basta aprire bocca, travestirsi, inventare una storia, un’ origine lontana, un posto dove stare sperando di essere.
Nessuno è obbligato a rimanere se stesso, di volta in volta può scegliere, coprire le menzogne con altre menzogne, è terribile non rappresentare niente per gli altri, essere nessuno, l’ invisibilità come morte prematura.
Di certo Burjan ha rinnegato la propria patria, l’ Albania, una terra di bugiardi, di nessuno, prigione retta da psicopatici, un popolo asfissiato, un luogo surreale, senza direzione, senza senso, abbandonato da tutti, lasciato a se stesso.
Una famiglia distrutta dalla morte del padre, nessuna certezza, presente e futuro, uno stato di abbandono e di solitudine sconfinato nell’ accattonaggio, il desiderio di evadere in un moto perpetuo di non cittadinanza, attraversando realtà divergenti, auspicate, che faticano a riconoscere e ad accettare il diverso.
Berlino, Madrid, New York, Finlandia, Italia, molteplici storie, la medesima storia, incontri, solitudini esposte, condivise, drammi personali, maschere di dissolvenza, sentimenti opachi e passioni travolgenti, uno specchio maledetto che sfugge al dolore dell’ altro, che ha interiorizzato le percosse subite in un mimetismo camaleontico.
Come essere senza riconoscersi, rinnegare origine, passato, nazionalità, iniziare una relazione non parlando mai di se’, riconoscere l’ unicità ignorando il genere di appartenenza?
Che cosa cosa ci rende individui, come guardare alla vita, non temere la morte, identità sottratte, il brusco e doloroso ritorno al senso di solitudine primario?
Un passato tuttora sospeso, non metabolizzato, un amore unico, diverso, atemporale, disperso in un mare in tempesta, un racconto che prende forma

…” nella biglia del suo occhio vedo il suo passato, i terreni muschiosi su cui ha galoppato, le strade tortuose che hanno divorato i soldati caduti dalla sua groppa e bevuto il sangue colato dai suoi zoccoli, e capisco perché non parla mai dei suoi ricordi più orrendi, perché li scaccia sempre dalla mente, lasciando che cadano dalla finestra come bambini da una casa in fiamme ”….

mentre un pensiero ritorna

…”. Non importa dove saremmo finiti perché tutti i luoghi dove ero stato con lui erano stati una casa”…

“ Transizioni “ è un viaggio fluido nell’essenza di un giovane all’ inseguimento di una definizione personale da lui stesso negata. La prosa di Statovci restituisce un elaborato complesso che sfugge a ogni definizione, solido nel calarsi in un reale crudo e molesto, intimo nella sofferta ricerca identitaria, fluido nella transizione corporale, nel travestimento e nell’ indefinitezza di genere, ipnotico e seducente nella rielaborazione di un mondo, tra storia, sogno, fiaba, leggenda.
Che lo scopo ultimo della ricerca non sia la propria origine?
Uno scrittore di grande talento che sa muoversi magistralmente in mondi ugualmente diversi, paralleli e discordanti, restituendo significati profondi ed emozioni vivide a una vita da definire e in gran parte già definita….

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68 Opinione inserita da 68    06 Marzo, 2024
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Rassegnazione….

Un gelo onnipresente e onnicomprensivo, ambientazioni buie, cupe, pesanti, anime perseguitate da tristi presagi, due protagonisti lontanamente vicini fino a toccarsi, un nichilismo che profuma di dissolvenza. In una prosa ripetitiva, ossessivamente lucida, anche delirante, cara a Bernhard, pensieri difformi, monologhi torrenziali che creano, trasformano, trasfondono immagini, suoni, voci, oggetti, parole, una cupezza afinalistica che ritorna all’ essenza primaria, scartando l’ ovvio per cedere a solitudine, incomunicabilità, sofferenza.
Un giovane assistente medico inviato a Weng, sperduta località montana, dal chirurgo Strauch per studiare il comportamento del fratello, un ex pittore che ha bruciato tutti i suoi quadri. Situato in una fossa è il posto più malinconico che esiste, disossato, lugubre, funesto, presagio di malattia e morte. Alloggerà, come il pittore, in una locanda frequentata da individui loschi, ripugnanti, controversi, contornato da ombre di uomini, voci di ubriachi, infantili e stridule, frammenti di vite sconosciute, una gelida rappresentazione umana.
L’incontro e la frequentazione con il pittore innescano un monologo su tematiche perlopiù artistiche, filosofiche, esistenziali, sovente inconcludente, fatalista, mai banale, un meccanismo interno di disintegrazione difficile da comprendere per chi abita un mondo scientificamente costruito su un fine, la conservazione della vita.
Chi è Strauch, artista folle, fine pensatore, misantropo, egocentrico, anima indirizzata a suicidio certo, semplice oggetto di studio e diagnosi, un uomo che soffre di una malattia mortale, caduto in depressione, quanto presente a se stesso, agli altri, al reale? Come frequentarlo preservandosi dalla sua grandezza fagocitante, come relazionarsi con chi sa leggerti dentro conservando il proprio anonimato, fluidifica ogni cosa e ti sovrasta?
Malattia, dolore, ricordi, una vita da subito indirizzata alla solitudine affettiva dal desiderio di altro, un’ eccentricità straordinaria, unica, irraggiungibile nel proprio flusso autoanalitco, Strauch ha bruciato tutti i suoi quadri quando ha capito che non valevano niente, perso nei propri pensieri, condannato, a pochi passi dalla rovina.
Due vite estranee e complementari percorse da un fluire lento, agitate e corrose dai propri pensieri, che condividono un senso di solitudine, il non essere mai stati amati, costrette a badare a se stesse precocemente.
Una voce narrante non inquieta e irritata come il pittore, per il quale malattia e dalla morte sono cessazione del dolore, liberazione, in primis da se stesso e dal proprio vuoto interiore.
Un cambiamento in atto, corresponsione e dimenticanza, lo scopo del proprio soggiorno, immersi in una quotidianità monca, in

….” un’ umanità incomprensibile perché umana e comprensibilissima perché inumana”…

sovrastati da una tristezza sovrapposta alla sofferenza.
Il pittore e’ un individuo enigmatico in conflitto con se stesso, per il quale tutto e’ passato, lontano, finito, votato a un esito infausto, una soggettività sovrastante, il narratore ha un incarico a termine che lo costringe a prendere appunti ma non sa da dove cominciare. Strauch è inclassificabile, incompreso, incomprensibile, inabissato, si è impossessato dell’ interlocutore, preda impotente di opinioni, morbosità, assurdità.
Un percorso in parte condiviso, lunghe peregrinazioni, dialoghi interminabili, due individui, un esperimento, inizio e fine di tutto…

… “ la vita è disperazione pura, è la disperazione più chiara, la più oscura e la più cristallina delle disperazioni. Lì dentro ci conduce soltanto un sentiero che attraversa la neve e il ghiaccio, lì dentro nell’ umana disperazione in cui si è costretti a entrare: al di là dell’ adulterio commesso dalla ragione”…

….” sono così esausto, sono incredibilmente esausto”….

La lenta e ripetitiva prosa di Thomas Bernhard evidenzia un’ ossessione da subito manifesta, quel gelo onnipresente e onnicomprensivo, in primis nella mente di chi osserva e non si accontenta. Quanto il proprio paesaggio interiore, nella lugubre e spoglia esteriorità, in una infinita ragnatela di cause ed effetti, si alimenta e basta a se stesso, quanto la propria spiritualità riflette sul senso insensato di una vita vivisezionata e fluidificata?

Qualsiasi contatto esterno smarrito da tempo, una parte di se’ scomparsa prematuramente, condannati alla tristezza e alla sofferenza, dispersi, nel mentre c’è chi fa ritorno al proprio cammino pregresso.

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68 Opinione inserita da 68    02 Marzo, 2024
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Vita sottratta

…” Ho il mio posto tra due pareti sotto una finestra, appoggiata a una sedia sbilenca “…

Algeri, primi anni ‘70, una vita strappata a se stessa, invecchiata precocemente, nelle mani di una religione e di un padre che ne intralciano il cammino, all’ ombra della propria madre, abdicazione dei sensi, trionfo di rassegnazione, passività, paura.
Che cosa rimane senza presente e futuro, accettando una personale colpevolezza per qualcosa che non si è commesso, quando si è uno spaventapasseri articolato, una femmina dal sesso marcio, quando si cerca di rubare un frammento di vita che mai ci apparterrà?
Questa la quotidianità di una ragazza musulmana nata in un paese musulmano, respinta, annoiata, repressa, prigioniera nella propria casa,

…”una vecchia adolescente avvizzita prima del tempo”…,

pervasa da una tristezza che è un’ appendice di staticità, sostanza viva

…” fusa ai lineamenti del proprio volto”…,

una tristezza appiccicosa, sorda, cupa.
Quali pensieri la attraversano, come trascorrere il tempo, non annoiarsi, vivere l’ assenza del vivere? Si può ignorare ciò che non passa, considerare le cose semplicemente per quello che sono, immaginare recandosi altrove, in un altro tempo, trasportati da creatività e forza interiore.
La giovane protagonista svela una quotidianità infausta, buio, mutismo, solitudine poco gratificante, rassegnazione certa, rinchiusa in un corpo femminile che è peccato da nascondere, diventando

…” L’ ombra di un quadro mal riuscito”…

A contorno un film da sbirciare in lontananza, dietro una finestra, spettatrice clandestina, sospesa sopra la città. Allora tutto crolla,

…” il domani diventa ieri e l’ oggi non è che un intermediario tra il simile e il simile”…

In una condizione siffatta non resta che alimentare i pensieri in un’ esistenza sterile sbocciata nel ventre della propria madre, come quella delle proprie figlie un giorno sarà nel proprio. Un paese maschile da cui eclissarsi, uno smisurato manicomio percorso da uomini impazziti, schiavi della religione, separati dalle donne per sempre.
La salvezza? Un mondo irreale ma benevolo, l’ immaginario.
Il proprio cuore? Una tabula rasa.

…”lucidata dall’ indifferenza, rivestita di gelo, intagliata dalla roccia”….

La solitudine le ha insegnato la , l’egoismo e la rassegnazione, nessuna lacrima per gli altri, eco di se stessa, unica interlocutrice in una casa tempio dell’ austerità, nella quale tenerezza, gioia o pietà sono decapitate dallo sguardo inquisitore di un padre e dall’ odio di una madre.
La menzogna riempie i vuoti di un’ adolescenza rubata a un’ anima deceduta da tempo, rovinata dalla sottomissione e con una certezza

…”Una donna musulmana lascia la sua casa per due volte, per il matrimonio e per il funerale, così ha deciso la tradizione”…

Poche parole esprimono l’ intenso e toccante contenuto di un racconto trasudante immagini vivide e significanti e, oltre i crudi temi affrontati, profondamente poetico, cronaca di un’ educazione non sentimentale, gesti dolenti, sguardi intensi, una tristezza stagnante sottratta a ogni umana presenza.
Come può una vita essere maledetta, nascosta, contraddetta nella propria accezione più vera, ostaggio di un Dio e di un padre, con un destino già scritto, rinchiusa e reclusa in un corpo esiliato, privata di amore, pulsioni, slanci emotivi, costruzione sentimentale, una stanzialita’ abbandonata a se stessa, la fantasia unica alleata fedele, sogno allucinato e allucinante con vista su una fetta di mondo…

…”una vita fatta solo di sguardi”...

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68 Opinione inserita da 68    27 Febbraio, 2024
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Assoluzione difficoltosa

"…Non c’è vita senza una doppia vita…”

Daniel Savage vive come una svolta la propria nomina a giudice penale, un giudice di colore che pensa sia finito il tempo delle metamorfosi e di essere finalmente diventato se’ stesso.
L’ acquisto di una casa con un nuovo caminetto e un nuovo pianoforte, la rappacificazione con la moglie Hilary, insegnante di musica, il tempo da dedicare ai figli Sarah e Tom, la possibilità di diventare grasso, contento e appagato.
Il passato ha archiviato tradimenti e storie dimenticate, il presente è un ruolo di esempio e di integrità da sostenere al cospetto dell’ opinione pubblica e della comunità.
Una storia a lieto fine che comincia a scricchiolare, telefonate notturne, una giovane coreana che lo riporta a una relazione pericolosa e fugace, l’ ostilità di Sarah, la diffidenza di Hilary nel riconoscergli il ruolo di marito devoto, un amico sopraffatto da una profonda crisi depressiva, un fratello con cui riallacciare il legame perduto, nuove scappatelle sentimentali, l’ importanza del proprio ruolo istituzionale alle prese con un caso nebuloso e contorto.
I pensieri di Daniel corrodono la sua tranquillità, si formano e si autoalimentano, braccato dalle ombre di un passato controverso, dai propri desideri inevasi, da una leggerezza emotiva che ogni volta ritorna e che non riesce a dominare. Si scopre vulnerabile, debole, un bersaglio, di fatto sussiste una contiguità tra il tribunale e la sua famiglia, entrambi vanno convinti di un reale possibile in uno stato di menzogna protratto.
La sua felicità nasconde l’ idea di una vita in qualche modo giunta al termine, esaurita, il divario tra realtà e abito cerimoniale sembra stritolarlo, confondendo le acque, chi lo circonda pecca di limpidezza, si mostra per quello che non è, forse un doppiogiochista.
Un giudice che vive una strana sensazione di turbolenza, risospinto in un passato recente, si chiede chi è realmente, un attore con una buona educazione che ha imparato a essere un bravo ragazzo, cresciuto in una famiglia di cui conservare le tradizioni, un egoista che ha sempre pensato a soddisfare i propri appetiti sessuali, un uomo dalla doppia-tripla vita con un ego smisurato?
Quanto sa dei suoi figli, del suo migliore amico, della moglie, delle conoscenze più intime, fino a che punto è disposto a cambiare per salvare la propria continuità famigliare? Solitamente non ricorda le proprie colpe, in parte rimosse, presente e futuro gli restituiscono un vissuto controverso.
Come può un giudice avere la coscienza sporca, guardare gli imputati e pensare di sostituirsi a loro, immaginare di essere altrove, accatastare immagini, paure, sentimenti, travolto da un vortice di precarietà e ricadere nei medesimi sbagli?
Quale realtà nel paludoso giogo tra vita e morte, verità e menzogna, imputati, giuria, vittime, colpevoli, tutto si gioca su un equilibrio precario in un fondale grigio e limaccioso che ogni volta confonde e ribalta ipotesi, indizi, supposizioni.
Il doppio se’ imperversa, la vita non è ciò che dovrebbe, tutto pare finire, rinascere, il telefono strilla, c’è chi è scomparso, chi si è negato, chi cerca di sopravvivere ai propri fallimenti e chi pensa che tutto gli e’ stato sottratto.
Il romanzo di Tim Parks promette una trama ricca di suspance sulla scia di misteri irrisolti e di una vita contorta dagli innumerevoli volti. La prosa è vivace, scorrevole, persuasiva, il giudice Savage insegue e rappresenta voci raffiguranti reale, immaginario, sogni, ipotesi, una coscienza sporca invischiata tra es e super io, uno stato confusionale che finisce con il riproporre identici gesti e parole, mentre il lettore tra le pagine ipotizza scenari improbabili.
Semplicemente permane uno status quo che è il limite del romanzo, perché tutto alla fine si è mostrato esattamente per quello che è lasciandoci un senso di incompiutezza in una ovvia e poco intrigante commedia umana .

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68 Opinione inserita da 68    25 Febbraio, 2024
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Lo scorrere di una vita invivibile e invisibile, chiedendosi chi realmente si è , che cosa gli altri vedono di noi, qualcuno o qualcosa, figli e figlie, quanto tempo a rigettare l’ evidenza per ritrovarsi a rimpiangere chi si è amato e inesorabilmente perso per indifferenza, paura, egoismo.
Ognuno è la propria unicità ma si trascina la colpa di chi non ci ha voluto, investendoci delle proprie manchevolezze, delle violenze subite, di tradizioni vetuste, di rabbia, della paura della diversità.
E allora quale umanità se nel presente una giovane donna immobilizzata in un letto non può esprimere i propri sentimenti e incontrare la persona amata, se un giovane che è stato una bambina infelice tuttora è ignorato e respinto, se una madre abbandonata sentimentalmente dai propri figli nasconde un’ infanzia di violenze, di torti subiti e una giovinezza rubata ai propri sogni di donna?
Ciascuno ha una storia da raccontare, contigua e diversa, capolinea di un luogo della memoria che respira di solitudine, amarezza, rimpianti, consapevole di avere perduto per sempre chi in momenti più o meno lontani gli è stato accanto, ha cercato di capirlo, di renderlo libero, la vicinanza può esprimere lontananza.

Lucija è un corpo immobilizzato dopo un terribile incidente, sente e comprende ma non riesce a esprimersi se non a cenni, porta la sua storia dentro, un amore bellissimo e impossibile perché diverso, abbandonato a se stesso quando andava tenuto stretto e ora, paradossalmente, in una totale dipendenza fisica, il proprio sentimento non è mai stato così lucido e presente.

…” Non c’è orrore che possa più ferirmi, io al momento non esisto nemmeno, il mio corpo è triturato, la mia anima è altrove. Era rimasto il soffitto al tramonto, tutto quello che ho”…

Dorian e’ stata Dora ma si è sempre sentita Dorian, un cammino doloroso e dolente per acquisire una nuova identità, costretto a nascondere quello che è e che sente di essere, i propri sentimenti e l’ amore per Lucija.

…”Sono io la causa di tutto questo, è colpa mia quello che è successo. Il mio nome corrisponde alla mia immagine, la mia immagine alle vostre aspettative, le vostre aspettative sono la garanzia della mia esistenza”….

La madre di Lucija, che non ha mai approvato la relazione della figlia, nasconde una fragilità che le rimanda una se’ bambina tra privazioni, violenze, sogni infranti, arrendevolezza in una società patriarcale in cui la donna è da sempre ridotta al silenzio e considerata un’ appendice di manchevolezze.
I suoi due figli hanno scontato l’esito infausto di una vita fagocitata dalla furia materna, ma lei ha un’ intensa storia da raccontare consapevole che

…” ora, a distanza di tempo, so che se l’avessi lasciata andare, l’avrei avuta con me per sempre “…

E c’è un uomo trasformato in un grumo di dolore che, posto di fronte a una scelta, ha imbracciato un fucile per andare in guerra, ha visto corpi deturpati, case bruciate, la follia, in lui odio, buio e violenza ormai sedimentati.

Oltre l’ indicibile sopravvive un desiderio di normalità e di libertà che andrebbe ridefinito, una vita coraggiosa vissuta in prigionia, genitori soli, un corpo triturato, un’ anima altrove, chi senza passato e chi senza futuro in

…..” una società in cui era iniziata la persecuzione di quelle persone che la natura, nel suo affascinante miscuglio, aveva reso diverse, che soffrono sin dall’ infanzia l’ impossibilità di essere quello che sono, perdendo sovente casa, famiglia, lavoro, dignità”…

E allora non resta che abbandonarsi al caos, vivere la profondità delle proprie storie e dei propri mondi …” ingordi di pensiero”…, allontanandosi da chi crede che i propri …”occhi difettosi”… controllino la realtà.

“:Figli, figlie”, della scrittrice croata Ivana Bodrozic, è un romanzo intenso, a tre voci, diverse e complementari, che si avvale di una prosa essenziale, cruda, diretta per esprimere l’ insensatezza di una vita continuamente sottratta e violata.
Emozioni, sentimenti, società, famiglia, tradizioni, guerra, una superficie stratificata nel proprio desiderio più intimo, sovente inespressa e repressa, un linguaggio dosato e un timbro che insegue i tratti dei personaggi. È una vita invischiata tra possibilità di essere e obbligo di apparire, denuncia sociale e famigliare con intensi e fugaci attimi di intimità in una mirabile lucidità descrittiva.

Come l’ autrice ha sottolineato,

….”questo romanzo è una profonda richiesta di perdono verso gli invisibili, i sottomessi, gli indesiderati, coloro che hanno subito violenze e che sono stati costretti a vivere in Croazia all’ epoca della discussione sulla convenzione di Istanbul, questo romanzo è un atto di amore”….

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68 Opinione inserita da 68    22 Febbraio, 2024
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Quale amore?

