Opinione scritta da Bruno Izzo

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    21 Settembre, 2022
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IL PARROCO DEL RIONE SANITÀ

Quel che sia il Rione Sanità, uno dei quartieri popolari più caratteristici di Napoli, se non il più peculiare, ebbe già a delinearlo chiaramente Eduardo De Filippo in una delle sue più note rappresentazioni teatrali, “Il Sindaco del Rione Sanità”.
In questa commedia, una vera e propria tragedia in salsa partenopea, con tanto di fatti di sangue, il maestro drammaturgo esponeva nei particolari il realismo di questo quartiere specchio della città e di tante altre analoghe realtà, allorché regnano incontrastate miseria, povertà, disoccupazione e ignoranza dilaganti, bollava l’unico ordinario, pressoché ineluttabile viatico obbligato al delinquere, dettato dalle dolorose circostanze di bisogno, spesso dal solo fatto di nascere in un luogo anziché in un altro, nel degrado anziché in un contesto civile.
Il tutto, per puro amore del paradosso, ambientato in un quartiere il cui nome, Sanità, deriva da una pregressa salubrità dei luoghi, un tempo ameni e ricchi di gaia vegetazione, ora cupi, chiusi, tetri. Perchè i fumi della delinquenza spicciola, quella comune dei piccoli traffici ed illeciti atti a sbarcare il lunario della povera gente, nonché in una progressiva escalation i furti, gli scippi, il contrabbando, la ricettazione, e le consequenziali furberie, l’impertinenza, la petulanza, la sfacciataggine ai quali tutti sono dediti, obbligati a forza per puro spirito di sopravvivenza, tutto questo in qualche modo toglie colori, sbiadisce il presente ed oscura il futuro dei nativi, specie i più giovani.
Ai residenti non tanto di luogo ma di giacenti in tali infime condizioni, in mancanza di quanti a ciò preposti dalle istituzioni, conviene chiedere aiuto ai sodali nella sofferenza, vivi e morti, vicini, conoscenti, parenti, in una rete rattoppata ma sana, a suo modo “salubre”, questa sì una vera Sanità, che accoglie, assiste, supporta i meno fortunati, poiché ognuno sa che al peggio non c’è mai fine, chiunque prima o poi può aver bisogno dell’altro, di aiuto e soccorso magari solo morale.
Un sentimento, un sentire comune, una comunanza che negli ultimi, negli umili, nei paria della società è la sola assistenza sociale a portare luce, a rischiarare, a mantenere viva la speranza: che resta l’unica ragione di vita. Nella Sanità, che è quasi un mondo a sé stante unito letteralmente da un ponte al resto della città, si attua tra gli abitanti, come in tanti altri quartieri della Napoli storica, quella verace, una sorta di mutuo soccorso, una protezione civile collettiva che arruola come effettivi finanche i defunti, sentiti sempre vivi, vicini e partecipi all’esistenza quotidiana, con loro dividendo affanni e problematiche varie. A comprova, l’abbondanza in loco di un tripudio di chiese, siti, templi, sacrari di indubbio ed affascinante interesse storico, a sancire vincoli oltre la vita.
“…I vivi…erano rimasti insieme ai morti, e la morte era l’altra faccia della vita con la quale allearsi per averne vantaggio... Non potendo aspettarsi aiuto dai vivi, il popolo lo chiedeva ai defunti.”
Allora, tutto quanto avviene ad uno del quartiere è come se avvenisse a tutti indistintamente, sono tutti legati e collegati tra loro molto più che da vincoli familiari, sono letteralmente questioni di sangue. Pare iscritto nel DNA la condanna a delinquere a cui tutti sono destinati, fato che proviene dalla sola nascita nel bisogno assoluto di tutto, in stato di estrema necessità, nelle ristrettezze economiche e morali, che vietano di cogliere l’attimo propizio per usufruire delle opportunità, più o meno felici, che l’esistenza offre a chiunque disponibile a raccoglierla.
Ne consegue infine che, in mancanza delle istituzioni proposte, in un tale sistema illegale e perciò di per sé privo di regole, è un Sindaco, un capo camorra, un uomo di rispetto della malavita l’unico che possa, in qualche modo, mantenere l’ordine o una parvenza di questo, con metodi autoritari e coercitivi, gli unici possibili e riconosciuti efficaci, per prevalere su tanti candidati ad affermare il proprio carisma e la propria autorità basata sulla forza, sulla paura, sulla violenza, gestire luoghi e attività ai limiti del lecito ed oltre, regolare gli umori, gli scatti, le nefandezze a cui la disperazione costringe gli sventurati più spesso vittime che colpevoli.
“…non c’è bugia più grossa di quella che dice che ognuno ha la libertà di scegliersi la vita che vuole. Solo i ricchi ce l’hanno questa libertà. Gli altri si devono tenere la vita che gli è capitata.”
Fatte queste premesse, ed i dovuti distinguo, infine tutto questo è quanto si racconta in “Questioni di sangue” di Anna Vera Viva: un libro che delinea la Sanità, riferisce le mille esistenze che popolano il quartiere, il piccolo falsario di abiti firmati, il ladruncolo, la contrabbandiera di sigarette, la prostituta tanto bella e delicata quanto lontana dalla turpitudine del suo mestiere, insieme ad altri membri onorari del popolino non inclini a delinquere e però costretti ad arrabattarsi con mille sacrifici e rinunce, il romanzo è uno spaccato della città davvero ben costruito, con esattezza, precisione e riportato in modo più che attraente direi avvincente. Il narrato ritrae con la penna, meglio che con un pennello, volti, situazioni, emozioni, finanche l’amore immenso, incondizionato, perenne e viscerale per la squadra di calcio del Napoli. Con pochi schizzi ecco figure tracciate nei particolari, fatti storici, miti e leggende dei luoghi, un vero e proprio tour esoterico nella Napoli di miti e misteri: “O’ Munacone”, il cimitero delle Fontanelle, l’ossario sotterraneo con i teschi e la “scolatura”, le anime “pezzentelle”, tutto quanto fa del quartiere, e di Napoli per estensione, città fatata, fiabesca, incantevole, magica, misteriosa ed insondabile, tanto vivida con pari intensità in superfice e nelle sue viscere. Anna Vera Viva si rivela qui ed ora scrittrice formidabile: riporta la sua storia inserendola abilmente nelle storie della città, con cura, attenzione, impegno e dedizione; non appesantisce mai la sua prosa, anche nei momenti più da soliloquio dei suoi personaggi, con abilità e maestria li fa apparire quasi si confidassero con il lettore, ha dono ed istinto di presentare il suo lavoro più da ascoltare che da leggere. Non ci fa vedere la città, il quartiere, ce li fa sentire. La Sanità risuona di voci, dei richiami, dei pettegolezzi, degli “inciuci”, il lettore sente e segue così l’evolversi dei fatti, è l’ombra del parroco girovago, come lui si arrabbia e si indigna, è caritatevole e furioso, fraterno ed umano, talora burrascoso nell’animo. Perché il momento più ingegnoso, a parte il finale intrigante, sconvolgente e sbalorditivo, ciò che ci ha ammaliato nel lavoro della scrittrice napoletana, a sottolineare il misto tra sacro e profano, mondo delle anime defunte e degli animi tormentati dei viventi, è proprio il fatto che la scrittrice ha pensato bene di affiancare ad un Sindaco eduardiano anche un prete di pari stoffa, il parroco del Rione Sanità.
Che sono per di più anche fratelli, fratelli carnali, di sangue: Giuseppe “Peppino” Annunziata e Don Raffaele Annunziata sono stati infatti separati non alla nascita o in tenera età, ma comunque nel momento più vulnerabile della loro esistenza. Figli di un povero sventurato, aduso più per dabbenaggine che per animo malevolo ai lunghi soggiorni in carcere, e di una donna deliziosamente materna morta troppo giovane, sono divisi dalla pubblica assistenza, benché inseparabili, legati da vincoli ben oltre quelli di sangue, quelli sanguigni di vicolo. Si ritroveranno dopo quaranta anni alla Sanità, il primo divenuto un feroce “Sindaco”, il capo della malavita locale, il secondo, cresciuto a Roma in adozione, entrerà in seminario malgrado l’indole irruente da “ragazzo di strada”, prenderà i voti e l’etichetta di “prete scomodo” quanto mai adatto, perciò, ad assumere l’incarico difficile di Parroco del Rione Sanità.
“…la vita differente che avevano affrontato li aveva costruiti in forme opposte, seppure con gli stessi mattoni…l’uno immagine speculare dell’altro, quasi banali nel loro essere il bianco ed il nero, il bene ed il male…”
Insieme i due fratelli si troveranno, e si ritroveranno, il buono e il cattivo, le due facce della stessa medaglia, la parte liquida e quella solida che costituiscono lo stesso sangue; diversi, ma uniti come vuole la voce del sangue; ed insieme indagheranno sull’omicidio di una mela bacata del quartiere.
Davvero un pessimo soggetto, un poliziotto corrotto, usuraio, violento e brutale, prevaricatore e rovinoso, quello che a Napoli si dice “o’ malamente”, un uomo dall’anima malvagia di per sé, inumano, perverso e velenoso. Indagini assai difficili, perché persone come queste fanno di tutto per attirarsi il malanimo collettivo: perciò, la sua morte è un sollievo per molti, una liberazione per tante vittime della sua esasperata malvagità. Così come, sul treno dell’Orient Express di Agatha Christie che corre nella notte, tutti i passeggeri, nessuno escluso, hanno i loro motivi per vedere morto la vittima ritrovata in uno scompartimento, così anche nella notte brulicante di voci della Sanità tutti hanno una qualche ragione di disprezzo e vituperazione nei confronti del turpe poliziotto assassinato.
Tanti, troppi, quasi tutti nel quartiere Sanità…ed anche in altri quartieri, finanche quelli nobili ed altolocati. Ma uno solo è l’assassino. Serve allora un tipo di indagine che svisceri le motivazioni più recondite e profonde, le questioni di sangue, appunto, che sono intrinseche e talora inesplorabili ai comuni mortali come i misteri dell’anima: perciò la soluzione può essere fornita solo dal Parroco del Rione Sanità. Soluzione che ha un sapore ferroso, di sangue: naturalmente, sono questioni di sangue:
“…di padri e di figli, di sorelle e fratelli…di sangue che identifica e lega, di quello che scorre nelle vene e nelle strade…di quello che ti lega ad un ruolo così visceralmente da farti sentire d’appartenergli anche dopo anni di lontananza…il sangue colorava tutto, potenziava, espandeva, trasferiva…”.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    21 Settembre, 2022
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Un algoritmo per Dio

La fisica studia i fenomeni della Natura, che oggi ci appare ormai svelata in tutti i suoi segreti.
La vita, la materia, l’universo e le leggi che ne regolano il comportamento, sia negli aspetti macroscopici visibili, che nei minuti componenti di cui magari se ne è dimostrata l’esistenza solo indirettamente, ci è nota; le formule matematiche la declarano con chiarezza inoppugnabile, il tutto grazie ad autentici campioni dell’intelletto umano che le hanno sviluppate nel corso dei secoli, da Galileo Galilei a Isaac Newton, da Charles Darwin a Niel Bohr, fino a Stephen Hawking e tanti altri ancora. Tutti scienziati di chiara fama succedutosi nei tempi, grazie a loro la natura è inquadrata con logica precisa in equazioni lineari a valenza universale, che ne hanno permesso le possibili applicazioni pratiche utili all’uomo, e purtroppo talora anche quelle nocive, pericolose, dannose e catastrofiche con un uso malevolo e irrazionale. La scienza però spiega i fenomeni, ma non la Natura.
Scopre le leggi universali che sono alla base dell’esistenza, le variazioni di energia vitale che permettono la vita, ma non la Vita. La fisica prevede con precisione lo sviluppo e la direzione degli eventi, ma non cos’è l’Evento, l’Origine, lo Scopo, il Fine.
Insomma, questo libro richiama il classico pensiero, talora un tormentone: da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo, non è però un libro di fantascienza o di teologia spicciola, ma una buona storia di narrativa che racconta dell’alfa e dell’omega, del Principio e della Fine, letteralmente della nostra Genesi. Tutto questo è quanto, in fondo in fondo, tratta il bel romanzo di Josè Rodrigues Dos Santos, “L’enigma di Einstein”, un thriller storico scientifico di buona lettura, spedito, fluente, avvincente, appassionante. Ma direi in particolare, interessante.
Interessante perché, e oserei dire addirittura istruttivo, intriga ed incuriosisce, spiega e chiarisce, illumina e rivela, poiché non si tratta di una storia di pura fantasia, un racconto fantastico inventato di sana pianta, improbabile ed inverosimile, senza nessun costrutto credibile o dimostrabile, e nemmeno di una ricostruzione storica lievemente romanzata di fatti realmente avvenuti. Intendiamoci, vengono qui riportati personaggi di chiara fama come quel genio di Albert Einstein, o il noto primo ministro dello stato di Israele agli albori della sua fondazione, David Ben Gurion, o anche strutture istituzionali come la CIA americana e finanche organizzazioni terroristiche riconosciute come l’Hezbollah libanese, ma tutto il substrato reale non è che il fondale della storia, rappresentano la mera scenografia. La sceneggiatura verte sull’Esistenza, sulla Vita, sull’Origine del Creato, si potrebbe affermare anche di più che le vere protagoniste del romanzo sono la Natura e la Fisica, la realtà come la conosciamo e le equazioni che ne esplicano il funzionamento visibile ed invisibile. Josè Rodrigues Dos Santos richiama i romanzi di Dan Brown, Ken Follet, Glenn Cooper, ma da quelli si differenzia per una sua peculiare caratteristica, l’assoluta veridicità dei dati scientifici riportati e magistralmente spiegati anche a chi è digiuno di scienze. Non a caso il protagonista principale, lo studioso portoghese Thomas Noronha non è uno scienziato, ma un crittografo, più a suo agio con la scrittura e gli enigmi di parole che con la matematica e la fisica.
A riprova di quanto detto, infatti, tutti i dati scientifici riportati in questo libro sono veri.
Ne è proprio il marchio di fabbrica, tutte le teorie scientifiche qui esposte sono reali e non di fantasia, sono universalmente note, usate e avvalorate da fisici e matematici; e naturalmente, altrettanto vere e conosciute sono le formule alla base dello scibile umano, come per esempio la legge della gravitazione universale, i principi della termodinamica, la famosissima equazione della relatività di Einstein, ed altre ancora.
La storia è tuttavia un romanzo, si badi, non una tesi; una buona storia, ottimamente redatta, alcuni protagonisti sono persone realmente esistenti ed esistite, ma non sono che un pretesto, questo è un giallo, un thriller, un racconto di sentimenti, di amore, di famiglia, di religione, di politica, e anche di intrighi, sospetti, tradimenti, azione e avventure, non a caso è stato tradotto in tante lingue e ha venduto come un best seller, l’autore ha un suo format omnicomprensivo che funziona, attrae, si fa leggere, è una lettura piacevole e distensiva, ma anche istruttiva e che induce a riflettere.
Albert Einstein, considerato il genio per eccellenza del suo secolo, era tra le altre cose un uomo gentile, mite, permeato di umanità, convinto pacifista; tra l’altro anche molto religioso, a modo suo. Non credeva nel Dio della Bibbia, ma non era ateo…credeva in un Dio inteso diversamente:
““…noi siamo convinti che Dio sia un matematico e che l’universo sia strutturato in base a delle equazioni matematiche.”
E però, suo malgrado, contro le sue convinzioni di pace, partecipò in prima persona insieme ad altri scienziati agli studi sull’energia atomica che portarono alla costruzione dei due ordigni nucleari con i quali gli Stati Uniti posero fine all’ultimo conflitto mondiale. Lo fece tra le altre motivazioni, non perché fosse ebreo, non era osservante, neanche credeva in Dio comunemente inteso, tuttavia capiva che il nazismo era la negazione di tutto quanto in cui credeva, l’Uomo, tra l’altro era stato costretto a fuggire dalle persecuzioni razziali, non poteva esimersi data la sua preparazione scientifica superlativa a collaborare al progetto atomico, soprattutto per evitare che i nazisti arrivassero per primi alla fabbricazione degli ordigni nucleari con conseguente uso diffuso per il trionfo della follia delle idee hitleriane. Tuttavia, non andava fiero del suo impegno e della sua fattiva collaborazione all’ideazione di tale ordigno, nutriva autentico orrore per l’uso dell’energia atomica come arma di distruzione di massa, si rendeva perfettamente conto dei pericoli insiti in quel tipo di bomba.
Dopo la fine del conflitto mondiale, si dedicò alla ricerca e all’insegnamento, ospite delle maggiori università americane, portando a compimento i suoi studi sulla scoperta del secolo, la celebre legge della relatività universale. Data la sua importanza, visto i segreti di cui era a conoscenza, veniva posto sotto la discreta sorveglianza della CIA, i servizi segreti americani; agenti della CIA pertanto intercettarono un incontro tra il primo ministro israeliano David Ben Gurion ed Einstein. In tale incontro, per la cronaca realmente avvenuto, Ben Gurion chiese ad Einstein, appellandosi al comune status ebraico, di aiutare la nascente nazione di Israele a costruire bombe atomiche piccole e di facile costruzione: rappresentando questo l’unico deterrente possibile perché il giovane e inerme stato appena costituito dai superstiti dell’olocausto, non venisse spazzato via con irrisoria facilità dalle forze militari predominanti dei paesi arabi e dagli antisionisti, tutti coalizzati contro l’esistenza di una nazione ebraica, il cui territorio geograficamente circondato dai paesi ostili era vulnerabilmente costretto in una lingua tra terra e mare. Da qui, ne scaturisce la nascita di un manoscritto segreto, che sarò oggetto di affannose ricerche da opposti estremismi perché, tra le altre cose, oltre alla formula per la costruzione semplificata di bombe atomiche trasportabili, lo scettico Einstein, con sua grande sorpresa, arriverà alla costituzione di un cifrario, uno schema, una ricetta, in definitiva una formula, come quella della legge della gravitazione universale, o della relatività, o altre simili, una teoria del tutto che sarebbe la formula che racchiude tutte quelle già esistenti, l’equazione padrona dell’universo, che con inoppugnabile chiarezza esplica la genesi, il big bang, la cosmologia, prova la veridicità stessa di qualsiasi monoteismo, dagli ebrei, ai cristiani, ai buddisti, agli islamici, perché è…la formula di Dio.
Una formula che dice che l’Universo è concepito di proposito per creare la vita.
La prova scientifica dell’esistenza di Dio.
“…io vedo un orologio per terra, è possibile che non conosca mai l’intelligenza che lo ha costruito. …Comunque, non dubiterò neanche per un secondo che quell’orologio è stato concepito da un essere intelligente. La stessa cosa si può dire dell’universo. Può anche darsi che io non conosca mai l’intelligenza che l’ha creato, ma basta guardare attorno a noi per percepire che si tratta di una creazione intelligente.”
Questa l’idea di base del romanzo, e allo stesso tempo la sua fortuna, il motivo del suo gradimento.
Perché, a modo suo, fa luce. Quindi, qui vede chi vuol vedere, ognuno a suo modo.
E luce fu.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    21 Agosto, 2022
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Il piccolo borghese del Sol Levante

Questo è un romanzo che può apparire lievemente insolito come stile di scrittura, per le nostre consuetudini letterarie occidentali, ma non più di tanto, è una buona storia, solo in un contesto differente, poiché l’autore, Isaka Kotaro, è uno dei più celebri scrittori giapponesi, poco noto da noi ma famoso e pluripremiato in patria per la sua lunga e prolifera carriera, costellata di successi.
Pertanto, luoghi, personaggi, abitudini, ambientazione, gastronomia, usi e costumi che fanno da indispensabile substrato ad ogni buona storia, appaiono qui diversi da quelli ai quali siamo abituati.
Sono però particolari trascurabili, Tokyo per esempio, né più meno, è identica a qualsiasi grande metropoli del resto del mondo, basta ricordarsi solo che ha una densità abitativa esasperata, come in Cina ma in un territorio al confronto meno esteso. La popolazione nella capitale è dell’ordine di qualche milione di abitanti, dà l’idea di un grande formicaio, un agglomerato urbano brulicante di individui, ognuno indaffarato in una precisa funzione. Qualcuno di loro, ha ben poco di umano, come è statisticamente logico da aspettarsi.
“…Gli esseri umani sono più simili agli insetti che ai mammiferi…”
E quindi, in questa storia qualche umano richiama più gli insetti che i propri simili, per esempio le cicale, o le locuste, o i calabroni, che possono anche essere dannosi, o cattivi e vendicativi, e se proprio bisogna tirare in ballo i mammiferi, una balena, magari.
Questa, in estrema sintesi, l’essenza de “La vendetta del professor Suzuki” di Isaka Kotaro.
Una storia del tutto diversa da altri autori del sol levante, niente a che fare con la relativamente recente pubblicazione della trilogia alla caffeina di Toshikazu Kawaguchi, per dire.
La grande realtà metropolitana giapponese è babelica, agitata, frenetica, come può esserlo Londra o New York, con la differenza che qui almeno per la stragrande maggioranza della popolazione si tratta ancora di solo nativi, i classici cittadini giapponesi.
Appartenenti per lo più alla classe sociale media, comuni benpensanti e tradizionalisti, ben integrati ed inseriti nella loro società, dediti religiosamente ai propri millenari riti. Notoriamente ligi al lavoro, al dovere, alla famiglia ed all’imperatore, insomma una sorta di solerti borghesi piccoli travet, come si incontrano dovunque nel mondo.
Attorno ad uno di questi, il signor Suzuki, si snoda la vicenda descritta in questo romanzo.
La buona narrativa ha infatti accezione transnazionale, anche in posti singolari si ritrovano tipi umani caratteristici comuni nel resto del mondo: Suzuki è un tranquillo professore di matematica, innamoratissimo della propria moglie, la cui esistenza scorre placida tra l’insegnamento, a cui si dedica con passione, più per autentica vocazione didattica che per professione atta a sbarcare il lunario, e appunto l’amore intenso, reciproco, inestimabile, e perciò più unico che raro, per la propria metà, con cui progetta un futuro di espansione familiare sperabilmente lungo, lieto e felice.
Un giorno però accade l’imprevisto, tragico, improvviso e crudele: la moglie di Suzuki, in sintesi l’essenza della sua esistenza, la sua principale ragione di vivere, mentre attraversa la strada, ovviamente ligia alle leggi ed al codice della strada, viene brutalmente investita e uccisa da un’auto pirata. Auto pirata per modo di dire: poiché ben presto si appura chi era alla guida dell’autovettura assassina, neanche serve tanto acume investigativo per giungerne a capo, poiché i responsabili quasi ne rivendicano la paternità con tracotanza e delittuosa strafottenza.
Sono infatti delinquenti della peggiore specie, sicuri dell’impunità, incuranti delle conseguenze come solo chi detiene potere, e potere criminale per di più, può permettersi di mostrare impunemente.
Alla guida, infatti, c’era il figlio prediletto del potentissimo capo della Mafia locale, la Reijo; il figlio destinato un giorno a succedere al potente boss, un erede al trono malavitoso che intanto neanche è nuovo a simili atti delittuosi, giusto per farsi le ossa con una sana gavetta delinquenziale, conta infatti già al suo attivo diversi omicidi stradali, sia perché dedito per diletto all’uso di droghe e alcool nel mentre sfreccia a tutta velocità per le affollate strade cittadine, sia più che altro perché intende visibilmente rimarcare con la paura, impegnandosi in questi delitti gratuiti, il potere politico ed economico del suo clan.
Suzuki comprende subito che malgrado tutti siano al corrente di chi sia responsabile del vile assassinio, nessuno, né polizia, magistrati, avvocati, politici, o chiunque altro gli potrà rendere giustizia, persone come i mafiosi Terahara padre e figlio sono ricchi, violenti, feroci, potenti, intoccabili, possono contare su tutta una rete di corruzioni e protezioni che li salvaguardano.
Allora Suzuki, seppellita l’amata consorte, decide di trasformarsi in giustiziere solitario, lascia la sua vita precedente e si fa assumere addirittura presso la società paravento della Mafia, finanche con compiti e mansioni delinquenziali, pur di ottenere vendetta, deciso rendere personalmente pan per focaccia, privare della vita il figlio prediletto del boss Terahara.
“…mia moglie è stata ammazzata quasi per gioco dal figlio di Terahara, e io mi sono infiltrato per vendicare la sua morte…”
Suzuki né più né meno intende trasmutarsi da piccolo borghese del Sol Levante nel borghese piccolo piccolo, protagonista del bel romanzo di Vincenzo Cerami, di cui ne fece una magistrale trasposizione sullo schermo Alberto Sordi nel film omonimo.
“…Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vendicare la moglie…”
Il che non è una cosa facile: come Suzuki avrà modo di verificare personalmente, il mondo della malavita, la dimensione del Male, non è qualcosa di logico, è un pianeta pazzesco ed improbabile, alieno alle persone comuni, i normali cittadini per bene, ossequiosi non tanto della legge in sé ma del vivere civile a misura umana. Un mondo assurdo, a sé stante, dove è impossibile esista la vita comunemente intesa, irrazionale, insensato, Suzuki constaterà cioè direttamente manu propria la banalità del male, e la sua inconsistenza. Il sonno della ragione, dell’empatia umana, dell’onestà, della solidarietà e compassione genera mostri, ma più che altro partorisce figure folli, filosofie illogiche, degenerazioni aberranti.
Destinate in un modo o nell’altro a finire male esse per prima, proprio per la loro natura abnorme e fallace, impossibilitata a preservare la specie dei protagonisti, destinati a soccombere e sostituiti da nuove, analoghe, devianze, che ridondano lo stesso male, un serpente che morde sé stesso avvelenandosi di continuo.
Delinquere può essere redditizio a breve, ma è sempre distruttivo per chi lo fa.
Sempre è una scelta perdente, perciò mai conveniente, perché fuori norma, senza logica.
La società malavitosa e delinquenziale è sempre tossica e negativa, per quelli stessi che la usano; è una anomalia rispetto alla corretta, e comune, umanità, una perdita di tempo ed energie che se ben canalizzate garantirebbero invece una resa assai più conveniente in tema di civiltà dell’esistenza.
Il crimine non è arioso, è una realtà relegata in spazi ristretti anche fuori dai luoghi di pena, asfissiante, alienante e refrattaria ai contatti empatici costruttivi, tutti diffidano di tutti, a torto o a ragione, tutti finiscono per scontrarsi tra loro, tutti in un modo o nell’altro sono destinati ad una inevitabile brutta fine.
Lo dimostrano platealmente i protagonisti negativi della nostra storia, oltre ai mafiosi padre e figlio leggiamo per esempio del Cicala, un qualsiasi killer prezzolato che uccide su ordinazione, ma non solo le vittime designate, per soprammercato, e senza sovraprezzo, anche quanti gli sono intorno ad ogni buon conto:
“…e pensi di farla franca? Ammazzando tre persone solleverai un vespaio! I media ci sguazzeranno, la polizia farà indagini a tappeto!”;
oppure la Balena, altro killer non da meno, che si vanta di compiere omicidi perfetti inducendo le sue vittime a suicidarsi, così come lui stesso definisce le defenestrazioni delle sue vittime, o ancora lo Spingitore, abile a spingere le sue vittime sotto le ruote dei treni della metropolitana o delle auto ai semafori pedonali.
Suzuki avrà modo di avvicinarli e averne cognizione, di tutte queste figure grottesche, illogiche, impensabili, dapprima con stupore, poi con incredulità e sconcerto, gli verrà in soccorso nella sua missione la sua mente analitica di matematico, poi il ricordo dell’amata consorte, sempre indissolubilmente presente al suo fianco, legata dall’anello della fede che porta al dito.
Soprattutto la fede, intesa sia come l’anello sia come il credere nella forza e nel valore della propria umanità, è quanto lo scuote dall’intontimento, dal torpore, dall’inezia in cui il lutto subito lo aveva sprofondato e gli fa comprendere come la giustizia non deve, non può realizzarsi abbassandosi al livello dei colpevoli, ma innalzandosi dall’assurdità di quel vivere.
La giustizia è azione riparatrice insita nelle azioni commesse, quelle nefandezze prima o poi, più spesso prima malgrado quando si pensi, si ritorcono contro gli autori stessi dell’infamia; l’arroganza, la stupidità, la tracotanza, il vivere da malavitoso per l’essenza stessa di quell’esistenza sono propositi illusi e allucinati, con inevitabile crollo finale che fa catarsi della stupidità di quell’agire malevolo.
“…Noi non viviamo, sopravviviamo soltanto…”
Isaka Kotaro, ha una bella mano, nulla da dire; possiede un’ottima linea descrittiva, una bella penna, incisiva e scorrevole, racconta bene e chiaro, con precisione, delinea fatti, situazioni e personaggi con cura e attenzione per i particolari. La prima parte del romanzo decolla con qualche difficoltà, un alternarsi di capitoli di pari passo con l’alternarsi dei personaggi principali, ma sono difficoltà dovute al doversi familiarizzare con figure molto al di fuori dei canoni consueti. La parte centrale segna addirittura un momento di pausa sconcertante, direi un primo piano sequenza lungo e fuori norma, laconico e asciutto per poi riprendere di colpo con un ritmo avvincente, molto più agevole, celere, un crescendo con finale repentino. Nel complesso un libro particolare, che può apparire eccentrico o stravagante, in realtà è un lavoro fruttifero, concludente e conclusivo, descrive una realtà che appare diversa a quella di cui siamo abituati, ma a ben leggere, è lo stesso nostro quotidiano, usuale e prevalente; perciò, è un romanzo efficace ed efficiente, di tutti. Ad ogni latitudine.



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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    23 Luglio, 2022
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Pastorale portoghese

Quella di Fatima, in Portogallo, è tra le più note apparizioni mariane nel mondo, seconda solo alla celeberrima Lourdes in Francia.
Con alcune, eloquenti, differenze.
Lourdes vede un’unica protagonista assoluta, la santa Bernadette Soubirois, a cui sola apparve la Madonna, e alla quale non furono affidati particolari messaggi da secretare perché di peculiare gravità e delicatezza.
Inoltre, la giovane ebbe vita breve, anche perché dotata di una precaria costituzione fisica, da cui era affetta ben prima degli eventi di cui fu testimone.
A Fatima la Madonna appare, assai più tardi, ed in epoca relativamente recente, il 13 maggio 1917, non ad una sola giovinetta ma a ben tre bambini, tre pastorelli.
Quasi a significare un triplicarsi di testimoni oculari del mistero mariano, un moltiplicarsi dei diretti referenti ed un intrinseco diffondere l’evento a più voci.
La più grande di loro, pur avendo solo dieci anni, e del tutto analfabeta, divenne una delle più serie, ascoltate e studiate protagoniste di tali manifestazioni divine, probabilmente la testimone più attendibile disponibile nella storia di simili eventi soprannaturali.
Si chiamava Lucia dos Santos, e le apparizioni si sarebbero ripetute altre cinque volte, fino al 13 ottobre. Fatto ancora più singolare però, è che nell'incontro del 13 luglio la Madonna avrebbe rivelato un segreto (diviso in tre parti) che avrebbe dovuto essere rivelato solo al tempo stabilito, ad intervalli di tempo, costituenti appunto le tre profezie accertate. Cosa che in effetti avvenne; d’altra parte, come è umanamente risaputo, tener celato un segreto quando la sua stessa esistenza è nota da subito a più di una persona, è spesso difficilissimo, soprattutto data l’importanza e la portata del fenomeno.
Figuriamoci per due, per tre poi non si pone proprio il problema, è impossibile, come è noto i tre messaggi sono stati poi effettivamente rivelati, e resi pubblici a chiunque, suscitando discussioni di vario genere. Concernono fatti storici conclamati, l’ultimo fa espresso riferimento all’attentato in San Pietro a danno di Giovanni Paolo II, che scampato letteralmente per miracolo alla morte, volle incontrare suor Lucia e fece del proiettile che lo aveva risparmiato un ex voto di ideale importanza.
Per quanto detto, si comprende allora che Suor Lucia, riveste un interesse notevole per credenti o meno, a differenza di Bernadette, non è infatti una figura lontanissima nel passato, avvolta in una nebulosa che ricostruisce la sua storia tra incartamenti e documenti datati, moltissimi tra storici, fedeli, ecclesiastici, studiosi laici hanno della pastorella portoghese divenuta suora memoria diretta e recente; la religiosa morì infatti nel 2005, a quasi 98 anni, e pur essendo suora di clausura ebbe continui incontri e colloqui privati con alcuni vescovi e papi.
Questa la Storia, reale, per quanto la conosciamo: ed è un antefatto troppo gustoso su cui uno scrittore di particolare talento, da poco rivelatosi come tale pur provenendo da ben altro e brillante vissuto esistenziale, non può esimersi di romanzare a suo modo. Questa Storia con la maiuscola è per Glenn Cooper, che nei suoi romanzi di esordio si è consolidato come uno scrittore esperto di tematiche religiose, una sfida, un banco di prova, un invito particolare a scrivere di fatti storici reali e poco distanti nel tempo intercalando ai fatti la sua speciale inventiva.
Perciò lo scrittore americano ipotizza l’esistenza di un più che plausibile quarto segreto, o almeno una parte del terzo non ancora svelato, che in qualche modo la religiosa Suor Lucia è riuscita a celare a chiunque, perché la semplice ed umile religiosa, non priva però di acuta e sottile intelligenza di pastorella si, ma scaltra e resa saggia dal tempo e dalle esperienze ultraterrene, reputa senza dubbio troppo particolare, assai pericoloso, foriero di pericoli per l’esistenza della stessa Madre Chiesa intesa come entità, fede, dogma e istituzione…un quarto segreto sconosciuto a tutti, almeno finora.
“La quarta Profezia”, l’ultimo romanzo di Glenn Cooper, è tutto qui: in maniera bisogna ammetterlo magistrale, stuzzica la curiosità del lettore, lo avvince, lo convince, e lo induce a seguirlo senza esitazione in una storia di molte pagine, con mille intrecci e continue sorprese, colpi di scena, avventure e misteri che non annoiano, neanche per un attimo invitano ad interrompere la lettura perché inverosimile o noiosa, tutt’altro. Chi legge prosegue non diremmo con il fiato sospeso, perché rischierebbe di finire in apnea, ma certamente osserva da posizione privilegiata, con partecipazione, le traversie del protagonista principale Cal Donovan, parteggia apertamente per lui ed i suoi sodali, tutto il romanzo è l’eterna lotta del Bene contro il Male in cui il lettore sa subito per chi deve chiaramente schierarsi.
Se è vero come si dice che ogni scrittore riversa parte se non tutto di sé in quanto scrive, allora questo assioma è quanto mai vero per Glenn Cooper, tutti i suoi libri rispecchiano la versatilità, la varietà culturale e l’ingegno poliedrico dello scrittore americano
Nativo della Grande Mela, Cooper ha studiato dapprima con successo Archeologia, successivamente ancora più brillantemente Medicina. Si è affermato con inventiva nell’industria farmaceutica, e successivamente cimentandosi con successo e idee innovative ed all’avanguardia nel ramo delle biotecnologie.
Cooper è l’emblema dell’uomo del futuro, è uomo colto, profondo, preparato ed elegante, versatile nei suoi interessi storici e scientifici, è un geniaccio, un Elon Musk o un Steve Jobs prestato alla letteratura di evasione.
Cimentandosi con crescente successo nella narrativa, ha esordito dapprima nella sceneggiatura e poi nel romanzo storico seriale con un ciclo di volumi che vedono protagonista un professore di teologia di Harvard, Cal Donovan.
Cal Donovan non è Indiana Jones, nemmeno il Robert Langdon dei romanzi di Dan Brown, è assai di più, è un uomo del suo tempo, immagine speculare del suo creatore: colto, preparato, un uomo d’intelletto e però sportivo, aitante, pronto all’azione, mai banale o didascalico, di livello e di carisma tale da essere contattato direttamente dal Papa per i suoi servizi.
Il Papa della nostra storia è Celestino VI, una evoluzione futura dell’attuale Papa Francesco, e questo dà idea della abilità di Cooper di proporci storie del tutto plausibili e verosimili. Celestino VI è a suo modo un rivoluzionario, desidera una Chiesa costruttiva e concreta, fattiva di bene pratico per l’umanità, desidera mettere all’asta i capolavori unici che costituiscono il tesoro della Chiesa, come per esempio la pietà di Michelangelo, per creare un fondo da destinare ai poveri del mondo, come da missione del Cristo. Per farlo, serve sfidare le tradizioni e le frange più conservatrici della curia, e…arrivare per primi alla quarta profezia.
Glenn Cooper ci riesce e con lui il suo lettore, perché l’autore prende il lettore per mano, inizia a rilento per poi lanciarlo allegramente su e giù su un saliscendi di continue sorprese e rivelazioni, e si badi, quasi tutti i fatti narrati sono verità storiche documentate che in un certo senso arricchiscono chi legge, oltre che a dare verosimiglianza a tutta la storia.
Certo, è una buona lettura, e nulla più, un ottimo prodotto all’avanguardia come può esserlo una Tecla o un computer Apple, certamente non un capolavoro come la Pietà di Michelangelo. Potremmo dire a volergli cercare una pecca che forse è un po’ troppo una americanata, ma in senso buono, vale a dire che pur essendo un testo ben scritto e costruito, qua e là traspaiano luoghi comuni e stereotipi assai banali, che da un Glenn Cooper o dal suo alter ego Cal Donovan non ci aspetteremmo, ma capiamo che sono assai duri a sparire: inficia infatti talora in modo dozzinale e semplicistico il dire comune, ad esempio, che tutti a Roma vanno pazzi solo per l’amatriciana o la cacio e pepe, o che Scampia in provincia di Napoli è luogo natale di soli delinquenti.
Sono errori veniali, in verità, ma confidiamo che Glenn Cooper provvederà in futuro a fare ammenda, da esperto teologo Cal Donovan sa che la Chiesa contempla confessione, pentimento e perdono, e questo non è un segreto.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    18 Giugno, 2022
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LIBERA NOS A MALO

L’ultimo lavoro di Walter Veltroni narra esattamente quello che anticipa sin dal titolo, del valore insigne di una libera opzione, e sottintende la storia della difficile e faticosa riconquista della possibilità di adempiere le proprie scelte di vita in indipendenza, quando la libertà a questa sottesa viene meno.
La Storia ce lo insegna chiaro: la libertà negata chiede un prezzo alto per ripristinarsi.
Avviene con il confronto a muso duro, il vaglio e la disamina di fatti e ragioni con indipendenza di giudizio e senza manipolazioni di sorta, non di rado se non sempre attraverso lo scontro, che presuppone alterco, urto, collisione, distacco, una vera guerra materiale, non di opinioni.
Che può terminare con costrutto solo con la fine delle ostilità e la ripresa del dialogo intelligente tra tutti gli opposti di qualsiasi genere, tra belligeranti, tra padri e figli, tra uomini e donne sullo stesso piano e non più anteposti, tra idee e modi di essere diversi e concilianti, è la libera espressione di sé l’unica selezione possibile preposta alla crescita collettiva.
Walter Veltroni ambienta il suo ultimo romanzo nella Roma nel luglio del 1943, fa raccontare le cose direttamente ai protagonisti principali, i membri della famiglia De Dominicis, che fungono da testimoni oculari diretti e insieme da reporter del clima, dei pensieri collettivi e dei sentimenti di allora, poiché ognuno dei componenti della famiglia, il padre Ascenzio, la moglie Maria, i figli Arnaldo e Margherita sono personaggi a scelta obbligata, perché imposta, ciascuno a suo modo è l’emblema di generazioni diverse, praticano ognuno substrati sociali variegati, sperimentano e recepiscono nel loro quotidiano, la routine italiana dell’epoca, idee differenti, alcuni conservano granitiche certezze ma i più iniziano a dubitare, a dissentire, a disilludersi.
Ciascuno porta le sue ragioni, i motivi delle proprie scelte esistenziali, su cui gravano le proprie convinzioni politiche e morali, concordi o in disaccordo o talora solo in dubbio sulle idee correnti.
Non si tratta del racconto di come è nata la predilezione per una opzione anziché per un’altra, dopo una valutazione dei fatti frutto di attenta osservazione, riflessione, ponderazione di vantaggi e svantaggi, questa è invece trama di conquista dolorosa, di brusco risveglio da una trance soporifera indotta subdolamente, è epica di riscatto, di crescita, di maturazione, del riappropriarsi della propria umanità troppo a lungo vessata da un regime autoritario liberticida quanto folle e insensato.
Il fascismo in Italia questo è stato, la disciplina, il rigore e la sofferenza di un bieco collegio.
“…Tutti vestiti di nero, tutti incasellati, tutti costretti all’obbedienza a un signore chiamato pomposamente Duce, che nessuno aveva scelto, ma che era entrato nel cervello di molti e nel cuore di tanti, riducendo le persone a un esercito con la testa bassa, capace di dire solo un parola: si.”
Pertanto, impediti alla libera scelta.
Mussolini, e con lui il fascismo, è salvezza, manna, lavoro, orgoglio e benessere per il capofamiglia Ascenzio de Dominicis, usciere presso la nota Agenzia di stampa Stefani, l’unica voce ammessa dal regime, in servizio diretto nell’anticamera del Direttore Morgagni, vale a dire l’oracolo della verità di Stato. Ascenzio crede ciecamente in lui, è fascista convinto dalla prima ora, devoto al Duce e al direttore Morgagni forse in pari misura, è il campione dell’italiano medio di allora: magari non completamente in sintonia con leggi razziali e quant’altro partorito dai governanti, e però ligi, grati, compatti, convinti, sono gli italiani coerenti con il loro tempo, che non hanno scelto e nemmeno scelta. Non c’è italiano di allora che non possa dirsi fascista; magari malvolentieri o giocoforza, ma tranne fuoriusciti e ribelli nessuno osa contraddire le scelte del Duce aderendovi magari senza entusiasmo ma con obbedienza e compatta partecipazione.
Credere, obbedire, combattere: e tutto il resto, la guerra disastrosa, la vergogna delle leggi sulla razza, il nemico alle porte, la fame e la miseria, i disagi e l’insicurezza dilagante per un vero fascista non sono che inezie, menzogne della propaganda messe in atto dai disfattisti e dai nemici dell’Italia e del Duce. Ascenzo crede fermamente a quanto affermano il Duce e Morgagni per suo conto: il Duce è intoccabile da chiunque e saprà portare fuori l’Italia da una temporanea situazione di difficoltà, non c’è da temere, gli alleati non oseranno mai non solo bombardare Roma, ma nemmeno sfiorarla, perché è la sede del Papa e perché è il più grande museo all’aperto delle vestigia dell’umanità, sarebbe come creare offesa a Dio ed al resto del mondo civile che certo si inalberebbero davanti a tanto scellerato gesto. Non è dello stesso avviso suo figlio diciottenne Arnaldo, completamente in disaccordo con il padre, poiché intuisce chiaramente che di scellerato c’è solo il disgraziato regime.
Il giovane, e con lui i suoi coetanei di studi, sono ragazzi moderni che fanno quello che da sempre fanno i giovani quando non sono costretti altrimenti a forza.
Leggono anche quello che non dovrebbero leggere, si informano, si riuniscono clandestinamente, discutono, dubitano, non accettano spiegazioni precostituite, rifuggono da stereotipi, sono il nuovo che avanza, diffida, obietta, e così facendo rivitalizza tempi, usanze, persone.
“…Mi sarebbe piaciuto parlare un po' con i più anziani, farmi dare consigli, sentire la loro opinione, figlia di quella grande ricchezza che è il vissuto, l’esperienza dei giorni e delle situazioni.”
Pur sotto dittatura, la loro è una generazione che non intende portare il proprio cervello all’ammasso collettivo, rifiutano di farsi bendare e di accettare una versione dei fatti falsa, menzognera, costruita ad arte, ed è inevitabile pertanto lo scontro non solo generazionale, ma di scelta tra il vero o presunto tale ed il suggerito ad arte perché mistificato, il proposto e il verificato, l’ideologia e la realtà.
La madre Maria, pratica e prosaica, devota al marito, ai figli, alla famiglia, e per converso al Duce solo perché di quei valori si è appropriato, è preoccupata piuttosto per le difficoltà crescenti di rinvenire il pane, il cibo quotidiano, l’essenziale per vivere ogni giorno, teme i tempi futuri che istintivamente presagisce non essere lieti per i figlioli. Maria è volta al carpe diem, segue la rotta della vita così come le è stata imposta di moglie, angelo del focolare, madre e non mamma, sarebbe a dire mettere al mondo non figli da amare ma soldati per la guerra e donne per i soldati, indifferente alla politica, non arriva a capire che anche l’indifferenza è una scelta, anche il subire è una scelta imposta e quindi non più tale, ma gradualmente i fatti in arrivo le faranno cambiare idea.
La dolce Margherita che diviene ragazza proprio in questi giorni difficili dell’afoso luglio del ’43, è una ragazza sensibile, solare, dolce e innamorata della vita come solo le 14nni sanno esserlo, lei è un ago della bilancia, è l’emblema di saggezza e riflessione, equità e placidità di giudizio, legata tanto al padre quanto al fratello, e però aperta all’altro, alle amiche, alle vicine, è l’anima ferita di un’ Italia empatica, umana e solidale che anela ad altro nella vita che non siano i destini della patria o le incombenze imposte da sempre alle donne: pretende di pensare con la sua testa come una piccola grande donna che in effetti è, sceglie di essere e non di avere compito, e perciò è anche tremendamente sola, come chiunque fuori dalle consuetudini imposte e conformiste:
“…Io poi sono persino piccola. Una piccola donna. Un sinonimo del niente. Lo zero assoluto”.
Poi avviene l’impensabile. Mussolini l’intoccabile è destituito dal Gran Consiglio del Fascismo, e gli alleati bombardano Roma. San Lorenzo, il quartiere della famiglia De Dominicis è ridotto ai minimi termini dalle bombe che seminano morte e distruzione. Nell’aria risuonano urla di dolore e nenie dal sapore antico, che risalgono a colui che per primo senza esitare fece la sua scelta pagandone il prezzo:
“…Pater Noster qui es in caelis…libera nos a malo.”
Sono eventi questi che pongono in discussione le scelte precedenti, e impongono alternative a tutti e a chiunque: sono i fatti, la menzogna svelata, i semi concreti delle idee nuove di democrazia.
Perché sempre alla base della libertà, semplicemente, ci sono scelte.
Walter Veltroni è regista, scrittore, storico, politico, documentarista: ne “La scelta” ha optato di non scegliere o suggerire, la scelta la lascia tutta al lettore. Ha esternato il suo dire in tutti i modi che sa, con eclettismo. Ci ha offerto uno spaccato della nostra storia, direi di più, l’inizio della nostra storia repubblicana, secondo un punto di vista politico, di dichiarato schieramento di parte. Non solo, ma ha narrato una bella storia con l’incisività, la chiarezza e la capacità narrativa di uno scrittore provetto.
Un racconto che si snoda per immagini, dove si alternano riflessioni ed azioni, scene di estrema delicatezza ed altri di scontri bruschi, toni leggiadri ed altri burrascosi.
Veltroni ha dato già in passato ampia prova di sé come scrittore, con buona fortuna, magari qualche volta a mio parere è inciampato in qualcosa non proprio nelle sue corde, come le recenti incursioni dello scrittore nel genere giallo seriale con i volumi aventi a protagonista il commissario Giovanni Buonvino, che comunque mi dicono nettamente migliorato nelle ultime uscite.
Qui però fa uno step successivo: parla di un qualcosa che lo ha segnato, che in qualche modo ha plasmato la persona che è: perciò “La scelta” è un romanzo compiuto, squisitamente veltroniano, gradevole, sincero, affabile come la chiacchierata con un vecchio amico che sciorina i suoi ricordi. Una lettura che racchiude le sue esperienze di vita, perciò è contemporaneamente un romanzo, un film, un ricordo, un articolo di testa sull’organo del partito.
Veltroni ci parla della sua Roma, dei suoi concittadini, della sua vita, il suo è un racconto per immagini della memoria, è il resoconto di una situazione pesante imposta a forza e plumbea per un ventennio, il suo libro è essenzialmente, più che un monito, un invito fermo e preciso ai giovani dei nostri tempi: scegliete, optate per una scelta, purché sia libera. E siate coerenti con la vostra scelta.


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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    15 Giugno, 2022
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FIORE DI MAGGIO

Amore di mamma: si dice di un amore senza fine, oltre ogni limite, istintivo e viscerale.
Infinito e prezioso, eterno e insostituibile, tenero e burbero, dolce e solenne.
Quello che è dedicato solo ai figli, senza risparmio, ad ogni costo.
Pronta a tutto, ogni madre difende ad oltranza la prole, l’accarezza e la protegge, ama come nessun altro al mondo saprà amarti in vita tua: si intende qui l’Amore di Mamma con le maiuscole, quello che da sempre per chiunque, laici o devoti, si santifica nel mese di maggio.
Perché una madre in fondo questo è, un fiore di maggio: ed è un fiore che, come ti accarezza, sa farsi anche roccia all’occorrenza, è nato su uno scoglio e come tale fa da frangiflutti contro i burrascosi marosi dell’esistenza. Sempre e comunque, in ogni luogo.
Fiore di maggio è l’omonima canzone di Fabio Concato, citata nel testo, ed è quanto di più adatto per descrivere le vere protagoniste del libro, le madri, che letteralmente non dormono mai per i loro figli, non ne hanno tempo, modo e soprattutto serenità per farlo, specie in un contesto affliggente come quello qui narrato.
L’ultimo romanzo di Lorenzo Marone di questo parla, con la delicatezza, la prosa fluente e incisiva, la tenerezza e la sensibilità sua propria, di cui lo scrittore napoletano ha già dato prova tante altre volte.
Qui Marone si riconferma alla grande, racconta con rispetto e discrezione di mamme, di donne che esplicano a modo loro, ma pur sempre al meglio possibile, un ruolo genitoriale nelle condizioni esistenziali più difficili.
Perché vivono, e diventano madri, in un contesto di degrado e di miseria, di ignoranza e di abbandono, di violenza e delinquenza: e per di più, quasi come diretta conseguenza, l’humus di origine le destina alla reclusione forzata. Con figli al seguito.
“…senza i figli, quelle madri si riducevano all’osso. Senza i figli erano solo detenute.”
La realtà, fragile e toccante, su cui Marone in questo libro ha focalizzato la sua attenzione facendone un garbato ambito narrativo, è l’ICAM, l’istituto di custodia attenuata per detenute madri.
All’apparenza è una struttura di avanzata civiltà, un luogo di reclusione strutturato in guisa di miniappartamenti individuali senza sbarre o porte blindate, con spazi comuni di convivialità ed interazione sociale, con tanto di supporto medico e psicologico.
All’apparenza: né più né meno è un carcere, che, come tutte le carceri finisce per racchiudere in una bolla tutti quelli al suo interno, liberi e reclusi, guardie e prigionieri, senza distinzioni di sorta. Un’umanità ristretta, quasi mai per scelta ma per necessità, siano essi vigilati che vigilanti, tutti insieme ma non appassionatamente forzati nella realtà aberrante di un carcere: davvero non il massimo dell’esistenza, quindi.
Figuriamoci quanto questo può valere per mamme che scontano, più o meno giustamente, è da vedersi, reati talmente gravi da richiedere la privazione della libertà personale; e quale effetto produce sui loro bambini in tenera età, ovviamente innocenti e però costretti ad analoga restrizione di spazi e respiri. Sarebbe come a dire, il tutto è peggio che andare di notte.
Qui le responsabili di reati di vario genere, che sono anche madri di figli in tenera età, possono scontare la loro pena insieme ai loro piccoli da accudire, certamente sempre privati della libertà personale e comunque sotto custodia di agenti di vigilanza, tuttavia assicurandosi per i bimbi un minimo di salvaguardia del delicato equilibrio psicofisico di libera crescita, riducendo l’impatto nefasto di un qualsiasi regime carcerario con una parvenza di comune quotidiano familiare.
“…la forza qui dentro non va usata, ci sono i minori.”
I bambini assorbono tutto come spugne, la realtà carceraria normale si ripercuote negativamente sul loro crescere, allora interviene questo nuovo modo di gestire la pena delle madri, l’ICAM è un estremo tentativo della società di ricreare in qualche modo un habitat “normale”, che attenui i traumi infantili evitando disagi e disadattamento futuri.
I figli crescono naturalmente in un contesto matriarcale, poiché i loro padri sono necessariamente esterni a tale dedicato luogo di reclusione, anche perchè più spesso sono essi stessi dediti ad atti delittuosi e pertanto rinchiusi in carceri comuni.
I bambini crescono quindi con le loro mamme, come loro rinchiusi in una prigione a cielo aperto, ne escono per un minimo di necessaria interazione sociale con i coetanei “liberi”, con il supporto di volontari esterni al carcere, e naturalmente per andare come di consueto a scuola con un usuale scuolabus, che li preleva e li conduce agli istituti delle scuole primarie, e da cui dopo l’orario scolastico li riporta a “casa”, perché tale per loro è il carcere, spesso la sola casa che hanno conosciuto. E altrettanto spesso, è una casa anche migliore, pulita e dotata di servizi, cure mediche, dieta sana, non di rado se non sempre i piccoli provengono da territori abitativi arrangiati e fatiscenti, insalubri e deleteri per la loro crescita fisica e morale.
Sono bambini destinati ad arrangiarsi da soli, a crescere in strada, ad imparare presto le leggi della violenza e della prevaricazione, vittime di brutalità o indifferenza, bullismo e prepotenze, arruolati giovanissimi nelle file della criminalità.
Per questo le loro madri li tengono tenacemente con loro, non vogliono che debbano ripercorrere il loro stesso viatico esistenziale improntato all’illegalità, vogliono continuare ad accudirsene per distoglierli da un destino infame, lo stesso che ha ghermito le loro esistenze, temono il trascorrere degli anni perché arrivati all’età di dieci anni, purtroppo i bambini non possono più soggiornare con loro.
“…Hai paura che tua figlia cresca in carcere? Il miglior futuro possibile per tua figlia, tra quelli che le sono rimasti, è con te.”
Lo Stato, malgrado sforzi e buone intenzioni, mostra tutti i suoi limiti.
L’Icam è predisposto per una accoglienza limitata ai tempi della prima infanzia, quando più è richiesta la figura materna come indispensabile supporto di sana crescita affettiva, terminata la quale, all’inizio della pubertà e adolescenza, che pure sono periodi delicatissimi, sciaguratamente la struttura non può far fronte ulteriormente alla congiunta accoglienza madre figli, e se le madri hanno ancora residui di pena da scontare, i piccoli saranno affidati a parenti o ad altri che possano prendersene carico, come le case famiglie, con tutte le conseguenze del caso.
Più spesso deleterie per loro stessi e di converso per la società, ancora una volta fallimentare nel prendersi cura degli ultimi.
Tutto quanto è il romanzo di Lorenzo Marone: ma non è solo una bella storia, che pure richiama un contesto e dinamiche socio esistenziali realmente esistenti, è un bel sentire soprattutto per il modo come il racconto si snoda, per come procede la narrazione, per la cura di confezione e contenuto.
Un racconto delicato di madri, di crescita, di vite, di sonno che non arriva e sogni che non mancano, seppure di difficile realizzazione. Ma i desideri vanno prima sognati, e questi nessuno può limitarli.
Tutta la trama è un insieme di punti di vista diversi e differenti, congiunti e discordanti, connessi e inconciliabili in tutti i sensi.
Questo libro non è un contenitore di parole, ma un registro di voci.
Lorenzo Marone ci fa ascoltare le versioni di Miriam e suo figlio Diego, delle guardie Miki e Leo Gramigna, della nigeriana Amina che di figli con sé ne ha due, Gambo e Adamu, della volontaria Vittoria, di Anna messa male in salute che pure è responsabile della piccola Jennifer che ha con sé, e fuori di un figlio di venti anni abbandonato a sé stesso, con il marito in un penitenziario.
Ascoltiamo la voce del direttore Giacomo Parisi e della psicologa Greta, persone encomiabili per sforzi ed impegno, per quanto insufficienti, e leggiamo quanto scritto sul quaderno delle parole belle, libere, solari, vergate dalla dolcissima Melina.
I personaggi sono precisi, lineari, iscritti con tenacia sulla carta e però incredibilmente fragili, mirabilmente umani, Marone ha una sensibilità straordinaria, non scrive del buono o della bontà, fa invece trasparire spontaneamente dalle sue figure la mitezza e la dolcezza, la mansuetudine e la clemenza, insita in tutti quanti si avvicendano nei capitoli, su uno sfondo di precarietà, insicurezze, problematicità che insistono generando un sopravvivere illegale di obbligato teppismo e malvivenza.
“…Gentilezza viene prima della fiducia.”
I protagonisti parlano di sé e del loro vissuto, di cosa vedono e di come vivono, il romanzo descrive mamma e figli, di come vedono e cosa pensano delle vite delle altre madri e degli altri figli, include nel racconto chi i figli non li ha, o non li ha avuti, o che li vuole e li desidera.
Il finale, tragico, struggente, ardente e doloroso insieme, non è più una voce registrata, ma visto che si parla di un libro, è uno scritto, una lettera, che gronda parole d’amore, che insegnano, fanno riflettere, pensieri che sono i sogni delle madri che non dormono mai:
“…ho capito pure un’altra cosa, che la gente non se ne fotte niente perché non conosce, perché quando incontri una persona e le vuoi bene allora te ne importa…io ti ho incontrato, e ti ho conosciuto, e ora ci tengo assai a te. E quindi penso che bisogna muoversi e incontrare a tutti quanti nella vita perché se no non vuoi bene a nisciuno, ma allora che campi a fare?”
Questa lettera è incredibile, spiega la vita con semplicità, il finale è emblematico di cosa accade a togliere un figlio ad un fiore di maggio: diveniamo tutti, uomini e donne, rocce.
Non scogli del mare, ma pietre aride sotto un sole spietato.



