Opinione scritta da Anna_Reads

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    11 Luglio, 2016
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Della "Westernità" (ovvero: Roland racconta).

Il nostro ka-tet guidato da Roland e formato da Eddie, Susannah, Jake e Oy ha vinto la sfida con Blaine e prosegue il suo viaggio alla volta della Torre Nera. Arrivano in un Kansas post epidemia e si mettono in marcia lungo un’autostrada deserta ed ingombra di auto abbandonate.
Roland è inquieto perché deve raccontare qualcosa ai suoi compagni. Qualcosa di fondamentale per il loro viaggio, qualcosa con cui, per lui, è doloroso fare i conti.
Infatti tergiversa e rimanda, tanto che Eddie, più di una volta, tenta di evitargli il compito.
Ma alla fine Roland racconta. Si siede e racconta, per tutta la notte. Per oltre 500 pagine.
E King se la sciala.
Racconta una storia western potente, quasi un “omaggio” al genere da quanto è perfetta e “in canon”; tanto che gli elementi extra canone – come la stupenda strega Rhea e la sfera che dà il titolo al capitolo – per quanto fondamentali, non scalfiscono la completa “westernità” della storia.
Un esempio per tutti.
Il meraviglioso scontro al Saloon con i tre cattivi della Bara Blu.
Da come King se lo prepara, curandolo come un figlio, a come lo realizza, a come lo scioglie…
Be’, sembra Sergio Leone. Ed è un pezzo di bravura straordinario. Drammatico, patetico, ironico.
Wester, si diceva.
Ma torniamo a noi, che i pezzi di bravura in questa saga non fanno più notizia.

Incontriamo un giovanissimo Roland e finalmente diamo voce e volto ad alcuni dei personaggi che finora sono stati solo citati (e rimpianti) di passata. Troviamo un altro ka-tet, quello di Roland e dei suoi amici Alain e Cuthbert e lo troviamo impegnato in una missione importante che diventerà fondamentale.
Lo vediamo pistolero, leader, amico leale, figlio, dissimulatore e – udite udite - innamorato.
Terreno pericolosissimo per tutti e anche per me che in genere trovo che inserire una storia d’amore mentula canis sia il modo peggiore – e più frequente – per mandare a peripatetiche una storia/un personaggio.
Va detto, però, che con “La Storia di Lisey” King piazza una delle storie d'amore più belle che mi sia capitato di leggere (con un’amorosa veramente notevole).
E infatti.
King non perde un colpo, con Roland. Riesce a rendere bene la sua natura “divisa” che accetta la forza completamente irrazionale dell’amore perché sa che non può farci nulla, ma circonda questo nucleo primordiale con strati e strati di razionalità, coerenza, logica. Come fanno le ostriche con i granelli di sabbia.
«…la sua natura romantica sepolta nel suo animo come una vena di fiabesco metallo sconosciuto nel granito della sua praticità. Accettava l'amore come un fatto della vita e così facendo spuntava l'arma del suo sdegno. (…) La verità talvolta non coincide con la realtà: quella era una delle certezze che albergavano nella cavità segreta al centro della sua natura divisa. La capacità di elevarsi al di sopra di entrambe e accogliere di buon grado la follia dell'amore era un dono ereditato dalla madre. Tutto il resto in lui era razionalità lucida... e, forse più importante ancora, priva di metafore.»
Insomma, Roland non prende le armi in una battaglia che non può e non vuole vincere, ma non si racconta mai palle. Fosse solo per questo…
E anche l’amata Susan non è male.
Oddea, a me ricorda un po’ troppo la Beverly di IT, che non avevo amato per nulla, ma sarà il mio solito problema con i personaggi femminili (anche se qui, King, con Rhea, Coral Thorin e Olive ne piazza tre – di cui due cattivi – notevoli).
Susan è la ragazza perfetta per il giovane Roland e tutta l’evoluzione della storia è come deve essere.
Fino al finale che evoca ancora Derry e anche Shirley Jackson.
Western, si diceva.

Quello che mi sdubbia e non mi ha fatto godere questo romanzo come i due precedenti è narrativo / stilistico.
Queste 500 pagine di flash-back del racconto di Roland. Sono per darci gli elementi per andare avanti nella storia? Sono per darci una “chiave” per capire meglio Roland?
In entrambi i casi la tecnica scelta non mi convince (nel secondo caso non mi convince neanche il movente).
L’espediente è molto “tipico” (fermiamo l’azione e raccontiamo. Lo fanno quasi tutte le eroine disney più o meno dopo dieci minuti di film) e la storia è bella, però… l’avrei voluta sentire in un altro modo, magari non di fila, a mo’ di spiegone. E… Roland non ha bisogno di chiavi di lettura e di “spiegazioni” per com’è.
È com’è e come deve essere.
Spero davvero che la Sfera non sia stata un tentativo di psicoanalizzarlo.
In caso non posso fare a meno di ri-citare il pistolero e la sua definizione – di fioretto – sulla psicoanalisi ed affini: «Una stronzata», tagliò corto Roland. «Escrementi della mente. I sogni o non significano niente o significano tutto, e quando significano tutto, ti appaiono quasi come messaggi... (…) E non tutti i messaggi sono inviati da amici.»

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    01 Luglio, 2016
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Viviamo per le Storie, Bill.

La Leggenda del Vento – Stephen King, 2012

Uno dei pochi “vantaggi” del leggere i cicli di libri (e vedere le serie tv) dopo che sono abbondantemente concluse è che te le puoi sparare in blocco senza aspettare i comodi di autori/produttori/registi/attori e similia (ergo, non sto vedendo – ancora – Game of Thrones).
Certo si perde il piacere della condivisione globale, ma quando si tende ad essere un tantino “orsi” non è poi questa gran perdita. E così, quando tu sei in preda all’ansia e alla trepidazione per i tuoi amati personaggi, nessuno ti spoilera. Hai detto niente.
Fosse anche solo per questo…

King pubblica “La Leggenda del Vento” nel 2012, quando il ciclo della Torre Nera si era chiuso, con il libro omonimo, nel 2004. Nella prefazione l’autore spiega i perché di questo ritorno e la sua collocazione ideale fra La Sfera del Buio e I Lupi del Calla (king è una meraviglia anche nelle prefazioni. Possibile?).
Evidentemente la storia “andava avanti” anche senza, ma ho deciso, visto che potevo, di procedere con l’ordine suggerito dall’autore.
Questo romanzo è un altro momento “decameron” (quello in cui, cioè, fermiamo l’azione con un pretesto vario – pestilenza, tempesta, perché sì - e raccontiamo) un po’ come era stato la Sfera.
Lì Roland ci aveva raccontato del suo primo e assolutamente infelicissimo e disperatissimo amore, qui – complice una terribile tempesta – narra una delle sue prime imprese da pistolero appena quindicenne.
In realtà la “cornice” è doppia, perché nel raccontare la sua avventura contro lo Skin-man, Roland racconta anche una favola della sua infanzia.
La racconta ad un bambino spaventato non troppo più piccolo del giovane pistolero.
La racconta dopo aver involontariamente ucciso l’amata – e anche un po’ odiata – madre Gabrielle.
Ora.
Roland/King racconta bene e la storia è ganza, come dice Susannah, il pistolero è capace di “sconfiggere il buio con le parole”, ma come Susannah (e io) non possiamo fare a meno di aggiungere “non sei quel laconico alla Gary Cooper che vorresti far credere.” (ora secondo me la frase era più da Eddie, che da Susannah, ma lasciamo correre).
Il tutto per dire che Roland son più o meno ottocento pagine che racconta.
Ce lo vedo Clint Eastwood – a cui il pistolero più o meno si ispira – che racconta per ottocento pagine.
Invece funziona perché le tre storie che racconta funzionano e danno – credo – parecchi punti di riferimento utili per lo svolgimento della vicenda. King è King, quindi non ti fa lo spiegone ma ti racconta delle storie.
E «Non si è mai troppo grandi per ascoltare delle storie, Bill. Uomo e bambino, bambina e donna, mai troppo grandi. Viviamo per le storie.»
Devo però ammettere che mi mancano l’azione e i personaggi che avevo tanto amato nella Chiamata e in Terre Desolate.
Le Leggenda scorre meglio – secondo me – della Sfera perché ci sono più richiami alla situazione “reale” dei personaggi, oltre che per l’oggettiva brevità.
La storia dello Skin-man mi ha convinto, la favola di Bill un po’ meno, ma è comunque godibile.
Il tutto pervaso dalla vena fantastica/horror di King che si inventa particolari mirabili ed inaspettati (quanto sono belli gli uomini erbosi della palude di Fagonard? E quando dalla pelle di uno spunta fuori il ragno… io ha fatto uno strilletto, ecco, lo devo dire), pervade di magia oggetti comuni, mescola umano (molto, a volte troppo) e soprannaturale (poco) con rara maestria (non a caso il nostro indica in Shirley Jackson una delle sue maestre e in questa saga la sua presenza è quasi palpabile).

Quindi due libri “decameron”, ma non certamente Argot (in ricordo del terribile capitolo sull’Argot che Hugo piazza nei Miserabili nel momento di massima tensione e ansia per più o meno tutti i personaggi. Credo che sia uno dei capitoli meno letti della storia della letteratura mondiale. Io lo saltai a piè pari, promettendomi di tornare a leggerlo dopo la fine del romanzo. Cosa che in effetti ho fatto. Per un esame di linguistica, qualche anno dopo. Ed era anche bello, peraltro, ma NON LÌ).
Adesso però ci sono i Lupi del Calla.
E quando c’è da sparare… si spara, non si chiacchiera.
(Lo so, non è Clint Eastwood, è Eli Wallach, però ci stava troppo bene).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    25 Giugno, 2016
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Fantastici ed allucinanti terrori degli undici ann

Sprofondare in tutti i fantastici ed allucinanti terrori degli undici anni.

Terre Desolate, Stephen King, 1991.

Terzo episodio del Ciclo della Torre Nera e finalmente si assisterà al ricongiungimento del ka-tet, il gruppo di affini che dovrà compiere l’impresa.
Un compagnonnage come nella migliore tradizione dei cavalieri medievali. («Noi siamo un ka-tet», cominciò Roland, «che significa un gruppo di persone legate insieme dal destino. I filosofi della mia terra dicono che un ka-tet può essere spezzato solo dalla morte o dal tradimento. Cort, il mio grande istruttore, sostiene che siccome anche morte e tradimento sono sui raggi della ruota del ka, un legame come questo non può mai essere spezzato. Con il passare degli anni, mi avvicino sempre di più anch'io all'opinione di Cort.» Ora ditemi se non è una chanson de geste. Soltanto non noiosa). Assoluto protagonista è l’ultimo cavaliere, Roland, che addestra ed istruisce i suoi scudieri, («Terrore e panico abbandonarono all'improvviso Eddie. Su di lui cadde il mantello della freddezza, una cappa che Roland di Gilead aveva indossato più di una volta. Era l'unica armatura che possedesse il vero pistolero... e la sola di cui avesse bisogno») naufraga sull’orlo della pazzia per un paradosso temporale da lui stesso creato e – alla fine – recupera anche l’ultimo membro della sua tavola rotonda.
E le prove che il piccolo gruppo si trova a fronteggiare sono tremende.
Prove esterne (il cyber-orso Shardik, l’Uomo-casa, il demone custode del Cerchio Parlante, il “trenino” Blaine, la città di Lud, il ripugnante Gasher, l’Uomo Tick-Tock – che credo che avremo ancora il dispiacere di incontrare - etc) e prove interiori, particolarmente ardue soprattutto per Eddie, che finalmente si libererà (speriamo per sempre) dall’influenza distruttiva del fratello Henry.
Il libro è un lungo viaggio attraverso le Terre Desolate di Eliottiana memoria; desolate da una qualche catastrofe a cui si fanno continui riferimenti, ma che ancora non viene affrontata nel suo orrore.
Il mondo è andato avanti, si dice spesso e questo aumenta lo sgomento e la curiosità di lettori e personaggi (solo Roland conosce parte della verità: «Per ogni cosa che so, ce ne sono cento che non so. È un fatto che voi due dovrete imparare ad accettare. Il mondo è andato avanti, diciamo noi.»). Il viaggio regala scorci di abbandono, aberrazione, orrore e – qualche volta – dignità.
King in stato di grazia crea scenari di rara potenza evocativa e fantastica. Da restare a bocca aperta e chiedersi, attoniti “ma come avrà fatto a pensare a questo?”, non sono tanti i libri che mi hanno fatto questo effetto. La Divina Commedia, Cent’Anni di Solitudine, Moby Dick, i racconti di Borges, Dance Dance Dance… La sequenza dell’Uomo-casa è terrore puro, è il capitolo successivo dell’Incubo di Hill House della Jackson e rivaleggia con l’amata “maestra”, così come è perfetta la descrizione del libro per bambini, dove i bambini ridono felici, ma forse urlano terrorizzati.
Non è che te lo racconta. Li vedi.
Ad un quarto de “La Sfera del Buio” (anche per me, come per Roland, la cosa più difficile è aspettare) e di quello che si annuncia come un lungo flask-back sul giovane pistolero (se Will Dearborn non è il giovane Roland, mi impegno solennemente a mangiarmi il cappello), mi sento di dire che, dall’inizio della Chiamata dei Tre, fin qui, King non ha sbagliato una virgola.
Grandioso.

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Racconti
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    11 Giugno, 2016
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Io non sono la maggior parte dei casi.

Altamente Esplosivo - Joe Lansdale, 2010
(LIEVE SPOILER)
Ero un po’ scettica su questa lettura, dopo la fregatura di “Capitani Oltraggiosi” in cui Joe nostro ha decisamente esagerato con l’allungamento del brodo.
Invece sono stata piacevolmente stupita.
Insomma, non griderò al miracolo, perché sto pur sempre leggendo la Torre Nera di King e lì è un continuo urlo al miracolo e infatti son decisamente senza voce, però va detto che il vecchio Joe ha piazzato un colpo discreto.
Una delle cose che ho più amato è stata la premessa – furbetta – scritta dal nostro:
«Saper scrivere non ha niente a che fare con la buona educazione. Né con un certo tipo di aspettative. Per una specifica categoria di lettori, affrontare un testo equivale a infilarsi un paio di comode pantofole. Ogni volta che le calzano, si aspettano di provare la stessa, identica sensazione. Lo stesso vale per le case editrici e i loro responsabili. Per loro, significa poter contare su ciò che già conoscono: è un modo di fornire comode e simboliche pantofole a quei lettori che vogliono leggere all'infinito lo stesso racconto, così come fornire un altrettanto comodo guiderdone agli editori suddetti. Io non faccio parte di questo tipo di lettori.»

Da essere (e lettore) facile alla noia non posso che concordare. Quello della noia è un grande problema, per le serie TV, i romanzieri “seriali” e anche per Lansdale. Trovo che ogni tanto si dovrebbe avere il coraggio di rendersi conto di aver finito le idee o di aver esaurito filoni e personaggi.
Ma qui il discorso si fa lungo.
Molti lettori e spettatori amano vedere i loro eroi “purchessia”. Io, se mi stravolgono un personaggio per allungare il brodo, faccio fuoco e fiamme e porto il lutto stretto.
Ma insomma.
Ci vuole tanto? Un colpo e via e almeno lasciamo dei bei ricordi! Comunque.
Alcuni racconti molto riusciti (in genere quelli assimilabili al filone “western”, anche se, forse, sarebbe più opportuno dire “horror western”) altri meno, ma in tutti emerge una delle cose che apprezzo di più di Lansdale, ossia, la potenza nell’evocare immagini. E voci. E ritratti.
Difficilmente, in queste racconti, troveremo qualcosa di sorprendentemente originale e mai visto. Le trovate spesso sono piccole e raccontate brevemente, quasi a scappar via, in tre parole. Ma sono parole che spesso evocano mondi.
Lansdale – quando è in stato di grazia - usa le figure retoriche, la punteggiatura, i calchi dal parlato o che diavolo so io.
Però funziona. Funziona con Frank che si ubriaca tanto “da vedere donnole sgusciare dalle tavole dell'impiantito” (più di una volta). Funziona con Leroy che prende le notizie forti e sorprendenti “come prendeva quasi tutte le cose spiacevoli. Male.”
Funzionava con quello che aveva la voce di uno che fa i gargarismi con le puntine da disegno (grazie a Zerocalcare per la segnalazione da “La Foresta”). Crea ritratti pazzeschi “C’è chi dice che a sparare a quel modo non si becca niente e io devo dire che nella maggior parte dei casi questo è vero. Ma io non sono la maggior parte dei casi.”
I miei preferiti – random – sono stati L’Albergo dei Gentiluomini, Hide and Horns, La Lunga Giornata Morta, I Diavoli della Polvere e L’Appuntamento al Drive-in, in parte anche Il Mulo Bianco e il Maiale Pezzato. Anche qui, di originale forse non molto, ma…
I due “western” (Albergo e Hide) riecheggiano Elmore Leonard e – soprattutto il secondo – Sergio Leone e, non so voi, ma io trovo difficile fare un complimento migliore.
I diavoli… ricorda “Seven”. Con quella pioggia ininterrotta e il non detto (e non visto) che alla fine era peggiore di tutto l’orrore che si era visto prima. Ecco qui è uguale, solo che al posto della pioggia c’è la polvere.
La Lunga Giornata Morta. Per me che sono alla sesta (mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa) stagione di The Walking Dead dovrebbe essere un enorme “già visto”. Solo che la bambina che fa entrare lo zombie per giocare, perché si sente sola mi ha schiantato. Lansdale la butta lì in tre parole. Ma è raccontata bene, maledettamente bene. Già detto (e già visto) magari sì. Ma detto bene.
(Che poi. Come diceva Jerome Klapka Jerome, tutto sommato i sentimenti umani sono una manciata e non è che abbia molto senso attaccarsi come zecche al concetto di originalità. Vero. Con questo non voglio rivalutare la figura di Pietro Bembo, ma insomma… gli stati umani sono quelli e le note sono 7 e si riesce a tirarci fuori delle belle cose).
In “Il Mulo Bianco e il Maiale Pezzato” Lansdale se la sciala e gigioneggia anche un po’, ma non è male. Avendolo letto per ultimo è stato un bel modo per salutarsi con una favola tutto sommato lieve e con tanto di happy end (oddio. È anche il racconto con le donnole che escono dall’impiantito…).
Il re delle Ombre, invece, mi ha convinto per i due bambini (che in genere sono difficili, sia nei romanzi che nei film) e che mi ha evocato – per le atmosfere “The Babadook” (Vedetelo. Credo che sia un horror che è piaciuto solo a me e a pochi altri nell’universo. Qualche amico e qualche alunno mi ha quasi levato il saluto per questa dichiarazione).
Infine il Drive-in con Dave e Merle. Anche troppo attuali alla luce dei recenti orrori di cronaca (esagero? Non credo proprio). Ciò che a Lansdale riesce qui è non dipingere due mostri, ma solo una situazione mostruosa. E a ricreare piuttosto bene l’eterno tema della vittima e del carnefice.
Un uomo che uccide e poi stupra (… si parla di stupro anche in caso di cadavere? Immagino che in 15 anni che non ho la televisione Vespa abbia già provveduto a fare 3-4 trasmissioni per dirimere la questione… tutto sommato preferisco rimanere nell’ignoranza), ma che vorrebbe anche baci, coccole e “partecipazione”. Sembra che alla fine sia sempre un problema di linguaggio e comunicazione. È il dramma – eterno – delle donne oggetto e degli uomini che non devono chiedere mai.
In salsa horror (solo un pochino più forte del solito).

PS menzione d’onore per Luca Conti, il traduttore. L’unico appunto che mi sento di fargli è in “Re delle Ombre” l’autore parla di «una sega in circolo», non riferendosi all’attrezzo. Forse avrebbe dovuto avere il coraggio di tradurre “sega circolare”. Io lo avrei avuto (e probabilmente avrei finito la carriera sotto un ponte, ma vuoi mettere?).

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Elmore Leonard, Philip Meyer, Cormac McCarthy, Stephen King.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    24 Mag, 2016
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Moriremo. Ma saremo magnifici.

La Chiamata dei Tre – Stephen King, 1987.
II Volume del ciclo de La Torre Nera.

Ho fatto passare quasi due anni e forse più fra il primo e il secondo volume di questa saga.
Il motivo è semplice. Il precedente – L’Ultimo Cavaliere – non mi era piaciuto. Di più. Pur essendo un libellino di neanche 200 pagine avevo fatto fatica a finirlo.
Tanta.
Se è vero che tutti i salmi finiscono in gloria, è anche vero che non tutti ci cominciano e la cosa deve averla chiara anche (the) King perché al libro ha rimesso mano, ma… rien a faire, almeno per me.
Poco importa, perché, se anche avesse avuto qualcosa da farsi perdonare, be’ con la Chiamata, l’ha abbondantemente fatto, accumulando anche un credito pressoché infinito.
Ritroviamo il nostro pistolero solitario Roland, sbattuto su una spiaggia deserta non si sa bene dove a meditare sulle sibilline profezie dell’Uomo in Nero.
In realtà il tempo delle meditazioni è breve… anche perché la spiaggia non è affatto deserta come sembrava. E il nostro avrà il suo bel daffare a rimanere tutto intero. E, ad essere completamente onesti, neppure ci riuscirà.
Ferito e affamato, malato e poi agonizzante si trascina verso il suo obiettivo e verso la soluzione dell’enigma del suo rivale: trovare il Prigioniero, la Signora delle Ombre e la Morte (ma non la sua). Una porta gli si palesa dinnanzi dal nulla e si apre su un altro spazio-tempo.
Quello del suo primo obiettivo: il Prigioniero.
Eddie.
Eddie che è un eroinomane e che spaccia cocaina per la malavita.
Ma Roland scoprirà ben presto che di non essere giunto solo nel tempo del Prigioniero, ma dentro la sua mente. Dovrà portarlo nel suo mondo e coinvolgerlo nella sua ricerca, ma prima convincerlo a salvargli la vita.
Non siamo neanche a pagina 50.
E non voglio spoilerare oltre.
Aggiungo solo che in questa storia c’è anche – cosa rarissima e che accade con una certa frequenza solo a (the) King – un personaggio femminile (quasi due) che mi piace.

King veramente in gran spolvero, in questo libro. Un’inventiva tematica, linguista, di scrittura assolutamente strabiliante. I registri linguistici dei diversi personaggi, i leggeri scarti lessicali fra un mondo e l’altro, la miglior prolessi (o “flashforward” – espediente narrativo con cui si anticipa un fatto successivo rispetto alla narrazione) che abbia mai letto.
Per tacere della storia e dei personaggi.
Impossibile anche solo pensare di smettere di leggere.
(Le mie occhiaie confermerebbero).
Impossibile anche solo pensare di non cominciare immediatamente il libro successivo (Terre Desolate) anche per chi – come me – di solito preferisce centellinare le letture che ama per non farle “finire subito”.
Impossibile!

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Romanzi
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    21 Mag, 2016
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Too easy.

Ivan Sciarrino viene ingaggiato – e non a prezzi modici – da facoltosi personaggi allo scopo di…
Far innamorare le donne.
Che siano le mogli di rivali in affari (per rovinarli) o le proprie (per liberarsene) non ha importanza.
Lui prima di accettare il caso ascolta le storie di queste donne, ne guarda le fotografie e poi, in genere, decide per il sì. Fa innamorare le donne di sé, rovina/salva i loro mariti e intasca la sua parcella. Ma Ivan non è un gigolò, perché il modo in cui riesce a far innamorare queste donne è… innamorarsi a sua volta di loro. Le osserva, le comprende, trova in loro una qualche “luce” che lo fa palpitare e le ama. E le donne di fronte ad un uomo che tanto “scientemente” le comprende e si dona a loro, non possono fare a meno di ricambiarlo.
Quindi, alla fine di ogni “lavoro”, il nostro si trova più ricco, ma sempre più solo e triste.
La trama sembra curiosa e la scrittura scorre via abbastanza fluida, ma la storia non mi ha convinto.
Troviamo Ivan in un letto d’ospedale, gravemente ferito da un’esplosione che scopriamo essere stata un attentato alla sua vita. Successivamente tentano di avvelenarlo; intanto ripercorriamo con due carabinieri, che son poco più di due macchiette, l’ultimo “lavoro” del nostro, riguardante la bellissima Soraya e il suo losco marito.
Altre due donne ruotano intorno a Ivan, la sorella Immacolata e l’amica libraia lesbica Nadia.
La prima scrive struggenti e-mail al fratello; ha il solo scopo di colmare alcune lacune della sua biografia e intrigarci con le vicende del protagonista. Non sempre con successo.
La seconda parla come uno scaricatore di porto, ma si capisce subito che sotto sotto ha un cuore d’oro ed è l’unico affetto saldo nel mondo del tormentato (?) Ivan.
La storia procede con piccoli flash-back e i siparietti dei militari.
Il punto dolente, secondo me, sono i personaggi che non riescono ad essere caratterizzati in modo tale da diventare non dico reali, ma quanto meno credibili. Al di là di Nadia e Immacolata, che probabilmente hanno una mera funzione narrativa, anche Ivan e Soraya appaiono molto “piatti”.
Lui è una specie di Sherlock Holmes della chimica amorosa che da come una ciocca di capelli sfiora un tatuaggio deduce vita, morte e miracoli della donna che sta osservando (in fotografia), lei è bellissima e tormentata perché… perché sì, sembra.
Per Ivan qualche volta si riesce a provare un po’ di simpatia (“In terza superiore Ivan cominciò ad andare così male a scuola che lo elessero rappresentante di istituto.”) specie nella parte in cui viene rievocato l’amico Mariano. Ma anche lui… pur accettando il gioco dell’autore, le buone idee non vengono sviluppate: ci sono situazioni in cui Ivan non accetta un caso? (sembra di sì), quali sono? Perché? Che pensa questo personaggio? Che fa a parte non rispondere alle mail della sorella, farsi prendere a male parole da Nadia, soffrire di bulimia e conquistare il cuore della bellissima&tormentatissima Soraya (che – a ben guardare – non sembra poi questa inespugnabile torre d’avorio)? Come passa da un caso all’altro, da un amore all’altro?
Accenni, mezze parole, qualche perché sì. Peccato perché un’idea di fondo che poteva essere carina, viene risolta con un debole elogio alla complessità delle donne (che sono tutte complesse & bellissime, ognuna a suo modo) e una timida sferzata agli uomini che non sanno comprenderle, amarle valorizzarle.
Too easy.
Ufff.

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Scienze umane
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    07 Mag, 2016
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Interno. Giorno e Notte.

La storia (vera) di Billy S. Milligam.
Un giovane viene arrestato per aggressioni a sfondo sessuale.
Ma il suo avvocato si trova a parlare con quello che sembra un bambino spaventato nel corpo di un giovane uomo. Lentamente apprendiamo che nella testa di Billy non ci sono "solo" un bambino e un giovane uomo, ma - appunto - una stanza piena di gente.

Dopo aver adorato “Fiori per Algernon” mi sono lanciata nella lettutra di questo libro di Keyes non appena ne ho appreso l'esistenza. Sbirciata la sinossi sono stata ancor più contenta della scelta.