C’è un modus amandi in cui sostano ricordi, desideri, sogni, emozioni e sentimenti che non lasciamo per paura di perderli, ignorando il dolore che ci riguarda, affascinati dall’ idea che tutto sarà come avevamo creduto e desiderato.
C’è un sentimento di appartenenza che tralasceremo, ancorati al giardino d’ infanzia, a un amore idealizzato, soggiogati dalle circostanze, da una socialità deviante, da egoismo, paura degli altri, scarsa conoscenza di se’.
E allora la vita deraglia, legandosi all’ ignoto, all’ impossibile, all’ improbabile, soffocati da domande e risposte inevase in uno stillicidio di desideri perduti con un’ identità abbandonata in un vicolo buio.
Inizi del nuovo millennio, questa è la storia di Christopher Woods, detto Kid, e della sua impareggiabile devozione per Thaddeus, caro amico d’ infanzia, che oggi gli chiede sostegno economico, un amore non corrisposto che lo imprigionera’ nei ricordi, limpidi e lancinanti, tra New York e il poco tempo che gli rimane prima della reale incarcerazione.
Thaddeus è uno scrittore di racconti triti e ritriti, sull’ orlo del fallimento, la cui ambizione supera il talento, una carriera hollywoodiana infranta, un lungo matrimonio con Grace, pittrice inesplorata, una figlia forse non sua, un uomo carnale che insegue l’ ammirazione, incoerente, contraddittorio, persuasivo, affascinante, una vita cercando di accontentare persone che non potevano essere accontentate, i suoi genitori, due librai da cui è stato tollerato, non amato, l’ alfa e l’ omega della sua ansia di compiacere.
Kid, ai suoi occhi, è l’ amico ricco, colui che può salvarlo dalla rovina permettendogli di tenersi la residenza di Okney, un’ oasi di successo che rischia di perdere, sommerso dai debiti, senza guadagni, un amico gay che ha negato di esserlo, che lo ama disperatamente, soggiogato al bisogno di essere amato, fragilmente esposto alle sue dissertazioni e a un giogo da cui è difficile sottrarsi.
Okney e’ un castello di carta da mantenere a tutti i costi, i soldi la discriminante, il fine supremo, l’ unico parametro di riferimento, ti comandano, ti parlano, ti definiscono.
La stretta relazione tra Kid e Thaddeus ha origini lontane, si nutre di sogni irrealizzabili e di sostanziale materialismo, reale e immaginario hanno costruito due versioni diverse.
Chi è Thaddeus e cosa nasconde, lealtà, recita, quanto tiene a Kid, cosa prova per lui, da cosa e da chi vuole essere salvato, dal matrimonio, dall’ amico, dal disastro economico?
Di certo conosciamo i sentimenti di Kid, ciascuno conserva una verità che non vuole ascoltare ma che inevitabilmente ritorna. E allora la tensione cresce, recita invadente e avvilente, la vicinanza menzogna e sofferenza, la lontananza alimenta il pensiero dell’ altro, interrogandosi sul senso del proprio amore, dubitando di se’ e della bugia che ci si è raccontati in un viaggio di non ritorno per chi ha deciso di nascondersi.
Amore non corrisposto, ossessione, farsa, pura recita a soggetto?
La passione non corrisposta insegue la vanità, le debolezze, il respiro, l’ ombra dell’ altro, il suono della sua voce, l’ odore della sua testa, in fuga dal proprio mondo per entrare in un luogo oscuro pieno di fantasie, di ricordi archiviati, di simboli e insensatezze.
Si arriva a un punto in cui l’ illusione e la speranza di un probabile amore non corrisposto vanno rimosse, in cui è doveroso confessare o uccidere i sentimenti destinando il proprio amore a qualcun altro o qualcosa d’ altro, per contro non resta che convivere con il proprio dolore.
Amicizia e gratitudine, parole ovvie e sincere, terribili e inascoltabili possono portare a una svolta, una fine lacerante per un nuovo inizio, evasi da un’ ossessione che libera quella parte di se’ a lungo inesplorata e sottratta.
Scott Spencer, conosciuto e apprezzato in “ Un’ amore senza fine “, suo romanzo d’ esordio, si conferma autore di spessore e talento in grado di costruire con poche tracce, un amore non corrisposto, una trama corposa e ricca di suspance.
Un inizio contrapposto, la distruzione di un amore e la speranza di un amore, una fine sovrapponibile e necessaria per liberarsi di un’ ossessione protratta, una prosa matura e riccamente vestita, dettagliata e finemente esposta, anche se la struggente veridicità dell’ esordio si lascia preferire nella propria implacabile semplicità, quel turbamento interiore che qui odora del colore dei soldi e di una socialita’ troppo invadente, sottraendo intimità, identità, profondità e intensità allo spessore dei protagonisti.

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68 Opinione inserita da 68    21 Febbraio, 2024
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Nuovi giorni….

Dopo quarantuno anni di onesto servizio presso una compagnia assicurativa londinese per il signor Baldwin è arrivato l’ agognato giorno del meritato pensionamento. Quante possibilità ad attenderlo, giardinaggio, libri da leggere, hobbies, tanto tempo a disposizione, una libertà del tutto giustificata.
Una breve cerimonia di commiato, il regalo di dimissione da parte dei colleghi di lavoro, una nuova era, un ultimo viaggio verso la cara e vecchia abitazione da sempre riparo sicuro in compagnia della devota moglie Edith.
Non è un giorno qualunque e in Baldwin, da subito, un’ inquietudine prende forma, la paura di rimanere solo, dimenticato, invischiato in un senso di vuoto e di inutilità, di non sapere gestire tante ore di libertà, lui che è da sempre un uomo metodico. A cinquantotto anni si sente ancora giovane, impreparato alla noia, e allora non gli resta che valutare un ventaglio di possibilità e scegliere quella più adatta alle proprie inclinazioni.
Cosa farebbe, cosa lo appassiona, in passato avrebbe voluto essere uno storico, e allora non c’è tempo da perdere, tomi voluminosi lo attendono insieme alle ricerche sul campo.
Ma come ci si può improvvisare in qualcosa che non si riesce pienamente a comprendere, quando mancano le basi, le spiegazioni di un esperto, di certo Baldwin non può contare su Edith, da tutta la vita dedita ad altro.
Anche per lei Il suo pensionamento è cambiamento, adeguamento ai tempi altrui, a nuove abitudini ed esigenze, la sottrazione di quegli spazi che, in assenza del marito, si è concessa. Il loro è stato un matrimonio senza contrattempi, un quotidiano esercizio di reciproca lontananza, una relazione priva di un pozzo profondo di interessi condivisi a cui attingere, limitata al racconto serale di semplici aneddoti in una quiete consolidata, perché cambiarlo improvvisamente?
Dopo solo ventiquattr’ore il clima famigliare è stravolto, insostenibile, esplosioni d’ ira, litigi, una insoddisfazione manifesta, una situazione destinata a durare per sempre, il senso di una fine.
E allora una svolta è necessaria, qualcosa per cui vivere, sperare, costruire, l’abbandono del passato per un nuovo equilibrio famigliare, un se’ che restituisca la voglia di appartenere al mondo e alle sue convenzioni, nuovi amici, piaceri, luoghi, interessi, ma di nuovo una voce interiore incombe, l’ incubo di sentirsi stranieri in patria azzardando un futuro che farebbe rimpiangere il recente passato sepolto.
Sherriff, già conosciuto in “ Due settimane al mare “, grazie a una prosa semplice, lineare, di stampo cronachistico, si conferma cantore di una quotidianità fatta di piccole cose, note, vissute, reiterate, descrivendo una borghesia cinica, egocentrica, ansiogena, che auspica e rifugge il cambiamento, con l’ incognita di un futuro già’ scritto ( in teoria ) e piuttosto fragile ( in pratica ), che ricerca al di fuori di se’ soluzioni a un senso di smarrimento o creduto tale.
La solidità delle mura domestiche, della famiglia, di gesti ritenuti propri, una routine che sembra dimenticare e scongiurare la dimensione intima per aspirare a un reale artificioso da costruire, consegnano il protagonista a un senso di inquietudine rivolto al nuovo per scacciare il vecchio, un equilibrio che dia certezze immediatamente delegittimate dal desiderio di essere dove si era. ( il proprio integerrimo se’), un orgoglio ferito colmo di superficie per sfuggire alla propria ombra e a sconosciute profondità.
E allora l’oggi, a dieci anni dal pensionamento del signor Baldwin, lascia una scia di indifferenza a chi osserva con oggettiva imperturbabilità la sopraggiunta modernità ovattata di quieto vivere nel semplice e inalterabile scorrere degli avvenimenti …

… “ mi accompagnarono fino al cancello, mi salutarono con la mano mentre svoltavo l’ angolo che mi avrebbe allontanato da Western Close. Attraversai adagio il vecchio paesino, accelerai lungo la nuova strada, costeggiai la stazione mentre una folla di uomini e di ragazze di ritorno dalla City usciva in fretta, poi la rombante circonvallazione si impadronì di me e mi trascinò via, verso nord”…

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68 Opinione inserita da 68    19 Febbraio, 2024
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Intimità violate

Un ménage famigliare di unicita’ divergenti, momenti di uno stesso giorno in tre anni diversi, ( dal 2019 al 2021 ), sentimenti, attese, speranze, ricordi, rimpianti, assenze prolungate e definitive, il cambiamento indotto dalla rivisitazione di se’, da un presente crudo e ingombrante, dal desiderio di crescere, da una ridefinizione del mondo.
L’ oggi si traveste di normalita’ in attesa di assenze annunciate e indesiderate, sogni rappresi in illusioni gratificanti, giorni difficili, complicati, ingombranti, una vita svuotata di senso, anni di perdurante routine.
Due genitori ( Dan e Isabel ), due figli ( Nathan e Violet ), un giovane uomo, Robbie, fratello minore di Isabel, la quotidianità di un’ immaginaria star di Instagram ( Wolfe), una famiglia ristretta in una casa altrettanto ristretta, relazioni sospese e presunte in una convivenza forzata quanto necessaria.
Dan e Isabel amano Robbie, ciascuno a modo suo, nessuna apparente gelosia, anche Robbie pare innamorato di loro, o meglio di

…” quell’ unica inquieta creatura che sono diventati, la persona che insieme hanno creato, romantica, dal cuore generoso, dolce e gentile”...

Che cos’è una famiglia se non ciò che queste persone sono diventate,

..”una specie di conglomerato che sopravviverà alle proprie scissioni, persino al divorzio che Robbie vede profilarsi, così come sopravvivera’ al fatto che lui non vivra’ più’ al piano di sopra”….

Robbie presto se ne andrà, oltrepassando le aspettative di una vita ragionevole, alla ricerca del vero se’, di un sogno, abbandonando le ceneri di amori dissolti per riflettere altrove, nella lontana terra d’Islanda, immerso in una natura selvaggia, dove

…” il cielo canta e i fiumi continuano a scorrere”…

,…” nella solitudine più’ estrema dove percepire il tempo che lo attraversa e attraversa il mondo in modo totalmente nuovo”…,

in un isolamento forzato dopo lo scoppio della pandemia, e allora non restano che messaggi nostalgici in cui riversarsi e fotogrammi da postare per sfamare la curiosità di una massa indistinta.
Nel frattempo Nathan e Violet, rinchiusi nelle proprie stanze, vivono in modo diverso i sogni e gli incubi dell’ infanzia, parlano un linguaggio condiviso, si sentono un po’ speciali, stanno crescendo, Violet auspica il ritorno di Robbie,

…”allora il mondo sarà migliore, intriso di battute e di speranza, della sua spumeggiante generosità’, della grandezza di cuore che si è’ portato via quando se ne è’ andato”...

Nel frattempo Dan, un passato da rockstar decaduta, ligio al presente, cerca di ricostruirsi ritornando a una parvenza di quello che fu

…” l’ accettazione scherzosamente stoica delle proprie delusioni e l’assenza di un futuro che lo aspetta ancora da qualche parte lo hanno prosciugato dalla rabbia”

mentre Isabel e’

..” una donna paralizzata dal proprio egoismo e dalla propria superficialità’ che non e’mai riuscita ad amare la propria vita abbastanza”….

per lei l’ amore si è dissolto, come il suo matrimonio.

Che cos’è la famiglia e che cosa resta di essa, quali relazioni, come può ricomporsi?
L’ isolamento da Covid ha precipitato la convivenza in una schizofrenia del presente con il sogno di essere altrove, in una neo condivisione di un tempo che altrimenti non sarebbe mai stato, impegnati nella gestione quotidiana delle solite attività.
Quale famiglia all’ inseguimento di un improbabile se’ in una gestione sottratta ai genitori stessi, con un certo grado di intimità che riguarda altri, quale rapporto con figli che ci vedono per quello che siamo, egocentrici, banali, superficiali, attratti da desideri sterili e debolezze ataviche?
Ciascuno insegue un amore che legittimi la propria appartenenza alla vita e al respiro famigliare, per i genitori, e spesso si sbagliano, i propri figli sono i migliori del mondo, ciascuno costruisce una visione del reale a propria immagine e somiglianza.
Forse l’ amore è stato smarrito, non è totalmente finito, come ci si sente a passare da una casa sconosciuta all’ altra senza che qualcuno lo abbia notato, svuotati di senso, semplici fotografie di se stessi, alle prese con il senso di colpa, ricercando l’ amore materno, come ci si sente da sopravvissuti alla morte, possedendo una certa interiorità e un nuovo riserbo, pensando per la prima volta al proprio futuro?
Altrove, in una baita lontana, non rimangono che vecchi libri ingialliti, il presente sono assenze definitive, nuovi equilibri famigliari, una vita che ripropone se stessa in una dimensione diversa, percorsa da una neo consapevolezza, nel frattempo

…” a volte è bello sostare soli in silenzio, senza parlarsi, in attesa che qualcosa nel mondo cambi”…

…” ma presto sarà il momento di tornare a casa e riprendere da lì’ “…
.
“ Day “ segna il ritorno al romanzo di Michael Cunningham autore reso celebre da “ Una casa alla fine del mondo “ (1991 ) e da “ Le ore “ ( 1999 ), già premio Pulitzer. Una voce narrante che rimanda a un’ intimità famigliare e sentimentale attraverso la quale catturare ed esporre le dinamiche del presente, quel cambiamento che riguarda un periodo ristretto, crudo e greve, che ha segnato e ingigantito fragilità umane mai così evidenti.
Padri, madri, mogli, mariti, figli, amici, compagni, discutono e vivono in una sospensione temporale, attraversano il tempo per restituire ricordi, voci separate e connesse in un’ unicità sottratta a un’ armoniosa presenza che tuttavia ricercano continuamente.
Ciascuno esprime la propria visione, essenze ed assenze relazionali, fragilità esposte, intimità mai come oggi negate, anche a se stessi, sognando un luogo in cui sostare ed essere, in compagnia di nostalgiche assenze e melanconiche presenze, ciascuno evolve nel vortice inespresso di una vita che ricerca un senso incompiuto, spesso irraggiungibile, racchiuso in se’ e spogliato dei sentimenti più veri, una convivenza necessaria per tornare a essere.

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68 Opinione inserita da 68    17 Febbraio, 2024
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Inquietudine manifesta

…” È ora di andare. Per concludere voglio dire solo questo. Se c’è qualcosa che amate , tenetevelo stretto perché non si può mai sapere quando verranno a portarvelo via”….

Voci dal passato e nel presente a richiamare un’ inquietudine manifesta, assenze, peccati, peccatori, rabbia, violenza, insensatezza, vite percosse e azzerate da un gesto terribile e indigesto.
Harmony, cittadina del sud degli Stati Uniti, un luogo segnato per sempre dalla follia di Iggy, un ragazzino delirante, deragliato, psicotico, con una rabbia che rivolge contro se stesso e un’ intera comunità, venticinque innocenti arsi vivi nel rogo della chiesa, un fuoco da lui appiccato accidentalmente mentre, con un gesto estremo, voleva bruciare se stesso.
Prima, dopo, durante, che cosa sottende questa mattanza, chi è’ Iggy, chi è stato, perché lo ha fatto, quali conseguenze tra i sopravvissuti, i parenti, ii conoscenti, i nati dalle macerie di questo terribile evento?
Iggy, prossimo a morire in carcere, si racconta, ma non è quello che da lui ci si aspetta, confessione, chiarificazione, ricostruzione dei fatti, di chi la colpa, della società, delle sue idee politiche, delle droghe assunte, delle violenze subite, degli amori traditi?
Immagini e parole di un’ anima annegata nella solitudine più vera, morta da tempo, che ripensa al passato perché non ha futuro, a cui rimane poco tempo, che si è data forza guardando le foglie che cadono, una vita che scorre al contrario, una voce che non sa e non gli importa quale versione dare di se’.
Iggy è stato un ragazzino abbandonato negli affetti più cari, un padre violento e una madre assente, è stato un amante respinto, risucchiato in un vuoto di odio per la vita, per se stesso, è stato anche altro, colui che ha provato a salvarsi, eroe e cattivo, ricco e povero, tutto e niente, poco importa.
Il fatto è compiuto, il resto, indignazione, lutto, rabbia, dibattiti, cortei, petizioni, tutto quello che questa tragedia si è portata appresso non ha valore se non nel desiderio incompiuto di giustizia per morti che non torneranno o in un senso pacificatorio dopo che Iggy sarà giustiziato.
Voci e gesti rievocano a distanza l’ eco di quel momento, ne sono parte integrante, tuttora inseguiti dalla sua ombra, incrociano altre anime erranti, storie di manchevolezze, vivono attimi di intimità e comunanza.
Voci che parlano di se’ e di Harmony, un luogo senza felicità, dove non succede e non cambia mai niente, dove la gente non fa che lavorare e andare in chiesa, cosparsa di un passato nebuloso, oscuro, inquietante.
Voci di una vita che Iggy non ha mai capito,

…” Quello che all’ epoca ritenevo un problema era semplicemente la vita. Non era né un bene ne’ un male. Era e basta”…

nella lunga discesa verso un luogo oscuro sempre più oscuro, ricordando un amore che trasformava i sogni in realtà mentre il reale era un incubo, un amore allargato che rendeva sopportabili i giorni e scongiurava la noia.

Il romanzo di Michael Bible racconta con toni aspri, crudi, violenti e una prosa contratta costruita su immagini e sensazioni forti, una provincia americana da tempo implosa in un individualismo aberrante e in una violenza ovattata da perbenismo cinico, oggi completamente deragliata in una socialità artefatta da un contesto di virtualità che favorisce solitudine ed estremismo, giovani soffocati e privati del vero respiro della vita.
Ciascuno naviga controcorrente, in un comune senso di inadeguatezza, imbevuto di precarietà e asfissiato dal presente, c’è chi non aspira più a niente, chi è stato annientato in un luogo di pace, chi mostra le cicatrici di un destino infausto, chi è vissuto altrove gustando il sapore aspro della solitudine sentimentale e chi resiste nel presente sapendo che il mondo presto finirà e non esisterà più nulla, al momento

…” in lontananza c’è qualcuno che mi chiama”….

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68 Opinione inserita da 68    17 Febbraio, 2024
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Quale destino?

Le relazioni a nutrimento degli otto racconti di “ La vita altrove “, una scrittura densa, essenziale, fluida a penetrare un quotidiano nebuloso tra reale e immaginario, sogni, destino, fatti fortuiti, speranze disattese.
Relazioni prevalentemente famigliari, assenti, smarrite, negate, recuperate, irrecuperabili, rottura ed evasione per ridiscutere il se’ e l’ altro, un nuovo inizio, un solco relazionale nato per caso, frutto del destino, relazioni estese alla natura e al mondo animale, a oggetti che prendono forma nella mente dei personaggi, riacquisendo un senso smarrito o che si credeva altro.
Anni difficili quelli pandemici, una clausura forzata ad azzerare e a ridefinire la socialità nel lento torpore della dimenticanza, il lavoro, l’ amore, la famiglia, i figli, un nuovo mostrarsi percosso da un disagio mimetizzato e camaleontico.
Il presente mostra crepe evidenti, incomunicabilità, inquietudine, silenzio, chi sono i propri figli, che cosa è rimasto di noi, dei nostri convincimenti, desideri smarriti e sottratti tra vuoto e intontimento.
C’è chi ricerca emozioni altrove, chi vuole preservare e conservare un improbabile equilibrio famigliare, chi riscopre in una pianta le profonde radici della propria infanzia, chi dopo anni si affaccia a un’ intimità parentale sottratta, chi entra furtivamente in momenti e luoghi di vita altrui rendendoli propri, chi respira nel quotidiano uno stato prolungato di sonnolenza, chi pensa di riconoscere e condividere altrove la propria condizione di orfano, chi scopre in una specie aviaria un ritorno alle origini e un viaggio di solitudini condivise.
Altrove, casualità, destino, parole che ritornano con la sensazione che si tratti solo di un sogno, inseguendo pregiudizi, fantasmi del passato, non focalizzati nel presente.
La famiglia e i suoi misteri irrisolti, menzogne, segreti, scoperte, le sue inconfessabili turbolenze, la consapevolezza che il male ci tocca direttamente, percorsi da uno stato di assopimento che guida le nostre vite amare.
Cos’è il reale e che come si mostra? Chi siamo e come ci vedono gli altri? Relazioni vivide o percezioni distorte? Universi paralleli o singoli accadimenti?
Ci sono luoghi che custodiscono un archetipo di umana presenza, il ricordo delle proprie radici, volti che sembravano persi, mimetizzati in uno stato di sterilità , che esprimono altro, stanze che richiamano presenze, assenze, desideri di una vita che non è, strappata, svuotata, negata, persa, un senso di vuoto onnipresente, non sapendo esattamente quando e come sentirsi a casa.

…”il mondo è pieno di rarae aves, di bestie rare che non sanno neppure di essere tali” …

…” di sicuro mi dimenticheranno come dimenticano tutto e finiranno con l’ abituarsi alla mia assenza. Forse arriveranno persino a credere di avermi conosciuto in sogno”…

Guadalupe Nettel riesce a trasferirci il meglio di se’, un universo cangiante di relazioni e accadimenti a richiamare un senso di spiritualità sovente disatteso nell’ incomunicabilità di silenzi protratti. Una scrittura limpida nelle acque limacciose del presente, quella vita moribonda che richiama il proprio senso più autentico cercando, dove possibile, una direzione oltre il semplice stato di sopravvivenza.
Non sempre ci riesce, nelle piccolezze del quotidiano si nascondono le verità più vere, quel respiro che induce alla riflessione rendendoci fragili, soli, infelici, dimenticati, misteriosi, ma ancora autenticamente vivi.

