Opinione scritta da Natalizia Dagostino

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    10 Gennaio, 2016
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Rinascite

Marilyne Robinson è una donna, di fede protestante calvinista, che scopro sapiente autrice di una scrittura spirituale, commovente e pacificata, nella storia di formazione . La protagonista, voce narrante, si trova a Gilead, luogo immaginario e biblico del Midwest, nel 1956.

Il romanzo racconta le nascite di Lila: la prima volta, in una capanna senza amore; in seguito, nella notte in cui Doll, dissidente, esclusa e separata sociale, la porta via avvolta nel suo grande e lurido scialle. Lila è coinvolta in relazioni pericolose, diverse, inquietanti: insieme a Doll, la vagabonda che l’ha tirata su, incontro i suoi compagni derelitti, in cerca di approdo, i miserabili e le prostitute che elemosinano e trovano il senso del prossimo, sopravvivendo alla Grande Depressione.

Lila nasce di nuovo nella notte piovosa e gelida in cui trova rifugio in una chiesa. Viene rimessa al mondo dalla nascita di suo figlio e dalla relazione con padre John Ames, settantenne pastore congregazionalista riservato e colto, amico del reverendo Robert Boughton, pastore presbiteriano. Un vecchio con una casa piena di libri e Lila, al riparo, ricuce la vita e, da pazza, ignorante e perduta, si ritrova donna incinta, creatura di gioia e di tenera saggezza.

Perché la vita è così com’è?: è la domanda dalla quale originano riflessioni e convincimenti di tutti i personaggi i quali, accogliendo l’incontro, si assolvono e si salvano l’un l’altro. Mi attrae questa storia di vite dolorose e in disgrazia ma, serrate e confidenti, guidate dalla volontà e dalla meraviglia della coscienza. E imparo a riconoscere le vite belle attraverso la tristezza, la difficoltà, la fatica.

Le persone che non si amano chiedono agli altri un risarcimento a vita, attraverso richieste aggressive di riconoscimento, anche nel pianto. Il coltello che Lila nasconde, metaforicamente appartiene a tutti i personaggi e ricorda la minaccia perpetua della lacerazione, della separazione, dell’uccisione. Il recidere ossessivo diviene licenza di scappare e di sospendere per prevedere l’abbandono.

Invece, ogni persona del romanzo decide di restare e di sentire la paura e la vergogna che coglie tutti gli umani, tutti, in fondo, senzacasa e senza famiglia, attanagliati nell’ingiunzione di non appartenenza. Le persone aggravate dal dolore dell’esistenza finiscono per non sentirsi degne, per non fidarsi, per convincersi di non meritare nulla. La condizione di orfana riconduce alla impossibilità di recuperare le radici, il passato, le ragioni. E Lila si sente così, gettata nel mondo, ad affrontare la fatica di esistere, senza protezione.

Mi convincono i brani scelti della Bibbia (Ezechiele, Geremia, Giobbe, i brani dalle Lamentazioni), a servizio di persone disperate, sicure che “Dio ama il mondo. Dio è misericordioso.”(p.103). Per Lila, i sacramenti amministrati del battesimo e del matrimonio sono segno e viatico di grazia interiore. Ritrovo la teologia del lavoro e della rettitudine, della ricerca e della certezza, dell’incanto e della peregrinazione.

E’ un romanzo che fa della tristezza una lente d’ingrandimento, uno strumento di indagine, una modalità dolce per leggere la realtà che affligge, uno sguardo mite sull’esistenza. La vita, se consapevole, diviene felice proprio perché finita e limitata.

Nelle pagine finali, la dichiarazione “…non riesco ad amarti quanto ti amo. Non riesco a essere felice quanto lo sono.” (p.267), esprime il senso profondo della propria imperfezione. L’amore e la tenerezza parlano attraverso Lila, piccola grande terra, donna, madre e compagna.

Nella storia di Lila si celebra l’essere umano che riconosce, nella relazione, l’accettazione, l’attesa, l’accoglienza e l’accudimento di Dio verso i viventi. La vita è premurosa e le vicende riservate a ogni persona, sono il passaggio adeguato per l’espressione di sè. Allora, la lode è sempre preghiera di ringraziamento. “Abbi pietà di noi, certo, ma noi siamo coraggiosi, pensò, e folli, in noi c’è più vita di quanta ne possiamo sopportare, il fuoco si inviluppa dentro di noi. Quella pace potrebbe anche essere semplice stupore.” (p.273)


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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    06 Gennaio, 2016
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Inizio d'Africa

Miwanzo in swahili significa inizio: sono convinta con Paula McLain che “ci sono cose che troviamo solo quando tocchiamo il fondo”p.371

Le atmosfere africane della Blixen sono recuperate e rinnovate in un romanzo storico eccellente che racconta la vita avventurosa di Beryl Markham. Ritrovo i Kikuyu e le canzoni swahili e i masai: l’Africa indomita e selvaggia degli anni ’20 è una persona che innamora, contiene, protegge e consente di osare.

Beryl viene al mondo selvatica e richiesta da un luogo che si sostituisce alla culla familiare. Per dodici anni, tutori e istitutrici non riescono nell’adattamento dell’anima libera della protagonista che continua a scontrarsi e a pagare con incomprensioni e amarezze la difficile relazione con il padre anafettivo e, più tardi, con Jock, marito miserabile e padrone. Allora, la scuderia si trasforma per Beryl in un’aula di apprendimento e di sperimentazione.

Donna energica e indipendente, abituata alla compagnia di uomini che e a vivere in una casa in cui , Beryl affronta viaggi, ricerche, professioni, luoghi sconosciuti e ostili. Ogni volta perde, ma impara la lezione.

A 21 anni, Beryl rimane incinta di Denys Finch Hatton, l’uomo amato e perduto della baronessa danese Karen Blixen. L’interruzione volontaria della gravidanza segna Beryl con dolore e la allontana definitivamente dagli uomini che mai si offrono il permesso e il privilegio di essere amati dalle donne intelligenti ed autonome. “…mi piacerebbe tanto sapere come starei da sola. Non essendo più la figlia o la moglie di qualcuno, intendo, ma padrona di me stessa.”p.147

L’Africa è larga ed è libera e Beryl si fa accudire dalla terra e dal cielo, rimettendosi al mondo, ogni volta. “Mi resi conto di non riuscire a tenere a bada nulla, ed era una delle cose che amavo dell’Africa. Il modo in cui ti invadeva senza posa, senza mai mollarti.”p.354

Sceglie e decide di sorvolare l’Atlantico e, in trentasei ore di vita, lascia la propria firma nel cielo. Duemila piedi sopra il livello del mare per consacrare il desiderio di vita, perché quando la passione è forte, per vivere, si può rischiare anche di morire.

Ngoma è la danza tribale dei giovani Kikuyu ed è un modo degno per decidere di ricominciare dall’intuizione, dal rigore del ritmo, dal corpo.

“Ho una mappa che traccia la rotta sull’Atlantico da Abingdon a New York, ogni centimetro di acqua ghiacciata che sorvolerò, ma non il vuoto che mi aspetta, né la solitudine o la paura… affronterò le perdite di quota e i vuoti d’aria che mettono sottosopra lo stomaco, perché non si può deviare la rotta dalle cose che ci spaventano. Non si può sfuggire a nessun aspetto di sé, ed è meglio così. Ogni tanto penso che solo le sfide riescano a forgiarci e a cambiarci… Impossibile per me compiere questa impresa e rimanere uguale a com’ero prima.”p.8

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    25 Dicembre, 2015
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Sogni, convinzioni, realtà

La bambina e il sognatore vengono sognati e consegnati da una Dacia Maraini illuminata e sapiente.

Leggo un libro furbo e funzionale per affrontare tematiche numerose, per problematizzare argomenti della modernità.

La storia suggerisce e apre numerose questioni, come tutti i romanzi della scrittrice: la narrazione, la paternità, l’insegnamento, la cultura del territorio, l’alimentazione sbagliata, le coincidenze, la religione islamica, il successo, la sessualità, la memoria, la lettura, il disturbo mentale di un sex offender.

Anche attraverso dialoghi improbabili, vale per la scrittrice quello che nel romanzo viene riconosciuto a Nani, di essere competente nella narrazione, “perché le cose esistono quando ci prestiamo attenzione”.

“In fondo sono compiaciuti di avere un maestro goffo e impacciato di cui si può ridere senza essere redarguiti; di un maestro che fa lezioni a modo suo, che sa raccontare le favole e li prende sul serio, ciascuno di loro, uno per uno, senza distinzione.” p.104

Nani Sapienza, maestro seducente adorato dai suoi alunni, sogna la sua piccola Martina, concepita in un trullo, morta di leucemia. La bimba era la gioia di Nani e la sua mancanza ha gelato l’espressione dei sentimenti e, così, il protagonista perde la figlia e la moglie. Al risveglio, il maestro ha notizia di una bimba scomparsa e intuisce che il suo è stato un sogno premonitore. Infatti, la bambina sognata, pensa Nani, è certo quella scomparsa, portata via da un pazzo, segregata, sicuramente non uccisa, come tutti pensano in paese.

Il maestro ossessivamente segue il suo istinto, insiste, offre il suo tempo allo scavo, alla ricerca, all’indagine rocambolesca, convinto di poter ritrovare viva la bambina.

Interessante la voce interiore, figura genitoriale affettiva e critica, che Nani chiama in ogni modo: angelo custode, pennuto, parassita, aquilotto, uccellaccio, pettegolo, pollastro maledetto, avvoltoio, corvaccio, grillo parlante, gufo, aquilotto dalle ali sbrindellate… voce che pretende di guardare il mio animo dall’alto in basso.

Perplessa, finisco il romanzo: nell’attività di pensiero considero indispensabile il riconoscimento dei limiti, la traccia dei confini. Gli esseri umani si distinguono felici per gli equilibri possibili fra realtà e fantasia, fra insegnamento e manipolazione, fra sogno e delirio, fra determinazione e comportamento ossessivo-compulsivo, fra intuizione e pregiudizio.

Il maestro Nani, trova e salva la bambina, ma non salva me come lettrice, forse perché, lo riconosco, anch’io “soffro dell’immaginazione ipertesa del lettore accanito” p.15

“La storia, ogni storia, nasce quando ci sono un corpo e una mente che si preparano all’ascolto. Il corpo non è meno teso e attento del pensiero che assorbirà, attraverso le parole, un racconto, con il suo eroe, le sue gesta e la sua conclusione. E io sono già saltato dentro, con tutti e due i piedi, in questo rito fatato. Mi sono impaesato assieme a loro e godo nel raccontare, come loro godono nell’ascoltare. Niente ci può fermare in questa impresa comune, antichissima e meravigliosa della narrazione e dell’ascolto collettivo.” pp.175-76

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    22 Dicembre, 2015
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Vite da babà

Franco Di Mare è un giornalista istruito e sincero, il suo romanzo è ironico e divertente. Mette di buonumore la storia di Procolo Jovine che nel suo ristorante custodisce e propone i piatti tradizionali di Bauci.

Per Procolo le storie d’amore e le ricette vanno di pari passo: gli entusiasmi dell’inizio, l’attenzione e la cura nella scelta e nella trasformazione degli ingredienti. E' indispensabile l'equilibrio di una mente e di un cuore sani nell’arte amatoria come in quella culinaria. Cucinare è come meditare: la pasta fatta a mano è imperfetta come la quotidianità dei "cristiani". L’alimentazione eccellente, la passione, il metodo e la lentezza rappresentano sicuramente la base per ogni desiderio di benessere.

Proprio nel piccolo paese della costiera amalfitana, Jacopo Taddei, attore della rivoluzione molecolare in cucina, decide di aprire il suo ristorante sensoriale. Sua Schifezza Reale, come Procolo apostrofa il “nemico”, si cimenta fra cibi e trasformazioni, seduzione e composizione chimico-fisica degli alimenti.

Nel romanzo il conflitto fra i due chef diventa pretesto per raccontare caratteri e comportamenti: don Assane, il saggio prete senegalese, il furbo assessore Ludovico Percuoco, il saccente professor Alceste Buonoconto e poi Rosa, la moglie giovane che richiede attenzioni, le cuoche che governano con maestrìa tutta femminile i pettegolezzi, le intuizioni, le benedizioni e le sfide.

La napoletanità, melanconica e speranzosa, e l’arte culinaria, fra tradizione e innovazione, diventano metafore della vita. Il babà è come il matrimonio: gli ingredienti semplici senza “la mano” sicura e geniale non ne assicurano la riuscita. La vita di coppia è come la pasta e fagioli che se è buona, è meglio quando è riposata. Basta distrarsi o amare di meno e il risultato finale è fallimentare per la vista e per il palato.

E’ la predisposizione alla relazione, all’accoglienza del nuovo e del diverso che, infine, salva l’esistenza di ogni persona. L’integrità e la difesa non sono il contrario del contagio e del disonore. A Natale, come per i due ristoranti di Bauci, aprire e godere delle contaminazioni e degli incroci possibili è il più degno messaggio di rinascita.

“Per la riuscita di un piatto l’abilità di chi lo prepara conta al quaranta per cento. Un altro venti per cento del merito va alla brigata, alla squadra che lavora ai forelli e alla preparazione degli elementi base. Ma il restante quaranta per cento va ai prodotti utilizzati, alla materia prima.”p.20

“La tua felicità è vedere la gente che paga il conto con un sorriso, perché l’hai fatta stare bene. Però nessuno se lo immagina che dietro quel piatto così buono ci sta la sveglia alle sette, la spesa al mercato, la stanchezza di una giornata di lavoro che può durare pure quattordici ore.”145

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    21 Dicembre, 2015
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Relazioni mancate

Attraverso il nuovo romanzo di Eleonora Mazzoni, ho l’opportunità di pre-occuparmi ancora di relazioni mancate in famiglia. La storia racconta di adolescenze che non finiscono mai per mancanza di relazioni oneste. Le adolescenze sono tutte uguali e, verso il cambiamento e la rinascita, rompono gli schemi, le strutture, le abitudini obsolete.

La quindicenne bolognese Manu scopre i segreti dei suoi genitori: aprendo uno dei cassetti di suo padre Amedeo (“l’animale”, “il maiale”, “la bestia”, “il lupo affamato”, “l’iper-mega-super sporcaccione”), trova una confezione di preservativi. La giovane nasconde delle telecamere-sveglia in casa, acquistate su internet, e comincia a spiare, scoprendo le vite segrete dei suoi genitori, fatte di adulterio, finzione e depravazione. Amedeo, a sua volta, è figlio di un genitore nevrotico, pedofilo e testimone di Geova.

Incontro un gruppo di personaggi fragili, di giovani in controdipendenza e di adulti in sfida: Sara, la madre vittima e complice, Valeria, la sorella che vive a Londra, liberata più che libera, don Ettore, prete patetico e arrogante. E’ con la voce di Manu, attraverso il suo linguaggio immediato, duro, sgradevole, che conosco la storia e ripenso alle problematiche della famiglia, della sessualità irrisolta, del fanatismo religioso, degli abusi, della funzione del tempo, del dolore.

Le menzogne, fra amiche, fra amanti, fra genitori e figlie, sono solo la conseguenza di un cammino di accudimento mancato vicino a se stessi e al prossimo. Manu è una giovane donna a ruota libera, smaronata, fancazzista che diviene padre duro, volgare e intransigente dei propri genitori e, in seguito, madre accuditiva. Nella sua famiglia, allargata al gruppo religioso, si mente per fragilità psicologica, per ignoranza, per coazione a ripetere.

L’adolescenza, la maternità, la menopausa, la vecchiaia, non sono malattie, ma rappresentano un periodo delicato della vita. I passaggi esistenziali si trasformano in disturbi quando non c’è congruenza fra l’età storica e l’età psicologica. Gli adulti sono distonici quando a cinquant’anni un uomo cerca prede da conquistare e una donna aspetta il principe potente che possa donarle identità possibili.

Gli ipocriti, come attori, recitano fino in fondo il proprio copione perdente e pericoloso. Le persone giovani cercano la presenza di adulti stabili e rigorosi, severi e teneri, figure di riferimento autonome e felici che accompagnino a distanza, senza eccessi di zelo, fiduciose nel tempo che matura e che offre le libertà.

L’Icaro di Matisse, non precipita, vola: è il dono che desidero per ogni giovane.

“La vita nasce bene, poi si guasta. Per stare al sicuro, dovremmo abitare in universi separati e autogestiti. Giunta l’ora, noi giovani, di nostra volontà, faremmo il salto nel mondo degli adulti… io il salto non lo voglio fare. Il mio posto è nell’intercapedine. Dove ci sono degli indecisi, i paurosi, gli inquieti, i troppo sensibili, gli arrabbiati. Quelli che preferiscono essere nessuno. Ci si può trascorrere molto tempo. Anche la vita intera.” p.134
“E’ come se dentro di me ci fossero due Manu. Una che ama l’io e una che ama il noi. Mettere d’accordo entrambe è peso.” p.81

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    20 Dicembre, 2015
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Il cinema di Camille

Scelgo questo romanzo per distrarmi, ma anche la distrazione è riflessiva. Apprezzo la narrativa trasparente di leggerezza sana, dove cuore e amore fanno sempre rima. E, dunque, ci sono anch’io nella casa vacanze a Villerude in avenue des Pins 57.