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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    10 Febbraio, 2022
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IL MARE FUORI

Stavolta la sua città, Napoli, qui non c’è.
Quella che è il personaggio principale, se non la protagonista assoluta di tutti i suoi libri, l’origine che vivifica e caratterizza tutto il suo narrare, qui non è manco citata.
Non c’è la città di cui ha scritto datandola appena prima dell’ultimo conflitto mondiale, con spettri appena sfumati situati negli angoli, percepiti in chiaro da chi ci riesce suo malgrado, e che illusioni o fantasmi non sono, ma semplici anime vaganti nei tempi plumbei del Ventennio.
Nemmeno c’è la metropoli contemporanea di cui ci ha raccontato sempre, e che a lui si confida, solare, caotica e chiassosa, viva e palpitante di umori, dalle mille contraddizioni ed ossimori viventi, dove coesistono gomito a gomito procaci signorine, distinte ed anonime signore avanti con gli anni con i capelli grigi, ed emeriti bastardi di nome e di fatto.
Napoli non appare neanche di straforo nell’“Equazione del cuore”, l’ultimo romanzo di Maurizio De Giovanni. È giusto così: questa è e resta comunque una sua storia, un buon romanzo come lo sono stati tutti i suoi precedenti, personalmente lo trovo scritto ancora meglio, una penna più matura, forgiatasi sulle pagine precedenti; è sempre smaccato ed evidente lo stile suo proprio, semplice, gradevole, lineare, il discorsivo uguale a come comunemente ci si esprime nella vita reale; eppure, il suo linguaggio appare forbito ed elegante allo stesso tempo, un corsivo che si va perfezionando e tipizzando sempre di più, semplice e profondo, un intarsio di pregio.
Questa, perciò, non è una narrativa diversa, è la sua, un elaborato che lo rispecchia come autore e come persona, ripropone i suoi temi, il suo sentire, il suo animo, la poesia che cela nel cuore, è una storia compiuta come lo sono sempre tutte le sue storie, anche quelle seriali.
Un racconto redatto come un registro, la prima nota narrante l’esistenza di un uomo esperto di numeri ma ignavo, non ignaro, di note, talmente assorto, involuto sullo scorrere aritmetico dei suoi giorni, da farsi sfuggire inopinatamente che ambedue, scienza e musica, creano armonie, tra loro in sintonia.
I numeri scorrono in sequenza come in sequenza si susseguono le note sullo spartito: ambedue presentano ritmo e cadenza, suonano, scandiscono, descrivono, significano, emozionano.
Imprescindibili.
Questa, perciò, è la redazione di una vita, e di più vite: perché nessuno sta solo sul cuor della terra, sebbene trafitto dai caldi raggi del sole delle terre del sud, si resta sempre connessi, lo si voglia o meno, con altre vite, quelle che sono il frutto delle proprie scelte responsabili, è il legame di sangue che non si spezza mai, nemmeno a distanza, neppure giacenti su altri lidi avari di sole, terre fredde, umide e nebbiose. Legami che chiamano al soccorso, quando è tempesta, e non ci si può sottrarre.
Devi porti al timone, ritrovare la rotta e le secche, tenere il diario di bordo, il romanzo sciorina lettere su righe anziché numeri in quadretti, sembra un’equazione ma si legge come la più insigne delle relazioni, quella tra i nostri affetti, i nostri amori, ogni uomo ha cuore interconnesso ad altri cuori, malgrado provi a negarlo ed a privarsene, sono e siamo grandezze dipendenti le une dalle altre, per chiunque vivente sorge spontanea per natura un’equazione di vario grado, che può essere soddisfatta solo attribuendo precisi valori alle incognite che in esse compaiono; allora, e solo allora, si arriva alla relazione perfetta, la quadratura del cerchio.
Di tutto questo ci racconta qui Maurizio De Giovanni: ci parla di persone, di affetti, di famiglia, e stavolta la sua città, Napoli, qui non c’è.
Perché qui c’è molto di più : se può servire a consolare gli habitué sconsolati che richiedono il consueto menù, certamente qui c’è anche un mistero, e un poliziotto che nutre dubbi su come siano andate effettivamente le cose, un questurino “capatosta”, testardo se non cocciuto, come sa esserlo un meridionale, ed infatti è
“…nato a San Giorgio a Cremano, il paese natale di Massimo Troisi, pace all’anima sua.”
Ma sono coincidenze, semmai. Qui c’è molto di più: c’è il mare, sapete. C’è il mare fuori.
Il mare quello vero, quello che non bagna Napoli, come scriveva Annamaria Ortense, e bagna invece tanti luoghi, tutti i luoghi dove si aggira umanità, anche quelli distanti dal mare trecento chilometri, e che magari vantano però un grande fiume, il più grande che ci sia.
Ogni acqua corre al mare.
I fiumi, grandi o piccoli che siano, sempre nel mare sfociano.
Come noi: siamo tutti connessi e naviganti nell’oceano dell’esistenza.
Poi c’è un’isola, all’inizio della storia, quasi appena accennata, di sfuggita: anche qui manco a farla apposta, è l’attuale capitale della Cultura, sembra citata ad arte a significare che nessun uomo è un’isola. Quest’ultima come è noto è quanto scriveva John Donne, ripresa anche da Hemingway. Tutto il romanzo indica quindi una sola cosa: nessuno si salva da solo.
Il protagonista del romanzo è un ex professore di matematica a riposo; dopo la scomparsa della moglie, ed il felice e fortunato matrimonio dell’unica figlia, con relativo trasferimento della giovane in una prospera cittadina della provincia settentrionale, trascorre solitario la propria esistenza ritirandosi in volontaria reclusione su una piccola isola. Anche se la moglie lo aveva pur messo in guardia, quando era ancora in vita:
“…una figlia, a differenza della didattica, non si chiude con un diploma e arrivederci.”
Il professore non insegna più, si divide tra le sue passioni, la pesca in mare cui si applica con certosina diligenza ed aritmetica disciplina, e la matematica, naturalmente, che per il docente assume non tanto la consistenza di un metodo scientifico da apprendere, applicare al quotidiano e divulgare, ma una filosofia di vita che lo induce a tradurre ogni momento della vita in numeri, forme, figure geometriche che incanalano in modo logico e rigoroso tutti i fatti e gli eventi dell’ esistenza, la sua e quella degli altri. Anche perché considera finita la sua esistenza. Si sbaglia, e vedrà da solo come si sbaglia:
“…si può pensare solo una volta che la vita è finita. Una volta. Non due.”
Il professore è una brava persona, di indole buona e modi bruschi, solo che, in qualche modo, basta ora a sé stesso, e si incarta a crederlo: dopotutto, ha svolto linearmente e con rigoroso scrupolo tutti i suoi compiti, i suoi doveri istituzionali di marito, padre, professionista, docente, e seppure con minore assiduità, ha sbrigato con efficacia anche il suo ruolo di nonno nei confronti del suo unico nipotino. Senza nemmeno sforzarsi e rendersi conto che agli occhi del bambino egli è divenuto un emblema, un esempio se non un mito, un supereroe al centro dell’affettività del piccolo, un gigante, se non un Nettuno, dell’arte della pesca, che incanta e intriga il ragazzino, malgrado il burbero nonno neanche se ne dia per inteso. Agevolato in questo dal fatto che l’unica figliola, infatti, è convolata a nozze con il discendente ed erede unico e diretto di una impresa di grande spessore economico, un colosso nazionale e non solo presumibilmente del comparto agro alimentare, con sede in una piccola ma prospera cittadina della pianura padana:
“…una città di vecchi. Di vecchi e di ricchi…una ricchezza che fa male.”
La figlia Cristina è ora una donna ricca, certo, come il figlioletto, ma ambedue immensamente soli.
Il genero è uomo buono, marito innamorato, padre affettuoso; tuttavia, riveste responsabilità che sono temporalmente intense e possessive, vanno a discapito delle visite nel buon ritiro isolano al padre/nonno, ma senza che nemmeno costui ne abbia a male oppure provi a incrementare le sue visite al nord; i rapporti sono quindi sporadici e brevi, due sistemi che si sono compenetrati e poi distanziati, ognuno a sé stante.
Niente di più sbagliato, lo dimostra paradossalmente proprio un’equazione matematica, il teorema di Dirac: “…uno studente, un certo Paul Dirac, nome francese ma ragazzo inglese…”.
La matematica per il professore è il colmo della gioia, gli fornisce giustezza di sé, lo completa e lo definisce, costituisce motivo valido e ragione al trascorrere in solitudine i propri giorni, letteralmente lo relega in un’isola, esattamente come fosse al confino. Ma c’è il mare fuori, lo ha sotto gli occhi, e non lo vede. Ne calcola il moto ondoso, ma non lo sente. Pesca, ma è azione meccanica senz’anima.
L’esistenza è come il mare, prima o poi chiama: il mare esiste per navigarci, per pescare, per interagire con gli altri viventi, finanche per affrontarne le tempeste, ricercare porti e approdi sicuri, certamente non per fare da contorno ad un’isola. Dall’isola serve staccarsi, erigendo ponti, barche, passarelle.
Il Professore non è solo tale, è anche un Pescatore, nemmeno si accorge che sono figure in palese contraddizione: il matematico calcola ampiezza e profondità, il Pescatore il mare lo rispetta, e con esso le sue creature. Apparteniamo tutti al mare, da quello veniamo, a lui ritorniamo.
Non lo vede il professore che il suo stesso nome è un ossimoro, un uomo triste e razionale che ha nome Massimo de Gaudio. Massimo commette un errore madornale: confonde la matematica, e per lei la Fisica, per la conoscenza della Natura, uomo compreso.
In realtà, la Fisica è lo studio dei fenomeni della Natura.
Il modo come la Natura agisce, e la matematica traduce quelle azioni.
Fisica e Matematica sono quindi strumenti dell’arte, discipline che si fanno per simbiosi esse stesse Arte: e l’Arte implica emozioni, quindi sentimento.
Il cuore non è adatto a calcolare, ma a sentire, non è il computer, è un programma di vita.
Perciò, quando Massimo è costretto a precipitarsi al nord in seguito ad una disgrazia familiare, si vede costretto a riconsiderare a forza la propria esperienza di vita, le proprie convinzioni, riscoprire tutto il mondo affettivo a lui ignoto celato nel cuore della propria figlia prediletta, e in quello del bambino.
Nel finale sospeso, incalzante e struggente, al capezzale dell’adorato nipotino in coma, a cui occhi è sempre e solo apparso come “Il Pescatore”, Massimo prova a dare filo alla lenza, a trarre in salvo il suo personale Pesciolino. Smarrito e lontano dalla sua isola, vagante in un nebbioso paesaggio padano, a nulla gli può servire calcolare la temperatura, l’umidità, la pressione barometrica, si ritrova protagonista di un dramma lirico, accusa lo stesso straziante dolore di Rigoletto al cospetto della figlia Gilda, e però...però, a differenza dell’opera verdiana, c’è un pesciolino di cui può ancora prendersi cura, un “caro nome che il mio cor festi primo palpitar…” che funge da catarsi e salvezza.
Petrini Francesco di anni nove è la variabile con esponente alla massima potenza, e Massimo è il comune denominatore dell’equazione principe, quella dell’amore, un sunto che va oltre ogni calcolo logico. Petrini Francesco di anni nove è il numero, è l’algoritmo, è la ragione per cui Massimo vive.
Serve un assioma, un dato mancante senza la quale l’espressione non è risolvibile, non il pi greco, ma la costante dell’equazione del cuore: la Speranza.
La sola che permetta la sua risoluzione.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    04 Febbraio, 2022
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Apocalypse now

Ken Follett è unanimemente considerato un gigante del genere che si definisce romanzo a sfondo storico: è forse il più autorevole artefice, se non il valente progenitore di questo modo particolare di presentare il proprio estro narrativo, fatto deliziosamente fluire in una cornice di eventi storici effettivamente avvenuti, accompagnati dai rispettivi grandi interpreti, quindi citando e facendo interagire con quelli partoriti dalla sua fantasia anche fatti e personaggi noti a tutti perché reali.
Lo scrittore è prima di ogni altra cosa un attento ed acuto osservatore della realtà, degli attori e delle atmosfere del contesto storico che descrive; a questa dote, aggiunge la magistrale capacità di dar vita a storie e personaggi suoi propri, che risultano tanto più intriganti proprio perché incarnano alla perfezione umori e persone tipiche, e non gli stereotipi, di quel frangente temporale narrato.
Le sue storie perciò sono belle, piacevoli, prestigiose, i personaggi non sono verosimilmente perfettamente immersi nelle atmosfere evocate e con quelle partecipi, ne sono piuttosto gli effettivi e reali protagonisti. Ken Follett è un bravo scrittore, inventa bene e riporta meglio, il valore aggiunto che lo instrada all’eccellenza è una accurata preparazione preliminare, una minuziosa raccolta di informazioni puntuali, basata sullo studio di testi e documenti relativi ai tempi descritti, effettuati con il rigore dello storico più che del letterato, anche a questo è dovuto il puntuale, unanime e lusinghiero successo di pubblico e di critica che riscuote in tutto il mondo.
L’autore gallese è perciò considerato, a ragione, come detto, un artefice felice del romanzo storico, tuttavia dobbiamo chiarirci bene in merito, a costo di ripeterci. Follett non fa in verità romanzo della Storia, non ripropone didatticamente la filogenesi umana in forma romanzata: egli è uno scrittore con la maiuscola, non uno storico o un accademico della Storia, come qualsiasi autore di qualità racconta buone storie tutte sue, scritte ancora meglio, situandole però doviziosamente su uno sfondo di tempi, fatti e situazioni salienti realmente accadute nel corso degli eventi umani. In questo modo ottiene un duplice effetto, da un lato cresce enormemente la verosimiglianza di quanto racconta, il suo narrato incanta perché il lettore sa e riconosce i fatti storici evocati, almeno a grandi linee, si sente inconsciamente rilassato e confortato nella lettura, perfettamente a suo agio come chiunque che si muova su terreno conosciuto, perché sa le cose come andranno ad evolversi nel corso della Storia, quali sono gli effettivi Protagonisti e come svilupperanno nel tempo le loro azioni.
Parallelamente viene comunque avvinto dalla narrazione dell’ex-novo, segue con attenzione, il racconto non riproduce fatti già noti, sono storie nuove ciascuna a sé stante.
Come a dire, il contenitore è quello, il contenuto di maggior peso anche, poi sussistono ingredienti minori che ben si amalgano nell’insieme, sono queste spezie uniche, gustose e particolari che conferiscono sapore nuovo, lievemente diverso.
Nell’arazzo generale delle vicende umane sono i fili con una propria trama, colore e consistenza, che sorprendono, entusiasmano, emozionano, è il Racconto dell’autore, i personaggi da lui creati, che nel suo romanzo così risaltano rispetto alla Storia con la maiuscola.
Si attua un insolito contrasto tra due concetti differenziabili solo dal maiuscolo che distingue il certo dal fantasioso, la storia nella Storia, i protagonisti affianco ai Protagonisti, questo dualismo avvince, attrae, incanta, da sempre il piccolo ed il grande ciascuno a suo modo ipnotizzano, e si rivelano magari molto più simili di quanto si pensi.
Per questo, ad esempio, la lettura di queste pagine ci riporta fedelmente come realmente si svolga il quotidiano del Presidente degli Stati Uniti in carica, forse la figura più potente della Terra.
Come sia arduo gestire le reali problematiche mondiali, affrontare efficacemente il terrorismo, mediare i conflitti tra potenze, mantenere gli equilibri, rassicurare e fungere da esempio propulsivo per lo sviluppo economico e sociale del proprio Paese, guardandosi da nemici esterni ed interni.
Subentra poi sottilmente lo scrittore ed il suo estro narrativo di fantasia, con la descrizione, in punta di piedi, quasi con delicatezza, della stessa persona, del Presidente del più grande Paese del mondo progredito, alle prese con il proprio privato come un qualsiasi comune mortale, inerme ed impreparato ad affrontare come un normale genitore le difficoltà di delicata gestione di una figlia adolescente, o l’improvvisa anaffettività del proprio partner e relativo abbandono.
Realtà e romanzo si fondono, ognuno fluisce nell’altro, Follett altro non fa che rimarcare che la Storia è il confluire di tante piccole storie, sempre le stesse, eppure ognuna diversa, come diverse sono le persone che le costruiscono.
Questa è allora una Storia che parla di violenza, di amore, di immigrazione clandestina, di disagi e tragedie economiche dei paesi meno progrediti, di disastri climatici ed ambientali, di becero terrorismo integralista, di dittatori fuori di testa, e di giochi di potere ai vertici delle superpotenze tra la vecchia guardia reazionaria e militarista e le nuove generazioni progressiste ed illuminate, e perciò mal viste e osteggiate dalle prime. Ed insieme è un Romanzo che avvince presentandoci la storia d’amore e d’avventura di Tab e Tamara, due agenti segreti che ciascuno al servizio del proprio Paese agiscono in Sahara unendo affetto e missione, sentimenti e professione; si racconta qui di Kiah, bella, giovane e già vedova con un bimbo a carico, e del misterioso Abdul, agente operativo sotto copertura, compagni nel viaggio rischioso, insidioso, disperato, lungo le tratta dei migranti clandestini verso l’Europa; ci è offerta la visione d’insieme di una potenza economica mondiale protagonista ma ancora poco nota attraverso la visione di Chank Kai, un giovane viceministro del governo cinese, un uomo al passo dei suoi tempi, felicemente coniugato con una affermata attrice di soap opera di grande successo, alle prese però con un potere restio a modernità e cambiamenti.
Questo romanzo conta però una novità, Follett non lo ambienta in epoche precedenti, o addirittura in secoli passati, come già felicemente nei suoi romanzi ambientati nel Medioevo o nei decenni compresi tra gli ultimi conflitti mondiali: questa è una storia contemporanea.
L’azione si svolge esattamente ai giorni nostri, presenta realtà che abbiamo sotto gli occhi, che possiamo seguire quotidianamente. Perché il titolo, come l’intero romanzo, ha una funzione meritoria: è un monito:
“…Non deve accadere. Per niente al mondo.”
“Per niente al mondo” è il titolo in italiano. In inglese, letteralmente, suona meglio: mai.
Troppo spesso tendiamo a dimenticare che certo, il nostro Pianeta sta vivendo tempi difficili, i cambiamenti climatici e le relative disastrose conseguenze sono lì a ricordarcelo, ma il pericolo maggiore non viene dalla Natura, ma dall’Uomo.
Una escalation di conflitti armati fino a ricorrere agli arsenali nucleari non è una eventualità assai remota, è invece possibile, facile a verificarsi, vicina: non è una opzione, è un declino inevitabile ed inarrestabile, una volta iniziato.
Serve solo un innesco.
Possono funzionare da innesco le migrazioni forzate, i cambiamenti climatici, i conflitti tra falchi e colombe nelle superpotenze nucleari…Serve altro?
Follett non racconta nulla di nuovo, narra storie nella Storia: e il suo romanzo evolve come deve evolvere, come evolve la Storia.
A meno che gli uomini di buona volontà si ricordino di essere loro gli unici fautori delle proprie scelte, e scelgano di vivere in pace evitando un olocausto nucleare.
“…se dovessi morire e la mia anima essere perduta, sarà solo colpa mia. Ognuno era responsabile in prima persona.”
La Storia non è un Romanzo, la realtà supera la fantasia: niente war games alla Tom Clancy con lieto fine incluso, si può scegliere liberamente cosa fare. Ambedue le cose: la prima è il male minore, la seconda…mai. Sarebbe l’ultima azione sulla Terra.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    30 Dicembre, 2021
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IL MARE IN AUTUNNO

Ci sono autori che prediligono certe città, e non altre, dove ambientare le loro storie.
Si tratta della loro città di elezione, non necessariamente quella natale, comunque è quell’abitato, e la collettività annessa che, per motivi vari, toni, colori e atmosfere proprie, li intriga maggiormente, ne sono naturalmente attratti, se ne sentono profondamente pervasi.
Si compie una malia, la città a loro racconta e a loro si racconta, gli autori ne riportano la voce nelle loro storie, al punto che ne fanno spesso non la sola location, ma la protagonista effettiva del romanzo, stabilmente presente sullo sfondo del narrato, e con quello partecipe e scambievole.
Insieme naturalmente con i suoi abitanti, che vengono alla nostra osservazione esattamente così come sono, e cioè plasmati dalla loro città e dalla vita in lei, che ne influenza con incisività crescita ed evoluzione personale.
Accade così con Napoli nei romanzi di Maurizio De Giovanni, con Aosta in apparenza ma con Roma nella sostanza nelle storie di Antonio Manzini, con Bologna nei noir di Carlo Lucarelli, comprende l’intera regione siciliana nei libri del maestro Andrea Camilleri.
Milano è la vera protagonista assoluta di questo bel libro “Vieni come sei” di Claudia Maria Bertola, una storia che definire un giallo è estremamente semplicistico e riduttivo.
Già solo il titolo è indicativo, sottolinea ben altro: la scrittrice è una signora di alta classe che qui discorre di una città a lei analoga per caratteristiche.
Milano è città, e regione, di un livello eccelso, e come tale accoglie tutti, il ricco ed il povero, il grande imprenditore affermato, quello rampante in divenire, l’anonimo delivery che macina chilometri e tutto osserva senza parere, il clochard fuori di testa, il poeta ed il contadino, ognuno vi nasce e vi giunge così come è, viene come è, nella sua peculiare essenza, e poi la città li assorbe, li cura, li trasforma, li plasma, li restituisce a sé con altri aspetti, altre sembianze, mantenendone però i tratti peculiari, secondo un’alchimia ed un intendimento noti a lei sola.
La metropoli meneghina è riportata qui con notevole efficacia ed intensità, esattamente, non come appare ma come in effetti è, ritratta ai giorni nostri, soprattutto in un periodo suggestivo come sa essere l’immediata antivigilia del Natale, che ne rende ancora più evidenti le mille contraddizioni, gli estremi, le distonie, gli eccessi nel bene e nel male.
Tutti elementi alla base, tutti insieme, e proprio per questo, del suo fascino: l’avvenenza, la grazia, l’attrazione che esercita la città su chiunque la percorri, decorrono fianco a fianco con un certo fastidio, un disagio, una forma di repulsione a stento celata per luoghi degradati, reietti disperati, azioni e reazioni sciagurate o provvidenziali, per cui tutto il complesso di incongruenze contribuisce a creare un mix di occasioni e situazioni, risorse e alternative, prospettive ed impossibilità.
Milano è bellissima perché offre tutto ed il contrario di tutto, e di questo la Bertola fa romanzo, direi di più, ne fa un ottimo romanzo, una bella trama riportata anche meglio, non una favola a lieto fine ma un racconto moderno con un esito soddisfacente.
Un romanzo di buona lettura, scorrevole, affatto una prosa fatua o melliflua bensì incantevole, avvincente, lineare, con personaggi delineati con minuzia dentro e fuori, interessanti, discorsivi naturalmente e presenti a sé stessi ed al lettore in tutta la loro naturalezza, incisivi e delineati in un’ottica di avvenimenti logica, inoppugnabile.
Tutta al femminile, donne sono infatti i principali personaggi di maggior spessore della storia.
Una narrazione redatta con rigore scientifico e letterale introspezione ipnotica, perciò resoconto pragmatico ma incantatore, un romanzo che è una droga, può risultare rasserenante e tranquillizzante quanto euforizzante e terribilmente dissennante.
Qui troviamo il nero e il bianco, incontriamo ad esempio insieme due vite agli opposti, parallele e divergenti, perciò assurdamente intrecciate tra loro, come Flavia Bianca Maria Bernardini Agnusdei, il cui nome è proporzionale alla sua dichiarazione dei redditi, e Ibrahim Taia, un rifiuto umano straniero in terra straniera, che dorme all’addiaccio in un angolo di un parco pubblico, rifugiandosi tra cartoni e misere coperte. Incredibilmente astemio, riscalda le sue membra anchilosate dal gelo, ed il cuore, il suo e quello dei lettori, coltivando l’amore per la poesia e la filosofia, perché per strada ci è finito trattandosi di un’anima bella, perciò inquieta…anima inquieta come quella descritta dal poeta Tagore.
“…Lo guardate e vedete un extracomunitario accattone, nessuno nota l’uomo, tantomeno innocente.”
La vita on the road e la poesia di Tagore, lo sfarzo e la miseria più desolata, l’abbandono e la prosperità, l’agiatezza e l’indigenza, tutto quanto ci offre Milano a chi sa vederla, soprattutto alle donne, ed insieme sa amarla, perché l’Amore è sentimento completo, si ama il tutto, non il parziale, come ben sanno soprattutto le donne.
Tutto è un banco di prova su cui ciascuno può misurare la propria umanità, la propria empatia nei confronti dell’altro, il proprio sentire, la misura della propria solidarietà e partecipazione nel consorzio umano, con risultati sorprendenti.
Claudia Maria Bertola è, prima di ogni altra cosa, a mio modesto parere, una donna innamorata di Milano, da qui discende che è un’acuta osservatrice della città e dei suoi abitanti: non ne fa cronaca, li riporta come sono, come vivono, come interagiscono luoghi e persone.
Scrive fatti non verosimili, ma reali, quelli che accadono comunemente: la città è grande e variegata, così sono i suoi abitanti, la scrittrice li osserva, li cura, li ascolta, li osserva senza farsi notare, poi la storia nasce da sé. Tutti quanti scorrono, ciascuno a suo modo, sotto il manto della “bela Madunina”, e tutti presentano le proprie coerenze e le antinomie, le consonanze e i controsensi, le corrispondenze e diseguaglianze: tutto forma Milano, e da Milano è formata.
Una Milano da bere, dunque, come descriveva certa pubblicità, perché bella, scintillante, accogliente ed opulenta; ma anche una città da digerire, certe cose che neanche si cura di nascondere e che chiunque può vedere, costituiscono una Milano tosta ed indigesta, serve uno stomaco forte per certi mattoni. Claudia Maria Bertola allora ci riporta la città con onestà, non in abiti dismessi, o panni usuali, o gran mise da prima alla Scala, glielo dice invece chiaro: vieni come sei.
Vale a dire, sei bellissima così, ti amerei comunque.
“…il cielo è coperto di nuvole – è tardi.
Vieni come sei; non indugiare a farti bella.”
Il successo del libro, il suo valore aggiunto, sta in questo, la passione evidente trasfusa nelle pagine dalla sua autrice. Specialmente, quando ritrae una Milano celata, nascosta agli sguardi, sotto una spessa coltre di neve, che continua a cadere. Manca poco al Natale, e in un parco giace il cadavere di una giovanissima e bella studentessa assassinata: a breve distanza da lei, un miserabile barbone privo di sensi e gonfio di alcool. Storie con epilogo tragico, si direbbe, purtroppo usuali, simili a tante altre analoghe: un improvviso incontro, mentre si fa jogging alle prime luci dell’alba, un tentativo di aggressione a scopo di libidine da parte di un disperato fuori di sé, l’inevitabile tragedia forse senza volere, ma tant’è, i fatti parlano da sé.
I fatti: i fatti il freddo li congela, li cristallizza, la neve non aiuta a vedere oltre un panorama bianco sporco, copre pure le tracce che possano indicare che le cose siano andate diversamente.
Esiste però sempre il contraltare: il freddo, la neve, così come cancellano, possono anche conservare intatti particolari rivelatori al momento del disgelo, o di una ricerca accurata.
I fatti sono provocati dalle persone, sono conseguenza del loro agire, serve sentire le persone, per indagare e scoprire come siano andate effettivamente le cose: le persone non basta sentirle, però, vanno ascoltate, che è cosa ben diversa.
Ascoltare è un ponte a due corsie: ricevi, e fai in modo di ricevere informazioni atte a ricostruire la dinamica esatta.
Per questo, la protagonista principale, Marina Novembre, l’investigatrice per caso nata già da una precedente fatica della Bertola, è una donna affascinante, giovane, intelligente, ma deve la sua fortuna soprattutto perché dotata di una qualità rara: sa costruire bene come pochi il ponte della comunicazione, ed in effetti non per caso, prima ancora di investigatrice dilettante poi ritiratasi in montagna, era quello il suo campo professionale, la comunicazione.
Sa ricevere le confidenze, il che significa raccogliere informazioni, ma sa anche suscitare il desiderio di fornirle, anche false o edulcorate, poi è la sua sensibilità di donna ad elaborarle secondo una logica tutta al femminile, perciò ferrea.
Marina Novembre eccelle in quello che fa soprattutto perché è una donna sensibile, forse appena un poco più di una normale sensibilità femminile, perciò è omniaccogliente, adattabile, versatile, flessibile, tutto ed il contrario di tutto, esattamente come Milano.
Marina ha il mare nel nome, che può essere azzurro come in un giorno solare, d’argento come al chiaro di luna gradito agli innamorati, placido e riflessivo, oppure impetuoso e in tempesta.
Novembre è il mese d’autunno per eccellenza, un rimescolamento di clima, non è più estate ma nemmeno ancora inverno, porta i colori con toni tenui e caldi, quelli della maturità. Mese e stagione che possono essere caldi, freddi, tiepidi, presentano una vetta imbiancata, o una giornata di sole, o un cielo uggioso o una pioggia torrenziale.
Marina Novembre è una donna compiuta, un mare in autunno, non è possibile non apprezzarla, per questo la invitiamo volentieri nelle nostre letture: vieni come sei.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    06 Dicembre, 2021
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ESTATI DIVERSE

“Billy Summers”, l’ultimo lavoro di Stephen King, è una buona storia, raccontata anche meglio, il che vuol dire scritta con chiarezza, ordine e coerenza, in linea con lo stile dello scrittore del Maine è anche un bel tomo, però mai pesante o prolisso, tutt’altro. Molte pagine, nessuna ridondante.
Come suo solito, direi; questo è un romanzo il cui autore, che, come nessuno, sa prendersi cura, nutre massimo rispetto e alta considerazione per il suo lettore tipo, anela che si comprenda compiutamente tutto quanto ha da dire, sia le righe che ha scritto che quanto altro ha sottinteso tra le righe, desidera che il suo lettore si sistemi comodamente, smorzi le luci e accenda la lampada diretta sulle pagine, si isoli, si estranei e si delizi alla grande, operando una full immersion in tutto quanto riportato nelle pagine, azioni ed emozioni, che è poi il modo migliore di gustare un libro, qualsiasi libro, e di converso decretarne il successo.
King per primo lo sa benissimo, tutto questo, perché prima ancora di essere un grande scrittore è un formidabile lettore, il primo assioma è conseguenza del secondo dogma, per questo egli quando scrive ce la mette tutta, si prodiga al massimo per ricreare quella sospensione, quell’estraniarsi dalla realtà materiale e catapultarsi in quella cartacea, che solo certi libri e certi autori sanno realizzare alla grande. Serve chiarezza, onestà, precisione, talento, e non poche pagine.
King fra questi, senza discussioni, ed il merito principale sta tutto nella passione che tutt’ora, malgrado decine di titoli di successo all’attivo e milioni di copie vendute in tutto il mondo, prodiga nel suo lavoro. Quella di King è una dipendenza per lui, una piacevole dipendenza, quasi un’ossessione, che in più conta su un vastissimo mercato di affezionati, ansiosi di inebriarsi con un’ennesima variante dell’arte kinghiana.
Ecco perché ogni suo lavoro, e questo non fa eccezione, in genere è esteso, diffuso, circostanziato, interessante, si legge con piacere e con facilità, ci si immerge subito in ambienti ed atmosfere evocate ad arte e con valore ed ingegno del mestiere dal nostro. Da notare, a maggior riprova, che questa in esame non è una storia dell’orrore e del paranormale, qui ed ora l’autore definito dai più il Re dell’Horror è estremamente pragmatico e razionale, ma mai prosaico, però.
Stephen King non rifugge mai dall’esprimere sentimenti ed emozioni, e quindi a offrire poesia con la sua prosa, egli è, prima di ogni altra cosa, un signor scrittore, un autore che tutt’oggi scrive storie innanzitutto per sé stesso, prima ancora che per deliziare i suoi fedeli lettori, che sono milioni nel mondo. Lui per primo si diverte a leggere ed a scoprire quello che il suo talento narrativo gli suggerisce, quanto inventa man mano che la storia va avanti motu proprio, è quel tipo di autore che si fa guidare dalla trama e dalle azioni dei suoi personaggi, non forza la mano agli uni ed agli altri, nemmeno lui sa come si orienta il racconto, come termina, dove va a parare, e cosa si inventeranno i protagonisti, che fine faranno, è questa passione di scrivere per scrivere, questa imprevedibilità e originalità creativa, che è alla base del suo enorme e meritato successo.
Stephen King ha scritto spessissimo di orrori, in passato, ha pubblicato romanzi in cui vivono normalmente ai giorni nostri, come niente fosse, vampiri, fantasmi, mostri celati nelle fogne, ma quello non era altro che un pretesto narrativo, come fanno molti autori, King si è cimentato in un genere, quello dell’Horror, come altri fanno con il romanzo giallo o un noir, per parlare di ben altro.
Così ha fatto King, semplicemente ha posto in diretto confronto i mostri classici, così come pervenutici dalla letteratura di genere e dai film tratti da quei testi e oramai ben radicati nell’immaginario collettivo, con i veri, reali, fattivi e concreti orrori della società americana contemporanea, quella in cui King vive. Perciò indirettamente cita violenza, corsa dissennata alle armi, guerra, terrorismo, abusi sulle donne, maltrattamenti domestici, pedofilia e quant’altro di peggio sa offrire la moderna società: da un simile confronto speculare tra orrori veri e finti, posti uno di fronte all’altro allo specchio, la realtà esce perdente, a conti fatti è meglio, molto meglio affrontare un vampiro, dopo tutto una croce ed un paletto di frassino piantato nel cuore è tutto quanto serve per dissolvere l’incubo. In “Billy Summers” non serve nemmeno quello, tutto il testo riporta direttamente i guasti della più deleteria America trumpiana, che si rivelano alla resa dei conti autentici orrori.
Non c’è nulla di rovinoso che non si ritrovi in queste pagine: dal terrorismo alle missioni militari estere nei paesi coinvolti, la guerra e la guerriglia, i lutti e le gravi mutilazioni nel corpo e nel morale dei giovani americani, la disoccupazione, la dissoluzione di un efficiente apparato assistenziale e sanitario alla portata di chiunque, l’ubriachezza diffusa e molesta e la dipendenza da droghe, la loro diffusione capillare. E ancora, i maltrattamenti familiari, le famiglie disgregate, le istituzioni e le case famiglie inadeguate, le violenze carnali e via dicendo. Certo, non è tutto un fluire negativo del narrato, si riportano anche, e volentieri, i valori americani della famiglia, dell’amicizia e della solidarietà, l’amore e la cura per i figli, in sintesi se in passato King si era cimentato a descrivere le diverse stagioni della sua America, grande, diversa, differente e però con un comune humus di buoni sentimenti, un’etica ed una morale solidale ed inclusiva, questa volta si sofferma sulle “estati” del protagonista, vale a dire sui momenti eclatanti della vita di un giovane particolare.
Billy Summers è un soldato, un giovane con un vissuto familiare tragico e violento alle spalle, da cui si è allontanato entrando a militare nel glorioso corpo dei Marine. L’esercito è la sua unica casa, diviene la famiglia che non ha mai avuto, che lo accoglie e gli fornisce un ruolo ed una identità.
Ma l’esercito è un posto dove i giovani vengono formati, portati ad eccellere in qualche specialità, e poiché nell’Esercito si insegna prioritariamente ad uccidere i propri simili, e per farlo servono le armi, ecco che Billy si rivela un talento nell’uccidere a distanza, diviene un provetto cecchino.
Fino a quando, stufo di lutti e mutilazioni che portano via uno alla volta inesorabilmente i membri della sua famiglia acquisita, i suoi commilitoni, Billy abbandona l’esercito per fare ritorno alla vita civile. La quale non è pronta, non è preparata né predisposta al ritorno dei reduci portatori di pesanti problematiche, neanche se ne accorge o gli dedica attenzione, per cui Billy, che con il suo talento dopotutto non fa altro che reiterare l’uccisione dei fantasmi che hanno tormentato la sua infanzia, nell’illusione di scacciarli per sempre, si ricicla proficuamente sul mercato americano come killer a pagamento. Con una caratteristica peculiare: Billy non accetta ogni e qualsiasi contratto, ma si riserva di accettare o meno un incarico di killer, solo dopo essersi assicurato della “cattiveria” della vittima designata. In sintesi, Billy Summers non uccide chiunque, ma solo i “cattivissimi”, persone a loro volta assassini, efferati membri della delinquenza organizzata, coinvolti in faide con bande rivali, o lerci individui dediti a violenze gratuite ed efferatezze varie.
Come dire, un modo di autoassolversi, un voler ribadire che dopotutto lui colpisce il male ma non è uno dei cattivi. Tuttavia, il giovane è troppo intelligente per non capire che la sua è solo una scusa di comodo per salvare le apparenze con sé stesso. Quest’alibi che si è costruito a proprio uso e consumo per autoassolversi moralmente è destinato ben presto a crollare, giunge il momento in cui Billy è per la prima volta costretto, giocoforza, a fare i conti con sé stesso, diventa lui stesso bersaglio della propria autoanalisi. Per una serie di circostanze infatti Billy, che nutre una passione sconfinata per i libri e la lettura, è costretto a fingersi per un certo tempo, uno scrittore recluso per lavorare al suo libro. Solo che Billy finisce per scrivere sul serio, si immedesima anima e corpo, e senza sforzo, nel suo ruolo, questo gli piace, lo rapisce, lo inebria. Racconta allora su un word processor la sua vita, le sue esperienze, si rende conto di quanto scrivere, come una catarsi, lo gratifichi e lo esalti, riconsidera tutta la sua esistenza, si rende conto come diversa avrebbe potuto essere tutta la sua esistenza, afferra per mano il potere della scrittura come mezzo per riscrivere la propria etica, analizzare i propri comportamenti, scegliere la parte giusta dell’esistenza in cui camminare.
Stephen King ha vergato un pezzo veramente magnifico, al proposito, l’essenza dell’arte della scrittura, perché un vero scrittore scrive e perché un vero lettore legge:
”…sapevi di poterti sedere davanti ad uno schermo o un quaderno o cambiare il mondo? È una cosa che non può durare, perché il mondo torna sempre quello che è nella realtà, ma, prima che succeda, la sensazione che provi è incredibile. Non c’è niente che valga di più, perché puoi fare in modo che le cose vadano esattamente come vuoi tu…”
Con “Billy Summers” Stephen King impartisce una lectio magistralis, una sublime lezione sull’arte di scrivere, le fatiche e gratificazioni dell’atto creativo letterario, il modo come incanalare e gestire il talento narrativo innato in chiunque, poiché ognuno ha in sé la propria storia, unica e peculiare, le proprie trame, gli sviluppi insospettabili, una pletora di fatti e personaggi che desiderano solo di essere evidenziati. Come dire, “Billy Summers” è come fosse una rivisitazione di “On writing” dello stesso King, il manuale su come si diviene un grande autore, dove la penna è un fucile di precisione, e il target è la pagina scritta.
I bersagli sono l’educazione, la crescita, la lettura, e l’amore, naturalmente, che fa parte essenziale della vita, qualunque tipo di amore:
“…un cucciolo si attaccherà sempre ad un cane che ha deciso di nutrirlo anziché cacciarlo via o sbranarlo. E lo stesso farà un anatroccolo.”
Di tutto questo, e anche di più, parla essenzialmente Billy Summers, che è ora trasformato incantevolmente da King in un cecchino che pigia non il grilletto di un fucile ma le lettere sulla tastiera. Con ottimi risultati, trasmissibili.
Il finale è uno dei migliori dello scrittore del Maine, accusato spesso di concludere i suoi romanzi in maniera affrettata, non all’altezza dei capitoli precedenti, ma questo a mio parere non corrisponde al vero. Stavolta, comunque, King si è superato, ha creato un finale nel Finale che lo coinvolge in prima persona, si autocita, alla grande, e con lui uno dei suoi testi migliori, un classico, ma con bravura, abilità, maestria, tanto di cappello.
Orrore o no, è il Re. Da leggere.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    29 Novembre, 2021
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Amarsi un po'

Con “Leon” ritorna in libreria il fascino discreto del serial killer attraverso Grazia Negro, funzionario di Polizia in servizio presso la Questura di Bologna: trattasi, come è noto agli appassionati, non certo di un’eroina senza macchia e senza paura, tutta azione e avvenenza, tutt’altro, diremmo quasi che sia un travet della polizia, una giovane donna dei nostri tempi con distintivo e Beretta d’ordinanza, che cerca di svolgere al meglio, con zelo, impegno e scrupolosità, e con tanto buon senso comune, i propri compiti istituzionali.
Senonché, quasi per caso o per il volere di un bizzarro Fato criminologo, è però coinvolta suo malgrado, per indole e innata capacità di simbiosi comportamentale con i colpevoli, nel dare la caccia ai serial killer nostrani. Il Lupo, il Cane, l’Iguana, tanto per citarne alcuni, un giardino zoologico di assassini rituali.
L’ispettrice Negro, fin dal suo primo apparire nel noto, e incantevole, “Almost Blue”, è uno dei personaggi più noti e più amati dai lettori di Carlo Lucarelli, l’autore parmense è stato infatti tanto abile quanto geniale a delineare con tratti precisi, deliziosi, fini eppure ben marcati, felicemente scolpiti nell’immaginario dei suoi fedeli lettori, l’immagine di una donna comunissima, concreta, efficace, pragmatica, con la sua vita ed i suoi comuni problemi, che talora sviscera apertamente sulle pagine, quasi in complicità catartica con il lettore, i suoi momenti no, di puro sconforto o pessimismo, che sono quelli più frequenti nelle sue giornate, talora davvero difficili, esattamente come avviene nell’esistenza della maggior parte delle persone.
Ciò malgrado, Grazia Negro ha a che fare, nei romanzi che la vedono protagonista, con un campionario tanto squilibrato quanto temerario di serial killer della peggiore specie, non nel senso che sono patiti di omicidi sanguinari e sanguinolenti in stile grand guignol, tutt’altro, ma perché sono soggetti con l’apparenza di persone normalissime, perciò di difficilissima identificazione, e però insani, pericolosi, fuori dal mondo, letteralmente accecati nella ragione e negli occhi come nel caso dell’Iguana, assassino seriale cieco protagonista negativo di questo e di romanzi precedenti.
Una persona comune invischiata in vicende poco comuni, questo il piatto forte dello scrittore.
Carlo Lucarelli non è uno scrittore che tratta della criminologia per ricavarne thriller, o che discetta con competenza e precisione su impronte digitali, prove balistiche, reperti ed indagini genetiche, e tutto quanto fa del crimine una scienza, lo scrittore è invece su uno step ben superiore a molti colleghi che pure si cimentano con accuratezza su metodiche simili, Lucarelli fa molto di più.
Ci offre infatti romanzi dove il crimine, il reato, non sono ricondotti alla mera analisi scientifica, alla ricerca di prove inoppugnabili, ma crea storie, sviluppa nelle sue pagine non tanto indagini ma racconti, fa il romanziere e non l’esperto, certo è un autore ferrato in materia ma è bravo soprattutto nello scrivere, non nell’indagare. Quanto esprime per mezzo della sua creatura sono discorsi di stretta logica comune, non casuali ma intrinsecamente legati all’assassino schizofrenico, lunare, insensato e irrazionale, un individuo fino ad allora normalissimo, pur con le paturnie di chiunque, che disgraziatamente ad un certo punto del suo divenire, riceve degli input violenti ed esiziali tali da ferirlo nel profondo in maniera straziante, al punto che per sopravvivere deve ripetere, e restituire ad altri, quanto di male e di orrido ha ricevuto dalla vita.
Come dire, un do ut des del dolore, della violenza e della sofferenza patita, che la criminologia indaga, la giurisprudenza riconduce a reato, pena ed espiazione, ma chi è tra i due estremi, Grazia Negro nel nostro caso, deve gestire al meglio, identificare il colpevole, spesso a rischio della incolumità personale. Grazia Negro è un poliziotto che, fin dal suo primo apparire, si è resa conto in fretta che ciascuno è quello che è in conseguenza del suo vissuto, e ha il buon senso di mantenere le distanze da certi fatti e dinamiche che sa superiori alla propria capacità di gestione: non è una prolifer, meno che mai milita nei RIS. Tuttavia, il suo vissuto è un mix di brivido e suspense, di aberrante ed allucinante, le storie della nostra protagonista sono infarcite da dotte ed accurate dissertazioni di criminologia, da prolifer intenti a delineare le caratteristiche peculiari di soggetti tanto lucidi quando dissennati, interventi di RIS, prolifer e CSS all’italiana, tutti fanno da contrappunto alla logica tanto semplice quanto stringata di Grazia Negro, quella che in ultima analisi deve vedersela con il reo.
Perché il colpevole, il serial killer, più spesso è un topo, si intrufola, inarca la schiena, rosica e rode con violenza e frenesia: allora Grazia Negro è un leone, e come la montagna dell’anaffettività può partorire un topolino, è anche vero che il leone ha paura del topo, Grazia Negro non è un’incosciente, o una sprovveduta, teme l’Iguana et similia. Ed a ragione.
Ma non si tira indietro. Seppure con il cuore in gola.
Il suo lavoro, normalmente di routine nella contrapposizione al crimine comune, per quanto violento, d’improvviso le presenta altri incontri o per meglio dire scontri insoliti, inconsueti, crudeli, che più spesso la destabilizzano emotivamente nella sua sensibilità di donna.
Grazia Negro cerca in qualche modo di “capire” i colpevoli, non tanto a fini di redenzione morale ma per poterne interpretare i gesti, prevenirne le azioni e porli in condizione di non nuocere, prima di tutto a sé stessi, ma questa sua capacità di “captare” gli umori di queste persone disturbate, a lungo andare minano il suo equilibrio di persona razionale, le sue convinzioni morali, la sua pietas umana.
Soprattutto, perché la Negro si rende conto che quelli a cui lei dà la caccia, più che mostri, sono in qualche modo le prime vittime di altri mostri, il più noto e frequente di questi mostri è proprio l’insospettabile, l’amore, anzi il mal d’amore, la sua carenza assoluta, o gli abusi commessi nel nome di quello, sono tare, radici malefiche che stanno alla base dell’agire criminoso di alcuni individui.
Non a caso Carlo Lucarelli denomina il suo ultimo, ottimo e fortunato lavoro prendendo a prestito il titolo di un pezzo dei Melancholia, giacché lo scrittore parmense, noto per i precisi, accurati e icastici rimandi di criminologia nei suoi thriller, ci riconduce così, sic et simpliciter, da subito, direi senza mezzi termini dalle prime righe, senza se e senza ma, alle motivazioni reali, sostanziali, profonde che spingono nel loro agire un tipo particolare di criminali, i serial killer.
Per costoro, l’omicidio altro non è che una reiterazione rituale di uno sterile processo di sopperire a grandi, e devastanti, carenze affettive: un voler amarsi un po', sentirsi amati, apprezzati, inclusi in una sfera emotiva condivisa, come recita la canzone:
“Amor, Tu non sai dove trovarmi…”
Uccidono per essere giocoforza presi in considerazione, convinti che la considerazione prelude all’ammirazione e poi all’attaccamento affettivo, uccidono quando avvertono di non essere ricambiati non considerati degni di essere amati, uccidono per un senso di rivalsa, per riprendersi quando non gli è stato dato o di cui hanno subito abuso.
Essenzialmente quindi, l’assoluta mancanza di un valido sostegno emotivo, un pieno, maturo e sostanzioso carico affettivo che ne accompagni la scoperta di sé e della propria identità di persona durante la delicata fase della crescita, è alla base del divenire di un assassino seriale.
Volendo sintetizzare al massimo, quello che provoca i guasti peggiori nella psiche di un individuo, spingendolo nei casi estremi a ripetere un macabro rituale altro non è che un reiterato tentativo di esorcizzare carenze, paure, mancanze nel proprio iter esistenziale, un killer seriale uccide più volte ogni volta il proprio mostro interno che tanto lo ha afflitto e torturato nel corso del tempo, aggravate da una profonda considerazione di sé stesso, si ritiene infatti superiore in astuzia, intelligenza e abilità a chi gli dà la caccia, ma tale presunzione di fondo altro non è che una celata disistima di se stesso, non si ritiene inconsapevolmente in grado di amarsi un po'.
Allora tende a celarsi, è maniacale nel fingere, nascondersi, depistare, e questo lo rende pericoloso e difficile da fermare. Ci riescono bene solo gli addetti ai lavori, poliziotti non più bravi degli altri, ma che riescono a “sentire”, a empatizzare con gli assassini, ad intuirne, coscientemente o meno, la loro natura. Con dispiacere, magari, giungono a negarsi quasi con riluttanza alla loro struggente richiesta: “…mi ami?”.
Perciò serve sparare, seppure a malincuore Grazia spara per difendere non tanto sé stessa, quanto le proprie bimbe gemelle, come a dire le generazioni future, il consorzio civile.
Sperando sia l’ultima, ma in fondo al suo cuore sa che…è solo fino alla prossima volta.
Carlo Lucarelli ancora una volta ha colto nel segno, la sua prosa è sempre la stessa, quella mirabile, asciutta, incisiva, lineare, la stessa con cui racconta le gesta di Achille De Luca o Marco Coliandro,
quella con cui ammalia la platea televisiva, qui poi rende appieno la suspense e la tensione con pagine di una sola riga, impronte indelebili del soffio dell’assassinio seriale, del suo pensiero, della sua logica o forse della sua disperazione. Lettere incise come su un blocco di granito, e però pulsanti, inquietanti, il talento dello scrittore parmense non è tanto quello di descrivere, ma di suggerire, non offre immagini, suggestiona a crearle, Carlo Lucarelli non è un serial killer dell’immaginazione di chi lo legge per imporre la propria, anzi, è uno stimolatore di immagini ed azioni, ognuno ritrova la propria grazia, o il proprio mostro, quelli a lui più congeniali. Sempre risalta il suo amore per Bologna, descritta nelle ore più tenui e nella sua veste migliore, con le sue piazze, i suoi monumenti, una città che cambia toni, colori, letteralmente accoglie chiunque semplicemente cambiando magistralmente pelle. Come fa un’Iguana, e che Carlo Lucarelli riporta con Grazia.


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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    16 Novembre, 2021
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DAD – delitti a distanza

Se scrivere vuol dire, in estrema sintesi, riportare su carta lo scorrere dell’esistenza, la propria e quella altrui, e quindi raccontare i casi della vita facendone romanzo, allora inevitabilmente ne consegue che il covid 19, la pandemia, il lockdown, e tutto quanto di recente questo ha comportato nel nostro vissuto e nel nostro immaginario, ricorrerà prima o poi nelle storie in contemporanea che vedono coinvolti i più noti e riusciti protagonisti dei romanzi seriali.
Come accade appunto in “Bolle di sapone” di Marco Malvaldi, che segna il ritorno in libreria dei più noti tra i personaggi dello scrittore pisano, in particolare Massimo Viviani, giovane laureato in scienze fisiche e matematiche che, per i casi della vita, anziché esercitare professioni compatibili con i suoi studi, è il barista e proprietario del Bar Lume.
Evenienza questa molto più frequente di quello che si immagina, è una costante dei nostri giorni.
Per chi ancora non lo conoscesse, il Bar Lume è un oramai accorsato locale di Pineta, una amena località turistica di mare in Toscana, che vede come solerti, meglio dire perenni, frequentatori, i simpatici vecchietti croce e delizia dell’esistenza del nostro barista: non si tratta però di comprimari, ma di coprotagonisti, spesso e volentieri rubano la scena al baldo giovane.
Tutti insieme, giovane e anziani, sono coinvolti, con differente convinzione, nel risolvere gialli ed intrighi delittuosi, assicurando con le loro iniziative, spesso velleitarie e non richieste dalle autorità preposte, i colpevoli alla giustizia. Più spesso, utilizzando l’acume scientifico di Massimo, che ordina in un sistema logico e coerente intuizioni, confidenze e pettegolezzi raccolti dall’anziana consorteria.
L’attività investigativa, iniziata quasi per caso nei primi volumi della serie, è divenuta una costante nel quotidiano dei vetusti personaggi, tutti certamente avanti negli anni ma profondamente arguti, briosi, bislacchi e balzani, e però simpatici, fini umoristi, fondamentalmente toscanacci nell’animo, quello che da quelli parti si definisce un amabile bischero.
Marco Malvaldi, tra l’altro anch’egli con studi scientifici alle spalle, ha saputo creare dei personaggi letterari originali, fuori dal consueto schema di investigatori improvvisati.
Non soltanto, sa scrivere bene, con una prosa pulita, fluente, agile e scorrevole, dandone prova anche con altri titoli non della serie, anche se la maggior parte della sua notorietà deriva appunto dai racconti e personaggi che girano intorno al bar Lume.
Sono queste ultime buone storie, un mix di enigmi acuti ed umorismo sottile, redatte in modo semplice ma articolato in un disegno organico, che prende il lettore, lo coinvolge nella trama e nei suoi risvolti, spesso e volentieri lo sorprende con i suoi finali ad effetto, soprattutto si fa leggere tra le righe. Malvaldi riporta il suo pensiero su cose e situazioni, incentra le sue riflessioni sui lati meno noti delle persone, quelli volutamente tenuti nascosti dagli stessi interessati, per un motivo o per l’altro, spesso non necessariamente delittuosi, fa dire le sue sottili sensazioni direttamente dal suo alter ego Massimo, o più spesso questo emerge dai discorsi degli imprevedibili vecchietti, quasi questi fossero un Gran Consiglio dei Venerabili Saggi Anziani reggenti la tribù del consorzio umano.
Ne derivano storie interessanti, letture gradevoli mai fini a se stesse, divertono e però fanno pensare, inducono alla riflessione, come capita ad altri suoi colleghi Malvaldi non è un giallista, sarebbe davvero riduttivo pensarlo, qui il giallo, l’evento delittuoso è semplicemente un pretesto per discutere di ben altro, nemmeno tanto complicato: la vita, con le sue passioni e le sue azioni, il suo calore e la sua freddezza, l’estro ed il fanatismo, la solidarietà e la distanza, le giuste regole e la sfrenata avidità e cupidigia. In sintesi, tutte le storie di Malvaldi oscillano tra i diversi gradienti che intercorrono tra due esatti contrari, non a caso i racconti rimbalzano, come in una partita di ping pong, tra gli schemi razionali del giovane Massimo, figlio esemplare dei suoi tempi tecnologici e digitali, nonché con il raziocinio degli investigatori istituzionali preposti di turno, ed il gruppo degli anziani, con i loro vetusti ma sempre validi assiomi universali di vita, con il loro slancio, l’esaltazione e l’impazienza che li caratterizza e fornisce loro motivo di mordere con gusto i loro ultimi tempi, anziché trascinarne i giorni. Tutto questo Malvaldi può renderlo appieno nella sua scrittura in un unico modo: dimostrandosi attento osservatore della realtà del suo tempo, e cogliendone con la sua sensibilità i lati spesso misconosciuti e però di importanza, peso ed influenza non indifferente nel vissuto delle persone, spesso a noi contigue se non vicinissime, e di cui la frenesia dei tempi non ci permette di coglierne i risvolti umani, civili e solidali.
Marco Malvaldi allora come detto non scrive gialli, scrive delle cose della vita, poiché la vita stessa è un giallo, qualcosa che accade mentre la vivi, ed è imprevedibile, talora un mistero, non viverla è il vero delitto:
“…Le cose più importanti della tua vita ti capitano, mica le programmi. Puoi prevedere, organizzarti, fare il possibile. Ma se non sei pronto ad accettare che ti possa capitare qualcosa, magari quando ti capita non lo riconosci nemmeno.”
Serve allora osservare, e non solo con gli occhi, vedere quando accade non solo a noi, ma a tutti, perché in tutto siamo coinvolti, possiamo ben dire che non esiste cosa umana che non ci riguardi.
La pandemia questo lo ha dimostrato per bene, e Malvaldi semplicemente lo rimarca.
Un esempio, ma solo uno, è dato dallo stesso autore che lo indica chiaramente già nella dedica iniziale:
“A tutti quelli che hanno un bar, un ristorante, e a tutti quelli che ci lavorano”
Quanto il covid abbia coinvolto questa categoria di lavoratori, è paragonabile solo all’interessamento del personale sanitario, difficile per i non addetti considerarne appieno disagi e difficoltà.
Il lockdown e la reclusione coatta in casa propria coglie all’improvviso Massimo Viviani, come i tantissimi altri baristi e ristoratori della penisola, costretti per sopravvivere a trasformarsi in fornitori online, per quelli che possono riuscirci, comunque con esiti sempre rovinosi, in varia misura.
La pandemia separa inoltre forzatamente dai membri della famiglia, dagli amici, dai più banali conoscenti, in sintesi limita e incrina profondamente i rapporti sociali dal vivo di ogni genere, o paradossalmente al contrario li unisce giocoforza, acuendo disagi o tensioni : Massimo, per esempio, si trova separato a forza dalla fidanzata Alice, funzionario di Polizia che la pandemia ha colto mentre era di servizio in Calabria, bloccandola temporaneamente in quei lidi. E intanto l’obbliga alla insolita forzata convivenza, con qualche sofferenza, con la propria madre, con lui reclusa dal precipitare degli eventi durante una casuale ed inconsueta visita al figlio. A cui si aggiungono le preoccupazioni con gli amati/odiati vecchietti, perché:
“…del fatto che hai settant’anni e pesi settantacinque chili per un metro e sessanta, cioè sei la vittima covid da manuale.”
Perché un’altra categoria interessata gravemente dalla pandemia è la popolazione anziana, non soltanto per motivi di fragilità immunitaria, ma perché colpiti dalla peggiore delle virulenze: la solitudine. Gli anziani, già di per sé impoveriti di rapporti umani in tempi normali, intonano il de profundis ancor di più perché per loro, per ragioni anagrafiche fuori dal contesto dei nativi digitali, le piattaforme di rapporti online sono astruse, desuete, talora inaccessibili.
Gli anziani sono isolati, in qualche modo salvaguardati, posti prioritariamente sotto cura e protezione, e però lasciati disperatamente soli, forse assai di più che in tempi normali.
Ed eccoli qua, i vecchietti del Bar Lume. Capitanati dal più anziano in grado, nonno Ampelio, recluso doppiamente anche in virtù di un tipico accidente dell’età, la frattura di un femore. Ai vecchietti chi ci pensa in tempi di covid? Le statistiche sanitarie, naturalmente, nella conta dei caduti fanno la parte del leone, in quei giorni. Ma il punto non è questo: è l’assenza del contatto umano quello che nuoce ai vecchietti. A quell’età, il rapporto in presenza è essenziale, significa assaporare la vita dal vivo.
Allora, in tempi di scuole chiuse e DAD, didattica a distanza, che si inventano gli arzilli investigatori ottuagenari? Ma i DAD, naturalmente, investigazioni sui DAD, delitti a distanza.
Massimo pazientemente gli offre il suo supporti digitale, si occupa in prima persona di collegamenti, software, videochiamate e piattaforme condivise, e lo fa perché è il solo a notare i sintomi gravissimi:
“…cioè, io non me ne intendo troppo, e magari è normale, ma…ma secondo me Ampelio è andato in depressione…”
Allora Viviani si adopera per sconfiggere questo male subdolo che fa assai più paura agli anziani che un miserabile protista, un organismo subcellulare nato per le paturnie di un pipistrello.
Ciò obbliga il giovane ad assecondare le passioni dei suoi vecchietti, perché non abbiano a terminare i loro giorni con tedio ed insofferente malinconia. Andando contro le sue convinzioni per cui i vecchiacci dovrebbero badare solo ai fatti loro, a costo di coinvolgere la fidanzata poliziotta costretta in Calabria, si ritrova ad arrampicarsi sui vetri, a creare scenari tecnologici ad hoc per i suoi vecchietti, a soffiare bolle di sapone ad uso dei suoi “bimbi” avanti con gli anni, perché si divertano ad infrangerle e così facendo incantarsi e sorridere, come bimbi, appunto.
Insomma, Massimo il barista, sempre insofferente nei confronti dei suoi anziani avventori, stavolta li spalleggia apertamente perché abbiano a distrarsi:
“…Quando ero giovane, i vecchi raccontavano le storie ai giovani. Ora, sono i giovani che le raccontano ai vecchi.”
Marco Malvaldi le sue storie le racconta bene, perciò le sue bolle di sapone durano un po' di più di altre simili, rimandano le immagini, ne viene fuori qualcosa di maliziosamente dispettoso, da bischero, direi.