Superate le prime pagine – un po’ respingenti con le descrizioni a freddo delle varie “persone” con le loro caratteristiche – ho latitato fino più o meno a pagina 150.
Poi... ho mandato "sul posto" un lettore veloce.
Ho letto mentre donavo il sangue, nell’intervallo, mentre i miei studenti facevano il tema (“Prof com’è che oggi non corregge i compiti e non fa le mappe?” “Mmmmmmff? Hai detto qualcosa?”), parlando al telefono con mia madre, sull’autobus, nonostante l’altissimo rischio di mettermi a vomitare. E in tutti i posti più o meno “normali” dove leggo di solito.
E se non leggevo ci pensavo.
L’ultimo libro a farmi questo effetto era stato – più o meno un annetto fa – “E Johnny prese il fucile”.
Dove avevamo una mente prigioniera di un corpo ed impossibilitata a comunicare, se non con sé stessa. Qui abbiamo diverse menti che condividono un corpo e che cercano in qualche modo di difendersi da un esterno che finirà ben presto per diventare una prigione non dissimile da quella in cui era costretto Johnny.
Ho trovato struggenti le persone di Arthur e Ragen che si strutturano in modo da proteggere e vigilare sui più piccoli e i più fragili, in mancanza di adulti e di una società che lo facesse al posto loro. Si dividono i compiti, prendono decisioni, mandano “a dormire” o “sul posto” chi in quel momento non è in grado di sopportare la realtà o può essere utile alla piccola comunità.
(Aperta parentesi: sul “credere” alle personalità multiple io sono partita scettica come tutti e mi sono convinta velocemente come – quasi – tutti. Anche se sappiamo ancora abbastanza poco di quello che può fare il cervello umano, sappiamo che è perfettamente in gradi di strutturare personalità multiple come quelle di Billy. Analogamente sarebbe ugualmente in grado di simulare e fingere di farlo – a parte la faccenda degli elettroencefalogrammi. Non di meno qui va sul posto il frammento del vangelo apocrifo di Borges che dice “Pensa che gli altri sono giusti o lo saranno, e se non è così, non è tuo l’errore.” Chiusa parentesi).
Mi sono fatta le mie risate con Allen e ho pensato che avere un Ragen o un empatico Danny a portata di mano non sarebbe male.
Andando avanti, quando il fato ha ripreso (o sarebbe il caso di dire che ha continuato) ad accanirsi contro Billy il tutto si è fatto claustrofobico.
Come con Johnny e con tanti e troppi casi vissuti in prima (o seconda) persona, spesso la miopia e la lentezza di burocrazia ed istituzioni preposte alla soluzione, sono anche peggiori dei problemi originali.
E rimani così profondamente frustrato e deluso perché avevi – davvero – l’impressione che il più, il difficile, fosse stato fatto. Johnny era riuscito a comunicare, Billy era riuscito ad unirsi ed era emerso il Maestro…
Invece è come quando senti l’intro ganza di una canzone che adori e poi…zac! Parte la cover orribile.
Non è come continuare a star male.
È come avere una ricaduta quando stavi migliorando e tornando alla vita di prima.
Ennò! Confesserò di aver tirato qualche piccolo moccolo a mezza voce, di tanto in tanto.
Anyway.
Sono contenta di aver letto questo libro. Tornare in comunicazione con Algernon, Johnny, Trumbo e Alex e Burgess, Pirandello e compagnia mi fa sempre bene.
Se la trama mi avesse preso meno, forse, potrei fare qualche osservazione sul taglio – molto giornalistico – che Keyes dà al romanzo, ma non ne ho voglia. Eppoi ad avercene di “tagli giornalistici” come quelli di Keyes.
Infine. Se qualcuno è stato “pigro” come me e non lo ha letto.
Legga.
Vale la pena.

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"Fiori per Algernon" - Daniel Keyes
"E Johnny Prese il Fucile" - Danton Trumbo
"Un'Arancia a Orologeria" - Anthony Burgess
"Uno Nessuno e Centomila" - Luigi Pirandello
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Racconti di viaggio
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    05 Aprile, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

Chi resta non riparte, chi se ne va non torna.

Tristan non è – come potrebbe sembrare – il co-protagonista della più bella storia d’amore mai pensata di tutti i tempi, no, non c’entra proprio niente.
Si parla di un posto, dell’Isola di Tristan De Cunha, più meno a metà strada fra America del Sud e Africa, in qualche parte dell’Atlantico, decisamente verso Sud. Dove Sud non è “uguale a caldo” come pensiamo noi boreali, ma già decisamente freddo, tempestoso e umido.
L’isola di Tristan è l’unica abitata del suo piccolo arcipelago composto anche dalle Isole Nightingale, dall’Isola Inacessibile (!) e dall’Isola di Gough; tutte insieme appartengono all’Arcipelago di Sant’Elena (ad oltre 2000 km) che è un po’ la “metropoli” di riferimento.
Il fatto che Napoleone non fosse per niente contento di essere stato confinato nella suddetta metropoli, la dice lunga sull’isolamento di Tristan.
Confesso che questo non è stato il mio primo incontro con Tristan, datosi che fin da piccolissima alternavo momenti di discreta socialità (in cui volevo fare il pescatore) a momenti di “scarsa” socialità in cui ambivo a fare il guardiano del faro. Spesso facevo girare il mio fedele mappamondo in cerca di un posto abbastanza isolato per costruire il mio faro. Per dire che avevo da poco imparato a leggere, quando mi imbattei per la prima volta in Tristan De Cunha.
Successivamente, e per un periodo abbastanza lungo, ho avuto anche il cognome di uno dei fondatori italiani dell’isola, quindi questa lettura non potevo perderla!
L’autore (peraltro concittadino del mio babbo… questa storia è piena di rimandi) sceglie di raccontare l’isola attraverso le voci e le storie di alcuni abitanti, passati e presenti, con l’intento – credo – di restituire la voce di Tristan, luogo sperduto, ma che, come una sirena, eternamente richiama chi per qualche motivo abbia incrociato il suo cammino.
Così abbiamo livornesi – dall’agire non proprio limpido – approdati per caso, prostitute scaricate senza troppi complimenti, genovesi legati ad un voto o ad amori lontani (in quest’ultimo caso con terribilissime – ed attestatissime – genitrici genovesi), inglesi, olandesi, balenieri, soldati inglesi a presidiare – da lontano - lo scoglio di Napoleone, casomai l’Imperatore avesse qualche colpo di coda in serbo.
Tristan è un luogo che, a causa della sua unicità e lontananza, catalizza i destini più diversi.
Se sei capitato lì, hai una storia da raccontare.
Il tentativo di Ferrari riesce solo parzialmente: alcune storie funzionano, altre si sfilacciano in una narrazione che non sempre permette di “sentire” la voce di Tristan.
Un luogo da cui è difficile andar via.
A causa di un’eruzione vulcanica tutti gli abitanti furono evacuati nel 1961. E tornarono nel 1963 dopo diciotto mesi di “civile” Inghilterra. Perché, viene da chiedersi.
Forse perché nella storia di Tristan de Cunha non è noto un solo episodio violento (oddio. Secondo me il Livornese Tommaso Corri non è stato proprio cristallino su questo punto, ma va be’), perché non esiste una forma di governo ufficiale, né un concetto personale di ricchezza, ma solo quello di comunità.
Una comunità che si capisce quasi senza parlare (peraltro la lingua è una sorta di koinè linguistica di tutti gli idiomi degli abitanti) tale e tanta è l’affinità creata dal luogo.
Solo per mare o in condizioni estreme l’umanità si manifesta al meglio? Sempre l’eterno Ulisse che torna?
Bon. Io tanto prima o poi ci vado (ultimamente cercavano insegnanti), così racconto meglio, per adesso prendo congedo con le parole del vecchio Green: “Ricorda, chi resta non riparte e chi se ne va non torna.”

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Romanzi autobiografici
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    13 Marzo, 2016
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Io non ho bisogno di leggerti. Io ti conosco.

Casa Fenoglio – Marisa Fenoglio, 1995. Sellerio.

Partiamo con una doverosa premessa: ci sono due scrittori di cui mi considero una "groupie".
E sono Steinbeck e Fenoglio.
Doveroso omaggio e dedica alla mia amica Marina, che da brava collega-groupie di Beppe Fenoglio, mi ha gentilmente condotta in questo “Lessico Famigliare” in Langa.
Scritto da Marisa, la “piccola” di casa Fenoglio (minore di dieci anni, rispetto a Beppe), il romanzo è un affresco di interni delicato ed intenso allo stesso tempo.
Confesso di aver cercato, da subito, avidamente, il mio scrittore fra le righe, con un misto di curiosità imbarazzante e al contempo imbarazzata; ho un rapporto ambiguo con i miei miti, specie quelli letterari: razionalmente non vorrei sapere niente di loro, perché so che l’autore si rivela sempre – e a volte troppo – nella sua opera e insieme, data la drammaticamente breve vicenda terrena di Fenoglio, vorrei particolari e dettagli.
In realtà Lui è piuttosto sfuggente nel racconto, e si palesa quasi esclusivamente attraverso tre assenze tipiche: il fumo delle sigarette, la tosse, il battere dei tasti della macchina da scrivere.
Ma non c’è delusione di sorta, perché emergono magistralmente dettagli più importanti per una fan/groupie filologa.
Emergono papà Milcare e mamma Margherita, lui dall’imperturbabile benessere interiore, lei indomita e coriacea, costantemente protesa verso qualcosa. Il benessere della famiglia, gli studi dei figli, il buon andamento della macelleria, la fine della guerra, la lotta contro le sigarette di un figlio e le “manie” cittadine dell’altro.
Questa mamma che non legge gli scritti di Beppe perché “Io so tutto quello che tu scrivi. Non ho bisogno di leggerti, io ti conosco!” rappresenta un’affettività ruvida e scabra che non so definire altro che “ligure/piemontese” e che l’autrice rappresenta con una precisione a tratti sorprendente (o può anche essere che essendo anch’io “ligure/piemontese” abbia i recettori per percepirla e metabolizzarla, non so).
Oltre ai Fenoglio emerge il piccolo microcosmo di Alba, anzi, della piazza del duomo di Alba, dove sorge la macelleria di famiglia. Non c’è l’epica della Malora, che porta Beppe nel mio personale “empireo” con Steinbeck, ma c’è un po’ dei “Ventitrè giorni della città di Alba” nella piccola Marisa che con la zia sale fino a Mango, la vigilia di Natale, sotto la neve, per annunciare ai partigiani un rastrellamento, intercettato grazie alle rete di collegamenti tessuta da mamma Margherita, in macelleria. Ci sono piccoli ritratti delicati: vicine solitarie che amano gatti e fiori, mogli abbandonate da mariti, uomini tornati ad Alba dopo la guerra, ma che hanno lasciato il cuore in Somalia. Figure che probabilmente non mancano in nessun paese, ma che quasi mai trovano una penna pronta a metterle su carta. Per Alba le penne sono state ben due: quella di Marisa, oltre a quella di Beppe.
Evidentemente certe città sono più fortunate di altre.
Concludendo, mi sento di ringraziare umilmente Marisa Fenoglio per aver deciso di condividere i suoi ricordi, da ligure/piemontese immagino che non sia semplice.
A fine lettura posso dire che l’insieme figura/sfondo è più nitido e io sono molto commossa.

«Se ci fu un’ora, un giorno, in cui Beppe decise di prendere la penna in mano e mettere per iscritto i suoi pensieri, quel giorno nessuno di noi lo registrò, nessuno di noi si accorse di quello che gli stava succedendo. In quegli anni di precarietà economica, eravamo più che mai un ménage di ritmi fisiologici e di ricambi di biancheria. Eravamo disattenti e impreparati, ma anche grezzi, frenati da generazioni di ruvidezza langarola, da un malinteso senso del pudore, tutto fenogliesco, da una tendenza congenita a non lasciarsi andare, a preferire anche tra di noi una battuta salace e impietosa a un discorso impegnativo e serio.»

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Fenoglio e Ginzburg.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    22 Febbraio, 2016
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Ora si ragiona, Joe!

Freddo a Luglio – Joe R. Lansdale, 1989 (ed. italiana 2002).

SPOILER

Il mio primo Lansdale al di fuori del ciclo di Hap&Leonard. Devo dire di essere molto soddisfatta, dalla storia, dai personaggi, dall’evolversi della vicenda e – non ultimo – dall’aver avuto di nuovo il piacere di “lavorare” con Jim Bob Luke.
Richard è un tranquillo corniciaio, vive in una bella villetta con la moglie Ann e il figlioletto Jordan nella cittadina texana di LaBorde; una notte sente un rumore, recupera una vecchia pistola e scopre un ladro; questi gli spara, mancandolo e Richard, pur tremante, lo uccide.
Il morto è Freddy Russell una vecchia conoscenza della polizia che è ben contenta che Richard abbia fatto pulizia e classifica immediatamente il caso come “legittima difesa”.
I guai di Richard sembrano risolversi con l’acquisto di un divano nuovo e l’imbiancatura di una parete. In realtà il nostro è molto scosso dall’aver ucciso un uomo e stenta a riprendersi. Decide di andare al funerale del ladro e qui trova Ben, il padre di Freddy, appena uscito di prigione. L’uomo lo minaccia apertamente e poco dopo fa irruzione in casa di Richard pronto ad uccidere Jordan, per vendicarsi.
In realtà, l’uomo si ferma prima di fare del male al bambino, e la polizia lo cattura.
Sembra finalmente finita, ma Richard recupera il portafoglio dell’uomo, e dentro vi trova una foto del figlio Freddy.
Che NON è l’uomo che Richard ha ucciso.

Da questo punto in poi si crea un’alleanza – dapprima improbabile, poi sempre più solida – fra Ben e Richard che decidono di scoprire la verità: chi si era introdotto in casa di Richard? Perché la polizia è così smaniosa di far credere morto Freddy? Che ne è di Freddy?
Per rispondere a queste domande, Ben si rivolge al suo vecchio amico Jim Bob Luke, investigatore privato.
Scopriremo che Freddy non è morto.
Ma sarebbe di gran lunga preferibile che lo fosse.
E che Ben, con l’aiuto di Richard e Jim Bob, farà del suo meglio per mettere a posto le cose.

Non voglio spoilerare ulteriormente, ma questo romanzo funziona bene. La storia scorre. E l’evoluzione dei personaggi, soprattutto di Richard che da timido corniciaio diventa un volitivo strumento di giustizia, è convincente. Lansdale mescola abilmente introspezione e azioni, colpi di scena, orrore, riflessione e ironia.
Davvero una bella prova, avevo un po’ paura ad uscire dal cerchio della fiducia di Hap&Leo e invece sono molto contenta. Ripeterò l’esperienza.

PS.
Nei giorni scorsi (sono in convalescenza) ho avuto occasione di parlare un po’ con mio papà di storie e scrittura. Secondo lui, una volta che c’è “una storia che funziona” poi il modo di raccontarla viene da sé.
Io ero un po’ scettica.
E facevo bene. Hanno tratto un film da “Freddo a Luglio” (stesso titolo), nel 2014.
Ed è stupefacente notare come mantenendo sostanzialmente invariata la storia (pur con alcuni cambiamenti assurdi in quanto a comprensibilità), abbiano creato un polpettone indigesto e a tratti francamente noioso.
(Unica nota positiva: Jim Bob Luke è Don Jonhson. Probabilmente non è la scelta migliore, né quella che avrei fatto io dovendo immaginare il nostro. Però per me Don Jonhson rimane Sonny Crockett di “Miami Vice”. Quindi immaginare che Jim Bob, prima fosse nella squadra antidroga di Miami, girasse in Ferrari bianco, invece che sul “Troione rosso” ed avesse un coccodrillo di nome Elvis, invece dei maiali mi fa simpatia!).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    21 Febbraio, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

Allunghi il brodo, Joe?

Capitani Oltraggiosi – Joe R. Lansdale, 2001 (ed. Italiana 2005).

Premesso che mi piace Lansdale e adoro Hap & Leo (anzi, a dirla tutta: Hap mi piacicchia, Leo lo amo proprio, sempre per la mia collezione di amori impossibili) devo dire che questa volta sono un tantino delusa. Gli ingredienti “buoni” ci sono sempre: ci sono i dialoghi fulminanti fra i due amici, ci sono le fluviali riflessioni di Hap che più che ogni tanto prende la tangente, c’è l’armadillo Bob, ci sono le solite tonnellate di guai che toccano ai nostri beniamini e – dettaglio tutt’altro che trascurabile – rifulge nuovamente su di noi lo sfavillante astro di Jim Bob Luke.
Come si può scrivere un libro noioso con Hap, Leo e Jim Bob?
Non si può.
E in effetti il libro non è noioso.
Però quelli buoni sono diversi.
Qui la storia in primo luogo è poco “credibile” (anche per gli standard “tarantiniani” di Lansdale) e, soprattutto, non appassiona.
Della bella e dannata Beatrice, del malinconico e quasi “santiaghesco” Ferdinand, del cattivissimo Juan Miguel e del temibile Testa di Incudine, alla fine, non ci cale più di tanto. Del mare di sangue in cui alla fine si sguazza, dopo essersi diligentemente rimboccati i calzoni, altrettanto. Per tacere del “salvataggio” iniziale di Sarah Bond che appare, davvero, un mero pretesto narrativo per avviare la vicenda, mandando in vacanza i nostri e facendoli – puntualmente – finire nei guai.
Un Lansdale, a mio parere, un po’ “stanco” e a corto di idee per la sua coppia d’oro.
Peccato.
Mi auguro che abbia il buon senso, se la stanchezza dovesse continuare, di chiudere e non perseverare – come accade troppo spesso – nell’allungare il brodo all’infinito.

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Romanzi storici
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    09 Febbraio, 2016
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Henri, io vorrei che tu Vincent ed io...

Sacré Bleu – Christopher Moore, 2012

Prima lettura “di gruppo” del 2016, approcciata con una certa apprensione a causa di un precedente non felice con Christopher Moore.
Si parte con niente meno che Vincent Van Gogh. E poi, come per caso, sfilano tutti i pittori dell’Impressionismo francese.
E non solo.
Fa anche una comparsata Michelangelo, per dire. Ma trovano spazio pure i Pitti, Botticelli e una bizzarra tribù di uomini primitivi.
Il filo conduttore è il colore blu (non a caso il preferito da serial killer, psicopatici e… me) tonalità estremamente difficile da creare per i produttori di colore. Difficile reperire il pigmento, difficile trattarlo in modo da renderlo stabile negli anni.
Blu.
Difficile e costoso.
Invece qui abbiamo un Colorista misterioso (e un tantino ripugnante) che regala blu di ottima qualità a pittori squattrinati, si accompagna con bellissime fanciulle, appare e scompare misteriosamente. Ma come sospettiamo fin da subito, esige un prezzo molto alto per il colore che fabbrica e produce da solo. O forse no.
Che dire?
Il libro scorre via abbastanza piacevolmente, fra le stradine di Montmartre e Pigalle. Ci si imbatte in personaggi deliziosi, battuta pronta e vita bizzarra (su tutti il meraviglioso Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec Monfa e la mirabile Madame Lessard), in genere pittori, amanti di pittori, madri/mogli/figli di pittori.
Accompagnamo Manet all’esposizione in cui «sembrava che tutta Parigi si fosse data appuntamento per sputargli in faccia.» ed immaginiamo i retroscena dei tantissimi quadri celebri citati, accennati, descritti. Questa parte del romanzo, a mon avis, funziona très bien.
È vivace, probabilmente non eccessivamente filologica (ma chissene), e verosimile, se non vera (e quella menata del naturalismo l’abbiamo superata nel quattrocento. Che se il punto era che l’arte dovesse essere come la realtà sai che due balle. “Novero di misura su Raffaello” avrebbe detto il compianto Sandro Ciotti).
Ahimè la parte gialla/fantascientifica/surreale/horror/soprannaturale è assai meno gradevole, dal mio punto di vista.
(Ora, appare evidente che il Colorista sia Doctor Who in una delle sue rigenerazioni peggio riuscite e Bleu sia una delle sue companion meno simpatiche (alla pari con Martha Jones, direi)… viaggia nel tempo e nello spazio, è, difatto, immortale (oddea, questo più che Doctor Who pare Wolverine, ma vabbe’, magari Moore non è così nerd), ha una cabina BLU… devo continuare?)

Perché affannarsi tanto a cercare di far tornare i conti? A voler intessere a tutti i costi il Colorista Bleu nella storia del mondo? L’inquisizione,iI Pitti, Michelangelo, Savonarola…
Vedi vedi? Torna tutto?
Mi ha ricordato i punti più sgradevoli di Nolan in Interstellar…
Spazio, tempo, buchi neri, fisica quantistica…
Mannò. Ammore e un foglio piegato.
NO. Per favore no, la storia andava bene anche così.
Quindi io mi ricorderò solo le parti belle.
I quadri, Parigi, e alcune battute.

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Racconti
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Gennaio, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

Mi ha trovato lui.

"Non siamo stati noi a trovarlo. Ci ha trovato lui."

Amo i film western perché ogni tanto (spesso) mi piace che le cose siano semplici e che quando c’è da sparare si spari e non si chiacchieri (cit.).
Quando i buoni (o il buon senso) stanno molto decisamente da una parte e i cattivi (e la stupidità) molto decisamente dall’altra. Pare che non sia sempre così nella vita reale, non di meno vederlo sullo schermo è rilassante, almeno per me. Le mie esperienze con la narrativa western sono state piuttosto scarse e “segnate” dalla brutta esperienza con “Butcher Crossing” di John Williams.
(Poi potrei esporre la mia teoria secondo cui tutta la Fantascienza sia Western… ma magari lo faccio un’altra volta).
Avendo adorato “Stoner”, avevo fatto letteralmente i salti di gioia, sapendo che Williams avesse scritto una storia western, la tremenda delusione che mi hanno causato le insipide (secondo me) gesta di Will e della sua banda di sciagurati mentecatti in azione, mi aveva indotto a rivedermi tutta la filmografia western di John Ford e di rimuginare solinga sui torti subiti.
Invece una preziosa dritta di amici lettori mi ha portato a fare pace con il genere e a scoprire uno scrittore che non conoscevo e di cui intendo leggere financo la lista della spesa.
Elmore Leonard inventa decine di racconti e sbozza e tratteggia decine di personaggi.
E soprattutto, crea DIALOGHI di rara potenza.
Riesce a delineare “tipi” con pochissime parole, capaci di aprire mondi e baratri. Per fare solo un esempio fra tutti “Ivan Kergosen (…) aveva accresciuto i suoi beni in base ad una precisa ed ostinata interpretazione della volontà di dio, rispettandolo più come Dio di Giustizia che di Pietà”.
Ecco.
Una piccola frase è ha già detto tutto del personaggio.
Ho fatto un esperimento, l’ho letta in classe e poi ho chiesto ai ragazzi che personaggio si aspettassero da Ivan Kergonsen.
Be’. Ci hanno preso.
“Ne avevo già vista di gente come Tobin, e altra ne ho vista in seguito, ma grazie a dio non più di tanta. Gente che ha sempre bisogno di dimostrare qualcosa di cui al resto del mondo non importa niente.”
(È la stessa gente di cui parla Foster Wallace “perennemente in posa per una foto che nessuno sta scattando”).
Poche parole (molto “western”), ironia, sguardi e i racconti si susseguono, uno dietro l’altro creando una sorta di continuum, un mondo in cui ti immergi e da cui fatichi un po’ ad uscire.
L’abilità dell’autore, secondo me, è di non scadere mai nello stereotipo e di non creare mai macchiette; non saprei indicare i miei racconti preferiti, di certo “L’uomo con un braccio solo” mi è rimasto profondamente impresso, così come la “Donna di Tascosa”, “L’uomo sbagliato” e “Il treno per Yuma” (che non ha bisogno della mia presentazione). Infine, se anche voi avete litigato con “Butcher Crossing” e volete fare la pace, almeno con i bisonti… allora date un’occhiata a “Caccia grossa.”

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    17 Gennaio, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

Dobbiamo essere realisti, Mastino.

La Trilogia della Prima Legge – Joe Abercrombie
(Il Richiamo delle Spade, 2006 – Non prima che Siano Impiccati, 2007 – Ultima Ratio Regis, 2008; editi in Italia da Gargoyle, 2013-14).

Si sa che non bazzico spesso i verdi prati della narrativa fantasy, ma che non si dica che quando lo faccio non lo faccio con impegno! Da quasi un mese sono immersa nel mondo creato da Abercrombie (che ha relegato l’amato Lansdale al poco ambito titolo di “l’altro Joe”) e ne sto uscendo con molta fatica, dolore e nostalgia.
La potenza di queste circa 2000 pagine complessive non è – secondo me – tanto nei “macro-temi” che vengono trattati: non nella lotta fra bene e male (anzi, direi fra “male” e “meno peggio”) non nei colpi di scena, che comunque non mancano, non nelle grandiose scene action, quando nei personaggi; che sono caratterizzati molto bene che siano protagonisti o comprimari, che evolvono in modo deciso, ma sempre credibile, che… in poche parole, si fanno quasi sempre volere bene.
Lo si vede analizzando la particolare struttura della narrazione di Abercrombie: con l’eccezione della parte finale di “Ultima Ratio Regis”, ogni capitolo “sposta” la narrazione su un diverso gruppo di personaggi. Non mi è mai capitato di dispiacermene: ogni campata narrativa “prende”, è funzionale alla trama, appassiona.
Che si tratti di un gelido ed acido inquisitore, reso zoppo e menomato da passate torture, di un ruvido combattente con solo nove dita, con un volto che è una carta geografica di cicatrici e una personalità sopita, ma non troppo, affamata di sangue, di un ligio ed onesto soldato con qualche scheletro nell’armadio, di un vanesio spadaccino, di una donna per metà demone bramosa di vendetta, di un potente Mago che forse è un impostore (o forse no), di un abilissimo arciere che di solito non dice più di “Hm” ma che comunque si fa ricordare, e del suo eroico compare che ha il fiuto di un Mastino, non si tira mai indietro, ma si dimentica regolarmente di espletare le sue funzioni corporali prima di lanciarsi in battaglia.
Insomma, i “corsivi” di Glokta, i passaggi fra Logen e il Sanguinario, le rispostacce di Ferro, il buon senso del Cupo e di Mastino, la spacconeria di Tul e Dow, l’ingenuità di Jezal, la lealtà di Tretronchi sono una compagnia piacevole ed ispirata.
Vi si legge un’abilità di tratteggio non comune, la capacità di descrivere scenari evocativi e creare conflitti non banali. Rimango sul vago per non spoilerare, ma questa trilogia merita la lettura per il suo essere appassionante, ben scritta e non priva di spunti di riflessione. Per la capacità di tenere incollati alle pagine, di far ridere (il “segnale” di Tretronchi!) e qualche volta commuovere e riflettere.
Ahimè – e chiudo con le poche, dolenti note – se ho praticamente voluto bene a quasi tutti i personaggi maschili, i pochi femminili mi hanno convinto poco, trovandoli (con la parziale eccezione di Ferro) abbastanza funzionali alla trama e poco “caratterizzati”; infine, nell’edizione italiana, non mancano alcune inesattezze sintattiche e lessicali.
Per il resto, a breve gli “spin-off” della trilogia saranno miei!


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Gialli, Thriller, Horror
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    07 Novembre, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Stavolta non squali, ma anaconde.

Con tutto lo scettismo dovuto al primo incontro con Harry Hole (e Megashark), ne “Il Pipistrello”, mi sono avvicinata a quest’opera del celebre autore norvegese (libro del mese con il mio Gruppo di Lettura) per vedere un po’ se dargli un’altra chance o troncare definitivamente e senza rancori.
Va detto, come prima cosa, che il nostro è sensibilmente migliorato.
Il protagonista, Sonny, somiglia un po’ ad Hole, ma non troppo. E poi non è l’investigatore, ma – a quello che sappiamo all’inizio – l’assassino. Che poi si trasformerà nell’Angelo Vendicatore (o nel Buddha con la spada, se seguiamo la definizione di Nesbø).
L’azione all’inizio si svolge in un carcere norvegese di massima sicurezza, dove, appunto, è recluso Sonny. Trentenne, ex-wrestler, figlio di un poliziotto corrotto e suicida, dopo la morte del padre e della madre si è dato all’eroina e agli omidici (forse). Arrestato, continua a farsi di eroina, ma vive in una dimensione quasi mistica, nella quale diventa un punto di riferimento per gli altri detenuti. Li ascolta, non li giudica, li assolve. Dal momento che appare completamente disinteressato alla sua vita e a quello che gli accade, Sonny viene usato come “capro espiatorio” per un efferato omicidio, organizzato in modo da coincidere con un suo breve soggiorno fuori dal carcere; gli viene semplicemente chiesto di “confessare”. E lui lo fa.
Poi qualcosa cambia.
Forse il padre non era corrotto. Forse non era “la talpa”. Forse è stato costretto a suicidarsi. Forse la vera talpa lo ha ucciso.
Sonny smette di farsi. Evade (la parte migliore). E si mette in caccia. Della verità e di tutti i «cattivi» della storia e collabora, a distanza, con un ex collega ed amico del padre. Rimane comunque un killer anomalo, spietato, ma dagli occhi grandi e dai modi gentili, che stringe una bizzarra amicizia con un barbone, diventa l’eroe di un bambino vittima di bulli e, già che c’è, trova pure l’ammore.
Ora naturalmente tutto non è come sembra e avremo qualche discreta “sorpresa” prima della fine.