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68 Opinione inserita da 68    14 Febbraio, 2024
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Madri e figlie

Il rapporto controverso tra una madre ( Anna ) affetta da una malattia tumorale in stato avanzato e una figlia medico ( Sigrid) che da anni ne sottolinea le colpe, una famiglia allargata, figli, mariti, nipoti, un padre con un’ invalidità permanente, separazioni, sconvolgimenti, un se’ che non sa e non vuole rileggere la propria infanzia.
Sigrid, terminati gli studi, ha abbandonato il passato trasferendosi a Oslo, tralasciando il sentimento per il marito Jens, per il padre Gustav, per l’ invadente solitudine della madre Anna,
chiusa in se’ stessa e nella malattia del consorte, una donna arcigna, assente, lontana dai propri figli.
Oggi il reale assume colorazioni diverse, l’ invecchiamento e la malattia di Anna e un rapporto da recuperare, nel mentre Sigrid e’ immersa nel proprio senso persecutorio, nel legame con il compagno Aslak che ha saputo accoglierla e sostenerla dopo la separazione da Jens, nei sentimenti che ancora la legano a lui, nel rapporto turbolento con la figlia Mia, così vicina alla figura paterna.
Come può rimediare e ricominciare chi non si è sentito amato, abbandonato a se’ stesso, a un io ferito e dissolto, vittima da sempre dell’ egoismo materno?
Una malattia incurabile e un futuro a termine possono sospendere il passato, l’ essere figlia e la professione medica convivere e influenzare l’ oggi?
In primis si dovrebbe rivedere se’ stessi, quel camice bianco fallimento e riparo da ferite incurabili, anche se le relazioni madre-figlia e medico-paziente non sono complementari e la paura più grande rimane la scomparsa della propria madre.
Anna non sopporta la tendenza di Sigrid all’ autocommiserazione, quel suo ricondurre all’ infanzia dispiaceri e amarezze, anche per lei la vita è stata dura, alle prese con l’ invalidità di Gustav, due figli da crescere. Non tollera la paura, l’ ansia, la prudenza della figlia, vorrebbe decidere per se’, giorni intrisi di una spensierata consapevolezza, lei che sa di non essere una brava paziente, di non averne la capacità, la voglia, la forza.
Un rapporto che vive il non detto, il senso di abbandono e di solitudine, l’ essere state giovani madri e mogli di mariti assenti con la necessità di spiegare ai propri figli che cosa stava accadendo, un legame a tempo, da centellinare, diluire, conservare.
E allora crescono i rimpianti, la nostalgia di affetti negati, la rabbia per un sentimento di abbandono che costantemente ritorna e una neo dimensione, il non sapere come sopravvivere alla propria madre, l’ impossibilità di dire tutto ciò che andrebbe detto, facendo i conti con il passato.
Sigrid vive il desiderio di stare da sola con Anna, di condividere i pochi momenti rimasti, respirando il suo affanno, nel presente ascolto, leggerezza, silenzio, la dimensione più vera accolta in un ultimo bagno…

…” Fletto le ginocchia, spingo i piedi contro il pontile, mi lancio obliquamente contro la superficie scura. Sento uno sbuffo nelle orecchie, l’acqua è accogliente e fresca, io sono senza peso ma i movimenti sono impacciati dalla resistenza del fluido, solo dopo un po’ trovo il ritmo. Sincronizzo i quattro arti, bracciate lunghe e vigorose, scivolo in avanti verso la boa rossa”…

….”Nuoto veloce verso la quarta boa, la doppio e mentre torno indietro vedo Sigrid sul pontile. Si è messa il maglione verde, si fa solecchio con una mano, come se stesse scrutando l’acqua in cerca di me. A metà del percorso mi fermo e le grido: “ Forza, resto qui finché non arrivi”…

Helga Flatland scrive un romanzo relazionale e sentimentale con radici lontane, madri e figlie, un rimescolio che ne ridefinisce le parti. I pensieri di Sigrid e di Anna inseguono una dicotomia evidente, la razionalità medica e l’ irrazionalità del paziente che non ha più nulla da perdere.
Le sovrastrutture di una psicologia sentimentale datata si scontrano con la fragilità di un presente difficile e a termine, ciascuna rappresentazione discutibile e fallace, abbracciando le emozioni più vere, quei fugaci attimi di serenità che possono restituire il senso di una vita.
Un romanzo a forti tinte nordiche laddove penetra nei meandri di un’ intimità sovente celata e sottratta, in primis a se’, voci negate, un senso di vuoto a rendere, il dolore imploso nel tempo.
Tra le pagine la forza dell’ ironia, la capacità di leggere la complessità della vita e i suoi rivolgimenti cavalcando un senso di leggerezza che sa di profondità.



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68 Opinione inserita da 68    14 Febbraio, 2024
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Parole suadenti

…” i cuori e le labbra che si toccano, uniti ed eternamente separati”…

Il destino silenzioso e opaco di due vite corrose dal tempo, una sofferenza onnipresente in un oggi muto e senza volto. A lezione di greco antico, una lingua fredda e dura, morta ma tuttora vivida nella propria autosufficienza, richiamo di ragione e poesia, un’aula per ricomporre spezzoni di se’, una presenza-assenza rivestita di un tono dimesso, il linguaggio pacato di chi sta perdendo la vista riacquisendo il senso del tempo, il silenzio rarefatto di chi non ha più l’uso della parola imprigionato nell’ assenza di affetti negati.
Una donna muta e un uomo ipovedente, allieva e maestro, infanzie difficili, parole svanite improvvisamente, rinchiuse in un luogo più profondo della lingua e della gola e in un se’ sofferente, la vista che andava peggiorando, un amore sordo con il quale sognare di condividere l’ esistenza.
Oggi non resta che camminare nell’ arsura di una città rovente, sognare per vedere nitidamente, assaporare il suono di parole che bastano, condividere un luogo e la presenza dell’altro in un crescendo di percezione e di comunanza.
Il presente, dopo vent’anni, è un silenzio freddo, pungente, come

…” un ombra privata del proprio corpo”…

è un viso sulle cui guance non scorre nulla, una frase che risuona nella testa,

…” ci è mancato così tanto che non nascessi”…,

la perdita della madre, dell’ affidamento di un figlio, uno stato di necessità in cui ritrarsi progressivamente.
E allora ci si aggrappa al viso del proprio figlio e alle strofe di una lingua morta da incidere sulla carta, l’ uso della parola più lontano senza un vero motivo apparente.
A quarant’anni, condannato alla cecità, i dettagli prendono forma attraverso l’ immaginazione, luci e ombre si fanno indifferenti nel ricordo ancora sanguinante di un amore giovanile perduto per sempre, come per il mondo visibile, le giornate scorrono così’,

…” sotto l’ enorme massa opaca del tempo”…

Un’ unione rarefatta che oltrepassa il linguaggio e la vista, che si nutre di attesa e di silenzi parlanti, che ascolta, attende, assapora l’ altrui presenza, parla di se’ e della propria essenza, scrive parole cariche di senso, che ricorda i versi di un amore perduto, due cuori che si toccano e che continuano a non conoscersi.

….”Giungo le mani all’ altezza del petto.
Con la punta della lingua inumidisco il labbro inferiore.
Mi torco l’emani con movimenti rapidi e silenziosi.
Le mie palpebre tremano. Come ali d’ insetto che sfregano convulsamente tra loro.
Dischiudo le labbra, di nuovo secche.
Faccio respiri più profondi e ostinati.
Quando pronuncio infine la prima sillaba, chiudo forte gli occhi prima di riaprirli.
Come se mi preparassi a scoprire, nell’ istante in cui li riapro, che ogni cosa è svanita”…

Un romanzo quantomai intenso e sofisticato, viaggio stratificato e carezza dell’ anima nonostante quella sofferenza insistente e persistente nel cammino dei due protagonisti.
Avvolti in un silenzio inspiegabile e in una cecità progressiva, le parole non sono mai state così significanti e gli sguardi così dolci e intensi, ricolmi di attesa. Ambientazioni prevalentemente notturne in una Seul appiccicosa e rovente, toni pacati, attese protratte, gesti ripetuti, significati riposti, parole scritte che prendono forma, oggetti avvolti da un’ oscura presenza, frammenti di ricordi che si muovono generando immagini, colori scintillanti che brillano al sole, ombre oscurate dalla notte, morte, dissoluzione, parole terrificanti rivolte a se stessi…
Questo l’ universo poetico di Han Kang, un dono da fare proprio e da custodire gelosamente mentre

…” il silenzio si ammassa come neve che cancella per sempre le tracce”…

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Gialli, Thriller, Horror
 
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68 Opinione inserita da 68    11 Febbraio, 2024
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Quale colpa?

..”In realtà aveva le stesse paure degli altri, anche di più, compresa quella di guardare gli uomini in faccia”..

..” era molto stanco, era sceso nel profondo di stesso”..

Alain Poitaud, direttore di una delle riviste più lette in Francia, è un uomo arrivato che guadagna soldi a palate e che si accosta alla gente con un’ intimità esagerata e apparente, sposato con Jacqueline, che chiama Micetta, una donna immobile, assente, spesso silente, una semplice presenza.
La sua vita va di fretta, donne di ogni risma nel suo letto, frequentazioni importanti, epicentro del suo mondo, ma una sera di ottobre tutto e’ destinato a cambiare quando sotto casa si imbatte in un ufficiale giudiziario e in una notizia sconvolgente, Jacqueline ha confessato l’assassinio della sorella minore Adrienne con un colpo di pistola per ritirarsi, da quel momento, in un assoluto silenzio.
Invero Adrienne, giovane donna con dei grandi occhi inespressivi, e’ stata segretamente la sua amante, una storia nata per caso, finita da un anno, quale la causa del suo assassinio, gelosia, vendetta, inganno, e perché Micetta non gli parla più’ se non per scusarsi?
Inizia un’ altra storia, scontata prosecuzione della stessa, la colpevolezza di Jacqueline, rea confessa, è manifesta, i sensi di colpa di Alain non tardano a manifestarsi, mascherati da una vita dedita ad altro, svuotata di tutto, colma di niente, assente dal se’ più profondo. Ogni accusa è infamante, la propria estraneità evidente, che ci sia un’ altra verità da rincorrere?
Alain entra in una narrazione inversa che scava nel passato, fotogrammi di un’ infanzia infelice che vorrebbe cancellare, un matrimonio senza amore, rapporti famigliari scontati e formali, un figlio che vive altrove, il desiderio di riscatto, la paura della solitudine, una convivialita’ artificiosa per non guardare gli altri, decine di donne delle quali conservare vaghi ricordi, una continua anestesia alcolica per cancellare l’ evidenza.
Puo’ uno stato di innocenza tingersi di colpevolezza, invischiato in un fatto di cronaca nera che non lo riguarda ma che lo sottopone allo sguardo e al severo giudizio degli altri, al sospetto dei parenti, come può accettare questa colpa, inviso persino a se stesso?
Perché questo d’ imbarazzo, in fondo non ha fatto niente, il delitto appartiene al passato, non avrebbe potuto intervenire, da che cosa è scosso e in che modo si sente coinvolto? Che abbia paura della solitudine, di non contare più niente, lasciato in disparte, caduto nella dimenticanza, impossibilitato a frequentarsi, di certo si abbandona a una fuga tra un caffè e l’ altro, svuotato, ferito, vittima di se stesso, al termine di una recita impietosa e insensata, tutto, come sempre, nasce da se’.
Quale assassinio si è realmente compiuto, chi il vero colpevole, come vivere e sopravvivere quando predomina l’ insensatezza?
E allora cosa c’è di peggio di un ininterrotto rimuginio, di un’ assenza definitiva, nel rivedersi uno qualunque sostando in uno stato di indifferenza, inevitabilmente perso, abbandonato a una solitudine molesta.
Simenon scompone e ricompone, in una dettagliata e sopraffina indagine psicologica, un thriller che già possiede un colpevole ma che ricerca le cause primarie di questo gesto estremo. Invero tutti gli indizi di una vita confluiscono in uno stato di colpevolezza non punibile perché figlio di un preciso modus vivendi e operandi e l’ estraneita’ dai fatti e’ inversamente proporzionale al proprio sentire.
In una solitudine e inquietudine sempre più’ manifeste un contorno spoglio ed essenziale riversa sul protagonista un’ onta insostenibile, e quella paura che

..”da sempre gli apparteneva e che adesso tutti conoscevano”..

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68 Opinione inserita da 68    10 Febbraio, 2024
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Quale identità’ ci appartiene


. …” Non importa quanto dai da mangiare al lupo, guarderà sempre verso il bosco. Siamo tutti lupi nell’ impenetrabile bosco dell’eterno”…

Identità, fratellanza, famiglia, scienza, bioetica, immortalità, Karl Ove Knausgard scrive un’ opera enciclopedica tra Norvegia e Russia, richiama un tempo reale e sentimentale, vita e destino di due fratelli di padre, Syvert e Alevtina, per quarant’anni ignari l’ uno dell’altra, riavvicinati da alcune lettere che ne svelano origine e comunanza.
Vite a distanza per comprendere quello che non è stato, cosa è mancato, cosa resta, chi si è realmente.
La prosa di Knausgard è un flusso inarrestabile di dettagli, gesti quotidiani e pensieri difformi, la coscienza dei protagonisti percorsa da un’ inquietudine manifesta mentre grandi temi, origine, identità, senso del vivere e del morire, occupano e percuotono il palcoscenico dell’ esistenza.
Syvert, ventenne rientrato a casa dopo il servizio militare, è un giovanotto acerbo e senza prospettive, che vive alla giornata con una dose di superficialità e spensieratezza, uscite con gli amici, birra e calcio, amori paventati e idealizzati. Dovrà cambiare rotta, crescere in fretta, occuparsi del fratello dodicenne Joar, un’ anima ipersensibile e intelligente che va preservata dal mondo in assenza della madre malata e del padre, morto da dieci anni.
Un padre che Syvert non ha mai conosciuto realmente, che gli appare in sogno, del quale non ha ricordi evidenti, che ha vissuto un’ esistenza parallela e amato un’ altra donna con cui avrebbe voluto costruire un futuro in Russia. La sua vita cambia, il fantasma paterno si ripresenta, alcuni ricordi si risvegliano insieme a dubbi e domande in un presente in cui Syvert deve sostituirsi ai genitori, cercarsi un impiego, vivere nel reale.
Alevtina è una donna affascinante e controversa, con un passato da biologa evoluzionista, un figlio ventiseienne e un altro di cinque, una relazione giovanile sepolta e un nuovo compagno, dolce e affidabile. Percorsa in gioventù da un’ inquietudine intellettiva che spazia dalla letteratura alla biologia, sceglie un approccio scientifico che spieghi l’ origine dell’esistenza, per cedere a un senso di fallimento personale e dedicarsi alla professione medica sulle orme della madre defunta.
In lei vive il rimpianto di non averla conosciuta e capita abbastanza, di averla condivisa con altri, di non poterla più abbracciare, ancorata a un padre rinchiuso nella propria testa e nei libri, totalmente disinteressato alla natura.
In lei emerge una menomazione genitoriale evidente, l’ idea di un’ altra famiglia, la possibilità che tutto crolli improvvisamente.
Chi siamo realmente e che

…” cos’è la vita oltre il vuoto desiderio di colmare il vuoto”…?

C’è una vita in natura che scorre a prescindere, che basta a se stessa, cresce, ricopre, si espande, e c’è dell’ altro, pensieri che creano distanza in un’esistenza fondata sul tempo e sulla differenza.
Permane una sensazione forte che tutto sia dentro di noi, che si possa esserci e non esserci, vivere e adattarsi, lasciare andare, adeguarsi, affidarsi alle capacità, accettare i propri limiti, apprezzare quello che non si è scelto.
Inevitabilmente ci si interroga sulla propria identità, sui sentimenti, su che cosa si conosce di se’, pervasi da un senso di solitudine, da un’ allegria malinconica, da sempre in fuga, ignari di non avere pianto abbastanza, ricoperti di finzione, menzogne, terrorizzati dall’ idea di accedere

…” a una stanza completamente nuova nella casa che ero io”….

La resa dei conti ci pone di fronte a uno specchio, in fuga dal ricordo di un padre che non abbiamo conosciuto abbastanza, incapaci di includere gli altri come faceva nostra madre, con la sensazione di non amarsi abbastanza.
La resa dei conti ci siede di fronte, quella metà di noi che un po’ ci somiglia, qualcuno che non vuole mentire, parole che non sanno di circostanza e una domanda:

…“ Chi sei?”…

E’ questo l’eterno dilemma, la ricerca delle proprie origini, di chi ha contribuito a determinare quello che siamo. Difficile dirlo in un percorso controverso che ci ha sottratto al nostro io più profondo, con assenze sostanziali, una vita che poteva andare diversamente.
Spogliati e soli, persi gli affetti più cari, gettata la maschera di superficialità e inconcludenza, vagando nell’ ombra, indugiando davanti a una porta spalancata su qualcosa che ci appartiene,

…” tutti portiamo dentro la nostra morte”…

ma c’è una stella lucente che risplende in cielo improvvisa e la morte in quel mentre si assenta.
Karl Ove Knausgard conferma il proprio talento, un flusso narrativo ininterrotto, la rara capacità di penetrare e descrivere il cuore dell’ esistenza partendo dal quotidiano, scavando nell’io, una sospensione enigmatica e malinconica tra vita e morte che investe i protagonisti oltre la banale apparenza.
È una narrazione complessa rivestita di semplicità, imbevuta di dissertazioni scientifiche e filosofiche ( Il dibattito aperto sull’ immortalità ), che non basta a se’ stessa e che lascia un senso di inquietudine, tra ironia e sarcasmo, che induce alla riflessione, continua, ripetuta, asfissiante, degno erede della grande tradizione nordica.

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68 Opinione inserita da 68    10 Febbraio, 2024
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Quale vita?


…“ nel cielo infinito si estendevano da una parte un mare di ricordi nostalgici e dall’ altra un futuro invisibile, mentre qua e là brandelli di nuvole fluttuavano alla deriva”…

Tre donne, due sorelle ( Natzuka e Makiko) e una figlia ( Midoriko ), un legame sopravvissuto nel tempo, il lento protrarsi di una vita segnata da un sentimento inequivocabilmente al femminile, il desiderio di essere riconosciute nell’ inesorabile lotta tra cambiamento corporale e necessità spirituale, la povertà incollata addosso tra mille difficoltà e perdite premature.
Natsuka è un’ aspirante scrittrice con una vita di parole e di storie da raccontare tra difficoltà economiche, assenze, incognite, desideri, immersa in una sensazione di solitudine e in un crescente e inspiegabile desiderio di maternità per una giovane donna con una spiccata avversione ai legami sentimentali.
Un viaggio confuso e frammentato dentro il nuovo secolo, la scrittura unico amore, passione, divertimento, fuga dal mondo, narcisistica presenza, blocco del presente e visione sul futuro ignorando la possibile relazione tra i ricordi e il bisogno di scrivere romanzi.
Makiko lavora in un bar, esprime una fragilità estrema sfociata nel desiderio di una mastoplastica additiva, la figlia Midoriko non la comprende e comincia a trasferire le proprie emozioni su carta, Natzuko è disinteressata al corpo della sorella, con lei condivide esperienze e ricordi del passato.
Momenti di se’ bambina riemergono, veri o illusori, colori, odori, sensazioni sovrapposte che generano falsi ricordi, reale l’ immagine di una madre in difficoltà che si è data da fare per crescere due figlie in una solitudine estrema.
Passato e presente si intrecciano, il proprio desiderio di madre si scontra con la difficoltà di esserlo, la possibilità di crescere un figlio da single, l’ incapacità di avere un compagno, normali rapporti sessuali, una vita di coppia, una certa stabilità economica, il senso di incompletezza in un futuro incerto la riporta all’ immobilismo abituale.
Come amare, accudire, crescere un figlio, quanto il proprio egoismo rigetta l’ amore per chi non ha chiesto di nascere, che cosa intende Natzuko quando dice di volere incontrare il figlio, quanto conta l’ impossibilità di conoscere il proprio padre biologico, quanto i problemi legali e fisici legati alla fecondazione assistita si incastrano con i pregiudizi sociali di una nazione in cui ancora prevale un’ ideologia patriarcale che deprezza la figura femminile?
Natzuka scivola nel tempo accompagnata dall’ amata scrittura, dieci anni di incontri accrescono la sua solitudine consapevole anche se

…” Pur di credere in quel che vuole credere la gente è disposta a ignorare il dolore e la sofferenza altrui”…

Il ritorno in una Osaka completamente mutata le riconsegna i luoghi dell’ infanzia richiamando vecchi ricordi, lo scorrere dei giorni dissolve assenze protratte, la morte ritorna insieme a fantasmi e tormenti interiori, gli anni rafforzeranno il proprio sentimento di unicità e una presenza consapevole nella certezza di un amore.

…” lei, quella creatura unica e irripetibile era lì con me e non nei miei ricordi, nella mia fantasia o altrove. Era lì con me, in quel preciso momento, e non aveva incontrato nessun’altra persona prima di me, dov’eri, sei venuta da me?, immaginavo di chiederle, e continuavo a fissarla mentre piangeva sul mio petto. Lei, la mia bambina”….

“ Seni e uova “ ci consegna un preciso ritratto di Mieko Kawakami a partire dai molti riferimenti autobiografici in esso contenuti. Una scrittura forte, cruda, anche violenta ma che riesce a cogliere e a trasferire anche un senso di infinita dolcezza e una certa dose di umorismo spesso paradossale.
L’autrice è nota in patria per le proprie posizioni rigidamente femministe, per la critica a una società giapponese tuttora maschilista e retrograda, denunciando la condizione di subordinazione femminile, i suoi romanzi inseguono una profonda ricerca interiore ( filosofica e religiosa in primis ) privilegiando l’ unicità d una vita complessa, fragile, mai banale, sorretta dalla forza della ragione e del sentimento.



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68 Opinione inserita da 68    18 Gennaio, 2024
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Coscienza di se’

Anne Elliott, la giovane protagonista di “ Persuasione”, impiegherà dodici anni a vivere e a costruire il senso profondo di parole e sentimenti rinchiusi in un se’ ancora acerbo.
Figlia di sir Walter Elliot, prematuramente vedovo, uomo vanitoso e fatuo, si innamora di Fredrick Wentworth, un giovane ufficiale di marina a cui dovrà rinunciare per differenza di rango, affidandosi ai consigli di lady Russell, sua tutrice, donna buona, generosa e altruista ma

…” con un debole per il lignaggio”….

La fine di un amore la esporrà all’ assenza di amore, la lontananza favorirà la dimenticanza, il ritorno di Wentworth dopo otto anni, arricchito e sicuro di se’, ridesterà un sentimento sospeso e negato ma ancora vivo e pulsante.
“ Persuasione “, romanzo postumo di Jane Austen, pubblicato nel 1818 a tre anni dalla sua morte, , ne possiede i tratti precipui, la rappresentazione di un universo femminile senza voce sospeso tra ragione e sentimento nella desolante accettazione di un patriarcato dominante, un microcosmo di superficialità solo apparente che concede alla donna il matrimonio come fine di una vita costruita sulle consuete attività

…” di cura della casa, rapporto con il vicinato, abiti, balli e musica”….