Incontro Rose Millet, 33 anni, alla ricerca della gioia. Il successo come violoncellista, il fidanzato tenero e scontato, i contratti doverosi nei teatri di tutto il mondo, per la protagonista, rappresentano solo una copertura affascinante del suo vuoto interiore.

Incontro Antoine, proiezionista di pellicole cinematografiche e tuttofare, amante infelice, uomo indeciso, con la passione per la costruzione di giocattoli con pezzi riciclati. Antoine sente e ascolta spesso lo spettro di Camille, il defunto proprietario che continua ad aggirarsi nel cinema.

Il fantasma di Camille, più che un disturbo di percezione, in fondo, non è altro che Titi, la parte libera e vivace di Antoine. Ed è in questo luogo interiore che Rose e Titi, amici d’infanzia, dopo tanti anni, possono rincontrarsi.

I due si riconoscono, ricordano, riannodano fili e segreti e si innamorano ognuno/a di sé, dell’altra/o, della storia d’amore possibile, adoperandosi con tutte le forze nell’attività di salvare il prezioso violoncello di Rose e il vecchio cinema di paese.

Una nota stonata è, a pagina 14, il riferimento al film di Tornatore: che bisogno c’è di assicurare chi legge che la storia raccontata non c’entra con Cinema Paradiso? Aleggia l’idea vaga, di poter comprare libertà vendendo competenze e pezzi di vita e la convinzione che e che , e la certezza, ancora più rovinosa, che .

Ma nelle favole l’attesa vale, perché l’amore di sempre torna. Aspetta il momento giusto, ma torna. Un libro per continuare a raccontare storie, per non morire di fatica, per credere che il romanticismo è questo, meno faticoso dell’altro, quello filosofico e letterario.

Un romanzo musicale e carino (aggettivo che permetto a me di usare solo perché ricattata dai ricordi). Un pensiero dedicato a chi quel violoncello, nella soffitta di Avenue Louise, lo ha suonato per me: preludio della Suite n.1 di Johann Sebastian Bach.

“… Jhon! Mi dici sempre che ho le spalle troppo rigide, e sai perché? Perché ho paura di non riuscire a essere come ho promesso e ogni mattina mi sveglio con questo pensiero…” p.32

“Penso che l’ispirazione sia riuscire a identificarsi con ciò che si fa. Nell’antichità, i Romani credevano che dentro ognuno di noi ci fosse uno spirito divino, una specie di guida che ci suggerisce cosa fare. In fondo l’ispirazione è quel momento magico in cui siamo in armonia con noi stessi e con il nostro spirito divino”p.132/3

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    13 Dicembre, 2015
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Donna ape

Conosco Cristina Caboni e le storie dei suoi romanzi, davvero, le somigliano. Dolce e severa, puntuale e appassionata, reale e romantica. Stavolta, la storia diviene il pretesto per consegnare a chi legge una preziosa guida all’utilizzo del miele.

Illuminante, a fine libro, il Quaderno del Miele, che ho letto prima di iniziare il romanzo e che segna, capitolo per capitolo, lo svolgersi delle vicende, con la proposta di ricette e rimedi. Ogni qualità di miele è un farmaco: ce n’è uno che rilassa e regala il sorriso, un altro per il coraggio e la saggezza, un altro ancora capace di donare energie e, ancora, una qualità di miele che aiuta ad essere generosi, gioiosi e riflessivi. Con le sue proprietà il miele è ricostituente, ricco di antiossidanti, guarisce il mal di gola e la tosse.

E’ interessante studiare e comprendere con leggerezza le differenze del miele intorno a cui è costruita una vicenda amorosa che, di conseguenza, cola miele dappertutto.

Angelica Senes apicoltrice itinerante, ha una laurea in scienze zootecniche e una specializzazione in etologia e benessere degli animali. Organizza e risolve i problemi degli apiari; vive per andare altrove, si ferma per ripartire, si allontana per non affondare. Finchè riceve in eredità da una zia una proprietà da custodire. Una proprietà antica e preziosa, una terra a rischio, saccheggiata, prima ancora che dalle ruspe, dalla avidità degli eredi. Angelica sa che la terra deve essere salvata perché possa continuare a generare, a rimettere al mondo, a dispetto di colate di cemento e di ettolitri di diserbante.

Abbaida, isculta e caglia. Guarda, ascolta e taci: è il destino dettato e assunto dalle donne ed è il percorso di liberazione di Angelica, attraverso la cura del miele e delle api. Giallo, blu e verde sono i colori che le api amano di più e la protagonista affronta nella sua crescita, numerose relazioni conflittuali, soprattutto con sua madre, che si tingono di giallo, di blu e di verde.

“Il dolore uccide, ninnia. E tua madre ci è andata vicina troppe volte. Il dolore cambia la gente, la fa diventare dura, come la pietra.” p.57. E’ il miele che aiuta le donne ad uscire dalle situazioni difficili e a risolvere la sofferenza, la tristezza e la fatica.

E’ la tradizione che diviene ponte e strumento per costruire il futuro. Custodire un mondo antico e saggio significa per Angelica seguire il ciclo delle stagioni e i ritmi delle api, insetti sociali, che vivono, si muovono e insegnano ad agire insieme. Recuperando il passato, la protagonista e il suo compagno d’infanzia, aprono la via.

Dono, con Cristina Caboni, tanti vasetti di miele diverso, come augurio, come farmaco, come promessa. E, soprattutto, offro il Nespolo, miele di Natale, gentile e chiaro, soave e pacifico.

“Il miele si sciolse sulla lingua come un racconto. E vide i prati, le colline fiorite, le scarpate dove le api avevano raccolto il nettare. E sentì le storie trasportate dal vento che questi luoghi avevano custodito per lei. Il miele continuò a parlare fino all’ultima goccia, e anche dopo, mentre chiamava Sofia per raccontarle gli ultimi avvenimenti, continuò a vibrare in lei, nutrendo la sua anima.”p.148

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    09 Dicembre, 2015
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Marinai

Utilizzo alcune letture come komboloi, come talismani per passare da un periodo di vita ad un altro. Mi avvicino alle letture che odorano di mare. Incontro ventuno uomini e il gatto Maritsa: una comunità di marinai incatenata alle onde fra ricordi, segreti e illeciti compiuti.

Vivere sospesi, in fondo, è un modo di godersi la vita. Il romanzo racconta la capacità degli esseri umani, continuamente alla ricerca di equilibri. Mi appassionano, i marinai; molti, sono, anche, uomini del mare e sanno la difficoltà di tenere assieme l’andare e il tornare, la terra e il mare, la casa e la cabina, il mondo e il paese, il ritardo e l’assenza, il lavoro e la passione.

La storia non riesce ad essere triste, anche se le vicende spesso tolgono il sorriso. Il comandante Mitsos Avgustìs, lentamente diventato cieco, nega la malattia che lo riporterebbe a terra e continua a condurre la nave ed il suo equipaggio, avvalendosi della sua esperienza e del suo talento. Il cargo Athos III, diviene un ventre che protegge e che trattiene. Avgustìs è l’ulisse più autentico incontrato in letteratura, consapevole, sapiente antico, intuitivo nel governo. Forse perché ha più di settant’anni!

Come Edipo sconfitto, incredulo, spaventato e arrogante, Avgustìs apprende a vedere con le mani, con il respiro, con l’odore, con la mente e con il cuore e … si vede.
Nuovo Tiresia, cieco perché ha visto la nudità e ne ha previsto l’evoluzione, il comandante è vigile, ad auscultare l’aria, la terra, l’acqua e il fuoco e a riprendersi le presenze, i colleghi, la moglie Flora e Litsa, l’amante di una vita, il figlio e le figlie.

Avgustìs sa che tornare significa ricominciare e ricontrattare spazi e tempi. A tornare si corre il rischio di essere felici, conoscendo il desiderio. Tornare, talvolta, è per sempre.

Interessanti le figure femminili incontrate nella storia, donne rapite dal mare, più che mogli e amanti di marinai. Donne della contemplazione e dell’attività, dell’attesa e della scelta. Esse capiscono che la libertà, libera da ogni legame, è soltanto solitudine. E’ così che diventano guide.

Ioanna Karistiani, che nel 2007 ha vinto il Premio nazionale per il miglior romanzo greco, sa bene che sentirsi marinai e marinaie è uno stato della mente e del cuore. Non si smette mai di essere, ciascuno per sé, mare.

“La sensualità vive a lungo come gli elefanti e i rimorsi non muoiono mai, ce n’è sempre uno da risuscitare se ci si prova con insistenza, se lo si desidera davvero, quanto ad Avgustìs, alle tre del mattino era prontissimo a vagare nello spazio sterminato del suo inferno.
La tristezza è un luogo, un giardino di amarezze. Anche la paura è un luogo, simile a una gola tenebrosa, così come la solitudine, un deserto dove la notte fa molto freddo, più in là si trovano i terreni sassosi della sofferenza e i sentieri remoti del desiderio. Il dolore ha la mole delle montagne, l’ebbrezza del dolore costituisce uno stato sovrano e i rimorsi formano un continente.”p.158

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    08 Dicembre, 2015
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Anima musicale

Di che adolescenza siamo?
Sì, perché l’adolescenza che abbiamo abitato non solo ha contribuito a strutturare la nostra adultità, ma è rimasta dentro come possibilità, come fiamma e lettura del mondo.
Credo a Vittorio Sermonti che ha definito Una parete sottile, un libro-persona. Toglierei il trattino. Non di autobiografia, si tratta, ma del giornalista Enrico Regazzoni, un uomo che scrive partendo da sé, dalla sua lettura della trasformazione e della rinascita. I fatti non corrispondono alla vita dello scrittore, ma il processo di crescita, sì.

Se il primo romanzo prende forma a 67 anni, contiene la sapienza, il sapore degli anni in cui ha germogliato in silenzio la coscienza della vita. Il libropersona, allora, rende testimonianza dei tempi, degli spazi, delle riflessioni nell’adattamento e nell’attaccamento: è l’itinerario che ogni essere umano compie per divenire persona. Come lettrice ho un’adolescenza da ascoltare, da leggere e da utilizzare per capire e per ripartire.

Nel romanzo, un giovane adolescente, con l’orecchio sistematicamente appoggiato alla parete della sua stanza, ascolta le note del pianoforte suonato da una vicina di casa. La musica è la realtà, è l’occasione di accedere al limite, attraverso l’esperienza del dolore quotidiano. E, così, assistiamo, e ognuno/a per sé, partecipiamo alla formazione di un genitore normativo interiore sano.

La lettura affettuosa e tenera dell’adolescenza ripercorre l’idea della morte, del dolore, dell’amore, della vita, rinforzando l’importanza di una pianista personale, di una figura di riferimento che, anche a sua insaputa, ci accompagni, esistendo. Il cammino verso l’autonomia e la libertà si delinea con il desiderio e la fantasia, con la struttura della visione esistenziale, con l’analisi di realtà.

L’invito è a recuperare l’adolescenza come “accademia dell’io”(p.149), come “laboratorio di sogni e di realtà”(p.134), in qualunque momento di vita.

Ci vuole spazio, tempo, ci vuole musica per diventare grandi. La solitudine prepara e precede il cambiamento che, a chi guarda dall’esterno, sembra naturale e che, interiormente, ha avviato nuove trasformazioni armoniose. Spesso, la stanza ritorna come cavità mitologica, come luogo privilegiato dello studio e dell’ascolto, perché “ciò di cui siamo fatti, è stato qualche volta musicale” (Pessoa, Licantropia)

L’augurio della stanza a Sandra. Fuori piove. Per dire, del libro, grazie.
“La percezione del tempo, per quanto ho appreso negli anni, è gemellata con la percezione di sé, e i giorni accelerano la loro corsa man mano che la nostra identità si definisce. Non è tanto l’attività a spronare le lancette dell’orologio, quanto la vita interiore: un essere umano consapevole vive più intensamente, forse, ma di certo più in fretta, perché il pensiero di noi stessi ha una sorta di fissità che ci fa apparire prodigioso il ritmo col quale i minuti ci scorrono a fianco…. E più cresce il passato più si fa ingombrante la riflessione su chi davvero siamo, fra i tanti possibili noi, e il tempo residuo, sempre più esile, è anche sempre più veloce, e la sola diga sarebbe il presente, se sapessimo abitarlo con determinazione.”p.36

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    06 Dicembre, 2015
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Soste

C’erano una volta, Jean Paul Sartre, André Breton, Simone de Beauvoir, Hemingway, Mallarmé, Verlaine, Rimbaud, in epoche diverse, in silenzio o in conversazione, seduti nei bistrot. E, insieme, bobo (bourgeois-bohème) o flâneurs oppure, semplicemente, turisti, viaggiatori e viandanti.

E Marc Augé, con saggezza, dopo aver attraversato i non luoghi affollati di individui, riscopre e ricorda il senso del bistrot come sosta, possibile incontro con il prossimo e con un sé protetto che guarda fluire le vite degli altri.

L’etnologo racconta la sua storia nei diversi bistrot frequentati, le abitazioni, le strade, le pause, lo stile di una vita altrove che si ritrova accolta, dopo ogni viaggio.

Marc Augé, oggi ottantenne, ricorda come la frequentazione dei bistrot divenne, nella sua giovinezza, simbolo di indipendenza, segno di essere diventati grandi e le fotografie di Cartier-Bresson e di Doisneau, per esempio, testimoniano per sempre la tenacia di una vita che decise di rivelarsi, intima, dopo il baratro vuoto della guerra.

: negli anni, la voce normativa di mia madre che riconferma il bar come il luogo del peccato, dove si incontrano tutti, la borghesia perbene e la gente di basso rango. Ecco, anche lei, più anziana dell’autore, se ne avesse esperienza, benedirebbe il bistrot. Apprezzerebbe le parole dette perché il prossimo esiste e lo si riconosce, oppure gradirebbe i silenzi e lo sguardo sulla vita degli altri che scorre, sapendo che la propria operatività, sospesa di diritto nel bistrot, ricomincia fra un po’.

Senza subire contaminazioni con la crêperie o il troquet o la brasserie: bancone di zinco e comunicazioni senza impegno, sguardi e parole seriamente scambiate per riconoscere solo la presenza dell’altro e la propria, in relazione.

“Il bistrot è il luogo in cui si mischiano i generi, il luogo della tragedia e della commedia, delle parole che non dicono nulla e dei silenzi che la dicono lunga, delle risate squillanti, dei sospiri soffocati e delle malinconie inspiegate” p.51

Salotto, ufficio, posto di riflessioni e di scambi di idee, occasione di incontri imprevisti e intimità complici: nel bistrot, il tempo considerato perso, morto, ritrova le sue ragioni in uno sguardo, nella espressione di un volto, nella lentezza prima che il pensiero si manifesti, nello stare con l’attesa della strada da percorrere ancora.

La formula del bistrot, esportata, appare in molte città europee. E’ triste quando, in molti locali neutri di aggregazione e di sosta manca l’anima, a favore di spudorate e incaute operazioni commerciali. Il nome, bistrot, osa strutturare tempi e spazi, osa misurare il dentro e il fuori, osa proporsi corridoio fra l’abitazione e il posto di lavoro.

Credo che esista un sentimento del bistrot: pigrizia dolce e gioia relazionale di superficie, non superficiale, espressione di modalità diverse di passatempo, di isolamento, di rituale, di gioco psicologico, di contaminazione possibile.

So che non basta, ma nel bistrot, è sempre la novità e la curiosità di ricominciare: il luogo delle persone, prima del pensiero compiuto della comunità. “Gli altri esistono, e io li ho incontrati. Al bistrot.” p.76

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    02 Dicembre, 2015
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Le donne e il lavoro

Le dita di dama richiamano l’immagine delle mani di Maria “mi’ fija metalmeccanica”, mani da ventenne che osservano, che pensano, mani capaci di coinvolgere e di decidere. Ritrovo la vita parallela della Storia e delle storie di donna.

È un romanzo di formazione, commovente perché reale, che fotografa attraverso pezzi di vita, gli amori, la stanchezza quotidiana, la lotta e “le quaranta ore settimanali, l’aumento salariale uguale per tutti, il diritto di assemblea”p.75.

Negli anni ’70, Chiara Ingrao è sindacalista e ricorda quegli anni non solo come il periodo dei terrorismi, ma come il tempo in cui maturano, anche, attraverso il pensiero e l’azione delle donne, il contratto dei metalmeccanici, lo Statuto dei lavoratori e le relazioni gerarchiche e frustranti con il potere dei sorveglianti, dei marcatempo, dei capisquadra, dei capireparto.

“ era un’espressione molto usata, piaceva tantissimo; eccetto a Maria, che la trovava volgare. È offensivo, diceva, a chi? Ora perché uno sta in fabbrica, va considerato basso? Io no mi sento bassa per niente, protestava.” p.101

E’ la storia della dignità delle lavoratrici raccontata da Francesca, voce narrante, studentessa di legge, amica del cuore di Maria. Dita di dama, dita di donne che, fabbricando televisori nella romana Voxon, strutturano la politica come trasformazione del quotidiano, come rivoluzione simbolica, come scelta di comunione. Perché tutte le persone vincano.