All’inizio del libro c’è molto “Qualcuno volò sul nido del cuculo” e permane sempre una forte dicotomia fra un “dentro” positivo ed associato alla protezione e alla sicurezza e un “fuori” ostile e pericoloso. Ci sono molti “squali” (per fortuna stavolta solo in metafora) in questa storia e c’è pure una Oslo che ti fa innamorare praticamente al primo morso.
Come accennavo il libro scorre volentieri e Sonny è meno indisponente di Harry.
Non di meno, il libro non è esente da difetti.
Il peggiore (ravvisato anche nel Pipistrello) è l’eccessiva lunghezza; non in senso assoluto, ma relativo. Ad un certo punto l’autore “scopre le carte” e tu, lettore, capisci quello che sta avvenendo e resti in attesa della chiusura della vicenda. Invece sei a metà romanzo e ti attendono almeno duecento pagine che per buona parte sono “sbrodolate”, secondo me.
Il personaggio di Sonny è un tantino caricato e anche un tantino “perché sì”, come il famigerato Gemello (il cattivone), che si vede poco, fa poco, ma è molto “perché sì” anche lui.
Martha (bella-buona-cara-angelo-di-carità-pure-con-il-fidanzato-idiota-e-manesco) è davvero poco credibile oltre che irritante (ed autrice di una delle metafore più terribili della storia della metafore, dal momento che chiede al povero Sonny – che non è molto esperto nella faccenda – di baciarla “come un anaconda addormentato”). Un po’ meglio Simon Kefas e la sua “allieva” Kari.
In generale, comunque, i personaggi minori sono caratterizzati meglio e riescono a fornire dei ritratti piacevoli (il barbone, il carcerato malato di cancro, l’ex galeotto meccanico, il piccolo Markus, i due killer Bo e Sylvester) e più credibili.

Concludendo lettura piacevole, con alcuni difetti (o che a me paiono tali) che ormai credo siano una caratteristica dello stile di Nesbø. Onesto thriller, comunque.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    07 Novembre, 2015
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Non pensare dove non devi.

Dice la nonna dell’autrice alla nipotina.
Devo ammettere che mi sono approcciata a questo libro non per “amore”, ma per mancanza di alternative per me appetibili. Massì, conosciamo un premio Nobel di cui (tanto per cambiare) so poco o nulla. Quando ho avuto il libro tra le mani e mi sono accorta che non era propriamente un romanzo, ma un’intervista, ho arricciato ulteriormente il naso.
Motivo per il quale l’ho lasciato qualche giorno sul comodino, in attesa dell’ispirazione.
Be’, ho fatto male.
Perché una volta cominciata la lettura, la narrazione “prende”. Eccome se prende.
Certo, in più di un’occasione, sarei stata disponibile ad offrire la cena all’intervistatore affinché si levasse dai piedi e lasciasse parlare “a ruota libera” l’autrice, ma devo anche ammettere che non è stato molesto quanto avrebbe potuto essere.

L’autrice, rispondendo alle domande, traccia lunghe campate narrative, nelle quali racconta la sua vita, quella della famiglia, degli amici. Racconta dell’infanzia tutt’altro che bucolica, passata nella sua sperduta e verde valle, della prigionia della madre prima della sua nascita. Di un “potere” esterno, ostile, violento di cui – da bambina – non ha ancora consapevolezza, ma sente opprimente.
Siamo in Romania, dall’immediato dopo guerra fino alla lunga dittatura di Ceausescu.
All’infanzia dell’autrice, seguono adolescenza e la giovinezza, il trasferimento in città, il rifiuto a diventare una spia, le vessazioni, lo straniamento, la “scoperta” della scrittura, la pubblicazione dei libri, i viaggi all’estero, fino all’espatrio.
Ritorna, non poco, Hannah Arendt, in queste pagine con la sua “banalità” del male. Nella stupidità arrogante dei funzionari, nelle tecniche di intimidazione e controllo, nella manipolazione del reale, nello schiacciamento dell’individuo attraverso le estenuanti procedure burocratiche, le file per i generi alimentari più comuni, i “timbri” sui documenti, il tempo perso, il freddo, la fame.
E c’è anche un “non detto” prepotente. Negli interrogatori, nelle false accuse e nelle false risposte alle false accuse. Una realtà fittizia, che tutti riconoscono come tale, ma a cui tutti devono far finta di credere. I funzionari per “prosperare” e perversamente crogiolarsi nel loro potere e i cittadini per provare a strappare un po’ di tempo.
In tutto questo (che non è poco, ma non è neppure molto diverso da altri autori che si sono misurati con queste laceranti realtà), Herta Müller insinua il tema della scrittura e della riflessione linguistica.
L’autrice è nata e vissuta a lungo in Romania, ma è di lingua Tedesca. Quindi pensa (e scrive) in una lingua germanica e si muove in una realtà linguistica di matrice romanza, impastata profondamente con quella slava. Da qui la riflessione, potente, sulle parole, sul lessico e – di conseguenza – sulla scrittura e sulla memoria.
Parole scomposte ed analizzate, parole ritagliate e rese vivide, parole e frasi che costringono a dare una forma e preservano – un poco – dalla paura.
«Scrivere parole nella paura era forse come mangiare le piante, era una fame di parole. Reinventare la vita in una maniera non vera, che non la rifletteva identica, ma molto più esatta. Ed era l’idea che protetti dalle frasi si sapesse un po’ meglio come vivere. Le frasi non mi risparmiavano affatto, ma il lavoro che mi procuravano era per me un sostegno.»
Nel penultimo capitolo (Il mio amico Oskar), la riflessione dolorosa sulle parole è quasi continua, e si tratta (ça va sans dire) del capitolo che ho amato di più; sarà per l’essere linguista o per la scarsa simpatia che ho per i testi che si spacciano per romanzi e sono invece documentari, ma qui non abbiamo “soltanto” la narrazione di un’esperienza straziante, ma la riflessione di uno scrittore sulla medesima e della sua responsabilità nel comunicarla.
Potente ed indimenticabile, davvero.
Inutile dire che mi sono procurata la restante produzione della Müller e l’affronterò quanto prima!

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    29 Ottobre, 2015
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Farò vincere l'urlo sulla parola.

La Sposa – Mauro Covacich, 2014

Per vendicarmi farò vincere l’urlo sulla parola.
(da “Cattive Madri”)

Raccolta di diciassette racconti di un autore che non conoscevo, ma di cui avevo letto un paio di recensioni intriganti. Non sono (ero?) una grande lettrice di racconti, ma credo che sia il momento di invertire la rotta; sto lentamente scoprendo e riscoprendo che il racconto offre allo scrittore e al lettore infinite possibilità che spesso sono precluse agli archi narrativi più lunghi. Ti regala il tempo, per dirne una. E la possibilità di “lavorare” molto di più sul materiale che hai davanti (in un racconto, in genere, ci sono molto più “prima” e “dopo” rispetto ad un romanzo).

Qui abbiamo un sottile filo che lega le singole storie che può essere appassionante ricercare sentendosi un po’ Sherlock Holmes (un altro che dà il meglio nei racconti) e una serie di riflessioni un po’ allucinate (ed allucinanti).
E – la cosa che ho amato di più – piccoli ritratti folgoranti di comuni nevrosi e di più rare (fortunatamente) psicosi. L’attesa. La maternità e la non-maternità. L’isolamento. La violenza. L’abbandono. Il disadattamento sociale. Il controllo.
In alcuni racconti abbiamo anche la “sorpresa” finale (alla Romagnoli in “Navi in Bottiglia) che alle ultime righe ribalta il punto di vista che abbiamo avuto (che l’autore ci ha fatto avere) fino a quel momento. Altre volte le ultime righe ti riportano alla vita reale, concreta, di cronaca.
L’autore lavora su fatti di cronaca, intorno a quali crea una corte di figuranti e protagonisti.
Riannoda, se vogliamo, i fili smagliati che partono dal vicino di casa “tanto una brava persona” al “mostro sbattuto in prima pagina”; e lo fa senza indulgenza, buonismo, accanimento. Con uno stile molto asciutto e pulito, nel quale si concede di tanto in tanto qualche author’s corner.
L’esempio che ho preferito è in “Tor Bella Monaca” scritto insolitamente in seconda persona e perfetto ritratto di horror vacui, ma pieno di convinzioni ferree, intervallato di tanto in tanto dall’autore che commenta con “(ma tu non sai)” il disperante abbrutimento del protagonista.

Mi piacerebbe commentare più nel dettaglio ogni racconto, ma penso che non mi sarebbe affatto piaciuto leggere i commenti prima di leggere i racconti, quindi mi autosospendo, però consiglio assolutamente la lettura.
Per parte mia, cercherò altro di questo autore.

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Navi in Bottiglia - Gabriele Romagnoli.
L'Armata dei Sonnambuli - Wu Ming.
I Racconti di Femoglio.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    28 Ottobre, 2015
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Non avete più nulla da aspettare. Ormai è successo

Dopo la bella recensione che mi ha preceduto ho dovuto rileggere questo racconto lungo. L'ho scoperto cinque anni fa e periodicamente lo rileggo.
Non sono esattamente una groupie di Henry James; mi sembra sempre che sia lì lì per sparare la bordata definitiva… ma poi io non la capisco. E mi rimane sullo stomaco “Cosa avrà voluto dire?”
Sarà che il nostro Henry e James non è un fondista, ma uno scattista, al massimo mezzofondista, ma nella forma di racconto, qui, tira fuori una delle cose migliori che io abbia mai letto (in assoluto).
Con tanto che non amo Henry James, i racconti, i maschioni egomaniaci e le donzelle ad essi votati. Ma qui abbiamo Pirandello, James Joyce, la previsione che si autoavvera, Parsifal, Tristano e Isotta e, en passant, una delle storie d’amore più belle che abbia mai letto.
Fine premessa, andiamo.

Lui e lei.
John Marcher e May Bartram.
Si incontrano per caso. Vagamente lui ricorda di averla conosciuta una decina di anni prima durante un soggiorno in Italia.
Lei è carina, lui fa lo splendido ed inanella dettagli. Dov’erano, con chi erano, dove andavano, cosa vedevano. “Vi ricordate, May…”
Va da sé che i dettagli sono quasi tutti sbagliati (ma lui è John Marcher, la memoria non è il suo forte, anche se l’ego non gli fa difetto). Lei fa notare le incongruenze dei suoi ricordi, ma con dolcezza, senza farlo pesare. Infine, quando la conversazione si fa un poco più intima (nella misura in cui i due si daranno del voi per tutta la vita, per capirci) lei gli chiede se finalmente abbia trovato ciò che bramava tanto dieci anni prima.
John casca dalle nuvole. Cosa mai cercava a Napoli (no, a Sorrento, ricorda May) dieci anni prima?
Poi vagamente ricorda che, senza nessun motivo, dieci anni prima, aveva parlato, proprio con lei, di quella sua strana ricerca. Con lei e con nessun altro, mai più. Tanto da dimenticarsene quasi, fino al nuovo colloquio con lei.
John si sente chiamato ad affrontare un destino importante.
Tragico forse. O straordinariamente felice. O particolarmente drammatico.
Ma comunque grandioso e non scontato.
Si adegua con molta fatica (e pochissimo trasporto) alla vita sociale londinese, che frequenta il meno possibile. Aspetta questo qualcosa di grande e terribile che è in serbo per lui. C’è una bestia, nella giungla della sua vita, che aspetta il momento buon per assalirlo e lui sta lì, pronto a riceverla e a respingerne l’assalto.
Ma May è a parte del suo segreto e lui-le-chiede/lei-accetta di aiutarlo e sostenerlo in questa guerra di nervi contro lo belva.
Così è.
I due diventano la vita sociale l’uno dell’altra.
May continua ad essere la memoria di John e ne diventa l’anima razionale, la confidente, la spalla, il palco all’opera, il dopoteatro, il cappotto d’inverno, il fazzoletto, il divano e le pantofole.
E lui più o meno lo stesso.
Ora fra le righe, noi lettori sagaci, vediamo anche che May ama John e che lui è abbastanza torsolo da non accorgersene praticamente mai.
MA.
Questa – secondo me – non è la solita storia di lei che si strugge e lui che se ne accorge quando lei muore (infatti se ne accorgerà dopo). Perché è una storia di devozione e di un amore che non si consuma mai. In entrambi i sensi in cui si può intendere il verbo “consumare”.
Non si concretizza in sesso e matrimonio, ma non finisce neanche.
È vero che John è preso da sé e dal suo ipotetico incombente destino. Ma è vero che passa la vita con May. Che ogni palpito, ogni sentimento, ogni slancio è per lei.
Che non è la fidanzata, sposa, moglie, madre dei figli.
Ma è la sua compagna di vita.
Per dire, siamo molto lontani da Newland ed Oleska.
Qui non c’è una banale infatuazione di un ego ipertrofico a cui piace pensare che sia stata chissacché, ma che al momento in cui doveva tirare fuori un minimo di attributi si è fatto mettere nell’angolo dall’altra May e poi è stato a lagnarsi forever and ever.
Qui abbiamo uno che un po’ tonto – innegabilmente – lo è davvero e che l’impressione che “qualcosa gli sia sfuggito” / “che mai avrà voluto dire?” probabilmente non se la leva mai di dosso, ma io, mentre leggo Henry James, mi sento solidale e mi identifico. Sfugge sempre qualcosa, a John. Qualcosa che invece May afferra sempre.
Aiutami, May.
E May ci prova ad aiutarlo, almeno fino ad un certo punto. Senonché May si ammala e – almeno lei – capisce che è cosa grave, breve e dolorosa. Da qui smette di aiutare John a tentare di sorprendere la sua ineffabile belva. E lo fa perché sa che John soffrirebbe troppo, qualora cogliesse il portentoso destino a cui era promesso.
Lui a tratti si fa quasi petulante (Dimmelo-dimmelo-dimmelo, May!!), tanto che durante uno dei loro ultimi colloqui lei gli dice di mettersi tranquillo, che tutto è compiuto. Ha affrontato la belva e ha vinto, tutto è passato.
La parte successiva alla morte di May è quella che amo di più. Perché John innanzitutto deve fare i conti con la realtà. E la prima cosa che impara è che non ha nessun diritto sulla memoria di lei, né sul dolore per la sua morte. Gli hanno strappato un pezzo d’anima e lui non può neppure lamentarsi, piangere e disperarsi. Perché non era sua moglie/fidanzata/sorella. E lui non era marito/fidanzato/fratello.
Solo amici.
Nessun diritto a voler morire a sua volta. Nessuna comprensione.
Come un po’ ci attendiamo, John scappa e se ne va in giro per il mondo. Inutilmente. Finisce per credere alle parole di May. Ha affrontato il suo destino, ha vinto. E non se ne è neanche accorto. E infondo non è neppure più importante. Torna a Londra e gira gira ritrova la tomba della sua compagna e se ne esce con una delle dichiarazioni più belle di sempre. Eccola qui:
«Fu così che la tomba di May, nel più singolare dei modi, si trasformò per lui in una risorsa positiva; tanto da indurlo a realizzare l’idea di periodici pellegrinaggi, che finirono col diventare una delle sue più inveterate abitudini. Riuscì insomma, per quanto possa sembrare strano, a far sì che, nel contesto del suo mondo ormai talmente ridotto all’essenziale, quel giardino di morte gli concedesse i soli pochi metri quadrati di terra sui quali gli era ancora permesso vivere. Era come se, non rappresentando più nulla in nessun luogo e per nessun altro, nulla persino per se stesso, qui invece si sentisse tutto, e sebbene non certo alla presenza di una folla di testimoni o a nessuno all’infuori di John Marcher, se non altro per attestazione di quel registro che poteva sempre consultare. Il registro aperto era, appunto, la tomba della sua compagna, ed era lì che giacevano i fatti del passato, era lì che era contenuta la verità della sua vita, lì erano le trascorse distanze nelle quali poteva smarrire se stesso. E infatti, di quando in quando, ci si smarriva, e con un effetto tale che gli pareva di vagare attraverso i vecchi tempi, dando il braccio a un compagno che era, nel modo più straordinario, l’altro se stesso, il più giovane; e cosa ancor più straordinaria, di girare e rigirare attorno a una terza presenza… lei, immobile, fissa, i cui occhi, seguendolo in quel girare, non lo abbandonavano mai, e la cui sede era, per così dire, il suo punto d’orientamento. Così in breve s’adattò a vivere… nutrendosi della stessa illusione di un tempo, e ricavandone non solamente un sostegno ma anche una identità.»
Naturalmente, abbiamo anche Joyce, e John ha la sua brava “epifania” finale. Proprio quella che May aveva cercato di evitargli sempre (non come la stronza sconosciuta della lettera di Zweig, per riguardo, che io queste che muoiono in silenzio, ma ci tengono tanto a fartelo sapere, le metterei al rogo).
Eccola qui.
«Gli tornarono alla mente le parole di May… la catena si allungava all’infinito. La Bestia era stata davvero in agguato, e la Bestia, al momento giusto, aveva spiccato il suo balzo; era balzata fuori nel crepuscolo di quella fredda giornata d’aprile quando, pallida, malata, consunta, ma pur sempre bella, e forse allora persino recuperabile, May era scattata dalla poltrona, gli si era parata di fronte e aveva lasciato che lui indovinasse. Era balzata fuori, la Bestia, e lui non aveva saputo indovinare; era balzata fuori mentre lei s’allontanava da lui sconsolata, e gli era ripiombata addosso, al momento stabilito, quando era ormai lontano. Ecco giustificate le sue paure e compiuto il suo destino; con assoluta precisione, aveva fallito tutto ciò che doveva fallire; e un gemito gli salì ora alle labbra, al ricordo di quanto May avesse pregato perché lui non sapesse.»

E con questo, Henry si è fatto perdonare anche l'insopportabile Isabelle Archer e chi non piange è una brutta persona. Se avanza ancora un po’ di forza, consiglio di provare a leggerlo in inglese, perché è incommensurabilmente più bello.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    13 Ottobre, 2015
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Consulting Detector

Proseguono le mie gioconde escursioni nel giallo/noir storico e mi imbatto in nientepopodimeno che Raimondo de Sangro. Proprio il Principe del Cristo Velato che, per l’occasione, diventa detective (o meglio Detector) per conto di sua santità Prospero Lambertini, in arte Benedetto XIV.
Turpi delitti – quasi tutti a sfondo sessuale – insanguinano la Bretagna nei pressi di Nantes coinvolgendo, non si sa quanto da vicino, anche il gruppo di alchimisti, capitanato da Mastro Upupa, noto come la Confraternita degli Uccelli.
Ma non basta. Perché il romanzo si apre, duecento anni prima di Raimondo, con Hieronymus Bloch, le sue due “Nozze di Cana”, la sua estasi stupefacente e la sua brutale morte.
E non è tutto. Ci sono pure i Templari.
Arte, alchimia, simboli e allegorie, religione, droghe, sesso, Templari e un detective alchimista, artista, e tecnico della scientifica ante litteram.
Tanta roba, verrebbe da dire.
Pure troppa.
La prima parte del libro scorre in modo piacevole: conosciamo Raimondo de Sangro e Papa Lambertini (che battibeccano amabilmente come due vecchie comari) e parallelamente apprendiamo della sanguinosa vicenda bretone attraverso la lettura dei dispacci giunti in vaticano e la narrazione dei fatti in presa diretta.
Poi Raimondo va in Bretagna e la carne al fuoco diventa davvero troppa.
Alla fine l’autore si sforza di portare a termine tutte le linee narrative, ma perdendosi in un meccanismo troppo farraginoso che se anche alla fine “funziona” toglie molto piacere alla lettura.

Una curiosità, l’autore (statunitense) scrive questo libro in italiano, in omaggio a Raimondo de Sangro e alle proprie vacanze infantili in Toscana. Particolare non irrilevante, dal momento che, secondo me, lo stile pulito e preciso è la parte migliore del romanzo.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    12 Ottobre, 2015
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Non lo dite a Majorana (né a Sciascia).

Raramente mi riposo nei verdi pascoli del Thriller e ancor più raramente in quello italico.
E faccio bene, evidentemente.
Questo libro scozza con altri titoli, ma si piazza assai bene nella classifica dei più brutti e raffazzonati che abbia mai letto. E come se questo non bastasse è un’antologia di luoghi comuni.
Abbiamo i nazisti che cercano di creare il siero dell’immortalità a partire dal purissimo sangue di Hitler. Un medico (!) omeopata prova a diluirlo, ma non funziona. Si pente. Fugge.
Dapprima folgorato dalla predicazione di Steiner (!!), decide poi di rifugiarsi in Argentina.
Qui, con il resto dell’intellighenzia mondiale “buona” cercherà di fermare il male. Amen.
Nel frattempo Ettore Majorana… si rivolta nella tomba, ovunque essa sia.
Ettore Majorana, per l’occasione, è un post-adolescente in perenne mestruo, va a Napoli e viene intercettato da uno dei turpi nazisti di cui sopra, che lo porta a vedere la Cappella Sansevero, le macchine anatomiche e gli racconta la storia del Principe Raimondo de Sangro.
Finito il raccontino, il nazista lo minaccia, ma a salvare Majorana arriva l’angloitaliano Carlo Price che lo convince ad andare in Argentina e collaborare con i buoni.
Non prima di una sosta a Montecassino, dove un misterioso abate (esperto di ogni cosa e anche di fisica quantistica, obviously), in punto di morte, gli affida un quadernetto dove è depositata la sapienza dell’universo, fra cui anche le ricette di Nonna Papera, probabilmente.
Intanto, in Argentina, l’intellighenzia “buona” scopre che per salvare il mondo deve trovare il misterioso “cristallo nero” e riallineare la vibrazione della terra con quella di Aldebaran (!!!).
Perché sì.
Nel frattempo, a Topolinia (e ai nostri giorni), un gruppo di giovani ricercatori (abbastanza tonti, ma tutti incommensurabilmente gnocchi) fa scoperte strabilianti: ogni cosa ha la sua vibrazione e si ammala se la vibrazione cambia. Quindi non servono le medicine, ma un buon accordatore in definitiva. E come se non bastasse…
Scoprono che furono nazisti a decidere per l’accordo in La, mentre quello naturale era in Do (o in Re non è molto chiaro)… e allora?
Non si sa, ma quelli di Kazzenger probabilmente stanno indagando.
Ovviamente le turpi case farmaceutiche, che fanno i cattivissimi vaccini (!!!!) non vogliono che tali fondamentali scoperte vengano divulgate. Abbiamo, infine, qualche morto “plastificato”, un nazista centenario che vuole resuscitare Himmler, un neonazista appassionato di oroscopi, una tassista coatta che trova l’ammore, un giornalista new age e un poliziotto scaltro.
Ovviamente, come accaduto nel 1945, anche nel 2013 il cristallo nero riallinea la terra con Aldebaran (ma stavolta non abbiamo Majorana che si vaporizza tutto contento, solo un paio di sepolti vivi. Forse) e tutti i sopravvissuti si sentono pervasi da gioia e speranza.
Che bellezza.
Cinquecento pagine di immonde boiate, condite con una stile sciatto e con un approfondimento “scientifico” che ha fatto rimpiangere Interstellar (a metà fra il foglio piegato per spiegare l’universo e l’ammore che è più forte della gravità).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    02 Ottobre, 2015
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VALE TUTTO. Ma davvero?

VALE TUTTO.

Il “titolo” riprende l’affermazione di uno dei due fratelli (Gianrico, mi pare, ma non potrei giurarlo) che alle perplessità dell’altro:
“… ma nel libro ci mettiamo anche QUESTO?!?”
Risponde, appunto:
“VALE TUTTO.”
Come nelle ricette svuota frigo. Come nello stufato all’irlandese dei Tre Uomini in Barca.

Mettersi a raccontare memorie è terreno minato. Raccontare le proprie, poi, è pericolosissimo.
Noia in agguato. Non una noia qualunque, LA NOIA.
Lo sa chiunque sia stato coinvolto in una serata di diapositive dalla coppia-di-(ex)-amici-di-ritorno-dal-viaggio-della-vita (capitato anche a me. UNA volta. Ero giovane).
Se le memorie non sono condivise devi essere maledettamente bravo, per coinvolgere l’altro.
I Carifigli non si pongono neppure lontanamente il problema.
Credo che la cosa che mi ha più sovranamente irritato del “libro” sia proprio la sua sciatteria.
Come risolvono il “cambiamento di mano” fra i paragrafi di uno “scrittore” e l’altro?
Mettono Gianrico/Francesco in cima.
Raffinato.

E per rendere il tono "familiare"? Inseriscono ogni tanto qualche parola colloquiale.
«Andavo a comprare le granite al bar, il tipo preparava un vassoio di cartone…»
Il TIPO?
Devo confessare che questa cosa arriva ad offendermi. Come si può pensare di mandare alle stampe (ma anche di far leggere al circolo di scrittura del pianerottolo) una cosa così sciatta? Ci mancano solo le ditate unte agli angoli…e magari sul cartaceo c’erano, tanto per ribadire l’idea di autenticità.

L’autenticità? Ma anche no!
Infine di che stiamo parlando? Di due fratelli che si frequentano poco, che devo andare a “chiudere” la casa delle loro vacanze d’infanzia.
Cosa fanno per far passare 75 pagine? Un po’ di ricette, qualche avventura dell’infanzia, qualche ardita incursione nel presente (uno dei due è andato a letto con un’ex dell’altro. OoOoOoO. Torniamo nel passato che è meglio). E come chiudiamo? Con un accenno di riavvicinamento e cucinando una torta a mammà.

Onestamente i due Carofiglio personaggi non sono verosimili, la loro storia (?), non esiste e chiudere con le ricette è veramente lo sfregio finale.
Mi piace pensare che altri scrittori, per quanto famosi, pur certi della pubblicazione e delle vendite assicurate, avrebbero avuto maggior ritegno e rispetto per i propri lettori.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    29 Settembre, 2015
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È la cattiveria che viene fuori

È la cattiveria che viene fuori.
Così dice Dolly alla figlia Mary Rose, quando questa si lamenta di dolori vari.

Un mese.
Il tempo che ho impiegato a leggere questo libro. Disperando, in più punti, di farcela e, in uno, maledicendo di aver imparato a leggere. Invece oggi, 29 settembre, l’ho finito. Complice la prima neve sui monti e la definitiva chiusura di questo tomo che mi guardava malevolo dal comodino da tanti giorni, mi sembra di rinascere.
Che c’è di così orribile nella storia di Mary Rose MacKinnon?
Niente, se non, appunto, Mary Rose MacKinnon.
Una quarantottenne canadese, scrittrice di successo, sposata con la donna che ama, madre di due bambini, che da oltre un decennio ha ricucito anche i rapporti con la sua famiglia d’origine (militare & cattolica), incrinatisi dopo il suo coming out. Per dare una piccola idea del personaggio: la compagna di Mary Rose è una registra teatrale e si trova fuori città. Per sua libera elezione, Mary Rose non vuole aiuti esterni, ma vuole occuparsi da sola di bambini, casa e cane (ovviamente mica un cane qualsiasi, una pitbull che Mary Rose ha eroicamente salvato dal mondo dei combattimenti clandestini). Non trova le forbici e questo è come viene descritto:
«Le forbici migliori che abbia mai avuto. Le forbici delle televendite (…) forbici così ben fatte che un giorno potrebbe portarsele nella tomba, le lame scintillanti ancora letali. Dove finiscono le cose? Chi le prende? Hilary le avrà messe nel cassetto degli utensili? In più di un’occasione, e con tutta la ragionevolezza possibile, Mary Rose ha implorato Hilary di mettere le forbici al loro posto nel ceppo dei coltelli – capisce che può sembrare una bazzecola a una che va a fare le prove in teatro ogni giorno con un vestito diverso, spesso in un’altra città, e ancora non si è trovata a casa durante un attacco prescolare di pidocchi, ma per Mary Rose è importante. È lei che cucina, fa la spesa e prende sul serio quell’impresa tutt’altro che facile che è il governo della casa. Per dirla in termini militari, Mary Rose è nella prima linea domestica. Come può Hilary definirsi femminista, e ancor più lesbica, se non rispetta Mary Rose nemmeno quel tanto da rimettere le forbici al loro posto? Ma no, certo, Hilary non si definisce lesbica, rifiuta di “definirsi” in qualsiasi modo, com’è tipico dei bisessuali.»
E stiamo parlando della momentanea sparizione di un paio di forbici (per la cronaca: le aveva lasciate in giro MR). Tutte le (ahimè) 340 pagine del libro sono così.
Un grumo di insoddisfazione, risentimento, smania di approvazione e politically correct in un match all’ultimo sangue Mary Rose MacKinnon VS il resto dell’universo.
Mary Rose invidia alla compagna la maternità e il suo lavoro, alla madre (che si sta avviando alla demenza senile, è figlia di una “sposa bambina” e ha avuto tre figli e molti strazianti aborti) il padre, alle amiche single la loro libertà, alle amiche con prole, la prole, etc.
Non basta.
Nel mentre che gestisce il regno del salutismo, igienico, alimentare, ergonomico e politically correct ha il terrore che qualcuno la giudichi inadeguata. Continua, ad ogni riga, a ribadire cose del tipo:
«Che male c’è se si concede un sonnellino anche lei? Non significa mica trascurare la famiglia.»
Oppure
«Non le va di presentarsi a scuola carica di borse delle spesa, non vuole sembrare quel tipo di donna.»