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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    12 Novembre, 2021
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IL RESTO DI NIENTE

L’ultimo felice lavoro di Chiara Gamberale è un racconto di contenuti e contenitori, di piatti pieni o miseramente vuoti, di abbondanza e carestia.
Di figure e persone, personaggi e protagonisti.
Una storia che comprende madri e padri, figli e famiglie, eventi e accidenti; povertà e ricchezza, amicizie e amori, passeggiate a manina o passioni sensualmente travolgenti.
Ancora: la vita come accade, i Natali, le Pasque, i Capodanni, le relazioni furtive, le emozioni nascoste, le canzoni dell’epoca, i tristi e miseri rotocalchi televisivi di gran successo, le chat di gruppo e i gruppi di lavoro, le unioni riuscite o disunite, le apparenze da salvaguardare, le scelte rimandate all’infinito nei tempi a venire, di tutto, di più. O meglio, tutto o niente.
Croce e delizia, come è sempre l’esistenza: poiché più spesso croce, allora è un’esistenza stile “mai una gioia”, senza niente. Senzaniente. La saga dei senzaniente.
Solo che a scriverlo tutto questo, ed a scriverlo bene, compenetrandoci con il narrato della protagonista principale, dandole un senso ed una morale, rendendolo una bella lettura, una buona storia scritta meglio ancora, è una scrittrice forte, agile, fluente, che ci riporta adesso qualcosa.
Chi conosce i titoli precedenti dell’autrice, ne riconosce un paio da quanto appena detto, che esemplificano al massimo il senso dell’ultimo lavoro.
Poiché questo romanzo è uno step successivo, un gradino qualitativamente più alto di quello già eccelso di partenza, qui la scrittrice romana appare più matura, completa, profonda.
“Il grembo paterno” di Chiara Gamberale è un ben più di adesso e qualcosa: lo è perché dice molto, non solo qualcosa, e andando su e giù nel tempo, non solo adesso; per i tempi oscilla tra adolescenza e maturità, per la quantità enumera tutto quanto costi e comporti il passaggio dall’uno all’altra condizione, e viceversa.
La protagonista, Adele, dapprima adolescente e poi giovane donna, col suo narrare in prima persona, che pare un continuo intercalare da un punto all’altro, di palo in frasca, dice il suo e un attimo dopo ripete il detto altrui o i rumori di sottofondo della scena con una onomatopea impressionante, ci porge in realtà un discorso preciso, un descrivere accurato, un eloquio diretto mirato al dunque, con il proprio idioma, i suoi modi di dire particolari ed intensi, talora struggenti nel riportare il suo vissuto.
Chiara Gamberale, con sensibilità e pudore, soprattutto con rispetto e riguardo, si pone in ascolto di quanto la sua protagonista le confida da pari a pari, da donna a donna, e lo fa con attenzione, cioè proprio con l’attributo che sempre è mancato a Adele: l’attenzione.
Tutti necessitiamo di attenzione, e di tutto quanto questo comporta, perché tutti noi per indole ci innamoriamo, le donne più degli uomini, le bambine addirittura iniziano prestissimo innamorandosi del principe azzurro più bello del mondo, il proprio papà, e non vedono l’ora di crescere per poterselo sposare, e guai a chi, senza merito, senza ruolo o virtù, osa mettergli gli occhi addosso.
Tutti ci innamoriamo, prima o poi, più prima che dopo, tutti abbisogniamo di interesse, premura, riguardi, la vita stessa pretende che i viventi si innamorino, e l’amore inevitabilmente, quasi per definizione, ci rende fragili, cagionevoli, vulnerabili, e ciò che si incrina pretende attenzione per non infrangersi, forse silenziosamente o in modo attutito, ma sempre dolorosamente.
Crescere significa coltivare un terreno brullo, serve il giusto concime, l’amore, in mancanza del quale il grano soffoca e la malerba prospera.
“…Quello che ci guarisce, è quello che ci ammala.”
“Il grembo paterno” in estrema sintesi altro non è che un ribadire forte di quanto il contesto in cui si cresce affettivamente influenzi il nostro divenire, quello di chiunque, permettendo un equilibrato evolversi della persona o, all’inverso, lasciandoti letteralmente senza niente.
Perché nessuno nasce imparato, e ciascuno è una tabula rasa all’origine dell’esistenza, possiamo efficacemente forgiarne l’anima, riempiendo il quadro vitale di cenni lievi, colorati con brio o a tinte dolci, lineari, affettuose, educare coloro affidati alla cura parentale con attenzione, comprensivi, coerenti, partecipi e presenti. Fornirli di un bagaglio di immagini e sensazioni positive con cui alimentare la loro crescita, la loro autostima, perché sbaglino tranquillamente mille volte nell’imparare a vivere, e ogni volta riprendano il cammino, con le ginocchia sbucciate e l’animo più forte ed esperto, sempre fiducioso nel meglio a venire.
“…nessuno ha quello che si merita: ma ognuno di noi può avere quello che spera di meritare.”.
Perciò chi cresce figli con relativi onori ed oneri deve tracciare nei particolari disegni a linee graziose, accurate, idonee a rendere un insieme gradevole, confortevole, delizioso, per delineare non un quadro idilliaco, sarebbe utopistico, troppi i parametri da far collimare alla perfezione, ma più spesso un habitat semplicemente umano, un lessico familiare normale nelle intenzioni e nelle azioni.
Succede invece che, a colpa o a ragione, qualcuno si ritrovi purtroppo a vergare graffi rabbiosi, con tinte nere, distribuite a caso con spatole a punte scheggiate, in grassetto feroce: ne deriva allora una tela cupa quando non lacerata, un urlo più che una immagine, un vero disastro, e la conclusione disperata e disperante, in alterna misura, è conseguenziale. Ancora, peggio ancora, è il non disegnare nulla, assolutamente nulla, non aggiungere niente, il resto di niente: questa è l’ignavia di comodo, quella che ti assolve, come se non fosse di nostra stretta pertinenza, quasi avessimo già dato abbastanza. Quanto ne deriva è lasciato assolutamente al caso, e se stramberie, insensatezze, fatti insoliti ne derivano, non è cosa di cui preoccuparsi, sono solo ragazzate. O invece tragedie.
Amare è una cosa seria, crearsi una famiglia con amore lo è ancora di più, è un genere di amore cui si cumulano ai sentimenti i bisogni pratici da soddisfare, almeno quelli primari, e questo ti assorbe, spesso completamente, ti porta via tempo e testa da dedicare alle attenzioni. Ed a non farsi distrarre. La famiglia contempla figli per discendenza diretta: le linee diritte pretendono esempi lineari, non rette spezzate, ma coerenti, esemplari, equazioni chiare e verificate.
Elementi discordanti disorientano, predicare bene e razzolare malissimo svia, confonde, disturba già dall’origine, nel grembo materno, figuriamoci poi in epoca delicatissima e vulnerabile quale sa essere l’adolescenza di chiunque, allorché magari l’incoerenza dell’esempio genitoriale è palese. Particolarmente gli uomini, i padri, chissà perché proprio ai tempi dell’adolescenza dei figli eccellono nel porgere questa distorta immagine che risulta dal loro agire, anche il grembo paterno, perciò, ha le sue belle responsabilità in proposito, fallendo nel ruolo precostituito di guida, di esempio, di rettitudine di mente e di azione.
A lungo andare, certe circostanze si palesano per quello che sono, infidi tradimenti, uno sconquasso nella fiducia ciecamente riposta e vilmente tradita, un estremo insulto, un oltraggio che nell’insieme provocano disorientamento, discrepanze, disturbi dell’anima, fenomeni che si manifestano poi in disordine inverso, una cosa ed il suo esatto contrario, come la bulimia o l’anoressia, che si rivelano in tutta la loro drammaticità appunto nell’epoca più delicata e vulnerabile tra le età umane, l’adolescenza. Disordini alimentari che risultano tanto diffusi tra i giovani in quella stagione della vita, tali da diventare oggetto di discussione nelle trasmissioni televisive rivolte a quel target, spesso stolidi rotocalchi che spettacolarizzano, sotto una veste amichevole o di servizio, i tanti guasti arrecati all’anima da un’incuria genitoriale.
L’adolescenza, la primavera della vita, che per qualcuno primavera non è esattamente, diviene allora l’età in cui puoi avere tutto, ma in realtà non hai nulla, nemmeno il resto di niente, sei solo e soltanto una ragazza senza niente, che prova inutilmente a riempire le proprie carenze con compulsiva ossessione, con veemenza, una Signorina Ancora, ancora e ancora, senza fine.
Adele è una giovane che ha vissuto la propria adolescenza in maniera tanto particolare da ridefinirla “adelescenza”. Originaria di un piccolo paese di una piccola provincia, come dire un borgo vicino ad una Piccola Città, è cresciuta come tanti suoi coetanei con i sogni ed i desideri tipici delle sue coetanee, gli studi, gli amici, i pochi svaghi, le trasmissioni televisive che vanno per la maggiore negli anni in cui si svolge l’azione, il mito per la Grande Città, la metropoli oltre la provincia, quindi.
La ragazza è la prima figlia, ha due fratelli gemelli minori di lei, e la sua è una famiglia speciale del paese, poiché una volta il papà, allora piccolo bottegaio di alimentari, a malapena sbarcava il lunario, portava avanti la sua famiglia con fatica, privazioni e sacrifici, tanto che erano conosciuti come una famiglia tanto povera da non possedere nulla, quindi, dei ”senzaniente”, appunto, come erano additati con una punta di velato disprezzo. Senonché il padre, a prezzo di fatiche e sacrifici, riesce a fare il gran salto sociale, si ritrova padrone di un supermercato, ma il palese miglioramento economico suscita sempre inevitabile livore, gelosie ed invidie nelle piccole, e pettegole, comunità, per cui il disprezzo non accenna a diminuire, viene semplicemente celato. Le cose si ripercuotono sulla famiglia, prima sul genitore, provocandone un sottile ma incisivo cambiamento, poi con strazio e dolore in Adele, disturbandone la vita. Paradossalmente, Adele farà dei suoi disturbi materia professionale, finendo per andare a vivere nella Grande Città, come nei suoi desideri giovanili. E divenendo madre di una bimba, Frida, concepita senza genitore, con inseminazione artificiale all’estero. Una famiglia completa però richiede dei ruoli precisi, delle presenze fisse: Adele prova la chiusura del cerchio con Nicola, un medico già legato con moglie e figli. Sono i giorni del primo lockdown, la grande città densa di traffico, di gente, di animazione, si chiude in casa, ognuno resta solo e staccato dai suoi affetti; ma la reclusione forzata è invece un’occasione, una opportunità, un’apertura per Adele, che realizza che quanto in effetti vive, è una replica, una rivisitazione mal riuscita, un buffering che rischia di protrarsi all’infinito, impedendo il normale scorrere dello streaming della corretta crescita della sua figliola:
“…quella fuori dalla finestra, adesso ero io.”
Frida, la sua bimba ha bisogno di ben altro che cure parentali: non quanto può dare un amico dottore, ma di un balsamo che è panacea universale, l’amore. Amore quello vero perché esclusivo.
Chiara Gamberale lo afferma forte e chiaro, in bella grafia: con amore, nessuno è un senza niente.

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"Adesso" e "Qualcosa" di Chiara Gamberale
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    09 Novembre, 2021
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La maestosità del decoro

Qui e ora, la lettura di questo piccolo libro, poco più di cento pagine, è sufficiente a commuoverci, deliziarci, finanche a turbarci, rimanda l’immagine di una situazione oggi impresentabile che ci lascia almeno lievemente a disagio, soprattutto questa è una storia di un decoro e di un candore disarmante, che certamente scuote l’anima anche dei più rudi e smaliziati lettori d’oggi.
Deborah Rossi non ci offre niente di calcolato o orchestrato per uno scopo melenso, tutt’altro, nessuna operazione strappalacrime studiata a tavolino per accaparrarsi un certo trend di lettori, niente zucchero e miele in queste pagine, semmai il sale, quello delle lacrime, della fame e delle privazioni.
Con chiarezza, sincerità ed estrema dignità l’autrice riporta semplicemente una storia che poi, putacaso, è autobiografica, il racconto della sua esperienza di vita. Non altro, e con tono pacato.
Una storia triste, quella di una bimba senza genitori, cresciuta tra gli stenti prima da una nonna e poi in un istituto di religiose, in anni nemmeno tanto distanti nel tempo, in cui il moderno welfare era ancora da lì a venire, sostituito dalla cristiana solidarietà.
Non esistendo ancora, specie in certe aree meno progredite e floride del nostro paese, le moderne case famiglie o i genitori affidatari, l’assistenza nel bisogno gravava sui parenti, o se insufficiente, sugli ordini religiosi appositamente preposti allo scopo, armati di buona volontà, e del rigore e della disciplina insita nell’organizzazione evangelica.
La nonna non riesce che a procurare un misero alloggio per sé e per la nipotina di pochi anni, al pranzo provvede la mensa pubblica degli indigenti, per cena gli scarsi avanzi del pasto di mezzogiorno o, più spesso, nemmeno quelli. Il tutto accettato con compostezza, e con gli abiti buoni.
Vesti consunti, panni smessi da altri, ma puliti ed in ordine, si va alla mensa dei poveri agghindati come ospiti in casa altrui, puliti, educati, lindi, con il sorriso e i modi gentili e cortesi.
Una vita di miseria, di abbandono e di indigenza, vissuti con la maestosità del decoro che nobilita i protagonisti, fa però comunque male da leggere e da vedere allorché ne è protagonista un bambino, candido, fiducioso, incolpevole. Maestoso nella sua genuinità.
La bambina, poi ragazza, fino alla maggiore età soffrirà allora sempre e soprattutto la fame, l’appetenza quella vera, quella che ti strazia la pancia per i crampi, che ti fa svenire solo a sentire certi odori, la fame implacabile che vuole pane, qualunque pane, pan secco, pane raffermo, crosta di pane, e non si sazia mai: graffia, morde, lacera, e pretende senza sosta.
La fame che vuol dire insonnia, pallore, debolezza, che significa angoscia, paura, terrore di non trovare l’indomani nemmeno quel miserabile tozzo di quel pane, la fame che ti fa piangere di nascosto, disperare in silenzio, ti segna nel profondo e ti parrà sempre un miracolo, immeritevole ed immeritato, gustarti un tocco di pane fresco, semmai l’esistenza ti concederà quello che ti parrà sempre solo e soltanto un grande onore. La fame quella vera: certamente non il languorino di oggi dei nostri ragazzi, che il pane magari lo disdegnano, e si lambiccano sul menù vegano, o il tofu o i germi di grano, e piluccano svogliatamente sushi, sashimi e ramen. Loro soffrono la mancanza di un altro pane, semmai, quello tecnologico, privarli del cellulare o del social non li affama, li fa impazzire.
La fame quella vera invece ti lascia lucido e perciò sofferente, lineare e cosciente, nemmeno puoi rifugiarti nella follia.
La fame, e poi il freddo, le privazioni, la mancanza di giocattoli, di stabilità logistica ed affettiva, il minimo per la crescita sana ed equilibrata per qualsiasi bambino.
Ecco: la maestosità del narrato inizia da qui.
La protagonista, la stessa autrice, non recrimina, nemmeno si lamenta o peggio ancora si compiange: semplicemente, racconta. Tutto il testo esalta un valore assoluto: l’estrema dignità.
La bambina racconta con grazia, gioia, letizia: quello che dice è tremendo, ma neanche per un momento pronuncia un verdetto, un giudizio malevolo, una considerazione cattiva.
La Rossi non è una santa, è una donna comune che si guarda indietro, e ricorda se stessa bambina: ha solo questo di splendido ed incantevole, che focalizza il suo pensiero esclusivamente sui lati positivi, sulle pochissime gioie, sui rari ricordi lieti e solo su quelli, è grata a chiunque le abbia elargito un sorriso, un buffetto, una carezza, magari appena accennata, non fa che una menzione di striscio dei tanti torti, gli innumerevoli disagi, le inaudite sofferenze che il lettore può solo intuire o immaginare, e sforzandosi tanto.
“…anche nella povertà è possibile imparare a vivere”.
La scrittrice lo impara, e poi la scrive compita, con precisione, vocaboli scelti con cura, sistemati in frasi ordinate, con diligenza, ci si immagina subito pagine nitide, righe con margini, penna e calamaio come una volta, e poi una bella grafia tonda a vergare brevi capitoletti che sono tanti flash, tante nitide diapositive in bianco e nero, ognuna descrittiva di un fatto insolito, una situazione ricorrente, una persona cara.
Per quanto sia una scrittura niente affatto melliflua o leziosa, sa emozionarti con semplicità, è un testo che gronda di onestà e rettitudine, è il racconto di un amore di bambina, come dire l’elegia dell’innocenza per definizione, cui le difficili traversie familiari non sono riuscite ad amareggiarla l’anima, per quanto le abbiano pesantemente condizionata l’esistenza.
Leggere questo romanzo non ti fa piangere, però ti intenerisce l’anima, suscitandoti un sorriso appena accennato, non mi ricordo una cosa simile, e sì che ne ho letto di storie patetiche, sensazioni come queste si sollevano sempre più di rado: questo non è un racconto, per quanto lungo, è un libro completo, una storia delicata e struggente che ti rapisce il cuore e l’anima, come solo “Cuore” di De Amicis dei bei tempi andati riusciva a fare, in altra epoca e presso altre generazioni.
Non è la storia di una piccola fiammiferaia, è il racconto di mille giorni neri di sofferenza che si susseguono con una costanza ed una diligenza ordinaria: ogni tanto una piccola cosa, un sorriso, una carezza, un gioco nuovo, rischiarano l’orizzonte. La bambina lo sottolinea, li evidenzia, e solo quelli.
Allora i giorni difficili sono come le piccole scarpe nere che la piccola è costretta a lucidare nell’istituto religioso, e sono tante, cento, duecento, mille, tante quante le piccole ospiti, e però ecco, tra tante scarpe nere da tutti i giorni, ogni tanto ci sono un paio di scarpe bianche, quelle della domenica. Come a dire, il sole brilla anche se è solo, queste sono piccole anime fulgide, impossibile non intenerirsi per loro, non amarle.
Un libro breve, una storia semplice, magari ingenua, ma comprende contegno, modestia, dignità.
Bellezza, gentilezza, probità.
Rispettabilità, fierezza, rettitudine.
In sintesi, Deborah Rossi è stata in grado di esplicare la maestosità dell’esistenza vissuta pur avendo fame di pane, e riuscire a restare e divenire sempre più tanto sazia e ricca di un'altra specie di pane, l’amore, in quantità stratosferica, tanto da riuscire ad effonderne d’intorno.
Perché, sapete, si soffre anche per un altro tipo di fame:
“……non c’è cosa peggiore al mondo del non essere amati. E io, così piccina elemosinavo anche l’amore.”
L’amore, quello vero, riempie le carenze che solo chi ha provato la fame può capire.
“…mi ha insegnato a ringraziare per ogni cosa ricevuta, a essere accogliente con tutti, ad accettare con naturalezza le diversità di ogni persona al mondo, ad aspettare ed ad essere gentile…”
Chiunque può allestire un proprio forno, impastare i buoni sentimenti, e distribuirlo ai bisognosi.
Come ha fatto Deborah Rossi, con maestosa dignità.

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A chi ricorda con nostalgia "Cuore" di Edmondo De Amicis
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    03 Novembre, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

COME ERAVAMO

Quello che siamo oggi è la diretta conseguenza del nostro ieri.
Il frutto del nostro crescere, conoscere, formarci e progredire.
Abbiamo visto tutti, con i nostri occhi, come e quanto bene il nostro Paese, primo tra tutti in Europa, se non nel mondo, si sia distinto per efficienza, buon senso, solidarietà ed umanità nell’affrontare la recente pandemia. Ancora vive nei nostri cuori l’eroismo e l’abnegazione di sanitari e quanti altri impegnati in prima linea durante i tragici giorni del lockdown, e come bene o male siamo riusciti a rimetterci in piedi, ben saldi sulle gambe, malgrado le inevitabili polemiche e gli infiniti distinguo che tuttora persistono. Siamo forti, sono stati momenti duri, ma ci ha soccorso il nostro retroterra, il nostro peculiare divenire, noi veniamo da anni forti, che ci hanno temprati.
Quello che non ti uccide, ti fortifica. Comunque, impari.
Abbiamo ereditato la forza dei nostri predecessori, ce l’hanno trasmessa pari pari nel DNA.
Le generazioni passate ci hanno fatto crescere, maturare, ci hanno permesso di uscire da una guerra disastrosa, e ricostruire ex novo nuovi valori, con una costituzione esemplare, leggi all’avanguardia per realizzare una nuova società, giungere a conquiste sociali degne di un paese progredito e civile, certamente pagando un prezzo altissimo, anche in perdite di vite umane, nulla ci è stato regalato, ma non ci siamo mai tirati indietro. La vittoria della Nazionale di calcio agli Europei, i trionfi sportivi alle ultime olimpiadi ed in altre recenti competizioni sembrano un segno tracciato dal Fato, quasi che questo abbia voluto rimarcare visivamente, in un tripudio di tricolori al vento, la solidità del nostro Paese e dei suoi cittadini. Diciamolo con franchezza: siamo stati bravi, noi italiani.
Efficienti, encomiabili, solidali, siamo cresciuti, siamo maturati, abbiamo percorso un cammino arduo e difficile, al momento giusto ci siamo rivelati nella nostra vera essenza, come sappiamo fare sempre nei momenti difficili, giungendo felicemente alla meta.
Siamo quello che siamo, e siamo tanta roba, proprio in virtù di quello che eravamo.
Un Paese sano cresce di pari passo con la sua umanità, è la sua gente che lo fa grande.
Siamo forti ora, perché ci hanno forgiato gli anni forti, vissuti da persone toste, soprattutto donne forti. Le nostre donne, le nostre madri.
Nessuno quanto una donna sa essere forte, quando serve. Spesso, se non sempre.
“Gli anni forti” di Paola Martini è, in estrema sintesi, un “come eravamo”: racconta, e lo racconta bene, incisivamente, in prima persona, e da persona che sa perfettamente bene di cosa sta parlando, di cos’era e com’era la vita nel nostro Paese. E delle donne di questo Paese.
Un paese potenzialmente in grado di fare tanto, ma arretrato per tanti versi, una società allora con connotati provinciali, arcaica, arretrata, patriarcale, maschilista.
Una società sana e genuina, ma bisognosa di una svolta radicale, e perciò, necessariamente, di donne forti. Solo le donne forti sanno come navigare nel gran mare della vita, nella buona e nella cattiva sorte:
“…Il mare lo sento amico. Ne conosco la dolcezza, quando spira un leggero maestrale che accarezza la pelle l’acqua è trasparente ed invitante...Ne temo la rabbia scatenata, quando il libeccio lo fa diventare livido e gonfia le masse che si infrangono in cavalloni forsennati sul litorale…”
“Gli anni forti” ci permette di captare letteralmente odori, sapori, sostanza, degli anni di principale formazione civica e morale della nazione, di ricostruzione del pensiero e del confronto democratico, quindi gli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, per intenderci.
Un trentennio vissuto in prima persona dalla scrittrice, sono quelli gli anni della sua infanzia, adolescenza, giovinezza e maturità di donna, che coprono un periodo tanto intenso quanto travagliato, in tutti i sensi. Anni in cui per una giovane donna trovare la propria identità era difficile quanto trovare un posto dove stare, un riparo, un rifugio per confrontarsi con la vita:
“…Gli spazi creati di proposito con cuscini e coperte per terra, perché ci fossero séparé dove poter parlare in confidenza…”
Anni forti che vanno dal boom economico, alla crisi di valori, schemi e tradizioni obsolete, fino ai tragici epiloghi del terrorismo e della lotta armata, indicati emblematicamente dalla strage di Bologna e dall’omicidio di Aldo Moro.
Questo della Martini non è una autobiografia, o almeno non è solo il racconto di un proprio vissuto, è molto di più, un bel lavoro, scritto bene, con stile chiaro, preciso, dettagliato, con piglio didattico, e però con garbo e discrezione insieme. Lo avverte subito il lettore, sembra quasi che una gentile e signorile professoressa ci accolga nel salotto di casa, ci faccia accomodare su poltrone di foggia antica ma comode e accoglienti, premurandosi di farci sentire a nostro agio, mentre racconta di sé, con pudore e riservatezza ma con pari franchezza, con voce ferma, decisa, colloquiale, incantevole.
Gentile, colta e signorile Paola Martini lo è per davvero ora, anche se magari all’epoca non si sarebbe detto, ad onta degli sforzi della famiglia, giusta e amabile, ma severa, perché consona al tempo.
Malgrado dalla lettura emerga chiaro che l’autrice non sia mai stata una femminista sui generis, è innegabile che sia apparsa a famiglia, amici e contemporanei come una contestatrice, ma questo solo perché si è rivelata una donna impegnata e impegnatasi in prima persona ante litteram, tutto il contrario di quanto ci si aspettava da lei, per i tempi e la morale di cui si parla.
Leggere questo libro è come visitare quindi una casa dell’epoca narrata, ricca di mobili, quadri, arredi, foto in bianco e nero incastonate in vecchie cornici d’argento, ricordi, cimeli vintage.
Una visita che ci riporta all’indietro nel tempo, di colpo e senza parere, in un altro scenario.
Nemmeno lontanissimo nel tempo.
Un altro modo di vivere, di nutrirsi, di riscaldarsi, di vestirsi, di svagarsi, di innamorarsi e di vivere le proprie scelte, costruire il proprio destino. E di essere donna.
Donna in prima persona, e cioè donna libera: libera di amministrare il proprio corpo, gestirne i cambiamenti ed i ritmi ormonali, prendersene cura pretendendo strutture e specialisti a cui affidarlo, vivere la propria sessualità senza paure, tabù, proibizioni, libere di amare e non essere oggetto di amore o presunto tale. Giacché le donne si amano, le cose si idolatrano, ma le prime sono soggetti, le seconde sono oggetti. Questo prima di ogni altra cosa si riconduce ad essere il racconto di una donna emblema di tutte le donne a lei contemporanee, che con lei si impegnarono in prima persona, istruendosi per comprendere e modificare la loro condizione subordinata ad un patriarcato, un becero maschilismo celato nel sotterraneo, ma duro ad estinguersi, che non aveva più pretesto alcuno per sussistere. Le ragazze di oggi, libere di scegliere, di fare, di essere sé stesse devono eterna gratitudine alle ragazze di ieri, è innegabile nell’ascoltare questo “come eravamo”, perché le donne di allora vissero la loro condizione in modo totalmente diverso, rivoluzionario, ostico e difficile per i tempi, ma lo fecero non solo per sé, ma per le ragazze del domani, per le donne di oggi. E quindi, per noi tutti. Se le donne oggi possono dirsi libere, lo devono al come gestirono le cose Paola Martini e le donne della sua generazione. Sulla propria pelle.
“Ogni generazione inventa modalità diverse per celebrare i suoi riti, ha i suoi spazi per incontrarsi. La mia non ha conosciuto quelli dell’aperitivo in piedi, in mezzo alla calca di un bar, della bevuta al pub…né ha festeggiato la festa di Halloween con le streghe e le zucche illuminate. Non si è neppure concessa le cenette romantiche per San Valentino.”
Hanno fatto altro, quelle donne, in quegli anni forti: sono diventate fortissime.
“Gli anni forti” è uno di quei testi che dal personale rimanda al generale, di un sentire proprio riporta il senso comune dell’epoca, i fermenti vivi di crescita e cambiamento, le lotte ed i sacrifici compiuti da quanti, soprattutto l’anima femminile della società, premevano e si adoperavano, con insistenza ed intelligenza, per un divenire proficuo per le generazioni future, come in effetti è stato.
Un libro interessante, la cui lettura rapisce chiunque quel tempo lo ha vissuto o ne ha solo sentito parlare, sono stati anni fondamentali per il nostro presente.
Una lettura piacevole, stimolante nel volerne sapere di più e meglio, succosa perché ci riporta tanti e tali momenti e particolari per cui, più che una testimonianza diretta, è una panoramica, una carrellata, un dispiegarsi su fatti, sensazioni, modi di essere, di dire, di vivere certi momenti e certe situazioni, e però non è una mera descrizione, è una vera e propria full immersion nello spirito di quei tempi.
Un libro neanche tanto corposo, non un lungo racconto personale o un reportage cronistico, e però scorre fluente come un romanzo, dettagliato come un resoconto, non è né può essere solo un’autobiografia, perché emoziona, suscita le più struggenti delle sensazioni, la nostalgia, la malinconia, il rimpianto, gli “Anni forti” di Paola Marini sono il rievocare i veri anni forti dell’esistenza di ognuno di noi, quelli della crescita, degli affetti, della formazione di sé, espone l’età aurea, la giovinezza, di chiunque, con poesia ci rammenta: “come eravamo”.

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I libri sul "come eravamo" negli anni 50 -60-70
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    29 Ottobre, 2021
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AL DI LÀ DEL BENE E DEL MALE

Gli angeli, si sa, sono esseri spirituali, messaggeri della volontà di Dio, soprattutto assistenti delle creature nobili create ad immagine e somiglianza di Dio stesso. Ricoprono ruoli di guida, agli angeli custodi sono già dall’origine affidati gli uomini durante il loro percorso terreno.
Talora, quasi diventano sostanziali con loro, come a dire, si fondono anima e corpo nella stessa persona. La terra non è popolata solo da angeli, ma anche dai loro esatti contrari, i demoni, fatti della stessa sostanza e però caduti in disgrazia, allora ognuno ha il custode che si merita, secondo l’indole e l’orientamento cui indirizziamo le nostre scelte di vita, se al bene o ad una condotta malvagia.
Di più, sarebbe più esatto affermare che non esistono individui completamente angelici o del tutto diabolici, l’umanità per sua natura fallace è dibattuta tra il nero ed il bianco, assume più spesso gradazioni diverse di grigio, nessuno è completamente immune da colpe, e qualche insospettabile nasconde momenti di intensa gentilezza ed empatia d’animo dietro tratti rudi e modi bruschi.
“…In ognuno c’è qualcosa da salvare, e in ognuno c’è qualche peccato da perdonare.”
Da quanto detto, ne deriva chiaro che sia angeli che diavoli sono fratelli, nati dalla stessa Origine, fatti della stessa sostanza. Ambedue spiriti alati, alcuni rivolti al bene, altri al loro contrario, proprio perché il Primo Motore, il Capo Meccanico dell’Officina Empirea, è per definizione stessa saggezza e amore, ne consegue che è l’essenza della libertà e della democrazia, concede alle sue creature il bene più prezioso, il libero arbitrio, lascia completa libertà di scelta a tutte le sue creature su quale orientamento intraprendere nelle loro esistenze, assumendosene le relative conseguenze.
Angeli e demoni sono ambedue esseri spirituali, sussistono al di là del bene e del male, esistono e convivono entrambi tra noi, ed è quanto sottolinea a modo suo, e quindi in maniera magistrale come oramai ci ha abituati, Maurizio De Giovanni nell’ultimo episodio che vede protagonisti gli oramai notissimi “Bastardi di Pizzofalcone”, l’assortita e bistrattata squadra di poliziotti in servizio permanente effettivo presso il commissariato di un quartiere storico della città partenopea.
Non fatevi distrarre, quello che avete tra le mani non è un testo buonista, di catechismo spicciolo, nemmeno un giallo o un Police mistery, come non lo sono mai i suoi libri, malgrado le trame ed i protagonisti, l’ultimo libro di Maurizio De Giovanni racconta soprattutto di loro, degli angeli veramente esistenti, di bambini, e di mamme che sono creature angeliche per definizione stessa, e di tanti altri spiriti che hanno invece smarrito la retta via; pertanto, il titolo è quanto mai indicato e omnicomprensivo, “Angeli”.
Al di là del bene e del male, sono angeli per definizione i bambini, in particolare quelli “speciali”, che magari patiscono per qualche caratteristica, perchè questo li rende i prediletti dal Signore.
Poi le mamme; poiché tutti ne abbiamo una, finanche il Creatore di tutte le cose visibili e invisibili, gode della benevolenza e dell’amore della sua Mamma Celeste, per estensione la Mamma di tutti noi.
Bambini e mamme sono angeli de facto, pur non essendo esseri spirituali, perché è la loro tenerezza, il loro amore, il loro esempio che ci sospinge al bene, come e meglio di un Angelo Custode.
Gli uomini sono creature di alto lignaggio, motori perfetti come quelli di certe auto d’epoca, sono stati messi a punto nell’Officina Mirabile, sono provvisti della migliore bussola esistente per orientare le loro azioni, il libero arbitrio, e compito degli angeli è custodirli, fargli da navigatore perché non abbiano a perdere la giusta direzione, intervengano al loro meglio per evitargli di cadere nella facile e allettante seduzione del peccato. Questo concorrono a fare mamme, bambini speciali, che con il loro amore ci stimolano al Bene, non solo, ma anche tutti gli altri angeli in servizio permanente effettivo che ritroviamo ogni giorno sui nostri passi, siano essi un valente meccanico in pensione, gonfio d’orgoglio per la propria figliola laboriosa e studiosa, o una anziana signora aristocratica troppa sola e troppo bisognosa di amore, perché diciamolo, sono angeli tutti coloro che si muovono per amore, e:
“…l’amore non si confina nel buio e nella distanza.”
De Giovanni lo fa dire chiaro ai suoi personaggi, non è che si tratti però di Superoi, tutt’altro, gli angeli, quelli veri, quelli intorno a noi, tutti insieme, in terra e in cielo, si danno da fare per gli uomini molto meglio di qualsiasi Supereroe sia nei risvolti pratici che in quelli spettacolari, il tutto senza tanti clamori ed effetti speciali, e però efficaci e sostanziali. Si badi, però, nel bene e nel male; giacché, se esiste il bene, deve esistere anche il male, è la legge della perfezione che lo esige, se esiste la Luce deve contemplare anche il Buio, il suo esatto contrario. Ben lo sanno i componenti della squadra investigativa protagonista, sono poliziotti, loro sì al servizio permanente effettivo e pratico dei loro concittadini, custodi degli umani, pur non essendo angeli in senso stretto, e però talora sono assai più efficienti dei messaggeri celesti, riportano con efficacia l’Ordine dove questo è stato infranto, sono gli unici ad evidenziare l’incongruenza di una officina meccanica linda e lustra come e più di una sala operatoria, e però con un unico attrezzo lordo della bruttura del massimo del disordine umano, un omicidio:
“…se vuoi conoscere certe vicende, devi scendere in profondità. Ma più scendi in profondità, più devi stare attento.”
Si suole dire che Napoli, la città natale dello scrittore sia famosa nel mondo per la cura con cui custodisce i propri bambini, è un luogo dove: “i bambini non si toccano”; corrisponda al vero o meno, il romanzo abbonda di angeli, da sempre i bambini, specie i bambini speciali, sono angeli: perciò veri protagonisti in questo romanzo sono la piccola Marida, tormentata da un mal d’orecchio resistente alle cure che la rende sorda da un lato, e Giovannino, suo compagno di banco amorevole e tenerissimo nella sua solidarietà, ed il piccolo Riccardo perso nel suo mondo di reiterazione ossessiva e malinconica di tre sole parole tutte attaccate, o Giorgia piccola abbandonata ancor prima di nascere, e la specialissima e geniale Vicky. Angeli sono i bambini più grandi come Marinella Lojacono con la sua giovanile tristezza d’essere, angeli possono essere gli adulti come la professoressa Lucia Cantone, attenta agli umori delle sue allieve come e più di una mamma. Angeli sono sempre le mamme, come Giorgia grande, Ottavia china sul pc per non pensare al suo amore impossibile a pochi passi da lei, Suor Giovanna mamma di tanti figli nessuno generato da lei e che le appartengono come a nessuno, o ancora Rossella d’Oriano che a forza vuole tenersi vicino un demone pur sapendo che non è un angelo. Sullo sfondo, il quartiere, e per estensione la città, la vera protagonista di tutti i libri dello scrittore napoletano, con le sue mille atmosfere, infiniti colori e situazioni, ambienti assortiti, assurdi e pittoreschi, infinite suggestioni, ancora più numerose contraddizioni, con un suo quartiere emblematico, Pizzofalcone, che:
“…era tutt’altro che un paradiso, anzi: sapeva diventare un inferno con tanta velocità da lasciare dubitare che fosse mai stato altro. C’erano tante cose da riparare, sistemare…”.
Troppe: una città simile è una citta reale, concreta, pragmatica, mostra perfettamente che bene e male non esistono mai così dichiaratamente, ma tra i due estremi sussistono infinite sfumature di toni e di colori che la rendono unica tra le uniche, vera, reale, sincera, qui come e più che da nessuna parte non esistono angeli e demoni dichiaratamente tali, ma varie combinazioni di questi: ha un vissuto da peggior demone Emiliano Sorbo, spietato boss della locale malavita, che non esita a rischiare in proprio per aiutare un vecchio amico d’infanzia, esattamente come farebbe un bravo angelo. Sembra posseduto da un demone di rabbia l’agente Francesco Romano, e invece è solo un angelo con le ali spezzate, che non desiste dal volo. Ha tutto dell’angelica persona perbene l’avvocato Raffaele Pillitteri detto Fefè, gaudente e ridicolo frequentatore della movida giovanile notturna, ma non è che un povero diavolo, letteralmente.
Vedete, quando piove anche gli angeli si bagnano.
La città se ne accorge, lo racconta a Maurizio De Giovanni, lo scrittore napoletano ascolta attentamente e ce la riporta. Bene, emozionandoci e sorprendendoci, in maniera angelica.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    11 Ottobre, 2021
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Femminile singolare

Oliva Denaro è una adolescente, poco più di una bambina, convintasi che, nel tempo e nei luoghi in cui si dipana la sua esistenza di ragazzina prima e giovinetta poi, il massimo che le è consentito senza vincoli sociali di sorta è esprimere una predilezione, una preferenza, una propensione, e niente altro: vive in un contesto tale che può tutt’al più dichiarare, in segreto ed esclusivamente a sé stessa, di essere “favorevole” o “non favorevole” ad una qualsiasi opzione di vita.
Un auspicio, forse, ma certo non la proclamazione di una decisione, una scelta, un indirizzo, una alternativa da intraprendere. Oliva è femmina, e come tale, sic et simpliciter, per semplice definizione, non appartiene a sé stessa. Da quando può ricordare, e cioè da sempre, si sente ripetere che il suo destino è già scritto dalla notte dei tempi, scolpito nella roccia, immutabile ed inevitabile perché predeterminato non dalla sua intelligenza, volontà, capacità ed opportunità che la vita offre, ma esclusivamente dal suo genere: quello femminile. Siamo nel 1960 a Martorana, piccolo ed in verità misero e depresso paesino della assolata provincia rurale siciliana, qui ed allora il termine “femmina” non è indicativo di genere, ma di ruolo: indica l’obbligata collocazione sociale, il livello inferiore e sottomesso alla Padronanza maschile. L’uomo non è un pari, un compagno, un marito, un padre, un fratello o che, è un Uomo, è padrone, è superiore, può prendere quando desidera e poi, magnanimamente, “riparare”.
E se qualcuna decide di non voler essere “riparata”? Di restare “un brocca rotta”?
Il titolo dell’ultimo romanzo della scrittrice napoletana Viola Ardone richiama subito, direttamente, senza se e senza ma, il nome della protagonista, come a dire che estrinseca immediatamente al lettore il cuore della storia: il racconto edificante della vita di una giovane donna, ed il suo contenuto ideale, costituito da autentici tesori di fermezza, coraggio e dignità, che insieme costituiscono un valore etico non altrimenti monetizzabile.
Capitali e significati ancora più pregiati perché eroici ed esemplari per i tempi ed i luoghi in cui si svolgono gli avvenimenti narrati.
Oliva Denaro è un fiore di donna appena sbocciato, ed insieme a lei qui si narra anche di altri petali del fiore, di altre donne, che nell’insieme costituiscono il sottofondo, il coro greco che fa da colonna sonora alla narrazione.
Risuonano perciò, a volte rauche, a volte stridule, talora cristalline o talaltra spezzate dalle lacrime, tante voci femminili, ad iniziare da Amalia, la madre di Olivia, arida ed aspra per le tante delusioni dell’esistenza, schiacciata dal peso del suo fardello di paure e timori ancestrali.
Segue la sorella Fortunata, costretta al silenzio sottomesso di chi ha confuso ingenuità, fragilità e cedevolezza per amore e passione; poi le amiche, le vicine di casa, le insegnanti, specie quelle davvero tali, come la maestra Rosaria, che educano e lasciano il segno tirando fuori il meglio degli allievi.
Ancora, si menzionano anche le compagne di scuola, e via dicendo altre compagne più importanti e formative, quelle solidali di vita, di consiglio, di supporto, di battaglia: Liliana, per esempio, o Maddalena Criscuolo…emana perciò dal libro un sentore di pluralismo al femminile.
Ma è solo una sensazione, un accenno, questa non è una storia di matriarcato, assolutamente: qui gli uomini ci sono, ed è vero, ritratti spesso nei loro tratti peggiori, maggiormente iniqui e detestabili, ma con qualche lieta eccezione, sorprendente e delicata, deliziosa, affettuosa, paterna e insospettabile.
In verità, qui il plurale non c’entra, questo è un testo declinato esclusivamente al femminile singolare, solo singolare, è la storia stessa del genere femminile che lo richiede, ogni donna si salva da sola, per prima cosa, e dopo tutte insieme.
Oliva perviene giovanissima, purtroppo attraverso un personale, e doloroso, itinerario di vita, all’assioma che, certamente, la solidarietà di genere va richiesta, procurata, ricercata, diffusa, elargita.
Battersi per l’autonomia delle scelte di una donna, e perché venga riconosciuto il loro valore di donna persona e non donna oggetto di angherie e sottomissione, è qualcosa di assolutamente indispensabile per una qualsiasi crescita civile.
Serve farlo però innanzitutto in prima persona, sacrificandosi, mettendosi in gioco, rischiando l’embargo, l’ostracismo, l’esilio, a costo di finire in una presunta “lista nera” nelle chiacchiere della gente, agli occhi dell’opinione pubblica.
Opinione pubblica maschile, ovviamente; quella che negava finanche dignità di lavoro alle donne:
“…E della donna che lavora, che ne pensate? …Qualcuno rideva dando di gomito al vicino, le poche femmine presenti guardavano per terra…”
Solo agire in prima persona conferisce efficacia all’impresa di cancellazione radicale di tutto quanto storto, arbitrario ed arrogante viene imposto dalla casta d’altro genere, spadroneggiante per motivi di tradizioni, usi e consuetudini di comodo, assolutamente infondati, fasulli, illegittimi, diffusi ad arte per opprimere, schiavizzare, vessare.
Spesso, se non sempre, utilizzando la forza fisica, la violenza per prevaricare.
L’input iniziale del cambiamento può essere solo e soltanto singolare: la forza delle donne di ribellarsi e battersi contro abusi, ingiustizie, violenze e vessazioni, di cui sono vittime dall’alba dei tempi, e che perdura ancora oggi come le cronache dimostrano, è sita nella durezza della catena, non di acciaio ma di diamante, che costituiscono legandosi tutte insieme, per resistere e lottare per il cambiamento, tutte sodali come una sola donna.
Tuttavia, ogni anello della catena stessa deve essere forgiato di quel materiale, della stessa tempra e robustezza, non si può permettere nemmeno ad uno solo di essi di avere composizione, forma, convinzione diversa. La rottura di una unità sconvolge l’intera architettura, ognuno perciò deve obbligatoriamente essere un singolo forte, non va mostrato nessun punto debole dove fare leva.
Il femminile singolare è d’obbligo, l’agire in prima persona è requisito essenziale: il totale lo fa la somma, se uno solo degli anelli tentenna, oscilla, non sa decidersi, non osa, allora salta, la catena si spezza, perde l’anello debole, poi sbanda per riallacciarsi, comunque il totale appare deficitario all’appello. Crea un precedente, semina dubbi, paure, incertezze, terreno fertile per la protervia maschile. Nessuna donna può essere lasciata indietro, le problematiche femminili le coinvolgono tutte indistintamente, ma le soluzioni iniziano necessariamente dalle singole reazioni di ribellione, per poi diffondersi a catena, letteralmente, e giungere a tutte.
“Oliva Denaro” è un bel libro, molto ben scritto, con uno stile descrittivo in prima persona, direi a voce alta, chiara, intonata, i pensieri della giovane protagonista riportano esattamente non solo quella che è e quella che diviene, quanto pensa e cosa desidera, le sue emozioni, le paure, le incertezze ed i faticosi distinguo, ma con accuratezza, direi con immediatezza visiva il testo riporta mirabilmente atmosfere, modi di dire e di essere dei tempi e dei luoghi in cui Oliva vive, soprattutto i capitoli riportano precisamente la mentalità corrente, lo stile di porsi tutto biecamente maschile in una società arcaica e medievale, crudele e opprimente per tutte quelle che hanno avuto ”il marchese”.
Il menarca per una giovane è allora una pesante linea di demarcazione, tra l’essere una “piccinina”, comunque un bimbo di rango inferiore, all’essere una “femmina”, un oggetto sottoposto all’unico arbitrio maschile.
“…Da quando sono diventata femmina, sto come sotto una tettoia durante un temporale: non mi allontano per non bagnarmi…”
Da qui, tutta una cappa di comportamenti assurdi ed obbligati che gravano sull’universo femminile, che soffocano la vitalità dell’esistenza femminile già alla nascita, al solo dichiarare l’appartenenza di genere. Perciò questo è, più di tanti reportage storici, un testo esemplare e educativo, delizioso da leggere perché ben costruito, con cura, con attenzione, soprattutto con un pudore, una discrezione, una riservatezza encomiabili; è una lettura scorrevole, piacevole, parla di crescita e maturazione, racconta di emancipazione e di dignità, esalta la giustizia, anche quando difetta la giurisprudenza.
Una storia che parla di amore, certo: ma amore quello vero, come inteso da una donna. Un sentimento intensamente affettivo, che si scambia, non si impone:
“…Chi ti vuole bene non ti strapazza, non ti intimorisce, non ti forza…”.
La vicenda narrata è romanzata, ma casi simili sono veramente accaduti; quindi, non è solo un racconto fine a sé stesso, questo è un testo che arricchisce, che spinge a riflettere, a porsi domande e soprattutto spiega la magnificenza del divenire storico dell’universo donna, ed il prezzo pagato, spropositato ma elargito senza esitare, data la posta in gioco.
Le battaglie delle donne per il riscatto della propria autonomia di vita sono state un’epopea eroica, degne di stima, di rispetto, di ammirazione, l’immedesimarsi induce in chiunque sentimenti affettivi fortissimi nei confronti delle protagoniste.
Credo che qualsiasi uomo con un minimo di onestà intellettuale dopo aver letto “Oliva Denaro”, si inginocchierà in un “woman lives matter”, un doveroso omaggio all’universo femminile.
Perché il problema non appartiene a loro, non è che le donne siano colpevoli di qualche cosa perchè magari vanno in giro con un abito troppo corto, troppo provocante, o che girino sole per strada, il problema appartiene a noi uomini che, vale tuttora per troppi di noi, non abbiamo ancora imparato, o non vogliamo imparare, di non avere alcun diritto di sfiorarle MALGRADO vadano in giro da sole e con gonne corte. Un problema tutto maschile, dipanato dal mondo femminile: non credo che esista altro di più eroico e assurdo insieme.
Ancora non si è spenta la gratitudine di tanti lettori nei confronti di Viola Ardone, per averci già in precedenza deliziati con la lettura di quel piccolo gioiello della recente narrativa italiana che è stato “Il treno dei bambini”: chi lo ha letto ricorderà quel romanzo di crescita e riscatto che vede protagonisti un bambino e sua madre. Anche qui troviamo una storia costruttiva di crescita e riscatto, che vede al centro stavolta una giovane e sua madre, e sua sorella, e le compagne, e le donne…
Ma sia chiaro, “Oliva Denaro” non è affatto una elegia del femminismo, anche se emergono nella scrittura caratteri predominanti tutti al femminile come tempra, fierezza, incisività, soprattutto intelligenza e esemplarità.
E gli uomini non sono tutti cattivi, ce ne sono tanti, e per fortuna sono tantissimi, che sono teneri, gentili, delicati, e servono…a cosa servono?
“…mi hai chiesto che cosa faccio. Questo faccio io…Se tu inciampi, io ti sorreggo.”
Viola Ardone ci offre una storia al femminile singolare, che prima diventa plurale per poi tornare all’unità, perché è la scelta del singolo che compie l’opera di aggregazione.
È un racconto di donne che tutte insieme si dannano per un percorso di crescita civile per tutte le appartenenti al genere, un discorso corale che infine, per logica conseguenza, porta ad un femminile singolare, perché le cose cambino serve l’impegno personale, lo sforzo individuale, la svolta effettuata in prima persona.
“…ci è voluto tempo, ci sono volute donne più combattive di me e tanti altri “NO” gridati più forti del mio, che si sono sommati al mio…”
Trattandosi di una storia di donne, tratta anche della controparte; perciò, è anche una storia della peggiore prevaricazione maschile, e quindi non si contano atti e atteggiamenti di alterigia, insolenza, tracotanza, e la logica violenza che ne deriva.
Sempre il più forte o presunto tale ricorre alla forza quando non si cede alle sue infondate pretese, non ha altri mezzi: per cui è anche un racconto violento. E però:
“…Ogni cosa viene per chi sa aspettare…”.
E lotta per quello in cui crede. Ed insieme ad altre riesce a far abrogare, e finalmente, una norma di legge assurda, abominevole, turpe ed abietta, portando alla definitiva chiusura delle “officine di riparazione”. Vincendo le proprie paure, perché le paure:
“…sono porte che esistono solo fino a quando non abbiamo il coraggio di attraversarle.”
Peccato che, ogni tanto, qualcuno ci prova, ancora oggi, a riaprire abusivamente certe officine, a ripristinare con un femminicidio certe storture.
Costoro vanno combattuti, sono peggio dei talebani, e serve farlo tutti insieme, uomini e donne.



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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    17 Settembre, 2021
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A voce sola

Questo è un romanzo corale, redatto però in uno stile particolare, un fluire ininterrotto del parlato, un periodare collettivo a voce sola, a firma di Kent Haruf, uno scrittore americano che è indicato da molti critici, a mio parere a ben ragione, al livello dei più grandi romanzieri statunitensi, da Ernest Hemingway a William Faulkner, da John Dos Passos a Francis Scott Fitzgerald, da J. D. Salinger a Jack Kerouac, passando per Philip Roth e Saul Bellow.
Come quelli, Kent Haruf descrive con incisività la realtà americana del suo tempo, ritrae a modo suo, con estrema concretezza, l’essenza della sua gente, nel bene e nel male.
Ci fa conoscere l’odierno homo sapiens d’oltreoceano, lo yankee visto nel suo habitat più naturale, quello delle grandi estensioni rurali tipiche della gran parte della provincia americana, come a dire l’americano più vicino allo stato brado, non ancora plasmato dall’opportunismo, dalla frettolosità, dall’individualismo necessari a sopravvivere nelle grandi metropoli statunitensi, dove invece l’uomo medio è costretto a mascherarsi, fingere di essere ciò che non si è, perché troppo spesso in America spostarsi, trapiantarsi dalla provincia alla città, per i motivi più vari, per studio, per frequentare i college, le università, e poi per lavoro, significa trasformarsi in tutt’altro, perdendo la propria impronta originaria, accentuando per difesa solo i lati caratteriali aspri e deleteri.
Allora Kent Haruf per contrappunto analizza la vita vera, in tutte le sue declinazioni, quella in versione ancora genuina, intatta nelle sue caratteristiche, qualunque queste siano, non necessariamente quindi solo quelle idilliache, tutt’altro.
Haruf non fa della morale, trae morale dell’esistenza di quanti ancora non “traviati” dall’esasperata civilizzazione, e perciò ancora americani puri e non spuri, quasi fossero, in un certo senso, diretti discendenti degli indigeni nativi americani, a suo tempo colonizzati.
Descrive allora lo scorrere dei giorni di Holt, emblematica contea, del tutto identica alle tantissime analoghe realtà a tenuta prettamente agricola che, come un immenso patchwork, costituiscono nell’insieme la coperta che si estende a coprire l’intero continente americano.
Coperta il cui tessuto è quindi costituito dai tanti piccoli e grandi paesi, cittadine più o meno vaste, villaggi di poche case, fattorie ed immense estensioni terriere, strade polverose, colline, lunghissimi nastri d’asfalto, motel, miriadi di campi coltivati, in sintesi la grande provincia rurale yankee, il cuore stesso dell’America.
Molti autori, nei loro libri e nei loro film, celebrano l’America on the road: Haruf ci parla di Holt, non si sofferma “on the road” ma sulla “little town” e sui suoi abitanti, così facendo esterna i luoghi e l’umanità dei suoi protagonisti in maniera molto più semplice e chiara, diretta e ruspante, genuina, forse finanche trasparente, certamente priva di fronzoli ed orpelli.
Holt è l’emblema dell’America provinciale, qui il termine “provincia” non ha alcuna valenza diminutiva, indica invece dove origina, forte ed impetuoso, il battito vitale della nazione, quello che ne fa il grande Paese che è, sotto tutti i punti di vista.
Gli abitanti di Holt sono perciò la proiezione di tutti gli americani, con le loro caratteristiche più marcate. Qui si parla allora di tutto, di solitudine e solidarietà, di unione e isolamento, di valori e di viltà, di rinuncia e tenacia, tutti insieme sussurrati in modo piano, anche quando i toni salgono.
Il valore aggiunto della prosa che Haruf, in questo ed in altri suoi libri, pure ambientati ad Holt, sta in questo giungere dal particolare al generale, descrive magistralmente, nei dettagli, il modo di essere tipico di questi luoghi, e di riflesso quello di tutto il resto del Paese.
Per Haruf la grande città altro non è che quanto di esagitato rimane dopo la trasposizione esasperata della provincia da cui deriva.
Perciò ne scrive l’origine, il divenire, il modo di porsi di fronte agli usuali accadimenti dell’esistenza, e lo fa così come va fatto, semplicemente esponendo i fatti crudi del trascorrere dei giorni, a scuola, al lavoro, nelle case, nei campi, nei luoghi di svago, esattamente come avvengono, sospendendo ogni giudizio, astenendosi da ogni considerazione etica di sorta.
Ci parla allora dell’allevamento del bestiame, del comportamento di vacche gravide o sterili, e poi di, vitelli, cavalli, cani, animali da cortile; delle pratiche di inseminazione di queste bestie, dei loro parti, delle loro malattie, finanche nei particolari delle autopsie veterinarie necessarie alla salvaguardia di infezioni. Ed ancora, si sofferma per esempio, cambiando di colpo prospettiva, ma senza scosse, sull’andamento della locale vita scolastica, scrive di aule, lezioni, incontri periodici con i genitori ed alunni, nonché sui dissidi eventuali tra professori e studenti; e continua, analizza il fallimento di unioni o la riuscita di matrimoni, l’instaurarsi felice o meno di legami ed amicizie, lo scaturire di incomprensioni e conseguenti litigi e dissapori.
Non si sottrae a mostrarci il bailamme della vita sociale locale, il tempo libero trascorso nei cinema, o nelle sale da ballo, segue i riti delle bevute nei bar del fine settimana, o i picnic nei parchi e le escursioni in città.
Senza commenti constata l’osservanza, più per abitudine che per fede, delle funzioni religiose, e però seguite in modo costante e assidua.
Ci presenta tipi tristi e pessimi soggetti, brave persone e rozzi campagnoli dal cuore d’oro, ci fa partecipare in prima persona alle sagre ed ai festeggiamenti delle feste comandate, offre alla nostra attenzione euforie e depressioni, gravidanze indesiderate ed insegnanti assai più caritatevoli di genitori chiusi nel loro menefreghismo ipocrita.
Segue i ragazzini nell’usuale pratica americana di addetti alla consegna in bicicletta dei giornali nelle ore antelucane, nonché nei loro giochi, pensieri, sentimenti, tribolazioni di ogni tipo, sempre in prima persona e senza mediazione degli adulti, questo è anche un romanzo di crescita, e non solo dei giovani.
Kent Haruf emoziona, ci fa commuovere, indignare, riflettere, arrabbiare, e lo fa senza sforzo.
Lo scrittore riporta i fatti, ma non interferisce con loro; è un cronista, dispensa il racconto, si presenta quasi come un cantastorie folk, ma non fa distinzione tra buoni e cattivi, fra cose giuste o infamità, tra egoismi e slanci di umanità ed empatia, lascia che le emozioni nascano, le sensazioni prendano, i fatti scorrano, accadano, ce li sussurra all’orecchio, e basta.
Le cose che riporta seguono una loro logica, anche abbastanza comune, usuale, prevedibile, e i tipi umani reagiscono ai fatti secondo la loro indole: proprio per questo, talora ci sorprendono, sono imprevedibili, esattamente come avviene nella realtà.
Haruf è un romanziere che riporta il vivere, il lascia vivere e vivi come ti senti di vivere, poi le conseguenze ne derivano da logica o da sentimento, democraticamente, a scelta.
Lascia al lettore la facoltà di scegliere quale personaggio adottare, per chi simpatizzare, da chi staccarsi, chi lo annoia o chi invece detesta, al netto di ogni altra considerazione che non sia quella personale di chi legge e segue le vicende narrate, esattamente come avviene nella vita reale.
Ambienta le sue storie nella più vera, e genuina, realtà americana, quella della provincia agricola, che tanta ricchezza fornisce al paese e tanti tipi umani esporta, ognuno in qualche modo, e ciascuno a suo modo, forgiati dai cicli della ruralità.
I suoi personaggi vivono motu proprio, si raccontano, questo non è un romanzo di dialoghi, è un dialogo continuo, ognuno che agisce parla, principalmente a sé stesso prima che con gli altri protagonisti, e così dicendo rivela, racconta, si espone, si mette a nudo e insieme si consiglia e si suggerisce sul meglio da fare per stare al suo meglio, proprio secondo la sua indole ed il proprio interesse. Interesse che può essere bieco e meschino, come quello di un genitore di rigorosi principi morali ma freddo, insensibile, arido, ed anaffettivo, o quello di uno studente adolescente, mal cresciuto, viziato, incapace e cattivo che vigliaccamente mostra la sua ignominia rifacendosi sui più deboli. Coinvolgimento che può essere invece anche solidale in maniera tanto burbera quanto commovente, come assicurarsi che una povera ragazza, ospite per bisogno e necessità, abbia coperte necessarie per ripararsi dal freddo notturno, fino a preoccuparsi di procurarle, a proprie spese, la migliore carrozzina per neonati reperibile ai grandi magazzini per l’imminente arrivo di un frutto di gravidanza indesiderata, e però coraggiosamente accettata: qui si vede, a gran luce, il gran cuore dell’America, la faccia bella del paese ospitale ed accogliente.
I buoni nel testo di Haruf non sono tali per definizione, spesso sono rudi e grossolani, insospettabili ed improvvisi, istintivi, ma la loro virtù sta nel rendersi accoglienti, disponibili ad ascoltare e a capire, a immedesimarsi, quindi crescono, migliorano, solo così si evolvono in americani buoni.
Kent Haruf, come i pionieri americani, percorre in lungo e in largo la pianura della provincia rurale nel cuore degli states per tracciare i propri, insoliti e mirabili, estremamente esplicativi, cerchi nel grano. I solchi più profondi non sono tracciati dagli alieni, ma dagli umani migliori, lasciano il segno.
Titoli come il “Canto della pianura” e poi altri a seguire, come “Crepuscolo” e “Benedizione” e altri ancora, più di un testo scritto sembrano uno spartito musicale.
Questo testo, che nella lingua originale suona come “Plainsong”, è un romanzo che canta, letteralmente, è una canzone dolcissima, una poesia in musica, riporta una melodia, quasi una lirica dal ritmo ipnotico, un pezzo lieve, sommesso, a fior di labbra e non a voce spiegata, provvisto di un originale ritmo sereno, tranquillo, discreto. E potente.
Mai pesante, noioso, monotono, tutt’altro, è un canto soft da cantautore alla Bob Dylan anziché uno stile graffiante alla Bruce Springsteen: giusto per intenderci, perché qui si parla di America, la storia si svolge ad Holt, una imprecisata e immaginaria cittadina rappresentativa al meglio di tante analoghe realtà urbane site nel cuore degli states più genuini, quelli a timbro rurale, i soli che più delle grandi città, della grande Mela e di tutte le note megalopoli costituiscono l’America, la sola, unica, essenziale vera America. Perciò serve un brano deciso, ma fluido, non una nenia, o un fracasso, ma una ballata.
“Canto della Pianura” è un canto sottile a voce sola, quasi senza musica, e però armonico, direi a cappella, segue un ordine preciso di note che in attimo prende il lettore e lo accompagna lieve quasi in un volo pindarico sulla pianura del consorzio umano, anzi più in alto, svetta sui monti.
Levita in alto, non permane a livello del suolo, questo è quanto sa fare una buona lettura, in questo eccelle un bravo romanziere come Kent Haruf, un autore che della vita americana ha saputo trarne, come pochi sanno fare, una canzone d’autore sommessa, da sussurrare, in tono lieve, senza accompagnamento, a voce sola. E che ti resta in testa anche dopo, a spartito chiuso.