Risento le discussioni sulla qualità del lavoro in fabbrica, la paura delle bombe sui treni, l’approvazione traumatica per molti/e della legge sul divorzio, gli scontri di Reggio Calabria, la grande manifestazione dei metalmeccanici a Roma, Trentin, Ciccio Franco assieme a Ninanana, ‘Aroscetta, Peppe, Mammassunta,…

Dedico a Nuccia questa lettura domenicale. Non è su facebook, ma mi raccontava da sindacalista gli anni in cui anche qui a Bari prendeva forma ed energia il pensiero delle donne: la coscienza femminile, il doppio sì del lavoro e della famiglia, l’emancipazione, l’autonomia, l’indipendenza.

Riscopro, così, le radici antiche di un impegno faticoso e appassionato, personale e professionale nella Gestione delle Risorse Umane: i posti di lavoro come occasioni di crescita, la promozione nella diversità dell’uomo e della donna, la consapevolezza di sé come base di ogni crescita sana.

Chiedo alla scrittrice: cosa c’entrano i versi danteschi che intitolano i capitoli del romanzo? C’è davvero bisogno di un’abbondanza di senso?

Non chiudo il libro, convinta che ci sarebbe lavoro se gli artigiani e le artigiane della filosofia e della psicologia fossero impegnati in prima linea nella creazione e nella applicazione di una antropologia lavorativa, di una visione comunitaria della società etica e morale, di una Formazione Alla Persona, verso il divenire persona. Lo studio, la ricerca, la formazione, ed è già politica.

“Immaginati le facce, le storie, i corpi: solo così puoi capire a che accidenti serve la legge”p.168




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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    01 Dicembre, 2015
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Le donne e la follia

Le donne e la follia.
Blanche, Marie e le intelligenze della mente femminile.
Due regine in cui isteria e genialità rivelano una possibilità di ricerca scientifica.
Una pazza, una strega e il tempo mancato della profezia.
I corpi delle donne come geografie di conoscenza.

“Un anno dopo Blanche si ammalò per la prima volta. Era incomprensibile. La prima operazione le costò il piede destro. Fu così che cominciò. Ma per lungo tempo Blanche avrebbe ricordato quella domenica pomeriggio in cui lei e Marie, due donne belle, sole in laboratorio, mano nella mano davanti all’inspiegabile miracolo, si erano ritrovate avvolte da quei colori e da quelle misteriose radiazioni che, senza che ne fossero consapevoli, rappresentavano l’ingresso della modernità in quel museo dell’amore che erano i loro due corpi ancora perfetti.” pp.26-27

Nutro affezione per la storia, un po’ reale, un po’ immaginata da Per Olov Enquist, che ho a lungo custodito, di Blanche Wittman, paziente e cavia del dottor Charcot, (maestro di Freud) e di Marie Curie, la scienziata polacca insignita per due volte del premio Nobel.

Il romanzo, attraverso l’utilizzo complesso di numerose tecniche narrative, origina dai quaderni (libro giallo, libro nero e libro rosso) che Blanche lascia alla sua morte. Dolorosamente ereditiamo la possibilità di assumere l’equilibrio mentale come una ricerca continua. Le relazioni si manifestano come il territorio dell’ illuminismo e dell’oscurantismo, dell’amore e della morte, della scienza e della magia.

La testimonianza femminile segna la via per contenere tutto in sé, per non lasciar andare via nulla, per rimettersi al mondo, attraverso la coscienza e la conoscenza, in una relazione complessa fra il desiderio, il radio, l’arte e gli uomini.

Nella storia di Blanche e Marie riconosciamo e ci riprendiamo la forza profetica femminile che, senza il potere del consenso, custodisce, esorta, edifica, scuote attraverso il discernimento e la capacità di governo.

“Lesioni da congelamento nell’anima! Una spina nell’amore! Marie pensava che la storia della ragazza morta fosse inventata. Che Pierre avesse semplicemente paura di lei. Perché era troppo viva per lui. Se ne era lamentata con Blanche: perché gli uomini hanno tanta paura delle donne profondamente vive, al punto che scambiano la forza per la morte, e fuggono?” p.86

“Qual è la formula chimica del desiderio? E perché non esiste un’unità di misura dell’amore, perché l’amore cambia continuamente, a differenza del metro campione, quella decimilionesima parte del quarto di meridiano terrestre, perché non esiste un peso atomico del desiderio, stabilito, premiato, per tutti, per sempre?” p.128

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    30 Novembre, 2015
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Ombre di ricordi

La copertina livida preannuncia pagine che non hanno fretta di arrivare in nessun luogo.

… , , , , , , , : mi immergo nella suggestione potente delle parole scelte da Fleur Jaeggy per raccontare l’anatomia di una esistenza appartata.

Le statue d’acqua sono le memorie, come vestali che custodiscono immagini di relazioni che il tempo ha consumato, senza consumarci, condannati a ricordare senza morirne. Perché “dopo la fatica della gaiezza,… anche il piacere di odiare se stessi non era il più raro dei divertimenti”p.61

Parole che sono utilizzate come pennellate di grigio sulla tavola bianca di una solitudine acuta e generosa. Uno stile che entra e che azzanna le viscere. Apprezzo il lavoro sottile di ogni frase che ha un peso di significato, di strumento tagliente, di operazione chirurgica sull’anima.

Non ci sono eventi raccontati, se non la registrazione della sensibilità e della sincerità, senza pelle a protezione, di Beeklam, un uomo senza anni e gravato di tutte le età possibili: un cumulo di isolamento e di solitudine.

Tutta la stanchezza dello scavo nel proprio ventre, alla ricerca di un senso, di uno sguardo che riconsegni le ragioni. Il dolore crede nell’affabulazione e nei fantasmi solleticati dal raccontare senza sosta. Il dolore impara a diluirsi, perde il suo potere devastante. Così l’essere umano, adesso, sopravvive. Il rimanere presso di sé è condizione primordiale.

Le statue e le persone del romanzo, consentono di vivere negli opposti, nella contraddizione. In fondo, è nell’ossimoro l’essenziale, la comprensione della verità. Kaspar e Katrin sono come parti che si ricongiungono di una umanità rovinosamente e colpevolmente dissipata.

Se negli possibili mi riconoscessi amica, sì, desidererei star lì ad ascoltare i silenzi in sintonia di Fleur Jaeggy e Ingeborg Bachmann - alla quale il libro è dedicato – in un bar, a Roma, dove si conobbero.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    19 Novembre, 2015
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Ombre

Tutte abbiamo una tigre che di notte tormenta il nostro udito interrompendo il sonno. La percezione della tigre è espressione della minaccia di perdere che è paura legittima, della solitudine vuota che è libertà desiderata, del ricordo doloroso che è protezione di sé.

In ogni vita, di bambino/a, di adulto/a e di anziano/a, c’è una tigre in agguato, silente. Se le si offre la possibilità di combaciare con noi, la tigre - l’ombra - diviene il lato felino e autonomo di ciascuno/a.

In un’intervista al The Guardian, Fiona McFarlen, al suo romanzo d’esordio, dichiara l’origine dell’ispirazione: “Una delle cose più difficili nell’avere due nonne che soffrono di demenza è vedere che in realtà può colpire le persone in maniera molto diversa e che gli assistenti possono spesso essere lontani dalla cura”.

Per fortuna mia di lettrice, il risultato della storia raccontata è migliore dell’intenzione. Infatti, il romanzo esprime non tanto la quotidianità di una malattia che incalza, quanto l’esperienza di una vita che, allungandosi, si amplia di significati e di vissuti.

Ruth, insegnante di elocuzione, a 75 anni, vive da sola, presso di sé, in una suggestiva abitazione fra mare e sabbia. Offre a se stessa tutto il tempo per ricordare, per raccontare ai figli lontani e occupatissimi, per recuperare amori possibili, per fidarsi di nuove compagnie. Si celebra, nel romanzo, l’ampliamento dell’esperienza vitale, attraverso le paure e le gioie, più che la condanna della vecchiaia come età decadente e pericolosa.

“Ruth aveva un po’ paura dei figli. Temeva di essere smascherata dalla loro giovanile autorità. Le belle famigliole in cui tutti erano vivaci, attraenti e socialmente competenti l’avevano messa in ansia da giovane, e adesso i suoi figli erano proprio così. Le loro voci avevano un certo peso.”p.15

Ogni stato alterato di coscienza riconduce, in fondo, ad una comprensione più profonda, più essenziale della vita stessa. Non è demenza, è consapevolezza lieve. E' riduzione di sé, non ingenuità. La vecchiaia di Ruth insegna, tigre compresa, l’esperienza di libertà attesa e accettata, di solitudine gravida e generativa. Mi preparo così: la fine di qualcosa, quando arriva, è solo continuare in modo diverso.

“…nessuno poteva essere morto per davvero, completamente; nessuno poteva sopportare una cosa simile. Un conto era morire…ma continuare a essere morto era tutt’altra cosa. Era ostinato, ingeneroso.”p.205

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    18 Novembre, 2015
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Madre

Irina Lucidi, dal gennaio 2011, è mancante del contatto con le sue figlie gemelle di sei anni, Alessia e Livia. In italiano si dice vedova, si dice orfana, ma non c’è parola che definisca una persona dopo la perdita di un figlio. Le bimbe scompaiono nel nulla, dopo essersi allontanate con il padre, Matthias Schepp, suicida dopo cinque giorni, nella stazione ferroviaria di Cerignola.

Irina sceglie Concita di Gregorio come medium di ascolto, e la giornalista accetta di diventare strumento, compagna, voce della vicenda. Le lettere, le riflessioni in corsivo dell’autrice, gli elenchi, i ricordi, sono le formule adeguate per creare narrativa da un caso di cronaca. Il romanzo, così, diviene pretesto per un’occasione di accoglienza e di alleanza fra Irina e Concita.

La vergogna e la difficoltà a comparire in socialità rappresentano la sintomatologia del dolore. L’impotenza contamina pensieri e sentimenti. Irina, e ciascuna/a di noi con lei, non dimentica, non si assolve, non esce dal dolore. Offre una testimonianza attraverso il racconto di sé e lo scambio di pensieri con la giornalista. La mancanza è una grande prova di vita.

Non casco nella ricerca della facile morale della favola: capire come una donna, dopo una tragedia, possa rifarsi una vita e un amore! Non nell’indagine è il senso, non nella scoperta, non nell’assoluzione e nella rinascita, ma, unicamente, nella relazione, nel processo del racconto che non salva, ma, dicendo, incontra il volto, riconosce il prossimo, rimette al mondo.

Confermo che la mancanza di protezione verso di sé, non origina mai forme d’amore per gli altri. Rifletto su come l’ostinazione a dire e a inseguire l’essere amato ha, come confine ultimo, solo la morte.

Sono convinta che la ripetitività e l’inconsapevolezza sono già segnali di un tempo immobile, rispetto alla diversità continua dei tempi del benessere. No, non si può prevedere, il gesto folle. Vigilare, sì, dobbiamo. E, soprattutto, valutare l’intuizione come una buona guida.

Al prezioso oggetto rotto, riparato in Giappone con oro liquido, affianco il ricordo dei grandi piatti di terraglia color crema a fiorellini blu, ereditati dai miei avi bitontini, ricuciti con fili di ferro. Senza alcuna nobiltà, non conservano nessuna apparenza di rielaborazione, né di trascendenza. Ormai crepati, possono contenere acqua e terra, liquidità e solidità. Non possono più essere esposti al contatto con il fuoco.

“Todo cuadra. Questa formula, tutto è al suo posto. Ma non si può tanto tradurre. Tutto è proprio come deve essere. Non c’è da ostinarsi a spostare i pezzi. Bisogna solo osservarli muovere, vedere dove vanno. Questo siamo: spettatori attivi nel teatro dell’universo. È uno spettacolo, realmente, la vita. Todo cuadra.”p.79

“Mi ha logorata nell’attesa, perché sa, giudice, l’attesa delle persone amate non è una pausa: è un lavoro incessante, una fatica mostruosa, una lotta contro i peggiori dei pensieri. È uno spazio che si riempie di mostri e ti sorprende alle spalle. Gli anni passano, i minuti, no.”p.63

“C’è bisogno di essere felici, nonna, per tenere testa a questo dolore inconcepibile. C’è bisogno di paura per avere coraggio. È l’assenza la vera misura della presenza. Il calibro del suo valore e del suo potere.”p.14

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    17 Novembre, 2015
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Scrivere lettere

Carta e busta pregiate, francobollo, cassetta, postino: nata alla fine del secolo scorso, ho avuto il privilegio di scrivere e attendere lettere.

Ti spiego: Romana Petri, scrittrice di parole chiare, nude ed essenziali, compone in un romanzo l’epistolario di Cristiana, sessantenne felice e madre di due figli.

Dopo quindici anni dal divorzio, riceve una lettera da Mario - in profonda crisi e in tormentato ripensamento - ma, stavolta, Cristiana, non prova a salvarlo. Semmai decide di avviare, attraverso i fogli di carta coperti di scrittura, un percorso di consapevolezza, riemergendo da una vita che sembrava rovinata, come il pugile statunitense, James Braddock, Cinderella man.

In fondo, la lettera è la misura del riconoscimento di sé e dell’altra persona ed è una formula di comunicazione pensata, critica. È una carezza positiva che riconosce l’importanza di sé e dell’altro assieme.

Sono convinta che per orientarsi alla coscienza – cum scire, sapere insieme - serva scambiarsi pensieri scritti. Non sempre alle lettere si risponde, bisogna ascoltare e rileggerle, e capire le proprie ragioni e le ragioni dell’altro. Se si ha fretta di rispondere, ci si distrae dal sentire e dal conoscere e si ricade nel dualismo obsoleto che isola chi ha ragione da chi, necessariamente, deve aver torto.

Le lettere sono sempre severe. Sono la dichiarazione scritta del cinquanta per cento di responsabilità propria e dell’altro, esse delimitano il territorio dell’autonomia. Apprendere a scrivere lettere è un esercizio di libertà.

Da Fernando Pessoa a Roberto Vecchioni a Romana Petri: ché la disciplina del vergare sia con noi.

“Per tutta la vita ho cercato di pensare attraverso gli occhi. Pensare dentro quello che vedevo fuori, guardarmi intorno e fare i conti con quello che c’era.”p.111

“Eravamo giovani. E’ triste ma è così…. Ricordo che guardandomi allo specchio dissi ad alta voce: .”p.19

“La felicità non è un eccitante, è tutto il contrario, ecco perché ti sembra che non possa esistere. Perché la felicità è il molto che riempie, il compimento di ogni desiderio realizzabile, non il troppo che deborda.”p.77
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    16 Novembre, 2015
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Fra accidia e resa sapiente

Nel ’67 George Perec, trentenne, scrive di un giovane che decide di non alzarsi, di non prendere l’autobus per la Sorbona, di non sostenere la prima prova scritta di sociologia generale.

Leggendo, penso ai treni che non ho perso, agli appuntamenti mai mancati, con precisione, puntualità, decisione e impazienza. Io non ce l’ho la “vocazione alla calma”(p.31). E, adesso, indago e mi intriga il sottile confine fra l’accidia e la resa sapiente. Fra gli indizi di un comportamento depressivo e la scoperta del riposo e dell’affido. E’ il momento dell’Uomo che dorme, imparando a durare senza memoria, senza spavento, senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione.

“Sei un pigro, un sonnambulo, un’ostrica,… vuoi soltanto durare, vuoi soltanto aspettare e dimenticare…: intorno a te, da sempre, hai visto privilegiare l’azione, i grandi progetti, l’entusiasmo: l’uomo proteso in avanti, l’uomo con lo sguardo fisso all’orizzonte, l’uomo che guarda dritto davanti a sé.”p.27

E’ buono permettersi il lusso della fragilità psicologica, della chiusura, il lusso di un posto e di un tempo della follia, per non impazzire davvero.

Considero il romanzo, né il capolavoro di un genio, né la miserabile espressione di quel Laboratorio di letteratura potenziale (Oulipo, Ouvroir de littérature potentielle) che, negli anni ’60, divenne modalità di difesa e di distacco da una cultura onnipotente per giovani come Perec, Queneau, Calvino. Piuttosto, la storia narrata è la fotografia di un momento di vacuum per consentire la ripresa del processo di crescita. L’indifferenza non esiste e ogni essere umano è nel viaggio anche durante la pausa e lo scacco.

“Hai come l’impressione che potresti rimanere tutta la vita davanti a un albero senza poterlo esaurire, senza poterlo capire, dato che non c’è niente da capire, c’è soltanto da guardare: in fin dei conti tutto ciò che puoi dire di quest’albero è che è un albero; tutto ciò che quest’albero può dirti è che è un albero: radice, tronco, rami, foglie. Da lui non puoi aspettarti nessun’altra verità. L’albero non ha nessuna morale da proporti, nessun messaggio da consegnarti… non potrai mai essere padrone dell’albero. Potrai solo, a tua volta, voler essere albero”p.43

Apprendo a darmi il permesso alla ripetitività di una gestualità difensiva. Ad utilizzare il tempo dei rituali e dei passatempi, registrando dati fenomenologici. Continuare a stare, a negarsi e a rinnegare, come lo scrivano di Melville che risponde sempre: preferirei di no, . Così, ogni persona agisce lo straniamento, il commiato da un copione che non funziona più. Non morte, ma allontanamento per disintossicarsi. Non deriva nevrotica, ma protezione. Non rottura violenta, ma gentile trasformazione.