In una miscela di realismo dettagliato e di preromanticismo assistiamo alla presa di coscienza di una donna in merito alle proprie doti intellettive e alla possibilità di decidere il futuro.
Anne, dopo la morte della madre, soggiace all’ invisibilità del padre e delle due sorelle, allontanata dall’ amata dimora di Kellynch, finita in mani altrui per mancanza di mezzi, e, pur dotata di finezza mentale e di dolcezza caratteriale, vive di parole che non contano e di esigenze posticipate.
In famiglia si privilegiano ricchezza, lignaggio, aspetto, buone maniere, rapporti con il vicinato, come può una giovane donna esigente e sentimentale che rifugge l’ apparenza, attratta da modi suadenti, dalla lettura, desiderosa della compagnia di persone informate in grado di sostenere una conversazione intelligente, accettare una situazione siffatta?
Ancora debole e insicura si era arresa ai desideri altrui, cedendo a un eccesso di persuasione, allontanando l’ amore, un dazio fattosi onta, il capitano Wentworth oggi è tornato ma pare freddo, indifferente, la ritiene sfiorita e lontana, come dargli torto dopo essere stato trattato e rifiutato a quel modo.
Dodici anni hanno trasformato quella quindicenne fiorente, silenziosa e ancora immatura in una elegante giovane donna di ventisette, piena di bellezza seppure non in fiore,

…” dai modi consapevolmente impeccabili ma invariabilmente gentili”….


In lei oggi risplende la luce della consapevolezza, la pienezza di se’, la presa di coscienza di quello che è stato, quella saggezza e ragionevolezza auspicate e nascoste nella fredda educazione e nella cerimoniosa cortesia.
La fine di un sentimento e l’ indifferenza lasciano intendere altro, le trame della vita smaschereranno inganni e falsità, onesta’ e purezza insceneranno un futuro roseo con vista sul vero volto dell’ amore.
La scrittura di Jane Austen, semplice e formale, accusata di superficialità, nasconde un’ autrice che fu grande lettrice e fine letterata, e che, oltre l’ apparenza, allestisce e rappresenta una articolata commedia umana accompagnata da una dose di arguta e spontanea ironia.
Un “ femminismo “ sui generis la caratterizza, condito da un’ etica del tutto personale, la denuncia della inappropriata condizione femminile e la ricerca di un’ identità senza scardinare le istituzioni.
In fondo il matrimonio riveste ancora la cornice dell’ universo femminile, il lieto fine riguarda ogni suo romanzo insieme a una certa astoricita’, ma una nuova consapevolezza, psicologica, interiore, profonda ne riveste le protagoniste, donne sospese tra ragione e sentimento, alla ricerca di se’, incamminate verso il futuro e la modernità.

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68 Opinione inserita da 68    14 Gennaio, 2024
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Fragilità esposta

L’ amore di una madre ( Lucia ) sfociato nella nostalgia, il ritorno della figlia ( Amanda ) nella terra d’ origine, il ricordo di genitori che non hanno amato abbastanza, uno spuntone di roccia, spartiacque tra passato e futuro nel luogo che da’ il nome al bosco e al terreno della propria famiglia, l’ assassinio di due ragazze che da venti anni ha indirizzato una vita.
Ciascuno è e conserva le cicatrici del proprio passato, un prima e un dopo, traumi irrisolti, un’ incomunicabilità di fondo che è sofferenza e paura di esporsi, soffrire, riaprire vecchie ferite, sensi di colpa ancora presenti, per tutto quello che si poteva fare, per quello che non si è stati, aggrappandosi a una forza inespressa per ricomporre i cocci di una fragilità esposta.
Amanda, abbandonati gli studi, è tornata in Abruzzo, spenta, demotivata, depressa, rinchiusa in un silenzio enigmatico, abbracciata a un sonno protratto, nessuna voglia di fare, l’enigma di un passato recente in una Milano che avrebbe dovuto assecondarne il futuro.
Lucia a sua volta è stata una figlia inascoltata e ribelle in una società patriarcale indecifrabile e inscalfibile, rivolta al futuro e al cambiamento prima che quell’ atroce delitto l’ abbia cambiata per sempre, oggi è una donna stanca, logora, tradita, con un matrimonio esaurito e un marito altrove.
Da madre riconosce la sofferenza di Amanda, si interroga sulla propria assenza, debolezza, noncuranza, sull’ impossibilità di dialogo, incolpandosi di averla lasciata sola, figlia di un passato di sopravvissuta, terribile, gravoso, logorante.
Due fragilità esposte, una figlia che non racconta il proprio vissuto altrove e una madre che rievoca i tragici eventi passati, ignare l’ una dell’ altra, tenute a distanza da confidenze inespresse, un dolore attutito negli anni e ancora da metabolizzare, certe violenze non se ne vanno con la condanna, ti riempiono dentro svuotandoti, incatenati al ricordo di giorni spensierati che non torneranno.
Ciascuno esprime il dolore a modo proprio, conoscere la verità sarebbe un passo importante, comunicare e’ complicato, talvolta impossibile, troppe assenze, vuoti, paura. Rimane un amore materno inarrivabile e non corrisposto, la paura di una solitudine affettiva inaccettabile, la più terribile delle condanne, nel silenzio coperto di indifferenza e nel ricordo di una insensibilità genitoriale ancorata nell’ unico luogo possibile, la propria terra, un’ altra madre schiava della necessità.
Un luogo la cui bellezza non ci riguarda, figli di una natura che nutre e che affama, che si deve combattere, archetipo della memoria, che allontana e avvicina i protagonisti diretti e indiretti di una storia atroce da raccontare.
C’è un coro che rievoca e accoglie il passato funesto, un canto che introduce un rituale mentre una voce si alza, due fanciulle escono leggere dalla parte più scura del bosco, incontrano una cara amica e ascoltano sorridenti.

…” il coro di stasera è una sorpresa, rompe il silenzio degli anni. Cade nel cielo sopra il Dente del Lupo l’ ultima stella dell’ estate”…

“ L’età fragile “ è un condensato non sempre armonico di un mondo che accoglie e separa i propri protagonisti, al centro una voce che da’ voce a un atroce fatto di cronaca, e una narrazione che, in un coro di presenze, rievoca assenze protratte e definitive proiettando la propria dissolvenza nella vita di una figlia ritornata all’ ovile.
Uno schermo di silenzio che sembra impossibile da scalfire e da decifrare, la cui porzione di storia è solo presunta nella fragilità che la riguarda, perché Amanda sembra essere una semplice appendice materna e la proiezione di se’, auspicando una fine diversa.
Quanto il passato ha determinato il presente, la propria fragilità richiede ascolto, quanto le ferite costituiscono la nostra essenza più vera, come comunicare con il dolore silente dell’ altro?
In una scrittura sincopata, essenziale, tagliente, dura, attraversiamo la durezza scolpita e selvaggia di un luogo immutabile nel respiro di una donna e di una madre, le cui risposte riguardano solo una parte e si scontrano con le decisioni dell’ altra.

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68 Opinione inserita da 68    06 Gennaio, 2024
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Il silenzio parlante

Il rumore del silenzio, vite intrecciate in attesa di altro, amori desiderati, vissuti, parcheggiati, consumati, sottratti, speranze ammuffite in un senso di inutilità, vuoto, rabbia, disperazione, esistenze parallele nel soffio casuale della vicinanza, un passato torbido condiviso in attesa di una resa dei conti.
Andrea, Andreina, Ralph, Umberto, Alba, Viola, Mirko, tre coppie e un bambino, legami che prevedevano altro, incroci che sanno di vita vissuta, casualità apparenti, vuoti di memoria, bugie, verità sommerse, profili psicologici in cui riversare i cocci di se’, l’ impossibilità di un futuro schiacciati da un cupo presente.
Legami famigliari forgiati su un ideale giovanile consunto, nel presente indifferenza sentimentale, un tentativo di ricostruzione tardiva, il trattenere chi se ne è andato da tempo.
Che cosa ha portato al desiderio di altro precipitando nella disperazione più vera mentre la propria solitudine affettiva abbraccia chi ci ascolta e ci sussurra parole dolci e gentili, qualcuno rinchiuso nella propria tragica storia.
Tutto non è come sembra, caos e caso hanno inciso solo parzialmente in vite indirizzate da tempo, Mirko è vittima delle ingiustizie quotidiane e avrebbe bisogno di una vera famiglia, una creatura fragile desiderata e sottratta, percepita come propria, frutto di un amore impossibile, quante bugie e verità negate a se stessi, il tempo delle risposte è scaduto.
Che ne è stato di Alba, ex infermiera riciclatasi a donna delle pulizie, e di Umberto, ex principe azzurro, un orco che ha rinchiuso la propria donna in una spirale di terrore, violenza, egoismo? Eppure sembravano possedere delle affinità, in particolare una certa solitudine interiore.
Che ne è stato di Ralph, tecnico del suono apparentemente realizzato e in pace con se stesso, e di Viola, ex attrice di teatro, quando si nasconde all’ altro la verità più vera, ingannandosi reciprocamente e ogni fiducia è sepolta, limitandosi a una semplice convivenza che sa del respiro di un figlio?
Che ne è stato di Andrea, fotografo, e di Andreina, infermiera, quindici anni di bugie, di sensi di colpa, due reni condivisi pensando di sconfiggere la morte ed entrando nell’ illusione di un amore eterno, quando il proprio ego ha ignorato i desideri altrui e si è disposti a ritrattare il passato per tenersi aggrappati al presente?
Una rottura sarà inevitabile, soglia di non ritorno, epilogo di anni vissuti indebitamente, un nuovo rumore imperversa, quel silenzio che rivolge il proprio sguardo altrove, che ricorda persone, volti, occhi sottratti all’ indifferenza in un equilibrio che riporta al passato e lo cancella, e allora non resta che arrendersi all’evidenza, liberarsi dei giorni ingombranti, piangere un destino funesto, ritornare sui propri passi, affidarsi all’ amore di chi rimane.
“ Il rumore delle cose nuove “ è una vivida rappresentazione dei fluidi e fugaci rapporti della contemporaneità, tra precariato e desiderio di genitorialita’ in una Milano sfuggente profondità relazionali in una povertà che percuote le famiglie, mentre la paura del futuro genera l’ ansietà del presente, la fragilità personale sfocia nel patologico, il desiderio di calarsi nelle vite altrui prende il sopravvento,
La ricostruzione di una storia variegata e complessa riporta spezzoni di un passato lontano dieci anni, quando tutto ebbe inizio, un passato rimbalzato nel presente in un ritmo sempre più incalzante con un epilogo sorprendente, laddove la vita non concede sconti e il destino si scontra con desideri fragilmente esposti.
Un romanzo a sfondo psicosociale con una certa dose di intimità, forte nei toni e nei contenuti, dolce nella fragile quotidianità esposta, che affronta temi importanti, in primis relazioni matrimoniali e desiderio genitoriale, giovani coppie scoppiate tra un’ incomunicabilità manifesta e il lettino dello psicanalista .
Una trama veloce, molto cinematografica, ricca di suspense, tragicamente reale, analisi e rappresentazione scenica dei vizi e delle virtù di un’ umanità fragile e dolente in cui specchiarsi e riconoscersi, non solo a tratti.

…” la morte ha un suono discreto, un suono che non si sente in maniera distinta perché in fondo è sempre presente. È un rumore incessante, che si insinua senza che nessuno se ne accorga e, quando alla fine si percepisce, quando finalmente siamo in grado di urlare che è proprio quello, non rimane che il silenzio”…

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68 Opinione inserita da 68    19 Dicembre, 2023
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Il dolore della memoria

….” Sarebbe il caso di indagare come in alcuni momenti fugaci e imprevedibili restano impressi nella memoria, e invece altri, in teoria più importanti, svaniscono per sempre”..

Un dolore negato a se stessi per la paura di viverlo, un’ inquietudine tralasciata per dieci anni improvvisamente risorta. Questo accade a Baumgartner, un filosofo e accademico che ha perso la metà di se stesso, l’amata moglie Anne, in circostanze improvvise e imprevedibili, un uomo solo, affranto, …”un moncone che ha cercato di anestetizzarsi”….
Oggi il protagonista pare restituito alla vita, insegna, scrive, pubblica, ha nuove amicizie, insegue le donne, si emoziona, desidera, crede di amare, ma dentro è già morto e ne è consapevole, avvolto in una dissimulazione protratta.
La comparsa in sogno della moglie, sospesa in un Grande Nulla, un vuoto assoluto e silenzioso dove trattenerla, un limbo di vita non vita che si spezzerà solo alla morte di Baumgartner e alla scomparsa della coscienza di lei, per lui una rivelazione e l’ inizio di una elaborazione stratificata.
Riaffiora il paesaggio della memoria, scritti, ricordi, incontri, immagini, una ricostruzione per sopportare e capire il presente, buio assoluto da cui aprire una finestra sul mondo all’ inseguimento del cielo aperto.
La memoria non è solo un contenitore di ricordi ma comprende momenti vividi, sensazioni indescrivibili, emozioni inestirpabili, un organo che ci riguarda intensamente, parlandoci di noi, di quello che siamo, abbiamo vissuto, ci hanno insegnato.
Il sogno pone Baumgartner di fronte al passato senza la paura di rimanervi incastrato, un sogno in cui passeggia con Anna, quarant’anni di vita insieme, le parla, l’ ascolta, convogliando le proprie energie nel presente e riscrivendo il rapporto con il fantasma di lei, una verità emotiva che alla fine conta, riavvicinandolo a se stesso, ai suoi sentimenti e a ciò che prova rispetto a quei sentimenti.
Fino a quel sogno non si era liberato del fantasma di Anna se non materialmente, eliminando tutto ciò che la riguarda, ricercandola altrove, ma in se’ nulla è cambiato, un immobilismo che osteggia la vita, il dolore parte integrante.
Il percorso della memoria lo consegna a un se’ bambino, un padre ebreo migrante che fu un sognatore sfortunato, una madre senza madre che ha amato intensamente, ora pare pronto a raccontare, a raccontarsi, a vivere.
Gli scritti di Anna, traduttrice, poetessa, idealista, una ragazza dell’ alta borghesia di cui non si è mai sentita parte, i propri studi, gli scritti, acuti, impegnativi, indigesti, a cui dedicare tutto se’ stesso, una vita senza la paura di perderla, il ritorno ad antichi entusiasmi e a momenti apparentemente sepolti.
Il presente sembra aprirsi a un se’ invecchiato e rinvigorito, un’idea per celebrare il ricordo di un amore così grande e una strada da percorrere senza la paura di ricadere nel passato infausto,

..”incamminandosi nella debole luce invernale in cerca di aiuto”…

per aprire il capitolo finale della saga di Baumgartner.

Un romanzo con una trama scarna attraversata dai grandi temi di una vita, il ruolo della memoria, assenza, dolore, il senso di un amore, famiglia, radici, solitudine, relazioni, storia, la propria percezione di se’ e degli altri, il racconto per riappropriarsi di significati nascosti, l’ importanza della scrittura, il potere di linguaggio e parola.
Una scrittura densa, centellinata, essenziale in un palcoscenico via via svuotato e riempito di porzioni di storie e di personaggi, vicini e lontani, assenze-presenze riproposte ed elaborate nella mente del protagonista.
Alla fine si ha l’ impressione di essersi avventurati in un viaggio della memoria alla ricerca delle coordinate mancanti perdendosi nei suoi misteri irrisolti, costruendo porzioni di storie grazie alle quali respirare un senso apparentemente insensato.

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68 Opinione inserita da 68    12 Dicembre, 2023
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Amore impossibile

….” In quella notte di agosto del 1967 ho dato fuoco alla casa dove vivevano le persone che più veneravo al mondo, una notte che divide ancora la mia vita”..

L’ incipit del voluminoso romanzo “ Un amore senza fine “ ne è anche la sinossi, laddove la voce narrante, David, si rivolge in prima persona al passato rievocando una vita indirizzata da quel terribile gesto adolescenziale, un gesto estremo e premeditato per salvaguardare e distruggere un amore idealizzato improvvisamente sottrattogli.
Lo stesso protagonista, anni dopo affermerà

…” Basta un niente a segnare una vita intera, il modo in cui gli altri ti vedono e quindi anche il modo in cui ti vedi tu, determinando il tuo comportamento”…

Nel mezzo cinque anni di cura, ripensamenti, desideri, riabilitazione, un rimuginio interiore che rivive l’ accaduto come nuovo inizio, non la fine di tutto, che aspira a riappropriarsi di ciò che credeva perduto per sempre, riabilitandosi agli occhi di chi lo ha cancellato, non lo ha dimenticato, riconquistando l’ amore perduto.
La rivisitazione dei fatti, univoca, fa credere a David di avere smarrito il senno a causa del proprio amore, maltrattato e disperso, la scissione del proprio io in comportamenti dovuti e regolamentati, un percorso riabilitativo che ha previsto ricoveri, libertà condizionale, analista, reinserimento e controllo sociale, in se’ un unico scopo, la volontà di riunirsi a Jade e alla sua famiglia, I Butterfield.
La distruzione di un luogo dove si credeva di sostare, un nucleo familiare che avrebbe sostituito il proprio, una casa in cui tutto veniva condiviso e discusso e dove i bisogni erano molto più numerosi della possibilità di soddisfarli, un amore assoluto, Jade, universo impossibile da avvicinare, criticare, conoscere.
Come in una seduta psicanalitica delle più impegnative si rievocano le possibili cause e concause del gesto criminoso, pazzia, incidente, premeditazione, braccio armato della volontà distruttiva di altri.
Una ricostruzione che evidenzia complessità, incomunicabilità, famiglie implose, disgregate, contraddittorie, sostituite, una solitudine vaga e totalizzante per un diciassettenne che ha ridotto tutto in cenere.
Dopo cinque anni c’è chi vive e chi sopravvive, segnato per sempre, chi mostra crepe e menzogne rivelando verità nascoste, a David rimangono le lettere di Jade, il rapporto amorevole con il padre, la corrispondenza epistolare con Anne.
Nello sviluppo di una trama percorsa da una scrittura fluida, colloquiale, un lungo monologo che scorre alternando realtà a soggettività, David si divincola tra certezza e desiderio, tutt’ora sconosciuto a se stesso, invischiato in quella follia detta amore che lo ha ancorato al passato, sottostimando quanto il fluire del tempo negli accadimenti lo abbia cambiato, influenzato, indirizzato, in una maturazione che non preveda un’ egocentrica, narcisistica, adolescenziale versione di se’.
Se esiste una possibilità di riscatto, a ciascuno concessa, la bramosia inevitabilmente ritorna e il peccato originale indirizza una vita che si credeva risorta, espiata, corretta, in realtà ancora imbrattata di traumi, dolore, odio.
E allora quale relazione tra amore e sofferenza, come rivivere le ceneri del passato, quale condivisione tra l’ immobilità affettiva e il lasciare andare?
Domande difficili, risposte inevase, al centro il dolore, passato e presente, mentre uno strascico di quello che fu invade il quotidiano in una dimensione di morte e uno stato di menzogna obbligata cerca di salvare se stessi e una relazione di fatto malata e sepolta.
Forse gli esordi di un amore, così giovanile e totalizzante ma ossimorico, l’ ingresso in una famiglia ( David ) e il liberarsi della stessa famiglia ( Jade ) possedevano già le stigmate di un sentimento impossibile, impuro, deragliato, pericoloso.
La realtà incombe, il passato ritorna e non concede sconti, non resta che evadere dall’ insostenibile e annullarsi nel senso di colpa.

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68 Opinione inserita da 68    09 Dicembre, 2023
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Quale amore?

Una donna, Beatriz, che incarna la Beatrice di Dante agli occhi e allo sguardo desideroso e innamorato di Witold, un pianista polacco interprete di Chopin, un corteggiamento respinto, negato, nascosto, fugace, pochi giorni condivisi, il distacco, la lontananza, 84 poesie testamento e testimonianza dell’ afflato amoroso di un uomo in declino forse desideroso di essere salvato.
Il “ Polacco’ è un breve romanzo percorso da echi di intensità e di intimità, un’ idea di relazione troppo complicata per essere se non nell’ ideale romantico di Witold.
Beatriz è una donna colta, preparata, intelligente, rinchiusa in un matrimonio che possiede la certezza degli anni, brava moglie e brava madre, non curiosa del mondo ma di stessa, Witold è un pianista grande e grosso con due mani enormi, un uomo piuttosto pomposo e formale che non riesce a concedersi liberamente.
Invitato da Beatrice a tenere un concerto nella sua Barcellona, ci sarà una cena condivisa e una conversazione tenuta in inglese, una lingua che non appartiene al proprio lessico quotidiano e che contribuisce a mantenere un senso di formalità e una certa distanza.
Dopo qualche tempo, quando tutto sembra dimenticato, un’ improvvisa corrispondenza epistolare rivela l’ amore di Witold per Beatrice, vorrebbe incontrarla, amarla ed esserne amato, fuggire con lei altrove.
È un momento di rottura, di separazione, di stallo, agli occhi di Beatriz una relazione impossibile per ovvi motivi, il proprio matrimonio, la differenza di età, la non conoscenza, l’ assenza di una qualsiasi forma di attrazione, l’ appartenenza a due mondi separati e distanti, uno artistico e l’ altro reale, due sconosciuti che hanno poco da condividere oltre alla musica.
Da cosa nasce la passione di Witold, improvvisa e totalizzante, che nasconda dell’ altro, Beatriz che cosa vuole e che cosa vede in lui tanto da accettare di incontrarlo?
Cresce una trama nella trama, realtà e fantasia, ragione e sentimento, un corteggiamento a distanza negato da chi vive la quiete domestica di un matrimonio privo di intimità e che non ha bisogno di sentirsi amata. Beatriz rimugina sul proprio vissuto, una donna che non sogna e che da tempo vive lunghi sonni tranquilli, che racconta al marito solo porzioni di verità, e allora perché i suoi pensieri ritornano a Witold, che cosa vede e gli piace di lui ?
Di certo l’ espressione artistica del pianista polacco e’ priva dell’ ardore e del sentimento che l’ ha fatta innamorare della musica di Chopin, forse ne apprezza il piacere che trae da lei, l’ esposizione al suo sguardo, o si tratta di semplice compassione?
Difficile dirlo quando le parole non bastano, comunicare è difficile, lunghi silenzi ricoprono un tempo trascorso e condiviso che non tornerà, se non cercando di decifrare le poesie di un non poeta che parlano di lei, di una vita diversa, ignorata, di sentimenti sconosciuti, di un amore che si nutriva di sguardi e che bastava a se stesso nel respiro dei giorni mancanti.
“ Il Polacco “ è un romanzo con diversi piani di lettura, psicologici, letterari, storici, musicali, reali, ipnotici, a rappresentare una femminilità complicata e complessa, ferita, tormentata, stratificata, fragile, curiosa, profonda, invischiata nell’ oggi, in bilico tra il passato e il futuro, che cerca di leggersi dentro, rigettando una certo romanticismo di chi è intrappolato nel proprio io di artista in un ideale totalizzante.
Una relazione intensa e fugace, vissuta intimamente, un tentativo di entrare nei sentimenti propri ed altrui, spesso inaccessibili e sconosciuti, mentendo anche a a se stessi, di dare un significato, agli sguardi, ai momenti condivisisi, alle parole non dette, al senso insensato di un artista e della propria arte, al proprio bisogno di amore.
In una quotidianità inappetente e annoiata, tradita, tenuta sotto controllo, forse non si è fatto abbastanza per capire l’ ’essenza più vera dell’ altro, un sentimento di intimità rimane nel proprio io più riposto mentre la vita prosegue la propria tormentata storia.