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Kent Haruf
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    05 Settembre, 2021
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STORIE DI ORDINARIA FOLLIA

Questo è un libro duro, deciso, potente, di quelli che suscitano fortissime sensazioni, tra loro diverse, commuove e indigna, comunque emoziona e ci coinvolge in prima persona.
Perché è diretto, va diritto al punto già dalle prime righe, si vale di una prosa asciutta ed efficace, esauriente ed esaustiva, cruda e crudista, la sola che serve per sciorinare la vergogna di cui si scrive.
L’assoluta protagonista di questo testo è una sola, l’indecenza più infame di cui continua a lordarsi la razza umana: la guerra. E le sue perfide conseguenze.
L’iniquità più vile, quella di origine di Caino e Abele esportata in grande stile in ogni luogo, ancora più disdicevole allorché si tratta non di una guerra tra diversi per varie cause, ma di un conflitto interno, detto assurdamente civile, tra connazionali, di stirpe comune, fino a ieri sodali e poi in lotta tra loro in nome di una pretesa, e pretestuosa, pulizia etnica di sorta.
“…Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di sé stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.”
Vittime innocenti se ne contano a dismisura in una guerra, in qualunque guerra, in ogni tempo ed in ogni luogo, e sono per di più, paradossalmente, i non belligeranti, quelli non solo incolpevoli, ma anche i più esposti, fragili ed indifesi perché ancora in divenire, non posseggono cioè strumenti atti a proteggersi. Primi tra tutti, i bambini.
“…Dio Onnipotente, benedici questi bambini. Qualunque sia il loro crimine, perdonali. Pecorelle smarrite in un mondo abominevole, vittime della nostra epoca corrotta, non sanno quello che fanno...”.
Ma il fragore delle bombe è forte, fa saltare in aria una madre con la sua bimba da poco nata, figuriamoci, difficile anche per Dio riuscire a sentire questa richiesta.
I bambini, un termine questo che li comprende tutti: i cuccioli, i ragazzi, i minori, da zero agli anni della sopraggiunta maturità, che quando e se giunge e li trova ancora in vita, l’età adulta arriva comunque ben prima della maggiore età anagrafica. I bambini: quelli più innocenti di chiunque altro e paradossalmente proprio per questo destinati a subire soffrendo più di chiunque altro, fame, violenze, dolori nel fisico e, soprattutto, graffi indicibili nell’anima. Lividi spesso incancellabili. L’anima di un bambino, una volta infranta, si scheggia, i residui graffiano anche a distanza di tempo. Sono spunzoni di ferro arrugginito ben nascosti, ma acuminati, aguzzi, taglienti. I bambini imparano certo, in fretta e bene, come si usa dire quello che non ti uccide ti forgia, ma le macerie ormai esistono, la deflagrazione lascia solo pochi resti intatti, e solo con quelli ormai distorti e difficilmente ricomponibili possono porsi all’opera per ripartire una volta passata la buriana, ma si sa, ricostruire con i rottami non assicura mai la piena stabilità originaria.
Le fondamenta conservano intatte le crepe, nascoste ma profonde.
Insite nei pensieri reconditi, anche se non ci si pensa:
“…Non penso. Non posso permettermi questo lusso. La paura è in me sin dall’infanzia…”
Prime vittime tra tutti, sopra chiunque altro, sono allora specialmente i bambini: perché al di là dei disagi fisici, l’angoscia, la paura, il terrore, quello che li annienta davvero è l’anaffettività degli adulti.
Il disamore dell’uomo verso i propri cuccioli, l’incapacità di sottrarli agli orrori, di evitarne gli inevitabili abusi conseguenziali alla violenza, un atto che va contro ogni legge di Natura.
L’assenza assoluta di Amore, quello vero, con la maiuscola, a cui chiunque ha diritto, specialmente in tenera età, questo è quanto uccide l’infanzia. La distrugge, la divora, la insozza.
In tempi di guerra, ogni barlume di umanità si spegne, gli stessi congiunti sono indifferenti alla sorte dei minori, è un “ognuno per sé e Dio per tutti”, un “si salvi chi può” quanto mai diffuso e crudele.
La fame e la violenza, il dolore e la disperazione, superati certi limiti, malgrado l’amore ed ogni espediente possibile, ogni rinuncia ed ogni sacrificio a favore dei propri cuccioli, portano uomini e donne, genitori, nonni, tutti ad un punto di non ritorno, allorché esacerbati e inaspriti fino allo sfinimento, giocoforza ognuno può a stento salvaguardare sé stesso, e non altri.
E spesso nemmeno allora.
Un bambino resta solo, anche se ha ancora congiunti in vita, forse proprio allora è ancora più solo, deve cavarsela in proprio, sbrogliarsela al meglio delle sue capacità acuitesi d’improvviso, deve struggersi, arrovellarsi, disfarsi, consumarsi per porsi in salvo. Pagandone il prezzo, salatissimo.
In estrema sintesi, questo è il tema della “Trilogia della città di K.” di Agota Kristof: non è però, si badi, un comune libro che parla di bambini violati dalla turpitudine della guerra, abbandonati a sé stessi, e che tutto malgrado con intelligenza, ingegno, capacità riescono in qualche modo a cavarsela.
Affatto: questo è un testo insolito perché blasfemo, descrive l’Uomo a sua immagine e somiglianza, quando dà il meglio di sé, che coincide sempre con le sue azioni più infamanti, laide, lerce, quando cioè arreca danno all’esistenza dei suoi simili, con tutto quello che ne consegue.
Ecco quindi che la trilogia è un triplice racconto tre volte turpe perché parla di turpitudine, abietto alla tripla potenza perché descrive abiezioni, abominevole con esponente tre perché racconta di situazioni infami, meschine, spregevoli, è un romanzo che non nasce dalla fantasia dell’autrice ma è una cronaca di pazzia, la trilogia della Kristof riporta storie di ordinaria follia, quella che quotidianamente si avvera ogni giorno in qualche parte del mondo, talora neanche tanto lontano, e di cui siamo perfettamente al corrente, non facciamo più una piega, ne siamo indifferenti perché ormai assuefatti ad ogni forma di conflitto armato, di per sé stesso sciagurato, sozzo, sporco, e di cui ci sdegniamo fieramente vedendo i piccoli bimbi spauriti, sporchi, terrorizzati che si aggirano in lacrime tra le esplosioni…purché il tutto avvenga abbastanza distante da noi.
La Kristof non fa romanzi, sciorina un elenco di fatti: perciò la sua prosa è secca, asciutta, non perde tempo né sciupa pagine per arzigogolare o dare sfoggio di cultura o di sapienza narrativa.
Inizia raccontandoci di due bambini gemelli, perfettamente uguali tra di loro nel fisico e nell’animo, due metà speculari e complementari, uno yin e uno yang infantile, abbandonati a se stessi e costretti a cavarsela da soli in un mutuo soccorso che esclude giocoforza chiunque altro estraneo alla loro ristretta duplice cerchia genetica: non perché siano privi di empatia umana, tutt’altro, ma perché il rinchiudersi in sé stessi è un’arma, forse l’unico espediente possibile alla loro età per la propria salvaguardia fisica e mentale. Trovano unico rifugio, salvezza e conforto in sé stessi: non a caso l’autrice racconta di due gemelli, perché intende far risaltare in doppia copia tutta la brutalità la crudeltà, l’efferatezza a cui i due bimbi sono esposti, innalza al quadrato tutta la violenza e l’oscenità insita nella privazione dell’infanzia a cui sono costretti. Parimenti non a caso per tutta la prima parte i due bimbi non hanno un nome che li distingua, verranno citati molto in seguito, perché sono l’incarnazione a doppio esponente di tutta la sofferenza patita dai propri simili, e l’orrore di per sé è ad un tempo universale e indescrivibile, non necessita perciò di nomi propri.
Tutte le afflizioni, le angosce, i patimenti, sono uno strazio che gli stessi bambini non sanno esternare, per una forma di innocente ed ingenuo pudore, ne hanno fatto eventi usuali della loro esistenza che almeno in apparenza passano senza lasciare strascichi o turbe di sorta, può essere riportata solo in gran segretezza in un grande quaderno, gelosamente celato a chiunque.
La prova più grande a cui saranno sottoposti è la loro separazione, l’evento certamente più traumatico, violento e conturbante a cui possono essere sottoposti due metà di un’unica essenza: ma non esitano a compierla per assoluta necessità di sopravvivenza personale. Ad ogni costo, a qualsiasi prezzo: finanche passando per un campo minato nell’unico modo in cui è possibile farlo, facendosi precedere da altri e utilizzandoli come guide sacrificali per segnare il cammino sicuro. Fa niente che si tratti di congiunti stretti. Si separano: ognuno rinuncia ad essere il custode di suo fratello, ad un pezzo di sé.
Tutti questi choc non passano senza lasciare tracce, in qualche modo serve mentire a sé stessi per mantenere un minimo di sanità mentale: puoi allora costruirti una menzogna, poi una seconda, poi una terza. Per concludere con un unico assioma: gemelli o no, l’orrore è unico, individuale.
Perchè ognuno non ha che una sola esistenza, e quella vive: se è una vita segnata dalla violenza, prima o poi l’assurdità si trasmuta in verità, il delirio in chiarezza, l’anomalia in coscienza.
Lo dice Lukas al gemello Klaus:
“…Hai dimenticato quanto ci amavamo? Io non ti ho dimenticato, Klaus.”
E Klaus risponde altrettanto chiaramente al gemello Lukas:
“Nemmeno io. Ma non serve a niente rivederci. Non lo hai ancora capito?”
In sintesi, puoi divenire il maggior poeta del Paese, ma non trasmutare in candore e innocenza storie di ordinaria follia. Tanto vale andarsene. In treno.
“…Il treno è una buona idea.”

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    21 Agosto, 2021
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Notti magiche, inseguendo un gol

Da poco abbiamo terminato tutti insieme noi italiani, ritrovatici festeggianti con entusiasmo, stringendo in pugno i tricolori per le strade, e finalmente direi, per la prima volta post pandemia, possiamo permetterci di gioire in compagnia per la vittoria in finale della nostra Nazionale di calcio, in occasione degli ultimi campionati europei.
Come d’uso in tali circostanze, i media hanno rievocato con articoli, foto, video d’epoca analoghe trionfi in cui gli italiani sono scesi festanti in piazza per cause pallonare, elencando i maggiori allori calcistici conquistati in precedenza.
Spiccano tra l’altro quattro titoli mondiali: uno di essi, quelli organizzati in Francia nel 1938, rappresentano la location e l’evento che costituiscono la cornice in cui è ambientato il romanzo di Leonardi Gori “La finale”.
Proprio la finale del campionato del mondo di calcio del 1938 disputata a Parigi, che vide la nostra nazionale trionfare, bissando il titolo conquistato quattro anni prima in Italia.
C’è da dire però che non tutti i tifosi italiani di allora ne furono lieti, voci di dissenso, qualche disappunto e qualche mugugno si levarono apertamente, malgrado nel cuore di ognuno ci fosse, ben celata, un’evidente letizia e soddisfazione per la vittoria della nostra squadra.
Dopo tutto il tifo crea una dipendenza formidabile, ma una certa contrarietà aleggiava comunque in molti, esclusivamente per motivi politici, certo non legati alla contesa sportiva in sé.
Per le strade, infatti, non echeggiavano le note dell’inno di Mameli, o un qualche analogo d’epoca di “notti magiche, inseguendo un gol”, bensì le canzoni schiettamente di parte quali “Giovinezza” e “Faccetta nera”, ritornelli e slogan pressoché obbligati in pubblico, sono quelli gli anni bui del consolidarsi inarrestabile del fascismo in Italia e del nazismo in Germania, con le tragiche evenienze future che ne conseguiranno.
Dei drammi futuri a venire se ne era avuta un’ampia e cruenta avvisaglia, i futuri scenari antidemocratici e dittatoriali in via di completa e pericolosa affermazione esternavano la loro natura già dai fatti della guerra intestina nella vicina Spagna.
Dove da poco infuriavano sanguinosi gli scontri tra i falangisti di Franco, apertamente appoggiati senza economia di risorse di ogni genere dalle potenze assolutiste, a loro volta vanamente contrastati dai meno riforniti ed equipaggiati, anche meno concordi tra loro e male coordinati, dissidenti del Fronte di Opposizione Popolare, in cui soccorso erano pervenuti i comunisti filosovietici e i volontari della libertà, raccolti nelle Brigate internazionali.
Perciò agli italiani fuoriusciti in Francia perché dissidenti, riparati in esilio oltrefrontiera giusto per sfuggire ai rigori ed alle condanne del regime, ma in generale a tutti i francesi e a quanti avevano a cuore le libertà democratiche, non era completamente gradita l’affermazione dei calciatori definiti “i ragazzi di Mussolini”.
Malgrado si trattasse di bravi ed affermati campioni come Meazza e Piola, già il particolare, per portare un esempio, che entravano in campo in camicia nera, schierati a centrocampo, esibendo al pubblico dei tifosi il braccio levato in alto nel saluto fascista, contribuiva ad accendere certe antipatie, infiammava gli animi di quanti perseguitati dal braccio armato della dittatura, alimentava l’astio dei non allineati.
Platealmente si gufava, si tifava conto malgrado la comune nazionalità, perché i successi calcistici italiani inevitabilmente si traducevano in gratuita propaganda, accresceva il gradimento nel popolo, in definitiva si risolveva tutta in pubblicità e consenso per il regime totalitarista.
Da qui derivavano fischi, proteste, contestazioni tra gli stessi tifosi, disuniti non dal valutare le gesta atletiche in campo, ma dalla scelta di campo politica a favore o contro.
In questa atmosfera così ben riportata in questo libro dal suo autore, un clima particolare, surreale, caotico, certo festante per lo più, ma soprattutto contraddittorio, esultante e dissidente ad un tempo, agisce l’ex ufficiale dei carabinieri, ora funzionario dei Servizi di informazione militare italiana, Bruno Arcieri, protagonista seriale di alcuni tra i più fortunati romanzi dello scrittore fiorentino Leonardo Gori.
Quello che caratterizza l’insieme di questi racconti, che coprono l’arco temporale che va dagli anni Trenta fino ai tardi anni Sessanta, è proprio il personaggio principale.
L’autore, infatti, ha fatto di Bruno Arcieri un testimone del tempo.
Un acuto osservatore, un testimone serio, onesto, imparziale ed attendibile, un teste efficace ed affidabile, che meglio non si potrebbe.
Quasi una telecamera nascosta, che vaglia ogni particolare: dato il suo ruolo, tra l’altro visto in divenire con il progredire della sua carriera professionale, Arcieri gode di una visuale privilegiata che comprende i fatti storici essenziali e concreti degli anni che lo vedono agire, per esempio la visita di Hitler a Firenze prima della guerra, oppure la tragica esplosione della bomba terroristica in piazza Fontana a Milano nel 1970, o appunto lo svolgersi del campionato mondiale di calcio in Francia.
Tutti eventi realmente avvenuti, sui quali Gori incastra abilmente quelli frutto della sua scrittura, vi inserisce racconti ammantati certo di fantasia, ma di verosimile immaginazione.
Sopra ogni altra cosa però, è proprio tramite Arcieri ed il suo ruolo particolare che risaltano sottolineati, direi evidenziati a penna, come non mai gli antefatti, veri o presunti tali, i precedenti, i trascorsi, affascina nei libri di Gori proprio il permetterci di sbirciare dietro le quinte, rivelarci quanto tenuto nascosto e ignoto ai più.
Leonardo Gori scrive pertanto non gialli o enigmi polizieschi di per sé, espone il comportamento di una comune, brava persona, un uomo retto e di valori, di fronte ed eventi storici che hanno caratterizzato la sua esistenza.
L’ autore fiorentino ha uno stile di scrittura oserei dire grafica, fumettistica, sembra esprimersi con immagini scritte, racconta in maniera molto descrittiva.
A comprova di quanto appena detto in questo libro, indugia incredibilmente su vie, strade e posti di Parigi non come una guida turistica, ma meglio e più di un nativo del posto.
Vale a dire che ha compenetrati gli ambienti, conosce i luoghi, maneggia a suo agio i fatti reali di cui narra, poi su questa base minuziosamente documentata riporta le gesta del suo protagonista.
Per suo tramite ci immerge nelle atmosfere, nel clima, negli ambienti e nelle sensazioni del tempo narrato. In sintesi, ci parla di come eravamo, cosa è successo, come e cosa siamo diventati.
Il tutto mai di parte. Bruno Arcieri infatti è, sostanzialmente, un uomo equilibrato.
Fa parte delle istituzioni, ma non è un aderente al regime, meno che mai un simpatizzante del fascismo. Non tradisce il suo Paese, esegue gli ordini, obbedisce ai superiori, però non esita a continuare a pensare con la sua testa, con assoluto buon senso:
“…Quando ascoltava i discorsi del Duce, alla radio, provava solo una sottile inquietudine, un disagio che era soprattutto una forma di rifiuto estetico, epidermico...”
Per questo va controcorrente, segue cuore e passione, ma senza ostentazione, con equilibrio, con basso profilo: ama uno stile musicale inviso al regime autarchico, ma non per questo si esime dal ricercare i dischi proibiti ed ascoltare pezzi di musica jazz.
Non gli piacciono le leggi razziali che considera un abominio, ma tutto questo a prescindere dal fatto che l’amore della sua vita, Elena Contini, è una giovane ebrea.
Ne deriva che è un uomo cocciuto, testardo, spesso incline ad agire di testa sua: ma è anche una persona intelligente, riesce comunque a venire a capo delle vicende ingarbugliate, come quest’ultima, in cui risulta invischiato.
Utilizzando come arma esclusivamente la ragione ed il buon senso, una certa spavalderia ed una correttezza di modi, determinazione, fierezza ed integrità morale, frammista ad un’indole di pura fiorentinità.
Ne “La finale” di Leonardo Gori al protagonista Bruno Arcieri si rappresenta, semmai ce ne fosse stato bisogno, che quel regime, in cui si vede costretto a barcamenarsi, è un percorso agli sgoccioli, che si sta dirigendo ad un brutto finale: e se ne accorge valutando gli uomini al servizio diretto o indiretto del fascismo: bugiardi, traditori, voltagabbana, falsi, sleali, perfidi.
Che basano il loro agire sulla violenza, sul sotterfugio, sulla tortura, sulla repressione, in sintesi esclusivamente sulla paura, certo non su valori condivisi:
“…l’OVRA…l’Opera Volontaria per la Repressione dell’Antifascismo…come avevano fatto a paralizzare l’attività dei fuoriusciti…quelli che non controllavano erano bloccati dalla paura di avere una spia in ogni conoscente, in ogni compagno o amico, perfino nei congiunti…”
Con persone così infide, senza valori, pregi, ideali, Bruno Arcieri, valente ufficiale dei Carabinieri, uomini per definizione di specchiata virtù ed integrità di valori di lealtà, comprende che non si va da nessuna parte.
Niente notti magiche di lì a venire, ma buie, stregate: un triste finale.



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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    19 Agosto, 2021
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Discendenza diretta

Le favole incantano i bambini, e non solo loro, specie se ben presentate, essenzialmente perché presentano un’immagine edulcorata della realtà.
Rassicurano, infondono ottimismo, fiducia, speranza.
Nelle fiabe la distinzione tra bene e male è netta e precisa, neanche si considerano le infinite sfumature ed i distinguo tra i due estremi; perciò, già solo da questo si comprende che è uno stato di fatto improponibile, una realtà utopica, però non per questo smettono di produrre un loro fascino.
Per quanto le trame appaiono inverosimili, gli eventi inevitabilmente prima o poi si incastrano al posto giusto secondo la morale corrente, magari con l’intervento di una qualche forza del Bene che irrompe al momento giusto, i cattivi di turno sempre ne escono sconfitti, il lieto fine è immancabile, se non inesorabile, lo ribadisce con costanza ogni volta il rigo finale: “…e vissero tutti felici e contenti”. Gran bella cosa, indubbiamente, di favole se ne sente il bisogno, fosse solo per rincuorarci.
Le cose nella vita reale vanno assai diversamente, purtroppo o per fortuna, tant’è che le prime versioni delle fiabe più popolari, nella loro stesura originale, erano molto più crude, violente e truculente, affatto adatte all’infanzia candida ed ingenua, ed infatti non a quella destinata nelle prime intenzioni.
Fatto sta che nelle fiabe le donne sono tutte belle, brave, buone; regine e principesse, o che lo diventeranno, tanto dolci e delicate e dai lineamenti gentili, dai capelli a boccoli d’oro che nessuno avrebbe l’ardire di tirare con cattiveria, e gli uomini sono sempre e soltanto principi affascinanti, dai sani valori, incapaci di fare del male a qualunque donna, cavalier serventi che quasi non osano sfiorare tanta beltà se non con un bacio rivitalizzante.
Appunto, sono favole.
Questa premessa serve per esplicare al meglio la Biancaneve del titolo di questo bel libro della scrittrice bolognese Marilù Oliva; il notissimo personaggio della favola per eccellenza è qui usato come un emblema, quello della reale condizione femminile, scandito per discendenza diretta tra varie figure che agiscono su piani temporali diversi nel secolo per eccellenza.
Una storia di donne, donne scalfite per motivi diversi, qualcuna letteralmente scorticata nell’anima, un racconto accorato e accurato nei particolari documentati, che origina dal buio, dalle tenebre della ragione, per giungere fin quasi ai nostri giorni. Un libro che consiglierei da adottare nelle scuole.
Un lavoro elaborato bene, con una prosa fluente, termina come deve terminare, non con un lieto fine, nella gioia o in piena luce, che sarebbe un evento solo favolistico, ma più realisticamente si conclude in maniera concreta, con la ricongiunzione, il ritrovarsi e il riconoscersi, con un ripartire nell’unico modo efficace possibile, insieme, come solo le donne sanno e sono in grado di fare.
Perché detengono un potere unico, un privilegio che non è mai una condanna, la maternità.
Sono madri, possono esserlo, lo diventano, magari anche loro malgrado, e questo le immunizza tutte, popolane e principesse, le rende in grado di risvegliarsi in autonomia, anche dopo che le vengano propinate più di una mela avvelenata.
Questo è un romanzo che discetta sulla maternità, su madri e matrigne, figlie e figliastre.
Biancaneve della favola è una creatura candida e buona, vessata da una matrigna, soccorsa infine in rapida successione da un cacciatore dal cuore tenero, da sette nani operosi, da un principe dal fascino taumaturgico, insomma tutti uomini senza i quali la sventurata ragazza non avrebbe scampo.
L’ultimo lavoro di Marilù Oliva, professoressa di lettere in un liceo di Bologna, insegnante prestata, e direi molto bene, alla narrativa, è invece tutta un’altra storia, del tutto reale, un racconto oserei dire pedagogico, brioso, agile, spedito, che passa con uguale disinvoltura e pari efficacia descrittiva e dialogata tra linee temporali diverse, lontanissime solo in apparenza le une dalle altre, origina per discendenza diretta dagli anni dell’ultimo conflitto mondiale fino ad epoca più recente.
Una trama rafforzata, tant’è che di Biancaneve ne conta due, una più antica, Lili, una sorta di Liliana Segrè, una ex reclusa nei campi di sterminio, vittima senza nemmeno essere ebrea, sopravvissuta alla più grande barbaria del secolo, e una più recente, Bianca, prototipo delle giovani d’oggi impegnate in prima linea a difesa delle moderne barbarie odierne, le violenze di genere.
Per ambedue la vita è stata matrigna, ognuna ha avuto uomini nella sua esistenza da cui ha avuto certamente amore e tratto supporto all’occorrenza, il proprio papà per Bianca, oppure il compagno Elio per Lili, però nessun uomo è servito compiutamente, e da solo, al loro soccorso, l’epoca delle favole è tramontata da un’eternità, la matrigna non ha più ragione di essere, e se lo è, è solo perché è lei stessa una vittima, una figliastra prima ancora di vedersi affibbiata una figlia.
Figuriamoci un principe azzurro, che tra l’altro nella versione originale della favola non ha alcun ruolo attivo nel risveglio coatto, esercitato casualmente da uno scossone:
“…avvenne che i servi inciamparono in uno sterpo e che, per l’urto, il pezzo di mela avvelenata che aveva soffocato Biancaneve le uscì dalla gola e lei si risvegliò.”
Oggi come sempre, e tutta la produzione letteraria di Marilù Oliva è lì a ribadirlo, le donne si salvano da sole, se solo lo vogliono e gli si permette liberamente di farlo, non necessitano di nessun uomo, meno che mai di un principe.
Loro di per sé sono Regine di sé stesse, perché sono madri anche se indossano la veste di matrigna.
Da sole si salvano le protagoniste di questo libro, ciascuna pagando un suo prezzo, totale e totalizzante, ambedue unite senza saperlo, e infine riunite a compimento di un ciclo vitale tutto al femminile. Questo non è un racconto di donne diverse in epoche differenti, invece trattasi di un unicum, un veleggiare tra un presente difficile ed un passato atroce, tra usuali tragedie odierne, per esempio tossicodipendenze, stragi terroristiche, mostri di Firenze e compagni di merende, drammi e tradimenti familiari, e il sottofondo altrettanto tragico ma certo non usuale, per fortuna unico, disperatamente inammissibile, con strascichi ancora attuali, del più vile abominio dell’uomo sull’uomo, quello dell’olocausto, tanto orrido e tremendo da immobilizzare l’intervento riparatore di qualsiasi dio della terra e dei cieli:
“…ogni benedetto giorno io torno agli anni della guerra, quando vennero permesse atrocità che nemmeno Dio perdonerà mai.”
Con uno spot su un ulteriore degrado a carico dell’umanità di genere, come quello esercitato nel Sonderbau, la casa delle bambole distrutte, il bordello dei campi di concentramento, ad utilizzo esclusivo per il piacere dei kapò, delle SS e dei peggiori aguzzini che mai si videro transitare in quei luoghi di abiezione totale:
“…una sezione trascurata fino ad oggi anche dalla storiografia ufficiale, i bordelli dei lager. Pochissime donne che vi hanno lavorato hanno deciso di lasciare testimonianza, per una questione di pudore, di vergogna, di rimozione.”
Nessuna favola inventata eguaglia quell’orrore, al peggio non c’è mai fine, se sei passato per tua sfortuna per un girone infernale in cui i semplici dolori fisici rappresentano una realtà idilliaca:
“…Ci si abituava alle botte, perché lì batteva chiunque avesse un barlume di potere e più si scendeva verso il basso di quella mefistofelica gerarchia più si bussava forte.”
La storia inizia presentandoci la giovane Bianca, quando è ancora una bambina dolcissima, innamorata persa del suo papà, che lei vede come il suo baluardo contro la scontrosa anaffettività della propria madre Candi, che del personaggio dei cartoon d’epoca degli anni ’80 ha casualmente solo il nome. Prosegue con efficaci flash back, oserei dire in bianco e nero per la loro chiarezza descrittiva di fatti e personaggi d’epoca, che ci presentano l’altra protagonista, l’alter ego più grande di età, l’ancora ragazzina Lili costretta suo malgrado a nozze combinate con un uomo che non l’ama e non può amarla, neanche può in qualche modo offrirle rifugio e protezione durante la tempesta nazista che si abbatte sull’Europa degli anni ‘40.
Perciò non lasciatevi fuorviare dal titolo, qui si racconta di ben altro che di favole con candide fanciulle dalla pelle bianca come la neve, placide belle addormentate in attesa del deus ex machina, naturalmente un uomo, senza le quali le sprovvedute mai emergerebbero dal loro sonno secolare.
Questo è un testo drammatico perché vero, descrive semplicemente la realtà dell’esistenza, che non è talora madre ma più spesso, lei sì cattiva matrigna, dotata della stessa disumanità delle matrigne delle fiabe. La vita per qualcuno è una matrigna, che troppo spesso, con troppa frequenza per essere un caso, mostra il suo volto più severo, il disamore maggiore, il lato più duro, sofferto e violento nella quasi totalità dei casi come una sorta di appannaggio esclusivo per il genere femminile.
Questo sempre, da sempre, le donne pagano il prezzo maggiore, in tutti i tempi ma mai in maniera tanto eclatante e documentata come nel Novecento, secolo di grandi eventi, di grandi donne, di grandi guerre e di infinite atrocità, non un secolo ammodo per le ragazze, diciamolo.
Rendere al meglio l’epopea delle donne in questo tempo così difficile risulta arduo con una sola protagonista, per questo la scrittrice ce ne offre due, la giovane bolognese Bianca e l’ottuagenaria Lili, in linea diretta voci narranti a capitoli alterni e che tessono i fili della trama intarsiando un magnifico arazzo compiuto, svelato nella sua magnificenza, in tutto il suo ordito intersecanti più esistenze, solo negli ultimi e struggenti capitoli finali.
Solo di sfuggita il libro è incentrato sulla figura di Biancaneve, una delle favole più note e popolari, ma di fiabesco questo libro non ha niente, questo è un racconto di vita reale, narra di donne vere e non vissute solo sulla carta, davvero un bel romanzo, ben scritto, avvincente e appassionante, non un’elegia del femminile ma una cronaca al femminile, un libro scritto da una donna per le donne, perciò non verosimile, ma concreto, reale, vissuto, la scrittrice è padrona del suo scritto, sa benissimo di cosa sta parlando, dirà lei stessa che non è uno scritto autobiografico ma è altrettanto vero che se lo fosse. Marilù Oliva prende in pugno l’esistenza delle sue protagoniste, non ne decanta la storia, la fa vivere facendola raccontare da loro stesse in prima persona. direi che è solo il pretesto per l’autrice per ribadire, proseguendo sulla falsariga della sua precedente produzione libraria, che l’esistenza per alcuni, e per le donne in particolare, non è facile, specie per le donne l’esistenza, e non per loro colpa, è matrigna. Una matrigna come quella di Biancaneve, appunto, che persa dietro il ribadire la propria supremazia estetica, non esita a richiedere di estirpare il cuore della rivale: ma questo accade esclusivamente per un destino a ritroso, colei che richiede un tributo a sua volta è stata vittima di un sacrificio, forse non ha dovuto sentirsi strappare il cuore, ma una chioma fulva sì, tirare i capelli alla propria figlia è un modo come un altro di esorcizzare il ricordo di un abuso identico, e questo a sua volta deriva da una violenza perpetrata in un luogo dove l’inferno presentava la sua faccia migliore.
Nessuno sta solo sul cuore della Terra, tutti abbiamo bisogno di amore.
Le donne lo sanno, sono tra di loro legate per discendenza diretta:
“…ciò che accade al filo d’erba, è inscindibile dall’intera foresta.”
L’amore è necessario per una crescita rigogliosa, sempre, finanche quello di una matrigna, non è detto che sia il peggiore, anzi, spesso è vero il contrario, dopotutto anche una matrigna è una madre.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    18 Agosto, 2021
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Uomini e no

Giovanni Di Dio, malgrado il suo nome possa suggerire di primo acchito l’immagine di un uomo buono, empatico, timorato di Dio, dotato di una viva spiritualità, e di una appartenenza intensiva al Creato ed all’umanità, è in verità tutt’altro.
Un uomo di mezz’età abbondante solo, solitario, appartato, isolato ed isolatosi dal mondo reale e dai suoi abitanti, per questo triste anche se non sa neanche di esserlo, anzi, pare pure soddisfatto di questo suo tran-tran.
Auto rifugiatosi nella bambagia del “non vivere”, da lui confuso con il quieto vivere che è invece tutt’altra cosa, perciò quasi dimenticato dai suoi simili, una presenza inosservata, talora fastidiosa come un moscerino, e però ininfluente, un elemento del quotidiano insulso e abitudinario.
Un uomo anche pusillanime, pavido e codardo, come tutti coloro che si rifiutano di crescere, lottare e maturare: non è un ritardato o un traumatizzato nell’infanzia per cause a sé esterne, la sua è stata un’esistenza normalissima, semplicemente non ha alcuna voglia di darsi da fare come chiunque per gestire i fatti usuali dell’esistenza, si sente un pesce fuor d’acqua se non si trova al sicuro nel bozzolo che si è costruito da sé, sfuggendo certosinamente all’interagire sociale.
In maniera simil patologica ha rinunciato ad essere un uomo come tutti, teme la vita, i necessari travagli e le usuali tribolazioni dell’esistenza, per quanto il suo vissuto d’origine sia semplice, viene da un ambiente popolare, da una famiglia umile e modesta, ma provvista di un minimo di dignità, almeno tali e capaci sono gli altri membri della sua famiglia. Parliamo di famiglia di origine, poiché dati i presupposti Di Dio una sua di famiglia, una moglie, una compagna, o almeno una ragazza, un rapporto non lo ha mai vissuto e coltivato, la sua è una realtà affettiva esclusivamente onirica e digitale, trova un qualche sfogo solo al computer visitando siti web di cui occulta vergognosamente la cronologia. Tanto per capirci, e capirlo.
Un immaturo, uno che è restato un adolescente mai cresciuto, inetto, incapace e complessato.
Può vivere in questo modo insulso, può e riesce a farlo solo perché supportato in questo dai propri parenti, nello specifico trattasi di un matriarcato ampliato, che lo tollera per un malinteso senso della famiglia. Essendo l’unico figlio maschio, con un padre invalido ed afflitto da demenza, le redini dell’esistenza sua sono saldamente in mano a madre, sorella, zia, vicine di casa, insomma un gineceo al potere che lo ha declassato al ruolo di ingombro da sopportare, un evento disgraziato anche da supportare data la manifesta incapacità di intendere l’esistenza, di cavarsela da solo nelle incombenze più banali e gestire comunemente gli atti quotidiani.
Come dire, Giovanni Di Dio avrebbe volentieri fatto a meno del venire al mondo, troppa fatica, troppa responsabilità, troppo pretese, nessuna gratificazione, lui letteralmente non ci voleva venire.
Perché il buon Giovanni, protagonista assoluto dell’ultimo romanzo di Roberto D’Alajmo, è un siciliano, ha cinquant’anni, portati male, al limite dell’obesità, e se i suoi conterranei come Vittorini delineavano l’umanità in uomini e no, oppure come Sciascia che ne faceva fare da un suo personaggio una elenco più particolareggiato, distinto in uomini, mezzi uomini e via a scendere in basso, ebbene Di Dio si tira fuori volontariamente dal consorzio umano, se ne pone motu proprio, d’istinto e a ragione, nei ranghi più bassi della scala sociale.
Non perché sia un asociale in senso stretto, in quanto un minimo di contatto riesce giocoforza a salvaguardarlo con chi ha d’intorno, anche con i non appartenenti alla sua stretta cerchia familiare, ma perché è un ultimo, uno sconfitto, un vinto dalla vita, un perdente nato, uno di quelli che già da bambino veniva declassato con irrisoria facilità ultimo nei giochi e nei ruoli.
Come può un individuo del genere, non cattivo ma ignavo, completamente privo di amor proprio e di spina dorsale, procacciarsi il minimo per sbarcare il lunario, guadagnarsi un reddito, se anche i suoi studi e la sua formazione professionale risentono della sua ritrosia a impegnarsi e mettersi in gioco?
Ovviamente chiedendo aiuto, ricorrendo con petulanza a chi bada a lui, seppur malvolentieri, la propria madre; e costei, povera donna, vittima a sua volta del retaggio culturale dei luoghi e dei tempi, pensa bene di rivolgersi all’autorità costituita, la sola sempre presente sul territorio, su tutto e tutti vigilante, in grado di provvedere: il piccolo boss malavitoso locale, detto lo Zzu.
Giovanni Di Dio è troppo inetto, maldestro, incapace per essere finanche arruolato nella malavita; troppo bamboccione, troppo grande, grosso e fessacchiotto per svolgere un qualche ruolo illegale, per cui lo Zzu provvede a procurargli un posto fisso, dopotutto per il suo prestigio deve provvedere anche agli incapaci del suo dominio, per cui Giovanni viene assunto già da giovanotto in pianta stabile come guardia giurata notturna presso un’agenzia di vigilanza.
Esercita così diligentemente la sua professione, lavora di notte, con tanto di divisa e pistola d’ordinanza, e dorme di giorno, attività temporale maggiormente consona al suo modus vivendi.
Tutte le notti fa tranquillamente il giro di negozi ed attività che si sono affidate alla sua agenzia per vigilare a pagamento sulla sicurezza delle loro aziende, sempre senza intoppi o complicazioni, tanto che si apparta spesso a schiacciare un pisolino nell’auto di servizio tra un giro e l’altro.
Tutto questo per oltre venti anni: quello che Giovanni non sa, non capisce e non vuole capire, per ingenuità e per fessaggine, è che il suo è un lavoro di comodo, una facciata, l’agenzia di vigilanza è una proprietà mafiosa, un modo legale con cui i commercianti devono sottostare all’odioso pizzo per continuare la loro attività, omettendo il quale restano senza vigilanza, vale a dire senza protezione mafiosa. Un sempliciotto come Di Dio è quanto serve per dare una parvenza innocua e legale al tutto, nemmeno si chiede come mai allorché un’azienda disdice il contratto di vigilanza, a lui venga perentoriamente ordinato di escluderla dai suoi giri inutili, e intanto immediatamente la sede dell’azienda, guarda caso, subisce furti, incendi, disgrazie varie al punto da richiedere il ripristino degli accordi, divenuti intanto più onerosi, e Di Dio è sempre più convinto che è la sua solerte vigilanza, che si estende di nuovo all’azienda pentita, a tenere lontano i malintenzionati.
Una beata incoscienza, un andazzo regolare che va avanti per anni, ma certe cose, certi legami, certi favori, a lungo andare si ritorcono contro, viene il momento per cui lo Zzu, in silenzio per anni, convoca Di Dio chiedendogli un servizio per suo conto, a ripagare il favore concesso a suo tempo, l’avergli trovato un’occupazione stabile e duratura, assicurandogli il pane quotidiano.
Non sono richieste da cui ci si può esimere, questo finanche Di Dio lo capisce, e se non lo capisce glielo fanno capire in famiglia. Di quale favore si tratta? Nulla più che indagare sulla scomparsa di una giovane, una comune brava ragazza del quartiere, misteriosamente scomparsa e inutilmente ricercata da parenti, amici, autorità.
Un boss mafioso, per quanto di piccolo cabotaggio, non può permettere che sul suo dominio qualcuno sparisca senza che lui ne sappia nulla, o meglio ancora che lui non ne abbia organizzato la scomparsa. Questo è un segno di debolezza, di incapacità, certi ruoli vanno difesi contro le pretese delle nuove leve ansiose di prendere il potere, per cui lo Zzu si rivolge a Di Dio, che dopotutto ha divisa e pistola, è una specie di poliziotto, e soprattutto gli deve un favore grande come una casa, senza metafore, gli deve la vita, incaricandolo in gran segretezza di indagare e riferirgli quanto scoperto.
Sarebbe come incaricare l’obeso Fracchia di una atletica mission impossible, ma tant’è, tanto passa il convento, in mancanza di meglio ci si appella a tutto, e poi talora i miracoli accadono.
E da qui il romanzo elenca tutta una serie di eventi, tragicomici certo, visto il personaggio di Giovanni Di Dio, ma più dichiaratamente assurdi, anche scontati, talora surreali, sempre farseschi.
Con questo romanzo, Roberto Alajmo ha certamente voluto sottolineare con una sottile vena sarcastica l’assurdità, l’irragionevolezza, la stravaganza di un modo di vivere simil delinquenziale, basato sul timore ingannevole, la reverenza irragionevole, le tradizioni abusate, il millantato credito; ci si chiede se davvero vale la pena, in certi casi, di intraprendere un’esistenza criminale e criminosa al di fuori della legge, a rischio della libertà personale, per non dire di peggio, cosa in effetti spinge certuni a percorrere una via che non porta palesemente da nessuna parte.
Delinquere può avere parecchie motivazioni, quella più comune è il facile arricchimento, il profitto senza sforzo, il crearsi una posizione di gloria e di potere a discapito altrui.
Ebbene, tutto questo ha un costo, in termini di tempo, impegno, salute e stress che se esaminati nel dettaglio, a conti fatti ad una persona conviene mille volte impegnarsi ad emergere in virtù di fatica ed impegno svolti onestamente, guadagnandone molto di più in termini di resa pratica, senza nemmeno incorrere nei rigori della legge.
Come dire, il delitto rende, forse; ma certamente ti fa vivere malissimo, a tutti i livelli.
Quando ottieni, per quanto elevato, è sempre effimero ed a rischio; ragionevolmente, è mille volte meglio condurre un’esistenza magari stentata ma che ti permetta di goderne i frutti, per quanto talora pochi, e non è detto.
Soprattutto ti conceda di poter dormire serenamente sugli allori, anche se della corona di alloro restano solo poche foglie, forse qualche spina, magari anche senza forse, perché no.
L’intento è buono, indubbiamente, il modo scelto, il sarcasmo, la satira, l’ironia, la canzonatura anche, indubbiamente ci sono tratti di lettura che sferzano, suscitano il sorriso, e però…però qualche dubbio la lettura la suscita. Non è un cattivo racconto, però non è riuscito al meglio.
Il romanzo non è neanche scritto male, anche se a volte appare ridondante, ma è il personaggio stesso che appesantisce la prosa, bisogna riconoscerlo, anche se Alajmo ci prova più volte a sgrezzarlo.
Solo che non convince in pieno, malgrado gli sforzi evidenti ed apprezzabili, il risultato non migliora, sarebbe come dire che Giovanni Di Dio assomiglia molto, o almeno ce lo ricorda bene, l’agente Agatino Catarella, centralinista del commissariato di Vigata dove agisce il celebre Montalbano dei romanzi di Andrea Camilleri.
Sempre di Sicilia si parla, sempre di piccoli centri, e però Catarella, per quanto assurdo, ha un suo perché, fa ridere, ma ci intenerisce.
Giovanni Di Dio è una parodia, ma non voleva esserlo, non ci voleva venire, ecco, questo è il punto.

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a chi apprezza Roberto Alajmo.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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2.0
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2.0
Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    16 Agosto, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Piton therapy

Questo è il romanzo d’esordio di una scrittrice norvegese, un thriller che magari ci sorprende, abituati come siamo a considerare i paesi scandinavi come il paradiso del vivere civile, la patria del socialismo ideale, dove educazione, correttezza, rispetto delle leggi ma anche molto di più, tolleranza, apertura mentale e progresso rappresentano i paradigmi indiscutibili su cui sono fondate l’etica ed il comune denominatore di vita della popolazione.
Dal che se ne deduce che il tasso di criminalità assuma un valore tale da non stuzzicare granché l’inventiva degli scrittori del genere. Manca la materia prima fonte d’ispirazione, quasi verrebbe da dire. Invece, molti autori che di recente vanno per la maggiore ci hanno mostrato che non è affatto così, sfornando testi gradevoli, piacevoli ed esemplificativi a mostrare che anche quelle società all’apparenza paradisiache nei comportamenti civili, celino storture comuni a quelli del resto del mondo. Partendo dai reati comuni, fino a giungere via via a quelli progressivamente più gravi come violenze e omicidi, i delitti, e di qui in diretta conseguenza il proliferare di racconti ad imitazione della realtà locale, quindi i gialli, i mystery, sono ormai divenuti di prassi, la regola e non l’eccezione.
In particolare, i romanzi di genere ultimamente si catalizzano sull’ osservazioni delle devianze giovanili, da un lato infatti le giovani generazioni nordiche hanno uno status economico sociale senza uguali rispetto ai coetanei d’altri paesi, dall’altra sempre più spesso al benessere fisico e sociale non s’accompagna pari gratificazione morale, con le conseguenze del caso.
Quello che caratterizza il libro della Ulstein è una certa originalità di interpreti, i suoi personaggi sono certamente quelli classici e comuni ad un tempo: un vecchio poliziotto, Roe, stanco e disincantato dalla professione, in cui pure eccelle per capacità di ascolto, sintesi e riflessione; una giovane ragazza, Liv, confusa su che direzione far prendere alla propria esistenza, persa tra progetti di studi, la convivenza con i giovani ed esuberanti colleghi con il conseguente corollario di feste e festicciole studentesche a base di alcool e fumo, le personali carenze affettive che la portano a distaccarsi finanche da un minimo di rapporto con la propria madre; Maram, donna in carriera abile, capace, professionale e di successo ma completamente frustata dal rapporto più che inesistente, sfuggente e fuori dalla sua abituale padronanza di luoghi e persone, con l’ unica figlia Iben prossima all’adolescenza, un rapporto talmente irriverente da spingere la donna, non abituata a simili reazioni, a puerili comportamenti stizzosi, che finiranno per ritorcersele contro.
Storie di ordinaria realtà, allora, storie di persone comuni che sembrano intersecarsi tra loro anche se su differenti piani narrativi temporali, quindi in apparenza nulla di particolare.
Se non fosse che a renderli e diversi, a caratterizzare libro e autrice, è il pet della storia.
Un pet in tutto e per tutto simile negli intendimenti e nell’economia della storia agli altri animali domestici che pullulano nelle storie poliziesche, inutile ricordare il cane lupo Rex o l’adorato siamese di Nero Wolfe. Solo che questo pet è un serpente, Nero, un bell’esemplare di giovane pitone.
Esattamente un pitone, uno di quelli che inghiottono un topolino in un solo boccone, tenuto in casa da Liv come il cucciolo di casa, e questo serpente fa un po' da trait d’union, unico e originale, tra tutti i protagonisti della storia, vengono sottoposti tutti ad una Piton therapy efficace da un punto di vista della risoluzione del giallo. Perché i serpenti hanno la particolarità che periodicamente cambiano pelle, fanno la muta, quasi si spogliassero delle vite precedenti e nascessero ogni volta purificati.
Un assassino, un delitto, invece no, il male per quanti abiti muti, sempre cattivo rimane.
Il male non è un qualsiasi serpente, anzi, un buon pitone.
È una costante, come tale riconoscibile con facilità, resta uguale a sé stesso, non si rivitalizza mutando pelle, resta sé stesso con la stessa veste decrepita.
L’idea di partenza quindi è buona, la storia è ben scritta, anche con bello stile, è come viene sviluppata che mi lascia più di una perplessità. Mi aspetto di più da un prodotto di genere.
La storia fluisce bene, all’inizio lenta, dettagliata ma non contorta e involuta, magari incuriosisce, ma ecco, non è avvincente in senso stretto, sembra sempre che prima o poi spicchi il volo per portarti in alto, tenendoti incollato alle pagine, magari ti consoli nel pensiero che il finale riscatti il tutto trascinandoti in un tourbillon di emozioni. Può piacere anche così, certamente, in sintesi non è una cattiva lettura, ma uno da un noir vorrebbe non dico farsi terrorizzare, ma farsi scuotere sì.
Ma non accade, e un poco mi spiace, ci contavo, dopotutto uno si affeziona a Nero.
Ma Nero è una cosa, un noir è altro.

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A chi ama i racconti gialli in genere.
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Gialli, Thriller, Horror
 
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3.8
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
4.0
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4.0
Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    13 Agosto, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

A prezzo fisso

Sequel del precedente “Tutti i giorni è così”, e forse anche meglio di quello, più maturo, rapido, e articolato, questo è un bel romanzo scorrevole, brioso, fluente e semplicemente gradevole da leggersi, adatto alla stagione come una buona bibita fresca o una leggera brezza a mitigare la canicola estiva, che inizia esattamente dove è terminato il fortunato libro anteriore a questo, a firma di Roberto Centazzo. Precisamente a Cala Marina, scopertasi sul finire degli anni ’60, anni in cui sono ambientate le storie, amena località di villeggiatura estiva. Situata nella provincia ligure, è un piccolo centro coinvolto dal bailamme allegro ed ottimistico allorché l’Italia del boom economico, e con lei l’italico popolo navigatore che si riscopre meno navigante e più bagnante, arruola il paesello perché contribuisca, insieme ad altre suggestive località misconosciute fino allora ai non residenti, ad instaurare la tradizione, pressoché obbligata, delle ferie estive in luogo di mare.
Cala Marina è il prototipo del piccolo centro della provincia italiana double face, una cittadina che si riconverte a seconda delle stagioni, conta poche migliaia di anime nei mesi più rigidi, che misteriosamente si decuplicano quando il meteo si riconduce a più miti consigli. Per qualche misterioso motivo che sfida la legge fisica dell’impenetrabilità dei corpi, un numero assai maggiore di quello normalmente residente riesce a stiparsi nello stesso territorio geografico immutato nelle dimensioni, sistemandosi in alberghi a varie, ma contenute, gradazioni stellari, e poi in pensioni, locande, seconde case, campeggi, sistemazioni di fortuna, e via dicendo per eseguire il sacro rito del riposo obbligato. Ad assistere, commentare e interagire con gli ospiti abituali o di passaggio, turisti semi stanziali oppure tipo mordi, tuffati e fuggi, attori dell’annuale revival del va e vieni della transumanza turistica, sono come d’uso i nostri eroi, interpreti fissi di ambedue i romanzi, che in un modo o nell’altro sono residenti all time in Cala Marina.
Chi direttamente senza interruzioni, chi in via riflessa, le nostre star gravitano attorno al nodo cruciale della cittadina, la stazione ferroviaria. Punto di osservazione privilegiato, lente di ingrandimento con cui esaminare nei particolari tutto quanto accade sotto gli occhi dei simpatici big ben piazzati in posizione strategica in punti nodali dell’insolito osservatorio.
E di concerto proiettare usi, costumi e trasformazioni di quanto accade sull’intero territorio nazionale. Perciò questo è un libro di più storie in una, un racconto di chi scrive per passione prima ancora che per mestiere:
“…Si, mi piace scrivere storie. Ah, le storie! Volete sapere qual è il loro segreto? Si può modificarle, abbellirle, trasformarle, ritoccarle, farle andare dove si vuole.”
Ritroviamo perciò le presenze fisse della serie che già imparammo a conoscere, i capisaldi inamovibili perché professionalmente stanziali in stazione, come il capostazione Dalmasso, che in stazione non solo ci lavora ma ci risiede anche con la famiglia, in apposito alloggio ad uso del personale in servizio, che manco a farlo apposta nei momenti liberi si eclissa clandestinamente per rilassarsi nella contemplazione di un…plastico della stazione ferroviaria, felice come un bambino alle prese con il suo balocco preferito, un trenino elettrico.
Segue il giornalaio Silvano, una delle poche persone al mondo fortunate perché rientra nel novero di quanti hanno pienamente fatto coincidere il sogno della propria esistenza umana e professionale, nel caso specifico quello di poter leggere impunemente, appena freschi di stampa, tutta la fumettistica esistente, senza che nessuno trovi da ridire, anzi lo pagano pure, distogliendolo però colpevolmente dalle sue letture, ma va bene lo stesso, per le proprie passioni si sopporta con pazienza questo e altro.
L’elemento femminile per eccellenza della serie è dato dalla bella barista Ludovica, giovane, gentile, empatica, che dietro un aspetto pratico, sorridente, delizioso e disponibile cela mirabilmente la sua angoscia per le condizioni della sorella disabile.
Ancora, appena fuori della cittadella con binari, nel posteggio apposito, staziona il tassista Bartolomeo, molto più ferrato in enigmistica che nelle sue abilità di guidatore.
Gironzola in giro, mimetizzandosi con luoghi e ambienti meglio di un camaleonte, il “muto” Adelmo, addetto alle pulizie mite, silenzioso, che tutto nota e a cui nulla sfugge, il terzo occhio vigilante su cittadine e stazione.
È di passaggio in stazione il professor Martinelli, normalmente professore di matematica al liceo durante l’anno scolastico, che ai primi caldi si trasmuta in un prestidigitatore dilettante, amatissimo e richiestissimo specie dai bambini in vacanza, perché abilissimo non con le carte, ma con elementi a lui più congeniali, i numeri, con cui strabilia gli improvvisati spettatori.
Su tutti, vigila la Legge, impersonata dal maresciallo Norberto, l’eroe del posto, uomo poderoso, serio, un po' trionfo e vanesio, però con una dote che lo rende meritevole di una medaglia al valore: è onestissimo. Che per l’Italia, oggi come allora, è una dote più unica che rara.
Il punto di forza di Roberto Centazzo in questi due libri è stato quello di offrirci una visuale, una prospettiva ampia e privilegiata che ci permette di spaziare su pregi e difetti, vizi e virtù dell’italica gente, ieri come oggi uguale a sé stessa, forse più matura e ammodernatosi ai nostri giorni.
Dopo tutto il tempo passa per tutti, e bene o male forse non ci rende migliori, ma certamente ad una qualche maturazione ci indirizza.
L’autore ci fa vedere cos’era, e cosa è tuttora, la provincia del nostro Paese; perché fatti i dovuti distinguo, i valori nazionali, i difetti tipici ed inguaribili, lo spirito della nostra gente è inciso nella pietra del nostro bagaglio genetico, siamo quello che siamo, sempre gli stessi, diversi e contraddittori, maschilisti gelosi, violenti e possessivi nei confronti delle nostre donne, e però capaci di virare con intelligenza, riprenderci la nostra umanità e relativa libertà di scegliere, di essere protagonisti della nostra esistenza, superando i legacci ipocriti della morale perbenista imperante.
Mostrarci, meglio ancora divenire perciò liberi e liberali, all’avanguardia nelle conquiste civili. Sappiamo essere bigotti e intransigenti, intolleranti contro i diversi, costretti a nascondersi ieri come oggi in una parvenza fittizia e teatrale di presunta, e pretesa, normalità; e però siamo ugualmente in grado di riconsiderare cose e tradizioni che non hanno più motivo di essere, semmai le hanno avute in precedenza, e riplasmarle, discuterle, smussarle nel grossolano, evitare un giudizio ed uno scarto totale e sceglierne invece con cura, costanza, pazienza i lati meritevoli di cura e conservazione, che coincidono sempre con i valori del comune sentire, della compartecipazione, della sodale convivenza, valori che guarda caso vivono custoditi sempre e soltanto in seno alle nostre donne, così come un tempo veniva fatto con il sacro fuoco dalle vestali. Sappiamo evolverci, e in meglio.
Siamo finanche capaci di essere corrotti e corruttori ad ogni livello della scala sociale, dai più infimi ai più alti, finanche se allocati nelle istituzioni integerrime, come ugualmente siamo in grado di riscattarci grazie al solido acume, all’umanità esuberante ed eccessiva, talora presuntuosa e vanesia di un burbero poliziotto di paese, però testardo, cocciuto, orgoglioso, mai privo di ingegno, coraggio ed inventiva. Prendiamo la vita come viene, senza tanti fronzoli:
“…Spesso le cose accadono senza alcun motivo. Soltanto perché devono accadere.”
Roberto Centazzo elogia, e ci elogia, decantando le nostre italiche virtù, risalta la nostra onesta, semplice e genuina capacità, insita nei più insoliti e misconosciuti, di possedere valori che ieri come oggi sussistono ben radicati, forti, diversi e sempre uguali, semplici ed alla buona, ci descrive con occhio critico, ci fa sorridere, e ci esalta, per quello che siamo, ci fa vedere in uno specchio.
Ognuno trova in chi o in cosa riconoscersi in Cala Marina e nei suoi abitanti, lo scrittore piace, incensa i suoi eroi per quello che sono, semplici e genuini, ruspanti, umili, doviziosi, intelligenti e acuti, descrive noi stessi in fin dei conti, la nostra italianità, i valori forti e radicati nel tempo e nell’animo dei nostri connazionali, che hanno un pregio unico al mondo, lo ripeto, sanno prendere l’esistenza così come viene. Perché è la vita, e tanto basta:
“…la vita è un regalo e come tale va vissuta, senza perdersi in calcoli meschini, senza tormenti, senza recriminazioni e, soprattutto, senza rimpianti, e senza rimorsi. Non devi far altro che prenderla così com’è, come un menù a prezzo fisso, l’intera offerta, il buono ed il meno buono, il giusto e lo sbagliato, tutto il pacchetto, insomma, primo, secondo, contorno e dessert, bevande incluse.”
Siamo di bocca buona, sappiamo ingoiare senza tante storie bocconi amari, se capitano, come pure reagire con passione e con vigore, quando serve, accettiamo tutto in blocco, pranzi luculliani come pasti frugali, ci dissetiamo con acqua di fonte o champagne di marca, facciamo fronte alla spesa di un conto esorbitante o a prezzo fisso, sappiamo come pochi al mondo gestire alla meglio la nostra esistenza semplicemente con tutto quanto passa il convento, bevande incluse.