Ed è dalla confidenza con l’ombra che ci si rimette al mondo. La vita si compie avviando processi di attaccamento e di adattamento. I percorsi personali di libertà partono dalla costruzione della struttura, dal riconoscimento delle regole, dal vincolo e dalla costrizione, contrainte.
Unica maestra, la realtà!

“No. Non sei più il padrone anonimo del mondo, quello su cui la storia non aveva presa, quello che non sentiva cadere la pioggia, che non vedeva venire la notte. Non sei più l’inaccessibile, il limpido, il trasparente. Hai paura e aspetti. Aspetti, in Place Clichy, che la pioggia cessi di cadere”p.144



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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    14 Novembre, 2015
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U'invincibile estate

La chiave di lettura dei 62 anni di Tess, la protagonista, è la frase di Albert Camus che l’autrice Mary Costello sceglie in esergo al suo primo romanzo: “Nel bel mezzo dell’inverno ho infine imparato che vi era in me un’invincibile estate”.

Toni lievi, sinceri, schivi che affrontano temi gravi: la morte, l’abbandono, la solitudine, la lontananza, il passare degli anni. Colgo una scrittura di piccole cose, di luoghi, di mancanze, una scrittura … senza parole memorabili. “Potrei scrivere comodamente la mia vita intera su un’unica pagina. Potrei farcela stare tutta su un solo foglio.”p.120


Tess rimane orfana a sette anni, in un grande casolare a Easterfield, nell’Ovest dell’Irlanda. E se la mamma non può riconoscerne l’esistenza, la piccola, allora, non esiste e smette di parlare. Si ritira, permettendo alla vita di accadere.

E più tardi ricompare, riaccompagnata presso di sé dallo sguardo degli altri. Infatti, un giorno a Dublino un fotografo le scatta una foto per strada e per la prima volta Tess si vede: una ragazza carina, con gli occhi che sorridono. Non recrimina, desidera silenziosamente, si fa scegliere, eppure Tess produce movimenti, cambiamenti, risoluzioni.

Formatasi come infermiera, emigra a New York, dove si innamora, per una notte, perdutamente. Si trasferisce in un appartamento di Academy Street, nell’Upper Manhattan e cresce da sola il figlio Theo.
Inizia a leggere sistematicamente e scopre letture possibili dei fatti, ipotesi e prospettive. “Soffriva per i personaggi, ma anche per gli autori. Viveva in due mondi separati uno interiore, nel quale si sentiva perfettamente a suo agio, l’altro esterno. Era questa vita interiore a dare significato al mondo esterno.” p.152

Riconosco in Tess il copione di vita non vincente, il coraggio di farsi attraversare, la scelta di divenire sfondo, di essere strumento di cura e di accoglienza. E’ forte davvero Tess, offrendosi oggetto nella relazione, modesta, silenziosa, docile, triste, accompagnata da una solitudine primordiale.
Ad un certo punto, anche la scrittrice non ne può più e cerca l’espediente forte nella tragedia delle torri gemelle.

Fino ad arrendersi alla protagonista che non vincendo, ancora una volta, rinasce e rimane a vivere. Tess acquisisce stabilità interiore divenendo acqua e aria per essere flessibile, per modellarsi, per poter continuare. Mi insegna che la pace è astenersi dalla complicità con i tormenti dell’onnipotenza inseguita, con i patti scellerati di progettualità spavalde.

L’amore si esprime nell’accettare che la vita accada.

“Girò lo sguardo intorno al reparto: la sedia contro il muro, il lavandino nell’angolo, l’uomo sdraiato nel letto, la gente che passava nel corridoio. Ecco, la realtà è fatta di queste cose, pensò. Improvvisamente si sentì perfettamente calata nella realtà, totalmente compatibile con il resto del mondo e con ogni cosa al suo interno.”p.118

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    13 Novembre, 2015
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Confidenze

Il libro narra di un incontro significativo fra Alberta e Annalisa, iscritte, in età diverse, alla Facoltà di Lettere nell’ateneo milanese. Le due donne si accompagnano nel divenire consapevoli di sé, delle relazioni, dell’essere politica, oltre che del proporsi in politica.

Si riconoscono, una nell’ ”età dell’egoismo e delle certezze”, l’altra “troppo saggia per star dietro a sogni improbabili e dedicare tutte le sue energie al presente.” (p.32.) Albi “non viveva il tempo dei sentimenti ma l’attimo delle emozioni”(p.104), e Lisa sa “che ci sono desideri che ci teniamo nascosti, che possiamo sfuggire per giorni, e mesi, e anni, ma basta un luogo, una persona o uno stupido pomeriggio da niente per farli tornare, e così sia.”(p.110.

Confidenze, ricordi, veleni e silenzi per discutere di pregiudizi sulle donne e sulla vita di coppia, di mariti anaffettivi, di genitori e figlie e figli, ovvero, di autorità e adolescenze.
E così le storie personali sono storia politica.

Rispetto all’urgenza dei compleanni, è lento il cammino delle donne, come è lenta la gestazione e l’evoluzione umana. Età indulgente ed età arrogante ed intransigente: ci si incontra, ci si intende, poi basta, perché il quotidiano ingoia anche se non ci si dimentica mai e, al rivedersi, è sempre una festa sincera.

Alberta e Annalisa vivono le vicende storiche, dal ’92 di Mani Pulite al 2007, anno in cui nasce il PD. Ritrovano assieme le idee, le certezze, i discorsi per arrivare alla resistenza civile dei girotondi: il 26 gennaio 2002 alle 14.30 al Palazzo di Giustizia di Milano, vince la convinzione che “se la fai partecipe la gente ci sta”. Oltre la tentazione e la paralisi di quelle persone preoccupate di rispondere contrapponendosi, più che di capire, prima di costruire schieramenti.

Intuiamo che la bellezza è nella onestà della mancanza, dell’incomprensione, dell’attesa, della conflittualità, della frustrazione che, vissute fino in fondo, offrono l'idea di una rinascita possibile.

Mai vorremmo, alla nostra età, con la nostra bellezza, niente.

“La nostra età, la tua di oggi, la mia di allora, ha una bellezza che le donne non devono perdersi. Si cominciano ad apprezzare i chiaroscuri. E guarda che è una conquista, non una sconfitta. E si comincia a fregarsene dell’approvazione degli altri.”pp.194/95

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    12 Novembre, 2015
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Corpo d'anima

Imperdibile la storia di Aristeo, dio minore, copione non perdente dell’uomo feribile contemporaneo.

Esistenza ripetitiva, in cui Aristeo - personaggio del testo che richiama il dio greco - insegue e manca la presa, ama e, senza volerlo, uccide. Scrive bene, Caterina Serra, scegliendo parole intense ed essenziali. E’ una donna che scrive i pensieri di un uomo mentre accudisce suo padre morente.

È una storia come se l’unico compito della vita fosse ricordare il corpo che siamo, come se l’analisi accurata servisse a guarire le ferite delle libertà mancate. Si chiama nevrosi, isterica, fobica, ossessiva, d’ansia. Oppure, sono i rituali della mancanza, fra strade sporche e silenziose presenze.
Non c’è una stagione per capire e una per vivere. Per questo è faticoso il lavoro della coscienza, vivendo.

Ritroviamo miele dappertutto, collante che nutre e si appiccica al sudore, alle confidenze, alle lacrime, alla malattia. C’è il corpo dell’anima, da indagare, c’è il corpo di ogni idea, di ogni angoscia segreta, il corpo del prossimo, il corpo di Nina. Nina/Euridice che lascia ovunque pensieri per Aristeo scritti sugli scontrini, come tracce di presenza e di spesa di sé. La corporeità, allora, si fa ampia e diviene una geografia alla scoperta delle relazioni.

Capiamo la deità, come disturbo di una relazione che cerca assoluti e certezze. Convivono in ogni persona l’essenza divina che offre il respiro ad ogni essere umano e la potenza vitale che non capisce l’ineluttabilità della fine.

Sospesi, Nina e Aristeo, alla ricerca di appunti perduti, a provare a trovarsi, a provare a capirsi, a provare a prendersi.

“La verità è che le donne non sono ancora riuscite a educarne di una specie diversa. Che provi vergogna della forza. Che non consideri la forza potere, e non usi il potere come dominio. Predominio, è la parola giusta. Nina deve avermelo detto almeno mille volte. E forse invece nasciamo così.”pp.59-60

“Ma come facevano le donne di una volta?... Che avevano uomini piccoli e li facevano sentire grandi. Come erano quelle donne, che non avevano bisogno di sentirsi invitate da nessuna parte? Che dicevano sempre di sì, che volevano solo sedurci o darci figli. Le donne-fica e le donne-utero, come le chiama lei, belle per noi, buone per la vita. Che ci piacevano tanto.
Furbe, che vi prendevano in giro. Mi pare di sentirti. Facevano finta, e ci cascavate. Anzi, ci cascate sempre.”p.129

“Una volta Nina mi ha scritto che se non dormivo era perché avevo paura di me. Non di quello che potevo fare, ma di quello che non sapevo fare di me stesso. Paura di non essere quello che voglio. È forse l’unico scontrino che non ho conservato”p.194

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    11 Novembre, 2015
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Di noi

Lidia cara,
stavolta lo hai fatto apposta a scrivere un romanzo fastidiosamente delirante e sgradevole. Sì, lo hai fatto apposta, come si fa con i bambini, per metterci in guardia, esagerando, per spaventarci, perché possiamo vedere prima le conseguenze della rottamazione forzata di una generazione, della tracotanza di una classe dirigente che pur di non fare i conti con il limite dell’umano, si disumanizza.

Puntuale, il 12 marzo ero in libreria perché i tuoi libri, da sempre, mi hanno scelta come lettrice. E’ un’opera fantapolitica e racconta di Umberto e della moglie Elisabetta. La coppia, separata da una legge che mette la data di scadenza al prossimo, rimane vigile davanti al potere del Leader Maximo, un enormepiccinomostruoso e davanti alle regole escludenti del Partito Unico.

Tutto è deciso, dal divertimento all’economia, dal tempo dell’accoppiamento al tempo della morte, sotto forma di allontanamento forzato dalla società. Così, non si sceglie più e la paura è annullata e, di conseguenza, invade tutto. E la tristezza del tempo che passa è ingoiata con i calmanti e, così, si muore da vivi.

Il 3 aprile scrivi su facebook: “Con il leggero masochismo che contraddistingue la categoria dei creativi, aspetto il voto”. Zero, Lidia, che è come dieci. Fa male perché la ferita è nella relazione genitoriale che stenta a trasformarsi in passaggio, in feritoia. Il romanzo è il programma politico di un mancato processo di consapevolezza. Se il cammino di analisi e di discernimento ci fosse, offrirebbe profondità ed autorità a chi governa.

Ogni persona ha il suo ’68 da iniziare e da rinnegare e, in seguito, da ricucire, riconciliando le varie fasi nelle relazioni con le figure genitoriali, con se stessa, con gli altri. E’ nel conflitto fra giovani e anziani, fra genitori e figli, la misura di una progettualità possibile.

Rottamare è cancellare, distorcere, generalizzare. Diventare grandi e sani significa, invece, analizzare, valutare e fare il proprio dovere lì dove siamo, perché non c’è un altro posto da conquistare, un’altra vita da inseguire. Che è poi, il diritto alla libertà di imparare ciò che diventiamo.

L’invito è a sentire, con l’udito e con la pelle, l’amore e il dolore, la lettura della storia e la custodia dei racconti. La cura e la speranza come scelta intellettiva ed emotiva è nel reparenting, metodologia formativa che sostituisce la rottamazione.

“Ho immaginato ed elucubrato e poi, senza opporre resistenza, mi sono consegnata a questa fantasia distopica, sinistramente dolce, come certi incubi da cui ti svegli più avveduto, più agguerrito, più capace di guardare in faccia le tue angosce, più forte e perfino più allegro, per il sollievo che, quanto sognato, non sia veramente accaduto. O almeno non ancora.”p.7

Ancora una volta, Lidia, le tue ragioni dicono di me e del nostro tempo.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    10 Novembre, 2015
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Energia femminile negata

Tenera e terribile è la storia di Hana che si rifiuta di accettare il matrimonio combinato che permetterebbe allo zio di morire in pace, ma che la costringerebbe a rinunciare alla propria indipendenza. Elvira Dones scrive il romanzo nel 2007 e Laura Bispuri lo traduce in un film, candidato al Berlinare 2015, compiendo, assieme, ciascuna per sé, una consapevole ricerca identitaria.

p.177

È triste registrare come il maschile è stato ed è ancora, talvolta, considerato un ruolo socialmente vincente, salvato, protetto e comodo da vivere.

È così che il cammino di Hana da privato e intimo diviene storia della comunità: dagli imperativi creati dal sesso maschile predominante, agli svelamenti di una gioiosa differenza di genere.

Tra la fuga della sorellastra Lila e la rinuncia all’identità di Hana riconosciamo il rinnovamento di ogni donna che passa attraverso il desiderio.

p.124-125

L’energia femminile non ha bisogno di inni e slogan e non passa attraverso l’acquisizione dei diritti e dei poteri dell’uomo. Le donne non diventano qualcun altro e non si adattano a qualcos’altro.
Non si tratta genericamente di impadronirsi di sé, né di giurare uno stato sociale e giuridico diverso.

La libertà è riconoscere la fatica e il privilegio di assomigliare sempre più a se stesse, al proprio nucleo di verità.
È irreparabile la realtà carnale di essere quello che si è.

p.204

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    10 Novembre, 2015
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Viaggi d'anime in nave

Proleterka è una nave sulla quale viaggiano – viaggio nelle viscere - per due settimane un signore claudicante e sua figlia sedicenne. Per capire di più l’animo umano, mi appassiono alle intelaiature psicologiche della letteratura.

I personaggi senza nome, quindi con tutti i nomi possibili, sono intelligenti, capaci di cogliere risonanze, nessi e interazioni profonde. Le ombre, i silenzi e i labirinti rimandano alla luce, al cambiamento e alla coscienza.

Mi attrae Fleur Jaeggy perché scrive bene: il ritmo, la musicalità della prosa, la costruzione paratattica che conferisce chiarezza, evidenza e incisività al racconto.

“E’ per il mio bene. Una frase velenosa. Ma suona bene. So che quella frase non è mai stata di buon auspicio. Da allora ha peggiorato la mia situazione di minorenne. Bisognerebbe guardarsi alle spalle quando si ascoltano simili diktat. Quando si è ostaggi del bene. Prigionieri del bene. Il bene del popolo. Frasi da regime. Esco dalla casa con una valigia e la cartella di scuola. Sono consegnata ad altri. Per il mio bene.” p.40

“La moglie si priva di tutto, anche di se stessa. Ha sgranocchiato il suo corpo, lasciando i denti lunghi, quando li mostra. E’ secca, puritana e flagellatrice. E’ stata la prima persona a osservare la figlia di Johannes con la lente del disprezzo. E’ abissalmente cortese. I capelli raccolti in un grumo, uno chignon sulla nuca. Gli occhi madidi di carità rapace. Sempre gentile. Chi ci condanna è comprensivo. Come lei. Comprende i peccatori. Una furia selvaggia contro i peccatori, trattenuta, senza esplosioni e senza remissione. Comprensione altamente dolorosa. Lei è oltraggiata dai mali dell’umanità. E incarna l’oltraggio in un vanaglorioso ritegno. Nel tono di voce del malaugurio, del lamento e dell’accettazione.” p.22

Scopro la scrittrice amica di Ingeborg Bachmann, moglie di Roberto Calasso e consulente per i testi di Franco Battiato. Confermo, così, la convinzione che siamo anche quello che diventiamo attraverso le relazioni.

Esse proteggono, rinforzano, danno permessi. La prosa della scrittrice di talento e di ispirazione diviene come lama che osa penetrare nelle zone segrete dei ricordi, dei sogni e delle attese.

La comprensione è sprofondare. La ricerca è scavare nelle piccole azioni nevrotiche. La pace è raccontare e descrivere.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    08 Novembre, 2015
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Destino di donna

La scrittura decisa ed evocativa, il linguaggio mistico e potente di Licia Giaquinto odora di magie segrete, di riti pagani e di destini incantati.
Nel secondo Novecento, fra i monti di una Irpinia arcaica, la ianara è una strega sapiente e protettiva, ma è anche una mammana rozza e pericolosa. Adelina, ianara come sua madre e sua nonna, è temuta e cercata, è scacciata e ritrovata.

“Adelina ha fatto solo quello che andava fatto. Ha seguito il filo del destino che si srotolava giorno dopo giorno come un piccolo gomitolo tenuto in mano da chi sa chi.” p.26

La ianara riproduce infinite volte la proiezione della parte oscura di sé che ogni persona emargina e che continua ad affiorare. La colpa, l’invidia, l’arroganza sono il male degli esclusi dalla felicità, dei vinti dalla storia, degli analfabeti emotivi e cognitivi.