È profondamente infelice, insoddisfatta e piena di rancore, ma deve mostrarsi felice, soddisfatta e vincente. Perché? Perché deve aderire al suo ruolo di diva, cioè “una martire estroversa”.
Perché è quello che viene chiesto normalmente alle donne. Invece di ribellarsi, la nostra asseconda questa richiesta e per giustificare l’inevitabile fallimento, che fa?
Cerca di rievocare traumi del passato a cui dare le colpe.
Quando Mary Rose aveva due anni, a seguito della morte, dopo pochi giorni di vita, di un bambino e l’aborto – quasi a fine gravidanza di una bambina – la madre ha avuto un periodo di depressione. Forse l’ha strattonata rompendole un braccio… o forse è successo perché l’ha salvata da una caduta? O forse ha trascurato il fatto che le facesse male il braccio o non se ne è accorta? Del resto LEI non piangeva mai e si faceva un vanto del non mostrare mai dolore. Non lo ricorda.
E poi c’è il racconto del “coming out”: Mary Rose ha ventitré anni e va a vivere con la sua fidanzata, René; la madre dice a Mary Rose cose orrende, il padre tace. La madre dice che la preferirebbe morta. Malata di cancro. Che preferirebbe che fosse morta al posto delle altre sorelline e fratellini.
Mary Rose è traumatizzata, MA continua ad andare a trovare i genitori, che però rifiutano (anche l’amato padre) di andare a casa sua. Poi piano piano la cosa si appiana.
E quindi?
Intanto, a causa di ciò, la narrazione della perfetta settimana di MR a casa con bambini & cane senza Hilary, viene intervallata da continui flashback. Ad un certo punto si inseriscono anche alcuni brani del libro che MR sta tentando di scrivere. Per le prime venti pagine ci sono i tentativi di Mary Rose di rispondere ad una mail affettuosa del padre.
Insomma quello che emerge dalla lettura è una lagna acrimoniosa e cattiva.
E senza indugio darei il premio Nobel alla MacDonald per aver saputo creare un personaggio che così abilmente concentri in sé tutti gli stereotipi dell’universo sull’isteria femminile, se non avessi il concretissimo dubbio che Mary Rose fosse (volesse essere) un personaggio positivo.
Almeno nelle intenzioni della sua autrice. Quasi la protagonista di un romanzo di formazione che arrivi – finalmente – all’età adulta trovando la pace, sistemando le cose con il suo passato e il suo presente.
A me Mary Rose ha ricordato moltissimo Eleanor, la protagonista di “Hill House” di Shirley Jackson. Per chi non l’avesse letto, un piccolo spoiler: è una storia “horror”. Mi ha ricordato anche lo Svedese di "Pastorale Americana" di Philip Roth. Un personaggio "positivo" con il quale mi è stato impossibile empatizzare.

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La protagonista ricorda Eleanor di "Hill House" di Shirley Jackson, e anche lo Svedese di Pastorale Americana.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    05 Settembre, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Meno male che il mio suicidio era alle porte.

Pietro Rinaldi, ottantenne (ex) scrittore, decide di morire finché ha la possibilità di farlo in autonomia. Il suo ultimo romanzo (uscito circa vent’anni prima dei fatti raccontati) si intitola “Andate tutti affanculo” e l’ultimo – celebre – capitolo “Tutti quelli che mi stanno sul cazzo.” E si tratta di un vero elenco. L’autore non lo dice, ma pare che sia un capitolo piuttosto lungo.

Giusto per inquadrare il tipo.
Pietro Rinaldi decide suicidarsi, in definitiva, perché si annoia. Non è malato, non soffre, non è solo ed abbandonato (è rimasto vedovo, ma vive nella stessa città della figlia Roberta e ha un nipote quindicenne di nome Diego).
È un vecchietto bilioso, sgarbato, ma che ha la mirabile dote di non raccontare (e non raccontarsi) storie.
Si presenta, con una lettera, in cui racconta perché vuole morire e come ha pensato di farlo.
Anzi, prima ci racconta come NON lo farà e perché: «Io voglio morire e su questo non ci piove, ma voglio essere libero di scegliere di non farlo, di cambiare idea magari all’ultimo momento. Non la cambierei, intendiamoci, ma è una questione di principio, non mi va di rinunciare come ultimo atto della mia vita alla cosa più preziosa che abbiamo: il libero arbitrio. Cosa faccio, urlo: “Spostati asfalto?” (…) Probabilmente finirei per temporeggiare perdendo sempre l’attimo fuggente, con il rischio di vedermi salvare da qualche angelo della strada, oppure, come minimo, di dover sopportare tutti i suoi ridicoli tentativi di convincermi a non farlo, magari puntando sulle banalità più sconcertanti quelle classiche di chi ti vuole salvare che, tra l’altro, sono in gran parte i motivi per cui mi suicido (…) Tra l’altro, per trovare un albero adatto all’impiccagione, robusto e riservato (diciamo dignitoso) dovrei prendere l’autobus, e prendere l’autobus per andare a suicidarmi è una cosa ancora più deprimente della stessa depressione che ti porta il suicidio.»
Un vecchietto bilioso, dicevamo.
Dopo aver preso congedo, con vivo sollievo, dalle proprio abitudini, Pietro comincia a mettere in atto il suo propostito: 3 pastiglie di tavor, mandate giù con un buon prosecco.
Ma proprio in quel momento…
Be’, lo avevamo capito che doveva succedere qualcosa.
Arriva Roberta, la figlia, ed annuncia la morte della suocera. Suocera che viveva a Parigi.
Quindi Roberta e il marito Fabio devono partire immediatamente e Pietro deve occuparsi del nipote quindicenne Diego, per qualche giorno. E del cane Sid. Un Terranova incrociato con un Sanbernardo, o qualcosa del genere.
Be’, non c’è bisogno di essere un vecchietto bilioso che si stava tranquillamente suicidando, per NON fare i salti di gioia.
E qui c’è uno dei due punti deboli del libro, secondo me.
Roberta usa questa conversazione (che in realtà è un monologo) a mo’ di manifesto/dichiarazione di intenti/analisi del suo rapporto con il padre ed approfitta anche per adombrare i rapporti di Pietro con il marito e il figlio.
In poche parole, Roberta, che deve correre oltre confine a seppellire la suocera e ha un miliardo di cose da organizzare, si mette a fare uno spiegone sul perché e il percome del suo rapporto con il padre, il marito, il figlio, la madre e quant’altro.
Ovviamente Roberta deve fornire informazioni al lettore, ma oltre ad essere un espediente poco realistico e a far emergere un personaggio di figlia piuttosto querulo, lamentoso e tristemente bidimensionale, ci fa anche capire che questo dialogo sarà importante, perché sarà l’ultimo che padre e figlia avranno.
Infatti, a Parigi, Roberta e suo marito moriranno.
Non voglio diffondermi e spoilerare troppo, ma Pietro sarà costretto a posticipare ulteriormente il suo suicidio, per occuparsi del nipote. Dovrà accompagnarlo a Roma, dove vive Marcello, il fratello del padre, che ha accettato di occuparsi di lui.
Questo zio, oltre ad essere ricchissimo, non frequentava la famiglia del fratello da oltre vent’anni.
Marcello, secondo me, è il secondo punto debole del romanzo, e, come Roberta, si esibisce in un lungo monologo quasi sul finale, ma importa poco, perché il cuore del romanzo è il viaggio di nonno e nipote da Genova fino a Roma.
Sulla vecchia macchina di Pietro, passando per Spianata Castelletto, Boccadasse, Porto Venere, Cecina, Bracciano e Ostia. Suona banale, ma sono luoghi a cui sono molto affezionata per motivi vari, quindi forse questo ha contribuito a farmi amare molto la parte centrale.
Pietro, Diego e Sid ritroveranno vecchi amici, se ne faranno di nuovi (forse) e vivranno pure qualche situazione un tantino dadaista. Naturalmente impareranno anche a conoscersi e poi ad apprezzarsi e volersi bene.
Non è una storia dove accade qualcosa che non ti aspetti (la “sorpresa” la introduce Marcello, ma, secondo me, è molto accessoria), ma è scritta bene e i personaggi di Pietro e Diego sono caratterizzati. Riescono, e non era facile, a non diventare macchiette.
E se la tradizione di “vecchi biliosi” amabili è feconda, quella dei quindicenni non lo è altrettanto.
Fino a Porto Venere, dove conosciamo anche Cesare (vecchio amico di Pietro), la narrazione è davvero preziosa. Successivamente prende un po’ il sopravvento il ruolo “istrionico” di Pietro a colpi di battute considerazioni acide ed argute (per la massima parte condivisibili, peraltro).
Il finale e l’epilogo, forse, sono un po’ “telefonati”, ma – mi ripeto – non è una storia in cui si cerca il colpo di scena o il tiro ad effetto.
È una storia piccola, ma che funziona ed è scritta bene.
Leggerò altro del mio concittadino scrittore.

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Ama la figura letteraria del "vecchio bilioso".
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    31 Agosto, 2015
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Un gelato con Annie,Paul,Stephen (e Madame Bovary)

Paul si sta svegliando. È un risveglio faticoso, lungo e nebuloso. Stenta a ricordare che cosa sia successo, a capire dove si trovi ed anche di essere sveglio. Viene persino rianimato e poi lentamente emerge dal sonno. Ha dormito a lungo e non “naturalmente”, è ferito, ogni movimento gli costa tremende sofferenze; giornate intere mancano all’appello della sua memoria.
Infine arrivano le spiegazioni: ha avuto un incidente stradale, alcune settimane prima.
E Annie Wilkes, che gli fornisce le spiegazioni, lo ha trovato e soccorso.
Ma non ha chiamato un’ambulanza e neppure la guardia medica.
Lo ha portato a casa sua e lo ha curato lei stessa.
È un’infermiera.
Un’ex infermiera, per essere precisi.
Ma Annie è molto di più. È la fan “numero uno” di Paul.
Perché “Paul” è Paul Sheldon scrittore molto popolare che stava – con successo – cercando di grattar via quell “popolare” dall’etichetta di “scrittore”.
“Popolare” è dovuto in gran parte dalla sua creatura letteraria più famosa, Misery Chastain, eroina ottocentesca sexy e virtuosa.
Ma Paul è, e sa di essere, uno scrittore di razza, quindi, nell’ultimo episodio della serie, ha fatto fuori (con il parto) la dolce Misery e ha scritto un libro nuovo che mette davvero in luce le sue doti.
Misery è andata bene per pagare i conti, ma adesso Paul vuole fare sul serio.
E ha scritto “Bolidi”.

Da questo momento in poi la trama è un crescendo di tensione ed orrore.
Annie è una psicopatica con un passato da serial killer, ed avrà modo di aggiornare il curriculum prima della fine delle pagine.
E Annie ancora non sa della morte della sua eroina.
Non appena ne verrà a conoscenza le cose per Paul si metteranno molto male.
Dovrà resuscitare Misery con il solo aiuto di una vecchia macchina da scrivere a cui manca la lettera n, e dovrà anche farlo in modo onesto e plausibile. Dovrà distruggere il suo nuovo romanzo. Sarà costretto a sopportare fame, sete e dolore. Dovrà assistere impotente alla follia di Annie; sarà torturato e mutilato.
Ma se fosse tutto qui, sarebbe una “banale” storia dell’orrore.
Invece in Misery i protagonisti sono altri due: la lettura e la scrittura.
La scrittura è il “demone” in cui precipita Paul quando trova “il buco” nella pagina e la storia della resurrezione di Misery comincia a girare nel verso giusto (tanto che quando arriva l’inaspettata salvezza, per un piccolo istante il nostro è seccato di dover smettere di scrivere).
La storia si può leggere quasi come un “canto d’amore” alla scrittura, che – di fatto – salva Paul dalla follia.
Ma oltre a ciò è anche un ritratto piuttosto realistico della figura dello scrittore con le sue nevrosi, paure, miserie e sofferenze. Artigiano ed imbalsamatore delle storie che racconta lo scrittore può ben poco, oltre l’essere sempre perfettamente consapevole di quello che sta facendo.
Non può fare a meno di rispondere Sì! Al Gioco del “Puoi”, ma questo non toglie consapevolezza, anzi. Sa se sta venendo un buon lavoro o una schifezza. Se può funzionare o no. Sa se non ha idea di dove andare a parere («"non essere del tutto sicuro" era uno degli angoli meno graziosi del purgatorio riservato agli scrittori che filano a tavoletta senza la più pallida idea di dove stanno andando.»).
Chi abbia scritto anche solo un tema sa perfettamente di cosa si sta parlando.

Come la Scrittura “salva” Paul, allo stesso modo, la gemella Lettura condanna Annie.
La prende alla lontana e ci mette il suo tempo, ma di fatto è il bovarismo di Annie a permettere a Paul di salvarsi (fra l’altro il modo in cui avviene – non voglio spoilerare – quanto è potentemente evocativo e quanto ribadisce l’assoluta “colpevolezza” della Lettura?).
In definitiva in Misery c’è una storia pazzesca, scritta alla perfezione e il tutto quasi in secondo piano di fronte all’inno alla scrittura.
Chi non lo avesse letto, ponga rimedio!

PS
So che – almeno nel nostro miserrimo paese – King la fama di “scrittore popolare” non se l’è ancora grattata via di dosso. Come, in genere gli scrittori “di genere” siano essi di fantascienza, di gialli, di horror, di noir, di fantasy o – tout court – donne.
Baggianate.
Chi avesse dubbi vada a leggersi l’inizio di «E Johnny prese il fucile» e quello di «Misery».
Non lo scopro io e King non ha bisogno della mia perorazione.
Però, dal momento che anch’io mi chiamo Annie, e non è un caso… meglio stare buoni.
:)

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    28 Agosto, 2015
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Viziati a Morte

Una Cosa Divertente che non Farò mai più – David Foster Wallace, 1997

Nonostante ami l’acqua in ogni sua forma, l’idea della crociera (che tanto appassiona mia mamma) mi ha sempre evocato un istintivo orrore. Non solo per l’odierna – oggettiva – bruttezza delle navi da crociera, ma proprio per la cosa in sé. Un condominio sovrappopolato di sconosciuti, rumorosi, vocianti e smaniosi di divertirsi. Da girone dantesco.
Anche se devo ammettere che dal punto di vista scientifico potrebbe essere interessante…
Una nave è un po’ come un’isola.
Potrebbe essere interessante immaginare un’epidemia o qualche esperimento sociale a bordo.

Quindi, con grande entusiasmo ho affrontato per la prima volta il genio di DFW, su questo delicato tema. E non sono stata delusa.
In poco più di cento pagine, che si leggono agili e veloci, corredate da note continue, a volte veri e propri raccontini all’interno del testo, l’autore fa una serie di ritratti mordaci ed impietosi.
Ai suoi compagni di viaggio, a sé stesso e alla nostra società «perennemente in posa per una fotografia che nessuno sta scattando.»
L’autore si dimostra un osservatore acuto, quasi ai limiti della sociopatologia (e non lo dico solo perché alcune somiglianze mi hanno inquietato!) e permette di fare qualche riflessione.
Alcune molto “facilone” (come non sorridere alle descrizioni – perfette – dei turisti americani?) altre un tantino più insidiose.
A partire da quella, quasi iniziale, che nessuno va in crociera perché ci vuole andare/gli piace andarci.
Tutti ne hanno bisogno. Perché hanno vissuto un periodo di stress, perché hanno avuto una malattia o un lutto. Il nostro è piuttosto “perfido” e gira il coltello nella piaga. Sono gli stessi che non hanno “voglia” di una sigaretta (ma va bene anche dolce, salato, sesso o qualsiasi altra cosa piacevole), ma ne hanno “bisogno”.
Oppure lo fanno per qualcun altro.
Voi non avete conoscenze che sono costrette ad andare in vacanza solo perché costretti da genitori/partner/coniugi/figli/fratelli/amici, che sono preoccupati per loro, poverini, che non si riposano mai? E, ovviamente, se vi azzardate a dire che andate in vacanza perché vi piace, vi guardano con malanimo e scorre il sottotitolo “egoista!!”.
Non sono da prendere amabilmente a sberle fino al momento in cui non avranno davvero BISOGNO di qualcosa (un chirurgo maxillo-facciale, per esempio)?
Perché serve la giustificazione per fare qualcosa che piace?
(e se sapete la risposta, io l’aspetto).

Poi c’è la questione del VIZIARE.
Scopo manifesto della crociera extra lusso è viziare il passeggero.
Non pare esserci nulla di strano. È un termine molto amato dalla pubblicità, tanto che “viziare” è diventato quasi sinonimo di “prendersi cura” o “coccolare”.
Invece il nostro (o il traduttore, non so) lo riporta alla giusta connotazione.
Chi si vizia? I bambini piccoli.
Personalmente il viziare, più che una “coccola” (che in certi contesti ci può stare, come la galanteria), mi pare un’accettazione della palese imbecillità dell’altro: non ce la fai e se ti spiegassi non capiresti. Ergo levati dai piedi e lascia fare a me.
Non faccio qualcosa per te perché ti voglio bene.
Faccio qualcosa che so che faresti male, perché sei troppo stupido e non ho voglia di perdere tempo.
Nel contesto di DFW è ancora peggio, perché ci sono persone pagate (poco) per far sentire il passeggero un imbecille, prevenendo i suoi desideri e rendendolo un bambino vizioso e capriccioso.
[Non vi viene la stessa irritazione quando il mai abbastanza vituperato windows 10 invece di fare quello che VOI gli dite (dannata, stupida macchina) si mette a prevedere quello che potreste volere in base a qualche misterioso algoritmo che sa solo lui?]
E infatti, cosa dice la pubblicità della crociera?
«IL VOSTRO PIACERE», dicono tutti gli slogan delle megacompagnie, «È IL NOSTRO LAVORO».
O come osserva DFW «PENSATE SOLTANTO AGLI AFFARI VOSTRI, E LASCIATE CHE DEL VOSTRO PIACERE CI OCCUPIAMO NOI PROFESSIONISTI, PER AMOR DI DIO».

La tecnica funziona perché si innesca un circolo (vizioso, obviously).
Il “bambino” viziato diventa sempre più viziato e scontento.
E si continua con altre riflessioni piuttosto cupe.
Persone pagate (poco) per trattarti come un deficiente.
«Qui viene alla luce un tratto essenziale delle crociere extralusso: si viene intrattenuti da qualcuno a cui state chiaramente antipatici e si ha la sensazione di meritare l’antipatia nel momento stesso in cui ci si sente offesi.»
Qui non so se lo seguo.
Secondo me la maggior parte delle persone non coglie l’antipatia dello “schiavo” addetto al servizio. Ed è proprio qui la cosa subdola, per me. Molte persone – non necessariamente malate di mente – con cui ho parlato sono convinte che gli animatori dei villaggi turistici si divertano.
Ora possiamo discutere e fare la classifica del dolore. Sicuramente sono peggio le miniere del sale e il Deserto del Gobi, non lo nego. Ma… divertirsi?
Ma d’altro canto ci sono “clienti” convinti che le prostitute “godano” della loro compagnia, quindi non mi meraviglio.
Infine, la cosa forse più orripilante – almeno per me – è l’annichilimento dell’individuo, che non esiste in quanto tale, ma in quanto passeggero e che si deve divertire. Perché sì.
«Non avrete altra scelta se non quella di divertirvi.»
Non sembra un titolo un po’ horror?
«Come fanno a saperlo?»
Si chiede ad un certo punto DFW, chiedendosi come faccia il personale a cercare di anticipare i desideri della clientela.
Semplicemente non lo sanno.
I passeggeri si divertiranno perché hanno pagato per farlo e vengono “viziati”.
Molte gente vorrebbe essere al loro posto.
Quindi si divertiranno, come fanno spesso le persone al veglione di capodanno, alla settimana bianca, alla pizza con i colleghi o in ferie. O su Facebook.
DFW si chiude in cabina, come io mi chiudevo nel loculo della roulotte per sfuggire alle animazioni. Pure un po’ irritata dal dovermi giustificare per questo.
Però in cabina si può godere di un porta sapone scientificamente concepito per fare il suo mestiere.
Non male, no?
(E nel loculo si poteva leggere ed ascoltare la musica).
Anche meglio, vero?

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    25 Agosto, 2015
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Solitudine? Sì grazie!

«C’è tanta gente che soffre di solitudine. Ma io no. Proprio no. Per me non c’è toccasana migliore dell’assenza di esseri umani.»

Hugo Whittier ha quarant'anni e vive nella decadente magione di famiglia in un beato, autistico e maniacale isolamento.
O almeno ci prova.
Fratello, (fresco di divorzio), ex moglie, aspirante figlia, potenziali compagne di talamo permettendo. Intanto, cucina e scrive. Mentre cucinare è un rituale preciso, scientifico e rilassante, scrivere gli è assolutamente detestabile. Non di meno scrive. Odiando farlo e non riuscendo a farne a meno, come un guardiano del faro, abbagliato da troppa luce, ma ben conscio del proprio dovere. Hugo è caustico, cinico e, nei suoi deliri di controllo, si immedesima con Loki, dio del Caos, o con Erasmo, l' "oiseau compulsif" che vive sull'albero di fronte alla sua finestra preferita.
E per concludere, Hugo soffre e sta morendo.
Non ha nessuna intenzione di alzare un dito per impedirlo, ma pensa, questo sì, di fare una grandiosa uscita di scena.

Ho comprato questo libro l’8 maggio del 2008.
Senza nessun motivo.
Autrice mai sentita, titolo non così accattivante, quadro di Magritte in copertina senza infamia e senza lode, appiglio con “Lolita” in copertina ininfluente (non lo avevo letto).
Temo che il merito possa essere attribuito solo alla morbidezza delle copertina di Neri Pozza.
O più probabilmente ad uno degli scherzi di Loki.
In ogni modo, l’ho letto in poche ore e non appena l’ho finito l’ho ricominciato.
Non mi capita così di frequente.
Direi che Hugo Whittier, per me, è stato a metà fra l’identificazione assoluta e l’amore folle.
Con i suoi “autismi”, il suo umore “garum”, la sua misantropia, le sue manie, il suo avere sempre una parola “buona” per tutti: amore, famiglia, parenti, arte, maternità, religione, convenzioni sociali, non salva nessuno. Neppure Amleto (scoprire che non sono l’unica che non lo sopporta non ha prezzo).
Riuscendo a volte, fra una battuta pungente e uno schizzo di acidità a buttare lì qualche riflessione tutt’altro che banale.
Non è un libro di buoni sentimenti.
Ma si fa volere bene.

«Dai venti a trent’anni continuai a leggere, insaziabile come una termite. Quando tornai ad abitare a Waverley divorai piano piano tutta la biblioteca finche non ebbi la sensazione di aver viaggiato abbastanza con i miei antenati e imparato sufficientemente il loro mestiere da poter lanciare nella loro scia la mia vacillante flottiglia.
Così cominciai a scrivere. Non mi piaceva affatto ed è ancora così, ma non mi era mai parsa una questione di scelta, ma di assoluta necessità.»
(…)
«Be’, c’è sempre la scrittura. Odio scrivere, naturalmente, ma a quanto pare non riesco ad impedirmelo (…) Guarda caso oggi non mi passa niente. Proprio niente… ma se tengo la penna sulla carta le parole usciranno, se rimango seduto e la lascio fare la penna camminerà e parlerà. Magari non scriverò nient’altro che farfugliamenti per il resto della vita, ma se sembro impegnato a scarabocchiare la gente potrebbe avere il tatto e la cortesia di lasciarmi in pace, cosa che contribuisce in parte a risolvere il problema.»

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    24 Agosto, 2015
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Via del Corno - Milano.

Francesco Recami prova a dare vita ad una Via del Corno meneghina, descrivendo la vita di una "casa di ringhiera" con i suoi personaggi. bizzarri, particolari o sciatti.
Saldamente al timone della vicenda abbiamo il Consonni Amedeo, un nonno, ex tappezziere, appassionato di cronaca nera e - quasi suo malgrado - investigatore dilettante (che poteva essere un’idea geniale).
Il nostro si divide fra le merendine al nipotino e turpi crimini.
Intorno un microcosmo di altri personaggi “senza qualità” che trascinano la trama un po’ stancamente.
Fino ad un improbabile crescendo rossiniano misto a commedia (?) degli equivoci che – a me – ha ricordato tanto la Congiura degli Innocenti di Alfred Hitchcock, in cui tutti i personaggi (nonno Amedeo in testa) si comportano in modo piuttosto assurdo. E infine l’autore chiude un po’ frettolosamente.

Amedeo e Erika stan lì a chiedersi sogno o son desto?
Donatella si ritrova il marito in casa e i figli spariti e… bo?
Caterina si porta via il figlio che racconta storie pazzesche e… bo? (anzi, si preoccupa di quello che ha detto la psicologa sul disegno).
Angela cerca di far cantare Amedeo e per farlo gli promette che gli racconterà la sua storia (ovviamente nel prossimo libro).
L’unico personaggio con cui ho empatizzato è stato De Angelis e soprattutto sua sorella.
Una delle mie frasi preferite è proprio sua:
“Ma che ti è successo? Ti sei rincretinito?”

Ammetto che nella piattezza generale, un po’ rimprovero ad Amedeo il “blocco” che ha avuto quando il nipote era in pericolo. Mi è sembrato davvero forzato. Penso che nelle intenzioni dell’autore ci fosse proprio quella di descrivere un contro-cliché del detective dilettante che poi si rivela più in gamba di quelli ufficiali a prendere in mano la situazione.
Ma io l’ho trovato un bell’autogol.

Concludendo il caso viene risolto molto per caso e poco per desiderio e - secondo me – c’è più di un debito nei confronti della “Promessa – Un Requiem per il romanzo giallo” di Durrenmatt.
Poco altro saprei dire.
Libro onesto, scritto con alcuni buoni spunti ed alcune descrizioni sfiziose.
Plot e personaggi un po’ sciatti ed incompiuti.
Trama gialla un po' pretestuosa.
Cliffhanger (la storia di Angela) furbetto.

Dello stesso autore, invece, ho trovato mirabile "Il Correttore di Bozze."

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    24 Agosto, 2015
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Fare la carogna è un lavoraccio

Spoiler Lieve

Qualche anno fa mi capitò di assistere ad una rappresentazione del “Don Giovanni” di Molière; il ruolo del protagonista era interpretato da Gabriele Lavia. La pièce comprende, fra le altre cose, un monologo di Don Giovanni, di circa quindici minuti.
Quindici minuti, in scena, a parlare da solo.
Una bella sospensione dell’incredulità, come si dice.
Invece no.
Gabriele Lavia è stato in scena, per quindici minuti, con un riflettore puntato addosso, a parlare. Da solo. È la parte della rappresentazione che ho amato di più e che ricordo meglio. Neppure un vago sentore di noia.
Anzi.
Quando finisce ne vorresti ancora.
Se un autore scrive e un attore rappresenta talmente bene qualcosa che “regge” un monologo di quindici minuti, vuol dire che sotto c’è qualcosa di veramente veramente buono.
Talento, in una parola sola.
King fa la stessa cosa con la sua Dolores Claiborne.
Oltre duecento pagine di monologo. Di una donna di sessantasei anni, piuttosto sgrammaticata, che vive in un’isoletta del Maine e fa da badante ad un’anziana e bisbetica signora, Vera Donovan.
Sentiamo solo la voce di Dolores, anche se abbastanza presto capiamo che in scena ci sono altri personaggi, muti. In teoria Dolores è in arresto e le persone presenti dovrebbero interrogarla.
Ma Dolores non ci pensa nemmeno.
Racconterà che non ha ucciso Vera Donovan. Ma lo farà cominciando a raccontare di come avesse invece ucciso suo marito Joe, trent’anni prima.