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Roberto Centazzo
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Gialli, Thriller, Horror
 
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4.0
Stile 
 
4.0
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4.0
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4.0
Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    11 Agosto, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Pet therapy

Ogni bravo poliziotto, o investigatore come si deve, per svolgere al meglio le proprie indagini, si avvale spesso di una rete di collaboratori non dichiarati, un campionario di varia umanità, che nell’insieme costituisce la categoria degli informatori.
Sono persone dedite ad un’attività di ascolto clandestino, e di raccolta e cessione di informazioni, utile se non benemerita per i poliziotti a cui sono destinate, che si procurano così senza colpo ferire particolari rivelatori per il loro lavoro.
Risulta però rischiosa per gli addetti, in genere essi stessi dei veri e propri delinquenti abituali, o che vivono ai margini della società. Proprio perché adusi a circolarvi liberamente, si mimetizzano perfettamente nel sottobosco delinquenziale, dopotutto ne sono membri di diritto onorario, quindi in grado di raccogliere senza parere, senza destare normali sospetti o un minimo di diffidenza, una messe di informazioni, pettegolezzi, sottintesi, confidenze varie raccolte quasi senza sforzo, che nell’insieme, una volta riportati al detective interessato, gli forniscono un aiuto non indifferente per il disbrigo dei fatti inerenti alla professione. Va da sé che non sono informazioni gratuite, chi le raccoglie e le riporta a proprio rischio con gran segretezza non lo fa per mestiere dichiarato di spione, lo fa più spesso, se non sempre, per bisogno. Cede informazioni sui fatti delittuosi, e presunti coinvolti negli stessi, in cambio di una vera e propria ricompensa, commisurata all’informazione fornita, talora nemmeno retribuita in denaro, ma in natura. Come dire, uno scambio, un do ut des, io delinquente ti metto sulla strada giusta spifferando un “si dice” raccolto negli ambienti malavitosi, e tu poliziotto chiudi un occhio, fingi di non vedere, mi lasci in pace se mi becchi nei miei traffici, beninteso se certi reati non superano determinati limiti. Fatto sta che chi spia rischia, e rischia di brutto, sulla propria pelle, a qualsiasi livello le spie non piacciono a nessuno, ci si sente ingannati, traditi, feriti nel profondo quando si viene spiati, figuriamoci negli ambienti della malavita dove non si va troppo per il sottile nel punire severamente chi tradisce le regole di omertà tipiche di certe dinamiche.
Ma tant’è, per sopravvivere talora bisogna giocoforza correre qualche rischio.
Quella degli informatori su cui contare è una prassi reale nella pratica poliziesca, e come tale perciò anche usuale nei gialli, nei mystery e nella letteratura del genere.
Perfino datata, basti pensare che già Conan Doyle aveva fornito al suo Sherlock Holmes una rete di “ragazzini di strada”, gli scugnizzi dell’epoca, prezzolati dal detective perché lo tenessero informato di quanto di rilevante avvenisse nei bassifondi londinesi.
Anna Melissari, detective privata, il fortunato personaggio che ha recato notorietà alla scrittrice di origini sarde Sarah Savioli, non fa eccezione alla regola, nell’esercizio delle sue funzioni può contare su una rete di informatori quanto mai vasta, veramente ampia e soprattutto ubiquitaria, mille occhi e mille orecchie che tutto vedono e tutto sentono, che odorano finanche le tracce e gli indizi.
Nessuno sano di mente potrebbe mai credere a chi il fiore all’occhiello in servizio presso la rinomata Agenzia Investigativa Cantoni si rivolga per ottenere informazioni, da chi Anna raccolga indizi e informazioni, chi mette sotto torchio, con gentilezza e cortesia tra l’altro, ma minuziosamente, per capire come si sono svolti effettivamente i fatti delittuosi.
Perché la nostra eroina può contare sempre su informatori di “alta” qualità, immagine non solo metaforica ma indicativa di una visione a livello simil drone di certi suoi alati collaboratori, elementi forse improbabili, ma concreti e reali, affidabili, equi, imparziali, insospettabili e inoppugnabili testimoni chiave delle sue indagini.
“Gli insospettabili” pubblicato per prima, da un paio d’anni, e “Il testimone chiave” in libreria più di recente, sono i due straordinari romanzi che hanno consacrato Sarah Savioli come una delle voci più creative, interessanti, originali e stupendamente gradevoli della narrativa degli ultimi anni.
Romanzi ambientati ai giorni nostri, dove una comunissima donna dei nostri giorni dialoga con semplicità, cortesia e naturalezza con gli animali e, in misura minore, con le piante.
Con chiarezza, umiltà, credulità, con assoluta verosimiglianza, soprattutto con il rispetto che difficilmente, consapevoli o meno, raramente tributiamo agli altri conviventi del nostro habitat.
Ma non è tanto questo che attrae, che avvince, che ti prende, è proprio la scrittura della Savioli che è incantevole, la scrittrice non favoleggia, non allestisce parodie, forse il suo racconto è sottilmente divertente, ma sopra ogni altra cosa, è intelligente.
Una scrittura intelligente, e insieme colta, profonda, accessibile a chiunque, le sue idee sono del tutto nuove, non si riscontrano in altri modelli, la scrittrice ci offre un racconto amabile, accogliente, delizioso, ci sentiamo avvolti e coccolati dalle sue storie, ci sembra di stare in un ambiente idilliaco finanche nel mentre si dilunga su fatti delittuosi, su omicidi e suicidi.
Sarah Savioli sa ben scrivere, e ce lo dimostra facendoci stare molto bene con quello che scrive.
Opera su di noi lettori lo stesso effetto benefico di una comune pet therapy, ci fa stare bene, lieti, in armonia con il vissuto. Ci fa amare i viventi, ci fa sentire amati da loro.
Descrive la Natura, ci fa sentire parte integrante di quella, e di tutti i viventi con cui la conviviamo, non è un caso o una coincidenza che l’autrice vanti studi di scienze naturali.
Attrae il suo stile di scrittura, quasi autobiografico, un modo di narrare a voce sola che sembra di ascoltare una vecchia amica, ma di quelle di lungo corso, datata dall’infanzia, fidatissima e dalla vita usuale ma incasinatissima tra casa, lavoro, famiglia, affetti, amori e parentado malconcio in salute, esattamente come quella di tutti noi, una vera amica che si sfoga a cuore aperto con noi lettori.
Raccontandoci il suo vissuto, dove comune e straordinario si intrecciano in modo verosimile, dove il suo quotidiano è corrente, usuale, e però strepitoso, tanto eclatante quanto esemplificativo del nostro correre ed affannarci, un narrare ad un tempo stesso formidabile, inaudito e impareggiabile.
“…degli altri non sappiamo mai abbastanza, però attacchiamo le nostre etichette comunque.”
La scrittrice rende eccezionale la vita comune, e rende usuale la comunità dei viventi, tutti insieme appassionatamente. Il merito è da ascrivere soprattutto alla creazione del suo personaggio principe, protagonista di ambedue i libri citati. La protagonista, Anna Melissari appunto, è un personaggio riuscitissimo, che non ha uguali; è una donna comunissima, direi anche fin troppo normale, senonché si differenzia per una dote non voluta, che almeno all’inizio del suo comparire le ha creato non pochi spaventi, terrori e poi difficoltà di vario genere, innanzitutto ha dovuto farci i conti lei stessa per prima, prima di renderne edotti giocoforza almeno i suoi familiari e le persone a lei più care.
A causa di una piccola neoformazione encefalica, probabilmente lo sviluppo simil tumorale di una pregressa e misconosciuta capacità anatomica innata, ma regreditasi funzionalmente nel corso dell’evoluzione umana, Anna è in grado di parlare, comprendere, comunicare perfettamente con il mondo animale e vegetale. Intendo esattamente quello che ho detto: non possiede poteri paranormali, non ha sviluppato forme particolari di empatia o telepatia per comprendersi con piante e animali, Anna sul serio può dialogare correntemente con cani, gatti, uccellini, tartarughe, pipistrelli e con ficus, fiori, piante d’appartamento, platani dei viali cittadini, alberi, cespugli ed erbacce, come noi facciamo comunemente con i nostri simili. Certo non un talento da sbandierare, però, a rischio di farsi rinchiudere. Va da sé che è qualcosa di unico, e proprio per questo spaventa prima, e preoccupa dopo, è una dote che finanche la psicologa da cui è seguita Anna ritiene essere come minimo una fisima della psiche sua, per non dire una vera patologia mentale, figuriamoci quindi la fatica, lo scetticismo e infine un che di diffidenza di fondo con cui è accettato con molta difficoltà, da chiunque altro, lettori compresi, questo suo non voluto superpotere. Non la rende un’eroina, Anna non lo è né vuole esserlo, la Savioli non ha scritto di un superpotere che facilita una investigatrice nelle indagini, sarebbe davvero sciocco e banale solo pensarlo, perché in casi come questi gli svantaggi superano i possibili benefici, è inevitabile quando si tratta di qualcosa che non è solo raro, assai peggio, è unico e inspiegabile, a maggior ragione foriero di diffidenza. Finanche Superman si porta dietro un che di irrisolto, deve nascondersi dietro i panni di un borghesuccio, e tanto felice la sua esistenza non è.
A salvare Anna, invece, a restituirle la sua umanità malgrado la sua capacità, è la comunicazione stessa, è l’eccellenza di poter comunicare con diversi parimenti viventi. Come spesso accade, sono proprio i puri di cuore, e cioè le piante e gli animali con cui interagisce, sono per prima loro stessi, anziché la razza umana eletta, evoluta e superiore a preoccuparsi di meno della comparsa di questo fenomeno, anzi appaiono ben lieti di comunicare chiaramente, e direttamente, per una volta almeno! con un essere umano. Sono ragionevoli, accoglienti, schietti, dicono le cose come stanno, e per questo rasserenano, forniscono il loro meglio, la loro insuperabile panacea inclusa in qualsiasi pet and plants therapy. Così come accolgono perfettamente il fenomeno nella norma, nell’ordine naturale delle cose, le persone a lei più legate, il proprio bambino Luca, che ritiene del tutto lecito, normale, naturale, la capacità materna di dialogare ad esempio con Banzai, il gatto di casa, o con l’alano in servizio permanente effettivo presso l’agenzia investigativa. Così come il marito, così come i fedeli colleghi di investigazione: accettano Anna così com’è esclusivamente le persone che tengono a lei perché è esattamente così, poteri particolari o meno. Così come deve essere l’amore, senza condizioni, piante e animali lo insegnano.
“…provo ad imparare l’arte difficile dell’aspettare chi si ama…”.
Quanto Sarah Savioli racconta con semplicità, eleganza e incisività di pensiero, è estremamente semplice: l’autrice non ha rivisitato le favole di Esopo, i suoi non sono animali parlanti che esplicano un comportamento ideale, affatto, sono animali, e piante, con cui si parla, si dialoga, ci si confronta alla pari, ci si scambiano punti di vista differenti sugli stessi fenomeni.
Una bella idea: in questo modo l’autrice ci offre angolazioni diverse con cui valutare comportamenti dai duplici significati, impedisce che il solo pensiero personale diventi l’unico considerevole, e come tale facilmente fallace mancando di contraddittorio, come dovrebbe essere. Meno che mai gli animali nei libri della Savioli sono antropomorfi come nei film disneyani. Sono fauna e flora esattamente come sono in Natura, indifferenti e semmai diffidenti nei confronti della razza eletta.
Eletta da altri, ma non da loro, piante e animali considerano piuttosto la razza umana la più dannosa e fastidiosa, incoerente, illogica, e pericolosa del pianeta. Ma tant’è, la accettano con pazienza, tolleranza, umiltà e intelligenza, sanno che con questa bisogna pur convivere, anche se gli umani non hanno un’indole cattiva ma cattivi possono divenirlo con troppa facilità, e il male si diffonde purtroppo con altrettanta facilità, gli uomini riescono finanche ad influenzare negativamente gli animali più fragili. Tant’è che per esempio Carl, un cane carlino testimone oculare di un presunto delitto, si rivela un bieco ricattatore, restio a confessare a quanto ha assistito se non dietro pagamento di un laido compenso. Ma appunto, questo accade a pochi animali perché sono gli umani ad essere deleteri, non il contrario. Gli altri esseri viventi, e non solo pet, utilizzano un solo metro di valutazione: l’affetto, l’empatia, l’amore. Efficace evidentemente, visto che esiste una terapia ad hoc., la pet therapy. Che può sintetizzarsi in un breve bugiardino: le persone che amano accettano il soggetto del loro amore, sempre e comunque, senza sforzo, esattamente com’è, senza se e senza ma.
“…voi umani pensate all’affetto come se fosse un regalo inaspettato da parte di alcuni, qualcosa invece di preteso e dovuto da parte di altri…ma l’affetto è una cosa complicata nel quale c’entra di più chi lo dà che non chi lo riceve…Io, per esempio, ti voglio molto bene anche se tu non sei niente di straordinario.”
Sarah Savioli non ha creato solo un personaggio particolare, una detective dagli insoliti poteri, tutt’altro; ha creato un modo di raccontare le cose, scevro dalla banalità degli esseri umani, che tendono a rivestire i fatti filtrati dai loro interessi personali. Piante e animali non mentono, perché non appartengono al nostro modo di vedere le cose, hanno logiche diverse, diremmo naturali, e quindi più concrete e consone alla successione degli eventi. La scrittrice non ha scritto perciò un romanzo utopistico, ci ha semplicemente sottolineato in modo incantevole, ci ha porto ancora una volta con eleganza, umiltà, a tratti con commozione, la chiave per testimoniare la nostra convivenza con tutti i viventi: l’intelligenza. L’intelligenza che è alla base della comunicazione di genere, con tutti i generi.
La Natura sa perfettamente quanto bisogno di intelligenza è richiesto per comunicare, per fidarsi per esempio di una badante straniera a cui è stata devoluto un lascito testamentario.
La Natura, gli umani no.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    03 Agosto, 2021
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Decadenza fisiologica

Questo è il sequel de “I leoni di Sicilia” della stessa autrice, l’epopea romanzata di una vicenda reale, documentata storicamente, con una ricerca minuziosa e accurata: solo per questo si deve porgere tanto di doveroso omaggio all’autrice, che ha confezionato in ogni caso un lavoro ben edificato e congegnato, impegnativo e realizzato con dedizione.
Però stavolta l’impressione d’acchito, comune a molti romanzi “parte seconda”, è che il racconto si configuri qualitativamente su un livello più basso, certo non perché difetti di impegno e di qualità, tuttavia l’idea generale emergente è che, una volta sfumato l’effetto sorpresa, la storia perda di verve, di novità, di estro, lascia il sapore ridondante di un “già visto”, di carta conosciuta ripetuta.
In effetti, è quasi un effetto collaterale, nella logica di questo tipo di novelle: la storia principale concerne l’ascesa economica, sociale e di potere della stirpe della Famiglia Florio.
Una scalata al vertice possiede di per sé un pathos affascinante, attraente ed avvincente, del tutto differente dal racconto del successivo consolidarsi dell’egemonia raggiunta; la suspense tende gradualmente a diminuire allorché, per una naturale erosione degli ambiti raggiunti, l’interesse scema, insieme ad una perdita di tensione narrativa.
Come dire, gli anni passano, una decadenza fisiologica è nell’ordine delle cose, e non attrae.
I fratelli primogeniti Paolo ed Ignazio, che abbiamo conosciuto nella “puntata precedente”, armati solo di cieca determinazione e sfrenata ambizione, insieme a tenacia, cocciutaggine, braccia volenterose ed una buona dose di disperazione, come dire il peperoncino sulla pietanza, all’inizio dell’800 sbarcarono in Sicilia provenienti dalla vicina Calabria, e con fatica, sacrifici, dolori sofferenze e violenze indicibili, come d’uso in simili tragitti esistenziali partendo dal niente assoluto, diedero inizio alla costruzione di una immensa fortuna, dapprima con il commercio di spezie, poi di zolfo, poi con vere e proprie immobiliari, erano gli spregiudicati palazzinari dell’epoca, e stiamo parlando dell’800. Ancora, dilatarono le loro fortune con il commercio espanso di un locale vino prelibato, ma ancora misconosciuto, come il Marsala, e poi con le tonnare, da cui proventi ricavarono tanto da acquisire non solo intere flotte adibite alla pesca, quanto addirittura isole e arcipelaghi.
In sintesi, divennero i padroni assoluti della Sicilia, di quella terra per tanti versi una savana, ne diventano i dominus, i cesari, i sovrani, i re leoni.
Spinti a ciò dalla motivazione migliore o peggiore, secondo i punti di vista, cioè da un’ambizione sfrenata, senza scrupoli, dal desiderio ossessivo di emergere a qualsiasi costo.
Caratteri che possono considerarsi sia pregi che difetti.
In questo racconto, generazione passata e futura dei Florio hanno lo stesso nome, Ignazio, quasi a rappresentare due facce della stessa medaglia.
Come tutte le cose della vita, i Florio iniziano in un modo e nel tempo cambiano necessariamente per mutazione spontanea, per ricombinazione di geni.
Dapprima persistono, e pure a lungo, i valori fondanti dei capostipiti; e però, inevitabilmente, per il naturale evolversi dell’esistenza, al vecchio si sostituisce fatalmente il nuovo, al vecchio Ignazio subentra, deve subentrare per forza di cose il nuovo Ignazio.
Ai capostipiti succedono le generazioni future, qui ritroviamo quindi l’ultimo Ignazio, per indole e giovane età macerato dai dubbi sull’effettiva capacità sua e delle generazioni successive di garantire il mantenimento del vertice, con conseguente abile gestione del potere.
Soprattutto, è tipico dei giovani, non tormentati dal bisogno, incantarsi con gli ideali, il lusso gli permette di chiedersi di quanto e di cosa si è disposti a rinunciare in sentimenti, in cambio del potere concreto. Il cuore caldo è dei giovani, la mente fredda è degli anziani mai stati giovani.
Perché è una legge di natura, a cui anche i leoni devono assoggettarsi, l’agire energico prevede la motivazione potente, la rinuncia agli affetti e agli amori non produttivi, anzi distoglienti dagli obiettivi prefissi, l’ ascensione ai vertici prevede unici sentimenti, quelli di puro sacrificio e abnegazione anche di sé stessi, quelli appunti che furono propulsivi nei capostipiti nella loro scalata al successo, ma non sono però necessariamente trasmissibili alla progenie, ereditabili con il resto dei beni.
Beni di quella misura, una simile ricchezza che si accompagna ad un potere anche politico che si spinge non solo fino alla capitale, ma ben oltre i confini non solo della Sicilia ma del Paese intero, necessitano per essere conservati intatti di pugno fermo. E di cuore freddo, malgrado il sangue caldo.
Valori che sono essenziali per le conquiste, poi scemano una volta pervenuti al vertice, i giovani leoni si trovano assisi in alto senza sforzo, perciò danno per scontato di possedere quanto non conquistato in proprio.
Una volta terminati i furori iniziali, quelli incisivi nello sprone all’accumulo e alla corsa sfrenata al successo, inevitabilmente gli stessi successi e gli agi perseguiti e finalmente conseguiti, iniziano a seminare crepe sul cammino della famiglia Florio.
Il racconto, inevitabilmente, scivola in discesa, non è tanto una caduta fatale o inesorabile, è davvero un evolversi, non è più la storia avvincente, a tratti lieta e più spesso crudele, di un’ascesa, come nel precedente romanzo, ma del suo fisiologico divenire, e deteriorarsi.
Per una legge elementare di natura, una volta raggiunta una vetta, poi non si può fare altro che restarvi il più possibile ancorati con le unghie e con i denti fin quando dura la bella stagione, anche il cielo ha un limite. Prima o poi, però, il tempo cambia, la discesa deve avvenire per forza.
L’inverno arriva, con lui la neve, bisogna sloggiare a forza dai vecchi domini.
Questo non è più un racconto di ascesa, allora, ma di discesa, dopo che la primavera arride, l’inverno arriva, ed i leoni non tollerano il gelo, nemmeno se si chiamano Florio.
I leoni si vedono persi, ma anche stavolta in loro soccorso arrivano le leonesse, esattamente come avviene in Natura.
Il Re Leone nella savana spesso fa scena, vive sui ruggiti, sul millantato credito, in realtà è pigro, lascia condurre l’esistenza alle leonesse, le travi portanti del gruppo familiare, anche se neanche lui lo sa, o ne è in qualche modo consapevole, o finge di non sapere.
Anche i Florio contano sulle leonesse, per fortuna loro, la scrittrice ancora una volta, come già nel primo volume, omaggia tra le righe le vere protagoniste della saga familiare, di qualunque epopea di famiglie, che qui rispondono ai nomi delle figure sublimi della famiglia Florio: Giovanna d’Ondes e Franca Jacona di San Giuliano.
Anche stavolta la Auci si cimenta certamente in un buon lavoro di documentazione storica, preciso, accurato, ricercato, particolareggiato, reso in forma letteraria: e però non dimentica di sottolineare, quasi senza parere, che sì, gli uomini scrivono la storia, ma a renderla un’epopea sono le donne.
Un buon libro, che soddisferà in particolare quanti desiderano sapere “come va a finire”, quelli che intuiscono d’istinto che, come dire, Stefana Auci non scrive solo di storia, fa romanzo dei Florio, e per inciso, delle loro donne.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    27 Luglio, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Fatti, misfatti ed antefatti

Quali che siano i suoi personaggi più noti, quelli ricorrenti nei suoi romanzi seriali, che insieme all’indubbia abilità di narratore gli hanno conferito giustamente successo e popolarità, comunque lo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni se ne serve, in definitiva, per narrare, in un modo e nell’altro, di diritto e di straforo, di una ed una sola realtà: Napoli.
La sua città natale, le sue origini, il suo substrato formativo, ove risiedono le sue radici di uomo e di scrittore, che mai come in questo caso sono sovrapponibili.
Napoli non è solo il luogo dove il nostro autore vive, è ben di più, è la linfa vitale da cui lui assorbe gli umori nutritivi che danno sostanza ai suoi racconti, è la fonte di ispirazione che alimenta il suo raccontare, che gli fornisce quotidianamente idee, supporto e spunti narrativi, gli presenta di continuo, a lui come a chiunque altro sappia coglierli, fatti, misfatti, soprattutto antefatti su cui basarsi per fornirci delle buone e piacevoli letture, talora buonissime.
I libri, i romanzi, le storie, tutte e non solo quelle a firma dello scrittore napoletano, perché risultino gradevoli, attraenti, efficaci, non possono essere solo uno sterile riportare avvenimenti belli o brutti, fatti e misfatti, ma soprattutto, perché assai più importanti, ne vanno felicemente resi gli antefatti, direi anche evidenziati sottolineandoli, o con note a piè di pagina.
Gli antecedenti, i precedenti, i retroscena delle storie vanno delineati in corsivo, con tratto sottile e font più lieve del resto della trama, offerti in forma quasi subliminale, suggeriti e sussurrati.
Alla resa dei conti, solo così ne deriva un prodotto compiuto, esauriente ed esaustivo, in sintesi gradevole e avvincente, e in fondo di questo parla “Una sirena a Settembre”, l’ultimo romanzo di Maurizio de Giovanni: dell’importanza e della irrinunciabilità di basarsi su buoni antefatti come requisito indispensabile per offrire a chi ascolta, e di converso a chi legge, belle storie, buoni libri.
L’autore allude già nel titolo al termine Sirena, personaggio mitico nota da sempre per la voce melodiosa con cui incantava i naviganti, utilizzato in realtà con altra accezione, come affettuoso sinonimo di Signora, colei che racconta una storia incantando chi l’ascolta.
La prima storia bella che abbiamo letto in vita nostra è stata tale proprio perché raccolta dalla voce incantevole della Signora, tutti noi lettori abbiamo ascoltato, abbiamo letto il primo libro, in genere una raccolta di fiabe, per interposta persona, quello della Signora per eccellenza, la nostra mamma.
Chi di noi non ricorda il primo racconto ascoltato dalla voce incantevole della propria mamma, la Signora, il canto irresistibile della nostra personale Sirena della buonanotte, non a caso lo scrittore dedica il libro alla propria mamma, con profondo affetto, imperitura gratitudine, nostalgia e tenerezza.
Tante sono le Signore che raccontano, e anche Napoli è una Signora, quotidianamente la città propone fatti e antefatti, apparentemente slegati tra loro, a chi desidera porsi in ascolto.
De Giovanni certamente non è l’unico che ha occhi e sensibilità per tastare il polso alla sua città, fatti, misfatti e antefatti sono in evidenza per chiunque sappia coglierli.
Il nostro però, a differenza della maggioranza delle persone, napoletani compresi, è tra i pochi che ne avverte nella loro pienezza tutti gli intimi costituenti: suoni, rumori, stridori, luci, colori, odori, e non soltanto li percepisce appieno, ma sa utilmente riportarli su carta, direi anche molto bene.
Nei suoi libri si susseguono, accattivanti perchè ben scritte con stile fluido e scorrevole, situazioni uniche, originali, talora paradossali, anche incongruenti e contraddittorie, a volte crudeli, spesso struggenti, ma sempre intensamente reali. La realtà supera sempre ogni fantasia, e questo assioma vale soprattutto per la città partenopea, e per i suoi abitanti, il loro vissuto, la loro quotidianità.
La realtà napoletana non è misera e miserevole, folkloristica, teatrale ed esagerata, nemmeno improntata ad una comicità macchiettistica fine a sé stessa, come troppo spesso certi stereotipi ancora si ostinano a riportarla. Quanto riguarda Napoli, città di mille contraddizioni, dove splendore e miserie convivono tranquillamente, alternandosi talora senza soluzione di continuità, è qualcosa non di inverosimile, nemmeno verosimile, è realtà vera, concreta, tangibile, l’emblema di un modo unico di concepire e vivere la propria esistenza, basando tutto ed il contrario di tutto su un unico parametro: il sentimento. Perciò Napoli è città di sentimento, cioè di anima e cuore, ma questo vale solo per fatti e misfatti, sia per le buone azioni empatiche, sussidiarie, solidarie con i propri simili senza distinzione alcuna, così come per quelle cattive, stupefacenti per malvagità, stupida, stolida e disperata furbizia.
Gli antefatti, invece, nascono dalla mente, sono sempre frutto non di passione e di istinto, o di puro sentimento, quello verrà dopo come detto, gli antefatti sono prima di tutto antecedenti di pura logica, intelligenza e buon senso, sono retroscena che nascono da riflessioni profonde, i precedenti vengono da un pensiero elaborato, quindi sono razionali, dagli antefatti originano poi a cascata gli eventi passionali, i fatti, questi ultimi sì esplicati “anema e core”, ma sono gli antefatti il cuore della storia, ragionevoli, sottili, limpidi ed essenziali, da loro derivano i sentimenti dell’agire in diretta conseguenza con intensità di sentimento.
La Signora, voce narrante del romanzo, porge tali considerazioni, tali antefatti, allo scrittore, che si limita a riportarle pari pari, semplicemente di suo aggiunge un cucirle tra loro con un invisibile, sottile filo di seta che intesse un’unica trama. Tali antefatti rimandano ad una unica, univoca immagine, quella di una Sirena.
Il tatuaggio di una Sirena segna in tutta la sua estensione il braccio di Marco, un giovane ventenne, il prototipo del bravo ragazzo, povero ma onesto, privo di mezzi ma volenteroso, industrioso, attivo e capace. Un rappresentante della meglio gioventù napoletana, quello che benché indigente ha studiato a forza di sacrifici, intelligente e volenteroso si è diplomato a scuola col massimo dei voti, per bisogno non prosegue gli studi ma si spacca la schiena scaricando casse di merci ai mercati generali dalle prime luci dell’alba, arrabattandosi poi con altri mille faticosi mestieri precari per assicurare onestamente un minimo di sopravvivenza a quanto resta della sua famiglia.
Il tutto in una realtà sociale degradata dove l’alternativa delinquenziale è offerta normalmente, con irrisoria facilità, dal contesto ambientale in cui si vive, come l’escamotage esistenziale risolutivo più breve, assai più remunerativo, quasi fosse opportunità usuale, ineluttabile e unilaterale.
Non altrimenti si può definire che: come quello di una Sirena, il canto potente, cristallino, incantevole, di Ester, una fanciulla a dir poco bellissima, costretta in casa da un trauma invalidante, letteralmente reclusa ed impossibilitata a muoversi perché la sua abitazione è sita all’ultimissimo piano di un vetusto palazzo senza ascensore.
Non per questo rinuncia a levare al cielo da un piccolo terrazzino la sua voce, a delizia di chi ha la ventura di ascoltarla, il suo è sempre un canto argentino, adamantino, allegro, gioioso, tonico, corroborante, altro non è che un magnifico inno alla vita, vivo, palpitante, energico.
Malgrado le sue condizioni, la giovane Ester è un magnifico esemplare di Sirena, le sue gambe splendide ma inerti non sono tramutate in nessuna coda di pesce, ma è provvista di una voce incantevole, e di un’anima limpida, il suo canto si innalza puro e sorgivo non ad uso di volgere al naufragio i naviganti, ma di guida e di esempio, come faro luminoso nella foschia delle difficili condizioni di vita.
Una emittente televisiva locale, “TeleSirena”, conta nel proprio palinsesto una fortunata e lucrosa trasmissione di pseudogiornalismo di inchiesta, denominata “Il canto della Sirena”, anche a causa dell’indubbio fascino e bellezza di Susy Rastelli, giovane giornalista conduttrice, una sirena del piccolo schermo. Si tratta di uno di quei diffusissimi rotocalchi televisivi che offrono fatti e misfatti della città in maniera a volte fin troppo scandalistica ed eclatante ai soli fini di audience.
Questa volta la trasmissione non si limita a fare un usuale servizio spazzatura sull’ennesimo ripresentarsi del problema della raccolta dei rifiuti in città, o sul proliferare delle discariche abusive. In una puntata ad alto richiamo di pubblico la telecamera va letteralmente a rovistare tra i rifiuti riprendendo Geppino, un bambino di pochi anni, sporco misero, lacero, che tra i rifiuti si contende avanzi di cibo con i cani randagi:
“…la produzione aveva realizzato un servizio che metteva in risalto il grado di disperazione, abbandono e fatiscenza raggiunto nel centro della città…”
Il classico video che pare girato nei paesi del terzo mondo e non nel cuore della terza città d’Italia, e che muove a sdegno non solo la platea televisiva locale e nazionale, ma l’intero furibondo quartiere dove il servizio è stato girato.
Questi ed altri fatti narrati sono tutte evidenze sociali, lo sfondo civile su cui si muove la protagonista assoluta di questo romanzo, l’assistente sociale Gelsomina Settembre detta Mina, lei stessa una Sirena, dato l’evidente sex appeal di cui è dotata, in particolare nei piani superiori del suo fisico invidiabile, per quanto inutilmente la giovane cerchi di mistificarlo con un look più appropriato al suo ruolo professionale.
Mina Settembre rappresenta la forma di scrittura declinata in chiave meno drammatica e più in commedia dei libri di Maurizio De Giovanni, ma anche l’assistente sociale, in fin dei conti, racconta di Napoli, i fatti, i misfatti, gli antefatti della città, come nelle intenzioni dell’autore. Altri fortunati personaggi, che il comune fan dello scrittore, ma non solo, certo conosce, si muovono infatti diversamente: il commissario di polizia Luigi Alfredo Ricciardi, che agisce nella Napoli del ventennio fascista, è colui che letteralmente vede i vivi, e anche i morti, coloro che sono frutto di fatti e misfatti, e indaga per capire gli antefatti all’origine delle loro storie; ed il “fatto” che lo caratterizza risalta drammaticamente anche perché risente inevitabilmente della buia, e tragica, costruzione artefatta della realtà politica dei tempi in cui vive. Niente come gli antefatti, la motivazione dell’agire, il “cui prodest”, la genesi di una esistenza guida meglio nel loro lavoro i “Bastardi di Pizzofalcone”, una moderna squadra di operativi di polizia, che solo così, risalendo a ritroso, provvedono ad aggiustare i malfatti ricostruendo gli antefatti. Lo stesso fiuto per gli antefatti guida nell’esercizio delle sue funzioni l’insospettabile, trascurabile e insignificante vecchina Sara Morozzi, ex agente speciale dei Servizi Segreti. Equilibra il tutto un tono di scrittura più leggero, ma non meno intenso, lo fornisce appunto Gelsomina Settembre, assistente sociale originaria dei quartieri alti della sua città che paradossalmente, per libera scelta di vita sodale con i suoi concittadini, esplica la sua attività nel consultorio dei Quartieri Spagnoli, agli antipodi del suo ambiente di origine.
I Quartieri Spagnoli sono un quartiere vasto, antico e popolare sito nel cuore stesso della città, a tratti è un territorio anche problematico, densamente popolato, degradato ed infiltrato dalla criminalità spicciola e organizzata, e però mai come altrove emblema della schietta napoletanità di cui De Giovanni è cantore. Napoletanità che è sinonimo di canto, di inno alla vita, dove le note richiamano l'allegria, l'amore per la vita nonostante tutte le miserie, le difficoltà e le privazioni che la stessa riserva a chiunque, giovane e vecchio, ricco e povero, il tutto nella cornice di una splendida natura, fosse pure quella di una architettura urbana svettante ripida verso l’alto, e priva di ascensore.
E di un canto unico, e corale, Maurizio De Giovanni si fa portavoce: perché una città così grande, e così densamente popolata, con un’umanità così coesa e sodale, è una città che di antefatti abbonda.
Quando gli antefatti abbondano, tendono inevitabilmente prima poi a incontrarsi, scontrarsi, inframmezzarsi: nasce così una storia che ne contiene altre, ognuna ha il suo decorso e finiscono per convergere come tanti affluenti nel fiume unico del narrare, ed è questo che compie De Giovanni, fa quanto fa una Sirena, racconta. Narra di Napoli, e dei suoi abitanti:
“…Perché in questa città, e in questi quartieri, nessuno si tiene niente per sé.”
Narrare è arte antica, una volta il narrato era diffuso sotto forma di canto, ed in vari canti la Sirena era descritta unica e diversissima, una sola voce in un corpo di donna bellissima, e però diversamente delineato, per alcuni con attributi di uccello, per altri pesce, un’essenza sempre contraddittoria.
L’antefatto stesso della nascita di Napoli è una canzone che si perde nella notte dei tempi; è una storia sentimentale, quella di una Sirena dalla voce celestiale, chiamata Partenope, che fu battuta in una gara di canto da Orfeo con la sua cetra. Allora pensò bene di togliersi la vita per la vergogna, aveva l’aspetto di donna giovane e bella nella parte superiore del corpo e di uccello nella parte inferiore.
Secondo altri invece Partenope era una delle Sirene che, secondo una versione di una tarda leggenda, morì gettandosi in mare con le sorelle per l’insensibilità di Ulisse al loro canto. Quindi, visto che stavano sugli scogli, e vivevano in mare, la tradizione cominciò a immaginarle e raffigurarle con l'aspetto di belle fanciulle con la coda di pesce al posto delle gambe.
In sintesi, l’aspetto esatto della Sirena è contraddittorio, come è contraddittoria Partenope, l’antico nome di Napoli. Da un antefatto simile, sorgono mille e mille storie: la Signora le racconta.
Maurizio de Giovanni le raccoglie, e ne scrive. Molto bene.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    23 Luglio, 2021
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Gran finale

Questa è certamente, in ogni modo, l’ultima avventura in cui ritroviamo uno dei personaggi più noti della narrativa di genere giallo, protagonista assoluto dei romanzi seriali dello scrittore fiorentino Marco Vichi, il commissario di Pubblica Sicurezza Franco Bordelli, a capo della Squadra Omicidi presso la Questura di Firenze, in servizio negli anni ’60.
Intendiamo dire però che questo non è solo l’ ultimo romanzo di recente pubblicazione, ma anche l’ ultima storia di Bordelli certamente nelle vesti di commissario di polizia, prima di essere messo a riposo per raggiunti limiti d’età.
In verità, quest’ultima spiaggia sembrava già essere stata conquistata bravamente, appena in precedenza Bordelli pareva aver già chiuso con un gran finale la sua gloriosa e fortunata carriera in Polizia, iniziata subito dopo l’ultimo conflitto mondiale, che lo aveva visto coinvolto in prima fila nei ranghi dei marò del Battaglione San Marco, nell’uno e nell’altro fronte.
Infatti, nei romanzi appena precedenti a questo, Bordelli già prossimo alla pensione era stato catapultato in una serie di efferati e misteriosi crimini, quasi che la malavita, con i suoi rappresentanti principali, gli assassini, avesse organizzato un gran finale pirotecnico per chiudere in bellezza le storie del nostro poliziotto. In rapida successione i lettori affezionati ricorderanno come Bordelli si fosse industriato a risolvere vari delitti, che vedeva coinvolti prima un serial killer, poi una giovane ragazza assassinata a scopo di libidine, infine il barbaro omicidio di un povero vecchio aristocratico, tutti casi risolti felicemente assicurando alla Giustizia i colpevoli, con gran sollievo di Bordelli, angustiato dal dover lasciare misteri in sospeso. Si vede però che era destino che il nostro avesse da tribolare fino all’ultimo giorno utile di servizio attivo, infatti anche stavolta, a pochi giorni dall’uscita fatidica dai ruoli attivi, il commissario è chiamato ad indagare sul ritrovamento del cadavere di una donna, tanto bella quanto giovanissima, ripetutamente abusata da più uomini, in apparenza senza costrizione, ma deceduta per overdose da stupefacenti. Soprattutto, questo il particolare più atroce, abbandonata agonizzante ancora in vita, malgrado potesse essere assistita, aiutata, posta in salvo, ma evidentemente per evitare grane o qualsiasi coinvolgimento, i responsabili se ne erano crudelmente disfatti infischiandosene, senza remore o alcuna pietà umana.
Quasi per sfregio, con criminale noncuranza, la povera, innocente ragazza è stata gettata via come una cosa inutile, un giocatolo usato e rotto, giù sul greto di un torrente, dove è rinvenuta quasi per caso ai piedi di una scarpata, nel fitto di un bosco sulle colline intorno al capoluogo toscano.
“…Sembrava quasi una vendetta, come se le sacrosante nuove libertà che le donne stavano cercando faticosamente di conquistare, in un modo o nell’altro dovessero essere pagate a caro prezzo…”
Franco Bordelli indaga come suo solito con determinazione, cocciutaggine, risoluto a individuare i colpevoli, con la ferma volontà di porre rimedio all’estremo, ignobile, inumano insulto rivolto alla bellezza dell’esistenza, alla sacralità della vita umana brutalmente e ignobilmente turbata da un omicidio particolarmente abietto, agli occhi del commissario, proprio perché ai danni di una persona che si stava appena affacciando a godere della primavera dei propri anni.
Quello che spinge l’agire di Bordelli, e sempre lo ha ispirato, non è mai il senso del dovere di per sé, ma la propria indole, si fa guidare da un innato senso di rettitudine, il commissario proprio perché ha vissuto durante la propria giovinezza la guerra, le violenze, le uccisioni, il vuoto di sentimenti e di compassione di cui sanno dare prova gli uomini, certi uomini almeno, aborrisce ogni forma di oltraggio alla vita umana, specie se a carico dei giovani, delle donne, dei fragili e degli indifesi.
Franco Bordelli non è né un giustiziere né un fanatico della giustizia, intende la sua professione come quella di un medico che deve guarire un paziente, e cerca di farlo al meglio delle sue possibilità con le medicine, talora deve cauterizzare dolorosamente le ferite con il fuoco, allontanare e segretare il malato perché non infetti i sani, ma agisce sempre con scienza e coscienza, con squisita umanità, comprensivo e caritatevole con chi soffre, severo e inflessibile con chi agisce da untore diffondendo il male. Per questo tra i suoi amici più cari conta indifferentemente un ex ladro ed un giovane vicecommissario, una ex prostituta e dei piccoli malavitosi, tra i suoi nemici invece, senza tentennamenti di sorta, annovera e persegue scientemente chi commette un crimine pur avendo tutte le opportunità di non delinquere, di non fare alcun male, non inneggiare e seguire il Male.
Bordelli detesta cordialmente chi delinque, ma in particolare coloro che per nascita, censo, studi e privilegi dovrebbero nutrire invece maggior rispetto e considerazione per i mortali meno fortunati, non dedicarsi a sfruttare e abusare delle loro miserie, essere di condotta esemplare, di guida morale e di supporto nelle loro difficili condizioni di vita, il commissario proprio non tollera coloro che usano agire con tracotanza e altrettanta stupida superficialità per soddisfare le proprie personali turpitudini, alimentare il proprio ego, agire con protervia, superbia e prepotenza in nome di una presunta superiorità personale:
“…Quei ragazzi erano odiosi, disgustosi, e la loro bellezza non bastava a renderli belli. Trattavano le ragazze come schiave, non avevano per loro il minimo rispetto, e non era una questione di gentilezza, ma un atteggiamento interiore…”
Indaga Bordelli quindi sull’esistenza di giovani, bellissime, stupende “ragazze smarrite”, letteralmente smarrite, non per propria colpa perse ma perché irretite dai facili guadagni e dai lussi e dagli orpelli della società del benessere, sfruttate e abusate in un tragico e spregevole giro di balletti rosa da parte dei giovani bene, rampolli della meglio gioventù italiana, e di quanti conniventi li circondano e vivono alla loro ombra. Una sorta di Bunga Bunga ante litteram, ma molto peggio, perché sfocia nell’omicidio senza scrupoli. Un po' anche come rievocare scandali simili del dopoguerra, come il caso Montesi, per esempio, per chi lo ricorda o ne ha sentito parlare.
“…Forse era anche colpa di come era organizzato il mondo, che da sempre offriva così poco alle giovani donne piene di vita…e quando la povertà andava a braccetto con la bellezza, l’alternativa alla schiavitù del lavoro duro poteva essere la schiavitù ai piaceri e ai vizi dei maschi…”
“Ragazze smarrite” conferma il particolare modo di narrare di Marco Vichi; lo scrittore fiorentino non è un giallista in senso stretto, più che altro è un cantore della fiorentinità, un menestrello che si diletta d’affabulare i lettori con i capisaldi del vero buon vivere fiorentino.
Punti fermi che comprendono l’amicizia in primissimo luogo, quella vera, i legami fortissimi tra amici come, ma spesso assai più che tra fratelli, in famiglia, non a caso Bordelli non ha una sua famiglia pur avendo una compagna, non ha figli, nemmeno pro forma, il suo pupillo e allievo è adulto, è un vicecommissario, non proprio da considerare un figlio, ma in compenso, e di molto compenso, Bordelli ha tanti diversi, variegati e sodali amici cari, fedeli nel tempo e negli affetti.
Poi, la convivialità: con gli amici si mangia insieme, certo, ma la convivialità, quella vera, quella fiorentina, è altro, è oltre il termine, è la condivisione tacita, l’essere concordi in tutto e per tutto come un’anima sola, librata in alto da ali diverse, ma unica, unita, convivale e parimenti vitale.
Raccontarsi, raccontare, narrare, dire, riferire: sempre gli amici di Bordelli, e lo stesso commissario, si riuniscono per il piacere di stare insieme, certo, ma soprattutto per il reciproco piacere di scambiarsi storie, storie di tutti i giorni presenti e passati, proprie e di altri, storie di vita.
Vivono la vita, e la raccontano: così è da intendere la loro fiorentina convivialità.
A cui si aggiunge l’amore condiviso e conviviale per i libri, per le letture, per certi autori, Alba de Cespedes, Beppe Fenoglio, anche riferimenti precisi e più stretti come quello al Colonnello Bruno Arcieri, personaggio dei romanzi del caro amico di Vichi, Leonardo Gori, anch’egli valente scrittore.
Stavolta, visto che siamo in chiusura, Marco Vichi cita anche lo scrittore Carlo Lucarelli per il tramite del suo personaggio Achille De Luca, omologo di Bordelli presso la Questura di Bologna:
“…un certo commissario De Luca, un funzionario di grande esperienza entrato in servizio da giovanissimo, durante il fascismo…”
Anche si cita, quasi di soppiatto, senza parere, per caso o chissà, una Tataranni come l’omonimo sostituto procuratore dei romanzi di Mariolina Venezia.
In sintesi, Marco Vichi tramite Bordelli parla di sé, parla di come intende l’esistenza, si emoziona spiegandoci, quasi giustificando con pudore, il suo amore per quello che sa fare meglio: raccontare storie. Per coinvolgerci, crea un’indagine, ma ben presto guida il lettore su altre piste, quello delle storie nella storia, quella dei comuni avvenimenti che, quando ben resi, diventano racconti, e ammaliano, incantano emozionano, qui e ora Marco Vichi racconta l’amore della sua vita: scrivere storie. E ora che Bordelli è in pensione, come si andrà avanti? C’è possibilità di ritorno?
Franco Bordelli nei suoi racconti di vita rievoca anche i fantasmi della sua esistenza, persone a lui conviviali, che c’erano, con cui ha vissuto, di cui conserva il ricordo, e di cui spesso ha raccontato. Ricordo una battuta di Eduardo De Filippo, che di queste cose ne capiva, e che in “Questi fantasmi” fa dire ad un suo personaggio, a proposito della possibilità di ritorno:
“Sì…è possibile…sotto altre sembianze”.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    20 Luglio, 2021
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A' livella

“Cambiare l’acqua ai fiori “ di Valerie Perrin è esattamente quello che dice di fare, un ricordare, un raccontarsi, cambiare l’acqua, anzi di più, un rinnovare il liquido vitale, la soluzione fisiologica, zuccherina e vitaminica, dove sono immersi i nostri fiori, i nostri pensieri, quelli che ricordiamo, quelli che hanno scandito la nostra esistenza, i momenti lieti, quelli brutti, quelli, che sono i più, di ordinario scorrere dei nostri giorni. Cambiamo l’acqua ai fiori, ricordiamo, ricordiamoci, rinnoviamoci alla luce delle riconsiderazioni della raggiunta maturità, immersi in acqua fresca più nessun pensiero ristagna o imputridisce, si rinnova a nuova vita, lo rimettiamo a nuovo, rinverdiamo i colori, compie queste azioni l’acqua, l’acqua che a volte manca in una vita troppo arida.
“…la cattiveria è come il letame: anche dopo che è stato rimosso, l’odore rimane nell’aria a lungo…”
“Cambiare l’acqua ai fiori”, fatti i dovuti distinguo, descrive a modo suo, con altri termini, altra trama, con una protagonista femminile, ma identico sito, quanto già riporta “A’ livella”, la famosa poesia del Principe Antonio De Curtis, in arte Totò, soprattutto come detto per l’ambientazione, un cimitero, certo…ma direi finanche per un’etica, un rispetto, una delicatezza d’animo che aleggia e profonde come chiara, fresca e dolce acqua sia il romanzo che la lirica.
“Cambiare l’acqua ai fiori” è una metafora, un rendiconto, un rendez-vous, il racconto di un sunto da fare sul finire della propria esistenza.
Il fatto curioso, insolito, che conferisce una punta di novità alla trama è che Violette, la protagonista, tutto quanto detto lo fa proprio in un sito ad hoc per queste evenienze di trapasso dei ricordi da un passato ad un presente, un cimitero in un piccolo paesino della Borgogna, appunto, ma lo fa in una veste istituzionale che in genere non la immaginiamo indossata da una donna. Insomma, la signora non è che nel camposanto ci va in visita ai propri defunti, come normalmente staremmo a pensare, con un custode lugubre e baffuto che gironzola tra i viali, tutt’altro, Violette, nome di fiore, nel cimitero ci vive, e ci lavora. Il Nomen omen non si esaurisce nel nome di battesimo, il cognome è Toussaint, in italiano grosso modo si intende “Tutti i santi”, ma paradossale tutto il libro ha pochissimo, quasi nulla, questo è un romanzo serio, anche troppo, e per questo talora pesantuccio.
Inoltre, un po' troppo lungo.
Violette di giorno indossa un abito austero, pratico e professionale e si dedica a cambiare l’acqua ai fiori, si cura delle lapidi, rispetta e ama le anime affidate alla sua cura, conforta con cortesia, gentilezza, delicatezza ed una profonda empatia i dolenti in visita ai loro cari, non li considera la sua utenza, la sua clientela, ma i sodali da assistere nel loro cordoglio.
La signora Violette per assistere usa le parole, quindi parla, dice, racconta, ma può farlo efficacemente solo perché cambiare l’acqua ai fiori è un modo per prestare attenzione, ascolto, essere sodale:
“…Parlo da sola. Parlo ai morti, ai gatti, alle lucertole, ai fiori, a Dio (non sempre gentilmente). Parlo a me stessa, mi interrogo, mi chiamo, mi faccio coraggio…”
Poi di sera si ritira nel suo alloggio, toglie la divisa, indossa una mise agli antipodi con i panni finora indossati, e si riappropria della propria esistenza, diventa come tutti noi il cantore dei giorni della propria vita, la scrittrice di se stessa, riconsidera il proprio passato fatto di chiaroscuri, come quello di chiunque, più ombre che luci, in verità, e luci anche crudelmente forti, di quelle che accecano, tipo un matrimonio sbagliato, e di cui però ha appreso la lezione più comune, banale ed intensa al tempo stesso, forse proprio per questo inavvertita dai più: che i sentimenti sono come i fiori, perché crescano e restino belli, gioiosi, rigogliosi, l’acqua va cambiata, spesso e volentieri.
I sentimenti sono come figli, o figlie, sono fiori, e vanno curati con amore, sempre.
Lo dice a ragion veduta perché la signora ha occhio per i particolari, è stata una fotografa, e i particolari, i dettagli, le righe fuori margine, lo sfondo, parlano, raccontano, dicono tanto.
Perciò il romanzo della Perrin è corposo, un bel tomo, terra grassa, quella su cui i fiori prosperano, fiori con mille colori, quanti sono i dettagli della vita, perciò questo è stato un hit editoriale, ognuno trova quello che cerca e più gli aggrada, anche una storia d’amore, oppure un mistero, o anche un enigma su una misteriosa sepoltura, perciò questo è un libro multicolore, un romanzo rosa, giallo, nero, esattamente come i mille colori, i mille sentimenti che annovera l’esistenza, perciò questo è un testo a velocità variabile, talora va lento, talaltra più veloce, sempre comunque suscita la curiosità di sapere dove si andrà a parare, di che fiore si tratta.
Valerie Perrin ha scritto un bel libro, niente da dire, un bel narrato, su vari piani narrativi passato-presente, molto descrittivo, sinceramente sentimentale, ma nel senso buono del termine, certo non lezioso o melenso. Però ha scritto tanto, troppo. Credo che il suo lavoro, snellito, avrebbe presentato una linea più appetitosa. Dopo tutto, poteva condensare l’assunto che i sentimenti sono come i fiori, perché crescano e restino belli, gioiosi, rigogliosi, l’acqua va cambiata, spesso e volentieri.
Sempre, finché puoi farlo, perché la vita è quella che è, ci costringe ad arrabattarci per i motivi talora più astrusi, ma al tramonto, alla fine dei giochi, prende sempre la stessa forma, quello antico di una pialla da falegname, ci livella tutti in un unico sito, magari dove poi si trovano solo fiori finti, usi solo a raccogliere la polvere.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    14 Luglio, 2021
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Ddl Zan ante litteram

Questo è un altro romanzo seriale di Marco Vichi che ha per protagonista il suo personaggio oramai noto ai più, almeno per sentito dire anche dai non affezionati lettori dello scrittore fiorentino, il commissario di Polizia Franco Bordelli, dirigente la Squadra Omicidi presso la Questura del capoluogo toscano.
Le avventure del commissario Bordelli spaziano in un arco temporale di un quarto di secolo, che decorrono dall’immediato secondo dopoguerra fino al 1970 circa, quando il nostro, compiuti i 60 anni di età, dovrebbe accomiatarsi dalle file della Pubblica Sicurezza, ma certo non necessariamente dai suoi lettori, per godersi la beata pensione per raggiunti limiti d’età.
Come prescritto nei bei tempi andati, quindi relativamente giovane rispetto agli standard pensionistici odierni, alquanto spostati in età più avanzata, ma bisogna anche tener conto delle differenti aspettative di vita nel corso del tempo trascorso.
D’altra parte, il personaggio Bordelli è descritto aver vissuto una esistenza piena e tribolata, partecipando con assiduità, nel pieno della sua gioventù, a rischio e pericolo di lasciarci la pelle spesso e volentieri, al disastroso ultimo conflitto mondiale, sempre come marò inserito in prima linea tra le file del Battaglione San Marco, prima in guerra giocoforza al fianco dei tedeschi e poi decisamente contro di loro, per una precisa e deliberata scelta di campo, meglio consona ai suoi ideali di vita.
Nel settembre del 1943, dopo l’armistizio, Bordelli fa il suo passo avanti, si riprende il suo libero arbitrio, schierandosi nella guerra di liberazione con lo scaglione del suo battaglione San Marco aderente alla resistenza contro il nazifascismo.
Bordelli è quindi un uomo normalissimo, come tanti altri, che in virtù di dure esperienze vissute in proprio, è cresciuto divenendo un uomo pacato, maturo, riflessivo ma anche curioso, ancora esuberante ed affascinato dall’esistenza e dai suoi piaceri, proprio perché troppe volte ha rischiato di perdere la vita ed i suoi annessi.
Reso inoltre saggio, tollerante, paziente con i propri simili dalle sue crudeli, sanguinose e tragiche vicende di vita vissute. Inizialmente per indole ed educazione, poi come militare, come fidato commilitone, ha sviluppato fortissimo specialmente il senso dell’amicizia, della compartecipazione, della convivialità dell’esistenza; ha innato il valore della lealtà, dell’onestà, dei piaceri semplici ed essenziali, la buona cucina, le donne, l’amore, e di converso anche l’amore per i libri e la buona lettura, che dalla vita copiano e prendono ispirazione, senza mai uguagliarla perché si sa, la realtà supera sempre ogni fantasia.
Per questo nei racconti di Vichi la professione del commissario è un pretesto per giustificare i suoi giri, le sue domande, le sue conoscenze, le sue indagini sono spesso e di frequente occasioni per considerazioni sui tipi diversissimi di varia umanità esistente, dall’ex colonello dei carabinieri divenuto funzionario dei servizi, all’ex prostituta delle case di tolleranza a cui è legato da affetto fraterno, puro, scevro da ogni riferimento al sesso ed impronta alla genuina correttezza.
Conta tra i migliori amici il suo fido vicecommissario Piras ed il medico legale Diotivede, ma anche l’ex ladro Ennio Bottarini con il pallino per la cucina, oppure Totò, stavolta un autentico cuoco di professione della rinomata trattoria “Da Cesare”, orgoglio della gastronomia toscana, che insieme ai manicaretti gli propina con nonchalance racconti della sua giovinezza in pure stile gran guignol.
Inoltre, incontriamo spesso nelle sue avventure tante altre figure sui generis, un piantone appassionato di enigmistica, oppure un insolito e strampalato inventore da fumetto, un Archimede Pitagorico perennemente rinchiuso nel suo laboratorio, e altri personaggi tanto comuni quanto originali ciascuno a suo modo. Il racconto del quotidiano di Bordelli è diviso tra la professione che certo, con urgenza, richiede il suo apporto, il suo acume, il suo saper cogliere oltre le apparenze; e però è pregno di tanto altro, serate conviviali con gli amici nella sua casa alle porte della città, in campagna, dove è d’obbligo per ognuno degli invitati sdebitarsi per la lauta cena con un racconto di vita reale o inventata
È questo novellare, il raccontare, il fornire ad altri commensali una storia che concerne l’esistenza propria o altrui che tanto rivela sul cuore degli uomini, il vero piatto forte, la pietanza ricercata delle cene a casa Bordelli, su questo Marco Vichi basa la sua originalità di valente affabulatore.
Lo fa con un suo stile, un periodare a capitoli alterni tra pubblico e privato, tra lavoro e svago, tra città e campagna, Marco Vichi è uno scrittore di schietta, pura fiorentinità.
Con linguaggio diretto, semplice, descrittivo abilmente tanto di luoghi che di persone, tanto di fatti quanto di introspezioni, ci offre sempre un prodotto semplice ma genuino, forse scontato, a tratti forbito, ma sempre squisitamente e letterariamente valido e gradevole.
Accanto alla convivialità, la lettura, l’amore per la sua donna Eleonora, il suo cane Blix, il rispetto per la natura in cui spesso e volentieri si immerge nelle sue passeggiate sui colli intorno alla città, tutto questo si accosta spontaneamente a Bordelli, lo riporta ad uno stile di vita semplice ed intenso ad un tempo. Marco Vichi con i suoi romanzi con protagonista Franco Bordelli ci offre un’elegia dell’esistenza a misura d’uomo, e di converso, un elenco delle brutture, dei crimini che purtroppo accadono, delle nefandezze dell’animo umano in grado di lordare il creato, e come tali da bandire dalla quotidianità del consorzio civile, consegnandone i colpevoli, riconosciuti certamente tali, alla Giustizia, perché la stessa faccia il suo corso, mediata dalla tolleranza ma sempre inflessibile quando senza appello alcuno, nei casi di malvagità fine a sé stante, la più abietta.
Se il vivere civile è qualcosa di stupendamente compiuto nella sua semplicità, letteralmente divino e idilliaco, allora magari nelle violazioni più gravi come le violenze di ogni tipo, e l’omicidio è la più grave delle violenze esistenti, serve anche un’esemplare punizione manu propri.
Questa non si sostituisce alla Legge, che deve comunque fare il suo corso senza iniquità, ma va, come dire, talora a sottolineare con opportune umiliazioni il male fatto ai responsabili dello stesso, e questa punizione impartita brevemente di persona dai servitori della Legge, comunque sanzioni mai solo fisiche, devono servire ed essere atte solo a rivelare brutalmente agli stessi malfattori la proprio spregevole essenza, estrinsecandola a forza ai loro occhi, perché ne abbiano motivo di riflessione, seppure tardiva. Bordelli non è nuovo a ricorrere a questi mezzi ad uso di insegnamenti, nel corso della professione, e anche in questo romanzo finirà per ricorrerne. Giustamente, come vedremo.
Perché questo è uno dei casi più assurdi della carriera del commissario, un delitto tanto inutile quanto mostruoso, una violenza gratuita esercitata tanto per fare, senza alcuna motivazione di lucro o altro, un caso ignobile, quello che si dice un delitto senza movente, e proprio per questo un caso maledetto, che richiede giustizia immediata, severa, esemplare, perché sia di monito e di riparazione alla stortura dell’atto, una screziatura profonda nell’armonia della mutua e solidale esistenza umana.
Franco Bordelli, da poco reduce da un triplice successo professionale nel romanzo precedente a questo, “L’anno dei misteri”, con cui pensava di chiudere alla grande il suo curriculum di operativo di Polizia, è chiamato invece ad investigare su un ennesimo, brutale, atroce delitto.
Un aristocratico, un conte, un membro della vecchia e antica aristocrazia fiorentina, un uomo ricchissimo, ma in fin dei conti, altro non è che un povero vecchio, debole, inerme, indifeso, assai avanti negli anni, viene barbaramente assassinato del suo palazzo nobiliare, senza nessun indizio.
Perché l’indizio è sempre legato al movente, ed il movente in questo caso è unico, ed inutile ad un tempo, per questo assurdo e maledetto: l’uomo era un noto omosessuale dichiarato, un uomo che viveva serenamente da sempre il proprio orientamento sessuale senza fare del male a nessuno, portando con fierezza, trasparenza, onestà la sua condizione “diversa”, dati i tempi.
Ma i tempi non lo permettevano, e forse, chissà se lo permettono davvero oggi:
“…noi finocchi…dobbiamo vivere nascosti come carbonari…costretti a nascondere una parte di noi…la più vera…non è piacevole.”
Erano tempi quelli in cui un omosessuale per la società, per la chiesa, per la legge, per l’etica corrotta ed ipocrita corrente era un frocio, un finocchio, un invertito, un pederasta, un depravato, un immorale, senza nemmeno chiedersi chi, come, quando ed in nome di che cosa, avesse ritenuto corretto, giusto, umano, definirli dispregiativamente in questo modo.
Solo per questo, il Conte, l’omosessuale, l’uomo per bene che è, viene insultato, deriso, picchiato a mani nude, barbaramente trucidato.
Senza altro motivo.
Erano altri tempi, anni di ipocrisia, di bigottismo, di apparenze, di falsità, quando il termine “omosessuale” era un’invettiva, un’offesa grave, un marchio di infamia.
Anni in cui sarebbe stato necessario un decreto di legge Zan ante litteram, approvato nell’ordinamento dalla società senza ulteriore indugio, ad applicazione immediata, perché unico riconosciuto e indispensabile monito, riparo e rimedio contro la bestialità, contro l’odio gratuito, l’ignoranza, l’intolleranza becera, il mancato riconoscimento della diversità che rende speciale ed unico ciascuno di noi. Franco Bordelli indaga, e assicura alla giustizia chi si è maledetto di tale offesa al genere umano, un tipo di offesa pari a quello per cui ci si era impegnati in un conflitto mondiale.
“…In quella città era stato commesso un sopruso che prendeva forza dall’idiozia del pregiudizio e gridava vendetta. Era un omicidio più o meno nazista, e come tale andava trattato.”
Il commissario non agisce perché è un eroe buono letterario, o tanto moderno e sagace da essere all’avanguardia dei tempi: si muove invece con assoluta normalità, con comune buon senso, con sdegno genuino, in sintesi si muove con un solo sprone, la sua umanità, il comune sentire che spesso troppi non avvertono da soli, forse perché necessitano appunto dell’approvazione di un opportuno decreto-legge, confermato mai troppo presto. In mancanza di meglio.