“Adelina era certa che non sarebbe diventata mai donna, che non sarebbe cresciuta. Perché aveva capito che diventare donna significava sangue.” p.60

La ianara è l’angelo malefico, perduto fra la confusione e la salvezza, ingannato dalla passione negata.
Adelina esprime la sua energia anestetizzata per paura di non riuscire ad addomesticare l’amore, a contenere l’eccedenza della gioia, a legittimare la curiosità della conoscenza.

“E’ come se tra Dio e Satana ci fosse stato un patto all’inizio dei tempi: tante anime per l’uno e tante per l’altro, e il resto delle anime da conquistarsi giorno per giorno, minuto per minuto, come in una partita a scopa. Con l’angelo custode da un lato e il demonio dall’altro di ogni cristiano a litigare dalla mattina alla sera per portarlo di qua o di là, al bene o al male.” p.109

Negare, nascondere e respingere sostituiscono, allora, la capacità di godere, di comunicare, di ridere. Il desiderio tradito di conoscenza si trasforma in sortilegio, il pensiero oppresso diviene invidia che azzanna, l’urgenza di amare e di essere amati si deforma in cattiveria.
Sullo sfondo, la costruzione di un’autostrada, come sfida di una modernità e di una conoscenza faticose verso libertà possibili.
La ianara, ogni giorno, non è morte, è solo un dolore infinito, l’incapacità di offrire a se stessa dignità di esistenza.

“Niente di ciò che è stato si perde. Uomini, donne, fiori, animali, piante: ogni cosa conserva la traccia della propria esistenza anche quando non esiste più. Glielo hanno insegnato sua madre e sua nonna in un tempo remoto sprofondato in un pozzo.” p.23

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    07 Novembre, 2015
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Sororità

Il romanzo d’esordio di Susan Sellers racconta le relazioni vivaci e le contaminazioni d’arte fra la sorella carnale e la sorella cerebrale (p.83), fra una santa e un diavolo (p.18), fra Virginia Woolf e la sorella maggiore Vanessa, pittrice incerta, moglie del critico d’arte inglese Clive Bell.

L’autrice, studiosa e co-direttrice delle edizioni critiche delle opere di Virginia Woolf per la Cambridge University Press, si appassiona alle vicende personali e professionali delle due donne e le racconta attraverso episodi isolati e memorie frammentate con una coscienza capace di analisi e di tenerezza.

“Ancora oggi, quando leggo, è la tua voce che sento e non la mia, e hanno la tua inflessione i pensieri che mi pulsano in testa mentre piano piano scivolo nel sonno” p.20

Vanessa/Susan racconta e diviene co-madre di Virginia, l’accompagna e la protegge senza simbiosi e parassitismi. I rapporti complessi, esclusivi ed anticonformisti nel Bloomsbury Group, contrastano l’ipocrisia delle convenzioni dell'epoca. Oltre il pregiudizio che li fotografa come un circolo di intellettuali eccentrici e snob, sono uomini e donne giovani che amano in maniera delirante la vita e l’autonomia delle scelte.

“Ci hanno addestrato a diventare due signore. Abbiamo imparato a venerare l’angelo della virtù, una creatura capace di una tale abnegazione da non avere bisogni propri. Questo era il modello che ci veniva costantemente proposto: il nostro punto d’arrivo e il nostro implacabile pungolo. Ci umiliava quando non riuscivamo a imitarlo, ostacolava qualsiasi ambizione potessimo nutrire.” p.21

Il perbenismo vittoriano della famiglia londinese di Vanessa e Virginia anticipa la visione della borghesia occidentale che crederà nell’ emancipazione, nella parità, nella lotta ai diritti. Il capitalismo sarà capace di promuovere parità in vista della competizione che produce profitto.

“Spesso mi è stato rinfacciato il mio isolamento, il mio rifiuto di aprire le porte a una cerchia più ampia. Non ho niente da rimproverarmi a tale proposito. Avevamo vissuto sotto il dominio di altri per troppo tempo. Era deliziosa, la libertà di poter scegliere le persone da frequentare, di stabilire secondo quali regole.” p.51

L’arte è partire da sé e creare una biografia attraverso parole e colori, pagine e tele. Vanessa e Virginia, “spietate fustigatrici dei difetti altrui”, scelgono “una vita in cui ognuna fosse libera di praticare la sua arte d’elezione” e scelgono di proporsi con autenticità, nei conflitti d’idee, nei tormenti amorosi, nei successi dolorosi e nei fallimenti previsti e inevitabili.

In quelli anni Freud dichiara la sua teoria psicanalitica e molti, a causa delle derive che ne seguono, impareranno a chiamare, in ogni caso, depressione il dolore e l’eccedenza della vita e inizieranno a curarli. Ma il dolore rimane una forma complessa di sensibilità che si può riconoscere, chiamare, accettare, custodire e trasformare in possibili rinascite.

“La verità non è mai facile. La tua tara era fonte per me di sollievo e terrore. Gli dei ti avevano dispensato troppi doni.” p.50

Il 28 marzo 1941 Virginia si incamminerà inesorabilmente nelle acque del fiume Ouse, stanca, viva e interrogante.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    07 Novembre, 2015
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La morte e le donne

Apprezzo la ricerca seria e dignitosa di Michela Murgia intorno all’umano spirituale e religioso. L’accabadora è una figura ancora una volta femminile, dalla natura selvatica, che accompagna, che strappa il futuro dal grembo della vita, aiutando a morire. La sua presenza è riconosciuta come autorità. Attraverso le sue azioni, il destino di vita e di morte si manifesta come cura.
L’accabadora si muove sospesa fra la pietas dinanzi al dolore di una vita che fa male e la complicità scellerata con la parte onnipotente di ogni persona.

“In quella prima e amara scuola di fatto, la figlia di Taniei Urrai apprese la legge non scritta per cui sono maledette solo la morte e la nascita consumate in solitudine… A quindici anni Bonaria era già in grado di capire certe cose, farle o vederle fare è la stessa colpa, e mai da allora le era venuto il dubbio di non essere capace di distinguere fra la pietà e il delitto.” p.93

Di chi siamo fill ‘e anima? Attraverso codici e rituali che la comunità richiede per difendersi, l’accabadora, nera e dolente, è vicina e ascolta. Coniuga il tr?d?re come trasmissione, affidamento, resa e narrazione. E, quindi, infine, tradisce, senza salvare davvero nessuno. Non salva nessuno, l’accabadora, perché evita l’attraversamento.

Leggiamo di terre sarde maledette, di voci imprigionate, di anime impazzite che lottano, di persone che si vedono ma non si distinguono. Non c’è una ragione perché la morte sia considerata una soluzione. “Gli studiati” perdono nel confronto con l’accabadora che si rivela madre adottiva intuitiva, cinica e normativa.

“Non metterti a dare nome alle cose che non conosci, Maria Listru. Farai tante scelte nella vita che non ti piacerà fare, e le farai anche tu perché vanno fatte, come tutti.” p.116

L’accabadora esprime la scelta che manifesta la peggiore hybris, la sfida contro gli dei incomprensibili e, insieme, si rivela come servigio di accompagnamento oltre il dolore, opera non retribuita verso l’altrui paura.

Per chi resta, non esiste la morte dolce. Con l’amore, la morte rimane, silenziosa, lentamente, a vegliare sui desideri di vita, a insegnare che non esiste libertà di vivere o di morire, a mostrare le libertà di stare al mondo per quello che è e per quello che siamo. Pazientemente.

“Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima.” p.92

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    05 Novembre, 2015
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Equilibri fra castello e confine

Storia di genitori fragili, di donne irrisolte, di relazioni contaminate, di figli turbati.

L’inconsistenza pericolosa del possesso. Scrittura sicura di crimine e di sesso, scrittura chiara di un’estetica violenta e dolente.

Aurelio Picca convince. Inaugura la speranza, attraverso il ricordo e il dolore di raccontarsi e di fidarsi.

“Mentre cresceva l’idea di scrivere questa storia, ho capito che castello e confine coincidevano, trasformandosi in una sorta di mia intima patria. Nel raccontare ho chiarito che sul confine è ubicato non solo il castello, bensì il mondo intero. Il mondo che ha perduto culture e pietà, talento e rivolta. E proprio perché la storia sta cancellando i suoi vecchi confini tutti noi siamo aggrappati a un ciglio di rupe che si affaccia sul precipizio. Accade, più spesso di quanto ce ne rendiamo conto, che le esperienze personali coincidano con molti destini – addirittura con il destino del mondo. Ormai sono convinto che il castello-confine sia stare appesi sul vuoto, camminare su una corda tesa sopra la voragine.” p.177

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    05 Novembre, 2015
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Cinema e vite

Prater Violet è un racconto viola, leggero e tragico, che invita a ritornare al cinema e alle sue ragioni. La pulsione vitale del rosso si coniuga con la profondità esplorativa del blu divenendo l’espressione di un archetipo dolorosamente umano.

Nello scenario storico londinese che precede la seconda guerra mondiale, il pensiero e il vivere assieme diventano sceneggiatura e film. Si intrecciano le interazioni quotidiane di Friedrich Bergmann, illuminato regista austriaco, di Chatswort, scaltro produttore e di Christopher Isherwood, giovane e impegnato sceneggiatore, doppio narrativo dell’autore che lavora realmente nella Hollywood degli anni ’30.

“Vede, io sono un vecchio peccatore così orribilmente incallito che nessuna cosa mai è tanto cattiva quanto m’aspettavo. Ma lei è rimasto sorpreso. Scosso. Scandalizzato. Perché è candido. È di questo candore, di questa sua innocenza che ho assolutamente bisogno; l’innocenza di Alëša Karamazov. Procederò a corromperla… Sa cos’è un film?... Un film è una macchina infernale; una volta accesa e messa in moto gira con una dinamica irresistibile. Non può fermarsi non può chiedere scusa. Non può ritrattare più nulla. Non può attendere che si comprenda. Non può spiegarsi. Ma semplicemente matura verso la sua inevitabile esplosione. E questa esplosione noi dobbiamo prepararla, come anarchici, con la massima ingegnosità e malizia…” p.37

La Germania nazista celebra il processo per l’incendio del Reichstag, in Austria la guerra civile distrugge le milizie operaie, la guerra incombe, ma nessuno ci crede. Il regista lo sente, lo sa: egli celebra con il lavoro la trasparenza del potere, la banalità della paura e il disincanto nella relazione possibile fra un padre e un figlio.

Ci riscopriamo tutti come mendicanti eccezionali che leggono Omero in greco e come vigili che dipingono all’acquerello. Impariamo la luminosità e la seduzione delle ombre e non solo l’opposizione consolatoria fra le ombre e le luci. Il cinema ci è inevitabile, come la guerra, come l’amore, offrendo il visionario e il delirante coniugati nella realtà. In fondo, è la storia dell’intelligenza.


p.52

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    03 Novembre, 2015
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Etica del silenzio

Nel 1945 Natalia Ginzburg traduce per Einaudi Le silence de la mer di Vercors, massiccio montuoso delle Prealpi francesi, diventato lo pseudonimo di Jean Bruller, disegnatore e scrittore clandestino della Resistenza.

50 pagine, sei mesi, cento serate invernali di silenzio-cura, di silenzio-pensiero, di silenzio-protesta.
L’ufficiale tedesco Werner von Ebrennac interagisce e seduce, ricorda e si rivela. La giovane donna rimane vigile, ascolta interessata, agisce la sua ostinazione… “Le donne hanno una divinazione felina” (p.36) . Esse sanno che “per conquistare basta la Forza: non per dominare” (p.46).

Accanto a L’uomo in rivolta di Camus ritroviamo l’etica del silenzio, l’opposizione cocciuta di Vercors. L’ostinazione del silenzio come antidoto al compiacere, come , come presenza che non si nega e non nega la speranza nell’accadere. “Noi non chiudemmo mai la porta a chiave … io non posso offendere un uomo senza soffrire, si tratti pure anche del mio nemico.” (p.12)

e, ancora, con attenzione, in risposta, una voce che tace di donna, parola negata e pensata. Parola che custodisce, che lavora, vincente e che non vince.

“Appresi quel giorno che una mano, per chi sappia osservarla, può riflettere le emozioni al modo stesso di un volto – al modo stesso e meglio d’un volto, poiché sfugge di più al controllo della volontà. E le dita di quella mano si distendevano e si richiudevano, si stringevano e s’afferavan tra loro, s’abbandonavano alla mimica più intensa, mentre il volto e tutto il corpo permanevano immobili e compassati.” (p.40)

è l’unica parola dolorosa, infine, silenziosamente offerta alla relazione mancata dalla Storia.

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    03 Novembre, 2015
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Ascoltazione

Talvolta leggere prevede, solo, il sollievo di una favola bella.
Julia cerca i segreti del defunto padre, in viaggio dagli Stati Uniti fin nel cuore di Kalaw, tra le montagne della Birmania. Indietro nella storia, avanti nella scoperta di senso e sensuale, del proprio essere al mondo.

E’ il romanzo dell’apprendere ad auscultare attraverso la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto e il gusto. Fino a sentire l’altro essere e a reggerne il respiro, al di là della presenza. Sendker è un giornalista cinquantenne tedesco al quale auguro, dopo le traduzioni in numerose lingue, che il romanzo torni a sé, torni, gioioso, a ritrovare il suo autore.

. Un lungo silenzio, poi continuò: .
p.122

Aspettava, ma senza essere inquieta. Aspettare non le dava fastidio. Aveva imparato presto che per una persona che non può camminare e che dipende dall’aiuto degli altri aspettare è naturale. La pazienza era per lei una cosa ovvia, e si meravigliava delle persone che avevano sempre fretta.

L’attesa apparteneva al suo ritmo di vita in maniera così profonda, che Mi Mi quasi si dispiaceva ogni volta che un suo desiderio veniva esaudito troppo velocemente. Il tempo dell’attesa era fatto di momenti, di minuti o anche di ore di pace, attimi di sospensione, in cui in genere era sola con se stessa. E lei aveva bisogno di quelle pause per prepararsi a qualcosa di nuovo, a un cambiamento.
p.163-164

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    02 Novembre, 2015
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Zazie e Parigi

“…perché non si dovrebbe sopportare la vita quando basta un nulla per togliervela? Un nulla la mena, un nulla l’emana, un nulla la mina, un nulla l’allontana. Chi altrimenti sopporterebbe i colpi della sorte e le umiliazioni d’una bella carriera, gli imbrogli dei droghieri, le tariffe dei macellai, l’acqua dei lattai, i nervi dei genitori, le furie dei professori, gli strilli dei sergenti, la turpitudine degli assicurati, i gemiti degli assassinati, il silenzio degli spazi infiniti, l’odore dei cavolfiori o la passività dei cavalli di legno, se non si sapesse che la malvagia e proliferante condotta di poche infime cellule (gesto) o la traiettoria di una pallottola tracciata da un anonimo involontario irresponsabile potrebbe venire inopinatamente a far sì che tutti quegli affanni svaporassero nell’azzurro del cielo?” p.89

A Parigi la prima volta, Zazi non salirà mai sulla métro ma volendo e tentando di prenderla incontrerà personaggi surreali e stravaganti. Due giorni veloci di impertinenze e parolacce mescolate ad adulti d’infanzia e a bambini di saggezza.

Con il linguaggio derisorio e le trascrizioni fonetiche, chi legge vive episodi surreali accanto a persone libere, gioiose e tristi che accolgono le ore con leggerezza e intensità. L’esistenza come una filastrocca: la rima l’aspettiamo e ugualmente sorprende sempre.

“L’essere o il nulla, ecco il problema. Salire, scendere, andare, venire; tanto fa l’uomo che alla fine sparisce. Un tassì lo reca, un metrò lo porta via, la torre non ci bada, e il Pànteon neppure. Parigi è solo un sogno, Gabriel è solo un’ombra (incantevole), Zazie il sogno d’un’ombra, poco più di un delirio scritto a macchina da un romanziere idiota (oh! mi scusi)…” p.67

Alla scoperta delle varie espressioni di sé, i numerosi , ogni persona incontra la sua parte Zazie: irriverente, drammatica, ironica, scostumata e linguacciuta - ricordo il rimprovero paterno! –
- Allora, ti sei divertita?
- Così.
- L’hai visto, il métro?
- No.
- E allora, che cosa hai fatto?
- Sono invecchiata

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Romanzi storici
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    02 Novembre, 2015
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Passioni durante la Storia

Romanzo interessante: la Storia si studia anche così, attraverso le storie di Ksenija Fëdorovna Osolin e Max von Passau. Mentre i due innamorati si cercano e si cercano e si tormentano e si tormentano - perché se no che grande amore sarebbe ?! – le lettrici attraversano vicende, usi e costumi, odi e vergogne, ideologie e impegno politico di un periodo d’ombre oscure, dal febbraio del ‘17 all’aprile del ’45.

Parigi, San Pietroburgo, Berlino e poi ancora Parigi, per sempre: scenari di una relazione artistica a lungo custodita in un’epoca che, proprio attraverso la sua ferocia, ha visto maturare tenacemente le sue luci, le ragioni per continuare a coltivare la speranza.