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68 Opinione inserita da 68    09 Dicembre, 2023
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La fucina dei sentimenti

Sentirsi a casa fuori di casa, un’ aria famigliare senza la propria famiglia, persone e parole nuove, un luogo senza vergogna e segreti in cui sostare e sentirsi bene.
Questa l’ estate vissuta dalla piccola e silenziosa protagonista, una bambina in prestito che osserva, ascolta, legge i pensieri altrui, affidata alle cure di una coppia, i Kinsella, in una fattoria della campagna irlandese, un’ immersione in un quotidiano sconosciuto.
Gesti, lavoro, risate, intimità, ascolto, cura, silenzio, un mondo che sa di altro, contenente lo spazio e il tempo per pensare, parole nuove, il tocco di mani con un senso senza nome.
I giorni scorrono, unici, altra versione di un passato recente, il bisogno di un po’ di cura, di persone diverse, che a volte non si capiscono fino in fondo, che parlano un’ altra lingua, comunanza e attenzione ricoperte di sentimenti.
È una scoperta graduale in un percorso di acquisizione e crescita, parole significanti, gesti che sanno di cura, la grazia di una presenza, una sensazione di benessere in attesa che qualcosa cambi e finisca.
Un luogo e un tempo, interiore ed esteriore, in cui apprendere, il sapore dell’ umano nel proprio mostrarsi, anche nel silenzio, quando non è necessario fare domande e dare risposte, un niente che nasconde il tutto.
A contare è l’esempio, la presenza, l’ intimità non prevaricante nel respiro dei singoli giorni, momenti ripetuti e rivestiti della stessa importanza. A contare è l’ individuo, abbracci, sguardi, parole da custodire per sempre.
Un giorno, quando la vita riprenderà il vecchio corso, presi da una delusione certa, ci sarà una corsa sfrenata con il cuore in mano, un abbraccio prolungato, il respiro ansimante, una folata improvvisa di vento, il calore che attraversa i vestiti buoni e lo sguardo che richiama un senso di annegamento, singhiozzi e pianto.
Li’, immobilizzata

…” non ho il coraggio di tenere gli occhi aperti eppure lo faccio, li tengo fissi sul sentiero, oltre la spalla di Kinsella, vedo quello che lui non può vedere. Se una parte di me vuole scendere e dire alla donna che si è occupata di me con tanta cura che non dirò mai niente a nessuno, qualcosa di più profondo mi tiene lì, tra le braccia di Kinsella, aggrappata a lui “…

Agosto è un piccolo dono per l’ animo, un racconto essenziale con un tocco gentile, fiaba sul senso di appartenenza e di comunanza, sosta gradita in un oceano di lontananza, respiro famigliare al di fuori della famiglia, la semplicità di pochi gesti ripetuti e totalizzanti, parole condite di grazia, di semplice profondità, insegnamenti che forgiano sentimenti.
Ci sono esperienze che cambiano, fanno crescere, conservate nel respiro di giorni irripetibili.
È per questo che

..” mi sveglio prima del solito e guardo i campi fradici, gli alberi gocciolanti, le colline, che sembrano più verdi di quando sono arrivata”…

ed è per questo che

…” ripenso a quel giorno e mi sembra passato così tanto tempo”….

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68 Opinione inserita da 68    23 Novembre, 2023
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Thriller psicogeno

….” se quelle canzoni parlavano, come un tempo avevo pensato, di un bambino che diventava uomo, ora parlavano anche, per il cinquantaseienne che ero, di un uomo che era rimasto bambino”…

“ Schegge “ è un ritorno ai primi anni ‘80, al Bret studente diciassettenne all’ ultimo anno dell’ elitaria Buckley School, una trama intrecciata e incastrata nel delirante e psicogeno mondo holliwoodiano tra feste, droga, alcool, sesso, filmografia, che sguazza in un’ epoca minimalista ispirata alla new wave e al punk, è Robert Mallory, un nuovo compagno di classe intrigante, sexy, bugiardo, è l’orrore e la paura che incute uno spietato serial killer detto il Pescatore a Strascico che si aggira nell’ ombra torturando e sventrando giovani corpi.
Giochi proibiti, desideri impuri, assenze genitoriali, ricchezza sfacciata, gesti estremi e annoiati, un mondo di niente che aspira al tutto, il desiderio di diventare uno scrittore, vuoto esistenziale in un’ anestesia del presente che vive di narrazioni parallele, confluenti e discordanti, di vicinanze lontane, di incubi, maschera artefatta di una dissoluzione famigliare accettata e protratta che ha prodotto e produce dolori e sofferenze .
Chi è realmente Bret, cosa nasconde Robert Mallory, quale il volto dell’ assassino, che cosa sta accadendo tra reale e immaginario, la trama di un film, una recita a soggetto, semplice invenzione narrativa, le memorie di uno scrittore in difficoltà, una consapevolezza ritardata a quarant’anni di distanza?
Di certo l’ autunno del 1981 ha segnato il momento dell’ ingresso nel mondo edonista e noncurante degli adulti con l’ accettazione di una serie di eventi che avrebbero condotto in città una certa dose di follia e che si sarebbero pagati a duro prezzo. Ci addentriamo nella perfetta trama di un film, un thriller dai contorni horror che origina dalla reiterata noncuranza di una classe elitaria che si nutre dei propri privilegi, legalmente amorale, legittimamente cinica, giovani in fuga da un dolore non riconosciuto, circondati e immersi in un senso di vuoto che ha il volto di una maschera di noncuranza.
Ciascuno si specchia nell’ altro vivendo la propria solitudine, Bret, la voce narrante, è travolto da impulsi erotici, recita la parte del fidanzatino amorevole, accarezzando e respingendo la propria declinazione erotico-sentimentale, travolto da un’ ondata di efferatezza, aspira alla fama letteraria, strafatto da un micidiale cocktail di alcool, farmaci, droghe, sesso, in parte ancora sconosciuto a se stesso, un adolescente completamente solo in un’ enorme casa svuotata della presenza genitoriale.
È lui la voce narrante, a quarant’anni di distanza, è lui a esporre i fatti, a porsi domande e risposte, a tracciare le linee di una trama semplice sempre più complessa.
È lui a ricordare i fatti, a tessere una tela che sembra svanire ma che ogni volta ritorna, accarezzando l’ inverosimile, spingendosi oltre, terrorizzato da supposizioni che non hanno riscontro se non nella proprio testa appesantita. La narrazione si protrae a lungo senza che nulla accada, rinchiusi in una piccolezza che si crede grande, immobilizzati dalle proprie certezze e da quel mondo imperiale nel quale si vive.

….Il sesso, i romanzi, la musica, i film rendono la vita sopportabile, non la famiglia, la scuola, la scena sociale, le relazioni”….

Per Bret, che presto sarà uno scrittore acclamato, l’ autunno del 1981 segna il passaggio dall’ adolescenza all’ età adulta, quando il dolore e la morte portano a una neo consapevolezza di se’, segnano il punto di rottura, il collasso, la perdita dell’ innocenza, l’ inizio della fine, un trauma portato avanti per sempre.
Un accadimento che ha cambiato la vita e non c’e’ nulla che si possa fare, soli con se stessi, oggi si guarda a quella storia con occhi diversi in anni generosi, una storia nella quale il mistero e il dubbio restano e resteranno, per sempre.
“ Schegge” e’ un ritorno agli anni di “ Meno di zero “ dell’ autore del famoso “ American Psyco “, è un lungo viaggio in quel 1981 che ha segnato un’ epoca e indirizzato una vita. La lunghissima recita degli accadimenti, noiosamente assorta in un cinicismo crudele ostentato sfacciatamente e orientato al proprio disfacimento, un microcosmo che nega il dolore e ne è sommerso.
I protagonisti sono giovani, sani e forti, nulla sembra toccarli, attori di un film di cui loro stessi sono in parte spettatori, una recita che a un certo punto miscela e confonde il vero e il presunto, i sogni dagli incubi, l’ amore dalla violenza se non quando li tocca direttamente.
Eppure, anche lì, toni e contorni si fanno sfumati, tutto si dissolve, nessun giudizio di merito, nessuna certezza, semplici accadimenti, il film volge ai titoli di coda, tutto è successo e riparte portando con se’ il proprio senso di disfacimento e una gravosa presenza.

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68 Opinione inserita da 68    09 Novembre, 2023
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Vite altrove

…” adesso è seduta al mio fianco e sorride di qualcosa che le è venuto in mente. Il convoglio rallenta, piega verso la spiaggia. Il tempo, le distanze… La vita così come sarebbe potuta essere. Lei si scosta i capelli dalla fronte e posa nuovamente la mano sul bracciolo fra noi. Per toccarla non dovrei fare altro che toccare le dita “…

Un lungo viaggio verso un amore perduto sospeso nei ricordi di giorni che furono, parole scandite da un tacito accordo, una sinfonia intensa e fugace svanita improvvisamente .
Islanda-Giappone, il parallelismo risuona nella risolutezza di paesaggi aspri e caratteri forti, nel timbro sussurrato di parole gentili, l’ unione di due vite altrove, il vivido ricordo di quel 1969 in cui il ventenne Kristofer, approdato a Londra in cerca di futuro, si scontra con una giovane donna, Miko, sulla soglia del ristorante del padre di lei dove si era recato per un colloquio di lavoro e da subito se ne innamora.
Oggi, dopo cinquant’anni, settantaquattrenne, nel pieno di una pestilenza che si aggira per il mondo, riaccoglie il senso di questa presenza e il profondo sentimento di lei decidendo di riabbracciarla.
Intraprende un lungo viaggio verso il Giappone, percorso della memoria in quello che fu e che venne a mancare improvvisamente e attuale nei luoghi e nelle voci che incontra.
Immagini, sguardi, parole, speranza, dolore, lontananza, misteri, rimpianti, il ritorno a quegli anni, quando la vita aveva allontanato Kristofer dall’ Islanda per studiare economia, un presente da subito rigettato alla ricerca di altro.
Fotogrammi scolpiti e mai scalfiti, passione negata, nascosta, a distanza, un anno idilliaco, quando la vita si apre all’ amore e tutto gli parla di Miko, quella giovane donna che da subito ne intuisce i pensieri e gli stati d’ animo.
Tra passato e presente un’ altra vita, una figlia che non lo ha mai accettato completamente, nata da una relazione precedente, una ex moglie scomparsa da sette anni che Kristofer non ha mai amato, un lavoro nella ristorazione che sconta gli esiti della crisi pandemica.
Al centro sempre lei, Miko Nakamura, l’ amore di una vita, idealizzato e sofferto, la donna di cui non ha mai parlato a nessuno, nemmeno ai famigliari più stretti.
Oggi Kristofer naviga in solitudine, percorso dalle sue ombre, dai fantasmi del passato, Miko probabilmente è una persona completamente diversa da quella con la quale credeva di condividere il futuro.
Forse i suoi ricordi sopravanzano e alterano il senso del reale, il passato governato dal caso, il viaggio si copre di un senso di fallimento per lui chi ha cominciato a invecchiare, che a tratti confonde il sonno e la veglia.
Quale il senso del tutto? Recuperare ciò che mai fu? Redimersi? Trovare qualcosa che giustifichi il modo in cui ha vissuto?
La verità in pochi momenti di felicità fissati in quel 1969 a Londra, immaginando un futuro diverso..

….” Me ne sono andata ma quella città l’ho portata con me. Nel mio bagagliaio ho messo la città, i ricordi, la gioia, la tristezza, la rabbia, e quell’ amore che mi è stato di ostacolo in tante cose in tutti questi anni”…

una verità che non esiste, se non in parte in un passato-presente e nel cambiamento di un volto, in parole sussurrate per chiedere scusa, che svelano una dimensione celata e una sofferenza reale sulle orme del proprio vissuto, in qualche modo condivisa a distanza, tutto è frammentato, vicino, plausibile, raggiungibile, ma anche lontano, inaccessibile, sfuocato, avvolto da una misteriosa assenza-presenza.

“ Sotto la pioggia gentile ‘’ è un romanzo poetico-sentimentale dai tratti gentili, che riporta a certa letteratura giapponese ma con tratti di intimismo nordico, che riflette e restituisce una vita crudelmente esposta alla propria storia e a una casualità immanente ma anche a un reale che si credeva altro.
Per lunghi tratti assistiamo a un monologo tra passato e presente per raggiungere l’ irraggiungibile, ascoltando storie non proprie, ridiscutendo atteggiamenti sbagliati, ipotizzando verità nascoste, ricostruendo giorni lontani, imbrattati dal senso di colpa.
Un viaggio che attraversa decenni di separazione e di lontananza, vite nate, immaginate, ignorate, sepolte, solo sfiorate, attraversati dall’ inafferrabile potere dei ricordi e dalla voce inasprita della propria coscienza.

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68 Opinione inserita da 68    01 Novembre, 2023
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Verità omologata e finzione soggettivata

….” Alla fine si riduce tutto a questo, una persona passa la vita a dire addio alle altre persone. Ma come si fa a dire addio a se stessi? “….

“ Rumore bianco “ riproduce una dimensione allargata partendo da un reale circostanziato e provinciale di una famiglia americana media impegnata nel quotidiano.
Rumori, sensazioni, accadimenti, omologazione, l’ ansia del presente, uno stato di precarietà impregnato di uno sguardo soggettivato attraversano età differenti e accadimenti, scontati, imprevisti, indecifrabili.
Jack Gladney è un professore universitario fondatore di un istituto di studi hitleriani, quattro matrimoni alle spalle, diversi figli, una compagna, Babette, pervasa da ossessione ansiogena e senso di morte, una coppia attraversata da una precarietà che cerca di condividere.
Generazioni a confronto, una sovrastruttura che incombe e ricopre vite omologate, codici comunicativi, attività extrasensoriali, realtà apparente, significati da attribuire per chi è stato esposto in un breve momento a una nube tossica che può restituire un futuro indigesto.
Chi siamo realmente in una visione esterna ed estranea a noi stessi che ci appartiene, oggetti di un quadro più ampio, fruitori di una felicità omologata, una massa indistinta di consumatori alla ricerca di un senso in una comunanza condivisa, semplici spettatori di un’ emergenza climatica da tempo presente che ci tocca direttamente quando una nube tossica ci sovrasta allontanando sogni poco evidenti.
Come siamo inclusi in eventi che giudichiamo scontati, che trasformiamo in oggetti di appartenenza, che cosa percepiamo di una realtà che sappiamo descrivere solo grossolanamente, sottratti a noi stessi ed esposti continuamente ad attività extrasensoriali, onde, radiazioni?
In fondo vediamo con occhi altrui, fotografando l’ atto del fotografare, nel qui e nell’ ora, mangiamo compulsivamente, inseguiamo una pienezza dell’ essere nella variegata sembianza dei nostri acquisti, compriamo per il semplice piacere di farlo, non siamo che bizzarre maschere di felicità in enormi supermercati puliti e moderni, immersi in un perenne rumore assordante, indossiamo capi che ci parlano restituendo un senso di identità e di pienezza, semplici meccanismi di un sistema invisibile e angosciante con cui interagire.
E allora, fagocitati da un reale siffatto, passivamente attivi, esposti e anestetizzati da uno schermo televisivo che riempie le nostre vite sedentarie e circostanziate proiettando catastrofi sempre più grandi, che quando non ci riempie di rabbia ci spaventa a morte, siamo travolti e impregnati dal desiderio e dal gusto soddisfatto di vederne di sempre più grandi.
C’ è un’ altra dimensione, privata, soggettiva, quel se’ sensibile e presente a se stesso, un sistema relazionale che include dinamiche famigliari personali e affettive che sfuggono a una evidenza oggettivata richiamando sentimenti, senso di colpa, amore, mistero, ascolto, emozione, la propria essenza più vera che origina da un passato complesso sfociato nell’ oggi.
Forse la famiglia pare essere

… “ la culla mondiale delle informazioni sbagliate, con un qualcosa che genera errori fattuali, l’ eccesso di prossimità, il rumore e il calore dell’esistenza”….

ma

….” Attenzione, però, questi bambini io li prendo sul serio. Quella densità colloquiale che fa della vita famigliare il solo mezzo della conoscenza sensibile che racchiuda immancabilmente la meraviglia del cuore”...

forse si è semplicemente

…”una fragile unità circondata da fatti ostili”…

con

…” un senso di pena per noi umani e per lo strano ruolo che ci tocca interpretare all’ interno dei nostri stessi disastri”…

Vita e morte, quella paura che ci sovrasta e ci terrorizza ma inascoltata perché non fa notizia, ostaggi di un terrore pianificato, tabloid che esprimono un lieto fine a sorpresa di eventi apocalittici, un po’ come la nostra mente immersa nell’ immaginario, inventando storie per un pubblico che ascolta rapito, immersi in dejavu come segni evidenti del proprio isolamento, impegnati a confermare le proprie convinzioni.
Una vita che andrebbe vissuta quotidianamente, da condividere con i propri cari, crescendo i figli e facendo lezione agli studenti mentre le paure, in primis quella della morte, non andrebbero represse, perché includenti il senso della vita nella sua circostanziata e nitida fragilità.
In fondo

…” la paura è la consapevolezza di se’ portata a un livello superiore”…

“ Rumore bianco “ ( 1985) è uno splendido affresco con vista sul futuro di una società globalizzata ipertecnologica e omologante pervasa dalle frequenze del rumore bianco in un viaggio iperrealista e allucinogeno che si dibatte tra sogno e realtà, introducendo nell’ asettica quotidianità fuorviante concetti propriamente umani ( paura, morte ) senza una soluzione e una presa di posizione evidenti, lasciando che questo film contraddittorio di storie e di realtà allucinata rappresenti se’ stesso in un futuro aperto a una narrazione da scrivere e in parte già scritta.

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68 Opinione inserita da 68    24 Ottobre, 2023
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Passato, presente, futuro…

…” Qui smetterò di interrogarmi sul mio passato e sul mio futuro, perché vedrò il mondo con occhi nuovi. Lo vedrò dalla prospettiva del santo senza nome, con una memoria infinita e una libertà senza tempo. La casa della tua infanzia. I tuoi Pascoli. I tuoi genitori che non ho mai conosciuto. Tutti i nostri antenati. Ho infine trovato il modo di udirli. Finalmente il loro messaggio è chiaro. Questa terra sopravviverà. Molto tempo dopo che le nostre luci tremule ed effimere si saranno spente, queste montagne, questi altopiani, questo vento, continueranno a esistere. E poiché è questa terra la fonte di tutto ciò che siamo, noi saremo ancora qui”…

Tibet, due sorelle ( Lahmo e Tenkyi ), una madre ( Ama ), una figlia ( Dolma ), cinquant’ anni di narrazione condivisa dai protagonisti di una regione invasa, destituita, perduta, che non possiede un esercito ma solo monaci e monache, strappati da una terra in un esilio senza nome in attesa di un ritorno improbabile, alla ricerca dei propri Dei, la migrazione in Nepal ( 1962 ) convivendo con i locali e con i propri incubi, un esercizio di sopravvivenza in un luogo non proprio.
La verità è che i cinesi (Gyami ) non possono essere sconfitti con le preghiere, ci vorrebbero pallottole e bombe, l’odio non serve senza una guida spirituale.
Canada, 2012, Dolma, innamorata della storia del Tibet e dell’ intero passato vorrebbe raggiungere gli uomini e gli Dei di una nazione che non ha conosciuto, vedere i morti di allora che riprendono vita, Lahmo da cinquant’ anni vive in Nepal rinnovando il suo permesso di rifugiata, tralasciando un passato dissolto e la sua vita in Tibet.
Tutti i tibetani nati in Nepal dopo il 1989 sono ragazzi apolidi, è come se non esistessero, una separazione non voluta ma necessaria, una vita rescissa da anni,
generazioni a distanza, chi sperando di rivedere la propria terra, chi costretto altrove, chi obbligato dalle circostanze, chi in cerca di un futuro migliore.
Figli, zii, nonni, nipoti, l’eco spirituale di una madre che per anni ha prestato la propria voce agli Dei, accomunati dal legame viscerale con una terra di incantesimi, di uomini, di spiriti, di voci, di valli, di laghi, di montagne e il dono inestimabile della loro conoscenza.
Ad accompagnare i protagonisti una statuetta ( Ka ) di argilla di un santo senza nome capace di resistere agli anni e a cotanta distruzione, che sembra condividere il destino degli uomini, inseguirli, una statuetta perduta, sottratta, venduta, ritrovata, che unisce più generazioni in un cammino sofferto, una identità sradicata dagli invasori.
Anni a desiderare il ritorno nella terra d’ origine, la condizione di libertà all’ origine del cambiamento, molti gli interrogativi a contorno.
Che cosa significa essere scacciati dalla propria casa senza potervi fare ritorno nel ricordo di una felicità accarezzata per anni, viceversa essere nati altrove, in un altro continente, vissuti di storia e di racconti per arrivare un giorno in un luogo raccontato e immaginato che non si è mai visto?
Che cosa significa essere dimenticati dal mondo, non contare nulla, un popolo apprezzato solo per i suoi oggetti e per la sua filosofia, non per le persone e per le loro vite, che cosa significa essere profughi, rifugiati, con un invasore che si è impadronito della propria terra, ha ucciso la propria gente, in possesso di documenti considerati illegittimi dalla maggior parte delle nazioni?
La memoria condivisa e le storie alimentano il senso di appartenenza, il respiro di un sentimento comune avvalorato da uno spirito di affinità, anime disperse in altri corpi proseguono lo stesso racconto.
E allora la ricerca della statuetta rincorre un’ identità ingiustamente sottratta, radici che sono il solo senso possibile, una terra che esprime l’essenza di un popolo, la forza della memoria in una libertà atemporale. Questo luogo racchiude le voci infinite della memoria, in lui tutto si conserva e si mantiene, il suo popolo in primis, un luogo che rimane il solo immortale e imprescindibile archetipo.