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I libri di Marco Vichi con protagonista Franco Bordelli
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    12 Luglio, 2021
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Storia Naturale

Questa è una storia di migranti, una storia reale e non inventata, un’epopea di giovani che scapparono dalla più terribile delle sciagure, la fame, e giunsero a fatica in una terra che gli parve quella promessa, ma che paradiso poi non era, come ebbero modo di appurare.
Per far questo, lasciarono la loro terra natia, e insieme lasciarono i parenti, gli affetti a cui maggiormente erano legati, non tanto i genitori, perché per ogni figlio è fisiologico prima o poi staccarsi dai genitori, in certe condizioni esistenziali difficili è anche un evento che avviene anche presto.
Lasciarono gli affetti impossibilitati a seguirli, quelli più intensi e coetanei, in un certo senso, come una sorella per esempio, perché sposata, con un uomo barbaro, di nome e di fatto, tanto nomini, violento e dispotico, un simil scafista, da cui naturalmente è umano e doveroso sfuggire, certo.
Nessuno in grado di detenere potere sulla propria esistenza affettiva compierebbe un simile abbandono.
Appunto, servono però le condizioni per poterlo fare, per poter restare, chi abbandona non per libera scelta ma per coercizione obbligata il proprio luogo natio, chi scappa da esso, ha una belva feroce alle spalle che lo costringe ad allontanarsi, non consente alternative.
Tenute anche conto che le usanze dell’epoca sfioravano la barbaria allo stato brado per la condizione femminile, volevano che una moglie appartenesse comunque con ogni diritto al marito vita natural durante, una proprietà privata in tutto e per tutto.
Solo che l’intera vicenda, che presenta tratti duri alternati a momenti più dolci e commoventi, pagine violente ed altre delicate, per un tutt’uno delizioso ed avvincente, non è una vicenda dei giorni nostri, niente gommoni malridotti o baracche del mare caricate all’inverosimile, neanche un’emigrazione in piena regola, ma più una transumanza di muli da soma, carne da fatica che dalla fatica volevano trovare riscatto.
Stefania Auci racconta qui, e nel libro a seguire questo, “L’inverno dei leoni”, l’ascesa dei Florio, che dalla Calabria giungono in Sicilia divenendone i padroni, sul finire del diciassettesimo secolo fino al diciannovesimo passando per varie generazioni.
I capostipiti sono due fratelli, Paolo e Ignazio, decisi a tutto per emergere, tosti, inflessibili, il primo più del secondo.
A tutto, appunto; hanno una loro drittura morale, ma questa è solo una condizione iniziale, accumulare ricchezza richiede sacrificio, disciplina, tenacia ed acume.
Le generazioni successive avranno invece il compito di mantenere, conservare, gestire il già fatto, e questo è assai più difficile.
Colui che non ha, lotta, conquista e acquisisce a sue spese, corre rischio di impresa sapendo di poter vincere ma anche di poter perdere, aumentare la propria ricchezza quanto perderla di colpo.
Chi invece già ha, ha solo tutto da perdere: una volta in cima, puoi solo scendere, e la china può essere rovinosa, se non sai puntellarti al meglio.
Chi non è giunto in cima, ma ci è nato, non sa come si appronta il rifugio, ripararne gli inevitabili guasti dell’usura del tempo procurando e sostituendo le travi portanti con materiali più moderni.
La sana, anche se rude e brutale, competizione per arrivare in cima, si accompagna all’instaurarsi e rafforzarsi di una dignità d’essere, un valore morale che ti sorregge nei momenti difficili, puoi perdere tutto ma ti resta sempre la dignità, grazie a questa stai sempre a testa alta.
La competizione tempra, insegna a non avere scrupoli, ma intano crea e affina l’io interiore dove trai forza e ti rifugi in tempesta.
Quando invece rischi che la ricchezza da te goduta ma non da te acquisita si disperda, rinunci finanche alla tua dignità per mantenerne i vantaggi, vieni meno ai tuoi principi pur di continuare a veleggiare sul filo dell’onda. Non ti fai scrupoli, ma nemmeno coltivi un’ etica di valore, ed alla lunga questo fa la differenza.
Tutto il romanzo della Fauci, al di là della sua valenza storica, è un trattato sulla motivazione, sugli stimoli, sulle cause, i motivi, sulla molla interna che spinge ogni uomo ad industriarsi per migliorare le proprie condizioni di vita.
Come va che da un barchino per il minuscolo, e miserabile commercio lungo la costa si finisce per possedere flotte di naviglio commerciale: un’epopea, una scalata al vertice che solo per questo, unita alla saga familiare e relative vicissitudini, spiegano il grande successo commerciale del romanzo.
Quando questa origine della “roba” non è una sana e costruttiva ragione a migliorarsi e migliorare, ma solo una sfrenata lotta per il possesso inteso come potere di non far più dipendere la propria vita dalle miserie materiali che sempre esasperano gli animi, allora ogni conquista è solo sopraffazione, sfruttamento, malvagità d’accumulo e non possibilità di crescita morale, che dovrebbe sempre affiancare quella materiale.
Per padroneggiare, il simile sbrana il simile, diviene il Re, il Re Leone.
Passando dalle primitive buoni intenzioni per rassegnarsi alla dura legge che vuole che, per costruire grandi fortune, serve anche e soprattutto violenza, crudeltà, una fame più grande ma non più di cibo ma di ricchezze, di avidità allo stato brado.
Una bella storia, un romanzo storico ben costruito e scritto anche meglio, forse in maniera troppo telegrafica per possedere descrizioni storiche particolareggiate, comunque una chicca per gli appassionati del genere. Un libro curato, confezionato al meglio possibile, un buon prodotto accattivante. Ma non solo, a ben pensarci: il valore aggiunto del libro è ancora un altro.
Perché è un tomo poderoso, certo, nel testo leggiadro, a volte troppo, e nel numero delle pagine, magari ridondante, si vede che è costato comunque fatica all’autrice, un impegno ed una dedizione encomiabili…ma direi anche al lettore.
Per quanto si giunga alla fine senza abbandonarlo, magari si stenta un po', non è proprio come bere un bicchier d’acqua, da un certo punto in poi si boccheggia, d’altra parte, come dire, il clima, l’afa ed il solleone siciliani vanno per nominata.
A rendere sopportabile il tutto, però, è un valore intrinseco, velato ma sempre si sente che aleggia sulla storia. Un valore al femminile.
Trattandosi di un’autrice donna, si parla qui anche di donne, e della loro “mischina” sorte data l’epoca, gli usi, il maschilismo brutale dei tempi.
Solo che…in natura, il leone è il Re della foresta.
Ordina, comanda, incute timore, rispetto, deferenza, gestisce il potere con la legge del più forte.
Poi si stende, sorveglia il suo regno, con piglio severo, anche noncurante o sonnacchioso, ma pronto a far leva sulle sue doti per sbranare gli oppositori o che insidiano la sua supremazia.
Millanta il suo primato, anche quando non la esercita.
In realtà, chi gestisce il vero potere nei fatti, in pratica è la leonessa.
Va a caccia, snida e insegue le prede, insegna ai cuccioli, bada a tutto e meglio di tutti, probabilmente è la sola che tiene validamente testa all’esemplare con la criniera, senza darlo a vedere, non se ne accorge neanche il diretto interessato, convinto del contrario.
In estrema sintesi, tutto il racconto è una storia naturale.
Più che un romanzo sensu strictu, è un documentario romanzato, si sente la mano, l’impegno, la fatica della scrittrice, ha fatto un buon lavoro, dove i Florio sono i leoni di Sicilia, e Stefania Auci, a nome e per conto dei personaggi femminili, è una leonessa. Cose della vita vera.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    09 Luglio, 2021
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Un anno vissuto freneticamente

Sarà capitato anche a voi, a noi, a tutti, di avere una musica in testa, un motivetto che ti risuona ripetutamente nelle orecchie e nel cervello, una specie di tarlo musicale che non dà cenni di volersene andare. Quasi sempre si tratta di una marcetta allegra, un ritornello semplice ed accattivante, anche simpatico, in voga al momento e che perciò risuona ovunque di continuo, fischiettato un po' da tutti.
Avere una musica in testa non è solo un modo di dire, è un verso di una canzonetta d’ altri tempi, per l’esattezza “Zum zum zum”, che nel lontano 1969 era la sigla iniziale di una trasmissione musicale di grandissimo successo ai primordi della televisione, “Canzonissima”, uno dei più grandi successi televisivi della RAI, che allora deteneva il monopolio delle trasmissioni televisive.
Si era sul finire del boom economico, quando grazie ad un ritrovato quanto illusorio benessere, la televisione era ormai entrata prepotentemente in pianta stabile nelle case di tutti gli italiani, non era più appannaggio di pochi fortunati privilegiati che, bontà loro, ne concedevano magnanimamente la visione ad amici e parenti non in grado di sostenerne la spesa.
Nello specifico, “Canzonissima” era una vera e propria disfida tra i cantanti che andavano per la maggiore, un concorso tra loro ad eliminazione diretta a suon di canzoni ed esibizioni migliori, fino ad una tradizionale puntata finale la sera dell’epifania.
Si potrebbe affermare tranquillamente, senza tema di smentita, che quasi tutti gli italiani la sera della Befana si trovassero in casa davanti al televisore, in trepidante attesa, perché quella sera tra la sestina dei cantanti finalisti si proclamava il vincitore assoluto, scelto direttamente dal pubblico che, arbitro unico, votava il proprio beniamino da casa.
Tutti erano stimolati sia ad assistere alla trasmissione, sia a partecipare al voto, tramite un sistema di invio di cartoline, abbinato ad un concorso a premi.
Una vera e propria lotteria con un ricco premio in milioni di lire di allora, una grossa somma che poteva cambiare radicalmente vita e destino del fortunato cittadino possessore del biglietto vincente. Quindi non solo gli italiani potevano votare canzone ed interprete preferito, ma se favoriti dalla sorte riuscivano ad accaparrarsi uno dei ricchi premi in denaro in palio.
Va da sé che la trasmissione monopolizzava l’attenzione generale, potevano scoppiare le bombe ma nessuno distoglieva l’attenzione dal tubo catodico.
Questa premessa è un amarcord, perché “L’anno dei misteri” di Marco Vichi è esso stesso un amarcord, un ricordo, un riepilogo di frammenti della nostra storia, dei nostri usi e dei nostri consumi. Visti, filtrati, scrutati e analizzati attraverso una lente di antico e anticato vetro fiorentino, la fiorentinità è un must nei libri di Vichi.
Molti, se non tutti i romanzi dello scrittore fiorentino, soprattutto quelli come questo che hanno a protagonista l’ormai noto commissario di Pubblica Sicurezza in organico presso la Squadra Omicidi della questura di Firenze Franco Bordelli, sono racconti fuori genere: se all’apparenza trattasi di gialli, di enigmi, ed in effetti data la professione di Bordelli su omicidi e cadaveri si finisce sempre per cascarci, tuttavia il delitto è un mezzo, un pretesto, un’occasione per parlare di ben altro.
Marco Vichi più che uno scrittore, e certamente lo è, e bravo pure, scrive con stile fluido, scorrevole, discorsivo ed efficace nei dialoghi e nelle introspezioni, è in particolare un delizioso affabulatore, un cantastorie, un menestrello di quelli che intrattenevano gli artisti, gli ospiti eruditi, colti, geniali, l’intellighenzia dell’epoca alla corte dei Medici.
Lo scrittore inizia parlando di un argomento e ne ingloba poi subito un altro, declama una novella e scivola in una poesia, conduce il discorso, alterna fatti e ricordi, azioni attuali e avvenimenti trascorsi, intrattiene gli ospiti come un empatico anfitrione così come incanta e avvince i lettori.
Non a caso, indagini a parte, le sue pagine grondano di convivialità, di pranzi, di pasti luculliani, di trattorie frequentate sistemandosi direttamente in cucina, di cene con gli amici a casa sua davanti ad un cammino, con immancabile corollario di storie raccontate da ciascuno.
Il raccontare è un obbligo per Vichi, lo è per Franco Bordelli e la sua corte di amici e colleghi, direi che contare una novella è il pass obbligato per far parte della comitiva del commissario.
Per questo i romanzi con Franco Bordelli sono racconti di rievocazione, un nucleo centrale attorno a cui assistiamo a continue rimembranze dei tempi di guerra, di pace, di armistizio; flash d’infanzia, di giochi, di genitori, di studi, di amori passati, di vicende recenti.
Franco Bordelli trasuda di ricordi, rimpianti, malinconie, amore per i suoi simili: è un uomo tosto, duro quando serve, un maledetto toscano e però pregno di toscana umanità, e come tale bischero, arguto, brillante, pungente e sferzante, ma buono, sostanzioso, al sangue come una buona chianina alla brace, onesto e corposo come un buon chianti.
Il 6 gennaio 1969 anche Franco Bordelli, tra poco più di un anno ex commissario e pensionato ai giardinetti, è in attesa di assistere alla finale di Canzonissima, giusto per allenarsi al prossimo destino di senza lavoro. Troppo semplice per il nostro eroe, che in rapida sequenza è chiamato invece ad investigare la sera stessa sull’assassinio a scopo di libidine di una giovane ragazza, mentre si cruccia di poter risolvere prima dell’abbandono dal servizio il mistero di un serial killer, un mostro di Firenze ante litteram, uso ad uccidere prostitute periodicamente senza un filo conduttore logico, giusto per non lasciare conti in sospeso, casi irrisolti nel suo curriculum.
Nonché si ritroverà pure a prestare soccorso ad un vecchio amico invischiatosi in una oscura vicenda con i poteri forti. Insomma, i casi per Franco Bordelli non sono mai uno solo, ma come gli amici che conta sono diversi, e ognuno a sé stante.
Volete che manchi un intermezzo amoroso? Affatto, abbiamo narrato qui anche il decorso della sua love story con la giovane e bella Eleonora. Possibile che un bravo scrittore e un amico fedele come Vichi non renda anche omaggio ai libri ed ai colleghi scrittori?
Ecco qui citati uno dei suoi autori preferiti, Alba de Cespedes e la sua bibliografia, e lo scrittore anche lui fiorentino Leonardo Gori: il personaggio nato dalla penna di Gori, e cioè l’ex ufficiale dei carabinieri, e poi agente dei servizi Bruno Arcieri è oramai uno dei migliori amici di Franco Bordelli.
Perciò questo libro descrive un anno vissuto freneticamente dal nostro, giusto un gran finale prima della pensione, troviamo qui omicidi, serial killer, misteri risolti da un appassionato della settimana enigmistica, vendette e giustizieri improponibili e concreti ad un tempo, ma soprattutto si raccontano qui amori, affetti, amici, emozioni.
Questo è un libro caldo perché frenetico, un racconto con mille sapori come un saggio di gastronomia, un elenco di sentimenti e sensazioni variegate, esuberanti ed avvincenti, un allegro bailamme, una escursione tra le colline delle province toscane, e tutto l’insieme formano una squisita ribollita.
Una gustosa leccornia fiorentina, un piatto per gourmet, Marco Vichi è uno chef d’alta scuola.


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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    02 Luglio, 2021
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Ognuno sta solo sul cuor della terra

Questo è un romanzo attuale, moderno, ci parla del comune sentimento della giustizia, un sentimento elementare, innato in ciascuno di noi, e di come ognuno la sente nel proprio animo, quale pensa sarebbe il modo più equo e giusto per applicarla, senza però considerare che la giustizia è tale solo se rispetta la legge. Troppo spesso ci accade davanti ad una palese ingiustizia di sentirci beffati dall’applicazione della legge, che non provvede a rimettere le cose a posto come equità vorrebbe, allora ti senti prudere le mani, vorresti procedere da solo ed in maniera esemplare a ristabilire la correttezza dei fatti, ma non si può, resteresti beffato due volte perché quella stessa legge finirebbe per rivolgerti contro, aggiungendo ingiustizia ad ingiustizia.
Quindi, spesso legge e giustizia non coincidono, ma sono in aperto contrasto tra loro, ma a ben pensarci è la vita stessa che è così, non esiste il Bene ed il Male in assoluto rigorosamente distinti, ma esistono piuttosto infinite sfumature di toni dall’uno all’altro dei due estremi.
Raoul Montanari va però oltre, non ci offre un trattato su queste distinzioni, piuttosto un racconto veloce, rapido, avvincente, ben scritto con uno stile concreto e creativo ad un tempo, che delinea praticamente le differenze di cui sopra, ci fa leggere una storia vera, concreta, pragmatica, ben scritta che enfatizza il paradosso della convivenza civile, dove quello che è equo può non essere lecito, e viceversa, e lo fa riportandoci una certa realtà italiana, nascosta e relegata ai margini, che talora sfugge ai più, o viene poco considerata nel profondo come se ipocritamente fingessimo di non vedere, quasi non appartenesse al nostro tempo.
Perché tutti noi comuni mortali, per indole, siamo portati a pensare alla legge, alla giustizia, alla violenza, agli scontri a fuoco come un evento lontano dalla nostra quotidianità, che non ci riguarda, non ci appartiene e neanche ci compete, tutto quello che sappiamo in proposito ci viene dal cinema e dalla televisione, normalmente non ci tocca se abbiamo la buona sorte di non esserne mai coinvolti.
Raul Montanari ci presenta una vicenda normale, per certi versi, all’apparenza del tutto normale soprattutto per il protagonista coinvolto, l’ex poliziotto Ennio Guarnieri, perché fa parte del suo vissuto, della sua esperienza, Guarnieri è un uomo che sa benissimo che la realtà non è romanzesca, è verosimile, fortemente cruda, conosce come è davvero nei fatti il crimine, con i suoi connotati di violenza, tanto diffusa e facile da usare, quanto assurda e foriera di tragiche complicanze.
Che coinvolgono legge e giustizia in pari e discordante misura.
Fatti i dovuti distinguo, questo è un romanzo hard boiled, come le storie d’oltreoceano che vedono protagonisti personaggi notissimi per gli appassionati del genere, come il Sam Spade di Hammett o il Philip Marlowe di Chandler, gente che va per le spicce, non guardano tanto per il sottile, reagiscono duramente e d’istinto nell’esercizio del loro mestiere, e quindi nelle loro storie non mancano mai violenza e scontri a fuoco.
Il caratteristico detective hard boiled ha, difatti, un atteggiamento da "duro", ed effettivamente lo è, una durezza necessaria per cavarsela in ambienti dove disperazione e sopraffazione vanno di pari passo. Solo che la nostra storia è ambientata in Italia, trattasi di un hard boiled all’italiana, quindi.
In verità, “Il vizio della solitudine” di Raoul Montanari sarà pure un romanzo noir o un hard boiled, ma prima di ogni altra cosa è il racconto della vicenda umana di un comune ex poliziotto, un giovane entrato nelle file delle forze dell’ordine quasi per caso, e nell’esercizio delle sue funzioni si è reso conto di quanto possa essere difficile e paradossale la vita, come possa usualmente ritrovarsi completamente solo un poliziotto che desidera semplicemente fare bene il suo lavoro al servizio della collettività. Ennio Guarneri è entrato in Polizia quasi in punta di piedi, ed è stato un operativo per anni, per le strade, sulle volanti, a contatto con la malavita di ogni livello e con le mille incombenze con cui deve scontrarsi un uomo in divisa al servizio della collettività.
Giunge fino al grado di ispettore, ma già dai primissimi tempi in servizio impara, con amarezza e a sue spese, come spesso accade, che per quanto lui sia un esponente delle forze dell’ordine a cui spetta di far rispettare le leggi, esiste una differenza fondamentale tra legge e giustizia.
Le due cose non coincidono mai, praticamente, rispettare pedissequamente una legge non significa necessariamente essere nel giusto, quasi mai le vittime di una trasgressione giuridica ricevono giustizia, un delinquente abituale può continuare impunemente a delinquere anche se già consegnato alla giustizia, perché la legge stessa gli ha permesso di utilizzare un cavillo giuridico cui appellarsi per essere rilasciato senza che venga fatta giustizia, e via così.
Cose note, è un dilemma antico questo non sovrapporsi perfettamente l’una sull’altra di legge e giustizia, e i primi a saperlo, perché lo vivono a loro spese, sono proprio gli operatori addetti.
I poliziotti sono uomini come tutti, hanno per indole e per etica professionale un’anima onesta, leale, specchiata, sono però loro malgrado testimoni di ingiustizie quotidianamente, a cui le leggi non sanno porre rimedio. È semplicemente umano che questi fatti li scandalizzano, creino frustrazioni, indignano loro per primi, cercano di porvi rimedio in qualche modo, sempre tenendo presente che non ci si può improvvisare giustizieri, è un reato grave farsi giustizia da soli, oltre certi limiti non si può andare, non fosse altro che per la salvaguardia del loro posto di lavoro.
Tuttavia, in certi casi, è altrettanto umano sbottare, i cavalli scappano, la pazienza si esaurisce, la rabbia ha il sopravvento, occorre reagire, ripristinare in qualche modo un minimo di equità dove la legge e la giustizia non arrivano.
Per cui Ennio insieme ai fidatissimi amici e componenti del suo nucleo operativo, si premura di fornire fuori servizio a infimi delinquenti una lezione di buone maniere, a futura memoria.
Niente di drammatico, nessuna esecuzione stile giustiziere della notte, ma una sana scarica di botte che rende edotto il convenuto, per esempio uno spacciatore uso a farsi pagare brutalmente in natura dalle clienti minorenni, spaurite e terrorizzate, che forse è il caso di non reiterare l’insana abitudine. Come dire, fare un tagliando ad una vecchia autovettura, cosicché almeno per un po' di tempo fili diritto. Senonché un giorno Ennio, malgrado il parere contrario dei suoi colleghi di lavoro e di meccanici d’ autofficina fuori servizio, fa un tagliando a chi non doveva fare, il solito pusillanime ma con babbo mammasantissima e inviperito che gode di amicizie altolocate, con le conseguenze del caso che lo portano a dover lasciare il servizio.
Ennio Guarneri si trova così nel mezzo del cammino della sua vita completamente solo, non è riuscito a formarsi una famiglia, non ha più il lavoro che lo teneva occupato e dava un senso alla sua esistenza, trascorre le sue giornate in casa tenendosi splendidamente in forma fino a stordirsi con gli attrezzi ginnici, è affetto da un vizio della solitudine che però non gli pesa oltre una certa misura, vive la sua vita al meglio che gli riesce, con ordine, con disciplina, non a caso la sua abitazione è sempre a posto, pulita, spartana e in ordine come una caserma. Ha compiuto le sue scelte di vita, ne prende atto, non è tipo da crogiolarsi o autocommiserarsi, è un uomo con la sua umanità, la durezza che l’avvolge come un sudario altro non è che l’abito indispensabile per poter giostrare in certe indispensabili situazioni.
Raoul Montanari nella descrizione maniacale del suo personaggio, non ne fa un uomo vittima di solitudine, ma crea un eroe viziato dalla solitudine perché questa è la condizione degli eroi.
Lo scrittore è un maestro di creatività, ha fatto di Ennio Guarnieri come dire il protagonista di una poesia di Camillo Sbarbaro, tanto per intenderci, l’ex ispettore ha vissuto normalmente, conta amici, amori, colleghi, sconta le conseguenze delle sue scelte con dignità, la sua vita rispecchia la rassegnazione per come sono andate le cose, ma non sta a rimuginarci sopra più di tanto, la sera si stende nel suo letto sapendo che poteva andargli peggio e invece del letto ritrovarsi in una bara, riposa senza incubi, gode quanto può godere della vita, anche del semplice piacere di una passeggiata solitaria tra la boscaglia sulle sponde del Ticino.
Proprio durante uno di questi giri, la sua vita cambia radicalmente, e d’improvviso, come sempre succede. Assiste per caso ad una esecuzione tra malavitosi; d’istinto interviene, viene sfiorato da un proiettile, risponde rapido al fuoco per difendersi, e uccide il killer.
Mal gliene incoglie; l’uomo che ha ucciso è certo un malavitoso, ma è soprattutto, per ironia della sorte, una specie di buono, un aggregato ad una setta di giustizieri, manco a farlo apposta. Montanari rende attuale la storia introducendovi una realtà tanto triste quanto attuale, quella della tratta dei migranti. Perché i poveri disgraziati che si avventurano per mare a cercare fortuna altrove, sono come è risaputo vittime prima ancora di essere migranti, sono vessati, derubati, sfruttati, torturati dalla spregevole progenie degli scafisti. Contro costoro è sorta una associazione di vendicatori, persone a loro volta violente e brutali proprio perché sopravvissuti che si premurano di punire con la morte coloro che sono stati i loro primi aguzzini e persecutori. Ennio disgraziatamente ha ucciso, per pura autodifesa, uno di questi vendicatori, tra l’altro fratello di un capo, quindi condannato a sua volta a meno che non accetti di essere arruolato come killer, assai prezioso perché di razza bianca, non esistono infatti migranti ansiosi di vendetta di pelle chiara, per cui non darebbe adito a sospetto mentre avvicina gli scafisti da eleminare. Le cose andranno poi in un certo modo nel proseguo del libro, Raul Montanari ce lo racconta in maniera chiara, fluida, scorrevole, ha uno stile di scrittura cinematografico, le azioni si susseguono sulla carta come fotogrammi di un film, con in sottofondo, per colonna sonora, non il rumore degli spari o l’ululato delle sirene, ma il pensiero del protagonista.
Un pensiero che oscilla tra il giusto ed il lecito, l’iniquo ed il sotterfugio, l’incontro con la sua antica maestra delle elementari, con il ricordo di quando era uno scolaro con i sogni e i desideri di un qualsiasi bambino, il riscoprire l’amore ed il desiderio con una giovane simpatizzante della sinistra, il tutto al confronto della realtà attuale che sta vivendo, tra sangue, violenze e vendette, quasi un confronto tra Bene e Male, tra quello che era e che voleva diventare e quello che è.
L’ex ispettore Ennio Guarnieri si sente questa volta sperduto, stavolta non per vizio ma per scelta forse errata ma oramai effettuata, si trova spalle al muro, in piena solitudine, si rende conto davvero, magari chissà ispirato dalla sua antica maestra, che ognuno sta solo sul cuor della terra, a rischio di essere trafitto da ingiusto proiettile.
Niente di più errato: per ognuno c’è qualcuno sempre.
A salvarci tutti dal vizio della solitudine c’è un altro vizio, una vera ossessione nella vita, un vizio assurdo: l’amore. Ogni specie di amore: quello della tua vecchia maestra, quello di una ragazza che vende un giornale di sinistra, quello di uno strano tipo di sicario in impermeabile bianco, quello di ex colleghi e amici per la pelle. L’amore richiede l’altro, non la solitudine; non è un vizio, non è una scelta, non puoi sfuggirgli, l’amore c’è per tutti, è una legge di natura, un istinto naturale, arriva d’improvviso, ti prende e ti porta via, ti salva.
Nessuno sta solo sul cuor della terra.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    28 Giugno, 2021
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A tutto campo

Questo è l’ultimo romanzo di Antonio Manzini, ultimo in duplice senso, perché è quello di più recente uscita in libreria, ed è anche l’ultimo che ha come protagonista il suo oramai notissimo personaggio, il vicequestore romano Rocco Schiavone.
Il lettore affezionato ha seguito fedelmente fin qui il suo beniamino nelle sue avventure, succedutesi quasi sempre in un clima lattiginoso, tanto rigido quanto è ruvido il carattere del nostro, trasferito com’è da tempo, suo malgrado, in servizio presso la questura di Aosta.
Si sa, anche nei mesi più miti il meteo di quella città è quanto di più lontano dalle classiche temperate giornate della capitale, mal si adatta ad un romanaccio purosangue qual è Schiavone, tuttavia non è questo il solo motivo ostico al completo inserimento del vicequestore nel tessuto cittadino valligiano.
Aosta non è stata una scelta, ma una imposizione, una destinazione ad hoc, quanto più distante possibile dalla capitale, proprio per motivi disciplinari utilizzati però a iniquo pretesto, perché Schiavone per i suoi nemici, e ne ha tanti, ad ogni livello, è quello che si dice un cane sciolto, una mina vagante, una testa dura difficile da ricondurre a più miti consigli.
Un uomo cocciuto che non volta la testa se vede cose storte per la propria indole, meno che mai la testa la china davanti al potere rancido e corrotto, ed è un investigatore scaltro, abile, capace: un cliente difficile, un testimone scomodo per un certo sottobosco politico-affaristico che prospera nella capitale, assai più infido e malavitoso di quello della delinquenza usuale.
Rocco Schiavone, per chi non lo sapesse, prima ancora di essere un poliziotto è un uomo di buon senso, che ha appreso la lezione più difficile della vita direttamente sul campo, sulle strade dei quartieri popolosi e popolari in cui è nato e cresciuto.
L’ha appresa a menadito in certi ambienti rustici, ruspanti, spesso degradati e saccheggiati, dove l’esistenza ti costringe a vivere al limite, in ogni senso, e con quelle compagnie che ti ritrovi insieme e intorno, con cui giocoforza interagisci umanamente, creando vincoli tanto sodali quanto inestricabili nel tempo, talmente forti e sentiti che vanno come devono andare, oltre ogni legame di sangue.
Il tutto prima ancora che l’etica e la morale che si presume giusta e corretta ti venga impartita con lezioni sui banchi universitari o alla scuola di polizia.
Chi viene da certe scuole native, in quelle successive, se ha la fortuna di poterle frequentare, amplia gli scenari, si affina, si perfeziona, ma i principi fondanti dell’umana convivenza, quelli più forti, concreti e degni di essere vissuti, restano inalterati. Perciò Rocco Schiavone è una comune persona perbene, che viene da un sano pragmatismo, rifinito e perfezionato dalla crudezza del mestiere che esercita; il vicequestore creato da Antonio Manzini è un personaggio che piace perché è persona leale e trasparente, lo è nel bene e nel male, quando si concede un inopportuno spinello come quando indaga minuziosamente, sa quando e se intervenire con severità o tolleranza, essere intransigente o umanamente comprensivo, è uomo che vive e perciò ama e soffre, e più spesso, come per noi tutti, la sua vita è costellata di dolori più che di gratificazioni. Schiavone è una persona umanamente di valore, ma tosta perché disincantata, sa perfettamente che bene e male non sono tali come stabiliti dai codici. Fondamentalmente è una persona onesta, ligio ad una propria etica che presenta capisaldi come l’amicizia e l’amore per la donna amata, anche se la propria morale è basata più sul senso della giustizia che sul rispetto pedissequo delle leggi. Perciò il titolo ben si addice, in effetti dopo che l’autore si è felicemente cimentato in altri romanzi senza il suo protagonista seriale come, per esempio, ne “Gli ultimi giorni di quiete”, questa volta si riallaccia direttamente al racconto immediatamente precedente a questo, “Ah l’amore, l’amore!”.
Quindi ritroviamo in rapida successione tutti, ma proprio tutti, i comprimari e coprotagonisti che accompagnano il quotidiano del poliziotto. Ad iniziare dai suoi fedeli collaboratori e colleghi, superiori e sottoposti, ci sfilano davanti tutte le “vecchie conoscenze”, da Michele Daruta, il poliziotto che alterna la propria attività principale con il dare una mano nottetempo al forno gestito dalla moglie, sottraendo per questo volentieri ore al sonno e al riposo, a Domenico d’Intino, il classico pasticcione e però devoto come nessuno alla squadra, e ai compagni, e che idolatra il suo capo, per finire ad Ugo Casella, che ha finalmente dato sbocco alla sua vita sentimentale acquisendo anche un figlioccio geniaccio del computer, le cui abilità informatiche vengono utilizzate nel lavoro di polizia. E poi ancora l’efficiente e prezioso viceispettore Antonio Scipioni, e Italo Pierron, poliziotto confuso che un po' si è perso per strada, o meglio ha perso un po' l’amicizia e confidenza con il vicequestore, che pure si ostina sempre a porgergli la mano. Ritroviamo il giudice Baldi, il questore Costa, il medico legale Fumagalli, che scopriamo essere zio di una nipote anch’essa medico legale, efficiente come lo zio, poi la ormai conclamata compagna del patologo legale, Michela Gambino della polizia scientifica, tanto stramba ed eccentrica quanto preziosa ed efficiente. Infine, gli inseparabili, fidatissimi fino e oltre la morte amici d’infanzia e d’avventura, Sebastiano, Brizio, Furio, a cui Schiavone è indissolubilmente legato a vita, senza dimenticare gli amori perduti e passati, la moglie Marina, la giornalista Sandra Buccellato e finanche l’incantevole agente Caterina Rispoli, di cui si erano perse le tracce. Non può mancare il fidatissimo pet Lupa.
Sullo sfondo, un omicidio su cui indagare, un enigma ben congegnato, solido, appare difficile da ricostruire l’assassinio, tanto brutale quanto privo di un movente sufficientemente valido, ai danni di una studiosa ormai avanti con gli anni.
Un caso in cui le prove di ogni genere, da quelli dattiloscopiche a quelle indiziarie riconducono con tutta evidenza ad un unico colpevole, e però Schiavone non si fa convincere, meno che mai si lascia fuorviare, intuisce l’esatta dinamica e cerca certosinamente gli elementi che ne diano riscontro, sarà proprio la sua testardaggine, il suo acume, soprattutto il suo spirito di osservazione, il colpo d’occhio del borgataro attento ad ogni sfumatura, a portarlo sulla strada giusta, inchiodando il vero responsabile con prove inoppugnabili.
Schiavone protagonista assoluto, quindi, e tutte le vecchie conoscenze a girargli intorno.
Invece non è così.
Antonio Manzini qui e ora si è superato, ed alla grande: questo è tra i volumi dedicato a Rocco Schiavone forse il più corposo, certamente il più bello, completo, ed esaustivo.
Le vecchie conoscenze di cui al titolo vengono esaminate a tutto campo, sono loro, per una volta, i veri protagonisti e Schiavone fa da comprimario.
Lo scrittore con una prosa attenta, semplice ed elaborata ad un tempo, molto più matura e ricercata, di uno step superiore rispetto ai primi volumi della serie, ci propone un romanzo nuovo, con le fondamenta usuali, e però con una struttura diversa, migliore perché frutto dell’esperienza, più moderna ed efficiente, ci offre tutto il mondo attorno al suo protagonista non in una luce nuova, ma con chiarore più forte, più potente, ce lo mostra con un numero maggiore di lumen, volto a cogliere i minimi particolari spesso lasciati nella penombra.
Intendiamoci, lo stile, il modo di raccontare, il tutto è però sempre incantevole e delizioso, attraente e avvincente, una prosa fortemente descrittiva di luoghi, azioni, persone, con i loro sentimenti e soprattutto con i loro stati d’animo ottimamente delineati, in piena luce, trasparenti.
Illuminando tutta la scena a tutto campo, ampliando al massimo la visuale offerta al lettore, risalta anche Schiavone, forse ancora di più di quanto prende tutta la scena da solo, ce lo fa comprendere meglio come uomo e come investigatore, Antonio Manzini aumenta i particolari dell’insieme per condurci al punto focale del quadro. Questa volta lo scrittore si è occupato in primo luogo, senza parere e senza far torto al protagonista, dei personaggi ricorrenti, e lo fa con molta delicatezza, con discrezione, quasi con pudore, direi autentico amore per le sue creature.
Perciò ammanta tutta la storia di modernità, perché i valori fondanti di Schiavone sono valori moderni perché eterni, sono i valori universali di tolleranza, accettazione, accoglienza, fedeltà agli amici e agli amori. Perciò in questa storia troviamo tante storie, quasi quanti sono i comprimari citati, abbiamo per esempio racconti dei problemi di identità di genere, e tutto quanto questo comporti in termini di disagio, vergogna e clandestinità, di sensi di colpa e di persecuzione per coloro ancora costretti a subire certi pregiudizi; abbiamo il sentirsi inadeguato e però decisi a cogliere una nuova opportunità da parte di chi è stato suo malgrado protagonista in negativo di fuoco amico; abbiamo vecchi amori che si dissolvono, altri che si riscattano, Lupa che si perde con un lupo, Manzini racconta in “Vecchie conoscenze” tutto il buono della vita. Ed anche il non buono: perché l’esistenza è fatta anche di delusioni, dolori, tradimenti, non sarebbe vita se non ci fossero anche le disillusioni.
Le sorprese sgradite, le disillusioni amarissime, anche loro sono vecchie conoscenze, per noi tutti, non solo per Rocco Schiavone.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    17 Giugno, 2021
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Tutti gli uomini del Fuhrer

La Storia con la maiuscola, il resoconto fedele dei fatti e delle vicende umane così come sono realmente avvenute, è di per sé una lettura romanzata, avvincente ed intrigante, a riprova dell’assioma che nulla supera la fantasia quanto la realtà.
Ispirandosi ai fatti conosciuti, la fantasia ed il talento di un romanziere possono però ugualmente sbizzarrirsi, certo non per travalicare la verità storica, il che apparirebbe estremo, disdicevole o reso invece straordinariamente necessario ai fini di un romanzo distopico, piuttosto per riproporcela, riesumarla per una lettura colta ma piacevolmente scorrevole come un tomo di narrativa, anziché un saggio storico.
Questo di Fabiano Massimi è un libro realizzato davvero bene, un lavoro accurato, scrupoloso, fedele e certosino nei particolari offerti, ben fatto, scritto ancora meglio, una scrittura interessante, garbata, ben congegnata che accompagna il lettore, suggerisce e suggestiona, ma non si impone con la valenza del docente.
La lettura risulta ancora più avvincente ed interessante, perché lo scritto si addentra nei particolari meno noti al grande pubblico dei non addetti, che di certi eventi conosce solo le linee essenziali, restando all’oscuro di antefatti, coincidenze, sincronismi o minuzie spesso tanto singolari quanto stupefacenti.
L’intendimento, oltre a quello di offrire al lettore una gradevole lettura, ha come tutti i buoni libri anche un proposito più profondo, la Storia in un romanzo è utile soprattutto per rinnovarne facilmente il ricordo: la narrazione sistematica degli avvenimenti più oscuri e tragici, rilevanti nella vita dell'umanità, elaborata secondo un'interpretazione critica talora, quando ben esposta e meglio ascoltata, suona come monito perché certi aspetti deteriori e deleteri, per non dire infimi e delittuosi, non abbiano più a ripetersi.
Questo, quindi, è uno di quei romanzi che mescola realtà storica con la fantasia, con un corollario di personaggi inventati di sana pianta, che però tanto sono ben caratterizzati, ed immersi completamente nella realtà del tempo e delle vicende descritte e risapute, che talora appare davvero difficile distinguere la realtà dalla fantasia.
Questo è un punto di merito dell’autore, si è portati a chiedersi fino a che punto queste figure che agiscono a fianco, intorno, e insieme ai Grandi Nomi dei Grandi Fatti siano frutto di fantasia, del tutto inventati e mai esistiti, o siano davvero reali comprimari dei fatti del tempo narrato, che solo la nostra ridotta e frammentaria conoscenza degli eventi ci porta ad ignorarne l’esistenza.
Mettere insieme figure storiche che la Storia l’hanno segnata, nel bene come nel male, e altre comparse immaginarie che quei fatti ce li descrivono come se stessero veramente avvenendo sotto i loro occhi, anzi di più, che li vedono coinvolti in prima persona, non è un compito agevole, ci riescono al meglio solo grandi firme, il primo che mi viene in mente è Ken Follet, per esempio.
Su questa falsariga si muove Fabiano Massimi, un giovane autore colto, preparato, direi letteralmente un uomo da biblioteca, e bibliotecario lo è per davvero, oltre che romanziere è un vero e proprio studioso, un esperto particolarmente addentro nella Storia delle iniziali avvisaglie prodromiche che portarono all’avvento del nazismo in Germania e la salita al potere di Adolf Hitler, con le relative funeste conseguenze.
Direi che la Storia incanta e avvince di per sé, e Massimi non necessita perciò di romanzarla, però la sa sistemare meglio con trama e intrecci, e ne trae allora un bel romanzo tutto suo.
“I demoni di Berlino” è a suo modo un sequel, quello del precedente, e fortunato, romanzo dell’autore, intitolato “L’angelo di Monaco”, un testo originale, con un fascino da thriller, che esaminava una vicenda terribilmente reale, e però avvolta volutamente nelle spire del mistero, perché se resa nota all’epoca dei fatti accaduti, avrebbe stroncato sul nascere la salita al potere dell’allora astro nascente della politica tedesca, Adolf Hitler, di lì a poco cancelliere del Reich.
L’angelo di Monaco non faceva riferimento ad una statua simbolo della città bavarese, quanto all’esistenza tragica, triste e disperata, culminata in un presunto suicidio, di Angela Raubal, detta Geli, la giovanissima nipote del futuro Führer, che pareva ad ogni effetto legato alla congiunta da un ambiguo rapporto con connotati sia di incesto che di pedofilia, data la forte differenza di età zio – nipote. Data la morale corrente, infine, era un rapporto fonte di grande indignazione e scandalo sia tra le fila dei suoi nemici, sia tra i collaboratori più stretti, che cercavano mellifluamente di distogliere il Capo del Nazismo da questa insana fissazione per la ragazzina: tant’è che le indagini sul suicidio della giovane furono rapidamente sviate ed insabbiate.
In “I demoni di Berlino” Massimi riprende il filo della narrazione partendo dall’ex commissario Sigfried Sauer detto Siggi, un uomo retto, onesto e imparziale, sebbene in gioventù fosse stato anch’egli abbagliato dalle mirabolanti teorie del nascente nazionalsocialismo, ricredendosi ben presto e scontrandosi con i gerarchi coinvolti nel depistare le sue indagini sul delitto Raubal.
Sauer aveva investigato con onestà e diligenza, ma i poteri forti lo avevano brutalmente distolto per non compromettere la reputazione del capo del nazismo, costringendolo ad allontanarsi e a nascondersi a Vienna, mentre la donna di cui è innamorato, Rosa, si è unita alla Resistenza.
Sauer proprio per amore, perché viene a sapere che la propria donna è in pericolo, si reca a Berlino, nonostante i dolori e le disgrazie, lo sconvolgimento totale che ha comportato per la sua esistenza interessarsi a quanto non avrebbe dovuto interessarsi neanche per un attimo, data la posta in gioco; ma giunge un momento nella vita in cui un uomo deve fare quanto ritiene più giusto, incurante delle conseguenze, malgrado abbia già provato l’orrore:
“Non ho più paura di fare un passo falso e cadere, perché sono già caduto, e sono ancora intero”.
Sauer a Berlino incontrerà amici, nemici, conoscenti, commilitoni, colleghi vecchi e nuovi, alleati, simpatizzanti, spie; e ancora, ragazze assassinate brutalmente e gettate nei canali, e sadici torturatori, e tutte le persone che incontrerà sono l’emblema dell’epoca, lo specchio dei tempi: nessuno è, tutti appaiono, c’è chi lo aiuterà, chi lo tradirà, chi non è chi dice di essere, e chi invece è ben altro di quel che sembra. Può contare fedelmente solo su sé stesso:
“…l’unico modo per uscire da un labirinto di specchi è smettere di guardare la propria immagine riflessa e affidarsi alla logica.”
Tutto e tutti sembra convergere su Berlino, su cui il cielo non è mai azzurro ma ingombro di nubi scure, si avverte nell’aria lo scandire di un conto alla rovescia prima di un disastro imminente, che può segnare l’avvio o la fine di qualcosa che si avverte essere foriero di gravi tempeste future.
L’ex commissario tornato in campo per un’unica missione verrà coinvolto in una gigantesca e vorticosa girandola di azioni, missioni, avventure, tutto questo frenetico raccontare è il pezzo forte dell’intera narrazione, quello che ti inchioda alle pagine, non te ne fa staccare, ti tiene all’erta a forza, malgrado chiunque con un minimo di cultura storica sa già dove si andrà a parare.
Fabiano Massimi va a cento allora, il suo scritto non ha nulla dei testi di un placido bibliotecario, ma racconta una e tante storie insieme, intrecciate saldamente, delinea il Bene ed il Male in contrapposizione tra loro ma saldamente avvinti e confusi l’uno nell’altro, esattamente come accade nella Storia, nella vita reale.
Storia che vede contrapposte differenti forze in campo perché l’ago della bilancia delle prossime, imminenti elezioni, penda dall’una o dall’altra parte.
Da un lato gli uomini del futuro Fuhrer, tutti gli uomini del Fuhrer, i suoi demoni, la feccia del suo entourage e dei poteri forti che lo sostengono, decisi a vedere il piccolo caporale fregiarsi di capo del prossimo parlamento, sfruttando le paure e le rivalse del popolo tedesco uscito distrutto dal primo conflitto mondiale, perché possa farsi promotore di leggi autoritarie e liberticide volte alla conquista assoluta del potere.
Dall’altro la Resistenza, che comprende un coacervo non organizzato di individui ed associazioni di varia matrice politica, non solo avversari politici, ma cittadini comuni, le persone di buon senso, quanti ancora conservano equilibrio di giudizio sufficiente per dubitare della propaganda del partito.
Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, non è vero che il popolo tedesco all’unanimità stravedesse per Hitler, tutt’altro, la stragrande maggioranza non coinvolta affaristicamente con il regime ne diffidava, spesso disapprovavano quanto vedevano quotidianamente, violenze gratuite di ogni genere, squadracce di SA, vessazioni, ingiustizie e persecuzioni nei confronti degli ebrei usati come capro espiatorio, e sui dissidenti a ogni titolo dell’idea del Terzo Reich, la resistenza in sintesi comprendeva quanti, in patria e fuori, erano ben consci del pericolo dell’avvento delle teorie nazionalsocialiste, in particolare per quanto riguarda la questione ebraica.
Cosa teneva allora frenato il popolo tedesco dal rivoltarsi contro i nuovi capi?
Quello che dichiarò espressamente uno dei massimi esponenti del Terzo Reich, vi riporto la testimonianza diretta di Hermann Goering al tribunale di Norimberga:
«L’unica cosa che si deve fare per rendere schiave le persone è impaurirle. Se riuscite a immaginare un modo per impaurire le persone, potete fargli quello che volete».
La paura, il terrore, l’ansia, l’angoscia non tanto per sé, quanto per i propri cari.
Tutto il racconto di Fabiano Massimi trasuda di queste emozioni, riporta fedelmente le sensazioni di ansia e di stress continuo comuni dell’epoca nell’una e nell’altra parte, perciò questa è una storia avvincente, di trepidazione, di corse, di svolte repentine, di affanno.
Si narrano vicende di morte, di sofferenze, di torture: tutti insieme appassionatamente troviamo vittime e carnefici, condannati e torturatori, giustizieri e giustiziati. Assai più che nel primo volume, Fabiano Massimi descrive un’epoca, ma ancora di più descrive le emozioni correnti di quell’epoca.
Tratteggia il Male, indicandone i suoi maggiori rappresentanti in terra tedesca, che non sono tanto Adolf Hitler, che tutt’al più era un utile idiota, se non un ridicolo burattino manovrato da chi dal Nazismo traeva ricchezza e potere, ma i veri demoni di Berlino, tutti gli uomini del Fuhrer, che rispondono ai nomi di Joseph Goebbels, Hermann Goring, Reinhard Heydrich, Heinrich Himmler, e vari altri.
Questo romanzo altro non è che la precisa indicazione dei responsabili di una tragedia immane, e sottintende qual è lo scopo primario della lettura, dei libri, della cultura, della conoscenza storica:
“…Il mio lavoro è rimediare alle ingiustizie. Scovare i colpevoli e fargliela pagare.”
Perché i colpevoli sono tutti pittoreschi, e tutti banalmente cattivi.
Perché il Male è banale, ha ridicoli baffetti, ma il Dolore che provoca è enorme, eccessivo, ingiusto e ingiustificato. Non esita ad appiccare il fuoco ad un parlamento, e scaricarne la responsabilità sui buoni, pur di convincere gli indecisi a dargliela vinta, decantando di avere i mezzi per fare ordine e pulizia. Certamente sono in grado di far tacere il caos, con un silenzio tombale, però.
Questo romanzo, infine, insegna:
“…anche oggi, per passare dalla democrazia più evoluta ad un incubo totalitario basterebbe ben poco: un incidente, un pretesto, la minima distrazione.”
Perché tutto non ritorni, non si ripeta, la Storia va conservata, va rievocata.
Diffusa, come un buon romanzo.



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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    12 Giugno, 2021
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L’ araba fenice

La consuetudine richiede di etichettare un romanzo in base al genere letterario.
Secondo quest’ usanza, l’ultimo libro di Ilaria Tutti sarebbe da ascrivere al genere thriller, o giallo, o mystery che dir si voglia, insomma una semplice narrazione di genere poliziesco, che tiene avvinto il lettore producendo tensione e suspense.
Certamente è anche questo, un dramma, un enigma che tiene desta l’attenzione e l’interesse: però prima di ogni altra cosa è davvero una bella storia, un racconto interessante, intrigante, intenso e profondo, un romanzo elegante.
“Figlia della cenere” di Ilaria Tuti è un libro fine, di gran classe, fluente, impeccabile, presenta una scrittura linda, scorrevole, pregiata, un modo di narrare colto, ma accessibile e attraente per chiunque.
La storia attira e incuriosisce, soddisfa e appaga, e intanto insegna, suggerisce, istiga a riflettere su quel mosaico umano non solo metaforico, anche reale, antico, un affascinante reperto archeologico citato in questo libro:
“…dentro una chiesa…ad Aquileia…c’è questa cripta incredibile…il pavimento musivo paleocristiano più esteso ed antico d’Europa rimasto sotto terra per millecinquecento anni.”
Un mosaico intricato e complicato, formato da un numero innumerevole e finito di frammenti esistenziali, di tasselli da puzzle, di tessere tutte diverse eppure tutte uguali, intarsiate, pregevoli, o anche infime, disastrate, più spesso ottagonali, con angoli, forme, colori, rotture e screziature varie e variegate, che nell’insieme rappresentano un reperto che richiama alla mente l’animo umano come effettivamente è, un mosaico di sentimenti di vario genere visti nella sua costituzione, e nel loro intrecciarsi ed interagire tra loro nel progredire dell’esistenza.
Tutto il racconto è porto al lettore in forma accurata, premurosa, un modo di fare semplice ed elegante ad un tempo, presenta una struttura narrativa su tre piani temporali intersecantisi tra loro in modo armonico: l’alba dei tempi, e poi l’ieri, ed infine l’oggi, con un narrare mai sofisticato o fine a sé stesso, ma luminoso, illuminante, limpido e lucente.
L’autrice racconta, e illustra; ci fa vedere quanto narra, lo delinea in tante tessere e di tutte le singole miniature dispiega i minimi particolari, li riporta in luce, fossero anche sepolte sotto strati di terra, spolvera via la polvere del tempo, rivela così i motivi profondi dell’agire e del sentire e dell’essere dei propri protagonisti, siano essi un commissario di polizia o un assassino seriale a cui lo stesso dà la caccia.
Questa è un’opera curata nel tempo, lavorata a lungo, che ha richiesto analisi, accertamenti, riscritture, insomma fatica e impegno, non c’è un solo capitolo, o paragrafo o rigo fine a sé stesso, ogni termine trasuda la ricerca del modo più semplice, chiaro ed efficace per giungere al cuore ed alla mente del lettore e trasmettergli l’anima della storia narrata.
Per questo è un romanzo elegante: perché ordinato, perfetto, tirato a lustro.
In sintesi, è un libro al femminile, che possiede un’anima bella, e la veste elegante, agghindata in maniera regale e inappuntabile.
È una storia completa, compiuta, non solo perché porta a termine come meglio non si potrebbe l’epopea della protagonista principale della maggior parte dei romanzi di Ilaria Tuti, il commissario di polizia Teresa Battaglia, ma può leggersi anche senza nulla sapere delle sue avventure precedenti.
Solo, vale ricordare che sempre le protagoniste principali degli editi della Tuti sono donne, il commissario Battaglia di cui abbiamo accennato, e altre donne, come il fiore di roccia Agata Primus e le altre “portatrici carniche”, tutte originarie dei luoghi natali della scrittrice, il Friuli.
Sempre la Tuti ambienta le sue storie nella sua regione, tra le sue valli, le sue montagne, ogni volta riportandoci luoghi e fatti di cui molti sono all’oscuro, forse ignoti anche alla stessa autrice prima di rinvenirli. Qui, ad esempio, ci parla di Aquileia:
“Aquileia la dimenticata, Aquileia la sconosciuta. Non da tutti, ma da molti.”
I personaggi femminili di Ilaria Tuti, le “sue” donne e forse la scrittrice stessa, se è vero che ogni scrittore mette un po' di sé nei suoi personaggi, sono la quintessenza della moderna femminilità: non femministe, ma donne perché donne, liete di essere tali, non mogli, madri, figlie o etichette varie ma persone, consce del loro valore e del loro essere senza presunte superiorità di genere, differenti solo dal carattere biologico e da un sentire diverso dall’altrui genere, certo non per capacità e intelligenza.
Soprattutto sono donne in virtù dell’empatia particolare che sono in grado di provare per il resto dell’umanità, specie per quella più sofferente, non a caso Teresa Battaglia è una profiler di alto livello, e lo è non solo per gli studi e le competenze, ma per l’empatia che prova per gli autori dei delitti su cui indaga.
“Quella donna conosceva il linguaggio del corpo. Avrebbe potuto sezionare lui e le sue insicurezze con considerazioni spietate, e Dio solo sapeva quanto avrebbe avuto ragione.”
Teresa Battaglia sempre prova amore, e poi pietà, e autentico dolore, per le vittime dei crimini su cui indaga: e però sa perfettamente che la prima vittima di un serial killer è l’assassino stesso.
A differenza dei sodali e colleghi maschili, magari posti più in alto nella gerarchia del comando, la Battaglia comprende che per scoprire un assassinio serve investigare sui motivi che lo hanno spinto a divenire tale.
Più spesso, si tratta di motivi tali che ad essere perseguiti dovrebbero essere altri, gli autori di efferatezze fatte agli assassini, in epoca particolarmente sensibile, più spesso consapevolmente.
“Siamo tutti vittime di qualcuno e tutti siamo stati almeno una volta carnefici”
Solo una donna può possedere tale speciale empatia, non è la sua una banale motivazione sociologica o presunta tale, una forma perbenista finto alternativa di giustificazione dell’assassino, è un’empatia reale, unica e sottile nei suoi confronti, fortemente connotata di umanità, che solo una donna può essere in grado di estrinsecare per farsi guidare nella giusta direzione.
Teresa Battaglia assicura gli assassini alla giustizia innanzitutto perché smettano di continuare a fare del male a sé stessi, prima che agli altri, rinuncino una volta per sempre a punire sé stessi, e per farlo serve solo l’amorevole sensibilità di una donna, difficile da riscontrare in un uomo.
“Teresa Battaglia, invece, accettava la loro natura e così facendo la strappava al senso di repulsione. Lei riusciva a prendere tutto dalle persone che aveva davanti, anche l’orrore più grande, come un dato di fatto. Ecco perché era così brava nel suo lavoro. Non giudicava, non si scandalizzava. Cercava sempre di comprendere. Ma questo aveva un prezzo. Soffriva, con loro.”
Pertanto, Teresa Battaglia è l’emblema della battaglia che ogni donna quotidianamente intraprende per vivere la propria realtà esattamente come sa di poterla vivere, senza se e senza ma, solo come persone senza condizioni, conflitti o prevaricazioni o altri inutili e pretestuosi distinguo.
Un buon romanzo, in definitiva, e certo, un buon thriller.
Perché è la vita stessa che è un thriller: non sappiamo però cosa definisce meglio un simile genere, se la presenza tra i personaggi di un assassino seriale, oppure se è più specificamente da dirsi thriller, perché in realtà è un’azione ben più violenta, l’orrore indicibile ed inverosimile di torturare nel fisico e nella psiche in formazione un bambino, quasi a punirlo di essere al mondo, negargli amore, affetto, attenzione paterni, addirittura il nome, agire con tanta crudele indifferenza ed anaffettività da provocargli un buco al cuore ben più grave di una disabilità congenita di cui è sfortunatamente affetto.
“Chi può spaventare lo spavento?”
Cosa provoca maggior timore, paura autentica se non vero terrore, un comune accidente delittuoso, o il vivere ritrovandosi come marito un compagno brutale, violento, temibile per gli atti, le parole, le angherie fisiche e morali al chiuso delle pareti domestiche?
È un thriller, quello sì, la violenza sulle donne, la violenza domestica, le torture di ogni genere che una bestia esercita quotidianamente sulla propria compagna; come definire se non un orrore, un thriller, la sottile, subdola, vile, tragica violenza domestica di genere, per mero malato possesso di una donna?
“Avrebbe voluto dirle che a volte le persone non si avvicinano per ferire o infierire, e avrebbe voluto chiederle che cosa le fosse successo per farle credere il contrario…”
Sconvolge e annienta la perdita di un figlio, ancora in grembo, da parte di chi quel figlio avrebbe dovuto averne cura: questo suscita terrore autentico, questo sì, ti riempie il cuore di dolore e di pietà, molto più di un omicidio, per quanto efferato.
Ilaria Tuti tutto questo ce lo racconta, solo per questo la si definisce scrittrice di thriller; io la definirei piuttosto una ricercatrice, che rinviene il thriller celato nel comune quotidiano.
Ancora oltre, siamo quello che siamo in virtù del nostro vissuto, delle nostre esperienze: serbandone ricordo, modelliamo il nostro comportamento futuro, quindi la nostra consapevolezza di vivere coscientemente al meglio, inseguendo speranze e progetti, anelando attimi di felicità.
Non c’è thriller peggiore di accorgersi che, lentamente ma inesorabilmente, i nostri ricordi tendono a svanire per non ripresentarsi mai più.
Non esiste thriller peggiore, o migliore secondo i punti di vista, della sindrome di Alzheimer, o di altre forme di demenza, tali da provocare un lento, inarrestabile declino delle capacità di memoria, del pensare e del ragionamento.
I ricordi, lieti o meno, ci rappresentano, siamo quello che ricordiamo.
Perderli, significa perderci: in tutti i sensi, soprattutto significa perdere la nostra fiamma vitale, l’amore. Significa bruciare l’albero della vita che siamo, ridurci in cenere.
La cenere non brucia oltre, non alimenta fiamme.
Puoi solo stringerla tra le dita, ma impalpabile com’ è, sfugge via, si dissolve nel vento: questo sì che provoca sensazioni da thriller.
Polvere eravamo e polvere torneremo ad essere, è scritto: polvere, non cenere.
Quello che brucia si esaurisce, e scotta.
Teresa Battaglia è figlia della cenere, ma potrebbe invece definirsi più propriamente come l’araba fenice, che si diceva in grado di rinascere dalle proprie ceneri.
Perché Teresa Battaglia, in qualche modo, riesce a rimettersi in gioco, dopo le disgrazie e gli errori.
“…era rinata, e non dalla costola di un uomo che si credeva fatto a immagine e somiglianza di un Dio, ma dalle proprie, incrinate, doloranti, spezzate.”
Teresa Battaglia rinasce dalle proprie ceneri, come l’araba fenice: sanno farlo ogni giorno tante altre donne, come lei, e come lei impegnate ciascuna in una personale battaglia.
Esattamente come ci racconta Ilaria Tuti in questo bel thriller, pardon, in questo ottimo romanzo.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    08 Giugno, 2021
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Donne in cerca di guai

Alla nascita tutti noi lasciamo il rassicurante liquido amniotico in cui ci siamo beatamente crogiolati per nove mesi, per tuffarci in un altro fluido, il gran mare della vita, acque molto più tribolate, in verità.
Iniziamo sorpresi, tant’è che la nostra prima azione riflessa è il pianto, e annaspiamo, inghiottiamo l’aria che ci brucia i polmoni, così come l’acqua salata soffoca il naufrago.
Ci assale il panico, poi l’istinto si fa sentire prepotente, reagiamo, iniziamo a galleggiare, pian piano prendiamo confidenza con il nostro nuovo habitat, e soprattutto con la nostra nuova condizione, che ci vuole inetti fin quando non iniziamo a nuotare da soli in piena autonomia.
Per giungere all’autodecisione, serve un passaggio obbligato, necessita chi ci insegna a nuotare bene.
Colui che ti insegna ti plasma, inutile girarci intorno, come ci insegna così ci influenza, passiamo da liquido a liquido, ma è tutto qui, poi è dove vieni immerso e come ti educano a gestire l’immersione che ti condiziona l’esistenza.
Ciascuno a suo modo, quindi: dipende da vari parametri.
Per prima cosa, è questione di istruttori, di chi ci indica i movimenti giusti, quelli specifici, articolati, che sono anche i più fluidi, ci insegna le tecniche natatorie migliori, quelle più adatte ai diversi tipi di correnti che ci capiterà di incontrare nel gran viaggio esistenziale.
Magari ci fornisce pinne, canotti, barche, panfili per navigare: in un modo o nell’altro ci vengono fornite opzioni e strumenti sul come stare a galla in ogni circostanza, con la testa fuori dall’acqua, respiro sincrono e profondo tra una bracciata e l’altra.
I nostri educatori ci guidano ad interagire, nel modo che loro ritengono più giusto, con gli altri frequentatori del nostro elemento, sospingendoci verso alcuni e non altri, suggerendo e suggestionando le nostre scelte, fanno il loro meglio per renderci abili nell’intrecciare legami, alleanze, rapporti di vario genere, e sfuggire ai predatori ed alle insidie.
In base non tanto a quello che è più etico, equo, idoneo, ma a quanto a loro appare tale, secondo il proprio vissuto.
Che non è però geneticamente trasmissibile, e non necessariamente l’ideale.
Vivere è sinonimo di navigare nel gran mare dell’esistenza, non è solo una metafora.
Navigare nel mare, si badi bene, che ha una concentrazione salina pari a quella del liquido amniotico.
Ben diverso, del tutto differente, è trovarsi a nuotare nelle acque del lago.
Più di quella dei fiumi e delle sorgenti, l’acqua del lago non è affatto un’acqua dolce, semmai è un’acqua pesante, infida, invischiante, e nuotarci, sguazzare, essere costretti a vivere in quella, non è affatto facile.
È difficile, faticoso, rischioso, non gratifica e meno che mai ti senti come nel liquido natale.
Ti muovi a fatica, a tentoni, procedendo poco alla volta; con attenzione e diffidenza, dietro un aspetto placido, nel lago si nasconde un habitat fangoso, avvinghiante, predatore, comunque scomodo e disagevole, l’acqua del lago non è mai dolce, è più spesso amara, ardua e impegnativa, talora cattiva.
In estrema sintesi, questo è il tema duro, rabbioso, amaro, tutt’altro che dolce del romanzo “L’acqua del lago non è mai dolce” di Giulia Caminito, scrittrice affatto esordiente, ha dei trascorsi interessanti, ma che qui si presenta al suo meglio, uno step superiore, un libro che comprova il pervenire ad una maturità piena, intensa, compiuta.
Una bella lettura, una storia ben costruita e realizzata, con un linguaggio asciutto, mai dolce, semmai acre. Uno stile di scrittura particolare, a periodi lunghi, con elenchi, pensieri a ruota libera, fiumane di parole che però restano, impregnano il lettore, costringendolo a riflettere.
Le acque dense faticano ad evaporargli da dosso, restano.
Non sono acque dolci, non è come al mare, dove appena esci dall’acqua e ti sdrai sulla riva, già inizi ad asciugarti: qui ti immergi nella lettura, fatichi a riemergere, ti senti preso dalla storia e soprattutto dalla protagonista, che malgrado un nome beneaugurante, non ha un’esistenza facile; e però per un lettore, una lettura così intrigante, che ti coinvolge, è quanto ogni buon lettore richiede, è un’esperienza positiva, lieta, gaia.
Gaia è il nome della protagonista, una giovane che vorrebbe il mare ed invece per i casi della vita ha il lago come scenario della sua difficile esistenza, come ostica è stata la vita anche per la propria madre Antonia.
Il lago è così, ci sono i laghi idilliaci come quelli alpini, chiari e trasparenti, e quelli dalle acque torbide, come quello di Bracciano, per esempio.
Anche se non per tutti il lago è necessariamente dannoso:
“… cosa accade se in un lago butti insieme una persona buona e una cattiva, qualcosa si contamina, qualcosa viene sciacquato via, qualcosa si mescola e s’assorbe…”
Questa sembra una storia di crescita, il racconto di un rapporto madre - figlia, ma direi invece che è un di più, non è solo questo, almeno.
La madre, Antonia, è una donna disincantata, fortemente delusa dell’esistenza, che l’ha costretta ad una gravidanza da giovanissima, con tutti gli orpelli che questo significa per certi tempi, certi ambienti, certe difficili condizioni lavorative.
Non si perde d’animo, è encomiabile per determinazione, lealtà, capacità di sacrificio ed impegno, ma ancora una volta i suoi sforzi e le sue speranze non le arrecano alcun frutto, dopo essersi illusa ancora una volta di essersi costruita finalmente una vita normale per quanto modesta, a suo modo di vedere a misura di mulino bianco, con un altro uomo e altri figli, tra cui Gaia.
La vita le riserva evidentemente solo burrasche in mare aperto anziché porti sicuri, sbaglia sempre rotta anche se incolpevolmente, ancora una volta la brutalità dell’esistenza che si accanisce più spesso contro gli ultimi le presenta crudelmente un conto salato, quasi che il dio Nettuno godesse nell’accanirsi particolarmente con i più meschini, scacciandoli dal mare: come in effetti accade nella realtà, spesso, se non sempre.
Il nuovo marito di Antonia perde le gambe in un incidente sul lavoro, una delle tante frequenti disgrazie nel crudele mondo dell’edilizia, e per di più resta un disabile privo di qualsiasi supporto sociale, poiché era uno dei tanti, troppi, sfruttati in nero, senza assicurazione e garanzie.
Altro non resta alla famiglia che traslocare altrove, fuori Roma, sfuggire alla miseria incombente inseguendo per sopravvivere un sito meno oneroso, trovandolo ad Anguillara Sabazia, sul lago di Bracciano. Un lago, non il mare.
Antonia prova a salarne le acque, prova a crescere Gaia secondo la sua tenacia ed i suoi intendimenti, ad inculcare valori e sacrifici, l’amore per lo studio, la rinuncia a cellulare, televisore, capelli lunghi e curati, modernità, piacevolezze dell’esistenza varie, vuole ad esempio, giusto per capirci, che lo studio, ed i sacrifici che comporta, riscattino lei e la figlia:
“Leggeremo insieme se non capirai, studierò con te, ce la dobbiamo fare, ce la dobbiamo fare per forza”.
La donna non capisce che è la sua rabbia, non quella della figlia, commette l’errore madornale di non capire che non basta insaporire le proprie aspirazioni per renderle gradite anche agli altri, alla propria figlia, semplicemente la carica di pesi e aspirazioni che sono suoi, non della giovane, nessuno è necessariamente uguale a chi lo ha generato.
La giovane non può accettare supinamente la propria insoddisfacente condizione sociale senza una reazione sua, normale dopo tanta costrizione, restituisce una risposta personale cruda, dura, esasperata, non ha maturità e strumenti per gestire le difficoltà accettandole supinamente senza un riscontro emotivo di pari crudezza, come è logico che sia.
Perciò questo non è un racconto di crescita o di rapporto complesso tra madre e figlia, tutt’altro, è invece una critica dei tempi, della morale consumistica e della società che vanta assoluta mancanza di etica, che vuol dire assenza completa a tutti i livelli di protezione, assistenza e supporto a tutti i livelli del vivere civile per gli ultimi, i più fragili, gli esposti, i deboli e gli indifesi.
Perciò Gaia reagisce a suo modo, per esempio non è che non studia per ribellione, affatto, ma studia Filosofia, un indirizzo di studi che richiede un iter professionale lungo e produttivo molto oltre un tempo utile a breve. Una crudele, e sottile, forma di rivalsa nei confronti della madre, cui seguono altre reazioni meno sottili ma ugualmente amare, per quanto prevedibili o scontate.
L’esistenza di Antonia prima, e di Gaia poi, affonda, ma non perché c'è acqua intorno a loro, vanno a fondo solo quando l'acqua entra in loro.
Devono agire diversamente, non permettere che le cose che accadono intorno a loro entrino in loro e le facciano affondare. Non è un caso che le acque del lago siano diverse, mai dolci, definirle così è una presa in giro, un ossimoro crudele, lo capisce perfettamente Gaia, lo sa seppure inconsapevolmente anche Antonia, sono donne in cerca di guai in una realtà dove il lago è un luogo di detenzione per i non allineati alla morale corrente, dove relegare gli anarchici, i diversi, quelli che restano indietro, come in effetti avviene.
Complimenti a Giulia Caminito, ha scritto un bel romanzo, toccante e reale, attuale, moderno, e senza lieto fine, come è giusto che sia: dopotutto, l’acqua scura del lago è densa e scura come un caffè amaro, amaro come la vita.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    02 Giugno, 2021
Top 50 Opinionisti  -  