Sono le relazioni sane che salvano l’umanità, il cercarsi volto a volto, parola a parola, in un confronto e in un conflitto di generazione e di genere che costruiscono ipotesi nuove di discorsi femminili e maschili e non solo antropologie che confermano il predominio sessista di un genere soltanto.

Le donne studiose, scrittrici accurate e serie ci invitano e volentieri noi lettrici rispondiamo.
“…la vita è quella fiamma che guida ciascuno di noi. È credere in qualcosa che non per forza deve essere tangibile, in qualcosa che non si misura ma che c’ispira e ci permette di diventare migliori di ciò che siamo…” (p.329)

“Il generale era accasciato di traverso sulla poltrona. Metà della faccia era stata squarciata dalle pallottole. Un occhio era scomparso. Parte del cranio e del cervello erano schizzati sullo schienale della poltrona. Era indecente, osceno. Pietrificata, Ksenija si rese conto che stava osservando l’interno stesso di suo padre….. inorridita, i pugni stretti, rovesciò indietro la testa. Un urlo eruppe dalle sue viscere, un grido venuto dalle tenebre che le squarciò il ventre e i polmoni e le dilaniò le corde vocali, quel genere di urlo che arriva da un tempo immemore, un tempo che precede qualunque nascita, che precede anche la prima luce del mondo, un urlo che sa di terra e di cenere, di sepoltura.” (p.31)

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    01 Novembre, 2015
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La compagna di viaggio

Intensa e breve è la storia di Sumire e di My? raccontata da un giovane senza nome, innamorato di Sumire che, a sua volta, è innamorata di My?.

Un romanzo di percorsi interni e di viaggi, di confessioni scritte, di sogni urgenti e profetici, di volti cercati e persi. La vera protagonista è la strada: essa viene incontro, si svela, convince, distrae, si perde e ci ritrova. Sullo sfondo il mondo solitario e ricco di presenze di Jack Kerouac.

“Così continuiamo a vivere la nostra vita, pensai. Segnati da perdite profonde e definitive, derubati delle cose per noi più preziose, trasformati in persone diverse che di sé conservano solo lo strato esterno della pelle; tuttavia, silenziosamente, continuiamo a vivere. Allungando le mani, riusciamo a prenderci la quantità di tempo che ci è assegnata, e poi la guardiamo mentre indietreggia alle nostre spalle. A volte, nel ripetersi dei gesti quotidiani, sappiamo farlo anche con destrezza.” p.212

Chi legge non sorride della fatica di un solito menage a trois, ma ha il privilegio di sperimentarsi come compagno/a di viaggio, come prossimo, come vicino di luce e di ombra.

“Tu sai cosa significa in russo? E’ quello che in inglese si direbbe travelling companion. Compagno di viaggio. L’ho scoperto recentemente, consultando un dizionario.” p. 102

L’invito è a scoprire la propria dimensione di compagno/a di strada, irrinunciabile. Ogni persona svolge, più o meno consapevolmente, il ruolo di : eletta e condannata alla strada da percorrere, per presenza e per assenza, assieme.

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Romanzi autobiografici
 
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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    01 Novembre, 2015
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Memoria da custodire

La memoria e il ricordo, a 60 anni, assumono valore di valutazione e di coscienza nuova. Nel libro non c’è autocelebrazione, ritrovo lo studio e la ricerca della storia italiana, partendo dalla testimonianza di eventi privati che, al contempo, sono pubblici, esprimendo, ogni singola persona, la vita della comunità.

Walter Veltroni scrive con lentezza e precisione, scrive con un linguaggio semplice, scrive bene. E’ memoria colta, è ricordo istruito: ogni ginocchio sbucciato richiama un evento storico, in ogni gioco d’infanzia riconosco un pezzo d’Italia, ogni frequentazione racconta, anche, una pagina di storia pubblica.

Il respiro dei seicento lecci del Parco dei Daini offre, al nostro autore, la possibilità di fare pace con il passato faticoso, con la morte prematura e inaccettabile del suo papà: l’essere umano possiede il dono della reminiscenza, per divenire consapevole.

La serenità che traspare da ogni pagina è concessa, oltre che dal lavoro di consapevolezza personale, anche dalla sicurezza sociale raggiunta dall’autore. Riconosco il privilegio di scrivere i propri ricordi perché tutto il resto è a posto, i figli, la pensione, il lavoro, la casa. Ma, davvero, a sessant’anni, gli uomini e le donne, oggi, possono godersi i luoghi e i particolari senza gli affanni del quotidiano che preoccupa? “Il silenzio è il privilegio di chi ha il tempo per stare insieme”(p.165).

La scrittura di Veltroni è poetica e dolce e, confermo, sono “le parole, la cosa più bella della vita”(p.69). Godo dello spazio bianco nelle pagine scritte, dell’aria fra le righe, del respiro ampio degli scenari, della sapienza, del sapor nelle confessioni.

“La madre è il qui e ora e sempre, il padre è l’altrove. Il padre è la testimonianza, il modello, un’idea di ciò che è giusto. Il padre è poster da contemplare e totem da abbattere. Il padre e la sorgente dell’eredità, è l’autorità da cui trarre il senso di giustizia e l’autorità da contestare. La nostra è diventata una società di fratelli, orfana di padri.”p.86

Intuisco l’influenza della prospettiva teorica di Massimo Recalcati: avrei preferito che Veltroni raccontasse il cammino libero della propria coscienza, senza letture adattate che rischiano di togliere autenticità e di aggiungere una misura e una visione obbligate e ristrette dell’esperienza. Apprezzo Veltroni quando si libera dell’adattamento e della versione della vita politicamente corretta.

Rimangono, pericolosamente urgenti, i problemi legati alle ideologie, ai fascismi, al ricambio generazionale, ma questi, parola di psicologa, sono altri discorsi, fra il sé e la genitorialità.

“Mi piacciono gli esseri umani che, per uscire dal labirinto, usano le risorse del genio e della fantasia. Mi piacciono quelli che rischiano di bruciarsi ma non vivono sbattendo annoiati contro le pareti del labirinto. E ho sempre amato le persone che cercano la via d’uscita con la propria testa e non seguendo manuali già scritti. Apprezzo, più di quanto abbia mostrato, gli irregolari: quelli che sembrano avere una bussola impazzita in mano ma sono in realtà rabdomanti, mossi nel loro cammino da vibrazioni che vai a capire se vengono dal loro istinto o dalla presunzione dell’acqua.”pp.205/6

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    28 Ottobre, 2015
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Relazioni belle

“Ho preso il virus della felicità, la notte scorsa,
mentre cantavo con le stelle!
Hafez, Divan

Nell’ottocentesco palazzo Anna Karenina di avenida de Florida a Buenos Aires, gli appartamenti dell’ultimo piano sono divisi solo da grandi vetrate. Esse facilitano lo scambio, la curiosità e la complicità della piccola e insolita comunità. Allo scoppiare della guerra per le Falkland tra l’Inghilterra di Margaret Thatcher e l’Argentina, un gruppo di fuoriusciti iraniani, riempie d’anima e di versi l’istituto di bellezza che Zadi avvia per sopravvivere, competente nell’antica arte del band andazi, la depilazione con il filo.

Per tutta la durata del libro, chi legge vive in un luogo di luce, in cui ogni persona dice di sè e delle proprie esperienze e pensa e ricorda e ridecide insieme alle altre, intorno al corpo e alla bellezza che matura e che cambia. Veniamo al mondo perché desideriamo essere felici e perché vogliamo raccontare, come Sherazade, cara a tutte le donne persiane.

Una spa, salus per aquam, non si può che pensare così, e questo è il programma: “Era stato questo a conquistarlo, della rivoluzione: il cambiamento interiore, ciò che succedeva a una persona quando cominciava a ribellarsi, a mutare dall’interno e a diventare qualcun altro. Per lo stesso motivo amava la poesia, ed era attratto dalle parole. Comprendeva a fondo l’appello contenuto nei versi. Rivolta: cambiare direzione, e poi cambiarla di nuovo.”p.51

Rinunciare alle vite impacchettate secondo copione, eliminare i vissuti parassitari, godere dell’essenziale e rendere il quotidiano una storia comune a cui partecipare: Marsha Mehran, attraverso i suoi personaggi, critici e commossi nelle loro confessioni, non ha vissuto invano i suoi 36 anni.

“Tornando a casa, quella sera, la nonna le raccontò il seguito della storia delle rose. p.57


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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    28 Ottobre, 2015
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Pensavo fosse amore...

Sono testimone, da lettrice, della storia fra David Axelrod e Jade Butterfield, raccontata in modo accurato e appassionato. È un amore che seduce e inganna, che brucia e ricorda, che maledice e rinasce, che insegue e rilancia, insomma, è un amore infinito.

David è l’espressione della parte genuina di ogni persona o personaggio di una inconsapevole e pericolosa incoscienza? Sono convinta che il cammino verso la maturità preveda l’eccesso vissuto con leggerezza e noncuranza, senza prendersi sul serio. David vuole a tutti costi recuperare l’amore con Jade per riprendersi una situazione, un momento di sé in cui si è sentito migliore.

è disturbo di relazione.
Non lo chiamo amore, ritrovo semmai nel romanzo il conflitto generazionale, la mancanza di protezione per sé, la simbiosi con l’altra persona, la contaminazione pericolosa e persistente fra sentimenti, pensieri e comportamenti. David non ama Jade, rivuole se stesso di allora, adolescente senza limiti che chiede di allungare e allargare la propria onnipotenza.

L’amore che i due giovani riconoscono vive nel passato e nel futuro; essi chiedono l’amore senza contesto, senza realtà, pretendono di essere magia e fantasia e istinto e miracolo e voglia … ed è solo follia!

La controdipendenza rappresenta una fase di crescita di ogni adolescente amato da adulti consapevoli. Nel romanzo, leggo con interesse le relazioni basiche e primordiali in cui si contaminano amore e morte, sessualità e legami affettivi fra figure genitoriali sbiadite, irrisolte e figli che fanno da genitori a mamma e papà, ascoltandone i segreti, le paure, le fantasie sessuali.

La sessualità è legata alla relazione e non esistono problemi sessuali che non siano, anche, relazionali.

Nel romanzo, seguo un gioco estremo , con un tormento di domande generiche e di risposte incerte. Talvolta, è un bene evitare l’eccesso di comprensione e di analisi. Perché l’altro/a si comporta così? Non lo so, è la risposta, lo capiremo vivendo nella relazione.

In fondo, si ama, come si vive, con la stessa pienezza e mancanza. David afferma: “…la mia vita proseguiva senza di me”p.331: è questa l’illusione pericolosa, è lo sdoppiamento, è il dissipamento patologico che prevede tante vite e non, al contrario, tante espressioni di sé in un unico nucleo.

“La stessa passione di sempre e nessuna vera possibilità: ecco il genere di follia verso cui sembravo avviarmi”p.333. Il disturbo è nell’idea che . Il sollievo è nel movimento, nel cambiamento, nella possibilità diversa.

Tutti i personaggi soffrono molto e gioiscono poco e male, perché in un’ossessione non c’è mai nulla di romantico e di felice. La tristezza, il dispiacere, la rabbia, sono raccontati da una scrittura sapientemente sarcastica che non cede al pietismo.

La fine del romanzo è significativa: “E adesso per l’ultima volta, Jade, non m’importa né domando se sia pazzia: io vedo il tuo volto, ti vedo, ti vedo, in ogni posto ti vedo”p.581. Sempre, è la fine di una storia fra due persone che rivela l’amore che è stato e rivela l’autonomia degli innamorati coinvolti.

“Non ero migliore di quelli che fanno telefonate oscene, pubblici disturbatori, tagliatori d’orecchi, suicidi eccentrici e accusatori, fruitori di investigatori privati; non ero migliore d’un qualche sovrano medievale pronto a scatenare un esercito di diecimila anime pur di guadagnarsi i favori di qualche lontana damigella – e quando i campi sono poi bruciati e i cadaveri giacciono a mucchi sotto il sole, quel re si stringerà una mano al petto esclamando: l’ho fatto per amore.”p.36


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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    27 Ottobre, 2015
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La presenza che insegna

“Il mare si oscura – grida di ore selvatiche – vago biancore”

La narrativa giapponese mi cura, mi accudisce con dolcezza e lievità, con la luce di un autunno anticipato per dolore. Il mio apprendimento è negli haiku di Bash? che, naturalmente, all’inizio, innervosiscono il mio udito di animale occidentale.

Non mi riconosco una lettrice voyeuse ed evito le storie d’amore urlate, spiate, sofferte. Non sono interessata all’esito finale dell’intreccio amoroso, ma alla trasformazione dell’amore nelle situazioni diverse dell’esistenza.

Tsukiko, un nome formato da due ideogrammi, luna e bambina, a 38 anni, nubile, sola e solitaria, rincontra casualmente e frequenta saltuariamente, soccorsa dal caso, il prof, come lei lo chiama, suo docente di liceo, settantenne e vedovo. Tsukiko, come me, mangia mele per riflettere: “Non è con la me stessa visibile che sto parlando, ma con quella invisibile, con la parvenza infinitesima di me che fluttua per la stanza.”p.66

“Camminiamo insieme, uno accanto all’altra”p.160, è il proposito ed è il contratto di apprendimento che non verranno mai meno fra Tsukiko e il professore. Andar per cimiteri e passeggiare amorevolmente fra le tombe non è per i due rituale macabro. È la metafora dell’innamoramento verso la guida genitoriale, come il passaggio naturale verso l’autonomia dell’età adulta. I due vivono una simbiosi accuditiva che svanisce con l’alba della maturità.

“Diamoci appuntamento” assume valore di un’attesa, di un richiamo, di una promessa, di una possibilità, gustando manicaretti giapponesi, innaffiati da molto sake: balena affumicata, alghe sott'aceto, fagioli fermentati con tonno, frittelle di radice di loto. Infine, i due personaggi si ritrovano senza darsi appuntamento, condividono cibo senza lunghi sguardi né dialoghi, si lasciano amare l’un l’altra con la delicata presenza.

Mi abituo all’idea che in una relazione è anche l’aspetto inespresso, negato, provvisorio che dura e che riconduce all’infinito e all’amore. Da lettrice occidentale abituata al peso della rivoluzione e della rottura, riscopro il cambiamento lento delle stagioni, il ricordo dolce-amaro, la cortesia e la discrezione dei monosillabi, le interazioni riservate, la profondità delle confidenze delicate.

Il professore rimane solenne, noto con il suo cognome, solo, perché è il ruolo di maestro che conta. Il suo amore si esprime nella guida, nell’accompagnamento. Harutsuna, si chiama, e lo saprò nell’ultima pagina, nella cartella vuota: non può che essere vuota, perché tutto è stato consegnato.

E’ un libro come un’operazione chirurgica sull’anima, fatta con il bisturi che sfiora lievemente. Il dolore arriverà dopo e non svanirà. E l’invito a vedere i ciliegi in fiore varrà per sempre, mentre la pace, sorella lontana, mi sorride sorniona da ogni pagina.

“Cresce perché lo nutri… L’amore più o meno si riduce a questo… Se era un grande amore, era indispensabile prendersene cura, come si fa con una pianta dandole fertilizzanti e proteggendola dalla neve. Se invece era un amore da poco, bastava non occuparsene e si poteva stare tranquilli che prima o poi sarebbe morto.”p.146

“Ho smesso di chiedermi con angoscia quali siano le sue intenzioni. Non cerchiamo di rendere il nostro rapporto né più intimo né più distante. Lui da vero gentiluomo, io da vera signora. Una relazione delicata. Delicata, durevole, e priva di particolari aspettative. Ormai è deciso così, per quanto io cerchi di avvicinarmi, lui non mi permette di farlo. Come se tra noi ci fosse un muro d’aria. In apparenza una barriera morbida, che non offre resistenza, ma quando si prova a comprimerla, rimanda indietro ogni cosa.”p.157/58

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    27 Ottobre, 2015
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Libri che salvano

Una donna non necessaria, una donna inutile, è il titolo originale del romanzo imperdibile di Rabih Alameddine, nato in Giordania nel 1959 da genitori libanesi e approdato a San Francisco in America dopo aver vissuto in Kuwait, Libano e Inghilterra.

La traduttrice è Aaliya Sobhi, che a 72 anni vive da sola nel suo grande appartamento di Beirut, tra ricordi, timori e insonnia. E’ una libraia e la sua passione è tradurre per sé, uno all’anno, in arabo, i classici della letteratura, dalla versione inglese o francese. Aaliya, la sublime, la folle (p.26), è una donna emancipata e libera dal conformismo. Decide, dinanzi alla frustrazione, di portare avanti il piano B della sua vita.

Con ironia, come solo chi guarda la realtà può permettersi, Aaliya sceglie di praticare una sottile forma di libertà: la lettura e la vita nei luoghi delle sue persone preferite. Fernando Pessoa, Tomasi di Lampedusa, Javier Marías, Roberto Bolaño, Claudio Magris, Marguerite Duras, Alice Munro, sono una diga che Aaliya erge per governare il tempo della sua esistenza. Non una vita di carta, ma di carne, mentre fuori infuria una guerra che, tra il 1975 e il 1990, sconvolge il Libano e che trasforma giovani pacifici in spie e assassini, costringendo la pacifica Aaliya a dormire con un Ak47 accanto.