Il racconto di Dolores parla soprattutto di donne; due donne. La stessa Dolores e Vera.
Molto diverse per estrazione sociale e condizioni economiche, ma simili per un aspetto fondamentale: sono due carogne.
Perché «certe volte fare la carogna è tutto quello che resta a una donna.»
Sappiamo bene perché Dolores è costretta ad essere una carogna e non sappiamo, invece, nulla di quello che costringe Vera a fare la medesima cosa. Sappiamo che, però, la loro ribellione costa molta cara ad entrambe.
Il bello di questi due personaggi è nell’abilità dell’autore di non dipingerle MAI come due “poverine”, vittime del cattivo di turno. Sono donne che dicono di no, e basta.
«Un uomo che picchia una donna a cazzotti o con un pezzo di legna da ardere non sta insegnando alcuna disciplina e alla fine ho deciso che non lo avrei accettato da nessun Joe St. George e non l’avrei accettato neanche da nessun altro uomo.»
Semplicemente.
Naturalmente il loro “no” ha conseguenze che sono accettate, senza rimpianti e tentennamenti.
Con dolore, rabbia, cattiveria e solitudine.
E anche follia.
Dire di “no” porta isolamento, perché è molto più facile solidarizzare con una vittima che con una carogna (e i passaggi in cui Dolores sottolinea questo sono quasi geniali) e porta anche al perdere gran parte del conforto umano che ci si può aspettare in sorte.
Vera e Dolores vivono insieme, in un certo senso devono la vita una all’altra e in qualche modo oscuro e ramingo devono anche volersi bene, alla fine.
Ma se di “amicizia” si vuole parlare occorrono ben più di qualche paio di virgolette.
E quindi meglio lasciarlo fare, con un paio solo, proprio a Dolores / King:
«Ma soprattutto ho pensato a Vera e me, due carogne appollaiate su uno scoglio che sporge davanti alla costa del Maine, a vivere sempre praticamente insieme negli ultimi anni. Ho pensato a come quelle due carogne dormivano nello stesso letto quando la più vecchia aveva paura e a come hanno trascorso gli anni nella grande casa, due carogne che hanno finito a passare la gran parte del loro tempo a scambiarsi carognate. Ho pensato a come lei ingannava me e come io avevo trovato il modo di ripagarla e come eravamo felici, l’una o l’altra, quando si vinceva una ripresa.»

PS
Sono al secondo libro di King del mese e al secondo personaggio femminile che mi piace. In genere può passare un anno intero senza che ne trovi UNO decente. Quindi son colpita e commossa e chiudo con Vera / King:
«Perché senza il tuo fegato, Dolores Claiborne, sei solo una stupida vecchia come tante altre.»

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    23 Agosto, 2015
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Un bel "grigio"

Un noir in cui nessuno è "pulito", ma neppure completamente "sporco". Più che un noir, quindi, un "gris".
Da una parte abbiamo i "buoni" tutori della legge, fra cui il poliziotto corrotto, il tremendo ed untuosissimo Iles, il sovraintendente Harpur che cerca di barcamenarsi come meglio può fra il dovere di poliziotto, la sua etica, la famiglia e l'amante e contemporaneamente cerca di non dare l'addio alla sua coscienza; infine c'è il "capo" Lane, che, giunto da poco e in un ambiente un po' ostile fa del suo meglio e – non fosse altro che per i suoi calzettoni – vince l'ambita palma di "mio preferito" (il che significa irrevocabilmente che nel prossimo libro tirerà il calzettone, e cara grazia che non l'abbia già fatto in questo).
Dalla parte dei "cattivi" abbiamo "Tenerezza" che guida un ben avviato gruppo di estorsori, il suo braccio destro (Ripeto) Come Sopra, due fedeli sgherri (Len e Reg) e la new entry, il sofisticato (!) Vernon.
Abbiamo tre donne: la moglie e l'amante di Harpur e la moglie di Tenerezza. Una più inutile dell'altra, come da copione.
E abbiamo anche un bambino, Graham, il figlio di Tenerezza, che diventa il perno della vicenda, dal momento che viene rapito, per vendetta, da un "concorrente" del padre.
La narrazione si snoda in capitoli in cui la narrazione prosegue dal punto di vista dei personaggi: abbiamo i buoni, i cattivi e Graham. I capitoli di Graham sono quelli più "particolari" dal momento che il bambino soffre di una forma di ritardo mentale e la realtà che vive viene descritta attraverso questo filtro, con il quale cerca di spiegarsi le cose.
C'è anche una singolare somiglianza fra i modi di Isle e quelli di Come Sopra che partono dal presupposto di dare sempre ragione all'interlocutore e di elogiarlo (beninteso quando questi sia un "superiore").
Solo che nel caso di Come Sopra sembra che ci sia anche una certa sincerità di intenti.
Comunque la vicenda scorre via abbastanza lieve per un lungo tratto non sapevo se parteggiare per Tenerezza o per Harpur, poi ho scelto Harpur, che, poverino, di certo è peggio accompagnato; inoltra mostra una qualche astuzia e ha il merito – se non altro – di porsi qualche dilemma etico.
In definitiva la lettura è stata veloce e piacevole.
Linguisticamente molto interessante e mi piacerebbe poter dare un'occhiata al testo inglese.
La scelta dei toni e del lessico è molto ponderata e serve moltissimo a caratterizzare i personaggi. È senz'altro l'aspetto che ho apprezzato di più. La vicenda noir, in sé, è un po' esilina.
Non mi fionderò in libreria ad acquistare i seguiti, però certamente li leggerò tutti, perché che ne sarà di Colin Harpur mi interessa. È fatale quando il nome del detective comincia per "H".

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    23 Agosto, 2015
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Due cuori, uno luminoso, l'altro buio.

Appena ho chiuso questo libro, ho pensato di aver appena finito una delle più belle storie d’amore mai lette; di solito non amo il genere “storia d’amore”. In particolare trovo estremamente difficile che le “love story” non siano noiose.
Tristano e Isotta, per me, sono LA storia d’amore. Pochi altri hanno avuto il mio plauso, dopo di loro.
Ma uno è King con la sua Lisey.
E dal momento che si parla di King e di una storia d’amore che piace a me, ovviamente essa è scarsamente “canonica”.
Lisey è la devota ed amatissima moglie di Scott Landon, scrittore di successo, cresciuto in una famiglia difficile e con più di qualche ombra nel suo passato.
Lisey è una moglie quasi sempre in ombra, come apprendiamo sfogliando insieme a lei alcuni ritagli che celebrano la carriera del marito. Poco presente nelle fotografie, quando presente spesso indicata con un nome sbagliato, scritto male, definita “amica” o non menzionata affatto.
In realtà Lisey è una donna coraggiosa ed intelligente che, di fatto, passa la vita accanto a suo marito, capendolo sempre e salvandolo molte volte.
Lisey salva Scott da sé stesso, dai fantasmi del passato, da psicopatici attentatori armati di pistola (e lo salva a colpi di vanga – scena grandiosa, peraltro).
Sfogliamo i ritagli perché Scott è morto e Lisey alla fine decide di riordinare le carte del marito.
Partendo da qui ripercorriamo alcuni momenti della loro vita insieme, apprendiamo il linguaggio segreto che i due coniugi hanno usato (ed usano) ed apprendiamo di un “altrove” dove ci si può rifugiare e qualche volta guarire dal male che si incontra “qui”.
Ma l’altrove è un posto pericoloso, abitato da presenza inquietanti ed insieme di sublime bellezza. Un luogo con regole precise che non possono essere violate.
Neppure quando si torna Qui.
Non voglio spoilerare, ma Lisey con l’aiuto di Scott dovrà affrontare un altro pericoloso e sadico psicopatico, compiere innumerevoli viaggi da qui all’altrove, ritrovare una sorella, prendere forse congedo, per un po’, dal marito.
Il tutto scritto come un continuo passaggio fra presente e passato, fra qui ed altrove, fra un personaggio e un altro. Poteva essere caotico fino a diventare delirante. Ed invece è mirabile.
Certamente uno dei punti di forza del libro.
L’altro, of course, come si diceva è l’amore.
Quello fra Lisey e Scott talmente radicato in loro e allo stesso tempo “normale”, da esigere un linguaggio proprio. Un amore che parte con la consapevolezza che amare non solo rende vulnerabili, ma fornisce anche un tremendo potere sull’altro.
Poi c’è la famiglia.
Quella di Scott che è un grumo di dolore, quella di Lisey viene descritta con pennellate caustiche di rara veridicità, con le sue nevrosi ed ipocrisie di fondo. Ma c’è anche l’amore. In particolare fra fratelli (Scott e Paul) e fra sorelle (Lisey ed Amanda) anche questo ripercorso attraverso ricordi e linguaggi che mi hanno fatto pensare a “Lessico Famigliare” della Ginzburg; ed infine l’amore forse più disperato e impotente, quello paterno, di Sparky Landon per i suoi figli ed in particolare – alla fine – per Scott.
Lo so che forse parlare di “amore” per quest’uomo malato e violento possa anche suonare incongruo. Però ho trovato tanto brutalmente tenero il modo in cui, alla fine, permette al figlio di salvarsi che… e va be’. Mi son proprio commossa.
Ah.
Da leggere subito, obviously.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    18 Agosto, 2015
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Un Titano Dolente, mai "suo malgrado".

«Un famoso storico latino dichiarò che sarebbe stato disposto a far vincere a Pompeo la battaglia di Farsalo, se lo avesse richiesto un giro di frase più efficace.
Nonostante io non mi sia spinto fin qui, alcuni errori di fatto, in questo libro, sono voluti. Ho modificato l'ordine di numerosi avvenimenti. Ho inventato là dove i dati storici erano incerti o incompleti (…).
Ma, se in questo libro sono presenti delle verità, sono le verità della narrativa più che della Storia. Sarò grato a quei lettori che lo accoglieranno per ciò che vuole essere: un'opera dell'immaginazione.»
Cosa mi ricordo di Caio Giulio Cesare Ottaviano Augusto da Liceo ed Università?
Agosto, pax romana, chiusura del tempio di Giano, "Varo Varo rendimi le mie legioni", adottato da Cesare, Azio, Filippi, Virgilio, Orazio, l'esilio di Ovidio, la Damnatio Memoriae di Cornelio Gallo, Mecenate, Agrippa.
Per molti Ottaviano è il primo imperatore romano.
Io l'ho sempre visto un po' schiacciato dalle figure che lo hanno preceduto e seguito.
Lo smagliante Giulio Cesare e il gotico Tiberio (tutte le mie simpatie al primo, ovviamente).
Williams sceglie proprio Augusto per cimentarsi con il suo terzo romanzo (dopo Butcher's Crossing e Stoner). E sceglie anche la forma epistolare. Mi ci è voluta qualche pagina ad abituarmi a questo stile narrativo, ma poi i fatti incalzano e la narrazione scorre via veloce.
A parte le pagine finali, non sentiamo mai la "voce" di Augusto e non leggiamo mai le sue parole.
La figura emerge dagli scritti della madre e dello zio Cesare, del patrigno, degli amici, dei nemici (fra cui Cicerone), dei generali. E successivamente della moglie, della figlia, dell'amata sorella. E, detto fra parentesi, gli amici sono Mecenate, Agrippa, Orazio. Abbiamo lettere di Ovidio a Properzio.

Quello che emerge è la figura di un titano dolente.
Nelle lettere che si susseguono e descrivono la storia di Roma, Augusto appare come un uomo votato – suo malgrado – alla ragion di stato. Un giovane che avrebbe voluto essere uno studioso e che fu costretto ad essere un soldato, un uomo che avrebbe trovato gioia in una dimessa vita domestica con la moglie e l'amata figlioletta Giulia, a che invece fu costretto a mettere il suo potere, la sua saggezza e la sua ricchezza al servizio dello stato per la grandezza di Roma.
Un uomo sempre generoso e – potendolo essere – clemente.
Dal punto di vista narrativo, questa parte è estremamente godibile.
La scrittura di Williams non ha bisogno di essere presentata e descritta. È lo scorrere fluido di una mente lucida; molto difficile da descrivere, somiglia un po' ai suoi protagonisti: fa alla perfezione quello che deve fare per arrivare a veicolare il suo messaggio al lettore. Non di più, non di meno.
Non è ridondante, non è asciutta.
È "giusta così" verrebbe banalmente da dire.
Orazio scrive a Mecenate, in occasione della morte di Virgilio:
«Scrissi una volta che Virgilio era la metà della mia anima. Ora sento che quella ritenuta da me un tempo un'esagerazione era invece una sottovalutazione. Infatti, a Brindisi, giace una metà dell'anima di Roma. Ci è stato tolto molto più di quanto sappiamo… Eppure i miei pensieri tornano alle cose più insignificanti, a cose che soltanto tu ed io, forse potremo mai capire. A Brindisi, giace. Quand'è che noi tre viaggiammo così felicemente attraverso l'Italia, da Roma a Brindisi?
Vent'anni fa…
Sembra ieri. Sento ancora gli occhi bruciarmi per il fumo della legna verde che i proprietari di locande accendevano nei loro caminetti, e sento le tue risate simili a quelle dei fanciulli lasciati liberi dalla scuola. E la contadinella pescata a Trivicus, che promise di venire nella mia stanza e non venne. Sento Virgilio burlarsi di me e ricordo i giochi sfrenati. E le conversazioni pacate. E gli agi lussuosi di Brindisi, dopo la campagna. Non tornerò mai più a Brindisi.»
Dalle lettere emergono le guerre civili, le lotte, gli intrighi, le manovre e la ragion di stato. Veniamo a conoscenza delle decisioni di Augusto senza sentirne mai la voce. Apprendiamo dell'esilio dell'amata figlia Giulia, dalla scritta "Pandataria" in alto, accanto all'indicazione "diario di Giulia".
Come un complicato mosaico corale, i piccoli frammenti vanno lentamente a posto e restituiscono la storia di Roma.
Non quella di Augusto.
Almeno non completamente.
Il nostro si concede il lusso della chiusa del libro (e della propria esistenza) per dire – per la prima e unica volta - la sua opinione.
Devo ammettere che questa "Parte Terza" è decisamente la mia preferita.
Ne emerge – in modo non completamente inaspettato – una figura forte e lucida, e diversamente da quanto emerso dagli sguardi esterni, mai "suo malgrado".
«Quando ero giovane, avrei detto che la solitudine e la segretezza mi erano state imposte. E sarei stato in errore. Come quasi tutti gli uomini, scelsi allora la mia vita. Decisi di rinchiudermi nel sogno formato in parte da un destino che nessuno avrebbe potuto condividere, e rinunciai così alla possibilità di quel genere di amicizia umana tanto comune da non essere mai nominata, e per conseguenza apprezzata di rado (…) eppure quei giovani erano miei amici, mi erano carissimi nel preciso momento in cui, in cuor mio, rinunciavo a loro.
Quale perverso animale è l'uomo, che ha caro soprattutto quanto rifiuta o abbandona.»
Alla fine della vita, Augusto "mette a posto" le cose che non tornano dalla mera elencazione delle sue gesta: la sua scelta è la prima cosa.
Poi tocca alla motivazione di tale scelta:
«Ho vissuto di gran lunga più dei miei amici, nelle cui vite esistevo più pienamente che nella mia. Quei miei primi amici sono tutti morti. Giulio Cesare morì a cinquantotto anni, quasi vent'anni più giovane di me adesso. E io sono sempre stato convinto che la sua morte sia stata determinata tanto da quella noia preannuncio di noncuranza, quanto dalle spade degli assassini.»
Augusto sa che il suo tentativo di pacificare i confini e rendere sicura Roma è destinato a fallire. Non subito né presto.
Ma sa che accadrà.
Ma «ci sarà stato un momento di Roma, e non morirà del tutto.»
E questo basterà.
«Il barbaro diverrà la Roma che avrà conquistato, il nostro latino scioglierà la sua lingua rozza, e la visione di quanto ha distrutto gli scorrerà nel sangue. E, nel tempo che è incessante come so, il costo non è nulla, è meno di nulla.»
Per questo momento, il nostro ha rinunciato ad amicizia, famiglia, amore, studi ed arte, senza mai un accenno di rimpianto. Trovo particolarmente significativo il passaggio dell'incontro casuale con la vecchia nutrice Irzia, mentre si sta recando in Senato per condannare Giulia all'esilio. Augusto sa che se fosse dipeso dalla donna, Giulia sarebbe stata salva e Roma distrutta. Lui ovviamente sceglie il contrario.
Congedandosi, Augusto parla lungamente dell'amore, partendo da quello più vituperato: «Contrariamente a quanto possiamo credere, l'amore erotico è la più altruista fra tutte le manifestazioni dell'amore: cerca di fondere l'uno nell'altra e quindi di sottrarsi all'Io. Questo genere di amore è il primo a morire, naturalmente, in quanto viene meno con il venir meno del corpo. E per questa ragione, senza dubbio, molti l'hanno ritenuto la più spregevole fra le manifestazioni dell'amore. Ma il fatto che si spegnerà, e che noi sappiamo che sia destinato a spegnersi, lo rende più prezioso. E, dopo averlo conosciuto, non siamo più irrimediabilmente intrappolati ed esiliati nell'Io.»
Tocca poi all'amicizia e all'amore omosessuale, fino a che non troviamo un altro amore:
«È l'amore del poeta per le sue parole. Così Ovidio non è solo nel nordico esilio a Tomis, né tu sei solo nella tua remota Damasco, dove hai deciso di dedicare gli anni che ti rimangono ai libri. Non occorre alcuna creatura vivente per un amore così puro, e di conseguenza viene universalmente riconosciuto che è questa la forma d'amore suprema, in quanto va ad un oggetto che si avvicina all'assoluto.»
Ma Williams non fa mai sconti «Eppure, sotto certi aspetti, può essere la forma di amore più vile. Poiché (…) questo si rivela né più né meno come un amore del potere. È il potere di cui dispone il filosofo sulla mente disincantata del lettore, il potere che ha il poeta sulla mente viva e sul cuore dell'ascoltatore. E se la mente, il cuore e lo spirito di chi viene a trovarsi sotto l'incantesimo di questo potere ne sono innalzati, è un fatto accidentale non essenziale ai fini dell'amore, o anche del suo scopo.
Ho cominciato a rendermi conto che è stato questo genere d'amore ad avermi spronato nel corso degli anni.»
E mentre si legge tutto assume un senso e una compiutezza rara e preziosa.
Tuttavia, a lettura finita e dopo qualche giorno si riflessione, non posso fare a meno di chiedermi…
Quando Stoner c'è, in questo Augustus?

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Stoner, Graves (e anche Orazio, Virgilio e Properzio).
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    12 Agosto, 2015
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Oltre, Altro, Altrove... Oltrove?

Alla ricerca, in biblioteca, di American Gods, ed essendo lo stesso in prestito, ho "ripiegato" su StarDust e Coraline, dopo aver letto "NeverWhere" (“Nessun Dove”) e “Cose Fragili” (l’ho già detto che amo Sherlock Holmes?) sempre di Neil Gaiman.
Curiosamente, StarDust è considerato una lettura per adulti, mentre Coraline è collocato nella narrativa per ragazzi (avrei detto esattamente il contrario).
Di StarDust vidi, tempo addietro, il film che è molto molto carino (diciamolo, ho in mente un paio di scene con De Niro e con gli spettri dei fratelli che se ci penso rido da sola).
Il libro non è da meno.
Come accade in tutti i Gaiman letti finora, c'è sempre un "oltre/altrove" molto vicino (può essere "Londra-sotto", Faerie, o il mondo "altro") a cui l'accesso è tutto sommato abbastanza semplice e i cui abitanti sono abbastanza simili a quelli "al di qua".
Ma non del tutto.
Qui abbiamo molti stilemi del romanzo/racconto di formazione: il protagonista poco più che adolescente (Tristran) che – noi sappiamo, ma lui no – non è così "normale".
Tristan lascia la terra natia per una "missione impossibile", per conquistare la bella (e vacua) amata deve portarle una stella cadente. Cercando il suo amore (e la stella caduta), Tristan trova sé stesso, si innamora (davvero), ed abbiamo pure l'agnizione finale (detto così sembra un po' Guerre Stellari), e una morte alla fine riconciliante e non "nemica".
Non c'è, come in NeverWhere e Coraline un "male" vero e proprio (e io trovo che l'Angelo di Islington sia un malvagio davvero notevole), perché anche le tre sorelle, e la carceriera in fondo non lo sono. E questa cosa mi è piaciuta.
Il romanzo è lieve, ma non banale; è stata una lettura molto piacevole che di certo consiglio.

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Coraline, Cose Fragile, Nessun Dove - Neil Gaiman.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    12 Agosto, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Attenta a ciò che desideri...

…specie quando lo ottieni.

Coraline la definirei una favola horror: protagonista (con narrazione in terza persona) una ragazzina – cosa decisamente pericolosa, in genere, ma che a Gaiman riesce alla grande – che si sente trascurata dalla famiglia e vagheggia una sorta di "mulino bianco" affettuoso ed accogliente (magari giusto senza Banderas e la gallina, va’).
Lo trova – inaspettatamente – in un varco attraverso una porta apparentemente murata. Al di là vi è una realtà apparentemente bella, con genitori affettuosi, cose buone da mangiare, considerazione.
Ma.
Le persone non hanno gli occhi, al loro posto bottoni neri.
Coraline può rimanere ed essere felice, ma dovrà accettare di farsi cucire i bottoni al posto degli occhi (ma non fa male, assicura l'Altra Madre).
Coraline è perplessa e il personaggio dell'Altra Madre è complesso. Appare affezionata alla bambina, ma scopriamo che ha la tendenza a "prendere" le persone, soddisfare il suo bisogno di affetto e poi liberarsene. Ben presto Coraline scopre di doversi salvare e di dover salvare anche i suoi veri genitori e le anime di tre bambini che sono stati ingannati, in passato, dall'Altra Madre.
La aiuterà un gatto nero che è il mio personaggio preferito.
Alcuni elementi son piuttosto agghiaccianti (il teatro, l'Altro Papà in cantina, la mano etc), però penso che (anche) da bambina mi sarebbe molto piaciuto leggerlo.
Come Nessun Dove e Stardust, anche questo lo consiglio vivamente.
Ad Maiora!

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Nessun Dove, Cose Fragili, Stardust - sempre di Neil Gaiman
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    11 Agosto, 2015
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L'evoluzione della "telesega".

S-P-O-I-L-E-R

In questo mese di agosto del 2015 ho letto “Le ho mai raccontato del vento del nord?” dell’austriaco Daniel Glattauer.
Ed essendo agosto non posso esimermi dalla recensione un po' da ombrellone.
Non amando i melò e la maggioranza delle storie d’amore su carta, dovrei raccontare come mai mi sono imbattuta in questo, ma sarebbe una long long story.
Diciamo che il romanzo si legge in una serata e la lettura scorre via in modo non eccessivamente molesto.
La vicenda si snoda attraverso uno scambio di e-mail fra i due protagonisti.
Cominciato per sbaglio e continuato per desiderio.
Leo ed Emmi cominciano una relazione epistolare (ai tempi del pc) e attraverso le loro parole elettroniche l’autore ci descrive i loro caratteri, le loro vite, il loro rapporto.
Da internauta della prima ora, che casualmente condivide recensioni in rete, non sarò certamente io a sorprendermi di amicizie e relazioni che nascono (e a volte prosperano) in mancanza di vicinanza reale. Ad estremizzare un po’, la differenza con i romanzi epistolari del ‘700/800 sta semplicemente nel fatto che lì ci si vedeva “prima” e qui (a volte) ci si vede “dopo”.
E qui entra a gamba tesa il nostro amico Eggers con il suo Cerchio.
La riflessione che mi ha portato questo romanzo è che la realtà sociale virtuale è nata per gli “smanettoni sfigati” come li definisce Eggers, quelli che negli ‘80-’90 giocavano con i videogiochi e gli orologi con il calcolatore, mentre i “normali” giocavano in cortile o cominciavano a pomiciare al muretto. Poi sono cominciati i forum, le mail-list, le chatroom, le comunità virtuali che poi si sono evolute negli attuali social network. Non è un caso che – nel lavoro di Eggers – il creatore del mondo “virtuale” del Cerchio sia un personaggio con qualche tratto autistico che richiama abbastanza esplicitamente Zuckerberg. La realtà virtuale andava bene per quelli che non avevano dimestichezza con quella reale. Ed aveva regole e linguaggi molto particolari e diversi da quelli “reali”.
Poi è successo che i “normali” hanno cominciato ad interessarsi alla realtà virtuale e agli “smanettoni sfigati”. Con il risultato che adesso su facebook si leggono post di persone che rimpiangono il muretto, il cortile e – in generale – il mondo non virtuale… e lo scrivono su un social network!

Ecco, secondo me il romanzo di Glattauer parte con questo grosso difetto.
Una storia virtuale con gli stilemi del linguaggio reale: le mail stucchevoli in cui Emmi si lamenta che Leo non le scrive, salvo poi scoprire che lui era via e non aveva potuto farlo. Le scenate di gelosia, mai neppure un po’ velate.
Hanno davvero poco del virtuale e molto molto del reale.
Perché i due personaggi decidano di continuare a scriversi non è dato capirlo.
E ancora.
Di cosa si “innamorano” i due personaggi? Solo del mistero di non vedersi e non conoscersi?
Del fatto di annoiarsi entrambi?
Le mail sono brevi e molto poco di loro emerge.
E - diciamolo francamente – cosa induce Leo a non mandare a stendere l’insopportabile Emmi?
Che ha la vita perfetta, il marito perfetto, i figlioli perfetti, fa capire di essere pure gnocca ed indipendente e realizzatissima, ma poi rompe le balle a uno sconosciuto perché (lui) fa tardi la sera.
Naturalmente Leo ha alle spalle un difficile rapporto con la madre (appena morta) e una storia annosa di cui non riesce a liberarsi (ma ci riuscirà, incredibile, ma vero).
Secondo me l’autore si rende conto di queste pecche della storia e cerca di movimentare le cose.
Dopo un tediante tira-e-molla i due decidono di vedersi, ma giocano e barano un po’. Decidono di trovarsi – nel lasso di tempo di un intero pomeriggio – in un bar affollato e si sfidano, una volta tornati a casa, a fare ipotesi su chi potessero essere. E Leo bara pure perché, per spiazzare Emmi, invece di andare solo si fa accompagnare dalla bellissima sorella che finge di essere la sua fidanzata.
Ma non vi preoccupate perché son piuttosto bellocci tutti e due (ma va’?).
Poi i due fanno in modo di sentire uno la voce dell’altro (voci stupende, e come dubitarne?) e qui per fortuna siamo verso la fine, perché la storia vira perigliosamente verso la noia.
L’autore se ne accorge e mette in campo perfino il marito di Emmi che tanto la ama da volere che Leo si decida a “farla sua” per poi restituirla alla pace coniugale (?)
E il povero Leo, alla fine ci sta. Decide di trasferirsi a Boston e di non scrivere più ad Emmi dopo il loro incontro. Al prevedibile sbigottimento di Emmi, seguono mail in cui si organizza l’incontro ed arriva anche la fatidica sera.
E come fa l’autore a farci sapere com’è andato quest’ultimo/unico incontro?
Be’ con un paio di espedienti. Il primo è che Emmi non si presenta all’appuntamento a casa di Leo e ovviamente gli scrive per spiegargli il motivo. E il motivo è che suo marito, mentre lei stava per uscire e correre da Leo, l’ha chiamata proprio “Emmi”, nomignolo che non aveva mai usato prima etc etc. Epifania (?) di Emmi.
(Il nomignolo sbagliato al momento sbagliato. Quale soavità, neppure Andrea Sperelli era arrivato a tanto! Bisogna fare un appunto mentale ai poveri uomini: “Tesoro/amore/dolcezza sono tuoi amici, usali!”).
Ovviamente Leo non leggerà mai il messaggio, perché la sua casella di posta elettronica è stata disabilitata.
Ora. Immagino che questo sarebbe il momento dei fazzoletti, nella volontà dell’autore, ma io resto del parere del Conte Mascetti ("Amici Miei" - Germi-Monicelli, 1975).
- Ci siamo quasi…
- A cosa?
- Alla telesega.
Per l’occasione diventata e-seg@.
Cambia il mezzo, mica la sostanza.


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A chi ama i melò.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    10 Agosto, 2015
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Un nonnino un po' pulp...