Cronache di poveri amanti

Questo libro è esattamente quello che dice di essere: uno spaccato di normale quotidianità, in cui tutti i giorni è così, niente sembra mutare con il trascorrere del tempo, e invece nulla è statico come può apparire.
Le acque placide celano sempre e comunque un sommerso vitale, vario e variegato, a suo modo anche turbolento, un solo sasso nell’acqua coinvolge tutti nel moto ondoso che ne deriva.
Non solo, ma il racconto possiede una ambientazione efficace, quella più veritiera di stati d’animo e situazioni reali, la piccola provincia italiana, che restituisce un quadro esauriente ed esaustivo della società del tempo narrato, Giovannino Guareschi docet.
Il compianto scrittore della Bassa Parmense descriveva efficacemente la società italiana piccola, laboriosa, industriosa, a tratti anche meschina ed ipocrita, ma vitale, sorprendentemente vivace malgrado il solleone e le brume nebbiose, a seconda delle stagioni.
Luoghi e comunità provinciali, certo, ma con un tessuto esistenziale intriso di valori ancora ben saldi benché in decadenza.
Partendo da fatti tanto usuali quanto banali, Guareschi faceva addirittura parlare i crocifissi, dilungandosi abilmente nello scrivere storie di paese, a volte comiche, altre amare, spesso struggenti, racconti dell’entroterra agricolo all’ombra del grande fiume, esemplificativi di usi, costumi e conflitti ideologici tipici dell’epoca.
Fatti i dovuti distinguo, Roberto Centazzo compie la stessa operazione, e nel suo piccolo con pari efficacia. Ed altrettanta fortuna, come ben merita.
Centazzo scrive bene, è un signor scrittore, non etichettatelo come un giallista, date le sue pubblicazioni precedenti in tema, non è un autore di genere, è semplicemente un buon autore, con un che di artigianale, possiede un suo stile fluido, semplice, scorrevole, eppure a suo modo incisivo, ma non solo, sottolinea anche in maniera arguta, con buon senso critico e sottile capacità di osservazione dell’animo dei suoi simili, vizi e virtù del nostro quotidiano.
Nella buona e nella cattiva sorte, delinea un quotidiano che sotto un apparente tran-tran da commedia nasconde talora tutto un misto di passioni, di desideri, di aspettative insospettabili, quanto più banale e soporifera appare a prima vista, tanto più rivela verve, smalto, esuberanza, spirito di iniziativa.
Tutti i giorni è così, ma così è se vi pare, più spesso la realtà non è mai quella che appare.
Roberto Centazzo è uomo di mare, perciò colloca l’azione in un ambiente a lui più congeniale, quello di Cala Marina, tipico centro di villeggiatura estiva sulla riviera ligure, incassato tra mare e pineta.
Da normale piccolo paese della provincia, si trasmuta in località turistica dalla morale corrente, che richiede, anzi esige, la sacralità delle vacanze e dei bagni di mare.
Va da sé che il paese conserva intatte le sue caratteristiche di piccolo centro, trasformandosi in amena ed affollata località turistica solo nei mesi più caldi dell’anno, spopolandosi quasi completamente fuori stagione e ripiombando solo allora nello status di usuale paese di provincia.
All’apparenza, ma solo in superfice, appare un sito sonnacchioso, con i residenti stabili tutto l’anno che solo a stagione conclusa si riappropriano letteralmente della propria vita e delle proprie abitudini lavorative non più turisticamente frenetiche.
Emerge allora la realtà, quella usuale e proprio per questa la sola valida, i momenti buoni e quelli meno buoni, i riti quotidiani che rassicurano, insomma risalta in ognuno la propria identità, buona o cattiva che sia, usuale o insolita, comunque reale e personale, a misura di ognuno, malgrado i giorni che paiono susseguirsi tutti uguali.
Punto di osservazione ideale di Cala Marina, e del suo habitat umano e sociale, che a modo suo riproduce in piccolo tutto il macrocosmo della realtà italiana, è la stazione ferroviaria, centro nodale della vita della cittadina. Se nei mesi turistici si trasforma in un formicaio di bagnanti che vanno e vengono in cerca di riposo e refrigerio, ciascuno portando le proprie piccole storie, talvolta le proprie miserie quotidiane in affannosa fuga, nei mesi di calma traversine, binari, convogli e edifici annessi, tutti marcati FFSS, vedono scorrere soltanto gli indigeni, i protagonisti abituali della quotidianità del luogo.
Tutta la prima parte del romanzo è una attenta, acuta e sottilmente umoristica descrizione della fauna umana rappresentativa del luogo: iniziando naturalmente dal capostazione, tale Dalmasso, che nella stazione non solo ci lavora per la maggior parte della giornata, ma ci vive, ci abita, in essa risiede in un apposito alloggio fornito ai ferrovieri.
Pertanto, il pover’uomo è sotto stretta osservazione della sua gentile consorte, in verità con sembianze e atteggiamenti alquanto da virago, così che Dalmasso non si libera mai dal controllo del nucleo familiare, non gode come chiunque della sacrosanta pausa dai propri legami semplicemente recandosi al lavoro. Ci appare così come il classico, piccolo, bistrattato travet vessato dal coniuge, e che trova unico sfogo e riparo nel contemplare in uno stanzino fuori vista il plastico fedele della sua stazione, immaginandosi una vita diversa, ricreandosi una realtà a sua sola misura, desiderata e solo utopistica, al di fuori di qualsiasi vigilanza:
“…Tutto riprodotto fedelmente in scala. Tutto sospeso in un istante di tranquilla serenità, quasi di felicità. In fondo gli sembra di vivere dentro un modellino. Un microcosmo a sé.”
Seguono via via le altre figure diciamo così istituzionali di una stazione ferroviaria di provincia, come il giornalaio Silvano, titolare dell’unica edicola della stazione, un uomo fatto ma con il candore e la semplicità di un bambino, ma assolutamente non sciocco, accanito e appassionato lettore di fumetti, al punto che ha intrapreso la sua attività proprio per leggere i comics in pace come e quando vuole, come dire per unire utile al dilettevole, lavoro e passione. E chiamalo sciocco.
Non manca la figura femminile, la titolare del bar della stazione, una bella donna giovane, intelligente ed affascinante, conduce la sua attività con competenza, successo ed efficacia, è ammirata e ambita da molti per la sua grazia ed avvenenza, tutti i giorni è così, un sogno, uno splendore, e pochi sospettano invece il suo tormento interiore a causa della preoccupazione per la sorellina disabile Sofia, affidata alla sua custodia:
“…ah, le donne! ...Colgono sfumature che a noi sfuggono…Alle donne giungono vibrazioni ignote agli uomini.”.
E ancora Bartolomeo il tassista, che nel pieno della stagione non ha un attimo di tregua, scorrazza i turisti dalla stazione agli alberghi, alle pensioni, alle camere in fitto, e viceversa, invece il resto dell’anno inganna il tempo fermo nell’apposito solitario posteggio per taxi, seduto nella sua autovettura, a trascinare quanto più a lungo è possibile la compilazione delle parole crociate che compila lentamente e certosinamente fino all’ultimo riquadro.
Un indigeno che il treno lo usa tutti i giorni in virtù della sua condizione di pendolare è il professor Martinelli, insegnante di matematica al liceo in città, che nella stazione è spesso presente e si intrattiene con tutti, da Silvano acquista i quotidiani, al bar di Ludovica consuma sempre colazione e qualche pasto.
Il professore è di casa in stazione, con tutti conversa, rifilando le sue pillole filosofiche-scientifiche:
“La serenità è l’insieme di tutti i momenti positivi di una vita che non possono assolutamente essere annullati o sminuiti da un singolo episodio spiacevole.”
E tutti convengono, non capiscono ma si adeguano all’uomo di cultura, dalle cui labbra pendono.
Le forze dell’ordine non hanno una postazione fissa in stazione, date le ridotte dimensioni e la minore importanza della stessa, per cui la legge è rappresentata, di perenne passaggio e di straforo dal Maresciallo Norberto, un maresciallo della Polizia trionfo e pieno di sé, raccolto nell’autocompiacersi del fascino della divisa con cui cerca di far colpo sulla bella barista Ludovica.
Insomma, un graduato simile al personaggio di Vittorio de Sica nel film “Pane, amore e fantasia”, un cult degli anni Sessanta, insomma un po' vanesio e vanaglorioso, ma fondamentalmente una brava persona, forse un sempliciotto ma ricco di umanità e buon senso.
Un animale domestico non gira in stazione? Che so, un gatto, un cane randagio?
No, ma c’è di meglio, c’è Taddeo, che riserva una sorpresa finale.
Infine, Roberto Centazzo non dimentica gli ultimi, gli invisibili, quelli dimenticati da tutti e di cui molti neanche si accorgono, l’addetto alle pulizie, il “Muto”.
Un personaggio semplice, un’anima candida, sembra un reietto ed un emarginato, tutti i giorni è così, passa lo straccio a pulire in ogni dove, silenzioso ed efficiente, il suo lavoro sembra grazia ricevuta per vivere, invece è persona degnissima, un umile e coscienzioso lavoratore che esercita con estrema dignità la sua solerte opera, intelligente ed acuto, l’anima narrante di tutto il libro.
In una simile realtà, tutto sembra scorrere senza scosse, in maniera tranquilla, usuale, tutti i giorni è così…Invece no: proprio a Cala Marina avviene l’avvenimento principe della cronaca nera, un omicidio. Con tutti gli ingredienti che attirano l’attenzione: una bella donna misteriosa che arriva in stazione, un cadavere ritrovato in un capannone, un mistero fitto di scomparse, la polizia che brancola nel buio, la magistratura e l’opinione pubblica che reclamano a gran voce un colpevole, un povero disgraziato che viene messo in mezzo giusto per dare in pasto all’opinione pubblica un mostro da sbattere in prima pagina per placare le acque, infine l’intuizione e la testardaggine del bravo poliziotto che scopre gli altarini.
Insomma, Cala Marina, dove tutti i giorni è così, invece diventa lo scenario di una storia tipica, una serie di cronache di poveri amanti che trova il suo epilogo nella piccola provincia sul mare.
Come dire, tutte le storie terminano nel gran mare della narrativa, perché i romanzi riportano la realtà, e non il contrario. Nella piccola provincia, tutti i giorni è così, appaiono storie nuove e fatti reali.
Roberto Centazzo ce le riporta fedelmente, e piacciono.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    31 Mag, 2021
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La spia che venne dalla Germania

La colpa è di certi film, e di certi autori, che ci hanno abituato a considerare la vita di una spia come una serie pressoché infinita di mirabolanti avventure, vissuta non tanto per patriottismo o in lotta contro un cattivo di turno, ma quasi esclusivamente per la goduria delle scariche di adrenalina.
Con tanto di sparatorie, inseguimenti spericolati, spettacolari corse frenetiche con tutti i mezzi a disposizione, automobili, motoscafi, aerei, bella vita e onori a profusioni per aver salvato l’intero pianeta dal pazzoide di turno.
Niente di così prosaico: la vita di un agente segreto è per forza di cose di quanto più anonimo e ordinario ci possa essere, ammantata di discrezione, di ordinaria amministrazione come e più di un banale travet.
Secondo il principio per cui il posto migliore per un albero dove confondersi è la foresta, un agente segreto che opera in terra straniera, per servire il proprio paese sprovvisto di protezione diplomatica, deve mimetizzarsi il più possibile con l’ambiente a lui estraneo, assimilarne alla perfezione la lingua, gli usi, i costumi, le abitudini di ogni tipo, da quelle alimentari ai normali ritmi quotidiani, scanditi dalle usuali attività del luogo dove agisce.
Vive, lavora, segue abitudini e consuetudini secondo uno stile di vita modesto ma dignitoso, mantiene sempre basso tenore di vita, non ha lussi o vizi eccentrici fuori portata al suo status, e per questo è insospettabile: si comporta come chi ha pochissimo, ma quel poco non vuole perdere, per cui è metodico, ligio, ossequioso e fedele alle leggi. Più spesso gentile, timido, modesto.
I suoi obiettivi vengono perseguiti con calma, tempo, pazienza; poco alla volta, senza parere, sottraggono segreti ed informazioni badando non solo a non lasciare traccia, ma nemmeno a far trapelare il minimo sospetto che quanto si custodisce è già stato trafugato.
L’agente segreto al servizio di una potenza straniera c’è senza mai apparire, agisce clandestinamente, guarda, vede, osserva, scruta, raccoglie informazioni e riferisce in silenzio, continuando a svolgere le normali attività dell’esistenza, tenendo un profilo basso.
Per questo le spie più efficienti e redditizie sono quelle di cui neppure si sospetta l’esistenza, appaiono inverosimili in tale veste, non hanno il profilo, il fisico del ruolo, passano inosservati, esattamente come dai loro intendimenti.
Sempre a causa di un certo modo spettacolare di trattare l’argomento, si è portati a credere che i migliori servizi di controspionaggio siano quelli dei maggiori paesi occidentali usciti trionfatori dall’ultimo conflitto mondiale, Stati Uniti e Inghilterra in testa, e i servizi di sicurezza crudeli e sbrigativi del colosso sovietico.
Si fa fatica a credere che invece uno dei servizi segreti più efficienti e redditizi fu quello della Germania nazista, guidata dall’Ammiraglio Canaris.
A torto o a ragione, gli efficientissimi uomini dell’ammiraglio Canaris agirono, anche a guerra finita, perché spinti da motivazioni fortissime sull’egemonia tedesca, continuarono ad agire fruttuosamente perché arruolarono nelle loro file agenti con il profilo dismesso a cui abbiamo accennato, quelli di sicura riuscita proprio per la “normalità” del loro esistere.
Ulla Lenze ci parla di questo nel suo romanzo, “Le tre vite di Josef Klein”, avvincente e avventuroso, seppure a tinte soft, che altro non è che una riconsiderazione del controverso ruolo di spia.
Date le premesse che abbiamo fatto, non esiste spia migliore di Josef Klein.
Emigrato negli Stati Uniti, svolge una esistenza normalissima, è letteralmente un uomo modesto e invisibile, a cui nessuno dà peso, o gli rivolge uno sguardo di troppo.
Ha una casa, un lavoro, una compagna, ed un’unica grande passione, la radio, di cui acquisisce in breve tempo eccezionali competenze.
Josef Klein si sente americano, senza neppure sforzarsi troppo, il tipico brav’uomo della piccola-media borghesia americana.
Come un americano vive, è per tutti Joe e non più Josef, si destreggia abilmente nelle contraddizioni della società americana, come un bravo americano ha sofferto e superato la grande depressione rimboccandosi le maniche, è uno di loro; ma dimentica che sopra ogni altra cosa è un tedesco.
Per patriottismo, o per altro, sempre tedesco resta, e come tale è ricercato.
Viene reclutato suo malgrado dei servizi, non tanto per quello che è, ma per quello che non appare essere; e per reclutarlo, si fa leva sull’identità dell’essere tedesco, sui complessi di colpa di dover servire la patria, insomma sul fatto di spiare per i tedeschi semplicemente perché è tedesco.
E dove non arrivano a ricordarglielo i servizi, glielo ricordano altri, finanche la sua famiglia di origine.
Come tedesco lo ritroviamo dapprima rinchiuso ad Ellis Island, ma non bussa come emigrante in cerca di fortuna alle porte dell’eldorado americano, bensì rinchiuso a forza come ospite coatto, in qualità di cittadino di paese nemico, prigioniero nell’isolotto che una volta fungeva da ingresso in America per tanti disperati in fuga da guerra e miseria:
“…Nel 1946, nelle sue prime lettere, aveva dovuto spiegare al fratello che dall’inizio della guerra Ellis Island era diventata un campo d’internamento per stranieri nemici…”
Verrà in seguito espulso dall’FBI americano per sospetta attività di spionaggio e costretto a ritornare nella “normalità”, quella vera, non fittizia per ragioni di servizio, della sua famiglia di origine, o di quanto ne rimane, suo fratello Carl, la moglie Edith ed i loro figli, ai quali non è ancora ben chiaro chi sia in realtà questo loro congiunto, che un tempo assai poco lontano provvedeva al loro sostentamento inviandogli dalla prospera America ricchi pacchi di derrate alimentari e altro di prima, e introvabile, necessità:
“…caffè, strutto, latte in polvere, burro, uova in polvere, sapone, sapone da barba, tabacco, sigarette, aghi e filo, aspirina, saccarina, dadi da brodo, cioccolata, pepe, noce moscata, chiodi di garofano, lana da rammendo…fiocchi d’avena, farina, fecola, riso, gelatina, bende, aspirina, lievito in polvere, cioccolata, filo, nastro adesivo, aghi, lana, tabacco, pettine, calzini, lamette da barba…”
Ed ora ritorna da loro inspiegabilmente senza nulla della lontana prosperità, con un costosissimo volo diretto New York – Francoforte a spese dell’FBI, senza documenti, senza bagaglio, senza nessuna “normalità”, quella che il comune cittadino tedesco perseguita negli anni dell’immediato dopoguerra come il bene supremo dell’esistenza:
“…perché dalla ricca America è tornato come un povero diavolo? Non è neppure a zero, è in negativo…”
Infine, Josef Klein lo ritroviamo nella sua terza vita come Josè, nelle foreste del Costarica, impiegato come tecnico geografico nel tracciare i rilievi del paese.
Un uomo normale, quasi banale, che in effetti cova un suo segreto.
E lo cova suo malgrado.
Se è vero che ha tre nomi, Josef, Joe, Josè, tanto uomo normale non è: è infatti un agente segreto, date le sue caratteristiche, e le sue competenze tecniche sulla radio, assoldato agli ordini del servizio di Canaris, con le sue propaggini sparse ovunque sia in America che nei territori sudamericani.
Ulla Lenze ci racconta di una spia, ma allo stesso tempo ci ricorda che anche un agente segreto ha una famiglia, una sua normalità; allora la scrittrice mette insieme i servizi segreti come fossero un servizio alla famiglia, che è quello che in effetti è. E che serve ad inquadrare nei ranghi Josef.
Quella di Josef Klein, Joe l’americano, don Josè l’ecuadoriano non è una storia, è un’epopea; Ulla Lenza intende dar voce all’anima tedesca che nessuno ha ascoltato, quella a cui è stato assai subdolamente promesso di agire non a scapito di altri paesi, ma a difesa del proprio.
Come dire dare voce agli esclusi, e sono esclusi gravati dalle colpe terrificanti dei loro capi, e da loro coinvolti in prima persona. A loro difesa, a loro scusante: non erano i nazisti i cattivi, lo era tutto il popolo tedesco, quindi come dire non lo era nessuno, tutti colpevoli e nessun colpevole, ho solo obbedito agli ordini. Storia vecchia, scuse puerili per giustificare la banalità del male.
Liberarsene, e restituire onore e decoro alla propria terra, è forse l’unica, normalissima motivazione che sostiene Josef Klein e altri come lui, agenti segreti al di sopra di ogni sospetto.
Ulla Lenze ci offre la possibilità di capire, e per farlo deve parlarne, serve delimitare per apprendere:
“…Parlare di una determinata cosa era perlopiù un segno che non la si era capita...”
Ecco, la possibilità ci viene offerta, è cosa buona e giusta raccoglierla. E divulgarla.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    26 Mag, 2021
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Le voci di dentro

Riesce difficile delineare in poche righe l’ultima fatica, perché essenzialmente di duro lavoro bisogna parlare, di Mirko Zilahy.
Un lavoro che è costato tempo e fatica al suo autore, senza dubbio è risultato bene, ma proprio perché tale, non è stato affatto facile da portare a termine, è risultato letteralmente uno scavo.
Un traforo di quelli ardui, dove devi procedere piano, per non creare smottamenti, devi puntellare bene la volta, e inoltrarti stando attento alla comparsa del grisou.
La storia si presenta proprio come abbiamo appena accennato: si parla di cave, di miniere, sonde geofoniche e professori universitari intenti in trivellazioni, in estrema sintesi di geologia, scienza tanta ostica e sconosciuta ai più quanto curiosa ed interessante, se ben presentata. E Zilahy la presenta bene, bisogna riconoscerlo, ha compiuto davvero un gran lavoro di ricerca, uno scavo ancora una volta, lui che geologo non è ne discetta con competenza, quasi ce la fa amare, certo ci coinvolge e ci intriga.
È un libro che ne contiene altri, una struttura di travi tutte portanti, ed importanti, una architettura di stili, generi e forma differenti e abilmente coordinate, non è qualcosa quindi che sorge spontanea e vive motu proprio, l’input iniziale va curato come un bonsai, potandolo e lavorandolo così da indirizzarne la crescita ridotta, costringerlo a svilupparsi costringendosi e diminuendosi, senza espandersi fuori misura. Il bonsai è una bella creatura, naturale ma non facile ad ottenersi.
Dimenticatevi le opere precedenti del giovane autore, questo romanzo non ha niente a che fare con la precedente trilogia del caos che gli ha procurato fama e popolarità, ed a ragione, qui e ora non abbiamo a che fare con serial killer sulle cui tracce si pone l’acuto e testardo, tenero e disincantato Commissario Mancini. Abbiamo tutt’altro, anzi molte cose in un sol tomo: questo è un libro corposo, una storia tosta che cattura, senza dubbio, però risulta difficile non tanto da digerire quanto nel degustare, diciamo che ci vengono serviti tanti piatti di alta cucina, e tutti gustosissimi, ognuno diverso dall’altro, ma appunto una lista lunga, appetibile ed appetitosa. Troppe portate.
Sono tutte delizie del palato, ma corri il rischio non tanto di mettere su chili, dopotutto è un geo -thriller, immette adrenalina in circolo e il metabolismo si accelera, il problema è proprio che i capitoli sono ben scritti, lo stile è colto, erudito, veramente raffinato e letterario, poco da dire in proposito, l’autore ha una scrittura intensa e straordinaria, coltivata, forse gli deriva dalla sua attività di traduttore. Come che fosse, è innegabile che Zilahy sa scrivere, utilizza termini armonici ed appropriati per ogni concetto. Intendiamoci, non è mai borioso o presuntuoso, supponente e vanesio, tutt’altro, ha un modo molto umile di porgersi, rende edotto con semplicità il pensiero, rende forbito il semplice, con una naturalezza che incanta.
In sintesi, cucina manicaretti gustosi utilizzando ingredienti fini, delicati, eccelsi: non puoi resistere, rischi di assaporarli tutti senza nemmeno accorgertene, e così finisci che non ne gusti appieno nessuno. Il troppo storpia, l’unica è limitarti ad assaggi: per questo il libro va letto con calma per poterlo apprezzare, tutto di colpo diventa indigesto.
Ne viene fuori quindi un pranzo squisito, di gran classe, con varie portate, ma luculliano: nel caso esageri ti consola, ma rischi di appesantirti solamente, senza costrutto gustativo, le pietanze ti riempiono soltanto, per quanto deliziose, possono lasciarti insoddisfatto, è questione di costituzione.
In altre parole, è un racconto denso e compatto che dimostra subito, con tutta evidenza, quanto ha richiesto al suo autore in tempo e applicazione, attenzione, cura e riscrittura premurosa.
Prendiamone atto, non divoriamolo, ma assaporiamolo.
Questa dicevamo è un’opera diversa da quelle che l’hanno preceduta, l’autore è passato, e con pieno merito, ad uno step successivo, un livello più elevato, comunque restando fedele al suo stile, che però si è evoluto sia nella forma che nella sostanza.
Perciò ”L’ uomo del bosco” è un libro nuovo, è un libro di Mirko Zilahy che del precedente Mirko Zilahy ha mantenuto le caratteristiche, l’autore però ha virato di bordo, lasciando le vie urbane per la piccola provincia, quasi volesse rimpicciolire le sue visuali, poi in senso inverso ha modificato il suo linguaggio espressivo, livellando verso l’alto.
Soprattutto, il soggetto del suo pensiero è diverso: non più storie di ordinaria, e disperata, umanità, ma qualcosa di ben più difficile da estrinsecare, Mirko Zilahy si cimenta con l’onirico, con il pensiero interno, con l’immaginario interiore di ognuno, amplifica le nostre voci di dentro, visualizza i ricordi.
Si cimenta quindi con la dimensione individuale più difficile da delineare per uno scrittore, il ricordo: che spesso, nemmeno sapremmo dire quante volte, tendiamo a rimuovere o a modificare a nostro consumo personale, ed è problematico riportarlo in superfice, talora deleterio, però sempre avvincente, stuzzicante, coinvolgente, sempre utile.
“Siamo ciò che ricordiamo, ma siamo soprattutto ciò che abbiamo dimenticato.”
Mirko Zilahy ha scritto tanto, e bene, si è prodigato in questo suo ultimo progetto, ci offre molto e tanto, sogni e incubi, ricordi e fantasmi, scomparse e affetti mancati, genitorialità confusa e disperata, e ancora mondi sotterranei, cieli stellati, linguaggi tecnologici nuovi.
Simboli, simbolismi, acchiappasogni e riti degli indiani d’America trapiantati nella provincia italiana, e poiché i ricordi li evocano gli adulti ma risalgono all’infanzia, qui si parla anche di ragazzini, di amici d’infanzia, solo per questo legati da vincoli magici che li costringono a riallacciare i rapporti da adulti, e poi musiche, suoni, armonie.
Perché i ricordi vengono da dentro, le voci di dentro sono sibili che tramutano azioni, provocano cadute e ricadute, perdite e tentativi di recupero, esplosioni e frane.
Ricordi che sono, ancora una volta, memorie del sottosuolo, in tutti i sensi.
“La memoria è una vecchia signora che gioca a scopa con la vita degli uomini. Tiene il mazzo in mano e bara tutto il tempo.”
Ricordi, bambini…e che altro? L’ignoto, il locus sconosciuto.
Tendiamo a credere di essere onniscienti, quando non onnipotenti. Conosciamo tutto l’ambiente che ci ospita, non esiste habitat del nostro pianeta che non sia stato minuziosamente esplorato, dalle cime dei ghiacciai eterni, al profondo degli oceani, all’interno delle più intricate foreste, nulla ci è sconosciuto. Possediamo la nostra Terra, ne abbiamo carpito i segreti, proprio perché la conosciamo in ogni dove. Niente di più falso.
Esiste tutto un mondo sconosciuto ai nostri sensi, tanto concreto che possiamo calpestarlo.
Noi non sappiamo nulla del nostro sottosuolo, per quanto abbiamo scavato, per quanto in basso abbiamo perforato la crosta terrestre, nulla più che per una parte infinitesimale rispetto alle sue dimensioni, tutto ciò che sappiamo del sottomondo è frutto di ipotesi e ricostruzioni, non di prove provate. Del sottosuolo si può solo immaginare costituzione, fisica, chimica, e sempre con prove indirette; finanche le sue manifestazioni più eclatanti con cui, quando gli gira, il sottosuolo si rivela, i terremoti, non ne sappiamo qualcosa di più solo dopo che si sono verificati, spesso disastrosamente per noi razza eletta, non sappiamo prevederli, ma solo constatarne gli effetti a babbo morto.
“Hai passato la vita sottoterra per dirmi questo? Che non è possibile guardare laggiù?”
L’assioma su cui Zilahy basa la sua narrazione è geniale, la usa come locus ignoto in cui tutto accade e tutto può accadere mancando la controprova, come “L’isola misteriosa” di Jules Verne.
E a Verne, e ad altri autori, lo scrittore, letterato colto, amante della lettura forse più della scrittura, strizza l’occhio, è impossibile non notare con quanto amore, rispetto e considerazione, per non dire tenerezza, Zilahy cita e ricorda l’indimenticabile capolavoro di Verne, “Viaggio al centro della Terra”, caposaldo dei sogni di ogni bambino all’età di lettura. Ancora, un gruppo di insoliti bambini della piccola provincia italiana, i perdenti per vari motivi tra i loro coetanei, sono i protagonisti assoluti che innescano la miccia che farà deflagrare un’esplosione tardiva dopo trenta anni.
Giocano nei campi, negli stagni, nelle paludi, tra i vecchi rottami di autovetture situate all’immediata periferia del paese, immediatamente a ridosso di vecchie cave in disuso, macchinari abbandonati, boschi fitti tra cui si intravedono figure inquietanti, hanno i loro rituali magici, il loro mutuo linguaggio, i loro segreti familiari…esattamente come i Perdenti protagonisti di “It” di Stephen King che bazzicano i famigerati "Barren", zone di campagna, ricca di vegetazione, con scarichi di fogne, cave in disuso, macchinari dismessi, e uomo dei boschi alquanto malvagio.
E che dire di un enigmatico “mostro da sbattere in prima pagina” che vegeta fino alla morte prima in un carcere e poi in un ospedale psichiatrico? Per molti versi paragonabile al Renfield del “Dracula” di Bram Stoker.
Le atmosfere generali, specie quelle notturne, il sottosopra, il mondo di sotto, lo spirito di iniziativa dei ragazzi, tutto riconduce a “Strangers Thinghs”, senza Undici a salvare capra e cavoli, però. Ancora, riecheggiano echi di altri testi, altre atmosfere, altri libri, altri autori: Donato Carrisi, per esempio, Thomas Harris, più quello del “Il delitto della terza luna”, di quello del “Silenzio degli Innocenti”, un pizzico di Dan Simmons.
Perché prima di essere uno scrittore, Mirko Zilahy è un gran lettore, come è giusto che sia, e rende omaggio ai suoi preferiti. Questa umiltà, questa dedizione, questa semplicità d’essere gli fa onore, traspare dalla sua scrittura, lo ripetiamo, una scrittura elegante, forbita, ricercata, estremamente efficace, esauriente, esaustiva; è questa il punto di forza del romanzo, senza nulla togliere alla storia.
È la scrittura che ci fa comprendere come l’amore talora, quando è perduto, strazia, ti fa precipitare nell’abisso, ed è la caduta che provoca un sibilo, un fastidioso acufene, che come una voce di dentro ti tormenta crudelmente spingendoti a recuperare disperatamente in qualche modo l’amore caduto, creando ombre fittizie, l’uomo del bosco, niente più che una memoria fittizia, una svista dal ventre della terra. Un mistero, ma non l’unico:
“Ci sono tre grandi misteri che dobbiamo riunire…Il primo è disperso nell’alto dei cieli, il secondo è celato nel cuore della Terra, l’ultimo riposa nel cuore di ognuno.”
Mirko Zilahy si schiera, lo dice chiaramente, quello del sottosuolo non è un mistero da temere, non per niente il nome della Terra è Gaia, sinonimo di gioia, allegria.
Gli uomini, invece, spesso trivellano e il loro cuore lo sotterrano.


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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    19 Mag, 2021
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Alcatraz

Il banco di prova degli autori di romanzi polizieschi è il classico “enigma della camera chiusa”, il giallo cioè dove tutti i personaggi sono giocoforza costretti in un ambiente ristretto, una camera chiusa appunto, con ingressi, finestre e comunicazioni con l’esterno ben sprangati dall’interno, ad impedire ogni accesso di cose e persone.
Da ciò deriva inevitabilmente che il colpevole è uno dei rinchiusi, si confonde tra i presenti, ma è da annoverarsi senza dubbio tra di loro, non può essere altrimenti.
Niente inganni, niente giochi di prestigio, passaggi segreti o accessi nascosti, luogo sigillato e protagonisti ristretti ai presenti.
Questo rende tutto più difficile per lo scrittore del genere, deve inventarsi soprattutto non come dissimulare prove e indizi che conducano al colpevole bensì come mimetizzarlo, stavolta non basta individuare il “cui prodest” in genere, serve identificare chi è precisamente l’interessato tra una cerchia contenuta di sospetti.
Per questo è una vera prova d’autore, occorre che il colpevole sia davvero un insospettabile, quello che meno di chiunque altro ha il modo ed il motivo di commettere il delitto, e quindi gli autori migliori, negli enigmi più riusciti, esplicano la soluzione con un inaspettato, talora stupefacente, colpo di scena finale, tanto logico ad apparire a cose fatte, quanto sorprendente, che inevitabilmente suscita il plauso entusiasta del lettore appassionato di simili storie enigmatiche.
Agatha Christie non ha bisogno di presentazioni di sorta, la Regina del Mistery si è più volte cimentata alla grande su delitti in ambiente circoscritto, per esempio nel magistrale “Assassinio sull’Orient Express” o su “Poirot sul Nilo”, in cui il suo personaggio principe, il piccolo e comico a vedersi investigatore belga dimostra il suo acume poliziesco, che poco fa ridere i colpevoli, investigando su una stretta cerchia di persone rinchiuse in un luogo circoscritto, inaccessibile ad esterni, un treno bloccato nella neve nel primo testo citato, un battello da crociera nel secondo.
Ma stiamo parlando della Regina di questo genere di storie, come tale per lei ogni romanzo è una sfida ad ingegnarsi a perfezionare oltre la cosa, quindi non può e non vuole esimersi e sottrarsi ad offrirci un nuovo giallo in spazi ristretti.
Solo che, come tutti i talentuosi anche un po' narcisisti, non si ripete, quindi penserà sempre più in grande, allestirà un mistero sempre più difficile, e dopo aver ben costruito l’impianto della nuova storia, passerà senza indugio ad uno step successivo, il meglio di sé lo offrirà, senza tema di confronti, con un luogo chiuso alquanto più ampio, un’isola, una vera isola tagliata fuori dal mondo, giusto a voler significare che treni e battelli fluviali sono oramai poca cosa per il suo talento, meglio ampliare scenari e difficoltà.
Cosicché i lettori sappiano con chi hanno a che fare, vedano come ancora una volta Agatha Christie appronta una storia perfetta, gioca con il suo lettore, non imbroglia o bara platealmente, ma ne distoglie l’attenzione dagli indizi essenziali, così come si fa con i giochi di prestigio, dopotutto è onesta, gli indizi sono tutti lì, basta incastrali nel giusto ordine, una questione di logica, e solo allora si vede che la storia convince, tutte le sue parti si armonizzano alla perfezione…appunto, solo al termine della lettura.
La scrittrice inglese, in sintesi, riesce alla grande anche quando l’enigma della camera chiusa lo ripropone in grande, addirittura su un’isola, niente da eccepire, tanto di cappello.
Un’isola, per quanto piccola comunque un’isola, poco lontano dalle coste inglesi, dove un barcaiolo accompagna otto persone, sconosciute tra di loro, tutte persone diverse per età, sesso, professione, estrazione sociale, tutte e otto come vedremo invitati nell’isola, o meglio ciascuno allettato diversamente a recarsi nell’isola, da un misterioso signor U.N. Owen e gentile consorte, tra l’altro ignoti a chiunque dei suoi invitati: ma evidentemente il misterioso anfitrione deve aver fatto leva sul opportune motivazioni per aver convinto tutti ad accettare l’invito e recarsi senza indugio ospite di qualcuno che non hanno mai conosciuto in vita loro.
Nell’isola sono accolti però solo da una coppia di domestici, che li accompagnano ciascuno nella propria camera in una grande e lussuosa residenza, evidentemente i proprietari, assenti perché trattenuti li raggiungeranno in seguito; sulla piccola isola restano quindi solo dieci persone, anche il marinaio che li ha accompagnati, unico legame con la terraferma, si allontana con la sua barca.
Ciascuno degli ospiti, domestici compresi, che neanche loro hanno conosciuto ancora i nuovi datori di lavoro, prendono confidenza con l’ambiente, e ognuno è incuriosito dal testo di una antica filastrocca, incorniciata sulle pareti delle rispettive camere, che riporta la storia di dieci piccoli indiani, si intende qui i nativi dell’India, ognuno dei quali muore con differenti modalità.
Quando poi tutti e dieci, domestici compresi si ritrovano a sera nel salone principale, dapprima sono sorpresi dal perdurare dell’assenza di chi li ha lì convocati chi per un motivo chi per un altro, poi addirittura stupefatti allorché un registratore nascosto li informa che in realtà sono stati attirati nell’isola a scopo di giustizia da un inesistente quanto fasullo signor U.N. Owen, un nome che è già una dichiarazione di guerra, poiché la pronuncia è identica al termine inglese che sta per “sconosciuto”, in quanto ciascuno di loro è colpevole di un omicidio, senza ombra di dubbio, con tanto di nome delle vittime e delle date in cui sono avvenuti i delitti, anche se la giustizia degli uomini non è riuscita ad inchiodarli alle loro responsabilità.
Segue lo sconcerto generale, l’affannarsi delle voci concitate di tutti gli astanti, il discolparsi dalle accuse, il proclamare ciascuno a suo modo, ognuno a gran voce, con fermezza se non sdegno, la falsità delle calunnie, niente più che basse e false insinuazioni, ognuno propone il racconto di come sono andate effettivamente le cose per rimuovere ogni dubbio in proposito sulla propria innocenza, tant’è che nessuno è stato riconosciuto colpevole da un tribunale, e intanto sul tavolo della sala troneggia come centrotavola una insolita scultura di dieci piccoli negretti con in testa il tipico turbante dei nativi dell’India.
Da quel momento, è una vera e propria discesa agli inferi.
In un clima di tipica tensione inglese, davvero insostenibile, alla Hitchcock per intenderci, una alla volta un ospite viene assassinato, con modalità diverse, che rispecchiano quelle riportate nella filastrocca, tramite veleno, violenti traumi da corpi contundenti, colpi di arma da fuoco, ecc.
Nello stesso tempo, ad ogni omicidio corrisponde la scomparsa di una delle statuette dal tavolo centrale, a scandire un terribile quanto inesorabile conto alla rovescia.
L’isola è davvero deserta, i dieci sono isolati come reclusi sul penitenziario di Alcatraz, successive esplorazioni dell’isola degli stessi protagonisti lo confermano, per di più è anche tagliata fuori da qualsiasi comunicazione con l’esterno, anche per il sopraggiungere di una violenta tempesta.
Sembrerebbe ovvio che l’ultimo dei dieci che rimane in vita sia in realtà il colpevole degli omicidi precedenti, almeno per esclusione, invece non è affatto così.
Letteralmente, non ne rimane in vita nessuno; e successive indagini condotte dalle forze dell’ordine, intervenute a dipanare il mistero dell’insolito eccidio, una volta ristabiliti i collegamenti con la terraferma per l’arrivo dei rifornimenti, portano ad un desolante nulla di fatto.
Un mistero quindi, e uno di quelli grossi, un rompicapo senza esito, poiché le indagini permettono di appurare che nessuno può essere stato assassinato per l’intervento degli altri presenti, quasi a significare per assurdo che i morti si forniscano un alibi a vicenda, e sull’isola davvero non esisteva un undicesimo che potesse giustificare la strage.
Agatha Christie letteralmente in questo giallo, rimasto negli annali come un capolavoro del genere, ha offerto il meglio della sua arte.
Con una prosa brillante, come sua solita semplice ma descrittiva al massimo, che scorre fluida con ritmo progressivamente ingravescente, mette in scena un vero e proprio processo a quello che è il più odioso dei crimini, la privazione della vita: lo fa con brio, con velocità, e però con la massima serietà, quella dovuta alle aule di un tribunale, direi che nel trambusto degli eventi che si svolgono sull’isola senza soluzione di continuità, si sentisse comunque chiaro sullo sfondo lo scorrere della sabbia nella clessidra della giustizia.
Una giustizia completa: i colpevoli non sono solo riconosciuti tali e affidati alla custodia in un’altra isola, una Alcatraz vera e propria, stavolta, dove scontare la pena, ma sono passabili di pena capitale.
Se nei suoi gialli precedenti il ruolo di deus ex machina, inteso nel senso di colui che, un Poirot o una Miss Marple, rimette le cose a posto, riporta ordine e giustizia spiegando minuziosamente come sono andate in effetti le cose, ponendo in sequenza logica i successivi indizi sparsi tra le pagine, qui questo ruolo manca, non esiste investigatore, e nemmeno un superstite a spiegare le cose.
Allora la scrittrice ricorre ad un deus ex machina classico, il manoscritto trovato in una bottiglia, un elemento risolutore che sembra anche uno sberleffo della scrittrice, notoriamente una donna egocentrica e complessa, quasi volesse dire: meglio che fornisca io la soluzione in qualche modo, tanto non ci arriverete mai. E magari aveva ragione lei. Per forza, era una Regina.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    16 Mag, 2021
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In bella calligrafia

Questo di Teresa Ciabatti non è un romanzo, è una resa dei conti, una storia situata nel mezzo del cammin di nostra vita di una donna come un’altra, una protagonista intenta per una coincidenza, un ritrovarsi con l’amica Federica a distanza di anni dalla loro comune gioventù, a dover riconsiderare i tempi della sua vita quando le sembravano tutte belle tante cose, ma solo quelle riferite alle altre ragazze, come spesso succede a quell’età.
Perché lei si sentiva inadeguata, e questa sua inidoneità di donna le è rimasta addosso, malgrado sia oramai una scrittrice affermata, che nega di esserlo ma è fiera e tronfia di sé, che pare qui rivolgersi direttamente ai suoi lettori, quasi cercandone l’assoluzione.
Come dire, quasi che Teresa Ciabatti ci narri la sua storia all’interno di una sua storia, un’immagine riflessa in uno specchio che ripete un’immagine riflessa in uno specchio e via così.
Riportando cose belle e meno belle:
“Ognuno individua dolore e gioia dove non li individuano gli altri.”
A volte non distinguiamo chiaramente i piani narrativi, se è la protagonista a parlare o direttamente l’autrice per suo tramite, fatto sta che della sua persona era convinta di non possedere alcunché che destasse un minimo di interesse in chicchessia, figuriamoci di bello.
Si riteneva scialba, brutta, deforme, di discendenza malata e violenta, non meritevole di nessun segno di attenzione, e di affetto, interesse e considerazione sentimentale manco a parlarne.
Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe pensare, dopotutto è lo stato d’animo comune di tante adolescenti, un pegno da pagare a causa degli usuali turbamenti emotivi dell’età, del tutto normali per chiunque tranne che per le dirette interessate; ma tant’è, la protagonista di tale assioma ne ha fatto un caposaldo, vorrebbe essere tutt’altro e tutt’altra, magari una ragazzina rapita e nascosta da qualcuno sottoterra, con tutti a cercarla freneticamente per dipanare il mistero della sua scomparsa, come accaduto per davvero per un’altra ragazzina sua coetanea protagonista suo malgrado delle cronache nere dell’epoca.
Insomma, un resoconto: un racconto intenso di fragilità, debolezze, scarsa considerazione di sé, compromessi, rinunce, dolori, paure.
Ma appunto un resoconto, un elenco e non una resa: non una capitolazione, una rinuncia alla propria identità femminile.
Gli anni passano, e il tempo fa giustizia, o almeno dovrebbe.
Tutto quanto le era apparso bello un tempo, ora però da donna adulta ha motivo di riconsiderarlo nel suo evolversi e perciò nella sua interezza, e questo la riconduce, in sintesi, ad un’unica essenza concreta, quella che è, non quella che sembra, bella o brutta che sia, semplicemente la sua.
Una realtà la sua che è, non che sembra, quella di non essersi mai pienamente accettata, proprio perché fermatasi alle apparenze, giunta tardi alla maturità decisionale di sentirsi realizzata, compiuta per quello che è, che ha fatto, le scelte che ha intrapreso, le sole cose che rivestono un valore concreto, qualunque possa essere la loro valenza o il segno di saldo.
Semplicemente questa è la verità, una amica intima della sua gioventù gliela rimanda come uno specchio, la costringe a non insistere a negarsi, a negare la propria identità confondendosi ancora con quanto desiderava essere, o che riteneva idoneo a valorizzarla come persona.
Lo fa portando con sé la sorella, come esempio vivente, la prova provata.
La sorella di Federica, Livia, che un tempo era per lei, per la sorella e per tutto il codazzo delle amiche, quasi le dame di corte, il soggetto guida di come bisogna essere, il mito da ammirare, e allo stesso tempo la cima irraggiungibile a cui mai e poi avrebbero potuto ambire, non avendone i mezzi estetici, l’etica era ancora una nebulosa lontana per i loro orizzonti.
Senza poter comprendere, non possedendo i giusti strumenti di valutazione, che non è tutto oro quello che luccica, che la luce sfavillante è tale perché le ombre le sono situate dietro, e non è detto che posseggano tonalità lievi, le nuvole non sono solo bianche o grigie, possono essere nere.
Livia lo riconferma, a distanza di anni, ripresentatasi com’è ora, a causa di un disgraziato incidente, bellissima come allora ma ora cristallizzata, una farfalla stupenda ma intrappolata per sempre nel bozzolo di crisalide, una bellezza con la mente di una giovanissima.
Con le ali danneggiate, senza che nessuno ne fosse consapevole.
Come a dire appunto, sembrava bellezza, non lo era e non lo è. E si soffre per lei, e per noi in lei:
“…Esiste un momento nella perdita di una persona amata in cui si piange se stessi. Per noi perduti con lei.”
La giovinezza è un’epoca delicata e deliziosa, e però vi abbondano i cristalli, su cui puoi vederti distorta, addirittura ferirti, occorrono mani forti e gentili che ti educhino e ti spieghino che proprio per questi frammenti cristallini la tua immagine ti appare dispersa, poi crescendo il quadro si ricomporrà con esattezza, con armonia e simmetria, ricostruendo fedelmente una ed una sola figura, la tua, bellissima perché unica, anche senza capelli biondi e occhi azzurri, anche con distonie o sproporzioni, per esempio un seno più piccolo dell’altro, anzi, forse proprio quel particolare, quel tratto ti conferisce un valore inimitabile.
Le esteriorità, le apparenze sono superfici che lasciano il tempo che trovano, sono solide e non ti permettono di andare oltre, rimandano i riflessi ma non godono di luce propria, le parvenze, le sembianze, i bei capelli e le gambe lunghe sono arie, sono aspetti, sono in fondo solo spirito, semplice apparenza, sembrava bellezza e non lo è.
E se lo è, ha un prezzo spaventoso, esorbitante, fuori mercato, nessuno sano di mente farebbe a cambio. Il tutto scritto a scatti, con frasi, righe, periodi che sono graffi, l’autrice non le manda a dire, è il suo stile, forse scaltramente freddo, ma abile, disincantato, anche rude, e però efficace ed esaustivo. Questo bel romanzo, ben scritto e che merita più di una lettura, delineato in prima persona, più un narrato di pensieri che si fanno voce anziché dialoghi, altro non è quindi che un resoconto preciso di una donna che sa scrivere di donne, in qualsiasi ruolo le connota, per prima in quello di madre, poi di figlia adolescente, quella che si è stati e quella messa al mondo e che si ha per figlia. Esattamente come sono e cosa ha significato per loro esserlo.
Prosegue il narrato con altre figure tutte al femminile, tutto il libro è vergato al femminile plurale, seguono altri volti oltre quelli dell’ amica d’infanzia e della sorella dell’amica, che di quell’infanzia e di quella gioventù era il mito da seguire ed ammirare.
Sopra le altre, la donna che narra e si racconta, una donna arrivata, finalmente, all’optimum della sua generazione e nel suo lavoro, tanto crudele quanto creativo, quello di scrittrice, e quindi di inventore di storie belle. Necessariamente belle, perché siano lette in modo da ammaliare il lettore: già questo rappresenta il paradosso cardine del romanzo, non è bello in realtà quanto si pensa sia bello, il bello appare tale solo a chi piace, non a chi se lo fa piacere.
Ed ancora, la Ciabatti ci offre altre linee, altre silhouette, altre figure sbiadite di donne, e donne lontane dai miti della bellezza perché anziane, nonne, bisnonne, dotate di una certa ruvidità e violenza nel porgersi, vittime a loro volta di pari violenza e durezza, niente adorabili vecchiette dai capelli candidi, e che però sanno farsi valere, e seguitare a vivere malgrado orrori portategli addirittura da consanguinei, in questo sta la loro perenne bellezza, quella vera.
Tanto sono donne toste per quanto anziane che nemmeno necessitano di badanti, anzi spesso è una giovane a fungere da badante, lo è Federica per esempio, condannatasi in quel ruolo da un legame di parentela pesante come una catena, dissimulato per apparente convenienza da presunto amore fraterno. Perché in fin dei conti questo è libro di emozioni, sensazioni tumultuose che si rincorrono su vari piani non solo temporali, sono le esperienze del crescere in comune, è un romanzo sull’impietoso trascorrere del tempo, che si ripercuote sulle varie forme che assume l’universo femminile, madri, figlie, amiche, professioniste affermatesi con un gran senso di rivalsa, fallite negli affetti e con figlie adolescenti con cui si fatica a relazionarsi, e poi tutto l’intreccio del vissuto che intercorrono tra le stesse, che poi è un mutuo soccorso a riconsiderare se stesse nei diversi ruoli.
Un romanzo ricchissimo e potente, un’elegia della bellezza femminile, ma di quella vera, il brogliaccio dell’intimo femminile che anche se non vergato in bella calligrafia, soprattutto allora, con cancellature, sovrascritture, annotazioni ai margini, appare per quello che è, una vera bellezza.
Che non sembra, è.

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Teresa Ciabatti
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    14 Mag, 2021
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Zona bianca

Teresa è una donna, una donna comune, una come tante; è bella e intelligente il giusto.
Ha un solo, enorme difetto, che nessuno le perdona: non è donna del suo tempo, e del suo luogo.
Perché il luogo è un paesino rurale della Sardegna, rinchiuso, ristretto, limitato per confini e forma mentis degli abitanti. I tempi sono ancora quelli arcaici e medievali di certe comunità campestri del profondo sud del mondo, dove le donne sono ancora solo e soltanto femmine, e gli uomini pomposamente, e con boria, si appellano maschi.
Con tutto il ridicolo, e lo sconcerto, che accompagna queste obsolete definizioni, talora, se non spesso, ricadenti nel sorriso e nel dimenticatoio delle tradizioni di un tempo per fortuna perse per sempre, se non fosse per il sussiego, e la violenta crudeltà, con cui spesso, troppo spesso, ancora oggi sussistono queste malevole credenze.
Nel nome di un presunto e pretestuoso, e solo maligno, senso dell’onore, del decoro e della superiorità di genere che non sta né in cielo, né in terra, alla riprova neppure nei fatti concreti.
Soprattutto in un cielo ed in una terra fiera, antica e nobile come la Sardegna, dove le donne sanno essere compiutamente donne per definizione, dolcissime e tenaci, toste e determinate, abili e solari.
Perciò la colpa maggiore di Teresa, in tale angusto contesto, è di essere, incredibilmente, una comune donna di buon senso, e solo questo è un gran merito, una giovane che anziché starsene muta e quieta circoscritta nel suo destino al servizio di un maschio, ha appreso le lezioni che la vita le ha impartito, ne ha fatto tesoro, e delle sue esperienze di vita ne ha tratto vigoria e decisione per costruirsi da sé il proprio destino. Un vero e proprio scandalo, se non un delitto di lesa maestà.
Orfana da bambina, è stata allevata nella casa di un latifondista del suo paese natale, che l’ha accolta per carità e l’ha utilizzata convenientemente come una serva, non lesinandole comunque un minimo di affetto, una carezza o una parola buona ogni tanto.
Per cui la bambina, poi ragazza e infine giovane donna è cresciuta, e soprattutto è maturata in fretta, venendo fuori più intelligente ed al passo dei tempi rispetto alla media delle sue coetanee e conterranee, e di gran lunga ai giovani dell’altro genere.
Si sposa giovanissima con Bruno, ex minatore poi commerciante di bestiame sempre in giro per fiere e mercati per via del suo lavoro, che lo porta quindi ad essere spesso lontano da casa.
Con Bruno mette al mondo tre figli, non solo, ma malgrado il peso logistico della famiglia ricada inevitabilmente solo sulle sue spalle, data il suo essere donna, da donna capace ed efficiente com’è, certo più del marito, essendo stata cresciuta a cavarsela da sola in ogni circostanza, impiega la liquidazione da minatore del marito facendola certosinamente fruttare, prima per comprare terra, poi per costruire casa, e infine con il tempo, fatica e sacrifici per ampliare costruzioni ed interessi mettendo su due floride attività commerciali, un emporio e poi una piccola taverna.
Con meritato benessere conseguente.
Tutto questo è troppo, per il paese e per la morale corrente, è semplicemente sconveniente, se non immorale: Teresa pur essendo dedita esclusivamente al lavoro ed alla famiglia, è ora non solo bella, intelligente, di buon gusto, ma anche benestante, non può passarla liscia, ed approfittando delle assenze del marito, è gioco facile costruire una rete sotterranea di dicerie volte ad additarla come la “malafemmina” del posto.
Perché è bella, e perciò gli uomini la desiderano bestialmente, quasi a voler punire la sua alterigia nei confronti di loro e dei loro non richiesti apprezzamenti, che altro non è che puro disprezzo e disgusto.
Teresa è un oggetto di piacere per i maschi del posto, certo; ma non è tanto la sua avvenenza ad attrarli, quanto la sua freschezza che le deriva dall’essere avanti agli altri, perciò sempre giovane e vitale, proprio un soffio di energia per quanti stagnano statici ed inerti:
“ …a tutti gli altri bastava vederla per sentirsi un po’ più vivi del giorno precedente e un po’ meno succubi di quello successivo”.
Perché è una donna capace, di classe, autonoma, e perciò presa di mira per invidia dalle stesse donne, che anziché solidarizzare e prenderla a guida ed esempio, vedono in lei una condizione appetibile di indipendenza di spirito e di destino, ma che mai avrebbero il coraggio di pretendere per sé e di lottare per questo, da qui l’inevitabile livore delle meschine, che si concretizza nei pettegolezzi maligni e nelle cattiverie gratuite.
“…Lo sguardo maschile la faceva sentire violata, e quello femminile la sminuiva a tal punto da renderla invisibile…”
Di qui il millantare comune vox populi di eventi fortunosi all’origine della sua fortuna, una eredità improvvisa del benefattore che l’ha cresciuta o altri simili eventi piovuti dal cielo, a tutto intento di sminuire a forza le fatiche e le capacità della donna.
Tutto quanto, insieme al fatto che Teresa e Bruno sono sposati solo civilmente e non anche con rito religioso, dato l’ateismo dell’uomo, evento questo che ipocritamente viene fatto passare non per una questione di coerenza del credo religioso ma di malcostume vizioso, crea una miriade di malignità, diffuse capillarmente ad arte per tutto il paese dalla “megera” del posto, una “bruja”, una simil strega come è d’uso trovare in certe culture, dedite solo a spargere male e veleno, che resta nell’aria come una nebbiolina stagnante:
“Il male che fanno non muore con loro...”
Più che una nebbia, una rete maligna che cresce, si amplia maglia dopo maglia come una tela di un ragno velenoso, fino ad avviluppare completamente la vittima, colpevole infine di non essere del posto malgrado ne fosse nativa, perché del posto aveva rifiutato quanto di spregevole era insito nella mentalità dei locali, una rinnegata, dunque.
“La rinnegata” è il bell’esordio narrativo di Valeria Usala, la giovane autrice che racconta di Teresa per parlarci dei lati più belli ed eclatanti della sua Sardegna: l’anima, la storia, la memoria.
Tutto, come si vede, al femminile, e giustamente direi.
Un testo fresco, attuale, moderno, eppure racconta una storia grezza e arcaica, rivelando quarti di nobiltà, svelando quanto di più fine e signorile nasconde l’essenza di questa terra.
Direi che è un elaborato molto descrittivo di ambienti, situazioni e soprattutto stati d’animo, con dialoghi brevi, marcati, essenziali, talora più intimi che esplicitati, una scrittura ferma ed energica, ricorda molto in certi tratti la penna di Dacia Maraini o di Nadia Terranova, e come quelle è molto precisa, radicale, penetrante.
La Sardegna per la Usala è una donna, una gran donna,
La Sardegna dal mare turchino e dai cieli cinerei, la Sardegna dalle genti moderne, tenaci, all’avanguardia per intelligenza e costumi, la Sardegna dalle tradizioni che permangono e rimandano a valori forti, antichi e sempre nuovi.
La Sardegna dei contadini coriacei a coltivare e trarre dalla terra soprattutto valori morali, ciò che a nessun altro sarebbe possibile trarre.
La Sardegna dei pastori rispettosi come nessuno della natura dove conducono il gregge e dei formaggi che perciò sanno solo di natura.
La Sardegna del pane carasau sottile e croccante cotto sulla pietra e del vino aspro, del mirto e del liquore che se ne trae, vigoroso e orgoglioso come le genti che lo producono.
Un bel testo: parla di una zona bianca, insospettabile ai più, una regione franca dove essere donna può sembrare più difficile che altrove, e invece è quanto di più esemplare possa accadere.
La natura plasma, e la Sardegna ha forgiato donne esemplari come Teresa.
Valeria Usala attraverso Teresa parla di Sardegna, non racconta quindi di una donna che è una eccezione, una mosca bianca, contrassegna invece una donna come la sua terra ambedue zone bianche, libere da infezioni dannose.
Per il tramite della Sardegna parla di Teresa, chiude un ciclo quindi, direi il ciclo della vita, in cui ogni donna è orgogliosamente protagonista e unica responsabile della sua esistenza, restando fedele alla sua natura, e perciò alla sua intelligenza.
Non teme le “megere”, neanche le contraddizioni del vivere, affronta la vita con coraggio, fierezza, e con pari misura sa gestire amore e potere, non si perde mai d’animo e di speranza.
Questo è un romanzo che parla di forza, di coraggio, e di amore per la vita, tutte caratteristiche che appartengono sia alla protagonista che alla sua terra, in sintesi, Valeria Usala descrive esattamente come sono le donne: come la sua Sardegna. Fiere e orgogliose, in sintesi estrema, donne.