“Io, come tutti, voglio spiegazioni, in altre parole, estraggo spiegazioni dove non esistono.” p.104
“Nessuno di noi sa affrontare la natura aleatoria del dolore.” p.105

“Avevo poco tempo per un dio, il quale aveva poco tempo per me. Mentre crescevo non avevo tempo da perdere con un Dio. Emmanuel Lévinas suggerì che Dio se ne era andato nel 1941. Il mio se ne andò nel 1975. E nel 1978, e nel 1982, e nel 1990.” p.215

Un brutto giorno, le vicine di casa, Joumana, Marie-Thérèse, Fadia soccorrono, dopo un temporale, le traduzioni delle traduzioni allagate e stendono e stirano e asciugano con il phon ogni foglio, tutte le vite possibili dei romanzi, riprendendosi respiri e opzioni di cambiamento. Le pagine salvate, stese a rinascere, come garanzia di un futuro possibile, come campane tibetane, come bandiere di libertà.
E’ infelice e, dunque, Aaliya si trasforma sempre più in una traduttrice: traduce e, insieme, trasferisce, conduce, interpreta, tradisce, spiega e produce trasformazioni, facendosi beffa di una esistenza limitata.

L’antidoto e la cura alla tristezza e alla paura rimane scegliere se leggere e tradurre Marguerite Yourcenar o John Maxwell Coetzee. E, così, sola e immaginata, la vita può essere assolta e può attendere.

“Una volta, Alain Robbe-Grllet scrisse che la cosa peggiore che capitò al romanzo fu l’arrivo della psicologia. Si può supporre che intendesse dire che oggi tutti noi ci aspettiamo di capire la motivazione dietro le azioni di ogni personaggio, come se fosse possibile, come se la vita funzionasse a quel modo… la perdita di mistero. Il voler tirar fuori la casualità ci rende dei lettori ottusi. Eppure capisco il desiderio, perché anch’io desidero vivere in un mondo razionale. Desidero capire perché mia madre ha gridato… Purtroppo non capisco…”p.103-104

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    26 Ottobre, 2015
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Gatto da favola

“Non è che non mi piacessero i gatti: semplicemente mi sentivo diverso da quelli a cui piacciono. O forse, più che altro, non avevo familiarità con quegli animali.”p.8

Talvolta voglio solo la favola. E questa è una storia gentile e ariosa. Ed è raccontata da un poeta giapponese a me sconosciuto, Hiraide Takashi che si permette il lusso della trasparenza, del fluire lento dei fatti, della semplicità che dondola, della nenia che ispira.

Chibi, la gatta, rimane l’ospite non cercata, la compagnia non richiesta, il fastidio che si poteva evitare. Silenziosa, s’infila, non miagola, guarda lei, la correttrice notturna di bozze, e guarda lui, il redattore mortificato, tutti e due abbastanza infelici, stranieri a se stessi. Nella casa padronale alla periferia di Tokio la felina s’impone come un fenomeno naturale, come il fulmine, come la nuvola e non rispetta i confini e si intrufola e va e viene al ritmo delle sue zampette.

“- Per me, - disse, - Chibi è una buona amica a forma di gatto!”p.39

La storia accade alla fine degli anni ottanta e alla fine del regno dell’imperatore Hirohito, a cui segue la bolla speculativa: pare che sia il caso a governare gli eventi e a generare confusione. Ma il destino è Chibi, l’esterno che invade, l’intrusa che chiarisce. La gatta crea sospetto e indifferenza, i coniugi non la vogliono ma si dispiacciono, non la cercano ma non l’allontanano.

Chibi è solo una gatta ma è l’imprevisto che s’impone, la presenza che rallenta, la pigrizia che innervosisce, la sonnolenza che ritempra, è lo scatto immediato e pronto che s’incanta.

Ed è subito romanzo, ed è poesia, è diario, è memoria, è cambiamento.

“Chibi fu il nostro primo . I sono delle persone che girano per le case a fare gli auguri per il nuovo anno. Caso singolare, il beneaugurate in questione entrò dalla finestra e, per di più, non disse neanche una parola d’augurio. Però sembrava sapere esattamente come inchinarsi in un bel saluto con le zampette anteriori unite davanti a sé.”p.35-36
?

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    26 Ottobre, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Invecchiare è un gioco serio

È un romanzo serissimo sulla violenza delle relazioni manipolative, sull’onnipotenza e sul limite degli esseri umani, sulla perdita, sulla evoluzione del desiderio sessuale.

La dissacrante, ironica, viva Erica Jong ci consegna il diario personale dei fatti, dei sentimenti, dei pensieri che accompagnano la sua esperienza consapevole di donna, di moglie, di madre, di figlia, di amica. E se la prima coscienza di sé manifesta la paura di volare, Fear of Flying, la coscienza dell’età adulta è Fear of Dying, è paura di morire. Scelgo di mantenere il titolo originario.

La libertà è il risultato della fatica di capire e di rimanere nelle situazioni, della fatica di scavare e di andare indietro. La libertà è l’onestà di dirsi le cose come stanno. Per questo dichiarare la paura di volare e la paura di morire è, in fondo, desiderio ed espressione di vita.

L’esistenza è esperienza di Eros e Thanatos, di vita e morte, di sessualità e dolore, di impotenza ed energia. L’indagine sull’evoluzione pubblica e privata del proprio sé, è accompagnata dalla presenza di Isadora Wing, amica di sempre, confidente fidata, grillo parlante affettuoso e non persecutorio.

“Gli antichi greci credevano che i sogni potessero curare. Se dormivi nel tempio di Esculapio, potevi guarire sognando”(p.23). L’essere umano è corporeità, è relazione, è immaginazione.

Vanessa Wonderman ha 63 anni “spacciati per cinquanta” (p.150) e scrive di sé e delle sorelle Antonia ed Emilia, preoccupate e indaffarate nell’accudire i genitori anziani. Scrive della figlia incinta, da accompagnare alle periodiche visite mediche e del marito, Asher, di quindici anni più anziano di lei, spaventato per la salute malferma, che perde memoria, mobilità, entusiasmo.

Tre generazioni di donne che si confrontano e che arrivano alla comprensione più profonda della felicità, ad una comprensione più triste e autentica della vita condivisa con chi è prossimo.

Al bando condanne, pregiudizi e sensi di colpa, la protagonista cerca legami e parole significative, complicità e supporto più che possesso e ipocrisia. Convince l’atteggiamento schietto e opportuno della donna, ricercatrice spaventata e meravigliata, eccedente, mai politicamente corretta.
Nella esperienza quotidiana, talvolta, manca il lavoro di lettura possibile, il discernimento e l’autonomia.

L’assenza di perdono e di protezione può diventare malattia. Offrirsi il permesso di pensare, di raccontarsi, di sperimentare le relazioni, significa generare nuovi significati, mettere al mondo opzioni colorate, attendere gioiosamente i cambiamenti verso l’età adulta e la vecchiaia.

Oltre la traduzione infelice e inappropriata del titolo, auguro il coraggio di godere del romanzo e dell’heure bleu, la sfumatura del cielo che spezza il cuore: non è più giorno e il tramonto occhieggia alla notte.

“Anch’io appartengo al Più Più Più Club.” p.184

“Quando sei giovane, la tua energia è così abbondante che pensi di fare qualsiasi cosa, ma è anche priva di una direzione specifica. Quando invecchi, devi incanalare la tua energia, perché è limitata.”p.109

“Quando sei giovane, ti manca la prospettiva. Pensi che la vita duri per sempre… pensi di non dover scegliere… Ma il tempo, già tuo amico, diventa tuo nemico… E tu vorresti solo poter tornare indietro e rifare tutto da capo, correggere gli sbagli, sistemare le cose”p.110

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    23 Ottobre, 2015
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Onnipotenti e spaventati

I gialli, in fondo, richiamano più di altri romanzi le conoscenze e gli studi psicologici. Danno ragione delle ombre di ogni persona e, come attraverso le scienze umane, riemergono gli scarti, le separazioni, le parti di un io infelice e ossessionato che si difende e che sopravvive.

Fernand Ravinel si costruisce deliri giacché la storia vera prevede la sofferenza della responsabilità. E, allora, è meglio raccontarsela, la vita, meglio ideare figure che recitano copioni sicuri e predisposti. Nel romanzo incontro persone e personaggi in una nebbia d’identità che avvolge il quotidiano reale. Ogni persona aiuta il personaggio perché pensa sia possibile avere due vite o costruirsene una apposta, su misura.

Fernand ha paura di affrontare e vive da morto. E’ nato già orfano, gettato nella quotidianità.
I diabolici, dunque, astuti, maligni e perversi, per indagare l’avidità e l’onnipotenza che divengono malattia e disegno di morte. Fernand manifesta la coscienza di essere colpevole prima della colpa che, quando accade, è una liberazione perché dichiara una certezza.

Fernand Ravinel non è più un poveretto, adesso è un assassino che possiede dignità e forza. Ma il delitto non funziona come accensione per il pusillanime. E il destino, senza governo, può compiersi.
Lucienne non è l’amante complice, ma l’ombra di sé che Fernand visualizzata all’esterno, perso in un dialogo interiore, in un immaginario senza uscite, senza opzioni.

Fare la vittima produce numerosi tornaconti che la realtà di chi è vittima davvero non offre.
Anzi, il dolore della sottomissione e del giogo di chi è oppresso, spesso, accompagnano uno scatto di dignità e una autonomia insperata.

Un essere umano impazzisce quando il dolore della realtà è insopportabile e chi uccide o si uccide, è solo per continuare a vivere in modo diverso.
La letteratura psicologica francese dei grandi Boileau-Narcejac va, d’un fiato, come un tuffo nel cuore gelido della vita. Il finale “à suspense” è per me lettrice aprire gli occhi e risentirmi la vita addosso, vera e tragica.

“Il suo delitto è dovuto ad una concatenazione di circostanze insignificanti, di piccole viltà a cui ha ceduto per indolenza. Se un giudice, uno come il padre di Lucienne, lo interrogasse, lui risponderebbe in perfetta buonafede: . E poiché non ha fatto niente, non ha rimorsi. Per avere rimorsi dovrebbe pentirsi. Pentirsi di cosa? A quel punto dovrebbe pentirsi di essere quello che è. E non avrebbe senso.”p.59

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    22 Ottobre, 2015
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La ricerca e l'attenzione

A ferragosto, che giallo sia. Considero Alicia Gimenez Bartlett eccellente nel tipizzare i personaggi: li vedo, li sento, li riconosco attraverso i linguaggi e le cere. Come lettrice sono guidata a conoscere la storia di ogni persona, a comprendere ogni vita, a ragionare su ogni esperienza esistenziale e non soltanto a trovare con ossessione il colpevole.

Pedra Delicado, ispettora della polizia di Barcellona, alle prese con l’assassinio di un barbone dalle scarpe lussuose, certo non gradirebbe la scelta di genere. All’inizio. E io considero Pedra consapevole mentre sovverte i codici di dominazione e violenza, mentre sceglie le comunicazioni forti, profonde e non la forza del ruolo.

Durante l’inchiesta, accompagna se stessa nel passaggio da una sopravvivenza tutta al maschile, di comando, di potere, di efficienza, ad una vita di cura di sé e degli altri, di comprensione dei processi, di intuizione che parte dalla propria storia. Alla fine, l’ispettora è una persona migliore, lavora su più fronti con tenacia, accompagna la natura del proprio carattere, gode dei tempi diversi e delle numerose situazioni.

Nelle interazioni ironiche, pensate e leggere, apprezzo il rispetto, l’ascolto, la scelta di capire prima di agire, il personale e il professionale che combaciano, giacché si è sempre ciò che si è, nel pubblico e nel privato. E’ una storia di relazioni, in cui i personaggi si interrogano sul senso della vita, sulla responsabilità, sulle scelte morali, prima ancora di trovare i colpevoli. Comunque vada la ricerca, la verità sarà messa al mondo e gli assassini sono già sconfitti, perdenti, poveretti alla ricerca di liberazione da sé.

Il bastimento carico di riso è, in fondo, la costanza della ricerca e l’attenzione al particolare.
Ad ogni lettore e lettrice, un’intera risaia.

“Tutti i falliti hanno dei sogni. Le persone di successo hanno aspirazioni… Non sognano bastimenti carichi di riso… Non esistono sogni per cui valga la pena di lottare troppo. Appena si realizzano non ti dicono più niente. I migliori sono quelli che la vita ti regala senza bisogno di far niente.”p.440

“Vede, viceispettore, un barbone ha una sua grandezza: è come un santone, come qualcuno che ha raggiunto la vera saggezza, o un livello superiore di conoscenza. Un barbone può permettersi di non dare alcun peso alle miserie quotidiane che ci opprimono, vive libero come l’aria, è superiore.”p.12

“Quando ci si può ritenere completamente liberi dalle ombre e dai dubbi che l’altro sesso proietta su di noi?p.247

“E poi, i donchisciotte sono sempre stati maschi, mentre sembra che le donne debbano occuparsi esclusivamente degli aspetti pratici e realistici della vita. Bene, questa volta sarebbe stato il contrario.” p.46

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    22 Ottobre, 2015
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Persone d'Italia

Per le sue opere, grazie a Sebastiano Vassalli, morto il 27 luglio scorso.
Era il 2007 e non gli credevo, leggevo ma pensavo fosse arrabbiato e senza soluzioni, triste e malmostoso. Adesso penso che Vassalli non abbia avuto bisogno di fare il simpatico e il positivo per forza, lui era sincero e studioso in maniera dura e disarmante. Era reale.

Giulio Bollati e Sebastiano Vassalli si dilettano a raccontarsi fatti e persone sotto l’albero dei cachi. Questi scambi sono, molti anni dopo, organizzati dal nostro autore in undici capitoli che compongono il romanzo L’Italiano. Ritrovo personaggi, eventi ed epoche storiche diverse che delineano un unico carattere nazionale che, in questo periodo, ritorna e mi tormenta.

Il doge, il prete, il commendatore, il padre della patria, il signor B.: copioni italiani perdenti perché potenti, uomini cialtroni, incompetenti, chiassosi, vili e sporcaccioni, condannati alla lallazione perpetua. Sfila una italianità piccola piccola: il pensiero corto, il respiro breve, la cultura leggera, il sorriso facile, la battuta risolutiva, compongono il quadro dell’homo italicus.

“Sei stato tenuto a balia per mille e cinquecento anni da una religione, e questo ha influito sul tuo carattere rendendolo infantile”p.140

Così, nel romanzo, il Padreterno condanna l’Italiano alla permanenza nel Limbo, sospeso a vagare in una patologia che non può venir meno perché regge la stessa identità.
Voglio ricominciare dal nono capitolo, da Sibilla Aleramo, impegnata e cocciuta, persa e consapevole nella storia con Dino Campana, nume tutelare di Vassalli che gli dedica La notte della cometa. Ricominciare dalla notte.

“L’Italia non è soltanto quel paese vecchio e sostanzialmente immobile di cui ti ho parlato: è anche due paesi in uno. C’è il Paese Legale, che è sotto gli occhi di tutti, e c’è il Paese Sommerso: il paese illegale, che tutti più o meno fanno finta di non vedere e che è più forte in alcune regioni e in alcune grandi città, e meno forte in altre regioni. Il Paese Sommerso ha le sue leggi, diverse da quelle del Paese Legale. Ha la sua politica (o le sue politiche) e ha la sua economia…”p.130-131

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    21 Ottobre, 2015
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L'eccezione della verità

Ci sta, una storia di neve, di un inverno inesorabile, ci sta il mare d’Islanda, nero e gelido, il silenzio nobile e maestoso dei fiordi. Scopro l’impronunciabile Auður Ava Ólafsdóttir e il suo ultimo romanzo di cultura nordeuropea, di confine e di umorismo.

In alcuni periodi le verità si svelano, tutte insieme, in modo anche violento e creano sofferenza. Così è per María, madre di due gemelli, Berþóra e Björn, e donna impegnata in una organizzazione non governativa. Per undici anni è l’eccezione nella vita di suo marito, compagno disponibile, accogliente, tenero, il quale decide di fare coming out la notte di Capodanno. I due uomini, omonimi, Flóki e Flóki – un sorriso già solo a nominarli – decidono di condividere la loro vita personale e professionale di ricercatori universitari.

Apprezzo la scrittura che scorre gradevole e i personaggi senza tormenti e pregiudizi sociali: stanno bene e, spensierati ma non superficiali, affrontano con energia il dolore, l’abbandono, la responsabilità. Nelle relazioni, la superficie e la lievità, non indicano necessariamente la mancanza di impegno e di responsabilità.

Le reazioni drammatiche e tormentate non sempre sono segnali di consapevolezza. In questa storia ogni donna e ogni uomo cerca di capire, è disponibile a parlare, a raccontare il dolore e le soluzioni. María è sorpresa e risentita, ma lascia andare suo marito, come lascerà andare suo padre, senza approfittare degli eventi per addossare al “colpevole” l’insuccesso della propria vita.