SPOILER

2 maggio 2005 Allan Karlsson compie 100 anni.
… e decide di fuggire scavalcando la finestra della casa di riposo dove vive. Perseguitato da un'infermiera che sembra uscita da "Amici Miei – Atto III", Allan si dirige alla stazione dei bus, destinazione ignota.
Qui un malvivente giovinastro gli ordina in malo modo di tenergli d'occhio la valigia mentre va in bagno.
Allan ruberà la valigia, che è piena di denaro.
E il giovinastro morirà, di lì a poco, in una cella frigorifera. Ivi dimenticato da Allan e dal un suo – appena conosciuto - complice Julius. Sorte analoga (ma all'estremo angolo del pianeta) toccherà ad un altro membro della banda (in realtà morirà schiacciato da un elefante instigato da Allan, ma poi il corpo sarà ritrovato… altrove. Lunga storia). Il capo-banda, invece, penserà bene di mettersi dalla parte di Allan e di unirsi alla sua, di banda.
In parallelo con la vicenda contemporanea, il romanzo ripercorre la lunga vita di Allan, più o meno dal suo inizio.
Una vita incredibile, letteralmente dentro a tutti gli avvenimenti del secolo. Ma non solo "dentro".
In genere Allan non è solo "testimone" degli eventi, ma decisamente "causa" degli stessi.
Tipo l'incendio di Vladivostok nel 1953.
Altri personaggi incroceranno il cammino di Allan. Sia nel tempo presente, sia nella narrazione del passato. Predicatori pazzi, omonimi di illustri scienziati, signorine troppe stupide per fare le cameriere (ma adattissime ad essere ambasciatrici), amabili fisici nucleari sovietici, De Gaulle, Stalin, Lyndon B. Johnson etc.
Sboccate ex-fanciulle in fiore proprietarie di elefanti, quasi-dottori in ogni branca dello scibile umano, teneri commissari e viscidi Pubblici Ministeri.
La lettura è lieve, ma non banale, secondo me.
Rimane addosso quella sensazione rassicurante, anche sé – ahimè – completamente fallace, che "vada tutto bene", che traspare da certi film di qualche anno fa, tipo "Don Camillo e Peppone" in cui, sì, c'erano opinioni divergenti, ma alla fine prevalevano il buon senso, il rispetto dell'altro, la vita.
In questo libro muoiono solo i cattivi (a volte i pazzi) e sembrano un po' le morti di Pulp Fiction, talmente fumettose e truculente che alla fine fanno ridere.
Ahimè, alla fine non va tutto bene, e il buon senso, il rispetto e la vita non prevalgono,però finché leggi il libro fai finta di crederci.
Ed è piacevole.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    09 Agosto, 2015
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"Bomba o non bomba, noi..."?

SPOILER
(Anche su "Ritratto di Signora" di H. James e su "L'Età dell'Innocenza" di E. Wharton).

In genere ce n’è uno per classe.
Di Svedese, intendo.
Quel compagno che riesce benissimo in tutte le materie, ma non si appassiona a nessuna. Che prende il massimo di fisica, come di latino, di chimica come di inglese, di filosofia come di matematica; ed eccelle pure in ginnastica, disegno e musica… ah, e fa anche dei temi tanto bellini.
E non è il solito “secchione” smunto, brufoloso, con il colorito verdino e un po’ stronzetto.
In genere è belloccio, generoso, pronto a dare una mano a tutti e a fare da “mediatore” con eventuali docenti furiosi.

Il protagonista di Pastorale Americana di Roth è proprio come GianMaria De Carolis della 3°B.
Poco importa che si chiami Seymour Levov, detto “Svedese”.
Uomo di mille talenti e di nessuna passione.
Vive, si impegna e riesce benissimo in quello che fa. Senza provarne piacere o soddisfazione alcuna. Fa quello che va fatto e che ci si aspetta da lui.
Sempre.
Si “comporta bene”, come avrebbe detto mia nonna.

Ho letto questo libro poco dopo “Stoner” e forse proprio per questo il contrasto fra i due protagonisti mi è parso tanto forte.
Un uomo con mille qualità e nessuna passione.
Un altro con poche qualità e una passione.

Fino circa alla metà del libro, ho pensato che Roth stesse facendo una critica storico/sociale a certa America attraverso il suo “campione” Seymour Levov. Ossia che il perfetto americano, modellato a tavolino con il DAS fosse, in realtà, insipido, vacuo, noioso e tendenzialmente insopportabile.
Pensavo che lo Svedese fosse percepito così da tutti e addirittura, “così” nelle intenzioni del suo autore.
Scambiando qualche impressione con altri lettori, ho capito che no. Non era così.
Ho scoperto, invece, che lo Svedese è un personaggio in genere amato, positivo, in cui il lettore tende ad identificarsi (il fatto che io lo abbia detestato, come personaggio, e non sia mai riuscita ad empatizzare con lui è il motivo del "3" in "piacevolezza").
Ciò mi ha portato a riflettere su altre figure letterarie.
E ad esempio a pensare che Seymour Levov sia il diretto discendente di Newland Archer, protagonista di “L’età dell’Innocenza” di Wharton e anche di Isabelle Archer, protagonista di “Ritratto di Signora” di Henry James.
Due personaggi i cui autori tendono a “dirci” spesso le qualità: oh sì, la cara Isabel è tanto intelligente, acuta e smaniosa di libertà, cultura, indipendenza, dice Henry James.
In realtà, dalle azioni di Isabel, emerge un’ochetta a cui aver ereditato qualche soldino dà alla testa, con un talento particolare per scansare potenziali mariti ben intenzionati e cadere nelle braccia del primo personaggio con un qualche neurone in capo, che ovviamente la sfrutta e la rende infelice (e che la mocciosa fosse figlia dell’ “amica del cuore” lo avevamo capito tutti. Dalla terza riga. Tutti. Tranne l’intelligentissima Isabel).
Invece Newland Archer è davvero pieno di qualità: Wharton lo descrive belloccio, intelligente, appassionato (a cosa?), ma soprattutto, oh sì, innamorato.
Innamorato, ma tanto, della povera Olenska. Tanto amore. Ma tanto tanto, da far impallidire, al confronto, la debole infatuazione per la piccola, scialba, convenzionale May.
Solo che, al momento di fare qualcosa, di prendere una decisione… la piccola May tira fuori un minimo di piglio e il buon Newland e tutto il suo amore si sciolgono come neve al sole.
(Tutta la mia simpatia alla povera May che ha pure lottato per accaparrarsi un simile catafalco, e che la buona Olenska vada ad accendere un cero per grazia ricevuta)

L’opposto del mio amatissimo William Stoner. Lui sì che la passione la conosce.
Una (la letteratura) che poi gliene fa scoprire un’altra (l’insegnamento).
Passioni “vere” che mettono in secondo piano tutto il resto, che fanno fare al nostro scelte difficili, impopolari, dolorose quasi senza che il lettore se ne accorga.
Non spiegoni, non grandi dichiarazioni di intenti.
Fatti. Discreti e minuti.

Comunque, dal dinamico duo Archer&Archer (con buona pace dei coniugi Levov) salta fuori lo Svedese.
L’orgoglio di una famiglia, di una comunità, di una nazione.
Campione sportivo, soldato, figlio perfetto. Partito dalla gavetta più dura (la famiglia ha una fabbrica di guanti da donna), diventa un “imprenditore” illuminato. Si innamora di Miss New Jersey (che è cattolica, mentre i Levov sono ebrei), supera qualche contrasto con il padre (anche se, in realtà, è Miss New Jersey a superarli, scopriremo dopo), la sposa, vanno a vivere nelle casa dei sogni e mettono al mondo una bambina, Meredith, detta Merry. Naturalmente lo Svedese è folgorato dalla beltade, vivacità, intelligenza della sua creatura.
Tale abbacinante perfezione, però, ha una pecca.
La piccola balbetta.
E nonostante il padre perfetto della famiglia perfetta, per la figlia (quasi) perfetta metta in campo le umane e le divine, il problema non si risolve.
Come sempre accade, con l’adolescenza, i problemi crescono in modo esponenziale.
E lo Svedese non sa come comportarsi.
Quello che ci si aspetta da lui è che sia un “buon padre”, ma le indicazioni non sono precise. Se è stato relativamente facile essere un buon figlio/studente/soldato/imprenditore/marito la casella “padre” non vede una votazione molto alta. Lui si impegna, va detto. Ci prova in ogni modo.
Prova a non essere come il fratello Jerry, collerico ed impulsivo, prova a non essere come suo padre, autoritario e rigido, prova a fare il padre/amico. Con risultati disastrosi.
Nei “dialoghi su New York” in cui si riportano i pacati, razionali e misurati discorsi dello Svedese a Merry quello che alla fine stupisce è che la ragazza non gli abbia dato fuoco.
È così noioso, banale e politically correct da irritare non solo un’adolescente arrabbiata, ma anche chi lo sia stato anche solo per un quarto d’ora nella vita, adolescente ed arrabbiato.
Priva di guida Merry involve nell’estremismo più violento e caotico e la situazione si trascina fino alla drammatica svolta.
Merry mette un bomba all’ufficio postale di Newark, causando la morte di un innocente per poi darsi alla macchia.
Per la famiglia Levov è per lo Svedese è un colpo mortale.
La famiglia, nel momento in cui si sente veramente americana dopo tre generazioni di dura gavetta, si vede ri-precipitata (o così si percepisce) nel novero dei “non graditi”.
E lo Svedese si vede servire il suo primo-unico-e-completo fallimento nell’unica cosa in cui aveva investito davvero sentimenti ed energie.
In cui non si era limitato a fare “quello che ci si aspettava da lui” ma aveva davvero cercato di mettersi in gioco.
E da qui in poi la scrittura di Roth, che in genere è sublime, diventa geniale. Perché attraverso la narrazione di episodi della vita dello Svedese – senza continuità cronologica – impariamo davvero a conoscerlo come personaggio. Capiamo che il suo principale problema è non comprendere la natura degli altri e, alla fine neppure la propria. In questa lunga narrazione abbiamo momenti di epifania – in cui in effetti lo Svedese sembra comprendere davvero – come quello in cui capisce che i ragazzi che vanno a mettere le bombe sono quelli normali, non gli altri, e momenti in cui, penosamente, ritorna sui sentieri già percorsi.
Il punto più drammatico è il momentaneo ritrovamento della figlia.
Merry vive miseramente in un sottopassaggio, a Newark, dopo aver abbracciato una qualche filosofia non violenta, che – fra l’altro – le impedisce di lavarsi per non fare male all’acqua, la costringe ad andare in giro con un collant intorno alla bocca per non fare del male agli organismi dell’aria e simili amenità. Apprendiamo che ha ucciso altre tre persone (credo prima della svolta non-violenta) e che nelle sue peregrinazioni è stata stuprata un paio di volte.
In questa situazione drammatica, orribile, tremenda in cui si trova, con una figlia traumatizzata, denutrita, francamente – secondo me – ad un passo dalla demenza… lo Svedese di mette a ragionare con Merry, sul perché stia seguendo questa filosofia di vita, su perché tale filosofia sia nata e prosperi solo in India etc etc.
Lei argomenta assurdamente, come sempre, e dice che non tornerà mai.
Affranto lo Svedese si allontana e preso dalla disperazione chiama l’unico fratello che ha, il sanguigno Jerry.
Questo dialogo, secondo me è il punto centrale di tutto il romanzo.
Jerry, nel suo modo brutale e spiccio, esorta Seymour all’azione e si offre di aiutarlo. Di fronte al “blocco” delle Svedese (che non può “costringere” Merry a tornare a casa, perché lei non vuole) Jerry dice quelle che sembrano le prime parole di buon senso sulla questione:
«Al diavolo quello che vuole lei. Rimonta su quella cazzo di macchina, va’ là e tirala fuori per i capelli da quella stanza del cazzo. Dalle dei sedativi. Legala. Ma portala via. Ascoltami. Tu sei paralizzato. Non sono io quello che crede che avere una famiglia unita sia la cosa più importante di questo mondo… Sei tu. Rimonta su quella macchina e valla a prendere.»
Ma lo Svedese è paralizzato davvero.
E l’irascibile Jerry trova il modo superare il complesso di “essere il fratello minore” – sfigato – di Seymour Levov, fornendo un ritratto impietoso e sostanzialmente veritiero di tale (supposta) perfezione.
Lo Svedese ama le persone (moglie e figlia) come oggetti, perché diversamente dovrebbe ammettere di poter perdere il controllo. Cerca sempre di minimizzare, accontentare, fare quello che gli altri si aspettano da lui. Politically correct. Non sceglie mai. Sono sempre gli altri a farlo per lui e a lasciare correre.
E lo Svedese ci prova ad abbozzare una difesa.
Che c’è di male a fare quello che è giusto? Ad essere un uomo per bene? Un buon cittadino americano?
E sempre Jerry risponde.
«Credi di sapere cos’è un uomo? Tu non hai idea di cos’è un uomo. Credi di sapere cos’è una figlia? Tu non hai idea di cos’è una figlia. Credi di sapere cos’è questo paese? Tu non hai idea di che cos’è questo paese. Hai un’immagine falsa di ogni cosa.
Sai cos’è un guanto, cazzo. Ecco l’unica cosa che sai. (…) Una famiglia tiranneggiata dai guanti, bastonata dai guanti, l’unica cosa che conti nella vita, guanti da donna.»
E il povero Seymour, distrutto dall’aver ottenuto una tale dichiarazione di odio, nel momento in cui aveva più bisogno di aiuto, ritorna mestamente a casa. Da solo. E non condivide neppure con la moglie e i genitori quanto ha appreso su Merry, per non ferirli.
Ma dopo il “discorso” di Jerry, le “epifanie” si moltiplicano. Dawn (la moglie) non ha mai amato la loro “casa dei sogni” e non vede l’ora di andarsene, dopo un lifting che l’ha – di fatto – riconciliata con l’universo mondo, alla faccia del dolore per la figlia bombarola.
Di più. Dawn ha un amante. L’architetto che sta progettando la nuova casa e che è un vero americano WASP.
E lo Svedese ci prova ad avere una reazione di rabbia, ma poi si rende conto che tutto l’amore per la moglie, il motivo per cui si era innamorato di sua moglie era che lei era bella. Non altro. Era Miss Newjersey e lui era lo Svedese. Era quello che doveva essere.
Era quello che ci si aspettava da lui.
E sotto l’apparenza perfetta ci sono le ipocrisie, le meschinità, i non detti.
Perché in questa America così variegata, stratificata, in bilico, l’unico momento di concordia razziale, religiosa e politica è il giorno del Ringraziamento.
L’unica – falsa – “Pastorale Americana”.
Falsa.
Come lo Svedese.

Da leggere.
Assolutamente.

(PS il titolo è una citazione dell'omonima canzone di Venditti).

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Ritratto di Signora - H. James
La Bestia nella Jungla - H. James
L'età dell'Innocenza - E. Wharton
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    08 Agosto, 2015
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La manipolazione del reale

Il Signore degli Orfani – Adam Johnson – 2012

SPOILER


"Io ero terrorizzato, stavo per piangere. Mio padre disse: - Vedi, la mia bocca ha pronunciato quelle parole, ma la mano, la mia mano, stava tenendo la tua. Se tua madre dicesse qualcosa del genere su di me con l'intento di proteggere voi due, sappi che io e lei, dentro di noi, staremmo comunque tenendoci per mano. E se un giorno dovrai dire a me qualcosa di simile io saprò che in realtà non sarai tu a dirlo. Perché dentro, dentro, padre e figlio si terranno sempre per mano - " (pag.253)

Lettura di gruppo e vincitore del premio Pulitzer per la narrativa nel 2013.
Ma non posso fare a meno di applaudire al fatto che questa lettura sia venuta dopo quella di "Il Mondo Nuovo" di Huxley.
È la storia della vita (breve) e delle esperienze (per lo più brutte, a tratti orrende) di Pak Jun Do, Corea del Nord.
Cresciuto in un orfanotrofio, benché abbia entrambi i genitori (la madre, cantante di successo, viene costretta a trasferirsi nella capitale e non se ne sa più nulla, il padre è il direttore dell'orfanotrofio) il protagonista è fin da subito a contatto con la fame, il freddo, la sofferenza e la morte.
Ma più ancora – ed è il dato che mi ha maggiormente colpito – è la forza dell'abitudine che fin da bambino il protagonista fa a tutto quello che lo circonda: "Prima erano lì e poi non c'erano più, portati via chissà dove, come Bo Song. Questo pensava, della maggior parte della gente: comparivano nella tua vita come trovatelli sulla porta di casa e poi venivano spazzati via come da un'inondazione."
Presto però comincia ad avere un ruolo più fattivo: è lui a dare il nome agli orfani (sono i nomi dei martiri della "rivoluzione"), è lui a scegliere a chi toccherà un lavoro particolarmente faticoso o pericoloso. È lui che imparerà, con un'occhiata, a riconoscere quali bambini se a caveranno e quali no (e ad accorgersi di volere più bene ai secondi). Attraverso la descrizione di situazioni in cui la differenza fra la vita e la morte è data da un posto dove dormire più vicino al corridoio (più freddo) o al centro della camerata (più caldo).
Ci sarebbe poco altro da raccontare, oltre a questa invadenza e banalità della morte, se non fosse che non ci troviamo in una situazione di "normale" povertà o carestia. Ci troviamo in un regime che alla povertà e alla carestia unisce la necessità di trasmettere il messaggio che tutto va bene e che ci si trovi nel migliore dei mondi possibili.
Naturalmente questo viene ottenuto attraverso una pesante manipolazione della realtà e un severissimo apparato repressivo. Questa presenza manipolatrice e controllante è presente ovunque: nei discorsi dagli altoparlanti, nelle storie edificanti che vengono narrate, nelle capre che pascolano sui tetti, giù giù fino ai rapporti fra gli individui, fra colleghi, amici, coniugi, genitori e figli.
In questa realtà surreale, dove niente di quello che accade sembra essere vero e niente di quello che è vero sembra concepibile, si muove il nostro giovane protagonista.
Dapprima, viene addestrato per il combattimento al buio in tunnel sotterranei che varcano il confine con la Corea del Sud. Successivamente viene "promosso" e inviato a rapire cittadini giapponesi e sud coreani. Segue l'unica parentesi leggermente lieta della storia, cioè il periodo in mare sul peschereccio Junma.
Pak Jun Do, incaricato di intercettare comunicazioni radio "nemiche" passa molti mesi con l'equipaggio. "Aveva sempre trascorso la maggior parte della sua vita cercando di starsene da solo, ma c'erano momenti, a bordo della Junma, in cui si sentiva una parte, e questa sensazione veniva accompagnata da una soddisfazione che era non dentro di lui, ma tra lui e gli altri."
Il comandante, in particolare, rimarrà nel cuore e nei pensieri del protagonista (e non solo). Così come i pescatori, con il loro uso di tatuarsi sul petto il ritratto della moglie.
Lo farà anche il nostro, pur non avendo una moglie, per non creare sospetto in caso la nave venisse intercettata da "nemici". Non avendo moglie, Pak Jun Do decide di farsi tatuare il volto della notissima attrice Sun Moon, moglie del Comandante Ga, braccio destro del "Caro Leader".
Un paio di fatti molto gravi turbano per sempre i bei momenti sulla Junma: l'incontro con una nave americana e la – successiva – diserzione del secondo ufficiale.
In entrambi i casi, la parte più surreale è quella in cui tutto l'equipaggio si mette a concordare una "versione ufficiale" da fornire alla autorità per evitare di finire in prigione (che scopriremo essere destino peggiore della morte). Perché il tutto comincia in sordina e riecheggia quelle storielle infantili/adolescenziali che si organizzavano in gruppo per darla a bere a genitori o insegnanti ("diremo così... faremo credere che... se ci chiedono... noi rispondiamo che..."), ma piano piano assume contorni sempre più drammatici.
Pak Jun Do, in particolare, deve procurarsi ferite da morso di squalo per avallare la storia inventata dall'equipaggio (che peraltro non ha fatto nulla di male, ma sa che potrebbe non essere creduto).
Il nostro protagonista in qualche modo se la cava e viene spedito niente meno che in missione negli Stati Uniti! Qui cerca di espiare i crimini commessi (fornisce una lista dei cittadini rapiti o uccisi) e cerca di far capire qualcosa del suo incomprensibile mondo ai cittadini americani.
Ma la missione, dal punto di vista della Corea del Nord, è un fallimento, quindi, nonostante le versioni da fornire inventate e collaudate mille volte, il nostro viene imprigionato.
Queste pagine sono molto dure.
E sono le migliori di tutto il romanzo.
Il "Virgilio" di Pak Jun Do in questo orrendo girone infernale è la vecchia Mongnan, fotografa della prigione. Grazie a lei il nostro apprende mille trucchi per sopravvivere e mille e uno motivi per voler morire. Ritroverà per brevi attimi il comandante della Junma ed incontrerà persino il potentissimo Comandante Ga.
E lo ucciderà.
Da qui prende l'avvio la seconda parte, in cui il nostro protagonista assume l'identità del comandante Ga. L'ennesima finzione a cui tutti fingono di credere. Dal Caro Leader alla famiglia di Ga.
Attraverso storie edificanti e verbali di interrogatorio, fino al finale.

Alcune parti di questo romanzo mi sono piaciute molto.
Su tutte quelle sulla Junma, con cieli e mari e uomini capaci di far provare qualche ramingo pensiero umano anche in un tale deserto di umanità. Quelle della prigionia e delle torture perché vi ho trovato qualcosa che mi ha rievocato Primo Levi. Lucide, precise, ma mai compiaciute. A volte quasi "banali" di quella che Arendt chiamava "banalità del male."
Le manipolazioni della realtà, del regime per soggiogare gli uomini e degli uomini per compiacere il regime. Le bambine vestite di bianco del Compagno Buc che mangiano le pesche sciroppate.
Meno riuscite, secondo me, le parti più sentimentali. Onestamente la figura di Sun Moon non mi ha detto molto, se non che è stata ricalcata pari pari sulla sconosciuta madre del protagonista e forse per questo così amata? Non so, sentirò il dottor Freud.
Per il resto non so se avrei letto senza l'input del gruppo di lettura.
So che l'autore è stato in Corea del Nord e certamente è ben documentata ogni sillaba che scrive. Tuttavia, a tratti, ho percepito un tono leggermente "paternalista" come se l'autore appartenesse (e noi stessi appartenessimo) a realtà incommensurabilmente diversa da quella della Corea del Nord e – soprattutto – che il rischio di trovarsi in un regime del genere fosse più che abbondantemente superato, ammesso che fosse mai esistito.
Be' c'eravamo poco più di cinquant'anni fa, in molti posti ci sono ancora e non è che se mi guardo attorno i segni siano molto rassicuranti.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    07 Agosto, 2015
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42 (e ricordatevi l'asciugamano!)

Guida Galattica per gli autostoppisti – Douglas Adams – 1979

"Una delle cose che Ford Prefect aveva sempre trovato difficile comprendere a proposito degli umani, era che questi avevano il vizio di affermare e ripetere cose assolutamente ovvie, come risultava evidente da frasi quali Che bella giornata! O Come sei alto! O Oddio, mi sembra che tu sia caduto in un pozzo profondo nove metri: ti sei fatto male?
In un primo tempo Ford si era fatto una sua teoria per spiegare questo strano comportamento. Aveva pensato che le bocche degli esseri umani dovessero continuamente esercitarsi a parlare per evitare di rimanere inceppate. Dopo avere osservato e riflettuto alcuni mesi, Ford aveva abbandonato questa teoria per un’altra. Aveva pensato che se gli esseri umani non si esercitavano in continuazione ad aprire e chiudere la bocca, corressero il rischio di cominciare a far lavorare il cervello."

Basterebbe questo accorato stupore, da parte di un alieno, per il vezzo, del tutto umano, di "ribadire l'ovvio" per indurre alla lettura della Guida Galattica per gli Autostoppisti del mai abbastanza compianto Douglas Adams.
Una storia assolutamente amabile e difficile da raccontare, alla base della "Guida Galattica".
Come nella migliore tradizione dell'umorismo inglese (penso a Jerome Kapka Jerome) un viaggio è il pretesto per farci ridere, sorridere ed anche un poco riflettere.
Per un disguido (anzi, per il mancato arrivo in tempo di un ordine di revoca) la Terra viene distrutta e Ford Perfect che viveva sulla terra, ma in realtà veniva da Betelgeuse, riesce a mettersi in salvo e a portare con sé un suo amico terrestre, Arthur Dent.
Fra presidenti galattici che hanno come fondamentali qualità di provocare scandali perché il loro compito " non è di esercitare il potere ma di stornare l'attenzione della gente dal potere stesso",
extraterrestri imbarazzanti perfino per le forze dell'evoluzione ed appassionati di poesia, robot depressi, sfortunati cetacei e potentissimi topi, scopriamo che non tutto è perduto e che l'universo si può esplorare senza spendere cifre eccessive.
Basta avere una guida ben fatta!

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Jerome Kapka Jerome.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    07 Agosto, 2015
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"Davvero speravo in qualcosa di meglio."

(SPOILER)

Dopo aver amato alla follia Stoner ed essermi appassionata ad Augustus (che somiglia non poco al suo lontano erede), son arrivata a questo "Butcher's" piena di aspettative.
Williams Writes Western.
Wow.
(Amo tantissimo il genere).
Ormai dovrei sapere che arrivare ad un libro piena di aspettative è un pessimo aperitivo, ma nel caso di Stoner le aspettative altissime erano state polverizzate da un libro veramente splendido e da una scrittura veramente di razza, su cui ho già abbondantemente tediato.
Bene, Stoner è stata l'eccezione che conferma la regola.
"Butcher's Crossing" ci narra le gesta (!) dell'apatico William Andrews, studente universitario di Boston che "perché sì" decide di trasferirsi nel West alla ricerca di sé stesso, con un piccolo gruzzolo da parte e poche idee, ma molto confuse.
Giunto in loco passa abbandonanti 100 pagine ad osservare la polvere che alzano i suoi stivali mentre cammina.
Poi fa la conoscenza con uno dei due personaggi che mi son dispiaciuti meno: McDonald, un vecchio commerciante di pelli.
Folgorato da Andrews, dopo neppure 10 secondi di frequentazione, gli offre un impiego nella sua attività. Ma Will non solo è confuso, è anche discretamente fornito di denaro (combinazione assolutamente devastante). Quindi rifiuta e chiede a McDonald di aiutarlo.
A fare cosa?
"Conoscere il paese."
Il povero McDonald, giusto per levarselo dai piedi, secondo me, gli dice di andare al saloon/bordello del paese e di chiedere di Miller "che se ne intende".
Troviamo Miller che si intrattiene con il compagno di bisbocce Charley Hoge (un bizzarro ubriacone, monco, fanatico della Bibbia. E di Miller) e una navigata damigella, tale Francine. Will rimane affascinato da Miller (e pure da Francine) che gli racconta come, molti anni prima, per puro caso, girellando nella prateria, avesse scovato una valle addirittura brulicante di bisonti. Miller asserisce con convinzione – non si sa sulla base di che cosa – che nessuno al mondo conosca quel posto e che lui sia in attesa di mettere da parte un piccolo capitale per finanziare una spedizione che gli procurerà tonnellate di pelli di bisonte e lo farà ricco.
Ovviamente a Will non sembra vero!
Miller si incarica di mettere insieme l'occorrente: un carro, buoi, cavalli, vettovaglie, coltelli, uno scuoiatore. Naturalmente il buon Charley sarà della partita e guiderà il carro.
"Ma non era monco?" dovrebbe dire Will, che invece annuisce, preso dalla bella Francine. Animato da insolita audacia, e smettendo per l'occasione di contemplare la polvere che alzano i suoi stivali, il nostro la segue nella sua stanza.
Ma al momento buono, anche lui, come Cenerentola…
"Dileguossi."
Miller, intanto, prepara la spedizione, reclutando l'altro personaggio di buon senso, Schneider, lo scuoiatore.
La parte centrale del libro, che secondo me è anche la migliore, narra il viaggio dei quattro verso la fantomatica valle di Miller. Qui Williams ci (e si) ricorda di essere una scrittore di razza. Alcune descrizioni di paesaggio sono veramente maestose e da brividi. Anche le sensazioni degli uomini e degli animali colpiscono per la loro vividezza. Quando Miller perde la strada e i nostri rischiano di morire di sete, tu ti senti la gola riarsa. Durante la lettura non ho potuto fare a meno di osservare che il mio personaggio preferito fosse "Prateria", poi affiancato da "Montagne", "Valle".
Non voglio spoilerare troppo, ma i nostri si perdono, poi si ritrovano e troveranno anche la Valle. E pure i bisonti. Per un susseguirsi di eventi che ricorda abbastanza da vicino i Malavoglia di verghiana memoria.