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Nadia Terranova e Dacia Maraini
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    12 Mag, 2021
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Occhi di ragazza

Sara Morozzi, ex agente dei servizi segreti italiani ormai in pensione ed avanti negli anni, oggi con tutta evidenza una comune signora dai capelli grigi raccolti in una crocchia sulla nuca, tacchi bassi, dismessa e senza trucco, cela a chiunque lo ignori un passato come effettivo di polizia, impiegata in una struttura investigativa insolita e di particolare valore ed importanza.
Soprattutto per indole e per le sue mirabili capacità naturali, ha rappresentato per anni l’autentico fiore all’occhiello della segretissima unità di analisi ed intercettazione ambientale.
Una struttura dello Stato in qualche modo legittima e legittimata dai vertici più elevati dello Stato stesso, e però anche celata ai più, certamente del tutto ignota tanto ai media che ai comuni cittadini,
in virtù di supremi interessi collettivi nazionali e internazionali, che ne giustificano necessariamente la massima secretazione, sia dell’identità degli agenti che della natura delle operazioni condotte.
Sara Morozzi è anche l’ultimo riuscito personaggio scaturito dalla fertile fantasia di Maurizio De Giovanni, scrittore che oramai non ha più bisogno di presentazioni di sorta, dato il livello di popolarità raggiunto con i romanzi precedenti.
Non c’è chi non conosce, finanche per sentito dire, per merito anche di seguitissime fiction televisive, il commissario Luigi Alfredo Ricciardi, funzionario di polizia in servizio presso la Regia Questura di Napoli all’epoca del ventennio fascista; o i Bastardi di Pizzofalcone, una sorta di eterogenea quanto efficientissima Armata Brancaleone di agenti di polizia in organico nel centro storico del capoluogo campano; o infine l’incredibile giovane assistente sociale Gelsomina Settembre, un misto di sacro e profano, una serissima e capace operatrice intenta a ricucire efficacemente gli strappi del degrado sociale nei quartieri più popolari e disastrati della sua città, nel mentre si barcamena in modo sottilmente umoristico con il proprio complesso privato sentimentale, marcato da un florido quanto imbarazzante decolleté generosamente fornitele da madre Natura.
Tuttavia, a differenza dei precedenti, l’ex effettivo dei servizi Sara Morozzi possiede un che di caratteristico, direi che è un personaggio più introverso, più chiuso, più riservato, ancora sfumato, misterioso come il suo ruolo impone, e non è ancora, malgrado questo sia il quarto volume della serie, un personaggio completamente noto e amato con la stessa intensità dei precedenti che abbiamo citato dall’esercito dei fan di De Giovanni.
Sembra un personaggio ancora agli albori della sua comparsa, grezzo, appare discosto e distante, non ben rifinito completamente, quasi che lo scrittore faticasse a dargli una precisa connotazione ben definita.
Intendiamoci, non è un personaggio serioso o pesante, tutt’altro; presenta anche dei risvolti umoristici, qui il lato sorridente delle storie di de Giovanni, che per esempio in Ricciardi si esplica nei duetti Maione-Bambinella o Ricciardi-Modo, e nei “bastardi” con le tragicomiche vicende sentimentali del presuntuoso quanto ingenuo agente Aragona, qui vede protagonista assoluto, deputato a stemperare nel sorriso la tensione narrativa, uno splendido esemplare di Bovaro del Bernese. Invece, contrariamente a quello che si crede, Sara Morozzi è il personaggio forse meglio rifinito e caratterizzato, il più difficile, quello che ha rappresentato il vero banco di prova, brillantemente superato, quello che certifica la piena maturità come affabulatore di Maurizio De Giovanni, la prova provata del suo acume, della sua intelligenza, soprattutto della sua profondità di analisi dell’animo umano, unita ad una indubbia valenza di scrittura avvincente e coinvolgente, tanto semplice quanto elaborata ad un tempo.
Maurizio De Giovanni ha creato dal nulla un personaggio nullo nell’aspetto, insignificante nell’apparire, silenzioso nel suo agire, e di questa scarsità e limitatezza è stato tanto abile da farne realtà, di scriverne pagine e pagine, delineando storie, ambienti, e protagonisti, e sempre gli stessi raccontati anche a distanza di decenni, con luoghi identici dagli scenari mutati, con una capacità ed un talento incredibile.
Ha delineato magistralmente sentimenti ed emozioni della sua eroina, mostrati in difetto ed in carenza, nascosti, celati come un buon agente segreto deve saper fare, un perfetto agente sotto copertura nulla ha a che fare infatti nella realtà con un appariscente James Bond con Aston Martin super accessoriata e Martini agitato e non mescolato, piuttosto è completamente credibile, verosimile e reale con abiti fuori moda, passo strascicato, aspetto banale e insignificante.
Un personaggio grigio, insipido, banale, appare così perché così vuole apparire, così deve essere, solo così è funzionale al suo ruolo.
Di questo grigio, di tale materiale insipido e banale, scialbo e insulso, De Giovanni ha fatto avventure, tragedie, tensioni, legami affettivi e cronache di vita reale.
Ne ha tratto materiale per questo bel romanzo, dove ci racconta di ospedali pediatrici e di malattie senza scampo, della caduta del Muro di Berlino e del regime di Ceausescu in Romania negli anni Novanta, della vita, dei sogni, delle ambizioni e anche della disperazione di giovani stranieri in città per frequentare l’università, descrive la contemporanea visita a Napoli dell’allora Papa Giovanni Paolo II. Intanto che la storia si dirama avanti e indietro nel tempo su fatti e scenari lontani tra loro trent’anni, delineando l’intreccio inestricabile e talora beffardo, ma terribilmente reale, tra i destini di tutti quanti i coinvolti, De Giovanni unisce la vita privata e professionale della sua protagonista, perché è vero, è così, nella realtà pubblico e privato di ognuno sono avvinti e si influenzano a vicenda.
Pertanto, l’autore ci conduce con delicatezza e discrezione a visitare il cuore ed i sentimenti di una donna che lascia il marito e l’adorato figlio per amore, compie una scelta sentimentale radicale e definitiva come solo una donna sa fare, relativamente anche ai tempi retrogradi in cui compie la sua scelta. Lo scrittore napoletano ci strazia l’anima raccontando cosa significhi la perdita sia del compagno sia del figlio adorato, ci commuove raccontandoci cosa significherebbe perdere anche l’adorato nipotino di pochi anni afflitto da un male incurabile, ci intenerisce facendoci assistere alla speranzosa tenacia, di quanto è disposta a fare una compagna, una madre, una nonna, una donna, qualunque donna per evitare un simile tormento incancellabile, senza arrendersi mai:
“…sapete perché sbagliate? Perché lo avete già seppellito, a vostro figlio.”
Maurizio de Giovanni si è messo in ascolto del cuore di una sua creatura, Sara, un personaggio dal nome biblico che cela in sé un libro sacro di emozioni e sentimenti, una bibbia intera, segreta, recondita, confidenziale, un testo elevato spiritualmente, e Sara lo ha ricambiato sussurrandogli all’orecchio con voce sommessa, quelle emozioni, quei sentimenti, quelle storie intense e dismesse ad un tempo, che poi lo scrittore ha riversato abilmente su carta da par suo.
Se Sara Morozzi si presenta ancora particolarmente impenetrabile a qualche lettore, è perché l’invisibilità del personaggio è voluto, è il suo abito mentale per definizione.
Nel pieno della sua attività, l’agente era predisposta mentalmente e fisicamente ad essere invisibile, il suo compito era essenzialmente, e solo quello, di raccogliere informazioni.
Per farlo, ascoltava; e per ascoltare bene, devi scomparire, tutto te stesso ascolta, devi annullarti completamente nell’ascoltare, sia che esplichi l’ascolto vedendo e rivedendo più volte i filmati raccolti dalla sorveglianza, sia ascoltando le registrazioni audio, sia soprattutto direttamente sul campo. L’agire in prima persona richiede che sparisci, che passi letteralmente inosservata, che ti mimetizzi perfettamente nell’ambiente, che ne diventi struttura portante e dismessa, un contorno malamente definibile, un’ombra, uno spirito, comunque una essenza che anche se avvertita tanto è banale, di nessun rilievo che tende ad essere automaticamente disconosciuta, accantonata istintivamente come di nessuna importanza. Non si vede, non viene vista pure distante pochi passi.
Sara Morozzi non sente e non vede, si badi bene: lei osserva ed ascolta, il che è una cosa del tutto differente.
La Morozzi non usa vista e udito, occhi e orecchi sono solo strumenti: lei ascolta e osserva, il che significa compenetrare l’oggetto o il soggetto di sorveglianza.
Sara sente con l’orecchio non i suoni, ma le sinfonie della verità o le note stonate della menzogna; osserva con occhi chiari, occhi di ragazza, acuti e profondi che scandagliano oltre qualsiasi schermo o apparenza posticcia a captare il reale.
L’agente segue il labiale, il linguaggio del corpo, la mimica, le espressioni, la postura, i tic ed i movimenti inconsulti ed involontari; si concentra sul sorvegliato non come una sorvegliante, semplicemente diviene l’aura di quello. Il corpo parla, Sara si sostituisce alla sua anima, e ascolta:
“La naturale propensione, affinata con studi e ricerche, a riconoscere pensieri ed emozioni nascoste dietro parole od atteggiamenti che ostentavano sicurezza, le faceva vedere la gente per com’era in realtà: e la realtà era sempre meno splendente dell’apparenza”.
Non ascolta quello che si aspetta di sentire, o che si immagina che sentirà: raccoglie semplicemente quello che dice. L’agente si concentra quasi andasse in trance, fissa lo sguardo vacuo nel vuoto concentrata completamente dall’ascolto totale, al punto da far sospettare a qualcuno che la donna sia in qualche modo afflitta da autismo, si insinua in ogni fibra intellettiva, in ogni sinapsi, in ogni connessione neuronale di chi ha di fronte rilevando le modifiche esterne involontarie quanto veritiere, impossibili da mistificare. E poi restituisce la realtà dei fatti.
“…l’irritazione si traduceva in broncio e sopracciglia corrugate, le grandi pupille nere emettevano lampi; la tenerezza faceva sporgere le labbra carnose, mentre la testa si inclinava; il divertimento le stirava le guance…”
In estrema sintesi, come Ricciardi, Sara Morozzi è un personaggio estremamente sensibile, “ascolta”, ma lo fa ancora meglio, De Giovanni questo suo “fatto” glielo fa fare veramente bene, magari proprio in virtù dell’ esperienza compiuta con il “fatto” del suo trascorso personaggio
Semplicemente, Sara ha imparato, e nella sua città è un “fatto” particolarmente comune, che la gente non comunica solo parlando, ma gesticolando, accompagnandosi con ben altro che le sole parole, utilizzando tutto il corpo; di questo ascolto ne ha fatto un’arte.
È un ascolto che riferisce anche i sentimenti più profondi ed intrinseci, quelli che per esempio lampeggiano all’incrociarsi degli sguardi di due giovani, che si cercano come una calamita; se ne può accorgere anche un terzo, una brava persona che di Sara è innamorato, che sa leggere negli occhi chiari della ragazza, e viene perciò colto, che so, da un moto di gelosia, per esempio.
De Giovanni tutto questo lo “ascolta”, lo scrive e ce lo racconta chiaro.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    09 Mag, 2021
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Assassinio allo specchio

L’ultimo thriller della nota scrittrice svedese Camilla Lackberg non preannuncia un delitto, un crimine o un fatto di sangue, oggetto di intervento da parte dell’investigatore di turno, nemmeno ci presenta un mistero.
Racconta invece di una festa, più o meno innocente, con qualche trasgressione e parecchie esagerazioni con l’alcool, ma niente di che, a ben pensarci, dopotutto è un giorno di festa, anzi di una delle feste istituzionali più sentite in tutto il mondo, il Capodanno, e come si suol dire, semel in anno è lecito andare sopra le righe.
Una festa in casa tra giovani, dove per casa per meglio dire intendiamo una lussuosissima villa, una di quelle strabilianti costruzioni hollywoodiane, talora ricchissime quanto pacchiane, piantate su pilastri a guisa di eccentriche palafitte, tutte saloni e vetrate a parete intera, da dove lo sguardo scorre libero su scenari e panorami mozzafiato, specchiandosi isomericamente sulle analoghe costruzioni dei vicini sodali nel benessere.
“…Le ville sono imponenti, affacciate sullo stretto. Le più belle hanno la spiaggia privata, naturalmente…le grandi finestre panoramiche diventano come degli acquari in cui vivono i ricchi”.
Una festicciola per pochi intimi, quattro giovanissimi, due ragazzi e due ragazze, amici intimi tra di loro potremmo dire dalla culla:
“…abbiamo sempre fatto tutto in quattro…perché eravamo i più rovinati. Perfetti e funzionanti all’esterno, ma tristi e danneggiati dentro…”
Mentre nella villa di fronte, a portata di vista, date le enormi vetrate illuminate a giorno, si svolge un analogo festeggiamento di fine d’anno, presenti i genitori dei quattro giovani, che pure sono soliti frequentarsi, coltivare tra loro rapporti di amicizia come accade tra i loro ragazzi.
Dopo tutto, si tratta di pari grado dell’agiata classe capitalistica del paese, imprenditori di successo, affaristi, professionisti arrivati.
Insomma, una gran festa di membri affermati della ricca, opulenta, società svedese, uomini in smoking e donne ingioiellate con tanto di capi firmati di alta sartoria.
Sono presenti qui, equamente divisi, adulti da un lato e giovani dall’altra, le famiglie al completo degli enfant prodige di un capitalismo sfrenato, disinvolto nell’accumulo di denaro e nell’arroganza mostrata. La ricchezza sfrenata esibita come trofeo che li autorizza a sentirsi padroni senza limiti.
Come spesso succede potere economico e disprezzo per chi ne è privo vanno di pari passo in tutti i paesi del mondo, anche nella Svezia considerata a torto isola felice socialmente parlando.
La ricchezza, specie da speculazione, si accompagna facilmente ad un degrado morale, il lusso fa perdere sempre la testa a chi non possiede maturità per gestirla, né etica né morale, e nemmeno l’intelligenza per capire la sottile e fondamentale differenza tra l’avere e l’essere, tra il possedere valori ed essere il valore di quanto si possiede.
In estrema sintesi, il romanzo della Lackberg, o per meglio dire il racconto lungo della scrittrice svedese, trattandosi di un volumetto di poco più di un centinaio di pagine, focalizza un primo ambiente, quello dei “grandi”, tratteggia gli adulti lì presenti, ricchi e meschini, arrivati ma egoisti, egocentrici e villani, sono radunati qui adulti che a torto o a ragione perdono progressivamente la loro umanità man mano che progrediscono nella scala della ricchezza, divengono miseri e miserabili malgrado i mezzi, il denaro, la posizione raggiunta.
Restano primitivi delle caverne, malgrado le ville, accecati dal loro egoismo, dalla loro avidità, dal loro individualismo, perciò sono vili e spregevoli, e come tali criticati, se non disprezzati, dalla rispettiva prole, per le loro mancanze nei loro confronti.
Esistono famiglie in cui, sollevato il velo delle apparenze, si scopre un verminaio insospettabile, comportamenti crudeli ed aberranti, e i figli, i giovani, per definizione i più fragili ed innocenti, sono sempre vittime di questo tipo di genitori.
I loro comportamenti non sono solo anaffettivi, e sarebbe il meno, infatti adulti che dovrebbero fungere da guida ed esempio spesso sotto l’egida della famiglia compiono autentiche nefandezze, sono disastrati e disastrosi, le loro azioni nei confronti dei figli sono sempre gravissime, tanto di più quando si tende a tenerle nascoste da una patina di perbenismo e correttezza di ipocriti modi d’essere e di vivere.
Come in tutte le feste con famiglie amiche, si provvede a sistemare gli adulti ad un tavolo ed i bambini ad un tavolo a parte, solo che dato il livello di sfrenata ricchezza a cui appartengono i protagonisti di questa storia, non di tavoli si parla ma di ricche ville adiacenti.
Ed ai giovani non vengono distribuiti cibi più semplici, il raffinato catering distribuisce comunque a entrambe le dimore aragoste, caviale, champagne, cibi pregiati e vini costosi, e nel malaugurato caso finissero le scorte, la dispensa di casa è naturalmente fornitissima di ogni ben di Dio, e del più costoso anche, si tratta in ogni modo di giovani della borghesia agiata e privilegiata.
Giovani che, quasi volessero dimenticare le sofferenze patite dai congiunti, che festeggiano laidamente nella villa adiacente, si rifugiano nel loro mondo, cercano scampo nei momenti felici dell’età dei giochi, giochi da ragazzi, e quindi, manco a farlo apposta, trascorrono le ore prima del cambio d’anno cimentandosi nel gioco dei ragazzi per antonomasia, il Monopoli.
Il quale è come una sorta di cammino di vita capitalistica, un accumulo di beni, case, terreni, costruzioni, inevitabilmente ai giovani viene in mente il loro futuro a simile guisa, letteralmente soccombono alla paura, al terrore, di divenire adulti spregevoli esattamente uguali ai congiunti che vedono festeggiare dall’altra parte delle vetrate. Degni eredi dei loro killer, destinati a divenire tali.
Davanti ai loro occhi scorre un vero e proprio assassinio allo specchio, si prefigura un destino abietto di identificazione coatta in modi di essere che li hanno straziati a dismisura nel fisico e nel morale.
Il Monopoli, a cui hanno sostituito alle inutili banconote false, obblighi di dirsi la verità e pegni rivelatori che inconsciamente li portano a deflagrare, li ispira, confessandosi a vicenda i torti, le sofferenze e gli abusi subiti, fa da catarsi, da input ad agire per riprendersi in qualche modo le redini della loro esistenza.
“Segreti e bugie vengono portati alla luce, dipanati di fronte agli altri. Scoppiano come bolle.”
Solo che crescere educati in un certo modo, innesta comunque modi errati di risolvere le questioni, difficilissimi a sradicare, specie quando non si ha ancora raggiunto un certo grado di maturità, che rappresenta poi la vera liberazione di una persona.
Il racconto della Lackberg in verità non stupisce, non presenta colpi di scena o lieta fine liberatoria.
Resta però un buon romanzo, scritto bene, con personaggi tracciati in poche linee ma a tinte marcate, un racconto lungo, e forse per la sua brevità non particolarmente esauriente del discorso.
Pieno di dolore, di violenza, di brutalità, ci presenta una realtà appena sorta, perciò pulita ed innocente, sporcata, screziata irrimediabilmente dall’egoismo e dalla meschineria altrui, ancora più perfida perché proviene dalla famiglia, che dovrebbe essere rifugio sicuro, affettuoso ed accogliente, dove genitori e figli giocano insieme all’aria aperta, di giorno.
Non un coacervo di perfidie, un gioco della notte, da tenere nascosto, come la vergogna che è.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    04 Mag, 2021
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Onora il padre

La scrittura di Erri De Luca si riconosce per un attributo semplicissimo, subito evidente, immediatamente lampante: la sua essenzialità.
Lo stile dello scrittore napoletano è peculiare come non mai per questo motivo, vanta un’asciuttezza di modi che non rimanda al prosciugato, al riarso ed al laconico, bensì al breve, all’agile, al conciso ma costruttivo, ai suoi testi smilzi non corrisponde mai una povertà di contenuto, tutt’altro.
De Luca è autore potente, colto, elegante, forbito: usa termini adatti, racconta con parole precise, perciò solo per questo le sue conclusioni sono esaurienti ed esaustive, esprime sempre compiutamente il suo dire con le opportune locuzioni.
Un suo testo non è brusco e stringato, semplicemente non è ridondante, perché non ha necessità di dilungarsi per esternare ancora meglio il concetto, è superfluo un ulteriore dire.
Per questo i suoi testi non contano molte pagine, come questo volumetto “A grandezza naturale”, e però per quanto esile il racconto restituisce una natura grande, estesa, ricercata e particolareggiata.
Erri de Luca è uomo nato in una città di mare, espansiva, dispersiva e contraddittoria, a quella appartiene ed in essa è cresciuto a sua immagine, assorbendone gli umori insieme alla salsedine, e però ha anche acquisito negli anni, smussandolo ad arte, cesellato dai suoi trascorsi di vita, l’animo brusco, non rude ma sollecito, non burbero ma silenzioso, di uomo di montagna, di montanaro con scarponi, piccozza e dita forti da arrampicata, vista la levatura morale raggiunta, direi montanaro di alta quota. Non un semplice esteta dei monti, direi una stella alpina, con i colori di anemone di mare.
Così anche la sua scrittura ci appare, aspra e rocciosa, solitaria e silenziosa, di pochi concetti essenziali espressi con ancora meno parole: l’alta montagna vanta aria gelida e rarefatta, non permette di arieggiare inutilmente i denti. Nemmeno sott’acqua puoi darti a conversazioni, ma a brevi cenni.
Resta perciò un uomo che della vita ha assorbito e conservato al meglio tutte le esperienze: pertanto sia dai vasti orizzonti di mare, che degli sguardi sconfinati diffusi sulla valle dalle vette alpine, ne conserva l’ampiezza. La profondità, ed il suo significato: spazia sull’orizzonte ampissimo, lo riporta uguale con vocaboli esatti, la restituisce sfrondata, rifinita, essenziale, ma se ne sprigiona comunque copiosamente l’etica e la morale acclusa, e questa sua peculiarità ne fa un testimone attento, critico e misurato della società civile del suo secolo, che gli ha dato i natali a metà del suo corso.
Tema di “A grandezza naturale” è la paternità, un concetto ed una esperienza comune ma anche non di tutti: tutti abbiamo la prerogativa di essere figli, molti invece padri non lo sono e non lo sono mai stati, tra questi si conta anche De Luca, che padre di suo non è, ma un padre lo ha avuto, come tutti.
Come dire, un’esperienza a metà, figli sì ma padri no: ciò malgrado, il tema è sempre comunemente sentito, giunge cioè sempre il tempo della vita in cui lo status di genitore va considerato in toto, qualche riflessione la propria coscienza la sollecita comunque in sede di bilanci e revisioni, e se non si è dato personalmente alla luce bambini, e quindi non si può discettare su se stessi in tale veste, comunque bambini, giovani, figli lo si è stati, nell’uno e nell’altro caso o in ambedue i ruoli si può, si deve, riconsiderarsi e porsi in confronto con l’insegnamento e l’esempio paterno ricevuto, il pensiero torna inevitabilmente al proprio di genitore, lo si voglia o no.
E la conclusione, spesso, è una sola: onora il padre. Senza se, e senza ma, a volte è una conclusione quasi inevitabile, aveva ragione lui, viene da dirci quando siamo avanti negli anni.
Il ciclo della vita è un cerchio, prima o poi si ritorna all’origine, al punto di partenza, l’origine ci ha decisi e poi plasmati, non è un punto infinitamente lontano ormai svanito anche nel ricordo e non più riconoscibile, tutt’altro: cuore e mente te lo riportano integro così com’era, nel bene e nel male, a grandezza naturale.
In un modo o nell’altro con la paternità, in sintesi, giunge prima o poi un momento della vita con cui bisogna farci conti.
A prima vista, il concetto di paternità è visto, specie in età adolescenziale, da chiunque, come un nodo. I nodi per definizione prima o poi vanno sciolti, sono fatti per questo, l’intreccio della canapa ha una funzione concepita in maniera duplice, per unire e poi separare.
Quando invece stretti, impossibili a sciogliersi, vale a dire privati dell’ambivalenza d’uso, allora è una deviazione dalla norma. Non legano, strozzano, sono privi di opzione.
I nodi migliori sono ad esempio quelli delle guide alpine capi cordata, i quali si legano ai compagni che li seguono con un tipo particolare di nodo: questo, quando sollecitato da un brusco strappo, si allenta anziché stringersi, si scioglie invece di serrare, in modo che, nel malaugurato accidente di un incidente, di un piede in fallo, la guida non trascina nella rovinosa caduta nell’abisso tutti i compagni di cordata. Tuttavia, il più delle volte, il nodo appare invece talmente inestricabile, che il distacco tra padre e figlio, più spesso per mano del secondo, avviene con uno scioglimento gordiano, vale a dire con un taglio secco. Ma questo non è uno sciogliere, è un troncare, significa in sintesi rimandare il concetto del distacco a considerazione futura.
Su queste riflessioni di base, Erri De Luca poggia la sua riflessione espressa in questo libro, che è permeato, e forse originato, dai suoi personali studi sull’ebraismo e sull’idioma yiddish.
Dopotutto, il primo e più maestoso esempio di apparente severità paterna nei confronti dell’educazione del proprio figliolo, che in realtà ha dei motivi non immediatamente riconoscibili, viene proprio dai testi sacri, la divinità che per i suoi scopi sacrifica il proprio figliolo.
Il proprio unico figliolo, perciò ancora più amato, che in punto di morte lo scongiura di scostargli l’amaro calice da bere, che lo accusa finanche di averlo abbandonato: e come dargli torto?
Chi poteva davvero capirne le ragioni?
E si parla del Padre e del Figlio per antonomasia.
Un concetto ribadito dal celebre episodio di Abramo e Isacco, in cui il patriarca non esita a portarsi sul monte con il suo unico figlio deciso a sacrificarlo come ordinatogli.
Isacco non capisce, e questo emblematico episodio da un lato esterna il difficile concetto di paternità da un punto di vista dell’obbedienza del figlio, per antica consuetudine dovuta sempre e comunque al proprio genitore.
Dall’altro, Abramo ha i suoi buoni motivi per compiere senza esitare l’insano gesto richiestogli, è anche lui tenuto all’obbedienza cieca per un Padre, che Isacco naturalmente non comprende; lo comprendiamo noi, ma a cose fatte, viene da dire a babbo morto.
Isacco, essendo figlio, obbedisce, potrebbe facilmente sciogliersi, è più giovane e forte, potrebbe sopraffare il genitore che è deciso a incaprettarlo, e però non si ribella.
“…Da loro in poi, il rapporto padre-figlio è una disputa tra un nodo e il suo disfacimento...”
L’episodio biblico è quanto mai esemplare di come sia difficile definire cosa è giusto e cosa no nella paternità, comprendere certe decisioni e non altre, esistono limiti dipendenti da troppi parametri, sempre assai sfumati, nella paternità, vista dall’uno e dall’altro estremo della corda che unisce i due in un nodo agile, leggero, stretto, inestricabile, e via così.
Su questa falsariga, Erri De Luca dipana il suo raccontare sul concetto di padre e figlio, e viceversa, inoltrandosi in un excursus che inizia dall’alba dei tempi, passa per Marc Chagall, pittore ebreo fuoriuscito dalla Russia che omaggia il proprio genitore con un quadro riconoscente, l’olio su tela “Il padre”, appunto, sviscerando i motivi e della tela e del metodo di lavorazione e dei motivi della raffigurazione, giunge a ricordare l’epopea di un maestro di scuola ebreo che non ebbe figli, e però amò tanti figli, i suoi alunni, si improvvisò padre per morire insieme ai figli degli altri, i suoi scolaretti ebrei, nelle camere a gas a Treblinka. Naturalmente, oltre ai figli De Luca ci racconta anche delle figlie, come la ragazza che un giorno scopre di essere figlia di un criminale di guerra nazista, che si nasconde ed ha una doppia vita per sfuggire ai cacciatori di nazisti:
“…il sangue non sporca…accusa…”
L’etica della giovane è contraria, agli antipodi con quella del padre, gli vuole però comunque bene, non lo abbandona né lo denuncia, ma non può ammettere che la sua progenie discenda da quella responsabile di simili orrori, quindi sacrifica sé stessa per amore filiale, sceglie di negarsi per sempre la discendenza, riscattando le magagne paterne nell’accudire quella abbandonata.
De Luca non si sottrae, ci racconta anche di sé, dei suoi genitori, persone semplici, frugali, essenziali:
“Sono debitore a loro due della migliore scuola di economia, farsi bastare quello che c’è. Mi è servito pure con la scrittura…”
E potremmo riportare ancora altro: da Napoli, dove:
“…l’adolescenza è stata un’età adulta…”
a Vienna, dalla Terra Promessa ai campi di sterminio dell’est europeo, la voce di Erri De Luca racconta quanto detto e altro ancora, ed è incredibile che lo descriva accuratamente in poco più di un centinaio di pagine.
Perché sia chiaro che lo descrive, non lo evoca, lo dice chiaro e tondo, con parole precise, non secche, ma sostanziali. Riferite ad un concetto, quello della paternità, a cui desidera restituire a grandezza naturale il suo peso basilare: di più, essenziale.

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Erri De Luca
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    01 Mag, 2021
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Tutto l’amore che ti manca

Qual è il più grande degli affetti?
L’amore ovviamente, l’amore quello vero, indimenticabile.
Quello esclusivo, talmente esauriente che non ti permette di comprendere che anche tu sei indimenticabile per la persona che ami.
Indimenticabile.
In inglese, unforgettable.
Questo aggettivo definisce al meglio lo struggente, delicato e toccante romanzo d’esordio di Nicoletta Verna, e per più di un motivo.
Non certamente soltanto perché la celebre canzone omonima, cantata da Nat King Cole, svolge in un certo senso il ruolo di carezzevole colonna sonora della vicenda di cui si narra, come e meglio di una musica di Morricone.
Sopra ogni cosa, perché questo è uno di quei pochi, rari racconti che ti restano veramente dentro, anche tempo dopo la loro lettura, tanto è un libro commovente, delizioso, veemente.
Anche scritto bene, con uno stile colto, articolato, pregiato, con dialoghi e descrizioni raffinate, elaborate, di gran classe.
Una prosa efficiente, interessante, persuasiva, un narrare potente che ti inchioda alla pagina, Nicoletta Verna possiede un suo scrivere davvero incisivo, appropriato, vivo.
Non si dilunga, ma esprime, non lamenta, ma espone, non comunica emozioni, ma le realizza visibilmente davanti agli occhi di chi legge.
Espone i fatti come sono andati, non aggiunge niente, lascia fare tutto al suo personaggio principale, la giovane Bianca, voce narrante e protagonista assoluta, che segue scrupolosamente un proprio piano realizzativo dei suoi scopi affettivi.
Senza mai recedere né farsi distogliere dai suoi propositi.
Poi è la sensibilità di chi la segue che fa il resto, il lettore seguendola innalza spontaneamente da sé una struttura interiore di sensazioni, sentimenti ed emozioni che gli rende gradito, deliziosamente ben accetto, empatico e condiviso, l’input artistico di Nicoletta Verna.
La quale autrice però assiste in disparte, discretamente, quasi nascosta, pare apparire a forza da un angolo con timidezza, per non dire ritrosia.
Il valore del libro sta proprio in questo, la scrittrice porge il tomo, e si ritira, l’emozione la crea la storia, è lei, unicamente la narrazione, come è stata confezionata e offerta, che ha valore in sé.
Un valore enorme che è quello del valore delle scelte, il valore che diamo a tutte le svolte della nostra esistenza, prime tra tutti le scelte affettive, il valore affettivo quindi che conferiamo a cose, persone, fatti. Potrebbe esserci un esordio migliore?
Una buona storia, scritta bene, che suscita belle emozioni, che altro chiedere alla sua giovane e promettente autrice?
Intendiamoci subito, qui non ci sono storie patetiche o strappalacrime, volte a suscitare volutamente, ad arte, pianti e commozione, a captare la benevolenza del lettore un po' ingenuo ma di buon cuore, questa è sì una storia d’amore, di amore sublime, anzi un racconto di più amori, chiari e confusi, diluiti nel tempo, ma nessuna love story melensa, zuccherosa e romanticheggiante.
Tutt’altro; è una storia di fatti di vita con i piedi per terra, deliberata ed energica, talora rigida e inclemente proprio perché schietta e reale, il lieto fine appartiene più spesso alle favole, non alla vita concreta. Però è una storia, per quanto insolita, a tratti decisamente dolorosa, che resta comunque un racconto pregnante di affetto e affezione, di adorazione e venerazione, di legami e di amicizia, di attenzione e cura.
Certamente vibrante di amore, quello vero, profondo e radicato che quasi mai è quello di coppia. Narra soprattutto del legame di sangue cementato dal massimo di dedizione e solidarietà, dalla piena e totale compartecipazione, quello che talora può instaurarsi solo e soltanto tra due sorelle, un affetto oltre ogni limite, appassionato e appassionante, avvincente.
Con strascichi che permeano altre storie d’amore, che da quello originano.
Rifulge qui la sorella maggiore di Bianca, Stella, che per davvero, Nomen omen, è un astro di luce propria di nome e di fatto, e di luce buona, vivida e benefica, rappresenta una autentica fonte di vita, una sorgente iniziale, fresca, giovane, cristallina, costituendosi man mano in un fiume vitale.
Il fiume della vita incontrerà però sbalzi improvvisi, devierà tumultuosamente, trascinerà implacabilmente qualcuno di quelli immersi nelle sue acque alle rapide, sballottandolo sulle rocce taglienti. Altri resteranno impantanati in una ansa paludosa, quella più abile nel nuoto, e maggiormente coinvolta in prima persona, finirà invece per imbracarsi nelle alghe vischiose del fondo, brulicante di rifiuti, quelli soliti abbandonati abusivamente alla corrente, senza scrupoli, ad inquinare le acque, i suoli, gli ambienti.
Bianca racconta Stella, di come è cresciuta nella sua luce, elenca un continuum affettivo che scorre, un patrimonio di affetti da salvare, salvaguardare, perpetuare in qualche modo, con un piano preciso.
La storia lascia sorpresi, scossi emotivamente, ma in positivo, suscita immediata empatia, senza condizioni, per la diretta protagonista, descritta mirabilmente nella sua pena, innocenza ed elevata bontà d’animo, al punto che al lettore, girata l’ultima pagina, viene quasi spontaneo volersi immaginare la giovane Bianca in carne e ossa davanti ai propri occhi, abbracciarla con tenerezza e amorevolezza infinita, e sussurrarle con infinita dolcezza: ti darò tutto l’amore che ti manca.
Come lo diceva cantando Julio Iglesias, citato per altro nel testo.
Il valore affettivo di questo testo lo si avverte dalla cura evidente, dall’impegno, dalla fatica totale che ha profuso l’autrice in questo suo primo, entusiasmante lavoro, che l’ha coinvolta a corpo morto, a lungo, in full immersion, quasi macinasse in piscina vasche su vasche cimentandosi nel più faticoso e leggiadro degli stili di nuoto, quello a delfino, lo stile più tecnico e dispendioso di energie, ma anche il più spettacolare, dove niente è lasciato al caso. Lo stesso stile di nuoto che nel libro adotta la sua protagonista Bianca, perché l’autrice, e la sua creatura, coincidono nella precisione, pignoleria e diligenza con cui una segue il proprio piano narrante, l’altra il proprio piano esistenziale.
Con classe ed eleganza, a delfino:
“Appoggio, trazione, spinta, apertura, respiro. Recupero, virata.”
Questa è una storia, in sintesi, di una perduta felicità.
In Brianza vive una comune famiglia piccolo borghese: papà, mamma, due figlie; Stella, la maggiore, una ragazzina di quattordici anni circa, prossima agli esami di licenza media, e la piccola Bianca, la bimba di casa, ancora alle elementari.
Un’esistenza semplice, tranquilla, normalmente felice, senza fronzoli, scandita da piccoli eventi, cose ordinarie ma deliziose, ed il cuore pulsante, il fulcro di questa famiglia è Stella, quella che definiremmo una figlia esemplare, brava, bella, saggia, allegra, solare, un modello di gioia di vivere:
“Era l’unica della famiglia a manifestare così i suoi sentimenti, ed erano per lo più sentimenti positivi. Per questo lei e la sua felicità ci erano tanto indispensabili”.
Stella è una stella non solo in famiglia, lo è anche per il microcosmo in cui vive, porta luce propria anche nell’esistenza di Liliana, la coetanea costretta sulla sedia a rotelle, in quella di Rodolfo, afflitto da una terribile onicofagia, e in quella di Bianca, naturalmente:
“Stella era la parte migliore delle nostre vite: ora so che non amavamo tanto lei, quanto la sua immagine pura e felice, che ci rassicurava sul fatto di poter essere felici a nostra volta.”
Le tragedie avvengono sempre d’improvviso, un giorno Stella muore in un disgraziato incidente.
La sua morte è una catastrofe, e i disastri sono tali perché sono crudeli e dolorosi, non risparmiano niente e nessuno, né l’innocenza e nemmeno i più fragili, per cui la distruzione dilaga onnivora, distrugge la sanità mentale della madre, che proverà più volte nel tempo a togliersi la vita, provocherà la fuga dal dolore e dalle responsabilità del padre, perseguiterà per sempre Bianca con assurdi sensi di colpa, malgrado la giovane si sforzi di crearsi almeno in apparenza una vita con parvenze di normalità e benessere:
“Visto da lontano, tutto ciò che pertiene alla mia vita sembra incantevole”.
Stella, semplicemente, per tutti quanti la conobbero, ma ovviamente per Bianca in particolare, è indimenticabile. Il pensiero di Stella tormenta Bianca per tutta la sua giovane vita, mai nessuno è stato, è e sarà così indimenticabile per Bianca, niente e nessuno potrà risarcirla di quanto ha perso, qualcosa di inestimabile, un valore affettivo senza prezzo.
Il malessere della giovane si manifesta nel continuo, ossessivo e maniacale stilare liste differenziate di rifiuti, sempre e comunque cataloga i rifiuti per genere e costituzione, si accerta dell’esatta differenziazione e del loro corretto smaltimento.
Questo suo dividere, catalogare, elencare altro non è che una forma di paranoia, chi conserva e fa fatica a smaltire è perché non vuole separarsi dalle cose, meno che mai considerarle irrecuperabili.
Anche il tempo trascorso a suo modo è un rifiuto, un non più d’uso, il che rende impossibile gestire una perdita atroce che la giovane non intende cancellare, semplicemente perché non ha avuto modo e tempo di elaborare il lutto, nessuno l’ha aiutata a farlo, con cura, premura, attenzione, la stessa che le prodigava Stella.
Nessuno riempie le carenze affettive di Bianca, nessuno sostituisce il suo vuoto con un valore affettivo, nessuno interviene ad aiutarla a gestire dolore e sensi di colpa, la giovane neanche si avvede del suo disturbo a proposito dei rifiuti, che ella invece considera diversamente, o con qualche distinguo:
“Amo l’ordine e l’equilibrio. Ma questa non mi sembra una malattia”.
Bianca, per sopravvivere, idea un piano per cercare in qualche modo di “recuperare” la sorella.
Incontra un giovane, brillante e affermato astro nascente della cardiochirurgia, convive con lui more uxorio, con devozione supportandolo nella sua crescita professionale, intanto che pensa al modo migliore con cui proteggersi da quello che le sta crollando addosso, individua quello che ritiene l’unico modo giusto di far fruttare la sua idea nello stesso modo doviziosamente pianificato con cui si cerca di trarre un utile da un patrimonio, solo che stavolta si tratta di un patrimonio umano.
Ma è una pia illusione, le cose non vanno mai come vorremmo, per quanto pianificate, l’imprevisto è sempre in agguato, il passato non torna mai indietro per permetterci di aggiustarlo come vorremmo, e ciò che è indimenticabile, è tale proprio perché è passato:
“Le bambine che abitavano in quella casa sono scomparse, l’hanno abbandonata, e al loro posto c’è il silenzio, c’è quel vuoto che solo i bambini sanno riempire con le loro urla egocentriche e assordanti”.
Morale della storia: i bambini crescono, ma per crescere bene, serve dargli affetto a dismisura, sempre e comunque, senza requie, incessantemente; solo le Barbie restano con gli occhi felici e insensibili ad ogni catastrofe della vita, giocattoli, loro sì, indimenticabili.
Infine, Bianca lo capirà, indimenticabilmente.


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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    28 Aprile, 2021
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Casa su ruote

In estrema sintesi, questo è un libro diverso dai soliti, a sé stante.
L’idea di fondo è buona, l’autore è bravo e capace, nessun dubbio in proposito, ha già dato ampia prova di sé.
In questo romanzo, il modo di gestirlo, di presentarlo, di raccontarlo, la scelta artistica di come scriverlo e di come scriverne, è molto particolare.
Insomma, è un romanzo insolito per gli standard narrativi di cui siamo abituati, sia nella trama che nella struttura espositiva, è un racconto veramente singolare e magari anche innovativo, genuino ed eccentrico allo stesso tempo.
Originale è la parola giusta, ecco; originale…forse anche troppo.
Talora, il troppo storpia.
Per questo è un romanzo a rischio, ma nemmeno, direi che è una storia aut aut, o la prendi esattamente com’è, e allora finisce pure per piacerti, ti diverte, ti riconosci, o semplicemente ti pare troppo oltre, e ti delude. Forse no, che sia un testo difficile magari è un effetto voluto, è questo troppo che si offre consciamente al lettore perché sia lui a sfrondarlo, a setacciarlo, e ricondurre infine il testo all’emozione che si vuole trasmettere.
Difficile dirlo, si fa fatica a convincersene, ma così è se vi pare.
Direi che è un racconto di crescita, sottilmente autobiografico.
E come si cresce, in pratica? Ma cambiando casa, naturalmente.
Almeno per la maggior parte di noi è così. Cambiamo sempre casa nel corso della nostra vita, non siamo alberi fermi con le radici, e per fortuna, la maturità richiede cambiamenti di stato.
È rarissimo trascorrere normalmente tutta la nostra esistenza nella stessa, unica abitazione.
Quindi i tempi, i fatti, il vissuto emozionale del nostro divenire sono riconducibili ai nostri domicili. Intesi non solo in senso fisico; potremmo dire che la nostra vita è un continuo viaggiare su una casa su ruote, spostarci con un camper o una roulotte, siamo tutti globetrotter, ci portiamo dietro la nostra vita come una tartaruga con la sua casa sulle spalle, manco a farlo apposta proprio la Tartaruga è citata tra i protagonisti del libro.
Perciò questo è il libro delle case, ci spostiamo da un posto all’altro, a volte ci fermiamo per breve tempo in un alloggio, in altre stazioniamo di più, talora da soli, talaltra in compagnia.
Spostandoci facciamo delle soste obbligate, altre impreviste, imbocchiamo strade diritte o dissestate, incontriamo incroci, intoppi, scontri, vie di fuga.
Ciò che siamo è il risultato, risente non solo dall’interagire con chi viviamo d’intorno, ma anche il luogo importa, insiste, ci influenza. E gli spostamenti da un luogo all’altro.
Si nasce in una casa, di essa ricordiamo certe stanze più di altre, certi ambienti, certi momenti della nostra esistenza, certi interni soprattutto dove abbiamo vissuto dei momenti salienti nella nostra infanzia, giovinezza, adolescenza, o che almeno a noi sono parsi tali.
Poi si cambia, si cresce, si passa ad altri ambienti, in altri interni, i tratti di questo testo in cui l’autore si esprime al suo meglio sono proprio la descrizione degli interni.
Questi interni sono, nello stesso tempo, camere dei ricordi, e giustamente, l’intuizione è davvero geniale, per cui è normale associare ad ogni camera un ricordo che tratti delle figure tipiche della nostra esistenza, iniziando dalla famiglia, passando per gli amici, gli amori, le scelte di vita e le relative conseguenze.
Ogni ricordo ha un proprio ambiente in cui si è formato, per associazione di idee la stanza richiama l’evento, e viceversa.
Come se l’autore mettesse insieme tutte le case in cui ha vissuto, trasforma i metri quadri calpestabili in capsule del tempo, in ognuna delle quali sono incise nel silicio i messaggi importanti che hanno scandito il proprio esistere, quasi che un domani una intelligenza futura ne estrapoli i ricordi per farsi un’idea di com’era un tempo l’esistenza umana: inossidabile nel reiterare gli errori, inappuntabile nel design dei luoghi.
Perciò Andrea Bajani nel suo “Libro delle case” usa questo utile espediente per parlare non dico di sé, ma della vita; racconta di domicili a Roma, di appartamenti a Torino, di mansarde a Parigi, di camere di albergo a Londra. Si dilunga su residenze universitarie e abitazioni per le vacanze, sempre e comunque discetta di case, a vari livelli dell’esistenza. La casa come la vita, e viceversa.
Passano i giorni della nostra vita, anche gli immobili subiscono il trascorrere del tempo, e le case ne risentono per stile ed architettura, si susseguono pertanto tutti diversi via via gli alloggi della giovinezza, degli studi, della maturità, con i corrispondenti fatti, azioni, eventi e sentimenti che si susseguono di pari passo. Il libro non è però un elenco immobiliare, piuttosto è un continuo andare su e giù da una casa all’altra, talora sempre le stesse, dopotutto non è che normalmente si vive in tantissime case, in genere sono poche.
Si vuole invece discettare, precisare meglio il proprio dire, passando nel tempo da un ambiente, e dal corrispettivo stato d’animo, all’altro, tratteggiando eventi che non appartengono solo ai citati nel testo, ma possono adattarsi con facilità all’esterno degli ambienti delimitati, quasi un continuum con l’universo.
Per questo protagonista, personaggi, luoghi e persone non hanno nomi propri ma nomi comuni, quasi che la storia fosse plasmabile, a misura di ciascuno, e magari lo è, perché in fondo è vero, si cresce cambiando, e il cambiamento comprende anche non dico l’evolversi, ma la modifica degli habitat. Flora e fauna rimangono gli stessi, perciò nessuno è chiamato per nome proprio, abbiamo il protagonista che è semplicemente Io, poi altri identificati come padre, madre, nonna, moglie, tartaruga. Anche i tempi, l’epoca, il periodo storico, benché reali e definiti, sono indicati più che con date come eventi, più con i fatti salienti che con dettagli cronologici precisi e minuziosi.
Per cui l’azione si svolge in un arco temporale che comprende per esempio il brutale assassinio all’idroscalo romano di Pier Paolo Pasolini, qui indicato semplicemente, e però significativamente, il Poeta; oppure è circoscritto dall’arco temporale del rapimento con infausto esito di Aldo Moro, altrettanto esemplarmente indicato come il Prigioniero.
Bajani, in sintesi, parla di sé attraverso i muri di casa, di tutte le case in cui ha vissuto, come se su questi avesse dipinto murales, avesse inciso graffiti che esternano la sua biografia, ed insieme il suo mondo interiore.
Una bella idea, indubbiamente, e in estrema sintesi, può piacere o meno.
Dopotutto, alcuni murales effettivamente riscontrano lusinghiero e unanime successo, basta pensare ai murales di Banksy, o quelli di Jorit.
Talora però, per qualcuno, i graffiti imbrattano le pareti, sono solo un guazzabuglio di linee e colori senza alcun costrutto artistico.
Dipende: dopotutto esistono condomini, ville, regge, chalet, cottage; ma anche casupole, catapecchie, tuguri, stamberghe, tane.
Questione di case.

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    26 Aprile, 2021
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Partite e ritornate

Questo romanzo è un sequel, per la precisione è il seguito del fortunato: “L’arminuta”, che ha portato successo e notorietà piena, e direi ben meritati, alla sua autrice Donatella di Pietrantonio.
Come capita per tutti i sequel, il racconto successivo non riesce mai bene come quello che lo ha preceduto, non perché non meriti, non è questo il caso, “Borgo sud” è parimenti incisivo come l’”Arminuta”, ma apparentemente non soddisfa completamente il lettore.
E se è vero, come è vero, è per motivi diversi, non per differente qualità.
Perché stavolta la storia è diversa, ed il lettore inconsciamente vuole il “già visto”.
Ed a torto; questa è una buona storia, forse d’impatto emotivo minore, sorprende di meno, ma è un racconto più tosto, più maturo, articolato, con una attenta rifinitura nei particolari, dettata dalla precedente esperienza di scrittura, già essenziale di per sé, asciutta e concisa, che qui vede con maggiore enfasi una mano che lima, toglie, carteggia con foglio abrasivo a grana fine, infine restituisce un elaborato tanto avvincente quanto sintetico.
È la scrittura in sé il valore aggiunto, è il come è scritto che rende proprio per questo ancora più bello e struggente un racconto che lo è già di suo, per trama ed intenzioni.
“Borgo Sud” non ha per protagonista stavolta chi parte e ritorna, ma il posto; l’arminuta qui fa i conti non con chi l’ha ceduta e da chi poi è ritornata, ma con il luogo, l’origine, non la culla, ma la terra, la terra vera, con i suoi solchi, le sue zolle, , le sue radici profonde, la sua roccia.
Stavolta la Di Pietrantonio non ci parla del rapporto tra genitori e figli, propri o acquisiti.
Non accenna ad una figura senza nome indicata solo come un ritorno, una ritornata, una restituita soddisfatta e rimborsata, sballottata da una famiglia all’altra, da una vita ad un’altra, radicalmente diverse l’uno dall’altra.
Ci parla invece di un altro rapporto, che prepotentemente “ritorna” nella vita della protagonista, quello tra fratelli, o meglio tra sorelle.
“…Abbiamo litigato a parole aspre, ma anche come bambine, a spinte e strattoni. Adriana sapeva riportarmi indietro, a tutto quello che avevo voluto lasciare...”
Una storia della stessa durezza e magnificenza, letteralmente permeata, avente la stessa scorza della terra d’Abbruzzo, il luogo vero protagonista, il personaggio principe ed ambivalente, reso a perfezione nei suoi due aspetti precipui.
Un modo di essere da borgo, come da titolo che rimanda ad un quartiere periferico di Pescara, che però contiene sia una ruspante scontrosità d’essere tipica di un microcosmo, sia allo stesso tempo la drammaticità delle più grandi e moderne città, discordanti, prosperose ma aride d’affetti ad un tempo.
Questo doppio, questa ambivalenza, questo uno di fronte all’altro senza interferenze, direttamente, sempre e comunque nel bene e nel male, permea atmosfere, dialoghi, modalità d’essere e di mostrarsi, si conserva anche in luoghi lontani da questa terra, comunque ambedue i libri riguardano un rapporto binario, madre/figlia nel primo racconto, e sorella/sorella in questo più recente.
Nel primo romanzo la protagonista era una “ritornata”, vale a dire una bimba, e poi ragazza, partita, o meglio ceduta da una famiglia povera ad una coppia benestante ma sterile, e poi ritornata coattivamente all’origine, con tutto quanto di sconcertante e di doloroso che ne deriva, sia dal trauma del doppio abbandono, prima e dopo, sia dall’incontro/confronto/scontro tra le due mamme, le due diverse famiglie, differenti condizioni non solo economiche ma anche logistiche con la quale colei che ritorna deve confrontarsi.
In “Borgo sud” questo dualismo del racconto globale si estrinseca in due luoghi diversi e lontanissimi tra loro, Grenoble e Pescara, l’università tempio della cultura e del pensiero civile e positivo ed il quartiere dei pescatori, talora disperato e disperante, rozzo ed aspro, stili di vita diversissimi ma ognuno a suo modo estrinseca una propria crudeltà d’essere.
Perché questo è un romanzo breve, ma è un racconto cattivo, è una storia di durezza e di meschinerie, che il linguaggio altrettanto rude quanto leale rende al meglio, è al tempo stesso l’apoteosi dell’amore della famiglia, della sua importanza, della sua essenzialità per il corretto crescere ed evolversi dell’affettività di ciascuno, quando è pieno, maturo, costruttivo, mancando il quale, e con quelle caratteristiche per quanto forti e marcate, tutto si riduce a giri a vuoto su sé stessi invece che a proficui ritorni, poiché un ritorno infine altro non è che un nuovo inizio, una nuova partenza, più spesso felice.
L’amore valorizza il borgo, qualunque borgo; l’amore della famiglia allora è il borgo natale, quello che rincuora, e restituisce vigore.
I vincoli di sangue, di terra, di appartenenza, in una parola sola, i vincoli di famiglia, sono l’unico amore fatto di tenerezza e antipatie, di premure e rigidità, di affetto e rigore, di delicatezza e scontri cruenti, che sono i primi, e perciò quelli che ti segnano da subito, in particolare, per sempre.
Speciale tra tutti, sono i legami tra sorelle: insieme, quando unite, diventano quasi invincibili, dormono insieme, si confidano, rilevano incongruenze e discrepanze che l’altra non vede o non riesce a vedere nella propria vita, anche in quella del proprio partner, ognuna di lei a tempo debito, quasi a turno, si prende cura dell’altra, corre dall’altra e dall’altra ritorna per lenirle le ferite, che spesso, se non sempre, coincidono, lasciando cicatrici uguali. Sperando di non arrivare tardi, perché:
“Il ricordo è una forma di recriminazione. È il perdono che non trovo.”.
Credo che alla maggioranza dei lettori, forse anche della critica, infine, resterà maggiormente impresso l’”Arminuta”, non me ne meraviglierei, e forse con ragione.
Tuttavia “Borgo Sud” splende di luce propria, ed è una buona luce, solo che più che faro o fascio diretto, è una luce di chiaroscuri, con un proprio fascino, crea una bell’atmosfera diffusa, ma certamente è diversa. Come è diversa ogni famiglia: è composta da persone, ognuna a suo modo, ma legati tenacemente tra loro da qualcosa d’altro oltre lo stesso borgo natio.
Specialmente in Abruzzo.


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"L'Arminuta", della stessa autrice
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Gialli, Thriller, Horror
 
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    23 Aprile, 2021
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La luce in fondo al tunnel

“Questa è una storia dell’orrore.”
Non lo affermo io questo assioma, questa frase così com’è lo stesso autore la riporta più volte in questo libro: e non potrebbe essere altrimenti, datosi che si parla del Re di questo genere di racconti, Stephen King. Ma definirla solo una storia dell’orrore, è riduttivo; è invece un romanzo, un bel racconto di vita americana di chi quel paese, e i suoi abitanti, li conosce bene e li osserva attentamente, con occhio critico, giudizioso, vedendo ben oltre le apparenze.
È un libro scritto bene, leggerlo è facile, scorre piacevolmente, con uno stile inconfondibile che ti fa “vedere” le scene, ti fa “sentire” i dialoghi, ti impressiona, e magari ti spaventa, ma se lo fa, è solo una diretta conseguenza della capacità dell’autore di immergerti nella storia e fartela vivere.
Non solo, ma non è una scrittura fine a sé stessa, possiede una morale sottintesa ma chiara, etica, fondante, un attributo comune da mezzo secolo negli scritti migliori, quasi tutti, di Stephen King.
Gli anni passano, ma lo scrittore del Maine è sempre seguito da milioni di appassionati in tutto il mondo, ed a ragione, con pieno merito.
Perché forse King non è proprio paragonabile al buon vino che invecchiando migliora sempre e comunque, dopotutto qualche pinta acidula gli sarà pure capitata a seguito di qualche distillazione non perfettamente riuscita, forse qualcuno delle sue ultime uscite non avrà riscosso unanime consenso, ma qui e ora con “Later”, ancora dopo mezzo secolo, Stephen King sbriga alla perfezione il lavoro che gli riesce meglio e che gli piace fare a lui per primo, per proprio piacere, che casualmente coincide con quanto i suoi fan gli richiedono: inventa buone storie, e le scrive ancora meglio.
Tra l’altro, quello che ogni buon scrittore dovrebbe saper fare.
Chiunque può capirlo “later”, dopo, al termine di questa lettura.
Stephen King è un uomo posseduto da una ossessione, quella di inventare storie, narrarle come un buon affabulatore, e quindi per farlo scriverle bene; ed è un’ossessione che piace, e che vende.
Ancora una volta King ci presenta una storia con due punti fermi, presenti in molti tomi della sua produzione, specie ai suoi esordi, e che hanno contraddistinto le sue opere più fortunate: un giovanissimo, ed un evento insolito.
Un preadolescente, per lo più, costantemente alle prese con un fenomeno oltre lo scibile umano, non inquadrabile nella sfera della pura razionalità, ma non per questo meno reale e concreto per chi lo vive.
Per chi lo vive, appunto i giovani protagonisti, e per chi lo gusta, i fedeli lettori, disposti a credere in King e nella sua arte, e da lui e dalla sua scrittura condotti alla volontaria sospensione dell’incredulità.
In “Later” racconta in prima persona Jamie Conklin, detto “Campione”, ora adulto, e quindi in uno stato, una dimensione di “later”, di dopo; narra di sé stesso da bambino, poi da ragazzino, quindi preadolescente, di quando non era ancora un adulto, non ancora come gli adulti traviati dalla materialità del vivere che sempre si accompagna alla crescita.
Un piccolo protagonista che proprio perché tale, proprio perché gli anni in cui l’animo è “tabula rasa”, non ancora corrotto da schemi preconcetti, pregiudizi e regole strutturali strettamente razionali, ferree e rigide ha la capacità di “sentire”, di “credere”, di “gestire” con il massimo della normalità e della credibilità fenomeni che un adulto attribuirebbe senza remore ad uno stato di ubriachezza pesante o di stordimento da stupefacenti, fino alle più gravi manifestazioni delle peggiori malattie mentali.
Perché la prima giovinezza è un’età magica, sono gli anni della sensibilità spiccata, della massima ricettività a stimoli ed impressioni lievi, eteree, oltre le dimensioni sensoriali avvertibili, un’epoca propensa e propizia, direi dedita anima e corpo alla disponibilità a credere reali anche gli eventi che risulta impossibile da spiegare.
L’ingenuità, il candore, l’innocenza, la schiettezza e la lealtà del momento li spingono alla fede cieca nella credenza, credono in quello che vedono e che avvertono oltre l’evidenza, qualunque evento sia, anche se gli adulti, limitati dalla razionalità, non riescono ad avvertire né tanto meno a crederci.
“Credere a cose come queste è un ostacolo non semplice da superare, tanto più per le persone intelligenti. Perché le persone intelligenti sanno un bel po' di cose, e forse finiscono per credere di sapere tutto.”
Jamie Conklin gestisce il fenomeno paranormale che avverte con la stessa naturalezza cui King ci ha già abituati, Jamie non differisce di molto dagli altri ragazzini protagonisti dei libri più fortunati di King, da Carrie White di “Carrie” che ha il dono, o il talento o la dannazione che dir si voglia, della psicocinesi, a Danny Torrance di “Shining” con la sua telepatia, a Charlie McGee di “L’incendiaria” in grado di appiccare il fuoco con il pensiero fino al più recente ragazzino prodigio, e telecinetico e telepatico per soprammercato, Luke Ellis de “L’istituto”.
King ha una prerogativa che lo rende unico: ha conservato intatto l’incanto della sua fanciullezza.
Ecco il motivo della sua empatia per i piccoli adolescenti, la sensibilità e l’acume con cui li descrive, in fondo lo scrittore americano descrive sé stesso, come si comporterebbe dinanzi a certi eventi.
A riprova della sua particolare sensibilità ha descritto magistralmente anche di adulti con qualche coscienza particolare, mirata al bene, alla bontà, all’umanità, perché sono adulti ma con la purezza, l’onestà, l’etica, l’innocenza e la capacità di credere e vivere in pieno certi valori, con l’entusiasmo travolgente tipica degli adolescenti, sono questi i tratti caratteristici degli Stu Redman ed i Larry Underwood di “The Stand”; sono ragazzini infantili mai arrivati all’adolescenza o arrivateci male, anche certi personaggi negativi, sfortunati, vittime loro malgrado come l’Annie Wilkes di “Mistery”.
Qual è il fenomeno paranormale, il dono, il talento, la dannazione, che caratterizza il protagonista di “Later”? Esattamente quanto suggerisce il titolo, ha a che fare con “later”, il dopo.
Jamie Conklin fin dalla più tenera età convive con una particolare capacità, niente di che, grosso modo la stessa per intenderci del piccolo Cole del noto film “Il sesto senso” di Shyamalan, in qualche misura riconducibile volendo anche al “fatto” che si verifica nelle indagini del commissario Ricciardi nei romanzi di Maurizio de Giovanni, ma molto meno truculento di quello.
“Alle cose incredibili si finisce per fare l’abitudine. Fino a darle per scontate”.
In sintesi, Jamie può ascoltare la voce delle persone, dapprima in maniera chiara, e poi in forma fievole, sempre più sfumata fino a scomparire del tutto, prima che le stesse si dirigano verso la luce in fondo al tunnel, traversandola definitivamente. Può anche interagire, chiedere, porre domande, sapendo che in quello stato le risposte saranno obbligatoriamente sincere.
“Devono dire la verità, quando sono morti.”
Niente di orrorifico, in tutto questo; Jamie vive con naturalezza questa sua capacità innata, proprio perché la possiede naturalmente da sempre, è nella sua natura, come è naturale per lui andare a scuola, giocare con gli amici, essere figlio di mamma single, vive con spontaneità, saggezza, maturità e serena accettazione anche l’orientamento sessuale diverso del proprio genitore e la presenza nel suo quotidiano della compagna della madre, tra l’altro una poliziotta, subendo il fascino che questa professione esercita sulla fantasia di un bambino. Un bambino intelligente:
“A quattro anni sapevo già leggere come un bambino di terza elementare, mia madre ne andava molto orgogliosa”
Come un bravo bambino saggio e ubbidiente ai dettami e alle raccomandazioni materne, la sola a cui ha confidato da subito quanto la donna aveva già intuito, Jamie si guarda bene da sbandierare ad altri il suo talento, attento e guardingo perché nessuno ne abbia il minimo sentore, conscio che non sarebbe creduto o, al limite, sarebbe con facilità etichettato come strambo o malato di mente.
Oltretutto, questa capacità non gli nuoce in nessun modo, nemmeno al suo equilibrio interiore: Jamie non ha certo a che fare con fantasmi, demoni, mostri o simili. Neanche vuole provocarli o in qualche modo richiamarli, sfruttarli, risvegliarne l’attenzione ai propri interessi:
“…un vampiro non può apparire a meno che non sia tu a invitarlo”.
Interagisce con chi non può più fare o fargli alcun male, chi è “later”, è nel dopo, mentre invece il male è prima e adesso. Ciò che appare a tutti impossibile, per il bambino e per il suo animo candido è una realtà concreta, ha una sua logica, la si può vivere con estrema naturalezza.
Per un bambino, per un adulto invece no.
Un adulto un talento come il suo lo sfrutta senza scrupoli all’occorrenza, lo sporcano per biechi e miseri fini personali, e gli adulti infatti lo sfruttano, ad iniziare dalla stessa madre, e dalla di lei compagna, di qui l’orrore, o sarebbe meglio dire l’egoismo, la crudeltà, la meschinità, l’efferatezza del mondo adulto che ne consegue, che costituisce, questo sì, il vero horror dei romanzi di King.
Non è un pagliaccio impossibile ad esistere e che vive nelle fogne che suscita orrore, ma un padre, un adulto reale e razionale, incestuoso e pedofilo che insidia la propria figlia ragazzina; non è un bambino che vede e parla con una persona morta a spaventare, ma suscita sgomento chi fa diventare morta una persona, piantandogli una pallottola in testa davanti ad un bambino, per di più costringendo il piccolo ad assistere a tale scempio.
King non si smentisce; scrive sempre con il suo stile scorrevole ed avvincente, si prende sottilmente in giro da solo accennando al suo lavoro:
“……scoprii che moltissimi scrittori erano morti alla loro scrivania. Dev’essere un mestiere ad alto rischio, evidentemente.”
Ci racconta sorridendo i “dietro le quinte” del mondo dell’editoria a proposito dei best seller, si sbizzarrisce un po' con le procedure e i modus vivendi degli ambienti polizieschi, come ha fatto di recente con i romanzi della saga di “Mr. Mercedes”, ma è sempre lui, è sempre bravo, riesce finanche a stupirci con un “coup de théâtre” finale a proposito della paternità di Jamie.
Stephen King è sempre lo stesso, ma non si ripete mai:
“Tutti noi cambiamo e al tempo stesso non cambiamo. Non posso spiegarlo. È un mistero”.
Che tanto mistero non è. Lui è il Re.


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Stephen King, of course
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