….”Di fronte a me c’è un paese che mi è precluso. Alle mie spalle una realtà alla quale non appartengo. Avanti o indietro nessun cammino ha senso. Perciò devo rimanere sospesa tra due universi”….

Un romanzo quantomai necessario per non dimenticare, per rievocare un forte senso di appartenenza nella condivisione ancestrale di una terra che non c’è, un popolo vessato e dimenticato nella propria essenza più vera. Che cosa oltre la memoria, la poesia, la spiritualità, l’arte, il destino degli uomini, la voce dei loro Dei, un canto sospeso nella tragedia di un popolo apolide ma ancora così profondamente radicato .
Tra cruda realtà e sogni infranti, desideri vividi e poesia dell’ anima, l’ infinita bellezza custodita negli occhi della memoria e nei suoi racconti, la purezza di giorni che non torneranno, sospesi tra illusione e speranza in una terra di mezzo che preclude qualsiasi accesso alla propria realizzazione più vera.

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68 Opinione inserita da 68    24 Settembre, 2023
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Dolci note suadenti…

…” Hede sentiva di non poterle dire quanto l’amava. Non si poteva dirlo a parole, si poteva soltanto dimostrarlo, ogni giorno e ogni momento, per tutta la lunga vita”…

Selma Lagerlof intesse una trama a metà tra la fiaba e il romanzo d’ avventura grazie a una prosa vestita della propria essenziale armonia, sospesa tra sogno e realtà, un flusso narrativo intriso di arte, bellezza, amore, morte, normalità e pazzia, cura di se’ e dell’ altro.
Le note seducenti di un violino richiamano gioia, stupore, spensieratezza, infinita dolcezza e l’ amore di una vita, quella musica divina che esce inesauribile dalle sue corde, una sospensione temporale per accedere alla bellezza del mondo esprimendo la propria essenza, una passione totalizzante e necessaria per Gunner Hede, il protagonista, giovane studente baciato da bellezza e talento.
Quando sarà costretto a separarsi dal suo amato strumento e dalla musica a cui ha giurato fedeltà eterna abbandonando gli studi per risollevare le sorti della famiglia e garantire la sopravvivenza del maniero ereditato dal nonno e caduto in disgrazia, sarà come vendere l’ anima al diavolo precipitando in uno stato di totale follia.
Neppure Ingrid, una giovane ambulante dagli occhi magnetici ammaliata dal fascino delle sinfonie del violino di Hede, da lui strappata alla strada riconoscendone bellezza e unicità, sembra riuscire a distoglierlo dall’ insana malattia riportandolo al passato recente e alla propria essenza.
È un percorso tortuoso di vita e di morte, di normalità e di follia, inseguendo quella luce smarrita nella dimenticanza, riappropriandosi dei ricordi e della forza di un legame perduto.
Hede è altro, una sorta di mendicante che dialoga con gli animali e che apprezza le silenziose presenze all’ interno dei cimiteri, la stessa Ingrid si crede persa, i loro paiono incontri tra due estranei, Hede ne ignora la presenza anche quando in lui sembra riemergere qualche ricordo.
La forza dell’ amore, l’ arte, la musica, la bellezza le uniche note intonate in grado di restituire un vita degna di essere vissuta laddove pareva irrimediabilmente persa. È un copione già scritto ma riccamente vestito in un mondo cosparso di nemici, in uno stato di pazzia che elimini l’ angoscia, in un’ allerta continua, in un senso di pace dimenticato, la paura radicata dentro.
Anche Ingrid pare sfuggita a morte certa, forse era già morta, una condizione preferibile a una vita invisibile e senza amore, in lei la voglia di salvare chi l’ ha salvata, recuperata a se stessa dal sentirsi amata.
Come restituire vita a chi è malato di nostalgia, uscire dalle tenebre nel flusso dei ricordi, anche dolorosi, difficile quando tutto pare inutile e già scritto, e allora non resta che abbandonarsi alle corde di un violino e alla sue note suadenti, al sogno e alle fantasticherie, alla grandezza di un amore sospeso….
Selma Lagerlof si conferma scrittrice di smisurato talento, in grado di trasmettere la verità dei sentimenti in una semplicità disarmante, l’ essenzialità della vita nelle smisurate declinazioni che la riguardano, laddove la parola “ speranza “ risuona continuamente nella testa e nel cuore di chi ha fatto proprio e sa riconoscere il dolce e armonioso suono dell’ amore e della bellezza, pur deformato e cangiante.


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68 Opinione inserita da 68    17 Settembre, 2023
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Relazione sospesa

…” In quale preciso momento il reale si è trasformato in irreale, la realtà in fantasia? Dov’ era la frontiera, la frontiera, dov’è?”…

Una coppia, Jean Marc e Chantal, anni trascorsi in cui vivere lo scorrere del tempo fino a quando, un giorno, il proprio sguardo si posa su chi non si riconosce, un’ estranea scambiata per la propria metà e una frase a ridiscutere tutto

…” gli uomini non si voltano più a guardarmi”…

Che cosa pensare e credere, inganno, sogno, illusione, quale colpa se l’altro ricerca e desidera lo sguardo e l’ approvazione altrui?
Nasce la necessità di rivalutare il passato, di ridiscutere i termini del proprio rapporto rivedendone i contenuti, destrutturando la forma, ricostruendo l’ essenza, ripartendo da se’.
Si vive in una neo dimensione, crisi spirituale e corporale, come è possibile non riconoscere la figura di chi si ama più di ogni altro? Di certo Chantal pare essere un’ altra, il viso invecchiato e lo sguardo incattivito.
Ecco una duplice visione dei fatti, ricostruzione di un amore nato sin dal primo incontro, Marc non avrebbe potuto riconoscere l’ unicità di Chantal in mezzo agli altri, quella maschera indossata tra colleghi, amici, dipendenti, un volto che probabilmente non l’ avrebbe colpito e conquistato.
Era stato da subito amore, se l’ era trovata al fianco in un rapporto squilibrato, lui forte, lei debole perché più vecchia, la diseguaglianza come fondamento relazionale.
Chantal, a sua volta, prova una profonda nostalgia di Jean Marc nonostante la sua presenza, un amore nato dalle ceneri della perdita di un figlio, un senso di obbrobriosa felicità che la faceva inorridire ma anche pensare che il sentimento per lui era amore assoluto e la sola possibilità di riaffacciarsi alla vita.
Se stessi e le proprie debolezze, aspettative tradite, desideri negati, gelosia, egoismo, insoddisfazione, tradimento, chi si è realmente e si è diventati, che cosa è rimasto del proprio passato, delle aspirazioni più grandi, di un se’ abbandonato al noi, chi ci sta di fronte, che cosa rimugina, immagina, pensa, quale il confine tra realtà, sogno, fantasia, come restituire forza e consapevolezza a un amore svanito nel nulla?
Lettere anonime, appostamenti, pedinamenti, domande, chi si è l’ uno per l’ altro, le proprie ansie sopite riaffiorano in una solitudine affettiva che pareva lontana.
Tra la noia e l’ indifferenza, il grande male del nostro tempo, nessun amore sopravvive al mutismo, il viaggio della conoscenza sempre più vago, ricoperto di incertezza erotico-sentimentale, vestito di nudità apparente, di solitudine affettiva, di una spersonalizzazione che confonde luoghi e nomi facendosi incubo spogliato di tutto.
E allora non resta che svegliarsi dal sogno, se di questo si tratta, accarezzare il presente, posare lo sguardo sull’ altro e non lasciarlo, per sempre…
Un romanzo breve condito di eleganza e di naturalezza in una dosata ricerca di se’ all’ interno di una relazione scoperchiata e dissolta. La propria identità si specchia nelle ceneri dell’ identità altrui, un cortocircuito che fa i conti con un reale dissolto, con il potere dei sogni, con un passato frastagliato e doloroso, tronco e molesto, un intreccio di sospetti, dubbi, ipotesi, certezze, incamminandosi in una dimensione di solitudine.
Quale identità in questa indecifrabile incertezza? Difficile dirlo, quando le parole sovrastano l’ azione e i sogni confondono i fatti, rimane un senso di incompiutezza e di fragilità esposte al proprio io più profondo.


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68 Opinione inserita da 68    12 Settembre, 2023
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Presente ingombrante

….” Elie e Michel, Louise non contava più niente, c’ erano solo lui e l’ altro, Elie e gli altri, Elie e il mondo, Elie e il destino. Da un lato c’era lui che da anni ricercava un posto nel mondo, dall’ altro c’era tutto il resto e Michel ne era l’ incarnazione ”…


Elie e una lotta estenuante contro se’ stesso, quell’ insopportabile se’ in balia di eventi indirizzati da chi crede gli rubi la scena privandolo del proprio respiro esistenziale, di rituali e desideri, destituendolo da quel prezioso angolo di intimità che con tanta fatica si è conquistato e concesso, pochi affetti ritenuti focolaio domestico.
Il giovane protagonista è un talentuoso studente di matematica originario di Vilnius, capelli rossicci e quasi crespi, occhi sporgenti, labbra carnose, affittuario nella pensione della signora Lange, alloggia al piano di mezzo, una camera fredda d’ inverno e calda d’ estate, un corpo sgraziato che sa di solitudine alla ricerca di consenso.
Michel è il nuovo affittuario, un ventiduenne ebreo rumeno così diverso da Elie, capelli scuri e lisci, gli occhi di un nero profondo, la carnagione olivastra, elegantemente vestito, di famiglia ricca.
La sua presenza da subito sarà considerata una minaccia, rottura dell’ equilibrio precario della casa che non sarà più lo stesso, come le voci e i gesti.
E poi c’è Luise, la figlia della proprietaria, magra come la madre, un po’ più alta, gli stessi capelli biondi e gli occhi di un grigio slavato, lineamenti che rivelavano velata melanconia, una creatura fragile.
Per Elie Inizia un duello a distanza, sguardi rubati e silenzi ingannevoli, sospinto dalla gelosia, dagli occhi di chi vede nell’ altro ciò che lui non è, di chi non ha amici, costretto a elemosinare attenzioni, affetto, inseguendo un sogno infantile improvvisamente perso .
Un sentimento ingravescente, autoalimentato, inarrestabile, un’ idea che prende forma, la sola possibile, soluzione estrema per annientare il presente e riportare il futuro allo stato di quiete e di felicità pregressi, ma di cosa si tratta, rabbia, invidia, gelosia?
Difficile capire che cosa significhi perdere le proprie certezze, Michel è così sicuro di se’, per lui la vita è facile, riccamente vestita, un giuoco estremo che ignora l’ infelicita’ e i sentimenti altrui.
Elie continua a dibattere con il proprio io, sottraendosi a uno scontro impari, ricercando una solitudine pacificatoria, ma ormai è troppo tardi, accecato da un’ idea che i suoi occhi rendono certa e allora si nasconde, origlia, sbircia, pedina, immagina, ricostruisce una storia che gli si mostra e che gli altri negano, indifferenti e bugiardi.
Di fronte alla brutalità di un gesto premeditato non resta che sopravvivere alla rabbia e all’ eventuale senso di colpa in una vita altrove che si fa tormento, braccato da un senso di incompiutezza con la certezza che arriverà il giorno della resa dei conti.
Un tormento trascinato nel tempo, inutile scomparire, inseguito da un fantasma che potrebbe riprendere forma.
Ma è la propria ombra a farsi decisiva e ingombrante, rischiando di rivivere e di riperdere tutto, allontanato ancora una volta dalle proprie certezze, aspettando inutilmente un silenzio inquisitorio, tralasciando da tempo il proprio passato in una sorta di libertà condizionata, e allora non resta che accettare la sconfitta o spingersi oltre in un presente rivestito di indifferenza che è la più atroce delle sentenze.
“ Delitto impunito” ( 1953 ) è un thriller degenerato nella follia. Il protagonista vive l’ incubo di una vita parcheggiata in attesa di un epilogo per lui scontato, condannato da quella mano volutamente esitante.
Il suo occhio scruta e rappresenta, rimugina e si assenta, sopravvive a un’ apparenza sentimentale negatagli, i personaggi di contorno, al contrario, vivono quello che sentono in una recita esplicitamente ingannevole, estranea alla sua percezione.
In una minuziosa descrizione dei fatti e dei personaggi, condita da un rimuginio ininterrotto tra il reale e l’ immaginario, dove anime e corpi si intrecciano in uno stato di attesa eccessivamente protratto, si sviluppano due storie, nei fatti e nella testa del protagonista, due archi temporali in due luoghi diversi, nuovi legami famigliari, ma il tempo si è fermato e l’ altrove non è garanzia di salvezza, assalito dalla violenza reiterata in una strada senza ritorno…

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68 Opinione inserita da 68    07 Settembre, 2023
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Solitaria condivisione

Un’ alternanza di reale e immaginario perfettamente miscelati in legami che restituiscono alle parole voce e significato, porzioni di storie costruite su termini ed etimologie che assumono forma e sostanza in un fluire temporale con sede in un presente ormai svuotato di senso con un neo pseudo linguaggio tronco e deforme per non dire incomprensibile.
Parole custodi di vita, legami, comunanza, a volte inspiegabile lontananza, il cui potere salvifico apre a significati plasmabili e multiformi in un romanzo che inizia nell’ anno del Signore duemilaventuno e in un’ ambientazione piuttosto scarna e asettica, di solitudine vestita, tra isolamento, paura, ricoveri, morte, separazione, lontananza, un’ epoca COVID che ha soppiantato l’ ansia post Brexit, un testo costruito attorno a due parole, chiurlo e coprifuoco ( in inglese curlew e curfew così simili per grafia e pronuncia ).
Sandy Gray, la protagonista, una pittrice che imbratta su tela parole policromatiche estratte da versi, vive l’ ansia della separazione dal padre ricoverato in ospedale e che non può vedere se non in rari momenti di intimità, ripercorrendo con lui la storia sfuggente e dolorosa di una madre svanita nel nulla, è completamente disillusa e delusa dal presente, indifferente a tutto, alle stagioni, alle ore, persa nel vuoto in un’ alternanza di realtà e fantasia.
Una telefonata inaspettata, per certi versi impalpabile e assurda, cambierà le carte in tavola, una vecchia conoscenza del college, Martina Inglis, che non sente da trent’anni e che allora non le stava simpatica, oggi da lei completamente dimenticata, una semplice sconosciuta.
Un lucchetto antico e pregiato da trasferire in un museo, una voce sussurrata in due parole, la richiesta di una spiegazione e di un chiarimento secondo le proprie doti percettive e di intelligenza vivida, storia vera, invenzione o possibile truffa?
Eppure il pensiero di Sandy è rapito in quel mentre, Martina Inglis riesce ad attrarla e a restituirle una certa voglia di vivere, lei stessa ricambia il favore, consegna Martina a uno stato di grazia pur invisa alle figlie che la credono un’ accalappiatrice seriale e un’ impostora narcisista.
A poco a poco si ritroverà una famiglia invadente e sgradita dentro casa, lei altrove, dispensando consigli, inventiva, racconti, immersa in un cortocircuito relazionale che pareva morto sul nascere.

…” Ascolta. Tua madre, tuo padre, tua sorella e anche tu, tutti quanti. Nessuno di voi troverà nessuna risposta ne’ a casa mia ne’ in me. Qui la storia non sono io e nemmeno voi. Hai capito? Non siamo noi la storia. E comunque, una storia non è mai una risposta. Una storia è sempre una domanda”…

Ciascuno è dove non vorrebbe e dovrebbe essere, c’è chi si trova in un luogo luminoso buio e chi in un posto altrove, di certo le parole vorranno sempre dire qualcosa e si riveleranno per quello che sono.

…” Se le parole per noi sono vive allora anche il loro significato è vivo, e se la grammatica è viva allora in qualche modo sarà la sua capacità di creare connessioni, più che la nostra di creare divisioni, a dare energia a tutto quanto” …

Nel contempo un’ altra storia si racconta, a metà tra il reale e l’ immaginario, una ragazza vittima di reiterate assenze e di un terribile abuso molesto, che pare morta ma che si mantiene in vita, protagonista di accoglienza e di incontri, in simbiosi con un uccello e domatrice del fuoco, una ragazza d’ altri tempi e di questo tempo, imbrattata di una forza fragile, scomparsa per sempre prima di essere libera.

Racconti che paiono unirsi, compenetrarsi, riabbracciare relazioni e sensazioni dimenticate, legare i protagonisti al potere della parola e a nuove immagini di un mondo smarrito e dissolto che improvvisamente si mostra nello stupore di un saluto gentile….

….”Ma in realtà cosa ne sapevo io? In realtà non sapevo niente io, su niente e su nessuno. Mi stavo inventando le cose mano a mano che andavo avanti, come del resto facciamo tutti”…

L’ universo letterario di Ali Smith, che tanto abbiamo apprezzato nella tetralogia delle stagioni, ci trasmette con grande forza il vero senso della letteratura, trasferendo emozioni vivide su carta, penetrando il significato autentico di parole che si fanno carne, costruendo storie e legami immortali, parole che respirano, odorano, pensano, sanno di buono, in contrapposizione a una schizofrenia del presente che si trascina in isterie collettive dopate da un individualismo cinico e delirante.
Una scrittura densa, veloce, ironica, caustica, profonda, che possiede il dono prezioso della bellezza per come riesce a penetrare il senso collettivo attraverso un’ indecifrabile somma di elementi che non è semplice addizione, ma moltiplicazione di un’ essenza in un contesto reale e immaginario condito da fantasia suprema.

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68 Opinione inserita da 68    01 Settembre, 2023
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Inspiegabili assenze

“….Fuggo da un incubo all’ altro ed è così che mi accorgo di avere passato tutta la vita”…

Una vita a rincorrere l’ evidenza, un’ insensatezza destinata a un unicum che sembra niente, condanna per la protagonista e la propria giovane storia in un viaggio tragico e paurosamente scontato.
La Groenlandia e il rapporto conflittuale con la Danimarca, i Groenlandesi e la propria bizzarra unicità, l’ impennata di suicidi dopo la fine dell’ epoca coloniale ( 1953 ), fattori naturali e biochimici, la mancanza di sonno, il troppo sonno, l’assenza di luce, la troppa luce, il sole di mezzanotte, il meccanismo variabile della serotonina, fattori che aumentano impulsività e aggressività, violenza e suicidi.
La giovane protagonista senza nome vive il proprio senso di solitudine in mezzo agli altri, un amore nato dalle ceneri di assenze definitive con la reale impossibilità di amare e di essere amata, la paura di scomparire in una sorta di limbo della dimenticanza, come tanti altri sono finiti e continuano a esserlo.

….” Di cosa hai paura? Ho paura di rimanere sola. No, non è di quello che hai paura, hai paura di essere dimenticata, tu sei groenlandese, hai visto i tuoi capelli neri e i tuoi occhi a mandorla”…..

Tra i giovani in Groenlandia vige una vera e propria cultura del suicidio, il più alto tasso al mondo, violenza, abusi, alcolismo, molte persone scompaiono e nessuno più ne parla.
La protagonista fugge da una terra e da una famiglia che non sembrano potere entrare nelle sue stanze segrete, un futuro di studi in Danimarca, il richiamo alle origini, voci del passato di cui sentire la mancanza, il ricordo vivido di un caro amico d’ infanzia e della nonna che l’ ha cresciuta le cui assenze premature sembrano essere state pianificate.

C’è un posto dove ritrovarsi e perdersi definitivamente in una dimensione parallela

…” La valle dei fiori, un luogo che è una sorta di limbo, dove si trovano i morti che non hanno potuto raggiungere il luogo a cui erano destinati”…

L’ ossessiva presenza di un percorso inverso, una giovinezza che insegue il passato e le sue molteplici ombre, domande e risposte inevase, una bollettino di guerra in continuo aggiornamento, la propria vorace ricerca di un senso, di un angolo di mondo, un desiderio di amore all’ eccesso che plachi la propria sete d’ amore e quell’ assenza definitiva che ogni volta ritorna a rimarcare la propria essenza.
Perché desiderare la fine così intensamente, una condanna da portarsi dentro, per qualcuno semplicemente un sentirsi inadatto alla vita, perché non se ne parla, che cos’è quel non senso che macera dentro?
Il complesso iter della protagonista, la propria stentorea eco di unicità, sentendosi e vedendosi altrove, il desiderio di amare nell’ impossibilità di amare, nascondendo l’ evidenza, percossa da eccessi e bugie, un’autodistruzione definente sottilmente e paradossalmente coperta d’ ironia, una pace famigliare che pare ascritta a un’ accettazione rassegnata.
La Valle dei fiori e’ un romanzo coperto di solitudine, inquietudine, rabbia, un grido lanciato nell’ inconcepibile vuoto dell’ esistenza, voce autentica in un oceano silente, laddove innumerevoli vite inspiegabilmente continuano a mancare, private del proprio senso più vero. La prosa è viva, pulsante, un realismo crudo imbrattato di falso cinismo e di un certo sarcasmo, la ferocia della protagonista ingigantita dal suo progressivo e inevitabile distacco dal mondo.
Risposta non c’è, rimangono assenze sempre più numerose e un silenzio inquietante, inspiegabile, oltre che un grido inevaso in una società anch’ essa silente.

…”Spengo la luce, finisco in un buco nero, non esisto più, non sono nulla”…


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68 Opinione inserita da 68    29 Agosto, 2023
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Verità impura

…” quando sono seduto sulla mia branda con gli occhi chiusi, mi capita di riuscire a vedere le stelle e di sentire il vento sussurrare come quella notte, e non posso, no, non posso sradicare dal mio animo l’ illusione che, malgrado tutto, partecipo ancora alla creazione di un mondo nuovo”….

“Kallocaina “, ovvero il siero della verità, è un’ invenzione che segna l’ inizio di un mondo nuovo abbandonandosi all’ illusione di uno Stato Supremo e a un bene comune che non ha niente da nascondere e da obiettare, dissolta e oggettivata una soggettività ritenuta pericolosa.
Il lungo racconto di Leo Kall, l’ inventore del siero che porta il suo nome, una cosciente e perfetta macchina del sistema, un soldato senza ombra di inganno e di tradimento, si addentra nel passato da un presente di prigionia che paradossalmente l’ ha reso più libero.
E’ un viaggio cosciente da uno stato di soporifera oggettivizzazione e di paura che è negazione di se’ all’ interno del dubbio creato da una soggettività impura e creativa, un sovvertimento che assorbirà il protagonista in una spirale di non senso.