Come da epigrafe, "davvero speravo in qualcosa di meglio".
La cosa più irritante di questo libro è la mancanza di storia. Sì, c'è una vicenda con dei personaggi, ma non solo non ti immedesimi, ma neppure empatizzi.
Sì la scrittura è grandiosa, ma invece di migliorare la situazione ti lascia più frustrato.
Tutto sembra teso (e sacrificato) a questo famoso "messaggio" di cui poi non ci importa nulla, perché la storia che ce l'ha veicolato era troppo poca cosa per appassionarci a "cosa" volesse dire.
Qui la scrittura di Williams si fa irritante, perché sembra ripeterti "Sta attento, guarda, ti devo dire una cosa, fai attenzione che è importante, che è LA COSA… ho scritto tutte e 300 queste pagine solo per questo…"
[La cosa (osservo di passata) è che il mondo è brutto, ci crescono nelle bugie e appena ci accorgiamo delle bugie e capiamo che possiamo cambiare il mondo… ahimè siamo vecchi e tocca morire].
No, non va proprio.

Quest'opera (la seconda di Williams dopo "Nothing But the Night") precede "Stoner" di cinque anni, ma se vi è già una certa maturità stilistica (ribadisco, alcune parti descrittive sono di una bellezza disarmante), l'abilità di costruire la storia che sarà in Stoner e in Augustus è molto lontana.
Mi son domandata come mai Williams si sia cimentato con questo genere e abbia sacrificato la sua scrittura ad una storia così irrilevante.
Non mi son saputa rispondere.

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Per riconciliarsi con il genere Western, io consiglio la Trilogia dell Frontiera di Cormac McCarthy.
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    06 Agosto, 2015
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Fate Finta che sia una Finzione.

L’Opera Struggente di un Formidabile Genio, Dave Eggers, 2000

Un orfano che alleva un altro orfano
ovvero
Fate Finta che sia una Finzione.

Prima opera in cui mi imbatto di Dave Eggers. Opera, leggo, più che un po’ autobiografica.
Da leggere da cima a fondo, prefazione compresa (seppur contro il mio costume, devo dire che la prefazione è una delizia. Scritta dall’autore e contenente un’attenta ed impietosa analisi del testo. Con indicazione delle parti da saltare; la frase del “titolo” viene da lì).
Si narra la storia della famiglia di Dave, ventiduenne, che in poche settimane vede morire di cancro prima il padre e poi la madre. Mentre il fratello maggiore ha già un’esistenza autonoma, Dave e la sorella Beth rimangono le uniche figure di riferimento per il piccolo Christopher, detto Toph, di otto anni.
Ma in realtà sarà quasi esclusivamente Dave ad occuparsi del fratellino, conducendolo in un’esistenza abbastanza caotica, piuttosto politically scorrect, un tantino randagia.
Ho trovato molto di Arturo Bandini (quello di «La strada per Los Angeles») e molto di Holden nel personaggio e nello stile di Eggers. Negli slanci, nelle fiammate, negli “spiegoni”.
Nell’amore viscerale per il fratellino.
Nella rabbia e nella goffaggine assolutamente e deliziosamente adolescenziali.
Nei voli della fantasia, nell’ansia di vivere, di non dormire, di sconfiggere, o, quanto meno, esorcizzare, la morte (che si ripresenta, all’interno della storia).
È un libro difficile da raccontare e – in qualche tratto – anche difficile da leggere.
Ma che si apre in alcune pagine davvero belle ed in altre davvero ricche di spunti di riflessione.
Eggers, qui, (proprio come Fante e Salinger) riesce a farti provare un insieme di sensazioni diverse e definite, seppur contemporanee. Quando descrive il funerale vero e quello immaginato della mamma. Quando, goffamente rischia di uccidersi per spargerne le ceneri (che aveva perso).
Quando gioca a frisbee con il fratellino. Quando è alle prese con l’amico aspirante suicida (ma poco convinto) John.
È stato osservato, non a torto, che questo libro è “troppo”.
Probabilmente è vero.
Alla fine è un po’ ubriacante.
Mette tanta carne al fuoco; come dice King “setaccia” tante storie e forse quello che rimane non è perfetto come avrebbe potuto essere. Ma è un’opera prima.
E in quest’opera prima enuclea alcune tematiche che poi riprenderà, ad esempio, ne “Il Cerchio”.
In particolare mi hanno colpito alcune riflessioni sul privacy/riservatezza e pudore, con cui prendo congedo.

«Siamo gente per cui qualunque idea di anonimato è esistenzialmente irrazionale, indifendibile. Ecco perché si fa e si farà un gran parlare di tutto - e di certo l'esito culturale dei nostri tempi rispecchierà questa realtà - interi film fatti di chiacchiere, chiacchiere sulle chiacchiere, considerazioni sulle chiacchiere riguardo alle riflessioni sul posto in cui viviamo, sui nostri desideri e doveri. Le ciance di una belle époque, insomma. Solipsismo rinforzato da fattori ambientali.»
«Moriremo un giorno e avremo protetto... che cosa? Avremo protetto dal mondo il fatto che facciamo questo o quello, che muoviamo le braccia in questo e quest'altro modo, e che la nostra bocca ha prodotto questi o questi altri suoni? Ma per favore. Ci sembra che rivelare cose imbarazzanti o private, tipo, che ne so, le nostre abitudini masturbatone (quanto a me, circa una volta al giorno, perlopiù sotto la doccia), significhi - proprio come per i primitivi che temono che la macchina fotografica gli possa portare via l'anima - che abbiamo dato a qualcuno una cosa che noi identifichiamo come i nostri segreti, il nostro passato e le sue zone oscure, la nostra identità, nella convinzione che rivelare le nostre abitudini o le nostre perdite o le nostre imprese in qualche modo ci deprivi di qualcosa. Ma in realtà è proprio il contrario, di più è di più è di più, più si sanguina più si dà. Queste cose, i dettagli, le storie e quant'altro, sono come la pelle di cui i serpenti si spogliano, lasciandola a chiunque da guardare. Che cosa gliene frega al serpente di dov'è la sua pelle, di chi la vede? La lascia lì dove ha fatto la muta. Ore, giorni o mesi dopo, noi troviamo la pelle e scopriamo qualcosa del serpente, quant'era grosso, quanto era lungo approssimativamente, ma ben poco altro. Sappiamo dove si trova il serpente adesso? A cosa sta pensando? No. Per quel che ne sappiamo, il serpente adesso potrebbe girare in pelliccia, potrebbe vendere matite a Hanoi. Quella pelle non è più sua, la indossava perché ci era cresciuto dentro, ma poi si è seccata e gli si è staccata di dosso, e lui e chiunque altro adesso possono vederla.»

Ad Maiora
A.

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Il Giovane Holden - Salinger
La Strada per Los Angeles - Fante
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    06 Agosto, 2015
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Cos'hai da nascondere?

Il Cerchio – Dave Eggers, 2013

Seconda opera in cui mi imbatto di Dave Eggers e di nuovo un lavoro ricco di spunti e riflessioni.
Con il pretesto di raccontare la storia di Mae, l’autore ci accompagna attraverso una lunga ed appassionante meditazione sulla nostra vita reale e virtuale.
La giovane Mae, dopo la laurea ed alcuni lavori poco soddisfacenti, approda al “Cerchio”, grazie all’aiuto dell’amica Annie, che è già un “pezzo grosso” della dinamica e prestigiosa organizzazione.
Di che cosa si occupi il Cerchio non è poi così chiaro. Diremo genericamente di “servizi”.
Mae comincia, più o meno, come addetta al call-center, ma ovviamente con uno stipendio con qualche zero in più. E il privilegio di lavorare al Cerchio. Qui non solo tutto è nuovo, luccicante ed ipertecnologico. Ma è anche concepito e realizzato per far sentire a proprio agio il lavoratore. Aree verdi, parchi, divertimenti, feste a tema, negozi bio, la possibilità di fermarsi a dormire se si fa tardi. Ma non su un divano letto in ufficio. In un alloggio delizioso, certi di trovare nell’armadio abiti nuovi e lussuosi del proprio gusto e della propria taglia, nel frigo le bevande preferite e il necessario per prepararsi la colazione la mattina dopo.
Tutto gratis, obviously.
Mae, pur abbagliata da cotanto splendore, all’inizio fatica un po’ a integrarsi. Il suo papà è ammalato di sclerosi multipla, l’assicurazione sanitaria dei genitori non gli permette un’assistenza adeguata...
Fastidi.
Che il Cerchio risolve. Basta chiedere.
Ma Mae ancora non capisce.
Erroneamente si convince che lavorando sodo e mantenendo un rendimento eccellente svolga il suo lavoro al Cerchio.
Ma non è così.
Ben presto Mae riceve un “richiamo” ufficiale. Perché non partecipa agli eventi? Perché non commenta (con faccine sorridenti o corrucciate) le iniziative? I prodotti? Le persone? I film? Perché sente il bisogno di fare lunghe remate in canoa senza produrre neanche una foto da condividere con gli altri? Perché lavora lì già da due settimane e nessuno ancora conosce la “playlist” delle sue canzoni preferite?
A questo punto Mae capisce davvero e si immerge anima e corpo nello spirito del Cerchio.
Sedotta (invero molto facilmente) dai lineari ragionamenti di Bailey (co-fondatore del Cerchio), che si basano sull’elementare assunto che «se non sei trasparente, cos’hai da nascondere?», Mae accetta di andare in giro con una telecamera al collo, di postare opinioni su qualunque argomento e di condividere ogni cosa affinché niente vada perso.
E l’esempio di Mae viene seguito da molti, a partire da alcuni politici che fanno della “trasparenza” una bandiera. E, come corollario, si piazzano telecamere ovunque (se non hai niente da nascondere, che problema c’è?) in un crescendo rossiniano che talvolta sfiora il ridicolo, altre il grottesco, altre ancora il dramma.
In tutto questo, alcuni personaggi come i genitori di Mae, l’ex fidanzato Mercer, e un misterioso personaggio che non spoilero, provano a far riflettere la ragazza su quello che sta avvenendo.
Che il mondo reale si stia trasformando nel paradiso degli “smanettoni sfigati”.
Che le raccolte di fondi non si realizzino con denaro, ma con “smile”.
Il tutto verso un mondo distopico governato da felicità, correttezza e trasparenza.
Perché «TUTTO QUELLO CHE SUCCEDE DEV’ESSERE CONOSCIUTO.»
Bello è?
Chiudo con uno scambio a distanza fra Mae e Ty, il fondatore del Cerchio (con sindrome di Asperger che molto poco velatamente “cita” Mark Zuckerberg):
Ty: «Mae, tante delle cose che ho inventato, onestamente, le ho inventate per divertimento, per la voglia perversa di vedere se funzionavano o no, se la gente le avrebbe utilizzate. Voglio dire che era come tirar su una ghigliottina nella pubblica piazza. Non ti aspetti che mille persone si mettano in coda per ficcarci dentro la testa.»
Mae: «Io voglio essere vista. Io voglio una prova della mia esistenza.»

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Il Mondo Nuovo - Huxley
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    04 Agosto, 2015
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Horror Vacui

Il Grande Gatsby – Francis Scott Fitzgerald

SPOILER

Ebbene, all'alba dei quarant'anni non lo avevo ancora letto.
Orrore e raccapriccio, stracciamento di chiome e vesti.
(In realtà è l'istinto che ci protegge, ma ce ne accorgiamo sempre troppo tardi).
Rimediamo, rimediamo che è agosto e si riesce a tenere una media di lettura discreta.
Ora però, dal momento che è DAVVERO agosto, e quindi lo è anche per me, mi concedo una recensione da ombrellone.
Quindi non racconterò di come Fitzgerald scriva in modo divino.
Dirò del fatto che non ho capito perché il libro si intitoli "Il Grande Gatsby" dal momento che "Il Grande Nick" sarebbe stato un titolo decisamente più appropriato.
Nick Carraway è il protagonista e la voce narrante del romanzo. Per puro caso va a vivere vicino a Gatsby e si trova a condividerne, per un breve periodo, la vita, la confidenza, forse l'amicizia.
Gatsby appare più o meno a metà del libro, di lui sappiamo poco e niente se non che è ricchissimo e dà feste molto opulente, pur essendo piuttosto schivo e facendosi vedere poco alle medesime.
In realtà, con il procedere della narrazione apprendiamo qualcosa sul conto di Gatsby, da cui emerge un personaggio, tutto sommato, non negativo, ma neppure particolarmente interessante.
La cosa peggiore (soprattutto per Gatsby) che apprendiamo, è che l'infelice sia perdutamente innamorato di Daisy Fay, cugina di Nick, un personaggio la cui vacuità è tale da riuscire a dare la misura dell'immensità dell'universo.
O almeno così appare all'inizio, in realtà è una stronza che lèvati, a confronto della quale il marito Tom (che è un'emerita carogna, per inciso) pare un tenero fiorellino.
Due parole anche sull'altro personaggio femminile – Jordan Baker – giocatrice di golf con cui Nick ha una storiellina: horror vacui. E dimenticavo il terzo: Myrtle Wilson (amante di Tom), decisamente inutile (le donne non ne escono bene, in effetti).
In Breve, Gatsby, che era innamorato di Daisy prima della guerra, e che l'aveva sempre amata, la ritrova e vorrebbe coronare il suo sogno d'amore.
Lei è contenta e felice ed accetta, anche perché il marito la cornifica ad ogni 3 x 2 e – sembra pare dicono – non l'abbia mai amata.
Alla resa dei conti sono presenti Tom, Daisy, Gatsby e Nick (chissà perché poi).
Daisy vuole divorziare da Tom e fuggire con Gatsby, perché il marito non l'ha mai amata.
Lui nega, dicendo (veramente!) una cosa del tipo: "no, no quella settimana… quella volta che eravamo a Nonmiricordopiùdove, ti ho amato!", Daisy nicchia, è indecisa. Facciamo un giro in macchina, Gatsby, e poi torniamo a casa.
Tom e Nick li seguono con la macchina di Tom, e scoprono che, accidentalmente la macchina di Gatsby ha investito l'amante di Tom!
Orrore e raccapriccio.
Ovviamente veniamo a sapere che alla guida dell'auto c'era Daisy e non Gatsby.
Ma è inutile, perché Daisy torna prontamente a casa dal marito, con il quale poi parte per un viaggio senza degnarsi di mandare un messaggio al povero Gatsby che l'aspetta a casa sua come un cretino.
Non per molto, perché il marito di Myrtle, convinto che Gatsby abbia investito la moglie e non si sia neppure fermato per soccorrerla, lo uccide in piscina per poi suicidarsi.

Ora.
Della scrittura di Fitzgerald ho già detto, ed è l'unico motivo per cui non son qui con il pungo alzato a maledire dio. Non dirò dell'aura di totale "fasullità" che aleggia sulla storia perché penso che sia un effetto voluto dall'autore per comunicare la vacuità di un certo ambiente.
Però.
Devo dire che, stile a parte, la storia non mi ha preso per niente e il mio viscerale ed indomabile odio per i melò - ancora una volta - l'ha fatta da padrone.
E ancora una volta ho esortato gli amici a dissuadermi - anche violentemente - quando paleso l'intezione di leggere un melò.

PS Ho saputo che è stato fatto tratto un film da questo libro e che il protagonista è stato Leonardo Di Caprio. Attore di cui riconosco la bravura, ma che - onestamente - non mi piace per niente.
Coincidenze?

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Ama il genere "melò".
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    04 Agosto, 2015
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Una pinta e un sacchetto di patatine

Premessa.
Ho conosciuto Hornby come recensore e gli ho subito voluto un gran bene. Non è stata una storiellina occasionale, perché continua ancora.
Tutto è cominciato con una copia scalcagnata di "Shakespeare scriveva per soldi" che ha vissuto nel mio bagno per oltre tre traslochi (adesso è stivata in qualche scatolone, in un magazzino, in attesa che trovi il super attico dove traslare le mie centinaia di volumi cartacei e sono passata al reader).
Prima dimorava nello studio, ma la combinazione Hornby/recensore + carta e penna a portata di mano, aveva causato una pericolosa impennata dei libri acquistati, il conseguente aumento della metratura dell'ipotetico attico di cui sopra e il congruo incremento della percentuale dei capelli grigi del mio libraio di fiducia a cui toccava scovare i libri che Hornby proponeva.
Hornby recensore è una garanzia, per me, per quello che recensisce e per come lo fa.
Se dice che un libro è da leggere io lo leggo.

Con Hornby romanziere è stata un'altra storia.
Ho letto "Non Buttiamoci Giù" e "Alta Fedeltà" probabilmente leggerò anche "Come Diventare Buoni" e "Tutti mi Danno del Bastardo", perché mi piacciono i titoli, ma finora la scintilla non è scoccata.
Letture scorrevoli e non banali, ma non siamo entrati in sintonia (nel caso di "Alta Fedeltà" credo che parte della colpa sia la mia leggendaria ignoranza musicale, dal momento che – forse – avevo sentito UNA canzone di quelle di cui parlava e non mi sognerei mai di fare una classifica delle mie cinque canzoni preferite, ma va be').

Ma "Funny Girl" era una lettura di gruppo e io, ligia ligia, mi sono cimentata con il compito, pur senza particolare entusiasmo.
La storia di Barbara/Sophie bellissima fanciulla che sogna di diventare attrice comica, si trasferisce a Londra e corona il suo sogno e porta con sé, nella sua ascesa, un variopinto gruppo di personaggi più o meno bizzarri, è passata in fretta e piacevolmente, devo dire.
Hornby guizza in modo piacevole e fa in modo di inserire qualche considerazione anche di una certa profondità, sulla condizione femminile, sulla famiglia, sulla felicità, sul lavoro.
Mi ha convinto poco la protagonista, che un po' è svampita, un po' la fa e che – in un modo un tantino fasullo, secondo me – trova soluzioni geniali; nonostante questo suo permanente "non esserci" riesce a non farsi detestare (e per me, che sui personaggi femminili son difficile e ho lo "svampy alert" sempre accesso, non è poco).
Dimenticabili gli altri personaggi femminili, un po' meglio quelli maschili, in particolare Dennis che pensa che la tattica migliore sia sempre "soffrire in silenzio"; i miei preferiti sono stati i due sceneggiatori: Tony e Bill (più Bill che Tony). Lo so che è l'eterno tema di Narciso e Boccadoro (un amico va, un amico resta), qui uno è "coraggioso" e asseconda le sue inclinazioni personali e sessuali, l'altro "ripiega" per una vita più regolare (in realtà il matrimonio di Tony è insospettabilmente felice e va considerato che – Alan Turing docet – in quegli anni l'omosessualità era considerata un reato, in Gran Bretagna), ma i loro scambi sono stati i miei preferiti, vivaci, divertenti, a tratti immensamente tristi.
"Un ultimo sforzo."
"E poi?"
"Una vacanza. La sceneggiatura per Anthony (…)"
"E poi?"
"Poi? Poi non so. Ci ritiriamo a Bexill e moriamo."
"E prima?"
"Un'altra pinta e un sacchetto di patatine."

Il "messaggio" finale del libro è alla fine condivisibile: creare un gruppo in cui essere "felici" di lavorare potrebbe essere la soluzione a buona parte dei nostri problemi. Leggere Hornby romanziere probabilmente no, però non contribuisce neppure al loro aumento!

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    03 Agosto, 2015
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920 SFUMATURE DI NO(IA).

L’Affare Cage – Greg Iles, 2014
(Titolo Originale: Natchez Burning)

920 SFUMATURE DI NO(IA).

Non bazzico abitualmente i verdi pascoli del thriller/giallo e sono stata ben contenta della novità.
Almeno fino al momento di cominciare a leggere.
Anni ’60, Nantchez, Mississippi (al confine con la Luisiana) brutale uccisione del gestore di un negozio di musica, da parte dell’ala “dura” del Ku Klux Klan. L’uomo è accusato di aver offerto protezione ad un giovane musicista nero che ha commesso l’imperdonabile errore di andare a letto con una ragazza. Bianca. Figlia del boss locale. Anche questo giovane subirà un destino orrendo.
Così come molti altri giovani di colore che lottano per i diritti civili.
Cinquant’anni dopo, Viola Turner, anziana infermiera di colore e malata terminale muore in circostanze bizzarre. Forse un’eutanasia riuscita un po’ male. Forse molto peggio.
Ma Viola è stata l’infermiera – nonché amante – di Tom Cage, wondermedico e fiero padre del nostro protagonista, Penn Cage. Penn Cage è sindaco, romanziere, ex-pubblico ministero, figlio devoto, padre amorevole, vedovo affranto e fidanzato affettuoso. Nonché spina nel fianco dei cattivi. Passati, presenti e futuri. Quando si annoia e non sa cosa fare, dà ripetizioni di fisica a Tony Stark, risponde alle decine di messaggi in segreteria di Batman, che non sa come cavarsela a Gotham City senza di lui, e dà la dritta giusta a King per il prossimo libro.
E Penn non è neanche il personaggio più molesto della storia.
E non è neanche troppo esatto parlare di personaggi, in questa storia.
I personaggi “giovani” sono degli stereotipati clichè: le nere “calde”, le bianche “fredde”, i bambini “saggi”, i giornalisti martiri della causa, le donne in carriera non sanno cucinare, quelle quarantenni non sanno cucinare E vorrebbero diventare madri, le madri sono devote alla famiglia, i figli sono amorevoli, i padri guide sicure, i cattivi sono appassionati di armi e di trofei macabri; a volte trasformano in armi i trofei macabri, sono potenti, sadici e corruttori. In tutto ciò, ogni tanto, spunta fuori tipo fungo qualche personaggio altrimenti inutile, ma che ha un qualche – scoperto – scopo ai fini della trama, e l’autore, attraverso la voce di Penn Cage che narra in prima persona, ci racconta per venti pagine quanto sono straordinari, in genere tediandoci sulla marca del loro cellulare, della loro auto, del loro fondotinta (giuro che è vero!), della birra che bevono.
Passata la cinquantina, i personaggi, o sono “incredibilmente” in forma come ventenni o sono malati terminali, agonizzanti per malattie varie, ma dallo spirito indomito.
(Su tutti. Capitolo 42. Descrizione di casa, vita e miracoli di Pythia Nolan. Personaggio tirato fuori dal cilindro nel capitolo prima. E non si capisce come si sia potuto farne a meno fino a quel momento – non “noi” lettori, proprio l’universo mondo – perché anche l’anziana lady non sono è, è stata e sarà, wonder woman, ma possiede doti di chiaroveggenza – d’altronde si chiama “Pizia”… notare la finezza – è ricchissima, bellissima, coltissima ed in grado di manipolare le menti altrui come neanche Voldemort. Per quanto concerne influenza e potere… be’ il Cardinale Richelieu dovrebbe prendere lo zainetto e tornare all’asilo, al suo confronto. Ah dimenticavo. Per fortuna lei è tanto buooona. E sta morendo per un enfisema. E fornisce a Penn qualcosa che gli salverà la pelle. Obviously. Del resto il personaggio è stato introdotto apposta.)
Ok, va bene.
I personaggi non hanno un grande spessore.
Ma è un thriller. Di solito non c’è tempo per fare una buona caratterizzazione ed è la “storia” adrenalinica ed incalzante a costituire il divertimento del lettore.
La storia non c’è.
Il tema centrale (che ogni tanto ci viene ribadito, casomai fossimo distratti) è: siamo disposti a fare i conti con il fatto che l’idea grandiosa che abbiamo di nostro padre potrebbe non essere troppo conforme alla realtà? Sì, no, forse. Risponde Penn Cage di volta in volta.
Il tentativo di connettere i delitti degli anni ’60 (praticamente QUALSIASI delitto degli anni ’60) con la realtà attuale di Nantchez viene portato avanti spaciugando in modo molesto alternando le voci narranti e cercando di creare “suspence” con tecniche tali che poco ci mancava che l’autore si mettesse una pila sotto la faccia e facesse la voce della strega cattiva.
E come se questo non bastasse, dopo 920 pagine (avete letto bene 9 – 2 – 0 pagine, novecentoventipagine!) non si degna neppure di “chiudere”. Chi ha ucciso la Turner non lo sappiamo, di chi è suo figlio non lo sappiamo, che fine fa Tom Cage non lo sappiamo.
Il martire si immola e porta con sé un cattivone.
E Penn Cage e la sua intollerabile fidanzata, malconci ma sani e salvi sono pronti per il prossimo “romanzo”.
Che io non leggerò.
A meno che l’alternativa di lettura non sia l’elenco del telefono.
Nel qual caso ci penso.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    03 Agosto, 2015
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Del perdere la guerra in due.

La Vita non è Grave (Alors voilà) – Baptiste Beaulieu, 2014

«Non esiste un clima freddo, esistono solo gli uomini deboli.»
Ma anche
«Abbiamo perso la guerra, ma mi sento meno infelice per averla persa al tuo fianco.»

Un giovane medico d’oltralpe, autore di un blog di successo, descrive 7 giorni della sua vita in ospedale. Descrive tic di pazienti e colleghi, inefficienze della sanità pubblica, storie di speranza e di disperazione.
Ma soprattutto ci racconta di un raro tipo di medico che qualche volta, forse, ci è capitato di incontrare: quello innamorato del suo lavoro, che poi, a ben guardare, è la vita.
Ma soprattutto.
Ci racconta.

Non sono una patita di film e telefilm su ospedali, medici e medicina (il Doctor House non conta.
È semplicemente Sherlock Holmes che si mette a fare il medico. O vogliono farmi credere che sia un caso che abiti al 221B?).
Invece, da brava amante del “controllo”, mi piacciono gli ospedali. Mi piace andarci e mi è piaciuto studiarci per un po’. Sono quei luoghi in cui – di solito erroneamente – si ha la percezione di essere al posto giusto in caso qualcosa vada storto. In cui ci sono orari, protocolli, routine procedure, regole.
Stabili, sicure, volte al bene.
L’esperienza personale, sia diretta che indiretta, ha facilmente e velocemente sfatato questo mito, però un certo nucleo primordiale che associa ospedale e sicurezza in me persite.
Il giovane medico che ci racconta i suoi giorni di pronto soccorso, scanditi, come copioni, attraverso luoghi, orari e personaggi, non fa sconti alla sanità e alle nevrosi di medici e pazienti.
Con un sorriso (non sempre amaro) ci racconta i tipi che tutti abbiamo intravisto, qualche volta; che si sono fatti detestare e volere bene.
Ma soprattutto, ancora.
Ci racconta.
«Raccontiamo, raccontiamo.
Prolunghiamo la sua vita con le storie delle vite degli altri.
Le vite di quelli che giacciono a letto e di quelli che li rimettono in piedi»

L’autore ha una considerevole piacevolezza narrativa e linguistica, intervalla piccole battute divertenti, abbozza ritratti veloci di uomini e luoghi, crea piccoli film di cui ci rende partecipi della sceneggiatura e crea qualche parentesi più lirica e filosofica.
Senza eccedere, senza appesantire, senza dare l’impressione di avere la verità in tasca.
Esorta a vivere il momento, ad avere qualcuno con cui condividere le sconfitte e cercare di vedere le cose e il tempo in modo circolare e non lineare.
Ma – insisto – soprattutto racconta.
E leggendolo, a tratti, si ha quasi l’impressione che quella cosa mitica ed introvabile come l’araba fenice - cioè che si possa in qualche modo conciliare la sapienza scientifica con quella umanistica - non sia poi questo traguardo irraggiungibile.
Qui abbiamo un medico che scrive.
Chissà, magari…
(L’autore della recensione scaccia recisamente dalla sua mente l’immagine del megaprimario che si palesava con: “Novero, lei che ha fatto Lettere… ma «po» si scrive con l’accento o con l’apostrofo?” e continua a sognare. Di essere altrove.)

Un piccolo assaggio:
«Il signor Holmes arriva al pronto soccorso perché gli fa male il gomito quando fa così.
Così: mi prendo il braccio destro e lo agito violentemente in ogni direzione.
«Quando non fa così non le fa male?»
«No.»
«E allora perché lo fa?»
«Muovendolo, provoco il dolore. Siccome lo so, mi viene voglia di provarci.»
È una logica impeccabile: lui agita il braccio come un altro stuzzica un’afta con la punta della lingua.
«Come mai non è andato a farsi vedere dal suo medico di famiglia?»
«Non mi va di disturbarlo se non è una cosa grave.»
E perché invece non ti fai alcun problema a venire qui ad agitarmi il braccio sotto il naso e a saccheggiare il mio tempo prezioso? Spiegami questa, se puoi, caro il mio Sherlock!
Lo guardo dritto negli occhi, disperato: «Posso dirle con certezza che non ha niente che non va».
Sospiro di sollievo: «Vede! Ho fatto bene a non andare dal mio medico di famiglia, l’avrei disturbato inutilmente».
Come vorrei essere il James Moriarty di questo Sherlock Holmes!
Un’immagine: delle cascate d’acqua.
Una parola: violenza.
Avrei migliaia di cose da dirgli ma sono stanco. Mi limito a un «arrivederci».»