E’ affezionata, ma non in simbiosi con Flóki, attratta ancora dalla sua pelle, ma non dipendente, perplessa e spaventata dinanzi al padre, ma curiosa, sempre. Ama, soffre e non ricatta nessuno!
Alla natura buia, rigida, severa di Reykjavik si contrappone la flessibilità, l’affettuosa ironia, la luce del carattere dei protagonisti.

A Reykjavík la gente è diversa e le persone sono oneste, dirette, congruenti, simpatiche: il vicino di casa, l’ornitologo Stéingrímur e, soprattutto, Perla, una nana con un PhD in psicologia, consulente matrimoniale di giorno, ghost writer per uno scrittore di thriller, di notte. Che sorpresa questa psicologa diversissima che aiuta nell’unico modo possibile, senza la pretesa di salvare, rimanendo ad ascoltare, a pensare, a cucinare assieme, a recitare il Cantico dei Cantici e la Divina Commedia!

Ogni relazione ci cambia la vita, ma non modifica il nostro nucleo. Il proprio trauma ha come confine la libertà altrui. L’apprendimento è lì, in ciò che accade e che non abbiamo previsto, saputo, capito.

Nessuno/a si senta escluso e rifiutato perché l’altro/a ha scelto diversamente. María, adottando una piccola orfana, continua ad organizzare, a decidere, a scegliere la gioia. Il migliore regalo che fa a se stessa e ai propri figli è confermarsi come una persona felice e ferita, felice e spaventata, felice e triste, felice perché tutta intera, piena di vita.

Ma le tre pentole, rabbia di rancore, rabbia di sfida e rabbia di frustrazione, sono, forse, legate ai confini di una geografia sudeuropea afosa e senza respiro?

“C’è una storia che aspetta me…”p.253
“Scusa se sono riuscito ad amarti solo fin qui…”p.11
“Per certi versi, le relazioni con gli uomini sono più semplici. Basta mostrarsi un minimo interessati e praticamente la cosa è fatta. Il problema, con le donne, è che non vengono a letto con te senza una ragione.”p.225

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    21 Ottobre, 2015
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Il calore dei sensi

Nell’esistenza di ogni donna il cambiamento accade, dapprima, senza di noi, senza consapevolezza. Il corpo si racconta le ore trascorse ed è il primo ad accorgersene, esprimendo una sintomatologia che rivela memorie e desideri, che patisce inganni e delusioni, che segnala tempi, spazi e modi diversi per continuare a stare al mondo.

Le storie di Gioconda Belli sono fondamentali per generare le nuove e sconosciute parti di sé e per trasferire in parole i sentimenti, i pensieri e le scelte di quella fase della vita complessa che, velocemente e superficialmente, chiamiamo menopausa, “etichetta che sostituisce la paura di restare incinta con quella del decadimento fisico.” p.110

Emma e Fernando, i figli Elena e Leopoldo, Ernesto e Margarita, Jeanina, la signora Beatriz e Nora si offrono l’opportunità di ricontrattare con dolore e con gioia le loro vite, incrociate casualmente. Partecipiamo, onde dello stesso mare, alla espressione di nuovi io, scalzi, nudi e sicuramente liberi.

Per ogni persona, gli stessi luoghi sono ripensati, scomposti e riordinati, la mappa delle appartenenze richiede avvicinamenti, allontanamenti, intimità e assenze in una prossemica appassionata, mai così considerata.

“Il mare è un caso. Perciò lo paragoniamo alla vita.” p.216

La vecchiaia è cosa diversa che sentirsi invecchiare. Emma, la protagonista, è una borghese ben sposata, annoiata con tante energie addosso e il rimpianto di aver rinunciato alla laurea in medicina, di aver rinunciato a combattere nel Fronte Sud quando in Costa Rica l’Università era infiammata dalla Rivoluzione nicaraguense.

Emma incontra Ernesto, ebanista, ex sandinista, l’uomo che sa abbracciare con gli occhi, l’uomo che si fa strumento di curiosità, di scoperta, di coraggio, di eros.

“Eppure si accorge che c’è qualcosa di diverso in quel che prova. Il suo desiderio è controllabile. Riesce a osservarlo, a metterlo da parte, a conversare con lui senza farsi trascinare. Prova una strana sensazione di potere, si sente adulta, matura. Sorride.” p.109

Dedico la lettura di questo romanzo alle donne del club del ventaglio, alle donne della solitudine ma non isolate, a quelle che scoprono che c’è più tempo che vita (p.119), che decidono di organizzare semplicemente ciò che le circonda (p.223), che si fanno incontrare da compagnie nuove come doni, che accettano relazioni libere e liberate dalle illusioni di una borghesia mefitica e silenziosamente aggressiva, per imparare, infine, ad essere ciò che sono, oggi e nel loro posto.

“La vita di ogni essere umano è una successione di cambiamenti. Non dovrebbero essere una sorpresa, eppure lo sono sempre. la coscienza aleggia in un’atmosfera senza tempo. Scivola lungo i binari della vita come un passeggero attento che guarda fuori dal finestrino, scende in stazioni diverse, accumula o perde bagagli, conquista o scarta compagni di scompartimento. Nel turbine della vita, il corpo è un complice silenzioso. Un bel giorno, però, ci dà un colpetto sulla spalla e ci costringe a prendere atto della sua stanchezza. E, immancabilmente, la nostra mente protesta: lei, l’alata, l’inesauribile, colei che non invecchia mai, colei che è, non accetta di riconoscersi temporanea, effimera. Tuttavia l’annuncio è inevitabile, e accettarlo, ammettere la sua fragilità, è la sfida che ha bussato all’uscio più segreto della nostra Emma.”p.54

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    20 Ottobre, 2015
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Falso è vero

E’ un piacere conoscere Boileau-Narcejac, firma comune di Pierre Boileau e di Pierre Ayraud, detto Thomas Narcejac, scrittori francesi di romanzi polizieschi, le cui opere sono state adattate per il cinema da Alfred Hitchcock e Henri-Georges Clouzot. Questo romanzo non è un giallo, è un viola, con il blu e il rosso del pensiero complesso e della fascinazione erotica.

E’ imperdibile la storia del ventenne Pierre Doutre che, alla morte del padre, illusionista di fama, incontra il mondo circense e la madre Odette, figura triste, donna distante, arrabbiata e spaventata, dunque, esagerata e volgare.

Pierre apprende velocemente l’arte dell’illusione e del trucco, diviene un saltimbanco geniale: ha come maestri personaggi tanto infelici quanto brillanti, seduttivi, fagocitanti. Tutti mettono in scena gli opposti, il doppio e l’uguale, il diritto e il rovescio, lo specchio e la realtà, la percezione e l’intuizione.

Mordeau, Bruxelles, Parigi, Nizza: il carrozzone de diviene la nuova scuola di Pierre in scenari sempre diversi, fra realtà, immaginazione e finzione. Dalla paura dell’abbandono e dalla stanza del collegio, il giovane Pierre non uscirà mai e farà di tutto per rinchiudersi ancora.

Nella compagnia di artisti incontriamo le gemelle Greta e Hilda che rappresentano la scelta inumana di non vedersi, di non distinguersi, manichini atroci che compiono l’atto di fede quotidiano verso la propria onnipotenza. Credono davvero che la maschera sia reale e che la realtà possa farsi beffe della verità.

Come molti uomini fragili, Pierre ama da morire e, di conseguenza, ha bisogno di essere atteso, preso, trattenuto, preteso, usato. Ama da morire e ferisce, manipola, distrugge. Il doppio origina la patologia quando coincide con l’uguale e diviene salvezza solo nel riconoscimento dell’alterità. La relazione unica, libera e privilegiata, non ossessiva, è la relazione che vuole per sé e per l’altro momenti e doni esclusivi, ma non vuole l’altro in esclusiva.

L’essere umano apprende a mantenere la diversità perché sia possibile la vicinanza sana. E’ la diversità che salva lo sguardo narcisistico sull’altro - cerco nell’altro qualcosa che mi assomigli - a favore dell’incontro felice verso altri territori che sono lontani e che si svelano.

“Quale delle due? Ma in realtà sapeva benissimo che se fosse riuscito ad averne una, avrebbe immediatamente desiderato l’altra. Era l’altra che lo ossessionava, l’assente, la prigioniera, il doppio.”p.75

“Gli schiavi potranno mai smettere di essere schiavi? E’ possibile sfuggire al tormento che ti divora l’anima? Sfuggire… Per andare dove?...”p.165

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    20 Ottobre, 2015
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storia gotica e solitaria

Mi attraggono le storie gotiche, i respiri dei luoghi, i silenzi delle case, le memorie che le pareti custodiscono. Parlo, ma non sono da sola, negli spazi della mia storia, rinnovo sempre il "saluto alla casa", insegnamento antico. Temo le località addormentate, senza anime, ma, ancor più, i luoghi delle feste, quelli falsamente vivaci, briosi e in superficie; posti, solo, spaventati e confusi.

Dorothy Hewett, scomparsa nel 2002, australiana, docente di letteratura, è, con le sue lettrici, donna riflessiva e generosa, paziente e luminosa.

Ci sono solitudini organizzate che sono belle, solitudini privilegiate, di nicchia, come quella di Jessica Sorensen, cinquantacinquenne che si allontana da Melbourne per abitare il mare e decide di trovare dimora presso il cottage sull’oceano appartenuto a Miss Hannah, misteriosamente scomparsa, forse ancora viva!

Zane è un piccolo villaggio sulla costa meridionale dell’Australia e diviene presto per Jessica lo spazio spirituale del cambiamento di sé e delle relazioni: con Tom, fratello sieropositivo, con la figlia Beth e la nipote Lulu, con il primo marito, morto suicida e con il secondo, arrogante e anaffettivo.

Jessica è vecchia ed è ancora giovane, è giovane e si sente già vecchia. Come ogni persona, si porta addosso un sacco di anni, molti di più dell’età storica. Perchè il cambiamento umano origina, anche, dal tempo di ogni ambiente che ci segna e che è modificato dalla nostra esperienza vitale.

Le persone veramente solitarie, solitarie non per difesa ma per godimento, sentono gli spiriti e vivono lo spaesamento dei territori. I luoghi ci insegnano, ci cercano, ci lasciano andare oppure ci tengono stretti perché proteggono la libertà. Ci aspettano.

"Le donne sono incredibili" borbottò. "Si ricordano sempre. Tengono i registri del mondo intero". "Qualcuno deve pur farlo". p.79
“Non è certo un futuro roseo, pensò, ma sopravviverò a modo mio. C’era persino una punta di perversa eccitazione in questo. Come la casa in cui abitava, restava salda al suo posto, ad affrontare gli elementi.”p.118
"Perché eri una veggente, non come la maggior parte dei musi bianchi, che non riescono a vedere più in là dei loro bei nasi a punta. Ecco perché ti sei ammalata, non per la broncopolmonite, ma perché hai sempre negato quella parte di te, l’hai tenuta lontana e così ti ha mutilato." p.164

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    19 Ottobre, 2015
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La vita pensata di Petra

“Devo dichiarare che mi considero vittima di un esercizio irresponsabile del potere. Non si può affidare un caso a un professionista solo perché copra un buco momentaneo onde evitare intromissioni di altri commissariati. Così come non si può togliere un caso a un professionista solo perché è in atto una campagna giornalistica infamante, o perché il parente di una vittima si mette a fare l’isterico. Con tutto il rispetto per i miei superiori, voglio sottolineare che questo trattamento ingiusto mi viene riservato per il solo fatto di essere una donna, di appartenere ad una minoranza poco rappresentativa all’interno del Corpo, che può essere messa a tacere o vessata senza conseguenze.”p.138-139

Sono grata alla scrittrice per le ore appassionate trascorse in compagnia di Petra Delicato e di Fermìn Garzòn, ispettori della polizia di Barcellona, immersi nella difficile ricerca di un violentatore che marchia le sue vittime con una specie di orologio a forma di fiore.

È un antropogiallo che illumina di pietas l’analisi dei comportamenti umani complessi.
È così che da adulte la comprensione della vita personale coincide con la coscienza della vita professionale. Come accade a Pedra che, impegnandosi con severità e interesse, inizia a guardare il mondo, gli altri, il lavoro, in un certo modo, da donna, con sguardi di realtà e di ironia. È il pensiero ed è l’esperienza che anticipa la scelta consapevole femminista.

Il risultato è tale non per se stesso, perché è stato raggiunto, ma, soprattutto, per il cammino faticoso affrontato, per il processo avviato di avvicinamento alle ragioni di ogni persona.
Considero fondamentali la capacità critica, l’autenticità e il sistema di relazione che Petra mette in atto, contro i catechismi e le litanie di un potere occupatissimo e persecutorio, arroccato per difendersi più che disposto a capire, preoccupato di presentarsi con un’immagine vincente più che speso nell’incontro verso l’altro.

Petra è figura genitoriale critica e nutritiva con ogni persona che incontra, evitando di espettorare sentenze, proponendo continui esercizi di onestà al proprio pensiero.
Attraverso la serietà e la ricerca, il divertimento e la leggerezza sono assicurati. Il cambiamento è offrirsi gioiosamente possibilità diverse.

“La realtà è composta dalle tante facce di uno stesso prisma, ma non c’è motivo per averle sempre tutte sotto gli occhi”p.386

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Natalizia Dagostino Opinione inserita da Natalizia Dagostino    19 Ottobre, 2015
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Artigiano, imprenditore, industriale

Mi convince sicuramente come scrittore Edoardo Nesi, nel suo ultimo romanzo, pagine dell’avventura umana, sociale e lavorativa di tre famiglie, negli anni ’70-’80, della “povera gente italiana appena diventata benestante” (p.441).

E’ una storia molto bella, fra cantieri e camere da letto, fra onnipotenze e tradimenti, fra e il progetto industriale e le confidenze fra persone complici. La storia canta, convinta, la fortuna di avere vent’anni negli anni ‘80, nell’Italia migliore di sempre, nella regione italiana con le montagne della catena montuosa più piccola del mondo.

Ivo Barrocciai, ambizioso, giovane e sognatore, decide il salto dal piccolo artigianato tessile all’industria, assumendo il sogno di suo padre. Ivo vuole mettere su una fabbrica imponente, con tanto di piscina olimpica sul tetto e decide di farsi aiutare da Vezzosi, imprenditore edile, e da Citarella, capocantiere irpino.

“A Milano – e solo a Milano – Ivo sentiva rinvigorire dentro di sé quell’idea selvaggia che gli comandava di abbandonare ogni prudenza e ascoltare la voce del coraggio; di concedersi di provare a essere avventato e furbo … Da nessun’altra parte sentiva così forte il rombare di quella energia immane e invisibile che creava benessere e occupazione dal nulla e agiva attraverso il lavoro onesto e durissimo di tanti uomini e tante donne che ogni giorno si convincevano come lui che era arrivato il momento di intraprendere… Perché il sogno di Milano era ingenuo e grandioso e scintillante, e raccontava a tutti che era possibile cambiare la propria vita e il proprio destino se si aveva il coraggio di volerlo davvero, e nulla contava da quale gradino della scala si partisse … Di tutto c’era bisogno, e per tutti c’era spazio, nel 1975, a Milano, in Italia.”p.111-112

Racconta bene Edoardo Nesi le persone come capitale e risorsa e non come spesa e carico, il lavoro come dignità e identità e ricerca. Basta lavorare per trovare casa, per sposarsi, per andare in vacanza, per crescere i figli e farli studiare. Godibili le descrizioni oneste, mai noiose e quel futuro immaginato e costruito mi appassiona e mi interroga su quel che non ha funzionato e non ho capito in quegli anni di fatica entusiasta e di desideri numerosi e potenti.

Oggi so e i miei figli sanno come è andato a finire, quel futuro che non finiva mai, degno e sensibile, furibondo e delicato. E, dopo aver letto, con tristezza infinita ripongo il volume nello scaffale, io che negli anni ottanta avevo vent’anni e vivevo a Roma e a Milano e avevo il mondo nel cuore e nei piedi.
Sono arrivata nei guai del nuovo millennio da quell’Italia che adesso mi pare ingenua, “tutta da costruire – non da restaurare, non da ripristinare -, da costruire, e il mondo sapeva di vernice, di benzina, di plastica e di gomma.” (p.147)

Continuo ad occuparmi di tirar su persone nelle aziende e non è scontato che gli Ivo, i Cesare, i Pasquale, oggi che – poveretti fragili e arroganti - hanno trent’anni, siano bravi artigiani e che diventino imprenditori consapevoli, prima, e industriali visionari, poi. Rivedo sgonfi i bambolotti della mucca carolina, di susanna-tutta-panna e di ercolino-sempre-in-piedi!

Osservo la convinzione e la pratica del possesso, le battute stupide e taglienti sui dipendenti, la posa maschile del comando, tutta la fenomenologia del potere acquisito, ereditato, del potere ignorante che sta addosso come un abito stretto e che, di conseguenza, accompagna dritto alla nevrosi.
Riparto da questo romanzo, dalla rabbia, dallo sdegno, dallo sconforto, dalla tenerezza, perché esiste una educazione possibile per il lavoro, per gli imprenditori/trici, per la comunità.

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