…” Avevo avuto paura, ero stato un vigliacco, che cos’è questo libro se non il racconto della mia vigliaccheria? ”….

La kallocaina svelerà i propri segreti più intimi, al servizio della collettività e dello Stato, i criminali non negheranno la verità, i pensieri svaniranno riducendo i soggetti a numeri, perché in fondo

…” nessuno che ha passato i quarant’anni ha la coscienza pulita”…

Una cosa è certa, l’ ultima traccia di privato distrugge per sempre le tendenze asociali, consegnando la propria interiorità a garanzia di uno Stato mondiale ritenuto perfetto.
Lo Stato è tutto, creatura artificiale nata dalla sfiducia reciproca, il singolo niente, la cultura un lusso di altri tempi, l’ istinto di conservazione causa di un sistema militare e poliziesco sempre più invadenti.
Soldatini addestrati perfettamente, vita privata inesistente, famiglie dissolte, figli allontanati, nessun attaccamento e legame reciproci, controllati da un occhio vigile, una battaglia contro gli spiriti, la possibilità di controllare quello che si agita dentro la gente, una legge contro i pensieri e i sentimenti ostili allo Stato incriminando la libertà di pensiero.
Eppure, quando sembra avere toccato l’ apice, un dubbio si insinua e macera il protagonista che si interroga sul senso insensato del proprio agire, sulla certezza del controllo esercitata dal siero, un potere che causa angoscia, nausea, ansia, infelicita’.
Leo si specchia nella propria consorte, nei suoi pensieri più intimi, scopre che Linda è fatta della sua stessa materia tragica, il suo e’ un amore invidiabile nella propria infelicita’, una condanna dopo avere raggiunto il mistero che si nasconde dietro il reale.

…” C’è qualcosa sotto sotto e dietro di noi che si crea dentro di noi”….

senza il quale la vita non ha senso, il mondo pare non esistere più se non nella reciprocità, Leo si va liberando dalla propria condizione soffocante pervaso da una sensazione nuova, semplice, naturale, che lo sostiene senza costringerlo…

,,,” dalla solitudine nasce più solitudine, dalla paura più paura”…

Il romanzo della scrittrice e poetessa svedese Karin Boye ( 1940 ) può giustamente essere inserito in quel filone letterario cosiddetto distopico, pensiamo a “ Il mondo nuovo “ di Huxley ( 1932 ) e a 1984 ( 1948) di Orwell. In “ Kallocaina “ si respira un ribaltamento concettuale, Leo Kall è una pedina di un sistema dittatoriale vissuto dall’ interno, da lui stesso auspicato e alimentato, al contrario di Winston Smith ( 1984 ) al servizio del proprio desiderio libertario in un mondo di droni dove nessuno lo segue.
Il tempo gli svelerà un sentimento nascosto e la maternità di Linda un senso represso e soppresso dall’ indottrinamento ideologico imperante, tratti autobiografici dell’ autrice, la propria omosessualità nella Germania nazista.
Leo Kall ritroverà se stesso e la propria umana presenza in una narrazione sempre più intima dopo una prima parte caratterizzata da una marcata e asettica oggettività.
Il romanzo vive ed esprime la liberazione della coscienza del protagonista in conflitto con una parte di se’, tipica espressione dei personaggi della Boye, assertrice di una libera espressione umana ( influenze psicoanalitiche ) contro la rigidità del sistema morale imperante.
Alla fine I suoi protagonisti cedono alla propria necessità libertaria inseguendo l’ interiorità, una legge di natura e una spiritualità che trovano la risposta definitiva nel proprio essere.




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68 Opinione inserita da 68    20 Agosto, 2023
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La maschera dell’ infelicita’

…” In realtà non ci sono segreti, o forse ce ne sono a centinaia, e nessuno abbastanza interessante per te. Il segreto è che siamo una famiglia, siamo solo una famiglia normale, con una piccola infelicita’ come la tua”…

Quanto la voglia di stupire può deformare la realtà , l’ egocentrismo plasmare un’ invenzione editoriale, quanto dentro una storia puo’ nascondersi un microcosmo famigliare di sbagli, dolori, assenze, inadeguatezza e in una vita che non ha molto da dire ci si può perdere in un’ artefatta e autoreferenziale anestesia del presente ?
“ Piccole umane debolezze “ è la somma di tutto questo, una trama essenziale, cruda, violenta, fondata su un incipit rivelatorio, il ritrovamento del cadavere di una bambina di tre anni, Mia Enright, una terribile accusa rivolta alla sua ultima compagna di giuochi, Lucy Green, posta in stato di fermo, mentre i famigliari, degli sbandati irlandesi imbrattati di stranezza e inadeguatezza sociale, sono ostaggio di un lungo interrogatorio.
Londra, primi anni novanta, Tom Hargreaves è un giornalista di un tabloid alla disperata ricerca di uno scoop, giovane, inesperto, affamato di gloria, in realtà spesso solo, con la voglia di piangere, sessualmente fluido e insoddisfatto, con il bisogno di una vacanza, coinvolto in una storia troppo grande per lui.
I Green verranno isolati in un albergo per rievocare ciascuni la propria porzione di storia e chissà cos’altro, un viaggio nel passato per capire come Lucy abbia potuto diventare una ragazzina pericolosa, probabilmente un’ assassina.
L’ infelicita’ del presente è manifesta, il passato rivela una giovane madre, Carmel, che non avrebbe mai voluto essere madre, che aveva da subito mostrato la propria indifferenza verso Lucy allontanandola da se’ e una nonna, Rose, a lei sostituitasi per otto anni fino alla infausta diagnosi di malattia. Da allora Carmel, nel ricordo della madre, si assume la responsabilità del proprio ruolo, pronta ad occuparsi della figlia, amandola e proteggendola.
I Green sono emigrati irlandesi, hanno avuto problemi di adattamento, di lavoro e di alcool. Richard, il fratello di Carmel, è un alcolizzato che ha paura di restare solo e che si sente solo, la disperazione parte di lui per sempre, Lucy è una piccola creatura nera e imbronciata che somiglia così tanto alla madre, John, il nonno, ha sempre guardato la nipote attraverso gli occhi terrorizzati della moglie Rose e, dopo la sua morte, ha vissuto il desiderio di tornarsene in Irlanda e di finire una vita per lui già finita.
Ma niente si rivela così torbido e terrificante, I Green in fondo sono una famiglia come tante, alle prese con piccole umane debolezze,

…” tragedie troppe ordinarie per essere degne di nota”….

La presunta verità non è certa, il fallimento di Tom nel suo folle desiderio di una trama già scritta, alla fine che cosa rimane? La vita vissuta e il futuro di una giovane madre e della propria figlia, rimorsi, rimpianti, sogni, incubi, difficoltà relazionali, il desiderio di riacciuffare il tempo perduto, con la certezza che

...”le cose che facevi o non facevi non potevano essere cancellate da niente, neppure dall’ amore”..

E allora

…”In quello spazio sperava che i contorni delle scuse che le aveva rivolto anni prima, così trascurabili nella loro forma parlata, diventassero evidenti e concreti. Le scuse che ancora non riusciva a esprimere in modo eloquente, quelle che non sarebbero mai finite e che lei rivolgeva a Lucy e alla bambina a cui aveva tolto la vita, e a se stessa, ogni mattina che si svegliava, pensando, Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace”….

Il romanzo di Megan Nolan sembra presagire un noir dalle tinte forti, ma nel suo incedere assume i tratti di una triste vicenda famigliare narrata dal suo nucleo che non brilla per inventiva e profondità narrativa.
In verità due delitti si sono compiuti con due protagonisti diversi, la superbia di Tom che inscena e da’ credito a un’ accusa infamante e l’ anaffettivita’ di Carmel che, dopo il parto, aveva considerato Lucy già morta.
Il carnefice si è fatto vittima degli errori altrui, la propria violenza riverbera il vissuto e l’ assenza di amore nei primi anni di vita. Il romanzo scava nelle pieghe delle umane debolezze, solitudine, gelosia, abbandono, malattia, alcolismo, asocialità, colpa, isolamento, tutto ciò che può rendere una famiglia infelice infelice a modo suo.
In tale microcosmo fallimentare non c’è assoluzione che tenga, se non un tentativo di espiazione e di riscatto ricercando il perdono con il fondato sospetto di un tempo dissolto e scaduto.


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Romanzi storici
 
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68 Opinione inserita da 68    18 Agosto, 2023
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Quale definizione di se’?

“ L’ Aria innocente dell’ estate “, romanzo del 2018 della scrittrice inglese Melissa Harrison, ambientato nella campagna inglese degli anni ‘ 30, narra in prima persona le vicende della quattordicenne Edith Mather che vive con la famiglia in una fattoria.
Edith è una strana creatura, ama leggere, non apprezza la compagnia dei coetanei, parla con gli alberi, li consola della loro solitudine, estranea alla flemmatica praticità della sua famiglia.
Quale abisso tra la solitudine che sente e che mostra, l’ amore per la sua famiglia è realtà o finzione? Spettera’ a Constance Fitzallen, giovane donna sola che indossa i pantaloni, una londinese dallo strano linguaggio trasferitasi in campagna per compiere uno studio su usanze locali, tradizioni popolari, artigianato, termini dialettali, ricette, a indurla a scrutare il suo piccolo mondo dal di fuori, considerandolo degno di nota e in evoluzione.
Una fattoria che esprime il mondo di Edith in toto, bellissimi squarci bucolici, stagioni scandite dalla semina e dal raccolto, una terra amata, la sola conosciuta, la certezza che a quattordici anni vorrebbe contare qualcosa di più nel mondo.
E qui che Constance si svela, tratti inusuali per l’ epoca, carattere forte, idee chiare non sempre condivisibili, una donna che vorrebbe preservare e tramandare una certa tradizione bucolica inglese, accogliere la tradizione escludendo il progresso.
Edith ne è affascinata e a lei si sente vicina mentre naviga controcorrente all’ interno del proprio lessico famigliare, lo scorrere delle stagioni le consegna una nuova dimensione di se’, un tira e molla con i propri cari, la ricostruzione delle origini, quale presente e futuro a lei riservati, paventando una condizione di povertà.
La protagonista vive l’ abitudine negli occhi dei suoi cari, in Constance invece si vede riconosciuta, legittimata, ascoltata, reale, interessante, scoprirà anche dei tratti nascosti di se’ e un corpo a cui non ha mai dato importanza, sempre e solo definita dalla sua testa.
Constance intanto si informa, prende appunti, parla di un’ Inghilterra che è tradizione e storia, comincia a scrivere e a pubblicare di vecchie usanze, vorrebbe preservare l’ antico sistema di vita del villaggio. Dopo soli due mesi è bene accetta dalla comunità, superando la diffidenza e facendosi amare, dotata di un fascino magnetico, convinta delle sue opinioni e che la schiera dei suoi lettori cresca.
Eppure anche lei nasconde altro, non è quello che sembra, ha dei detrattori, il successo può dissolversi quando riemergono porzioni della propria storia e accuse infamanti accompagnano la sua idea di un Ordine di piccoli possidenti Inglesi, un movimento di stampo fascista con idee nazionaliste, antisemite, xenofobe, protezioniste, secessioniste.
Nel mentre Edith è scossa da un continuo rimuginio personale e famigliare, da una neo definizione di se’, chiedendosi se rimanere lì per sempre, tra la stessa gente, facendo le stesse cose, anno dopo anno, fino alla morte.
E anche per lei, come per Constance, ci sarà un futuro incerto, lasciando intendere una sensibilità particolare e una certa fragilità mentale .
Il romanzo di Melissa Harrison è percorso da un’ intensa vena naturalista, una scrittura delicata e dettagliate della campagna inglese e delle proprie attività e tradizioni agricole.
Tutto il resto, l’ educazione sentimentale di Edith, le relazioni interpersonali, le aspirazioni paiono piuttosto fragili e controverse e il rapporto con Constance, che nella prima parte lasciava presagire altro, si va spegnendo facendosi cammino solitario di una protagonista smarrita e piuttosto instabile con un finale affrettato e poco invitante abbandonato a un senso di vuoto temporale e di incompletezza.
Nel complesso un testo piuttosto convincente nella forma ma incerto nella trama e nei contenuti, per questo non completamente assolto.

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68 Opinione inserita da 68    13 Agosto, 2023
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Attesa sospetta

….” Si sentiva il grido degli uccelli marini e il ruggito delle onde che si abbattevano sulla spiaggia di ciottoli. Sarebbe continuato, quel flusso e riflusso implacabile, il mare avrebbe portato quel che voleva. Che arrivasse pure. Varcò la soglia, richiudendosi la porta alle spalle”…
Da più di vent’anni Samuel è il guardiano del Faro su un’ isola selvaggia, lontano da una civiltà che lo ha deluso e che lui stesso aveva tradito durante gli anni di prigionia, oppositore di una dittatura destituente un governo che aveva guidato il paese all’ indipendenza.
Un uomo solo nella natura, anni trascorsi cercando di dominare il mare, nascondendosi, anestetizzato e sottratto a se stesso e ai propri incubi.
Un giorno il mare gli restituisce una carcassa qualunque che sorprendentemente riprende vita, il corpo di un uomo silente, disorientato, affamato, che non parla la sua lingua, uno dei tanti disperati scampati alla morte.
Il racconto nasce sulla certezza di questo ritorno alla vita, accompagnando la convivenza forzata in una casa che fino ad ora è stata solo la propria dimora, con la possibilità che questo estraneo, due decenni dopo, viva li’ dentro, si impossessi di quelle mura, ne destituisca il proprietario, una minaccia che si trasforma in ansia, paura, panico, rabbia.
In Samuel riaffiorano i ricordi, tanti e diversi, un’ infanzia di miseria e di accattonaggio, di mutamenti politici, l’ indipendenza, la dittatura, il proprio credo, l’ attrazione per una giovane donna e il figlio che porta in grembo, l’ arresto, la prigionia, l’ azzeramento della sua vita e della famiglia, l’ esilio forzato come guardiano del Faro, il peso gravoso della memoria.
E questo naufrago restituito alla vita, creatura misteriosa dai contorni luciferini che si confronta con la sua coscienza e che vorrebbe mettere radici sull’ isola umiliandolo, facendogli del male, annientandolo, chi è realmente e che cosa pensa, cosa nasconde, quali mosse e atrocità ha commesso, trattasi di un pericoloso assassino o di una semplice vittima?
Samuel pensa di impazzire, accompagnato dai ricordi e dai rimorsi, da una fragilità che lo attanaglia, da un’ immaginazione delirante, un passato di sofferenza al di fuori di tutto in una condizione di debolezza, che cosa sarebbe stato di se’ e della propria vita se un tempo fosse stato più forte, se avesse fatto uso della violenza, se non avesse tradito chi era al suo fianco?
In fondo sente quest’ isola solo nel sapore della terra che ha plasmato, domato, edificato, rendendola quella che è. In un presente aritmico e asfissiante, tra incubi e sogni maldestri, spezzoni di reale e fantasmi immaginari, il protagonista affronta l’ ultimo passo, una resa dei conti con quell’ estraneo sgradito e pericoloso.
Ma la sola resa dei conti e’ con la propria viltà trasformata in rabbia, una violenza che non ha mai abbracciato e che cresce dentro di se’ fino a prendere il sopravvento, mentre l’ isola rimane ostica, ingrata, impossibile da domare.
Il romanzo di Karen Jennings è caratterizzato da una certa asciuttezza descrittiva e da dialoghi monchi, quasi silenti, insieme a una crudeltà rivestita di realtà e attesa sospetta. La trama vive la lentezza di un racconto parallelo in bilico tra il paesaggio pulsante e un’ esteriorità spogliata di tutto in un’ essenza sempre più scarna.
È qui che assaporiamo il gusto di una narrazione interiore riccamente vestita, fibrillante, che richiama temi importanti, il senso di appartenenza, la solitudine, il tradimento, l’ esilio, la patria, la diversità, l’ uomo e la sua finitezza, la paura di perdere tutto e di perdersi, un dialogo tra uomo, natura e il proprio io riproponendo spezzoni di una vita frantumata, azzerata, rivolta al passato, il presente una rassegnata presenza in attesa di fare chiarezza.

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68 Opinione inserita da 68    03 Agosto, 2023
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Quale colpa?

Uno stato di inquietudine percuote le pagine del romanzo di Simenon, un breve viaggio nella mente stratificata e controversa del dottor Jean Chabot, cinquantenne ginecologo di fama. È un cortocircuito senza una spiegazione apparente, se non il proprio senso di stanchezza e di inadeguatezza ingravescente.
Chabot è uno stimato professionista che si è costruito da se’, fama, denaro, reputazione, una moglie, tre figli, una bella casa di dodici stanze nel quartiere del Bois de Boulogne, la direzione della clinica ginecologica e ostetrica più importante di Parigi.
Calma, sicurezza, professionalità, una vita piacevole e serena, in realtà una maschera che nasconde altro, un’ inquietudine senza volto sempre più manifesta.
C’è una giovane alsaziana che il protagonista aveva definito l’ orsacchiotto morta annegata ( suicida?) e incinta con la quale aveva trascorso piacevoli momenti fugaci, una segretaria ( Viviane ) fidata e compiacente a proteggerlo e a scandirne il quotidiano, un lavoro impegnativo e senza orari, una moglie di lungo corso ( Christine ) silenziosamente consapevole dei suoi tradimenti, una madre sopravvissuta in povertà agli esiti di una vita trascinata nella depressione del marito, dei figli indifferenti impegnati nella costruzione di un futuro, uno sconosciuto che gli lascia dei biglietti minacciosi ( ti uccidero’ ).
Chabot sprofonda in un limbo di solitudine e di rassegnazione, specchiandosi in un
non senso che possiede maschere che neppure lui conosce. Persino la sua impeccabile professionalità comincia a scricchiolare e allora il suo piccolo mondo pare crollargli addosso.
Infelicita’, stress, depressione, malattia, difficile fare una diagnosi anche per un medico di fama come lui, e allora non resta che trascinarsi in una strada senza ritorno con un pensiero sempre più presente e un oggetto da tenere con se’ che potrebbe significare una fine improvvisa ( propria o altrui ).
Un cammino interiore sempre più solitario, un rimuginio che non gli da’ tregua, tra sensi di colpa e constatazione di un mondo che non lo apprezza dovutamente, oppure la semplice accettazione di uno stato di fatto, che Chabot non si è mai preoccupato se non di se stesso e della propria apparenza.
Professione, famiglia, amanti, uno studio dove affogarsi nell’ alcool, cosa è vero e cosa presunto, come nascondere una vita siffatta, sfuggire il reale quando non si può fare altrimenti, quale maschera indossare e mostrare a un pubblico distratto e consenziente?
Tutto si fa impalpabile, malinconico, evanescente, già scritto, la preoccupazione si fa accettazione, una rassegnazione che non è nostalgica assenza, il proprio mondo crollato, fatiscente, crollato, inguardabile, ma così è sempre stato.
Quando viene meno l’ unica certezza, quella integrità professionale che ha nascosto le storture del passato e del presente, tutto si sgretola improvvisamente, sprofondando in un buio senza fine, quando ci si sente ingannati, denudati, sottostimati, traditi, ogni certezza svanisce e si crolla definitivamente.
“ L’ orsacchiotto “ inscena un dramma annunciato nelle intenzioni e sorprendente nello svolgimento, avvolto in un’ immobilità apparente, corredato da una trama piuttosto scarna, essenziale, un dettagliato profilo umano e psicologico di un uomo denudato e spoglio, un crescendo che ricostruisce una vita fatta di apparenza che restituisce uno psicodramma.
Chabot colpevole o innocente, non è dato saperlo, quale la sua colpa in una vita di colpe vestita, di certo non ha paura di morire, svuotato completamente, e la propria insensatezza conosce il non senso che gli appartiene e come liberarsene definitivamente, un gesto estremo ma necessario per soddisfare un vago sentimento di odio che ritorna e lo prende alla gola prima di una fine imminente.

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68 Opinione inserita da 68    03 Agosto, 2023
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La forza della debolezza




“…Spesso le nostre ferite sono invisibili”…..

Solitudine, bullismo, fragilità, sofferenza, amicizia, forza, condivisione, due profili psicologici accomunati dall’ inferno che li circonda.
Che cosa unisce due anime siffatte se non la propria affinità elettiva, il respiro della condivisione, riparo da ingiustizie evidenti, desiderando amare ed essere amati, una tregua dalla orribile quotidianità uguale e diversa, l’ aspirazione a un proprio angolo di normalità.
Il giovane protagonista, sin da bambino, è vittima del bullismo reiterato e violento di alcuni compagni di classe per un difetto visivo ( una grave forma di strabismo ) e anche Kojima, una ragazza magra con indosso una divisa logora e sgualcita, avvolta da una certa trasandatezza e sporcizia, ne subisce l’ onta .
I due respirano la reciproca sofferenza dando voce a una corrispondenza epistolare, cominciano una frequentazione, momenti in cui condividere se stessi anche se non parlano mai dei torti subiti.
Lettere nettare dell’ animo, momento di beatitudine, un’ oasi in cui non soffrire per i maltrattamenti, parole che mostrano una Kojima diversa rispetto alla ragazza schiva e taciturna che il protagonista incrocia tutti i giorni a scuola. In quel luogo fingono indifferenza l’ uno per l’ altra, lì c’è solo sofferenza, il loro mondo è un altro.
Nel proprio angolo di serenità e condivisione possono finalmente essere se stessi, mostrare il proprio volto, non preoccuparsi del giudizio altrui, delle apparenze, della volgarità e della violenza che li circonda.
Eppure tutto questo non può bastare se ogni volta l’ incubo ritorna, la scuola è infrequentabile, se si ricerca la solitudine dei libri, se i bulli agiscono nell’ indifferenza, le violenze sono sempre più pesanti e pericolose, se il sentimento che li accomuna introietta l’ altrui sofferenza e il desiderio di farla finita comincia a prendere forma.
Frammenti di ricordi brutali delle mille sevizie subite raggiungono il protagonista, esausto, rabbioso, disperato, come sarebbe bello vivere in uno stato di mezzo, lontano dalle difficoltà del presente, in una condizione di semplice normalità.
Emerge una prolungata riflessione sul non senso della violenza, sul significato dell’ essere deboli, feriti, umiliati, sulla forza della debolezza, sulla sofferenza, un’ accettazione attiva del proprio ruolo di vittime a sottolineare l’ oggettiva debolezza altrui.
E allora i bulli non sono che le vittime reali di se stessi e della propria paura, terrorizzati dalla non comprensione della stessa, di quel senso di nullità individuale che li fa sentire bene in un gruppo.
Per i due protagonisti l’ accettazione del bullismo diventa forza e consapevolezza e assume un significato definente, la debolezza condivisa.