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    02 Agosto, 2015
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Essere solo un "riparatore".

Premessa.
Giovedì, pranzo con colleghe, una decina di anni fa. Come da tradizione, ci siamo io, la neuropsichiatra infantile, la psicomotricista, la coordinatrice dell’ambulatorio.
Siamo meno “pimpanti” del solito perché abbiamo appena preso in carico un bambino da oncologia e sappiamo che, probabilmente, non sarà una presa in carico lunga.
Non è una novità, purtroppo, ma forse è più doloroso di altri casi, o forse è solo che è appena successo e non abbiamo ancora potuto metabolizzarlo, o forse solo “perché sì”, dal momento che mettersi a fare la classifica del dolore mi pare viepiù cretino.
Ad ogni modo, togliersi dalla testa certe facce, certe parole e certi sguardi in quel momento è difficile e il nostro pranzo scorre piuttosto silenzioso.
R. di punto in bianco dice “Questi sono i momenti in cui, se non avessi fede in dio, penso proprio che non potrei farcela.”
E io, senza nessun tono polemico, perché non ho voglia di fare polemiche e perché stimo moltissimo R. che è una delle persone migliori che conosco, e se mi sforzo un po’ comprendo pure il suo punto di vista, con lo stesso tono assorto osservo “Io invece penso che se mai avessi avuto fede l’avrei persa proprio in un momento come questo, e che se avessi la certezza che dio esiste gli augurerei solo di essere molto, ma molto lontano da me.”
(Sì, i momenti “Arturo Bandini” in cui maledico e minaccio dio esistono anche per me).
Siamo quattro e ci dividiamo in modo equanime sulle posizioni:
- dio esiste perché esiste l’oncologia (pediatrica).
- dio NON esiste perché esiste l’oncologia (pediatrica).

Senza acrimonia e senza discussioni accese. Non è qualcosa che si possa giudicare o di cui si possa convincere un altro. Non è qualcosa di cui si possa discutere. Il dolore dei bambini, nel suo nucleo centrale di profonda innaturalità, corrode gli adulti fino al loro, di nucleo.

La storia di “Oscar e la dama in rosa” mi riporta a quel giovedì, come ci riportano tante storie: ci racconta gli ultimi giorni di vita di un bambino malato di leucemia. Oscar sa quello che gli sta succedendo e quello che gli succederà. È arrabbiato. Con i suoi genitori, per cominciare. Che non hanno il coraggio di affrontare la cosa. E di affrontarla con lui.
È arrabbiato con gli sguardi sfuggenti, le mezze parole, gli occhi bassi.
Rosa, un’anziana signora che lavora nell’ospedale e che – per qualche motivo – riesce a creare un legame speciale con il bambino, gli propone un gioco: immaginare che ogni giorno, corrisponda a dieci anni della vita di Oscar e che lui, a fine giornata, descriva quel decennio.
Oscar immagina di vivere, sposarsi, lavorare, divertirsi, invecchiare, morire.
A centodieci anni.
E in qualche modo riesce a fare la pace con i genitori, i medici, i vivi e dio.

È un libricino di poche decine di pagine e che si legge in fretta. Descrive in modo piuttosto realistico una situazione dolorosa e difficile, trova qualche “cura” palliativa vaga (come non potrebbe esser diversamente) ed alla fine cerca di riconciliare con quello che conciliabile non è.
Se devo fare un appunto, trovo che “nonna Rosa”, a tratti, sia un po’ troppo perfetta. Sappia sempre troppo esattamente quello che deve dire e lo dica nel modo giusto.
Ma probabilmente è solo invidia.
Invece la parte che ho amato è la descrizione della malattia vista dai bambini.
Quello che per noi adulti è “innaturale” per molti di loro, purtroppo, non solo è “normale”, ma è la sola realtà che conoscono. È normale essere ammalati, è normale morire, è normale andare in triciclo con la flebo. Ecco, al di là di dio e delle soluzioni, questo mi è davvero piaciuto.
Prendo congedo con Oscar che spiega questa cosa al suo dottore:
«Non bisogna fare una faccia simile, dottor Düsseldorf. Ascolti, le parlerò francamente perché io sono sempre stato molto corretto sul piano medicina e lei è stato impeccabile sul piano malattia. La smetta con quell'espressione colpevole. Non è colpa sua se è costretto ad annunciare brutte notizie alle persone, malattie dai nomi latini e guarigioni impossibili. Deve rilassarsi, distendersi. Non è Dio Padre. Non è lei a comandare alla natura. Lei è solo un riparatore.
Deve rallentare, dottor Düsseldorf, diminuire la pressione e non darsi troppa importanza, altrimenti non potrà continuare a lungo con questo mestiere. Guardi già la faccia che ha.»

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    31 Luglio, 2015
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Come faremo Ettore? Faremo, mamma.

I Ventitre Giorni della Città di Alba – Beppe Fenoglio, 1952.

Prima Opera di Fenoglio a vedere la luce, nel 1952, per la collana "I Gettoni" di Einaudi (n°11), diretta da Elio Vittorini.
Dodici racconti (il titolo della raccolta è quello del primo racconto) in cui Fenoglio, che sentiva di non avere "il passo" del romanzo, riversa episodi e ritratti. Della guerra, della vita civile, delle Langhe, di Alba.
Ci dev’essere qualcosa nell’estate che mi porta a Fenoglio, anche se non so che cosa sia.
Letto per la prima volta in un torrido agosto, riletto in un altrettanto torrido luglio.
L’estate nel paesaggio di Langa richiama immobilità ed immutabilità.
Richiama un quadro eterno ed indifferente in cui emergono i personaggi tratteggiati da Fenoglio con il consueto “piglio”: lucido, senza sbavature ed indulgenze.
Non c’è nessun eroismo né nei singoli, né nei gruppi. Nei racconti “di resistenza” le miserie dei partigiani non sono diverse da quelle degli altri. Questo non significa che Fenoglio voglia mettere in discussione la sua scelta di campo. Niente affatto. Ma non diversamente da Leopardi nelle Operette Morali, non concede un pollice alla retorica, alla fanfara, alla vanagloria.
Dice sempre tanto, Fenoglio, con il suo descrivere in modo asciutto. Tratteggia personaggi che restano nella memoria, come Lancia e Max, e tratteggia una società cupa ed arretrata, rimasta uguale a sé stessa anche dopo gli scrolloni della guerra.
Nel primo racconto, che dà il titolo alla raccolta, sperimenta molto anche a livello linguistico con qualche neologismo davvero particolare (“i civili si incantinarono”), negli altri meno, ma il suo “calco” dal dialetto è già presente e notevole (sarà poi perfezionato ne “La Malora”).
In ognuno dei dodici racconti c’è una storia che merita di essere ascoltata; personalmente trovo che i più riusciti siano «I Ventitre Giorni», «Un Altro Muro», «L’Acqua Verde» con l’anonimo, struggente protagonista e «Pioggia e Sposa».
Assolutamente da leggere e uno dei miei preferiti nella produzione fenogliana.

(PS Fenoglio pubblica questa raccolta a trent’anni, vivrà solo per altri undici, riuscendo, in poco più di un decennio a creare capolavori come La Malora e La Paga del Sabato; non posso fare a meno di chiedermi quale enorme perdita sia stata la sua così prematura scomparsa).

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    29 Luglio, 2015
Top 100 Opinionisti  -  

Queste mani sono mie!

Beloved (Amatissima) – Toni Morrison, 1987 (Ed. Ita. 1993).

(Lieve Spoiler)

Un po’ per caso e un po’ per desiderio sto leggendo parecchio sulla schiavitù e sulla "questione razziale" americana. Mi sono imbattuta in questo libro per una bella recensione che mi ha fatto superare il titolo che, per me, è del tutto respingente.
Non avevo mai letto niente di Toni Morrison (premio Nobel 1993) e ho cominciato dal suo libro forse più famoso.
“Beloved” cioè “Amata” è il nome di una bambina e la storia raccontata si ispira ad una vicenda realmente accaduto negli anni immediatamente successivi alla Guerra di Secessione, nel Kentucky.
La protagonista della storia è la mamma di Amata, Sethe.
Sethe è una giovane schiava che per un certo periodo, nella fattoria nota come “La Dolce Casa”, vive un’esistenza relativamente serena. Il padrone è un “buon bianco” e la padrona le è affezionata.
Il padrone è anche in un certo senso “progressista” e permette agli schiavi di “comprarsi” la libertà aggiungendo ulteriore lavoro a quello (massacrante) che già svolgono.
Sarà in questo modo che Halle, marito di Sethe, riscatterà l’anziana madre, Baby Suggs.
La donna viene portata dall’ex padrone in “zona libera” e lì, per la prima volta, assapora un’idea di libertà: «Ma, all’improvviso, si vide le mani e pensò con una chiarezza tanto semplice quanto accecante: «Queste mani mi appartengono. Queste mani sono mie!» Poi sentì un tonfo al petto e scoprì un’altra cosa nuova: il battito del suo cuore. C’era sempre stato? Quella cosa che pestava a quel modo? Si sentì una sciocca e cominciò a ridere forte.»
Ma Sethe, Halle e i loro tre bambini (e una in arrivo) sono ancora schiavi. E il “buon” padrone muore. Quello che subentra non lo è altrettanto e la famigliola decide di fuggire. Sethe e i bambini riescono a raggiungere la nonna. Di Halle non sappiamo più nulla.
Ma la loro libertà non è stata pagata e quindi la legge è sulle loro tracce ed alla fine li raggiunge.
Non voglio spoilerare, ma Sethe farà quello che è in suo potere per proteggere i suoi bambini, e con la piccola Amata ci riscirà.

Si tratta di una lettura molto forte e dura, che deriva dal capillare lavoro di documentazione dell’autrice. Le parti in cui vengono descritti le condizioni degli schiavi e i loro pensieri sono di una bellezza straziante e lacerante.
Non esiste la sfortuna – dice Baby Suggs – ma esistono i bianchi.
I bianchi possono impadronirsi così a fondo dei loro schiavi da impedire loro di amare persino le stelle troppo luminose: « se uno glielo permetteva, potevano non farti più sentire le colombe, né amare il chiaro di luna. Così uno si proteggeva e amava delle cose piccole. Dovendo scegliere tra le stelle in cielo, si prendevano le più minute e, prima di addormentarsi, ci si sdraiava con la testa storta per riuscire a vedere la stella amata, oltre il bordo del fossato. Le si dava furtivamente una timida occhiata durante l’incatenamento. Le foglie d’erba, le salamandre, i ragni, i picchi, gli scarafaggi, un reame di formiche. Qualcosa di più grande non avrebbe funzionato. Una donna, un bambino, un fratello – un amore grande così, ad Alfred, in Georgia, poteva schiantare una persona. Sapeva esattamente quel che Sethe voleva dire: arrivare in un posto dove uno poteva amare tutto quello che voleva – senza dover chiedere il permesso di desiderarla – be’, ecco, quella sì che era libertà.»
A volte le situazioni descritte da Morrison sono di rara crudezza, altre volte vengono lasciate all’intuizione del lettore, con poche, vaghe parole: « Sopracciglia folte, spesse ciglia da bambina e l’inconfondibile richiesta di amore che luccicava attorno ai bambini, finché non imparano la lezione.»
Sethe sa, sulla sua pelle «che Che un bianco qualunque può prendere tutto l’io di una persona per il primo motivo che gli salta in mente. Non solo può sfruttare, uccidere o mutilare una persona, ma anche sporcarla. Sporcarla al punto da non riuscire più a piacere a se stessa. Sporcarla al punto da dimenticare chi si è e non poterci più pensare. E anche se lei e altri erano sopravvissuti e si erano ripresi, non avrebbe mai potuto permettere che accadesse anche ai suoi figli: erano loro la sua parte migliore.»
Ed agisce di conseguenza.
L’autrice sostiene la narrazione riuscendo a rendere bene la perdita di identità e di memoria dei personaggi e la loro convinzione che in fondo “niente muore mai” perché la morte potrebbe essere un sollievo.
Su questa linea, però, si inserisce un racconto che, scostandosi dalla narrazione oggettiva, alterna flusso di coscienza dei vari personaggi, flashback a volte difficili da seguire, spiriti, fantasmi e riapparizioni più o meno miracolose. Queste parti mi hanno convinto molto meno e – anzi – a tratti hanno reso la narrazione faticosa.
Con questo – tutto sommato – piccolo appunto, mi sento sicuramente di consigliare la lettura.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    28 Luglio, 2015
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Maternità rifiutata. Un libro che Bergman avrebbe

(lievissimo spoiler)

Primo "morso" a Coe (che ha dovuto destreggiarsi con un predecessore come Steinbeck).
L'autore esordisce, con me, alla grande, tanto da avere già altri titoli nella mia lista, con una storia "tutta al femminile".
Non ho mai capito (né mi son mai impegnata molto per farlo) la differenza fra "scrittura (al) femminile" e "scrittura (al) maschile", né la distinzione fra libri rivolti agli uomini o alle donne.
Ci sono storie belle e storie brutte. E ci sono storie scritte bene e scritte male.
Due per due quattro, quattro possibili combinazioni.
Volendo possiamo aggiungere due vie di mezzo ed arrivare a nove.
Ma tanto non importa, perché questa è una bella storia scritta bene.

Apriamo con Gill che, informata della morte della zia Rosamond, anziana sorella della madre, si reca nello Shropshire. Qui apprende di aver ereditato, oltre che ad un terzo delle proprietà della zia, anche 4 cassette incise dalla stessa, e di doversi impegnare a consegnare le stesse ad una certa Imogen.
Gill la ricorda vagamente: si tratta di una bambina non vedente, conosciuta circa vent'anni prima, il giorno del cinquantesimo compleanno della zia.
Con l'aiuto delle figlie, Gill cerca in tutti i modi di rintracciare Imogen, ma senza successo; così, un pomeriggio, le tre donne decidono di ascoltare i nastri incisi da Rosamond, sperando di trovare qualche altro indizio per rintracciare la misteriosa "bambina" (che in realtà, all'epoca dei fatti, dovrebbe avere intorno ai trent'anni, ma la stessa Rosamond, ammette, nel suo racconto, di continuare ad immaginarla come la piccola bambina di vent'anni prima).

Rosamond, nelle cassette che ha inciso, si rivolge direttamente a Imogen e le racconta la sua storia (di Imogen, certo, ma anche della stessa Rosamond). E lo fa in un modo particolare, cioè descrivendo alcune fotografie (venti) scelte con cura fra le molte in suo possesso.
Immaginando di parlare con una persona non vedente, Rosamond inizia sempre descrivendo le fotografie, ma quasi subito abbandona i buoni propositi e si mette a ricordare odori, voci, profumi, musiche, aneddoti. Si richiama all'ordine, sorride, si commuove, si interrompe e riprende.
Questa la cornice narrativa immaginata da Coe.
Una vecchia signora che racconta una storia per immagini, incidendola su nastro, ad una bambina cieca.
E qui non c'è maschile, femminile e neutro.
C'è un'idea perfetta e una scrittura che non è da meno.
E siamo solo alla cornice.

La storia che racconta Coe è di rara durezza.
Quella che racconta Rosamond cerca di stemperare, spiegare, lasciare spazio al dubbio e alla speranza. Ma Rosamond non conosce tutta la storia, ed infatti il finale spetta a Gill.
Sarà lei a concludere la storia cominciata dalla zia, ahimè in un modo che sicuramente Rosamond non avrebbe amato (e se proprio devo fare un appunto a Coe, ecco, il "presagio" che coglie Gill in Alvernia mi è sembrato abbastanza superfluo).
Non voglio spoilerare, ma ho parlato di storia di rara durezza.
Coe, in questa storia "tutta al femminile", affronta niente meno che il tema della maternità.
Da quella negata ad una coppia lesbica, a quella rifiutata da almeno tre donne – di tre generazioni diverse – diventate madri (di figlie femmine) - loro malgrado.
Mi viene in mente un altro autore che abbia tentato con altrettanto genialità, bravura e forza un tema del genere. Si tratta di Ingmar Bergman in "Sinfonia d'Autunno". E la madre e la figlia in scena sono Ingrid Bergman e Liv Ullman. Pare che Ingrid Bergman trovasse "inverosimili" queste madri, e Ingmar Bergman, che ne sapeva qualcosa, le rispose: " Ci sono donne così. Rifiutano di essere disturbate dai loro figli. Non vogliono perdere tempo con i loro problemi. Hanno la loro vita, la loro carriera. Tutto il resto non conta. È di una donna così che ho voluto parlare."
(Qui una splendida recensione al film, da cui ho tratto la citazione: http://andiamoalcinema.blogspot.it/2012/12/ingrid-e-ingmar-bergman-in-sinfonia.html ).
Be' non c'è bisogno che mi affanni io a negare temi/scritture/storie di genere, dal momento che ci hanno già pensato – e così intensamente ed efficacemente – Bergman e Coe.
Enjoy.

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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    27 Luglio, 2015
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Scout, Scarlett

Harper Lee - Il Buio oltre la Siepe

(Questo libro è una ri-lettura di gruppo e segue il vituperato "Leggere Lolita a Teheran".
Inoltre per motivi che ignoro, il mio cervello lo ha associato a Via Col Vento di Margaret Mitchell; averli letti tutti e due facilita la comprensione, ma non è fondamentale).

SPOILER - SPOILER - SPOILER - SPOILER– SPOILER– SPOILER– SPOILER– SPOILER–

Margaret Mitchell, in Via col Vento, riferendosi all'epoca in cui ambienta il suo romanzo (gli anni intorno alla Guerra di Secessione), dice più o meno che nessuna era stata più ostile di quella alla "spontaneità femminile".
Abbiamo letto "Il Buio" dopo "Leggere Lolita a Teheran" e non ho potuto fare a meno di notare le profonde somiglianze fra le nostre trisnonne (americane e non) e le loro nipoti iraniane. Poco importa che le prime fossero sottoposte a convenzioni che "esaltavano" il corpo femminile, mentre le seconde ad altre che lo "nascondono". Busti, veli, corsetti, fasce per i piedi, tacchi alti e torture varie per me "pari sono". Vero che alcune pratiche sembrano scelte "spontaneamente", ma sulla spontaneità di vedere bambine con lo smalto sulle unghie, biancheria vezzosa, capelli lunghissimi e pendenti alle orecchie io ho molto da eccepire.
Ma va be'.
Il Buio Oltre la Siepe è ambientato nel 1935, anni dopo, ma ancora nella "scia" del periodo di Scarlet/Rossella, di quella società e di quel tipo di mentalità. Le signore di Maycomb mettono ancora il busto (ma solo alla domenica), si scambiano visite, si preoccupano di tradizioni familiari, di quanto tempo una famiglia sia legata ad un determinato pezzo di terra, di pettegolezzi, giardinaggio e facezie simili.
Da tutto questo è (momentaneamente) indenne la piccola protagonista del romanzo, Jane Luise Finch, detta Scout. Bimbetta di 6 anni, orfana di madre, con un papà avvocato, affettuoso ed un tantino sopra le righe, un fratello maggiore di 12 anni, Jem, una bambinaia, Calpurnia.
L'autrice, attraverso la narrazione in prima persona da parte di Scout, riesce a creare un personaggio fresco e vivace, solo a tratti un tantino petulante e saccente (ahimè nel film questo equilibrio non riesce affatto, ri-va be').
Dal punto di vista privilegiato dello sguardo di Scout vengono descritte le vicende della piccola città di Maycomb.
E cominciamo col venire a sapere che il prestigio che conferisce – per la comunità – la nascita a Maycomb è dovuto alla furberia di un vecchio oste. Che lo stesso prosperare della città è stato causato da un gruppo di funzionari ubriachi.
Tutte le volte in cui all'autrice riesce questo gioco, il romanzo vola veramente alto.
Scout descrive le cose senza dare un giudizio, perché così sono e così le conosce. Noi adulti, invece, abbiamo il privilegio di rifletterci su.
In "Via col Vento" (e poi la pianto con i parallelismi fra i due romanzi) lo stesso concetto (cioè che sia assurdo attribuire particolare valore all'essere nati in un posto piuttosto che in un altro, così come lo sia essere particolarmente legati ad un pezzo di terra piuttosto che ad un altro) viene veicolato da Rhett, che fa una lunga tirata contro gli Irlandesi e la loro "infernale razza". Questo è un po' un punto dolente di molti libri: la differenza fra veicolare un messaggio attraverso quello che succede (Harper Lee) e bloccare un personaggio in scena e fargli fare uno spiegone (Mitchell, Nafisi, Williams in Butcher's Crossing…).
Ma torniamo a Maycomb.
Famiglie povere, ma dignitose, famiglie povere e corrotte ("straccioni bianchi" avrebbe detto Mamy), famiglie "bene", famiglie con qualche grossa "vergogna" da nascondere, eccentrici outsider, cariatidi della Confederazione, new entry, dame pettegole, simpatiche zitelle.
Tutti bianchi.
L'unico personaggio di colore che viene conosciuto ed approfondito è Calpurnia.
Che diventa uno dei miei preferiti, insieme a Miss Maudie (ma qui – temo – parta decisamente l'identificazione ;) ).
La vita tranquilla di Scout e Jem viene dapprima movimentata dall'arrivo di Dill (e anche qui mi chiedo: perché questo ragazzino, così adorabile, nel film diventa un mostriciattolo smorfioso ed intollerabile e pure con la /r/ moscia?), poi dall'inizio della scuola di Scout, che decisamente non è dei più piacevoli. Il polo di interesse dei bambini è la misteriosa e vicinissima casa dei Radley, dove vive – senza uscire mai – Boo. Si dice che Boo abbia ferito il padre con un paio di forbici e sia stato rinchiuso per un certo periodo. Al momento però vive segregato in casa senza uscire mai.
I bambini sono terrorizzati e – ovviamente – attratti dalla casa tetra e dalla misteriosa figura di Boo. Jem, di nascosto dalla sorella, comincia anche una sorta di bizzarra corrispondenza con Boo, che gli lascia piccoli oggetti nel cavo di un albero.

La vita della piccola comunità viene sconvolta da Maybella Ewell (bianca, per quanto "stracciona") che accusa Tom Robinson (nero, per quanto "rispettabile") di averla violentata.
Atticus Finch viene nominato difensore d'ufficio di Tom.
Appare evidente da subito che lo "stupro" sia un maldestro tentativo - fallito - di seduzione da parte di Maybella (che è costretta a subire le "attenzioni" del padre).
Ed è evidente che tutti ne siano consapevoli. Giudice, giuria, pubblica accusa, pubblico in aula (tutta la comunità è presente, compresi i figli di Atticus e Dill).
Molto chiaramente appare subito che il punto non è se Tom Robinson sia colpevole o meno (è evidente che non lo sia), me se una giuria di Maycomb, nel 1935, sarà disposta a dichiarare che una donna bianca ha adescato un uomo di colore.
Ed appare da subito abbastanza chiaro che non lo sarà.
Atticus non si fa illusioni su questo. Quello che spera è di un tempo di delibera abbastanza lungo che gli dia qualche possibilità in Appello.
Atticus non si fa illusioni, ma i bambini della storia sì (in realtà veniamo resi partecipi del punto di vista di Jem e di Dill, dal momento che Scout, come voce narrante, giustamente, narra i fatti con pochissime sbavature ed "intromissioni").
Jem, che è il più grande ed incarna lo spirito "illuminista" e razionale è certo dell'assoluzione.
Dill, invece, incarna gli aspetti più emotivi ed empatici. Uno dei brani che preferisco è la sua uscita fuga dal tribunale, in lacrime, durante il contro-interrogatorio della pubblica accusa.
"Lo so, lo so, Scout: era il modo che aveva di parlare con lui che mi ha fatto star male: proprio male! (…) Non faceva così con gli altri! Il Signor Finch non ha fatto mica così Maybella e il vecchio Ewell quando li ha interrogati. Quel modo che aveva di dire "giovanotto" e di schernirlo (…)"
"Be' Dill, dopo tutto non è che un negro!" (è Scout a parlare)
"Non me ne importa un fico secco. Non è giusto, ti dico che non è giusto trattarli in questo modo. Nessuno ha il diritto di parlare a una persona in quella maniera… è una cosa che mi fa stare veramente male!"

E mi scuserete la lungaggine, ma poche righe dopo abbiamo l'apparizione di un'altra piccola ed amata meteora: Dolphus Raymond. Anche lui bianco e benestante che ha deciso di vivere in mezzo ai neri. Ha fama di essere un ubriacone, ma in realtà…
"Vuoi dire perché faccio finta di bere? Be' è molto semplice, a molta gente non piace… il modo in cui vivo. Potrei anche mandarli al diavolo dicendo che me ne infischio se a voi non piace il mio modo di vivere; ma mi limito ad infischiarmene senza mandarli al diavolo (…) in altre parole, cerco di dare loro una buona ragione per criticarmi. Vedete, la gente si sente meglio se può attaccarsi a qualche valida scusa. Quando vengo in città, cosa che accade di rado, se mi vedono barcollare e bere da questo sacchetto (che contiene CocaCola, ndA), possono dire che Dolphus Raymond è ubriaco, e per questo si comporta così…"
Dopo una camera di consiglio abbastanza lunga, Tom viene condannato. Atticus è speranzoso per l'appello, ma poco tempo dopo, Tom tenta la fuga dal carcere e viene ucciso.
La narrazione di Scout prosegue ancora un poco, per raccontarci del tentativo di vendetta del padre di Maybella (che vuole punire di Atticus che ha "svergognato" la figlia, colpendo i suoi bambini) e del salvataggio da parte di Boo Radley.
Questa parte è molto tenera e fra l'altro ci spiega il perché del titolo originale "To Kill a Mockingbird" (e qui ci sarebbe da aprire un altro topic sulla traduzione. "Mockingbird" è il "mimo settentrionale" una specie di tordo diffusa in America. In genere tradotto come "usignolo" – ad esempio nel film – nella mia edizione Feltrinelli diventa "merlo". Il punto è che si tratta di uccelli innocui e che cantano in modo piacevole; e per questi motivi sia un peccato ucciderli; di più un'inutile crudeltà).
Boo salva Jem da Ewell e lo uccide. Naturalmente si tratterebbe di legittima difesa, ma lo sceriffo (inizialmente conto il parere di Atticus) insiste sulla fatalità: il vecchio è caduto sul suo stesso coltello. Se si venisse a sapere la verità la vita schiva e riservata di Beau sarebbe sconvolta.
Sarebbe come uccidere un usignolo (merlo/tordo), una crudeltà inutile come lo è stata la morte di Tom Robinson.

Rilettura di un libro bello e molto amato.
Sia per il contenuto veicolato (l'ormai famigerato "messaggio") sia per le qualità della narrazione.
La scelta del punto di vista di una bambina permette all'autrice di narrare in modo vivace, ironico e pieno di "stupore" quello che accade, senza dover dare un giudizio su di esso.
Personalmente trovo molto difficile che un autore riesca a "rendere" bene i bambini, nelle narrazioni. O paiono finti, o sembrano saputelli o sono… odiosi.
Harper Lee riesce a creare un personaggio vero, magari un tantino saputello sì, ma come lo sono a volte i bambini. A Scout vuoi bene. Io sicuramente più a Dill e a Jem, ma comunque anche a lei :)
Quello che mi piace di questo libro è proprio il comunicare tanto attraverso la narrazione, senza spiegoni e moralismi.
È così che dovrebbero funzionare le storie.

Ahimè, non posso dire lo stesso del film (che non avevo mai visto fino ad oggi).

So che molti lo amano, ma a me non è proprio piaciuto.
Al di là di Gregory Peck che mi convince poco, come attore, ma le scelte di sceneggiatura e il doppiaggio italiano (pessimo davvero), hanno cagionato più di uno sbadiglio. A parte Jem, i bambini son piuttosto odiosi (in particolare Dill… perché?), il "miracolo" di Scout, voce narrante e personaggio non riesce e la bambina, imho, è piuttosto insopportabile (petulante e so-tutto-io).
La scelta di concentrare tutti gli eventi in pochissimo tempo (Tom muore il giorno stesso del processo), secondo me non è stata azzeccata e, per contro, il film è lento e poco coinvolgente (sempre imho, come tutto il resto).
Quindi adesso ripenserò personalmente ad un cast adeguato per un remake :D


PS Harper Lee era amica di Truman Capote. È stato lui a convincerla a pubblicare "Il buio". E lei ha omaggiato l'amico, inserendolo nella storia. È Dill.

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