“… sì, siamo legati dalla debolezza, io e te. Ciò che ci protegge, sempre e ovunque, ciò che non ci lascia mai soli e ci difende da tutto e da tutti è la bellezza di essere deboli”…

Mieko Kawakami, nota al grande pubblico per “ Seni e uova “ e recentemente conosciuta in “ Gli amanti della notte “, ripropone una scrittura fatta di attesa, meditazione, silenzio, essenzialmente poetica nella propria semplice naturalezza. I temi del romanzo sono importanti, in alcuni tratti piuttosto forti, ma la violenza cede ogni volta al ragionamento e alla dolcezza dei sentimenti.
È un romanzo di formazione che non ricerca facili consensi, che lascia un senso di condivisione e di appartenenza nella deprecabile vicenda dei due protagonisti e un concetto così semplice e vero, la forza intrinseca nella debolezza.


…”Era tutto così bello. Per la prima volta in vita mia vedevo la luce bianca in fondo al viale alberato che avevo percorso tante volte. Ora sapevo. Il mondo, dentro le mie lacrime che non cessavano di scorrere, formava un’ immagine, e quel mondo aveva una sua profondità. C’era qualcosa alla fine di quel mondo, c’era un aldilà. Spalancai gli occhi più che potevo, con tutte le mie forze, e tutto ciò che vi si rifletteva era bello. Continuai a piangere, in piedi nel mezzo di quell’ineffabile bellezza, senza pensare a niente. Le lacrime scendevano incessanti sulle mie guance. Tutto era bello. Senza nessuno a cui dirlo, senza nessuno a cui mostrarlo, semplicemente e meravigliosamente bello “…

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68 Opinione inserita da 68    30 Luglio, 2023
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Un amore per sempre

.
“ …Posso sopportare tutto se sono capace di assistere al dolore della mia carne. Anche il morire, allora, mi sembra una possibilità….”


Ada e Daria, una madre malata di una figlia disabile, un romanzo che scava in due esistenze segnate alla ricerca della linea di confine tra la vita e la morte.
Un amore da subito infranto quando i sogni di una madre scoprono una figlia che non sarà come tutte le altre, che si è impreparati ad accoglierla, accudirla, crescerla. E’ allora che ci si immerge nel lutto, negazione, rabbia, risentimento, la voglia di essere altrove, un senso di solitudine ingravescente perché ogni diversità crea sempre un vuoto attorno.
È un rapporto costruito nel quotidiano, nutrito di necessità, rivestito di una dimensione prevalentemente fisica e di contatto per farsi simbiosi assoluta, misteriosa e carnale.
Poi, un giorno, la scoperta della propria malattia, la rottura dell’ equilibrio raggiunto, dentro di se’ e nella relazione, l’ ingresso nel lato oscuro della vita e una nuova scoperta, che la propria sopravvivenza esige uno spostamento relazionale, ponendosi al centro di una dimensione cosciente, un nuovo approccio comunicativo che esula dalla semplice fisicità.
Brevi frammenti gioiosi si intrufolano tra le pieghe dei giorni, attimi che permettono di tirare avanti, un piccolo universo fatto di sensazioni, di altro, sentire, ascoltare, ricordare, immaginare.
Due esistenze che si trascinano nella possibilità di sopravvivere, che comunicano, si saldano, vivono il e nel presente, smettendo di accanirsi a cercare risposte, di affannarsi, di volere essere altrove, una forma non rassegnata di accettazione attiva, di risparmio energetico, cercando di combattere per.

….” Spesso la malattia separa, allontana, distrugge. Qualche volta invece genera, allaccia, moltiplica l’ amore”…

Una sorte condivisa da madre e figlia per tutta la vita, una miseria chiamata solitudine nella scoperta e constatazione che

…” Avere un figlio invalido significa essere soli “…

Il,dolore allontana, la malattia spaventa, le famiglie si sfasciano, la solitudine si fa abitudine fino a che non si ha più paura di niente.
Ecco un altro vocabolo, cura, che presuppone l’ esercizio quotidiano dell’ amore, l’ adesso e l’ ora, una vita meravigliosa che permette altra vita.
Ecco un rapporto intenso e simbiotico, compenetrante, una madre e una figlia che si somigliano sempre più, che sono tutto quello che non sono mai state.
Ecco la necessità e il desiderio che tutto ciò che si è vissuto, sperimentato, imparato, e che oggi si crede perduto, sopravvive ancora da qualche parte.

Un breve romanzo sotto forma epistolare che esula da un senso strettamente letterario per coprirsi di altro, congedo e lascito da una vita che pareva segnata da mancanze e perdite e che , strada facendo, si è riccamente vestita di una consapevolezza cosciente e di un amore ancora più grande.
Che cosa rimane se non un intenso soffio vitale e la certezza che quello scioglilingua, sillabe che sbattono e si arrotolano sul palato, quasi un giuoco di parole, un giorno sarà…

…” Finirò col disciogliermi in te? Sono Ada, sarò D’ aria “….


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68 Opinione inserita da 68    27 Luglio, 2023
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Vite sospese

…“ Dalla cucina le giungono una risata e un rumore di piatti. Charis sta apparecchiando la tavola e Roz racconta una storia. Ecco che cosa faranno, sempre di più ora in avanti, nella loro vita: racconteranno storie. Stasera le loro storie parleranno di Zenia. Somigliava per caso a noi, per certi aspetti? si chiede Tony. O, viceversa :Somigliamo per caso a lei? Poi apre la porta, entra e raggiunge le altre ”…

Tre donne, tre porzioni di vita, un legame spezzato che improvvisamente ritorna, inquietudine, tensione, sbalordimento, un incubo di nuovo vivido, rimuginio emozionale e intellettivo che riporta al passato, una ricostruzione dettagliata tra ipotesi, rimpianti, menzogne, desideri, una certezza, quella presenza femminile fascinosa, misteriosa, ingombrante che accarezza i propri sogni e ne popola gli incubi.
Chi è Zenia e che cosa nasconde, quali fini sottende, come è entrata nelle vite di Charis, di Tony, di Roz distruggendole per sparire per sempre, quale il legame con i loro mariti e compagni, vita e morte, realtà e finzione, fino a che punto è stata vera o solo una declinazione del proprio apparire, amata e odiata, desiderata e respinta, popolando le stanze delle esistenze altrui, negandosi per farvi ritorno, specchio dei propri desideri più intimi?

….” La storia di Zenia dovrebbe cominciare quando è cominciata Zenia”…, ….” quale delle versioni che Zenia ha dato di se stessa è vera?”…

Il romanzo di Margaret Atwood inizia e finisce con un mistero irrisolto, quanto la vita e le proprie storie raccontano e si raccontano in funzione di chi ne assume una parte che ci somiglia, che credevamo rimossa, nascosta, sepolta.
Zenia e’ onnipresente, indossa maschere cangianti, neppure la sua morte è certa, le tre protagoniste ricercano un senso negando l’ evidenza, ripercorrono le tappe di un’ adolescenza controversa, di una giovinezza intrisa di speranze, di una età adulta indirizzata laddove pareva persa, nascoste a se stesse, in balia degli eventi, dipendenti affettivamente, un po’ vittime e un po’ carnefici, ma in fondo che cosa sanno di se’ e degli altri?
Tony, Charis, Roz e un pranzo da condividere mensilmente, una catastrofe ( Zenia ) per unirsi, col tempo un senso di lealtà sfociato in uno spirito di corpo.
Zenia è indefinibile e sfuggente, induce emozioni eccessive e controverse, affascina morbosamente, è onnipresente, appare, scompare, si traveste, vive la menzogna in profondità, è pericolosa, ferina, illimitata, ha attraversato orrori in una calma apparente, solca maestosamente la vita come la prua di una nave, è il rischio e l’ audacia.
Forse non possiede un’ anima, una bella donna sospinta dal vento del destino, accalappiatrice seriale di uomini, perennemente insoddisfatta, una semplice orfanella, senza una casa, limitandosi a sabotare quelle altrui.
Zenia scoperchia le vite e le attraversa, se ne impadronisce, le stravolge per abbandonarle, la sua misteriosa identità svanisce nelle sue menzogne, ogni volta un racconto diverso e si finisce inesorabilmente con il crederle.
Zenia sa penetrare le debolezze altrui, Tony così piccina, da sempre una approssimazione, Charis piuttosto goffa con un passato da Karin, non completamente pulita dentro, Roz luminosa e imperiosa con una nota sotterranea di tristezza da esiliata, fuma, aspetta, mangia, la storia della sua vita.
Destini incrociati, un legame che trascende il semplice sviluppo del tempo bucandolo tra passato e presente.
E allora che cosa resta e che cosa si vorrebbe recuperare, riparare, difendere, la vendetta è un calice amaro che riporta mestamente a se’.
“ La donna che rubava i mariti “ ( 1993 ) richiama i temi della prima Atwood, femminismo, identità, tradimento, accurati profili psicologici, una costruzione centellinata imbevuta di umorismo e di indagine socialogica, una trama deviante in un thriller sospeso tra realtà e finzione sullo sfondo di una Toronto che accompagna e attende l’ intricato sviluppo degli eventi.

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68 Opinione inserita da 68    15 Luglio, 2023
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Prospettiva inversa

.. “Io mi chiamo Paulette”… …’ Io mi chiamo Michel”..

Due bambini investiti dalla Guerra la vivono e la attraversano nel reciproco giocoso mostrarsi, una relazione intensa destinata a crescere.
Francia, 1940, nel pieno dell’ invasione nazista

,….” il lento corteo degli sfollati percorre la strada maestra, tra furia, misfatti, corse sfrenate, lamenti, risate insulse e feroci, l’ incedere dei passi, dei veicoli che avanzano, delle ruote che schiacciano, travolgono, uomini, donne, bambini, un misto di lacrime, pianti, schiaffi, canti, risate indistinte”…..

A pochi chilometri di distanza si erge il casale Saint Faix, cinque fattorie sparse, una chiesetta, un’ osteria, …” un luogo con una storia che ignora la Storia e che in quel giorno del 1940 è a sua volta ignorato da essa”….
La Guerra negli occhi di Paulette, orfana di entrambi i genitori, abbandonata a se stessa, imbrattata di un trauma inafferrabile, ospitata dai Delle, e di Michel, figlio minore di una famiglia numerosa, un bambino vivace che vive in un mondo adulto grezzo, litigioso, indifferente.
Eccoli l’ uno di fronte all’ altra, sguardi silenti che scrutano tratti marcati

…” i grandi occhi grigi di Paulette, i capelli biondi che le coprono la fronte”….,
…” lo sguardo posato su Michel, sui suoi piccoli occhi neri, allungati e scintillanti, sulle sue grandi orecchie che sembrano sorreggere il berretto macchiato di grasso, calcato fino alle sopracciglia”….

Un legame che si autoalimenta, i soli a comprendersi, un incontro casuale quando, nella propria solitudine, l’ altro pareva un estraneo ostile e disturbante.
Attorno la sfaldata quotidianità di due famiglie confinanti schierate l’ una contro l’ altra, disgrazie, dispetti, odio, inganni, un’ ignoranza paralizzante verso gli avvenimenti e la ritualità di certi gesti, in attesa della voce stentorea del patriarca, e allora tutti si muovono, lentamente.
Michel e Paulette veleggiano nella propria assenza, vagano e si costruiscono un prezioso angolo di mondo, cercano di sopravvivere nel dolce sapore dell’ attrazione, gesti delicati, premurosi, sorprendenti, l’ uno attraversato dalla collera e dal pianto, l’ altra scontrosa e selvatica.
Un intreccio giocoso e pericoloso ( il furto delle croci ), una relazione che profuma di un linguaggio condiviso, lacrime, solitudine, sofferenza, distratti da molteplici presenze, sulla strada, nei campi, sulle siepi, sguardi, abbracci, risate, baci rubati, silenzi pensanti, la paura di separasi e di perdersi per sempre.
Il breve romanzo di Francois Boyer, uscito nelle librerie francesi nel 1947 tra l’ indifferenza di critica e lettori, impone una prospettiva bellica diversa ribaltandone i canoni rappresentativi in un’ estraniante visione della stessa, l’ iniziazione alla vita di due bambini che guardano e trattano con levita’ fanciullesca accadimenti e relazioni ai quali non riescono a sottrarsi e nei quali sono costretti a sopravvivere in un moto di malcelata dissimulazione.
Eccoli veleggiare e immergersi in un microcosmo di brutalità, incomprensione, banalità, sovente ignorati, tiranneggiati, dimenticati, mentre il respiro della morte imperversa e la forza della vita li attraversa.
La scrittura di Francois Boyer è densa, essenziale, caustica, diretta, descrizioni accurate di particolari significanti con pause di sarcasmo e di leggerezza, un contenuto che lascia intendere e ben rappresenta quel respiro di atrocità apparentemente dislocato altrove.
Il volto amaro della guerra impregna parole e sguardi condizionati e affranti dall’ eco della stessa, il respiro della vita permea gli sguardi maliziosi e intelligenti dei due protagonisti.

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68 Opinione inserita da 68    25 Giugno, 2023
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Arte e vita

….” mi inducevano a pensare che non ci fosse nulla di stabile, nessuna verità nell’ intero universo, eccetto un’ unica, immutabile verità: esiste solo ciò che ci creiamo noi “…

… “ la verità non risiede nella rivendicazione di realtà, ma nel luogo in cui ciò che è reale trascende l’ interpretazione che ne diamo. Vera arte significa cercare di catturare l’ irrealtà”…

Arte e vita, un senso di vuoto e il tentativo di cogliere l’ impercettibile oltre l’ oggettività, quella quotidianità che si nutre di consistenza.
M è una donna irrisolta, combattuta tra passato e presente, un secondo matrimonio con Tony, silenzioso e pratico, una figlia, Justine, cresciuta e volata lontano, un rifugio in un luogo naturale e selvaggio in cui trascorrere i propri giorni, la costruzione di una seconda casa all’ interno della proprietà, circondata da una palude, oscura, inafferrabile, mistero irrisolto, specchio della propria esistenza.
Che cosa le manca, cosa ricerca, cosa scatena in lei un rimuginio e un desiderio di libertà sottomessi all’ abitudine della paura? È riuscita a rimuovere le cose e le persone che non le piacciono, ma saranno alcuni quadri del famoso Pittore L a svelarle una parte oscura di se’, avvicinandola al proprio lato mancante, una neo dimensione dell’ io e una nuova presenza, pur lontana.
Dopo una lunga corrispondenza epistolare M accoglierà L nella propria proprietà ma non sarà solo, in compagnia della giovane Brett, una giramondo affascinante quanto invadente, a loro si uniranno Justine e il fidanzato Kurt, reduci dal disastro pandemico.
Inizierà una breve convivenza, un teatrino relazionale tra arte e vita, sogni e rimpianti, conoscenza e certezze smarrite, ciascuno alle prese con una propria idea esistenziale, difficile trovare un punto di incontro.
M si dibatte tra bisogno di dialogo e lunghi silenzi, senso pratic quanto è legata a Tony, quanto si è invaghita di L e della sua arte, quanto ama Justine e non vorrebbe lasciarla, e chi sono per lei Brett e Kurt ?
Il proprio incalzante rimuginio è popolato da solitudine e convivenza con un senso di inutilità e di bruttezza, nascosta a una parte di se’, quel lato artistico afferrato nell’ opera di L, l’ unico con cui condividere un senso di vicinanza e in grado di liberarla dalla propria inutilità.
Un percorso parallelo si mostra, la praticità, l’ abitudine, la stabilità di Tony, l’ irrequietezza, l’ egocentrismo, l’ indifferenza, il desiderio di L, nel mezzo il proprio incondizionato amore di madre divisa tra quotidianità e arte.
M vive un crescente senso di smarrimento, un desiderio di fuga da una realtà che disconosce per addentrarsi in un universo superiore, ma da sola non può farcela, questo spetterebbe a L e alla sua capacità

…” di insinuare nelle persone il tremendo sospetto che nella vita non ci sia alcuna storia, che nessun significato personale trascende il momento presente”….

Rivede se stessa e i pochi affetti che la circondano, L è egoista e inafferrabile, Tony a suo modo la ama intensamente, Justine le appare per quello che realmente e’, il vero amore è frutto della libertà.
Come rendersi visibile, aspirare all’ arte, amare e sentirsi amata, specchiarsi negli occhi altrui, vivere il presente, temi complessi e inafferrabili, fino a che la vita improvvisamente azzera speranze e desideri precipitandoci nella propria cruda e inafferrabile essenza.
Il romanzo di Rachel Cusk risponde ai tratti essenziali della sua produzione letteraria conosciuta e apprezzata nella precedente trilogia, ( “ Transiti “, “ Resoconto”, “ Onori “ ) un linguaggio ricercato, dosato, colto, frammentato, introspettivo, che a tratti soggiace a un’ inconsistenza puramente estetica. La protagonista intesse una trama sentimentale e intellettiva, complessa e irrisolta, un monologo protratto tra levita’ e profondità, percossa da arte e vita, ricercando ciò che che stenta a trovare dentro di se’.
Ne risulta un componimento piuttosto nebuloso e di difficile collocazione, forse i tratti più veri sono gli scarni scambi relazionali tra M e Tony, in prevalenza i personaggi mostrano una semplice rappresentazione di se’ e soggiaciono a simbolismi evidenti, la trama è statica, evanescente, monocorde nel proprio rimuginio incessante, piuttosto pomposa in una inconsistenza che alla fine genera e lascia un senso di vuoto.

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Romanzi
 
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68 Opinione inserita da 68    18 Giugno, 2023
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Ricerca di se’

“ …A volte mi chiedo se le cose erano destinate ad andare come sono andate o se c’è stato un errore, un pasticcio lungo il cammino”…

Un viaggio nel futuro per riacquisire le coordinate del passato e scoprire a cosa e a chi si appartenga realmente. Gli occhi di Salim scrutano l’ orizzonte, un bambino che ancora non sa giudicare e che non capisce esattamente che cosa gli stia accadendo, che è vissuto in una famiglia sgretolata, con un padre debole e solitario che se n’è andato di casa e una madre che si è costruita un’ altra famiglia dando alla luce un figlio.
Le origini di Salim nel racconto di generazioni approdate altrove, voci lontane, incontri e conoscenze, la sua memoria labile non riesce a ricordare distintamente, imbevuta di semplici immagini frammentate e di luoghi persi nel tempo.
L’ indipendenza della propria terra ( Zanzibar ), il viaggio in Inghilterra accolto da uno zio poco amorevole che deve espiare una colpa, mentre il proprio padre rimane un ricordo sempre più scialbo e Salim continua a intrattenere rapporti epistolari con una madre che si è rifatta una vita, gli anni a venire manterranno il mistero famigliare auspicando un ritorno nella terra natia.
La nuova patria, quell’ Inghilterra che da sempre ha vestito i panni del conquistatore, un luogo inospitale così distante da terrorizzare il protagonista rendendolo intimorito e tremante, spegnendone i sogni, un’ educazione scolastica obbligata dalla volontà altrui, uno zio che sembra non apprezzarlo e che pare assolvere un dovere e una promessa.
In questa terra di non appartenenza, anche quando la propria passione e vocazione letteraria esplodono e Salim riesce a laurearsi, continua a ricercare un senso, a non avere un presente e a chiedersi che cosa sarà del futuro, ma non ci saranno senso e futuro se non affidandosi e confrontandosi con un passato nebuloso e irrisolto.
Una vita siffatta, cercando di ricostruire la propria essenza, un cammino tortuoso, fatto di solitudine e trasferimenti, amori non necessari, impossibili, negati, respinti, acuisce il suo senso di solitudine e non gli resta che trovare riparo in se’ stesso, nella lettura, negli scambi epistolari, in rapporti a distanza con una sorella che non ha mai conosciuto, immaginando luoghi, volti, un tempo lontano.
Verrà il giorno in cui il ritorno alle origini non sarà’ più rimandato, per se’ stesso, per quello che è stato, per la memoria, le promesse, cercando risposte su un mistero irrisolto, e allora un lungo monologo svelerà una porzione di storia avvicinabile alla trama di una famosa commedia shakespeariana, ( “ Measure for Measure” ) ridefinendo i ruoli dei protagonisti, cercando di comprendere l’ incomprensibile.
E allora ci sarà un senso rivelato ma non si sentirà la necessità di restare, di ricominciare, anche se altrove non ci sente a casa, perché

..” c’è chi serve a qualcosa, nel mondo, se non altro a ingrandire una folla e a dire sìi’, e c’è chi non serve a niente “…

“ Cuore di ghiaia “ è un romanzo che ricerca le proprie origini inseguendo il percorso della memoria in una terra ricca di contraddizioni e di conflitti irrisolti, Salim è un protagonista che fatica a trovare l’ identità, una dimora, la definizione di se’.
La scrittura di Abdulrazak Gurnah è come sempre riccamente vestita, densa, ammagliante, con richiami a storia e a tradizioni lontane ricche di cultura e significati, anche se, in questo caso, la trama si concede pause, tratti ripetitivi e poca vivacità definente.
La lunga permanenza in Inghilterra rimane un percorso irrisolto, non possiede e non svela l’ essenza del luogo, il viaggio di ritorno nel cuore del passato pare affrettarsi in un epilogo piuttosto sfuggente, come le premesse non lasciavano intendere, con personaggi che non raggiungono la profondità e l’ intensità cui l’ autore ci ha abituati, consegnandoci un’ opera che lascia un quid di sospensione e di insoddisfazione piuttosto evidenti.

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